Combattere contro il passato di Pwhore (/viewuser.php?uid=112194)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
frerard thriller (?)
Erano passati
anni dall'ultima volta che l'avevo visto, in una calda notte d'agosto.
Sonnecchiava
sul divano, la televisione accesa e il telecomando stretto tra le mani,
e sembrava solo assorto nei suoi pensieri, quindi avevo un po' di paura
di muovermi. Avevo aspettato immobile una decina di minuti, ai piedi
delle scale, poi avevo attraversato il salotto in punta di piedi e
avevo raggiunto la porta di casa. Avevo esitato un attimo e mi ero
girato a guardarlo, la mano cinta attorno al pomello dorato, avevo
scosso la testa, sistemato il borsone alla bell'e meglio sulle spalle e
girato la maniglia con un gesto secco e deciso. Respirando il
più silenziosamente possibile, mi ero chiuso la porta alle
spalle ed ero uscito dalla nostra proprietà, dirigendomi
verso il paese vicino e cercando di non attirare l'attenzione delle
macchine che sfrecciavano sulla strada, dirette verso una qualche
discoteca o una festa di qualunque genere, troppo veloci e
schiamazzanti per far caso all'ennesimo adolescente che camminava per i
fatti suoi. Abitavo a una quindicina di minuti dalla città,
ma visto il mio scarso allenamento avevo raggiunto la stazione solo
dieci minuti prima che partisse il treno. Avevo timbrato il biglietto,
trovato un posto a sedere e lasciato la borsa sotto i miei piedi, poi
avevo cominciato a scartare una merendina e mi ero lasciato tutto alle
spalle, senza alcun preavviso, volgendo lo sguardo a ciò che
mi riservava il futuro.
Papà.
Josh.
Frank.
Avevo
deluso così tanta gente. Eppure anche in quel momento, a
distanza di cinque anni, non ero invaso da alcun tipo di rimorso o
senso di colpa e pensavo che quella fosse stata la scelta migliore da
farsi. Una mossa un po' azzardata, forse, ma vedere quei volti tutte le
mattine mi distruggeva, fisicamente ed emotivamente, e avevo deciso di
darci un taglio per il mio stesso bene, a dispetto di quello che
pensavano tutti gli altri. Respirai a fondo. Eppure tornare nella mia
città natale dopo tutti quegli anni.. Era un'altra cosa
azzardata, non c'è bisogno di dirlo, ma avevo come la
sensazione di correre in cerchio e che l'unica maniera di spezzare quel
circolo fosse tornare a casa ed affrontare il mio passato; quindi ero
saltato sul primo treno per il Jersey e mi ero lasciato cullare nel
sonno dagli scricchiolii continui e regolari del mio vagone. Mi ero
svegliato di soprassalto una quindicina di minuti dopo la partenza,
mentre il veicolo attraversava l'ennesima galleria e il passeggero
accanto a me si accingeva a ricontrollare meticolosamente le sue cose
per l'ennesima volta, conscio di non aver spostato nulla e che avrebbe
trovato tutto a posto. Sentii il treno rallentare, prima quasi
impercettibilmente poi con più scossoni, e vidi il mio
compagno alzarsi e calcarsi un cappello di stoffa scura sulla testa,
controllando quindi di non essere in ritardo sulla tabella di marcia e
che tutto andasse per il verso giusto. Lo salutai con un cenno del capo
ma lui non ricambiò; abbandonò la cabina in
fretta e furia e si sbatté dietro la porta finestra, come se
non avesse intenzione di parlare con nessuno che non fosse un suo
stretto collaboratore o comunque qualcuno di terribilmente importante.
Storsi la bocca e mi guardai intorno. Ero rimasto solo nel mio
scompartimento - le persone che sceglievano di visitare il Jersey non
erano mai molte e comunque non erano interessate alla mia cittadina,
quindi era raro trovare qualcuno che scendesse con me all'ultima
fermata ed ogni volta che tornavo da qualche parte mi toccava stare da
solo con mio fratello e sopportare le sue battutine stupide. Mi
stropicciai il naso, assonnato, e mi sistemai meglio sul sedile
legnoso, uno di quelli duri e ruvidi al tatto, cercando di trovare una
posizione un po' più comoda. Con i muscoli ancora doloranti
e addormentati, mi alzai in piedi e mi sgranchii un attimo le gambe,
andando ad occupare il sedile accanto al finestrino. Il paesaggio
cominciava ad assumere i tratti caratteristici del Jersey e le case a
cinque piani lasciavano spazio ad ampi campi coltivati, pullulanti di
fattori e macchinari, mentre il sole faceva capolino tra le nuvole e
riscaldava l'erba impregnata di rugiada. Dicono che tornare a casa,
alle proprie radici, alle origini faccia bene, ma mi domandavo se
sarebbe stato così anche per me, visto tutto quello che era
successo, e il dubbio mi faceva attorcigliare le budella sotto la
pelle, le sentivo dimenarsi e restringersi, lacerate dall'insicurezza.
Mi appoggiai con le spalle alla parete e chiusi le palpebre, tirando
per bene le tende in modo da restare in balia dell'ombra, poi mi decisi
finalmente a lasciar perdere e serrai le braccia in una posizione
più naturale, scivolando velocemente nel mondo di Morfeo.
Lo vedo, è
qui di fronte a me. Siamo nel bosco che sovrasta la città,
l'odore di erba secca mi stuzzica le narici e il brusio delle cicale
è troppo insistente e fastidioso da venir ignorato, quindi
mi metto a canticchiare una canzone nella mia testa per isolarmi dal
mondo. Sta scartando un panino dal suo involucro di alluminio e me ne
ha già passato un altro, posandomelo ai piedi con
tranquillità e naturalezza, come se non avesse mai fatto
altro durante la sua vita, ma il mio corpo non si muove. Si gira verso
di me, alza gli occhi, sorride.
"Ehi Gee, cos'è quella faccia? Non ti piace il pollo? Guarda
che puoi avere il mio panino se vuoi" ride, allegro. Rise sempre,
oserei dire, ma quel particolare è forse il dettaglio
più prezioso che ha, quindi me lo tengo per me e lo
abbraccio.
"Ehi, aspetta un attimo, siamo appena arrivati!" obietta scherzoso,
mentre le mie labbra si scontrano con la pelle chiara e morbida del suo
collo. Le respinge con un dito e mi sorride nuovamente, baciandomi
dolcemente il naso.
"Dai, fammi preparare le cose e poi sono tutto tuo" m'informa, tornando
a trafficare con plaid e stoviglie. Faccio il broncio, se ne accorge e
sorride sotto i baffi, scuotendo il capo.
"Sei proprio un bambinone" sospira, lasciando tutto nel cestino e
avvicinandosi a me, tendendomi le braccia. Lo stringo a me, lascio le
mie mani ad accarezzare le sue guance candide e lo bacio con passione,
prima piano poi più forte, inebriandomi del suo sapore dolce
ma allo stesso tempo forte e piccante, proprio come il suo carattere
libero e sbarazzino. Sento che gli manca improvvisamente il respiro e
lo lascio libero, ma un mugolio atterrito mi costringe ad aprire gli
occhi e tornare alla realtà, guardandolo in faccia. Un uomo,
un coltello, poi il buio.
Quando mi risveglio sono in ospedale, disteso su un letto bianco e
scomodo, circondato da niente ma quattro pareti spoglie, e l'unico
rumore che sento è il ronzio continuo della macchina a cui
è collegato il mio compagno di stanza, di cui mi sono appena
accorto. Lo guardo un attimo, spaesato, ma non riconosco nei suoi
lineamenti stanchi l'essenza del mio ragazzo, quindi mi alzo in piedi e
mi precipito in corridoio, senza la minima idea di dove andare.
Setaccio tutto il reparto, ma lui non è da nessuna parte e
non sembra esser stato visto da nessun paziente, nessuna infermiera e
nessun dottore, quindi probabilmente non è venuto a farmi
visita. Aggrotto la fronte e mi mordo il labbro inferiore, la testa mi
fa male e non riesco a ricordare nulla, così sono costretto
a lasciar perdere. Torno da me, m'infilo velocemente i miei vestiti
sporchi e mi dimetto da solo, dirigendomi quindi verso casa
del mio fidanzato con passo veloce. Mi fermo davanti al pianerottolo,
mi pulisco rapidamente dalla polvere e suono il campanello, sfoggiando
uno dei miei migliori sorrisi quando la porta finalmente si apre,
lasciando intravedere la figura magra di una donna bianca di
mezz'età, sicuramente sua madre.
"Salve signora, sa se per caso Frank è in casa?" domando
gentilmente, cercando di notare un qualche movimento alle sue spalle.
Mi guarda con aria avvilita e la bocca impastata - sembra invecchiata
improvvisamente di cent'anni per quanto è distrutto e
sofferente il suo sguardo. Chissà cosa c'è che
non va, sembra soffrire molto.
"Gerard" sussurra, notando i cerotti sul mio braccio e le bende che mi
circondano la testa, "Frank non c'è e non ci sarà
mai più, cerca di capirlo ragazzo" dice, la voce ridotta a
un flebile soffio e le spalle completamente incurvate in avanti in
segno di dolore e rassegnazione. Aggrotto le sopracciglia.
"Cosa intende, signora?" domando, senza capire.
"Frank è morto, Gerard, non lo vedrai mai più"
esclama la donna, trattenendo a stento le lacrime.
"M-morto? Ma cosa dice, ieri siamo andati nel bosco a fare un pic-nic,
era così sereno e felice" deglutisco.
"Gerard, quello è successo quattro giorni fa" mormora,
faticando ad emettere i suoi necessari.
"Eri.. eri in una specie di coma, ragazzo, per questo non sai
assolutamente niente" mi spiega lei.
"Frank è scomparso; ti hanno ritrovato da solo, disteso su
un prato abbandonato in una pozza di sangue, accanto all'occorrente per
un pranzo alla buona. Ti hanno portato subito in ospedale e ti hanno
ricoverato, ma del nostro ragazzo.. di Frank nessuna traccia. Sappiamo
solo che quel sangue era anche suo". Finisce di parlare con voce rotta,
due lacrime le corrono lungo le guance arrossate. Si stringe il naso
tra le dita, cercando di trattenersi, ma i suoi occhi lasciano
intravedere il dolore che la lacera dentro, che le infetta il cuore e
la scuote tutta. Sento il peso del mondo cadermi addosso e
schiacciarmi, comincio a piangere, ma improvvisamente tutto muta, si
appanna e diventa distorto. Sono nel buio più totale, ora,
senza scopo o destinazione, solo un gran senso di paura, solitudine ed
oppressione. Nessuno mi parla, nessuno mi dice niente, eppure so di non
essere qui da solo; sento la presenza di qualcuno, un odore troppo
lieve da riconoscere ma comunque presente e sparso ovunque.
Dov'è, dove si nasconde, cosa sta facendo, che ne
sarà di me? La testa mi scoppia, ho bisogno di scoprire cosa
c'è sotto ma i miei muscoli sono atrofizzati ed impossibili
da muovere, così sono costretto a rimanere immobile,
impaziente, ad aspettare che qualcosa succeda e mi salvi da questo
nulla senza forma. Presto detto ed il qualcosa arriva - sono passati
giorni, ore, mesi? ho perso la cognizione del tempo, non capisco
più nulla ormai -, ma è completamente diverso da
quello che mi aspettavo, rovina la realtà, ci gioca e la
trasforma in un inferno spoglio ed arido. Il paesaggio muta; sono di
nuovo nel bosco, nel punto in cui siamo stati aggrediti quattro giorni
fa, dove ho visto per l'ultima volta l'amore della mia vita, a cui non
ho potuto neanche dire addio. Ma eccolo qua, mi compare alle spalle, mi
abbraccia, unisce nuovamente la sua lingua alla mia, come se nulla
fosse successo e niente dovesse anche solo lontanamente accadere. Si
stacca dal mio corpo, improvvisamente, e mi guarda, socchiudendo gli
occhi.
"E così tu saresti quello che doveva proteggermi sempre da
tutto e tutti? Il mio scudo umano, il mio salvatore, il mio angelo
custode?" sbotta. Il suo tono è duro e accusatorio, non
sposta gli occhi da me mentre parla.
"E' così che volevi proteggermi dal mondo, salvarmi dagli
altri ed aiutarmi a scappare dai demoni del mio passato? Scegliendo la
tua pellaccia e non muovendo un dito per aiutare il cosiddetto 'uomo
della tua vita'? Pensando a soddisfare il tuo desiderio di coccole ed
ignorando l'uomo che ci spiava tra i cespugli, pronto a saltar fuori
appena avremmo abbassato abbastanza la guardia? Complimenti amore, tu
sì che sai dimostrare a qualcuno quanto significhi realmente
per te" sibila, togliendosi le mie mani di dosso ed alzandosi in piedi,
spolverandosi le gambe prima di andare via e lasciarmi lì,
imbambolato e dolorante, incapace di muovermi e ragionare.
"Hai visto che hai fatto?" esclama una donna al mio fianco, spostandosi
in avanti per occupare tutta la mia visuale.
"Avevi detto che non l'avresti mai tradito, che ci saresti stato sempre
per lui, in ogni momento della giornata, e ora guarda che hai
combinato, brutto stupido che non sei altro! Se è successo
tutto questo è solo per colpa tua e la
responsabilità te la devi addossare tu, proprio come tutte
le conseguenze" sbuffa, poi se ne va anche lei. Sono di nuovo solo,
paralizzato, e non riesco a pensare a niente che non siano insulti
verso me stesso e la mia stupidità. Improvvisamente lo vedo
di nuovo lì disteso, sanguinante, e lo raccolgo, avvicinando
delicatamente la sua testa alla mia. Lui apre di scatto gli occhi e mi
sputa del sangue addosso, assumendo un ghigno di scherno.
"Sei una merda" esclama, mentre lo spingo lontano da me e lo faccio
sbattere con forza contro il terreno arido.
"Lo sei ora e sempre lo sarai" sorride, saltandomi al collo con le
zanne scoperte e infilandomi le unghie nella carne.
Mi svegliai di soprassalto con un urlo, mentre il sudore
mi correva lungo le tempie. Ero finalmente arrivato alla mia fermata,
dopo un paio d'ore passate a poltrire sul sedile di un treno, ma il
paesaggio della mia città, facilmente intravedibile dal
finestrino sporco, contribuì solo ad aumentare la mia ansia
e a farmi desiderare di non aver mai preso quella decisione. Raccolsi
la borsa da terra e mandai giù un groppo alla gola, ancora
sudando freddo e col cuore che batteva all'impazzata, quasi volesse
scappare via dal mio petto e tornare da dove eravamo venuti. Scesi dal
treno tremando, allontanandomi subito dalla stazione per non cedere
alla voglia di tornare indietro e filare sotto la doccia.
No, tornare a casa non era stata per niente una buona idea.
Mi maledissi a voce alta per essermi dato retta e m'incamminai verso
l'abitazione dei miei, mentre la notte calava silenziosa. Sarebbe stata
una lunga, lunga camminata.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Non
mi era mai piaciuta particolarmente la nebbia, sebbene il moro l'amasse
in modo addirittura eccessivo e avesse tentato più volte di
persuadermi del fatto che era fascinosa ed attraente; e come al solito
la mia amata cittadina fece di tutto per rendermi felice e lieto di
esser tornato a casa. Avevo appena percorso tre quinti di percorso
quando incappai in una matassa grigia e densa che m'impediva
addirittura di vedere a un palmo dal naso, e la cosa non fece che
incrementare la mia voglia di tornarmene in città e mandare
tutto al diavolo, anche se sapevo che non sarei stato in grado di
ritrovare la stazione in mezzo a tutto quel bianco. Per puro caso avevo
una torcia nello zaino, così la tirai fuori e l'accesi,
muovendone la luce a destra e manca nella speranza di distinguere la
strada dall'erba e di segnalare la mia presenza agli automobilisti, in
modo da non morire schiacciato dalla prima macchina che passava. Certo,
poi era l'una e mezza di notte e non c'era anima viva in giro, ma la
prudenza non era mai troppa e l'avevo imparato a mie spese, quel
pomeriggio cinque anni prima. Respirai a fondo e mi schiarii la voce:
il silenzio si stava facendo troppo inquietante ed opprimente per i
miei gusti e cominciavo a non essere più tanto sicuro di
dove avrei dovuto svoltare per imboccare il viale di casa mia ed
arrivare a destinazione sano e salvo, ma ovunque era comunque meglio di
stare fermo lì ad aspettare che il cielo si schiarisse,
così continuavo a camminare nel buio, sperando di proseguire
nella direzione giusta. La nebbia fitta sembrava inghiottire
completamente la luce della mia torcia, così la spensi e la
risistemai nello zaino, maledicendomi per aver scelto un orario
così scomodo e soprattutto per non aver chiamato un taxi o
qualcosa del genere per farmi venire a prendere. Mi strofinai le mani,
intirizzite ed arrossate dal freddo, e ci soffiai sopra, cercando di
riscaldarmele e ficcandomene poi una in tasca alla ricerca di una
sigaretta e di un accendino funzionanti. Non era molto che avevo
ripreso a fumare ma mi era sembrato che fossero passate ere da quando
avevo smesso, anche se effettivamente avevo speso solo un anno lontano
da tabacco, alcol e tutti gli altri tipi di droghe, dedicandomi a cure
naturali, psicologi e impacchi vari, che si erano rivelati una gran
bella fregatura. Mi accesi una sigaretta, me l'infilai in bocca ed
esalai un respiro stanco, chiudendo un attimo gli occhi e
concentrandomi sui rumori della foresta, attutiti dall'ora tarda e
dalla foschia. Mi passai una mano fra i capelli, scompigliandomeli, e
spensi la sigaretta, facendola cadere e strusciandoci sopra
ripetutamente col piede, finché non ne sentii più
neanche l'odore. Frank non sarebbe felice di vedermi di nuovo preda del
vizio, mi ripeterebbe di smettere, di curarmi, di assicurarmi una vita
sana e più lunga al suo fianco, ma ora lui non è
qui e posso distruggermi quanto voglio senza che nessuno venga a farmi
la predica, quindi fumare o non fumare non influisce più sul
mio stato d'animo. Ogni tanto lo faccio per calmarmi, rilassarmi o
semplicemente per sentire la sua voce premurosa rimbombarmi nella testa
e riempirmi di cure ed attenzioni, visto che è tanto che
nessuno mi sta più dietro come faceva lui; mi sento un po'
abbandonato a me stesso, a dire il vero, ma non voglio nessuno che mi
faccia da balia, ormai non sono più un ragazzino irruento e
senza limiti, ho ventidue anni e so badare benissimo a me stesso. Anche
se, effettivamente, trovarmi lì al ciglio della strada alle
prime ore del mattino era la dimostrazione perfetta di quanto avessi
bisogno di aiuto e di una mano amica sempre pronta a tirarmi su e
sorreggermi, da quando uscivo all'alba per andare a lavorare a quando
tornavo a mezzanotte impregnato dal puzzo d'alcol e sigarette. Mi tirai
su la zip fino a coprirmi completamente il collo con la giacca,
m'inumidii le labbra e feci qualche passo incerto in avanti, tastando
il buio con le mani e cercando un qualsiasi segno che mi avrebbe
permesso di identificare la mia posizione e decidere in che verso
proseguire, e dopo un paio di metri trovai un cartello. Acchiappai la
torcia dallo zaino e la portai fuori, accendendola e puntandola verso
l'alto, strizzando gli occhi e cercando di dare un senso ai caratteri
rovinati e scoloriti dal vento. Ero abbastanza sicuro di sapere cosa
dicesse, ma non avevo alcuna prova ed erano comunque anni che non
passavo da quelle strade, quindi sarebbe facilmente potuto cambiare
qualcosa o chiunque avrebbe potuto aggiungere un cartello alla cazzo
anche solo per far cambiare un po' il paesaggio, quindi avevo bisogno
di decifrare il cartello con estrema precisione. Puntai meglio la
torcia e mi sporsi in avanti sulle punte, quindi tornai alla posizione
di prima e sorrisi compiaciuto, riprendendo a camminare verso nord.
Pian piano la nebbia si sfittì e dopo una mezz'oretta
riuscii a riconoscere da solo l'area in cui mi trovavo, abbastanza bene
da orientarmi e riuscire ad arrivare a casa senza troppi giri inutili
ma comunque troppo vagamente per spegnere la torcia e ributtarla nel
borsone. Camminai un altro po', respirando il più
silenziosamente possibile, e raggiunsi una villetta bianca circondata
da un cancelletto di legno ed un giardino pieno di rose, che riconobbi
subito come luogo principale della mia infanzia e della mia
adolescenza. Un tempo la mia famiglia aveva anche un cane, uno di
quelli grossi e incazzosi che abbaiano a tutti quelli che vedono,
così feci lentamente il giro della casa, per essere sicuro
di non incapparci o che comunque non fosse più nei
paraggi, poi scavalcai il muretto e mossi qualche passo insicuro
nell'erba, guardandomi attorno. Avevo ancora le chiavi di casa, da
qualche parte nella borsa, ma non sapevo se avessero cambiato serratura
o se magari avessero aggiunto qualche chiavistello, quindi mi avviai
alla ricerca di una finestra aperta o di una porta secondaria e non
rimasi per niente deluso. La porta a vetri sulla veranda era socchiusa,
così mi avvicinai, l'aprii e scivolai dentro nel silenzio
più assoluto, stando ben attento a non pestare o muovere
niente, in caso qualcuno avesse il sonno leggero e si potesse
svegliare. Se c'era una cosa che avevo imparato durante questi anni era
che la prudenza non era, appunto, mai troppa e che era meglio fare le
cose con la massima attenzione possibile, per non commettere errori o
per non essere costretti a riparare a una qualsiasi mancanza in
seguito, quando magari avresti potuto essere spaparanzato sul
sofà a bere birra e guardare una partita di football. Dopo
essere entrato, rimasi immobile in ascolto per una decina di minuti,
senza muovere muscolo e respirando il meno possibile, quindi mi sfilai
le scarpe e le lasciai in un angolo vicino alla porta per non
inciamparci, mollai la mia borsa sulla poltrona vicino alla finestra e,
una volta abituatomi alla penombra, tirai fuori dallo zaino una giacca,
che tirai sul divano dove avrei dormito. Stappai una bottiglietta
d'acqua che avevo da parte e ne bevvi un po', asciugandomi la bocca con
l'avambraccio, poi la richiusi, mi sdraiai e me la stesi sulle gambe a
mo' di coperta, portandomi un cuscino sotto la testa. A giudicare dalle
tende mal tirate mi sarei svegliato presto, il mattino dopo, quindi mi
sforzai di addormentarmi subito senza pensare alle conseguenze e alle
spiegazioni che avrei dovuto dare a mio padre appena sveglio. Ci
riuscii.
"Gerard?"
mi chiamò, aggrottando le sopracciglia e stropicciandosi gli
occhi.
"Pa'"
ribattei, mandando giù il resto del mio caffè e
girandomi a guardarlo. Era in piedi sulla porta della cucina, sulla
faccia aveva dipinta una smorfia stupita e sembrava completamente
spiazzato dalla mia comparsa improvvisa.
"Che..
che ci fai qui?" domandò, a conferma della mia ipotesi.
"E'
passato tanto tempo dall'ultima volta che sono venuto, pensavo di farvi
una visita" buttai lì.
"Ah,
capisco" sembrava deluso, ma cercò di non darlo a vedere e
spostò una sedia, sedendomisi accanto.
"Cosa
ti aspettavi?" domandai. Sapevo benissimo quello che voleva sentirsi
dire, ma non l'avrei detto.
"La
mia opinione è rimasta quella di un tempo, se è
quello che ti stai chiedendo" dissi, lasciandolo senza parole una
seconda volta. Era facile capire cosa gli passasse per la testa, non so
se perché era un sempliciotto lui o perché ero
geniale io, però non avevo mai avuto problemi a prevedere le
sue azioni e rigirarmi la frittata a mio vantaggio.
"Non
è quello che mi stavo chiedendo" mentì, pulendosi
il vetro degli occhiali.
"Ero
solo stupito, tutto qui" si giustificò, mettendo le lenti
controluce e controllando se ci si vedesse bene. Come risposta sarebbe
anche andata bene a qualcun altro, ma sapevo che non gliene fregava
niente del mio ritorno, come non gliene era fregato un cazzo della mia
partenza e della vita che avevo vissuto fino a quel momento. Non mi
aveva mai scritto, mai inviato un messaggio, mai fatto una chiamata, e
anche se neanch'io mi ero fatto sentire per parecchio tempo, mio
fratello mi aveva comunque tenuto aggiornato di tutto quello che era
successo in quella casa fino al giorno in cui anche lui,
inevitabilmente, aveva spiccato il volo e abbandonato la famiglia. A
mio padre non era più fregato un cazzo di me dal giorno in
cui avevo fatto outing e gli avevo confessato di essere gay - non che
avessi avuto altra scelta, comunque. Mi aveva visto sulla casetta
sull'albero con un ragazzo, a sedic'anni circa, e aveva capito che ci
stavamo baciando e che eravamo fidanzati; aveva aspettato un qualcosa
che gli dicesse che non era vero e che si stava sbagliando, ma quel
qualcosa non era arrivato e allora era andato su tutte le furie. Aveva
scacciato il ragazzo in malo modo, vietandogli di farsi vedere
a gironzolarmi intorno un'altra volta e mi aveva portato a casa per un
orecchio, sbraitando, mi aveva sbattuto al muro e assestato due belle
sberle in faccia, poi si era calmato un po' e mi aveva intimato di
spiegargli cosa fosse appena successo, perché
sennò ne avrei prese altre. Una volta saputo che quello non
era stato il mio primo fidanzato, aveva dato in escandescenze e mi
aveva ricoperto d'insulti, ripetendomi che l'avevo tradito, che non mi
meritavo di vivere sotto il suo stesso tetto e che dovevo farmi schifo
da solo, perché lui di schifo verso di me ne aveva fin
troppo e non sapeva più dove metterlo. Avrei voluto
ribattere e dirgli che il mio orientamento sessuale non era una cosa
che poteva decidere lui e che doveva farsi i cazzi suoi, ma gli
schiaffi bruciavano forte ed in garage c'erano fin troppe cose con cui
venir colpito, quindi avevo taciuto e mandato giù anche
quell'ennesimo affronto, mentre le vene sul collo gli si gonfiavano a
dismisura. Finita la sfuriata e terminati gli insulti, mi aveva detto
che non voleva più saperne di me e mi aveva sputato addosso,
andandosene via. Quella sera a cena non ci parlammo, ma so che dopo
litigò terribilmente con mia madre, che prese le mie difese
e lo cacciò fuori per qualche notte, durante le quali la
tensione a casa si era notevolmente allentata. Mikey sapeva che ero
gay, lo aveva intuito da tanto anche mamma e non c'erano mai stati
problemi tra noi per questa storia, l'unico a cui non stava bene era
papà, ma del resto lo sapevo dall'inizio e non gliel'avevamo
detto apposta per evitare litigi inutili. Comunque non gli avevo mai
perdonato la scenata e lui non mi aveva mai perdonato di essere me
stesso, quindi il rapporto tra noi non era mai migliorato molto e non
era destinato a farlo.
Papà si alzò dalla sedia e si diresse verso il
frigo, intuendo perfettamente che il rancore tra noi non si era affatto
affievolito, e sbuffò, come a confermarlo ulteriormente.
Aprì l'anta con un gesto secco e tirò fuori una
lattina di birra, che si bevette tranquillamente nonostante fossero
solo le nove del mattino, poi la mise giù e
tornò a sedersi.
"Mikey non c'è, e nemmeno quella pazza di tua madre.
Torneranno fra qualche giorno" Diede un altro sorso, poi si
pulì la bocca con l'avanbraccio.
"Non sono loro che cercavo" ribattei, mantenendo un tono calmo e
distaccato. Lui mi guardò un attimo e alzò un
sopracciglio, cercando di leggermi negli occhi, ma dopo un po' fu
costretto ad arrendersi.
"E allora che cosa vuoi?" domandò, infastidito dalla mia
affermazione.
"Da te, assolutamente niente. Ho delle faccende urgenti da sbrigare
giù in città, quindi resto a dormire qui per un
paio di notti visto che questa è anche casa mia" risposi,
facendo girare la bevanda col cucchiaino.
"Quanto hai intenzione di rimanere?" insistette, tamburellando sul
tavolo con le dita, visibilmente scocciato.
"Posso rimanere due giorni come tre mesi, dipende da come vanno a finire
le cose" dissi, finendo di bere il mio caffè.
"Bhe, vedi di darti una mossa, Gerard. Non sei affatto il benvenuto in
questa casa" m'informò, ostentando un tono irritato,
accartocciando quindi la lattina con il pugno ed alzandosi per andare a
buttarla.
"Sì, me lo ripeti da qualche anno" ribattei con noncuranza,
scrutando il fondo della tazza.
"Dio santissimo e onnipotente, non si può ragionare con te!"
sbottò all'improvviso, uscendo dalla stanza e sbattendosi la
porta alle spalle, tornando ad occuparsi delle sue amate peonie. Un
passatempo da vero maschio etero, non c'è che dire.
Raccattai la mia roba e la sciacquai, lasciandola a colare nel lavello,
indossai la giacca ed uscii.
La città non era poi così lontana, se si
possedeva un veicolo a motore e se ci si poteva muovere con quello,
invece di contare solamente sui propri piedi. Per fortuna mia madre non
aveva venduto il mio vecchio scooter, così feci il pieno e
mi misi alla guida, raggiungendo il centro in non più di un
quarto d'ora. Parcheggiai vicino alla biblioteca, misi il casco a posto
e mi guardai un attimo attorno, sforzandomi di ricordare dove mi
trovassi e qualche particolare che riuscisse a farmi venire in mente
nomi, dettagli e volti degli abitanti. Ricordavo qualche nome, qualche
pettegolezzo e robe così, ma non riuscivo a ricollegare le
faccie della gente a qualcos'altro che non fosse il loro corpo, quindi
come ricordi erano completamente inutili. Sospirai e tirai fuori il
portafoglio, entrando in un bar.
"Gerard?" mormorò una voce soffice al mio fianco appena
varcai la soglia e mi fui tolto una ciocca di capelli dal viso,
riguadagnando la vista. Mi voltai e il mio sguardo accigliato si
scontrò con quello stupito di una ragazza giovane, bionda,
di all'incirca vent'anni, in piedi vicino alla porta e con in mano uno
zaino di scuola ricoperto di scritte di ogni colore e dimensione, che
cadde a terra appena lei realizzò che ero davvero io e che
ero tornato a casa dopo chissà quanto tempo.
"Oh cazzo" sussurrò, mollando tutto e avvicinandosi a me,
con gli occhi sgranati fino a farle male. La guardai a mia volta, senza
riconoscerla, e mi sentii leggermente a disagio mentre le sue mani mi
tastavano le guance, il collo e le spalle, come se dovesse accertarsi
che fossi realmente lì con lei e che non fossi solo
un'allucinazione fin troppo vera.
"Dai, smettila" grugnii, spostandomi un po' all'indietro e strizzando
gli occhi, senza però staccarla da me.
"Allora è vero, sei tornato" si lasciò sfuggire,
mentre un sorriso emozionato le si formava sulle labbra e gli occhi le
si appannavano di lacrime per la felicità. Poi mi
abbracciò forte e a lungo, come se avesse aspettato questo
momento per anni e non avesse visto l'ora di stringermi tra le braccia
e sentire nuovamente il mio profumo per davvero tanto tempo. Mi sentii
a disagio ma ricambiai comunque l'abbraccio in modo un po' incerto, poi
lei alzò il viso e mi guardò.
"Non ti ricordi di me, vero?" domandò. Esitai un attimo e
scossi la testa, con una smofia.
"Mi dispiace" aggiunsi, abbassando lo sguardo e deglutendo.
"Non importa. I dottori lo avevano detto, che non ti saresti ricordato
che di poche persone, non è colpa tua" sorrise, dandomi una
pacca sulla spalla per farmi sentire un po' più tranquillo e
rilassato.
"L'importante è che tu sia tornato tra noi" ammise
dolcemente, dopo avermi abbracciato un altro po'.
"Ricominceremo tutto da capo, non ti preoccupare di niente. Allora, io
sono Lindsey, il mio colore preferito è il giallo e sono
stata la tua prima fidanzata, nonché la tua migliore amica
da, beh, da tanti tanti anni" rise, tendendomi la mano. Gliela strinsi
e lei la scosse allegramente.
"Il mio vero colore di capelli non me lo ricordo più neanche
io, il mio piatto preferito è il curry e ho smesso di fumare
da un casino di tempo, cosa che dovresti fare anche tu"
osservò, notando il pacchetto di Marlboro che sporgeva dalla
tasca dei miei pantaloni.
"Non l'avevi già fatto, anni fa?" domandò quindi,
storcendo lievemente la bocca.
"Probabile, l'ho fatto tante volte" annuii, mordendomi il labbro e
abbassando lo sguardo sulle sue scarpe.
"Capisco.. sei venuto a cercare qualcosa di preciso?" chiese
di nuovo, notando la mia aria spaesata.
"Effettivamente sì" ammisi, massaggiandomi la nuca con la
mano e guardando verso il bancone delle sigarette per cercare un
dettaglio familiare che mi potesse aiutare.
"Cercavo un volto amico per, er, come dire, scacciare un po' del buio
che regna nella mia testa e tornare a capirci qualcosa della mia vita,
visto che non riesco più a controllare niente che la
riguardi" spiegai, gesticolando un po' per alleviare la tensione.
"E visto che da quando sono partito non ho fatto altro che scappare dai
miei problemi, sono tornato a casa per affrontarli ed investigare un
attimo su tutto, in modo da ricominciare a vivere in modo decente e non
so, slegare un po' questa matassa di incubi che mi attanaglia la testa"
me la presi tra le mani, premendo leggermente sulle tempie.
"Mi sembra d'impazzire, non faccio che sognare la morte dello stesso
ragazzo, notte dopo notte, e lo sento sempre più vicino ed
insistente, come se mi stessi avvicinando a lui, in qualche modo"
ammisi, strizzando gli occhi per scacciare quell'immagine sofferente
dalla mia vista.
"E' giovane, carino, mi chiama amore e mi riempie di attenzioni di ogni
tipo. Prima siamo felici, poi succede qualcosa e mi ritrovo
all'ospedale, abbandonato da tutto e tutti, e vengo a scoprire che
questo ragazzo è morto. Mi sento male, vuoto dentro,
qualcuno mi accusa di averlo ucciso e tutto mi si rivolta contro
all'improvviso" spiegai, tirando fuori le parole con una fatica
pazzesca. Lindsey contrasse la mascella e respirò a fondo,
decidendo che non era il posto adatto per parlarne, tuttavia non mi
fermò e mi lasciò continuare a sfogarmi
finché ne avessi sentito il bisogno.
"E questo ragazzo.. lui somiglia tanto a una persona che ho amato con
tutto me stesso fino a qualche tempo fa, quando è
improvvisamente cambiato tutto e mi sono visto costretto a partire.
Ogni tanto mi vengono in mente degli spezzoni della nostra vita
insieme, di quando eravamo felici e spensierati, e mi viene da
chiedermi chi fosse, dove vivesse, perché è
uscito dalla mia vita. So che il ragazzo del sogno si chiama Frank, me
lo ripete sempre sua madre, e siccome è un bel nome ci
chiamo anche il ragazzo dei ricordi, ma non ho davvero idea di chi sia
e di cosa possa essergli successo per andarsene così di
colpo, solo che mi piacerebbe davvero saperlo, per ritrovarlo e dirgli
che forse non era destino che ci lasciassimo, che dovremmo riprovarci
ed essere di nuovo felici. Sento che ogni giorno la sua essenza si fa
più forte dentro di me, ma mai abbastanza per visualizzare
bene il suo volto e svelare la sua identità, e la cosa mi
sta lentamente tirando pazzo.. Non mi ricordo neanche chi fosse il
ragazzo con cui mi beccò mio padre a baciarmi, ho solo
sprazzi di lucidità in mezzo al vuoto più
completo" le sputai addosso, tutto d'un colpo. Lei tacque, si morse il
labbro ed esitò un istante, senza sapere quali fossero le
parole più adatte per rispondermi e confortarmi un po'.
"Gerard" cominciò, prendendomi delicatamente per la mano e
tirandomi verso di lei, "dovremmo andarcene da qui". La gente si era
voltata a guardarmi di sottecchi, anche se non riusciva a sentirmi, e
mi sentii a disagio e fuori posto, come se quello fosse l'ultimo posto
in cui avrei dovuto trovarmi in quel momento.
"Portami via" sussurrai alla ragazza, strizzando gli occhi con aria
esausta. Lei annuì e mi accompagnò fuori dal
locale, mi fece salire in auto e mi portò in cima al
promontorio, lontano da sguardi indiscreti e orecchie impiccione.
"Gee" mi chiamò pazientemente, inumidendosi le labbra e
respirando a fondo. Si sedette per terra e m'invitò a
seguire il suo esempio, battendo ripetutamente la mano contro il
terreno roccioso e polveroso.
"Io.. dove siamo?" domandai, abbandonandomi accanto a lei. Mi
posò una mano sul ginocchio e me lo strofinò
allegramente, per tirarmi un po' su di morale.
"In un posto che ti piaceva tanto" sorrise, malinconica.
"Qui siamo al sicuro" mi spiegò, come se quel dettaglio
fosse qualcosa di terribilmente importante.
"Al sicuro da cosa?" domandai, la testa che mi faceva male e
non riusciva a mettere a fuoco niente che potesse rivelarsi anche solo
lontanamente utile in quel momento. Lindsey fece una pausa,
raccogliendo le forze per rispondere, poi mi guardò dritto
negli occhi.
"Ascoltami attentamente, Gerard, perché non dovrai
dimenticarlo mai" mi ammonì.
"Nessuno qui è tuo amico. Nessuno qui può
vantarsi della tua fiducia. Nessuno, e dico nessuno, vuole il tuo bene;
e nessuno ha intenzione di aiutarti in alcun modo. Siamo rimasti in
pochi a volerti bene, e per quanto sia difficile potrai fidarti solo di
noi fino alla fine." Il suo tono era serio e convinto, così
mi trovai ad annuire senza volerlo realmente.
"Giura che, qualunque cosa succeda, non ti fiderai mai degli altri.
Giuralo"
"Ma perc--" provai ad obiettare.
"Giuralo e basta, Gerard" tagliò corto lei, guardandomi
dritto negli occhi.
"Lo giuro" annuii, cercando di sembrare il più sicuro
possibile e sostenendo il suo sguardo serio.
"Bene. Ora apri bene le orecchie, perché ciò che
sto per raccontarti è quello che è successo al
ragazzo dei tuoi sogni, e non uscirà mai più da
queste labbra. Quella che stai per sentire è la storia di
Frank Iero ed è il perché di tutti i tuoi incubi,
dei tuoi vuoti di memoria e delle tue infinite insicurezze. Da ora in
poi niente sarà più come prima. Vuoi andare fino
in fondo?"
Deglutii ma le feci segno di andare avanti. Lei annuì,
aprì la bocca e cominciò a parlare.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
"La verità
è che potrei dirti tutto e niente su di lui" si
passò una mano tra i lunghi capelli biondi.
"Era un ragazzo normale, moro, un po' basso per la sua età e
con pochi amici. Non era bravo a fare amicizia ma piaceva a tutti per
la sua gentilezza, per i suoi sorrisi sinceri e perché era
sempre carino con chiunque incontrasse, anche se aveva passato una
brutta giornata ed era incazzato nero con il mondo; non si sfogava mai
contro chi non se lo meritava, e spesso non lo faceva neanche con chi
si meritava effettivamente una sfuriata. Non ce l'aveva mai con
nessuno; perdonava tutti, anche se quello a rimetterci spesso era lui,
e odiava terribilmente i litigi, le scenate e le discussioni di ogni
genere, quindi molte volte si limitava a scomparire e a non schierarsi
mai con nessuno, per evitare di peggiorare le cose e perché
comunque preferiva non ficcare mai il naso nelle guerre degli altri.
Aveva un temperamento mite, tranquillo, ed era particolarmente dolce
con chiunque incontrasse; era una di quelle persone che uscendo per
strada salutano tutti, dal primo all'ultimo passante, e che non si
fanno assolutamente problemi a riempire di complimenti qualcuno che
tutti gli altri odiano, se i complimenti se li merita. Era sincero con
se stesso, una persona davvero amabile, ma proprio per questa sua
apparenza dolce e rispettosa sembrava un pappamolla ai ragazzi
più grandi, che si divertivano a stuzzicarlo, sbatterlo al
muro e trattarlo come se fosse l'ultima delle merde, visto che lui non
si sarebbe ribellato. Non prestava attenzione ai bulli, erano una
caratteristica che l'aveva sempre accompagnato fin dall'infanzia e a
cui si era abituato da tanto, quindi non raccontava agli altri cosa gli
facessero o cosa pensasse dei loro comportamenti, e ci sono state volte
in cui sono stata costretta a disinfettargli le ferite, curarlo e
preoccuparmi per lui, nonostante il suo continuo silenzio. Potevo
domandargli per ore cosa fosse successo e lui avrebbe continuato a
sorridermi e a dirmi che andava tutto bene, che era felice lo stesso e
che aveva tutto quello che poteva desiderare dalla vita, e che quindi
non c'era problema; loro erano solo invidiosi e cercavano un modo per
liberare il loro fastidio e la loro frustrazione, li capiva. Ci sono
state volte in cui mi ha pianto sulla spalla e ci sono state volte in
cui le mie cure non sono bastate, ma nonostante tutto non ha mai perso
la speranza ed è andato ogni giorno a scuola sorridendo,
senza curarsi delle occhiatacce di quelli più grandi e
fregandosene di quello che sarebbe potuto succedergli. Era un ragazzo
coraggioso, prima di tutto."
La guardai e mi morsi un labbro, immaginandomi la scena davanti agli
occhi e rabbrividendo.
"Gli adulti, invece, lo apprezzavano molto. Erano gentili con lui e lo
trattavano con riguardo, in quanto lui metteva sempre una parola carina
per loro e certe volte gli faceva anche dei regali – roba da
poco conto, certo, ma loro erano felici di sapere che a lui importava
di quello che succedeva nel paese –, ed è successo
spesso che, svegliandosi, trovasse delle brioches appena sfornate sulla
porta di casa o un mazzo di fiori sul davanzale."
Lindsey sorrise al ricordo e sorrisi anch'io, sollevato.
"Aveva un unico problema, se così possiamo chiamarlo, che
non aveva mai negato o cercato di nascondere agli altri, e per questo
aveva passato tanti, tanti casini quand'era più giovane. Era
omosessuale. Ora, capirai che in un paesino piccolo come il nostro i
gay non siano poi così ben visti, soprattutto
perché la maggioranza degli abitanti è etero
convinta e praticamente vive in chiesa, ripudia il diverso e si
affaccia alla bibbia per ogni dubbio o incertezza, e non è
neanche poi così aperta di mente verso il nuovo. Quando lo
vennero a sapere, cominciarono a trattarlo in modo diverso ed alcuni di
loro smisero proprio di rivolgergli la parola, pensando che avrebbe
potuto contagiarli, e in men che non si dica il ragazzo si è
ritrovato senza uno straccio d'amico o una spalla su cui contare quando
stava giù. All'epoca non lo conoscevo ancora, ci scambiavamo
qualche cenno di saluto nell'incontrarci per strada e gli sorridevo
ogni volta che ne avevo l'occasione, ma era tutto lì e non
mi era mai passato per la testa anche solo di provare di essere sua
amica, visto che lo idolatravo un bel po'. Ai miei occhi era un ragazzo
troppo meraviglioso da raggiungere e, sebbene fosse gentile con tutti,
pensavo che sarebbe stato impossibile per me avvicinarlo, quindi mi
accontentavo di dirgli un ciao di sfuggita e sfoggiare un sorriso
enorme ogni volta che gli passavo accanto, voltandomi appena mi
superava. Aveva la mia stessa età, ma sembrava
così maturo e così bambino allo stesso tempo che
mi metteva in soggezione e il suo viso allegro mi lasciava senza parole
ogni volta, mi ossessionava ad esser sinceri, e mi ritrovavo a pensarlo
nei momenti più assurdi della giornata. Però non
era una cotta, era qualcosa di più profondo e di
più bello – non so neanche ora come definire il
rapporto che avevamo instaurato: un cenno col capo, un sorriso e uno
sguardo imbarazzato stavano a significare che eravamo entrambi contenti
di esserci incontrati e che ci auguravamo una bella giornata; come un
abbozzo di sorriso significava che era stanco e aveva passato un
periodo duro. Era figo, il nostro rapporto: era diverso da quello che
aveva con tutti gli altri e mi faceva sentire speciale, come se fossi
la prescelta in un paese di chierichetti, omofobi e ignoranti, come se
io e solo io potessi capirlo e sollevarlo dalle sue pene, anche se per
solo qualche istante. Mi sono illusa tantissime volte di significare
molto per lui e spesso mi sono ritrovata a desiderare di fermarmi e
baciarlo, ma sapevo benissimo che dietro alla sua dolcezza si
nascondeva un animo fragile ed innamorato a sua volta, di un ragazzo
che non lo degnava però di uno sguardo e che si divertiva a
far sapere a tutta la scuola ogni volta che se la spassava con quella
troia della sua fidanzata, una cheerleader che amava mettersi in mostra
in ogni occasione. Erano una coppia sgraziata e squilibrata, entrambi
troppo egocentrici e sbruffoni per sottomettersi in qualche modo
all'altro, e finirono col rompere dopo due settimane di sesso sfrenato,
succhiotti e scandali, con gran sollievo della squadra di football e di
mezza popolazione scolastica femminile. Frank però non era
sollevato, si era chiuso ancora di più nel suo guscio e non
mi sorrideva quasi più, se non qualche rara volta mentre
inciampavo sui miei piedi cercando d'imparare ad andare sullo
skateboard. Era ormai risaputo che gran parte della scuola gli stava
alla larga e lo insultava, di nascosto o in faccia, e il peso di tutto
quell'odio e quel disprezzo gravava terribilmente sul moro, troppo
debole per ribellarsi e troppo fiducioso per denunciare tutto al
preside o anche solo alla madre. Diceva a tutti di fare escursioni con
la bmx, di essersi appassionato agli sport pericolosi e di farsi male
spesso cadendo, per nascondere i graffi e le escorazioni che i suoi
stessi compagni gli lasciavano addosso, e si medicava da solo, per
evitare di dover dare spiegazioni a un medico di qualunque genere. Ogni
tanto lasciava che l'aiutassi e mi prendessi cura di lui, quando le
ferite erano troppo doloranti e scomode da raggiungere
perché potesse farlo da solo, e in quei momenti rimanevo
impietrita di fronte alle sue cicatrici, alle sue abrasioni, al suo
dolore, e mi ripromettevo che avrei fatto qualcosa per aiutarlo, anche
se in effetti non potevo farci proprio niente. Man mano che il tempo
passava ci divenni amica e lui cominciò a confidarsi con me,
a lasciarmi conoscere una parte dei problemi che gli rovesciavano
addosso e lo trascinavano sempre più verso il baratro, ma
sebbene ne fossi terribilmente impressionata, fui felice di notare che
non aveva mai smesso di sperare e di credere che le cose sarebbero
cambiate presto" sorrise lievemente, più malinconica.
"Era un sognatore senza limiti, viveva in una realtà tutta
sua ed erano rare le volte in cui scendeva dalle nuvole, a scuola, ma i
professori non s'incazzavano con lui perché prendeva
comunque buoni voti e non aveva problemi di comportamento o altro,
quindi chiudevano un occhio. Ma non fraintendermi, loro erano tra i
più stronzi di tutti: sapevano a cosa quel ragazzo andasse
incontro ogni giorno, conoscevano le sue ferite e le sue sofferenze,
potevano elencarti su due piedi tutti i maltrattamenti che aveva
subito, ma non avrebbero mai, mai, mai fatto la spia al preside,
neanche sotto tortura. La verità è che erano
degli omofobi del cazzo, e, appena hanno saputo che quell'alunno non
era come gli altri, hanno deciso di abbandonarlo, senza la minima
esitazione, stabilendo che i comportamenti degli altri compagni fossero
corretti e appropriati nei suoi confronti e fregandosene altamente le
palle di tutto quello che doveva sopportare giorno dopo giorno. La
mentalità a scuola era molto: 'sei un finocchio del cazzo,
non dovresti neanche essere qui, dovresti bruciare all'inferno e patire
le peggiori sofferenze, diavolo!', ma visto che l'inferno era ancora
lontano, il ragazzo doveva imparare a soffrire anche qui e a scontare
la sua pena due volte, per aver scelto di essere una creatura malata e
contro il disegno del creatore. Insomma, erano delle teste di cazzo
della peggior specie, per farla breve" riprese, sputando per terra. Era
visibilmente irritata, e aveva ragione ad esserlo.
"Quello che quel poveretto ha passato a causa di quelle merde
è terribile ed è andato avanti per anni, anche se
dopo un po' ci si erano tutti abituati e i pestaggi erano diminuiti
notevolmente, e le persone che gli erano rimaste accanto durante tutto
quel tempo si potevano contare davvero sulle dita di una mano" aggiunse
mentalmente un purtroppo e storse la bocca, mordicchiandosi il labbro,
poi esitò un attimo e mi guardò.
"Ed è qui che sei entrato in gioco tu per la prima volta."
Cosa? Rimasi
stupito da quell'affermazione e sgranai gli occhi per una manciata di
secondi.
"Vedi, anche tu sei sempre stato un sognatore, per questo non hai mai
sentito tutti i pettegolezzi che giravano attorno al moro e, suppongo,
per questo ti sei avvicinato a lui. Era un pomeriggio di fine ottobre,
gli alberi erano dipinti di arancione e le foglie turbinavano
frenetiche nell'aria, mentre un venticello fresco faceva vorticare le
cartacce per terra, quando ti ho visto percorrere il viale del parco
per la prima volta, lo sguardo perso nell'infinito e le mani che si
torturavano l'un l'altra alla ricerca di un po' di sicurezza. Camminavi
lentamente e i tuoi passi erano scoordinati ed incerti, sembravi sempre
più spaventato man mano che ti avvicinavi alla fine del
sentiero, e mi ricordo di aver aggrottato la fronte ed essermi chiesta
se ci fosse qualcosa che non andava in te, nel parco o in me; ma tu
sembravi non vedermi proprio, come se fossi fatta di cellophane e tu
riuscissi a guardare il mondo attraverso il mio stomaco,
così me n'ero andata, girandomi a fissarti non appena ti
ebbi superato. Quando mi hai oltrepassata, però, non ti sei
voltato e non hai ricambiato l'attenzione che ti avevo riservato,
quindi ho storto la bocca e mi sono avviata verso casa, dimenticandoti
istantaneamente. Ho tirato fuori il cellulare dalla tasca e ho chiamato
il moro per sapere dove fosse, e lui mi ha risposto che era al bosco e
che mi aveva vista passare ma che non mi aveva fermata
perché gli ero sembrata particolarmente assorta nei miei
pensieri, quindi aveva pensato che non fosse il caso di venire a
rompermi le scatole e costringermi a chiacchierare un po'. L'ho
avvisato che l'avrei raggiunto e ho fatto marcia indietro sui miei
passi, guardandomi intorno per vedere se eri ancora nei paraggi, poi ti
ho visto avvicinarti al moro e toccargli la spalla con la punta delle
dita, indietreggiando un po' mentre lui si girava e si concentrava sul
tuo viso sconosciuto. Mi sono avvicinata di più e mi sono
tuffata nei cespugli, sistemandomi abbastanza vicino da poter sentire
cos'avevi da dirgli ma abbastanza lontano per non essere scorta da
nessuno di voi, quindi mi ero cucita le labbra e avevo teso l'orecchio,
incuriosita dall'ansia che sembrava circondarti. Lo salutasti con un
ciao e lui ti guardò."
"Ciao" mormoro,
togliendo la mano dalla sua spalla.
"Ciao" risponde lui con tono incerto, aggrottando la fronte e
guardandomi dal basso in alto.
"Ci conosciamo?" chiede, scavando nella sua memoria. Scuoto la testa.
"Io sono Gerard, piacere" mi presento. Lui mi guarda ancora un po',
come ad esaminarmi.
"Frank" dice semplicemente, mordendosi un labbro. Sembra parecchio
insicuro, chissà come mai.
"Possiamo essere amici?"
La domanda lo colpisce dritto in faccia; lui sussulta e deglutisce, poi
sbatte ripetutamente le palpebre. Sembra stupefatto, come se non se lo
aspettasse minimamente. Abbozzo un sorriso e cerco di scacciare un po'
dell'ansia che mi ha assalito.
"C-che cosa?" balbetta, gli occhi sgranati e il cuore a mille.
"Se possiamo essere amici. Sì, insomma, hai l'aria
simpatica" gli spiego, arrossendo un po'.
"Ma tu.. tu lo sai chi sono io?" mi domanda di nuovo, mentre lo sguardo
gli si rabbuia leggermente.
"Bhe sì, sei Frank, ci siamo appena presentati" dico,
aggrottando la fronte. Lui sorride e abbozza una risata, poi scuote la
testa e s'inumidisce le labbra. Non capisco, dov'è che
sbaglio? Sembro così stupido?
"Capisco, è per questo che mi consideri ancora normale"
annuisce, sospirando.
"Normale? Sei malato?" domando ingenuamente, arcuando le sopracciglia e contraendo il viso in una smorfia stupita.
Lui ride e mi dedica un sorriso.
"Io sono gay, Gerard" m'informa, senza smettere di sorridermi per un
solo istante.
"Per molti questa è una malattia incurabile" mi spiega,
raccogliendo con la mano una manciata di foglie.
"Ma io non voglio essere il tuo ragazzo, io voglio essere tuo amico"
obietto, senza vedere il problema.
"E se io m'innamorassi di te?" replica, soffiando in alto le foglie e
guardandole roteare.
"Non lo farai, nessuno s'innamora mai di me" rispondo, abbassando il
tono della mia voce mentre pronuncio l'ultima parte della frase.
"C'è sempre una prima volta" mi sorride, malinconico.
"Correrò il rischio, allora" ribatto. Lui alza lo sguardo e
mi osserva. Sembra felice.
"Possiamo essere amici?" ripeto, tendendogli la mano con un gran
sorriso.
"Ne sarei felice" mormora, stringendola forte e guardandomi dritto
negli occhi. Mi viene da arrossire, ma sono contento. Finalmente ho un
amico su cui contare e con cui fare quattro chiacchiere a scuola o il
pomeriggio; uno che ha passato la stessa mia merda e che non si
è ancora rassegnato al destino, proprio come me. Socchiudo
gli occhi e lascio che il calore della sua mano penetri a fondo nella
mia, così grande e ruvida in confronto alla sua, e mi viene
da chiedermi come abbia fatto ad avvicinarmi a lui e anche solo a
rivolgergli la parola. Wow.
Il flashback arrivò improvvisamente e
altrettanto improvvisamente se ne andò, proprio mentre la
bionda finiva di raccontarmi i dettagli del mio incontro con l'altro,
aggiungendoci che le era sembrata una cosa surreale, molto da film e
comunque molto inusuale. Carina, però, o almeno
così l'aveva pensata Frank, che mi aveva invitato a sedermi
con lui e aveva cominciato a conoscermi, piano piano, sentendomi
parlare e guardandomi in faccia, come se dovesse decifrare qualcosa di
segreto nascosto nei miei occhi. Mi aveva sempre fatto una buona
impressione, quel ragazzo, e mi era sembrato terribilmente solo e
abbandonato da tutti, come del resto mi sentivo io, quindi mi era stato
abbastanza facile avvicinarlo e scambiare quattro chiacchiere con lui,
anche se mi metteva un po' in soggezione con la sua gentilezza e il suo
essere sempre buono e disponibile con tutti. Era la persona che sarei
voluto essere e non riceveva abbastanza attenzioni, contando tutte
quelle che dava agli altri, e la cosa mi faceva star male, mi faceva
rodere dentro e più volte avevo desiderato di poter cambiare
qualcosa per lui, perché si meritava solo di essere
circondato da amore, affetto e cure, non da insulti e minacce. Meritava
solo il meglio.
Mi raddrizzai e tornai ad ascoltare la bionda, rimandando le
riflessioni a più tardi, e lei continuò.
"Mi ricordo che rimasi stupita dal vostro incontro e durante questi
anni mi sono chiesta più volte cosa fosse stato a far
scattare la scintilla tra di voi e a farti uscire dal guscio per
diventare suo amico, ma non ho mai trovato una risposta che mi
soddisfacesse appieno. Non che importi più di tanto,
comunque, visto che hai fatto Frank davvero felice e l'hai riempito di
speranza e buoni propositi, con il tuo sorriso e la tua stretta di
mano; per qualche giorno è rimasto come rapito da te, non
parlava d'altro di quanto gli sembrasse bella la vita e di come la
svolta che stava aspettando si fosse davvero avvicinata, era
completamente fuori, in senso positivo ovviamente. E' come se tu, con
il tuo arrivo, avessi cambiato totalmente le carte in tavola per lui, e
vedeva la cosa come un'altra opportunità che la vita gli
aveva regalato per riscuotersi e ricominciare da capo, dimenticando
insulti e minacce e lasciandosi alle spalle tutta la merda di cui aveva
sofferto in passato. Eri come un angelo per lui, ogni volta che mi
parlava di te gli brillavano gli occhi e gli si rischiarava il viso,
come se stesse parlando di una qualche apparizione divina, e la sua
felicità non poteva non contagiarti e trascinarti in un
circolo di risate e sorrisi ebeti. Non c'è voluto molto
prima che si rendesse conto che, effettivamente, eri diventato qualcosa
di più di un salvatore per lui e che ti voleva al suo fianco
per tutta la vita, ma come ben sai non c'è mai stata un'alta
concentrazione di bisessuali o omosessuali qui in città, ed
era sicuro che tu fossi etero fino al midollo, quindi taceva e si
limitava a guardarti parlare con le ragazze, desiderando di essere
lì con te e che tu ridessi per una sua battuta. Dopo un paio
di giorni di silenzio è venuto a cercarmi e mi ha convinto a
mettermi con te, sostenendo che fossi l'unica persona che potesse
realmente farti felice, visto che le altre ragazze della scuola erano
troie, vipere o troppo snob per i suoi gusti, e così una
sera ti sono venuta a parlare. Eri ubriaco marcio, lo ero anch'io, e
così è stato facile farti dire di sì
ed 'incastrarti', per così dire, a rimanere al mio fianco
per qualche tempo, almeno finché non avresti trovato le
palle per lasciarmi" disse.
"Non le hai mai trovate" rise poi, scuotendo leggermente la testa.
"Ti ho lasciato io dopo una settimana e mezzo, perché tra
noi non solo non funzionava, ma sembrava destino che non ci potesse
essere più che semplice amicizia, quindi ho risolto il
problema alla radice e ho troncato tutto, con mio grande sollievo. La
tristezza di Frank nel vederci insieme era innegabile, anche se era
sollevato visto che sapeva che non ero una troia e che non avrei
giocato con il tuo cuore, ma lasciarti era la cosa migliore che potessi
fare, sia per me, che per te e che per lui. Non so se te lo ricordi, ma
un giorno ti ho trascinato in un caffè e abbiamo parlato
seriamente, per la prima volta, di te, della tua sessualità
e del tuo rapporto con il moro, che intanto si era fatto molto
più stretto e profondo, fino al punto di rischiare
d'escludermi da tutto. Non ce l'avevo con te, sia chiaro, ma volevo
sapere a che gioco giocassi quando parlavi col mio migliore amico e lo
riempivi di complimenti e parole di conforto, illudendolo che forse tra
voi due poteva anche nascere qualcosa di più serio che la
semplice amicizia. Tu sembravi imbarazzato a parlarne, ti torturavi le
mani e lasciavi che il tuo sguardo vagasse da un oggetto all'altro, ma
ti sembrava scortese rifiutarti di rispondere così rimanevi
in silenzio e cercavi le parole giuste, attentamente, senza riuscire a
calmarti minimamente. Avevi l'aria di una preda che vede il fucile del
cacciatore e deve esaminare ogni possibilità di fuga per
scegliere quella migliore e salvarsi la pelle, con la sola differenza
che hai ignorato la via di fuga e mi hai risposto sinceramente,
giocandoti il tutto per tutto e tenendo la testa alta tutto il
tempo, mentre mi confidavi che, in realtà, anche tu vedevi
il moro come qualcosa di più importante di un semplice amico
ma che non te la sentivi di dirglielo perché avresti
rovinato la vostra amicizia e causato un bel po' di casini.
L'espressione che hai fatto nel sapere che anche per Frank era
così era impagabile: credo di aver visto poche volte una
persona così felice e realizzata in tutta la mia
vita, il tuo sorriso partiva da un orecchio all'altro e tutto
il tuo viso sembrava brillare di luce propria, mentre mi ascoltavi e
realizzavi che c'era una speranza per voi due e che per una volta
sarebbe andato tutto bene, finalmente" sorrise, strapazzandomi una
guancia.
"Siete stati insieme per un bel po', effettivamente; siete stati una di
quelle coppie che sembrano destinate a non separarsi mai, e sarebbe
stato sicuramente così se non fosse successo.. beh,
quell'incidente. Frank aveva la passione di fotografare tutto, dalla
prima all'ultima cazzata, e riempiva chiunque di scatti improvvisi, che
poi si teneva per se e portava a sviluppare una o due volte al mese
giù al negozio di macchine fotografiche, e un giorno aveva
deciso di andare su al bosco a fare qualche foto agli uccelli e alla
natura in generale per ampliare la sua collezione. Quale occasione
migliore per fare un pic-nic romantico con il proprio ragazzo, lontano
dagli occhi indiscreti degli altri e dagli insulti di qualche cretino
senza cervello? Ha preparato i dettagli, ti ha chiamato e vi siete
avviati su al greppo; avete camminato per un paio di chilometri, avete
scelto un bel posto e vi siete accampati lì. Ha fatto
qualche scatto, suppongo, poi avete cominciato a sistemare tutto e a
tirare fuori il cibo dal cestino, ridendo e scherzando come al solito,
poi probabilmente vi siete baciati, visto che profumavi leggermente di
lui. Quello che è accaduto dopo è solo una
supposizione adottata da tutti, supportata dal referto del medico del
paese e dalla tua perdita parziale di memoria, che ti permetteva di
avere strani incubi e sprazzi di ricordi, che però nessuno
riusciva ad identificare come reali o immaginari e che quindi sono
stati considerati una testimonianza non molto attendibile."
Storse la bocca ed assunse un'aria seria, guardandomi. Aveva lo sguardo
velato di malinconia e rievocare quei fatti doveva farla star particolarmente male, ma
voleva andare fino in fondo e rendermi partecipe di tutto quello che
era successo.
"Non si sa esattamente cosa steste facendo, ma a un certo punto
è arrivato qualcuno, molto probabilmente un uomo vista la
forza con cui ti ha colpito, che ti ha steso e si è portato
via il moro, facendo perdere le sue tracce dopo un paio di metri e
lasciandoci senza il minimo indizio. Abbiamo setacciato il bosco e il
territorio circostante per giorni, senza tregua e senza perdere la
speranza, ma l'intera città brancolava nel buio
più completo e dopo una settimana abbiamo dovuto arrenderci
e darlo definitivamente per disperso, nonostante tutti i nostri sforzi.
Io e un altro gruppo di ragazzi abbiamo continuato a cercarlo per
giorni, anche dopo che il sindaco aveva annunciato di rimanere a casa,
interrompere le ricerche e tenerci al sicuro, ma non è mai
saltato fuori nulla e ci stavamo disperando tutti. Il momento peggiore
è stato quando sei uscito dal coma e mi hai domandato dove
fosse Frank, come stesse e perché non fosse venuto a
trovarti neanche una volta quand'eri all'ospedale, visto che di solito
lo faceva sempre. L'hai domandato in un modo così puro e
ingenuo che sono scoppiata a piangere istantaneamente e ti ho
indirizzato verso la casa dei suoi genitori, perché proprio
non ce la facevo a spiegarti gli avvenimenti e dirti che non eravamo
riusciti a cavare un ragno dal buco, sebbene avessimo passato giorni e
notti a scandagliare ogni angolo del bosco. Tu non capivi, mi hai
domandato se avessi avuto una brutta giornata o qualcosa del genere e
io mi sono sentita la peggio merda del pianeta nel negare tutto, ma non
ce la facevo proprio ad affrontare l'argomento, soprattutto con una
persona coinvolta come te. Vedere le tue bende insanguinate mi faceva
attorcigliare lo stomaco e desiderare di essere io quella morta, ma non
era possibile e potevo solo resistere, sperare e continuare a cercarlo,
senza mai darmi per vinta. Ti ho pregato di andare da sua madre, di
farlo per favore, e tu hai annuito, mi hai salutato con un abbraccio e
ti sei incamminato verso la loro villetta con la testa tra le nuvole e
un brutto presentimento nel petto, ma senza comunque tremare o cercare
di rimandare la cosa. Hai bussato da lei, le hai parlato e.." le
partì la voce.
"E..?" domandai, anche se avevo già vissuto un centinaio di
volte la scena in sogno.
"Ti ha detto che era morto, che non sarebbe tornato più, e
ha cominciato a piangere davanti ai tuoi occhi sgranati e confusi,
mentre le ginocchia ti cedevano e scoppiavi in un pianto disperato,
senza riuscire a capacitarti di quello che era successo e addossandoti
tutte le colpe possibili ed immaginabili. Sentivi il peso del mondo
sulle tue spalle e ti sembrava che tutti t'incolpassero,
così sei scappato nel bosco e ci sei rimasto per due giorni,
mentre tutti quanti ti cercavano e ti chiamavano, preoccupati; ma tu
non li sentivi, eri tormentato dal senso di colpa e dall'immagine
sorridente di Frank, che t'inseguivano nei sogni e nella
realtà, costringendoti a vivere un dormiveglia stancante e
privo di momenti di sollievo, una specie d'inferno situato nella tua
mente che non riuscivi a sconfiggere in alcun modo. Ti abbiamo trovato
di sera, poco prima del tramonto, e ti abbiamo portato in ospedale,
dove ti hanno visitato, reidratato e prestato i primi soccorsi, sotto i
nostri occhi sgomenti e terrorizzati. Nessuno si era accorto che avevi
perso la memoria, il giorno in cui sei scivolato in coma, e quello
è stato uno dei nostri più grandi errori in
assoluto, perché non avevamo neanche pensato di chiederti
come stessi: avevamo insistito su quel pomeriggio e interpretato il tuo
silenzio come una reazione estrema allo shock improvviso, e che non te
la sentivi semplicemente di parlare. Dopo un paio di giorni di calma
forzata è stata indetta un'inchiesta di cui tu eri l'unico
indiziato, che si è però conclusa con
l'archiviazione totale del caso e la rimozione dell'evento dalle tv e
dai giornali locali per rispetto del lutto. Il sindaco ha tenuto un
discorso di condoglianze alla famiglia e ha riconosciuto la tua
inutilità nelle indagini a causa della tua amnesia,
tranquillizzando tutti e assicurando che tutto si sarebbe risolto per
il meglio nel giro di poco tempo; la cittadinanza gli ha creduto ed
è tornata alla propria routine, interrompendo ogni tipo di
ricerca e lasciando che a occuparsi del caso fossero degli agenti
speciali chiamati dall'altra parte dello stato apposta per l'occasione,
di quelli che vengono addestrati proprio per questo tipo di missioni e
in cui tutti ripongono molta fiducia. L'unico problema è che
per un motivo o per l'altro loro non si sono mai presentati qui e non
hanno mai cercato di far luce su questo mistero: se ne sono sbattuti le
palle come tutti gli altri e hanno spedito un foglio con su scritto che
era inutile continuare a cercarlo, perché, sempre che lo
sconosciuto non l'avesse ucciso sul momento, ora come ora il moro
sarebbe morto di disidratazione, assideramento, stenti o percosse. Era
un velato 'smettetela di romperci i maroni, sto poveraccio è
morto e non tornerà mai più a casa, fatevene una
cazzo di ragione e lasciateci in pace', per come la vedo io, ma i
nostri compaesani si sono mostrati soddisfatti e hanno seguito
ciecamente le indicazioni dei militari, senza cercare neanche di
obiettare o insistere sull'argomento. Semplicemente, se ne sono lavati
le mani e hanno addossato la responsibilità a qualcun altro,
per quanto potessero essere toccati da un decesso così
prematuro e brutale, e non hanno mostrato la minima intenzione di
controbattere a una lettera arrivata all'improvviso e scritta da un
branco di persone che non si sono neanche mai avvicinate alla scena del
delitto" pronunciò l'ultima parte della frase con grande
disprezzo, come se avrebbe voluto sputare addosso a quei signori.
"La gente ha cercato di dimenticarsi di tutto e tornare alla sua vita
precedente, ma lasciarsi tutto alle spalle non era poi così
facile come pensava l'intera comunità: erano tutti
sopraffatti dai sensi di colpa e dalla sensazione di aver contribuito a
rendere dolorosa un'esistenza stroncata prematuramente, così
si giravano e rigiravano nei loro letti e passavano ore a pensare a un
modo efficace per far sì che l'anima del ragazzo potesse
continuare a vivere e ridere con loro, come se niente fosse successo.
Dopo qualche giorno, hanno deciso di radunare tutte le sue fotografie e
appenderle nei luoghi pubblici, in modo che chiunque fosse in grado
ammirarle quando voleva; poi hanno tappezzato la città di
sue foto unite a frasi smielate e ipocrite, tipiche di chiunque voglia
fare bella figura sulla folla, e hanno dedicato un'ala del parco a suo
nome, guarda caso quella in cui voi due vi siete conosciuti e in cui ha
ricevuto la sua prima grande soddisfazione. Da far vomitare per il loro
viscidume, vero? La parte più bella è che ancora
oggi credono che sia bastato quello a garantire l'entrata in paradiso
al moro, a renderlo felice e a fargli dimenticare tutte le pene e le
cattiverie che gli hanno riservato fin dall'infanzia senza sentirsi
anche solo minimamente in colpa."
Si pulì le ginocchia dalla polvere, sospirando.
"Però ora, a distanza di anni, l'atmosfera si è
un po' rilassata e tutti ripensano a Frank in modo positivo, se ne
fregano altamente che fosse gay e si sono resi conto degli errori che
hanno commesso nei suoi confronti, se ne pentono e si dispiacciono nel
pensare di aver causato così tante sofferenze in lui. E'
diventato una specie di mascotte per il paese, ma non una di quelle a
cui la gente pensa quando vuole ridere o sentirsi superiore a qualcuno,
una di quelle che ogni volta che la vedi sorridere ti si scioglie il
cuore, una di quelle a cui puoi parlare in ogni momento della giornata,
una di quelle che sai sono davvero sincere e meravigliose, una di
quelle che semplicemente ti rimangono impresse dentro per
l'eternità. Ogni tanto la gente ci chiacchiera, gli racconta
i segreti, si confida con lui e gli chiede consigli, e anche se non
ricevono risposta continuano comunque a farlo, a sorridergli, a
volergli bene e a portare fiori sul campo dove è stato visto
per l'ultima volta, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica. Hanno
costruito una specie di tomba molto carina e ogni pomeriggio qualcuno
passa a spostare i fiori morti, aggiungerne di freschi, sistemare i
regali e lasciare qualche biglietto di ringraziamento o auguri per la
sua permanenza all'aldilà, per poi dedicargli una preghiera
e fargli qualche complimento per una foto che l'ha colpiti in modo
particolare e di cui dovrebbe andare decisamente fiero. Lo trattano
come uno di loro, un vecchio amico che si è preso una
vacanza e che è in viaggio da tanto tempo, ma che comunque
li chiama, s'informa della loro salute e gli augura di fare una bella
vita, spensierata e tranquilla, e che cerca sempre di rubargli un
sorriso in ogni occasione possibile. Man mano che gli anni passano
tutti si affezionano di più a lui e ogni anno viene
organizzata una festa in suo onore, dove si raccolgono dei soldi, dei
dolci e dei regali e glieli si porta come offerte e segni
d'apprezzamento, che vengono poi sostituiti dopo una settimana con
oggetti nuovi e piante più vigorose e piacevoli da vedere.
Insomma, lo viziano a non finire, 'sto santone" sorrise, scuotendo
leggermente la testa. Poi alzò gli occhi verso di me.
"Effettivamente, la fine è meno amara dell'inizio"
commentò.
"Ma non se tieni conto del fatto che ormai Frank è scomparso
da cinque anni" aggiunse mentalmente.
Deglutii e mi passai una mano sul volto, rivedendo la storia nella mia
testa e rabbrividendo sulla parte della sua infanzia, della sua
adolescenza e della sua scomparsa improvvisa e senza motivo.
"Non c'è nessuno che pensa che sia ancora vivo, magari in un
altro stato?" suggerii. Scosse la testa.
"No, nessuno. Frank non era quel tipo di persona, ce l'avrebbe fatto
sapere, e comunque potrebbe benissimo aver perso la memoria e non
ricordarsi più di nessuno di noi, il che sarebbe lo stesso"
spiegò.
"E se fosse ancora prigioniero di quel pazzo?"
"Gee, in cinque anni non abbiamo mai trovato una traccia che
ci lasciasse pensare che Frank fosse ancora in vita, figurati se,
essendo stato catturato e rinchiuso in qualche baita di montagna, sia
riuscito a lasciarci qualche pista da seguire. Non sappiamo
assolutamente nulla di quello che gli è capitato e comunque,
anche se non te lo ricordi, ti sei messo a cercare indizi pure tu,
giorno e notte, senza mai trovare niente d'interessante o rilevante,
quindi riprendere a cercarlo ora sarebbe solo inutile e doloroso per tutti e due, senza contare che sprecheremmo tempo"
concluse, alzandosi in piedi.
"Non lo dico perché non voglio stringerlo tra le braccia
un'ultima volta, ma perché ormai è tardi per fare
qualsiasi cosa al riguardo ed è ora di accettare che ci ha lasciato e
non si farà più vedere in questa vita" si
girò verso lo strapiombo.
"Gli voglio un bene dell'anima, ma credo che la cosa migliore da fare
sia lasciarlo riposare in pace" mormorò, sospirando pesantemente.
"Non è mai troppo tardi per qualcosa, Lindsey" obiettai,
cercando il suo sguardo.
"Sono passati cinque anni, che indizi vuoi trovare ora che ci siano
sfuggiti allora?" mi chiese.
"Non ne ho la minima idea" risposi in tutta sincerità,
scrollando le spalle.
"Ma ho voltato le spalle al mio passato per troppo tempo per buttare
all'aria anche quest'occasione e lasciare tutto a marcire in fondo a un
cassetto. Domani andrò a cercare indizi, con o senza di te"
la informai. Contavo sul fatto che la sua coscienza le avrebbe imposto
di non abbandonarmi e di aiutarmi ancora una volta, e non restai deluso.
"Okay, va bene, vengo con te" acconsentì lei con un sospiro
esasperato e alzando le mani all'aria.
"Grazie davvero" mormorai, abbozzando un sorriso impacciato. Lei
sorrise, addolcita, mi si avvicinò e mi abbracciò
con forza, abbassandosi al mio livello e portando le labbra accanto al
mio orecchio.
"Scavare nel passato ti farà incredibilmente male e sarai
tentato più volte di lasciar perdere tutto e tornartene da
dove sei venuto. Non ti azzardare a farlo o ti spaccherò il
muso" sussurrò, dandomi poi una pacca sulla spalla.
"Non lo farò" la rassicurai, "glielo devo". Lei sorrise e mi
porse una mano.
"Questa è una promessa, signor Way, e non potrai spezzarla
in nessun modo se non con la morte" mi ammonì.
"D'accordo" annuii deciso, mordendomi il labbro. Dopo tutto quello che
aveva passato quel ragazzo non potevo permettermi di tirarmi indietro
proprio nel momento più cruciale e abbandonarlo per la
seconda volta in cinque anni, dopo essermi infilato in qualcosa
più grande di me e di tutto ciò che avevo
conosciuto fino ad allora, che l'aveva inghiottito e trascinato via da
me in modo brutale e insensibile. No, era il mio compito ritrovarlo.
"Andrò fino in fondo, costi quel che costi" affermai,
sforzandomi di sembrare il più sicuro possibile.
"E se non dovessi farcela, sarà solo perché la
morte me l'avrà impedito e mi avrà
trascinato giù agli inferi insieme a chiunque l'abbia fatto
soffrire così tanto. Parola d'onore." Lyn-z sorrise e mi
guardò.
"Benvenuto a bordo, ragazzo" esclamò, poi mi strinse
nuovamente la mano, compiaciuta, come se quello fosse stato solo un
test d'ammissione e tutto dovesse ancora cominciare. La scossi
energicamente.
"Avanti, ora vieni con me; ti devo presentare il team di ricerca. Non
ci siamo mai arresi, in tutti questi anni, e non progettiamo di farlo"
mi confidò, facendomi l'occhiolino. Mi sentii
improvvisamente più sollevato e mi si rischiarò
l'animo, mentre saltavo in macchina con lei e mi allacciavo la cintura,
lanciando la mano fuori dal finestrino e preparandomi all'ennesimo
viaggio in auto. Il passato del moro mi aveva lasciato spaesato e senza
parole, ma proprio per questo mi sentivo in dovere d'indagare e
scoprire ogni singolo dettaglio nascosto dietro la sua strana
sparizione, per riuscire a vendicarlo, in qualche modo, e fare comunque
un po' di luce su quel catastrofico pomeriggio che aveva cambiato le
abitudini di un paese intero. M'incolpavo ancora totalmente di quello
che gli era successo, ma nonostante la fitta alla testa riuscivo a
ragionare abbastanza lucidamente da decidere di fare tutto
ciò che era in mio potere per assicurare una degna sepoltura
a quel povero angelo, costasse quel che costasse. Non mi ero mai
sentito così sicuro in tutta la mia vita, e credo che gran
parte di questa risolutezza mi sia stata mandata dal moro, anche se non
so ancora come. Non m'importava, comunque; le uniche cose su cui dovevo
concentrarmi erano la sua scomparsa e l'anomala mancanza d'indizi, su
cui avrei lavorato poche ore dopo e di cui non mi sarei più
scordato per tutta la vita. Dio, Frank, cosa ti è successo?
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
"Gerard?" mi si avvicina
barcollante e io mi volto a guardarlo, rincuorato.
"Buongiorno, bell'addormentato" sorrido.
"Dormito bene?" gli domando quindi. Annuisce, si accoccola dolcemente sul mio
grembo e posa la testa sul mio petto, trovando una posizione comoda.
"Fatto bei sogni?" insisto, baciandogli dolcemente la fronte.
"Credo di sì, non me li ricordo bene" mormora, stringendosi
più forte contro di me. Sorrido sotto i baffi e gli
accarezzo i capelli, spostandoglieli dal viso e sistemandoglieli per
bene dietro le orecchie.
"Basta che tu non abbia fatto incubi" sussurro, facendo ciondolare una
ciocca di capelli sulla sua faccia mezza addormentata. Se la soffia via
e mi bacia delicatamente sul mento, poi rimaniamo in silenzio per un
po', ad ascoltare ognuno il respiro flebile dell'altro.
"Hai mai pensato al nostro futuro, Gee?" mi chiede tutto d'un tratto,
alzando gli occhi per guardarmi.
"Onestamente no, preferisco vivere il presente e lasciare che il resto
si costruisca da se" ammetto semplicemente con una scrollata di spalle,
poi mi concentro su di lui e socchiudo gli occhi.
"Anche perché so che ti amerò per sempre, e
finché staremo insieme tutto andrà bene. L'unica
cosa di cui m'importa sei tu, honey, tienilo a mente" gli confido,
sporgendomi in avanti per baciargli il naso.
"Ti amo" gongola soddisfatto, facendo una delle sue smorfie carine e
stringendo la mia mano nella sua.
"Però io dicevo sul serio; voglio dire, dopo la scuola
dovremo pur fare qualcosa e ormai manca poco al diploma, quindi tanto
vale cominciare a pensarci e creare un piano" mi spiega, giocando coi
miei capelli.
"C'è un posto in particolare che t'interesserebbe? Non so,
potremmo andare tipo in California, lì c'è una
gran varietà di paesaggi e sarebbe comodo per te e le tue
fotografie; oppure si potrebbe organizzare un viaggio nel vecchio
continente e passare dai fiordi norvegesi ai parchi nazionali italiani
e poi di nuovo alle isole greche, non saprei. C'è tanta
scelta, no?" comincio a proporre, arricciando le sopracciglia.
"Potrebbe anche essere un'idea, ma non dobbiamo organizzare qualcosa di
utile e interessante solo per me, dobbiamo anche concentrarci sui tuoi,
di bisogni" obietta, accarezzandomi la guancia.
"In questo caso faremo anche una tappa in ogni bar delle
città che visiteremo, così potrò
assaggiare e confrontare ogni caffé del mondo" scherzo. Mi
dà una leggera pacca sulla spalla e smentisco tutto.
"Però, seriamente, non ti preoccupare; a me basta star
vicino a te per essere in paradiso" lo tranquillizzo.
"Amoore" si scioglie lui, arrossendo e mordendosi un dito. Gli bacio la
fronte e gli accarezzo i capelli.
"Davvero, non ti preoccupare di nulla, assolutamente. Mi basta stare al
tuo fianco per star bene e sarei solo felice di accompagnarti a far
foto in qualche angolo sperduto del pianeta, davvero"
"Sì, però--" cerca di obiettare, tirandosi su a
sedere.
"Non si accettano però, babe. A me va bene tutto, se fa
piacere a te" lo blocco, sorridendo.
"Abbiamo ancora qualche mese per pensarci, comunque, vedrai che
troveremo qualcosa di bello e a poco prezzo che soddisferà
entrambi. E se così non fosse gireremo il paese a bordo di
un camioncino, non c'è assolutamente problema; sarebbe figo,
anzi" aggiungo, strapazzandogli la guancia. Lui sorride sornionamente e
mi bacia a stampo, contento.
"Grazie, Gerard" sussurra.
"Di niente" ribatto, baciandolo di nuovo. Vederlo felice mi fa bene al
cuore.
"Gerard! Ehi!" Stavolta la voce non era quella soffice del
mio ragazzo, ma quella decisa della bionda, che mi stava scuotendo
delicatamente la spalla da una decina di minuti nel vano tentativo di
svegliarmi.
"Ehi bello, siamo arrivati, ti decidi ad aprire gli occhi?"
sbuffò esasperata.
"Dai, sono tre ore che ti chiamo, Ray e gli altri s'incazzeranno di
brutto se tardiamo ancora" piagnucolò. Aprii un occhio e la
guardai, portandomi una mano alla testa e mugugnando qualcosa.
"Dove.. dove siamo?" mormorai, scrocchiandomi le ossa del collo.
"A casa mia, devi scendere dall'auto" mi spiegò lei, facendo
addolcire improvvisamente il suo tono.
"E' da tanto che mi chiami?" domandai, stiracchiandomi e saltando
goffamente fuori dalla macchina.
"Direi! Hai un sonno pesantissimo, ragazzo mio, stavo cominciando a
perdere le speranze e a considerare l'idea di rimandare tutto a domani
mattina!" esclamò, agitando le braccia nell'aria per
metterci più enfasi. Risi sotto i baffi e lei sorrise,
ricomponendosi, poi m'indicò la porta con il pollice e ci
avviammo verso l'entrata, mentre io mi guardavo intorno e cercavo di
riconoscere il posto. Armeggiò un paio di minuti con le
chiavi e aprì la porta con una spallata decisa, andando a
ripescare in un barattolo delle altre chiavi e ficcandosele in tasca,
tornando poi da me, prendendomi per mano e trascinandomi in cucina con
lei.
"Guarda bene queste chiavi, roscio, perché sono di vitale
importanza e non dovrai perderle mai, mai e ancora mai, e se lo farai
ti ritroverai nella merda più completa" me le
mostrò e me le chiuse nel palmo, avviando poi la mano verso
la mia tasca e facendocele scivolare delicatamente dentro. La guardai
in silenzio e mi limitai ad annuire, chiedendomi a che cosa potessero
servire ma senza avere il coraggio per chiederglielo.
"Servono ad aprire il nostro rifugio segreto" mi spiegò lei,
come se avesse letto i miei pensieri, spostandosi da una parte
all'altra della stanza e spalancando tutte le ante degli armadi alla
ricerca di chissà cosa, poi si fermò un attimo e
si voltò verso di me, togliendosi una matita dalla bocca e
inumidendosi le labbra.
"Seriamente, se le perdi siamo tutti fritti. Te ne farò fare
una copia, ma nessuno deve sapere del rifugio e nessuno deve entrare in
possesso delle chiavi, okay? Ne va della tua stessa
incolumità" sottolineò.
"Che cosa intendi?" domandai, senza capire tutta quella preoccupazione.
"Intendo che gli unici di cui puoi fidarti siamo noi, ragazzo mio, e
che se fai un passo falso finiremo tutti nei guai, senza la minima
possibilità di poterci salvare la pelle. Non so te, ma io ci
tengo a star bene e a continuare le indagini in gran segreto, senza che
l'intera cittadinanza ci stia alle costole"
commentò, con un tono deciso e professionale che avevo
sentito davvero poche volte prima d'allora. Annuii, deglutendo.
"E' davvero così pericoloso?" domandai. Lei si
fermò di nuovo e si voltò verso di me.
"Terribilmente pericoloso" mi corresse, ferma e seria.
"Stiamo andando contro la legge, bello, tienilo a mente" mi fece
notare, tornando a trafficare freneticamente con gli sportelli.
"Ora muoviti e dammi una mano a trovare un pacchetto di fiammiferi,
prima che torni mia madre e cominci ad assalirti di domande e moine del
cazzo" ordinò con aria pratica, indicando il salotto col
capo e sbattendo le ultime ante, preparandosi quindi a setacciare
un'altra stanza. Aprii un paio di cassetti e spostai i cuscini verdi
del divano, ma la mia mente non era davvero collegata al mio corpo e
non riuscivo a comprendere fino in fondo le mie azioni, ero troppo
concentrato su quell'ultimo sogno e su quello che mi aveva detto prima
la ragazza per prestare attenzione a qualcosa che non fosse l'immagine
sorridente del moro. Ci rimuginai su un attimo e mi domandai se fosse
davvero morto o se si stesse solo nascondendo da tutto e tutti, stufo
di avere a che fare con quella massa d'idioti violenti ed omofobi. Se
fosse stato così non avrei potuto biasimarlo, in effetti, ma
mi sarebbe dispiaciuto sapere che si era dimenticato così
facilmente di me e che alla fin fine non significavo molto per lui,
quindi mi ero autoconvinto del fatto che dovesse essere prigioniero di
qualche maniaco nei dintorni e che gli venissero concesse solo un paio
d'ore d'aria a settimana, e che per questo non era mai riuscito a
contattarci e farci sapere che andava tutto bene, nonostante tutto.
Sì, doveva essere così; da qualche parte dentro
di me c'era qualcosa che continuava a ripetermi che tutto si sarebbe
concluso per il meglio e ignorare quella voce era semplicemente troppo
difficile e doloroso da fare, quindi continuavo a sperare e a credere
che, da qualche parte, il mio ragazzo fosse ancora vivo e vegeto,
rinchiuso in qualche cantina da un pazzo sadico e senza cuore. Sbattei
un cassetto con forza e feci tintinnare le chiavi contro il mio
cellulare, sovrappensiero, e solo allora mi resi conto di avere un
pacco di fiammiferi proprio sotto gli occhi. Alzai lo sguardo al cielo
ed andai a cercare la mia amica, chiamandola a gran voce e
attraversando la sala a grandi passi, le passai la scatola, la guardai
infilarsela in tasca e mi avviai nuovamente verso l'auto, accellerando
l'andatura man mano che mi avvicinavo al mezzo. Non so
perché ma avevo un brutto presentimento. Mi schiaffai
bruscamente sul sedile e mi allacciai la cintura di sicurezza, mentre
la bionda seguiva il mio esempio e metteva in moto l'automobile,
procedendo in retromarcia e imboccando poi la strada che portava verso
la montagna, dalla quale passavano quattro persone ogni morte di papa e
che quindi era la scelta più sicura. Tamburellò
con le dita sul volante, poi mi guardò.
"Vedi, roscio, in questa città tutti fanno la spia con
tutti, quindi bisogna fare tutto di nascosto e con la massima cautela
se non si vuole che entro tre secondi tutto il mondo lo sappia e venga
a metterti i bastoni tra le ruote; per questo abbiamo posto la base su
nel bosco, lontano dagli sguardi indiscreti degli altri e in un punto
troppo remoto e scomodo da raggiungere per qualcuno che vuole solo fare
una passeggiatina per smaltire un pranzo troppo pesante" mi
spiegò, indicando la collina col capo.
"Da qui la base non si vede, ma non viceversa: quel posto si
può paragonare a una specie di osservatorio segreto, tipo
uno di quei doppi specchi da interrogatorio che permettono ai
poliziotti di osservare tutto ciò che accade al di
là del vetro ma che i detenuti vedono come un semplice
specchio un po' opaco" assunse un'aria soddisfatta e annuì
quasi impercettibilmente, mentre s'immaginava la scena.
"Sono piuttosto fiera di quel posto, a esser sinceri, e appena lo
vedrai sarai costretto a convenire con me, è una figata pura
e organizzata nei minimi dettagli, sembra uscita da un film"
gongolò, compiaciuta.
"Comunque è inutile parlartene ora, la vedrai da te tra
pochi minuti" concluse, stringendo le mani attorno al volante e
schiacciando il pedale dell'acceleratore, spalancando i finestrini con
un'espressione di libera felicità. Guidava al di sopra del
limite di parecchi chilometri orari, ma il suo controllo del mezzo era
impressionante, da far invidia ai piloti di professione, e riusciva non
solo a prendere bene tutte le curve, ma anche a non far sbandare l'auto
o a farla finire sul praticello accanto alla strada, come se fosse nata
per condurre in quel modo esagerato e pericoloso. Sfrecciava a una
velocità decisamente elevata sull'asfalto con la stessa
naturalezza con cui si allacciava le scarpe scendendo dal letto la
mattina, seriamente. Tenni gli occhi strizzati per tutto il tempo,
mentre lei guidava come una pazza e si lanciava verso il sentiero che
ci avrebbe portato fin sopra la montagna con una nonchalance da paura,
macinando sempre più chilometri e facendomi immaginare le
morti da incidente più sanguinolente e dolorose possibili.
Insomma, quando ci fermammo non potei evitare di sentirmi benedetto per
essere acora vivo e di abbracciare il primo albero che incontrai,
mentre lei esibiva la sua risata cristallina e mi tranquillizzava,
dicendo che le prime volte che la gente veniva a bordo con lei finiva
sempre così perché non erano abituati alla sua
guida spericolata e al percorso accidentato. Mi mise una mano sulla
spalla e mi fece segno di seguirla attraverso la foresta, superammo un
gruppo di sassi ricoperti da licheni, spostammo delle frasche di mezzo
e ci liberammo la visuale da cespugli, rami e natura varia, scoprendo
un tombino di cemento grande più o meno un metro e mezzo e
pulendolo dagli aghi di pino. Lindsey mi mostrò la serratura
ed inserì la chiave, la girò in senso orario e
sollevò il coperchio, che si aprì con un cigolio
appena udibile e si rivelò molto meno pesante di quanto
avessi inizialmente pensato nel vederlo. Una manciata di minuti dopo
eravamo già all'interno del rifugio, scavato nella roccia e
riempito di attrezzi, scartoffie e integratori alimentari, ai piedi di
una scaletta di metallo grigio, faccia a faccia con quattro ragazzi che
ricoprivano varie fasce d'età e sembravano piuttosto
contenti di vedermi lì con loro e sapermi tornato al nido.
"Gerard!" esclamò uno, venendomi incontro e tendendomi la
mano, raggiante.
"Dio, quanto tempo è passato! Io sono Steve, il fidanzato di
quell'arpia là" si presentò, indicando la bionda
con un dito nodoso.
"Bentornato tra noi, ragazzo, sono anni che ti aspettiamo" concluse.
Abbozzai un sorriso impacciato.
"Io sono Ray, invece" mi disse un ragazzo con dei capelli ricci da
paura, sui quali mi soffermai a lungo.
"Columbia, piacere" si presentò quindi una ragazza mora e
riccia dall'aria eccentrica.
"James" si limitò a dire l'ultimo ragazzo, uno stecco con
una cresta rosa molto figa e piuttosto inusuale. Così, a
primo impatto, mi piacevano tutti e mi sentii sollevato nel sapere che
potevo contare su delle persone fuori dal comune e aperte al nuovo,
completamente diverse dall'ambiente con cui mi ero sempre scontrato
fino ad allora. Strinsi la mano a tutti quanti e sorrisi vivacemente,
loro ricambiarono e m'illustrarono un paio di dettagli sulla base, su
come arrivarci, su come evitare le trappole, su come comportarsi quando
pioveva e su come fargli sapere che mi trovavo al suo interno senza
attirare troppa attenzione. Rimasi stupito dalla cura che ci mettevano
e non riuscii ad evitare di sentirmi felice e soddisfatto nel
realizzare che facevano tutto quello per ritrovare il moro e riportarlo
a casa tra le loro braccia, quando invece avrebbero potuto lavarsene le
mani e lasciare che la faccenda venisse dimenticata e archiviata tra i
casi senza speranza, come avevano suggerito di fare in precedenza i
militari. Insomma, erano degli amici nel vero senso della parola, di
quelli che non ti abbandonano neanche nei momenti più
difficili e che non smettono di supportarti neanche se dovesse
costargli una fatica immensa e senza fine. Fui davvero felice di averli
conosciuti.
"Dì un po', roscio, conosci già la storia?" mi
domandò lo stecco. Annuii.
"Perfetto, allora possiamo passare alla parte successiva del piano"
borbottò, frugando fra le carte.
"Ah, eccola" esclamò, prendendone una da sotto una tazza di
caffé e passandomela.
"Guarda, questa è la nostra città, qui ci
troviamo noi e questi segni rossi sono tutti i punti in cui abbiamo
scavato alla ricerca di tombe o indizi nascosti. In questa parte del
bosco, – mi spiegò, indicandola con la punta del
dito – non siamo mai
riusciti a inoltrarci, a causa di una recinzione alta più o
meno quanto un barile di olive sott'olio. E' forse la parte
più sospetta dell'intera zona, ma finché rimane
proprietà privata non possiamo assolutamente metterci piede,
soprattutto perché non siamo sicuri della
quantità di telecamere presenti e del sistema di sicurezza
che i proprietari hanno adottato. Visto che agiamo già
contro la legge, penserai che la cosa non debba interessarci
più di tanto, ma è proprio qui che ti sbagli: se
vogliamo continuare con le indagini, è essenziale attirare
su di noi la minore attenzione possibile ed essere sempre allerta,
evitando le situazioni troppo rischiose o sgamabili, e quella zona
rappresenta la sgamabilità fatta persona; quindi non solo
non possiamo avventurarci al suo interno, ma neanche camminare attorno
al recinto per scoprirne i punti deboli. Il che è un bel
problema, considerato che nessuno ci ha sicuramente condotto alcuna
ricerca, no? Come fare a eludere l'ostacolo, senza attirare attenzione
e senza venir scoperti? La risposta è tra le più
semplici in assoluto e trovarla è stato facile come bere un
bicchier d'acqua, dopo aver eliminato tutte le altre ipotesi possibili:
sarai tu a farlo, tenendoti in contatto con noi con un auricolare e
fingendo di esserti perso durante una camminata esplorativa. Il tuo
alibi reggerebbe perfettamente: il ragazzo senza memoria va in
giro a passeggiare per i boschi, alla ricerca di qualcosa che possa
aiutarlo a ricordare qualcosa, si avventura troppo nella foresta e
perde la strada, quindi trova il recinto e decide di seguirlo fino alla
fine per poi chiedere aiuto ai proprietari e farsi riportare a casa.
Quello che i proprietari non sapranno, e che neanche l'eventuale
polizia scoprirà, è che tu avrai addosso una
microspia attraverso la quale noi spieremo i tuoi movimenti, annoteremo
ogni dettaglio riguardante l'area e, in pratica, ci muoveremo con te.
Potremo parlarti, in caso di bisogno, ma qualsiasi cosa accada tu devi
rimanere zitto e fingere di non poterci sentire, in modo da non far
preoccupare la gente dietro le telecamere e in modo da non destare
alcun sospetto nei padroni di casa, quando li incontrerai. La microspia
avrà l'aspetto di un ipod, tu t'infilerai le cuffie e
attraverso un complesso sistema di circuiti riuscirai a sentire le
nostre voci e a farci vedere la scena come se fossi tu a guardare.
Ingegnoso, vero?" si complimentò da solo, gongolando un
attimo prima di passarmi l'oggetto e guardarmi mentre me lo sistemavo
tranquillamente in tasca.
"Non abbiamo ancora deciso quando tentare l'operazione, ma in caso
dovesse prender luogo prima della tua partenza, tu ti proporresti e
rischieresti con noi?" mi domandò con tono serio.
"Puoi contarci" lo tranquillizzai, annuendo con aria professionale e
decisa.
"Perfetto allora" sorrise, abbozzando un sorriso.
"Benvenuto a bordo, Gerard."
Nel frattempo, giù al paese la notizia del ritorno di Gerard
era passata di bocca in bocca fino a raggiungere le orecchie di tutta
la popolazione, ora radunata al bar davanti a un bel boccale di birra e
intenta a discutere sul da farsi. Avrebbero dovuto mostrare compassione
per lui, essere gentili e cordiali, fargli capire che gli volevano
ancora bene, oppure avrebbero dovuto trattarlo malamente e con
scortesia, sgambettarlo di proposito ed evitare addirittura di
rivolgergli la parola? Da una parte, la comunità non lo
riteneva colpevole per la scomparsa della mascotte, ma dall'altra chi
altri poteva averlo fatto, se le sole tracce rilevate erano le loro?
"Secondo me dobbiamo steccarlo prima che inquini le acque"
affermò una voce roca e profonda. Un paio di occhi si
girarono a squadrarlo, pendendo letteralmente dalle sue labbra per una
spiegazione leggermente più esaudiente.
"Se tornasse la polizia, noi che ci guadagneremmo, a parte un calo di
clienti e un sacco di ficcanaso in giro per la città?"
riprese, esponendo la situazione in modo convincente e puntando
immediatamente al piano economico.
"Vi ricordate com'erano stati i primi, no? Scortesi, sporchi, rozzi,
senza il minimo concetto di gradevolezza e rispetto per delle persone
che hanno appena subito un lutto e vogliono tornare alla propria vita.
Se tornassero a ''investigare'' non ci guadagnerebbe nessuno, visto che
ormai il ragazzo è perso – e qui si fece
mestamente il segno della croce, indirizzando una preghiera alla foto
che pendeva dal soffitto e deglutendo visibilmente – e gli indizi sono
stati cancellati dal tempo, dagli agenti atmosferici e dagli
investigatori stessi, durante i primi mesi di ricerca. Siamo stati
gentili, abbiamo sopportato le loro mancanze e abbiamo ignorato il loro
basso livello di civiltà per tutto il tempo che sono rimasti
qua, ma sono sicuro che riavere tra noi quella gentaglia non
è la cosa migliore per nessuno, specialmente per la
città e per la sua fama. Chi volete che venga a visitare un
paesino invaso dai militari, chi si ferma ad alloggiare in un luogo in
cui tutto è sigillato dai divieti della contea, chi prova
anche solo ad avvicinarsi a un posto in cui operano indisturbate le
forze dell'ordine, incuranti di trattare gli altri con rispetto e
dignità? Per me, dovremmo risolvere il problema alla radice"
ribadì, alzando lo sguardo.
"Hai anche ragione, vecchio mio, ma come giustificheremmo i nostri
comportamenti?" obiettò uno.
"Non dovremo farlo, e, se si presentasse l'occasione, potremo anche
dire che lo facciamo per il suo bene, per chiudere la ferita che quel
ragazzino ha lasciato nel nostro povero cuore" rispose, tranquillo.
"Forse dovremmo limitarci a non assecondarlo e basta" propose una
vecchietta.
"Voglio dire, rispondergli, sì, ma in modo confuso e
superficiale, in modo che decida da solo di lasciar perdere le indagini
e di archiviare tutto" si spiegò meglio. Qualcuno
annuì e qualcuno applaudì.
"Effettivamente, è più sicuro" ammise il primo a
parlare, abbozzando un sorriso di circostanza.
"Ma sappiate che da me non riceverà risposte"
ammonì, sistemandosi la giacca, posando il boccale sul
bancone e uscendo in silenzio dalla sala, senza attirare l'attenzione
di molti. La riunione si concluse pochi minuti dopo e i
cittadini considerarono soddisfacente l'ultima proposta fatta,
pagarono, sistemarono la stanza e uscirono, senza fretta, dirigendosi
ognuno verso il proprio luogo di lavoro, con un'aria un po'
più rassicurata. Ora sapevano come affrontare degnamente il
ritorno di Gerard Way.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Ci vollero una quindicina di
minuti circa per venire a conoscenza di tutto quello che avevano
rinvenuto negli anni, delle loro strategie, dei pericoli che correvano,
di ciò che dovevano assolutamente evitare, di quello a cui
dovevo prestare particolare attenzione e della maniera in cui dovevo
comportarmi per restare il più possibile nell'ombra e
rimanere al sicuro. Alla fin fine, fui costretto ad ammettere che si
erano organizzati davvero bene e che avevano pensato a tutto prima di
lanciarsi a capofitto nella sfida, e fui invaso da un improvviso senso
di ammirazione e commozione nei loro confronti che aumentò
giorno dopo giorno.
"Gerard, vieni un po' qua" mi chiamò il riccio,
costringendomi ad abbandonare la mia postazione.
"Cosa c'è?" domandai, sporgendomi e guardando oltre la sua
spalla.
"Sta succedendo qualcosa giù in paese" mi spiegò,
assumendo un'aria corrucciata.
"Probabilmente stanno parlando del tuo ritorno e stanno architettando
qualcosa come loro solito. Tra di loro c'è ancora qualcuno
profondamente convinto che sia stato tu a rapire e uccidere il moro,
seppellendo poi il suo cadavere e pianificando in modo perfetto una
specie di macchina che ti avrebbe fatto cadere in coma per distogliere
da te gli occhi della polizia. Sono delle supposizioni che non reggono,
ovviamente, e non sono molti quelli che le sostengono, ma
c'è comunque il rischio che prendano di nuovo il sopravvento
sulla cittadinanza e che ti facciano passare delle situazioni
spiacevoli" storse la bocca.
"Vedrò di andare a impicciarmi e cercare di carpire qualche
voce, ma per ora è meglio che tu non scenda in paese a meno
che non sia strettamente necessario, okay?" m'informò,
respirando rumorosamente.
"D'accordo, aspetterò un tuo segnale" annuii, inumidendomi
le labbra.
"Ah già, a proposito, c'è ancora una cosa che
devo darti" esclamò, dirigendosi verso l'armadio.
"Usa questo per comunicare con noi, è più sicuro
ed è difficile da intercettare, visto che nessuno si mette
mai ad ascoltare la radio e ad armeggiare tra le frequenze" mi
spiegò, passandomi un walkie-talkie.
"E in caso tu te lo stia domandando, no, questo non è uno di
quei ricevitori giocattolo che prendono solo per i primi tre metri e
poi perdono ogni segnale" sorrise, leggendomi negli occhi. Arrossii e
abbassai lo sguardo, imbarazzato, lui si massaggiò
allegramente i capelli e si guardò intorno.
"Be', io vado. Tu e gli altri fareste meglio a tornare a casa ora: per
stasera è di nuovo prevista nebbia e con la guida
spericolata di Lindsey.. be', non so se riuscireste ad arrivare oltre
la prima curva" osservò, chinandosi in avanti giusto in
tempo per evitare il libro che la bionda gli aveva lanciato.
"Che sono ste calunnie?" esclamò, incrociando le braccia sul
petto e fingendosi offesa. Ray rise sotto i baffi e ci
salutò con un cenno della mano, si arrampicò
sulla scaletta, si chiuse il portellone alle spalle e si
avviò verso la sua automobile, nascosta qualche chilometro
più a destra. Una quindicina di minuti dopo sentimmo l'eco
del rombo di un motore e ci tranquillizzammo, tornando al nostro lavoro
e in seguito a guardarci in faccia.
"Mi pare di capire che le parole di Ray vi abbiano inquietato un po'.."
borbottò la bionda, rompendo il silenzio con una risata di
circostanza.
"Okay, okay, andiamo, finiremo il lavoro domani" concesse poi, alzando
le mani al cielo con fare teatrale.
"Huh? Non ti preoccupare, Lin, io rimango quindi ancora per un po'. Ho
ancora della roba da finire ed è meglio farlo ora,
così domani posso dedicarmi a qualcos'altro" sorrise James.
"Sei sicuro?" domandò la bionda, aggrottando la fronte.
"Più che sicuro, non preoccuparti. Tanto mia madre
è fuori e non c'è nessuno che mi aspetta per
cena" la tranquillizzò, alzando gli occhi scuri dalla sua
postazione e posandoli sul volto contratto di Lindsey.
"Davvero, non c'è problema, è roba da poco. Voi
andate intanto, o farete stare in ansia qualcuno".
"Hai ragione" annuì la ragazza, scuotendo delicatamente il
capo.
"Se faccio tardi un'altra volta mia madre mi sbrana"
commentò, come se avesse dovuto spiegarmelo.
"Allora a domani, Jay" lo salutò. Lui alzò il
pollice e sfoggiò un gran sorriso, rassicurandoci
notevolmente.
"Non stare alzato troppo a lungo e non strafare, ok?" lo
ammonì nuovamente lei, esitando un attimo prima di salire
sulla scaletta e lasciarselo alle spalle. Lui ribatté con un
okay e tornò al suo lavoro, così raccattammo un
pacchetto di sigarette per me e ce ne andammo, lasciandolo libero di
muoversi come desiderava.
"Di che cosa si sta occupando?" domandai dopo un centinaio di metri,
senza alzare lo sguardo sugli altri.
"Ce lo dirà domani di sicuro, non ti preoccupare. Ho provato
a guardare tra i suoi appunti, una volta, ma non ci si capisce niente
ed ho dovuto lasciar perdere per il bene della mia salute mentale"
rispose Columbia.
"Ha un modo tutto suo d'esprimersi" precisò Steve, che lo
conosceva da più tempo di tutti.
"All'inizio è complicato capirlo, ma dopo un po' ci si fa
l'abitudine e viene spontaneo leggere nella sua 'lingua'" ci
spiegò con una scrollata di spalle. Mormorai un 'capisco' e
cadde di nuovo il silenzio. La notte stava calando velocemente e noi
avevamo appena raggiunto l'auto quando sentimmo il primo urlo.
"Che cos'è stato?" domandò la riccia,
impallidendo.
"P-proveniva dal laboratorio" disse lo stecco con un filo di voce.
"Ommioddio" realizzò Lindsey, sgranando gli occhi e
cominciando subito a correre. La seguii a ruota e corsi il
più velocemente possibile, scansando rami e rovi con le mani
ed ignorando il sangue che aveva cominciato a scorrervi sopra, cercando
solo di non rimanere troppo indietro e di riuscire ad arrivare al
rifugio assieme a lei.
"James? Jimmy, dove sei?" gridò appena arrivata, fermandosi
davanti all'entrata per riprendere fiato. La porta di cemento era
spostata, segno che qualcuno era uscito di fretta senza curarsi di
rimetterla a posto, e da dentro non proveniva il minimo rumore, sebbene
la luce fosse ancora accesa. Lindsey inorridì e il suo viso
si sbiancò improvvisamente, sostituendo il colorito
rossastro che l'aveva avvolta subito dopo la corsa.
"Jaaaaames" lo chiamò di nuovo con tutto il fiato che aveva
in gola, mentre gli altri ci raggiungevano e si guardavano intorno
con occhi sbarrati e terrorizzati.
"Voi andate di là, io lo cercherò da questa
parte" esclamò quindi, partendo alla sua ricerca e correndo
a rotta di collo giù per la foresta, seguendo una delle due
flebili tracce che nascevano accanto al rifugio. Scattai subito dopo di
lei e cercai di seguirla, intuendo che lasciarla da sola non era
affatto sicuro, ma il mio abbigliamento e la mia scarsa
atleticità rendevano difficile starle dietro, aggiungendo
anche il fatto che vedevo quei boschi come se fosse la prima volta e
che quindi non conoscevo tutte le scorciatoie che stava imboccando lei.
Sentivo i polmoni bruciarmi sempre più forte e le gambe
farsi sempre più pesanti, mentre la bionda si allontanava a
velocità sempre maggiore e mi lasciava indietro, troppo
concentrata sull'amico per rendersene conto, ma non volevo darmi per
vinto. La rincorsi per un paio di metri, poi inciampai su una radice e
la persi completamente di vista, rimanendo solo e spaesato nel
sottobosco, senza essere capace di tornare indietro o far qualcosa che
non fosse inoltrarmi e perdermi ancora di più tra gli
alberi. Cercai il walkie-talkie nella tasca destra ma la trovai vuota,
realizzando nel terrore che doveva essermi caduto quando ero andato
addosso a una rosa, appena superata la base, quindi mi presi la testa
tra le mani e mi raggomitolai su me stesso, cercando di calmarmi. Tutto
mi sembrava rivolto a uccidermi e le sagome nere dei pini saettavano
sopra di me coi loro aghi verdi, che a causa della penombra mi
sembravano armi affilate e pericolose. Non sono mai stato uno
particolarmente bravo a reggere le situazioni dure e stressanti, quindi
scivolai velocemente nel panico più completo e mi convinsi
presto del fatto che sarei morto lì, che nessuno mi avrebbe
trovato e che sarebbero stati tutti delusi di me, mentre il misterioso
rapitore l'avrebbe fatta franca e se la sarebbe svignata con il
ragazzo, senza tornare mai più sui suoi passi e facendo
perdere completamente le sue tracce. Che poi lui era anche la vittima
perfetta, a causa della sua costituzione secca e magra, e non ci
sarebbero stati problemi per un uomo ben allenato a portarselo sulle
spalle anche per chilometri interi, in salita o discesa che fosse. Mi
turbinarono in mente le parole di Lindsey, sulla difficoltà
e sulla pericolosità delle loro indagini e su quanto sarei
dovuto stare attento per evitare sciagure, e non potei evitare di
sentirmi male e in colpa per la sparizione improvvisa del punk, che in
fin dei conti stava solo cercando di aiutarmi a dimostrarmi innocente
agli occhi dell'intera comunità, convinta della mia
colpevolezza e del fatto che non sarei mai riuscito a liberarmi delle
accuse. Mi venne da vomitare e strinsi più forte gli occhi,
pensando a qualunque cosa che potesse aiutarmi a ricordare, a
tranquillizzarmi, a farmi venire qualche idea o anche semplicemente a
recuperare un po' di energie, giusto quante ne bastavano per riprendere
la corsa e raggiungere la bionda, ormai sparita chissà dove.
Rimasi con la schiena contro un albero, immobile, per una decina di
minuti, poi respirai a fondo e mi rimisi in piedi, pronto a ripartire e
mettercela tutta per ritrovare il mio nuovo amico. Optai per proseguire
verso sinistra, dove la radura si faceva meno fitta e da dove avrei
potuto controllare meglio la zona, per scoprire dove si
trovassero gli altri e, chissà, magari anche dove si fosse
nascosto il rapitore. Ricaricato, cominciai a trottare verso lo spiazzo
circolare, probabilmente creato per far atterrare degli elicotteri, e
salii in cima a una roccia, alzandomi poi sulle punte per poter avere
una visuale più completa della zona e poter scorgere
più facilmente i miei amici. Il buio si faceva notare sempre
di più e faticai a trovarli tutti, ma a parte quello non
rilevai altra traccia, così mi spostai e li raggiunsi,
tenendo gli occhi ben aperti. Dopo un centinaio di metri, scorsi una
sagoma avviarsi verso nord e aggrottai la fronte,
avvicinandomi il più possibile senza fare troppo rumore.
"Lindsey?" la chiamai, quando fui abbastanza vicino da farmi sentire
senza urlare troppo.
"Oddio, ancora tu?" sbuffò quella, irritata, facendo cadere
qualcosa e provocando un tonfo sordo.
"Perché non ti decidi a morire?" sibilò,
raccogliendo qualcosa da terra e tirandomela contro, per poi cominciare
a scappare, imboccando una direzione completamente diversa e ignorando
i rami che le sbattevano contro il volto, graffiandoglielo. Il sasso
lanciato mi beccò dritto in fronte e fui costretto a
fermarmi un attimo per massaggiarmi la testa e asciugarmi il piccolo
rivolo di sangue che ne era uscito, riprendendo a seguire lo
sconosciuto pochi secondi dopo, con velocità maggiore. Corsi
per una decina di metri e mi fermai solo quando inciampai su quello che
la sagoma aveva fatto cadere pesantemente, pochi minuti prima,
sbattendo la testa e perdendo velocemente i sensi.
Fu Columbia a trovarmi, qualche ora dopo. Mi scosse la spalla con
delicatezza e mi chiamò più volte con
apprensione, cercando di scorgere un guizzo di lucidità tra
i miei capelli rossi e pizzicandomi le guance per vedere se ero
sveglio. Storsi la bocca e lei esultò, allontanandosi dalla
mia faccia.
"Dove.. dove sono?" domandai, tirandomi lentamente a sedere e
portandomi una mano alla testa.
"Nel bel mezzo della foresta, devi aver dato una craniata contro
qualcosa" mi spiegò, sollevata.
"Ce la fai a camminare?" chiese quindi, guardandomi silenziosamente
mentre mi alzavo in piedi e muovevo qualche passo incerto a destra e
sinistra. Sorrise e si alzò, mettendosi il mio braccio
attorno alla spalla.
"Dio, svengo sempre nei momenti più importanti.. sono
proprio inutile" sputai, maledicendomi mentalmente.
"Oh no, al contrario" ribatté lei con un sorriso, godendosi
la mia smorfia di stupore.
"Vedi, quello su cui sei inciampato era il corpo di James – mi
spiegò, avviandosi lentamente verso la base – e grazie a te
siamo stati in grado di recuperare entrambi e portare lui in macchina con una camicia stretta attorno alla vita,
visto che perdeva molto sangue. Abbiamo prestato i primi soccorsi e
abbiamo cercato più volte di svegliarlo, ma ho paura che
come te sia entrato in coma e che quindi sarà fuori uso per
un po' di tempo" m'informò, storcendo la bocca.
"Però il coma è sempre meglio della morte, no?
Almeno sappiamo che sta bene e che potrà guarire presto, se
tutto va bene, e che comunque non è finito nelle mani di
quel.." interruppe la frase con sospiro irritato e intuii che si
sentiva tremendamente in colpa, oltre che arrabbiata. In qualche modo
si riteneva responsabile dell'accaduto, proprio come me, e la sentii un
po' più vicina.
"Columbia" mormorai, appoggiando un passo a terra ed esitando un attimo
a proseguire.
"Sì?" rispose lei, fermandosi con me.
"Non è stata colpa tua". Lei rimase in silenzio e
s'inumidì le labbra, abbassando lo sguardo.
"E neanche colpa tua" replicò, abbozzando un sorriso.
"Grazie" sospirai, riprendendo a camminare. Nonostante tutto la
tensione si era un po' allentata e non potei fare a meno di domandarmi
se fosse effettivamente stata colpa mia; voglio dire, torno in
città e incontro delle persone che passano i loro giorni a
cercare indizi su un vecchio caso di scomparsa, e improvvisamente uno
di loro viene rapito e abbandonato appena mi avvicino io, scivolando in
coma. Un po' surreale, no?
"Gerard, Columbia!" ci sentii chiamare, poi la silohuette del castano
sbucò fuori dal bosco e ci raggiunse.
"Allora, roscio, come stai?" mi domandò, prima che il suo
sguardo si scontrasse col mio bernoccolo e con il sangue rappreso che
mi aveva appiccicato i capelli alla faccia.
"Er, male direi" mormorò, spostando poi il braccio
della riccia e prendendomi sulle spalle, rassicurando Columbia con un
sorriso e un 'lascia, faccio io'. Mi adagiai sulla sua schiena e posai
il viso accanto al suo collo fino, mentre lui mi riportava alla
macchina e mi faceva sedere sul sedile accanto a James e alla bionda.
"Dio santo, che cazzo hai fatto alla faccia?" mi domandò
Lindsey, che non mi aveva ancora visto.
"Niente, sono caduto" mentii, sistemandomi meglio accanto a lei.
"Sto molto meglio di quanto sembri, davvero" aggiunsi, sorridendo e
abbassando lo sguardo sul punk.
"E così è un coma anche lui, eh?" borbottai. La
ragazza annuì, accarezzandogli il volto con delicatezza.
"Poteva andarci peggio però" mormorò, chinandosi
in avanti per baciargli i capelli e pulirgli ancora una volta il viso
dal terriccio, tornando poi a guardarmi con un sospiro malinconico.
"Dobbiamo andare fino a fondo a questa storia" affermò,
mordendosi il labbro.
"Prima che sia troppo tardi" rimase solo un pensiero, ma la frase
rimase sospesa nell'aria finché Steve non tornò e
mise in moto l'auto, accendendo per una delle prime volte la radio.
Calò un silenzio di tomba e tutti trattenemmo il respiro il
più possibile mentre lo speaker parlava, blaterando
informazioni inutili sul freddo e sulle festività in arrivo
ma senza accennare minimamente ad alcun criminale evaso di prigione o
qualcosa del genere. Col cuore in gola, il ragazzo
parcheggiò vicino all'ospedale e portò dentro il
nostro amico, mentre la tensione dentro la macchina si faceva a dir
poco insopportabile e ognuno di noi sembrava sul punto di crollare.
"E insomma, siamo qui.." mormorò una delle due ragazze,
guardando per terra e mordicchiandosi il labbro. Mi alzai in piedi di
scatto e uscii fuori dalla vettura, sbattendo la portiera e inondando i
miei polmoni d'aria fresca, espirando lentamente e dirigendomi poi
verso la fontanella più vicina. Mi lavai per bene la faccia
e mi scrostai i capelli dal sangue rappreso, pulendoli pian piano
ciocca per ciocca, poi li strizzai e scrollai la testa a mo' di cane,
in modo da rimuovere tutta l'acqua possibile e ridurre di un po' le
possibilità di prendermi un malanno. A quel punto mi
asciugai le mani sui pantaloni, controllai di avere il portafoglio e mi
diressi verso il supermercato; entrai tenendo lo sguardo basso, buttai
un paio di cose nel carrello e pagai, andandomene poi altrettanto
velocemente. Rovesciai le buste sul cofano dell'auto, agguantai il
disinfettante e ne versai un po' su un pezzo di cotone, quindi mi pulii
meglio le ferite, serrando i denti per il dolore, e tenni premuto il
batuffolo puzzolente contro la carne per un po' di minuti,
finché il pizzicorio diminuì notevolmente. Presi
la scatola delle garze, l'aprii e ne srotolai una, la tagliai coi denti
e me la sistemai sulla mano, fissandola con un nodo, poi feci la stessa
cosa sull'altra mano e aprii e chiusi i pugni, per vedere quanto
potessi muoverle. Ignorando il bruciare, presi un cerotto abbastanza
grande e me lo sistemai sulla fronte, coprendo il taglio e parte del
livido, quindi rimisi tutto nella busta e aprii la portiera, rientrando
in macchina sotto gli sguardi sbarrati delle due ragazze.
"Gerard.. tutto ok?" domandò Lindsey, alzando le
sopracciglia.
"Sì, certo, più o meno" risposi, mettendomi a
frugare nella borsa e tirandone fuori delle merendine.
"Avevo bisogno di una boccata d'aria, tutto qua" spiegai, abbozzando un
sorriso.
"Sembravi incazzato" obiettò Columbia, mordendosi il labbro.
"Oh. Mi dispiace, non lo ero per niente" mormorai, inumidendomi le
labbra. Rimanemmo in silenzio qualche secondo, a guardarci, poi la
bionda sospirò e agguantò una merendina,
scartandola.
"Be', per farti perdonare devi offrire" decise, addentandola. Columbia
seguì il suo esempio ed io mi rilassai.
"Notizie di Steve?" domandai, lanciando uno sguardo all'entrata di
emergenza. Lindsey scosse il capo.
"Niente di niente, ma c'è la possibilità che
torni da un momento all'altro" espose.
"Non sarebbe il caso di andare a dare un'occhiata?" proposi.
"Forse, ma tu dovresti comunque rimanere in macchina. Steve non
sarà contento di sapere che sei andato in un supermercato
facendoti vedere da un casino di gente, figurati se lo raggiungessi
lì" commentò.
"Comunque è meglio se avvisi i tuoi, tua madre potrebbe
stare in ansia" mi consigliò con tono dolce.
"A casa c'è solo mio padre" replicai, scrollando le spalle.
Lei storse la bocca e guardò Columbia di sottecchi.
"Che c'è?" domandai, intercettando lo sguardo e irrigidendo
la mascella.
"C'è che tuo padre ci ha tirato dietro metà della
tua roba quando te ne sei andato" rispose la riccia.
"E c'è che si è trasformato in uno stronzo
totale" aggiunse Lindsey, facendo una smorfia.
"Oh" mormorai, rilassando di colpo i muscoli.
"Niente di nuovo allora" osservai, scuotendo la testa. Che mio padre
fosse uno stronzo era cosa nota.
"Però gli sei mancato" obiettò la bionda dopo un
attimo di silenzio.
"Come, scusa?" replicai, leggermente scettico.
"Massì, gli sei mancato. Voglio dire, ogni volta che sentiva
nominare il tuo nome in bocca a un concittadino gli si rabbuiava il
viso e gli diceva di smetterla, e certe volte l'ho pure visto visitare
la tomba di Frank" spiegò. Rimasi un attimo a rimuginare,
confuso, e cercai d'immaginarmi mio padre che mi aveva perdonato ed era
disposto a ricominciare da capo, ma senza riuscirci molto bene.
"Mi ha detto che non sono il benvenuto in quella casa, non credo mi
rivoglia in dietro" commentai. La bionda rimase in silenzio e si morse
le labbra, respirando profondamente, poi tornò a guardarmi.
"Sei sicuro di non ricordare proprio niente?" domandò.
Scossi la testa, dispiaciuto, e sospirai.
"Non so cosa sia successo a Frank, mi dispiace" dissi, scandendo bene
le parole.
"E di quello che è successo a Jimmy..?" suggerì,
speranzosa.
"Io.. ti stavo rincorrendo, ma a un certo punto sono inciampato e ti ho
persa di vista. Avevo perso il walkie-talkie da qualche parte quindi
ero nel panico più totale e mi davo già per
spacciato, come davo per spacciati lui, te e tutto il mondo – sorrisi e scossi
la testa –. Nei momenti di
panico sono una vera testa di cazzo, ma ero terrorizzato e non riuscivo
a pensar bene, così mi sono rintanato sotto un albero e sono
rimasto lì a sentirmi respirare per una decina di minuti,
poi mi sono alzato e ho notato uno spiazzo libero dagli alberi con una
roccia enorme in mezzo, allora mi sono avvicinato, ho scalato la roccia
e vi ho cercati con lo sguardo. Vi ho localizzati e mi sono messo a
correre nella vostra direzione, solo che a un certo punto ho visto una
figura che prima non avevo scorto aggirarsi per il sottobosco e mi sono
avvicinato a lei per chiarirmi un po' le idee. Pensavo fossi tu, Lin,
quindi l'ho chiamata, quella si è voltata e ha detto
qualcosa come "Ancora
tu? Perché non muori?", ha
lasciato cadere qualcosa e mi ha tirato un sassone in faccia. Io mi
sono fermato, ho tolto un po' di sangue e ho ripreso a corrergli
dietro, ma sono inciampato in Jimmy e ho battuto la testa su qualcosa,
svenendo istantaneamente" riassumetti, sotto lo sguardo attento delle
due.
"Come potete vedere, sono utile quanto un albero" aggiunsi poi,
sorridendo sotto i baffi.
"E la sua voce, la sua voce com'era?" insistette Columbria.
"Era strana, come se lo sconosciuto stesse portando una maschera che
gli rendeva particolarmente difficile parlare, quindi non saprei ben
dire se fosse di un uomo o di una donna, però in effetti non
era una voce poi così bassa" risposi.
"Hmm, vedremo di lavorarci sopra" borbottò la ragazza,
prendendosi il mento tra le mani.
"Per ora faremmo meglio a tornare a casa" annuì Lindsey,
aprendo lo sportello e rientrando da davanti.
"Manderò io un messaggio a Steve, capirà di
sicuro" ci tranquillizzò, girando le chiavi e
premendo con decisione sull'acceleratore, andando molto più
piano di quanto avessi temuto.
"Ti chiamerò stasera per dirti la versione per i medici,
comunque, non si può mai sapere" aggiunse.
"D'accordo" dissi, sprofondando nel sedile. Dieci minuti dopo ero
all'inizio della mia strada e stavo scendendo dall'auto, salutando con
la mano le mie amiche e dirigendomi verso casa mia con le chiavi in
mano. Infilai la chiave nella toppa e aprii la porta il più
lentamente possibile, per fare poco rumore.
"E' questa l'ora di rientrare?" borbottò mio padre
dal salotto con uno sbuffo.
"Ho ventitré anni, pa', puoi anche evitare di farmi la
morale" ribattei, passando velocemente alle sue spalle.
"Siamo comunque a casa mia, quindi devi rispettare le mie regole"
grugnì.
"Immagino che la prima sia 'sii
chi non sei e scopati le persone giuste', o sbaglio?"
replicai.
"Sarebbe un buon inizio". Storsi la bocca e cercai il mio borsone,
svuotando tutti i cassetti possibili.
"Papà, dove hai messo la mia borsa?" gli domandai, tornando
nella stanza.
"L'ho buttata fuori stamattina" rispose tranquillamente, senza staccare
gli occhi dalla televisione. Corsi fuori e trovai lo zaino mezzo
rovesciato sotto il cespuglio di rose vicino alla porta, lo raccolsi e
tornai in camera, senza dargli soddisfazioni. Sistemai per bene i
vestiti nei cassetti e mi sdraiai sul letto, poi il telefono
squillò.
"Lindsey?" risposi, alzando istantaneamente la cornetta.
"Hanno arrestato Steve."
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
combattere contro il passato (cap 6)
"C-che
cosa?" sibilai, poi sgranai gli occhi e mi attaccai con entambe le mani
al ricevitore, sgomento, mentre l'ultima frase rimbombava nella mia
testa e si faceva strada tra tutti gli altri pensieri.
"Non posso dirti altro per ora, questa linea non è sicura.
Comunque passo a prenderti fra poco, vedi farti trovare pronto, okay?"
si limitò ad aggiungere, facendo scattare qualcosa che
probabilmente era il cancello di casa sua e sbattendoselo alle spalle
senza troppa delicatezza. Annuii, deglutendo, e la bionda
riattaccò, lasciandomi solo con i miei dubbi e una stanza
troppo piena di ricordi da affrontare.
Dieci minuti dopo ero già seduto sul sedile posteriore della
sua macchina, a rigirarmi i pollici e assillarmi il cervello di domande
a cui non avevo risposta, mentre lei si concentrava sulla guida e
passava a prendere la riccia, ostentando una calma e un autocontrollo
da far invidia a chiunque. Quando fummo tutti riuniti nell'auto, ci
fece cenno di tacere e si voltò a guardarci.
"Come tutti ben sapete, poco fa hanno arrestato Steve"
cominciò, mentre noi annuivamo.
"Quello
che non sapete ma che potete benissimo immaginarvi date le circostanze,
è che l'hanno fatto perché lo ritengono colpevole
di quello che è successo a Jimmy. Ora, visto che siamo tutti
a conoscenza del tentato rapimento che è avvenuto questo
pomeriggio, la loro mossa ci sembra assurda e sbagliata, ma purtroppo,
mettendoci nei loro panni, possiamo capire perfettamente che non si
sono mossi per puro divertimento, ma che fanno semplicemente il loro
lavoro e che credono di fare la cosa giusta nel fargli scattare le
manette attorno ai polsi. Adesso, nonostante sappiamo tutti che non
è stata colpa sua e che non c'entra minimamente con quello
che è successo questo pomeriggio, non possiamo andare
lì dai poliziotti e dirgli: 'no, guardate, vi state
sbagliando, perché a tramortire James è stato uno
sconosciuto
– o
una sconosciuta, non voglio tralasciare nessuna possibilità
– che però non siamo riusciti a identificare
perché portava una maschera e faceva buio'. Voglio dire, chi
mai ci crederebbe? Oltretutto, il fatto che il tentato rapitore
portasse una maschera va contro di noi, perché questo non
esclude la possibilità che possa essere stato Steve a
travestirsi prima di aggredire Euringer e mandarlo in coma,
così che non potessimo riconoscerlo e incolparlo di tutto.
Ci siamo divisi e abbiamo percorso tutti una strada diversa, quindi
nessuno di noi può confermare di essere stato al suo fianco,
come nessuno di noi può provare di essere stato in un
determinato luogo a una determinata ora, appunto perché
stavamo da soli e non in coppia. In parole povere, il nostro amico ci
ha fregati alla grande."
Storse
la bocca in segno di scoffitta e noi annuimmo, aspettando che
riprendesse a parlare, anche solo per decidere come ci saremmo
comportati da quel momento in poi, e lei lo intuì,
così s'inumidì le labbra e respirò
sonoramente, come per riattirare la nostra attenzione.
"Ora,
le possibilità che abbiamo non sono molte. Possiamo
comportarci come se niente fosse e riprendere con le ricerche, stavolta
del nuovo rapitore, e vedere se riusciamo a cavare qualche ragno dal
buco; oppure possiamo continuare a setacciare tutto e cercare di
stanare il rapitore del moro, come non molti si aspettano di vederci
fare e come io in prima persona non riesco a immaginarci. Il problema
principale è proprio questo: tutti, o meglio, il rapitore,
si aspettano di vederci sulle tracce del vero colpevole, e facendo
questo saremmo non solo terribilmente prevedibili, ma anche
più esposti, in caso lui o lei volesse tornare e riprovare a
farci lo sgambetto. Se però tornassimo a occuparci del
vecchio caso, rischieremmo di perdere informazioni e indizi freschi ed
importanti, e ci lasceremmo sfuggire un'occasione fin troppo utile per
trovare il rapitore numero due, che per quanto ne sappiamo potrebbe
ancora trovarsi nei paraggi. Ed è proprio in questo momento
che salta fuori la possibilità numero tre, ovvero che i due
ricoveri siano collegati e che l'uomo in questione sia dietro entrambe
le azioni, e che abbia aspettato apposta tutti questi anni solo per
ricreare una situazione simile alla prima, con Gerard come unico
spettatore e indiziato. Ma, proseguendo con l'analisi del piano, questa
volta qualcosa va storto e l'uomo non solo non riesce a portare via la
sua vittima, ma fa arrestare la persona sbagliata. A questo punto,
arrabbiato e deluso, non vuole comunque arrendersi e rimane nascosto
nei dintorni, a studiare le reazioni del gruppo di ragazzi che prima si
divertivano a fare i detective investigando sul loro stesso caso e che
ora si trovano davanti a una scelta difficile, dalla quale dipendono
molte cose più grandi di loro."
Fece una pausa per guardarci negli occhi, il che rese la
tensione nella macchina molto più palpabile.
"Credo abbiate capito pure voi che a questo punto dobbiamo girare
sempre in coppia e sempre con un walkie-talkie sotto mano, in caso ci
potesse servire, e che dobbiamo tenere gli occhi ben aperti in ogni
momento. Le possibilità ve le ho esposte, ma è
necessario decidere cosa sia meglio fare al più presto, in
modo da non permettere al nemico di organizzarsi e prepararsi prima di
noi" concluse.
Columbia alzò un attimo la mano per esporre la sua idea,
mentre io rielaboravo le ultime informazioni ricevute e Lindsey
riprendeva fiato con un sospiro sonoro, prima di accordarle la parola.
"Allora, per prima cosa secondo me dovremmo dare un nome ai due
rapitori per distinguerli fra loro, o finiremo con l'incasinarci ancora
di più e rischieremo di creare un sacco di malintesi."
Annuimmo in segno d'assenso e lei proseguì.
"Bene, direi che il primo, quello più ignoto, potremmo
chiamarlo Anonymous, come l'organizzazione, oppure Anthony, visto che
la sua vittima è stata il moretto; mentre il secondo, di cui
abbiamo quasi la certezza del sesso, potrebbe chiamarsi Urine, che
è appunto il soprannome della sua vittima. In questo modo
manterremmo un rapporto tra aguzzini e attaccati, e potremmo anche
parlarne in pubblico senza dare troppo nell'occhio in caso qualcuno ci
stesse ascoltando" propose.
"A questo punto, andrei ancora avanti. Se abbandoniamo la prima pista
per concentrarci sulla seconda, potremmo incappare in due situazioni
differenti: nell'ipotesi numero uno, finiremmo dritti nella trappola di
Urine e faremmo il suo gioco, inoltrandoci sempre di più
nella sua rete e finendo con l'agire al posto suo; mentre nella numero
due, quella positiva, daremmo una mano alla polizia e avremmo anche la
possibilità di trovare qualche indizio interessante, mentre
Urine è troppo impiegato a nascondersi e a far perdere le
proprie tracce, stando però attento a non allontanarsi
troppo dalla città. Nella seconda ipotesi, inoltre, escludo
la probabilità che il rapitore ci stia spiando
perché, appunto, troppo impegnato a prendersi cura della sua
copertura, e perché convinto che abbiamo abbandonato la
seconda possibilità per tornare a concentrarci sulla prima,
più sicura e dalle azioni meno prevedibili. Il vantaggio
della seconda è che, se agiamo in silenzio e riusciamo a
giocarci bene le nostre carte, il nostro amico potrebbe credere che
abbiamo archiviato completamente il caso meno recente perché
troppo pericoloso, o perché pensiamo che sia troppo ovvia
come scelta. In sintesi, la possibilità numero uno dice che,
cercando di stanare Urine, potremmo finire dritti nella sua trappola,
mentre la seconda ci dà più speranza e ci dice
che, se siamo abbastanza fortunati, lui è troppo sicuro di
se per considerarci, o troppo sprovvisto per vagliare tutte le scelte,
in quanto il nostro sarebbe una specie di doppiogioco. In che senso
doppiogioco? Be', semplice: se scegliessimo di correre dietro a Urine,
sarebbe allo stesso tempo la scelta più ovvia e la scelta
più assurda, perché è sia la prima
cosa che viene in mente, sia l'azione che uno farebbe dopo averci
pensato. Ragionateci un attimo: se tornassimo a indagare sulla
scomparsa del moro, non lo faremmo proprio per evitare di cascare nella
ragnatela del secondo rapitore? A questo punto, forse sarebbe
più efficace intignarsi sulla cosa più ovvia,
perché se ci si pensa poco è fin troppo ovvia da
venir scelta."
Fece una piccola pausa per permetterci di rifletterci un attimo.
"Okay, detto così è un casino assurdo,
però quello che dico ha un senso. Se indaghiamo sul caso
Urine, può andarci sia bene che male, ed è un
dato di fatto. Se invece torniamo a concentrarci sul moro,
può andarci sia bene, se scopriamo perché il
rapitore è stato costretto a esporsi una seconda volta, sia
male, se invece non scopriamo un bel niente e lasciamo che qualcun
altro inquini la nuova scena del crimine. Poi, come ha detto Lyn,
può sorgere una terza scelta, ovvero quella di considerare i
due casi collegati, cosa che ho già fatto e che ci riporta
al caso Urine e al lavoro di James. Insomma, comunque la mettiamo
dobbiamo lasciare aperti entrambi i casi e concentrarci su entrambe le
cose, anche se questo significa rischiare molto di più e
dormire molto di meno."
"Anche se ha fatto un ragionamento molto contorto, Columbia ha centrato
il punto" sorrise Lindsey.
"Quindi ora che facciamo?" domandai io, sentendomi un perfetto idiota
per non aver ancora capito nulla.
"Se sei disposto a mettere a repentaglio la tua pellaccia, andiamo a
perlustrare il bosco"
"Ma non è pericoloso?" questionò la riccia,
arricciando il naso.
"Voglio dire, lo sarebbe in condizioni normali, ma di notte? Finiremo
di sicuro in qualche dirupo"
"Dovremo correre il rischio, mi sa. E' l'ultima cosa che si aspetta
Urine, proprio perché è la più
pericolosa e proprio perché rischiamo terribilmente ad
avventurarci lì senza avvertire nessuno" spiegò.
"Se aspettiamo domani potrebbe essere troppo tardi" aggiunse, seria.
Rimanemmo un altro paio di minuti in silenzio, a soppesare i pro e i
contro, poi esplosi in un sospiro rassegnato e feci un cenno con le
mani come a dire 'fanculo, io ci sto' e Lindsey sorrise.
"E tu, babe? Sei pronta a rischiare?"
Columbia si lasciò sfuggire una breve risata da sotto i
baffi e annuì.
"Ci sono dentro fino al collo" esclamò, arcuando le labbra
in un ghigno spavaldo.
"D'accordo, allora
– ribatté
la bionda. –
Ma
badate che, da ora in poi, nessuno si può più
tirare indietro".
Poi infilò le chiavi, accese l'auto e spinse
forte l'acceleratore.
Arrivammo allo spiazzo di prima dopo una ventina di minuti circa. Visto
il buio, la bionda aveva guidato più lentamente, ed era
stata anche più attenta a ciò che avevamo
incontrato man mano che la macchina andava, in caso il rapitore si
fosse nascosto ai bordi del sentiero e stesse per scapparne fuori. Era
una possibilità remota e abbastanza assurda, lo so, ma era
pur sempre una possibilità, e non ce la sentivamo di
tralasciarla, specialmente vista la pericolosità dell'azione
che stavamo per compiere.
Scendemmo dalla macchina in silenzio, chiudemmo per bene le portiere e
lasciammo che la bionda aprisse il bagagliaio, dopodiché
agguantammo le torce che ci diede e controllammo che i walkie-talkie
funzionassero tutti, il più meticolosamente possibile. Il
piano era restare sempre uniti, ma in caso di bisogno dovevamo essere
certi che non ci sarebbero stati problemi dal piano tecnico e che non
saremmo rimasti isolati dal gruppo. Una volta finita la revisione ci
guardammo negli occhi, come per trovare un po' più di
coraggio, chiudemmo l'auto a chiave e ci addentrammo nella boscaglia,
diretti verso la base. Faticammo un po' ad arrivarci, vuoi per
l'oscurità, vuoi per i rumori continui della notte, e quando
arrivammo eravamo tutti meno baldanzosi di quando fossimo partiti, ma
nessuno di noi volle ammetterlo e ci concentrammo tutti su qualcosa
d'irrilevante, come per nascondere la nostra insicurezza. Controllammo
il portellone, che la riccia si era presa la briga di richiudere prima
di partire al nostro inseguimento, qualche ora prima, e notammo con
gioia che nessuno aveva provato a forzarlo o comunque a capire come
funzionasse, quindi demmo un'occhiatina in giro e potemmo constatare
che nessuno si era avvicinato alla zona. Fu comunque un gran sollievo,
visto che una volta sentito l'urlo ne io ne Lindsey avevamo pensato
anche solo lontanamente di occuparci della base, e che una volta scesi
giù in città avevamo cominciato entrambi a
mangiarci le dita al solo pensiero che qualcuno avesse potuto
approfittare della nostra impulsività per ficcare il naso in
mezzo ai nostri appunti e mettere un po' in subbuglio i block notes di
Jimmy.
Ci lanciammo un'occhiata attorno per cercare di capire verso che
direzione fossimo corsi quel pomeriggio e riconobbi la pianta contro la
quale mi ero graffiato appena lasciato lo spiazzo, così ci
avviammo verso sud e ci sistemammo in fila indiana, tesi come non mai.
Lindsey era l'aprifila e la sua figura dominava spavaldamente sulle
nostre, più timorose e curve, totalmente dipendenti dalle
sue scelte e dalle sue azioni. Io stavo in mezzo, visto che ero quello
che conosceva meno quei boschi, e il fatto che ero stato protagonista
dell'altra aggressione mi metteva in una posizione di rilievo rispetto
alla riccia, così costretta a chiudere la processione. Mi
sentivo in colpa a farla rimanere lì, visto che non aveva
fatto i salti di gioia nel venire a perlustrare il bosco con noi, ma
allo stesso tempo il mio istinto di conservazione mi diceva che avevamo
fatto la cosa giusta a metterla dove si trovava, e mi faceva
poi concentrare su qualcos'altro per distrarmi dal senso di colpa. In
situazioni del genere, non perdi tempo a immedesimarti nell'altro,
bisogna dirlo. E' anche l'ultima cosa da fare, per il bene di tutto il
gruppo.
Mi spostai una ciocca dagli occhi e la sistemai dietro l'orecchio,
lanciando un'occhiata verso i rami di pino che si estendevano sopra le
nostre teste, impavidi e inquietanti, e mi domandai se saremmo mai
tornati a casa in condizioni decenti, dopo quella notte. Mi sentivo
strano, come se avessi un peso sul petto o un brutto presentimento, ma
mi tenevo bene dal dirlo, così concentravo la mia attenzione
sul sottobosco e facevo roteare la luce della torcia da tutte le parti,
senza tralasciare niente, cercando di assicurarci una visione
più larga dell'ambiente che ci circondava. Sobbalzavo a
quasi ogni rumore, che poi si rivelava quasi sempre causato dal
movimento improvviso di un gruppo di uccelli o dallo scatto di un ramo
spostato da noi, e mi sentivo stupido e piccolo in confronto alle
altre, che sfoggiavano un ostinato sangue freddo e procedevano in
silenzio, senza distrarsi mai. In ogni ombra vedevo un nemico e sotto
ogni mucchio di foglie scorgevo una probabile arma, ma alla fine era
sempre colpa della mia fantasia e della mia soggezione così
avevo deciso di ignorarmi e continuare a procedere. Ogni tanto
rallentavo per scuotere un cespuglio e dare uno sguardo a quell'ombra
che mi sembrava troppo surreale, ma non mi fermavo mai abbastanza a
lungo da perdere di vista la bionda, quindi rimanevamo relativamente
uniti e non ci preoccupavamo molto. La Luna c'illuminava la strada
dall'alto e i suoi raggi ci giocavano spesso dei brutti scherzi, ma la
sua presenza mi rassicurava e mi faceva pensare che era tutto normale e
che non correvamo poi così tanti rischi come temevo,
così dopo un po' smisi di vedere coltelli ovunque e riuscii
a rilassarmi un po'. Dopo una decina di minuti, però,
Lindsey si fermò di scatto e ci fece segno di rimanere
immobili.
Col cuore in gola e il sangue che ci pulsava nelle vene, trattenemmo il
respiro e ci guardammo intorno.
"Eppure giurerei di aver sentito qualcosa.." mormorò la
bionda, aggrottando la fronte. S'infilò una mano nella tasca
posteriore dei jeans e ne estrasse un coltellino svizzero, lo
portò davanti agli occhi, lo aprì,
sospirò e si tenne pronta a usarlo, riprendendo, piano, a
camminare. Ora eravamo tutti e tre all'erta, le orecchie tese e gli
occhi sgranati al massimo, e ogni minimo movimento ci faceva
sobbalzare, ma non ci fermammo più e ci mantenemmo sempre in
cammino, sebbene ogni tanto rallentassimo. Se ci fosse davvero stato
qualcuno nel bosco insieme a noi, rimanendo fissi nello stesso posto ci
saremmo esposti di più a un'imboscata, mentre tenendoci in
movimento avevamo una minima possibilità di aggirare la
minaccia e, chi lo sa, magari avremmo potuto organizzare noi
un'offensiva. Fatto sta che non smettemmo di camminare per quelli che a
me sembrarono anni, talmente ero suggestionato da ciò che
era accaduto a James, e tornai a domandarmi se ce l'avremmo fatta, a
uscire di lì. Lanciai uno sguardo veloce alla riccia, che
incespicava affaticata dietro di me, e lessi nei suoi occhi che anche
lei temeva di lasciarci le penne e di non riuscire più a
vedere la luce del giorno. Con quell'occhiata eravamo diventati
complici di quello che tutti sapevamo ma nessuno di noi voleva
ammettere ad alta voce: il coraggio che avevamo ostentato fino a pochi
minuti prima stava venendo a mancare, lasciando spazio ai dubbi e alla
paura. Deglutii e chiusi un attimo le palpebre, cercando di recuperare
il controllo, e Lindsey si girò a guardarci.
"Tutto bene, ragazzi?" chiese, spostando continuamente lo sguardo da me
alla riccia, preoccupata.
Esitammo a rispondere e deglutimmo un'altra volta, poi sospirammo e
annuimmo, uno dopo l'altra. Lyn sorrise, addolcita, e ci mise una mano
sulla spalla, stringendocela.
"Ce la faremo, vedrete. State andando alla grande"
c'incoraggiò, annuendo convinta. Noi abbozzammo un sorriso e
lei ricambiò, togliendoci le mani di dosso e tornando a
rivolgere la torcia verso il sentiero. Aguzzò la vista e
percepimmo il movimento rapido delle sue orecchie, poi si
piegò in avanti, quasi buttandosi a terra, e noi facemmo lo
stesso, terrorizzati e in preda alle paranoie più nere. Un
rumore di passi riecheggiò nella foresta e si fece sempre
più vicino, e dopo qualche minuto di paura riuscimmo a
scorgere in modo abbastanza preciso una figura camminarci accanto
e voltarci la spalle, ignara della nostra presenza ma comunque
tesa. Ringraziai il mio angelo custode e chiusi gli occhi,
rannicchiandomi ancora di più, quando sentii la bionda
saltare fuori dal suo nascondiglio e scagliarsi attorno alla sagoma
misteriosa. Quella lanciò un grido spaventato e cadde a
terra, spinta dal peso della ragazza, e si portò le mani
vicino al volto, come a proteggersi. Lindsey armeggiò con la
torcia e la riaccese, sparandogliela in faccia.
"Ray!" esclamò sgranando gli occhi, mentre lui strizzava le
palpebre.
"Ti dispiace levarmi questa luce dalla faccia? Così mi farai
diventare cieco" si lamentò lui, cercando di divincolarsi
dalla sua presa. La bionda sospirò, si mise la torcia nella
tasca posteriore dei pantaloni e si rimise in piedi, tendendo la mano
all'amico per aiutarlo ad alzarsi. Lui la strinse e si tirò
su.
"Si può sapere che ci fai qui?" sbottò la riccia,
uscendo di scatto dai cespugli.
"Be', non potevate iniziare le ricerche senza di me, no?"
replicò lui, abbozzando un sorriso.
"Sì, ma voglio dire, mi hai fatto prendere un infarto!"
obiettò, portandosi le mani al cuore.
"Scusa babe, non era quello che volevo" rise lui, assestandole una
pacca sulla spalla. Columbia scosse la testa, positivamente rassegnata,
e io uscii dal mio nascondiglio, salutandolo con un gesto della mano
che lui ricambiò di buon grado. Mi piaceva la sua allegria,
anche se mi aveva quasi fatto morire di paura.
"Trovato niente?" gli domandò la bionda, stroncando
l'atmosfera rilassata che si era venuta a creare negli ultimi minuti e
facendo ruotare la luce in ogni angolo buio del sottobosco, senza mai
abbassare la guardia. Ray tornò improvvisamente serio e
scosse il capo, pensoso, poi si fermò un attimo a riflettere
e indicò verso sinistra con un dito, inumidendosi le labbra
prima di parlare.
"Niente d'importante, naturalmente, ma c'è qualcosa che
vorrei farvi vedere" disse, prima di avviarsi in avanti e scomparire
tra le frasche, costringendoci ad accelerare il passo per non perderlo
di vista.
Macinammo un centinaio di metri nel silenzio più totale,
come se tutto si fosse improvvisamente ovattato e ridotto ai nostri
respiri e passi, e mi guardai intorno, sperando di riconoscere in quel
posto qualcosa di familiare che mi permettesse di orientarmi in qualche
modo, quando sarebbe giunta l'ora di tornare a casa. Ovviamente tutto
era anonimo e contro di noi, e mi vidi costretto ad affidarmi solamente
alla bussola e al senso d'orientamento degli altri ragazzi, che
sembravano quasi a loro agio nascosti dai rami e dai cespugli,
riducendomi all'unico cittadino doc completamente spaesato e
instupidito dalla situazione.
"Ecco, guardate" disse il riccio a un certo punto, fermandoci con un
cenno della mano e avanzando con una delle nostre torce, facendoci
sapientemente strada verso la sua scoperta. Spostò dei rami
secchi di pino e scavò con le dita per dieci secondi circa,
mentre la terra morbida e umida si spostava gentilmente, lasciando
spazio a un pacchettino piegato alla bell'e meglio dentro una salvietta
bianca, e cominciava a formare un cumulo alto quindici centimetri
buoni. Ray prese in mano l'involucro e lo ripulì dal
terriccio con estrema cura, stando ben attento a non rovinarne neanche
un angolo, poi lo svolse e si voltò verso di noi,
intenzionato a mostrarcelo e renderci partecipi del suo orgoglio.
"L'ho trovato qualche metro più in là, vicino a
dove avete trovato Gerard e James" ci spiegò, emozionato.
"Non so cosa contenga con precisione: ho aspettato voi per aprirlo, in
modo da rendere il momento più ufficiale. Dalle dimensioni
suppongo che si tratti di un quadernetto o comunque di qualcosa di
tascabile, forse un portafoglio improvvisato o un foglio ripiegato
più volte; non saprei" continuò, alzando gli
occhi verso di noi e gesticolando con la mano libera. Vidi che il volto
gli brillava e ne rimasi estasiato.
"Vedete, in genere la gente di qui non porta cose in tasca,
perché passeggiando c'è sempre il rischio di
perderle, mentre il nostro rapitore non ha minimamente pensato
all'evenienza e si è comportato come qualunque forestiero
avrebbe fatto. Insomma, chi non vive qui non è abituato a
pensare a imprevisti come un temporale improvviso, un animale incazzato
che ti sbuca fuori dal bosco e che comincia a rincorrerti, una buca
nascosta da un mucchio di foglie, una folata di vento particolarmente
violenta.. In genere i cittadini che vengono qui in visita sono
arroganti e convinti che niente di male possa accader loro proprio
perché sono superiori, quindi si comportano in modo
piuttosto spavaldo e subiscono perdite gravi molto più
spesso di quanto vogliano far intendere. Se il nostro cattivone fosse
di un'altra città, o comunque una persona troppo sicura di
se, questo porrebbe le cose a nostro vantaggio, visto che siamo nati
qua e conosciamo questi territori come le nostre tasche, e ci
permetterebbe di tendergli una trappola e smascherarlo in tempi molto
più ristretti rispetto a quelli che impiegheremmo se fosse
del posto e sapesse perfettamente come agire. Il tutto è
semplicemente fantastico, non trovate?"
Fece una piccola pausa per riprendere fiato e sfoggiò uno
dei sorrisi più smaglianti che abbia mai visto.
"Insomma, se questo oggettino si rivela suo o in qualche modo
rilevante, siamo a cavallo!" esclamò.
Continuando a sorridere, si apprestò a srotolar via l'ultimo
pezzo di stoffa e ci lanciò un'occhiata di complice
felicità, s'inumidì le labbra, respirò
a fondo e liberò completamente il suo tesoro dall'involucro.
Era un'agendina di un rosso bordeau piuttosto spento, grande
più o meno quanto un iPhone, le cui pagine erano leggermente
inumidite dalla notte ma ancora piuttosto leggibili; e il riccio
esultò nel vedere che non era stata usata solo una manciata
di volte. Sebbene la calligrafia di cui alcune pagine erano ricoperte
fosse piuttosto difficile da decifrare, riuscimmo a capire sul posto
che non si trattava di cose importanti, ma di appunti che all'apparenza
sembravano buttati a caso senza il minimo senso, ma che ci saremmo
impegnati a rendere importanti nei giorni a venire, per non rendere
vana la fatica del riccio. Scorremmo le dita lungo la copertina e
controllammo che non fosse entrata della terra al suo interno, poi la
bionda riavvolse l'agenda nel suo scrigno, aprì il marsupio
e ce la posizionò dentro, richiudendolo con attenzione e
tornando a rivolgersi a Ray.
"Be', mi sembra un ottimo inizio, bravissimo" si
complimentò, dandogli una pacca sulla spalla.
"C'è ancora tanto da perlustrare, potremmo trovare altro"
ribatté lui, senza crogiolarsi nella sua gloria.
"Facci strada, campione" fece a quel punto Columbia, desiderosa di
mettersi anche lei all'opera, quasi avesse dimenticato la situazione e
l'ambiente in cui ci trovavamo.
"Aspettate un attimo, ragazzi, visto che siamo diventati quattro, forse
è meglio dividerci e setacciare molto più
terreno, che ne dite? Io e il roscio procederemo da questa parte,
mentre voi due da quell'altra. Ci rivediamo qui tra, non saprei, una
mezz'oretta? Se ci sono problemi o avete un qualsiasi dubbio, non
esitate a contattarci e chiederci di venire, okay?" si
organizzò velocemente Lindsey, davanti agli occhi annuenti
degli altri, che ci salutarono e si allontanarono senza troppe
cerimonie, presi dall'eccitazione per la nuova scoperta. C'incamminammo
verso la direzione opposta conservando un religioso silenzio, rotto
solo dal fruscio del vento e dal rumore dei nostri passi sulle foglie
secche, e mi sentii molto meno in ansia di prima, come se l'arrivo
improvviso del mio nuovo amico avesse reso tutto più sicuro
e meno azzardato, e mi trovai a ringraziarlo inconsciamente, quasi
ritenessi opportuno farlo. Mi voltai verso la bionda e la
guardai con la coda dell'occhio, mentre lei controllava bene che non ci
fosse niente per terra, e la sua strana presentazione mi
passò di nuovo per la testa, come se l'avessi sentita solo
pochi minuti prima. Davvero ero stato fidanzato con una creatura
così saggia e risoluta, capace di essere allo stesso tempo
avventurosa, spontanea e impulsiva, senza neanche impegnarcisi? Mi
sembrava a dir poco assurdo che io, persona assolutamente normale,
classica, monotona, senza alcuna dote speciale, fossi riuscito ad
attrarre anche solo per un po' una persona così diversa da
me, in tutto e per tutto; e più la guardavo più
mi domandavo cosa avesse mai potuto trovarci in me, anche se era stato
il moro a farci mettere insieme quando ancora mi credeva etero. Voglio
dire, se le avessi fatto schifo gli avrebbe detto di no, o sbaglio?
"Gerard?". La sua voce soffice mi riportò alla
realtà quasi improvvisamente. Sbattei gli occhi un paio di
volte, scossi velocemente la testa e mi voltai a guardarla.
"Huh? Che ti serve?" domandai, dando un'occhiata alle mie mani.
"La tua attenzione" mi punzecchiò lei, abbozzando un sorriso
spavaldo e guardandomi arrossire.
"Guarda laggiù, che ti sembra?" insistette avvicinandosi a
un cespuglio e piegandosi per non farsi vedere. Mi avvicinai anch'io e
strizzai gli occhi, portandomici una mano davanti, ma il buio
m'impediva tutto, così scrollai le spalle, increspai le
labbra e le lanciai un'occhiata di sconfitta. Lei sorrise e
scivolò al mio fianco, fece scorrere un braccio attorno alla
mia spalla e m'indicò un punto col dito; mi sforzai
d'intravedere qualcosa e rimasi stupito nel vedere un'altra figura
aggirarsi tra le frasche. Sgranai gli occhi e aprii la bocca per
parlare, ma la bionda mi ci premette tre dita sopra e
aspettò che lo sconosciuto si allontanasse prima di
toglierle da lì e contattare gli altri, mentre io sudavo
freddo e cercavo di mantenere il sangue freddo.
"Ray? Ehi Ray, mi sentite?" lo chiamò in poco più
di un sussurro, voltandosi verso il punto dove era sparito l'uomo e
torturandosi le labbra con una smorfia preoccupata. Assestò
una bottarella al ricevitore, tentando di attirare l'attenzione
dell'altro gruppetto con un rumore più forte, e si
lasciò sfuggire un 'fanculo', poi se lo riportò
di nuovo all'orecchio e riprovò.
"Ray? Ray, sono Lindsey, rispondete" insistette, alzando di poco il
tono di voce. Io controllavo la zona circostante, il sangue che mi
pulsava nelle tempie e il sudore che mi correva lento lungo il collo, e
mi assicuravo che niente ci cogliesse di sorpresa, ma la mia mente non
era esattamente ferma in quei luoghi. Sebbene avessimo entrambi visto
in faccia il pericolo, non riuscivo a identificare quella persona come
una minaccia reale, un qualcosa che avrebbe potuto farmi del male, e
quindi non riuscivo a rimanere nello stato d'animo adatto per fare da
vedetta. Il peggio era che io mi c'impegnavo davvero, a controllare
tutto, ma ogni due secondi notavo qualcosa che prima m'era sfuggito e
venivo invaso dai dubbi e dalle incertezze, e anche se ero
perfettamente consapevole del fatto che il panorama nei boschi fosse in
costante mutamento mi sentivo inutile e incapace. Mi passavo una mano
tra i capelli, sospiravo silenziosamente e mi rimettevo al lavoro,
cercando con tutto me stesso di concentrarmi su quei piccoli dettagli
così sciocchi ma allo stesso tempo così vitali e
rilevanti, che mi sembravano aumentare secondo dopo secondo. Rimasi
così per un po', mentre la bionda armeggiava col
walkie-talkie e imprecava sottovoce, e mi sentii fuori posto, come se
non avessi mai dovuto mettere piede in quel bosco. Non riuscivo a
evitare di ripetermi che quello non era luogo per me, che io ero uno di
quei cittadini montati e stupidi che non sono fatti per andare a fare
passeggiate nei sentieri sperduti dei paesini di montagna e che sarei
dovuto tornare a casa in quel momento stesso, invece di perdere tempo
ad annotarmi miriadi di cose che mi sarei dimenticato pochi secondi
dopo, nonostante tutti i miei sforzi e le mie buone intenzioni. Eppure
c'era qualcosa che mi teneva lì, vuoi la presenza di
Lindsey, vuoi la consapevolezza del fatto che non sarei mai riuscito a
ritrovare la strada, ma non riuscivo a spostarmi per più di
qualche decina di centimetri senza poi tornare dalla mia amica, in
preda a un senso del dovere troppo sviluppato e a un'improvvisa ansia.
Passarono dieci minuti, poi finalmente Ray rispose.
"Lin! –
esclamò, senza alzare troppo la voce –
Lin!"
"Ray! Ehi amico, ti sento!" gioì la ragazza, attaccandosi
con entrambe le mani all'apparecchio.
"Dove siete? Dobbiamo dirvi una cosa importantissima" si
affrettò a chiedere, prima che l'altro parlasse.
"Stiamo tornando sui nostri passi, abbiamo visto qualcuno"
spiegò il giovane.
"Per questo non abbiamo risposto, prima, avevamo paura di essere
scoperti" aggiunse.
"L'abbiamo visto anche noi" si stupì la bionda.
"Avete visto quant'è grosso?" domandò, alzandosi
in piedi.
"Be', non è esattamente alla tua portata, ma io e Gerard
dovremmo essere in grado di placcarlo"
"Perfetto. Arriviamo" esclamò, ricominciando a correre, in
preda a una nuova eccitazione.
"Vieni roscio, abbiamo bisogno del tuo aiuto" mi disse, così
mi spicciai e la raggiunsi, in tempo per sentirle dire agli altri due
di seguire lo sconosciuto e di tenerla aggiornata sui suoi movimenti.
"Bene ragazzo mio, ora è il tuo turno di entrare in gioco –
mi avvertì, accelerando il passo. –
Dovrai andare avanti con Ray e stare col fiato sul collo a questa
figura misteriosa; poi, appena possibile, dovrete saltarle addosso e
metterla con le spalle a terra. A quel punto io e Columbia usciremo dai
cespugli e vi daremo una mano ad immobilizzarla, legandole le mani e i
piedi con questo –
e mi mostrò un foulard –,
e poi bho, si vedrà. La trasporteremo in auto e le faremo
tutte le domande necessarie".
Annuii in segno d'assenso e lei si compiaque del suo piano, scorgendo
da lontano la silohuette della sua amica e affrettandosi a
raggiungerla, quasi correndo ormai.
"Columbia!" sussurrò all'improvviso, mentre l'altra
sobbalzava e si girava di scatto.
"Cazzo, mi hai fatto prendere un colpo" sospirò, portandosi
una mano al cuore e rilassandosi.
"Ray è più avanti, ma dovete fare piano.
Quell'uomo continua a vagare qui intorno da un sacco di tempo, sembra
stia cercando qualcosa - forse noi, chi lo sa - e non dobbiamo
assolutamente fargli capire che vogliamo tendergli un'imboscata o siamo
spacciati" ci spiegò, spostando delle frasche.
"Tutto chiaro" annuì la bionda, voltandosi quindi a
guardarmi.
"Allora
roscio, voglio che tu vada avanti, trovi Ray e faccia tutto
ciò che ti dice, d'accordo? A questo punto, dipende tutto da
voi" disse con tono autoritario. Annuii e mi addentrai nella boscaglia,
mentre lei mi sussurrava alle spalle un 'buona fortuna'. La ringraziai
con un cenno della mano e scomparvi dalla sua vista, venendo circondato
dal buio della notte e dai rumori della natura, completamente isolato
da qualunque altra cosa vivente e parlante. Non mi era concesso di
utilizzare la torcia perché avrei rischiato inutilmente di
attirare l'attenzione dello sconosciuto, quindi ero costretto a
brancolare nell'oscurità e ad affidarmi alle poche forme che
i miei occhi riuscivano a distinguere; ma a causa di questo particolare
dovetti procedere lentamente ed espormi maggiormente al pericolo,
mentre gli altri sudavano freddo e aspettavano di ricevere l'ok del
riccio. Io, dal canto mio, ero a dir poco teso, oltre che perfettamente
conscio del pericolo che stavo correndo in quel momento, ma allo stesso
tempo non sentivo alcuna pressione e mi sembrava di far parte di un
gioco. Certo, un gioco un po' esagerato e strano, ma non mi sembrava
poi così vero; così mi avventuravo sempre di
più e sempre più spavaldamente, finché
non notai da lontano una figura in controluce in avvicinamento. Mi
acquattai per terra e rotolai vicino alle radici di un cespuglio,
sperando che mi proteggesse e nascondesse da quello che non sapevo
essere un amico o un nemico, e rimasi in ascolto, le orecchie e i
muscoli tesi, quando mi passò accanto. Si guardò
intorno, si fermò a qualche passo di distanza da me e si
ficcò una mano in tasca, alla ricerca di qualcosa che
apparentemente non era lì. Alzò il mento con
rabbia, scagliò il contenuto della tasca a terra e
sbuffò, quindi si passò una mano fra i capelli,
esasperato, sospirò e si piegò per raccogliere
quelle cianfrusaglie. Non so se fu in quel momento che
incrociò il mio sguardo o pochi secondi dopo, quando feci
scricchiolare una foglia, fatto sta che mi notò e si
avvicinò a me, agguantandomi prima che potessi muovermi.
"Gerard! Brutto coglione che non sei altro!" mi sbraitò
addosso quello che poi riconobbi come mio padre.
"Hai la minima idea di quanto cazzo sia pericoloso stare qui di notte?"
Mi strinse meglio i capelli e mi costrinse ad alzarmi, avvicinando il
mio volto al suo.
"Mi hai fatto prendere un colpo della madonna! Tua madre è
venuta a sapere del tuo ritorno e mi ha telefonato, una quarantina di
minuti fa, e
avresti dovuto sentire i suoi strilli quando le ho detto che eri uscito
e che non c'era nessuno in camera tua. Sembrava volermi mangiar vivo!
Adesso vieni a casa e le telefoni, da bravo, e le dici che questa
stronzata è tutta farina del tuo sacco, perché io
non c'entro niente. Vedi un po' se devo ancora beccarmi sgridate per le
puttanate che fai tu!"
Mi lasciò andare di colpo e io mi rimisi in piedi,
spazzolandomi via le foglie dalla maglietta.
"Un incosciente, ecco che cosa sei. Avanti, fila in macchina"
ordinò, indicandomi la strada con un gesto secco e
infastidito. Mi avviai verso l'auto in silenzio, avvampando, e mi
sentii addosso lo sguardo deluso e stupito dei miei compagni
finché il paesaggio non cominciò a mutare,
lasciando spazio a un sentiero di sassi circondato da qualche lampione
mezzo rotto, miracolosamente ancora in piedi.
"Si può sapere cosa ti eri messo in testa? Tu e quei
coglioni dei tuoi amici! In giro per il bosco di notte.. avete idea di
cosa potrebbe succedervi? Per quanto mi riguarda, c'è ancora
un assassino a piede libero, e non uscirai più da casa di
sera. Coprifuoco alle nove, come quando avevi dieci anni. Vediamo se
avrai ancora voglia di ammazzarti! Come se questa famiglia avesse
bisogno di mettersi ulteriormente in mostra dopo tutto quello che
è successo" sputò, poi borbottò ancora
qualcosa, sottovoce.
"Vedi di mettere la testa a posto, ragazzino, perché
finché rimarrai a casa mia dovrai seguire le mie regole, e
per quanto possa sembrarti crudele non sono disposto a fare eccezioni.
Non le farà nemmeno quello che ha spedito il tuo amico in
coma, puoi starne certo, quindi vedi di cominciare a stare attento e a
pensare alle consequenze delle tue azioni. Potrai aver avuto tutte le
buone motivazioni di questo mondo, ma non tornerai mai più
in quel bosco di notte, intesi? Non dopo quello che è
successo l'altra volta, anche se allora era giorno. Mi è
già capitato di crederti perso una volta, non voglio
assolutamente farlo di nuovo" strinse le mani attorno al volante e
sospirò rumorosamente, poi si accese una sigaretta.
"Non hai idea di cosa significhi perdere un figlio, e quello che ho
provato quando ti hanno trovato in quella pozza di sangue non lo
augurerei neanche al mio peggior nemico. Mettete la testa a posto tutti
quanti, questo non è un gioco, non lo è mai
stato. Se volete continuare a fare le teste calde, fatelo assicurandovi
una sicurezza costante, almeno; perché ci sono tanti modi
per ferirvi, non solo fisicamente, capito? Rischiate non solo voi, ma
anche le vostre famiglie; e ti assicuro che nessuno di noi vuole
vedervi con la testa aperta in una stanza d'ospedale, mentre un'equipe
di medici cerca di non farvi rimanere paralizzati per il resto della
vostra vita. Questo non è un gioco, Gerard, e non voglio
mandarti a farti uccidere così facilmente, ci siamo capiti?
Se vuoi farlo di giorno è un altro conto, ma la sera non ti
devi neanche avvicinare a quella foresta, te l'abbiamo sempre ripetuto
e non smetteremo mai di farlo finché sarai ancora in vita.
Non puoi permetterti di rischiare un'altra volta, gli altri potrebbero
smettere di credere alla tua innocenza e accusarti di cose che non
sono, e a quel punto io e tua madre non potremo più far
niente per aiutarti. Cerca di rimanere sempre al sicuro in qualche
modo, okay? Vedi di non fartelo ripetere un'altra volta, per piacere,
così eviteremo di fare figure di merda davanti ai tuoi
amici. Per stasera passi, ma la prossima volta che ti becco
là in mezzo le consequenze saranno gravi."
Si voltò a guardarmi, mentre la calma tornava a riempire la
macchina, e si leccò le labbra.
"Io non ti odio, Gerard, ma devi sottostare alle regole. Per il tuo
stesso bene."
Poi tornò a badare alla strada e rimase in silenzio per
tutta la durata del viaggio, mentre io riflettevo sul da farsi e sulla
sua improvvisa scenata iperprotettiva. Non avevo mai visto questo lato
del suo carattere e probabilmente non l'avrei rivisto mai
più, ma mi aveva lasciato non poco scombussolato,
finché non mi ricordai improvvisamente dell'agendina.
"Papà, per caso hai perso qualcosa nel bosco?" gli domandai,
rompendo la pace.
"Huh? No, non ho perso niente. Ho dimenticato il cellulare a casa, ecco
perché mi sono incazzato. Se avessi potuto chiamarti avrei
fatto molto prima" rispose, senza staccare gli occhi dal sentiero.
"Oh –
mi limitai a ribattere. –
Capito."
Be', almeno un indizio ce l'avevamo, mi rallegrai, sfiorando l'agendina
con le dita e sfilando la mano dalla tasca. Non avevamo sprecato
completamente la serata.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
combattere contro il passato (cap 7)
Quella
notte ci misi parecchio ad addormentarmi. Non facevo altro che pensare
e ripensare a tutto quello che era successo quel giorno, alle occhiate
torve che avevo ricevuto al paese, al fruscio fresco del vento sulla
mia pelle, all'urlo angosciante del punk, alla corsa estenuante e
inutile giù per i greppi, alle bende che ero stato costretto
a comprare e a come fosse fragile una vita umana, in fin dei conti,
nonostante la scienza scoprisse ogni giorno un nuovo metodo per farci
campare più a lungo e in modo più piacevole. Alla
fine, bastava una stronzata per stroncare ciò che una madre
aveva impiegato nove mesi a costruire e che la vita aveva allenato fino
all'esasperazione, giorno dopo giorno, coi suoi sgambetti e i suoi
imprevisti. Bastava un nonnulla perché un essere smettesse
di esistere, emotivamente o fisicamente che fosse, e la
facilità con cui una cosa così orribile potesse
accadere mi lasciava stupefatto, attonito, senza parole, costringendomi
ad immergermi in argomenti che avevo lasciato da parte per tanti anni e
che non volevo rievocare prima del tempo, per quanto potesse essere
doloroso.
Che
cos'era successo davvero quel pomeriggio di sei anni fa?
Frank
era ancora vivo? E se sì, dov'era in quel momento?
Perché
non cercava di ricontattarci?
Perché
non cercava di parlarmi?
Per
quanto fosse difficile da accettare, ero giunto alla conclusione che,
ammesso che fosse sopravvissuto e che fosse ancora memore della vita
che aveva avuto prima dell'aggressione, forse aveva deciso lui di
tagliare tutti i ponti che lo collegavano al suo passato, scegliendo di
non chiamare più, di non farsi sentire e di non mandare
notizie a nessuno, pur di non correre altri rischi. Forse era stato
proprio lui a scegliere di andarsene e non tornare mai più,
per non mettere in pericolo nessuno e per scrollarsi di dosso tutti i
pregiudizi e gli insulti degli altri, che dopo tutti quegli anni ancora
bruciavano, sotto la superficie. Forse era stato lucido quando aveva
preso quella decisione, o forse era stato costretto da qualcuno che
sarebbe quindi stato in grado di controllare e verificare che il
ragazzino se ne andasse davvero. In un certo senso, pensare che fosse
stato costretto ad abbandonarci era rassicurante, perché
ciò significava che il moro ci amava ancora, nonostante
tutto, e che dentro di se non aveva mai desiderato abbandonarci in un
modo così vile e subdolo, ma che aspettava solo il momento
giusto per tornare e dirci che sarebbe andato tutto bene,
perché lui era lì con noi e non se ne sarebbe
andato. Certo, tutto questo se lui fosse stato ancora vivo, ma c'era
qualcosa dentro di me che mi intimava di non arrendermi, di non
togliermi dalla mente la possibilità che fosse riuscito a
sopravvivere al rapimento e che stesse cercando di tornare a
casa; così inghiottivo il groppo e continuavo a sperare,
stringendo i denti. Di certo non aveva scelto lui di andarsene, non era
nel suo carattere scomparire nel nulla lasciandosi dei problemi alle
spalle. No, lui avrebbe lottato e vinto, alla faccia di tutti quelli
che lo detestavano e che lo schernivano, perché lui non era
come loro, lui era speciale, uno di quei ragazzi che incontri poche
volte nella vita ma che non potrai mai dimenticare. Prima di essere il
mio fidanzato e prima di essere il migliore amico di tanti ragazzi che
in lui non vedevano solo un ragazzino, ma un salvatore, lui era Frank
Iero, e quella non era cosa da poco, anzi. Più ci pensavo
più mi sentivo di conoscerlo, più focalizzavo la
sua immagine nella mia mente, e più mi sentivo leggero e
vicino a una soluzione, un indizio, un qualcosa che scacciasse un po'
di nebbia dal mio cervello, e tutto quello non poteva essere un cattivo
segno. Proprio no.
Respirai
a fondo, socchiusi gli occhi e mi lasciai coccolare
dall'oscurità, ora così piacevole e amica, e
passai con il pensiero sopra a tutti gli interrogativi che mi avevano
attanagliato durante la giornata, prima così importanti e
vitali, ora ridotti a brandelli di paure e dettagli di scarsa
rilevanza. Mi cullai un attimo nel mio improvviso senso di pace con il
mondo e lanciai un'occhiata fuori dalla finestra, soffermandomi sulle
stelle e accarezzandole con lo sguardo, soprappensiero. Dopo una
giornata così strana e così stancante, mi
sembravano salutarmi e incoraggiarmi, con la loro luce tremolante e
decisa, e sembravano ripetermi che non importava quanto terrore avessi,
quanto difficile fosse rimanere in piedi, quanto pesasse il mondo sulle
mie spalle o quanto mi sentissi fragile e insicuro, c'era sempre una
luce alla fine del tunnel e difendere i miei amici era la cosa
più importante a cui dovessi pensare in quel momento,
perché, nonostante le cadute, sarei sempre stato in grado di
rialzarmi. Il fatto che stessero ancora lì appese, dopo
milioni di anni di reazioni chimiche ed esplosioni, guerre e periodi di
pace, evoluzioni e cambi di civiltà mi rassicurava, e mi
lasciavo cullare dalla certezza che, per quanto potesse sembrarmi dura
andare avanti e resistere, in realtà niente andava poi
così male e che, dopo un periodo di difficoltà,
la vita premia chi ha lottato. Non importa quanto hai sofferto, non
importa quante volte hai sputato sangue, non importa quante volte non
sei riuscito ad adempire al tuo compito, ciò che conta
davvero è il fatto che tu non ti sia mai arreso, neanche
quando la vita si è fatta più meschina, neanche
quando gli altri ti hanno voltato le spalle. Ciò che conta
maggiormente in casi come il mio è l'impegno e io ne avevo
in abbondanza, anche se a guardarmi in modo distratto non si notava
minimamente. Riservavo molte sorprese e l'improvvisa e pacata
tranquillità della mia camera sembrava aver risvegliato ogni
mia particella di positività e buonsenso, quindi giacevo
lì con un gran sorriso beato stampato in faccia e lo sguardo
perso nell'infinito, mentre il mio cervello non smetteva di macinare
informazioni neanche per un secondo. Il ritrovamento dell'agendina si
era rivelato piuttosto sensazionale, contando soprattutto che non era
ne dei ragazzi ne di mio padre, e riuscivo a stento a non abbandonarmi
a un senso di frettolosa soddisfazione, ma una smorfia di compiacimento
si era comunque fatta strada sul mio viso graffiato. Dopotutto era pur
sempre qualcosa, no?
"E
anche se fosse una stronzata, possiamo farla passare per una stronzata
coi fiocchi" sorrisi fra me e me, facendo correre le dita lungo il
rivestimento ruvido del libretto, intravedibile solo se ci si faceva
molta attenzione. Anche se era troppo presto per dire qualsiasi cosa,
mi sentivo fiducioso e pieno di buoni pensieri, e facevo mille
propositi e piani per ciò che sapevo che probabilmente
sarebbe rimasto solo un sogno troppo difficile da realizzare. L'euforia
si fece pian piano strada tra i miei pensieri e fui, mio malgrado,
costretto a smettere di fare piani di alcun tipo, per il bene della mia
salute mentale e di quella degli altri, oltre che dei miei familiari.
Distolsi lo sguardo dalla volta celeste, ora puntellata di nuove stelle
e qualche aereo, che sfrecciava silenzioso sopra la testa di migliaia
di cittadini ignari e addormentati, e mi tirai a sedere, staccando la
schiena dal materasso e sporgendomi in avanti, appoggiandomi con le
mani alla coperta per forza dell'abitudine. Respirai a lungo, sempre
silenziosamente, misi i piedi fuori dal letto e, cercando di fare il
meno rumore possibile, mi eressi sulle gambe, azzardando qualche passo
insicuro. Cercai coi piedi le ciabatte, decisi di farne a meno e
barcollai goffamente verso la porta della mia stanza; feci scivolar
fuori la testa, aspettai di sentire il russare sommesso di mio padre e
uscii, dirigendomi verso il bagno. Mi chiusi la porta alle spalle e
l'accompagnai gentilmente dietro di me, esitando un attimo prima di
decidere di non socchiuderla, poi deglutii e accesi la luce, strizzando
energicamente gli occhi e aspettando di abituarmici, impaziente. Mi
preparai mentalmente allo spettacolo a cui avrei dovuto assistere,
sospirai, mi avvicinai allo specchio e alzai lo sguardo, teso come non
mai. La mia immagine mi colpì più di quanto mi
aspettassi: avevo il volto sciupato, pallido, come se non riposassi
decentemente da giorni; il rosso dei miei capelli era reso ancora
più vivo da dei rimasugli di sangue incrostato, andato a
depositarsi su una tempia e sotto i lobi delle orecchie, e dai piccoli
tagli che mi solcavano la guancia, impavidi; le garze spartane che mi
circondavano il capo erano sporche, grigiastre, a tratti sbrindellate e
sul punto di rompersi, ma tutto sommato ancora lì, in un
disperato tentativo di proteggermi da altri attacchi, provenienti da
chissà dove. Mi feci un po' impressione così
conciato, essendo abituato a vedermi sempre uguale vista la monotonia
del mio lavoro, e mi passai una mano lungo la parte sinistra della
faccia, il più delicatamente possibile, come se stessi
toccando la guancia di qualcun altro e non volessi in alcun modo fargli
male. Sussultai nel sentire una fitta lancinante dove la benda non era
riuscita a reggere, cadendo sconfitta e andando a sfiorare il mio
sopracciglio sinistro, in un ultimo sforzo di essere utilizzabile, e la
spostai con due dita, indugiando nel vedere –
o meglio, sentire –
che si era attaccata alla pelle sottostante, a causa del troppo sudore.
Il mio volto si contorse in una smorfia di dolore e fastidio e serrai
la mascella, mentre, con strappi decisi e regolari, mi accingevo a
staccarla e riporla nel lavandino, prima di buttarla nel secchio e
sostituirla con delle bende nuove e più curate. Dopo che
l'ultimo pezzo di garza fu caduto tra la spazzatura, mi lasciai
sfuggire un sospiro di sollievo e sorrisi, andando ad aprire
l'armadietto dei medicinali, poi frugai un attimo tra pillole e
intrugli vari e trovai una scatola del primo soccorso, di cui usufruii
lietamente. Una volta finito, ripulii il lavello e sistemai velocemente
la stanza, dopodiché spensi la luce e tornai in corridoio,
dove mi accolse il consueto russare di mio padre. Scesi le scale, mi
sedetti sul divano e rimasi lì a respirare, godendomi la
luce della luna e il lento ticchettio dell'orologio, che scandiva il
tempo con una regolarità tranquillizzante e quasi piacevole,
tutto sommato. Perso nei miei pensieri, scivolai velocemente in un
sonno profondo e senza preoccupazioni, senza neanche avere il tempo di
tornare in camera.
"Gerard?
–
mi chiamò una voce maschile, toccandomi la spalla.
– Ehi, ragazzo?"
Grugnii
qualcosa e mi girai dall'altra parte, cercando di tirarmi sugli occhi
una coperta che non c'era. Papà si spazientì e mi
scosse con più decisione, sventolandomi davanti agli occhi
una lettera e continuando a ripetere il mio nome all'infinito, in
attesa che mi decidessi ad aprire gli occhi. Cosa che feci con un
grande sbuffo, socchiudendoli in uno sguardo assassino e guardandolo in
cagnesco, lasciandolo indifferente.
"E'
per me?" domandai, accennando alla lettera.
"No,
è un'altra bolletta da pagare.. ma se vuoi fare tu non
c'è problema, eh" fece mio padre, alzandosi in piedi dopo
essersi dato una forte spinta e rimanendo a fissare il vuoto per una
manciata di secondi.
"Però
sì, devi venire con me" ragionò a voce alta,
voltandosi a guardarmi.
"Dammi
cinque minuti" sbuffai, abbandonando a malincuore il divano e
barcollando verso il piano di sopra, ancora intontito dal sonno e
dall'improvviso risveglio. Mi lavai la faccia, abbondai col deodorante
ed entrai in camera, raccattando i primi vestiti trovati nei cassetti e
indossandoli, senza farci davvero caso. Ridiscesi le scale
trotterellando e saltando gli ultimi due gradini, atterrando
pesantemente davanti alla figura eretta di mio padre, il volto tirato
in un cipiglio arcigno e serio e le labbra fine contratte in un sospiro
esasperato.
"Dio,
Gerard, quante volte te l'ho detto che la mattina la gente dorme?"
sbottò.
"Hm"
ribattei con una scrollata di spalle, mentre lui agguantava le chiavi
della macchina e apriva la porta d'ingresso con meccanicità,
invitandomi a seguirlo con un rapido cenno del capo e fiondandosi fuori.
"La
colazione la farai in città, quando avremo finito" mi
avvertì, mettendo in moto la macchina. Annuii e, per la
prima volta da anni, prestai davvero attenzione ai volti della gente
che superavamo entrando in paese. Con mio grande sconforto, non ne
riconobbi nessuno.
"Allora,
ragazzo mio, da quant'è che non ci vediamo?"
esclamò il barista, lucidando dei bicchieri.
"Saranno
cinque anni, ormai" continuò, rispondendosi da solo e
sfoggiando un gran bel sorriso falso.
"Ne
avrai di cose da dirci! Allora, come te la sei passata?"
domandò, fingendosi entusiasta.
"Bene,
direi. Lavoro un po' qua, un po' là.." mi limitai a
rispondere, disinteressato. Presi una bustina di zucchero, la aprii e
ne rovesciai il contenuto nella tazza, quindi cominciai a girare
distrattamente il caffè.
"Ah,
capisco. Be', d'altronde la vita è così, no?"
convenne l'uomo, sistemando i bicchieri tra gli altri.
"Gli
alti e bassi ci sono sempre, e direi che i tuoi bassi li hai
già avuti, in ogni senso" scherzò, ridacchiando
fra se e se. Smisi di bere e posai la tazzina sul bancone, piccato, ma
l'uomo continuò a sorridere, senza intuire che avevo ben
capito la sua frecciatina. Lasciai perdere. Anche se avessi detto
qualcosa, lui avrebbe liquidato la cosa con un 'no, ma che dici, non
intendevo quello, a me non dà fastidio il fatto che tu sia
stato con il moretto, figurati!' e una risatina nervosa, seguita da uno
sprezzante gesto della mano, messo lì per calmare le acque.
In realtà sapevamo entrambi che gli dava fastidio il fatto
che io fossi gay e che lo fosse stato anche il 'cocchino della
città', e che ancora di più gli dava fastidio
l'idea che a qualcuno potesse piacere farsi inculare da qualcun altro.
Forse era questo quello che lo irritava di più, chi lo sa.
A ogni
modo, papà non ci fece caso e finì con calma il
suo caffè, lasciandosi scappare un sospiro felice.
"Be',
caro mio, direi che qui non abbiamo altro da fare. Ci vediamo domani"
salutò l'uomo, saltando quindi giù dallo sgabello
e avviandosi verso l'uscita, lasciandomi un attimo spiazzato. Mi
richiamò e io lo seguii, lanciando un ultimo sguardo d'odio
al barista e concentrandomi sul paesaggio, rilassando i muscoli.
"Meno
male che erano tutti contenti di rivedermi e che si erano aperti al
nuovo" mi dissi, storcendo la bocca in una smorfia a metà
tra il me-lo-aspettavo e il contenti-loro. Dopotutto, io c'ero
abituato. Non avevo intenzione di dargli ulteriore importanza,
nossignore. Così andai avanti con la mia mattinata.
In realtà, incontrarmi coi ragazzi quel pomeriggio fu
abbastanza difficile. Non solo perché mi vergognavo a farmi
vedere in giro dopo l'ennesima pazzia di mio padre, ma
perché non avevo il numero di nessuno di loro e avevo
lasciato il mio walkie-talkie alla bionda, prima di cercare di
raggiungere il riccio, quindi non avevo alcun modo di cercare d'intuire
la loro posizione. Supposi dal principio che fossero alla base, ma mi
resi conto velocemente che non sarei stato in grado di ritrovarla e mi
sentii invadere dallo sconforto, che cacciai dicendomi che potevo
benissimo esser loro d'aiuto pure senza raggiungerli. Mi legai i
capelli e mi sistemai sul naso un paio di occhiali da sole che poi
tolsi perché troppo ridicoli e 'da checca' a detta di mio
padre, e mi ficcai una banconota da venti in tasca, accanto al
pacchetto di sigarette. Lo salutai senza troppe cerimonie e lui non si
prese neanche la briga di rispondermi, immerso com'era nella lettura
del suo giornale, così uscii da casa senza essere inseguito
dai sensi di colpa.
La brezza soffiava dolcemente, rinfrescandomi e gettandomi i capelli
all'indietro, e mi compiacqui di essere uscito a quell'ora, quasi
l'avessi fatto apposta. Mi guardai un attimo intorno e tirai fuori
dalla tasca il mio block-notes di quand'ero più giovane,
completamente ricoperto di scarabocchi, pezzi di canzoni e frasi carine
dedicate al moro, e m'immersi un attimo nei ricordi, prima di scuotere
la testa e togliere il tappo alla penna. Il piano era di appuntarmi
qualcosa di ogni casa, ma effettivamente ci avrei messo troppo tempo,
così ripiegai sul piano b e feci uno schizzo delle persone
che incontrai, rudimentale ma abbastanza dettagliato da permettermi di
farle riconoscere a papà più tardi. Non incontrai
molta gente, per fortuna -
o dovrei dire sfortuna? -
così non dovetti disegnare molto e occupai solo una decina
di pagine, mentre le altre venivano ricoperte di appunti e piccole cose
che notavo e segnavo giusto perché forse mi sarebbero potute
tornar utili. Stupidamente, mi ero dimenticato delle bende che avevo
intorno alla testa, quindi giravo con la beata convinzione di riuscire
a non dare nell'occhio più di quanto facessero gli altri
abitanti –
non che fosse completamente colpa mia d'altronde, papà non
aveva fatto alcun commento al riguardo e il barista si era tenuto bene
dal farmelo notare, quasi a sottolineare che non gliene fregava un
cazzo di me, quindi io me ne ero semplicemente dimenticato, come c'era
da aspettarsi. Ogni tanto vedevo qualche testa girarsi e strizzare gli
occhi, ma pensavo che cercassero solo di ricordarsi dove mi avessero
già visto così etichettavo la cosa come di scarsa
importanza e procedevo, convinto di star facendo qualcosa di
intelligente, una volta tanto. Fu quando mi ritrovai per la terza volta
nello stesso punto che mi battei una mano sulla fronte, come a dire
'oddio, di nuovo qui', e fui costretto, malgrado tutto, a rendermi
conto che la ferita che avevo era ancora aperta e esistente. Ci rimasi
un attimo di stucco quando lo realizzai e mi resi conto di aver
sfoggiato la mia 'ferita di guerra' davanti a un bel po' di gente,
attirando l'attenzione ancor più di quanto non avessi fatto
il giorno prima al supermercato, esattamente come la bionda si era
raccomandata di non fare. Mi spalmai una mano in faccia e scossi la
testa, dandomi del coglione, quindi cominciai a tornare verso casa,
molto meno convinto di quando fossi partito, sprizzando di energia e
orgoglio per la bella pensata.
"Forse –
mi dissi, calciando
una lattina – d'ora in poi è meglio lasciare le
belle idee agli altri". Sospirai e arcuai le labbra in un sorriso
rassegnato, ridacchiando della mia sciocchezza. Non ero particolarmente
intelligente, bello o simpatico, ma almeno sapevo disegnare. Tirai
fuori dalla tasca il block-notes e lo aprii, sfogliandolo velocemente
fino a raggiungere gli identikit di metà di oggi, che avrei
sistemato una volta a casa con l'aiuto di mio padre, e mi compiacqui
delle linee decise e dei giochi d'ombra che avevo dato a ognuna delle
figure, anche se basilari e appena accennati. Mi piaceva l'arte e mi
piaceva essere costretto a farmi il culo per imparare a disegnare bene,
anche se mi deprimevo nel vedere quanta poca importanza dessero al
disegno e alle arti grafiche quelli che vi erano naturalmente portati,
e anche se i miei non mi avevano mai incoraggiato un
granché, avevo seguito il mio sogno e mi ero iscritto a un
istituto d'arte, tentando il tutto per tutto. Sapevo quanti e quali
sbocchi desse sul mondo del lavoro, ma non per quello volevo arrendermi
e lasciar perdere tutto: non sapevo nulla del mio passato, quindi
volevo costruirmi alla svelta un futuro che fosse adatto ai miei
desideri e alle mie aspettative. Inutile dire che a papà era
preso un colpo nel vedere dove mi fossi iscritto, ma ormai la frittata
era fatta e non c'era più niente da fare, quindi si era
arreso e fatto da parte. Mi aveva però tenuto il broncio per
qualche giorno.
"Gerard?" mi chiamò dall'altro del giardino, quasi si
sentisse interpellato.
"Si, pa'?" replicai, senza alzare lo sguardo dal blocchetto.
"C'è un signore che vorrebbe parlare con te" si
limitò a dire, indicando un omaccione dietro di se con un
gesto rilassato della paletta e tornando a occuparsi delle sue piante,
lasciandoci soli. Mi sentii invaso da una sensazione di gelo pungente e
rabbrividii, mentre l'uomo si toglieva gli occhiali da sole, se li
infilava nel taschino della giacca e si dedicava interamente a me.
"Gerard Way?" domandò, accertandosi che fossi realmente io.
Annuii, deglutendo.
"Vieni con me. Ti vogliono in centrale."
Appena varcata la soglia della centrale, venimmo accolti da una zaffata
opprimente di caffè caldo, sudore e detersivo per bagni, che
sembrava quasi sottolineare il fatto che lì si sgobbasse
davvero, al contrario di tanti altri commissariati, e mi si capovolse
lo stomaco, mentre un peso di qualche chilo mi si depositava sulla
cassa toracica. La puzza, a cui mi abituai in fretta e che l'omone
sembrò non notare minimamente, mi fece sentire
più terra-terra e meno in un sogno, ma allo stesso tempo
faceva crescere il senso di disagio e ansia che correva dentro le mie
vene, amalgamandosi al mio lato catastrofico e pessimista, e non
riuscivo ad evitare di contorcermi e guardare da ogni parte, mentre il
poliziotto mi precedeva e mi faceva da guida. Entrammo in una stanza di
media grandezza, ben illuminata e dalle pareti di un bianco non troppo
pulito, dove un tavolo sovrastava e comandava su tutto, e il mio
sguardo finì immediatamente su un fascicolo ordinato, messo
accuratamente in bella vista accanto a una brocca d'acqua, che sembrava
chiamare il mio nome in continuazione, come se volesse che lo prendessi
in mano e gli dessi un'occhiata. Respirai a fondo e deglutii,
aspettando che il mio accompagnatore facesse qualche passo o qualche
mossa, e lo seguii con lo sguardo mentre lui prendeva posto su una
sedia e m'invitava a fare lo stesso. Il mio corpo si mosse
meccanicamente e andò ad occupare la sedia di legno davanti
alla sua, in modo da poterlo guardare negli occhi, e ci squadrammo in
silenzio per qualche secondo, prima che lui prendesse a sfogliare il
fascicolo, commentandolo dentro la sua testa con qualche 'hmm' e 'ho
capito'.
"Bene, Way, devo farle alcune domande" tagliò corto, posando
il gruppo di fogli davanti a se.
"Ho bisogno che lei mi risponda il più dettagliatamente
possibile" disse, intrecciando le dita con aria seria.
"O-OK" acconsentii, mordendomi il labbro e annuendo.
"D'accordo, cominciamo. Quando e perché è tornato
in città?"
"L'altroieri notte, volevo provare a riallacciare i rapporti con la mia
famiglia. Non vedevo mio padre e mia madre da tanti anni, e visto che
mi trovavo qui intorno ho deciso di allungare di qualche giorno la gita
e venire a salutarli" buttai lì. Non era del tutto falso, ma
neanche del tutto vero.
"Quanto conosceva James Euringer?" domandò, venendo subito
al sodo.
"Non lo conoscevo quasi, o almeno, l'ho conosciuto per due, tre ore.
Niente di che" risposi.
"Eppure mi risulta che lei vivesse qui, prima. Andavate alla stessa
scuola, com'è possibile che non vi sia mai capitato non dico
di parlarvi, ma anche solo d'incontrarvi nei corridoi?" insistette,
tignoso.
"Be', vede, io ho perso la memoria e non mi ricordo niente della mia
infanzia e della mia adolescenza. Qualche frammento di ricordo ce l'ho,
ma è tutta roba molto vaga e per niente affidabile, quindi"
spiegai.
"Capisco. E quando, diciamo, ha perso la memoria, cos'ha fatto?"
"Ho continuato con la vita di tutti i giorni, per quel che ho potuto;
ma insomma, non è che sia molto"
"Come mai ha lasciato la città?" continuò.
"Niente di che, avevo voglia di viaggiare, cambiare acque, sfidare
l'ignoto. Sa, le classiche cose."
"Hmm" commentò, non del tutto soddisfatto. Annotò
qualcosa su un blocchetto, poi tornò a guardarmi.
"Bene, credo che si possa passare alle cose serie, finalmente. Dove si
trovava ieri pomeriggio, quando il signor Euringer è finito
in coma e il signor Righ l'ha portato all'ospedale?" chiese con tono
autoritario, contraendo la faccia in un cipiglio severo e scrutandomi
con i suoi giganteschi occhi neri, fin troppo simili a un pozzo di
catrame o a un pezzo di carbone, e mi sentii mancare il terreno sotto i
piedi.
Dove mi trovavo ieri? La polizia dubitava di me?
Rimasi immobile, terrorizzato e esterrefatto, e sgranai gli occhi,
mentre l'altro, perfettamente a suo agio, continuava a scandagliarmi
l'anima con il pensiero, registrando ogni minimo segno che potesse
rivelare qualcosa che io invece volevo tenere segreto e compiacendosi
del suo tono tra se e se.
"Cosa succede, signor Way, oltre alla memoria ha perso anche la
lingua?" sogghignò.
Mi trattenni dal guardarlo in cagnesco, ma dentro di me lo insultai nei
peggiori modi che conoscevo.
"Avanti, mi dica. Sono tutto orecchi," insistette, arcuando le labbra
in un sorriso sghembo e fuori posto, che lasciava trapelare la sua
pienezza di se e il suo grande orgoglio, e posò il mento sul
dorso delle mani unite, inclinando un pochino la testa giusto per
riuscire a cogliere meglio ogni mia espressione d'ansia.
Dal canto mio, però, non potevo farci caso più di
tanto. Non avevo idea di cosa gli avessero detto gli altri quindi non
potevo azzardare niente senza rischiare di metterli nei guai, ma allo
stesso tempo non potevo rimanere in silenzio davanti a un
poliziotto –
voglio dire,
sarebbe stato come urlare a pieni polmoni 'ehi, guardatemi, sono io il
killer!' a un mucchio di persone accovacciate accanto a un cadavere; o
come farsi beccare da mio padre in un atteggiamento che lui disprezza o
non approva: un suicidio completo, con tanto di fuochi
d'artificio e banda funebre. Mi torturai una mano, guardandolo in
faccia.
Forse avevamo parlato coi ragazzi del piano, forse mi avevano detto
cosa avrei dovuto fare in caso di bisogno, forse dovevo solo cercare
nella mia memoria e, dopo un paio di tentativi andati male, avrei
trovato la soluzione a quella situazione assurda e pericolosa e sarei
stato salvo. Cercai di riprendere il controllo sul mio corpo e chiusi
gli occhi, inumidendomi le labbra, mentre l'uomo mi osservava, attento.
"Signor Way?" insistette, spingendosi in avanti.
"Si è deciso a rispondere?"
Aprii gli occhi e lo guardai, sembrando totalmente assente.
"Sono andato nel bosco con i miei amici" risposi, cautamente.
"Con chi è andato nel bosco, esattamente?" cercò
d'indagare lui, tirando fuori la penna.
"Non saprei dirle, li ho conosciuti ieri e non mi ricordo bene chi ci
fosse e chi no. I ricordi mi si mischiano tutti e creano una specie di
collage interattivo, non so bene quali immagini siano di ieri e quali
di sei anni fa, ma posso dirle che in nessuna delle varie occasioni
qualcuno di noi si è fatto male o si è ferito"
"E quelle bende?" chiese.
"Sono inciampato e ho sbattuto la testa" spiegai.
"Ma fuori dal bosco" aggiunsi, come a sottolineare la mia frase
precedente.
"Continui pure" grugnì l'altro.
"Be', onestamente non saprei che dirle. Nella mia condizione, non
c'è mai niente di sicuro"
Mi guardò di sottecchi, quasi di nascosto, e percepii sulla
pelle le varie maledizioni che mi stava lanciando, ma all'esterno
rimase impassibile e professionale, come mi aspettavo visto il suo
rango.
"Va bene, certo, capisco" commentò.
"Tuttavia, sa che questo suo "handicap" –
e mimò le virgolette con le mani, per farmi capire che non
lo diceva in modo dispregiativo, ma che era una specie di procedura,
luogo comune. –
la mette in una posizione tutt'altro che vantaggiosa per lei?"
m'incalzò, e prima ancora che potessi aprir bocca riprese.
"Potrebbe andare in giro a rapinare una banca e poi negare tutto in
successione, dicendo che quelle che vede davanti agli occhi sono scene
di un thriller che ha visto in tv la sera prima e che lei non ha fatto
assolutamente nulla, e a quel punto verrebbe tirata in ballo una giuria
di anziani ed ex-poliziotti pronti ad analizzare prontamente il tutto e
decidere se crederle o meno. Quello, nell'ipotesi più
positiva. Se invece, dopo molti interrogatori infruttuosi, lei rimane
l'unico indiziato senza un vero alibi, noi potremmo anche arrestarla -
anche se magari è innocente per davvero - e questo non
gioverebbe per niente alla sua vita. Come sa di sicuro, abbiamo
già arrestato un ragazzo della sua città,
presumibilmente anche un suo amico, ma non siamo soddisfatti e
riteniamo opportuno andare fino in fondo ed indagare il più
possibile su questa faccenda, com'è giusto che sia. Ora,
capirà perfettamente che, venendo a conoscenza della sua
posizione, la polizia non può ritenerla completamente
innocente o completamente colpevole, quindi non può muoversi
più di tanto; ma, mi ascolti bene, se ci sono altre cose da
venir dette, le dica ora, prima che sia troppo tardi e le si possano
rivoltar contro" concluse. Tacque un attimo e mi guardò,
serio, mentre io annuivo e lo osservavo a mia volta, mantenendo il
silenzio.
"Potremmo aver bisogno di parlarle un'altra volta, quindi ha il divieto
di allontanarsi dalla contea senza prima avvertirci e fornirci tutte le
informazioni che le chiederemo. Tenga il cellulare sempre acceso e la
testa a posto, perché questa non è l'ultima volta
che ci rivedremo, e la prossima potrebbe esserle fatale. L'altro
ragazzo è innocente, ma non è detto che lo siate
anche lei e i suoi amici. Detto questo, buona giornata e buon ritorno
in città" disse, sospirando sulle prime frasi e ritrovando
il suo cipiglio da duro nelle ultime, per poi fissarmi con sguardo
gelido e distaccato. Mi alzai, stupito che avesse lasciato perdere
così facilmente, e deglutii, poi considerai le due opzioni
possibili: stringergli la mano e salutarlo in modo almeno un po'
amichevole, oppure andarmene in silenzio dopo aver annuito un paio di
volte. Optai per la seconda e mi dileguai velocemente, riempiendomi gli
occhi di ogni particolare dell'edificio e appuntandomi cose nella
mente, nel vano tentativo di distrarmi dall'ansia e dalla
preoccupazione. Mi chiusi la porta a vetri alle spalle cercando di fare
meno rumore possibile, azzardai qualche passo incerto verso il parco e
crollai dritto sulle mie ginocchia, lo sguardo fisso e le palpebre
spalancate, accasciandomi come se fossi fatto di gelatina.
La polizia mi aveva appena interrogato.
La polizia sospettava di me.
Ero morto. Eravamo
morti. Avevo fregato tutti quanti.
Mi sentii invadere da un senso di malessere e delusione e la testa
cominciò a girarmi ancora di più, così
me la presi tra le mani e strinsi le tempie, massaggiandomele in un
vano tentativo di calmarmi. Mandai giù un conato di vomito e
un altro risalì velocemente la mia gola, ma respinsi pure
quello, deglutendo come un pazzo e rimanendo immobile accanto
all'entrata. Sputai per terra, afflitto, e imprecai un paio di volte,
raggomitolandomi su me stesso e abbracciandomi le ginocchia, e cercai
di tranquillizzarmi, ripetendomi che non tutto era perduto e che
saremmo usciti anche da quella situazione, che non era poi
così grave, che sarebbe andato tutto per il meglio, come
doveva essere, e che ce l'avremmo fatta.
Sorrisi
tra me e me, e mi sentii un po' meglio. Avevo ragione, non per quello
avrei dovuto arrendermi e darla vinta al misterioso rapitore, un
coglione da quattro soldi che si era persino perso un'agenda (forse)
contromettente per strada. No, ero migliore di lui, lo eravamo tutti, e
saremmo riusciti ad arrivare fino in fondo a questo caso –
alla facciazza della polizia! -,
questo era poco ma sicuro. Tirai su col naso, me lo strofinai con un
braccio e mi tirai in piedi, improvvisamente ricaricato di una strana
energia e di tanto, troppo ottimismo. Mi avviai verso casa, ficcandomi
le mani in tasca e mollando un calcio a una lattina mezza appiattita da
un'auto, lanciando uno sguardo al cielo. Ce l'avremmo fatta. Era questo
che contava.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
combattere contro il passato (cap 8)
Come
ho detto prima, fu abbastanza difficile entrare in contatto con i miei
amici e riuscire a parlargli in tutta tranquillità, quel
giorno –
e non solo perché ci s'era messa di mezzo anche la polizia,
a inquinare le acque. Okay, certo, quello non era un dettaglio
irrilevante e i ragazzi sarebbero inorriditi nel sapere che erano alle
nostre costole, ma allo stesso tempo il fatto che ci venissero dietro
non era molto importante, perché quelli non avevano prove
per incastrarci o provare che stavamo facendo, non dico qualcosa
d'illegale, ma anche solo qualcosa di sbagliato; quindi, dopo un
momento di terrore, ansia e oddio-ci-sbatteranno-tutti-in-galera, mi
ero tranquillizzato e avevo ripreso a ragionare lucidamente. La madama
poteva sospettare di noi quanto le pareva, ma se ci fossimo comportati
in maniera sicura e naturale non le avremmo dato alcuna soddisfazione e
avrebbe lasciato perdere per dedicarsi a tracce più solide
e, tra virgolette, normali. Voglio dire, quale gruppo di ventenni
andrebbe a uccidere uno di loro per poi limitarsi a mandarlo in coma e,
udite udite, portarlo addirittura all'ospedale, col rischio che si
risvegli e li denunci? Bisognava essere proprio coglioni a farsi
infinocchiare così, ma probabilmente la polizia non ci
riteneva abbastanza intelligenti da essere in grado d'intuirlo e andava
sul sicuro, nel dire che sospettava di noi, perché tanto non
avremmo potuto farci niente. Ragionandoci a mente fredda,
però, è facile notare che il loro ragionamento
faceva acqua in vari punti, perché non solo ci saremmo dati
la zappa sui piedi da soli, se fossimo stati davvero i tentati
assassini, ma avremmo anche rischiato inutilmente, in quanto il ragazzo
era solito andare a fare giri nel bosco da solo: sarebbe bastato
buttarlo in un fosso ben nascosto che nessuno avrebbe sospettato di
niente, e probabilmente il cadavere non sarebbe mai stato ritrovato.
Insomma, se ci si pensava un po' su con calma, risultava evidente che
non potevamo esser stati noi i colpevoli, perché gli altri,
da bravi conoscitori del posto, non avrebbero corso un rischio
così grande, col pericolo di finire in gattabuia, se
potevano liberarsi del corpo in maniera più pulita e
silenziosa. A quel punto, rimaneva un unico grande interrogativo: chi
poteva essere stato? Il motivo per cui lo avevano attaccato era ovvio:
stava lavorando a qualcosa d'importante che avrebbe potuto danneggiare
Urine e i suoi complici –
sempre che ne avesse –,
quindi andava messo a tacere, possibilmente in maniera pulita e
definitiva. Probabilmente il fatto di mandarlo in coma non era stato
previsto e il rapitore voleva limitarsi semplicemente a tenerlo in
ostaggio per un po', prima di rimandarlo indietro, abbandonarlo o
ucciderlo, ma le cose erano degenerate e si era visto costretto a
toglierlo di mezzo. Non aveva con se gli strumenti adatti per ucciderlo
e il tempo non era dalla sua parte, così si era limitato a
colpirlo e tramortirlo, per poi abbandonarlo appena sono saltato fuori
io, pronto ad inseguirlo.
Mi morsi il labbro, pensieroso. Da quando ero uscito dal commissariato
mi ero perso completamente in pensieri di questo genere e non riuscivo
a trarmi fuori da questo circolo vizioso di domanda, ricerca e
risposta, che il mio cervello sembrava apprezzare particolarmente.
Scossi la testa velocemente e sentii una mano posarmisi sulla spalla,
così sussultai e mi girai, sperando di non vedere un agente.
"Gerard!". Fortunatamente non c'era nessun poliziotto, solo Ray.
"Oh, ehi Ray" lo salutai, stupito.
"Che ci fai qui?" gli domandai quindi, guardandomi attorno.
"Ero venuto a cercarti e tuo padre mi ha detto che eri in zona" mi
rispose con una scrollata di spalle.
"Oh. Vi ho cercati anch'io, ma mi sa che non sono portato per le
ricerche" ammisi, laconico.
"Mi dispiace per quello che è successo ieri" aggiunsi,
incrociando nuovamente il suo sguardo.
"Nah, figurati, fa niente. Tuo padre aveva pure ragione"
ribatté, sorridendo.
"Quando sono tornato a casa pure il mio vecchio mi ha dato una bella
strigliata, è normale" rise, e io mi sentii più a
mio agio nel vederlo così rilassato, così sorrisi
anch'io, abbassando un attimo lo sguardo,
"Senti, piuttosto.. sarebbe possibile incontrare Lindsey?" domandai.
"Ma certo, sono venuto per questo, no?" fece lui allegramente,
scompigliandomi i capelli. Mi disse di seguirlo e io trotterellai al
suo fianco, guardandomi intorno finché non scorsi una
macchina.
"E' quella?" gli chiesi, indicandola con un cenno del capo. Lui
annuì.
"Già. Non è un granché, ma quando vivi
qui non vai a guardare la bellezza delle auto" mi spiegò, e
mi parve di cogliere una nota d'imbarazzo nella sua voce, appena
più flebile di prima, così cambiai argomento.
"Avete trovato qualcosa, ieri sera?" m'informai, sistemandomi la
cintura mentre Ray faceva lo stesso.
"In realtà ce ne siamo andati poco dopo di te. Il bosco era
deserto, così abbiamo deciso di andarcene e tornare oggi,
visto che più rimanevamo più diventava difficile
distinguere qualcosa, e bho, niente, alla fine non abbiamo fatto poi
così tanti progressi" commentò, chiudendo le dita
attorno al volante e voltandosi indietro per fare manovra. Annuii e
guardai dritto, mentre ci lasciavamo alle spalle il parcheggio.
"Ray, qualcuno ti ha cercato, oggi?" insistetti dopo un po'.
"Be', sì, i ragazzi; ma credo sia normale. Non mi ha cercato
nessun altro, però" rispose, pensandoci su.
"Capisco" mi limitai a ribattere, appoggiando la testa al finestrino e
appannando il vetro con il mio respiro. Che senso aveva venire a
interrogare solo me? Forse avevano capito che ero l'anello debole della
catena e speravano in un mio gigantesco crollo, che poi avrebbe portato
alla deriva anche gli altri. Storsi la bocca. Sapevo di non essere
esattamente utilissimo, ma era una strategia meschina.
"Siamo arrivati" annunciò il riccio un quarto d'ora dopo,
spegnendo dolcemente il motore dell'auto e slacciandosi con calma la
cintura. Scendemmo sbattendoci dietro le portiere e respirammo l'aria
fresca per qualche secondo, prima di metterci in marcia verso la base e
bussare il più sonoramente possibile sul grande portellone
di cemento, cercando di attirare l'attenzione delle ragazze. Ci
aprirono dopo meno di un minuto e ci accolsero con un gran sorriso,
invitandoci a entrare e a sederci sulle poltrone, perché
avevano qualcosa d'importante da dirci che aveva aspettato fin troppo.
Presi posto accanto alla bionda e mi sentii a disagio per una manciata
di secondi, mentre il riccio richiudeva il portellone a chiave,
causando uno spostamento d'aria e la diminuzione improvvisa della luce
nella stanza. Gli altri sembravano abituati a quell'ambiente
claustrofobico, così tacqui e mi concentrai sulle mani della
ragazza, che non riuscivano semplicemente a star ferme, a causa
dell'eccitazione per la misteriosa scoperta.
"Allora, siete pronti?" ci domandò Columbia con un sorriso
elettrizzato, appena ci fummo sistemati sulle sedie. Annuimmo
prontamente e lei lanciò un'occhiata d'orgogliosa
felicità alla sua amica, che la ricambiò con un
cenno del capo, andando a raccattare delle carte dal bancone. Io e Ray
proprio non capivamo.
"Be'? Che dovete farci vedere?" disse lui, aggrottando le sopracciglia.
"Ancora un attimo di pazienza, ci siamo quasi" lo liquidò
Lindsey, armeggiando con il proiettore.
"Ecco, guardate" richiamò la nostra attenzione,
indicando una diapositiva che cominciava ad andare, anche se facendo
qualche balzo e rumore strano ogni tanto, e noi ci concentrammo sulle
immagini che andavano a danzare su un lenzuolo appeso a mo' di schermo,
che occupava gran parte della parete.
"Ce l'ha consegnata la madre di Jimmy qualche ora fa, dicendo che lui
le ha fatto promettere di darci questa in caso gli fosse successo
qualcosa –
ci spiegò, incrociando le braccia sul petto con aria seria. –
Dice che quando gli ha chiesto cosa avrebbe dovuto capitargli, lui
è rimasto in silenzio e che gli si è oscurato il
volto, quindi forse lui era consapevole di ciò a cui stava
andando incontro. Per ora possiamo supporre solo poche cose, in quanto
stiamo vedendo il video per la prima volta pure noi, ma credo che Jimmy
si fosse reso perfettamente conto di quanto vicino fosse alla soluzione
di questo mistero, e proprio per questo aveva adottato delle misure
extra di sicurezze. Purtroppo non sono bastate, come ben sappiamo,
però devo ammettere che è stato davvero
intelligente da parte sua" commentò con un sorriso
d'ammirazione, scuotendo leggermente il capo e abbassando lo sguardo.
"Certo che è proprio avanti" si compiacque, fiera di essere
sua amica e compagna d'indagini. Con un sospiro, dedicò
tutta se stessa al video e conservò un silenzio religioso,
rivelando un attaccamento quasi morboso per quell'ultimo messaggio del
ragazzo, così inaspettato ma allo stesso tempo
così razionalmente normale. Spostai lo sguardo da lei al
video e mi persi al suo interno.
"Ehi, ciao ragazzi, come
va?" chiede, scuotendo la mano in segno di saluto.
"Be', se state guardando questo video immagino male,
soprattutto per me, ma non importa, via. Non c'è niente che
non si possa sistemare al mondo e sono contento di poter fare la mia
parte per risolvere questo mistero del cavolo, visto che questa storia
sta andando avanti da fin troppo tempo. Come avrete di certo
immaginato, ci stiamo avvicinando molto alla soluzione dell'enigma e
già in questo momento le cose stanno cominciando a farsi
molto più pericolose per ognuno di noi, visto che stiamo per
rompere le uova nel paniere a qualcuno che non ha paura di infrangere
la legge e che non si farà problemi a farlo di nuovo, se
può salvargli la pelle. Certo, voi siete un po'
più al sicuro di me, visto che ho deciso di concentrare su
di me tutte le cose più rischiose, in modo da criptare tutto
in un codice che non tutti sono in grado di decifrare e che
potrà permettervi del vantaggio in caso mi succeda qualcosa;
ma dovrete comunque tenere gli occhi aperti in ogni momento e non
dovrete mai, mai e dico mai fidarvi di un qualsiasi membro della
cittadinanza, perché potrebbero sgambettarvi e mandarvi in
pasto ai lupi. Forse detto così sembra esagerato, ma il
punto è che non sono sicuro di chi sia coinvolto e chi meno,
quindi meno vi fate vedere in giro meglio è, per ognuno di
voi. Certo, non tutti i cittadini sono stronzi e non tutti vi vogliono
veder fallire, ma sono sicuro che qualcuno desideroso di vedervi
sconfitto c'è, devo solo scovarlo e trovare il modo per
smascherarlo. Ho già un piano che non andrò a
spiegare qui per ovvi motivi, ma sappiate che è un buon
piano e che sono sicuro all'80% che andrà in porto, quindi
non avrete da preoccuparvi ancora per molto. In ogni caso, ho
già sparso degli indizi in giro per la zona, quindi in caso
mi succedesse qualcosa potrete benissimo andare avanti senza di me
senza troppi problemi. Ora, il problema maggiore rimane come
assicurarmi che questo video lo vedrete solo voi, ma è
qualcosa a cui posso lavorare con tutta tranquillità. Anzi,
mi è già venuta una bellissima idea, quindi non
c'è più alcun particolare a cui pensare per
oggi.. cioè, sì, rimane il fatto che devo
smascherare pubblicamente quella che da ora in poi
chiamerò la spia, ma per quello c'è
tempo, visto che l'operazione scatterà con il calar della
notte. E quindi bho, sì, insomma, spero che non vedrete mai
questo video. Non dico tanto per me, perché di persone come
sono fatto io ce ne sono tante al mondo, e non lo dico neanche
perché sono morbosamente attaccato a questa mia strana vita,
ma perché mi manchereste. Ci sono così tante cose
che devo dirvi e che probabilmente non troverò mai il
coraggio di sputar fuori... Ehh, ognuno ha le sue debolezze, e le
parole sono la mia. Troverò un modo per superare anche
questo ostacolo, vedrete, ma per ora concentratevi sul guardarvi alle
spalle, e non abbassate mai la guardia. A qualche giorno da
ciò che mi capiterà, perché
è inevitabile che mi succeda qualcosa, vista la situazione
in cui mi sono cacciato, riprendete con le operazioni di routine e
comportatevi come se non fosse successo niente, troverete gli indizi
senza neanche farlo apposta. Come ben sapete, purtroppo solo quel
coglionazzo di Steve è in grado di decifrare il codice,
quindi la sua presenza è davvero molto, molto determinante,
e vi pregherei di far sì che rimanga sempre nel gruppo,
qualunque cosa succeda. In caso venga allontanato, dovrete passare
parecchie notti insonni a confrontare i miei appunti originali con
quelli tradotti
–
ovvero la versione ufficiale che vi ho sempre passato –,
a cercare di familiarizzare con il codice, perché
è davvero di fondamentale importanza riuscire a 'farci
amicizia'. Ma soprattutto, state attenti più che potete
quando vi avvicinerete alla rete, perché non sono mai
riuscito ad infiltrarmi nel loro sistema di sicurezza, e di conseguenza
quelli là hanno qualcosa di grosso da nascondere. Non sono
mai riuscito a capire cosa, ma c'è qualcosa di decisamente
importante isolato in quella zona; quindi quello rimane il punto
più misterioso e pericoloso di tutto il monte, e quello in
cui mi concentrerei maggiormente, se fossi un po' più
muscoloso e un po' più agile. Purtroppo sono quel che sono e
non potrò mai cambiarlo perché i miei limiti sono
questi, ma sono sicuro che uno di voi riuscirà alla grande
dove io ho fallito, e allora il mistero sarà
pressoché risolto. Be', che dire, buona fortuna, ragazzi.
Sappiate che credo in voi con tutte le mie forze, e che non
smetterò mai di farlo. Sono onorato di aver fatto la vostra
conoscenza e di esser potuto diventare vostro amico. Siete dei grandi.
Delle fonti d'ispirazione. Non cambiate mai, vi prego,
perché ora come ora siete ciò che mi spinge a
migliorarmi costantemente, giorno dopo giorno. Grazie di tutto,
davvero. Alla prossima".
Finisce di parlare, sorride malinconicamente, gli occhi velati di
lacrime, e si avvicina per spegnere la telecamera, sillabando qualcosa
con le labbra. Probabilmente 'vi amo'. Poi tutto si fa buio.
Quando
il filmino finì, un silenzio soffocante riempì la
stanza e nessuno mosse un muscolo. Riuscivo a percepire il
magone che aveva attanagliato le bocche dello stomaco di tutti i miei
amici e io stesso mi sentivo poco bene, anche se non lo conoscevo quasi
per niente in confronto a loro, e la situazione era a dir poco
straziante. Mi morsi il labbro e mantenni lo sguardo basso per non
incrociare quello velato di lacrime e tristezza degli altri, ma le cose
non migliorarono minimamente e mi sentii solo un gran codardo. Respirai
a fondo, il cuore che batteva forte, e mi alzai per abbracciare la
bionda, ancora in piedi di fronte a me, scossa dai tremiti e dai
singhiozzi silenziosi che attaccano sempre chi non vuole farsi vedere
debole. La strinsi a me il più forte possibile,
accarezzandole delicatamente i capelli e lasciando che m'inondasse la
maglietta di lacrime amare, e per qualche istante mi sentii una persona
migliore, mentre anche Ray si alzava e ci circondava con le braccia,
seguito a ruota dalla riccia. Ci abbracciammo tutti, un abbraccio di
gruppo sincero, profondo e addolorato come non ne avevo mai provati, e
ci giurammo silenziosamente che avremmo scoperto chi aveva fatto questo
al nostro Jimmy, che gliel'avremmo fatta pagare, che non avremmo
lasciato che le cose ci sfuggissero di mano un'altra volta, non a
questo prezzo. Lindsey si appiattì ulteriormente contro il
mio petto e si portò le mani vicino al volto, come se
dovesse mordersi le dita, e mi guardò con i suoi grandi
occhi da cerbiatto, trasmettendomi in un istante tutto quello che aveva
temuto, sofferto e passato durante i miei anni di assenza, mentre le
indagini avevano preso velocemente vita e si erano trovati tutti
catapultati in una situazione più grande di loro. Mi sentii
mancare il terreno sotto i piedi e deglutii, ma sostenni il suo sguardo
e lo ricambiai con uno più dolce, positivo, pieno di
speranza e buone intenzioni, e sentii i suoi muscoli rilassarsi un po',
mentre arcuava le labbra in un sorriso timido e impacciato e mi
ringraziava silenziosamente. Columbia si staccò da noi e Ray
fece lo stesso, così finimmo di sciogliere l'abbraccio e ci
guardammo tutti in faccia, più seri possibile.
"Dopo Steve sono io quello che conosceva meglio James, mi
occuperò io del codice" annunciò il riccio.
"Noi cercheremo degli indizi e ci prepareremo per la ricognizione della
rete metallica, invece" fece Columbia, con tono autoritario e deciso.
Io e Lindsey annuimmo, ci guardammo negli occhi per un po' e infine ci
separammo, il riccio nella zona appunti e io e le altre a setacciare
l'intera base, mettendo in discussione i più minimi dettagli
e particolari, alla ricerca di qualcosa che non sapevamo neanche che
forma avrebbe avuto. Dopo una mezzora di duri e infruttuosi sforzi, mi
lasciai cadere su una sedia, esausto, mentre le ragazze si
accoccolavano una sul bordo del tavolo e l'altra ai piedi della
scaletta, e tirai fuori dalla tasca l'ipod, infilandomi le cuffie in
tasca e facendo partire una canzone casuale, senza farci davvero caso.
"Ehilà, ragazzo mio, vedo che hai scoperto il primo indizio"
cinguettò una voce.
"Jimmy?!" esclamai, scattando in piedi e voltandomi a destra e
sinistra, freneticamente.
"Gerard? Ehi, tutto okay?" mi chiese la bionda, avvicinandosi. La
guardai con occhi sbarrati e abbassai lo sguardo sull'ipod, che non
entrava tutto nella mia tasca, e in un istante mi fu tutto chiaro.
Ho ancora la scena come dipinta davanti agli occhi, tant'era singolare.
Camminavo spavaldamente, tutto sommato, e mi guardavo attorno con
circospezione ogni due secondi, tant'era grande l'ansia, e ogni minimo
fruscio mi allarmava e mi metteva l'anima in subbuglio, quindi ero
decisamente buffo da osservare. Non avevo ancora raggiunto la
recinzione, ne ero anzi ancora un po' lontano, e stavo cominciando a
dubitare che l'avrei mai raggiunta, quando di punto in bianco,
spostando l'ennesimo ramo di sempreverde, l'avevo vista ergersi
lì davanti a me, in tutto il suo metro e mezzo di altezza,
in una spavalda e arrogante sicurezza; sembrava quasi dirmi 'ragazzino,
vattene pure via; non riuscirai mai a scoprire il mio segreto'. Non mi
ero lasciato intimorire maggiormente e avevo cominciato a guardarmi
intorno con l'aria più disperata e terrorizzata possibile,
cominciando a recitare la mia parte e facendo partire il piano. Esitai
qualche secondo vicino alla rete, senza appoggiarmici, poi lanciai un
'c'è nessuno?' per rendere la scena più
realistica e mi costrinsi ad aumentare il battito cardiaco, respirando
più velocemente e in modo più irregolare.
Deglutii sonoramente e ripresi a camminare, costeggiando la recinzione,
lanciando qualche richiamo di tanto in tanto, per non perdere
credibilità; e mi fermai dopo circa un chilometro,
lasciandomi cadere sulle ginocchia e inumidendomi più volte
le labbra, come per recuperare il controllo, poi gridai un 'ehi' a
tutti polmoni, conscio che nessuno mi avrebbe risposto. A quel punto
attaccai con un 'c'è nessuno? dove siete tutti? ehi?' e
finsi di asciugarmi le lacrime, nonostante i miei occhi fossero quasi
completamente non-lucidi, e mi tirai su, ostentando stanchezza e
smarrimento. Pretendendo di singhiozzare, spaventato e spaesato come
dovrebbe esserlo un qualsiasi ragazzo disperso, ripresi a camminare,
tenendomi il più vicino possibile alla maglia metallica,
argentea come se fosse nuova ma vittima della ruggine in qualche raro
punto, e cercai di far arrivare ai ragazzi la più vasta
varietà d'immagini possibile, voltandomi verso destra una
volta, verso sinistra un'altra e indietro un'altra ancora, e mi
appoggiai al tronco di un albero lì vicino, lasciando che il
mio peso si riversasse interamente contro la corteccia.
"Ehi? C'è qualcuno qui? Vi prego, aiutatemi" piagnucolai,
facendo scivolare la schiena lungo il legno, sedendomi e abbracciandomi
le ginocchia in un ultimo tentativo di consolarmi e calmarmi. Nessuno
rispose, niente si mosse. Storsi la bocca, amareggiato. E se qualcuno
si perdesse davvero in mezzo a questi cazzo di boschi? Come
reagirebbero le autorità? Come reagirebbero i proprietari
della rete?
Guardandoli storto, me ne rimasi seduto per un'altra decina di minuti,
poi mi alzai e mi rimisi in cammino, zoppicando e appoggiandomi agli
arbusti di tanto in tanto, per far capire che ero allo stremo delle
forze, ma continuai a non attirare l'attenzione di nessuno. In preda al
finto sconforto e alla disperazione più nera, presi a
calciare un sasso e lo mandai contro la recinzione, senza farlo
apposta, e mi sentii mancare il fiato nel vedere che non solo non era
scattato nessun allarme, ma che non c'era neanche un sistema di
elettroshock destinato a chiunque provasse anche solo a toccare
l'attrezzo. Mi sentii più fiducioso e mi avvicinai a
guardarla, raccolsi il sasso, me lo misi in tasca e ripresi a
camminare, con aria depressa.
"Perché non mi aiutate?!" sbottai dopo un po', stringendomi
le mani attorno alle tempie.
"Assassini, assassini, assassini" gridai, crollando in ginocchio.
Grazie al cielo sapevo piangere a comando.
"Che cosa vi costa? Cosa vi cambia? Vi prego, aiutatemi. Non ce la
faccio più" piagnucolai, sdraiandomi per terra,
abbracciandomi stomaco e gambe e piangendo come un forsennato. Per un
po' rimase tutto in silenzio, poi, quando avevo ormai perso la
speranza, sentii un cigolio e intravidi un cancello che si apriva in
lontananza, da dove uscirono due donne, che mi corsero incontro.
Strinsi i denti prevedendo il dolore che avrei provato, strizzai gli
occhi e sbattei la ferita contro il terreno arido e roccioso, in modo
quasi impercettibile agli occhi degli altri ma fin troppo percettibile
per me. Mi si riempirono gli occhi di lacrime e assunsi un'aria di
disperato dolore ancora più credibile, in quanto reale, e mi
raggomitolai ulteriormente su me stesso tra i singhiozzi, fingendo di
non essermi accorto di niente. Le donne mi si avvicinarono, caute,
e lanciarono un'occhiata preoccupata prima alle mie bende
insanguinate, poi ai miei vestiti strappati ed infangati, e decisero di
portarmi con loro. Una di loro si piegò sulle ginocchia e mi
posò una mano sulla spalla; finsi di sobbalzare e spostai
velocemente il viso dal braccio, facendo correre i miei occhi sgranati
lungo i lineamenti dei loro volti. Contrassi il volto in un sorriso e
mi asciugai le lacrime con commozione.
"Lo sapevo che.. che c'era qualcuno ad ascoltarmi... Grazie, grazie
mille..." mormorai stringendo le labbra in un ultimo scatto di
gratitudine, poi pretesi di svenire. E loro ci credettero.
Quando mi "svegliai", non avevo più la giacca addosso ed ero
disteso su un lungo divano di un verde militare piuttosto stinto, con
una borsa del ghiaccio sotto il collo e delle bende pulite attorno alla
testa. Le due donne non erano nella stanza, così ne
approfittai per far emergere meglio una delle cuffiette, che avevo in
precedenza infilato sotto la maglietta, facendola passare per un buco e
incastrandola là in mezzo, in modo da assicurare sempre una
visuale abbastanza decente ai miei amici. Socchiusi gli occhi, udendo
uno scalpiccio di passi, e pochi secondi dopo una donna sulla ventina
irruppe nella sala, stringendo tra le mani una pezza inumidita d'acqua
tiepida con cui lavarmi via lo sporco dalla faccia. Finsi di svegliarmi
proprio in quel momento e lei abbozzò un sorriso
imbarazzato, dopo un attimo di puro panico, e si allontanò
da me, permettendomi di tirarmi a sedere. Mi portai una mano alla testa
e mugugnai.
"Dove... dove sono?" domandai, lasciandomi scappare un gemito di dolore
nello sfiorare la ferita appena disinfettata. La donna
scattò verso di me e mi strinse forte la mano, facendomi
sussultare. La guardai con gli occhi sgranati e lei cercò di
sembrare meno tesa di quanto fosse.
"Non devi toccarti la testa o la ferita non si cicatrizzerà
mai" mi avvertì frettolosamente, come a scusarsi del suo
comportamento istintivo e inspiegabile, poi mi lasciò la
mano e io la abbassai, confuso.
"Io mi chiamo Alicia, comunque" si presentò, spostandosi una
ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio.
"Gerard, piacere" dissi a mia volta, incerto sul doverle stringere la
mano o meno. Lei decise di no.
"Sei pieno di graffi, Gerard. Ti senti bene?" mi domandò,
guardandomi dritto negli occhi.
"Sì, be', più o meno –
biascicai. –
Diciamo che non sono fatto per i boschi, ecco"
Rise della mia pessima battuta e la sua risata cristallina mi piacque,
così abbozzai un sorriso.
"Ma toglimi una curiosità, che ci facevi in mezzo alla
foresta?" mi chiese dunque.
"Be', ecco, vedi, stavo passeggiando per passare il tempo e a un certo
punto mi sono allontanato troppo dal sentiero. Ho provato a tornare
indietro, ma non riuscivo proprio a ritrovare la strada,
così ho finito col perdermi ancora di più e sono
finito qui. Più o meno. Diciamo che da sud arrivavano degli
strani rumori e mi sono spaventato, così ho perso il
controllo di me stesso e ho cominciato a correre all'impazzata verso
nord. Ho avuto parecchia fortuna a finire qui" spiegai, torturandomi le
dita.
"Be', caspita, sembri più morto che vivo"
commentò lei, accennando ai miei abiti in pessime condizioni.
"In effetti sono ore che giro" ammisi, imbarazzato.
"Oh. E non sei stanco?" chiese ancora, piegandosi verso di me.
"Infatti sono svenuto" le ricordai con un sorriso, facendola arrossire
per la domanda stupida.
"Ah, già, hai ragione, scusa" esclamò tutto d'un
colpo, coprendosi la bocca con la mano.
"Immagino che tu ti senta a disagio così conciato, vado a
prenderti qualcosa di mio fratello, così potrai cambiarti.
Tu intanto va a farti una doccia, così ti riprendi un po' da
questa brutta esperienza" trillò convinta, prendendomi per
una mano e tirandomi in piedi prima ancora che potessi dire qualcosa.
"Il bagno è da questa parte, vieni" mi avvisò,
portandomici davanti.
"Dentro troverai degli asciugamani puliti, usa pure quello che
preferisci. Il phon è lì sulla mensola, se ti
serve una qualsiasi cosa dimmi pure, sarò felice di
aiutarti" cinguettò, sfoggiando un enorme sorriso. Non ebbi
neanche il tempo di aprir bocca che lei era già
trotterellata via, presumibilmente verso la camera del fratello alla
ricerca di un paio di vestiti per me. Rimasi lì spiazzato
per un paio di secondi, poi mi lanciai un'occhiata attorno e mi
avventurai verso la direzione in cui era sparita lei, inquadrando il
più possibile quel corridoio lungo ed eccentrico, pieno di
quadri, ninnoli e chincaglierie d'altri tempi, e mi chiesi dove diavolo
fossi capitato. Mi era ben chiaro che infilare le cuffie e ascoltare i
consigli degli altri era a dir poco impossibile, vista
l'iperattività della mia ospite, quindi potevo contare
solamente su me stesso. Presi un respiro profondo e mi fermai davanti a
una porta di legno di ciliegio, che sembrava molto più
spessa del normale, e mi preparai ad aprirla, quando all'improvviso
spuntò fuori Alicia.
"Gerard! Ehi, sono qui!" mi chiamò, avvicinandosi a me
sventolando freneticamente la mano.
"Scusa se ti ho lasciato lì così, ecco il tuo
cambio" sorrise, mettendomi in braccio un paio di vestiti.
"Credo siano della tua misura, in fondo mio fratello è alto
più o meno quanto te" aggiunse.
"Grazie mille" mormorai un po' perplesso, alzando lo sguardo ed
incontrando il suo, raggiante di allegria.
"A-allora io vado" affermai, indicando il bagno con il dito. Lei
annuì e mi salutò con la mano, così mi
voltai e rifeci tutto il percorso al contrario, esitando un momento
sulla soglia della sala, voltandomi a guardarla. Era ancora
lì, e il suo sorriso sembrava ancora più grande
di prima. Mi sentii scuotere da un brivido e mi chiusi la porta alle
spalle, girando due volte la chiave. Non ne capivo bene il
perché, ma quella ragazza m'inquietava, e così
faceva la sua casa. Mi lanciai un'occhiata attorno e mi sentii invadere
da un senso di disagio, così aprii l'acqua e feci tutto il
possibile per lanciarmi il prima possibile sotto il suo getto bollente.
Appena uscito dalla doccia, effettivamente, mi sentii davvero molto
meglio. Lo shock dell'interrogatorio, del video e ora dell'incontro con
quella pazza scatenata se n'era andato con calma, scivolando via
assieme al sapone, e mi sentivo più carico, rinato. Era
stata una giornata pesante ed era ancora lontana dal finire, quindi
quella pausa sotto l'acqua mi era stata davvero d'aiuto, sebbene
all'inizio ero un po' scettico. Anche perché, diciamocelo,
chi è che fa entrare uno sconosciuto in casa sua e poi
insiste perché si faccia la doccia, quando non puzza o
niente? Okay che avevo i vestiti strappati e un po' laceri, ma il fatto
che mi c'avesse spedito senza neanche chiedere mi aveva lasciato
spiazzato, perplesso, e mi aveva dato molto da pensare, mentre mi
toglievo i nodi dai capelli. Era una ragazza strana, poco ma sicuro, ma
forse potevo sfruttare la cosa a mio vantaggio e farmela amica, visto
che non sembrava neanche poi così antipatica. Carina era
carina, suppongo, ma quello non significa niente. Aveva la faccia
allegra e la parlantina facile, e queste ultime cose me la facevano
vedere come una ragazza aperta e spensierata, una sognatrice che crede
ancora che al mondo esistano i principi azzurri e i lieto fine, una
ragazza che pensa sempre positivo, qualunque cosa accada. Avevo davvero
intenzione di fare amicizia con lei, solo che allo stesso tempo mi
metteva un po', come dire?, non paura, non ansia, ma mi comunicava un
misto di sensazioni che passava in continuazione dallo spiacevole al
piacevole, e non sapevo come comportarmi in sua presenza.
Uscii dal bagno con titubanza e mi guardai intorno, senza ricordarmi da
dove ero arrivato, da dove era sparita lei o dove avevo visto la
gigantesca porta di ciliegio, e mi sentii smarrito come non mai.
Respirai a fondo, mi morsi il labbro e imboccai il corridoio che
portava verso destra, il più austero e meno pieno di
ritratti di famiglia –
che trovavo orribili e inquietanti –
tra i due, e lo percorsi finché non m'imbattei in un'altra
porta, stavolta di dimensioni normali, dalla quale proveniva un flebile
vociare. Mi domandai cosa fosse e bussai sul legno con le nocche, senza
ricevere risposta, così provai a chiamare la
mia amica un paio di volte, per capire se si trattasse di lei
o dell'altra donna che avevo scorto qualche ora prima. Niente.
Improvvisamente tutti i suoi avevano cessato di esistere e l'unico
rumore che riuscivo a udire era quello del mio respiro che s'infrangeva
contro il legno nodoso e levigato.
"Alicia? Alicia, sei tu?" riprovai, dopo aver bussato un'altra volta,
con più decisione.
"Ehm, Alicia? Tutto bene?" domandai. Non ricevetti risposta,
così deglutii, sistemai meglio le cuffiette in modo da
riprendere meglio la scena e misi una mano sulla maniglia, pronto a
girarla.
"Gerard! Eccoti finalmente!" esclamò lei dall'altra parte
del corridoio, facendomi sobbalzare.
"A-Alicia, c'è qualcuno qui" osservai, indicando la stanza.
"Ma che dici, non c'è nessuno" ribatté lei,
scuotendo la testa e guardandomi come se fossi pazzo.
"Eppure giurerei.."
provai a obiettare, ma lei mi posò un dito sulle labbra.
"Shh" mi intimò, allontanandosi a passi pesanti. Un paio di
minuti e il brusio ricominciò. Guardai la ragazza come a
dire 'hai visto?' e lei tornò da me in punta di piedi,
stupita almeno quanto lo ero io.
"Non è possibile" sussurrò, gli occhi sgranati e
i muscoli irrigiditi. Misi nuovamente la mano sulla maniglia e la
guardai negli occhi, aspettando il suo permesso per aprire la porta e
saltar dentro, e lei annuì. Il grido che la persona
all'interno della stanza fece quando mi vide è qualcosa che
non dimenticherò mai.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
combattere contro il passato (cap 9)
«Be',
e ora che facciamo?»
La
domanda era aleggiata sulle labbra di tutti per un paio di minuti,
mentre il roscio si allontanava, addentrandosi nel bosco e
avvicinandosi di più al pericolo e alla rete metallica, ma
dovette passare un po' di tempo prima che uno dei presenti riuscisse a
metterla a voce, materializzando l'ansia di tutti gli altri e rendendo
la situazione un po' più reale. I ragazzi si guardarono
tacitamente negli occhi e risposero alla domanda con uno sguardo
insicuro e serrando forte la bocca, come a dire: 'ah bho, non chiederlo
a me'.
«Semplice, si torna al rifugio,
si aspetta e poi si va avanti col piano» minimizzò
Lindsey scrollando le spalle, prendendosi carico della tensione degli
altri e spostandosi una ciocca dal viso con fare sciolto.
«Avete sentito tutti quello che
ha detto Gerard, no?» li incalzò, alzando un
sopracciglio; loro annuirono.
«Allora non avreste bisogno di
chiedere, visto che è già stato detto tutto in
precedenza. Ora ci metteremo in cammino, tra una ventina di minuti
saremo alla base e ci metteremo in postazione, poi decideremo i turni
per sorvegliare il video, visto che non potremo assolutamente lasciare
il roscio da solo neanche per un secondo, e basta. Ci divideremo in
varie mansioni, e per non destare sospetti ogni tanto ci faremo vedere
ad andare in giro in macchina con la musica a palla e delle birre in
mano, e per rendere il tutto più reale ogni tanto uno di voi
indosserà una parrucca rossa. La speranza è che
Gerard riesca a tornare prima che faccia buio, ma visto che sono
già le cinque passate bisognerà inventarsi
qualcosa per suo padre, e bisognerà anche avvisare i nostri
genitori e dirgli che non torneremo a casa per cena»
valutò, storcendo la bocca.
«Chi è che si offre
per il primo turno?» domandò, guardandosi intorno.
Gli altri si guardarono l'un l'altro, senza aprire bocca e
rabbrividendo, e la ragazza sentì l'impulso di sbuffare, ma
si trattenne.
«Be'? Nessuno?»
insistette, guardandoli uno dopo l'altro con sguardo serio. Ray
sospirò, chiudendo gli occhi, e fece per alzare una mano, ma
la riccia lo precedette.
«Vado io». Lindsey la
guardò soddisfatta e annuì, dedicandole un
sorriso compiaciuto.
«Perfetto allora. Ray, tu ed io
torneremo a casa e diremo ai nostri che andiamo a vedere un film nella
città accanto e che quindi passeremo la serata fuori, se non
l'intera nottata, poi passeremo dal padre di Gerard e diremo la stessa
cosa anche a lui, scusandoci se il figlio non è venuto. Gli
diremo che lui e Columbia si sono avviati prima di noi per prenotare e
comprare qualcosa da mangiare durante il film, e che quindi gli abbiamo
assicurato che saremmo andati noi ad avvertire suo padre»
spiegò.
«E io che dovrei
fare?» domandò la riccia, affrettando il passo per
camminare accanto all'amica.
«Be', calcola che non staremo
fuori per sempre, ma solo per un paio d'ore. Il film me lo faccio
descrivere da qualche ragazzo di scuola che è appena stato
fuori e poi lo racconto anche a voi, non è quello il
problema, ma dobbiamo stare attenti a parcheggiare in un punto ben
riparato. Tu rimarrai a visionare il video per un po', mentre io e Ray
faremo un giro di ricognizione e ci assicureremo di non essere seguiti,
spiati o comunque in pericolo, e appena finiremo torneremo da te per
avvertirti. Tu farai le prime quattro ore di guardia al roscio, poi
sveglierai me e ti metterai a dormire, mentre io prenderò il
tuo posto e mi sparerò quattro ore di buio e russare. Una
volta finito il mio bel turno, sarà la volta di Ray, che poi
sveglierà te dopo quattro ore e così via,
finché il roscio non torna indietro e ci porta qualche
informazione utile.»
Ray annuì fra se, elaborando la cosa, poi si
voltò a guardare la bionda.
«E se non ci lasciassero
uscire?» chiese, un po' preoccupato.
«Oh, andiamo, sei maggiorenne e
vaccinato, ti lasceranno andare di sicuro!»
ribatté lei.
«Spero sia così...
Comunque dobbiamo sbrigarci se vogliamo anche prendere qualche coperta
per stanotte, non possiamo certo aspettare che i miei tornino a casa
per mettere la roba in macchina, sarebbe fin troppo sospetto. Voglio
dire, okay che andiamo al cinema, ma che ci facciamo coi sacchi a
pelo?»
«Infatti stiamo procedendo a
passo sostenuto» sorrise Lindsey, che aveva già
calcolato tutto prima.
«Arriveremo alla macchina tra
venti minuti, parcheggeremo nel giardino di casa tua e butteremo
materassi, coperte e tutto ciò che ci serve dalla finestra,
così c'impiegheremo meno tempo e rischieremo di meno. Se
qualcuno ci vede, diremo che c'abbiamo rovesciato sopra della birra e
che li stiamo portando in lavanderia, così che tua madre non
se ne accorga e non ci uccida, e li pregheremo di non andare a
dirglielo.»
«Sembra che tu abbia tutto
pronto» si compiacque il riccio con un sorriso.
«Be', questa missione
è estremamente importante e dobbiamo dare tutti il massimo
perché finisca bene, quindi mi sono organizzata
già mentre accompagnavamo Gerard» disse Lindsey,
ricambiando il sorriso.
«Non credo serva ricordarvi che
da queste ore dipende il resto della nostra vita, o sbaglio?»
sottolineò la ragazza, guardando gli altri negli occhi e
cercando di scorgere in loro la minima esitazione o insicurezza.
«Non ti preoccupare, ne siamo
tutti consapevoli» ribatté Columbia, annuendo.
«Bene, allora
andiamo».
Il gruppetto riprese la sua marcia e scomparve tra le frasche, senza
lasciar traccia del suo passaggio.
Il signor Macroby si mise una sigaretta in bocca e sistemò
le mani a conca, impedendo al vento di disturbarlo nel momento
più importante dell'operazione, azionò
l'accendino e diede fuoco alla punta della stecca bianca, ispirando con
decisione. Un lieve odore di tabacco si alzò dalle sue dita,
mentre lui tratteneva il fiato e lasciava che il fumo gli accarezzasse
le papille gustative, lentamente e delicatamente; poi chiuse gli occhi
e fece un piccolo flash, liberando una nuvoletta grigiastra
nell'atmosfera.
Il ragazzo che aveva appena interrogato, un tal Gerard Way, gli aveva
fatto tornare in mente il ricordo di suo figlio Eric, che si era
arruolato da poco nell'esercito ed era partito da qualche settimana per
la sua seconda missione di guerra, in qualche deserto sconosciuto in
occidente, e sentì improvvisamente la sua mancanza,
nonostante non gli parlasse da mesi e si fosse soffermato ben poco
sulla pericolosità del suo lavoro. Era un ragazzo
affidabile, suo figlio, ma anche tanto impulsivo, e si era arruolato
nell'esercito proprio per imparare a trattenere la sua esuberanza,
oltre che per proteggere tutti i suoi cari, e suo padre l'ammirava per
questo, anche se certe volte si ritrovava a pensare che avesse fatto
una stronzata, ad andarsene da casa così presto. Il ragazzo
di oggi aveva lo stesso sguardo, lo stesso guizzo d'intelligenza
nascosto dietro un'aria pacifica e innocua, e l'uomo si era reso conto
di trovarsi davanti a un tassello importante di quel mistero - non solo
perché il ragazzo si era mostrato ansioso e colto di
sorpresa, ma perché c'era qualcosa in lui che aveva
risvegliato il suo sesto senso e che aveva attirato morbosamente la sua
attenzione.
Diede un altro tiro alla sigaretta e trattenne il fumo nei polmoni per
un po', prima di espirare nuovamente dalle narici e riaprire gli occhi
con aria più tranquilla. C'era qualcosa in quella storia che
non lo convinceva. Va bene, d'accordo, quel ragazzo aveva perso la
memoria e si trovava spesso di fronte a miscugli di ricordi e
realtà, ma qualcosa avrebbe dovuto pur ricordarselo, no? Una
parte di lui non faceva che ripetergli che avrebbe dovuto sfruttare
l'occasione e continuare a interrogarlo finché non gli
avrebbe detto ciò che si aspettava di sentir uscire dalle
sue labbra, ma un'altra lo rassicurava e lo tranquillizzava dicendogli
che il ragazzino avrebbe finito col dirgli ciò che voleva
solo per disperazione e per levarselo dai piedi; e che quindi
continuare a insistere si sarebbe rivelato un grande sbaglio. Il
poliziotto preferiva credere alla parte più gentile e si era
così riappacificato con il suo senso del dovere, ma non era
del tutto soddisfatto del suo operato. Sentiva che mancava qualcosa
d'importante nel suo rapporto giornaliero, e forse aveva finalmente
capito cosa. Finì la sigaretta, la spense contro il
posacenere e si alzò, infilandosi il cappotto e chiudendosi
la porta alle spalle, lentamente; poi entrò in macchina e
accese il motore. Avrebbe interrogato gli altri.
Lindsey si trovava nel giardino di Ray quando vide un'automobile bianca
e azzurra svoltare nella sua via e poi fermarsi a poche centinaia di
metri da loro, così strinse gli occhi e cercò di
distinguere meglio la figura muscolosa che ne era appena scesa. Non
riconoscendo l'uomo, fece segno all'amico di rimanere dov'era e
andò incontro allo sconosciuto, che intanto si stava
avvicinando, lanciandosi qualche occhiata attorno con aria circospetta
e portandosi una mano vicino alla bocca, mormorando qualcosa dentro un
registratore.
«Posso aiutarla?» gli
chiese, fermandosi e posandosi le mani sui fianchi.
«In realtà
sì, cercavo la signorina Ballato» rispose l'uomo,
guardandosi ancora intorno.
«Ce l'ha davanti.
Desidera?» inarcò il sopracciglio, mantenendo un
tono freddo.
«Dovrei
farle qualche domanda sul caso Euringer se non le dispiace. Sa, le
procedure standard. A quanto pare, lei è la fidanzata del presunto colpevole,
quindi potrebbe sapere qualcosa di più».
«Guardi che Steve non ha fatto
un accidente» lo interruppe lei.
«Infatti ho detto
presunto» sorrise l'agente, infilandosi le mani in tasca con
aria rilassata.
«Dove si trovava il pomeriggio
in cui l'altro ragazzo è finito in coma?» chiese.
«Su alla baita, insieme ad
alcuni miei amici. I nostri genitori possono confermare,
così come il casino che abbiamo lasciato e la signora che ce
l'ha affittata per il week end» rispose.
«Quindi potreste perfettamente
aver aggredito voi il signor Euringer» commentò
l'uomo.
«Come del resto avrebbe potuto
farlo qualsiasi membro di questo paese, signore. Abbiamo incontrato
parecchia gente su per i boschi, visto che l'unico sport qui
è camminare» replicò pacatamente lei.
«Su questo purtroppo devo darle
ragione» sospirò l'agente, ridendo sotto i baffi.
La ragazza era in gamba.
«E mi dica, signorina, chi
c'era con lei?» continuò, alzando lo sguardo.
«I nomi li conoscerà
di certo già tutti, siamo gli indiziati principali, visto
che eravamo i suoi migliori amici. Steve Righ, Columbia Waters, Gerard
Way e Ray Toro» elencò, contandoli sulle dita.
«Vi siete mai
separati?» chiese quindi.
«Solo per andare in bagno e al
momento d'andar via. Siamo usciti tutti e ci siamo avviati alla
macchina, ma quando siamo arrivati ci siamo resi conto di esserci persi
Jim per la strada, così ci siamo seduti in cerchio e abbiamo
aspettato che arrivasse per una decina di minuti; poi ci siamo
spazientiti e l'abbiamo chiamato al cellulare, ma non ha risposto. Ci
siamo alzati e siamo tornati sui nostri passi, e abbiamo trovato la
porta della baita aperta, quando noi ce l'eravamo richiusa alle spalle;
così ci siamo detti 'ah, cavolo, probabilmente ha preso una
scorciatoia e ci starà aspettando alla macchina', e siamo
tornati indietro un'altra volta. Stavamo per raggiungere la
metà strada quando abbiamo sentito un urlo. Abbiamo
riconosciuto la voce del nostro amico, ci siamo spaventati e abbiamo
corso nella sua direzione, ma quando l'abbiamo trovato era steso a
terra privo di sensi, e nonostante le nostre cure non riuscivamo
proprio a svegliarlo. Ci siamo spaventati ancora di più,
l'abbiamo caricato in macchina e abbiamo lasciato che Steve lo portasse
all'ospedale, mentre noi siamo tornati a casa e siamo rimasti in ansia
tutto il pomeriggio. Abbiamo brancolato nel buio in preda al terrore
più nero, senza ricevere notizie né da Steve
né dai suoi genitori, e ci siamo chiesti perché
non ci avesse aggiornati sulla situazione. Be', almeno
finché non mi ha detto che lo avevate arrestato»
concluse, lanciando al poliziotto un'occhiata di silenzioso rimprovero.
«Avete arrestato la persona
sbagliata, lui ha solo avuto le palle di portare James a farsi
curare».
«Chi lo sa, forse ha ragione
lei» scrollò le spalle l'energumeno, senza
sbilanciarsi.
«Potrebbe darmi il suo numero
di cellulare?» chiese quindi, tirando fuori il block-notes e
una penna.
«Certamente» rispose
la ragazza, snocciolandoglielo a memoria. Lui sembrò
soddisfatto.
«Se posso darle un consiglio,
signorina, rimanga a casa la notte. Se davvero non è stato
il suo amico, allora siamo alle prese con un assassino bello e
buono» disse, infilandosi di nuovo le mani in tasca.
«Assassino? Guardi che Jimmy
è ancora vivo» obiettò la bionda,
alzando le sopracciglia, spaesata.
«Una pura botta di culo, se mi
passa il termine» spiegò l'uomo, stringendo una
sigaretta tra i denti.
«Se solo l'avesse colpito un
centimetro più in basso, ora il suo amico sarebbe
morto».
Si godette l'occhiata spaventata dell'interlocutrice e sorrise sotto i
baffi, accendendosi la sigaretta con calma.
«Per ora ho finito, ma devo
chiederle di non lasciare la contea fino alla fine delle
indagini» annunciò.
«Detto questo, le auguro una
buona giornata» la salutò, prima di girare i
tacchi e congedarsi, salendo a bordo della sua macchina e girando la
chiave con un colpo secco. Il motore sbuffò e
scoppiettò per qualche istante, poi l'auto si mise in moto e
scomparve dal viale, silenziosamente com'era arrivata.
Passò una decina di minuti, poi la testa riccioluta di Ray
fece capolino dalla finestra, sporgendosi verso Lin.
«Ehi, tutto a posto?» le
domandò, cercando di scorgere la figura del poliziotto.
«Sì, non ti
preoccupare» rispose la bionda con aria un po' assente, prima
di tornare alla sua postazione.
«Avanti, sbrighiamoci; abbiamo
perso fin troppo tempo» esclamò quindi, mentre Ray
faceva cadere un materasso accanto a lei. Lo caricò nel
bagagliaio, non senza fatica, e fece lo stesso con dei sacchi a pelo,
un paio di coperte e dei cuscini, che il riccio le passò con
una certa cura, stando ben attento a non centrarla con un tiro troppo
maldestro; poi scese le scale di corsa e la raggiunse, posandosi le
mani sulle ginocchia.
«Allora, abbiamo
tutto?» ansimò, alzando lo sguardo verso di lei.
«Mhm, chiama pure tua madre per
avvertirla, intanto passiamo da casa mia» lo
avvertì la ragazza, sedendosi sul sedile del guidatore e
allacciandosi la cintura, soprappensiero. Cominciava la fase due.
Nel frattempo, Columbia, da sola nella base, si sentiva a disagio e
sotto pressione. Aveva chiuso il portellone a chiave, nel timore che
qualcuno potesse cercare di aprirlo dall'esterno, e aveva dato una
veloce ripulita alle prese d'aria, in modo da riceverne in
quantità maggiori, e si era accomodata sulla sedia mobile di
Jimmy, tormentandosi le mani e congiungendole creando il segno del
silenzio. Rimase immobile per una decina di minuti, a concentrarsi sul
suo battito cardiaco e sul suo respiro irregolare, poi si diede una
spinta in avanti e si avvicinò al computer; accese il
monitor, batté qualche tasto e inserì la
password, collegando quindi il pc con il grande schermo che la
affiancava e sintonizzandosi sulla frequenza del marchingegno di James.
Cliccò su un'icona e l'immagine di un paesaggio selvatico e
incolto riempì il lenzuolo, spostandosi man mano che Gerard
camminava e si spingeva oltre. Ben presto comparve all'orizzonte una
rete metallica e, mentre il ragazzo si avvicinava a lei, la riccia
apriva bene gli occhi e setacciava ogni pixel, alla ricerca di qualche
telecamera o di un qualunque segno di vita al di là della
recinzione. Gerard urlava e strepitava, barcollando da una parte
all'altra e girandosi in modo da inquadrare tutto alla perfezione, ma
tutto attorno a lui rimase silenzioso e immobile per quella che a
entrambi sembrò un'eternità. Il roscio
avanzò ancora, stringendosi lo stomaco con le braccia e
crollando in ginocchio, e la ragazza notò un guizzo tra
l'argento e il ferro, e strizzò gli occhi per vedere meglio.
Esultò nel notare qualcosa che somigliava a una telecamera
di piccole, piccole dimensioni e condivise la sua scoperta col roscio,
che si rivolse verso di lei con aria d'infinita sofferenza e
stanchezza. Azzardò qualche passo nella sua direzione,
piagnucolò un altro po' e crollò a terra,
fingendosi svenuto, e la telecamerina si mosse quasi
impercettibilmente, allungandosi verso la sua figura esausta. Dopo
qualche minuto, due donne comparvero sullo sfondo e corsero verso
Gerard; si piegarono su di lui con il fiatone e gli misero una mano
sulla fronte, che lui stesso aveva fatto sanguinare dando un colpo
violento al terreno, senza farsi vedere, e sobbalzarono; lo presero una
per le braccia e l'altra per i piedi e lo portarono via, all'interno
della recinzione. Columbia non riuscì a trattenere un
'sì!' e chiuse la mano destra in un pugno, che
alzò verso il cielo con soddisfazione, poi tornò
a concentrarsi sul video e sulle due figure. Non riusciva a vederle in
faccia, ma vantavano entrambe una corporatura molto magra, quasi esile,
e delle mani fine, quindi dubitava che ci fosse un uomo tra loro. Una
aveva i capelli lunghi, raccolti in una coda di cavallo piuttosto
scompigliata e malfatta, mentre l'altra aveva i capelli di una misura
indefinibile, che la riccia identificò come piuttosto corta.
Portarono via il ragazzo con facilità, o almeno
così le sembrò, passando attraverso un cancello
meccanizzato che si richiuse appena furono entrati, e lo trasportarono
all'interno di una grande villa, depositandolo su un letto. Le figure
scomparvero e, dopo un po', quella coi capelli più corti
ricomparve, tenendo in bella mostra delle bende pulite e un panno
bagnato, con cui pulì il viso al suo ospite prima di
medicarlo nuovamente. Finita l'operazione, si sedette accanto a lui e
rimase a guardarlo per un po', il volto corrugato in un'espressione
indefinibile e le mani cinte in una morsa che indicava dubbio,
insicurezza. Columbia contrasse la mascella, domandandosi cosa stesse
pensando quella ragazza misteriosa, poi quella si alzò e se
ne andò all'improvviso, lasciando spazio alla prima,
più bassa e dalle curve più delineate, che si
posizionò davanti al viso di Gerard e lo scrutò a
lungo, trapelando ansia da tutti i pori.
Chi era quel ragazzo? Che cosa ci faceva lì, in quelle
condizioni?
Columbia si sentì cogliere dalla tenerezza mentre la
guardava, rendendosi conto che effettivamente provavano le stesse cose
e si ponevano le stesse domande, e provò più
interesse verso il suo volto magro e chiaro, circondato da una cascata
di capelli neri, ora slegati e liscissimi. Non riuscì a
evitare di chiedersi se si piastrasse e sorrise di fronte a quel
pensiero stupido e assolutamente irrilevante, tornando a concentrarsi
sulla mora e sui suoi occhi color nocciola, che non facevano che
correre da una parte all'altra del viso del roscio, ancora tragicamente
'svenuto'. Si chiese come riuscisse a rimanere così fermo e
immobile, senza nemmeno muovere le pupille da sotto le palpebre, e
provò un'immensa stima nei suoi confronti, in quanto
consapevole del fatto che lei non ci sarebbe mai riuscita. Dopo una
decina di minuti dall'uscita di scena della ragazza, Gerard
aprì gli occhi e si guardò attorno, notando la
sua silhouette sull'uscio della porta con la coda dell'occhio e
sperando che rientrasse presto. Così avvenne, per sua
fortuna, e Columbia tornò a concentrarsi su loro due, mentre
finalmente la ragazza apriva bocca per dire qualcosa.
La scena che mi trovai di fronte non si rivelò esattamente
come mi ero immaginato. Inizialmente, la prima cosa che fui in grado di
vedere fu una televisione accesa, dalla quale provenivano le voci che
avevamo udito dal corridoio, poi la mia attenzione venne catturata da
una fotografia incorniciata sistemata in bella vista, in cima a un
ripiano straripante di libri, fumetti e dischi, a cui la mora non
badò per niente. Incuriosito, mi feci avanti e mi avvicinai
alla libreria, alzandomi sulle punte per riuscire ad agguantare la foto
e portarla giù, e me la sistemai davanti agli occhi,
riparandola dal riflesso della lampada. Abbracciati su uno sfondo verde
e blu, c'erano due adulti di mezza età, un uomo e una donna,
e un ragazzo castano, con gli occhi socchiusi e un enorme sorriso
stampato in faccia, che sembravano voler immortalare un momento
importante delle loro vite. Inclinai la fotografia, cercando di trovare
in quei volti un qualcosa di familiare, e storsi le labbra.
«Potresti mettere a posto
quella foto, per favore?»
Sobbalzai nell'udire una voce maschile e mi voltai di scatto, facendo
scontrare il mio sguardo impanicato con quello teso e impacciato di un
ragazzo di all'incirca vent'anni, che però sembrava
infinitamente più giovane.
«Oh, sì, certo,
scusami» balbettai imbarazzato, riponendo il quadro sul
ripiano.
«Nono, scusa te, è
solo che ci sono molto affezionato e non vorrei che si
rompesse» balbettò lui con voce agitata, alzando
le mani e scuotendole per non farmi sentire in colpa, anche se sembrava
più spaventato e in ansia di me, poi sgranò gli
occhi per un millesimo di secondo e mi porse una mano.
«A
proposito, io sono Fin, piacere» si presentò,
abbozzando un sorriso impacciato. Gli strinsi la mano.
«Gerard» sorrisi,
mentre la ragazza riemergeva dalla porta.
«Fin! Mi hai fatto prendere un
colpo!» esplose, il cuore che ancora batteva forte e il volto
paonazzo.
«Si può sapere
perché diavolo non mi hai risposto? Sono tre ore che ti
chiamo!»
«Scusa, pensavo fosse la
tv» rispose lui scrollando le spalle e lanciandole
un'occhiata molto 'mi dispiace, non l'ho davvero fatto apposta',
incurvando le labbra in una smorfia spiacevolmente colpevole. Alicia
scosse la testa, contrariata, sbuffò e poi
ritrovò la calma, tornando a guardarlo con amorevole
tranquillità.
«Vabbè, fa niente,
dai. Lavati le mani, tra dieci minuti è pronto»
cinguettò, scomparendo quindi dalla sala. Rimasi un attimo
immobile a guardare il ragazzo, gli occhi incollati sul suo viso dolce,
e lui arrossì.
«Er, credo che Ali ti stia
chiamando» mi avvertì, portandosi una mano dietro
il collo per massaggiarselo e scacciare la tensione che si era creata
tra noi. Sussultai e mi girai di scatto, cadendo dalle nuvole.
«Eh? Oh, cazzo, è
vero» esclamai, correndo di scatto in corridoio e avvampando
per la brutta figura appena fatta. Il ragazzo rise sotto i baffi e mise
la testa fuori dalla camera, osservandomi scappare via, poi sorrise, la
scosse quasi impercettibilmente e la ritirò, socchiudendosi
la porta alle spalle.
Dovetti aspettare più di un quarto d'ora prima di rivederlo
un'altra volta, a dispetto di quello che aveva detto la mora, e non
potei evitare di sorridere nel vedere che si era seduto accanto a me.
Nascosi la cosa e mi voltai verso la mia nuova amica per scambiare
quattro chiacchiere con lei, ma il mio cuore batteva terribilmente
veloce e mi sentivo lo stomaco sottosopra, segno che ero un deficiente
di dimensioni assurde. Partivo per la missione più
importante della mia vita e m'innamoravo a prima vista di uno di quelli
che sarebbero potuti essere gli assassini barra rapitori del ragazzo
che non avevo mai smesso di sognare negli ultimi cinque-sei anni della
mia esistenza! Più cretini di così si muore.
«La ferita alla testa ti
sanguina ancora molto?» domandò dopo un po' il
ragazzo, inserendosi nella conversazione con fare impacciato. Mi
ricordai improvvisamente che era stato lui a prendersi cura di me e dei
miei graffi, e mi sentii avvampare la fronte, mentre ci portavo una
mano sopra e scuotevo la testa.
«Sanguinava?»
ripetei, fingendomi sorpreso e dandogli la possibilità di
rilassarsi un po'.
«Quando ti abbiamo trovato
avevi una brutta escoriazione sulla fronte, così quando ti
abbiamo portato a casa ti ho levato le bende, lavato la ferita e messo
dei bendaggi puliti, in modo che non ti s'infettasse»
m'informò, suscitando un'espressione stupita e compiaciuta
in Alicia.
«Oh... Grazie mille
allora» dissi, sfoggiando il mio sorriso più
radioso e annuendo con gentilezza.
«Di niente,»
mormorò lui. «Piuttosto, quanto tempo
rimarrai ancora? Sembri molto stanco».
«In realtà non ne ho
idea: volevo ripartire stasera ma Alicia mi ha trattenuto»
risposi con franchezza.
«Sei svenuto come una pera
cotta, mica potevo lasciarti uscire con questo buio!»
ribatté lei, energicamente.
«Sarebbe stato come buttarti
direttamente nella tomba» esclamò, come a
sottolineare la mia stupidità.
«Alicia ha ragione,
è pericoloso uscire a quest'ora» convenne Fin,
facendosi un attimo pensoso.
«Stanotte la passerai qui con
noi» cinguettò la ragazza.
«È
un casino che non abbiamo ospiti, questa è un'occasione da
non perdersi» aggiunse, allegra.
«Allora domani fa cucinare me,
non sia mai che la tua cucina lo avveleni o lo intossichi sul
più bello» la stuzzicò il giovane,
beccandosi un calcio negli stinchi, che incassò con
nonchalance e una risata.
«Fanculo Fin, guarda che sono
bravissima a cucinare» ribatté, meno piccata di
quanto volesse far credere.
«Basta crederci, Ali, basta
crederci» continuò lui alzando le braccia a sua
discolpa, attirando un altro calcio.
«E bastaa» rise,
abbassandosi per massaggiarsi la gamba ferita mentre Alicia tornava a
guardarmi.
«Tu hai fratelli,
Gerard?» mi domandò dolcemente, ignorando le
imprecazioni di Fin.
«Uno solo, si chiama Mikey. Non
lo vedo da un po', però» annuii, lanciando
all'altro un'occhiata comprensiva.
«Scommetto che è
meno rompipalle di te» lo rimbeccò la ragazza con
aria di sfida. Lui rise.
«Vedi, in realtà noi
due non siamo fratelli» mi spiegò Fin, portandosi
una forchettata di pasta alla bocca.
«Fidanzati?» proposi
con naturalezza, avvertendo un colpo al cuore. Lui quasi si
strozzò con la pasta.
«Ma non pensarci
neanche!» sbottò dopo aver bevuto un bicchier
d'acqua, ridendo alla sola idea.
«Chi
vuoi che se la pigli, questa matta?» osservò,
ricevendo in cambio l'ennesimo calcio dall'amica.
«Guarda che la cosa vale anche
per te, eh!» lo sfotté, versandosi della birra in
un bicchiere e offrendomela.
«Vedi, noi due siamo stati
adottati dal padrone di questo posto,» mi spiegò,
alludendo con un cenno del capo alla gigantesca villa in cui ero
ospite, «quindi questa è
ormai la nostra casa. Prima abitavamo da un'altra parte, sempre qui
vicino, poi un giorno ci siamo trasferiti qui e abbiamo dovuto cambiare
un po' il nostro stile di vita. Cioè niente più
skateboard per Fin e infinite chiacchierate al telefono per
me».
«Devi vedere che cosa
incredibile, è capace di stare attaccata al cellulare per
ore intere senza mai neanche cambiare posizione delle gambe»
si sbalordì lui, subentrando nel discorso con gli occhi
sgranati.
«Dico davvero, è da
paura» insistette, gesticolando per far sembrare il tutto
più reale.
«Ma smettila, mi fai sembrare
una maniaca» protestò la mora, incrociando le
braccia sul petto.
«Ma lo sei!»
replicò il ragazzo, come se lei volesse negare la cosa
più ovvia di tutto il pianeta. Altro calcio, altro mugolio
soppresso e altra risata generale, con me che mi strozzato con la pasta.
«Guarda
che fai, uccidi anche l'ospite!» la
punzecchiò nuovamente lui, facendomi ridere ancora di
più.
«Lo dicevo io che non sai
cucinare!» aggiunse poi con aria a metà tra il
rassegnato e il divertito, sporgendosi verso di me e ammollandomi una
gran pacca sulla schiena, che sono certo lasciò un bel segno
rosso.
«Acch, mortacci»
esclamai, portandomi una mano sul dorso dolorante.
«Certo che ne hai di forza, per
essere un nano» lo sfottei, entrando anch'io nel loro gioco e
guadagnandomi l'appoggio di Alicia, che mi allungò un cinque
rivolgendo un'occhiata di sfida al 'fratello'.
«Ma da che parte
stai?» si lamentò lui, dandomi una spinta. Aveva
le mani particolarmente morbide.
«Ma
dalla mia, che razza di domande fai?» lo incalzò
la ragazza, sfoggiando una finta aria d'importanza. Sorrisi. Mi
piacevano, quei due. Ero certo che avrei passato una bella serata.
Suo malgrado, durante tutta la durata della cena Columbia non era
riuscita a trattenere dei sorrisi di sincera simpatia, trovandosi
più volte a ridere sotto i baffi per le battute dei due
ragazzi, che allietavano piacevolmente l'atmosfera di tensione e paura
che si era creata precedentemente nella base, e ancora più
spesso si era detta che quei due non potevano entrarci niente con il
tentato rapimento dell'amico. Lindsey e Ray erano arrivati dopo
un'oretta e mezza e avevano confabulato tra loro per un po', prima di
uscire per il loro giro di ricognizione e lasciarla nuovamente da sola,
e la riccia aveva tirato un sospiro di sollievo quando aveva sentito il
portellone richiudersi con una botta secca. Niente contro gli amici,
ovvio, ma si sentiva più a suo agio sapendo che poteva
ridere per le battute dei sospettati senza beccarsi un'occhiata di
rimprovero o un 'sta attenta a non distrarti troppo', che invece le
mettevano addosso un po' d'ansia. Si concentrò con
tranquillità sul video, volgendo lo sguardo dai piatti ai
volti subito dopo che i due ospiti ebbero cominciato a mangiare - segno
che il cibo non era avvelenato -, e un piccolo particolare
attirò la sua attenzione. Mentre la ragazza non perdeva
occasione per battere il cinque al roscio o mollare calci negli stinchi
all'altro ragazzo, quest'ultimo non cercava mai il contatto fisico con
Gerard ed evitava il più possibile persino di guardarlo,
come se la sua immagine gli provocasse una qualche reazione spiacevole
o incontrollabile; mentre non si faceva molti problemi a fissare le
tette dell'altra interlocutrice, che in tutta risposta gli regalava un
altro bel calcio sulle gambe, unito a un sorriso divertito. Insomma,
c'era qualcosa che non tornava in lui e nel suo comportamento.
Arricciò la fronte e strinse le labbra, cercando di capire
cosa ci fosse che non andasse nel roscio, e tornò indietro
con la mente a quando si era specchiato, subito dopo la doccia, per
rimettersi la cuffietta a posto, ma non riuscì a inquadrare
niente di speciale, così s'inumidì le labbra.
Forse il ragazzo era semplicemente timido, o forse le voci sul conto
del roscio erano arrivate pure alle sue orecchie e si sentiva a disagio
perfino nel guardarlo in faccia. In ogni caso, era strano.
Columbia si molleggiò sulla sedia e la fece roteare,
pensierosa, mentre la visuale si restringeva su un piatto di pasta
fredda con pomodoro, mozzarella e basilico, mezza mangiata dal roscio e
mezza lasciata lì per dopo. Realizzò
improvvisamente che si era fatto tardi e che non aveva ancora toccato
cibo, ma il suo senso del dovere la costrinse a rimanere sulla sedia
davanti al video, finché il gruppo d'esplorazione non
tornò alla base. A quel punto si fece portare un panino da
loro e lo mangiò senza staccare gli occhi dallo schermo,
completamente assorbita dal suo compito, anche se in quel momento il
gruppetto di ragazzi era sdraiato su un divano e stava commentando un
programma tv che lei disprezzava totalmente; e si chiese se, dietro a
quell'aria paciosa e innocua, si nascondesse un carattere da assassini
o persone violente. Si trovò a scuotere la testa, scacciando
l'idea con noncuranza, e si alzò tranquillamente dalla
sedia, cedendo il posto a Lindsey.
Era tanto che non mi sentivo così. Vivo, felice,
completamente e profondamente rilassato, spensierato nel più
veritiero dei modi; e mi trovai più volte a ringraziare
inconsciamente i miei due nuovi amici, tra una risata e l'altra, uno
scherzo e l'altro, una pacca e l'altra. Quasi mi ero dimenticato di
essere in missione e che loro erano potenziali assassini, per quanto ne
sapevo sul loro conto, e la loro allegra parlantina m'induceva a
credere che non potessero entrarci minimamente con il nostro caso; ma
mantenni un briciolo di serietà e coscienza e non abbassai
mai completamente la guardia, rimanendo prudente.
Nel frattempo, ridendo e scherzando, si erano fatte le quattro e Alicia
si accingeva ad andare a dormire.
«Mi raccomando Fin, non aprire
il divano letto, che cigola come non so cosa» gli
ricordò con uno sbadiglio, prima di salutarci, stiracchiarsi
e scomparire verso la sua camera.
«Dovrei avere una brandina da
qualche parte, vieni» m'invitò, guardandosi un po'
attorno.
«È quella
lassù?» gli domandai, indicando un ammasso di
ferraglia in cima all'armadio. Lui si riparò gli occhi con
una mano per vederci meglio, li strizzò un po' e poi
annuì, avvicinando una sedia al mobile.
«Aspetta, te la
passo» mi avvertì, prendendola e sollevandola con
un grande sbuffo. La tenne in bilico sopra la sua testa per un paio di
secondi, abituandosi al suo peso, poi piegò le ginocchia e
me l'avvicinò; mi alzai sulle punte, la presi e
l'accompagnai dolcemente verso il terreno, posandola senza quasi fare
rumore.
«Ammirevole»
commentò, piacevolmente compiaciuto, scendendo dalla sedia,
spostandola in un angolo e accorrendo in mio aiuto, aiutandomi ad
aprire il letto. Quello cigolò e mi fece arricciare il naso
per il fastidio, e Fin si scusò con gli occhi. Liquidai la
cosa con un sorriso appena accennato e mi tirai su, mentre il ragazzo
apriva un'anta dell'armadio e cercava con lo sguardo un materasso di
grandezza sufficiente. Storse la bocca, realizzando che ne aveva solo
uno a una piazza, mentre quello che gli serviva doveva averne una e
mezzo, se non addirittura due, e richiuse l'anta velocemente, facendomi
segno di seguirlo nella stanza accanto. Aprì la porta dopo
aver bussato, entrammo e lui aguzzò la vista, notando un
materasso tra una decina di altre coperte; lo raccattammo e lo portammo
di là, sistemandolo sulla brandina, poi tornammo a prendere
un lenzuolo, un cuscino e tutto il resto, cavandocela anche abbastanza
in fretta. Tornammo in camera da letto e il giovane aprì un
cassetto, passandomi una maglietta lunga con uno sguardo imbarazzato.
«Scusa, di solito non metto
pigiami» si giustificò, massaggiandosi il collo.
«Neanch'io,
a essere sinceri»
ammisi con una risata abbozzata. Lui sorrise e agguantò una
maglietta, uscendo e scomparendo verso il bagno. Mi lasciai scappare un
sospiro profondo e rumoroso e mi sedetti sul suo letto, prendendomi il
volto tra le mani e socchiudendo gli occhi, scuotendo leggermente la
testa; oscurai la telecamerina e mi cambiai, ricordandomi
improvvisamente che quelli che avevo indossato fino a quel momento non
erano i miei vestiti, ma quelli di Fin. Avvampai istantaneamente e li
sistemai accuratamente sulla sedia, chiedendomi come avessi fatto a
dimenticarmelo e domandandomi se la cosa l'avesse infastidito almeno un
po'. Deglutii e mi guardai intorno, improvvisamente imbarazzato a
morte, strizzai gli occhi con decisione e mi divertii ad ascoltarmi
respirare, prima più affannosamente e poi con più
tranquillità; e intuii che sarebbe stata una lunga, lunga
notte. Senza contare che Fin avrebbe dormito a pochi centimetri da me,
mezzo nudo e completamente ignaro del cocktail di ormoni che gli
avrebbe giaciuto accanto. Mi diedi una pacca violenta in fronte,
insultandomi sottovoce, e non lo sentii rientrare in camera.
«Dimenticato
qualcosa?» domandò divertito, sedendosi
tranquillamente al mio fianco. Sussultai quasi impercettibilmente e mi
sbrigai a negare il tutto con le mani, sorridendo nervosamente.
«Nono, niente di che»
mentii, sembrando allegro.
«Ah, perfetto allora. Sembravi
preoccupato, ma sono felice di sapere che è tutto
okay» sorrise.
Dio, perché era così carino? Ma soprattutto,
perché ero così coglione?
«No, scialla, tutto bene.
Davvero» ripetei, annuendo. Lui sorrise, si alzò
in piedi e si stiracchiò.
«Allora fammi spazio, che mi
metto a letto» mormorò, scrocchiandosi le ossa del
collo. Mi feci da parte e lui si sedette sul suo materasso, continuando
a stiracchiarsi, poi mi indicò degli interruttori con la
testa.
«Riesci a spegnerli?»
mi chiese. Annuii, mi sporsi in avanti e cliccai sul primo bottone, poi
tutto divenne buio. Alzai il lenzuolo e mi ci ficcai sotto, tenendo gli
occhi serrati per non essere tentato dal guardare Fin.
«Gerard?»
mormorò lui dopo un po', voltandosi verso di me.
«Sì?»
dissi, fissando il soffitto e notando a malincuore che il buio non era
poi così pesto.
«Hai sonno?» mi
chiese, ricordandomi molto un bambino troppo iperattivo che non vuole
andare a letto.
«Non molto, a dir la
verità» ammisi, lanciandogli uno sguardo con la
coda dell'occhio. Lui annuì con un 'neanch'io' e
tornò a guardare il soffitto, lasciando cadere nuovamente il
silenzio. Esitò un attimo, poi si voltò di nuovo
verso di me e s'inumidì velocemente le labbra, abbassando lo
sguardo per qualche secondo.
«Posso farti una domanda un po'
indiscreta?» chiese.
«Ma certo. Spara
pure» acconsentii, irrigidendo però la mascella.
«È vero quello che
si dice di te?» domandò, cercando il mio sguardo.
Non glielo concessi.
«Dipende. Cosa si dice di
me?» ribattei, fingendo di non saperlo. Rispondermi gli
costò molto, perché rimase in silenzio per un po'
prima di aprire nuovamente la bocca, stavolta deglutendo e senza
guardarmi.
«Sì, be', insomma,
che ti piacciono gli uomini».
Ecco, marchiato a fuoco. Pensavo che in quel posto dimenticato da Dio
non arrivassero i pettegolezzi, ma a quanto pare mi ero sbagliato alla
grande; purtroppo. Respirai di nuovo, il più silenziosamente
possibile.
«Ah, quello. Sì,
sì è vero» risposi, distaccato,
sbattendo le palpebre.
«Ma non ti preoccupare, posso
tranquillamente andare a dormire in un'altra stanza se è un
problema. Ti giuro, non me la prenderei neanche, ci sono
abituato» lo tranquillizzai, voltandomi per guardarlo negli
occhi, praticamente pronto ad alzarmi e andare a dormire per terra,
più per forza d'abitudine che altro.
«Perché dovrebbero
esserci problemi?» domandò lui.
«Principalmente
perché i maschi hanno paura che possa eccitarmi
guardandoli».
«Non riusciresti ad eccitarti
con me» sorrise sotto i baffi, fissando il soffitto.
«E chi lo dice?»
scherzai.
«Questa pancetta»
ribatté, prendendosi la pancia tra le mani.
«È terribilmente
antiestetica. E poi non sono un granché come
ragazzo» commentò, ridendo tra se. Avrei voluto
controbattere e dirgli che si sbagliava alla grande, ma non era il
caso. Troppo sgamabile.
«Ad alcune ragazze la pancetta
piace» osservai. Lui si voltò a guardarmi.
«Può anche
darsi» ammise, storcendo la bocca.
«Ma non è che a me
le ragazze piacciano poi così tanto»
mormorò, tornando a osservare il soffitto.
"E questo cos'è, una
specie di coming out?"
mi chiesi, domandandomi se non fosse piuttosto un tipo poco interessato
alle relazioni e all'amore in generale, piuttosto che un altro gay come
me. Però no, insomma, era ovvio che stesse cercando di farmi
capire che potevo interessargli. Forse. Ebbi un tuffo al cuore e
avvampai.
«Ah sì?»
biascicai. Pessimo modo di controbattere a una cosa del genere.
«Sì.» Si
voltò verso di me, mordendosi il labbro tanto per.
«Mi sa che siamo sulla stessa
barca» scherzò.
«Quindi posso
restare?» domandai, sollevato e col cuore a mille.
«Penso proprio di
sì» ribatté. Sorrisi con l'anima e
trattenni il respiro per mantenere un certo contegno, ma dentro di me
stavo urlando di gioia a pieni polmoni e in tutte le lingue, come una
ragazzina esaltata.
«Grazie mille»
sussurrai, in modo così flebile che forse non mi
sentì neanche. Nonostante non me lo stessi aspettando,
sorrise anche lui; poi sbadigliò, si tirò il
lenzuolo sul petto e mi diede la buonanotte, sistemandosi stancamente
sul fianco sinistro. Si addormentò pochi minuti dopo,
lasciandomi solo con i miei dubbi e i miei pensieri.
«Ragazzi,»
esclamò Lindsey scuotendo la spalla della riccia, mezza
addormentata accanto a lei «mi sa che Gerard si
è preso una bella sbandata per quel tipo là, come
si chiama, Fin».
«Lo so, durante la cena non ha
fatto altro che inquadrare lui» mugolò Columbia,
girandosi dall'altra parte.
«Ma è una tragedia!
Rischia di saltare tutto il piano!»
sottolineò la prima, continuando a scuotere l'amica.
«Ma no, sembrano due tipi per
bene» ribatté quella, sbadigliando.
«Anche tu sembri la cameriera
del Rocky Horror Picture Show, ma questo non significa che tu lo
sia»
«Andiamo Lin, calmati un
attimo» biascicò, intontita dal sonno e dalla
stanchezza.
«Gerard ha ventidue (o
ventitré?) anni, sa benissimo scindere la vita privata dalla
vita pubblica. E poi questa missione è essenziale anche per
lui, figurati se la lascia perdere per una cottarella
così».
«Sì, ma insomma,
pure quello è gay, potrebbe nascere qualcosa tra loro. E se
i due si rivelassero colpevoli in qualche modo? Come credi che la
prenderebbe? Cercherebbe di proteggere il suo amore, d'inventarsi scuse
su scuse per provare la sua innocenza, direbbe che lo stiamo
incastrando perché non prendiamo bene il fatto che si sia
trovato un nuovo fidanzato dopo Frank e che non lo vogliamo felice. Lo
sai come sono fatti gli umani, quando s'innamorano perdono
completamente la testa!» piagnucolò, scuotendo il
capo.
«Oh, andiamo, questo
è essere catastrofisti e paranoici» la
rimbeccò l'amica, decisamente più tranquilla.
«Vedrai che andrà
tutto bene. Se è una cottarella da poco conto, non si
metterà certo in pericolo per salvare lui, non pensi? E se
è qualcosa di serio, andrà comunque in fondo
perché lo deve non solo al moro, ma anche a Steve, a Jimmy,
alla famiglia Iero, a tutti noi. Quindi rilassati e torna al video,
vedrai che andrà tutto per il meglio e che non ci saranno
problemi» la rincuorò, togliendole la mano dalla
spalla.
Lindsey sospirò a fondo e annuì, leggermente
più convinta, e la riccia le sorrise, intenerita dai suoi
occhi.
«Vedrai che andrà
tutto bene. Anche per Steve» sussurrò,
rivolgendole un'occhiata piena di calore.
«Lo spero tanto»
mormorò la bionda, non riuscendo ad evitare di sorridere.
«Grazie, Columbia»
aggiunse, spingendo la sedia verso il tavolo.
«Di niente, babe. Vedrai che
andrà tutto per il meglio» ripeté lei,
tornando a riposare. Lindsey le sistemò la coperta addosso e
ne prese una per se, tornando a dedicarsi alla registrazione con tutta
la sua attenzione.
Quello che non vide, però, fu qualcuno che entrò
nella stanza e si portò via il cellulare del roscio,
impedendogli di contattare chiunque si trovasse all'esterno.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
combattere contro il passato (cap 10)
Quella
mattina mi svegliai presto, verso le otto e mezza circa, a causa della
luce che filtrava insistentemente dalla tapparella sopra la scrivania,
che il mio nuovo amico si era dimenticato di chiudere per bene.
Rimasi immobile con gli occhi chiusi, ancora lievemente intorpidito dal
sonno e dai pensieri della nottata precedente, e mi godetti il
silenzio, cosa che a casa mia mancava quasi sempre; schiusi le labbra
in un sospiro rilassato e tranquillo e mi accinsi a sistemarmi le
braccia dietro la testa, quando sfiorai con le mani un qualcosa di
caldo affianco a me. Ancora istupidito dall'ora, sentii i muscoli
paralizzarmisi, indurendosi fino a farmi male, e il mio respiro
fermarsi per una manciata di secondi, prima che la
razionalità avesse la meglio sulla sorpresa e mi
costringesse a voltarmi verso quell'intruso, per capire almeno di chi o
cosa si trattasse. Con mio grande stupore e compiacimento, Fin era
rotolato giù dal suo letto ed era entrato nel mio,
probabilmente senza neanche accorgersene, e ora giaceva addormentato a
pochi centimetri dal mio volto, la bocca semiaperta e le sopracciglia
scombinate, con un'aria che definire da angelo era dir poco.
Lì per lì rimasi un attimo spiazzato dalla sua
presenza - mi ero quasi dimenticato dove mi trovassi e
perché, quindi ritrovarmelo accanto fu un vero shock - e
dovetti spremermi le meningi per ricordarmi tutti i particolari del
perché mi trovassi lì a quell'ora del mattino, ma
alla fine ogni tassello trovò il giusto posto nella mia
mente e mi rilassai, tornando a concentrarmi sul ragazzo. A dire il
vero, il fatto che mi stesse dormendo accanto mi mandava parecchio su
di giri ed ero a dir poco esagitato, ma in un modo o nell'altro riuscii
a mantenere il controllo e comportarmi come se niente fosse,
sistemandomi meglio sulla schiena e osservandolo come se in
realtà fossi interessato a un particolare nascosto dietro di
lui. Sembrava avvolto da un sonno profondo e rilassato, tipico di chi
non ha niente da nascondere o di cui preoccuparsi, e non potei evitare
di sentirmi un po' più sollevato, appuntandomi mentalmente
la cosa e sperando che bastasse a portarlo a un passo più
lontano dalla mia rosa dei sospettati. Il suo petto si alzava ed
abbassava con una regolarità affascinante, così
sincronizzai il ritmo del mio respiro con il suo e respirammo in
contemporanea per una decina di secondi, mentre io, compiaciuto,
sfoggiavo il gran sorriso ebete degli innamorati ancora pieni di
speranze e tempo, convinti che niente di male possa capitar loro quando
sono con il loro amore. Sospirai flebilmente e mi riempii gli occhi con
la vista del suo volto, dai lineamenti dolci e tranquilli come quelli
di un bambino che non ha alcuna intenzione di passare la vita a
preoccuparsi per qualcosa 'da grandi', circondato dalla penombra e
ringiovanito dalla calma che aleggiava nella stanza; e mi chiesi se
qualcuno gli avesse già fatto notare quanto fosse bello
mentre dormiva. Da sotto le palpebre, fini e rosee, riuscivo a scorgere
i movimenti frenetici delle pupille, tipici di chiunque sogni, e per un
attimo accarezzai l'idea che forse, molto forse, stava sognando me, e
sorrisi, costringendomi poi a tornare alla realtà e
realizzare che si trattava di un'ipotesi molto, ma molto remota,
calcolando che ci eravamo conosciuti la sera prima.
«E che c'entra, tu ti sei innamorato di lui appena l'hai
visto» chiosai tra me e me, zittendo la ragione per qualche
tempo, pur sapendo che avevo, come al solito, torto, e che mi sarei
presto pentito della mia scelta. Tornai a guardarlo e fui tentato dal
passare una mano tra i suoi capelli, lunghi più o meno due
centimetri e scuri come la pece, ma mi trattenni per paura di
svegliarlo e mettermi nei guai. Tuttavia, l'idea del
pizzicorìo che mi avrebbero provocato sul palmo della mano
mi tornava in mente spesso, mentre immaginavo di poter sfiorare
liberamente quella pelle candida e delicata, e tutte le volte mi
trovavo a rabbrividire - non tanto perché la simulazione del
mio corpo era fin troppo reale, ma perché toccare i capelli
a qualcun altro era una cosa che facevano di solito i fidanzati, e la
sola idea che un giorno avrei potuto stringerlo e baciarlo senza
problemi... Be', siamo onesti, mi mandava completamente in un brodo di
giuggiole. Così lo guardavo e lo riguardavo, senza stancarmi
mai, e sospiravo tra me e me, ripetendomi le classiche cose da
innamorati rincretiniti da un'improvvisa sbandata, e mi
divertivo a figurarmi la sua espressione quando si sarebbe svegliato.
Già, perché doveva svegliarsi prima o poi..
Rabbrividii nel rendermi conto della cosa e tirai le lenzuola un po'
più su, come a nascondere il mio cuore troppo agitato, e
tornai a osservare l'altro con la coda dell'occhio, un po'
più guardingo. Aspettai un'altra decina di minuti senza fare
alcuna mossa, ma visto che il silenzio e la calma persistevano, presi
possesso di tutto il mio coraggio e mi avvicinai ulteriormente a lui,
mantenendo gli occhi chiusi e serrati in caso si fosse svegliato, e mi
fermai quand'ero ormai in grado di sentire il soffio flebile del suo
respiro che s'infrangeva contro le sue mani, accoccolate accanto al suo
volto, riempiendomi la testa d'immagini e flash che erano una vera
pugnalata alla schiena, calcolando la nostra vicinanza. Ma, come ci si
può ben immaginare, l'unico bisogno che riuscivo a sentire e
che potevo soddisfare senza espormi troppo e senza rischiare di mandare
a monte l'intera operazione era stargli il più vicino
possibile, ad ammirare la sua fine bellezza e contemplare le sue labbra
perfettamente disegnate, così ben proporzionate rispetto al
naso e al resto del viso. Nel suo piccolo, lo si poteva considerare
come un'opera d'arte squisitamente lavorata, dove ogni minimo dettaglio
era curato con pignoleria e ogni particolare era amplificato fino
all'esasperazione, sempre dolce e piacevole, del suo aspetto fisico,
così magro e pronto a scattare, dai muscoli normali e appena
accennati; e ogni tassello del suo corpo sembrava esser stato
posizionato con una minuziosità certosina, talmente pareva
angelico il tutto che veniva a crearsi. Insomma, non si poteva certo
dire che il ragazzo passasse inosservato davanti agli occhi della
gente, e io, come ci si poteva ben immaginare, non facevo minimamente
eccezione.
Non avevo idea di quanto tempo fosse passato da quando ero rotolato
accanto al suo corpo, così non osavo muovermi o accennare al
minimo spostamento di un singolo muscolo, terrorizzato dall'idea che
potesse svegliarsi improvvisamente e privarmi di quel tanto piacevole
spettacolo, così mi limitavo ad aspettare, in silenzio, che
stendesse un braccio e mugolasse qualcosa, dando il buongiorno al
mondo. Ci volle un po' prima che avvenisse, e in quella mezz'ora scarsa
che prevenne l'evento ebbi tutto il tempo di riempirmi la testa di film
mentali e avvenimenti altamente improbabili, nei quali non
riuscivo però a smettere di sperare.
Si svegliò con un mormorio soddisfatto e uno stiracchiamento
appena accennato, visto che dopo poche decine di centimetri il suo
braccio si scontrò con il mio. Recitai la mia parte e
mugolai qualcosa con fare leggermente seccato, tenendo sempre gli occhi
chiusi e senza spostarmi minimamente, e aspettai di sentire la sua
reazione. Sussultò e sgranò gli occhi, ma non si
allontanò da me. Rimase immobile, a soppesare ogni azione
possibile, si tirò il lenzuolo fino a metà
guancia e si sistemò meglio sul fianco destro, senza fiatare
o provare a spostarsi; al che intuii che neanche a lui dispiaceva tanto
la mia presenza e mi rallegrai, intuendo che forse qualche speranza
l'avevo eccome e che sarei riuscito a districarmi da quella situazione
in maniera quasi decente se lui non si fosse rivelato colpevole o
comunque coinvolto. Sorrisi tra me e me nel sentire il suo respiro
sulla pelle, crogiolandomi in tutta quella positività, e
accennai un movimento del braccio, a cui seguì poi uno
sbadiglio. Aprii gli occhi e finsi che lo sguardo mi cadesse per puro
caso verso di lui, che intanto mi guardava e mi sorrideva, pretendendo
di essere ancora un po' intontito dal sonno, e sbattei lentamente le
palpebre, ostentando la calma più completa e credibile che
avessi, come se non avessi neanche capito bene la situazione. Lui non
si preoccupò.
«Buongiorno» sussurrò, praticamente
sulle mie labbra.
«Buongiorno» ribattei, energicamente e senza
malizia. «Dormito bene?»
Annuì, leggermente imbarazzato, pensando che gli avessi
appena lanciato una frecciatina sulla sua presenza nel mio letto, e si
grattò il collo. «Scusa, tendo a muovermi
parecchio di notte. Spero di non averti dato fastidio».
Solo allora mi resi conto della mia gaffe e mi lasciai arrossire.
«Nono, figurati, nessun fastidio» mi sbrigai a
chiarire, «Non volevo fartelo pesare, anzi».
Non sembrò particolarmente convinto, ma sorrise.
«Figura di merda» sillabò quindi a poca
distanza da me, ridendo sotto i baffi. Sbuffai energicamente e mi
sbattei una mano sulla faccia, affondando la nuca nel cuscino e
sorridendo da sotto la mano. Lui si avvicinò più
a me, sorreggendosi coi gomiti e sporgendosi ulteriormente verso il mio
viso.
«Tu invece? Come hai dormito?» mi
domandò, sorridendo divertito mentre spostavo la mano.
«Alla grande» risposi, alzando allegramente le
sopracciglia.
«All'inizio avevo freddo, ma poi ci hai pensato tu»
lo sfottei, sfidando il suo sguardo.
«Oh beh, non mi sembra che tu ti sia lamentato»
ribatté lui, lasciandosi cadere verso il suo posto.
«Non mi sembra di aver detto che mi sia
dispiaciuto» replicai, fingendomi improvvisamente noncurante
e indifferente. Mi stavo spingendo oltre, ma anche lui non scherzava.
Rimase in silenzio, con un sorriso compiaciuto appena accennato sulle
labbra, ma mi sentii terribilmente come fuori posto e mi tolsi di dosso
le lenzuola, tirandomi quindi a sedere. Mi guardò,
parzialmente stupito, e aggrottò la fronte, cercando
d'intuire le mie intenzioni.
«Fossimo in un film staremmo già
scopando» dissi, alzandomi in piedi e stiracchiandomi
sonoramente e tranquilla lentezza.
«Ma visto che sono una donnetta frigida, andrò a
fare colazione» conclusi. Fin rise, tirandosi a sedere a sua
volta, e si scrocchiò le ossa del collo, socchiudendo gli
occhi e serrando la mascella.
«Credi di poter aspettare due minuti, donnetta?» mi
punzecchiò con un'alzata di sopracciglia, alzandosi e
recuperando una maglietta pulita dal cassetto più vicino a
lui.
«Se vado di là profumando di te, Alicia ci
sfotterà a vita» commentò, arricciando
le labbra in un sorriso divertito. Si cambiò velocemente
davanti ai miei occhi distanti, mentre rimanevo appoggiato con le
spalle alla porta cercando di avvertire i passi della ragazza da
qualche parte, e avvicinò spaventosamente il suo volto al
mio, guardandomi negli occhi.
«Ai tuoi pantaloni ci pensiamo dopo, adesso
andiamo» sussurrò, indicando il corridoio col capo.
Non colsi malizia nella sua voce, così appoggiai
tranquillamente la mano sulla maniglia, girandola e uscendo dalla
stanza, e mi ritrovai di fronte a un quadro enorme raffigurante un
qualche antenato di notevole importanza, vestito in pieno stile
vittoriano. Fin non ci fece neanche caso e proseguì dritto
verso la cucina, così lo seguii e mi lasciai alle spalle
quell'austera e inquietante finestra sul passato, dimenticandomene.
«'Giorno!» esordì, spalancando con forza
la porta ed entrando in cucina con aria allegra.
«Ciao, ragazzi» ci salutò Alicia alzando
gli occhi dal suo giornale, per poi afferrare una tazza di
caffè.
«Dormito bene? Fin russa che è una meraviglia,
avrei dovuto dirtelo» si scusò la ragazza unendo
le spalle, sfottendolo pacatamente.
«Non ha russato per niente» sorrisi, «E
comunque sarei andato a dormire nella vasca da bagno».
Mi beccai una spinta da parte del moro ma la ragazza sorrise,
ridacchiando.
«Effettivamente non hai tutti i torti» ammise,
scuotendo leggermente il capo e dando una lunga sorsata alla sua bibita
nera, posando quindi la tazza sul bancone. «Probabilmente
l'avrei fatto anch'io, se fossi stata nei tuoi panni»
aggiunse, guardando allegramente Fin.
«Ma che vi siete alleati contro di me?»
sbottò lui, fingendo di offendersi.
«Siete dei brutti calunniatori» ci
accusò, scuotendo la testa con aria come di pietà.
Soppressi una risata e lo seguii verso la credenza, guardandomi attorno
in quella stanza enorme e grondante di piccoli particolari.
«La tazza di Buzz Lightyear è mia, poi fa pure
come vuoi» mi avvertì lui, appropriandosi della
sua amata tazza azzurra e andando ad aprire il frigorifero. Agguantai
la prima tazza che mi passò davanti agli occhi e gli
trotterellai nuovamente dietro, prendendo il latte che mi tendeva e
rimanendo immobile ad aspettare ordini di qualunque tipo, spaesato.
«Mettilo a tavola, a fare il caffè ci penso
io» disse lui, avvertendo il mio imbarazzo e sorridendone;
accendendo il fuoco e tirando fuori del macinato. Mi diressi verso la
mora e avvicinai una sedia al tavolo per il cuoco, poi ne presi una per
me e mi ci sedetti su.
«Allora?» chiese quindi Alicia, dopo aver posato il
giornale davanti a sé, incrociando le dita e posandoci sopra
il mento con aria interessata, inclinando leggermente il capo.
«Allora cosa?» ribattei, inclinando anch'io la
testa per vederla meglio. Lei rise.
«Com'è andata stanotte?» mi
domandò. Scrollai le spalle, sorridendo.
«Bho, bene direi. Ho dormito bene, il materasso era comodo. E
Fin si è addormentato subito».
«Giust'appunto» ribatté lei, come se lui
non facesse altro.
«Si addormenta sempre prestissimo» mi
spiegò, «oppure nei momenti più
inopportuni».
Ripensai alla sua confessione della sera prima.
«Effettivamente» ammisi, sorridendo.
«Secondo me lo fa apposta, sappilo» mi
confidò sottovoce, guardandolo con la coda dell'occhio.
«È uno stronzo» rise. Si sentiva che lo
diceva con affetto.
«Non trattarmelo troppo male, comunque» si
raccomandò poi, riprendendo in mano la sua tazza di
caffè e tornando a leggere il giornale. Non ebbi il coraggio
o il tempo di chiederle meglio cosa intendeva, lui arrivò
pochi secondi dopo. Bene o male, comunque, pensai di aver recepito il
messaggio. Ed effettivamente non ci voleva molto.
«Columbia... Columbia...» la chiamò Ray,
scuotendole dolcemente la spalla.
«Andiamo, è ora di alzarsi» insistette,
percependo un guizzo insolito sotto le palpebre della ragazza.
«Mmh... ancora cinque minuti...» mugolò
lei, portandosi una mano sulla fronte, gli occhi chiusi.
«Sai che non dipende da me» le ricordò
il riccio, sedendosi meglio accanto a lei, sbadigliando.
«Hmm, vero. Ora mi alzo, dai» brontolò
la ragazza, sbadigliando e tirandosi faticosamente a sedere, per poi
strofinarsi i pugni contro gli occhi arrossati dal sonno e rivolgere
tutte le sue attenzioni all'amico riccioluto, accoccolato davanti a lei.
«Successo qualcosa d'importante?»
domandò. Ray scosse la testa con una smorfia di disappunto.
«Gerard ha lasciato le cuffie in camera ed è
andato a fare colazione».
«Allora potevo dormire altri cinque minuti!»
protestò lei, incrociando le braccia sul petto. Ray rise.
«No, non potevi. Le mie quattro ore di turno sono passate,
ora tocca a te» ribatté, afferrando un cuscino e
tastandolo con aria divertita, mentre la ragazza si alzava e si
stiracchiava, cedendogli il posto controvoglia e con un grugnito.
«Non puoi restare un po' a farmi compagnia?»
piagnucolò, facendo sporgere il labbro inferiore.
«Lo farei, credimi, ma sto leggermente morendo» si
tirò fuori lui con un sorriso, le palpebre che ormai gli si
chiudevano da sole. Columbia sospirò e lasciò
perdere, prendendo posto alla sua postazione e abbassando un po' la
luce del monitor per garantire all'amico un sonno più
tranquillo e rilassato, e s'infilò le cuffie, rassegnata a
ciò che l'aspettava. Quando si era proposta per il primo
turno aveva avuto fortuna e aveva assistito alla cena, quando
l'atmosfera era più allegra e sciolta, ma in quel momento
tutto sembrava tacere e comunicarle un gran senso di pesantezza e
monotonia, e la ragazza non ebbe problemi a immaginarsi
perché l'amico avesse un'aria così profondamente
estasiata quand'era venuto a svegliarla. Sembrava, anzi, che la fine
del turno fosse la cosa più bella che gli fosse capitata
negli ultimi tempi, talmente noioso si era rivelato stare appiccicato a
uno schermo buio, dove tutto ciò che si vedeva era immobile
e avvolto da una coperta di silenzio opprimente, e la riccia si
trovò a deglutire, quando i primi dieci minuti furono
passati. La stanza era piatta e sempre uguale, se non fosse stato per
la luce che cominciava a farsi strada tra la persiana e il vetro,
arrivando ad accarezzare la scrivania e, venti minuti dopo, i piedi del
letto. La riccia si chiese che ore dovessero essere in quel momento e a
che ora il sole sarebbe stato abbastanza luminoso da permetterle di
distinguere le forme di tutti gli altri oggetti, ma dovette accantonare
la domanda con una scrollata di spalle. In effetti, non aveva la minima
idea di quando si levasse il sole o di quando tramontasse, quindi non
poteva trovare neanche una risposta pienamente appagante, e girarci
attorno non avrebbe fatto passare il tempo più in fretta.
Si trovò a desiderare che uno dei ragazzi si svegliasse e le
portasse una tazza di caffè, nonostante sentisse benissimo
la cadenza regolare con cui i due respiravano, e sospirò,
annoiata, posando il mento sul dorso della mano con aria scocciata; e
fu tentata per un attimo di prendere l'ipod e spararsi qualcosa di
forte nelle orecchie, giusto per svegliarsi un altro po' e non
rischiare di riaddormentarsi prima del tempo. Purtroppo,
però, sapeva benissimo che limitarsi a osservare la scena
senza l'audio equivaleva a non guardarla per niente, visto che
metà delle informazioni andava persa, e non poteva
permettersi il minimo sbaglio, specialmente uno così
sciocco. Sospirò di nuovo, più sonoramente, e
giocherellò un po' con il mouse, accarezzando con la
freccetta i contorni dei vari mobili, e si sforzò
d'immaginarsi qualcosa che non fosse la più completa e
monotona oscurità, capace solo d'ispirarle una gran voglia
di coricarsi e mandare a fanculo tutto, ma non ci riuscì
così bene. Gerard non aveva inquadrato il letto,
probabilmente apposta, e lei non era stata lì per sentire
cosa si era detto con l'altro, sempre che si fossero parlati, quindi
non aveva neanche qualcosa su cui rimuginare mentre aspettava il loro
ritorno in camera. Sbuffò ancora. La missione procedeva
molto più a rilento di quanto avesse previsto.
«Gerard» mi chiamò Fin, facendomi cenno
di raggiungerlo con la mano. «Vieni un po' qua».
Rabbrividendo, mentre l'aria fresca mi accarezzava le gambe nude,
trotterellai fino a lui e mi sedetti a poca distanza dalla sua
postazione, socchiudendo gli occhi. Riaprendoli, notai che il paesaggio
che si stagliava oltre la balaustra era spettacolare, per quanto
consueto e familiare, e non potei evitare di sorridere, mentre il mio
sguardo correva da un pino all'altro.
«È bello, vero?» mi domandò
con aria sognante e inorgoglita, le gambe incrociate e le mani
aggrappate al bordo del muretto di pietra. Annuii, rilassato.
«Non pensavo che il bosco fosse così
grande» ammisi. Lui si voltò e mi sorrise
premurosamente.
«Ora capisci perché non ti abbiamo lasciato
andare?» chiese, distogliendo lo sguardo dal mio. Annuii di
nuovo. Anche se l'idea di andarmene seriamente a zonzo nel cuore della
notte non mi aveva mai davvero sfiorato la mente, avventurarmi in mezzo
a tutta quella natura sarebbe stata una decisione davvero cretina,
anche per un genio del mio calibro.
«Sono felice di non essere andato ad ammazzarmi»
convenni, arcuando le labbra.
«Anch'io» ribatté il moro,
sovrappensiero. Mi voltai verso di lui e sorrisi dolcemente, senza
arrossire.
«Beh, grazie» mormorai, e lui avvampò.
Non si era reso conto di averlo detto fuori dalla sua testa.
«P-prego» biascicò imbarazzato,
sforzandosi di non staccare lo sguardo dall'orizzonte.
«Dov'è casa tua?» mi chiese quindi,
osservando la mia cittadina e cercando di capirlo da solo.
«È quella lì col tetto
nerastro» dissi, mettendogli un braccio attorno alle spalle e
indicandogliela col dito, portando il viso accanto al suo per avere la
sua stessa visuale ed essere sicuro di non sbagliarmi un'altra volta.
Lui strizzò gli occhi per vederci meglio e annuì.
«È lontana» osservò, mentre
mi spostavo da lui.
«Vero» convenni, «Infatti devo partire
tra poco se voglio arrivare prima di sera».
Mi guardò un po' deluso. «Immagino tu abbia
ragione» commentò. Abbassò lo sguardo,
rabbuiandosi un po', e mi sentii improvvisamente in colpa.
«Ci sei mai stato, giù in
città?» domandai, cercando di cambiare discorso e
farlo sorridere.
«No, mai» scosse la testa. Annuii e colsi la palla
al balzo, allegro.
«Ti andrebbe di vederla con me?» gli chiesi. Lui
sgranò un attimo gli occhi, girandosi verso di me, poi
qualcosa gli tornò in mente e si rabbuiò di
nuovo, mordendosi il labbro.
«Purtroppo non posso» sospirò.
«Non puoi? Come mai?» domandai, stupito.
«Ecco, diciamo che sono tipo in punizione» rispose,
respirando a fondo.
«Oh. Beh, sarà per la prossima volta,
allora» commentai. Lui non replicò e rimase in
silenzio.
«Tutto bene?» chiesi, posandogli una mano sulla
spalla.
«Sì sì, non ti preoccupare. Ho solo
mangiato un po' troppo» sorrise, inumidendosi le labbra.
«È un bel posto, questo» mormorai, a
disagio.
«Già... se non ci sei prigioniero»
borbottò lui in un filo di voce, abbracciandosi le ginocchia.
«Come hai detto, scusa?» ripetei, aggrottando le
sopracciglia e guardandolo.
«No, niente di che, tranquillo» sminuì
il moro: «parlavo da solo».
Tacqui, osservandolo. Forse avevo capito male io.
«È da molto che vi siete trasferiti
qui?» buttai lì, incapace di pensare ad altro.
«Due settimane, forse tre. Ramsey dice che abitavamo qui,
prima di trasferirci a Newark». Tacque.
«Francamente, non me lo ricordo proprio» aggiunse,
storcendo la bocca.
«Forse eri molto piccolo» supposi.
Scrollò le spalle, come se non gli interessasse
particolarmente.
«Bho, probabile. Tu abitavi qui, quand'eri un
bambino?» domandò.
«Sì, andavo a scuola in quel grande edificio
accanto alla chiesa». Gli indicai la struttura e lui si
sporse in avanti per seguire la traiettoria del mio dito, appoggiandosi
a me e socchiudendo gli occhi.
«Sembra bella» mormorò, facendo
vacillare lo sguardo dalla chiesa alla scuola, pensieroso.
«Non particolarmente» scrollai le spalle.
«Non è niente di speciale».
«Io non mi ricordo dove sono andato a
scuola» mi confidò lui, staccandosi da me e
abbracciandosi le ginocchia con aria malinconica, appoggiandovi sopra
la testa con rassegnazione.
«Alicia dice che è perché evidentemente
ho studiato a casa, ma non mi ricordo neanche quello. C'è un
sacco di buio nella mia testa, e anche nella sua. Evidentemente abbiamo
qualcosa che non funziona nel cervello, perché non
è normale».
Lo guardai e mi rividi in lui, deglutendo, ma non dissi nulla.
«È strano come la mente umana faccia errori di
questo tipo ma ci consenta di fare miliardi di cose assolutamente e
categoricamente inutili, no? Poi uno ci si abitua, ovvio, ma non
è carino non saper dire niente del proprio passato quando
gli altri ti raccontano per filo e per segno della prima volta che
hanno fatto qualsiasi cosa. Ti senti un po', come dire... diverso. E
non sempre diverso è bello».
Sospirò, mordendosi le labbra, e socchiuse gli occhi.
«Per una volta vorrei essere uguale agli
altri».
Mi sporsi in avanti e lo abbracciai con delicatezza, affondando il
volto nella sua schiena. Sembrò vacillare per un attimo, poi
riprese.
«A volte mi sembra che tutti si muovano per pietà.
Non è una cosa bella da pensare o da provare,
perché perdi fiducia in chiunque ti circondi, cominci a
pensare che non c'è davvero qualcuno che ti ami con
sincerità e che tutti i meccanismi attorno a te ruotino
intorno al fatto che sei un povero ragazzino con un handicap alle
spalle che non gli permette di vivere normalmente. Voglio dire, chi mai
assumerebbe qualcuno che non ha memoria, qualcuno che non sa neanche se
ha mai lavorato o commesso un delitto prima di compiere diciannove
anni, qualcuno che sul piano scolastico-manuale sembra nato ieri? Non
ho futuro, nessuna università mi accetterebbe mai e ci
metterei troppo a rifare tutti gli anni del liceo e gli esami
necessari, quindi non avrebbe neanche senso provare a ricominciare.
Io... vorrei solo essere normale. Tutto qui».
Sbuffò mestamente, gli occhi ancora serrati, e
lasciò che lo circondassi con le braccia in un abbraccio
più solidale possibile, mentre i nostri muscoli
s'irrigidivano e rilassavano in continuazione.
Avrei voluto dirgli che sapevo come si sentiva, che ci stavo passando
anch'io, che mi trovavo nella sua stessa situazione e che non sapevo
cosa fare, ma mantenni un briciolo di serietà e tacqui,
pensando all'esito della missione prima che a un ulteriore
avvicinamento tra me e il mio innamorato, e mantenni un po' di
distacco. Mi limitai ad abbracciarlo forte, accarezzandogli i capelli,
e a baciarlo sulla fronte.
«Andrà tutto bene, vedrai» gli
sussurrai, passandogli una mano lungo la guancia, delicatamente.
«Alla fine si sistema sempre tutto, e sarà
così anche per te».
«Cosa te lo fa pensare?» domandò,
alzando gli occhi verso di me con aria affranta.
«Il fatto che non sei più solo a combattere. Ora
ci sono anch'io, e ci sarò per sempre» lo
tranquillizzai, guardandolo dritto nelle iridi color carbone. Sorrisi e
anche lui abbozzò un sorriso.
«Io... Grazie, Gerard» si addolcì. Gli
arruffai i capelli e scrollai le spalle con un 'di niente'.
«Devi proprio andartene?» mi chiese poi,
malinconico. Sospirai.
«Sarebbe meglio di sì, mio padre potrebbe
cominciare a preoccuparsi e quando torno a casa rischio di trovarmelo
davanti alla porta, mezzo brillo e pronto a fare il diavolo a quattro
immedesimandosi in un qualsiasi agente di polizia. Allora, boom,
giù botte e addio uscite per mesi».
«E non puoi chiamarlo?» domandò, con una
candidezza che non mi risparmiò un sorriso.
«Va bene, vuol dire che lo farò» annuii,
addolcito dalla sua premura.
«Ma non ti obbligo mica, eh! Se vuoi partire parti
pure» si affrettò a aggiungere lui, arrossendo e
muovendo freneticamene le mani davanti al viso, formando una buffa
croce. Non poteva certo immaginare che sua 'sorella' e i suoi occhi
l'avessero già tradito da tempo. Sorrisi sotto i baffi e
scossi il capo, intenerito.
«Sta' tranquillo, non avevo comunque molta voglia di
andarmene. Non prima di aver fatto una certa cosa, almeno»
ribattei, tastandomi le cosce alla ricerca delle sigarette, abbandonate
nella tasca dei vecchi jeans, ora abbandonati chissà dove.
«Che cosa?» domandò, cercando di non
sembrare troppo incuriosito.
«Infilarmi un paio di pantaloni, innanzitutto»
risposi, saltando giù dal muretto e aspettando che il moro
seguisse il mio esempio, raggiungendomi davanti alla porta del
terrazzo. «Poi si vedrà».
«Ehi
Fin, non è che hai visto il mio cellulare?»
domandai, frugando tra la mia roba e piegandomi in avanti per
controllare se per caso fosse andato a cacciarsi sotto il letto, ma
scoprendo che, per mia sfortuna, purtroppo non era lì. Mi
rialzai, sbuffando, e mi grattai la testa.
«Eppure
sono sicuro di averlo avuto in tasca quando sono arrivato» mi
scervellai, confuso.
«Forse
ti è caduto in bagno» propose il moro, alzandosi
dal suo letto e andando a controllare.
Attesi speranzoso, continuando a cercare nella sua camera, ma purtroppo
dovetti arrendermi al fatto che non era da nessuna parte e che doveva
essermi caduto da qualche altra parte.
«Niente»
mi annunciò il ragazzo, rientrando nella stanza a mani vuote
con una smorfia dispiaciuta.
«Prendi
il mio e chiamati» tentò quindi, aprendo un
cassetto e tirando fuori il suo, passandomelo. Lo ringraziai e composi
velocemente il mio numero, portandomi il cellulare all'orecchio e
aspettando che cominciasse a suonare, ma la segreteria telefonica mi
avvisò che il mio apparecchio non era al momento
raggiungibile e che avrei dovuto riprovare più tardi.
Aggrottai la fronte.
«Allora?»
domandò Fin, dondolando le gambe dalla brandina e
guardandomi dal basso in alto.
«Ci
sono punti in cui non prende, qui?» chiesi a mia volta,
ridandogli il cellulare. Sembrò sorpreso.
«No,
non penso. Alicia lo sa di sicuro, comunque, andiamo a
chiamarla» disse, saltando giù dal letto e uscendo
dalla stanza, aprendo tutte le porte che incontrammo sulla nostra
strada. Mi parve di udire uno scalpiccio e aprii di colpo una porta, ma
tutto ciò che trovai fu una stanza vuota e una finestra
aperta, dalla quale mi sporsi senza vedere nulla.
«Qualcosa
che non va?» domandò Fin, tornando sui suoi passi
per raggiungermi.
«No,
pensavo di aver sentito dei passi ma evidentemente me li sono
immaginati» risposi, chiudendo la finestra e serrandola col
fermo, per poi voltarmi verso il moro con un gran sorriso.
«Oh.
Sì, effettivamente questa casa è parecchio
strana. Ogni tanto si sentono cose che non ci sono». Sorrise.
«È
abbastanza inquietante, se ci pensi; ma per il resto va
benone». Annuii e ci sorridemmo a vicenda, poi
lui uscì in corridoio e io lo seguii.
Improvvisamente mi sembrò tutto un po' più cupo,
così cercai di stare più vicino al ragazzo, a cui
la cosa non parve dispiacere poi così tanto, e aprii gli
occhi il più possibile, sistemandomi meglio la cuffietta.
Finalmente avevo potuto rivestirmi e far ripartire il piano, dopo aver
passato un'ora circa a non pensare ad altro, e dovetti ammettere che
sapendo che i miei amici stavano vegliando su di me mi sentivo
decisamente più al sicuro, tanto da staccarmi un po' dal
moro e rimanere leggermente indietro rispetto a lui.
I grandi quadri attaccati ai muri sembravano lanciarmi sguardi di
austera minaccia da dietro degli occhietti piccoli e socchiusi, man
mano che rallentavo il passo per osservare meglio ciò che mi
circondava, e la cosa mi faceva accapponare la pelle di tanto in tanto;
costringendomi a trotterellare di nuovo dietro al mio amico. Ogni volta
che mi fermavo, sentivo posarsi su di me degli occhi che seguivano con
insistenza ogni mio movimento e ogni mia mossa, quasi dovessero
controllare che non mettessi niente a soqquadro, e fui più
volte tentato dal chiedere al moro di fermarsi solo per poter curiosare
in giro senza sentirmi un cacciatore di souvenir sulla scena di un
delitto, ma per mia fortuna avevo ancora un po' di pudore,
così tacqui e feci finta di niente. L'immaginazione
può creare e poi dar vita alle peggiori paure, ed ero
più che certo che quella sensazione di malessere fosse
causata solo dalle parole di Fin e dalla mia eccessiva mania di
persecuzione, quindi non c'era nulla di cui allarmarmi o spaventarmi:
nel peggiore dei casi mi sarebbe caduto un ragno in testa o una falena
avrebbe cominciato a ronzarmi attorno. Insomma, viva la paranoia.
«Gerard?
Ehi?». Scossi la testa con un sobbalzo e mi voltai verso
destra, trovando il moro che mi guardava con aria preoccupata. «Tutto
okay?» domandò, avvicinandomisi aggrottando la
fronte.
«Sì
sì, stavo guardando questo.. questo.. coso»
guardai meglio il coso, imbarazzato per la mia definizione, e lo presi
in mano, tastandolo coi polpastrelli con aria interessata. Era fatto di
ceramica bianca e sembrava piuttosto antico, ricoperto com'era di
decorazioni in rosa, verde chiaro e azzurro, ma non riuscivo a capire
cosa potesse essere. La sua forma ricordava quella di una zuccheriera
d'altri tempi, ma se così fosse, che diavolo ci faceva su un
tavolino a metà del corridoio?
«Oh,
quello. Ci siamo sempre chiesti cosa significasse» disse Fin
con noncuranza e sporgendo il labbro inferiore in avanti, alzando ed
abbassando le spalle, osservandomi mentre lo posavo.
«La
casa era già arredata quando siamo arrivati noi. Alicia la
trova inquietantissima, ma non ci è permesso spostare i
mobili» m'informò, mentre ci rimettevamo in
cammino e lanciavamo qualche occhiata alla miriade di oggetti e
oggettini stipati sulle mensole o su piccoli tavolini di pesco, posti
ai lati del grande corridoio dal pavimento marmoreo. Effettivamente,
era inquietante.
«L'uomo
che hai menzionato prima, Ramsey, è quello che...
insomma...» provai a dire, imbarazzato.
«Che
ci ha adottato? Sì, sì è lui; ed
è anche quello che ha ereditato la casa. Cioè,
credo che l'abbia ereditata. Lo spero per lui: se non fosse, avrebbe
dei gusti davvero, davvero strani» storse la bocca con
distacco, soppesando in mano una statuetta raffigurante un angelo che
danzava spensierato.
«Capisco»
mormorai, mentre lui rimetteva l'oggetto a posto.
«Andiamo
avanti?» disse, indicando la fine della strada con un cenno
del capo. «Mi
pare di aver sentito un rumore da quella parte, probabilmente
è la volta buona» cinguettò,
improvvisamente allegro. Annuii e lo seguii di buon grado, senza
più fermarmi, finché non raggiungemmo una grande
porta di un legno chiaro e lavorato, dove il moro bussò.
Aspettammo un paio di secondi e la ragazza venne ad aprire, con in mano
una scopa e una paletta piena di polvere.
«Oh,
ciao» ci salutò, posando gli attrezzi contro il
muro. «Vi
serve qualcosa?»
«Sai
se ci sono punti in casa in cui il cellulare non prende?»
domandò il moro, frettolosamente.
Alicia
ci pensò su, mettendosi una mano davanti alla bocca, poi il
suo volto s'illuminò di un'idea.
«Sì,
vicino alla cantina non prende per niente» rispose. «Come
mai lo chiedete? Non avete campo?»
Le spiegammo rapidamente che non trovavo più il mio telefono
e che non riuscivamo a chiamarlo, e lei parve sinceramente stupita.
Aggrottò la fronte e ci guardò, come se non
capisse un punto.
«Ma
scusate, non siamo mica stati in cantina ieri» ci fece notare.
Ci
guardammo negli occhi e Fin sbiancò leggermente. «Dici
che è tornato?»
«Tornato
chi?» ribattei, senza capire. Alicia rimuginò un
attimo e scrollò le spalle, arrendendosi.
«Potrebbe
anche essere, non ne ho idea» si limitò a
rispondere, ignorando la mia domanda.
«Se
così fosse non dovreste proprio scendere in
cantina» ci ricordò, riprendendo in mano paletta e
scopa e tornando al suo lavoro, fischiettando un motivo molto
più teso di quello di prima. Guardai il moro e lui
ricambiò il mio sguardo, abbozzando un sorriso imbarazzato.
«Andiamo
a fare un giro in giardino?» propose, scusandosi con gli
occhi. Annuii, senza capirci nulla, e lo seguii ciecamente mentre lui
attraversava di nuovo quel lungo e grottesco corridoio e si spicciava a
raggiungere l'uscita, come se ci fosse qualcosa a corrergli alle
spalle. Sbucammo in giardino dopo tre minuti circa e fummo accolti da
un'inaspettata folata d'aria fresca, che accolsi con un gran senso di
sollievo e un sorriso. Mi voltai a guardare il moro e lui
abbassò lo sguardo, come se si sentisse colpevole di
qualcosa di molto grave, e si morse il labbro, inquieto.
«Immagino
che ti debba delle spiegazioni» mormorò con un
sospiro, sedendosi sul muretto di pietra. «Vedi,
devi sapere che non siamo soli in questa casa. Non lo siamo mai
stati».
Nel frattempo, alla base i ragazzi cominciavano a svegliarsi e si
preparavano a dare il cambio alla riccia, che ormai aveva smesso di
annoiarsi a morte, e tiravano a sorte per chi sarebbe andato a comprare
la colazione agli altri due, sacrificandosi.
«Ho
capito, ho capito, ci vado io» sbuffò Ray, alzando
le braccia in aria a mo' di sconfitta.
«Già
che ci sono compro anche il pranzo» annunciò poi,
frugando nello zaino alla ricerca del portafoglio e facendo una
colletta tra i presenti per racimolare i soldi necessari, annotandosi
gli ordini su un foglietto di carta e risalendo la scaletta ferruginosa
fino al portellone.
«Sarò
di ritorno fra un'oretta o giù di lì, state
attente» si raccomandò, ricevendo come risposta un
mucchio di 'lo sappiamo, lo sappiamo' e 'vedi di sbrigarti, sto morendo
di fame', dopodiché tirò fuori le chiavi,
aprì lo sportello di cemento e sgattaiolò fuori,
richiudendoselo alle spalle. Columbia si alzò dalla sedia e
andò a chiudere a chiave dall'interno, per essere sicura che
nessuno avrebbe potuto sollevare il portellone, e tornò
dall'amica, un po' più rilassata, lasciandosi cadere accanto
a lei.
«Successo
qualcosa d'interessante?» domandò la
bionda, girandosi verso la riccia.
«Niente
di che durante la prima ora e mezza, ma ora il roscio si è
finalmente rimesso le cuffiette, quindi possiamo vedere qualcosa che
non sia il buio e racimolare un po'
più informazioni».
Si avvicinò allo schermo e indicò un punto nero
col dito, voltando il viso verso l'altra, attenta.
«Qui
non si vede niente perché la cuffia è rotta o
sporca - non saprei quale delle due con certezza - ma puoi benissimo
immaginarti cosa succede grazie alle altre parti» la
informò, ritraendo il dito. Si rimise sulla sedia e
unì le dita delle mani, intrecciandole fra loro con un
sospiro appena accennato, e alzò lo sguardo al soffitto,
pensierosa.
«Cosa
ne pensi di questi due?» domandò, tornando a
incrociare lo sguardo dell'amica.
«Non
sembrano coinvolti, ma spesso l'apparenza inganna»
commentò lei, storcendo la bocca.
«Il
ragazzo, Fin, è innamorato perso di Gerard e sembra essere
ricambiato, ma potrebbe benissimo star fingendo per attaccarlo alle
spalle quando meno se lo aspetta. La ragazza, invece, non sembra
particolarmente interessata al suo ospite da quando il 'fratello' ci ha
messo gli occhi sopra, e passa poco tempo insieme ai due, ma non
possiamo escludere che stia comunque tramando qualcosa contro di lui in
gran segreto. Insomma, è ancora presto per dire qualsiasi
cosa» aggiunse.
«Per
ora non mi sbilancerei troppo, ma c'è qualcosa che mi puzza.
Non ho mai visto questi due in giro, tantomeno camion dei traslochi o
macchine non appartenenti alla cittadinanza parcheggiate vicino al
bosco; e a meno che non abbiano amici giù in paese mi sembra
assurdo. Anzi, anche se li avessero rimarrebbe comunque assurdo il
fatto che nessuno li ha mai visti anche solo andare al supermercato a
comprare qualcosa da mangiare, figuriamoci passeggiare tranquillamente
per le vie. No, c'è qualcosa di troppo surreale in tutto
questo per essere vero» ragionò, pensierosa.
«Neanche
noi ci facciamo vedere parecchio, in paese»
osservò la riccia.
«Vero,
ma quando scendiamo non cerchiamo di non farci notare e ci fermiamo
sempre a fare due chiacchiere con qualcuno. Senza contare che abbiamo
sempre fatto di tutto per non farli insospettire di niente, che
compriamo le nostre provviste al supermarket vicino al municipio e che
ci capita di frequentare spesso i pub o i caffé, durante il
pomeriggio, e che quindi non siamo immuni alla vita sociale e ai
pettegolezzi della nostra città. Siamo figure non dico
costanti, ma comunque presenti, non fantasmi che nessuno ha mai davvero
notato in giro» ribatté la bionda.
«Un
altro punto a nostro favore è il fatto che quando arriva
qualcuno di nuovo in città non si parla d'altro per giorni,
a volte anche per settimane, e di loro non ha parlato assolutamente
nessuno. Mia madre è una pettegola di prima categoria,
quindi sono sempre al corrente di quello che accade in
città, e visto che muore dalla voglia di accasarmi con
qualcuno dubito che si sarebbe lasciata sfuggire la
possibilità di presentarmi al nuovo arrivato, che non
sbandiera da tutte le parti di essere gay e che comunque non lo sembra
per niente, quindi siamo a ben due stranezze. È tanto, se ci
pensi, considerando che non abbiamo neanche passato tanto tempo ad
ascoltarli e che non sappiamo quasi nulla di loro. Mi chiedo chi gli
fornisca il cibo e come facciano con la spazzatura, con i vestiti, con
le materie prime in generale e comunque con la claustrofobia, visto che
ogni tanto tutti sentono il bisogno di fare una passeggiatina e uscire
da casa. Eppure non mi sembra di averli mai visti in mezzo ai boschi,
neanche per sbaglio, quindi se escono rimangono sempre vicino alle
telecamere e alla recinzione, cosa che a lungo andare è
un'altra stranezza. Quando si è appena arrivati è
normale aver paura di perdersi, ma dopo un po' che si abita in un posto
si possono benissimo comprare delle cartine o fare un'escursione,
calcolando che qui il segnale c'è anche quasi ovunque e che
non c'è neanche il rischio di rimanere isolati in una
situazione di pericolo. Continuo a pensare che ci sia qualcosa
che puzza in tutto questo, ma è meglio aspettare
ancora un po' prima di confermare qualsiasi impressione e accusarli di
aver attaccato James. Chissà, magari sono solo dei tipi un
po' eccentrici che hanno paura della gente e si vergognano di scendere
in paese perché sanno già che gli altri li
sommergeranno di domande indiscrete». Scrollò le
spalle e storse la bocca, senza staccare gli occhi dallo schermo, e
sentì l'amica annuire, dopo aver sospirato.
«Speriamo
bene» si limitò a commentare, scuotendo il capo.
«Aspetta!»
la bloccò la bionda, acchiappandola per la manica della
felpa.
«L'hai
visto anche tu?» esclamò con foga, indicando col
dito un punto sullo schermo. Columbia strizzò gli occhi per
cercare di distinguere qualcosa, ma si arrese e scosse le spalle,
rassegnata.
«A
me sembra solo un brutto quadro» ammise, scoraggiando la
bionda.
«Eppure
potrei giurare di aver visto un guizzo nei suoi occhi...»
s'insospettì quella, cercando d'ingrandire l'immagine e
trovare un particolare che le provasse che non era pazza, ma gli occhi
del dipinto erano perfettamente incollati dov'erano e non sembravano
aver voglia di guardare qualcosa che non fosse un vecchio muro che
osservavano da ormai parecchie generazioni. Lindsey sospirò.
«Probabilmente
me lo sono immaginata» concluse, reingrandendo la visuale,
che ora inquadrava di nuovo quella ragazzina magra, stavolta intenta a
fare le pulizie, che tanto incuriosiva la bionda. Le stavano
chiedendo se ci fosse un punto in cui il cellulare non prendesse o era
lei che aveva sentito male? Tese le orecchie e aguzzò la
vista, alzando il volume del video, e ricominciò a capire
qualcosa grazie alla breve spiegazione che rivolsero alla mora, prima
che lei li avvertisse che qualcuno era tornato e probabilmente si
trovava in cantina, e che quindi dovevano starne alla larga. Si chiese
perché ma nessuno dei due padroni di casa sembrò
intenzionato a svelare il mistero, così si
rassegnò e li seguì con lo sguardo lungo
quell'inquietante corridoio di marmo, in cui i loro passi faticavano a
non riecheggiare per tutta la villa, e si trovò a tirare
pure lei un sospiro di sollievo quando i due sbucarono in un giardino a
metà tra il curato e il selvatico. Il ragazzino sembrava
teso e, sebbene ci si sforzasse, il roscio non faceva che inquadrare
lui e il suo volto pallido, rendendo la tensione ancora più
palpabile. Lindsey si sistemò meglio sulla sedia,
alzò ancora un po' l'audio e inclinò leggermente
il monitor, in modo da permettere anche all'amica di assistere, e fece
correre lo sguardo da un volto all'altro, concentrandosi su ogni minimo
scatto delle mani o ingrossamento delle vene del collo, segni naturali
d'ansia, e cercò d'indovinare cosa c'era all'interno della
mente del moro, visibilmente spaventato da qualcosa che lei e il roscio
ignoravano. Fece per mettere la riccia al corrente di un'idea che le
era venuta in mente ma fu preceduta dal ragazzo, che si sedette su un
muretto di pietra a poca distanza dal roscio, cinse le mani,
accarezzandosele, e abbassò gli occhi, prima di rialzarli e
piazzarli, tremanti, sul viso del cameraman. Lindsey
aggrottò la fronte e fece cenno a Columbia di avvicinarsi
ancora, strizzando gli occhi, e rimase in silenzio finché
lui non aprì nuovamente la bocca, intenzionato a spiegare
qualcosa sulla misteriosa presenza in casa sua.
«Bingo»
sussurrò la seconda ragazza, appoggiando una mano allo
schienale della sedia con aria di vittoria, sporgendosi poi in avanti
per ampliarsi la visuale. Lindsey collegò il monitor al
lenzuolo accanto a loro e l'immagine venne prontamente proiettata anche
lì, così la riccia poté staccarsi e
trovarsi una sistemazione più comoda, con suo grande
apprezzamento.
Il ragazzo aprì la bocca e la richiuse, serrando la
mascella, e si portò una mano vicino all'orecchio, come se
avesse tagliato da poco i capelli e non si fosse ancora liberato dal
tic di portali lontano dal viso con un gesto secco, e
deglutì, teso. Gerard non staccava gli occhi da lui.
«Vedi,
devi sapere che non siamo soli in questa casa. Non lo siamo mai
stati» cominciò, torturandosi le mani ed esitando
prima di continuare, come se quell'argomento lo spaventasse
più del normale.
«C-che
intendi dire?» domandò il roscio, vacillando.
Lindsey riusciva a sentire i battiti del suo cuore.
«Intendo dire che Ramsey è qui con noi.
O meglio, un altro Ramsey, uno cattivo, facilmente irritabile, uno
molto più violento e secco, che non ha problemi a far male a
qualcuno o a ferirlo verbalmente e che per qualche strano motivo
è avverso a gran parte della popolazione del tuo paesino.
Per questo non posso andarci, mi ucciderebbe di botte»
sputò fuori, spaventato.
«Ma
se tu sarai discreto lo sarà pure lui e non ci saranno
problemi» si sbrigò ad aggiungere.
«Vedi,
lui non è una persona cattiva, ha solo avuto un passato
difficile e ha un modo tutto suo di conviverci e non venir sommerso dal
dolore» disse poi a mo' di giustificazione, e il roscio
deglutì.
«Se
non ti spiace, vorrei andare a casa» mormorò in un
sussurro strozzato. Fin sbatté le palpebre e
incassò il colpo, assumendo un'espressione profondamente
ferita.
«N-no,
ti prego, ti giuro che non ti farà niente. Te lo giuro sul
mio corpo, su Alicia, su mia madre, su qualunque cosa tu voglia, ma ti
prego, non andare. Ti prego.. ti prego» lo
supplicò con gli occhi, velati da una sottile patina di
lacrime, e il roscio esitò, colto alla sprovvista.
Lindsey si voltò a guardare l'amica, gli occhi sgranati e le
pupille dilatate dalla sorpresa.
«Prendi
le pagine bianche, svelta» ordinò freneticamente,
tornando ad occuparsi del video con il cuore a palla. Quel nome non le
era nuovo, ma non riusciva a ricordarsi di chi si trattasse.
«Raltz,
Ramgrhy, Ramprew, Ramset... Ramsey! Ecco, trovato»
esclamò l'altra posandole il libro davanti agli occhi,
sbattendolo con più forza di quanto volesse contro la
scrivania e facendo sussultare la bionda, che lo consultò e
sgranò gli occhi, impallidendo.
«Oddio,
vuoi vedere che...» mormorò, saltando in piedi e
correndo verso l'archivio. Spalancò il primo e il secondo
cassetto e ci frugò dentro con fretta finché non
trovò ciò che cercava, ritornando quindi al suo
posto per mostrarlo alla riccia, soddisfatta. Lo lasciò
cadere davanti al suo naso attonito.
«Guarda
qui» cominciò, togliendo la polvere dal plico e
aprendolo.
«L'annuario
scolastico dei primi anni del liceo» si compiacque, facendo
scorrere i polpastrelli lungo la prima pagina ingiallita e fermandoli
alla fine della pagina, prima di cominciare a sfogliarle.
«Questa
no, questa no, questa no, questa... questa sì,
finalmente» gioì, fermandosi a contemplare una
foto di media grandezza che riempiva forse metà dello spazio
disponibile nella pagina, in cui qualche studente camminava lungo un
corridoio lindo e immacolato e si fermava ad osservare un grande
orologio nero, posto sopra l'aula 204. Doveva essere ora di lezione,
perché il corridoio, di solito gremito di alunni di ogni
età e nazionalità, era paurosamente vuoto e
abbandonato a se stesso, se non fosse stato per la presenza di quei tre
ragazzi e di un uomo dal mento aguzzo, che sembrava leggermente
irritato dal loro ciondolare senza meta.
«Bingo»
esultò la ragazza soddisfatta, battendo il dito contro la
figura solitaria del bidello.
«Abbiamo
il nostro uomo» annunciò all'amica, godendosi la
sua aria stupita e compiaciuta.
«E
abbiamo anche un movente per l'assassinio» aggiunse,
lasciando la riccia completamente sbalordita. Sorrise fra se,
segretamente fiera della sua intelligenza, e ritornò a
sfogliare il fascicolo con attenzione, mentre l'altra, visibilmente
spiazzata, cercava di concentrarsi sul video.
Ma diavolo, avevano finalmente un vero sospettato, e con pure un
movente!
Columbia si fermò, togliendo le mani dalla tastiera. Doveva
assolutamente avvertire Ray.
Angolo
dell'autrice: So che questo capitolo non ha
svelato molte cose e che non è neanche particolarmente
accattivante, ma non so mai quando scrivo troppo e quando troppo poco,
quindi è un po' un casino per me regolarmi. Scusate cwc
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
combattere contro il passato (cap 11)
«Dì
un po', questo che ti ricorda?» domandò la bionda
all'amico ricciuto, appena lui ebbe posato la busta del pranzo sul
tavolo e si fu avvicinato ulteriormente a lei, passandogli l'annuario e
voltandosi a guardarlo. Lui lo prese in mano con aria corrucciata,
aprendolo e sfogliandolo finché lei non gli disse di
fermarsi,
fece correre lo sguardo sui visi dei ragazzi immortalati e si
soffermò a lungo su quello contratto dell'unico uomo della
scena, visibilmente contrariato da qualcosa presente nella fotografia,
e allontanò il fascicolo dagli occhi.
«Cosa
dovrebbe ricordarmi esattamente?» chiese, alzando le
sopracciglia
e guardandola negli occhi. Poi sospirò.
«Saranno
stati cinque o sei anni fa, prima che la scuola venisse
ristrutturata» disse, cercando di stimare la data e tornando
ad
analizzare l'immagine, «quindi
quest'uomo qua è il vecchio bidello, il signor Ramsey, e
questi
due ragazzi ripresi di sfuggita siamo io e il moro quando abbiamo
deciso di saltare l'ora di matematica per andare a leggere fumetti in
biblioteca. Questo dev'essere Oren, come al solito in giro a
cazzeggiare, e quest'aria incazzata dev'essere dovuta al fatto che lui
aveva appena finito di pulire ed eravamo arrivati noi a sporcargli
tutto senza alcun riguardo». Guardò l'amica in
cerca di
una conferma e lei annuì, sorridendo, incitandolo a
proseguire.
Ray respirò a fondo e tornò a guardare l'uomo,
malinconico.
«Mi
ricordo questo giorno; era aprile, maggio al massimo, e tutta la scuola
era su di giri perché era venuta a sapere che il vecchio
preside
sarebbe andato in pensione a fine pentamestre, e che quindi dall'anno
successivo le cose avrebbero preso una svolta positiva per tutti
quanti. Avevamo organizzato una festa, quella sera stessa, e ognuno
doveva portare qualcosa da bere, così io e Frank ci siamo
presentati con due bottiglie di vodka, decisi a spassarcela al massimo,
e abbiamo dato il meglio di noi, ubriacandoci come non mai. Fortuna che
il giorno dopo avevamo due ore di buco e siamo potuti entrare alle
dieci, altrimenti non saremmo neanche riusciti a reggerci in piedi per
più di cinque minuti» ricordò, ridendo.
«Possiamo
lasciar perdere la festa e concentrarci sull'inserviente?»
domandò Lindsey, cercando di non sembrare troppo scortese
agli occhi dell'amico.
«D'accordo,
ma su di lui non posso dirti molto. Era piuttosto severo e non vedeva
di buon occhio il nostro continuo ciondolare lungo i corridoi durante
le ore di lezione, ma svolgeva il suo lavoro con una pignoleria
impeccabile e non ricordo di aver mai visto le aule sporche dopo il suo
passaggio. Ci metteva l'anima in quel che faceva e non si lamentava
mai, quindi doveva essere contento di trovarsi lì, anche se
era
un lavoro duro e a volte gli toccava fare da balia a quelli che
venivano buttati fuori dai loro professori; ma credo che sotto sotto
non gli dispiacesse neanche quello» cominciò,
portandosi
un dito davanti alla bocca man mano che proseguiva, «Certo,
essendo un inserviente aveva qualche problema con gli studenti
più sciocchi, che lo sfottevano e si divertivano a sporcare
apposta per farlo sfacchinare di più, ma niente di troppo
grave,
credo. L'unica cosa che forse poteva dargli fastidio era un gruppo di
ragazzi del quarto anno, dei deficienti convinti che prendersela con un
bidello fosse la cosa più spassosa del mondo, che l'aveva
preso
di mira e si divertiva a riempirlo di scherzi, più o meno
gravi.
Lui non si lamentava mai, se non qualche volta con il preside, ma credo
che avrebbe dovuto farlo fin dall'inizio, così avrebbe
stoppato
la cosa sul nascere e quelle teste calde sarebbero state costrette a
calmarsi» commentò.
«Scherzi,
hai detto?» ripeté la bionda, pensierosa. «Che
tipo di scherzi?»
«Ah,
non ne ho proprio idea» ammise il riccio, scrollando le
spalle e scuotendo il capo. «So
solo che a volte erano piuttosto pesanti, tanto che quando stava da
solo era sempre guardingo e sulle spine, e che comunque non erano
robetta da niente, ma cose ben architettate e pensate con cura.
Insomma, questo povero cristo viveva con un clima di ansia perpetua
sulle spalle e non doveva essere una cosa molto carina, visto che alla
fine si è ribellato» disse.
«Ribellato?»
la ragazza corrugò la fronte, stupita. Vista la mole modesta
dell'uomo, una sua possibile vendetta contro dei ragazzi fisicamente
più sviluppati e caratterialmente più ottusi e
aggressivi
di lui le sembrava piuttosto improbabile.
«Parlo
per sentito dire perché quel giorno ero a casa con la
febbre, ma
pare che un giorno abbia organizzato un piano per stanare i suoi
aguzzini e si sia nascosto in mezzo alle frasche per ore, pur di
riuscire nel suo intento, ma che per sua sfortuna abbia beccato i
ragazzi sbagliati, capitati lì per puro caso e ignari di
tutto
quanto, e che li abbia inseguiti lanciandogli contro tutto
ciò
che trovava sul suo cammino. Quelli si sono spaventati da morire e si
sono rifugiati in un locale, il cui padrone si è offerto di
proteggerli, bloccando l'inserviente e costringendolo a calmarsi,
e poi da lì hanno chiarito tutto. Comunque sono
certo che
gli amici di quei ragazzi non abbiano digerito la cosa bene quanto i
protagonisti, perché il giorno dopo l'uomo è
venuto a
scuola con qualche escoriazione sul braccio e gli occhi velati di
paura, quindi qualcuno dev'essere andato a fargli visita, e non
dev'essere stato troppo piacevole» raccontò,
scuotendo la
testa.
«Ma
a parte quello si trovava bene a scuola, no? Hai detto che gli piaceva
lavorare qui, che s'impegnava da morire e che non si lamentava mai di
niente, quindi perché negli annuari successivi sembra essere
scomparso?» domandò la bionda.
«Be',
perché semplicemente è
scomparso. Vedi, qualche mese prima della fine della scuola,
qualcosa gli ha fatto perdere completamente le staffe ed ha avuto un
esaurimento nervoso di quelli seri, al punto che sono dovuti
intervenire degli infermieri a sedarlo perché
sennò
avrebbe combinato sicuramente qualche casino. Il consiglio d'istituto
ha indetto una riunione straordinaria e ha ritenuto più
opportuno offrirgli una vacanza anticipata, in modo che si riprendesse
totalmente dallo stress e dalla fatica a cui aveva sottoposto il suo
organismo, così lui è partito, una tiepida
mattina di
metà maggio, e ce ne siamo dimenticati tutti, tornando alla
solita routine di sempre. Solo che, contrariamente a quanto si
aspettassero il consiglio docenti e tutti gli altri membri dello staff,
lui non si è più fatto sentire e non ha
più messo
piede in città, facendo perdere completamente le sue tracce.
Facendo bene i calcoli, è uscito di testa poco dopo la
scomparsa
di Frank» rimuginò il ragazzo, guardandola negli
occhi.
«Pensi
che possa essere coinvolto nel caso?» suggerì lei,
a
cui la domanda era ronzata in testa fin dall'inizio.
«Non
penso niente» smentì invece il riccio, passandosi
le dita sul mento e corrugando la fronte, «ma
devo ammettere che la cosa è piuttosto sospetta».
«Escludendo
la possibilità che fosse implicato nella scomparsa del moro,
cos'altro avrebbe potuto farlo impazzire?» insistette la
ragazza,
ansiosa di sentire il suo parere. Ray tacque e ci pensò su
per
un po', poi scrollò le spalle storcendo la bocca.
«Be',
la vita di un bidello è uno stress continuo: pulisci qua,
pulisci là, il gesso, le cimose, la lavagna, l'aula video,
il
laboratorio,
questo che deve uscire prima, quello che deve entrare dopo, il
caffè, lo zucchero, il latte, i fogli, i plichi, il
secchio...
Hai tante cose a cui pensare, e a tutte queste devi sommare i dispetti
degli studenti, i capricci dei professori e le preferenze dei colleghi,
senza contare che il tuo stipendio non ti permette neanche una casa o
una macchina da re e che i turni di lavoro sono a dir poco massacranti.
Diciamo che viveva in una vasca di stress, ma che tutto sembrava
scivolargli addosso come l'acqua, e che quindi la causa del suo
esaurimento va cercata da qualche altra parte. Forse è stato
rapinato o aggredito, o forse qualcuno se l'è presa con
qualcuno
a lui caro, con qualcosa di sua proprietà o con qualcosa di
comunque importante, e quando l'ha scoperto è andato su
tutte le
furie, rompendo il delicato equilibrio che era riuscito a crearsi
attorno e facendosi crollare addosso tutta la merda che era riuscito ad
evitare per anni e anni» ipotizzò, guardando
l'amica negli
occhi.
«Potrebbe
anche darsi...» commentò lei.
«Credi che ci sia un modo per far chiarezza su tutto
questo?»
«Posso
collegarmi al sito della polizia e controllare le denunce per
aggressione e furto risalenti a quegli anni» propose
lui, «magari
trovo qualcosa che ci possa tornar utile».
«Saresti
in grado di farlo?» domandò la ragazza,
piacevolmente impressionata dalla sua abilità.
«Be',
ci posso provare» scrollò le spalle, con l'aria di
chi non è minimamente preoccupato, «non
è niente di troppo difficile, secondo me. Dopotutto me la
cavo
piuttosto bene con computer, password e tutta quella roba
lì,
Jimmy mi ha insegnato tutti i trucchi del mestiere. E poi non sarebbe
la prima volta che m'intrufolo in un sistema di qualcun
altro».
«Sul
serio?» ripeté la bionda, estasiata, e lui
annuì imbarazzato, come se non fosse tutta 'sta
gran cosa.
«Sul
serio» rispose, staccando le spalle dal muro e dirigendosi
verso
l'altra parte della stanza, mentre lei lo seguiva con lo sguardo e
sorrideva. «Dammi
cinque minuti» borbottò, accendendo il portatile e
premendo qualche tasto con aria esperta, mentre la schermata del sito
della polizia si faceva velocemente strada sullo schermo azzurrino. Ray
s'immerse nel suo lavoro e la bionda tornò a dedicarsi al
video,
dando il cambio a Columbia, che raggiunse il riccio con una grande
tazza di caffè fumante e gli si fermò alle
spalle. Gliela
porse e lui la prese con un sorriso riconoscente, tornando quindi ai
suoi codici criptati e lasciandola lì come se fosse la cosa
più normale del mondo, mentre lei sorrideva e scuoteva il
capo,
sentendosi come una madre intenerita davanti alla figura del figlio
completamente catturato da un nuovo videogioco. Si lasciò
sprofondare sulla poltrona poco distante e sorseggiò un po'
del
suo caffè, rilassata. Aveva la massima fiducia in Ray e
sapeva
che non l'avrebbe lasciata a mani vuote, quindi non aveva niente di cui
preoccuparsi. A parte, forse, quell'uomo che tanto spaventava Fin.
«N-no,
ti prego, ti giuro che non ti farà niente. Te lo giuro sul
mio
corpo, su Alicia, su mia madre, su qualunque cosa tu voglia, ma ti
prego non andare. Ti prego... t-ti prego...»
singhiozzò il moro mordendosi il labbro,
gli occhi improvvisamente pieni di lacrime.
Fin stava praticamente supplicandomi in ginocchio di rimanere e,
sebbene fossi spaventato e terribilmente in ansia, non ebbi la forza
né il coraggio di mollarlo lì e tornare in
città,
così mi arresi con un sospiro e scrollai le spalle, cercando
di
rassicurarmi.
«D'accordo,
rimango, ma a una condizione» dissi, cercando di sembrare il
più sicuro possibile.
«Quale?»
trillò il ragazzo, con un lampo di speranza in viso.
«Mi
porti giù in cantina. Ora» annunciai, la voce dura
e piatta e la mascella contratta.
Non sapevo esattamente perché, ma qualcosa mi diceva che era
la
mossa giusta da fare, così mi c'impuntai e, nonostante le
proteste e i tentativi di dissuadermi del moro, mantenni la mia
posizione fino all'ultimo, vincendo la sua resistenza dopo qualcosa
come un centinaio di vane preghiere e suppliche. Con il cuore in gola e
una faccia spaventosamente cadaverica, il ragazzo mi guidò
giù, senza fare pause e senza obiettare più
nulla, e si
fermò davanti a una grande porta marrone scuro, a cui era
attaccata una pesante maniglia d'acciaio affiancata da una serratura
aperta; si guardò intorno e poi si voltò verso di
me,
come a cercare una mia conferma. Lo incitai ad andare avanti con un
cenno del mento e lui fece un respiro profondo, spostando con la mano
le ragnatele penzolanti che adornavano e rendevano più
grottesco
l'ambiente, spinse il portone e lo aprì con un cigolio
acuto,
fermandosi a bussare prima di metter piede nella stanza. La sala era
illuminata dalla luce del sole, che filtrava attraverso una modesta
finestrella che dava sul prato, posta troppo in alto rispetto al
pavimento, e l'odore di polvere e muffa che vi ristagnava era quasi
nauseante, ma delle impronte di piedi e dei mobili spostati di recente
tradivano la presenza di qualcuno, in quel lugubre sotterraneo,
così mi spinsi in avanti e curiosai in giro in cerca di
materiale sospetto, guardingo. Tuttavia dovetti ammettere che non c'era
nulla d'interessante o fuori dal normale in quel luogo e, sebbene il
mio accompagnatore sembrasse completamente terrorizzato dal solo
trovarsi nella stanza, non riuscii a trovare niente di troppo rilevante
o anche minimamente utile all'indagine, così scrollai le
spalle
e lasciai perdere, uscendo dalla sala. Fin mi seguì con un
sospiro di sollievo e si chiuse la porta alle spalle, delicatamente e
stando attento a non far troppo casino, e trotterellò sulle
scale, rimanendomi dietro. Per quanto lui fosse sollevato dalla mia
infruttuosa ricerca, io ero insoddisfatto e non riuscivo a smettere di
pensare e ripensare alle parole della mora, a quelle del fratello, alle
sue occhiate spaventate e al suo impallidire quando avevo espresso il
mio desiderio di scendere in cantina; ed ero più che
convinto
del fatto che quella stanza mi stesse nascondendo qualcosa, un segreto
che a me non era dato conoscere e che sarebbe dovuto rimanere tale
ancora a lungo, se non per sempre. Scossi la testa, improvvisamente
colpito da una scossa di autostima e consapevolezza delle mie
capacità. No, sarei riuscito a scoprire pure quello, avrei
solo
dovuto aspettare un altro po' di tempo prima di far luce anche su quel
mistero: tornare laggiù immediatamente sarebbe stato inutile
e
avventato, senza contare che avrebbe potuto mettere in allarme il
misterioso padrino, che avrebbe poi potuto prendersela con Fin appena
me ne sarei andato, e non volevo che il ragazzo passasse dei guai per
causa mia. Certo, ne avrebbe passati per avermi permesso di andare a
frugare in mezzo a tutta quella roba, ma se fossi tornato
giù
una seconda volta non oso immaginare cosa quell'uomo avrebbe potuto
fargli; la sua descrizione di uomo violento e rabbioso mi preoccupava
non poco, e il suo nome continuava a rimbombarmi in testa, come se da
un momento all'altro dovesse scattarmi in testa un campanello d'allarme
o qualcosa del genere. Effettivamente, quel nome mi diceva qualcosa, ma
non avrei proprio saputo dire cosa. Del resto, tante cose mi
ricordavano qualcosa, ma a volte era solo frutto della mia
immaginazione e comunque non c'era verso di sapere se le mie
supposizioni erano fondate o meno, quindi avevo smesso da tempo di
fidarmi dei ricordi e delle sensazioni. Be', okay, magari non del
tutto, ma c'ero quasi.
«Soddisfatto?»
domandò a un certo punto il moro, appena fummo di nuovo
seduti in giardino. Grugnii.
«Immaginavo...
che ti immaginavi di trovare?» aggiunse, con una leggera nota
di delusione.
«Non
lo so. Qualcosa» ribattei, tagliando corto. Non avevo voglia
di parlarne, tanto meno con lui.
«Allora...
rimarrai?» chiese quindi, abbassando lo sguardo dai miei
piedi e poi portandolo sui miei occhi, speranzoso.
«Ma
certo, io mantengo le promesse» sorrisi, anche se
effettivamente
non gli avevo promesso niente. Il suo volto si illuminò e un
sorriso si fece strada sulle sue labbra fine, quasi inconsapevolmente,
e il ragazzo si morse l'indice, come a sopprimere un urletto; si
voltò a guardarmi, visibilmente felice, e si morse il labbro
inferiore, aggiungendo un grazie che più sincero non poteva
essere. Mi sentii come lusingato da quella sua aria pura e estasiata e
non potei fare a meno di sorridere. Rimanemmo in silenzio per un po', a
guardarci e arrossire, poi l'improvviso levarsi in volo di uno stormo
d'uccelli ci riportò sulla terra, dove ormai era l'una meno
un
quarto e tutte le famiglie si stavano raggruppando in cucina per
preparare qualcosa, in attesa del ritorno chi del marito, chi dei
figli, chi di qualche amico. All'improvviso mi ricordai del vecchio e
mi sbattei una mano in fronte.
«Merda,
devo chiamare mio padre!» esclamai, ricordandomi quindi che
non avevo trovato il mio cellulare.
«Tieni,
usa il mio» si offrì il moro, passandomelo con un
gesto
impacciato. Lo ringraziai con gli occhi, sbloccai il display e composi
il più velocemente possibile il numero di mio padre,
portandomi
l'apparecchio all'orecchio e respirando più volte a fondo,
come
a prepararmi psicologicamente alla sua voce sgradevole e ai suoi modi
burberi, che sfoggiò appena prese in mano la cornetta.
«Senta»
rispose, scocciato «non
so chi sia né cosa venda, ma non ho bisogno di niente, ha
capito?»
«Papà,
sono io, Gerard». Lo sentii annuire alla cornetta, per niente
colpito.
«Si
può sapere dove ti sei cacciato, ragazzo?»
«Sono
con gli altri, volevo dirti che non verrò a
pranzo».
«E
quando pensi di tornare, signorino?» sbuffò.
Guardai prima il moro, poi la casa, poi il bosco, mordendomi le labbra
e esitando un attimo, poi sospirai.
«Domani
mattina, credo; abbiamo un casino di cose da fare» risposi.
Annuì.
«Poi
fammi sapere, in caso cambiassi idea. Vedi di non farmi vergognare di
te, mh?»
«D'accordo.
Ciao pa'» mi congedai, poi lui riagganciò,
lasciandomi un attimo stupito della sua calma.
«Hai
detto domani mattina, rimarrai qui anche stanotte?» mi chiese
d'un colpo il moro, raggiante.
«Se
mi sopportate» scherzai con un sorriso, restituendo il
cellulare
al ragazzo e ringraziandolo per la sua gentilezza. Lui fece segno che
non importava e mi prese per la mano, trascinandomi dentro con aria
euforica e andando a cercare la sorella.
«Aliiicia?
Ehi, Ali, dove sei?»
gridò, amplificando la voce con la mano e ricevendo una
risposta
dal salone. Ci avviammo verso la sala e superammo il corridoio in tempo
record, così velocemente che non ebbi neanche il tempo di
fermarmi a accarezzare i dipinti con lo sguardo, e la figura magra
della ragazza ci venne incontro sulla porta, appoggiandosi allo stipite.
«Be',
cos'è quest'aria felice?» domandò,
incrociando le
braccia con lo sguardo di chi ha già capito tutto.
«Gerard
rimane a dormire anche stanotte» le annunciò il
moro, che
si era completamente lasciato alle spalle il pallore e il timore che lo
avevano assalito mentre ci avventuravamo nei sotterranei e che ora
sembrava decisamente al settimo cielo.
«Ah,
questa sì che è una bella notizia»
commentò lei, «allora
mangeremo in tre».
«E
quel tizio che è appena arrivato? Lui non mangia?»
domandai io, aggrottando la fronte.
«Ah
bho, non penso proprio» rispose lei scuotendo le spalle, «non
si fa mai vedere durante il giorno. Lavora molto
e mai nello stesso punto, quindi non sai mai a che ora e come
tornerà, abbiamo smesso di aspettarlo da parecchio
e a lui sta bene così».
«In
questo caso vuol dire che mangerò anche per lui»
scherzai, ricevendo una sonora pacca sulla schiena.
«Questo
è lo spirito, ragazzo mio» si compiacque, «poi
più tardi andremo a cercare il tuo cellulare. Sono sicura
che
è finito sotto qualche divano o in un posto impensabile, ma
vedrai che riusciremo a recuperarlo».
Annuii, fiducioso, e lei sorrise, mentre il fratello la salutava e mi
trascinava da un'altra parte. Voltandomi, mi sembrò di
scorgere
un lampo di preoccupazione nei suoi occhi carbone, ma forse fu solo una
mia impressione, visto che qualche secondo dopo era già
tornata
alle sue occupazioni, tranquilla.
«Fin,
dici che vostro padre avrà bisogno della
brandina?» domandai dopo un po', rompendo il silenzio.
«Nah,
ha una stanza tutta sua con un letto mille volte più comodo
di quello che hai tu»
ribatté con sicurezza.
«Al
massimo, se proprio la rivuole, ti toccherà dormire con
me» aggiunse, sorridendo sotto i baffi.
«A
me sta bene, basta che non russi» scherzai senza
sbilanciarmi, beccandomi una spinta.
«Seriamente,
è l'Anti-Fin Day o cosa?» fece lui, fingendosi
esasperato e alzando le mani al cielo.
«C'hai
preso in pieno, fratellino» confermò la mora,
raggiungendoci. «Ora
vai, è il tuo turno di cucinare».
Il ragazzo si alzò in piedi, scuotendo leggermente la testa
con
aria divertita, e uscì dalla stanza, senza che l'altra si
muovesse per seguirlo o dargli anche solo una pacca sulla spalla.
Aspettò in silenzio che il rumore dei suoi passi scomparisse
definitivamente e poi si voltò a guardarmi, improvvisamente
seria.
«Posso
parlarti un attimo?» domandò. Annuii, deglutendo,
e mi aspettai il peggio.
«Non
andate in giro per casa stasera e non avvicinatevi alla
cantina
per nessuna ragione, okay? Questa mattina passi, e se volete tornarci
anche
dopo pranzo va più che bene, ma stasera non vi azzardate a
metterci il muso dentro, sono stata chiara?»
Annuii nuovamente, sentendomi mancare il terreno sotto ai piedi.
«Non
lo dico per farvi un torto o niente, ma esclusivamente per la vostra
sicurezza» aggiunse, guardandomi con aria premurosamente
preoccupata, «e
perché vorrei che tu fossi in grado di tornare a casa,
domani mattina».
A questo punto dovetti per forza impallidire notevolmente,
perché lei mi posò una mano sulla spalla e me la
strinse
delicatamente, scuotendola e cercando di tranquillizzarmi. Esisteva la
possibilità che non sarei stato in grado di andarmene?
«Vedi,
il nostro patrigno non è cattivo, ma certe volte non riesce
proprio a controllarsi. Di colpo diventa un'altra persona e perde ogni
freno inibitorio, ed è proprio questo che vorrei evitare di
farti vivere» sussurrò, accarezzandomi la spalla.
«Non
è colpa sua, ovviamente, come non lo è di nessuno
di noi,
ma è meglio non rischiare troppo, se si
può».
Mi guardò con apprensione e io abbassai lo sguardo,
elaborando le ultime informazioni.
«Siamo
tutti un po' strani in questa casa, ma nessuno ha scelto di esserlo.
Evitate di stuzzicarlo e non succederà niente,
tranquillo» concluse,
ritraendo la mano e alzandosi, per poi fermarsi per qualche secondo
accanto alla porta e
lanciarmi un'ultima occhiata.
Dal canto mio, non sapevo cosa pensare. Era una situazione surreale, ma
non mi sentivo davvero come se ci fosse un pericolo che incombeva
dietro l'angolo, anzi; era come se il pericolo ci fosse sì,
ma
non mi riguardasse minimamente, quindi riuscivo a preoccuparmi solo
fino a un certo punto. E pensare che fino a una mezz'ora prima mi stavo
cagando in mano!
Scossi la testa e mi alzai in piedi, seguendo le orme dei due ragazzi.
Quell'enorme casa mi metteva a disagio, e ancora più mi
colpivano quei quadri, enormi ritratti dei tempi che furono, che
sembravano spiarmi e seguirmi con lo sguardo ovunque io andassi, anche
in presenza del moro; e l'ultima cosa che desiderassi era rimanere da
solo con loro, alla mercé dei loro sguardi arcigni e delle
mie
paranoie inutili. Percorsi il corridoio quasi di corsa e quando
raggiunsi gli altri tirai un taciturno sospiro di sollievo, mi proposi
di aiutarli e dare una mano ad apparecchiare e loro accettarono, senza
smettere un secondo di ridere e chiacchierare. Alicia aveva ripreso la
sua aria spensierata, anche se ogni tanto mi lanciava un'occhiata per
vedere come me la cavassi, e mi fu impossibile non notare che Fin
sembrava a dir poco su di giri per la mia presenza, anche se cercava di
non darlo a vedere; e non riuscii a non sorridere nel prendere parte ai
loro piccoli rituali quotidiani, sentendomi parte per qualche minuto
della famiglia che avrei tanto voluto avere.
«Vittoria!»
esclamò Ray, allontanandosi dal computer col un colpo al
muro e alzando le mani in aria, trionfante.
«Ce
l'hai fatta?» domandò la bionda, sgranando gli
occhi per l'ammirazione e
avvicinandoglisi, al settimo cielo. Ray annuì, orgoglioso.
«Jonathan
Tim Ramsey, collaboratore scolastico con più di diec'anni di
onorevole servizio, è stato pestato e legato a un palo sulla
statale, esattamente tredici giorni prima della scomparsa del nostro
amico. A quanto pare è stato un automobilista ad avvertire
la
polizia dell'accaduto: stava dirigendosi verso Newark dopo una serata
passata a cena di alcuni parenti quando ha visto una figura mezza
accasciata per terra e si è insospettito, così ha
spento
l'auto ed ha trovato il nostro uomo, in stato di semi-incoscienza e coi
vestiti violentemente stracciati. A quanto dicono, non aveva soldi o
documenti addosso, e il telefono gli era stato sottratto in precedenza,
per poi venir ritrovato in un cestino nei pressi del municipio qualche
giorno dopo. Non si è mai scoperto il colpevole e la polizia
ha
archiviato il caso senza troppi problemi» alzò gli
occhi
sull'amica, «probabilmente
causando uno stress troppo grande per un uomo già troppo
esposto
all'esaurimento, che quindi ha avuto una crisi ed è –
diciamo così -
impazzito». Respirò a fondo, analizzando la
situazione.
«Non
c'è da stupirsi se se n'è andato»
commentò poi, storcendo la bocca mentre l'amica rimuginava.
«Quando
sono state interrotte le ricerche del suo aguzzino?»
s'informò la bionda, pensierosa.
«Più
o meno quando è scomparso il moro. Non che li si possa
biasimare, l'intera comunità era in subbuglio e pretendeva
che
la polizia ritrovasse il più presto possibile il ragazzo,
sbattendosene le palle di un fatto che non era neanche stato pubblicato
sul giornale locale, sotto richiesta della vittima, quindi non hanno
avuto molta scelta. Per la cittadinanza era vitale».
«E
se l'avessero fatto apposta? Se la loro fosse stata una specie di
spedizione punitiva, e il rapimento del moro solo un diversivo per
distogliere l'attenzione della polizia locale da un fatto di cui tutti
erano più o meno colpevoli?» azzardò.
Ray la
guardò, inespressivo, e considerò l'idea,
prendendosi il
mento tra le dita.
«Potrebbe
anche essere» ammise, «ma
allora perché non farlo ricomparire dopo aver scacciato
Ramsey?».
«Forse
sapeva troppo e l'hanno fatto fuori per essere sicuri che non potesse
spifferare niente a nessuno» suppose. «A
volte succede».
«Può
anche darsi, e questo spiegherebbe perché l'altro giorno si
sono
mostrati tutti stranamente taciturni; ma allora perché non
far
sparire il ragazzo in un momento di solitudine, senza dover correre il
rischio di venir poi riconosciuti?» ribatté il
riccio.
«Forse
avevano bisogno di un capo espiatorio, un qualcuno a cui addossare la
colpa, o forse non potevano soffrire Gerard e basta,
così
hanno deciso di far fuori pure lui, solo che non ci sono
riusciti».
«Allora
perché abbandonarlo lì così, senza
dargli il colpo
di grazia? Il corpo è stato ritrovato solo alcune ore dopo,
quindi non c'è neanche la possibilità che gli
assassini
siano stati intravisti da qualcuno e quindi messi alla fuga. Ammesso
che ci sia stato un testimone, avrebbero potuto tranquillamente
freddare anche lui e portare via anche il suo, di cadavere, senza
doversi esporre così tanto» ragionò il
ragazzo. «No,
secondo me è successo qualcos'altro. Nessun assassino
è così sprovveduto».
Lindsey
tacque, appoggiata al muro, e continuò a rimuginare; poi si
allontanò con una spinta dal cemento e raggiunse la busta
con il
cibo, tirandone fuori una bottiglietta di succo alla mela e
portandosela alle labbra, senza spiccicare parola. In effetti, l'amico
aveva ragione, anche se qualcosa le diceva d'insistere.
Scrollò
le spalle. L'avrebbero scoperto presto.
«Ehi,
venite a vedere!» esclamò d'un colpo la riccia,
che era
rimasta in silenzio durante tutti i loro ragionamenti, facendola
sobbalzare e cadere dalle nuvole con un sonoro
sussulto, facendole
cenno di avvicinarsi velocemente. Raggiunse l'amica e si sporse in
avanti, cercando di vedere oltre la sua spalla; quella alzò
il
volume, in modo che tutti potessero sentire ciò che stava
dicendo la ragazza nel video, e si spostò un po' di lato,
lasciando agli altri anche una visuale migliore. Lindsey
rabbrividì.
«Cosa
pensate che significhi?» domandò, improvvisamente
molto più pallida.
«Non
ne ho idea, ma la faccenda si complica» commentò
la riccia, storcendo le labbra. «E
parecchio».
«Ti
va di andare a vedere le stelle, Gerard?»
domandò dopo un po' il moro, sorridendo.
La cena era finita da un po' di tempo ed eravamo placidamente seduti
sul divano, mentre Alicia guardava una soap opera nella stanza accanto,
decisa a lasciarci soli il più possibile, e nella sala
aleggiava
un'aria sciolta e rilassata, che io mi stavo godendo con tutto me
stesso. Sulle prime mi
venne spontaneo dire di sì, poi mi ricordai le
raccomandazioni
della ragazza ed esitai.
«Non
pensi che sarebbe meglio restare dentro?» obiettai, «fuori
fa un po' freddo...». Non avevo il coraggio di dirgli che non
mi
fidavo del suo patrigno in piena notte e mi sentii un po' in colpa a
mentirgli così, ma non avevo altra scelta - sarebbe sembrato
come se non volessi stare con lui.
«Oh,
freddo dici?» ripeté lui, come cadendo
improvvisamente dalle nuvole.
«Ma
certo, come ho fatto a non pensarci? Aspetta, vado a prenderti una
felpa» mi annunciò, correndo via e lasciandomi
solo. Lo
osservai scomparire nel buio del corridoio e respirai a fondo,
silenziosamente, deglutendo e serrando forte le labbra, per poi
guardarmi attorno e concentrarmi sulle voci del programma della mora,
senza muovere un muscolo o aprire bocca. Dopo un paio di minuti mi
accasciai sul divano e mi morsi il labbro, ormai conscio che sarebbe
stato impossibile dissuadere Fin dall'idea di andare a vedere le
stelle, e mi rassegnai al fatto che avremmo rischiato come non so cosa.
Sospirai e mi parve di scorgere un'ombra alla fine del corridoio;
rabbrividii istintivamente e mi spostai un po' più a
sinistra,
togliendomi dalla visuale e dandomi l'impressione di essere un po'
più al sicuro, e attesi, ansioso. Fin entrò di
corsa
nella stanza e mi raggiunse sfoggiando un enorme sorriso a trentadue
denti, mi passò una felpa e riprese fiato, mentre io la
indossavo cautamente.
«Spero
non ti stia troppo piccola, è la più grande che
avevo» ansimò, le mani posate sulle ginocchia.
«Va
alla grande, grazie mille» lo rassicurai, stringendomici e
avvolgendomi nel suo profumo. Lui sorrise e io feci lo stesso, poi mi
porse il braccio e io mi ci avvinghiai, felice. Percorremmo il
corridoio in silenzio e sbucammo in un altro punto del giardino,
abbastanza vicino alla nostra camera da letto, e il moro si
sdraiò sull'erba, mettendosi le braccia dietro la testa a
mo' di
cuscino. Seguii il suo esempio e mi stesi a pochi centimetri da lui,
riempiendomi gli occhi di astri, nuvole e satelliti, sempre senza dire
niente, e sorrisi, percependo lievemente il calore del ragazzo al mio
fianco. Sospirai il più delicatamente possibile e mi voltai
a
guardarlo, attento a non farmi vedere, e rimasi catturato dalla sua
candida bellezza, accentuata dalla luce della luna e addolcita dal
vento che ci accarezzava i volti. Sentii un tuffo al cuore e arrossii,
così decisi di tornare a guardare il cielo per calmare un
po' il
turbine di ormoni che aveva preso possesso del mio corpo e socchiusi
gli occhi, rilassando ogni muscolo che potevo controllare, e sentii un
sospiro compiaciuto da parte del moro.
«Sai,
mi piacciono molto le stelle» mormorò, senza
staccare lo sguardo dalla volta celeste, «uno
dei miei sogni è riuscire a diventare un astronauta e salire
lassù, sulla luna, per poter vivere un paio di mesi
circondato
solo da loro, per poterle studiare, vedere, sentire, per poter
assaporare ogni minimo particolare che possiedono. Se ci pensi,
è come una magia». Tacque un attimo, sbattendo le
palpebre. «Voglio
dire, la maggior parte delle stelle che vediamo ora è
già
morta, esplosa o in mutazione, eppure noi non riusciamo ad
accorgercene, perché la loro luce impiega milioni di anni a
raggiungerci e con tutte le luci che ci sono oggi è
praticamente
impossibile vederne tante. Quando abitavamo in città, era
una
cosa che detestavo, e spesso e volentieri guardavo e riguardavo
documentari sull'universo e sugli altri pianeti, dove le stelle si
vedono sempre benissimo e dove non ti devi preoccupare di aerei,
satelliti e stronzate varie. Siete solo tu, le stelle e un qualche
professore che puoi zittire benissimo abbassando il volume del
televisore» proseguì, gli occhi ancora chiusi.
«Tu
guardi mai le stelle?» chiese, un po' per farmi sentire meno
a disagio, un po' per effettiva curiosità.
«Quando
sono qui, sempre, ma in città lo spettacolo è
piuttosto
ridotto» risposi, dandogli ragione; lui annuì e
conservò il silenzio,
pensieroso.
«A
che pensi?» domandai dopo un po', voltandomi verso di lui.
Fin scrollò le spalle, increspando le labbra.
«A
tutto e a niente» mormorò, guardandomi, «tu?»
.
«Niente
di che, ma sono felice di essere qui» commentai, abbozzando
un sorriso.
«Anche
io» convenne il ragazzo sorridendo, avvicinandosi
più a me. «Guarda,
questo è il Corvo» mi spiegò,
passandomi un braccio
sotto il collo per indicarmi meglio una costellazione molto piccola,
formata al massimo da dieci-undici stelle che brillavano nella parte
meridionale del cielo, altrimenti piuttosto buia.
Il suo braccio era bollente, o forse ero io a esserlo diventato al
contatto con la sua pelle. Rabbrividii.
«Hai
ancora freddo?» domandò, posando lo sguardo su di
me. Per
un attimo temetti che mi avrebbe lasciato da solo nel bel mezzo della
notte per andare a prendere un'altra giacca da mettermi su, invece mi
si avvicinò ancora di più e mi
abbracciò stretto,
avvolgendomi tra le braccia e posando la testa sul mio petto. Arrossii
da morire, ma il buio lo nascose.
Feci
per aprire bocca ma mi morsi la lingua e mi godetti il momento,
inspirando il suo profumo.
Dio, quant'era bello quel ragazzo, e Dio quanto mi piaceva.
«Gee?»
mi chiamò dopo un po', spostando il viso verso il mio e
guardandomi negli occhi.
«Sì?»
replicai, allentando istintivamente la presa. Forse gli stavo facendo
male.
«Grazie».
Lo guardai e lui mi sorrise, sincero; al che arrossii di nuovo e
distolsi lo sguardo, mordendomi il labbro.
Oh Dio.
«Sei
carino quando arrossisci» disse, guardandomi dolcemente con
un sospiro.
«Ah
beh, tu sei carino sempre» replicai, pescando il coraggio da
chissà dove. Lui sorrise e rise fra se.
«Dico
davvero» insistei, «sei...
sei carino».
Oh Dio, perché insisto? Smettila, coglione, smettila, prima
che sia troppo tardi.
«Grazie»
mormorò, abbassando e rialzando lo sguardo, come se non
riuscisse a sostenere il mio.
«Io...
a parte Alicia, sei il primo che me lo dice» mi
confidò. Sgranai gli occhi, stupito.
«Il
primo?» ripetei; lui annuì e socchiuse un attimo
gli occhi.
«A
quanto pare non sono bravo a piacere alla gente»
sospirò, tornando a guardare il cielo.
«Be',
a me piaci» replicai senza pensarci, prima di sigillarmi la
bocca con una mano e maledirmi mentalmente.
«D-davvero?»
domandò, girando la testa verso di me.
«Davvero»
annuii, cercando di non sembrare completamente terrorizzato dallo
scoprire quella che sarebbe potuta essere la sua reazione.
«Anche
tu mi piaci» sorrise «e
tanto anche».
Sorrisi, arrossendo, e lo guardai, realizzando che l'unico ad arrossire
ogni tre secondi ero io, ma per una volta me ne fregai. Lo strinsi
più forte, lasciando che affondasse il viso nel mio petto, e
gli
baciai la nuca, il cuore che batteva a mille, felice; lui
portò
le mani vicino al volto e si aggrappò a me, come se temesse
che
sarei potuto correr via da un momento all'altro, e mi lasciò
un
bacio sulla felpa, uno di quelli così delicati che quasi non
li
senti, che quasi non sai di riceverli.
Rimanemmo lì avvinghiati per un po', poi il fresco
aumentò e decidemmo di rientrare, lasciando stare stelle,
luna e
satelliti vari e concentrandoci sul calore soporifero che emanava la
casa, già pochi passi oltre la porta, e ci dirigemmo verso
la
stanza da letto del moro, evitando di accendere le luci per non
svegliare la mora.
«Fin,
Alicia? Che cosa ci fate svegli a quest'ora?»
domandò
secca una voce alle nostre spalle, avvicinandosi lentamente.
«Dovreste
essere a letto da un bel po', non lo sapete questo?»
insistette, sempre più vicina. Deglutii, arretrando.
«Lo
sapete cosa succede quando mi disubbidite, non è vero?
Perché volete farmi scomodare a quest'ora della notte? E io
che
pensavo di potermi fidare, a lasciarvi a casa da soli... Be',
evidentemente mi sbagliavo» sbuffò stancamente,
sbattendo
qualcosa contro la mano e arrestando per qualche secondo la sua
camminata.
«F-fin?»
balbettai, ricordandomi quello che mi aveva detto la mora, «cosa
succede quando disobbedite?»
«Tira
fuori la cintura» impallidì il ragazzo,
indietreggiando di qualche passo. Sbiancai, deglutendo.
«Non
dici sul serio, vero?» domandai con voce strozzata, cercando
di scorgere la sagoma dell'uomo, protetta dal buio più nero.
Il ragazzo scosse il capo.
«È
la verità» sussurrò, cercando di mandar
giù il groppo che gli aveva prepotentemente attanagliato la
gola.
«Oh
mio Dio» mormorai, andando a toccare il muro con la schiena.
Mi voltai, ma eravamo in un vicolo cieco. «No...».
«Fiiin,
Aliiiciaa, lo sapete che non potete scappaaaree» ci
chiamò l'uomo, avvicinandosi ancora, «Smettetela
di nascondervii, tanto lo sapete che è inutilee».
Fece qualche altro passo in avanti, mi posai le mani davanti alla testa
e cercai
di farmi il più piccolo possibile, realizzando che al mio
fianco
il moro non c'era più. Sgranai gli occhi e lo cercai con lo
sguardo, terrorizzato, ma mi trovai davanti solo Ramsey, in tutta la
sua pazzia.
«Cucù,
ragazzino» cinguettò. «Hai
visto, che ti ho trovato?» trillò poi,
scrocchiandosi le ossa del collo e avvicinandomisi spaventosamente, un
raggio di luna che gl'illuminava il volto.
«Ora
imparerai a non disubbidirmi mai, mai, mai più» mi
annunciò con un ghigno, poi alzò la cintura verso
l'alto e me la
scagliò addosso.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
combattere contro il passato cap12 bozza3
Sentii la cintura
fendere velocemente l'aria e incrociai le braccia
davanti al volto tenendole più in alto possibile, nella
speranza
di diminuire l'intensità del contraccolpo; strizzai gli
occhi
fino a farmi male e mi morsi il labbro, aspettando che il metallo mi
entrasse nella carne, cruento e inesorabile, per poi uscire e rientrare
ancora e ancora, più violentemente che mai. Trattenni il
respiro
e udii uno schiocco sonoro, come di qualcosa che si rompeva, e temetti
che mi avesse già colpito e frantumato qualche osso, ma
l'unica
cosa costruttiva che riuscii a fare fu annaspare per un po' d'aria,
preparandomi a fronteggiare l'arrivo del dolore, e strizzare gli occhi
ancora di più, senza permettere alle lacrime di trovare una
via
d'uscita da sotto le mie palpebre serrate.
«Gerard!»
sussurrò Fin, scuotendomi ripetutamente le spalle, «Gerard,
sono io, apri gli occhi per favore».
Sussultai nel sentire la sua voce e mi sentii riempire di speranza nel
capire che non se n'era andato abbandonandomi al mio destino per
pararsi il culo ma che era rimasto acquattato nel buio e che mi aveva
salvato la pelle, nonostante quello che mi aveva attaccato fosse il suo
patrigno. Scattai in avanti e mi avvinghiai alla sua felpa, tremando,
farfugliando parole di ringraziamento e tirando su col naso, ma lui non
si concesse il tempo di ascoltarle e mi tirò su, spingendomi
energicamente verso il corridoio. «Non
possiamo restare qui un secondo di più, dobbiamo trovare
Alicia
e scappare il più lontano possibile prima che
albeggi e
lui ci possa trovare»
mi ricordò frenetico, lanciandomi uno sguardo di scuse e
cominciando a correre a rotta di collo, mosso da un'adrenalina e una
paura che raramente avevo visto in un essere umano. Lo seguii a ruota e
notai che continuava a girarsi per controllare che il suo cosiddetto
papà non ci stesse già alle calcagna, rischiando
di
cadere in avanti; così accelerai e gli presi la mano,
cercando
d'infondergli un po' di fiducia in sé stesso. Lui fece un
sorriso di circostanza, un disegno di terrore e morte su un viso
altrimenti angelico, e imboccò il corridoio di destra,
entrando
senza bussare in camera della sorella, che si svegliò di
soprassalto mentre io irrompevo nel locale e il moro la scuoteva
violentemente. «Lui
è qui Ali, lui è qui ed è
arrabbiato»
farfugliò, gli occhi scuri sgranati e infossati
nel volto
scarno, «l'ho
colpito alla nuca con qualcosa di pesante e penso sia ancora
svenuto, ma fra poco si sveglierà e quando
realizzerà
ciò che ho fatto perderà il controllo e
finirà
l'opera che aveva minacciato d'iniziare. Dobbiamo andarcene, scappare
prima che sia troppo tardi, hai capito?».
Il
sorriso le morì sulle labbra con un rantolo di terrore e si
coprì istintivamente la bocca con le dita, come per
scongiurare
la remota possibilità che le sue corde vocali potessero
emettere
qualsiasi suono sgradito; e l'unica cosa a cui riuscii a pensare fu che
non mi ero mai reso conto di quanto fossero magre e affusolate in
confronto a quelle del fratello. Mi stupii di quanto potessi essere
fuori luogo in un frangente del genere e feci una smorfia,
affrettandomi a riempire lo zaino che mi aveva passato il ragazzo con
delle felpe e degli spray antizanzare che avevo trovato nella libreria
della mora, sopra una pila di cd di heavy metal e un libro di
fotografia. Alicia uscì dal piccolo bagno adiacente alla sua
camera con addosso un paio di jeans pieni di tasche e una giacca a
vento scura, infilandosi gli anfibi man mano che barcollava verso di
noi, e Fin inforcò la porta, lasciando cadere una
bottiglietta
d'acqua nella borsa a tracolla che aveva ripescato da sotto i peluche
della sorella. Mi chiesi da quanto tempo stessero pianificando la fuga
e deglutii, senza sentirmi autorizzato a domandargli
alcunché,
ma mi limitai a corrergli dietro e spegnermi la luce alle spalle, per
non lasciare tracce del nostro passaggio. «Aspetta»
mi fermò Alicia, ripiegando sui suoi passi, «lasciamo
accesa quella a basso consumo del bagno e spezziamo qualcosa nella
serratura di entrambe le stanze, così penserà che
ci
siamo chiusi lì dentro per sfuggirgli e quando
tenterà di
aprirla non ci riuscirà, così sarà
costretto ad
andare a cercare qualcosa per forzare la porta. Se abbocca all'amo,
perderà come minimo una decina di minuti prima di mangiare
la
foglia» ragionò, sistemando velocemente tutto.
«Forza,
venite» ci esortò con frequenti cenni
del capo il
moro, che nel frattempo aveva aperto una porta sul giardino e aveva in
mano il telecomando che permetteva l'apertura del gigantesco cancello
d'argento, di cui io mi ero completamente dimenticato ma che era un
ostacolo a dir poco insormontabile per chiunque fosse poco allenato
come me. Disattivò il sistema d'allarme e chiuse la porta,
lasciando che fossimo noi i primi a correre verso l'esterno, e con suo
grande sgomento percepì dei rumori all'interno della
villetta.
Colto dal terrore più profondo che avesse mai provato in
vita
sua, scattò in avanti e ci raggiunse in una manciata di
secondi,
dicendoci di accelerare il passo e dirigerci verso i boschi il
più silenziosamente possibile, e di non parlarci a meno che
non
fosse strettamente necessario. Annuimmo e continuammo per la nostra
strada, ricominciando a respirare solo una volta dopo aver oltrepassato
il confine della proprietà, quindi percorremmo altri
cinquecento
metri e ci fermammo dietro un cespuglio, per riprenderci e darci
qualche disposizione. A dispetto di tutte le mie iniziative, non fu Fin
a parlare: la sorella ci circondò le spalle con le braccia e
ci
avvicinò, guardandoci negli occhi mentre riprendeva il
controllo
dei suoi muscoli, e prima che uno di noi potesse anche solo pensare di
aprir bocca, ce le tappò con una mano e ce le tenne
bloccate. La
morbidezza della sua pelle bianca era in contrasto con il suo sguardo
affilato e pungente, ma non ebbi tempo di pensarci perché
lei
annuì tra sé e sé,
s'inumidì le labbra con
la lingua e cominciò ad esporci il suo piano, senza
tralasciare
alcun dettaglio.
Steve si strizzò gli occhi fra le dita, seccato, e
continuò a misurare il perimetro della cella a grandi
falcate,
interrompendosi ogni tanto per emettere uno sbuffo nervoso e
massaggiarsi la nuca, riflettendo sul da farsi. Era bloccato in
centrale e aveva appena dovuto fronteggiare una specie d'interrogatorio
preliminare, consistente solo nei fatti essenziali per la compilazione
della sua scheda di detenuto e per incastrarlo lì per un
altro
paio d'ore, finché i suoi non fossero arrivati per discutere
con
le guardie e tirarlo fuori. Suo padre avrebbe salutato l'agente con un
pacifico e neutrale buongiorno e sua madre avrebbe sfoderato il suo
sorriso più smagliante, tendendogli la mano in segno di
fiducia
e riservando al figlio la sua peggiore occhiata alla 'dopo te la vedrai
con me, signorino', tornando poi a concentrarsi col poliziotto per
trasmettergli tutta la positività possibile. Si sarebbe
schiarita la gola quasi impercettibilmente e si sarebbe aggiustata la
borsa firmata sulla spalla, tenendola ferma con un gesto delicato della
mano che agli occhi meno allenati sarebbe potuto sembrare casuale, e
avrebbe spostato il peso dal piede destro a quello sinistro, senza
però dar alcun segno d'impazienza o frenesia. Suo padre si
sarebbe levato gli occhiali, avrebbe tirato fuori un pezzo di stoffa
dalla tasca e gli avrebbe dato una pulita superficiale, senza staccare
lo sguardo da loro, per far pensare al poliziotto che andava tutto bene
e che non c'era motivo di credere che suo figlio, il ragazzo
intelligente ed educato che aveva cresciuto con tanta
premurosità, potesse realmente essere un criminale, o
tuttalpiù un complice. Ma allora dov'erano adesso?
Riprese a percorrere la stanza in lungo e in largo, contando le
piastrelle del pavimento e il numero delle sbarre, si sedette sul letto
scomodo che veniva messo a disposizione di chiunque fosse sospettato di
qualcosa e si prese la testa fra le mani, massaggiandosi le tempie con
gesti lenti e regolari. Aveva telefonato alla sua ragazza quando gli
avevano concesso la sua chiamata libera, ma ci aveva pensato la polizia
ad avvertire i suoi genitori e a dir loro di venire a trovarlo in
centrale, chissà che magari a loro non si aprisse,
confessando
di aver mandato in coma il suo migliore amico. Non trovava motivazioni
valide per cui avrebbe dovuto farlo, ma era perfettamente conscio del
fatto che nel mondo degli adulti bastasse una semplice gelosia per far
credere a un'intera giuria che in realtà loro non erano gli
amiconi che volevano far credere, ma due persone che si detestavano
vivamente e che altrettanto vivamente cercavano di ferirsi l'un
l'altra, senza risparmiarsi alcun colpo basso. Sputò a terra
e
si sentì intrappolato da quelle mura, così fini
eppure
così insormontabili, e cercò di calmarsi
ripetendo tra
sé e sé gli elementi della tavola periodica, che
gli
insegnanti lo avevano costretto ad imparare a memoria quando avevano
cominciato a studiare chimica e a fare esperimenti, qualche anno prima
del suo diploma e del conseguente abbandono delle materie scientifiche
di quel tipo. Non aveva nulla contro la scienza, anzi era convinto che
fosse una delle poche benedizioni dell'era in cui viveva, quando veniva
utilizzata per degli scopi utili, di cui potevano beneficiare centinaia
di altre persone; ma la chimica semplicemente non faceva per lui.
Meglio i computer, meglio la matematica, meglio la certezza che a tutto
c'è sempre una risposta e la piacevole distanza che studiare
questi argomenti porta a chiunque provi ad immergervisi per
più
di qualche secondo, spinto da qualcosa di più di un
desiderio di
ottenere un bel voto da parte di quel prof che si aspetta sempre troppo
dai suoi alunni e che inevitabilmente finisce con mettere dei votacci
a tutti perché non riescono a soddisfare le sue aspettative.
No,
a lui piaceva la scienza, ma gli piaceva praticarla in completa
autonomia, senza esser costretto a spiegare il perché di
ogni sua decisione a qualcuno che tanto avrebbe fatto
qualunque cosa tranne cercare di venirgli incontro e seguire i suoi
ragionamenti passo dopo passo; e per questo motivo era capitato che
fosse sbattuto fuori da club o associazioni specializzate
più
che spesso.
«Ma questo
è completamente irrilevante»
mormorò il ragazzo fra sé e sé, alla
ricerca delle
accuse che avrebbero potuto rivolgergli per incolparlo
dell'incidente, «la mia
socialità riguarda me e solo me e non possono cavarne fuori niente,
per quanto possano provarci. Solo perché non amo stare in
mezzo
alle persone quando lavoro non significa che sia affetto da un qualche
disturbo della personalità che mi porta ad uccidere - o in
questo caso tentare - le poche anime che mi stanno accanto da quando
sono piccolo. Non sta né in cielo né in terra,
chiunque
abbia studiato un minimo lo capirebbe». Si sentì
un po'
più al sicuro.
«E
anche se fosse, non ho mai dato segni di soffrire di una patologia del
genere - non più degli altri ragazzi della mia
età,
almeno - quindi non avrebbero neanche le basi complete su cui
accusarmi» commentò.
«No,
non possono trattenermi per questo. Possono provarci ma è
una
storia che non regge minimamente, non gli farebbe guadagnare neanche un
pugno di minuti se venisse portata davanti a un tribunale. Ma che dico,
anche un qualunque passante si renderebbe conto del fatto che stanno
accusando un ragazzo comunissimo di soffrire di una qualche malattia
mentale solo perché gli torna comodo al momento visto che
non
hanno altri sospetti; non ho nulla da temere». Sorrise. Forse
le
cose avevano finalmente cominciato ad andare per il verso giusto per
lui e i suoi amici.
Il ripetersi del suo nome da parte di una voce roca e man mano meno
distante lo riportò alla realtà, giusto in tempo
per
girarsi e incrociare lo sguardo dell'uomo che l'aveva sbattuto
lì dentro un paio d'ore prima, dopo che era stato accolto
all'ospedale da un paio d'infermiere terrorizzate e una manciata di
dottori dagli sguardi tanto sospettosi quanto il numero di spike
dell'amico. A nulla erano valse le sue proteste e le sue spiegazioni,
la polizia era stata chiamata e con lei quel detective, che per puro
caso invece di trovarsi nel suo appartamento nella città
vicina
si trovava in macchina a gironzolare nei pressi della statale
ed
era quindi
riuscito
ad arrivare in tempo quasi reale per gli standard del loro piccolo
paesino. Steve era rimasto stupito dall'arrivo di uno straniero ma non
l'aveva dato a vedere minimamente; si era limitato a scrollare le
spalle, storcere la bocca e osservarlo il più attentamente
possibile mentre quello si faceva riassumere la situazione dai medici,
che ogni tanto gli lanciavano delle occhiate diffidenti e preoccupate
da dietro la schiena del poliziotto. Lui aveva annuito varie volte,
sempre mantenendo il silenzio, aveva tirato fuori un involucro dalla
tasca da cui aveva tratto delle sigarette e l'aveva rimesso a posto,
tenendo lo sguardo fisso verso i volti degli interlocutori; poi, mentre
il più capelluto dei tre elencava energicamente i
particolari
della faccenda che lo inquietavano maggiormente e l'avevano convinto a
fare quella telefonata, si era portato una stecca alla bocca e aveva
smesso di distrarsi. Aveva ascoltato in religioso silenzio fino alla
fine, immobile, aveva ringraziato i dottori e li aveva guardati
allontanarsi, sotto suo consiglio, dalla saletta dove si trovava ancora
il sospettato, che lo osservava interessato senza scomporsi. Si era
acceso la sigaretta mentre si girava, lentamente, aveva messo
l'accendino in tasca, aveva inspirato e poi espirato, ma non aveva
ancora aperto gli occhi e guardato l'avversario in faccia. Steve aveva
pensato che fosse uno nuovo, qualcuno d'importante che si credeva
chissà chi, e aveva trovato irritante quella sua maniera di
comportarsi così arrogantemente lenta e tranquilla, quasi si
trattasse di una faccenda che non valeva nemmeno la pena ascoltare; e
per un paio d'istanti aveva pensato di dargli del filo da torcere
giusto per il gusto di vederlo sguazzare nella sua stessa impotenza,
poi aveva scosso il capo e l'idea era semplicemente scomparsa. Voleva
essere rilasciato, non attirare l'attenzione dell'intero corpo di
polizia su di sé, quindi avrebbe dovuto rigar dritto e
rispondere alle domande del detective, fingendo non solo di fidarsi di
lui, ma anche di stimarlo e, chessò, credere che avrebbe
potuto
davvero risolvere questo mistero rimasto abbandonato per oltre sei
anni, come se il primo venuto avesse davvero potuto cambiare qualche
carta in tavola.
«Ciao»
gli aveva detto, e Steve si era sentito decisamente sminuito.
«Ciao»
aveva risposto, facendo bene attenzione a ricambiare il tono dell'altro.
«I
dottori qui mi dicono che il tuo amico è in coma»
aveva
cominciato indicando il reparto con un dito, e Steve aveva annuito,
senza aggiungere nient'altro. «Non
voglio cominciare col piede sbagliato, ma mi spieghi com'è
possibile?»
Steve lo fulminò mentalmente. «Non sono
un dottore, ma una bella botta dovrebbe bastare».
«Una
botta esageratamente forte, ad essere precisi. Non vorrei essere nei
suoi panni» aveva proseguito, prendendo la sigaretta tra le
dita
e storcendo un attimo le labbra in una smorfia che avrebbe dovuto
divertire il castano. Non lo fece.
«Sei
shoccato?» aveva domandato; 'che domanda
cretina' aveva pensato l'altro, che invece aveva solo annuito
lentamente.
«È
il mio migliore amico, non vedo come potrei non esserlo»
aveva
mormorato, respirando a fondo senza scomporsi. «Ma se
lei è qui significa che qualcuno mi crede responsabile di
qualcosa, o sbaglio?»
«Non
sbagli» aveva sorriso il poliziotto, inspirando, «quindi
dovrò farti qualche domanda».
«Faccia
pure, non ho niente da nascondere» aveva ribattuto,
guardandolo negli occhi.
«Allora
non ti dispiacerà salire in macchina e seguirmi in
centrale» aveva espirato l'altro con uno scintillio negli
occhi,
aprendo le braccia per indicargli l'uscita e sottolineando il gesto con
un movimento del capo. «Da
questa parte» aveva aggiunto poi, come per rendere le cose un
po'
più ufficiali. Steve non aveva battuto ciglio e aveva
risposto
il più esaurientemente possibile a tutte le domande che gli
erano state poste riguardo le circostanze dell'incidente, del
ritrovamento e del successivo ricovero, e il poliziotto si era mostrato
leggermente preso alla sprovvista da questa sua partecipazione attiva e
accondiscendente, abituato com'era a trattare con gente che negava
anche quando veniva sbattuta in carcere dopo un regolare processo. Lo
aveva ringraziato, gli aveva stretto la mano, gli aveva detto che
avrebbe potuto fare una telefonata a chi voleva e che in successione
avrebbero chiamato i suoi genitori per informarli dell'accaduto e
scagionare la possibilità che loro figlio fosse coinvolto in
una
brutta situazione di qualunque tipo, poi l'aveva pregato di rimanere in
cella ad aspettare che arrivassero e se n'era andato tranquillamente.
'E ora eccolo qua' pensò Steve, per niente contento di dover
vedere la sua faccia malrasata piuttosto che quella dei suoi
genitori.
«Ehilà»
lo salutò l'uomo, stavolta senza che ci fosse una sigaretta
a pendergli dalle labbra.
«Ehilà»
salutò a sua volta il ragazzo, senza smettere di ripetere
gli
elementi della tavola periodica in maniera meccanica.
«Come
ti senti?» domandò il primo, appoggiandosi alle
sbarre con
il fianco destro. Steve si domandò se gliel'avesse chiesto
davvero o se fosse stato uno scherzo della sua mente, che aveva
cominciato a sottovalutarlo da quando gli si era presentato.
«Come
uno il cui migliore amico è appena finito in coma e l'unica
cosa
a cui gli altri pensano sia come addossargli la colpa per quello che
è successo. Come se non lo facessi già abbastanza
da
solo» rispose, amareggiato, e il poliziotto annuì.
«Già,
non dev'essere una bella situazione» convenne, lasciando che
la
conversazione morisse per un paio di minuti prima di riprenderne le
redini; «senti,
qui fuori ci sono i tuoi genitori, te la senti di vederli o vuoi che li
faccia tornare più tardi?»
«Nono,
va bene, non si preoccupi. Prima questo casino finisce, prima
potrò andare a visitare Jimmy e portare le mie condoglianze
alla
sua famiglia; vorrei evitare di trovarmi faccia a faccia con loro dopo
che lui si sarà svegliato con il 'mi dispiace' ancora in
gola,
ci farei la figura del cafone insensibile che abbandona gli amici nel
momento del bisogno» cercò di sdrammatizzare.
L'altro
sorrise.
«D'accordo;
li faccio accomodare allora» annuì, andando ad
aprire la
porta ai due coniugi, che ringraziarono con uno dei loro più
convincenti sorrisi di circostanza e un cenno del mento, prima di
entrare e salutare il figlio.
«Allora,
agente, cos'ha combinato di strano stavolta?»
cinguettò
sua madre, girandosi verso l'uomo in divisa con civetteria.
O almeno, questo è quello che avrebbe detto se fosse stata
lì.
Steve si premette i pugni contro la fronte, le tempie che gli pulsavano
sotto il ritmo accelerato dell'inquietudine, e strizzò gli
occhi
finché non ricominciò a vedere delle macchie di
colore
stagliarsi contro il nero che si faceva strada tra i suoi pensieri,
sentendosi istantaneamente un po' meno solo. Era lì da ore e
non
si era fatto vivo nessuno, né sua madre, né suo
padre,
né Lindsey. Figurarsi, poi, le aveva detto lui di non venire
e
tenersi sulle sue per un po' di tempo per il bene di tutto il gruppo,
ma non aveva calcolato quanto potesse essere opprimente il silenzio per
chi aspetta di essere messo a nudo e smontato pezzo per pezzo da un
agente di polizia. Sentiva i suoi nervi allentarsi e annodarsi sempre
di più man mano che il tempo passava, e a volte gli sembrava
di
perdere completamente la lucidità per un tempo che gli
sembrava
eterno, anche se poi si rivelava essere solo qualche secondo nel mondo
reale; e aveva paura di non poter sostenere un interrogatorio in quelle
condizioni. Sapeva che era esattamente ciò che il detective
voleva si dicesse, quindi ripeteva fra sé e sé la
sua
versione dei fatti e rispondeva a tutte le domande immaginarie che
riusciva a porsi al riguardo, sospirando sollevato ogni volta che
eludeva un pericolo, e si tranquillizzava pensando a tutti gli
interrogatori che aveva visto in tv o nei film fino a quel momento. Non
sembravano troppo duri e la cosa lo riempiva di fiducia, ma d'altra
parte neanche l'attesa sembrava poi così tremenda, mentre
lui in
quel momento avrebbe potuto palpare la tensione e plasmarla come
più gli piaceva senza il minimo bisogno d'immaginazione. Si
asciugò il sudore e sentì una serratura scattare;
alzò il viso in direzione del rumore e si chiese se non
stesse
per rivivere per l'ennesima volta la scena dell'arrivo dei suoi
genitori, ma ciò che vide gli fece passare lo sconforto: non
erano né i suoi genitori né il poliziotto che
l'aveva
interrogato, era la donna delle pulizie che passava di lì
per
lavare i pavimenti anche in quell'area dell'edificio. Notò
che
Steve la stava fissando e si avvicinò.
«E
tu che cosa hai fatto?» chiese indicandolo senza mezzi
termini, appoggiandosi con entrambe le mani al manico della scopa.
«Ho
accompagnato un mio amico all'ospedale dopo un incidente su in
montagna» rispose lui, riabbassando lo sguardo.
«Non
mi sembra poi così grave. Sei sicuro che non ci fosse
dell'altro?»
«Be',
era in coma» commentò storcendo la bocca, come se
fosse
accaduto a qualcun altro e non a lui qualche ora prima.
«Ma
è terribile, mi dispiace» fece la donna,
coprendosi la bocca con le dita, «e
pensano che tu sia colpevole?»
Steve si chiese se potesse fidarsi, poi si disse che sarebbe comunque
venuta a saperlo da qualcuno e annuì per cortesia. Lei parve
sinceramente indignata e gli lanciò un'altra occhiata
compassionevole, prima di storcere le labbra e sospirare. «Io non
posso di certo farti uscire, ma non penso che tu debba stare qui se
l'hai solo aiutato».
«Il
detective dice la stessa cosa, e che questa è solo la
procedura» le confidò, giocherellando con i suoi
capelli.
«Può
anche darsi; ma dammi retta, non è come sembra. Oltre il
muro,
può esserci qualsiasi cosa» lo avvisò,
riprendendo
a pulire. Steve la guardò e si chiese cosa intendesse, ma la
porta si aprì di scatto prima che potesse arrivare a una
conclusione che riuscisse a soddisfarlo, lasciando spazio al
poliziotto, così fu costretto a pensare ad altro e
concentrarsi
su di lui.
«Ehilà»
lo salutò l'uomo, aprendo la cella «devi
venire un attimo con me. Ci sono i tuoi».
Steve annuì e lo seguì docilmente, voltandosi
sull'uscio
per vedere se la donna lo stesse osservando, ma il suo sguardo
incontrò il vuoto. Un'altra allucinazione. Scosse il capo e
chiuse la porta.
Quando ci separammo eravamo usciti dalla loro proprietà da
meno
di quattro minuti scarsi, sebbene a tutti sembrava fosse passata
un'eternità, e non ci fu esitazione da parte di nessuno
quando
venne il momento di tirar fuori le torce, abbracciarci e proseguire io
e il moro verso sud-est, lei verso sud-ovest. Fu un saluto spiccio ma
mi sentii male nel vedere quanto significasse per i due fratelli, che
dopotutto scappavano da quello che sarebbe dovuto essere il loro
salvatore e che avrebbe dovuto garantir loro non solo un'esistenza
migliore, ma anche affetto, appoggio e tutto quello che un padre
dovrebbe rappresentare per i figli. Mi ripromisi di essere
più
presente nelle loro vite, in futuro, poi scacciai quell'immagine dalla
mente e mi concentrai sulla fuga, dalla quale sarebbe dipeso il resto
della mia esistenza.
Dalla villa non si sentivano rumori, ma anche se ce ne fossero stati
non saremmo stati in grado di udirli, impegnati com'eravamo a correre
in mezzo agli arbusti cercando di non inciampare rovinosamente e di non
strapparci i vestiti nelle piante spinose, visto che un frammento di
stoffa avrebbe potuto indirizzarlo verso di noi e rovinare tutto il
nostro piano in un batter d'occhio. Le foglie scricchiolavano sotto i
nostri piedi barcollanti, mentre al buio i sentieri che avevo percorso
due giorni prima mi sembravano diversi e pieni di intemperie, al punto
che non riuscivo a non domandarmi come avessi fatto ad attraversarli la
prima volta; ma nonostante tutto continuavamo a correre, senza avere la
forza d'animo di scambiare qualche parola. Ci fermammo quando
raggiungemmo uno spiazzo ombroso che ci parve lontano abbastanza dalla
villa e ci accasciammo dietro un masso colorato dal muschio, ansimanti
e terrorizzati. Il sangue che mi pompava nelle tempie e lo stomaco
sottosopra, trattenni il respiro per cercare di stabilizzarlo e mi
concentrai su quello di Fin, che mi sembrava molto più
silenzioso e normale, socchiudendo gli occhi. Solo allora mi accorsi di
quanto mi bruciassero sia loro che la faccia e mi portai una mano alla
guancia, bagnata da quello che sperai fosse solo sudore; mi voltai ad
osservare il moro e mi accorsi che anche lui era nella mia stessa
situazione: visibilmente spossato, tremante e spaesato, eppure ancora
vigile e attento ai dettagli, come se non avesse corso per niente. Fu
lui ad accorgersi dei rumori.
Mi si avvicinò, si fece il più piccolo possibile
e rimase
in ascolto, premendomi una mano sulle labbra e facendo lo stesso sulle
sue, e aspettò, deglutendo, che la tempesta si scatenasse e
c'investisse in pieno, senza cercare di alzarsi e riprendere a correre.
Lo sentii fremere e, se possibile, rimpicciolire ancora di
più,
ma tenne gli occhi aperti e serrò la mascella, deciso ad
andare
fino in fondo nel combattere le sue paure. Lo scalpiccio affannato si
fece più vicino e Fin tremò più
violentemente, ma
con altrettanta decisione non staccò la mano dal mio viso e
continuò a stringere i denti, facendo appello a tutto il suo
coraggio e la sua convinzione per non scoppiare in un urlo disperato e
consegnarci nelle mani del suo patrigno, che ormai potevo scorgere
sporgendomi oltre la zona sicura. Non riuscivo a vederlo in faccia e
non avevo voglia di espormi una seconda volta per controllare quanto
profondamente fosse incazzato per ciò che gli avevamo fatto
e
che eravamo riusciti ad architettare nel giro di pochi minuti, ma
sentivo nella pelle che se ci avesse notati sarebbe stata la fine per
ognuno di noi, nel senso più significativo della parola,
quindi
mi rintanavo anche io contro il moro, sperando con tutte le mie forze
che ci superasse senza intoppi. Il suo passo sincopato si fece
vicinissimo e si fermò di colpo, seguito da un ansimare
intenso
e irato, e in quell'istante il mio cuore smise di battere, mentre i
più bei momenti della mia vita mi martellavano la mente,
sovrapponendosi alle delusioni e alle amarezze che ero stato costretto
a mandare giù nel corso dei miei ventitré anni, e
mi
domandai per la prima volta se fossi pronto a morire. Pensai a me,
pensai alla mia famiglia, pensai ai miei amici, pensai al mio ragazzo
scomparso, che mai avrebbe voluto che scomparissi dalla faccia del
pianeta, e realizzai che no, non era ancora giunta la mia ora, che
volevo continuare a vivere e godermi ogni giorno, e mi sentii
più all'erta che mai, come se un'improvvisa scarica di
energia
mi avesse attraversato il corpo. Rimasi immobile finché la
sagoma non riprese a muoversi, recuperato il fiato e scorto
superficialmente il paesaggio, superandoci lentamente, dopo essersi
guardata attorno e aver strizzato gli occhi in seguito a una folata di
vento nella nostra direzione. Ramsey si era avvicinato un paio di
metri, poi una folata proveniente dall'altra parte dello spazio aperto
lo aveva distratto e dirottato verso un altro percorso, più
o
meno verso nord-est, lontano sia da noi che dalla nostra amica. Avevamo
tirato un tacito sospiro di sollievo e avevo stretto la mano del moro,
che aveva sorriso di un misto tra gioia, paura e soddisfazione e si era
lasciato scivolare con la testa in mezzo all'erba, coccolato dalla
vista delle sue amate stelle. Aspettammo cinque minuti prima di
permetterci di uscire dalla nostra zona sicura per lanciare un'occhiata
intorno e controllare di avere campo libero, e quando fummo tranquilli
riprendemmo ad allontanarci un po' più verso ovest,
camminando
all'inizio e correndo alla fine, una volta sicuri di non doverci
più preoccupare del rumore del sottobosco sotto le nostre
scarpe. Corremmo per quelli che a me parvero chilometri e, chi lo sa,
forse lo furono. Sbucammo in un sentiero di uso più comune
su
cui potevamo scorgere impronte di varia grandezza e diffusione, e
procedemmo ai lati, in modo da poterci nascondere nella vegetazione
rigogliosa in caso di bisogno ma di rimanere comunque abbastanza vicini
a una strada non trafficata, ma che alla civiltà forse ci
avrebbe portati; e ci sforzammo di mantenere il silenzio, nonostante le
scariche d'adrenalina che ci inducevano a pensare che il grosso ormai
era fatto e che potevamo anche cominciare a rilassarci ed allentare un
po' la tensione, perché al pericolo maggiore eravamo bell'e
scampati; e gli attacchi di realismo, che invece ci facevano realizzare
il rischio che avevamo corso e che ancora correvamo, e che ci facevamo
quindi dubitare delle nostre possibilità di sopravvivenza.
Nonostante tutto, riuscimmo a sbucare nei pressi di una baita
disabitata che mi sembrò di riconoscere, ma, quand'eravamo
sul
punto d'entrare, il pensiero di un'imboscata mi attraversò
la
mente e mi portò a trascinare il moro lontano
dall'abitazione di
peso, costringendolo a tornare in mezzo all'erba. Fin si sforzava di
sorridermi quando lo guardavo, ma gli si leggeva in faccia che era
esausto e che non ci sarebbe voluto molto prima che le gambe gli
cedessero e gli impedissero di proseguire; così sfruttavamo
gli
ultimi guizzi di energia che avevamo e correvamo lungo la strada,
sforzandoci di arrivare il più lontano possibile senza
lasciare
tracce troppo evidenti. Stavamo per imboccare la curva quando
intravedemmo due fari in una lontananza sempre più vicina,
così ci buttammo di lato e rotolammo nel sottobosco,
terrorizzati quanto lo eravamo stati fino a qualche ora prima.
Già, perché ormai che ore dovevano essere? Fin si
accasciò contro un albero e lasciò ciondolare la
testa in
avanti, distrutto; raccolsi qualche ramo da terra, ne strappai qualcuno
da un albero e glieli disposi sopra con delicatezza, cercando di
mimetizzarlo nel miglior modo possibile, poi mi sistemai accanto a lui
e ripetei lo stesso processo per me, addormentandomi pochi secondi dopo
aver chiuso gli occhi.
«Avete
visto anche voi quello che ho visto io?»
boccheggiò
Columbia dalla sua sedia, gli occhi sbarrati fissi sulla massa scura
rivolta davanti al roscio, che si confondeva con l'oscurità
e
faticava a immaginare come un uomo.
«Ti
prego, dimmi che questo coso ha registrato quello che è
appena
successo» sussurrò invece Lindsey, bianca come un
cencio.
«Non
ne ho la minima idea, ma anche se l'avesse fatto non potremmo
denunciarlo» la premonì Ray, mettendole una mano
sulla
spalla, «a
meno di non voler venir denunciati anche noi per aver invaso la sua
privacy con una telecamera non autorizzata».
«Cioè
noi sappiamo che quell'uomo è un pericolo pubblico e non
possiamo dirlo a nessuno?» ripeté lei.
«Per
quanto possa far schifo, è così»
annuì il
riccio, storcendo le labbra e incrociando le labbra sul petto,
amareggiato.
«Che
mondo di merda, cazzo» esclamò, scattando in piedi
e
andando a tirare un calcio al suo cuscino, sedendosi poi sul letto
improvvisato stringendosi la testa fra le mani. «E se
fossero morti? Se fosse successo qualcosa? Come avremmo
fatto?».
Ray si alzò dalla sua postazione e la raggiunse, mettendole
un braccio attorno alle spalle.
«Shh,
calma, non importa. Quello che conta ora è che
stanno bene
e che hanno un piano per tirarsi fuori da questo casino prima
dell'alba, okay? Il resto non è importante, ci penseremo
dopo.
Andrà tutto bene, non preoccuparti. Troveremo il modo di
denunciare quel bastardo, ma ora Gerard ha bisogno di te come non mai,
e ha bisogno di saperti al massimo delle tue forze per poter portare a
termine la missione senza ulteriori preoccupazioni. Ha bisogno di
sapere che qui va tutto bene, che siamo pronti ad aiutarlo e a parargli
il culo in caso di bisogno, e che anche se a volte i cattivi vincono, i
buoni sono sempre pronti a tornare in campo e dargli un paio di calci
nel sedere. Andrà tutto bene, ma abbiamo bisogno di te
ora» sussurrò, accarezzandole i capelli. Lei
sorrise.
«Hai
ragione come al solito» commentò, asciugandosi gli
occhi
con la manica e rimettendosi alla sua postazione tirando su col naso, «e
vedremo quanti calci in culo questo stronzo potrà
sopportare, prima di arrendersi e tornarsene a casa».
«Secondo me tanti quanti vorresti tu» li interruppe
la riccia, che indicò un punto sullo schermo,
«guarda». Le luci all'interno della casa si erano
accese,
mentre i tre ragazzi erano intenti a parlottare, e la silhouette del
patrigno si era stagliata davanti alla finestra del corridoio
più di una volta, carica di oggetti sempre differenti, e
ogni
tanto si passava una mano fra i capelli, sfiorandosi quella che la
ragazza immaginò dovesse essere la ferita. L'omaccione non
sembrava intenzionato a fermarsi prima di aver portato a compimento la
sua opera e Lindsey si sentì invadere da un senso di
ammirazione
nei confronti del lampo di genio di Alicia, che evidentemente aveva
progettato tutto da tempo, vista la rapidità con cui aveva
preparato le borse.
«Oddio guarda, si stanno separando» si
angosciò Columbia, stringendo forte la manica dell'amica, «mi
sento male per loro».
«Vedrai che ce la faranno, sono persone intelligenti e pronte
a
tutto» la tranquillizzò l'amica, che tuttavia
condivideva
le sue ansie e si domandava come sarebbe andata a finire la faccenda, «e poi
hai visto com'erano decisi, non si fermeranno davanti a
nulla».
«È proprio questo che mi spaventa»
squittì lei,
«sono ragazzi in fuga perseguitati da un possibile assassino,
non
hanno né cibo né acqua e stanno correndo a rotta
di collo
dentro un bosco pieno di pericoli che sembra tutto uguale albero dopo
albero».
«Su una cosa ti sbagli, non è tutto
uguale»
intervenne Ray, che nel frattempo era tornato alla sua postazione e
stava osservando con minuziosa attenzione il paesaggio, confrontandolo
con delle foto, «infatti
penso di aver appena riconosciuto la loro posizione».
Columbia s'illuminò. «Dici
davvero?»
«Non ne sono sicuro al cento per cento, ma direi che vale la
pena
provare» annuì lui, allontanandosi dallo schermo
per
permettere alle ragazze di individuare il punto sulla mappa, «anche
perché se non lo facciamo potrebbero vedersela molto
brutta».
«Aspetta, e quando li troviamo cosa facciamo?»
«Be', li portiamo alla base, mi sembra ovvio»
rispose aggrottando le sopracciglia.
«No, vabbé, questo è sottinteso, ma non
possiamo
tenerli qui per sempre, non abbiamo abbastanza soldi, cibarie e letti.
Possiamo anche organizzarci e prepararne qualcun altro, e magari
qualcuno può anche andare a fare la spesa di tasca sua, ma
non
possiamo tenerli rinchiusi sottoterra fino alla fine dei loro giorni,
qualcuno verrà a cercarli o potrebbe insospettirci non
vedendoci» lo incalzò.
«Columbia ha ragione, il nostro piano ha delle
falle» convenne la bionda, «ma
d'altra parte, che altro possiamo fare?»
«Io potrei portare Alicia a casa mia e spacciarla per una mia
vecchia amica che ho conosciuto durante un viaggio, dubito che a mia
madre possa venire in mente che sia una fuggitiva ricercata da un
possibile assassino» propose la prima,
«però metti che quello si crea una storia e viene
a
sporgere denuncia in città - a quel punto che
facciamo?»
«Okay, okay, ho capito, dobbiamo rivedere seriamente i nostri
progetti» acconsentì Ray, calmandole con un gesto
delle
mani.
«Ma non ora; non ne abbiamo il tempo materiale»
precisò, lanciando un'occhiata allo schermo, dove il roscio
si
era fermato ed accasciato contro una roccia muschiosa, in un paesaggio
ancora più brullo e desolato. Lindsey tacque e si
avvicinò.
«Questo posto lo conosco» mormorò
corrugando la fronte e poi allontanandosi,
«è a nord dello chalet».
«Aspetta, che cos'è quello?» la
bloccò
Columbia, indicando con un dito una sagoma in avvicinamento.
«Non ci credo, come diavolo ha fatto a trovarli?»
boccheggiò Lindsey, colta alla sprovvista.
«Non ne ho idea, ma non posso aspettare un minuto di
più» esclamò la riccia, schizzando in
piedi e
correndo verso la scaletta, estraendo le chiavi dalla tasca.
«Columbia, aspetta; è pericoloso»
esclamò
Ray, facendo per alzarsi, ma la bionda gli serrò una mano
sul
braccio e scosse il capo.
«Lasciala andare, ha ragione» sussurrò,
sentendola armeggiare con la serratura e aprire il portellone.
«Fammi almeno andare con lei» insistette il
ragazzo, sentendosi completamente inutile, «metti
che succeda qualcosa, metti che il motore si rompa, metti che incontri
traffico e si annoi ad aspettare da sola, metti che--».
«Se dovesse succedere qualcosa, la tua presenza lì
non
potrebbe cambiar nulla, mentre invece qui la differenza la
faresti» ribatté.
Il portellone si chiuse violentemente e l'impatto fece sobbalzare il
riccio, che ingoiò un nodo alla gola e rilassò i
muscoli,
sospirando.
«D'accordo» annuì,
«vediamo di renderci utili». Si alzò e
tornò
alla sedia, leggermente più pallido. L'uomo era scomparso
dallo
schermo e i due avevano ripreso a respirare, sebbene
impercettibilmente, e il riccio si sentì come se avesse
appena
mandato l'amica al macello inutilmente. Sperò con tutto
sé stesso che sarebbe tornata presto e senza un graffio, ma
un
brutto presentimento gli avvolgeva lo stomaco e gli ricordava quello di
cui quell'uomo era capace. Si strizzò le palpebre fra le
dita e
Lindsey gli mise una mano sul braccio, scuotendolo delicatamente e
guardandolo negli occhi con apprensione.
«Resto io qui, va a bere qualcosa»
mormorò,
ricevendo un'occhiata grata da parte del ragazzo, che si
alzò e
si accasciò sulle coperte. Non avrebbe avuto pace
finché
Columbia non fosse tornata alla base e ne erano entrambi più
che
consapevoli, ma forse avrebbe potuto mostrarsi di una qualche
utilità mentre lei non c'era, così da riuscire a
velocizzare il suo ritorno. Si tirò in piedi e
andò a
aprire il mobile che conteneva i fascicoli coi dati raccolti negli
ultimi anni, le pagine gialle e quelle bianche, gli annuari scolastici
e la mappa della città , e si chiese se nel controllarli la
prima volta non avessero tralasciato qualcosa d'importante.
Agguantò un paio di fascicoli e li portò alla
scrivania,
dove cominciò ad esaminarli e non si accorse dell'ombra che
aveva oscurato il viso di Lindsey.
Aveva perso completamente il contatto visivo con Gerard.
Note: okay, probabilmente è troppo corto rispetto agli altri
capitoli però va bene, insomma, non scrivevo cose serie da
settembre, quindi è un risultato piuttosto accettabile.
Avevo preparato altre due bozze che avevo sviluppato anche abbastanza a
lungo, però erano banali da far schifo quindi alla fine le
ho abbandonate e bam, ho proprio smesso di scrivere per qualcosa come
quattro mesi. L'altro giorno mi sono svegliata in piena notte per la
febbre e avevo l'idea in testa, quindi sotto consiglio di una mia amica
l'ho sviluppata ed ecco qua. Visto il tempo fra l'ultimo capitolo e
questo il mio stile è cambiato, però bene o male
penso di ricordarmi abbastanza i caratteri dei personaggi. Oddio boh
non so che dire, siate buoni ciao 3
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