Combattere contro il passato

di Pwhore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


frerard thriller (?)
Erano passati anni dall'ultima volta che l'avevo visto, in una calda notte d'agosto.
Sonnecchiava sul divano, la televisione accesa e il telecomando stretto tra le mani, e sembrava solo assorto nei suoi pensieri, quindi avevo un po' di paura di muovermi. Avevo aspettato immobile una decina di minuti, ai piedi delle scale, poi avevo attraversato il salotto in punta di piedi e avevo raggiunto la porta di casa. Avevo esitato un attimo e mi ero girato a guardarlo, la mano cinta attorno al pomello dorato, avevo scosso la testa, sistemato il borsone alla bell'e meglio sulle spalle e girato la maniglia con un gesto secco e deciso. Respirando il più silenziosamente possibile, mi ero chiuso la porta alle spalle ed ero uscito dalla nostra proprietà, dirigendomi verso il paese vicino e cercando di non attirare l'attenzione delle macchine che sfrecciavano sulla strada, dirette verso una qualche discoteca o una festa di qualunque genere, troppo veloci e schiamazzanti per far caso all'ennesimo adolescente che camminava per i fatti suoi. Abitavo a una quindicina di minuti dalla città, ma visto il mio scarso allenamento avevo raggiunto la stazione solo dieci minuti prima che partisse il treno. Avevo timbrato il biglietto, trovato un posto a sedere e lasciato la borsa sotto i miei piedi, poi avevo cominciato a scartare una merendina e mi ero lasciato tutto alle spalle, senza alcun preavviso, volgendo lo sguardo a ciò che mi riservava il futuro.
Papà.
Josh.
Frank.
Avevo deluso così tanta gente. Eppure anche in quel momento, a distanza di cinque anni, non ero invaso da alcun tipo di rimorso o senso di colpa e pensavo che quella fosse stata la scelta migliore da farsi. Una mossa un po' azzardata, forse, ma vedere quei volti tutte le mattine mi distruggeva, fisicamente ed emotivamente, e avevo deciso di darci un taglio per il mio stesso bene, a dispetto di quello che pensavano tutti gli altri. Respirai a fondo. Eppure tornare nella mia città natale dopo tutti quegli anni.. Era un'altra cosa azzardata, non c'è bisogno di dirlo, ma avevo come la sensazione di correre in cerchio e che l'unica maniera di spezzare quel circolo fosse tornare a casa ed affrontare il mio passato; quindi ero saltato sul primo treno per il Jersey e mi ero lasciato cullare nel sonno dagli scricchiolii continui e regolari del mio vagone. Mi ero svegliato di soprassalto una quindicina di minuti dopo la partenza, mentre il veicolo attraversava l'ennesima galleria e il passeggero accanto a me si accingeva a ricontrollare meticolosamente le sue cose per l'ennesima volta, conscio di non aver spostato nulla e che avrebbe trovato tutto a posto. Sentii il treno rallentare, prima quasi impercettibilmente poi con più scossoni, e vidi il mio compagno alzarsi e calcarsi un cappello di stoffa scura sulla testa, controllando quindi di non essere in ritardo sulla tabella di marcia e che tutto andasse per il verso giusto. Lo salutai con un cenno del capo ma lui non ricambiò; abbandonò la cabina in fretta e furia e si sbatté dietro la porta finestra, come se non avesse intenzione di parlare con nessuno che non fosse un suo stretto collaboratore o comunque qualcuno di terribilmente importante. Storsi la bocca e mi guardai intorno. Ero rimasto solo nel mio scompartimento - le persone che sceglievano di visitare il Jersey non erano mai molte e comunque non erano interessate alla mia cittadina, quindi era raro trovare qualcuno che scendesse con me all'ultima fermata ed ogni volta che tornavo da qualche parte mi toccava stare da solo con mio fratello e sopportare le sue battutine stupide. Mi stropicciai il naso, assonnato, e mi sistemai meglio sul sedile legnoso, uno di quelli duri e ruvidi al tatto, cercando di trovare una posizione un po' più comoda. Con i muscoli ancora doloranti e addormentati, mi alzai in piedi e mi sgranchii un attimo le gambe, andando ad occupare il sedile accanto al finestrino. Il paesaggio cominciava ad assumere i tratti caratteristici del Jersey e le case a cinque piani lasciavano spazio ad ampi campi coltivati, pullulanti di fattori e macchinari, mentre il sole faceva capolino tra le nuvole e riscaldava l'erba impregnata di rugiada. Dicono che tornare a casa, alle proprie radici, alle origini faccia bene, ma mi domandavo se sarebbe stato così anche per me, visto tutto quello che era successo, e il dubbio mi faceva attorcigliare le budella sotto la pelle, le sentivo dimenarsi e restringersi, lacerate dall'insicurezza. Mi appoggiai con le spalle alla parete e chiusi le palpebre, tirando per bene le tende in modo da restare in balia dell'ombra, poi mi decisi finalmente a lasciar perdere e serrai le braccia in una posizione più naturale, scivolando velocemente nel mondo di Morfeo.

Lo vedo, è qui di fronte a me. Siamo nel bosco che sovrasta la città, l'odore di erba secca mi stuzzica le narici e il brusio delle cicale è troppo insistente e fastidioso da venir ignorato, quindi mi metto a canticchiare una canzone nella mia testa per isolarmi dal mondo. Sta scartando un panino dal suo involucro di alluminio e me ne ha già passato un altro, posandomelo ai piedi con tranquillità e naturalezza, come se non avesse mai fatto altro durante la sua vita, ma il mio corpo non si muove. Si gira verso di me, alza gli occhi, sorride.
"Ehi Gee, cos'è quella faccia? Non ti piace il pollo? Guarda che puoi avere il mio panino se vuoi" ride, allegro. Rise sempre, oserei dire, ma quel particolare è forse il dettaglio più prezioso che ha, quindi me lo tengo per me e lo abbraccio.
"Ehi, aspetta un attimo, siamo appena arrivati!" obietta scherzoso, mentre le mie labbra si scontrano con la pelle chiara e morbida del suo collo. Le respinge con un dito e mi sorride nuovamente, baciandomi dolcemente il naso.
"Dai, fammi preparare le cose e poi sono tutto tuo" m'informa, tornando a trafficare con plaid e stoviglie. Faccio il broncio, se ne accorge e sorride sotto i baffi, scuotendo il capo.
"Sei proprio un bambinone" sospira, lasciando tutto nel cestino e avvicinandosi a me, tendendomi le braccia. Lo stringo a me, lascio le mie mani ad accarezzare le sue guance candide e lo bacio con passione, prima piano poi più forte, inebriandomi del suo sapore dolce ma allo stesso tempo forte e piccante, proprio come il suo carattere libero e sbarazzino. Sento che gli manca improvvisamente il respiro e lo lascio libero, ma un mugolio atterrito mi costringe ad aprire gli occhi e tornare alla realtà, guardandolo in faccia. Un uomo, un coltello, poi il buio.
Quando mi risveglio sono in ospedale, disteso su un letto bianco e scomodo, circondato da niente ma quattro pareti spoglie, e l'unico rumore che sento è il ronzio continuo della macchina a cui è collegato il mio compagno di stanza, di cui mi sono appena accorto. Lo guardo un attimo, spaesato, ma non riconosco nei suoi lineamenti stanchi l'essenza del mio ragazzo, quindi mi alzo in piedi e mi precipito in corridoio, senza la minima idea di dove andare. Setaccio tutto il reparto, ma lui non è da nessuna parte e non sembra esser stato visto da nessun paziente, nessuna infermiera e nessun dottore, quindi probabilmente non è venuto a farmi visita. Aggrotto la fronte e mi mordo il labbro inferiore, la testa mi fa male e non riesco a ricordare nulla, così sono costretto a lasciar perdere. Torno da me, m'infilo velocemente i miei vestiti sporchi e mi dimetto da solo, dirigendomi quindi verso casa del mio fidanzato con passo veloce. Mi fermo davanti al pianerottolo, mi pulisco rapidamente dalla polvere e suono il campanello, sfoggiando uno dei miei migliori sorrisi quando la porta finalmente si apre, lasciando intravedere la figura magra di una donna bianca di mezz'età, sicuramente sua madre.
"Salve signora, sa se per caso Frank è in casa?" domando gentilmente, cercando di notare un qualche movimento alle sue spalle. Mi guarda con aria avvilita e la bocca impastata - sembra invecchiata improvvisamente di cent'anni per quanto è distrutto e sofferente il suo sguardo. Chissà cosa c'è che non va, sembra soffrire molto.
"Gerard" sussurra, notando i cerotti sul mio braccio e le bende che mi circondano la testa, "Frank non c'è e non ci sarà mai più, cerca di capirlo ragazzo" dice, la voce ridotta a un flebile soffio e le spalle completamente incurvate in avanti in segno di dolore e rassegnazione. Aggrotto le sopracciglia.
"Cosa intende, signora?" domando, senza capire.
"Frank è morto, Gerard, non lo vedrai mai più" esclama la donna, trattenendo a stento le lacrime.
"M-morto? Ma cosa dice, ieri siamo andati nel bosco a fare un pic-nic, era così sereno e felice" deglutisco.
"Gerard, quello è successo quattro giorni fa" mormora, faticando ad emettere i suoi necessari.
"Eri.. eri in una specie di coma, ragazzo, per questo non sai assolutamente niente" mi spiega lei.
"Frank è scomparso; ti hanno ritrovato da solo, disteso su un prato abbandonato in una pozza di sangue, accanto all'occorrente per un pranzo alla buona. Ti hanno portato subito in ospedale e ti hanno ricoverato, ma del nostro ragazzo.. di Frank nessuna traccia. Sappiamo solo che quel sangue era anche suo". Finisce di parlare con voce rotta, due lacrime le corrono lungo le guance arrossate. Si stringe il naso tra le dita, cercando di trattenersi, ma i suoi occhi lasciano intravedere il dolore che la lacera dentro, che le infetta il cuore e la scuote tutta. Sento il peso del mondo cadermi addosso e schiacciarmi, comincio a piangere, ma improvvisamente tutto muta, si appanna e diventa distorto. Sono nel buio più totale, ora, senza scopo o destinazione, solo un gran senso di paura, solitudine ed oppressione. Nessuno mi parla, nessuno mi dice niente, eppure so di non essere qui da solo; sento la presenza di qualcuno, un odore troppo lieve da riconoscere ma comunque presente e sparso ovunque. Dov'è, dove si nasconde, cosa sta facendo, che ne sarà di me? La testa mi scoppia, ho bisogno di scoprire cosa c'è sotto ma i miei muscoli sono atrofizzati ed impossibili da muovere, così sono costretto a rimanere immobile, impaziente, ad aspettare che qualcosa succeda e mi salvi da questo nulla senza forma. Presto detto ed il qualcosa arriva - sono passati giorni, ore, mesi? ho perso la cognizione del tempo, non capisco più nulla ormai -, ma è completamente diverso da quello che mi aspettavo, rovina la realtà, ci gioca e la trasforma in un inferno spoglio ed arido. Il paesaggio muta; sono di nuovo nel bosco, nel punto in cui siamo stati aggrediti quattro giorni fa, dove ho visto per l'ultima volta l'amore della mia vita, a cui non ho potuto neanche dire addio. Ma eccolo qua, mi compare alle spalle, mi abbraccia, unisce nuovamente la sua lingua alla mia, come se nulla fosse successo e niente dovesse anche solo lontanamente accadere. Si stacca dal mio corpo, improvvisamente, e mi guarda, socchiudendo gli occhi.
"E così tu saresti quello che doveva proteggermi sempre da tutto e tutti? Il mio scudo umano, il mio salvatore, il mio angelo custode?" sbotta. Il suo tono è duro e accusatorio, non sposta gli occhi da me mentre parla.
"E' così che volevi proteggermi dal mondo, salvarmi dagli altri ed aiutarmi a scappare dai demoni del mio passato? Scegliendo la tua pellaccia e non muovendo un dito per aiutare il cosiddetto 'uomo della tua vita'? Pensando a soddisfare il tuo desiderio di coccole ed ignorando l'uomo che ci spiava tra i cespugli, pronto a saltar fuori appena avremmo abbassato abbastanza la guardia? Complimenti amore, tu sì che sai dimostrare a qualcuno quanto significhi realmente per te" sibila, togliendosi le mie mani di dosso ed alzandosi in piedi, spolverandosi le gambe prima di andare via e lasciarmi lì, imbambolato e dolorante, incapace di muovermi e ragionare.
"Hai visto che hai fatto?" esclama una donna al mio fianco, spostandosi in avanti per occupare tutta la mia visuale.
"Avevi detto che non l'avresti mai tradito, che ci saresti stato sempre per lui, in ogni momento della giornata, e ora guarda che hai combinato, brutto stupido che non sei altro! Se è successo tutto questo è solo per colpa tua e la responsabilità te la devi addossare tu, proprio come tutte le conseguenze" sbuffa, poi se ne va anche lei. Sono di nuovo solo, paralizzato, e non riesco a pensare a niente che non siano insulti verso me stesso e la mia stupidità. Improvvisamente lo vedo di nuovo lì disteso, sanguinante, e lo raccolgo, avvicinando delicatamente la sua testa alla mia. Lui apre di scatto gli occhi e mi sputa del sangue addosso, assumendo un ghigno di scherno.
"Sei una merda" esclama, mentre lo spingo lontano da me e lo faccio sbattere con forza contro il terreno arido.
"Lo sei ora e sempre lo sarai" sorride, saltandomi al collo con le zanne scoperte e infilandomi le unghie nella carne.

Mi svegliai di soprassalto con un urlo, mentre il sudore mi correva lungo le tempie. Ero finalmente arrivato alla mia fermata, dopo un paio d'ore passate a poltrire sul sedile di un treno, ma il paesaggio della mia città, facilmente intravedibile dal finestrino sporco, contribuì solo ad aumentare la mia ansia e a farmi desiderare di non aver mai preso quella decisione. Raccolsi la borsa da terra e mandai giù un groppo alla gola, ancora sudando freddo e col cuore che batteva all'impazzata, quasi volesse scappare via dal mio petto e tornare da dove eravamo venuti. Scesi dal treno tremando, allontanandomi subito dalla stazione per non cedere alla voglia di tornare indietro e filare sotto la doccia.
No, tornare a casa non era stata per niente una buona idea.
Mi maledissi a voce alta per essermi dato retta e m'incamminai verso l'abitazione dei miei, mentre la notte calava silenziosa. Sarebbe stata una lunga, lunga camminata.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Non mi era mai piaciuta particolarmente la nebbia, sebbene il moro l'amasse in modo addirittura eccessivo e avesse tentato più volte di persuadermi del fatto che era fascinosa ed attraente; e come al solito la mia amata cittadina fece di tutto per rendermi felice e lieto di esser tornato a casa. Avevo appena percorso tre quinti di percorso quando incappai in una matassa grigia e densa che m'impediva addirittura di vedere a un palmo dal naso, e la cosa non fece che incrementare la mia voglia di tornarmene in città e mandare tutto al diavolo, anche se sapevo che non sarei stato in grado di ritrovare la stazione in mezzo a tutto quel bianco. Per puro caso avevo una torcia nello zaino, così la tirai fuori e l'accesi, muovendone la luce a destra e manca nella speranza di distinguere la strada dall'erba e di segnalare la mia presenza agli automobilisti, in modo da non morire schiacciato dalla prima macchina che passava. Certo, poi era l'una e mezza di notte e non c'era anima viva in giro, ma la prudenza non era mai troppa e l'avevo imparato a mie spese, quel pomeriggio cinque anni prima. Respirai a fondo e mi schiarii la voce: il silenzio si stava facendo troppo inquietante ed opprimente per i miei gusti e cominciavo a non essere più tanto sicuro di dove avrei dovuto svoltare per imboccare il viale di casa mia ed arrivare a destinazione sano e salvo, ma ovunque era comunque meglio di stare fermo lì ad aspettare che il cielo si schiarisse, così continuavo a camminare nel buio, sperando di proseguire nella direzione giusta. La nebbia fitta sembrava inghiottire completamente la luce della mia torcia, così la spensi e la risistemai nello zaino, maledicendomi per aver scelto un orario così scomodo e soprattutto per non aver chiamato un taxi o qualcosa del genere per farmi venire a prendere. Mi strofinai le mani, intirizzite ed arrossate dal freddo, e ci soffiai sopra, cercando di riscaldarmele e ficcandomene poi una in tasca alla ricerca di una sigaretta e di un accendino funzionanti. Non era molto che avevo ripreso a fumare ma mi era sembrato che fossero passate ere da quando avevo smesso, anche se effettivamente avevo speso solo un anno lontano da tabacco, alcol e tutti gli altri tipi di droghe, dedicandomi a cure naturali, psicologi e impacchi vari, che si erano rivelati una gran bella fregatura. Mi accesi una sigaretta, me l'infilai in bocca ed esalai un respiro stanco, chiudendo un attimo gli occhi e concentrandomi sui rumori della foresta, attutiti dall'ora tarda e dalla foschia. Mi passai una mano fra i capelli, scompigliandomeli, e spensi la sigaretta, facendola cadere e strusciandoci sopra ripetutamente col piede, finché non ne sentii più neanche l'odore. Frank non sarebbe felice di vedermi di nuovo preda del vizio, mi ripeterebbe di smettere, di curarmi, di assicurarmi una vita sana e più lunga al suo fianco, ma ora lui non è qui e posso distruggermi quanto voglio senza che nessuno venga a farmi la predica, quindi fumare o non fumare non influisce più sul mio stato d'animo. Ogni tanto lo faccio per calmarmi, rilassarmi o semplicemente per sentire la sua voce premurosa rimbombarmi nella testa e riempirmi di cure ed attenzioni, visto che è tanto che nessuno mi sta più dietro come faceva lui; mi sento un po' abbandonato a me stesso, a dire il vero, ma non voglio nessuno che mi faccia da balia, ormai non sono più un ragazzino irruento e senza limiti, ho ventidue anni e so badare benissimo a me stesso. Anche se, effettivamente, trovarmi lì al ciglio della strada alle prime ore del mattino era la dimostrazione perfetta di quanto avessi bisogno di aiuto e di una mano amica sempre pronta a tirarmi su e sorreggermi, da quando uscivo all'alba per andare a lavorare a quando tornavo a mezzanotte impregnato dal puzzo d'alcol e sigarette. Mi tirai su la zip fino a coprirmi completamente il collo con la giacca, m'inumidii le labbra e feci qualche passo incerto in avanti, tastando il buio con le mani e cercando un qualsiasi segno che mi avrebbe permesso di identificare la mia posizione e decidere in che verso proseguire, e dopo un paio di metri trovai un cartello. Acchiappai la torcia dallo zaino e la portai fuori, accendendola e puntandola verso l'alto, strizzando gli occhi e cercando di dare un senso ai caratteri rovinati e scoloriti dal vento. Ero abbastanza sicuro di sapere cosa dicesse, ma non avevo alcuna prova ed erano comunque anni che non passavo da quelle strade, quindi sarebbe facilmente potuto cambiare qualcosa o chiunque avrebbe potuto aggiungere un cartello alla cazzo anche solo per far cambiare un po' il paesaggio, quindi avevo bisogno di decifrare il cartello con estrema precisione. Puntai meglio la torcia e mi sporsi in avanti sulle punte, quindi tornai alla posizione di prima e sorrisi compiaciuto, riprendendo a camminare verso nord. Pian piano la nebbia si sfittì e dopo una mezz'oretta riuscii a riconoscere da solo l'area in cui mi trovavo, abbastanza bene da orientarmi e riuscire ad arrivare a casa senza troppi giri inutili ma comunque troppo vagamente per spegnere la torcia e ributtarla nel borsone. Camminai un altro po', respirando il più silenziosamente possibile, e raggiunsi una villetta bianca circondata da un cancelletto di legno ed un giardino pieno di rose, che riconobbi subito come luogo principale della mia infanzia e della mia adolescenza. Un tempo la mia famiglia aveva anche un cane, uno di quelli grossi e incazzosi che abbaiano a tutti quelli che vedono, così feci lentamente il giro della casa, per essere sicuro di non incapparci o che comunque non fosse più nei paraggi, poi scavalcai il muretto e mossi qualche passo insicuro nell'erba, guardandomi attorno. Avevo ancora le chiavi di casa, da qualche parte nella borsa, ma non sapevo se avessero cambiato serratura o se magari avessero aggiunto qualche chiavistello, quindi mi avviai alla ricerca di una finestra aperta o di una porta secondaria e non rimasi per niente deluso. La porta a vetri sulla veranda era socchiusa, così mi avvicinai, l'aprii e scivolai dentro nel silenzio più assoluto, stando ben attento a non pestare o muovere niente, in caso qualcuno avesse il sonno leggero e si potesse svegliare. Se c'era una cosa che avevo imparato durante questi anni era che la prudenza non era, appunto, mai troppa e che era meglio fare le cose con la massima attenzione possibile, per non commettere errori o per non essere costretti a riparare a una qualsiasi mancanza in seguito, quando magari avresti potuto essere spaparanzato sul sofà a bere birra e guardare una partita di football. Dopo essere entrato, rimasi immobile in ascolto per una decina di minuti, senza muovere muscolo e respirando il meno possibile, quindi mi sfilai le scarpe e le lasciai in un angolo vicino alla porta per non inciamparci, mollai la mia borsa sulla poltrona vicino alla finestra e, una volta abituatomi alla penombra, tirai fuori dallo zaino una giacca, che tirai sul divano dove avrei dormito. Stappai una bottiglietta d'acqua che avevo da parte e ne bevvi un po', asciugandomi la bocca con l'avambraccio, poi la richiusi, mi sdraiai e me la stesi sulle gambe a mo' di coperta, portandomi un cuscino sotto la testa. A giudicare dalle tende mal tirate mi sarei svegliato presto, il mattino dopo, quindi mi sforzai di addormentarmi subito senza pensare alle conseguenze e alle spiegazioni che avrei dovuto dare a mio padre appena sveglio. Ci riuscii.

"Gerard?" mi chiamò, aggrottando le sopracciglia e stropicciandosi gli occhi.
"Pa'" ribattei, mandando giù il resto del mio caffè e girandomi a guardarlo. Era in piedi sulla porta della cucina, sulla faccia aveva dipinta una smorfia stupita e sembrava completamente spiazzato dalla mia comparsa improvvisa.
"Che.. che ci fai qui?" domandò, a conferma della mia ipotesi.
"E' passato tanto tempo dall'ultima volta che sono venuto, pensavo di farvi una visita" buttai lì.
"Ah, capisco" sembrava deluso, ma cercò di non darlo a vedere e spostò una sedia, sedendomisi accanto.
"Cosa ti aspettavi?" domandai. Sapevo benissimo quello che voleva sentirsi dire, ma non l'avrei detto.
"La mia opinione è rimasta quella di un tempo, se è quello che ti stai chiedendo" dissi, lasciandolo senza parole una seconda volta. Era facile capire cosa gli passasse per la testa, non so se perché era un sempliciotto lui o perché ero geniale io, però non avevo mai avuto problemi a prevedere le sue azioni e rigirarmi la frittata a mio vantaggio.
"Non è quello che mi stavo chiedendo" mentì, pulendosi il vetro degli occhiali.
"Ero solo stupito, tutto qui" si giustificò, mettendo le lenti controluce e controllando se ci si vedesse bene. Come risposta sarebbe anche andata bene a qualcun altro, ma sapevo che non gliene fregava niente del mio ritorno, come non gliene era fregato un cazzo della mia partenza e della vita che avevo vissuto fino a quel momento. Non mi aveva mai scritto, mai inviato un messaggio, mai fatto una chiamata, e anche se neanch'io mi ero fatto sentire per parecchio tempo, mio fratello mi aveva comunque tenuto aggiornato di tutto quello che era successo in quella casa fino al giorno in cui anche lui, inevitabilmente, aveva spiccato il volo e abbandonato la famiglia. A mio padre non era più fregato un cazzo di me dal giorno in cui avevo fatto outing e gli avevo confessato di essere gay - non che avessi avuto altra scelta, comunque. Mi aveva visto sulla casetta sull'albero con un ragazzo, a sedic'anni circa, e aveva capito che ci stavamo baciando e che eravamo fidanzati; aveva aspettato un qualcosa che gli dicesse che non era vero e che si stava sbagliando, ma quel qualcosa non era arrivato e allora era andato su tutte le furie. Aveva scacciato il ragazzo in malo modo, vietandogli di farsi vedere a gironzolarmi intorno un'altra volta e mi aveva portato a casa per un orecchio, sbraitando, mi aveva sbattuto al muro e assestato due belle sberle in faccia, poi si era calmato un po' e mi aveva intimato di spiegargli cosa fosse appena successo, perché sennò ne avrei prese altre. Una volta saputo che quello non era stato il mio primo fidanzato, aveva dato in escandescenze e mi aveva ricoperto d'insulti, ripetendomi che l'avevo tradito, che non mi meritavo di vivere sotto il suo stesso tetto e che dovevo farmi schifo da solo, perché lui di schifo verso di me ne aveva fin troppo e non sapeva più dove metterlo. Avrei voluto ribattere e dirgli che il mio orientamento sessuale non era una cosa che poteva decidere lui e che doveva farsi i cazzi suoi, ma gli schiaffi bruciavano forte ed in garage c'erano fin troppe cose con cui venir colpito, quindi avevo taciuto e mandato giù anche quell'ennesimo affronto, mentre le vene sul collo gli si gonfiavano a dismisura. Finita la sfuriata e terminati gli insulti, mi aveva detto che non voleva più saperne di me e mi aveva sputato addosso, andandosene via. Quella sera a cena non ci parlammo, ma so che dopo litigò terribilmente con mia madre, che prese le mie difese e lo cacciò fuori per qualche notte, durante le quali la tensione a casa si era notevolmente allentata. Mikey sapeva che ero gay, lo aveva intuito da tanto anche mamma e non c'erano mai stati problemi tra noi per questa storia, l'unico a cui non stava bene era papà, ma del resto lo sapevo dall'inizio e non gliel'avevamo detto apposta per evitare litigi inutili. Comunque non gli avevo mai perdonato la scenata e lui non mi aveva mai perdonato di essere me stesso, quindi il rapporto tra noi non era mai migliorato molto e non era destinato a farlo.
Papà si alzò dalla sedia e si diresse verso il frigo, intuendo perfettamente che il rancore tra noi non si era affatto affievolito, e sbuffò, come a confermarlo ulteriormente. Aprì l'anta con un gesto secco e tirò fuori una lattina di birra, che si bevette tranquillamente nonostante fossero solo le nove del mattino, poi la mise giù e tornò a sedersi.
"Mikey non c'è, e nemmeno quella pazza di tua madre. Torneranno fra qualche giorno" Diede un altro sorso, poi si pulì la bocca con l'avanbraccio.
"Non sono loro che cercavo" ribattei, mantenendo un tono calmo e distaccato. Lui mi guardò un attimo e alzò un sopracciglio, cercando di leggermi negli occhi, ma dopo un po' fu costretto ad arrendersi.
"E allora che cosa vuoi?" domandò, infastidito dalla mia affermazione.
"Da te, assolutamente niente. Ho delle faccende urgenti da sbrigare giù in città, quindi resto a dormire qui per un paio di notti visto che questa è anche casa mia" risposi, facendo girare la bevanda col cucchiaino.
"Quanto hai intenzione di rimanere?" insistette, tamburellando sul tavolo con le dita, visibilmente scocciato.
"Posso rimanere due giorni come tre mesi, dipende da come vanno a finire le cose" dissi, finendo di bere il mio caffè.
"Bhe, vedi di darti una mossa, Gerard. Non sei affatto il benvenuto in questa casa" m'informò, ostentando un tono irritato, accartocciando quindi la lattina con il pugno ed alzandosi per andare a buttarla.
"Sì, me lo ripeti da qualche anno" ribattei con noncuranza, scrutando il fondo della tazza.
"Dio santissimo e onnipotente, non si può ragionare con te!" sbottò all'improvviso, uscendo dalla stanza e sbattendosi la porta alle spalle, tornando ad occuparsi delle sue amate peonie. Un passatempo da vero maschio etero, non c'è che dire. Raccattai la mia roba e la sciacquai, lasciandola a colare nel lavello, indossai la giacca ed uscii.

La città non era poi così lontana, se si possedeva un veicolo a motore e se ci si poteva muovere con quello, invece di contare solamente sui propri piedi. Per fortuna mia madre non aveva venduto il mio vecchio scooter, così feci il pieno e mi misi alla guida, raggiungendo il centro in non più di un quarto d'ora. Parcheggiai vicino alla biblioteca, misi il casco a posto e mi guardai un attimo attorno, sforzandomi di ricordare dove mi trovassi e qualche particolare che riuscisse a farmi venire in mente nomi, dettagli e volti degli abitanti. Ricordavo qualche nome, qualche pettegolezzo e robe così, ma non riuscivo a ricollegare le faccie della gente a qualcos'altro che non fosse il loro corpo, quindi come ricordi erano completamente inutili. Sospirai e tirai fuori il portafoglio, entrando in un bar.
"Gerard?" mormorò una voce soffice al mio fianco appena varcai la soglia e mi fui tolto una ciocca di capelli dal viso, riguadagnando la vista. Mi voltai e il mio sguardo accigliato si scontrò con quello stupito di una ragazza giovane, bionda, di all'incirca vent'anni, in piedi vicino alla porta e con in mano uno zaino di scuola ricoperto di scritte di ogni colore e dimensione, che cadde a terra appena lei realizzò che ero davvero io e che ero tornato a casa dopo chissà quanto tempo.
"Oh cazzo" sussurrò, mollando tutto e avvicinandosi a me, con gli occhi sgranati fino a farle male. La guardai a mia volta, senza riconoscerla, e mi sentii leggermente a disagio mentre le sue mani mi tastavano le guance, il collo e le spalle, come se dovesse accertarsi che fossi realmente lì con lei e che non fossi solo un'allucinazione fin troppo vera.
"Dai, smettila" grugnii, spostandomi un po' all'indietro e strizzando gli occhi, senza però staccarla da me.
"Allora è vero, sei tornato" si lasciò sfuggire, mentre un sorriso emozionato le si formava sulle labbra e gli occhi le si appannavano di lacrime per la felicità. Poi mi abbracciò forte e a lungo, come se avesse aspettato questo momento per anni e non avesse visto l'ora di stringermi tra le braccia e sentire nuovamente il mio profumo per davvero tanto tempo. Mi sentii a disagio ma ricambiai comunque l'abbraccio in modo un po' incerto, poi lei alzò il viso e mi guardò.
"Non ti ricordi di me, vero?" domandò. Esitai un attimo e scossi la testa, con una smofia.
"Mi dispiace" aggiunsi, abbassando lo sguardo e deglutendo.
"Non importa. I dottori lo avevano detto, che non ti saresti ricordato che di poche persone, non è colpa tua" sorrise, dandomi una pacca sulla spalla per farmi sentire un po' più tranquillo e rilassato.
"L'importante è che tu sia tornato tra noi" ammise dolcemente, dopo avermi abbracciato un altro po'.
"Ricominceremo tutto da capo, non ti preoccupare di niente. Allora, io sono Lindsey, il mio colore preferito è il giallo e sono stata la tua prima fidanzata, nonché la tua migliore amica da, beh, da tanti tanti anni" rise, tendendomi la mano. Gliela strinsi e lei la scosse allegramente.
"Il mio vero colore di capelli non me lo ricordo più neanche io, il mio piatto preferito è il curry e ho smesso di fumare da un casino di tempo, cosa che dovresti fare anche tu" osservò, notando il pacchetto di Marlboro che sporgeva dalla tasca dei miei pantaloni.
"Non l'avevi già fatto, anni fa?" domandò quindi, storcendo lievemente la bocca.
"Probabile, l'ho fatto tante volte" annuii, mordendomi il labbro e abbassando lo sguardo sulle sue scarpe.
"Capisco.. sei venuto a cercare qualcosa di preciso?" chiese di nuovo, notando la mia aria spaesata.
"Effettivamente sì" ammisi, massaggiandomi la nuca con la mano e guardando verso il bancone delle sigarette per cercare un dettaglio familiare che mi potesse aiutare.
"Cercavo un volto amico per, er, come dire, scacciare un po' del buio che regna nella mia testa e tornare a capirci qualcosa della mia vita, visto che non riesco più a controllare niente che la riguardi" spiegai, gesticolando un po' per alleviare la tensione.
"E visto che da quando sono partito non ho fatto altro che scappare dai miei problemi, sono tornato a casa per affrontarli ed investigare un attimo su tutto, in modo da ricominciare a vivere in modo decente e non so, slegare un po' questa matassa di incubi che mi attanaglia la testa" me la presi tra le mani, premendo leggermente sulle tempie.
"Mi sembra d'impazzire, non faccio che sognare la morte dello stesso ragazzo, notte dopo notte, e lo sento sempre più vicino ed insistente, come se mi stessi avvicinando a lui, in qualche modo" ammisi, strizzando gli occhi per scacciare quell'immagine sofferente dalla mia vista. 
"E' giovane, carino, mi chiama amore e mi riempie di attenzioni di ogni tipo. Prima siamo felici, poi succede qualcosa e mi ritrovo all'ospedale, abbandonato da tutto e tutti, e vengo a scoprire che questo ragazzo è morto. Mi sento male, vuoto dentro, qualcuno mi accusa di averlo ucciso e tutto mi si rivolta contro all'improvviso" spiegai, tirando fuori le parole con una fatica pazzesca. Lindsey contrasse la mascella e respirò a fondo, decidendo che non era il posto adatto per parlarne, tuttavia non mi fermò e mi lasciò continuare a sfogarmi finché ne avessi sentito il bisogno.
"E questo ragazzo.. lui somiglia tanto a una persona che ho amato con tutto me stesso fino a qualche tempo fa, quando è improvvisamente cambiato tutto e mi sono visto costretto a partire. Ogni tanto mi vengono in mente degli spezzoni della nostra vita insieme, di quando eravamo felici e spensierati, e mi viene da chiedermi chi fosse, dove vivesse, perché è uscito dalla mia vita. So che il ragazzo del sogno si chiama Frank, me lo ripete sempre sua madre, e siccome è un bel nome ci chiamo anche il ragazzo dei ricordi, ma non ho davvero idea di chi sia e di cosa possa essergli successo per andarsene così di colpo, solo che mi piacerebbe davvero saperlo, per ritrovarlo e dirgli che forse non era destino che ci lasciassimo, che dovremmo riprovarci ed essere di nuovo felici. Sento che ogni giorno la sua essenza si fa più forte dentro di me, ma mai abbastanza per visualizzare bene il suo volto e svelare la sua identità, e la cosa mi sta lentamente tirando pazzo.. Non mi ricordo neanche chi fosse il ragazzo con cui mi beccò mio padre a baciarmi, ho solo sprazzi di lucidità in mezzo al vuoto più completo" le sputai addosso, tutto d'un colpo. Lei tacque, si morse il labbro ed esitò un istante, senza sapere quali fossero le parole più adatte per rispondermi e confortarmi un po'.
"Gerard" cominciò, prendendomi delicatamente per la mano e tirandomi verso di lei, "dovremmo andarcene da qui". La gente si era voltata a guardarmi di sottecchi, anche se non riusciva a sentirmi, e mi sentii a disagio e fuori posto, come se quello fosse l'ultimo posto in cui avrei dovuto trovarmi in quel momento.
"Portami via" sussurrai alla ragazza, strizzando gli occhi con aria esausta. Lei annuì e mi accompagnò fuori dal locale, mi fece salire in auto e mi portò in cima al promontorio, lontano da sguardi indiscreti e orecchie impiccione.
"Gee" mi chiamò pazientemente, inumidendosi le labbra e respirando a fondo. Si sedette per terra e m'invitò a seguire il suo esempio, battendo ripetutamente la mano contro il terreno roccioso e polveroso.
"Io.. dove siamo?" domandai, abbandonandomi accanto a lei. Mi posò una mano sul ginocchio e me lo strofinò allegramente, per tirarmi un po' su di morale.
"In un posto che ti piaceva tanto" sorrise, malinconica. 
"Qui siamo al sicuro" mi spiegò, come se quel dettaglio fosse qualcosa di terribilmente importante.
"Al sicuro da cosa?" domandai, la testa che mi faceva male e non riusciva a mettere a fuoco niente che potesse rivelarsi anche solo lontanamente utile in quel momento. Lindsey fece una pausa, raccogliendo le forze per rispondere, poi mi guardò dritto negli occhi.
"Ascoltami attentamente, Gerard, perché non dovrai dimenticarlo mai" mi ammonì.
"Nessuno qui è tuo amico. Nessuno qui può vantarsi della tua fiducia. Nessuno, e dico nessuno, vuole il tuo bene; e nessuno ha intenzione di aiutarti in alcun modo. Siamo rimasti in pochi a volerti bene, e per quanto sia difficile potrai fidarti solo di noi fino alla fine." Il suo tono era serio e convinto, così mi trovai ad annuire senza volerlo realmente.
"Giura che, qualunque cosa succeda, non ti fiderai mai degli altri. Giuralo"
"Ma perc--" provai ad obiettare.
"Giuralo e basta, Gerard" tagliò corto lei, guardandomi dritto negli occhi.
"Lo giuro" annuii, cercando di sembrare il più sicuro possibile e sostenendo il suo sguardo serio.
"Bene. Ora apri bene le orecchie, perché ciò che sto per raccontarti è quello che è successo al ragazzo dei tuoi sogni, e non uscirà mai più da queste labbra. Quella che stai per sentire è la storia di Frank Iero ed è il perché di tutti i tuoi incubi, dei tuoi vuoti di memoria e delle tue infinite insicurezze. Da ora in poi niente sarà più come prima. Vuoi andare fino in fondo?"
Deglutii ma le feci segno di andare avanti. Lei annuì, aprì la bocca e cominciò a parlare.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


"La verità è che potrei dirti tutto e niente su di lui" si passò una mano tra i lunghi capelli biondi.
"Era un ragazzo normale, moro, un po' basso per la sua età e con pochi amici. Non era bravo a fare amicizia ma piaceva a tutti per la sua gentilezza, per i suoi sorrisi sinceri e perché era sempre carino con chiunque incontrasse, anche se aveva passato una brutta giornata ed era incazzato nero con il mondo; non si sfogava mai contro chi non se lo meritava, e spesso non lo faceva neanche con chi si meritava effettivamente una sfuriata. Non ce l'aveva mai con nessuno; perdonava tutti, anche se quello a rimetterci spesso era lui, e odiava terribilmente i litigi, le scenate e le discussioni di ogni genere, quindi molte volte si limitava a scomparire e a non schierarsi mai con nessuno, per evitare di peggiorare le cose e perché comunque preferiva non ficcare mai il naso nelle guerre degli altri. Aveva un temperamento mite, tranquillo, ed era particolarmente dolce con chiunque incontrasse; era una di quelle persone che uscendo per strada salutano tutti, dal primo all'ultimo passante, e che non si fanno assolutamente problemi a riempire di complimenti qualcuno che tutti gli altri odiano, se i complimenti se li merita. Era sincero con se stesso, una persona davvero amabile, ma proprio per questa sua apparenza dolce e rispettosa sembrava un pappamolla ai ragazzi più grandi, che si divertivano a stuzzicarlo, sbatterlo al muro e trattarlo come se fosse l'ultima delle merde, visto che lui non si sarebbe ribellato. Non prestava attenzione ai bulli, erano una caratteristica che l'aveva sempre accompagnato fin dall'infanzia e a cui si era abituato da tanto, quindi non raccontava agli altri cosa gli facessero o cosa pensasse dei loro comportamenti, e ci sono state volte in cui sono stata costretta a disinfettargli le ferite, curarlo e preoccuparmi per lui, nonostante il suo continuo silenzio. Potevo domandargli per ore cosa fosse successo e lui avrebbe continuato a sorridermi e a dirmi che andava tutto bene, che era felice lo stesso e che aveva tutto quello che poteva desiderare dalla vita, e che quindi non c'era problema; loro erano solo invidiosi e cercavano un modo per liberare il loro fastidio e la loro frustrazione, li capiva. Ci sono state volte in cui mi ha pianto sulla spalla e ci sono state volte in cui le mie cure non sono bastate, ma nonostante tutto non ha mai perso la speranza ed è andato ogni giorno a scuola sorridendo, senza curarsi delle occhiatacce di quelli più grandi e fregandosene di quello che sarebbe potuto succedergli. Era un ragazzo coraggioso, prima di tutto."
La guardai e mi morsi un labbro, immaginandomi la scena davanti agli occhi e rabbrividendo.
"Gli adulti, invece, lo apprezzavano molto. Erano gentili con lui e lo trattavano con riguardo, in quanto lui metteva sempre una parola carina per loro e certe volte gli faceva anche dei regali – roba da poco conto, certo, ma loro erano felici di sapere che a lui importava di quello che succedeva nel paese –, ed è successo spesso che, svegliandosi, trovasse delle brioches appena sfornate sulla porta di casa o un mazzo di fiori sul davanzale."
Lindsey sorrise al ricordo e sorrisi anch'io, sollevato.
"Aveva un unico problema, se così possiamo chiamarlo, che non aveva mai negato o cercato di nascondere agli altri, e per questo aveva passato tanti, tanti casini quand'era più giovane. Era omosessuale. Ora, capirai che in un paesino piccolo come il nostro i gay non siano poi così ben visti, soprattutto perché la maggioranza degli abitanti è etero convinta e praticamente vive in chiesa, ripudia il diverso e si affaccia alla bibbia per ogni dubbio o incertezza, e non è neanche poi così aperta di mente verso il nuovo. Quando lo vennero a sapere, cominciarono a trattarlo in modo diverso ed alcuni di loro smisero proprio di rivolgergli la parola, pensando che avrebbe potuto contagiarli, e in men che non si dica il ragazzo si è ritrovato senza uno straccio d'amico o una spalla su cui contare quando stava giù. All'epoca non lo conoscevo ancora, ci scambiavamo qualche cenno di saluto nell'incontrarci per strada e gli sorridevo ogni volta che ne avevo l'occasione, ma era tutto lì e non mi era mai passato per la testa anche solo di provare di essere sua amica, visto che lo idolatravo un bel po'. Ai miei occhi era un ragazzo troppo meraviglioso da raggiungere e, sebbene fosse gentile con tutti, pensavo che sarebbe stato impossibile per me avvicinarlo, quindi mi accontentavo di dirgli un ciao di sfuggita e sfoggiare un sorriso enorme ogni volta che gli passavo accanto, voltandomi appena mi superava. Aveva la mia stessa età, ma sembrava così maturo e così bambino allo stesso tempo che mi metteva in soggezione e il suo viso allegro mi lasciava senza parole ogni volta, mi ossessionava ad esser sinceri, e mi ritrovavo a pensarlo nei momenti più assurdi della giornata. Però non era una cotta, era qualcosa di più profondo e di più bello – non so neanche ora come definire il rapporto che avevamo instaurato: un cenno col capo, un sorriso e uno sguardo imbarazzato stavano a significare che eravamo entrambi contenti di esserci incontrati e che ci auguravamo una bella giornata; come un abbozzo di sorriso significava che era stanco e aveva passato un periodo duro. Era figo, il nostro rapporto: era diverso da quello che aveva con tutti gli altri e mi faceva sentire speciale, come se fossi la prescelta in un paese di chierichetti, omofobi e ignoranti, come se io e solo io potessi capirlo e sollevarlo dalle sue pene, anche se per solo qualche istante. Mi sono illusa tantissime volte di significare molto per lui e spesso mi sono ritrovata a desiderare di fermarmi e baciarlo, ma sapevo benissimo che dietro alla sua dolcezza si nascondeva un animo fragile ed innamorato a sua volta, di un ragazzo che non lo degnava però di uno sguardo e che si divertiva a far sapere a tutta la scuola ogni volta che se la spassava con quella troia della sua fidanzata, una cheerleader che amava mettersi in mostra in ogni occasione. Erano una coppia sgraziata e squilibrata, entrambi troppo egocentrici e sbruffoni per sottomettersi in qualche modo all'altro, e finirono col rompere dopo due settimane di sesso sfrenato, succhiotti e scandali, con gran sollievo della squadra di football e di mezza popolazione scolastica femminile. Frank però non era sollevato, si era chiuso ancora di più nel suo guscio e non mi sorrideva quasi più, se non qualche rara volta mentre inciampavo sui miei piedi cercando d'imparare ad andare sullo skateboard. Era ormai risaputo che gran parte della scuola gli stava alla larga e lo insultava, di nascosto o in faccia, e il peso di tutto quell'odio e quel disprezzo gravava terribilmente sul moro, troppo debole per ribellarsi e troppo fiducioso per denunciare tutto al preside o anche solo alla madre. Diceva a tutti di fare escursioni con la bmx, di essersi appassionato agli sport pericolosi e di farsi male spesso cadendo, per nascondere i graffi e le escorazioni che i suoi stessi compagni gli lasciavano addosso, e si medicava da solo, per evitare di dover dare spiegazioni a un medico di qualunque genere. Ogni tanto lasciava che l'aiutassi e mi prendessi cura di lui, quando le ferite erano troppo doloranti e scomode da raggiungere perché potesse farlo da solo, e in quei momenti rimanevo impietrita di fronte alle sue cicatrici, alle sue abrasioni, al suo dolore, e mi ripromettevo che avrei fatto qualcosa per aiutarlo, anche se in effetti non potevo farci proprio niente. Man mano che il tempo passava ci divenni amica e lui cominciò a confidarsi con me, a lasciarmi conoscere una parte dei problemi che gli rovesciavano addosso e lo trascinavano sempre più verso il baratro, ma sebbene ne fossi terribilmente impressionata, fui felice di notare che non aveva mai smesso di sperare e di credere che le cose sarebbero cambiate presto" sorrise lievemente, più malinconica.
"Era un sognatore senza limiti, viveva in una realtà tutta sua ed erano rare le volte in cui scendeva dalle nuvole, a scuola, ma i professori non s'incazzavano con lui perché prendeva comunque buoni voti e non aveva problemi di comportamento o altro, quindi chiudevano un occhio. Ma non fraintendermi, loro erano tra i più stronzi di tutti: sapevano a cosa quel ragazzo andasse incontro ogni giorno, conoscevano le sue ferite e le sue sofferenze, potevano elencarti su due piedi tutti i maltrattamenti che aveva subito, ma non avrebbero mai, mai, mai fatto la spia al preside, neanche sotto tortura. La verità è che erano degli omofobi del cazzo, e, appena hanno saputo che quell'alunno non era come gli altri, hanno deciso di abbandonarlo, senza la minima esitazione, stabilendo che i comportamenti degli altri compagni fossero corretti e appropriati nei suoi confronti e fregandosene altamente le palle di tutto quello che doveva sopportare giorno dopo giorno. La mentalità a scuola era molto: 'sei un finocchio del cazzo, non dovresti neanche essere qui, dovresti bruciare all'inferno e patire le peggiori sofferenze, diavolo!', ma visto che l'inferno era ancora lontano, il ragazzo doveva imparare a soffrire anche qui e a scontare la sua pena due volte, per aver scelto di essere una creatura malata e contro il disegno del creatore. Insomma, erano delle teste di cazzo della peggior specie, per farla breve" riprese, sputando per terra. Era visibilmente irritata, e aveva ragione ad esserlo.
"Quello che quel poveretto ha passato a causa di quelle merde è terribile ed è andato avanti per anni, anche se dopo un po' ci si erano tutti abituati e i pestaggi erano diminuiti notevolmente, e le persone che gli erano rimaste accanto durante tutto quel tempo si potevano contare davvero sulle dita di una mano" aggiunse mentalmente un purtroppo e storse la bocca, mordicchiandosi il labbro, poi esitò un attimo e mi guardò.
"Ed è qui che sei entrato in gioco tu per la prima volta."
Cosa? Rimasi stupito da quell'affermazione e sgranai gli occhi per una manciata di secondi.
"Vedi, anche tu sei sempre stato un sognatore, per questo non hai mai sentito tutti i pettegolezzi che giravano attorno al moro e, suppongo, per questo ti sei avvicinato a lui. Era un pomeriggio di fine ottobre, gli alberi erano dipinti di arancione e le foglie turbinavano frenetiche nell'aria, mentre un venticello fresco faceva vorticare le cartacce per terra, quando ti ho visto percorrere il viale del parco per la prima volta, lo sguardo perso nell'infinito e le mani che si torturavano l'un l'altra alla ricerca di un po' di sicurezza. Camminavi lentamente e i tuoi passi erano scoordinati ed incerti, sembravi sempre più spaventato man mano che ti avvicinavi alla fine del sentiero, e mi ricordo di aver aggrottato la fronte ed essermi chiesta se ci fosse qualcosa che non andava in te, nel parco o in me; ma tu sembravi non vedermi proprio, come se fossi fatta di cellophane e tu riuscissi a guardare il mondo attraverso il mio stomaco, così me n'ero andata, girandomi a fissarti non appena ti ebbi superato. Quando mi hai oltrepassata, però, non ti sei voltato e non hai ricambiato l'attenzione che ti avevo riservato, quindi ho storto la bocca e mi sono avviata verso casa, dimenticandoti istantaneamente. Ho tirato fuori il cellulare dalla tasca e ho chiamato il moro per sapere dove fosse, e lui mi ha risposto che era al bosco e che mi aveva vista passare ma che non mi aveva fermata perché gli ero sembrata particolarmente assorta nei miei pensieri, quindi aveva pensato che non fosse il caso di venire a rompermi le scatole e costringermi a chiacchierare un po'. L'ho avvisato che l'avrei raggiunto e ho fatto marcia indietro sui miei passi, guardandomi intorno per vedere se eri ancora nei paraggi, poi ti ho visto avvicinarti al moro e toccargli la spalla con la punta delle dita, indietreggiando un po' mentre lui si girava e si concentrava sul tuo viso sconosciuto. Mi sono avvicinata di più e mi sono tuffata nei cespugli, sistemandomi abbastanza vicino da poter sentire cos'avevi da dirgli ma abbastanza lontano per non essere scorta da nessuno di voi, quindi mi ero cucita le labbra e avevo teso l'orecchio, incuriosita dall'ansia che sembrava circondarti. Lo salutasti con un ciao e lui ti guardò."

"Ciao" mormoro, togliendo la mano dalla sua spalla.
"Ciao" risponde lui con tono incerto, aggrottando la fronte e guardandomi dal basso in alto.
"Ci conosciamo?" chiede, scavando nella sua memoria. Scuoto la testa.
"Io sono Gerard, piacere" mi presento. Lui mi guarda ancora un po', come ad esaminarmi.
"Frank" dice semplicemente, mordendosi un labbro. Sembra parecchio insicuro, chissà come mai.
"Possiamo essere amici?"
La domanda lo colpisce dritto in faccia; lui sussulta e deglutisce, poi sbatte ripetutamente le palpebre. Sembra stupefatto, come se non se lo aspettasse minimamente. Abbozzo un sorriso e cerco di scacciare un po' dell'ansia che mi ha assalito.
"C-che cosa?" balbetta, gli occhi sgranati e il cuore a mille.
"Se possiamo essere amici. Sì, insomma, hai l'aria simpatica" gli spiego, arrossendo un po'.
"Ma tu.. tu lo sai chi sono io?" mi domanda di nuovo, mentre lo sguardo gli si rabbuia leggermente.
"Bhe sì, sei Frank, ci siamo appena presentati" dico, aggrottando la fronte. Lui sorride e abbozza una risata, poi scuote la testa e s'inumidisce le labbra. Non capisco, dov'è che sbaglio? Sembro così stupido?
"Capisco, è per questo che mi consideri ancora normale" annuisce, sospirando.
"Normale? Sei malato?" domando ingenuamente, arcuando le sopracciglia e contraendo il viso in una smorfia stupita. Lui ride e mi dedica un sorriso.
"Io sono gay, Gerard" m'informa, senza smettere di sorridermi per un solo istante.
"Per molti questa è una malattia incurabile" mi spiega, raccogliendo con la mano una manciata di foglie.
"Ma io non voglio essere il tuo ragazzo, io voglio essere tuo amico" obietto, senza vedere il problema.
"E se io m'innamorassi di te?" replica, soffiando in alto le foglie e guardandole roteare.
"Non lo farai, nessuno s'innamora mai di me" rispondo, abbassando il tono della mia voce mentre pronuncio l'ultima parte della frase.
"C'è sempre una prima volta" mi sorride, malinconico.
"Correrò il rischio, allora" ribatto. Lui alza lo sguardo e mi osserva. Sembra felice.
"Possiamo essere amici?" ripeto, tendendogli la mano con un gran sorriso.
"Ne sarei felice" mormora, stringendola forte e guardandomi dritto negli occhi. Mi viene da arrossire, ma sono contento. Finalmente ho un amico su cui contare e con cui fare quattro chiacchiere a scuola o il pomeriggio; uno che ha passato la stessa mia merda e che non si è ancora rassegnato al destino, proprio come me. Socchiudo gli occhi e lascio che il calore della sua mano penetri a fondo nella mia, così grande e ruvida in confronto alla sua, e mi viene da chiedermi come abbia fatto ad avvicinarmi a lui e anche solo a rivolgergli la parola. Wow.

Il flashback arrivò improvvisamente e altrettanto improvvisamente se ne andò, proprio mentre la bionda finiva di raccontarmi i dettagli del mio incontro con l'altro, aggiungendoci che le era sembrata una cosa surreale, molto da film e comunque molto inusuale. Carina, però, o almeno così l'aveva pensata Frank, che mi aveva invitato a sedermi con lui e aveva cominciato a conoscermi, piano piano, sentendomi parlare e guardandomi in faccia, come se dovesse decifrare qualcosa di segreto nascosto nei miei occhi. Mi aveva sempre fatto una buona impressione, quel ragazzo, e mi era sembrato terribilmente solo e abbandonato da tutti, come del resto mi sentivo io, quindi mi era stato abbastanza facile avvicinarlo e scambiare quattro chiacchiere con lui, anche se mi metteva un po' in soggezione con la sua gentilezza e il suo essere sempre buono e disponibile con tutti. Era la persona che sarei voluto essere e non riceveva abbastanza attenzioni, contando tutte quelle che dava agli altri, e la cosa mi faceva star male, mi faceva rodere dentro e più volte avevo desiderato di poter cambiare qualcosa per lui, perché si meritava solo di essere circondato da amore, affetto e cure, non da insulti e minacce. Meritava solo il meglio.
Mi raddrizzai e tornai ad ascoltare la bionda, rimandando le riflessioni a più tardi, e lei continuò.
"Mi ricordo che rimasi stupita dal vostro incontro e durante questi anni mi sono chiesta più volte cosa fosse stato a far scattare la scintilla tra di voi e a farti uscire dal guscio per diventare suo amico, ma non ho mai trovato una risposta che mi soddisfacesse appieno. Non che importi più di tanto, comunque, visto che hai fatto Frank davvero felice e l'hai riempito di speranza e buoni propositi, con il tuo sorriso e la tua stretta di mano; per qualche giorno è rimasto come rapito da te, non parlava d'altro di quanto gli sembrasse bella la vita e di come la svolta che stava aspettando si fosse davvero avvicinata, era completamente fuori, in senso positivo ovviamente. E' come se tu, con il tuo arrivo, avessi cambiato totalmente le carte in tavola per lui, e vedeva la cosa come un'altra opportunità che la vita gli aveva regalato per riscuotersi e ricominciare da capo, dimenticando insulti e minacce e lasciandosi alle spalle tutta la merda di cui aveva sofferto in passato. Eri come un angelo per lui, ogni volta che mi parlava di te gli brillavano gli occhi e gli si rischiarava il viso, come se stesse parlando di una qualche apparizione divina, e la sua felicità non poteva non contagiarti e trascinarti in un circolo di risate e sorrisi ebeti. Non c'è voluto molto prima che si rendesse conto che, effettivamente, eri diventato qualcosa di più di un salvatore per lui e che ti voleva al suo fianco per tutta la vita, ma come ben sai non c'è mai stata un'alta concentrazione di bisessuali o omosessuali qui in città, ed era sicuro che tu fossi etero fino al midollo, quindi taceva e si limitava a guardarti parlare con le ragazze, desiderando di essere lì con te e che tu ridessi per una sua battuta. Dopo un paio di giorni di silenzio è venuto a cercarmi e mi ha convinto a mettermi con te, sostenendo che fossi l'unica persona che potesse realmente farti felice, visto che le altre ragazze della scuola erano troie, vipere o troppo snob per i suoi gusti, e così una sera ti sono venuta a parlare. Eri ubriaco marcio, lo ero anch'io, e così è stato facile farti dire di sì ed 'incastrarti', per così dire, a rimanere al mio fianco per qualche tempo, almeno finché non avresti trovato le palle per lasciarmi" disse.
"Non le hai mai trovate" rise poi, scuotendo leggermente la testa.
"Ti ho lasciato io dopo una settimana e mezzo, perché tra noi non solo non funzionava, ma sembrava destino che non ci potesse essere più che semplice amicizia, quindi ho risolto il problema alla radice e ho troncato tutto, con mio grande sollievo. La tristezza di Frank nel vederci insieme era innegabile, anche se era sollevato visto che sapeva che non ero una troia e che non avrei giocato con il tuo cuore, ma lasciarti era la cosa migliore che potessi fare, sia per me, che per te e che per lui. Non so se te lo ricordi, ma un giorno ti ho trascinato in un caffè e abbiamo parlato seriamente, per la prima volta, di te, della tua sessualità e del tuo rapporto con il moro, che intanto si era fatto molto più stretto e profondo, fino al punto di rischiare d'escludermi da tutto. Non ce l'avevo con te, sia chiaro, ma volevo sapere a che gioco giocassi quando parlavi col mio migliore amico e lo riempivi di complimenti e parole di conforto, illudendolo che forse tra voi due poteva anche nascere qualcosa di più serio che la semplice amicizia. Tu sembravi imbarazzato a parlarne, ti torturavi le mani e lasciavi che il tuo sguardo vagasse da un oggetto all'altro, ma ti sembrava scortese rifiutarti di rispondere così rimanevi in silenzio e cercavi le parole giuste, attentamente, senza riuscire a calmarti minimamente. Avevi l'aria di una preda che vede il fucile del cacciatore e deve esaminare ogni possibilità di fuga per scegliere quella migliore e salvarsi la pelle, con la sola differenza che hai ignorato la via di fuga e mi hai risposto sinceramente, giocandoti il tutto per tutto e tenendo la testa alta tutto il tempo, mentre mi confidavi che, in realtà, anche tu vedevi il moro come qualcosa di più importante di un semplice amico ma che non te la sentivi di dirglielo perché avresti rovinato la vostra amicizia e causato un bel po' di casini. L'espressione che hai fatto nel sapere che anche per Frank era così era impagabile: credo di aver visto poche volte una persona così felice e realizzata in tutta la mia vita, il tuo sorriso partiva da un orecchio all'altro e tutto il tuo viso sembrava brillare di luce propria, mentre mi ascoltavi e realizzavi che c'era una speranza per voi due e che per una volta sarebbe andato tutto bene, finalmente" sorrise, strapazzandomi una guancia.
"Siete stati insieme per un bel po', effettivamente; siete stati una di quelle coppie che sembrano destinate a non separarsi mai, e sarebbe stato sicuramente così se non fosse successo.. beh, quell'incidente. Frank aveva la passione di fotografare tutto, dalla prima all'ultima cazzata, e riempiva chiunque di scatti improvvisi, che poi si teneva per se e portava a sviluppare una o due volte al mese giù al negozio di macchine fotografiche, e un giorno aveva deciso di andare su al bosco a fare qualche foto agli uccelli e alla natura in generale per ampliare la sua collezione. Quale occasione migliore per fare un pic-nic romantico con il proprio ragazzo, lontano dagli occhi indiscreti degli altri e dagli insulti di qualche cretino senza cervello? Ha preparato i dettagli, ti ha chiamato e vi siete avviati su al greppo; avete camminato per un paio di chilometri, avete scelto un bel posto e vi siete accampati lì. Ha fatto qualche scatto, suppongo, poi avete cominciato a sistemare tutto e a tirare fuori il cibo dal cestino, ridendo e scherzando come al solito, poi probabilmente vi siete baciati, visto che profumavi leggermente di lui. Quello che è accaduto dopo è solo una supposizione adottata da tutti, supportata dal referto del medico del paese e dalla tua perdita parziale di memoria, che ti permetteva di avere strani incubi e sprazzi di ricordi, che però nessuno riusciva ad identificare come reali o immaginari e che quindi sono stati considerati una testimonianza non molto attendibile."
Storse la bocca ed assunse un'aria seria, guardandomi. Aveva lo sguardo velato di malinconia e rievocare quei fatti doveva farla star particolarmente male, ma voleva andare fino in fondo e rendermi partecipe di tutto quello che era successo.
"Non si sa esattamente cosa steste facendo, ma a un certo punto è arrivato qualcuno, molto probabilmente un uomo vista la forza con cui ti ha colpito, che ti ha steso e si è portato via il moro, facendo perdere le sue tracce dopo un paio di metri e lasciandoci senza il minimo indizio. Abbiamo setacciato il bosco e il territorio circostante per giorni, senza tregua e senza perdere la speranza, ma l'intera città brancolava nel buio più completo e dopo una settimana abbiamo dovuto arrenderci e darlo definitivamente per disperso, nonostante tutti i nostri sforzi. Io e un altro gruppo di ragazzi abbiamo continuato a cercarlo per giorni, anche dopo che il sindaco aveva annunciato di rimanere a casa, interrompere le ricerche e tenerci al sicuro, ma non è mai saltato fuori nulla e ci stavamo disperando tutti. Il momento peggiore è stato quando sei uscito dal coma e mi hai domandato dove fosse Frank, come stesse e perché non fosse venuto a trovarti neanche una volta quand'eri all'ospedale, visto che di solito lo faceva sempre. L'hai domandato in un modo così puro e ingenuo che sono scoppiata a piangere istantaneamente e ti ho indirizzato verso la casa dei suoi genitori, perché proprio non ce la facevo a spiegarti gli avvenimenti e dirti che non eravamo riusciti a cavare un ragno dal buco, sebbene avessimo passato giorni e notti a scandagliare ogni angolo del bosco. Tu non capivi, mi hai domandato se avessi avuto una brutta giornata o qualcosa del genere e io mi sono sentita la peggio merda del pianeta nel negare tutto, ma non ce la facevo proprio ad affrontare l'argomento, soprattutto con una persona coinvolta come te. Vedere le tue bende insanguinate mi faceva attorcigliare lo stomaco e desiderare di essere io quella morta, ma non era possibile e potevo solo resistere, sperare e continuare a cercarlo, senza mai darmi per vinta. Ti ho pregato di andare da sua madre, di farlo per favore, e tu hai annuito, mi hai salutato con un abbraccio e ti sei incamminato verso la loro villetta con la testa tra le nuvole e un brutto presentimento nel petto, ma senza comunque tremare o cercare di rimandare la cosa. Hai bussato da lei, le hai parlato e.." le partì la voce.
"E..?" domandai, anche se avevo già vissuto un centinaio di volte la scena in sogno.
"Ti ha detto che era morto, che non sarebbe tornato più, e ha cominciato a piangere davanti ai tuoi occhi sgranati e confusi, mentre le ginocchia ti cedevano e scoppiavi in un pianto disperato, senza riuscire a capacitarti di quello che era successo e addossandoti tutte le colpe possibili ed immaginabili. Sentivi il peso del mondo sulle tue spalle e ti sembrava che tutti t'incolpassero, così sei scappato nel bosco e ci sei rimasto per due giorni, mentre tutti quanti ti cercavano e ti chiamavano, preoccupati; ma tu non li sentivi, eri tormentato dal senso di colpa e dall'immagine sorridente di Frank, che t'inseguivano nei sogni e nella realtà, costringendoti a vivere un dormiveglia stancante e privo di momenti di sollievo, una specie d'inferno situato nella tua mente che non riuscivi a sconfiggere in alcun modo. Ti abbiamo trovato di sera, poco prima del tramonto, e ti abbiamo portato in ospedale, dove ti hanno visitato, reidratato e prestato i primi soccorsi, sotto i nostri occhi sgomenti e terrorizzati. Nessuno si era accorto che avevi perso la memoria, il giorno in cui sei scivolato in coma, e quello è stato uno dei nostri più grandi errori in assoluto, perché non avevamo neanche pensato di chiederti come stessi: avevamo insistito su quel pomeriggio e interpretato il tuo silenzio come una reazione estrema allo shock improvviso, e che non te la sentivi semplicemente di parlare. Dopo un paio di giorni di calma forzata è stata indetta un'inchiesta di cui tu eri l'unico indiziato, che si è però conclusa con l'archiviazione totale del caso e la rimozione dell'evento dalle tv e dai giornali locali per rispetto del lutto. Il sindaco ha tenuto un discorso di condoglianze alla famiglia e ha riconosciuto la tua inutilità nelle indagini a causa della tua amnesia, tranquillizzando tutti e assicurando che tutto si sarebbe risolto per il meglio nel giro di poco tempo; la cittadinanza gli ha creduto ed è tornata alla propria routine, interrompendo ogni tipo di ricerca e lasciando che a occuparsi del caso fossero degli agenti speciali chiamati dall'altra parte dello stato apposta per l'occasione, di quelli che vengono addestrati proprio per questo tipo di missioni e in cui tutti ripongono molta fiducia. L'unico problema è che per un motivo o per l'altro loro non si sono mai presentati qui e non hanno mai cercato di far luce su questo mistero: se ne sono sbattuti le palle come tutti gli altri e hanno spedito un foglio con su scritto che era inutile continuare a cercarlo, perché, sempre che lo sconosciuto non l'avesse ucciso sul momento, ora come ora il moro sarebbe morto di disidratazione, assideramento, stenti o percosse. Era un velato 'smettetela di romperci i maroni, sto poveraccio è morto e non tornerà mai più a casa, fatevene una cazzo di ragione e lasciateci in pace', per come la vedo io, ma i nostri compaesani si sono mostrati soddisfatti e hanno seguito ciecamente le indicazioni dei militari, senza cercare neanche di obiettare o insistere sull'argomento. Semplicemente, se ne sono lavati le mani e hanno addossato la responsibilità a qualcun altro, per quanto potessero essere toccati da un decesso così prematuro e brutale, e non hanno mostrato la minima intenzione di controbattere a una lettera arrivata all'improvviso e scritta da un branco di persone che non si sono neanche mai avvicinate alla scena del delitto" pronunciò l'ultima parte della frase con grande disprezzo, come se avrebbe voluto sputare addosso a quei signori.
"La gente ha cercato di dimenticarsi di tutto e tornare alla sua vita precedente, ma lasciarsi tutto alle spalle non era poi così facile come pensava l'intera comunità: erano tutti sopraffatti dai sensi di colpa e dalla sensazione di aver contribuito a rendere dolorosa un'esistenza stroncata prematuramente, così si giravano e rigiravano nei loro letti e passavano ore a pensare a un modo efficace per far sì che l'anima del ragazzo potesse continuare a vivere e ridere con loro, come se niente fosse successo. Dopo qualche giorno, hanno deciso di radunare tutte le sue fotografie e appenderle nei luoghi pubblici, in modo che chiunque fosse in grado ammirarle quando voleva; poi hanno tappezzato la città di sue foto unite a frasi smielate e ipocrite, tipiche di chiunque voglia fare bella figura sulla folla, e hanno dedicato un'ala del parco a suo nome, guarda caso quella in cui voi due vi siete conosciuti e in cui ha ricevuto la sua prima grande soddisfazione. Da far vomitare per il loro viscidume, vero? La parte più bella è che ancora oggi credono che sia bastato quello a garantire l'entrata in paradiso al moro, a renderlo felice e a fargli dimenticare tutte le pene e le cattiverie che gli hanno riservato fin dall'infanzia senza sentirsi anche solo minimamente in colpa."
Si pulì le ginocchia dalla polvere, sospirando.
"Però ora, a distanza di anni, l'atmosfera si è un po' rilassata e tutti ripensano a Frank in modo positivo, se ne fregano altamente che fosse gay e si sono resi conto degli errori che hanno commesso nei suoi confronti, se ne pentono e si dispiacciono nel pensare di aver causato così tante sofferenze in lui. E' diventato una specie di mascotte per il paese, ma non una di quelle a cui la gente pensa quando vuole ridere o sentirsi superiore a qualcuno, una di quelle che ogni volta che la vedi sorridere ti si scioglie il cuore, una di quelle a cui puoi parlare in ogni momento della giornata, una di quelle che sai sono davvero sincere e meravigliose, una di quelle che semplicemente ti rimangono impresse dentro per l'eternità. Ogni tanto la gente ci chiacchiera, gli racconta i segreti, si confida con lui e gli chiede consigli, e anche se non ricevono risposta continuano comunque a farlo, a sorridergli, a volergli bene e a portare fiori sul campo dove è stato visto per l'ultima volta, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica. Hanno costruito una specie di tomba molto carina e ogni pomeriggio qualcuno passa a spostare i fiori morti, aggiungerne di freschi, sistemare i regali e lasciare qualche biglietto di ringraziamento o auguri per la sua permanenza all'aldilà, per poi dedicargli una preghiera e fargli qualche complimento per una foto che l'ha colpiti in modo particolare e di cui dovrebbe andare decisamente fiero. Lo trattano come uno di loro, un vecchio amico che si è preso una vacanza e che è in viaggio da tanto tempo, ma che comunque li chiama, s'informa della loro salute e gli augura di fare una bella vita, spensierata e tranquilla, e che cerca sempre di rubargli un sorriso in ogni occasione possibile. Man mano che gli anni passano tutti si affezionano di più a lui e ogni anno viene organizzata una festa in suo onore, dove si raccolgono dei soldi, dei dolci e dei regali e glieli si porta come offerte e segni d'apprezzamento, che vengono poi sostituiti dopo una settimana con oggetti nuovi e piante più vigorose e piacevoli da vedere. Insomma, lo viziano a non finire, 'sto santone" sorrise, scuotendo leggermente la testa. Poi alzò gli occhi verso di me.
"Effettivamente, la fine è meno amara dell'inizio" commentò.
"Ma non se tieni conto del fatto che ormai Frank è scomparso da cinque anni" aggiunse mentalmente.
Deglutii e mi passai una mano sul volto, rivedendo la storia nella mia testa e rabbrividendo sulla parte della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua scomparsa improvvisa e senza motivo.
"Non c'è nessuno che pensa che sia ancora vivo, magari in un altro stato?" suggerii. Scosse la testa.
"No, nessuno. Frank non era quel tipo di persona, ce l'avrebbe fatto sapere, e comunque potrebbe benissimo aver perso la memoria e non ricordarsi più di nessuno di noi, il che sarebbe lo stesso" spiegò.
"E se fosse ancora prigioniero di quel pazzo?"
"Gee, in cinque anni non abbiamo mai trovato una traccia che ci lasciasse pensare che Frank fosse ancora in vita, figurati se, essendo stato catturato e rinchiuso in qualche baita di montagna, sia riuscito a lasciarci qualche pista da seguire. Non sappiamo assolutamente nulla di quello che gli è capitato e comunque, anche se non te lo ricordi, ti sei messo a cercare indizi pure tu, giorno e notte, senza mai trovare niente d'interessante o rilevante, quindi riprendere a cercarlo ora sarebbe solo inutile e doloroso per tutti e due, senza contare che sprecheremmo tempo" concluse, alzandosi in piedi.
"Non lo dico perché non voglio stringerlo tra le braccia un'ultima volta, ma perché ormai è tardi per fare qualsiasi cosa al riguardo ed è ora di accettare che ci ha lasciato e non si farà più vedere in questa vita" si girò verso lo strapiombo.
"Gli voglio un bene dell'anima, ma credo che la cosa migliore da fare sia lasciarlo riposare in pace" mormorò, sospirando pesantemente.
"Non è mai troppo tardi per qualcosa, Lindsey" obiettai, cercando il suo sguardo.
"Sono passati cinque anni, che indizi vuoi trovare ora che ci siano sfuggiti allora?" mi chiese.
"Non ne ho la minima idea" risposi in tutta sincerità, scrollando le spalle.
"Ma ho voltato le spalle al mio passato per troppo tempo per buttare all'aria anche quest'occasione e lasciare tutto a marcire in fondo a un cassetto. Domani andrò a cercare indizi, con o senza di te" la informai. Contavo sul fatto che la sua coscienza le avrebbe imposto di non abbandonarmi e di aiutarmi ancora una volta, e non restai deluso.
"Okay, va bene, vengo con te" acconsentì lei con un sospiro esasperato e alzando le mani all'aria.
"Grazie davvero" mormorai, abbozzando un sorriso impacciato. Lei sorrise, addolcita, mi si avvicinò e mi abbracciò con forza, abbassandosi al mio livello e portando le labbra accanto al mio orecchio.
"Scavare nel passato ti farà incredibilmente male e sarai tentato più volte di lasciar perdere tutto e tornartene da dove sei venuto. Non ti azzardare a farlo o ti spaccherò il muso" sussurrò, dandomi poi una pacca sulla spalla.
"Non lo farò" la rassicurai, "glielo devo". Lei sorrise e mi porse una mano.
"Questa è una promessa, signor Way, e non potrai spezzarla in nessun modo se non con la morte" mi ammonì.
"D'accordo" annuii deciso, mordendomi il labbro. Dopo tutto quello che aveva passato quel ragazzo non potevo permettermi di tirarmi indietro proprio nel momento più cruciale e abbandonarlo per la seconda volta in cinque anni, dopo essermi infilato in qualcosa più grande di me e di tutto ciò che avevo conosciuto fino ad allora, che l'aveva inghiottito e trascinato via da me in modo brutale e insensibile. No, era il mio compito ritrovarlo.
"Andrò fino in fondo, costi quel che costi" affermai, sforzandomi di sembrare il più sicuro possibile.
"E se non dovessi farcela, sarà solo perché la morte me l'avrà impedito e mi avrà trascinato giù agli inferi insieme a chiunque l'abbia fatto soffrire così tanto. Parola d'onore." Lyn-z sorrise e mi guardò.
"Benvenuto a bordo, ragazzo" esclamò, poi mi strinse nuovamente la mano, compiaciuta, come se quello fosse stato solo un test d'ammissione e tutto dovesse ancora cominciare. La scossi energicamente.
"Avanti, ora vieni con me; ti devo presentare il team di ricerca. Non ci siamo mai arresi, in tutti questi anni, e non progettiamo di farlo" mi confidò, facendomi l'occhiolino. Mi sentii improvvisamente più sollevato e mi si rischiarò l'animo, mentre saltavo in macchina con lei e mi allacciavo la cintura, lanciando la mano fuori dal finestrino e preparandomi all'ennesimo viaggio in auto. Il passato del moro mi aveva lasciato spaesato e senza parole, ma proprio per questo mi sentivo in dovere d'indagare e scoprire ogni singolo dettaglio nascosto dietro la sua strana sparizione, per riuscire a vendicarlo, in qualche modo, e fare comunque un po' di luce su quel catastrofico pomeriggio che aveva cambiato le abitudini di un paese intero. M'incolpavo ancora totalmente di quello che gli era successo, ma nonostante la fitta alla testa riuscivo a ragionare abbastanza lucidamente da decidere di fare tutto ciò che era in mio potere per assicurare una degna sepoltura a quel povero angelo, costasse quel che costasse. Non mi ero mai sentito così sicuro in tutta la mia vita, e credo che gran parte di questa risolutezza mi sia stata mandata dal moro, anche se non so ancora come. Non m'importava, comunque; le uniche cose su cui dovevo concentrarmi erano la sua scomparsa e l'anomala mancanza d'indizi, su cui avrei lavorato poche ore dopo e di cui non mi sarei più scordato per tutta la vita. Dio, Frank, cosa ti è successo?

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


"Gerard?" mi si avvicina barcollante e io mi volto a guardarlo, rincuorato.
"Buongiorno, bell'addormentato" sorrido.
"Dormito bene?" gli domando quindi. Annuisce
, si accoccola dolcemente sul mio grembo e posa la testa sul mio petto, trovando una posizione comoda.
"Fatto bei sogni?" insisto, baciandogli dolcemente la fronte.
"Credo di sì, non me li ricordo bene" mormora, stringendosi più forte contro di me. Sorrido sotto i baffi e gli accarezzo i capelli, spostandoglieli dal viso e sistemandoglieli per bene dietro le orecchie.
"Basta che tu non abbia fatto incubi" sussurro, facendo ciondolare una ciocca di capelli sulla sua faccia mezza addormentata. Se la soffia via e mi bacia delicatamente sul mento, poi rimaniamo in silenzio per un po', ad ascoltare ognuno il respiro flebile dell'altro.
"Hai mai pensato al nostro futuro, Gee?" mi chiede tutto d'un tratto, alzando gli occhi per guardarmi.
"Onestamente no, preferisco vivere il presente e lasciare che il resto si costruisca da se" ammetto semplicemente con una scrollata di spalle, poi mi concentro su di lui e socchiudo gli occhi.
"Anche perché so che ti amerò per sempre, e finché staremo insieme tutto andrà bene. L'unica cosa di cui m'importa sei tu, honey, tienilo a mente" gli confido, sporgendomi in avanti per baciargli il naso.
"Ti amo" gongola soddisfatto, facendo una delle sue smorfie carine e stringendo la mia mano nella sua.
"Però io dicevo sul serio; voglio dire, dopo la scuola dovremo pur fare qualcosa e ormai manca poco al diploma, quindi tanto vale cominciare a pensarci e creare un piano" mi spiega, giocando coi miei capelli.
"C'è un posto in particolare che t'interesserebbe? Non so, potremmo andare tipo in California, lì c'è una gran varietà di paesaggi e sarebbe comodo per te e le tue fotografie; oppure si potrebbe organizzare un viaggio nel vecchio continente e passare dai fiordi norvegesi ai parchi nazionali italiani e poi di nuovo alle isole greche, non saprei. C'è tanta scelta, no?" comincio a proporre, arricciando le sopracciglia.
"Potrebbe anche essere un'idea, ma non dobbiamo organizzare qualcosa di utile e interessante solo per me, dobbiamo anche concentrarci sui tuoi, di bisogni" obietta, accarezzandomi la guancia.
"In questo caso faremo anche una tappa in ogni bar delle città che visiteremo, così potrò assaggiare e confrontare ogni caffé del mondo" scherzo. Mi dà una leggera pacca sulla spalla e smentisco tutto.
"Però, seriamente, non ti preoccupare; a me basta star vicino a te per essere in paradiso" lo tranquillizzo.
"Amoore" si scioglie lui, arrossendo e mordendosi un dito. Gli bacio la fronte e gli accarezzo i capelli.
"Davvero, non ti preoccupare di nulla, assolutamente. Mi basta stare al tuo fianco per star bene e sarei solo felice di accompagnarti a far foto in qualche angolo sperduto del pianeta, davvero"
"Sì, però--" cerca di obiettare, tirandosi su a sedere.
"Non si accettano però, babe. A me va bene tutto, se fa piacere a te" lo blocco, sorridendo.
"Abbiamo ancora qualche mese per pensarci, comunque, vedrai che troveremo qualcosa di bello e a poco prezzo che soddisferà entrambi. E se così non fosse gireremo il paese a bordo di un camioncino, non c'è assolutamente problema; sarebbe figo, anzi" aggiungo, strapazzandogli la guancia. Lui sorride sornionamente e mi bacia a stampo, contento.
"Grazie, Gerard" sussurra.
"Di niente" ribatto, baciandolo di nuovo. Vederlo felice mi fa bene al cuore.


"Gerard! Ehi!" Stavolta la voce non era quella soffice del mio ragazzo, ma quella decisa della bionda, che mi stava scuotendo delicatamente la spalla da una decina di minuti nel vano tentativo di svegliarmi.
"Ehi bello, siamo arrivati, ti decidi ad aprire gli occhi?" sbuffò esasperata.
"Dai, sono tre ore che ti chiamo, Ray e gli altri s'incazzeranno di brutto se tardiamo ancora" piagnucolò. Aprii un occhio e la guardai, portandomi una mano alla testa e mugugnando qualcosa.
"Dove.. dove siamo?" mormorai, scrocchiandomi le ossa del collo.
"A casa mia, devi scendere dall'auto" mi spiegò lei, facendo addolcire improvvisamente il suo tono.
"E' da tanto che mi chiami?" domandai, stiracchiandomi e saltando goffamente fuori dalla macchina.
"Direi! Hai un sonno pesantissimo, ragazzo mio, stavo cominciando a perdere le speranze e a considerare l'idea di rimandare tutto a domani mattina!" esclamò, agitando le braccia nell'aria per metterci più enfasi. Risi sotto i baffi e lei sorrise, ricomponendosi, poi m'indicò la porta con il pollice e ci avviammo verso l'entrata, mentre io mi guardavo intorno e cercavo di riconoscere il posto. Armeggiò un paio di minuti con le chiavi e aprì la porta con una spallata decisa, andando a ripescare in un barattolo delle altre chiavi e ficcandosele in tasca, tornando poi da me, prendendomi per mano e trascinandomi in cucina con lei.
"Guarda bene queste chiavi, roscio, perché sono di vitale importanza e non dovrai perderle mai, mai e ancora mai, e se lo farai ti ritroverai nella merda più completa" me le mostrò e me le chiuse nel palmo, avviando poi la mano verso la mia tasca e facendocele scivolare delicatamente dentro. La guardai in silenzio e mi limitai ad annuire, chiedendomi a che cosa potessero servire ma senza avere il coraggio per chiederglielo.
"Servono ad aprire il nostro rifugio segreto" mi spiegò lei, come se avesse letto i miei pensieri, spostandosi da una parte all'altra della stanza e spalancando tutte le ante degli armadi alla ricerca di chissà cosa, poi si fermò un attimo e si voltò verso di me, togliendosi una matita dalla bocca e inumidendosi le labbra.
"Seriamente, se le perdi siamo tutti fritti. Te ne farò fare una copia, ma nessuno deve sapere del rifugio e nessuno deve entrare in possesso delle chiavi, okay? Ne va della tua stessa incolumità" sottolineò.
"Che cosa intendi?" domandai, senza capire tutta quella preoccupazione.
"Intendo che gli unici di cui puoi fidarti siamo noi, ragazzo mio, e che se fai un passo falso finiremo tutti nei guai, senza la minima possibilità di poterci salvare la pelle. Non so te, ma io ci tengo a star bene e a continuare le indagini in gran segreto, senza che l'intera cittadinanza ci stia alle costole" commentò, con un tono deciso e professionale che avevo sentito davvero poche volte prima d'allora. Annuii, deglutendo.
"E' davvero così pericoloso?" domandai. Lei si fermò di nuovo e si voltò verso di me.
"Terribilmente pericoloso" mi corresse, ferma e seria.
"Stiamo andando contro la legge, bello, tienilo a mente" mi fece notare, tornando a trafficare freneticamente con gli sportelli.
"Ora muoviti e dammi una mano a trovare un pacchetto di fiammiferi, prima che torni mia madre e cominci ad assalirti di domande e moine del cazzo" ordinò con aria pratica, indicando il salotto col capo e sbattendo le ultime ante, preparandosi quindi a setacciare un'altra stanza. Aprii un paio di cassetti e spostai i cuscini verdi del divano, ma la mia mente non era davvero collegata al mio corpo e non riuscivo a comprendere fino in fondo le mie azioni, ero troppo concentrato su quell'ultimo sogno e su quello che mi aveva detto prima la ragazza per prestare attenzione a qualcosa che non fosse l'immagine sorridente del moro. Ci rimuginai su un attimo e mi domandai se fosse davvero morto o se si stesse solo nascondendo da tutto e tutti, stufo di avere a che fare con quella massa d'idioti violenti ed omofobi. Se fosse stato così non avrei potuto biasimarlo, in effetti, ma mi sarebbe dispiaciuto sapere che si era dimenticato così facilmente di me e che alla fin fine non significavo molto per lui, quindi mi ero autoconvinto del fatto che dovesse essere prigioniero di qualche maniaco nei dintorni e che gli venissero concesse solo un paio d'ore d'aria a settimana, e che per questo non era mai riuscito a contattarci e farci sapere che andava tutto bene, nonostante tutto. Sì, doveva essere così; da qualche parte dentro di me c'era qualcosa che continuava a ripetermi che tutto si sarebbe concluso per il meglio e ignorare quella voce era semplicemente troppo difficile e doloroso da fare, quindi continuavo a sperare e a credere che, da qualche parte, il mio ragazzo fosse ancora vivo e vegeto, rinchiuso in qualche cantina da un pazzo sadico e senza cuore. Sbattei un cassetto con forza e feci tintinnare le chiavi contro il mio cellulare, sovrappensiero, e solo allora mi resi conto di avere un pacco di fiammiferi proprio sotto gli occhi. Alzai lo sguardo al cielo ed andai a cercare la mia amica, chiamandola a gran voce e attraversando la sala a grandi passi, le passai la scatola, la guardai infilarsela in tasca e mi avviai nuovamente verso l'auto, accellerando l'andatura man mano che mi avvicinavo al mezzo. Non so perché ma avevo un brutto presentimento. Mi schiaffai bruscamente sul sedile e mi allacciai la cintura di sicurezza, mentre la bionda seguiva il mio esempio e metteva in moto l'automobile, procedendo in retromarcia e imboccando poi la strada che portava verso la montagna, dalla quale passavano quattro persone ogni morte di papa e che quindi era la scelta più sicura. Tamburellò con le dita sul volante, poi mi guardò.
"Vedi, roscio, in questa città tutti fanno la spia con tutti, quindi bisogna fare tutto di nascosto e con la massima cautela se non si vuole che entro tre secondi tutto il mondo lo sappia e venga a metterti i bastoni tra le ruote; per questo abbiamo posto la base su nel bosco, lontano dagli sguardi indiscreti degli altri e in un punto troppo remoto e scomodo da raggiungere per qualcuno che vuole solo fare una passeggiatina per smaltire un pranzo troppo pesante" mi spiegò, indicando la collina col capo.
"Da qui la base non si vede, ma non viceversa: quel posto si può paragonare a una specie di osservatorio segreto, tipo uno di quei doppi specchi da interrogatorio che permettono ai poliziotti di osservare tutto ciò che accade al di là del vetro ma che i detenuti vedono come un semplice specchio un po' opaco" assunse un'aria soddisfatta e annuì quasi impercettibilmente, mentre s'immaginava la scena.
"Sono piuttosto fiera di quel posto, a esser sinceri, e appena lo vedrai sarai costretto a convenire con me, è una figata pura e organizzata nei minimi dettagli, sembra uscita da un film" gongolò, compiaciuta.
"Comunque è inutile parlartene ora, la vedrai da te tra pochi minuti" concluse, stringendo le mani attorno al volante e schiacciando il pedale dell'acceleratore, spalancando i finestrini con un'espressione di libera felicità. Guidava al di sopra del limite di parecchi chilometri orari, ma il suo controllo del mezzo era impressionante, da far invidia ai piloti di professione, e riusciva non solo a prendere bene tutte le curve, ma anche a non far sbandare l'auto o a farla finire sul praticello accanto alla strada, come se fosse nata per condurre in quel modo esagerato e pericoloso. Sfrecciava a una velocità decisamente elevata sull'asfalto con la stessa naturalezza con cui si allacciava le scarpe scendendo dal letto la mattina, seriamente. Tenni gli occhi strizzati per tutto il tempo, mentre lei guidava come una pazza e si lanciava verso il sentiero che ci avrebbe portato fin sopra la montagna con una nonchalance da paura, macinando sempre più chilometri e facendomi immaginare le morti da incidente più sanguinolente e dolorose possibili. Insomma, quando ci fermammo non potei evitare di sentirmi benedetto per essere acora vivo e di abbracciare il primo albero che incontrai, mentre lei esibiva la sua risata cristallina e mi tranquillizzava, dicendo che le prime volte che la gente veniva a bordo con lei finiva sempre così perché non erano abituati alla sua guida spericolata e al percorso accidentato. Mi mise una mano sulla spalla e mi fece segno di seguirla attraverso la foresta, superammo un gruppo di sassi ricoperti da licheni, spostammo delle frasche di mezzo e ci liberammo la visuale da cespugli, rami e natura varia, scoprendo un tombino di cemento grande più o meno un metro e mezzo e pulendolo dagli aghi di pino. Lindsey mi mostrò la serratura ed inserì la chiave, la girò in senso orario e sollevò il coperchio, che si aprì con un cigolio appena udibile e si rivelò molto meno pesante di quanto avessi inizialmente pensato nel vederlo. Una manciata di minuti dopo eravamo già all'interno del rifugio, scavato nella roccia e riempito di attrezzi, scartoffie e integratori alimentari, ai piedi di una scaletta di metallo grigio, faccia a faccia con quattro ragazzi che ricoprivano varie fasce d'età e sembravano piuttosto contenti di vedermi lì con loro e sapermi tornato al nido.
"Gerard!" esclamò uno, venendomi incontro e tendendomi la mano, raggiante.
"Dio, quanto tempo è passato! Io sono Steve, il fidanzato di quell'arpia là" si presentò, indicando la bionda con un dito nodoso.
"Bentornato tra noi, ragazzo, sono anni che ti aspettiamo" concluse. Abbozzai un sorriso impacciato.
"Io sono Ray, invece" mi disse un ragazzo con dei capelli ricci da paura, sui quali mi soffermai a lungo.
"Columbia, piacere" si presentò quindi una ragazza mora e riccia dall'aria eccentrica.
"James" si limitò a dire l'ultimo ragazzo, uno stecco con una cresta rosa molto figa e piuttosto inusuale. Così, a primo impatto, mi piacevano tutti e mi sentii sollevato nel sapere che potevo contare su delle persone fuori dal comune e aperte al nuovo, completamente diverse dall'ambiente con cui mi ero sempre scontrato fino ad allora. Strinsi la mano a tutti quanti e sorrisi vivacemente, loro ricambiarono e m'illustrarono un paio di dettagli sulla base, su come arrivarci, su come evitare le trappole, su come comportarsi quando pioveva e su come fargli sapere che mi trovavo al suo interno senza attirare troppa attenzione. Rimasi stupito dalla cura che ci mettevano e non riuscii ad evitare di sentirmi felice e soddisfatto nel realizzare che facevano tutto quello per ritrovare il moro e riportarlo a casa tra le loro braccia, quando invece avrebbero potuto lavarsene le mani e lasciare che la faccenda venisse dimenticata e archiviata tra i casi senza speranza, come avevano suggerito di fare in precedenza i militari. Insomma, erano degli amici nel vero senso della parola, di quelli che non ti abbandonano neanche nei momenti più difficili e che non smettono di supportarti neanche se dovesse costargli una fatica immensa e senza fine. Fui davvero felice di averli conosciuti.
"Dì un po', roscio, conosci già la storia?" mi domandò lo stecco. Annuii.
"Perfetto, allora possiamo passare alla parte successiva del piano" borbottò, frugando fra le carte.
"Ah, eccola" esclamò, prendendone una da sotto una tazza di caffé e passandomela.
"Guarda, questa è la nostra città, qui ci troviamo noi e questi segni rossi sono tutti i punti in cui abbiamo scavato alla ricerca di tombe o indizi nascosti. In questa parte del bosco, – mi spiegò, indicandola con la punta del dito
– non siamo mai riusciti a inoltrarci, a causa di una recinzione alta più o meno quanto un barile di olive sott'olio. E' forse la parte più sospetta dell'intera zona, ma finché rimane proprietà privata non possiamo assolutamente metterci piede, soprattutto perché non siamo sicuri della quantità di telecamere presenti e del sistema di sicurezza che i proprietari hanno adottato. Visto che agiamo già contro la legge, penserai che la cosa non debba interessarci più di tanto, ma è proprio qui che ti sbagli: se vogliamo continuare con le indagini, è essenziale attirare su di noi la minore attenzione possibile ed essere sempre allerta, evitando le situazioni troppo rischiose o sgamabili, e quella zona rappresenta la sgamabilità fatta persona; quindi non solo non possiamo avventurarci al suo interno, ma neanche camminare attorno al recinto per scoprirne i punti deboli. Il che è un bel problema, considerato che nessuno ci ha sicuramente condotto alcuna ricerca, no? Come fare a eludere l'ostacolo, senza attirare attenzione e senza venir scoperti? La risposta è tra le più semplici in assoluto e trovarla è stato facile come bere un bicchier d'acqua, dopo aver eliminato tutte le altre ipotesi possibili: sarai tu a farlo, tenendoti in contatto con noi con un auricolare e fingendo di esserti perso durante una camminata esplorativa. Il tuo alibi reggerebbe perfettamente: il ragazzo senza memoria va in giro a passeggiare per i boschi, alla ricerca di qualcosa che possa aiutarlo a ricordare qualcosa, si avventura troppo nella foresta e perde la strada, quindi trova il recinto e decide di seguirlo fino alla fine per poi chiedere aiuto ai proprietari e farsi riportare a casa. Quello che i proprietari non sapranno, e che neanche l'eventuale polizia scoprirà, è che tu avrai addosso una microspia attraverso la quale noi spieremo i tuoi movimenti, annoteremo ogni dettaglio riguardante l'area e, in pratica, ci muoveremo con te. Potremo parlarti, in caso di bisogno, ma qualsiasi cosa accada tu devi rimanere zitto e fingere di non poterci sentire, in modo da non far preoccupare la gente dietro le telecamere e in modo da non destare alcun sospetto nei padroni di casa, quando li incontrerai. La microspia avrà l'aspetto di un ipod, tu t'infilerai le cuffie e attraverso un complesso sistema di circuiti riuscirai a sentire le nostre voci e a farci vedere la scena come se fossi tu a guardare. Ingegnoso, vero?" si complimentò da solo, gongolando un attimo prima di passarmi l'oggetto e guardarmi mentre me lo sistemavo tranquillamente in tasca.
"Non abbiamo ancora deciso quando tentare l'operazione, ma in caso dovesse prender luogo prima della tua partenza, tu ti proporresti e rischieresti con noi?" mi domandò con tono serio.
"Puoi contarci" lo tranquillizzai, annuendo con aria professionale e decisa.
"Perfetto allora" sorrise, abbozzando un sorriso.
"Benvenuto a bordo, Gerard."

Nel frattempo, giù al paese la notizia del ritorno di Gerard era passata di bocca in bocca fino a raggiungere le orecchie di tutta la popolazione, ora radunata al bar davanti a un bel boccale di birra e intenta a discutere sul da farsi. Avrebbero dovuto mostrare compassione per lui, essere gentili e cordiali, fargli capire che gli volevano ancora bene, oppure avrebbero dovuto trattarlo malamente e con scortesia, sgambettarlo di proposito ed evitare addirittura di rivolgergli la parola? Da una parte, la comunità non lo riteneva colpevole per la scomparsa della mascotte, ma dall'altra chi altri poteva averlo fatto, se le sole tracce rilevate erano le loro?
"Secondo me dobbiamo steccarlo prima che inquini le acque" affermò una voce roca e profonda. Un paio di occhi si girarono a squadrarlo, pendendo letteralmente dalle sue labbra per una spiegazione leggermente più esaudiente.
"Se tornasse la polizia, noi che ci guadagneremmo, a parte un calo di clienti e un sacco di ficcanaso in giro per la città?" riprese, esponendo la situazione in modo convincente e puntando immediatamente al piano economico.
"Vi ricordate com'erano stati i primi, no? Scortesi, sporchi, rozzi, senza il minimo concetto di gradevolezza e rispetto per delle persone che hanno appena subito un lutto e vogliono tornare alla propria vita. Se tornassero a ''investigare'' non ci guadagnerebbe nessuno, visto che ormai il ragazzo è perso
– e qui si fece mestamente il segno della croce, indirizzando una preghiera alla foto che pendeva dal soffitto e deglutendo visibilmente – e gli indizi sono stati cancellati dal tempo, dagli agenti atmosferici e dagli investigatori stessi, durante i primi mesi di ricerca. Siamo stati gentili, abbiamo sopportato le loro mancanze e abbiamo ignorato il loro basso livello di civiltà per tutto il tempo che sono rimasti qua, ma sono sicuro che riavere tra noi quella gentaglia non è la cosa migliore per nessuno, specialmente per la città e per la sua fama. Chi volete che venga a visitare un paesino invaso dai militari, chi si ferma ad alloggiare in un luogo in cui tutto è sigillato dai divieti della contea, chi prova anche solo ad avvicinarsi a un posto in cui operano indisturbate le forze dell'ordine, incuranti di trattare gli altri con rispetto e dignità? Per me, dovremmo risolvere il problema alla radice" ribadì, alzando lo sguardo.
"Hai anche ragione, vecchio mio, ma come giustificheremmo i nostri comportamenti?" obiettò uno.
"Non dovremo farlo, e, se si presentasse l'occasione, potremo anche dire che lo facciamo per il suo bene, per chiudere la ferita che quel ragazzino ha lasciato nel nostro povero cuore" rispose, tranquillo.
"Forse dovremmo limitarci a non assecondarlo e basta" propose una vecchietta.
"Voglio dire, rispondergli, sì, ma in modo confuso e superficiale, in modo che decida da solo di lasciar perdere le indagini e di archiviare tutto" si spiegò meglio. Qualcuno annuì e qualcuno applaudì.
"Effettivamente, è più sicuro" ammise il primo a parlare, abbozzando un sorriso di circostanza.
"Ma sappiate che da me non riceverà risposte" ammonì, sistemandosi la giacca, posando il boccale sul bancone e uscendo in silenzio dalla sala, senza attirare l'attenzione di molti. La riunione si concluse pochi minuti dopo e i cittadini considerarono soddisfacente l'ultima proposta fatta, pagarono, sistemarono la stanza e uscirono, senza fretta, dirigendosi ognuno verso il proprio luogo di lavoro, con un'aria un po' più rassicurata. Ora sapevano come affrontare degnamente il ritorno di Gerard Way.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Ci vollero una quindicina di minuti circa per venire a conoscenza di tutto quello che avevano rinvenuto negli anni, delle loro strategie, dei pericoli che correvano, di ciò che dovevano assolutamente evitare, di quello a cui dovevo prestare particolare attenzione e della maniera in cui dovevo comportarmi per restare il più possibile nell'ombra e rimanere al sicuro. Alla fin fine, fui costretto ad ammettere che si erano organizzati davvero bene e che avevano pensato a tutto prima di lanciarsi a capofitto nella sfida, e fui invaso da un improvviso senso di ammirazione e commozione nei loro confronti che aumentò giorno dopo giorno.
"Gerard, vieni un po' qua" mi chiamò il riccio, costringendomi ad abbandonare la mia postazione.
"Cosa c'è?" domandai, sporgendomi e guardando oltre la sua spalla.
"Sta succedendo qualcosa giù in paese" mi spiegò, assumendo un'aria corrucciata.
"Probabilmente stanno parlando del tuo ritorno e stanno architettando qualcosa come loro solito. Tra di loro c'è ancora qualcuno profondamente convinto che sia stato tu a rapire e uccidere il moro, seppellendo poi il suo cadavere e pianificando in modo perfetto una specie di macchina che ti avrebbe fatto cadere in coma per distogliere da te gli occhi della polizia. Sono delle supposizioni che non reggono, ovviamente, e non sono molti quelli che le sostengono, ma c'è comunque il rischio che prendano di nuovo il sopravvento sulla cittadinanza e che ti facciano passare delle situazioni spiacevoli" storse la bocca.
"Vedrò di andare a impicciarmi e cercare di carpire qualche voce, ma per ora è meglio che tu non scenda in paese a meno che non sia strettamente necessario, okay?" m'informò, respirando rumorosamente.
"D'accordo, aspetterò un tuo segnale" annuii, inumidendomi le labbra.
"Ah già, a proposito, c'è ancora una cosa che devo darti" esclamò, dirigendosi verso l'armadio.
"Usa questo per comunicare con noi, è più sicuro ed è difficile da intercettare, visto che nessuno si mette mai ad ascoltare la radio e ad armeggiare tra le frequenze" mi spiegò, passandomi un walkie-talkie.
"E in caso tu te lo stia domandando, no, questo non è uno di quei ricevitori giocattolo che prendono solo per i primi tre metri e poi perdono ogni segnale" sorrise, leggendomi negli occhi. Arrossii e abbassai lo sguardo, imbarazzato, lui si massaggiò allegramente i capelli e si guardò intorno.
"Be', io vado. Tu e gli altri fareste meglio a tornare a casa ora: per stasera è di nuovo prevista nebbia e con la guida spericolata di Lindsey.. be', non so se riuscireste ad arrivare oltre la prima curva" osservò, chinandosi in avanti giusto in tempo per evitare il libro che la bionda gli aveva lanciato.
"Che sono ste calunnie?" esclamò, incrociando le braccia sul petto e fingendosi offesa. Ray rise sotto i baffi e ci salutò con un cenno della mano, si arrampicò sulla scaletta, si chiuse il portellone alle spalle e si avviò verso la sua automobile, nascosta qualche chilometro più a destra. Una quindicina di minuti dopo sentimmo l'eco del rombo di un motore e ci tranquillizzammo, tornando al nostro lavoro e in seguito a guardarci in faccia.
"Mi pare di capire che le parole di Ray vi abbiano inquietato un po'.." borbottò la bionda, rompendo il silenzio con una risata di circostanza.
"Okay, okay, andiamo, finiremo il lavoro domani" concesse poi, alzando le mani al cielo con fare teatrale.
"Huh? Non ti preoccupare, Lin, io rimango quindi ancora per un po'. Ho ancora della roba da finire ed è meglio farlo ora, così domani posso dedicarmi a qualcos'altro" sorrise James.
"Sei sicuro?" domandò la bionda, aggrottando la fronte.
"Più che sicuro, non preoccuparti. Tanto mia madre è fuori e non c'è nessuno che mi aspetta per cena" la tranquillizzò, alzando gli occhi scuri dalla sua postazione e posandoli sul volto contratto di Lindsey.
"Davvero, non c'è problema, è roba da poco. Voi andate intanto, o farete stare in ansia qualcuno".
"Hai ragione" annuì la ragazza, scuotendo delicatamente il capo.
"Se faccio tardi un'altra volta mia madre mi sbrana" commentò, come se avesse dovuto spiegarmelo.
"Allora a domani, Jay" lo salutò. Lui alzò il pollice e sfoggiò un gran sorriso, rassicurandoci notevolmente.
"Non stare alzato troppo a lungo e non strafare, ok?" lo ammonì nuovamente lei, esitando un attimo prima di salire sulla scaletta e lasciarselo alle spalle. Lui ribatté con un okay e tornò al suo lavoro, così raccattammo un pacchetto di sigarette per me e ce ne andammo, lasciandolo libero di muoversi come desiderava.
"Di che cosa si sta occupando?" domandai dopo un centinaio di metri, senza alzare lo sguardo sugli altri.
"Ce lo dirà domani di sicuro, non ti preoccupare. Ho provato a guardare tra i suoi appunti, una volta, ma non ci si capisce niente ed ho dovuto lasciar perdere per il bene della mia salute mentale" rispose Columbia.
"Ha un modo tutto suo d'esprimersi" precisò Steve, che lo conosceva da più tempo di tutti.
"All'inizio è complicato capirlo, ma dopo un po' ci si fa l'abitudine e viene spontaneo leggere nella sua 'lingua'" ci spiegò con una scrollata di spalle. Mormorai un 'capisco' e cadde di nuovo il silenzio. La notte stava calando velocemente e noi avevamo appena raggiunto l'auto quando sentimmo il primo urlo.
"Che cos'è stato?" domandò la riccia, impallidendo.
"P-proveniva dal laboratorio" disse lo stecco con un filo di voce.
"Ommioddio" realizzò Lindsey, sgranando gli occhi e cominciando subito a correre. La seguii a ruota e corsi il più velocemente possibile, scansando rami e rovi con le mani ed ignorando il sangue che aveva cominciato a scorrervi sopra, cercando solo di non rimanere troppo indietro e di riuscire ad arrivare al rifugio assieme a lei.
"James? Jimmy, dove sei?" gridò appena arrivata, fermandosi davanti all'entrata per riprendere fiato. La porta di cemento era spostata, segno che qualcuno era uscito di fretta senza curarsi di rimetterla a posto, e da dentro non proveniva il minimo rumore, sebbene la luce fosse ancora accesa. Lindsey inorridì e il suo viso si sbiancò improvvisamente, sostituendo il colorito rossastro che l'aveva avvolta subito dopo la corsa.
"Jaaaaames" lo chiamò di nuovo con tutto il fiato che aveva in gola, mentre gli altri ci raggiungevano e si guardavano intorno con occhi sbarrati e terrorizzati.
"Voi andate di là, io lo cercherò da questa parte" esclamò quindi, partendo alla sua ricerca e correndo a rotta di collo giù per la foresta, seguendo una delle due flebili tracce che nascevano accanto al rifugio. Scattai subito dopo di lei e cercai di seguirla, intuendo che lasciarla da sola non era affatto sicuro, ma il mio abbigliamento e la mia scarsa atleticità rendevano difficile starle dietro, aggiungendo anche il fatto che vedevo quei boschi come se fosse la prima volta e che quindi non conoscevo tutte le scorciatoie che stava imboccando lei. Sentivo i polmoni bruciarmi sempre più forte e le gambe farsi sempre più pesanti, mentre la bionda si allontanava a velocità sempre maggiore e mi lasciava indietro, troppo concentrata sull'amico per rendersene conto, ma non volevo darmi per vinto. La rincorsi per un paio di metri, poi inciampai su una radice e la persi completamente di vista, rimanendo solo e spaesato nel sottobosco, senza essere capace di tornare indietro o far qualcosa che non fosse inoltrarmi e perdermi ancora di più tra gli alberi. Cercai il walkie-talkie nella tasca destra ma la trovai vuota, realizzando nel terrore che doveva essermi caduto quando ero andato addosso a una rosa, appena superata la base, quindi mi presi la testa tra le mani e mi raggomitolai su me stesso, cercando di calmarmi. Tutto mi sembrava rivolto a uccidermi e le sagome nere dei pini saettavano sopra di me coi loro aghi verdi, che a causa della penombra mi sembravano armi affilate e pericolose. Non sono mai stato uno particolarmente bravo a reggere le situazioni dure e stressanti, quindi scivolai velocemente nel panico più completo e mi convinsi presto del fatto che sarei morto lì, che nessuno mi avrebbe trovato e che sarebbero stati tutti delusi di me, mentre il misterioso rapitore l'avrebbe fatta franca e se la sarebbe svignata con il ragazzo, senza tornare mai più sui suoi passi e facendo perdere completamente le sue tracce. Che poi lui era anche la vittima perfetta, a causa della sua costituzione secca e magra, e non ci sarebbero stati problemi per un uomo ben allenato a portarselo sulle spalle anche per chilometri interi, in salita o discesa che fosse. Mi turbinarono in mente le parole di Lindsey, sulla difficoltà e sulla pericolosità delle loro indagini e su quanto sarei dovuto stare attento per evitare sciagure, e non potei evitare di sentirmi male e in colpa per la sparizione improvvisa del punk, che in fin dei conti stava solo cercando di aiutarmi a dimostrarmi innocente agli occhi dell'intera comunità, convinta della mia colpevolezza e del fatto che non sarei mai riuscito a liberarmi delle accuse. Mi venne da vomitare e strinsi più forte gli occhi, pensando a qualunque cosa che potesse aiutarmi a ricordare, a tranquillizzarmi, a farmi venire qualche idea o anche semplicemente a recuperare un po' di energie, giusto quante ne bastavano per riprendere la corsa e raggiungere la bionda, ormai sparita chissà dove. Rimasi con la schiena contro un albero, immobile, per una decina di minuti, poi respirai a fondo e mi rimisi in piedi, pronto a ripartire e mettercela tutta per ritrovare il mio nuovo amico. Optai per proseguire verso sinistra, dove la radura si faceva meno fitta e da dove avrei potuto controllare meglio la zona, per scoprire dove si trovassero gli altri e, chissà, magari anche dove si fosse nascosto il rapitore. Ricaricato, cominciai a trottare verso lo spiazzo circolare, probabilmente creato per far atterrare degli elicotteri, e salii in cima a una roccia, alzandomi poi sulle punte per poter avere una visuale più completa della zona e poter scorgere più facilmente i miei amici. Il buio si faceva notare sempre di più e faticai a trovarli tutti, ma a parte quello non rilevai altra traccia, così mi spostai e li raggiunsi, tenendo gli occhi ben aperti. Dopo un centinaio di metri, scorsi una sagoma avviarsi verso nord e aggrottai la fronte, avvicinandomi il più possibile senza fare troppo rumore.
"Lindsey?" la chiamai, quando fui abbastanza vicino da farmi sentire senza urlare troppo.
"Oddio, ancora tu?" sbuffò quella, irritata, facendo cadere qualcosa e provocando un tonfo sordo.
"Perché non ti decidi a morire?" sibilò, raccogliendo qualcosa da terra e tirandomela contro, per poi cominciare a scappare, imboccando una direzione completamente diversa e ignorando i rami che le sbattevano contro il volto, graffiandoglielo. Il sasso lanciato mi beccò dritto in fronte e fui costretto a fermarmi un attimo per massaggiarmi la testa e asciugarmi il piccolo rivolo di sangue che ne era uscito, riprendendo a seguire lo sconosciuto pochi secondi dopo, con velocità maggiore. Corsi per una decina di metri e mi fermai solo quando inciampai su quello che la sagoma aveva fatto cadere pesantemente, pochi minuti prima, sbattendo la testa e perdendo velocemente i sensi.

Fu Columbia a trovarmi, qualche ora dopo. Mi scosse la spalla con delicatezza e mi chiamò più volte con apprensione, cercando di scorgere un guizzo di lucidità tra i miei capelli rossi e pizzicandomi le guance per vedere se ero sveglio. Storsi la bocca e lei esultò, allontanandosi dalla mia faccia.
"Dove.. dove sono?" domandai, tirandomi lentamente a sedere e portandomi una mano alla testa.
"Nel bel mezzo della foresta, devi aver dato una craniata contro qualcosa" mi spiegò, sollevata.
"Ce la fai a camminare?" chiese quindi, guardandomi silenziosamente mentre mi alzavo in piedi e muovevo qualche passo incerto a destra e sinistra. Sorrise e si alzò, mettendosi il mio braccio attorno alla spalla.
"Dio, svengo sempre nei momenti più importanti.. sono proprio inutile" sputai, maledicendomi mentalmente.
"Oh no, al contrario" ribatté lei con un sorriso, godendosi la mia smorfia di stupore.
"Vedi, quello su cui sei inciampato era il corpo di James
– mi spiegò, avviandosi lentamente verso la base – e grazie a te siamo stati in grado di recuperare entrambi e portare lui in macchina con una camicia stretta attorno alla vita, visto che perdeva molto sangue. Abbiamo prestato i primi soccorsi e abbiamo cercato più volte di svegliarlo, ma ho paura che come te sia entrato in coma e che quindi sarà fuori uso per un po' di tempo" m'informò, storcendo la bocca.
"Però il coma è sempre meglio della morte, no? Almeno sappiamo che sta bene e che potrà guarire presto, se tutto va bene, e che comunque non è finito nelle mani di quel.." interruppe la frase con sospiro irritato e intuii che si sentiva tremendamente in colpa, oltre che arrabbiata. In qualche modo si riteneva responsabile dell'accaduto, proprio come me, e la sentii un po' più vicina.
"Columbia" mormorai, appoggiando un passo a terra ed esitando un attimo a proseguire.
"Sì?" rispose lei, fermandosi con me.
"Non è stata colpa tua". Lei rimase in silenzio e s'inumidì le labbra, abbassando lo sguardo.
"E neanche colpa tua" replicò, abbozzando un sorriso.
"Grazie" sospirai, riprendendo a camminare. Nonostante tutto la tensione si era un po' allentata e non potei fare a meno di domandarmi se fosse effettivamente stata colpa mia; voglio dire, torno in città e incontro delle persone che passano i loro giorni a cercare indizi su un vecchio caso di scomparsa, e improvvisamente uno di loro viene rapito e abbandonato appena mi avvicino io, scivolando in coma. Un po' surreale, no?
"Gerard, Columbia!" ci sentii chiamare, poi la silohuette del castano sbucò fuori dal bosco e ci raggiunse.
"Allora, roscio, come stai?" mi domandò, prima che il suo sguardo si scontrasse col mio bernoccolo e con il sangue rappreso che mi aveva appiccicato i capelli alla faccia.
"Er, male direi" mormorò, spostando poi il braccio della riccia e prendendomi sulle spalle, rassicurando Columbia con un sorriso e un 'lascia, faccio io'. Mi adagiai sulla sua schiena e posai il viso accanto al suo collo fino, mentre lui mi riportava alla macchina e mi faceva sedere sul sedile accanto a James e alla bionda.
"Dio santo, che cazzo hai fatto alla faccia?" mi domandò Lindsey, che non mi aveva ancora visto.
"Niente, sono caduto" mentii, sistemandomi meglio accanto a lei.
"Sto molto meglio di quanto sembri, davvero" aggiunsi, sorridendo e abbassando lo sguardo sul punk.
"E così è un coma anche lui, eh?" borbottai. La ragazza annuì, accarezzandogli il volto con delicatezza.
"Poteva andarci peggio però" mormorò, chinandosi in avanti per baciargli i capelli e pulirgli ancora una volta il viso dal terriccio, tornando poi a guardarmi con un sospiro malinconico.
"Dobbiamo andare fino a fondo a questa storia" affermò, mordendosi il labbro.
"Prima che sia troppo tardi" rimase solo un pensiero, ma la frase rimase sospesa nell'aria finché Steve non tornò e mise in moto l'auto, accendendo per una delle prime volte la radio. Calò un silenzio di tomba e tutti trattenemmo il respiro il più possibile mentre lo speaker parlava, blaterando informazioni inutili sul freddo e sulle festività in arrivo ma senza accennare minimamente ad alcun criminale evaso di prigione o qualcosa del genere. Col cuore in gola, il ragazzo parcheggiò vicino all'ospedale e portò dentro il nostro amico, mentre la tensione dentro la macchina si faceva a dir poco insopportabile e ognuno di noi sembrava sul punto di crollare.
"E insomma, siamo qui.." mormorò una delle due ragazze, guardando per terra e mordicchiandosi il labbro. Mi alzai in piedi di scatto e uscii fuori dalla vettura, sbattendo la portiera e inondando i miei polmoni d'aria fresca, espirando lentamente e dirigendomi poi verso la fontanella più vicina. Mi lavai per bene la faccia e mi scrostai i capelli dal sangue rappreso, pulendoli pian piano ciocca per ciocca, poi li strizzai e scrollai la testa a mo' di cane, in modo da rimuovere tutta l'acqua possibile e ridurre di un po' le possibilità di prendermi un malanno. A quel punto mi asciugai le mani sui pantaloni, controllai di avere il portafoglio e mi diressi verso il supermercato; entrai tenendo lo sguardo basso, buttai un paio di cose nel carrello e pagai, andandomene poi altrettanto velocemente. Rovesciai le buste sul cofano dell'auto, agguantai il disinfettante e ne versai un po' su un pezzo di cotone, quindi mi pulii meglio le ferite, serrando i denti per il dolore, e tenni premuto il batuffolo puzzolente contro la carne per un po' di minuti, finché il pizzicorio diminuì notevolmente. Presi la scatola delle garze, l'aprii e ne srotolai una, la tagliai coi denti e me la sistemai sulla mano, fissandola con un nodo, poi feci la stessa cosa sull'altra mano e aprii e chiusi i pugni, per vedere quanto potessi muoverle. Ignorando il bruciare, presi un cerotto abbastanza grande e me lo sistemai sulla fronte, coprendo il taglio e parte del livido, quindi rimisi tutto nella busta e aprii la portiera, rientrando in macchina sotto gli sguardi sbarrati delle due ragazze.
"Gerard.. tutto ok?" domandò Lindsey, alzando le sopracciglia.
"Sì, certo, più o meno" risposi, mettendomi a frugare nella borsa e tirandone fuori delle merendine.
"Avevo bisogno di una boccata d'aria, tutto qua" spiegai, abbozzando un sorriso.
"Sembravi incazzato" obiettò Columbia, mordendosi il labbro.
"Oh. Mi dispiace, non lo ero per niente" mormorai, inumidendomi le labbra. Rimanemmo in silenzio qualche secondo, a guardarci, poi la bionda sospirò e agguantò una merendina, scartandola.
"Be', per farti perdonare devi offrire" decise, addentandola. Columbia seguì il suo esempio ed io mi rilassai.
"Notizie di Steve?" domandai, lanciando uno sguardo all'entrata di emergenza. Lindsey scosse il capo.
"Niente di niente, ma c'è la possibilità che torni da un momento all'altro" espose.
"Non sarebbe il caso di andare a dare un'occhiata?" proposi.
"Forse, ma tu dovresti comunque rimanere in macchina. Steve non sarà contento di sapere che sei andato in un supermercato facendoti vedere da un casino di gente, figurati se lo raggiungessi lì" commentò.
"Comunque è meglio se avvisi i tuoi, tua madre potrebbe stare in ansia" mi consigliò con tono dolce.
"A casa c'è solo mio padre" replicai, scrollando le spalle. Lei storse la bocca e guardò Columbia di sottecchi.
"Che c'è?" domandai, intercettando lo sguardo e irrigidendo la mascella.
"C'è che tuo padre ci ha tirato dietro metà della tua roba quando te ne sei andato" rispose la riccia.
"E c'è che si è trasformato in uno stronzo totale" aggiunse Lindsey, facendo una smorfia.
"Oh" mormorai, rilassando di colpo i muscoli.
"Niente di nuovo allora" osservai, scuotendo la testa. Che mio padre fosse uno stronzo era cosa nota.
"Però gli sei mancato" obiettò la bionda dopo un attimo di silenzio.
"Come, scusa?" replicai, leggermente scettico.
"Massì, gli sei mancato. Voglio dire, ogni volta che sentiva nominare il tuo nome in bocca a un concittadino gli si rabbuiava il viso e gli diceva di smetterla, e certe volte l'ho pure visto visitare la tomba di Frank" spiegò. Rimasi un attimo a rimuginare, confuso, e cercai d'immaginarmi mio padre che mi aveva perdonato ed era disposto a ricominciare da capo, ma senza riuscirci molto bene.
"Mi ha detto che non sono il benvenuto in quella casa, non credo mi rivoglia in dietro" commentai. La bionda rimase in silenzio e si morse le labbra, respirando profondamente, poi tornò a guardarmi.
"Sei sicuro di non ricordare proprio niente?" domandò. Scossi la testa, dispiaciuto, e sospirai.
"Non so cosa sia successo a Frank, mi dispiace" dissi, scandendo bene le parole.
"E di quello che è successo a Jimmy..?" suggerì, speranzosa.
"Io.. ti stavo rincorrendo, ma a un certo punto sono inciampato e ti ho persa di vista. Avevo perso il walkie-talkie da qualche parte quindi ero nel panico più totale e mi davo già per spacciato, come davo per spacciati lui, te e tutto il mondo
– sorrisi e scossi la testa –. Nei momenti di panico sono una vera testa di cazzo, ma ero terrorizzato e non riuscivo a pensar bene, così mi sono rintanato sotto un albero e sono rimasto lì a sentirmi respirare per una decina di minuti, poi mi sono alzato e ho notato uno spiazzo libero dagli alberi con una roccia enorme in mezzo, allora mi sono avvicinato, ho scalato la roccia e vi ho cercati con lo sguardo. Vi ho localizzati e mi sono messo a correre nella vostra direzione, solo che a un certo punto ho visto una figura che prima non avevo scorto aggirarsi per il sottobosco e mi sono avvicinato a lei per chiarirmi un po' le idee. Pensavo fossi tu, Lin, quindi l'ho chiamata, quella si è voltata e ha detto qualcosa come "Ancora tu? Perché non muori?", ha lasciato cadere qualcosa e mi ha tirato un sassone in faccia. Io mi sono fermato, ho tolto un po' di sangue e ho ripreso a corrergli dietro, ma sono inciampato in Jimmy e ho battuto la testa su qualcosa, svenendo istantaneamente" riassumetti, sotto lo sguardo attento delle due.
"Come potete vedere, sono utile quanto un albero" aggiunsi poi, sorridendo sotto i baffi.
"E la sua voce, la sua voce com'era?" insistette Columbria.
"Era strana, come se lo sconosciuto stesse portando una maschera che gli rendeva particolarmente difficile parlare, quindi non saprei ben dire se fosse di un uomo o di una donna, però in effetti non era una voce poi così bassa" risposi.
"Hmm, vedremo di lavorarci sopra" borbottò la ragazza, prendendosi il mento tra le mani.
"Per ora faremmo meglio a tornare a casa" annuì Lindsey, aprendo lo sportello e rientrando da davanti.
"Manderò io un messaggio a Steve, capirà di sicuro" ci tranquillizzò, girando le chiavi e premendo con decisione sull'acceleratore, andando molto più piano di quanto avessi temuto.
"Ti chiamerò stasera per dirti la versione per i medici, comunque, non si può mai sapere" aggiunse.
"D'accordo" dissi, sprofondando nel sedile. Dieci minuti dopo ero all'inizio della mia strada e stavo scendendo dall'auto, salutando con la mano le mie amiche e dirigendomi verso casa mia con le chiavi in mano. Infilai la chiave nella toppa e aprii la porta il più lentamente possibile, per fare poco rumore.
"E' questa l'ora di rientrare?" borbottò mio padre dal salotto con uno sbuffo.
"Ho ventitré anni, pa', puoi anche evitare di farmi la morale" ribattei, passando velocemente alle sue spalle.
"Siamo comunque a casa mia, quindi devi rispettare le mie regole" grugnì.
"Immagino che la prima sia 'sii chi non sei e scopati le persone giuste', o sbaglio?" replicai.
"Sarebbe un buon inizio". Storsi la bocca e cercai il mio borsone, svuotando tutti i cassetti possibili.
"Papà, dove hai messo la mia borsa?" gli domandai, tornando nella stanza.
"L'ho buttata fuori stamattina" rispose tranquillamente, senza staccare gli occhi dalla televisione. Corsi fuori e trovai lo zaino mezzo rovesciato sotto il cespuglio di rose vicino alla porta, lo raccolsi e tornai in camera, senza dargli soddisfazioni. Sistemai per bene i vestiti nei cassetti e mi sdraiai sul letto, poi il telefono squillò.
"Lindsey?" risposi, alzando istantaneamente la cornetta.
"Hanno arrestato Steve."

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


combattere contro il passato (cap 6) "C-che cosa?" sibilai, poi sgranai gli occhi e mi attaccai con entambe le mani al ricevitore, sgomento, mentre l'ultima frase rimbombava nella mia testa e si faceva strada tra tutti gli altri pensieri.
"Non posso dirti altro per ora, questa linea non è sicura. Comunque passo a prenderti fra poco, vedi farti trovare pronto, okay?" si limitò ad aggiungere, facendo scattare qualcosa che probabilmente era il cancello di casa sua e sbattendoselo alle spalle senza troppa delicatezza. Annuii, deglutendo, e la bionda riattaccò, lasciandomi solo con i miei dubbi e una stanza troppo piena di ricordi da affrontare.
Dieci minuti dopo ero già seduto sul sedile posteriore della sua macchina, a rigirarmi i pollici e assillarmi il cervello di domande a cui non avevo risposta, mentre lei si concentrava sulla guida e passava a prendere la riccia, ostentando una calma e un autocontrollo da far invidia a chiunque. Quando fummo tutti riuniti nell'auto, ci fece cenno di tacere e si voltò a guardarci.
"Come tutti ben sapete, poco fa hanno arrestato Steve" cominciò, mentre noi annuivamo.
"Quello che non sapete ma che potete benissimo immaginarvi date le circostanze, è che l'hanno fatto perché lo ritengono colpevole di quello che è successo a Jimmy. Ora, visto che siamo tutti a conoscenza del tentato rapimento che è avvenuto questo pomeriggio, la loro mossa ci sembra assurda e sbagliata, ma purtroppo, mettendoci nei loro panni, possiamo capire perfettamente che non si sono mossi per puro divertimento, ma che fanno semplicemente il loro lavoro e che credono di fare la cosa giusta nel fargli scattare le manette attorno ai polsi. Adesso, nonostante sappiamo tutti che non è stata colpa sua e che non c'entra minimamente con quello che è successo questo pomeriggio, non possiamo andare lì dai poliziotti e dirgli: 'no, guardate, vi state sbagliando, perché a tramortire James è stato uno sconosciuto  o una sconosciuta, non voglio tralasciare nessuna possibilità – che però non siamo riusciti a identificare perché portava una maschera e faceva buio'. Voglio dire, chi mai ci crederebbe? Oltretutto, il fatto che il tentato rapitore portasse una maschera va contro di noi, perché questo non esclude la possibilità che possa essere stato Steve a travestirsi prima di aggredire Euringer e mandarlo in coma, così che non potessimo riconoscerlo e incolparlo di tutto. Ci siamo divisi e abbiamo percorso tutti una strada diversa, quindi nessuno di noi può confermare di essere stato al suo fianco, come nessuno di noi può provare di essere stato in un determinato luogo a una determinata ora, appunto perché stavamo da soli e non in coppia. In parole povere, il nostro amico ci ha fregati alla grande."
Storse la bocca in segno di scoffitta e noi annuimmo, aspettando che riprendesse a parlare, anche solo per decidere come ci saremmo comportati da quel momento in poi, e lei lo intuì, così s'inumidì le labbra e respirò sonoramente, come per riattirare la nostra attenzione.
"Ora, le possibilità che abbiamo non sono molte. Possiamo comportarci come se niente fosse e riprendere con le ricerche, stavolta del nuovo rapitore, e vedere se riusciamo a cavare qualche ragno dal buco; oppure possiamo continuare a setacciare tutto e cercare di stanare il rapitore del moro, come non molti si aspettano di vederci fare e come io in prima persona non riesco a immaginarci. Il problema principale è proprio questo: tutti, o meglio, il rapitore, si aspettano di vederci sulle tracce del vero colpevole, e facendo questo saremmo non solo terribilmente prevedibili, ma anche più esposti, in caso lui o lei volesse tornare e riprovare a farci lo sgambetto. Se però tornassimo a occuparci del vecchio caso, rischieremmo di perdere informazioni e indizi freschi ed importanti, e ci lasceremmo sfuggire un'occasione fin troppo utile per trovare il rapitore numero due, che per quanto ne sappiamo potrebbe ancora trovarsi nei paraggi. Ed è proprio in questo momento che salta fuori la possibilità numero tre, ovvero che i due ricoveri siano collegati e che l'uomo in questione sia dietro entrambe le azioni, e che abbia aspettato apposta tutti questi anni solo per ricreare una situazione simile alla prima, con Gerard come unico spettatore e indiziato. Ma, proseguendo con l'analisi del piano, questa volta qualcosa va storto e l'uomo non solo non riesce a portare via la sua vittima, ma fa arrestare la persona sbagliata. A questo punto, arrabbiato e deluso, non vuole comunque arrendersi e rimane nascosto nei dintorni, a studiare le reazioni del gruppo di ragazzi che prima si divertivano a fare i detective investigando sul loro stesso caso e che ora si trovano davanti a una scelta difficile, dalla quale dipendono molte cose più grandi di loro."
Fece una pausa per guardarci negli occhi, il che rese la tensione nella macchina molto più palpabile.
"Credo abbiate capito pure voi che a questo punto dobbiamo girare sempre in coppia e sempre con un walkie-talkie sotto mano, in caso ci potesse servire, e che dobbiamo tenere gli occhi ben aperti in ogni momento. Le possibilità ve le ho esposte, ma è necessario decidere cosa sia meglio fare al più presto, in modo da non permettere al nemico di organizzarsi e prepararsi prima di noi" concluse.
Columbia alzò un attimo la mano per esporre la sua idea, mentre io rielaboravo le ultime informazioni ricevute e Lindsey riprendeva fiato con un sospiro sonoro, prima di accordarle la parola.
"Allora, per prima cosa secondo me dovremmo dare un nome ai due rapitori per distinguerli fra loro, o finiremo con l'incasinarci ancora di più e rischieremo di creare un sacco di malintesi."
Annuimmo in segno d'assenso e lei proseguì.
"Bene, direi che il primo, quello più ignoto, potremmo chiamarlo Anonymous, come l'organizzazione, oppure Anthony, visto che la sua vittima è stata il moretto; mentre il secondo, di cui abbiamo quasi la certezza del sesso, potrebbe chiamarsi Urine, che è appunto il soprannome della sua vittima. In questo modo manterremmo un rapporto tra aguzzini e attaccati, e potremmo anche parlarne in pubblico senza dare troppo nell'occhio in caso qualcuno ci stesse ascoltando" propose.
"A questo punto, andrei ancora avanti. Se abbandoniamo la prima pista per concentrarci sulla seconda, potremmo incappare in due situazioni differenti: nell'ipotesi numero uno, finiremmo dritti nella trappola di Urine e faremmo il suo gioco, inoltrandoci sempre di più nella sua rete e finendo con l'agire al posto suo; mentre nella numero due, quella positiva, daremmo una mano alla polizia e avremmo anche la possibilità di trovare qualche indizio interessante, mentre Urine è troppo impiegato a nascondersi e a far perdere le proprie tracce, stando però attento a non allontanarsi troppo dalla città. Nella seconda ipotesi, inoltre, escludo la probabilità che il rapitore ci stia spiando perché, appunto, troppo impegnato a prendersi cura della sua copertura, e perché convinto che abbiamo abbandonato la seconda possibilità per tornare a concentrarci sulla prima, più sicura e dalle azioni meno prevedibili. Il vantaggio della seconda è che, se agiamo in silenzio e riusciamo a giocarci bene le nostre carte, il nostro amico potrebbe credere che abbiamo archiviato completamente il caso meno recente perché troppo pericoloso, o perché pensiamo che sia troppo ovvia come scelta. In sintesi, la possibilità numero uno dice che, cercando di stanare Urine, potremmo finire dritti nella sua trappola, mentre la seconda ci dà più speranza e ci dice che, se siamo abbastanza fortunati, lui è troppo sicuro di se per considerarci, o troppo sprovvisto per vagliare tutte le scelte, in quanto il nostro sarebbe una specie di doppiogioco. In che senso doppiogioco? Be', semplice: se scegliessimo di correre dietro a Urine, sarebbe allo stesso tempo la scelta più ovvia e la scelta più assurda, perché è sia la prima cosa che viene in mente, sia l'azione che uno farebbe dopo averci pensato. Ragionateci un attimo: se tornassimo a indagare sulla scomparsa del moro, non lo faremmo proprio per evitare di cascare nella ragnatela del secondo rapitore? A questo punto, forse sarebbe più efficace intignarsi sulla cosa più ovvia, perché se ci si pensa poco è fin troppo ovvia da venir scelta."
Fece una piccola pausa per permetterci di rifletterci un attimo.
"Okay, detto così è un casino assurdo, però quello che dico ha un senso. Se indaghiamo sul caso Urine, può andarci sia bene che male, ed è un dato di fatto. Se invece torniamo a concentrarci sul moro, può andarci sia bene, se scopriamo perché il rapitore è stato costretto a esporsi una seconda volta, sia male, se invece non scopriamo un bel niente e lasciamo che qualcun altro inquini la nuova scena del crimine. Poi, come ha detto Lyn, può sorgere una terza scelta, ovvero quella di considerare i due casi collegati, cosa che ho già fatto e che ci riporta al caso Urine e al lavoro di James. Insomma, comunque la mettiamo dobbiamo lasciare aperti entrambi i casi e concentrarci su entrambe le cose, anche se questo significa rischiare molto di più e dormire molto di meno."
"Anche se ha fatto un ragionamento molto contorto, Columbia ha centrato il punto" sorrise Lindsey.
"Quindi ora che facciamo?" domandai io, sentendomi un perfetto idiota per non aver ancora capito nulla.
"Se sei disposto a mettere a repentaglio la tua pellaccia, andiamo a perlustrare il bosco" 
"Ma non è pericoloso?" questionò la riccia, arricciando il naso.
"Voglio dire, lo sarebbe in condizioni normali, ma di notte? Finiremo di sicuro in qualche dirupo"
"Dovremo correre il rischio, mi sa. E' l'ultima cosa che si aspetta Urine, proprio perché è la più pericolosa e proprio perché rischiamo terribilmente ad avventurarci lì senza avvertire nessuno" spiegò.
"Se aspettiamo domani potrebbe essere troppo tardi" aggiunse, seria.
Rimanemmo un altro paio di minuti in silenzio, a soppesare i pro e i contro, poi esplosi in un sospiro rassegnato e feci un cenno con le mani come a dire 'fanculo, io ci sto' e Lindsey sorrise.
"E tu, babe? Sei pronta a rischiare?"
Columbia si lasciò sfuggire una breve risata da sotto i baffi e annuì.
"Ci sono dentro fino al collo" esclamò, arcuando le labbra in un ghigno spavaldo.
"D'accordo, allora
ribatté la bionda. Ma badate che, da ora in poi, nessuno si può più tirare indietro".
Poi infilò le chiavi, accese l'auto e spinse forte l'acceleratore.


Arrivammo allo spiazzo di prima dopo una ventina di minuti circa. Visto il buio, la bionda aveva guidato più lentamente, ed era stata anche più attenta a ciò che avevamo incontrato man mano che la macchina andava, in caso il rapitore si fosse nascosto ai bordi del sentiero e stesse per scapparne fuori. Era una possibilità remota e abbastanza assurda, lo so, ma era pur sempre una possibilità, e non ce la sentivamo di tralasciarla, specialmente vista la pericolosità dell'azione che stavamo per compiere.
Scendemmo dalla macchina in silenzio, chiudemmo per bene le portiere e lasciammo che la bionda aprisse il bagagliaio, dopodiché agguantammo le torce che ci diede e controllammo che i walkie-talkie funzionassero tutti, il più meticolosamente possibile. Il piano era restare sempre uniti, ma in caso di bisogno dovevamo essere certi che non ci sarebbero stati problemi dal piano tecnico e che non saremmo rimasti isolati dal gruppo. Una volta finita la revisione ci guardammo negli occhi, come per trovare un po' più di coraggio, chiudemmo l'auto a chiave e ci addentrammo nella boscaglia, diretti verso la base. Faticammo un po' ad arrivarci, vuoi per l'oscurità, vuoi per i rumori continui della notte, e quando arrivammo eravamo tutti meno baldanzosi di quando fossimo partiti, ma nessuno di noi volle ammetterlo e ci concentrammo tutti su qualcosa d'irrilevante, come per nascondere la nostra insicurezza. Controllammo il portellone, che la riccia si era presa la briga di richiudere prima di partire al nostro inseguimento, qualche ora prima, e notammo con gioia che nessuno aveva provato a forzarlo o comunque a capire come funzionasse, quindi demmo un'occhiatina in giro e potemmo constatare che nessuno si era avvicinato alla zona. Fu comunque un gran sollievo, visto che una volta sentito l'urlo ne io ne Lindsey avevamo pensato anche solo lontanamente di occuparci della base, e che una volta scesi giù in città avevamo cominciato entrambi a mangiarci le dita al solo pensiero che qualcuno avesse potuto approfittare della nostra impulsività per ficcare il naso in mezzo ai nostri appunti e mettere un po' in subbuglio i block notes di Jimmy.
Ci lanciammo un'occhiata attorno per cercare di capire verso che direzione fossimo corsi quel pomeriggio e riconobbi la pianta contro la quale mi ero graffiato appena lasciato lo spiazzo, così ci avviammo verso sud e ci sistemammo in fila indiana, tesi come non mai.
Lindsey era l'aprifila e la sua figura dominava spavaldamente sulle nostre, più timorose e curve, totalmente dipendenti dalle sue scelte e dalle sue azioni. Io stavo in mezzo, visto che ero quello che conosceva meno quei boschi, e il fatto che ero stato protagonista dell'altra aggressione mi metteva in una posizione di rilievo rispetto alla riccia, così costretta a chiudere la processione. Mi sentivo in colpa a farla rimanere lì, visto che non aveva fatto i salti di gioia nel venire a perlustrare il bosco con noi, ma allo stesso tempo il mio istinto di conservazione mi diceva che avevamo fatto la cosa giusta a metterla dove si trovava, e mi faceva poi concentrare su qualcos'altro per distrarmi dal senso di colpa. In situazioni del genere, non perdi tempo a immedesimarti nell'altro, bisogna dirlo. E' anche l'ultima cosa da fare, per il bene di tutto il gruppo.
Mi spostai una ciocca dagli occhi e la sistemai dietro l'orecchio, lanciando un'occhiata verso i rami di pino che si estendevano sopra le nostre teste, impavidi e inquietanti, e mi domandai se saremmo mai tornati a casa in condizioni decenti, dopo quella notte. Mi sentivo strano, come se avessi un peso sul petto o un brutto presentimento, ma mi tenevo bene dal dirlo, così concentravo la mia attenzione sul sottobosco e facevo roteare la luce della torcia da tutte le parti, senza tralasciare niente, cercando di assicurarci una visione più larga dell'ambiente che ci circondava. Sobbalzavo a quasi ogni rumore, che poi si rivelava quasi sempre causato dal movimento improvviso di un gruppo di uccelli o dallo scatto di un ramo spostato da noi, e mi sentivo stupido e piccolo in confronto alle altre, che sfoggiavano un ostinato sangue freddo e procedevano in silenzio, senza distrarsi mai. In ogni ombra vedevo un nemico e sotto ogni mucchio di foglie scorgevo una probabile arma, ma alla fine era sempre colpa della mia fantasia e della mia soggezione così avevo deciso di ignorarmi e continuare a procedere. Ogni tanto rallentavo per scuotere un cespuglio e dare uno sguardo a quell'ombra che mi sembrava troppo surreale, ma non mi fermavo mai abbastanza a lungo da perdere di vista la bionda, quindi rimanevamo relativamente uniti e non ci preoccupavamo molto. La Luna c'illuminava la strada dall'alto e i suoi raggi ci giocavano spesso dei brutti scherzi, ma la sua presenza mi rassicurava e mi faceva pensare che era tutto normale e che non correvamo poi così tanti rischi come temevo, così dopo un po' smisi di vedere coltelli ovunque e riuscii a rilassarmi un po'. Dopo una decina di minuti, però, Lindsey si fermò di scatto e ci fece segno di rimanere immobili.
Col cuore in gola e il sangue che ci pulsava nelle vene, trattenemmo il respiro e ci guardammo intorno.
"Eppure giurerei di aver sentito qualcosa.." mormorò la bionda, aggrottando la fronte. S'infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne estrasse un coltellino svizzero, lo portò davanti agli occhi, lo aprì, sospirò e si tenne pronta a usarlo, riprendendo, piano, a camminare. Ora eravamo tutti e tre all'erta, le orecchie tese e gli occhi sgranati al massimo, e ogni minimo movimento ci faceva sobbalzare, ma non ci fermammo più e ci mantenemmo sempre in cammino, sebbene ogni tanto rallentassimo. Se ci fosse davvero stato qualcuno nel bosco insieme a noi, rimanendo fissi nello stesso posto ci saremmo esposti di più a un'imboscata, mentre tenendoci in movimento avevamo una minima possibilità di aggirare la minaccia e, chi lo sa, magari avremmo potuto organizzare noi un'offensiva. Fatto sta che non smettemmo di camminare per quelli che a me sembrarono anni, talmente ero suggestionato da ciò che era accaduto a James, e tornai a domandarmi se ce l'avremmo fatta, a uscire di lì. Lanciai uno sguardo veloce alla riccia, che incespicava affaticata dietro di me, e lessi nei suoi occhi che anche lei temeva di lasciarci le penne e di non riuscire più a vedere la luce del giorno. Con quell'occhiata eravamo diventati complici di quello che tutti sapevamo ma nessuno di noi voleva ammettere ad alta voce: il coraggio che avevamo ostentato fino a pochi minuti prima stava venendo a mancare, lasciando spazio ai dubbi e alla paura. Deglutii e chiusi un attimo le palpebre, cercando di recuperare il controllo, e Lindsey si girò a guardarci.
"Tutto bene, ragazzi?" chiese, spostando continuamente lo sguardo da me alla riccia, preoccupata.
Esitammo a rispondere e deglutimmo un'altra volta, poi sospirammo e annuimmo, uno dopo l'altra. Lyn sorrise, addolcita, e ci mise una mano sulla spalla, stringendocela.
"Ce la faremo, vedrete. State andando alla grande" c'incoraggiò, annuendo convinta. Noi abbozzammo un sorriso e lei ricambiò, togliendoci le mani di dosso e tornando a rivolgere la torcia verso il sentiero. Aguzzò la vista e percepimmo il movimento rapido delle sue orecchie, poi si piegò in avanti, quasi buttandosi a terra, e noi facemmo lo stesso, terrorizzati e in preda alle paranoie più nere. Un rumore di passi riecheggiò nella foresta e si fece sempre più vicino, e dopo qualche minuto di paura riuscimmo a scorgere in modo abbastanza preciso una figura camminarci accanto e voltarci la spalle, ignara della nostra presenza ma comunque tesa. Ringraziai il mio angelo custode e chiusi gli occhi, rannicchiandomi ancora di più, quando sentii la bionda saltare fuori dal suo nascondiglio e scagliarsi attorno alla sagoma misteriosa. Quella lanciò un grido spaventato e cadde a terra, spinta dal peso della ragazza, e si portò le mani vicino al volto, come a proteggersi. Lindsey armeggiò con la torcia e la riaccese, sparandogliela in faccia.
"Ray!" esclamò sgranando gli occhi, mentre lui strizzava le palpebre.
"Ti dispiace levarmi questa luce dalla faccia? Così mi farai diventare cieco" si lamentò lui, cercando di divincolarsi dalla sua presa. La bionda sospirò, si mise la torcia nella tasca posteriore dei pantaloni e si rimise in piedi, tendendo la mano all'amico per aiutarlo ad alzarsi. Lui la strinse e si tirò su.
"Si può sapere che ci fai qui?" sbottò la riccia, uscendo di scatto dai cespugli.
"Be', non potevate iniziare le ricerche senza di me, no?" replicò lui, abbozzando un sorriso.
"Sì, ma voglio dire, mi hai fatto prendere un infarto!" obiettò, portandosi le mani al cuore.
"Scusa babe, non era quello che volevo" rise lui, assestandole una pacca sulla spalla. Columbia scosse la testa, positivamente rassegnata, e io uscii dal mio nascondiglio, salutandolo con un gesto della mano che lui ricambiò di buon grado. Mi piaceva la sua allegria, anche se mi aveva quasi fatto morire di paura.
"Trovato niente?" gli domandò la bionda, stroncando l'atmosfera rilassata che si era venuta a creare negli ultimi minuti e facendo ruotare la luce in ogni angolo buio del sottobosco, senza mai abbassare la guardia. Ray tornò improvvisamente serio e scosse il capo, pensoso, poi si fermò un attimo a riflettere e indicò verso sinistra con un dito, inumidendosi le labbra prima di parlare.
"Niente d'importante, naturalmente, ma c'è qualcosa che vorrei farvi vedere" disse, prima di avviarsi in avanti e scomparire tra le frasche, costringendoci ad accelerare il passo per non perderlo di vista.
Macinammo un centinaio di metri nel silenzio più totale, come se tutto si fosse improvvisamente ovattato e ridotto ai nostri respiri e passi, e mi guardai intorno, sperando di riconoscere in quel posto qualcosa di familiare che mi permettesse di orientarmi in qualche modo, quando sarebbe giunta l'ora di tornare a casa. Ovviamente tutto era anonimo e contro di noi, e mi vidi costretto ad affidarmi solamente alla bussola e al senso d'orientamento degli altri ragazzi, che sembravano quasi a loro agio nascosti dai rami e dai cespugli, riducendomi all'unico cittadino doc completamente spaesato e instupidito dalla situazione.
"Ecco, guardate" disse il riccio a un certo punto, fermandoci con un cenno della mano e avanzando con una delle nostre torce, facendoci sapientemente strada verso la sua scoperta. Spostò dei rami secchi di pino e scavò con le dita per dieci secondi circa, mentre la terra morbida e umida si spostava gentilmente, lasciando spazio a un pacchettino piegato alla bell'e meglio dentro una salvietta bianca, e cominciava a formare un cumulo alto quindici centimetri buoni. Ray prese in mano l'involucro e lo ripulì dal terriccio con estrema cura, stando ben attento a non rovinarne neanche un angolo, poi lo svolse e si voltò verso di noi, intenzionato a mostrarcelo e renderci partecipi del suo orgoglio.
"L'ho trovato qualche metro più in là, vicino a dove avete trovato Gerard e James" ci spiegò, emozionato.
"Non so cosa contenga con precisione: ho aspettato voi per aprirlo, in modo da rendere il momento più ufficiale. Dalle dimensioni suppongo che si tratti di un quadernetto o comunque di qualcosa di tascabile, forse un portafoglio improvvisato o un foglio ripiegato più volte; non saprei" continuò, alzando gli occhi verso di noi e gesticolando con la mano libera. Vidi che il volto gli brillava e ne rimasi estasiato.
"Vedete, in genere la gente di qui non porta cose in tasca, perché passeggiando c'è sempre il rischio di perderle, mentre il nostro rapitore non ha minimamente pensato all'evenienza e si è comportato come qualunque forestiero avrebbe fatto. Insomma, chi non vive qui non è abituato a pensare a imprevisti come un temporale improvviso, un animale incazzato che ti sbuca fuori dal bosco e che comincia a rincorrerti, una buca nascosta da un mucchio di foglie, una folata di vento particolarmente violenta.. In genere i cittadini che vengono qui in visita sono arroganti e convinti che niente di male possa accader loro proprio perché sono superiori, quindi si comportano in modo piuttosto spavaldo e subiscono perdite gravi molto più spesso di quanto vogliano far intendere. Se il nostro cattivone fosse di un'altra città, o comunque una persona troppo sicura di se, questo porrebbe le cose a nostro vantaggio, visto che siamo nati qua e conosciamo questi territori come le nostre tasche, e ci permetterebbe di tendergli una trappola e smascherarlo in tempi molto più ristretti rispetto a quelli che impiegheremmo se fosse del posto e sapesse perfettamente come agire. Il tutto è semplicemente fantastico, non trovate?"
Fece una piccola pausa per riprendere fiato e sfoggiò uno dei sorrisi più smaglianti che abbia mai visto.
"Insomma, se questo oggettino si rivela suo o in qualche modo rilevante, siamo a cavallo!" esclamò.
Continuando a sorridere, si apprestò a srotolar via l'ultimo pezzo di stoffa e ci lanciò un'occhiata di complice felicità, s'inumidì le labbra, respirò a fondo e liberò completamente il suo tesoro dall'involucro.
Era un'agendina di un rosso bordeau piuttosto spento, grande più o meno quanto un iPhone, le cui pagine erano leggermente inumidite dalla notte ma ancora piuttosto leggibili; e il riccio esultò nel vedere che non era stata usata solo una manciata di volte. Sebbene la calligrafia di cui alcune pagine erano ricoperte fosse piuttosto difficile da decifrare, riuscimmo a capire sul posto che non si trattava di cose importanti, ma di appunti che all'apparenza sembravano buttati a caso senza il minimo senso, ma che ci saremmo impegnati a rendere importanti nei giorni a venire, per non rendere vana la fatica del riccio. Scorremmo le dita lungo la copertina e controllammo che non fosse entrata della terra al suo interno, poi la bionda riavvolse l'agenda nel suo scrigno, aprì il marsupio e ce la posizionò dentro, richiudendolo con attenzione e tornando a rivolgersi a Ray.
"Be', mi sembra un ottimo inizio, bravissimo" si complimentò, dandogli una pacca sulla spalla.
"C'è ancora tanto da perlustrare, potremmo trovare altro" ribatté lui, senza crogiolarsi nella sua gloria.
"Facci strada, campione" fece a quel punto Columbia, desiderosa di mettersi anche lei all'opera, quasi avesse dimenticato la situazione e l'ambiente in cui ci trovavamo.
"Aspettate un attimo, ragazzi, visto che siamo diventati quattro, forse è meglio dividerci e setacciare molto più terreno, che ne dite? Io e il roscio procederemo da questa parte, mentre voi due da quell'altra. Ci rivediamo qui tra, non saprei, una mezz'oretta? Se ci sono problemi o avete un qualsiasi dubbio, non esitate a contattarci e chiederci di venire, okay?" si organizzò velocemente Lindsey, davanti agli occhi annuenti degli altri, che ci salutarono e si allontanarono senza troppe cerimonie, presi dall'eccitazione per la nuova scoperta. C'incamminammo verso la direzione opposta conservando un religioso silenzio, rotto solo dal fruscio del vento e dal rumore dei nostri passi sulle foglie secche, e mi sentii molto meno in ansia di prima, come se l'arrivo improvviso del mio nuovo amico avesse reso tutto più sicuro e meno azzardato, e mi trovai a ringraziarlo inconsciamente, quasi ritenessi opportuno farlo. Mi voltai verso la bionda e la guardai con la coda dell'occhio, mentre lei controllava bene che non ci fosse niente per terra, e la sua strana presentazione mi passò di nuovo per la testa, come se l'avessi sentita solo pochi minuti prima. Davvero ero stato fidanzato con una creatura così saggia e risoluta, capace di essere allo stesso tempo avventurosa, spontanea e impulsiva, senza neanche impegnarcisi? Mi sembrava a dir poco assurdo che io, persona assolutamente normale, classica, monotona, senza alcuna dote speciale, fossi riuscito ad attrarre anche solo per un po' una persona così diversa da me, in tutto e per tutto; e più la guardavo più mi domandavo cosa avesse mai potuto trovarci in me, anche se era stato il moro a farci mettere insieme quando ancora mi credeva etero. Voglio dire, se le avessi fatto schifo gli avrebbe detto di no, o sbaglio?
"Gerard?". La sua voce soffice mi riportò alla realtà quasi improvvisamente. Sbattei gli occhi un paio di volte, scossi velocemente la testa e mi voltai a guardarla.
"Huh? Che ti serve?" domandai, dando un'occhiata alle mie mani.
"La tua attenzione" mi punzecchiò lei, abbozzando un sorriso spavaldo e guardandomi arrossire.
"Guarda laggiù, che ti sembra?" insistette avvicinandosi a un cespuglio e piegandosi per non farsi vedere. Mi avvicinai anch'io e strizzai gli occhi, portandomici una mano davanti, ma il buio m'impediva tutto, così scrollai le spalle, increspai le labbra e le lanciai un'occhiata di sconfitta. Lei sorrise e scivolò al mio fianco, fece scorrere un braccio attorno alla mia spalla e m'indicò un punto col dito; mi sforzai d'intravedere qualcosa e rimasi stupito nel vedere un'altra figura aggirarsi tra le frasche. Sgranai gli occhi e aprii la bocca per parlare, ma la bionda mi ci premette tre dita sopra e aspettò che lo sconosciuto si allontanasse prima di toglierle da lì e contattare gli altri, mentre io sudavo freddo e cercavo di mantenere il sangue freddo.
"Ray? Ehi Ray, mi sentite?" lo chiamò in poco più di un sussurro, voltandosi verso il punto dove era sparito l'uomo e torturandosi le labbra con una smorfia preoccupata. Assestò una bottarella al ricevitore, tentando di attirare l'attenzione dell'altro gruppetto con un rumore più forte, e si lasciò sfuggire un 'fanculo', poi se lo riportò di nuovo all'orecchio e riprovò.
"Ray? Ray, sono Lindsey, rispondete" insistette, alzando di poco il tono di voce. Io controllavo la zona circostante, il sangue che mi pulsava nelle tempie e il sudore che mi correva lento lungo il collo, e mi assicuravo che niente ci cogliesse di sorpresa, ma la mia mente non era esattamente ferma in quei luoghi. Sebbene avessimo entrambi visto in faccia il pericolo, non riuscivo a identificare quella persona come una minaccia reale, un qualcosa che avrebbe potuto farmi del male, e quindi non riuscivo a rimanere nello stato d'animo adatto per fare da vedetta. Il peggio era che io mi c'impegnavo davvero, a controllare tutto, ma ogni due secondi notavo qualcosa che prima m'era sfuggito e venivo invaso dai dubbi e dalle incertezze, e anche se ero perfettamente consapevole del fatto che il panorama nei boschi fosse in costante mutamento mi sentivo inutile e incapace. Mi passavo una mano tra i capelli, sospiravo silenziosamente e mi rimettevo al lavoro, cercando con tutto me stesso di concentrarmi su quei piccoli dettagli così sciocchi ma allo stesso tempo così vitali e rilevanti, che mi sembravano aumentare secondo dopo secondo. Rimasi così per un po', mentre la bionda armeggiava col walkie-talkie e imprecava sottovoce, e mi sentii fuori posto, come se non avessi mai dovuto mettere piede in quel bosco. Non riuscivo a evitare di ripetermi che quello non era luogo per me, che io ero uno di quei cittadini montati e stupidi che non sono fatti per andare a fare passeggiate nei sentieri sperduti dei paesini di montagna e che sarei dovuto tornare a casa in quel momento stesso, invece di perdere tempo ad annotarmi miriadi di cose che mi sarei dimenticato pochi secondi dopo, nonostante tutti i miei sforzi e le mie buone intenzioni. Eppure c'era qualcosa che mi teneva lì, vuoi la presenza di Lindsey, vuoi la consapevolezza del fatto che non sarei mai riuscito a ritrovare la strada, ma non riuscivo a spostarmi per più di qualche decina di centimetri senza poi tornare dalla mia amica, in preda a un senso del dovere troppo sviluppato e a un'improvvisa ansia. Passarono dieci minuti, poi finalmente Ray rispose.
"Lin! 
– esclamò, senza alzare troppo la voce – Lin!"
"Ray! Ehi amico, ti sento!" gioì la ragazza, attaccandosi con entrambe le mani all'apparecchio.
"Dove siete? Dobbiamo dirvi una cosa importantissima" si affrettò a chiedere, prima che l'altro parlasse.
"Stiamo tornando sui nostri passi, abbiamo visto qualcuno" spiegò il giovane.
"Per questo non abbiamo risposto, prima, avevamo paura di essere scoperti" aggiunse.
"L'abbiamo visto anche noi" si stupì la bionda.
"Avete visto quant'è grosso?" domandò, alzandosi in piedi.
"Be', non è esattamente alla tua portata, ma io e Gerard dovremmo essere in grado di placcarlo"
"Perfetto. Arriviamo" esclamò, ricominciando a correre, in preda a una nuova eccitazione.
"Vieni roscio, abbiamo bisogno del tuo aiuto" mi disse, così mi spicciai e la raggiunsi, in tempo per sentirle dire agli altri due di seguire lo sconosciuto e di tenerla aggiornata sui suoi movimenti.
"Bene ragazzo mio, ora è il tuo turno di entrare in gioco
– mi avvertì, accelerando il passo. – Dovrai andare avanti con Ray e stare col fiato sul collo a questa figura misteriosa; poi, appena possibile, dovrete saltarle addosso e metterla con le spalle a terra. A quel punto io e Columbia usciremo dai cespugli e vi daremo una mano ad immobilizzarla, legandole le mani e i piedi con questo – e mi mostrò un foulard –, e poi bho, si vedrà. La trasporteremo in auto e le faremo tutte le domande necessarie".
Annuii in segno d'assenso e lei si compiaque del suo piano, scorgendo da lontano la silohuette della sua amica e affrettandosi a raggiungerla, quasi correndo ormai.
"Columbia!" sussurrò all'improvviso, mentre l'altra sobbalzava e si girava di scatto.
"Cazzo, mi hai fatto prendere un colpo" sospirò, portandosi una mano al cuore e rilassandosi.
"Ray è più avanti, ma dovete fare piano. Quell'uomo continua a vagare qui intorno da un sacco di tempo, sembra stia cercando qualcosa - forse noi, chi lo sa - e non dobbiamo assolutamente fargli capire che vogliamo tendergli un'imboscata o siamo spacciati" ci spiegò, spostando delle frasche.
"Tutto chiaro" annuì la bionda, voltandosi quindi a guardarmi.
"Allora roscio, voglio che tu vada avanti, trovi Ray e faccia tutto ciò che ti dice, d'accordo? A questo punto, dipende tutto da voi" disse con tono autoritario. Annuii e mi addentrai nella boscaglia, mentre lei mi sussurrava alle spalle un 'buona fortuna'. La ringraziai con un cenno della mano e scomparvi dalla sua vista, venendo circondato dal buio della notte e dai rumori della natura, completamente isolato da qualunque altra cosa vivente e parlante. Non mi era concesso di utilizzare la torcia perché avrei rischiato inutilmente di attirare l'attenzione dello sconosciuto, quindi ero costretto a brancolare nell'oscurità e ad affidarmi alle poche forme che i miei occhi riuscivano a distinguere; ma a causa di questo particolare dovetti procedere lentamente ed espormi maggiormente al pericolo, mentre gli altri sudavano freddo e aspettavano di ricevere l'ok del riccio. Io, dal canto mio, ero a dir poco teso, oltre che perfettamente conscio del pericolo che stavo correndo in quel momento, ma allo stesso tempo non sentivo alcuna pressione e mi sembrava di far parte di un gioco. Certo, un gioco un po' esagerato e strano, ma non mi sembrava poi così vero; così mi avventuravo sempre di più e sempre più spavaldamente, finché non notai da lontano una figura in controluce in avvicinamento. Mi acquattai per terra e rotolai vicino alle radici di un cespuglio, sperando che mi proteggesse e nascondesse da quello che non sapevo essere un amico o un nemico, e rimasi in ascolto, le orecchie e i muscoli tesi, quando mi passò accanto. Si guardò intorno, si fermò a qualche passo di distanza da me e si ficcò una mano in tasca, alla ricerca di qualcosa che apparentemente non era lì. Alzò il mento con rabbia, scagliò il contenuto della tasca a terra e sbuffò, quindi si passò una mano fra i capelli, esasperato, sospirò e si piegò per raccogliere quelle cianfrusaglie. Non so se fu in quel momento che incrociò il mio sguardo o pochi secondi dopo, quando feci scricchiolare una foglia, fatto sta che mi notò e si avvicinò a me, agguantandomi prima che potessi muovermi.
"Gerard! Brutto coglione che non sei altro!" mi sbraitò addosso quello che poi riconobbi come mio padre.
"Hai la minima idea di quanto cazzo sia pericoloso stare qui di notte?"
Mi strinse meglio i capelli e mi costrinse ad alzarmi, avvicinando il mio volto al suo.
"Mi hai fatto prendere un colpo della madonna! Tua madre è venuta a sapere del tuo ritorno e mi ha telefonato, una quarantina di minuti fa, e
avresti dovuto sentire i suoi strilli quando le ho detto che eri uscito e che non c'era nessuno in camera tua. Sembrava volermi mangiar vivo! Adesso vieni a casa e le telefoni, da bravo, e le dici che questa stronzata è tutta farina del tuo sacco, perché io non c'entro niente. Vedi un po' se devo ancora beccarmi sgridate per le puttanate che fai tu!"
Mi lasciò andare di colpo e io mi rimisi in piedi, spazzolandomi via le foglie dalla maglietta.
"Un incosciente, ecco che cosa sei. Avanti, fila in macchina" ordinò, indicandomi la strada con un gesto secco e infastidito. Mi avviai verso l'auto in silenzio, avvampando, e mi sentii addosso lo sguardo deluso e stupito dei miei compagni finché il paesaggio non cominciò a mutare, lasciando spazio a un sentiero di sassi circondato da qualche lampione mezzo rotto, miracolosamente ancora in piedi.
"Si può sapere cosa ti eri messo in testa? Tu e quei coglioni dei tuoi amici! In giro per il bosco di notte.. avete idea di cosa potrebbe succedervi? Per quanto mi riguarda, c'è ancora un assassino a piede libero, e non uscirai più da casa di sera. Coprifuoco alle nove, come quando avevi dieci anni. Vediamo se avrai ancora voglia di ammazzarti! Come se questa famiglia avesse bisogno di mettersi ulteriormente in mostra dopo tutto quello che è successo" sputò, poi borbottò ancora qualcosa, sottovoce.
"Vedi di mettere la testa a posto, ragazzino, perché finché rimarrai a casa mia dovrai seguire le mie regole, e per quanto possa sembrarti crudele non sono disposto a fare eccezioni. Non le farà nemmeno quello che ha spedito il tuo amico in coma, puoi starne certo, quindi vedi di cominciare a stare attento e a pensare alle consequenze delle tue azioni. Potrai aver avuto tutte le buone motivazioni di questo mondo, ma non tornerai mai più in quel bosco di notte, intesi? Non dopo quello che è successo l'altra volta, anche se allora era giorno. Mi è già capitato di crederti perso una volta, non voglio assolutamente farlo di nuovo" strinse le mani attorno al volante e sospirò rumorosamente, poi si accese una sigaretta.
"Non hai idea di cosa significhi perdere un figlio, e quello che ho provato quando ti hanno trovato in quella pozza di sangue non lo augurerei neanche al mio peggior nemico. Mettete la testa a posto tutti quanti, questo non è un gioco, non lo è mai stato. Se volete continuare a fare le teste calde, fatelo assicurandovi una sicurezza costante, almeno; perché ci sono tanti modi per ferirvi, non solo fisicamente, capito? Rischiate non solo voi, ma anche le vostre famiglie; e ti assicuro che nessuno di noi vuole vedervi con la testa aperta in una stanza d'ospedale, mentre un'equipe di medici cerca di non farvi rimanere paralizzati per il resto della vostra vita. Questo non è un gioco, Gerard, e non voglio mandarti a farti uccidere così facilmente, ci siamo capiti? Se vuoi farlo di giorno è un altro conto, ma la sera non ti devi neanche avvicinare a quella foresta, te l'abbiamo sempre ripetuto e non smetteremo mai di farlo finché sarai ancora in vita. Non puoi permetterti di rischiare un'altra volta, gli altri potrebbero smettere di credere alla tua innocenza e accusarti di cose che non sono, e a quel punto io e tua madre non potremo più far niente per aiutarti. Cerca di rimanere sempre al sicuro in qualche modo, okay? Vedi di non fartelo ripetere un'altra volta, per piacere, così eviteremo di fare figure di merda davanti ai tuoi amici. Per stasera passi, ma la prossima volta che ti becco là in mezzo le consequenze saranno gravi."
Si voltò a guardarmi, mentre la calma tornava a riempire la macchina, e si leccò le labbra.
"Io non ti odio, Gerard, ma devi sottostare alle regole. Per il tuo stesso bene."
Poi tornò a badare alla strada e rimase in silenzio per tutta la durata del viaggio, mentre io riflettevo sul da farsi e sulla sua improvvisa scenata iperprotettiva. Non avevo mai visto questo lato del suo carattere e probabilmente non l'avrei rivisto mai più, ma mi aveva lasciato non poco scombussolato, finché non mi ricordai improvvisamente dell'agendina.
"Papà, per caso hai perso qualcosa nel bosco?" gli domandai, rompendo la pace.
"Huh? No, non ho perso niente. Ho dimenticato il cellulare a casa, ecco perché mi sono incazzato. Se avessi potuto chiamarti avrei fatto molto prima" rispose, senza staccare gli occhi dal sentiero.
"Oh
– mi limitai a ribattere. – Capito."
Be', almeno un indizio ce l'avevamo, mi rallegrai, sfiorando l'agendina con le dita e sfilando la mano dalla tasca. Non avevamo sprecato completamente la serata.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


combattere contro il passato (cap 7) Quella notte ci misi parecchio ad addormentarmi. Non facevo altro che pensare e ripensare a tutto quello che era successo quel giorno, alle occhiate torve che avevo ricevuto al paese, al fruscio fresco del vento sulla mia pelle, all'urlo angosciante del punk, alla corsa estenuante e inutile giù per i greppi, alle bende che ero stato costretto a comprare e a come fosse fragile una vita umana, in fin dei conti, nonostante la scienza scoprisse ogni giorno un nuovo metodo per farci campare più a lungo e in modo più piacevole. Alla fine, bastava una stronzata per stroncare ciò che una madre aveva impiegato nove mesi a costruire e che la vita aveva allenato fino all'esasperazione, giorno dopo giorno, coi suoi sgambetti e i suoi imprevisti. Bastava un nonnulla perché un essere smettesse di esistere, emotivamente o fisicamente che fosse, e la facilità con cui una cosa così orribile potesse accadere mi lasciava stupefatto, attonito, senza parole, costringendomi ad immergermi in argomenti che avevo lasciato da parte per tanti anni e che non volevo rievocare prima del tempo, per quanto potesse essere doloroso.

Che cos'era successo davvero quel pomeriggio di sei anni fa?
Frank era ancora vivo? E se sì, dov'era in quel momento?
Perché non cercava di ricontattarci?
Perché non cercava di parlarmi?
Per quanto fosse difficile da accettare, ero giunto alla conclusione che, ammesso che fosse sopravvissuto e che fosse ancora memore della vita che aveva avuto prima dell'aggressione, forse aveva deciso lui di tagliare tutti i ponti che lo collegavano al suo passato, scegliendo di non chiamare più, di non farsi sentire e di non mandare notizie a nessuno, pur di non correre altri rischi. Forse era stato proprio lui a scegliere di andarsene e non tornare mai più, per non mettere in pericolo nessuno e per scrollarsi di dosso tutti i pregiudizi e gli insulti degli altri, che dopo tutti quegli anni ancora bruciavano, sotto la superficie. Forse era stato lucido quando aveva preso quella decisione, o forse era stato costretto da qualcuno che sarebbe quindi stato in grado di controllare e verificare che il ragazzino se ne andasse davvero. In un certo senso, pensare che fosse stato costretto ad abbandonarci era rassicurante, perché ciò significava che il moro ci amava ancora, nonostante tutto, e che dentro di se non aveva mai desiderato abbandonarci in un modo così vile e subdolo, ma che aspettava solo il momento giusto per tornare e dirci che sarebbe andato tutto bene, perché lui era lì con noi e non se ne sarebbe andato. Certo, tutto questo se lui fosse stato ancora vivo, ma c'era qualcosa dentro di me che mi intimava di non arrendermi, di non togliermi dalla mente la possibilità che fosse riuscito a sopravvivere al rapimento e che stesse cercando di tornare a casa; così inghiottivo il groppo e continuavo a sperare, stringendo i denti. Di certo non aveva scelto lui di andarsene, non era nel suo carattere scomparire nel nulla lasciandosi dei problemi alle spalle. No, lui avrebbe lottato e vinto, alla faccia di tutti quelli che lo detestavano e che lo schernivano, perché lui non era come loro, lui era speciale, uno di quei ragazzi che incontri poche volte nella vita ma che non potrai mai dimenticare. Prima di essere il mio fidanzato e prima di essere il migliore amico di tanti ragazzi che in lui non vedevano solo un ragazzino, ma un salvatore, lui era Frank Iero, e quella non era cosa da poco, anzi. Più ci pensavo più mi sentivo di conoscerlo, più focalizzavo la sua immagine nella mia mente, e più mi sentivo leggero e vicino a una soluzione, un indizio, un qualcosa che scacciasse un po' di nebbia dal mio cervello, e tutto quello non poteva essere un cattivo segno. Proprio no.
Respirai a fondo, socchiusi gli occhi e mi lasciai coccolare dall'oscurità, ora così piacevole e amica, e passai con il pensiero sopra a tutti gli interrogativi che mi avevano attanagliato durante la giornata, prima così importanti e vitali, ora ridotti a brandelli di paure e dettagli di scarsa rilevanza. Mi cullai un attimo nel mio improvviso senso di pace con il mondo e lanciai un'occhiata fuori dalla finestra, soffermandomi sulle stelle e accarezzandole con lo sguardo, soprappensiero. Dopo una giornata così strana e così stancante, mi sembravano salutarmi e incoraggiarmi, con la loro luce tremolante e decisa, e sembravano ripetermi che non importava quanto terrore avessi, quanto difficile fosse rimanere in piedi, quanto pesasse il mondo sulle mie spalle o quanto mi sentissi fragile e insicuro, c'era sempre una luce alla fine del tunnel e difendere i miei amici era la cosa più importante a cui dovessi pensare in quel momento, perché, nonostante le cadute, sarei sempre stato in grado di rialzarmi. Il fatto che stessero ancora lì appese, dopo milioni di anni di reazioni chimiche ed esplosioni, guerre e periodi di pace, evoluzioni e cambi di civiltà mi rassicurava, e mi lasciavo cullare dalla certezza che, per quanto potesse sembrarmi dura andare avanti e resistere, in realtà niente andava poi così male e che, dopo un periodo di difficoltà, la vita premia chi ha lottato. Non importa quanto hai sofferto, non importa quante volte hai sputato sangue, non importa quante volte non sei riuscito ad adempire al tuo compito, ciò che conta davvero è il fatto che tu non ti sia mai arreso, neanche quando la vita si è fatta più meschina, neanche quando gli altri ti hanno voltato le spalle. Ciò che conta maggiormente in casi come il mio è l'impegno e io ne avevo in abbondanza, anche se a guardarmi in modo distratto non si notava minimamente. Riservavo molte sorprese e l'improvvisa e pacata tranquillità della mia camera sembrava aver risvegliato ogni mia particella di positività e buonsenso, quindi giacevo lì con un gran sorriso beato stampato in faccia e lo sguardo perso nell'infinito, mentre il mio cervello non smetteva di macinare informazioni neanche per un secondo. Il ritrovamento dell'agendina si era rivelato piuttosto sensazionale, contando soprattutto che non era ne dei ragazzi ne di mio padre, e riuscivo a stento a non abbandonarmi a un senso di frettolosa soddisfazione, ma una smorfia di compiacimento si era comunque fatta strada sul mio viso graffiato. Dopotutto era pur sempre qualcosa, no?
"E anche se fosse una stronzata, possiamo farla passare per una stronzata coi fiocchi" sorrisi fra me e me, facendo correre le dita lungo il rivestimento ruvido del libretto, intravedibile solo se ci si faceva molta attenzione. Anche se era troppo presto per dire qualsiasi cosa, mi sentivo fiducioso e pieno di buoni pensieri, e facevo mille propositi e piani per ciò che sapevo che probabilmente sarebbe rimasto solo un sogno troppo difficile da realizzare. L'euforia si fece pian piano strada tra i miei pensieri e fui, mio malgrado, costretto a smettere di fare piani di alcun tipo, per il bene della mia salute mentale e di quella degli altri, oltre che dei miei familiari. Distolsi lo sguardo dalla volta celeste, ora puntellata di nuove stelle e qualche aereo, che sfrecciava silenzioso sopra la testa di migliaia di cittadini ignari e addormentati, e mi tirai a sedere, staccando la schiena dal materasso e sporgendomi in avanti, appoggiandomi con le mani alla coperta per forza dell'abitudine. Respirai a lungo, sempre silenziosamente, misi i piedi fuori dal letto e, cercando di fare il meno rumore possibile, mi eressi sulle gambe, azzardando qualche passo insicuro. Cercai coi piedi le ciabatte, decisi di farne a meno e barcollai goffamente verso la porta della mia stanza; feci scivolar fuori la testa, aspettai di sentire il russare sommesso di mio padre e uscii, dirigendomi verso il bagno. Mi chiusi la porta alle spalle e l'accompagnai gentilmente dietro di me, esitando un attimo prima di decidere di non socchiuderla, poi deglutii e accesi la luce, strizzando energicamente gli occhi e aspettando di abituarmici, impaziente. Mi preparai mentalmente allo spettacolo a cui avrei dovuto assistere, sospirai, mi avvicinai allo specchio e alzai lo sguardo, teso come non mai. La mia immagine mi colpì più di quanto mi aspettassi: avevo il volto sciupato, pallido, come se non riposassi decentemente da giorni; il rosso dei miei capelli era reso ancora più vivo da dei rimasugli di sangue incrostato, andato a depositarsi su una tempia e sotto i lobi delle orecchie, e dai piccoli tagli che mi solcavano la guancia, impavidi; le garze spartane che mi circondavano il capo erano sporche, grigiastre, a tratti sbrindellate e sul punto di rompersi, ma tutto sommato ancora lì, in un disperato tentativo di proteggermi da altri attacchi, provenienti da chissà dove. Mi feci un po' impressione così conciato, essendo abituato a vedermi sempre uguale vista la monotonia del mio lavoro, e mi passai una mano lungo la parte sinistra della faccia, il più delicatamente possibile, come se stessi toccando la guancia di qualcun altro e non volessi in alcun modo fargli male. Sussultai nel sentire una fitta lancinante dove la benda non era riuscita a reggere, cadendo sconfitta e andando a sfiorare il mio sopracciglio sinistro, in un ultimo sforzo di essere utilizzabile, e la spostai con due dita, indugiando nel vedere  o meglio, sentire  che si era attaccata alla pelle sottostante, a causa del troppo sudore. Il mio volto si contorse in una smorfia di dolore e fastidio e serrai la mascella, mentre, con strappi decisi e regolari, mi accingevo a staccarla e riporla nel lavandino, prima di buttarla nel secchio e sostituirla con delle bende nuove e più curate. Dopo che l'ultimo pezzo di garza fu caduto tra la spazzatura, mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo e sorrisi, andando ad aprire l'armadietto dei medicinali, poi frugai un attimo tra pillole e intrugli vari e trovai una scatola del primo soccorso, di cui usufruii lietamente. Una volta finito, ripulii il lavello e sistemai velocemente la stanza, dopodiché spensi la luce e tornai in corridoio, dove mi accolse il consueto russare di mio padre. Scesi le scale, mi sedetti sul divano e rimasi lì a respirare, godendomi la luce della luna e il lento ticchettio dell'orologio, che scandiva il tempo con una regolarità tranquillizzante e quasi piacevole, tutto sommato. Perso nei miei pensieri, scivolai velocemente in un sonno profondo e senza preoccupazioni, senza neanche avere il tempo di tornare in camera.

"Gerard? – mi chiamò una voce maschile, toccandomi la spalla. – Ehi, ragazzo?"
Grugnii qualcosa e mi girai dall'altra parte, cercando di tirarmi sugli occhi una coperta che non c'era. Papà si spazientì e mi scosse con più decisione, sventolandomi davanti agli occhi una lettera e continuando a ripetere il mio nome all'infinito, in attesa che mi decidessi ad aprire gli occhi. Cosa che feci con un grande sbuffo, socchiudendoli in uno sguardo assassino e guardandolo in cagnesco, lasciandolo indifferente.
"E' per me?" domandai, accennando alla lettera.
"No, è un'altra bolletta da pagare.. ma se vuoi fare tu non c'è problema, eh" fece mio padre, alzandosi in piedi dopo essersi dato una forte spinta e rimanendo a fissare il vuoto per una manciata di secondi.
"Però sì, devi venire con me" ragionò a voce alta, voltandosi a guardarmi.
"Dammi cinque minuti" sbuffai, abbandonando a malincuore il divano e barcollando verso il piano di sopra, ancora intontito dal sonno e dall'improvviso risveglio. Mi lavai la faccia, abbondai col deodorante ed entrai in camera, raccattando i primi vestiti trovati nei cassetti e indossandoli, senza farci davvero caso. Ridiscesi le scale trotterellando e saltando gli ultimi due gradini, atterrando pesantemente davanti alla figura eretta di mio padre, il volto tirato in un cipiglio arcigno e serio e le labbra fine contratte in un sospiro esasperato.
"Dio, Gerard, quante volte te l'ho detto che la mattina la gente dorme?" sbottò.
"Hm" ribattei con una scrollata di spalle, mentre lui agguantava le chiavi della macchina e apriva la porta d'ingresso con meccanicità, invitandomi a seguirlo con un rapido cenno del capo e fiondandosi fuori.
"La colazione la farai in città, quando avremo finito" mi avvertì, mettendo in moto la macchina. Annuii e, per la prima volta da anni, prestai davvero attenzione ai volti della gente che superavamo entrando in paese. Con mio grande sconforto, non ne riconobbi nessuno.

"Allora, ragazzo mio, da quant'è che non ci vediamo?" esclamò il barista, lucidando dei bicchieri.
"Saranno cinque anni, ormai" continuò, rispondendosi da solo e sfoggiando un gran bel sorriso falso.
"Ne avrai di cose da dirci! Allora, come te la sei passata?" domandò, fingendosi entusiasta.
"Bene, direi. Lavoro un po' qua, un po' là.." mi limitai a rispondere, disinteressato. Presi una bustina di zucchero, la aprii e ne rovesciai il contenuto nella tazza, quindi cominciai a girare distrattamente il caffè.
"Ah, capisco. Be', d'altronde la vita è così, no?" convenne l'uomo, sistemando i bicchieri tra gli altri.
"Gli alti e bassi ci sono sempre, e direi che i tuoi bassi li hai già avuti, in ogni senso" scherzò, ridacchiando fra se e se. Smisi di bere e posai la tazzina sul bancone, piccato, ma l'uomo continuò a sorridere, senza intuire che avevo ben capito la sua frecciatina. Lasciai perdere. Anche se avessi detto qualcosa, lui avrebbe liquidato la cosa con un 'no, ma che dici, non intendevo quello, a me non dà fastidio il fatto che tu sia stato con il moretto, figurati!' e una risatina nervosa, seguita da uno sprezzante gesto della mano, messo lì per calmare le acque. In realtà sapevamo entrambi che gli dava fastidio il fatto che io fossi gay e che lo fosse stato anche il 'cocchino della città', e che ancora di più gli dava fastidio l'idea che a qualcuno potesse piacere farsi inculare da qualcun altro. Forse era questo quello che lo irritava di più, chi lo sa.
A ogni modo, papà non ci fece caso e finì con calma il suo caffè, lasciandosi scappare un sospiro felice.
"Be', caro mio, direi che qui non abbiamo altro da fare. Ci vediamo domani" salutò l'uomo, saltando quindi giù dallo sgabello e avviandosi verso l'uscita, lasciandomi un attimo spiazzato. Mi richiamò e io lo seguii, lanciando un ultimo sguardo d'odio al barista e concentrandomi sul paesaggio, rilassando i muscoli.
"Meno male che erano tutti contenti di rivedermi e che si erano aperti al nuovo" mi dissi, storcendo la bocca in una smorfia a metà tra il me-lo-aspettavo e il contenti-loro. Dopotutto, io c'ero abituato. Non avevo intenzione di dargli ulteriore importanza, nossignore. Così andai avanti con la mia mattinata.


In realtà, incontrarmi coi ragazzi quel pomeriggio fu abbastanza difficile. Non solo perché mi vergognavo a farmi vedere in giro dopo l'ennesima pazzia di mio padre, ma perché non avevo il numero di nessuno di loro e avevo lasciato il mio walkie-talkie alla bionda, prima di cercare di raggiungere il riccio, quindi non avevo alcun modo di cercare d'intuire la loro posizione. Supposi dal principio che fossero alla base, ma mi resi conto velocemente che non sarei stato in grado di ritrovarla e mi sentii invadere dallo sconforto, che cacciai dicendomi che potevo benissimo esser loro d'aiuto pure senza raggiungerli. Mi legai i capelli e mi sistemai sul naso un paio di occhiali da sole che poi tolsi perché troppo ridicoli e 'da checca' a detta di mio padre, e mi ficcai una banconota da venti in tasca, accanto al pacchetto di sigarette. Lo salutai senza troppe cerimonie e lui non si prese neanche la briga di rispondermi, immerso com'era nella lettura del suo giornale, così uscii da casa senza essere inseguito dai sensi di colpa.
La brezza soffiava dolcemente, rinfrescandomi e gettandomi i capelli all'indietro, e mi compiacqui di essere uscito a quell'ora, quasi l'avessi fatto apposta. Mi guardai un attimo intorno e tirai fuori dalla tasca il mio block-notes di quand'ero più giovane, completamente ricoperto di scarabocchi, pezzi di canzoni e frasi carine dedicate al moro, e m'immersi un attimo nei ricordi, prima di scuotere la testa e togliere il tappo alla penna. Il piano era di appuntarmi qualcosa di ogni casa, ma effettivamente ci avrei messo troppo tempo, così ripiegai sul piano b e feci uno schizzo delle persone che incontrai, rudimentale ma abbastanza dettagliato da permettermi di farle riconoscere a papà più tardi. Non incontrai molta gente, per fortuna
- o dovrei dire sfortuna? - così non dovetti disegnare molto e occupai solo una decina di pagine, mentre le altre venivano ricoperte di appunti e piccole cose che notavo e segnavo giusto perché forse mi sarebbero potute tornar utili. Stupidamente, mi ero dimenticato delle bende che avevo intorno alla testa, quindi giravo con la beata convinzione di riuscire a non dare nell'occhio più di quanto facessero gli altri abitanti – non che fosse completamente colpa mia d'altronde, papà non aveva fatto alcun commento al riguardo e il barista si era tenuto bene dal farmelo notare, quasi a sottolineare che non gliene fregava un cazzo di me, quindi io me ne ero semplicemente dimenticato, come c'era da aspettarsi. Ogni tanto vedevo qualche testa girarsi e strizzare gli occhi, ma pensavo che cercassero solo di ricordarsi dove mi avessero già visto così etichettavo la cosa come di scarsa importanza e procedevo, convinto di star facendo qualcosa di intelligente, una volta tanto. Fu quando mi ritrovai per la terza volta nello stesso punto che mi battei una mano sulla fronte, come a dire 'oddio, di nuovo qui', e fui costretto, malgrado tutto, a rendermi conto che la ferita che avevo era ancora aperta e esistente. Ci rimasi un attimo di stucco quando lo realizzai e mi resi conto di aver sfoggiato la mia 'ferita di guerra' davanti a un bel po' di gente, attirando l'attenzione ancor più di quanto non avessi fatto il giorno prima al supermercato, esattamente come la bionda si era raccomandata di non fare. Mi spalmai una mano in faccia e scossi la testa, dandomi del coglione, quindi cominciai a tornare verso casa, molto meno convinto di quando fossi partito, sprizzando di energia e orgoglio per la bella pensata.
"Forse
– mi dissi, calciando una lattina – d'ora in poi è meglio lasciare le belle idee agli altri". Sospirai e arcuai le labbra in un sorriso rassegnato, ridacchiando della mia sciocchezza. Non ero particolarmente intelligente, bello o simpatico, ma almeno sapevo disegnare. Tirai fuori dalla tasca il block-notes e lo aprii, sfogliandolo velocemente fino a raggiungere gli identikit di metà di oggi, che avrei sistemato una volta a casa con l'aiuto di mio padre, e mi compiacqui delle linee decise e dei giochi d'ombra che avevo dato a ognuna delle figure, anche se basilari e appena accennati. Mi piaceva l'arte e mi piaceva essere costretto a farmi il culo per imparare a disegnare bene, anche se mi deprimevo nel vedere quanta poca importanza dessero al disegno e alle arti grafiche quelli che vi erano naturalmente portati, e anche se i miei non mi avevano mai incoraggiato un granché, avevo seguito il mio sogno e mi ero iscritto a un istituto d'arte, tentando il tutto per tutto. Sapevo quanti e quali sbocchi desse sul mondo del lavoro, ma non per quello volevo arrendermi e lasciar perdere tutto: non sapevo nulla del mio passato, quindi volevo costruirmi alla svelta un futuro che fosse adatto ai miei desideri e alle mie aspettative. Inutile dire che a papà era preso un colpo nel vedere dove mi fossi iscritto, ma ormai la frittata era fatta e non c'era più niente da fare, quindi si era arreso e fatto da parte. Mi aveva però tenuto il broncio per qualche giorno.
"Gerard?" mi chiamò dall'altro del giardino, quasi si sentisse interpellato.
"Si, pa'?" replicai, senza alzare lo sguardo dal blocchetto.
"C'è un signore che vorrebbe parlare con te" si limitò a dire, indicando un omaccione dietro di se con un gesto rilassato della paletta e tornando a occuparsi delle sue piante, lasciandoci soli. Mi sentii invaso da una sensazione di gelo pungente e rabbrividii, mentre l'uomo si toglieva gli occhiali da sole, se li infilava nel taschino della giacca e si dedicava interamente a me.
"Gerard Way?" domandò, accertandosi che fossi realmente io. Annuii, deglutendo.
"Vieni con me. Ti vogliono in centrale."

Appena varcata la soglia della centrale, venimmo accolti da una zaffata opprimente di caffè caldo, sudore e detersivo per bagni, che sembrava quasi sottolineare il fatto che lì si sgobbasse davvero, al contrario di tanti altri commissariati, e mi si capovolse lo stomaco, mentre un peso di qualche chilo mi si depositava sulla cassa toracica. La puzza, a cui mi abituai in fretta e che l'omone sembrò non notare minimamente, mi fece sentire più terra-terra e meno in un sogno, ma allo stesso tempo faceva crescere il senso di disagio e ansia che correva dentro le mie vene, amalgamandosi al mio lato catastrofico e pessimista, e non riuscivo ad evitare di contorcermi e guardare da ogni parte, mentre il poliziotto mi precedeva e mi faceva da guida. Entrammo in una stanza di media grandezza, ben illuminata e dalle pareti di un bianco non troppo pulito, dove un tavolo sovrastava e comandava su tutto, e il mio sguardo finì immediatamente su un fascicolo ordinato, messo accuratamente in bella vista accanto a una brocca d'acqua, che sembrava chiamare il mio nome in continuazione, come se volesse che lo prendessi in mano e gli dessi un'occhiata. Respirai a fondo e deglutii, aspettando che il mio accompagnatore facesse qualche passo o qualche mossa, e lo seguii con lo sguardo mentre lui prendeva posto su una sedia e m'invitava a fare lo stesso. Il mio corpo si mosse meccanicamente e andò ad occupare la sedia di legno davanti alla sua, in modo da poterlo guardare negli occhi, e ci squadrammo in silenzio per qualche secondo, prima che lui prendesse a sfogliare il fascicolo, commentandolo dentro la sua testa con qualche 'hmm' e 'ho capito'.
"Bene, Way, devo farle alcune domande" tagliò corto, posando il gruppo di fogli davanti a se.
"Ho bisogno che lei mi risponda il più dettagliatamente possibile" disse, intrecciando le dita con aria seria.
"O-OK" acconsentii, mordendomi il labbro e annuendo.
"D'accordo, cominciamo. Quando e perché è tornato in città?"
"L'altroieri notte, volevo provare a riallacciare i rapporti con la mia famiglia. Non vedevo mio padre e mia madre da tanti anni, e visto che mi trovavo qui intorno ho deciso di allungare di qualche giorno la gita e venire a salutarli" buttai lì. Non era del tutto falso, ma neanche del tutto vero.
"Quanto conosceva James Euringer?" domandò, venendo subito al sodo.
"Non lo conoscevo quasi, o almeno, l'ho conosciuto per due, tre ore. Niente di che" risposi.
"Eppure mi risulta che lei vivesse qui, prima. Andavate alla stessa scuola, com'è possibile che non vi sia mai capitato non dico di parlarvi, ma anche solo d'incontrarvi nei corridoi?" insistette, tignoso.
"Be', vede, io ho perso la memoria e non mi ricordo niente della mia infanzia e della mia adolescenza. Qualche frammento di ricordo ce l'ho, ma è tutta roba molto vaga e per niente affidabile, quindi" spiegai.
"Capisco. E quando, diciamo, ha perso la memoria, cos'ha fatto?"
"Ho continuato con la vita di tutti i giorni, per quel che ho potuto; ma insomma, non è che sia molto"
"Come mai ha lasciato la città?" continuò.
"Niente di che, avevo voglia di viaggiare, cambiare acque, sfidare l'ignoto. Sa, le classiche cose."
"Hmm" commentò, non del tutto soddisfatto. Annotò qualcosa su un blocchetto, poi tornò a guardarmi.
"Bene, credo che si possa passare alle cose serie, finalmente. Dove si trovava ieri pomeriggio, quando il signor Euringer è finito in coma e il signor Righ l'ha portato all'ospedale?" chiese con tono autoritario, contraendo la faccia in un cipiglio severo e scrutandomi con i suoi giganteschi occhi neri, fin troppo simili a un pozzo di catrame o a un pezzo di carbone, e mi sentii mancare il terreno sotto i piedi.
Dove mi trovavo ieri? La polizia dubitava di me?
Rimasi immobile, terrorizzato e esterrefatto, e sgranai gli occhi, mentre l'altro, perfettamente a suo agio, continuava a scandagliarmi l'anima con il pensiero, registrando ogni minimo segno che potesse rivelare qualcosa che io invece volevo tenere segreto e compiacendosi del suo tono tra se e se.
"Cosa succede, signor Way, oltre alla memoria ha perso anche la lingua?" sogghignò.
Mi trattenni dal guardarlo in cagnesco, ma dentro di me lo insultai nei peggiori modi che conoscevo.
"Avanti, mi dica. Sono tutto orecchi," insistette, arcuando le labbra in un sorriso sghembo e fuori posto, che lasciava trapelare la sua pienezza di se e il suo grande orgoglio, e posò il mento sul dorso delle mani unite, inclinando un pochino la testa giusto per riuscire a cogliere meglio ogni mia espressione d'ansia.
Dal canto mio, però, non potevo farci caso più di tanto. Non avevo idea di cosa gli avessero detto gli altri quindi non potevo azzardare niente senza rischiare di metterli nei guai, ma allo stesso tempo non potevo rimanere in silenzio davanti a un poliziotto 
– voglio dire, sarebbe stato come urlare a pieni polmoni 'ehi, guardatemi, sono io il killer!' a un mucchio di persone accovacciate accanto a un cadavere; o come farsi beccare da mio padre in un atteggiamento che lui disprezza o non approva: un suicidio completo, con tanto di fuochi d'artificio e banda funebre. Mi torturai una mano, guardandolo in faccia.
Forse avevamo parlato coi ragazzi del piano, forse mi avevano detto cosa avrei dovuto fare in caso di bisogno, forse dovevo solo cercare nella mia memoria e, dopo un paio di tentativi andati male, avrei trovato la soluzione a quella situazione assurda e pericolosa e sarei stato salvo. Cercai di riprendere il controllo sul mio corpo e chiusi gli occhi, inumidendomi le labbra, mentre l'uomo mi osservava, attento.
"Signor Way?" insistette, spingendosi in avanti.
"Si è deciso a rispondere?"
Aprii gli occhi e lo guardai, sembrando totalmente assente.
"Sono andato nel bosco con i miei amici" risposi, cautamente.
"Con chi è andato nel bosco, esattamente?" cercò d'indagare lui, tirando fuori la penna.
"Non saprei dirle, li ho conosciuti ieri e non mi ricordo bene chi ci fosse e chi no. I ricordi mi si mischiano tutti e creano una specie di collage interattivo, non so bene quali immagini siano di ieri e quali di sei anni fa, ma posso dirle che in nessuna delle varie occasioni qualcuno di noi si è fatto male o si è ferito"
"E quelle bende?" chiese.
"Sono inciampato e ho sbattuto la testa" spiegai.
"Ma fuori dal bosco" aggiunsi, come a sottolineare la mia frase precedente.
"Continui pure" grugnì l'altro.
"Be', onestamente non saprei che dirle. Nella mia condizione, non c'è mai niente di sicuro"
Mi guardò di sottecchi, quasi di nascosto, e percepii sulla pelle le varie maledizioni che mi stava lanciando, ma all'esterno rimase impassibile e professionale, come mi aspettavo visto il suo rango.
"Va bene, certo, capisco" commentò.
"Tuttavia, sa che questo suo "handicap"
– e mimò le virgolette con le mani, per farmi capire che non lo diceva in modo dispregiativo, ma che era una specie di procedura, luogo comune. – la mette in una posizione tutt'altro che vantaggiosa per lei?" m'incalzò, e prima ancora che potessi aprir bocca riprese.
"Potrebbe andare in giro a rapinare una banca e poi negare tutto in successione, dicendo che quelle che vede davanti agli occhi sono scene di un thriller che ha visto in tv la sera prima e che lei non ha fatto assolutamente nulla, e a quel punto verrebbe tirata in ballo una giuria di anziani ed ex-poliziotti pronti ad analizzare prontamente il tutto e decidere se crederle o meno. Quello, nell'ipotesi più positiva. Se invece, dopo molti interrogatori infruttuosi, lei rimane l'unico indiziato senza un vero alibi, noi potremmo anche arrestarla - anche se magari è innocente per davvero - e questo non gioverebbe per niente alla sua vita. Come sa di sicuro, abbiamo già arrestato un ragazzo della sua città, presumibilmente anche un suo amico, ma non siamo soddisfatti e riteniamo opportuno andare fino in fondo ed indagare il più possibile su questa faccenda, com'è giusto che sia. Ora, capirà perfettamente che, venendo a conoscenza della sua posizione, la polizia non può ritenerla completamente innocente o completamente colpevole, quindi non può muoversi più di tanto; ma, mi ascolti bene, se ci sono altre cose da venir dette, le dica ora, prima che sia troppo tardi e le si possano rivoltar contro" concluse. Tacque un attimo e mi guardò, serio, mentre io annuivo e lo osservavo a mia volta, mantenendo il silenzio.
"Potremmo aver bisogno di parlarle un'altra volta, quindi ha il divieto di allontanarsi dalla contea senza prima avvertirci e fornirci tutte le informazioni che le chiederemo. Tenga il cellulare sempre acceso e la testa a posto, perché questa non è l'ultima volta che ci rivedremo, e la prossima potrebbe esserle fatale. L'altro ragazzo è innocente, ma non è detto che lo siate anche lei e i suoi amici. Detto questo, buona giornata e buon ritorno in città" disse, sospirando sulle prime frasi e ritrovando il suo cipiglio da duro nelle ultime, per poi fissarmi con sguardo gelido e distaccato. Mi alzai, stupito che avesse lasciato perdere così facilmente, e deglutii, poi considerai le due opzioni possibili: stringergli la mano e salutarlo in modo almeno un po' amichevole, oppure andarmene in silenzio dopo aver annuito un paio di volte. Optai per la seconda e mi dileguai velocemente, riempiendomi gli occhi di ogni particolare dell'edificio e appuntandomi cose nella mente, nel vano tentativo di distrarmi dall'ansia e dalla preoccupazione. Mi chiusi la porta a vetri alle spalle cercando di fare meno rumore possibile, azzardai qualche passo incerto verso il parco e crollai dritto sulle mie ginocchia, lo sguardo fisso e le palpebre spalancate, accasciandomi come se fossi fatto di gelatina.
La polizia mi aveva appena interrogato.
La polizia sospettava di me.
Ero morto. Eravamo morti. Avevo fregato tutti quanti.
Mi sentii invadere da un senso di malessere e delusione e la testa cominciò a girarmi ancora di più, così me la presi tra le mani e strinsi le tempie, massaggiandomele in un vano tentativo di calmarmi. Mandai giù un conato di vomito e un altro risalì velocemente la mia gola, ma respinsi pure quello, deglutendo come un pazzo e rimanendo immobile accanto all'entrata. Sputai per terra, afflitto, e imprecai un paio di volte, raggomitolandomi su me stesso e abbracciandomi le ginocchia, e cercai di tranquillizzarmi, ripetendomi che non tutto era perduto e che saremmo usciti anche da quella situazione, che non era poi così grave, che sarebbe andato tutto per il meglio, come doveva essere, e che ce l'avremmo fatta.
Sorrisi tra me e me, e mi sentii un po' meglio. Avevo ragione, non per quello avrei dovuto arrendermi e darla vinta al misterioso rapitore, un coglione da quattro soldi che si era persino perso un'agenda (forse) contromettente per strada. No, ero migliore di lui, lo eravamo tutti, e saremmo riusciti ad arrivare fino in fondo a questo caso  alla facciazza della polizia! -, questo era poco ma sicuro. Tirai su col naso, me lo strofinai con un braccio e mi tirai in piedi, improvvisamente ricaricato di una strana energia e di tanto, troppo ottimismo. Mi avviai verso casa, ficcandomi le mani in tasca e mollando un calcio a una lattina mezza appiattita da un'auto, lanciando uno sguardo al cielo. Ce l'avremmo fatta. Era questo che contava.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


combattere contro il passato (cap 8)
Come ho detto prima, fu abbastanza difficile entrare in contatto con i miei amici e riuscire a parlargli in tutta tranquillità, quel giorno – e non solo perché ci s'era messa di mezzo anche la polizia, a inquinare le acque. Okay, certo, quello non era un dettaglio irrilevante e i ragazzi sarebbero inorriditi nel sapere che erano alle nostre costole, ma allo stesso tempo il fatto che ci venissero dietro non era molto importante, perché quelli non avevano prove per incastrarci o provare che stavamo facendo, non dico qualcosa d'illegale, ma anche solo qualcosa di sbagliato; quindi, dopo un momento di terrore, ansia e oddio-ci-sbatteranno-tutti-in-galera, mi ero tranquillizzato e avevo ripreso a ragionare lucidamente. La madama poteva sospettare di noi quanto le pareva, ma se ci fossimo comportati in maniera sicura e naturale non le avremmo dato alcuna soddisfazione e avrebbe lasciato perdere per dedicarsi a tracce più solide e, tra virgolette, normali. Voglio dire, quale gruppo di ventenni andrebbe a uccidere uno di loro per poi limitarsi a mandarlo in coma e, udite udite, portarlo addirittura all'ospedale, col rischio che si risvegli e li denunci? Bisognava essere proprio coglioni a farsi infinocchiare così, ma probabilmente la polizia non ci riteneva abbastanza intelligenti da essere in grado d'intuirlo e andava sul sicuro, nel dire che sospettava di noi, perché tanto non avremmo potuto farci niente. Ragionandoci a mente fredda, però, è facile notare che il loro ragionamento faceva acqua in vari punti, perché non solo ci saremmo dati la zappa sui piedi da soli, se fossimo stati davvero i tentati assassini, ma avremmo anche rischiato inutilmente, in quanto il ragazzo era solito andare a fare giri nel bosco da solo: sarebbe bastato buttarlo in un fosso ben nascosto che nessuno avrebbe sospettato di niente, e probabilmente il cadavere non sarebbe mai stato ritrovato. Insomma, se ci si pensava un po' su con calma, risultava evidente che non potevamo esser stati noi i colpevoli, perché gli altri, da bravi conoscitori del posto, non avrebbero corso un rischio così grande, col pericolo di finire in gattabuia, se potevano liberarsi del corpo in maniera più pulita e silenziosa. A quel punto, rimaneva un unico grande interrogativo: chi poteva essere stato? Il motivo per cui lo avevano attaccato era ovvio: stava lavorando a qualcosa d'importante che avrebbe potuto danneggiare Urine e i suoi complici – sempre che ne avesse –, quindi andava messo a tacere, possibilmente in maniera pulita e definitiva. Probabilmente il fatto di mandarlo in coma non era stato previsto e il rapitore voleva limitarsi semplicemente a tenerlo in ostaggio per un po', prima di rimandarlo indietro, abbandonarlo o ucciderlo, ma le cose erano degenerate e si era visto costretto a toglierlo di mezzo. Non aveva con se gli strumenti adatti per ucciderlo e il tempo non era dalla sua parte, così si era limitato a colpirlo e tramortirlo, per poi abbandonarlo appena sono saltato fuori io, pronto ad inseguirlo.
Mi morsi il labbro, pensieroso. Da quando ero uscito dal commissariato mi ero perso completamente in pensieri di questo genere e non riuscivo a trarmi fuori da questo circolo vizioso di domanda, ricerca e risposta, che il mio cervello sembrava apprezzare particolarmente. Scossi la testa velocemente e sentii una mano posarmisi sulla spalla, così sussultai e mi girai, sperando di non vedere un agente.
"Gerard!". Fortunatamente non c'era nessun poliziotto, solo Ray.
"Oh, ehi Ray" lo salutai, stupito.
"Che ci fai qui?" gli domandai quindi, guardandomi attorno.
"Ero venuto a cercarti e tuo padre mi ha detto che eri in zona" mi rispose con una scrollata di spalle.
"Oh. Vi ho cercati anch'io, ma mi sa che non sono portato per le ricerche" ammisi, laconico.
"Mi dispiace per quello che è successo ieri" aggiunsi, incrociando nuovamente il suo sguardo.
"Nah, figurati, fa niente. Tuo padre aveva pure ragione" ribatté, sorridendo.
"Quando sono tornato a casa pure il mio vecchio mi ha dato una bella strigliata, è normale" rise, e io mi sentii più a mio agio nel vederlo così rilassato, così sorrisi anch'io, abbassando un attimo lo sguardo,
"Senti, piuttosto.. sarebbe possibile incontrare Lindsey?" domandai.
"Ma certo, sono venuto per questo, no?" fece lui allegramente, scompigliandomi i capelli. Mi disse di seguirlo e io trotterellai al suo fianco, guardandomi intorno finché non scorsi una macchina.
"E' quella?" gli chiesi, indicandola con un cenno del capo. Lui annuì.
"Già. Non è un granché, ma quando vivi qui non vai a guardare la bellezza delle auto" mi spiegò, e mi parve di cogliere una nota d'imbarazzo nella sua voce, appena più flebile di prima, così cambiai argomento.
"Avete trovato qualcosa, ieri sera?" m'informai, sistemandomi la cintura mentre Ray faceva lo stesso.
"In realtà ce ne siamo andati poco dopo di te. Il bosco era deserto, così abbiamo deciso di andarcene e tornare oggi, visto che più rimanevamo più diventava difficile distinguere qualcosa, e bho, niente, alla fine non abbiamo fatto poi così tanti progressi" commentò, chiudendo le dita attorno al volante e voltandosi indietro per fare manovra. Annuii e guardai dritto, mentre ci lasciavamo alle spalle il parcheggio.
"Ray, qualcuno ti ha cercato, oggi?" insistetti dopo un po'.
"Be', sì, i ragazzi; ma credo sia normale. Non mi ha cercato nessun altro, però" rispose, pensandoci su.
"Capisco" mi limitai a ribattere, appoggiando la testa al finestrino e appannando il vetro con il mio respiro. Che senso aveva venire a interrogare solo me? Forse avevano capito che ero l'anello debole della catena e speravano in un mio gigantesco crollo, che poi avrebbe portato alla deriva anche gli altri. Storsi la bocca. Sapevo di non essere esattamente utilissimo, ma era una strategia meschina.
"Siamo arrivati" annunciò il riccio un quarto d'ora dopo, spegnendo dolcemente il motore dell'auto e slacciandosi con calma la cintura. Scendemmo sbattendoci dietro le portiere e respirammo l'aria fresca per qualche secondo, prima di metterci in marcia verso la base e bussare il più sonoramente possibile sul grande portellone di cemento, cercando di attirare l'attenzione delle ragazze. Ci aprirono dopo meno di un minuto e ci accolsero con un gran sorriso, invitandoci a entrare e a sederci sulle poltrone, perché avevano qualcosa d'importante da dirci che aveva aspettato fin troppo. Presi posto accanto alla bionda e mi sentii a disagio per una manciata di secondi, mentre il riccio richiudeva il portellone a chiave, causando uno spostamento d'aria e la diminuzione improvvisa della luce nella stanza. Gli altri sembravano abituati a quell'ambiente claustrofobico, così tacqui e mi concentrai sulle mani della ragazza, che non riuscivano semplicemente a star ferme, a causa dell'eccitazione per la misteriosa scoperta.
"Allora, siete pronti?" ci domandò Columbia con un sorriso elettrizzato, appena ci fummo sistemati sulle sedie. Annuimmo prontamente e lei lanciò un'occhiata d'orgogliosa felicità alla sua amica, che la ricambiò con un cenno del capo, andando a raccattare delle carte dal bancone. Io e Ray proprio non capivamo.
"Be'? Che dovete farci vedere?" disse lui, aggrottando le sopracciglia.
"Ancora un attimo di pazienza, ci siamo quasi" lo liquidò Lindsey, armeggiando con il proiettore.
"Ecco, guardate" richiamò la nostra attenzione, indicando una diapositiva che cominciava ad andare, anche se facendo qualche balzo e rumore strano ogni tanto, e noi ci concentrammo sulle immagini che andavano a danzare su un lenzuolo appeso a mo' di schermo, che occupava gran parte della parete.
"Ce l'ha consegnata la madre di Jimmy qualche ora fa, dicendo che lui le ha fatto promettere di darci questa in caso gli fosse successo qualcosa
– ci spiegò, incrociando le braccia sul petto con aria seria. – Dice che quando gli ha chiesto cosa avrebbe dovuto capitargli, lui è rimasto in silenzio e che gli si è oscurato il volto, quindi forse lui era consapevole di ciò a cui stava andando incontro. Per ora possiamo supporre solo poche cose, in quanto stiamo vedendo il video per la prima volta pure noi, ma credo che Jimmy si fosse reso perfettamente conto di quanto vicino fosse alla soluzione di questo mistero, e proprio per questo aveva adottato delle misure extra di sicurezze. Purtroppo non sono bastate, come ben sappiamo, però devo ammettere che è stato davvero intelligente da parte sua" commentò con un sorriso d'ammirazione, scuotendo leggermente il capo e abbassando lo sguardo.
"Certo che è proprio avanti" si compiacque, fiera di essere sua amica e compagna d'indagini. Con un sospiro, dedicò tutta se stessa al video e conservò un silenzio religioso, rivelando un attaccamento quasi morboso per quell'ultimo messaggio del ragazzo, così inaspettato ma allo stesso tempo così razionalmente normale. Spostai lo sguardo da lei al video e mi persi al suo interno.

"Ehi, ciao ragazzi, come va?" chiede, scuotendo la mano in segno di saluto.
"Be', se state guardando questo video immagino male,
soprattutto per me, ma non importa, via. Non c'è niente che non si possa sistemare al mondo e sono contento di poter fare la mia parte per risolvere questo mistero del cavolo, visto che questa storia sta andando avanti da fin troppo tempo. Come avrete di certo immaginato, ci stiamo avvicinando molto alla soluzione dell'enigma e già in questo momento le cose stanno cominciando a farsi molto più pericolose per ognuno di noi, visto che stiamo per rompere le uova nel paniere a qualcuno che non ha paura di infrangere la legge e che non si farà problemi a farlo di nuovo, se può salvargli la pelle. Certo, voi siete un po' più al sicuro di me, visto che ho deciso di concentrare su di me tutte le cose più rischiose, in modo da criptare tutto in un codice che non tutti sono in grado di decifrare e che potrà permettervi del vantaggio in caso mi succeda qualcosa; ma dovrete comunque tenere gli occhi aperti in ogni momento e non dovrete mai, mai e dico mai fidarvi di un qualsiasi membro della cittadinanza, perché potrebbero sgambettarvi e mandarvi in pasto ai lupi. Forse detto così sembra esagerato, ma il punto è che non sono sicuro di chi sia coinvolto e chi meno, quindi meno vi fate vedere in giro meglio è, per ognuno di voi. Certo, non tutti i cittadini sono stronzi e non tutti vi vogliono veder fallire, ma sono sicuro che qualcuno desideroso di vedervi sconfitto c'è, devo solo scovarlo e trovare il modo per smascherarlo. Ho già un piano che non andrò a spiegare qui per ovvi motivi, ma sappiate che è un buon piano e che sono sicuro all'80% che andrà in porto, quindi non avrete da preoccuparvi ancora per molto. In ogni caso, ho già sparso degli indizi in giro per la zona, quindi in caso mi succedesse qualcosa potrete benissimo andare avanti senza di me senza troppi problemi. Ora, il problema maggiore rimane come assicurarmi che questo video lo vedrete solo voi, ma è qualcosa a cui posso lavorare con tutta tranquillità. Anzi, mi è già venuta una bellissima idea, quindi non c'è più alcun particolare a cui pensare per oggi.. cioè, sì, rimane il fatto che devo smascherare pubblicamente quella che da ora in poi chiamerò la spia, ma per quello c'è tempo, visto che l'operazione scatterà con il calar della notte. E quindi bho, sì, insomma, spero che non vedrete mai questo video. Non dico tanto per me, perché di persone come sono fatto io ce ne sono tante al mondo, e non lo dico neanche perché sono morbosamente attaccato a questa mia strana vita, ma perché mi manchereste. Ci sono così tante cose che devo dirvi e che probabilmente non troverò mai il coraggio di sputar fuori... Ehh, ognuno ha le sue debolezze, e le parole sono la mia. Troverò un modo per superare anche questo ostacolo, vedrete, ma per ora concentratevi sul guardarvi alle spalle, e non abbassate mai la guardia. A qualche giorno da ciò che mi capiterà, perché è inevitabile che mi succeda qualcosa, vista la situazione in cui mi sono cacciato, riprendete con le operazioni di routine e comportatevi come se non fosse successo niente, troverete gli indizi senza neanche farlo apposta. Come ben sapete, purtroppo solo quel coglionazzo di Steve è in grado di decifrare il codice, quindi la sua presenza è davvero molto, molto determinante, e vi pregherei di far sì che rimanga sempre nel gruppo, qualunque cosa succeda. In caso venga allontanato, dovrete passare parecchie notti insonni a confrontare i miei appunti originali con quelli tradotti ovvero la versione ufficiale che vi ho sempre passato , a cercare di familiarizzare con il codice, perché è davvero di fondamentale importanza riuscire a 'farci amicizia'. Ma soprattutto, state attenti più che potete quando vi avvicinerete alla rete, perché non sono mai riuscito ad infiltrarmi nel loro sistema di sicurezza, e di conseguenza quelli là hanno qualcosa di grosso da nascondere. Non sono mai riuscito a capire cosa, ma c'è qualcosa di decisamente importante isolato in quella zona; quindi quello rimane il punto più misterioso e pericoloso di tutto il monte, e quello in cui mi concentrerei maggiormente, se fossi un po' più muscoloso e un po' più agile. Purtroppo sono quel che sono e non potrò mai cambiarlo perché i miei limiti sono questi, ma sono sicuro che uno di voi riuscirà alla grande dove io ho fallito, e allora il mistero sarà pressoché risolto. Be', che dire, buona fortuna, ragazzi. Sappiate che credo in voi con tutte le mie forze, e che non smetterò mai di farlo. Sono onorato di aver fatto la vostra conoscenza e di esser potuto diventare vostro amico. Siete dei grandi. Delle fonti d'ispirazione. Non cambiate mai, vi prego, perché ora come ora siete ciò che mi spinge a migliorarmi costantemente, giorno dopo giorno. Grazie di tutto, davvero. Alla prossima".
Finisce di parlare, sorride malinconicamente, gli occhi velati di lacrime, e si avvicina per spegnere la telecamera, sillabando qualcosa con le labbra. Probabilmente 'vi amo'. Poi tutto si fa buio.

Quando il filmino finì, un silenzio soffocante riempì la stanza e nessuno mosse un muscolo. Riuscivo a percepire il magone che aveva attanagliato le bocche dello stomaco di tutti i miei amici e io stesso mi sentivo poco bene, anche se non lo conoscevo quasi per niente in confronto a loro, e la situazione era a dir poco straziante. Mi morsi il labbro e mantenni lo sguardo basso per non incrociare quello velato di lacrime e tristezza degli altri, ma le cose non migliorarono minimamente e mi sentii solo un gran codardo. Respirai a fondo, il cuore che batteva forte, e mi alzai per abbracciare la bionda, ancora in piedi di fronte a me, scossa dai tremiti e dai singhiozzi silenziosi che attaccano sempre chi non vuole farsi vedere debole. La strinsi a me il più forte possibile, accarezzandole delicatamente i capelli e lasciando che m'inondasse la maglietta di lacrime amare, e per qualche istante mi sentii una persona migliore, mentre anche Ray si alzava e ci circondava con le braccia, seguito a ruota dalla riccia. Ci abbracciammo tutti, un abbraccio di gruppo sincero, profondo e addolorato come non ne avevo mai provati, e ci giurammo silenziosamente che avremmo scoperto chi aveva fatto questo al nostro Jimmy, che gliel'avremmo fatta pagare, che non avremmo lasciato che le cose ci sfuggissero di mano un'altra volta, non a questo prezzo. Lindsey si appiattì ulteriormente contro il mio petto e si portò le mani vicino al volto, come se dovesse mordersi le dita, e mi guardò con i suoi grandi occhi da cerbiatto, trasmettendomi in un istante tutto quello che aveva temuto, sofferto e passato durante i miei anni di assenza, mentre le indagini avevano preso velocemente vita e si erano trovati tutti catapultati in una situazione più grande di loro. Mi sentii mancare il terreno sotto i piedi e deglutii, ma sostenni il suo sguardo e lo ricambiai con uno più dolce, positivo, pieno di speranza e buone intenzioni, e sentii i suoi muscoli rilassarsi un po', mentre arcuava le labbra in un sorriso timido e impacciato e mi ringraziava silenziosamente. Columbia si staccò da noi e Ray fece lo stesso, così finimmo di sciogliere l'abbraccio e ci guardammo tutti in faccia, più seri possibile.
"Dopo Steve sono io quello che conosceva meglio James, mi occuperò io del codice" annunciò il riccio.
"Noi cercheremo degli indizi e ci prepareremo per la ricognizione della rete metallica, invece" fece Columbia, con tono autoritario e deciso. Io e Lindsey annuimmo, ci guardammo negli occhi per un po' e infine ci separammo, il riccio nella zona appunti e io e le altre a setacciare l'intera base, mettendo in discussione i più minimi dettagli e particolari, alla ricerca di qualcosa che non sapevamo neanche che forma avrebbe avuto. Dopo una mezzora di duri e infruttuosi sforzi, mi lasciai cadere su una sedia, esausto, mentre le ragazze si accoccolavano una sul bordo del tavolo e l'altra ai piedi della scaletta, e tirai fuori dalla tasca l'ipod, infilandomi le cuffie in tasca e facendo partire una canzone casuale, senza farci davvero caso.
"Ehilà, ragazzo mio, vedo che hai scoperto il primo indizio" cinguettò una voce.
"Jimmy?!" esclamai, scattando in piedi e voltandomi a destra e sinistra, freneticamente.
"Gerard? Ehi, tutto okay?" mi chiese la bionda, avvicinandosi. La guardai con occhi sbarrati e abbassai lo sguardo sull'ipod, che non entrava tutto nella mia tasca, e in un istante mi fu tutto chiaro.



Ho ancora la scena come dipinta davanti agli occhi, tant'era singolare. Camminavo spavaldamente, tutto sommato, e mi guardavo attorno con circospezione ogni due secondi, tant'era grande l'ansia, e ogni minimo fruscio mi allarmava e mi metteva l'anima in subbuglio, quindi ero decisamente buffo da osservare. Non avevo ancora raggiunto la recinzione, ne ero anzi ancora un po' lontano, e stavo cominciando a dubitare che l'avrei mai raggiunta, quando di punto in bianco, spostando l'ennesimo ramo di sempreverde, l'avevo vista ergersi lì davanti a me, in tutto il suo metro e mezzo di altezza, in una spavalda e arrogante sicurezza; sembrava quasi dirmi 'ragazzino, vattene pure via; non riuscirai mai a scoprire il mio segreto'. Non mi ero lasciato intimorire maggiormente e avevo cominciato a guardarmi intorno con l'aria più disperata e terrorizzata possibile, cominciando a recitare la mia parte e facendo partire il piano. Esitai qualche secondo vicino alla rete, senza appoggiarmici, poi lanciai un 'c'è nessuno?' per rendere la scena più realistica e mi costrinsi ad aumentare il battito cardiaco, respirando più velocemente e in modo più irregolare. Deglutii sonoramente e ripresi a camminare, costeggiando la recinzione, lanciando qualche richiamo di tanto in tanto, per non perdere credibilità; e mi fermai dopo circa un chilometro, lasciandomi cadere sulle ginocchia e inumidendomi più volte le labbra, come per recuperare il controllo, poi gridai un 'ehi' a tutti polmoni, conscio che nessuno mi avrebbe risposto. A quel punto attaccai con un 'c'è nessuno? dove siete tutti? ehi?' e finsi di asciugarmi le lacrime, nonostante i miei occhi fossero quasi completamente non-lucidi, e mi tirai su, ostentando stanchezza e smarrimento. Pretendendo di singhiozzare, spaventato e spaesato come dovrebbe esserlo un qualsiasi ragazzo disperso, ripresi a camminare, tenendomi il più vicino possibile alla maglia metallica, argentea come se fosse nuova ma vittima della ruggine in qualche raro punto, e cercai di far arrivare ai ragazzi la più vasta varietà d'immagini possibile, voltandomi verso destra una volta, verso sinistra un'altra e indietro un'altra ancora, e mi appoggiai al tronco di un albero lì vicino, lasciando che il mio peso si riversasse interamente contro la corteccia.
"Ehi? C'è qualcuno qui? Vi prego, aiutatemi" piagnucolai, facendo scivolare la schiena lungo il legno, sedendomi e abbracciandomi le ginocchia in un ultimo tentativo di consolarmi e calmarmi. Nessuno rispose, niente si mosse. Storsi la bocca, amareggiato. E se qualcuno si perdesse davvero in mezzo a questi cazzo di boschi? Come reagirebbero le autorità? Come reagirebbero i proprietari della rete?
Guardandoli storto, me ne rimasi seduto per un'altra decina di minuti, poi mi alzai e mi rimisi in cammino, zoppicando e appoggiandomi agli arbusti di tanto in tanto, per far capire che ero allo stremo delle forze, ma continuai a non attirare l'attenzione di nessuno. In preda al finto sconforto e alla disperazione più nera, presi a calciare un sasso e lo mandai contro la recinzione, senza farlo apposta, e mi sentii mancare il fiato nel vedere che non solo non era scattato nessun allarme, ma che non c'era neanche un sistema di elettroshock destinato a chiunque provasse anche solo a toccare l'attrezzo. Mi sentii più fiducioso e mi avvicinai a guardarla, raccolsi il sasso, me lo misi in tasca e ripresi a camminare, con aria depressa.
"Perché non mi aiutate?!" sbottai dopo un po', stringendomi le mani attorno alle tempie.
"Assassini, assassini, assassini" gridai, crollando in ginocchio. Grazie al cielo sapevo piangere a comando.
"Che cosa vi costa? Cosa vi cambia? Vi prego, aiutatemi. Non ce la faccio più" piagnucolai, sdraiandomi per terra, abbracciandomi stomaco e gambe e piangendo come un forsennato. Per un po' rimase tutto in silenzio, poi, quando avevo ormai perso la speranza, sentii un cigolio e intravidi un cancello che si apriva in lontananza, da dove uscirono due donne, che mi corsero incontro. Strinsi i denti prevedendo il dolore che avrei provato, strizzai gli occhi e sbattei la ferita contro il terreno arido e roccioso, in modo quasi impercettibile agli occhi degli altri ma fin troppo percettibile per me. Mi si riempirono gli occhi di lacrime e assunsi un'aria di disperato dolore ancora più credibile, in quanto reale, e mi raggomitolai ulteriormente su me stesso tra i singhiozzi, fingendo di non essermi accorto di niente. Le donne mi si avvicinarono, caute, e lanciarono un'occhiata preoccupata prima alle mie bende insanguinate, poi ai miei vestiti strappati ed infangati, e decisero di portarmi con loro. Una di loro si piegò sulle ginocchia e mi posò una mano sulla spalla; finsi di sobbalzare e spostai velocemente il viso dal braccio, facendo correre i miei occhi sgranati lungo i lineamenti dei loro volti. Contrassi il volto in un sorriso e mi asciugai le lacrime con commozione.
"Lo sapevo che.. che c'era qualcuno ad ascoltarmi... Grazie, grazie mille..." mormorai stringendo le labbra in un ultimo scatto di gratitudine, poi pretesi di svenire. E loro ci credettero.



Quando mi "svegliai", non avevo più la giacca addosso ed ero disteso su un lungo divano di un verde militare piuttosto stinto, con una borsa del ghiaccio sotto il collo e delle bende pulite attorno alla testa. Le due donne non erano nella stanza, così ne approfittai per far emergere meglio una delle cuffiette, che avevo in precedenza infilato sotto la maglietta, facendola passare per un buco e incastrandola là in mezzo, in modo da assicurare sempre una visuale abbastanza decente ai miei amici. Socchiusi gli occhi, udendo uno scalpiccio di passi, e pochi secondi dopo una donna sulla ventina irruppe nella sala, stringendo tra le mani una pezza inumidita d'acqua tiepida con cui lavarmi via lo sporco dalla faccia. Finsi di svegliarmi proprio in quel momento e lei abbozzò un sorriso imbarazzato, dopo un attimo di puro panico, e si allontanò da me, permettendomi di tirarmi a sedere. Mi portai una mano alla testa e mugugnai.
"Dove... dove sono?" domandai, lasciandomi scappare un gemito di dolore nello sfiorare la ferita appena disinfettata. La donna scattò verso di me e mi strinse forte la mano, facendomi sussultare. La guardai con gli occhi sgranati e lei cercò di sembrare meno tesa di quanto fosse.
"Non devi toccarti la testa o la ferita non si cicatrizzerà mai" mi avvertì frettolosamente, come a scusarsi del suo comportamento istintivo e inspiegabile, poi mi lasciò la mano e io la abbassai, confuso.
"Io mi chiamo Alicia, comunque" si presentò, spostandosi una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio.
"Gerard, piacere" dissi a mia volta, incerto sul doverle stringere la mano o meno. Lei decise di no.
"Sei pieno di graffi, Gerard. Ti senti bene?" mi domandò, guardandomi dritto negli occhi.
"Sì, be', più o meno
biascicai. – Diciamo che non sono fatto per i boschi, ecco"
Rise della mia pessima battuta e la sua risata cristallina mi piacque, così abbozzai un sorriso.
"Ma toglimi una curiosità, che ci facevi in mezzo alla foresta?" mi chiese dunque.
"Be', ecco, vedi, stavo passeggiando per passare il tempo e a un certo punto mi sono allontanato troppo dal sentiero. Ho provato a tornare indietro, ma non riuscivo proprio a ritrovare la strada, così ho finito col perdermi ancora di più e sono finito qui. Più o meno. Diciamo che da sud arrivavano degli strani rumori e mi sono spaventato, così ho perso il controllo di me stesso e ho cominciato a correre all'impazzata verso nord. Ho avuto parecchia fortuna a finire qui" spiegai, torturandomi le dita.
"Be', caspita, sembri più morto che vivo" commentò lei, accennando ai miei abiti in pessime condizioni.
"In effetti sono ore che giro" ammisi, imbarazzato.
"Oh. E non sei stanco?" chiese ancora, piegandosi verso di me.
"Infatti sono svenuto" le ricordai con un sorriso, facendola arrossire per la domanda stupida.
"Ah, già, hai ragione, scusa" esclamò tutto d'un colpo, coprendosi la bocca con la mano.
"Immagino che tu ti senta a disagio così conciato, vado a prenderti qualcosa di mio fratello, così potrai cambiarti. Tu intanto va a farti una doccia, così ti riprendi un po' da questa brutta esperienza" trillò convinta, prendendomi per una mano e tirandomi in piedi prima ancora che potessi dire qualcosa.
"Il bagno è da questa parte, vieni" mi avvisò, portandomici davanti.
"Dentro troverai degli asciugamani puliti, usa pure quello che preferisci. Il phon è lì sulla mensola, se ti serve una qualsiasi cosa dimmi pure, sarò felice di aiutarti" cinguettò, sfoggiando un enorme sorriso. Non ebbi neanche il tempo di aprir bocca che lei era già trotterellata via, presumibilmente verso la camera del fratello alla ricerca di un paio di vestiti per me. Rimasi lì spiazzato per un paio di secondi, poi mi lanciai un'occhiata attorno e mi avventurai verso la direzione in cui era sparita lei, inquadrando il più possibile quel corridoio lungo ed eccentrico, pieno di quadri, ninnoli e chincaglierie d'altri tempi, e mi chiesi dove diavolo fossi capitato. Mi era ben chiaro che infilare le cuffie e ascoltare i consigli degli altri era a dir poco impossibile, vista l'iperattività della mia ospite, quindi potevo contare solamente su me stesso. Presi un respiro profondo e mi fermai davanti a una porta di legno di ciliegio, che sembrava molto più spessa del normale, e mi preparai ad aprirla, quando all'improvviso spuntò fuori Alicia.
"Gerard! Ehi, sono qui!" mi chiamò, avvicinandosi a me sventolando freneticamente la mano.
"Scusa se ti ho lasciato lì così, ecco il tuo cambio" sorrise, mettendomi in braccio un paio di vestiti.
"Credo siano della tua misura, in fondo mio fratello è alto più o meno quanto te" aggiunse.
"Grazie mille" mormorai un po' perplesso, alzando lo sguardo ed incontrando il suo, raggiante di allegria.
"A-allora io vado" affermai, indicando il bagno con il dito. Lei annuì e mi salutò con la mano, così mi voltai e rifeci tutto il percorso al contrario, esitando un momento sulla soglia della sala, voltandomi a guardarla. Era ancora lì, e il suo sorriso sembrava ancora più grande di prima. Mi sentii scuotere da un brivido e mi chiusi la porta alle spalle, girando due volte la chiave. Non ne capivo bene il perché, ma quella ragazza m'inquietava, e così faceva la sua casa. Mi lanciai un'occhiata attorno e mi sentii invadere da un senso di disagio, così aprii l'acqua e feci tutto il possibile per lanciarmi il prima possibile sotto il suo getto bollente.


Appena uscito dalla doccia, effettivamente, mi sentii davvero molto meglio. Lo shock dell'interrogatorio, del video e ora dell'incontro con quella pazza scatenata se n'era andato con calma, scivolando via assieme al sapone, e mi sentivo più carico, rinato. Era stata una giornata pesante ed era ancora lontana dal finire, quindi quella pausa sotto l'acqua mi era stata davvero d'aiuto, sebbene all'inizio ero un po' scettico. Anche perché, diciamocelo, chi è che fa entrare uno sconosciuto in casa sua e poi insiste perché si faccia la doccia, quando non puzza o niente? Okay che avevo i vestiti strappati e un po' laceri, ma il fatto che mi c'avesse spedito senza neanche chiedere mi aveva lasciato spiazzato, perplesso, e mi aveva dato molto da pensare, mentre mi toglievo i nodi dai capelli. Era una ragazza strana, poco ma sicuro, ma forse potevo sfruttare la cosa a mio vantaggio e farmela amica, visto che non sembrava neanche poi così antipatica. Carina era carina, suppongo, ma quello non significa niente. Aveva la faccia allegra e la parlantina facile, e queste ultime cose me la facevano vedere come una ragazza aperta e spensierata, una sognatrice che crede ancora che al mondo esistano i principi azzurri e i lieto fine, una ragazza che pensa sempre positivo, qualunque cosa accada. Avevo davvero intenzione di fare amicizia con lei, solo che allo stesso tempo mi metteva un po', come dire?, non paura, non ansia, ma mi comunicava un misto di sensazioni che passava in continuazione dallo spiacevole al piacevole, e non sapevo come comportarmi in sua presenza.
Uscii dal bagno con titubanza e mi guardai intorno, senza ricordarmi da dove ero arrivato, da dove era sparita lei o dove avevo visto la gigantesca porta di ciliegio, e mi sentii smarrito come non mai. Respirai a fondo, mi morsi il labbro e imboccai il corridoio che portava verso destra, il più austero e meno pieno di ritratti di famiglia
– che trovavo orribili e inquietanti – tra i due, e lo percorsi finché non m'imbattei in un'altra porta, stavolta di dimensioni normali, dalla quale proveniva un flebile vociare. Mi domandai cosa fosse e bussai sul legno con le nocche, senza ricevere risposta, così provai a chiamare la mia amica un paio di volte, per capire se si trattasse di lei o dell'altra donna che avevo scorto qualche ora prima. Niente. Improvvisamente tutti i suoi avevano cessato di esistere e l'unico rumore che riuscivo a udire era quello del mio respiro che s'infrangeva contro il legno nodoso e levigato.
"Alicia? Alicia, sei tu?" riprovai, dopo aver bussato un'altra volta, con più decisione.
"Ehm, Alicia? Tutto bene?" domandai. Non ricevetti risposta, così deglutii, sistemai meglio le cuffiette in modo da riprendere meglio la scena e misi una mano sulla maniglia, pronto a girarla.
"Gerard! Eccoti finalmente!" esclamò lei dall'altra parte del corridoio, facendomi sobbalzare.
"A-Alicia, c'è qualcuno qui" osservai, indicando la stanza.
"Ma che dici, non c'è nessuno" ribatté lei, scuotendo la testa e guardandomi come se fossi pazzo.
"Eppure giurerei
.." provai a obiettare, ma lei mi posò un dito sulle labbra.
"Shh" mi intimò, allontanandosi a passi pesanti. Un paio di minuti e il brusio ricominciò. Guardai la ragazza come a dire 'hai visto?' e lei tornò da me in punta di piedi, stupita almeno quanto lo ero io.
"Non è possibile" sussurrò, gli occhi sgranati e i muscoli irrigiditi. Misi nuovamente la mano sulla maniglia e la guardai negli occhi, aspettando il suo permesso per aprire la porta e saltar dentro, e lei annuì. Il grido che la persona all'interno della stanza fece quando mi vide è qualcosa che non dimenticherò mai.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


combattere contro il passato (cap 9) «Be', e ora che facciamo?»
La domanda era aleggiata sulle labbra di tutti per un paio di minuti, mentre il roscio si allontanava, addentrandosi nel bosco e avvicinandosi di più al pericolo e alla rete metallica, ma dovette passare un po' di tempo prima che uno dei presenti riuscisse a metterla a voce, materializzando l'ansia di tutti gli altri e rendendo la situazione un po' più reale. I ragazzi si guardarono tacitamente negli occhi e risposero alla domanda con uno sguardo insicuro e serrando forte la bocca, come a dire: 'ah bho, non chiederlo a me'.
«Semplice, si torna al rifugio, si aspetta e poi si va avanti col piano» minimizzò Lindsey scrollando le spalle, prendendosi carico della tensione degli altri e spostandosi una ciocca dal viso con fare sciolto.
«Avete sentito tutti quello che ha detto Gerard, no?» li incalzò, alzando un sopracciglio; loro annuirono.
«Allora non avreste bisogno di chiedere, visto che è già stato detto tutto in precedenza. Ora ci metteremo in cammino, tra una ventina di minuti saremo alla base e ci metteremo in postazione, poi decideremo i turni per sorvegliare il video, visto che non potremo assolutamente lasciare il roscio da solo neanche per un secondo, e basta. Ci divideremo in varie mansioni, e per non destare sospetti ogni tanto ci faremo vedere ad andare in giro in macchina con la musica a palla e delle birre in mano, e per rendere il tutto più reale ogni tanto uno di voi indosserà una parrucca rossa. La speranza è che Gerard riesca a tornare prima che faccia buio, ma visto che sono già le cinque passate bisognerà inventarsi qualcosa per suo padre, e bisognerà anche avvisare i nostri genitori e dirgli che non torneremo a casa per cena» valutò, storcendo la bocca.
«Chi è che si offre per il primo turno?» domandò, guardandosi intorno. Gli altri si guardarono l'un l'altro, senza aprire bocca e rabbrividendo, e la ragazza sentì l'impulso di sbuffare, ma si trattenne.
«Be'? Nessuno?» insistette, guardandoli uno dopo l'altro con sguardo serio. Ray sospirò, chiudendo gli occhi, e fece per alzare una mano, ma la riccia lo precedette.
«Vado io». Lindsey la guardò soddisfatta e annuì, dedicandole un sorriso compiaciuto.
«Perfetto allora. Ray, tu ed io torneremo a casa e diremo ai nostri che andiamo a vedere un film nella città accanto e che quindi passeremo la serata fuori, se non l'intera nottata, poi passeremo dal padre di Gerard e diremo la stessa cosa anche a lui, scusandoci se il figlio non è venuto. Gli diremo che lui e Columbia si sono avviati prima di noi per prenotare e comprare qualcosa da mangiare durante il film, e che quindi gli abbiamo assicurato che saremmo andati noi ad avvertire suo padre» spiegò.
«E io che dovrei fare?» domandò la riccia, affrettando il passo per camminare accanto all'amica.
«Be', calcola che non staremo fuori per sempre, ma solo per un paio d'ore. Il film me lo faccio descrivere da qualche ragazzo di scuola che è appena stato fuori e poi lo racconto anche a voi, non è quello il problema, ma dobbiamo stare attenti a parcheggiare in un punto ben riparato. Tu rimarrai a visionare il video per un po', mentre io e Ray faremo un giro di ricognizione e ci assicureremo di non essere seguiti, spiati o comunque in pericolo, e appena finiremo torneremo da te per avvertirti. Tu farai le prime quattro ore di guardia al roscio, poi sveglierai me e ti metterai a dormire, mentre io prenderò il tuo posto e mi sparerò quattro ore di buio e russare. Una volta finito il mio bel turno, sarà la volta di Ray, che poi sveglierà te dopo quattro ore e così via, finché il roscio non torna indietro e ci porta qualche informazione utile.»
Ray annuì fra se, elaborando la cosa, poi si voltò a guardare la bionda.
«E se non ci lasciassero uscire?» chiese, un po' preoccupato.
«Oh, andiamo, sei maggiorenne e vaccinato, ti lasceranno andare di sicuro!» ribatté lei.
«Spero sia così... Comunque dobbiamo sbrigarci se vogliamo anche prendere qualche coperta per stanotte, non possiamo certo aspettare che i miei tornino a casa per mettere la roba in macchina, sarebbe fin troppo sospetto. Voglio dire, okay che andiamo al cinema, ma che ci facciamo coi sacchi a pelo?»
«Infatti stiamo procedendo a passo sostenuto» sorrise Lindsey, che aveva già calcolato tutto prima.
«Arriveremo alla macchina tra venti minuti, parcheggeremo nel giardino di casa tua e butteremo materassi, coperte e tutto ciò che ci serve dalla finestra, così c'impiegheremo meno tempo e rischieremo di meno. Se qualcuno ci vede, diremo che c'abbiamo rovesciato sopra della birra e che li stiamo portando in lavanderia, così che tua madre non se ne accorga e non ci uccida, e li pregheremo di non andare a dirglielo.»
«Sembra che tu abbia tutto pronto» si compiacque il riccio con un sorriso.
«Be', questa missione è estremamente importante e dobbiamo dare tutti il massimo perché finisca bene, quindi mi sono organizzata già mentre accompagnavamo Gerard» disse Lindsey, ricambiando il sorriso.
«Non credo serva ricordarvi che da queste ore dipende il resto della nostra vita, o sbaglio?» sottolineò la ragazza, guardando gli altri negli occhi e cercando di scorgere in loro la minima esitazione o insicurezza.
«Non ti preoccupare, ne siamo tutti consapevoli» ribatté Columbia, annuendo.
«Bene, allora andiamo».
Il gruppetto riprese la sua marcia e scomparve tra le frasche, senza lasciar traccia del suo passaggio.



Il signor Macroby si mise una sigaretta in bocca e sistemò le mani a conca, impedendo al vento di disturbarlo nel momento più importante dell'operazione, azionò l'accendino e diede fuoco alla punta della stecca bianca, ispirando con decisione. Un lieve odore di tabacco si alzò dalle sue dita, mentre lui tratteneva il fiato e lasciava che il fumo gli accarezzasse le papille gustative, lentamente e delicatamente; poi chiuse gli occhi e fece un piccolo flash, liberando una nuvoletta grigiastra nell'atmosfera.
Il ragazzo che aveva appena interrogato, un tal Gerard Way, gli aveva fatto tornare in mente il ricordo di suo figlio Eric, che si era arruolato da poco nell'esercito ed era partito da qualche settimana per la sua seconda missione di guerra, in qualche deserto sconosciuto in occidente, e sentì improvvisamente la sua mancanza, nonostante non gli parlasse da mesi e si fosse soffermato ben poco sulla pericolosità del suo lavoro. Era un ragazzo affidabile, suo figlio, ma anche tanto impulsivo, e si era arruolato nell'esercito proprio per imparare a trattenere la sua esuberanza, oltre che per proteggere tutti i suoi cari, e suo padre l'ammirava per questo, anche se certe volte si ritrovava a pensare che avesse fatto una stronzata, ad andarsene da casa così presto. Il ragazzo di oggi aveva lo stesso sguardo, lo stesso guizzo d'intelligenza nascosto dietro un'aria pacifica e innocua, e l'uomo si era reso conto di trovarsi davanti a un tassello importante di quel mistero - non solo perché il ragazzo si era mostrato ansioso e colto di sorpresa, ma perché c'era qualcosa in lui che aveva risvegliato il suo sesto senso e che aveva attirato morbosamente la sua attenzione.
Diede un altro tiro alla sigaretta e trattenne il fumo nei polmoni per un po', prima di espirare nuovamente dalle narici e riaprire gli occhi con aria più tranquilla. C'era qualcosa in quella storia che non lo convinceva. Va bene, d'accordo, quel ragazzo aveva perso la memoria e si trovava spesso di fronte a miscugli di ricordi e realtà, ma qualcosa avrebbe dovuto pur ricordarselo, no? Una parte di lui non faceva che ripetergli che avrebbe dovuto sfruttare l'occasione e continuare a interrogarlo finché non gli avrebbe detto ciò che si aspettava di sentir uscire dalle sue labbra, ma un'altra lo rassicurava e lo tranquillizzava dicendogli che il ragazzino avrebbe finito col dirgli ciò che voleva solo per disperazione e per levarselo dai piedi; e che quindi continuare a insistere si sarebbe rivelato un grande sbaglio. Il poliziotto preferiva credere alla parte più gentile e si era così riappacificato con il suo senso del dovere, ma non era del tutto soddisfatto del suo operato. Sentiva che mancava qualcosa d'importante nel suo rapporto giornaliero, e forse aveva finalmente capito cosa. Finì la sigaretta, la spense contro il posacenere e si alzò, infilandosi il cappotto e chiudendosi la porta alle spalle, lentamente; poi entrò in macchina e accese il motore. Avrebbe interrogato gli altri.


Lindsey si trovava nel giardino di Ray quando vide un'automobile bianca e azzurra svoltare nella sua via e poi fermarsi a poche centinaia di metri da loro, così strinse gli occhi e cercò di distinguere meglio la figura muscolosa che ne era appena scesa. Non riconoscendo l'uomo, fece segno all'amico di rimanere dov'era e andò incontro allo sconosciuto, che intanto si stava avvicinando, lanciandosi qualche occhiata attorno con aria circospetta e portandosi una mano vicino alla bocca, mormorando qualcosa dentro un registratore.
«Posso aiutarla?» gli chiese, fermandosi e posandosi le mani sui fianchi.
«In realtà sì, cercavo la signorina Ballato» rispose l'uomo, guardandosi ancora intorno.
«Ce l'ha davanti. Desidera?» inarcò il sopracciglio, mantenendo un tono freddo.
«Dovrei farle qualche domanda sul caso Euringer se non le dispiace. Sa, le procedure standard. A quanto pare, lei è la fidanzata del presunto colpevole, quindi potrebbe sapere qualcosa di più».
«Guardi che Steve non ha fatto un accidente» lo interruppe lei.
«Infatti ho detto presunto» sorrise l'agente, infilandosi le mani in tasca con aria rilassata.
«Dove si trovava il pomeriggio in cui l'altro ragazzo è finito in coma?» chiese.
«Su alla baita, insieme ad alcuni miei amici. I nostri genitori possono confermare, così come il casino che abbiamo lasciato e la signora che ce l'ha affittata per il week end» rispose.
«Quindi potreste perfettamente aver aggredito voi il signor Euringer» commentò l'uomo.
«Come del resto avrebbe potuto farlo qualsiasi membro di questo paese, signore. Abbiamo incontrato parecchia gente su per i boschi, visto che l'unico sport qui è camminare» replicò pacatamente lei.
«Su questo purtroppo devo darle ragione» sospirò l'agente, ridendo sotto i baffi. La ragazza era in gamba.
«E mi dica, signorina, chi c'era con lei?» continuò, alzando lo sguardo.
«I nomi li conoscerà di certo già tutti, siamo gli indiziati principali, visto che eravamo i suoi migliori amici. Steve Righ, Columbia Waters, Gerard Way e Ray Toro» elencò, contandoli sulle dita.
«Vi siete mai separati?» chiese quindi.
«Solo per andare in bagno e al momento d'andar via. Siamo usciti tutti e ci siamo avviati alla macchina, ma quando siamo arrivati ci siamo resi conto di esserci persi Jim per la strada, così ci siamo seduti in cerchio e abbiamo aspettato che arrivasse per una decina di minuti; poi ci siamo spazientiti e l'abbiamo chiamato al cellulare, ma non ha risposto. Ci siamo alzati e siamo tornati sui nostri passi, e abbiamo trovato la porta della baita aperta, quando noi ce l'eravamo richiusa alle spalle; così ci siamo detti 'ah, cavolo, probabilmente ha preso una scorciatoia e ci starà aspettando alla macchina', e siamo tornati indietro un'altra volta. Stavamo per raggiungere la metà strada quando abbiamo sentito un urlo. Abbiamo riconosciuto la voce del nostro amico, ci siamo spaventati e abbiamo corso nella sua direzione, ma quando l'abbiamo trovato era steso a terra privo di sensi, e nonostante le nostre cure non riuscivamo proprio a svegliarlo. Ci siamo spaventati ancora di più, l'abbiamo caricato in macchina e abbiamo lasciato che Steve lo portasse all'ospedale, mentre noi siamo tornati a casa e siamo rimasti in ansia tutto il pomeriggio. Abbiamo brancolato nel buio in preda al terrore più nero, senza ricevere notizie né da Steve né dai suoi genitori, e ci siamo chiesti perché non ci avesse aggiornati sulla situazione. Be', almeno finché non mi ha detto che lo avevate arrestato» concluse, lanciando al poliziotto un'occhiata di silenzioso rimprovero.
«Avete arrestato la persona sbagliata, lui ha solo avuto le palle di portare James a farsi curare».
«Chi lo sa, forse ha ragione lei» scrollò le spalle l'energumeno, senza sbilanciarsi.
«Potrebbe darmi il suo numero di cellulare?» chiese quindi, tirando fuori il block-notes e una penna.
«Certamente» rispose la ragazza, snocciolandoglielo a memoria. Lui sembrò soddisfatto.
«Se posso darle un consiglio, signorina, rimanga a casa la notte. Se davvero non è stato il suo amico, allora siamo alle prese con un assassino bello e buono» disse, infilandosi di nuovo le mani in tasca.
«Assassino? Guardi che Jimmy è ancora vivo» obiettò la bionda, alzando le sopracciglia, spaesata.
«Una pura botta di culo, se mi passa il termine» spiegò l'uomo, stringendo una sigaretta tra i denti.
«Se solo l'avesse colpito un centimetro più in basso, ora il suo amico sarebbe morto».
Si godette l'occhiata spaventata dell'interlocutrice e sorrise sotto i baffi, accendendosi la sigaretta con calma.
«Per ora ho finito, ma devo chiederle di non lasciare la contea fino alla fine delle indagini» annunciò.
«Detto questo, le auguro una buona giornata» la salutò, prima di girare i tacchi e congedarsi, salendo a bordo della sua macchina e girando la chiave con un colpo secco. Il motore sbuffò e scoppiettò per qualche istante, poi l'auto si mise in moto e scomparve dal viale, silenziosamente com'era arrivata.
Passò una decina di minuti, poi la testa riccioluta di Ray fece capolino dalla finestra, sporgendosi verso Lin.
«Ehi, tutto a posto?» le domandò, cercando di scorgere la figura del poliziotto.
«Sì, non ti preoccupare» rispose la bionda con aria un po' assente, prima di tornare alla sua postazione.
«Avanti, sbrighiamoci; abbiamo perso fin troppo tempo» esclamò quindi, mentre Ray faceva cadere un materasso accanto a lei. Lo caricò nel bagagliaio, non senza fatica, e fece lo stesso con dei sacchi a pelo, un paio di coperte e dei cuscini, che il riccio le passò con una certa cura, stando ben attento a non centrarla con un tiro troppo maldestro; poi scese le scale di corsa e la raggiunse, posandosi le mani sulle ginocchia.
«Allora, abbiamo tutto?» ansimò, alzando lo sguardo verso di lei.
«Mhm, chiama pure tua madre per avvertirla, intanto passiamo da casa mia» lo avvertì la ragazza, sedendosi sul sedile del guidatore e allacciandosi la cintura, soprappensiero. Cominciava la fase due.



Nel frattempo, Columbia, da sola nella base, si sentiva a disagio e sotto pressione. Aveva chiuso il portellone a chiave, nel timore che qualcuno potesse cercare di aprirlo dall'esterno, e aveva dato una veloce ripulita alle prese d'aria, in modo da riceverne in quantità maggiori, e si era accomodata sulla sedia mobile di Jimmy, tormentandosi le mani e congiungendole creando il segno del silenzio. Rimase immobile per una decina di minuti, a concentrarsi sul suo battito cardiaco e sul suo respiro irregolare, poi si diede una spinta in avanti e si avvicinò al computer; accese il monitor, batté qualche tasto e inserì la password, collegando quindi il pc con il grande schermo che la affiancava e sintonizzandosi sulla frequenza del marchingegno di James. Cliccò su un'icona e l'immagine di un paesaggio selvatico e incolto riempì il lenzuolo, spostandosi man mano che Gerard camminava e si spingeva oltre. Ben presto comparve all'orizzonte una rete metallica e, mentre il ragazzo si avvicinava a lei, la riccia apriva bene gli occhi e setacciava ogni pixel, alla ricerca di qualche telecamera o di un qualunque segno di vita al di là della recinzione. Gerard urlava e strepitava, barcollando da una parte all'altra e girandosi in modo da inquadrare tutto alla perfezione, ma tutto attorno a lui rimase silenzioso e immobile per quella che a entrambi sembrò un'eternità. Il roscio avanzò ancora, stringendosi lo stomaco con le braccia e crollando in ginocchio, e la ragazza notò un guizzo tra l'argento e il ferro, e strizzò gli occhi per vedere meglio. Esultò nel notare qualcosa che somigliava a una telecamera di piccole, piccole dimensioni e condivise la sua scoperta col roscio, che si rivolse verso di lei con aria d'infinita sofferenza e stanchezza. Azzardò qualche passo nella sua direzione, piagnucolò un altro po' e crollò a terra, fingendosi svenuto, e la telecamerina si mosse quasi impercettibilmente, allungandosi verso la sua figura esausta. Dopo qualche minuto, due donne comparvero sullo sfondo e corsero verso Gerard; si piegarono su di lui con il fiatone e gli misero una mano sulla fronte, che lui stesso aveva fatto sanguinare dando un colpo violento al terreno, senza farsi vedere, e sobbalzarono; lo presero una per le braccia e l'altra per i piedi e lo portarono via, all'interno della recinzione. Columbia non riuscì a trattenere un 'sì!' e chiuse la mano destra in un pugno, che alzò verso il cielo con soddisfazione, poi tornò a concentrarsi sul video e sulle due figure. Non riusciva a vederle in faccia, ma vantavano entrambe una corporatura molto magra, quasi esile, e delle mani fine, quindi dubitava che ci fosse un uomo tra loro. Una aveva i capelli lunghi, raccolti in una coda di cavallo piuttosto scompigliata e malfatta, mentre l'altra aveva i capelli di una misura indefinibile, che la riccia identificò come piuttosto corta. Portarono via il ragazzo con facilità, o almeno così le sembrò, passando attraverso un cancello meccanizzato che si richiuse appena furono entrati, e lo trasportarono all'interno di una grande villa, depositandolo su un letto. Le figure scomparvero e, dopo un po', quella coi capelli più corti ricomparve, tenendo in bella mostra delle bende pulite e un panno bagnato, con cui pulì il viso al suo ospite prima di medicarlo nuovamente. Finita l'operazione, si sedette accanto a lui e rimase a guardarlo per un po', il volto corrugato in un'espressione indefinibile e le mani cinte in una morsa che indicava dubbio, insicurezza. Columbia contrasse la mascella, domandandosi cosa stesse pensando quella ragazza misteriosa, poi quella si alzò e se ne andò all'improvviso, lasciando spazio alla prima, più bassa e dalle curve più delineate, che si posizionò davanti al viso di Gerard e lo scrutò a lungo, trapelando ansia da tutti i pori.
Chi era quel ragazzo? Che cosa ci faceva lì, in quelle condizioni?
Columbia si sentì cogliere dalla tenerezza mentre la guardava, rendendosi conto che effettivamente provavano le stesse cose e si ponevano le stesse domande, e provò più interesse verso il suo volto magro e chiaro, circondato da una cascata di capelli neri, ora slegati e liscissimi. Non riuscì a evitare di chiedersi se si piastrasse e sorrise di fronte a quel pensiero stupido e assolutamente irrilevante, tornando a concentrarsi sulla mora e sui suoi occhi color nocciola, che non facevano che correre da una parte all'altra del viso del roscio, ancora tragicamente 'svenuto'. Si chiese come riuscisse a rimanere così fermo e immobile, senza nemmeno muovere le pupille da sotto le palpebre, e provò un'immensa stima nei suoi confronti, in quanto consapevole del fatto che lei non ci sarebbe mai riuscita. Dopo una decina di minuti dall'uscita di scena della ragazza, Gerard aprì gli occhi e si guardò attorno, notando la sua silhouette sull'uscio della porta con la coda dell'occhio e sperando che rientrasse presto. Così avvenne, per sua fortuna, e Columbia tornò a concentrarsi su loro due, mentre finalmente la ragazza apriva bocca per dire qualcosa.



La scena che mi trovai di fronte non si rivelò esattamente come mi ero immaginato. Inizialmente, la prima cosa che fui in grado di vedere fu una televisione accesa, dalla quale provenivano le voci che avevamo udito dal corridoio, poi la mia attenzione venne catturata da una fotografia incorniciata sistemata in bella vista, in cima a un ripiano straripante di libri, fumetti e dischi, a cui la mora non badò per niente. Incuriosito, mi feci avanti e mi avvicinai alla libreria, alzandomi sulle punte per riuscire ad agguantare la foto e portarla giù, e me la sistemai davanti agli occhi, riparandola dal riflesso della lampada. Abbracciati su uno sfondo verde e blu, c'erano due adulti di mezza età, un uomo e una donna, e un ragazzo castano, con gli occhi socchiusi e un enorme sorriso stampato in faccia, che sembravano voler immortalare un momento importante delle loro vite. Inclinai la fotografia, cercando di trovare in quei volti un qualcosa di familiare, e storsi le labbra.
«Potresti mettere a posto quella foto, per favore?»
Sobbalzai nell'udire una voce maschile e mi voltai di scatto, facendo scontrare il mio sguardo impanicato con quello teso e impacciato di un ragazzo di all'incirca vent'anni, che però sembrava infinitamente più giovane.
«Oh, sì, certo, scusami» balbettai imbarazzato, riponendo il quadro sul ripiano.
«Nono, scusa te, è solo che ci sono molto affezionato e non vorrei che si rompesse» balbettò lui con voce agitata, alzando le mani e scuotendole per non farmi sentire in colpa, anche se sembrava più spaventato e in ansia di me, poi sgranò gli occhi per un millesimo di secondo e mi porse una mano.
«
A proposito, io sono Fin, piacere» si presentò, abbozzando un sorriso impacciato. Gli strinsi la mano.
«Gerard» sorrisi, mentre la ragazza riemergeva dalla porta.
«Fin! Mi hai fatto prendere un colpo!» esplose, il cuore che ancora batteva forte e il volto paonazzo.
«Si può sapere perché diavolo non mi hai risposto? Sono tre ore che ti chiamo!»
«Scusa, pensavo fosse la tv» rispose lui scrollando le spalle e lanciandole un'occhiata molto 'mi dispiace, non l'ho davvero fatto apposta', incurvando le labbra in una smorfia spiacevolmente colpevole. Alicia scosse la testa, contrariata, sbuffò e poi ritrovò la calma, tornando a guardarlo con amorevole tranquillità.
«Vabbè, fa niente, dai. Lavati le mani, tra dieci minuti è pronto» cinguettò, scomparendo quindi dalla sala. Rimasi un attimo immobile a guardare il ragazzo, gli occhi incollati sul suo viso dolce, e lui arrossì.
«Er, credo che Ali ti stia chiamando» mi avvertì, portandosi una mano dietro il collo per massaggiarselo e scacciare la tensione che si era creata tra noi. Sussultai e mi girai di scatto, cadendo dalle nuvole.
«Eh? Oh, cazzo, è vero» esclamai, correndo di scatto in corridoio e avvampando per la brutta figura appena fatta. Il ragazzo rise sotto i baffi e mise la testa fuori dalla camera, osservandomi scappare via, poi sorrise, la scosse quasi impercettibilmente e la ritirò, socchiudendosi la porta alle spalle.

Dovetti aspettare più di un quarto d'ora prima di rivederlo un'altra volta, a dispetto di quello che aveva detto la mora, e non potei evitare di sorridere nel vedere che si era seduto accanto a me. Nascosi la cosa e mi voltai verso la mia nuova amica per scambiare quattro chiacchiere con lei, ma il mio cuore batteva terribilmente veloce e mi sentivo lo stomaco sottosopra, segno che ero un deficiente di dimensioni assurde. Partivo per la missione più importante della mia vita e m'innamoravo a prima vista di uno di quelli che sarebbero potuti essere gli assassini barra rapitori del ragazzo che non avevo mai smesso di sognare negli ultimi cinque-sei anni della mia esistenza! Più cretini di così si muore.
«La ferita alla testa ti sanguina ancora molto?» domandò dopo un po' il ragazzo, inserendosi nella conversazione con fare impacciato. Mi ricordai improvvisamente che era stato lui a prendersi cura di me e dei miei graffi, e mi sentii avvampare la fronte, mentre ci portavo una mano sopra e scuotevo la testa.
«Sanguinava?» ripetei, fingendomi sorpreso e dandogli la possibilità di rilassarsi un po'.
«Quando ti abbiamo trovato avevi una brutta escoriazione sulla fronte, così quando ti abbiamo portato a casa ti ho levato le bende, lavato la ferita e messo dei bendaggi puliti, in modo che non ti s'infettasse» m'informò, suscitando un'espressione stupita e compiaciuta in Alicia.
«Oh... Grazie mille allora» dissi, sfoggiando il mio sorriso più radioso e annuendo con gentilezza.
«Di niente,» mormorò lui. «Piuttosto, quanto tempo rimarrai ancora? Sembri molto stanco».
«In realtà non ne ho idea: volevo ripartire stasera ma Alicia mi ha trattenuto» risposi con franchezza.
«Sei svenuto come una pera cotta, mica potevo lasciarti uscire con questo buio!» ribatté lei, energicamente.
«Sarebbe stato come buttarti direttamente nella tomba» esclamò, come a sottolineare la mia stupidità.
«Alicia ha ragione, è pericoloso uscire a quest'ora» convenne Fin, facendosi un attimo pensoso.
«Stanotte la passerai qui con noi» cinguettò la ragazza.
«
È un casino che non abbiamo ospiti, questa è un'occasione da non perdersi» aggiunse, allegra.
«Allora domani fa cucinare me, non sia mai che la tua cucina lo avveleni o lo intossichi sul più bello» la stuzzicò il giovane, beccandosi un calcio negli stinchi, che incassò con nonchalance e una risata.
«Fanculo Fin, guarda che sono bravissima a cucinare» ribatté, meno piccata di quanto volesse far credere.
«Basta crederci, Ali, basta crederci» continuò lui alzando le braccia a sua discolpa, attirando un altro calcio.
«E bastaa» rise, abbassandosi per massaggiarsi la gamba ferita mentre Alicia tornava a guardarmi.
«Tu hai fratelli, Gerard?» mi domandò dolcemente, ignorando le imprecazioni di Fin.
«Uno solo, si chiama Mikey. Non lo vedo da un po', però» annuii, lanciando all'altro un'occhiata comprensiva.
«Scommetto che è meno rompipalle di te» lo rimbeccò la ragazza con aria di sfida. Lui rise.
«Vedi, in realtà noi due non siamo fratelli» mi spiegò Fin, portandosi una forchettata di pasta alla bocca.
«Fidanzati?» proposi con naturalezza, avvertendo un colpo al cuore. Lui quasi si strozzò con la pasta.
«Ma non pensarci neanche!» sbottò dopo aver bevuto un bicchier d'acqua, ridendo alla sola idea.
«
Chi vuoi che se la pigli, questa matta?» osservò, ricevendo in cambio l'ennesimo calcio dall'amica.
«Guarda che la cosa vale anche per te, eh!» lo sfotté, versandosi della birra in un bicchiere e offrendomela.
«Vedi, noi due siamo stati adottati dal padrone di questo posto,» mi spiegò, alludendo con un cenno del capo alla gigantesca villa in cui ero ospite, «quindi questa è ormai la nostra casa. Prima abitavamo da un'altra parte, sempre qui vicino, poi un giorno ci siamo trasferiti qui e abbiamo dovuto cambiare un po' il nostro stile di vita. Cioè niente più skateboard per Fin e infinite chiacchierate al telefono per me».
«Devi vedere che cosa incredibile, è capace di stare attaccata al cellulare per ore intere senza mai neanche cambiare posizione delle gambe» si sbalordì lui, subentrando nel discorso con gli occhi sgranati.
«Dico davvero, è da paura» insistette, gesticolando per far sembrare il tutto più reale.
«Ma smettila, mi fai sembrare una maniaca» protestò la mora, incrociando le braccia sul petto.
«Ma lo sei!» replicò il ragazzo, come se lei volesse negare la cosa più ovvia di tutto il pianeta. Altro calcio, altro mugolio soppresso e altra risata generale, con me che mi strozzato con la pasta.
«Guarda che fai, uccidi anche l'ospite!» la punzecchiò nuovamente lui, facendomi ridere ancora di più.
«Lo dicevo io che non sai cucinare!» aggiunse poi con aria a metà tra il rassegnato e il divertito, sporgendosi verso di me e ammollandomi una gran pacca sulla schiena, che sono certo lasciò un bel segno rosso.
«Acch, mortacci» esclamai, portandomi una mano sul dorso dolorante.
«Certo che ne hai di forza, per essere un nano» lo sfottei, entrando anch'io nel loro gioco e guadagnandomi l'appoggio di Alicia, che mi allungò un cinque rivolgendo un'occhiata di sfida al 'fratello'.
«Ma da che parte stai?» si lamentò lui, dandomi una spinta. Aveva le mani particolarmente morbide.
«Ma dalla mia, che razza di domande fai?» lo incalzò la ragazza, sfoggiando una finta aria d'importanza. Sorrisi. Mi piacevano, quei due. Ero certo che avrei passato una bella serata.


Suo malgrado, durante tutta la durata della cena Columbia non era riuscita a trattenere dei sorrisi di sincera simpatia, trovandosi più volte a ridere sotto i baffi per le battute dei due ragazzi, che allietavano piacevolmente l'atmosfera di tensione e paura che si era creata precedentemente nella base, e ancora più spesso si era detta che quei due non potevano entrarci niente con il tentato rapimento dell'amico. Lindsey e Ray erano arrivati dopo un'oretta e mezza e avevano confabulato tra loro per un po', prima di uscire per il loro giro di ricognizione e lasciarla nuovamente da sola, e la riccia aveva tirato un sospiro di sollievo quando aveva sentito il portellone richiudersi con una botta secca. Niente contro gli amici, ovvio, ma si sentiva più a suo agio sapendo che poteva ridere per le battute dei sospettati senza beccarsi un'occhiata di rimprovero o un 'sta attenta a non distrarti troppo', che invece le mettevano addosso un po' d'ansia. Si concentrò con tranquillità sul video, volgendo lo sguardo dai piatti ai volti subito dopo che i due ospiti ebbero cominciato a mangiare - segno che il cibo non era avvelenato -, e un piccolo particolare attirò la sua attenzione. Mentre la ragazza non perdeva occasione per battere il cinque al roscio o mollare calci negli stinchi all'altro ragazzo, quest'ultimo non cercava mai il contatto fisico con Gerard ed evitava il più possibile persino di guardarlo, come se la sua immagine gli provocasse una qualche reazione spiacevole o incontrollabile; mentre non si faceva molti problemi a fissare le tette dell'altra interlocutrice, che in tutta risposta gli regalava un altro bel calcio sulle gambe, unito a un sorriso divertito. Insomma, c'era qualcosa che non tornava in lui e nel suo comportamento. Arricciò la fronte e strinse le labbra, cercando di capire cosa ci fosse che non andasse nel roscio, e tornò indietro con la mente a quando si era specchiato, subito dopo la doccia, per rimettersi la cuffietta a posto, ma non riuscì a inquadrare niente di speciale, così s'inumidì le labbra. Forse il ragazzo era semplicemente timido, o forse le voci sul conto del roscio erano arrivate pure alle sue orecchie e si sentiva a disagio perfino nel guardarlo in faccia. In ogni caso, era strano.
Columbia si molleggiò sulla sedia e la fece roteare, pensierosa, mentre la visuale si restringeva su un piatto di pasta fredda con pomodoro, mozzarella e basilico, mezza mangiata dal roscio e mezza lasciata lì per dopo. Realizzò improvvisamente che si era fatto tardi e che non aveva ancora toccato cibo, ma il suo senso del dovere la costrinse a rimanere sulla sedia davanti al video, finché il gruppo d'esplorazione non tornò alla base. A quel punto si fece portare un panino da loro e lo mangiò senza staccare gli occhi dallo schermo, completamente assorbita dal suo compito, anche se in quel momento il gruppetto di ragazzi era sdraiato su un divano e stava commentando un programma tv che lei disprezzava totalmente; e si chiese se, dietro a quell'aria paciosa e innocua, si nascondesse un carattere da assassini o persone violente. Si trovò a scuotere la testa, scacciando l'idea con noncuranza, e si alzò tranquillamente dalla sedia, cedendo il posto a Lindsey.



Era tanto che non mi sentivo così. Vivo, felice, completamente e profondamente rilassato, spensierato nel più veritiero dei modi; e mi trovai più volte a ringraziare inconsciamente i miei due nuovi amici, tra una risata e l'altra, uno scherzo e l'altro, una pacca e l'altra. Quasi mi ero dimenticato di essere in missione e che loro erano potenziali assassini, per quanto ne sapevo sul loro conto, e la loro allegra parlantina m'induceva a credere che non potessero entrarci minimamente con il nostro caso; ma mantenni un briciolo di serietà e coscienza e non abbassai mai completamente la guardia, rimanendo prudente.
Nel frattempo, ridendo e scherzando, si erano fatte le quattro e Alicia si accingeva ad andare a dormire.
«Mi raccomando Fin, non aprire il divano letto, che cigola come non so cosa» gli ricordò con uno sbadiglio, prima di salutarci, stiracchiarsi e scomparire verso la sua camera.
«Dovrei avere una brandina da qualche parte, vieni» m'invitò, guardandosi un po' attorno.
«È quella lassù?» gli domandai, indicando un ammasso di ferraglia in cima all'armadio. Lui si riparò gli occhi con una mano per vederci meglio, li strizzò un po' e poi annuì, avvicinando una sedia al mobile.
«Aspetta, te la passo» mi avvertì, prendendola e sollevandola con un grande sbuffo. La tenne in bilico sopra la sua testa per un paio di secondi, abituandosi al suo peso, poi piegò le ginocchia e me l'avvicinò; mi alzai sulle punte, la presi e l'accompagnai dolcemente verso il terreno, posandola senza quasi fare rumore.
«Ammirevole» commentò, piacevolmente compiaciuto, scendendo dalla sedia, spostandola in un angolo e accorrendo in mio aiuto, aiutandomi ad aprire il letto. Quello cigolò e mi fece arricciare il naso per il fastidio, e Fin si scusò con gli occhi. Liquidai la cosa con un sorriso appena accennato e mi tirai su, mentre il ragazzo apriva un'anta dell'armadio e cercava con lo sguardo un materasso di grandezza sufficiente. Storse la bocca, realizzando che ne aveva solo uno a una piazza, mentre quello che gli serviva doveva averne una e mezzo, se non addirittura due, e richiuse l'anta velocemente, facendomi segno di seguirlo nella stanza accanto. Aprì la porta dopo aver bussato, entrammo e lui aguzzò la vista, notando un materasso tra una decina di altre coperte; lo raccattammo e lo portammo di là, sistemandolo sulla brandina, poi tornammo a prendere un lenzuolo, un cuscino e tutto il resto, cavandocela anche abbastanza in fretta. Tornammo in camera da letto e il giovane aprì un cassetto, passandomi una maglietta lunga con uno sguardo imbarazzato.
«Scusa, di solito non metto pigiami» si giustificò, massaggiandosi il collo.
«Neanch'io, a essere sinceri» ammisi con una risata abbozzata. Lui sorrise e agguantò una maglietta, uscendo e scomparendo verso il bagno. Mi lasciai scappare un sospiro profondo e rumoroso e mi sedetti sul suo letto, prendendomi il volto tra le mani e socchiudendo gli occhi, scuotendo leggermente la testa; oscurai la telecamerina e mi cambiai, ricordandomi improvvisamente che quelli che avevo indossato fino a quel momento non erano i miei vestiti, ma quelli di Fin. Avvampai istantaneamente e li sistemai accuratamente sulla sedia, chiedendomi come avessi fatto a dimenticarmelo e domandandomi se la cosa l'avesse infastidito almeno un po'. Deglutii e mi guardai intorno, improvvisamente imbarazzato a morte, strizzai gli occhi con decisione e mi divertii ad ascoltarmi respirare, prima più affannosamente e poi con più tranquillità; e intuii che sarebbe stata una lunga, lunga notte. Senza contare che Fin avrebbe dormito a pochi centimetri da me, mezzo nudo e completamente ignaro del cocktail di ormoni che gli avrebbe giaciuto accanto. Mi diedi una pacca violenta in fronte, insultandomi sottovoce, e non lo sentii rientrare in camera.
«Dimenticato qualcosa?» domandò divertito, sedendosi tranquillamente al mio fianco. Sussultai quasi impercettibilmente e mi sbrigai a negare il tutto con le mani, sorridendo nervosamente.
«Nono, niente di che» mentii, sembrando allegro.
«Ah, perfetto allora. Sembravi preoccupato, ma sono felice di sapere che è tutto okay» sorrise.
Dio, perché era così carino? Ma soprattutto, perché ero così coglione?
«No, scialla, tutto bene. Davvero» ripetei, annuendo. Lui sorrise, si alzò in piedi e si stiracchiò.
«Allora fammi spazio, che mi metto a letto» mormorò, scrocchiandosi le ossa del collo. Mi feci da parte e lui si sedette sul suo materasso, continuando a stiracchiarsi, poi mi indicò degli interruttori con la testa.
«Riesci a spegnerli?» mi chiese. Annuii, mi sporsi in avanti e cliccai sul primo bottone, poi tutto divenne buio. Alzai il lenzuolo e mi ci ficcai sotto, tenendo gli occhi serrati per non essere tentato dal guardare Fin.
«Gerard?» mormorò lui dopo un po', voltandosi verso di me.
«Sì?» dissi, fissando il soffitto e notando a malincuore che il buio non era poi così pesto.
«Hai sonno?» mi chiese, ricordandomi molto un bambino troppo iperattivo che non vuole andare a letto.
«Non molto, a dir la verità» ammisi, lanciandogli uno sguardo con la coda dell'occhio. Lui annuì con un 'neanch'io' e tornò a guardare il soffitto, lasciando cadere nuovamente il silenzio. Esitò un attimo, poi si voltò di nuovo verso di me e s'inumidì velocemente le labbra, abbassando lo sguardo per qualche secondo.
«Posso farti una domanda un po' indiscreta?» chiese.
«Ma certo. Spara pure» acconsentii, irrigidendo però la mascella.
«È vero quello che si dice di te?» domandò, cercando il mio sguardo. Non glielo concessi.
«Dipende. Cosa si dice di me?» ribattei, fingendo di non saperlo. Rispondermi gli costò molto, perché rimase in silenzio per un po' prima di aprire nuovamente la bocca, stavolta deglutendo e senza guardarmi.
«Sì, be', insomma, che ti piacciono gli uomini».
Ecco, marchiato a fuoco. Pensavo che in quel posto dimenticato da Dio non arrivassero i pettegolezzi, ma a quanto pare mi ero sbagliato alla grande; purtroppo. Respirai di nuovo, il più silenziosamente possibile.
«Ah, quello. Sì, sì è vero» risposi, distaccato, sbattendo le palpebre.
«Ma non ti preoccupare, posso tranquillamente andare a dormire in un'altra stanza se è un problema. Ti giuro, non me la prenderei neanche, ci sono abituato» lo tranquillizzai, voltandomi per guardarlo negli occhi, praticamente pronto ad alzarmi e andare a dormire per terra, più per forza d'abitudine che altro.
«Perché dovrebbero esserci problemi?» domandò lui.
«Principalmente perché i maschi hanno paura che possa eccitarmi guardandoli».
«Non riusciresti ad eccitarti con me» sorrise sotto i baffi, fissando il soffitto. 
«E chi lo dice?» scherzai.
«Questa pancetta» ribatté, prendendosi la pancia tra le mani.
«È terribilmente antiestetica. E poi non sono un granché come ragazzo» commentò, ridendo tra se. Avrei voluto controbattere e dirgli che si sbagliava alla grande, ma non era il caso. Troppo sgamabile.
«Ad alcune ragazze la pancetta piace» osservai. Lui si voltò a guardarmi.
«Può anche darsi» ammise, storcendo la bocca.
«Ma non è che a me le ragazze piacciano poi così tanto» mormorò, tornando a osservare il soffitto.
"E questo cos'è, una specie di coming out?" mi chiesi, domandandomi se non fosse piuttosto un tipo poco interessato alle relazioni e all'amore in generale, piuttosto che un altro gay come me. Però no, insomma, era ovvio che stesse cercando di farmi capire che potevo interessargli. Forse. Ebbi un tuffo al cuore e avvampai.
«Ah sì?» biascicai. Pessimo modo di controbattere a una cosa del genere.
«Sì.» Si voltò verso di me, mordendosi il labbro tanto per.
«Mi sa che siamo sulla stessa barca» scherzò.
«Quindi posso restare?» domandai, sollevato e col cuore a mille.
«Penso proprio di sì» ribatté. Sorrisi con l'anima e trattenni il respiro per mantenere un certo contegno, ma dentro di me stavo urlando di gioia a pieni polmoni e in tutte le lingue, come una ragazzina esaltata.
«Grazie mille» sussurrai, in modo così flebile che forse non mi sentì neanche. Nonostante non me lo stessi aspettando, sorrise anche lui; poi sbadigliò, si tirò il lenzuolo sul petto e mi diede la buonanotte, sistemandosi stancamente sul fianco sinistro. Si addormentò pochi minuti dopo, lasciandomi solo con i miei dubbi e i miei pensieri.


 
«Ragazzi,» esclamò Lindsey scuotendo la spalla della riccia, mezza addormentata accanto a lei «mi sa che Gerard si è preso una bella sbandata per quel tipo là, come si chiama, Fin».
«Lo so, durante la cena non ha fatto altro che inquadrare lui» mugolò Columbia, girandosi dall'altra parte.
«Ma è una tragedia! Rischia di saltare tutto il piano!» sottolineò la prima, continuando a scuotere l'amica.
«Ma no, sembrano due tipi per bene» ribatté quella, sbadigliando.
«Anche tu sembri la cameriera del Rocky Horror Picture Show, ma questo non significa che tu lo sia»
«Andiamo Lin, calmati un attimo» biascicò, intontita dal sonno e dalla stanchezza.
«Gerard ha ventidue (o ventitré?) anni, sa benissimo scindere la vita privata dalla vita pubblica. E poi questa missione è essenziale anche per lui, figurati se la lascia perdere per una cottarella così».
«Sì, ma insomma, pure quello è gay, potrebbe nascere qualcosa tra loro. E se i due si rivelassero colpevoli in qualche modo? Come credi che la prenderebbe? Cercherebbe di proteggere il suo amore, d'inventarsi scuse su scuse per provare la sua innocenza, direbbe che lo stiamo incastrando perché non prendiamo bene il fatto che si sia trovato un nuovo fidanzato dopo Frank e che non lo vogliamo felice. Lo sai come sono fatti gli umani, quando s'innamorano perdono completamente la testa!» piagnucolò, scuotendo il capo.
«Oh, andiamo, questo è essere catastrofisti e paranoici» la rimbeccò l'amica, decisamente più tranquilla.
«Vedrai che andrà tutto bene. Se è una cottarella da poco conto, non si metterà certo in pericolo per salvare lui, non pensi? E se è qualcosa di serio, andrà comunque in fondo perché lo deve non solo al moro, ma anche a Steve, a Jimmy, alla famiglia Iero, a tutti noi. Quindi rilassati e torna al video, vedrai che andrà tutto per il meglio e che non ci saranno problemi» la rincuorò, togliendole la mano dalla spalla.
Lindsey sospirò a fondo e annuì, leggermente più convinta, e la riccia le sorrise, intenerita dai suoi occhi.
«Vedrai che andrà tutto bene. Anche per Steve» sussurrò, rivolgendole un'occhiata piena di calore.
«Lo spero tanto» mormorò la bionda, non riuscendo ad evitare di sorridere.
«Grazie, Columbia» aggiunse, spingendo la sedia verso il tavolo.
«Di niente, babe. Vedrai che andrà tutto per il meglio» ripeté lei, tornando a riposare. Lindsey le sistemò la coperta addosso e ne prese una per se, tornando a dedicarsi alla registrazione con tutta la sua attenzione.
Quello che non vide, però, fu qualcuno che entrò nella stanza e si portò via il cellulare del roscio, impedendogli di contattare chiunque si trovasse all'esterno.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


combattere contro il passato (cap 10) Quella mattina mi svegliai presto, verso le otto e mezza circa, a causa della luce che filtrava insistentemente dalla tapparella sopra la scrivania, che il mio nuovo amico si era dimenticato di chiudere per bene.
Rimasi immobile con gli occhi chiusi, ancora lievemente intorpidito dal sonno e dai pensieri della nottata precedente, e mi godetti il silenzio, cosa che a casa mia mancava quasi sempre; schiusi le labbra in un sospiro rilassato e tranquillo e mi accinsi a sistemarmi le braccia dietro la testa, quando sfiorai con le mani un qualcosa di caldo affianco a me. Ancora istupidito dall'ora, sentii i muscoli paralizzarmisi, indurendosi fino a farmi male, e il mio respiro fermarsi per una manciata di secondi, prima che la razionalità avesse la meglio sulla sorpresa e mi costringesse a voltarmi verso quell'intruso, per capire almeno di chi o cosa si trattasse. Con mio grande stupore e compiacimento, Fin era rotolato giù dal suo letto ed era entrato nel mio, probabilmente senza neanche accorgersene, e ora giaceva addormentato a pochi centimetri dal mio volto, la bocca semiaperta e le sopracciglia scombinate, con un'aria che definire da angelo era dir poco. Lì per lì rimasi un attimo spiazzato dalla sua presenza - mi ero quasi dimenticato dove mi trovassi e perché, quindi ritrovarmelo accanto fu un vero shock - e dovetti spremermi le meningi per ricordarmi tutti i particolari del perché mi trovassi lì a quell'ora del mattino, ma alla fine ogni tassello trovò il giusto posto nella mia mente e mi rilassai, tornando a concentrarmi sul ragazzo. A dire il vero, il fatto che mi stesse dormendo accanto mi mandava parecchio su di giri ed ero a dir poco esagitato, ma in un modo o nell'altro riuscii a mantenere il controllo e comportarmi come se niente fosse, sistemandomi meglio sulla schiena e osservandolo come se in realtà fossi interessato a un particolare nascosto dietro di lui. Sembrava avvolto da un sonno profondo e rilassato, tipico di chi non ha niente da nascondere o di cui preoccuparsi, e non potei evitare di sentirmi un po' più sollevato, appuntandomi mentalmente la cosa e sperando che bastasse a portarlo a un passo più lontano dalla mia rosa dei sospettati. Il suo petto si alzava ed abbassava con una regolarità affascinante, così sincronizzai il ritmo del mio respiro con il suo e respirammo in contemporanea per una decina di secondi, mentre io, compiaciuto, sfoggiavo il gran sorriso ebete degli innamorati ancora pieni di speranze e tempo, convinti che niente di male possa capitar loro quando sono con il loro amore. Sospirai flebilmente e mi riempii gli occhi con la vista del suo volto, dai lineamenti dolci e tranquilli come quelli di un bambino che non ha alcuna intenzione di passare la vita a preoccuparsi per qualcosa 'da grandi', circondato dalla penombra e ringiovanito dalla calma che aleggiava nella stanza; e mi chiesi se qualcuno gli avesse già fatto notare quanto fosse bello mentre dormiva. Da sotto le palpebre, fini e rosee, riuscivo a scorgere i movimenti frenetici delle pupille, tipici di chiunque sogni, e per un attimo accarezzai l'idea che forse, molto forse, stava sognando me, e sorrisi, costringendomi poi a tornare alla realtà e realizzare che si trattava di un'ipotesi molto, ma molto remota, calcolando che ci eravamo conosciuti la sera prima.
«E che c'entra, tu ti sei innamorato di lui appena l'hai visto» chiosai tra me e me, zittendo la ragione per qualche tempo, pur sapendo che avevo, come al solito, torto, e che mi sarei presto pentito della mia scelta. Tornai a guardarlo e fui tentato dal passare una mano tra i suoi capelli, lunghi più o meno due centimetri e scuri come la pece, ma mi trattenni per paura di svegliarlo e mettermi nei guai. Tuttavia, l'idea del pizzicorìo che mi avrebbero provocato sul palmo della mano mi tornava in mente spesso, mentre immaginavo di poter sfiorare liberamente quella pelle candida e delicata, e tutte le volte mi trovavo a rabbrividire - non tanto perché la simulazione del mio corpo era fin troppo reale, ma perché toccare i capelli a qualcun altro era una cosa che facevano di solito i fidanzati, e la sola idea che un giorno avrei potuto stringerlo e baciarlo senza problemi... Be', siamo onesti, mi mandava completamente in un brodo di giuggiole. Così lo guardavo e lo riguardavo, senza stancarmi mai, e sospiravo tra me e me, ripetendomi le classiche cose da innamorati  rincretiniti da un'improvvisa sbandata, e mi divertivo a figurarmi la sua espressione quando si sarebbe svegliato. Già, perché doveva svegliarsi prima o poi.. Rabbrividii nel rendermi conto della cosa e tirai le lenzuola un po' più su, come a nascondere il mio cuore troppo agitato, e tornai a osservare l'altro con la coda dell'occhio, un po' più guardingo. Aspettai un'altra decina di minuti senza fare alcuna mossa, ma visto che il silenzio e la calma persistevano, presi possesso di tutto il mio coraggio e mi avvicinai ulteriormente a lui, mantenendo gli occhi chiusi e serrati in caso si fosse svegliato, e mi fermai quand'ero ormai in grado di sentire il soffio flebile del suo respiro che s'infrangeva contro le sue mani, accoccolate accanto al suo volto, riempiendomi la testa d'immagini e flash che erano una vera pugnalata alla schiena, calcolando la nostra vicinanza. Ma, come ci si può ben immaginare, l'unico bisogno che riuscivo a sentire e che potevo soddisfare senza espormi troppo e senza rischiare di mandare a monte l'intera operazione era stargli il più vicino possibile, ad ammirare la sua fine bellezza e contemplare le sue labbra perfettamente disegnate, così ben proporzionate rispetto al naso e al resto del viso. Nel suo piccolo, lo si poteva considerare come un'opera d'arte squisitamente lavorata, dove ogni minimo dettaglio era curato con pignoleria e ogni particolare era amplificato fino all'esasperazione, sempre dolce e piacevole, del suo aspetto fisico, così magro e pronto a scattare, dai muscoli normali e appena accennati; e ogni tassello del suo corpo sembrava esser stato posizionato con una minuziosità certosina, talmente pareva angelico il tutto che veniva a crearsi. Insomma, non si poteva certo dire che il ragazzo passasse inosservato davanti agli occhi della gente, e io, come ci si poteva ben immaginare, non facevo minimamente eccezione.
Non avevo idea di quanto tempo fosse passato da quando ero rotolato accanto al suo corpo, così non osavo muovermi o accennare al minimo spostamento di un singolo muscolo, terrorizzato dall'idea che potesse svegliarsi improvvisamente e privarmi di quel tanto piacevole spettacolo, così mi limitavo ad aspettare, in silenzio, che stendesse un braccio e mugolasse qualcosa, dando il buongiorno al mondo. Ci volle un po' prima che avvenisse, e in quella mezz'ora scarsa che prevenne l'evento ebbi tutto il tempo di riempirmi la testa di film mentali e avvenimenti altamente improbabili, nei quali non riuscivo però a smettere di sperare.
Si svegliò con un mormorio soddisfatto e uno stiracchiamento appena accennato, visto che dopo poche decine di centimetri il suo braccio si scontrò con il mio. Recitai la mia parte e mugolai qualcosa con fare leggermente seccato, tenendo sempre gli occhi chiusi e senza spostarmi minimamente, e aspettai di sentire la sua reazione. Sussultò e sgranò gli occhi, ma non si allontanò da me. Rimase immobile, a soppesare ogni azione possibile, si tirò il lenzuolo fino a metà guancia e si sistemò meglio sul fianco destro, senza fiatare o provare a spostarsi; al che intuii che neanche a lui dispiaceva tanto la mia presenza e mi rallegrai, intuendo che forse qualche speranza l'avevo eccome e che sarei riuscito a districarmi da quella situazione in maniera quasi decente se lui non si fosse rivelato colpevole o comunque coinvolto. Sorrisi tra me e me nel sentire il suo respiro sulla pelle, crogiolandomi in tutta quella positività, e accennai un movimento del braccio, a cui seguì poi uno sbadiglio. Aprii gli occhi e finsi che lo sguardo mi cadesse per puro caso verso di lui, che intanto mi guardava e mi sorrideva, pretendendo di essere ancora un po' intontito dal sonno, e sbattei lentamente le palpebre, ostentando la calma più completa e credibile che avessi, come se non avessi neanche capito bene la situazione. Lui non si preoccupò.
«Buongiorno» sussurrò, praticamente sulle mie labbra.
«Buongiorno» ribattei, energicamente e senza malizia. «Dormito bene?»
Annuì, leggermente imbarazzato, pensando che gli avessi appena lanciato una frecciatina sulla sua presenza nel mio letto, e si grattò il collo. «Scusa, tendo a muovermi parecchio di notte. Spero di non averti dato fastidio».
Solo allora mi resi conto della mia gaffe e mi lasciai arrossire.
«Nono, figurati, nessun fastidio» mi sbrigai a chiarire, «Non volevo fartelo pesare, anzi».
Non sembrò particolarmente convinto, ma sorrise. «Figura di merda» sillabò quindi a poca distanza da me, ridendo sotto i baffi. Sbuffai energicamente e mi sbattei una mano sulla faccia, affondando la nuca nel cuscino e sorridendo da sotto la mano. Lui si avvicinò più a me, sorreggendosi coi gomiti e sporgendosi ulteriormente verso il mio viso.
«Tu invece? Come hai dormito?» mi domandò, sorridendo divertito mentre spostavo la mano.
«Alla grande» risposi, alzando allegramente le sopracciglia.
«All'inizio avevo freddo, ma poi ci hai pensato tu» lo sfottei, sfidando il suo sguardo.
«Oh beh, non mi sembra che tu ti sia lamentato» ribatté lui, lasciandosi cadere verso il suo posto.
«Non mi sembra di aver detto che mi sia dispiaciuto» replicai, fingendomi improvvisamente noncurante e indifferente. Mi stavo spingendo oltre, ma anche lui non scherzava. Rimase in silenzio, con un sorriso compiaciuto appena accennato sulle labbra, ma mi sentii terribilmente come fuori posto e mi tolsi di dosso le lenzuola, tirandomi quindi a sedere. Mi guardò, parzialmente stupito, e aggrottò la fronte, cercando d'intuire le mie intenzioni.
«Fossimo in un film staremmo già scopando» dissi, alzandomi in piedi e stiracchiandomi sonoramente e tranquilla lentezza.
«Ma visto che sono una donnetta frigida, andrò a fare colazione» conclusi. Fin rise, tirandosi a sedere a sua volta, e si scrocchiò le ossa del collo, socchiudendo gli occhi e serrando la mascella.
«Credi di poter aspettare due minuti, donnetta?» mi punzecchiò con un'alzata di sopracciglia, alzandosi e recuperando una maglietta pulita dal cassetto più vicino a lui.
«Se vado di là profumando di te, Alicia ci sfotterà a vita» commentò, arricciando le labbra in un sorriso divertito. Si cambiò velocemente davanti ai miei occhi distanti, mentre rimanevo appoggiato con le spalle alla porta cercando di avvertire i passi della ragazza da qualche parte, e avvicinò spaventosamente il suo volto al mio, guardandomi negli occhi.
«Ai tuoi pantaloni ci pensiamo dopo, adesso andiamo» sussurrò, indicando il corridoio col capo.
Non colsi malizia nella sua voce, così appoggiai tranquillamente la mano sulla maniglia, girandola e uscendo dalla stanza, e mi ritrovai di fronte a un quadro enorme raffigurante un qualche antenato di notevole importanza, vestito in pieno stile vittoriano. Fin non ci fece neanche caso e proseguì dritto verso la cucina, così lo seguii e mi lasciai alle spalle quell'austera e inquietante finestra sul passato, dimenticandomene.

«'Giorno!» esordì, spalancando con forza la porta ed entrando in cucina con aria allegra.
«Ciao, ragazzi» ci salutò Alicia alzando gli occhi dal suo giornale, per poi afferrare una tazza di caffè.
«Dormito bene? Fin russa che è una meraviglia, avrei dovuto dirtelo» si scusò la ragazza unendo le spalle, sfottendolo pacatamente.
«Non ha russato per niente» sorrisi, «E comunque sarei andato a dormire nella vasca da bagno».
Mi beccai una spinta da parte del moro ma la ragazza sorrise, ridacchiando.
«Effettivamente non hai tutti i torti» ammise, scuotendo leggermente il capo e dando una lunga sorsata alla sua bibita nera, posando quindi la tazza sul bancone. «Probabilmente l'avrei fatto anch'io, se fossi stata nei tuoi panni» aggiunse, guardando allegramente Fin.
«Ma che vi siete alleati contro di me?» sbottò lui, fingendo di offendersi.
«Siete dei brutti calunniatori» ci accusò, scuotendo la testa con aria come di pietà.
Soppressi una risata e lo seguii verso la credenza, guardandomi attorno in quella stanza enorme e grondante di piccoli particolari. «La tazza di Buzz Lightyear è mia, poi fa pure come vuoi» mi avvertì lui, appropriandosi della sua amata tazza azzurra e andando ad aprire il frigorifero. Agguantai la prima tazza che mi passò davanti agli occhi e gli trotterellai nuovamente dietro, prendendo il latte che mi tendeva e rimanendo immobile ad aspettare ordini di qualunque tipo, spaesato.
«Mettilo a tavola, a fare il caffè ci penso io» disse lui, avvertendo il mio imbarazzo e sorridendone; accendendo il fuoco e tirando fuori del macinato. Mi diressi verso la mora e avvicinai una sedia al tavolo per il cuoco, poi ne presi una per me e mi ci sedetti su.
«Allora?» chiese quindi Alicia, dopo aver posato il giornale davanti a sé, incrociando le dita e posandoci sopra il mento con aria interessata, inclinando leggermente il capo.
«Allora cosa?» ribattei, inclinando anch'io la testa per vederla meglio. Lei rise.
«Com'è andata stanotte?» mi domandò. Scrollai le spalle, sorridendo.
«Bho, bene direi. Ho dormito bene, il materasso era comodo. E Fin si è addormentato subito».
«Giust'appunto» ribatté lei, come se lui non facesse altro.
«Si addormenta sempre prestissimo» mi spiegò, «oppure nei momenti più inopportuni».
Ripensai alla sua confessione della sera prima. «Effettivamente» ammisi, sorridendo.
«Secondo me lo fa apposta, sappilo» mi confidò sottovoce, guardandolo con la coda dell'occhio.
«È uno stronzo» rise. Si sentiva che lo diceva con affetto.
«Non trattarmelo troppo male, comunque» si raccomandò poi, riprendendo in mano la sua tazza di caffè e tornando a leggere il giornale. Non ebbi il coraggio o il tempo di chiederle meglio cosa intendeva, lui arrivò pochi secondi dopo. Bene o male, comunque, pensai di aver recepito il messaggio. Ed effettivamente non ci voleva molto.


«Columbia... Columbia...» la chiamò Ray, scuotendole dolcemente la spalla.
«Andiamo, è ora di alzarsi» insistette, percependo un guizzo insolito sotto le palpebre della ragazza.
«Mmh... ancora cinque minuti...» mugolò lei, portandosi una mano sulla fronte, gli occhi chiusi.
«Sai che non dipende da me» le ricordò il riccio, sedendosi meglio accanto a lei, sbadigliando.
«Hmm, vero. Ora mi alzo, dai» brontolò la ragazza, sbadigliando e tirandosi faticosamente a sedere, per poi strofinarsi i pugni contro gli occhi arrossati dal sonno e rivolgere tutte le sue attenzioni all'amico riccioluto, accoccolato davanti a lei.
«Successo qualcosa d'importante?» domandò. Ray scosse la testa con una smorfia di disappunto.
«Gerard ha lasciato le cuffie in camera ed è andato a fare colazione».
«Allora potevo dormire altri cinque minuti!» protestò lei, incrociando le braccia sul petto. Ray rise.
«No, non potevi. Le mie quattro ore di turno sono passate, ora tocca a te» ribatté, afferrando un cuscino e tastandolo con aria divertita, mentre la ragazza si alzava e si stiracchiava, cedendogli il posto controvoglia e con un grugnito.
«Non puoi restare un po' a farmi compagnia?» piagnucolò, facendo sporgere il labbro inferiore.
«Lo farei, credimi, ma sto leggermente morendo» si tirò fuori lui con un sorriso, le palpebre che ormai gli si chiudevano da sole. Columbia sospirò e lasciò perdere, prendendo posto alla sua postazione e abbassando un po' la luce del monitor per garantire all'amico un sonno più tranquillo e rilassato, e s'infilò le cuffie, rassegnata a ciò che l'aspettava. Quando si era proposta per il primo turno aveva avuto fortuna e aveva assistito alla cena, quando l'atmosfera era più allegra e sciolta, ma in quel momento tutto sembrava tacere e comunicarle un gran senso di pesantezza e monotonia, e la ragazza non ebbe problemi a immaginarsi perché l'amico avesse un'aria così profondamente estasiata quand'era venuto a svegliarla. Sembrava, anzi, che la fine del turno fosse la cosa più bella che gli fosse capitata negli ultimi tempi, talmente noioso si era rivelato stare appiccicato a uno schermo buio, dove tutto ciò che si vedeva era immobile e avvolto da una coperta di silenzio opprimente, e la riccia si trovò a deglutire, quando i primi dieci minuti furono passati. La stanza era piatta e sempre uguale, se non fosse stato per la luce che cominciava a farsi strada tra la persiana e il vetro, arrivando ad accarezzare la scrivania e, venti minuti dopo, i piedi del letto. La riccia si chiese che ore dovessero essere in quel momento e a che ora il sole sarebbe stato abbastanza luminoso da permetterle di distinguere le forme di tutti gli altri oggetti, ma dovette accantonare la domanda con una scrollata di spalle. In effetti, non aveva la minima idea di quando si levasse il sole o di quando tramontasse, quindi non poteva trovare neanche una risposta pienamente appagante, e girarci attorno non avrebbe fatto passare il tempo più in fretta.
Si trovò a desiderare che uno dei ragazzi si svegliasse e le portasse una tazza di caffè, nonostante sentisse benissimo la cadenza regolare con cui i due respiravano, e sospirò, annoiata, posando il mento sul dorso della mano con aria scocciata; e fu tentata per un attimo di prendere l'ipod e spararsi qualcosa di forte nelle orecchie, giusto per svegliarsi un altro po' e non rischiare di riaddormentarsi prima del tempo. Purtroppo, però, sapeva benissimo che limitarsi a osservare la scena senza l'audio equivaleva a non guardarla per niente, visto che metà delle informazioni andava persa, e non poteva permettersi il minimo sbaglio, specialmente uno così sciocco. Sospirò di nuovo, più sonoramente, e giocherellò un po' con il mouse, accarezzando con la freccetta i contorni dei vari mobili, e si sforzò d'immaginarsi qualcosa che non fosse la più completa e monotona oscurità, capace solo d'ispirarle una gran voglia di coricarsi e mandare a fanculo tutto, ma non ci riuscì così bene. Gerard non aveva inquadrato il letto, probabilmente apposta, e lei non era stata lì per sentire cosa si era detto con l'altro, sempre che si fossero parlati, quindi non aveva neanche qualcosa su cui rimuginare mentre aspettava il loro ritorno in camera. Sbuffò ancora. La missione procedeva molto più a rilento di quanto avesse previsto.


«Gerard» mi chiamò Fin, facendomi cenno di raggiungerlo con la mano. «Vieni un po' qua».
Rabbrividendo, mentre l'aria fresca mi accarezzava le gambe nude, trotterellai fino a lui e mi sedetti a poca distanza dalla sua postazione, socchiudendo gli occhi. Riaprendoli, notai che il paesaggio che si stagliava oltre la balaustra era spettacolare, per quanto consueto e familiare, e non potei evitare di sorridere, mentre il mio sguardo correva da un pino all'altro.
«È bello, vero?» mi domandò con aria sognante e inorgoglita, le gambe incrociate e le mani aggrappate al bordo del muretto di pietra. Annuii, rilassato.
«Non pensavo che il bosco fosse così grande» ammisi. Lui si voltò e mi sorrise premurosamente.
«Ora capisci perché non ti abbiamo lasciato andare?» chiese, distogliendo lo sguardo dal mio. Annuii di nuovo. Anche se l'idea di andarmene seriamente a zonzo nel cuore della notte non mi aveva mai davvero sfiorato la mente, avventurarmi in mezzo a tutta quella natura sarebbe stata una decisione davvero cretina, anche per un genio del mio calibro. 
«Sono felice di non essere andato ad ammazzarmi» convenni, arcuando le labbra.
«Anch'io» ribatté il moro, sovrappensiero. Mi voltai verso di lui e sorrisi dolcemente, senza arrossire.
«Beh, grazie» mormorai, e lui avvampò. Non si era reso conto di averlo detto fuori dalla sua testa.
«P-prego» biascicò imbarazzato, sforzandosi di non staccare lo sguardo dall'orizzonte.
«Dov'è casa tua?» mi chiese quindi, osservando la mia cittadina e cercando di capirlo da solo.
«È quella lì col tetto nerastro» dissi, mettendogli un braccio attorno alle spalle e indicandogliela col dito, portando il viso accanto al suo per avere la sua stessa visuale ed essere sicuro di non sbagliarmi un'altra volta. Lui strizzò gli occhi per vederci meglio e annuì.
«È lontana» osservò, mentre mi spostavo da lui.
«Vero» convenni, «Infatti devo partire tra poco se voglio arrivare prima di sera».
Mi guardò un po' deluso. «Immagino tu abbia ragione» commentò. Abbassò lo sguardo, rabbuiandosi un po', e mi sentii improvvisamente in colpa.
«Ci sei mai stato, giù in città?» domandai, cercando di cambiare discorso e farlo sorridere.
«No, mai» scosse la testa. Annuii e colsi la palla al balzo, allegro.
«Ti andrebbe di vederla con me?» gli chiesi. Lui sgranò un attimo gli occhi, girandosi verso di me, poi qualcosa gli tornò in mente e si rabbuiò di nuovo, mordendosi il labbro.
«Purtroppo non posso» sospirò.
«Non puoi? Come mai?» domandai, stupito.
«Ecco, diciamo che sono tipo in punizione» rispose, respirando a fondo.
«Oh. Beh, sarà per la prossima volta, allora» commentai. Lui non replicò e rimase in silenzio.
«Tutto bene?» chiesi, posandogli una mano sulla spalla.
«Sì sì, non ti preoccupare. Ho solo mangiato un po' troppo» sorrise, inumidendosi le labbra.
«È un bel posto, questo» mormorai, a disagio.
«Già... se non ci sei prigioniero» borbottò lui in un filo di voce, abbracciandosi le ginocchia.
«Come hai detto, scusa?» ripetei, aggrottando le sopracciglia e guardandolo.
«No, niente di che, tranquillo» sminuì il moro: «parlavo da solo».
Tacqui, osservandolo. Forse avevo capito male io.
«È da molto che vi siete trasferiti qui?» buttai lì, incapace di pensare ad altro.
«Due settimane, forse tre. Ramsey dice che abitavamo qui, prima di trasferirci a Newark». Tacque.
«Francamente, non me lo ricordo proprio» aggiunse, storcendo la bocca.
«Forse eri molto piccolo» supposi. Scrollò le spalle, come se non gli interessasse particolarmente.
«Bho, probabile. Tu abitavi qui, quand'eri un bambino?» domandò.
«Sì, andavo a scuola in quel grande edificio accanto alla chiesa». Gli indicai la struttura e lui si sporse in avanti per seguire la traiettoria del mio dito, appoggiandosi a me e socchiudendo gli occhi.
«Sembra bella» mormorò, facendo vacillare lo sguardo dalla chiesa alla scuola, pensieroso.
«Non particolarmente» scrollai le spalle. «Non è niente di speciale».
«Io non mi ricordo dove sono andato a scuola» mi confidò lui, staccandosi da me e abbracciandosi le ginocchia con aria malinconica, appoggiandovi sopra la testa con rassegnazione.
«Alicia dice che è perché evidentemente ho studiato a casa, ma non mi ricordo neanche quello. C'è un sacco di buio nella mia testa, e anche nella sua. Evidentemente abbiamo qualcosa che non funziona nel cervello, perché non è normale».
Lo guardai e mi rividi in lui, deglutendo, ma non dissi nulla.
«È strano come la mente umana faccia errori di questo tipo ma ci consenta di fare miliardi di cose assolutamente e categoricamente inutili, no? Poi uno ci si abitua, ovvio, ma non è carino non saper dire niente del proprio passato quando gli altri ti raccontano per filo e per segno della prima volta che hanno fatto qualsiasi cosa. Ti senti un po', come dire... diverso. E non sempre diverso è bello».
Sospirò, mordendosi le labbra, e socchiuse gli occhi.  «Per una volta vorrei essere uguale agli altri».
Mi sporsi in avanti e lo abbracciai con delicatezza, affondando il volto nella sua schiena. Sembrò vacillare per un attimo, poi riprese.
«A volte mi sembra che tutti si muovano per pietà. Non è una cosa bella da pensare o da provare, perché perdi fiducia in chiunque ti circondi, cominci a pensare che non c'è davvero qualcuno che ti ami con sincerità e che tutti i meccanismi attorno a te ruotino intorno al fatto che sei un povero ragazzino con un handicap alle spalle che non gli permette di vivere normalmente. Voglio dire, chi mai assumerebbe qualcuno che non ha memoria, qualcuno che non sa neanche se ha mai lavorato o commesso un delitto prima di compiere diciannove anni, qualcuno che sul piano scolastico-manuale sembra nato ieri? Non ho futuro, nessuna università mi accetterebbe mai e ci metterei troppo a rifare tutti gli anni del liceo e gli esami necessari, quindi non avrebbe neanche senso provare a ricominciare. Io... vorrei solo essere normale. Tutto qui».
Sbuffò mestamente, gli occhi ancora serrati, e lasciò che lo circondassi con le braccia in un abbraccio più solidale possibile, mentre i nostri muscoli s'irrigidivano e rilassavano in continuazione.
Avrei voluto dirgli che sapevo come si sentiva, che ci stavo passando anch'io, che mi trovavo nella sua stessa situazione e che non sapevo cosa fare, ma mantenni un briciolo di serietà e tacqui, pensando all'esito della missione prima che a un ulteriore avvicinamento tra me e il mio innamorato, e mantenni un po' di distacco. Mi limitai ad abbracciarlo forte, accarezzandogli i capelli, e a baciarlo sulla fronte.
«Andrà tutto bene, vedrai» gli sussurrai, passandogli una mano lungo la guancia, delicatamente.
«Alla fine si sistema sempre tutto, e sarà così anche per te».
«Cosa te lo fa pensare?» domandò, alzando gli occhi verso di me con aria affranta.
«Il fatto che non sei più solo a combattere. Ora ci sono anch'io, e ci sarò per sempre» lo tranquillizzai, guardandolo dritto nelle iridi color carbone. Sorrisi e anche lui abbozzò un sorriso.
«Io... Grazie, Gerard» si addolcì. Gli arruffai i capelli e scrollai le spalle con un 'di niente'.
«Devi proprio andartene?» mi chiese poi, malinconico. Sospirai.
«Sarebbe meglio di sì, mio padre potrebbe cominciare a preoccuparsi e quando torno a casa rischio di trovarmelo davanti alla porta, mezzo brillo e pronto a fare il diavolo a quattro immedesimandosi in un qualsiasi agente di polizia. Allora, boom, giù botte e addio uscite per mesi».
«E non puoi chiamarlo?» domandò, con una candidezza che non mi risparmiò un sorriso.
«Va bene, vuol dire che lo farò» annuii, addolcito dalla sua premura.
«Ma non ti obbligo mica, eh! Se vuoi partire parti pure» si affrettò a aggiungere lui, arrossendo e muovendo freneticamene le mani davanti al viso, formando una buffa croce. Non poteva certo immaginare che sua 'sorella' e i suoi occhi l'avessero già tradito da tempo. Sorrisi sotto i baffi e
scossi il capo, intenerito.
«Sta' tranquillo, non avevo comunque molta voglia di andarmene. Non prima di aver fatto una certa cosa, almeno» ribattei, tastandomi le cosce alla ricerca delle sigarette, abbandonate nella tasca dei vecchi jeans, ora abbandonati chissà dove.
«Che cosa?» domandò, cercando di non sembrare troppo incuriosito.
«Infilarmi un paio di pantaloni, innanzitutto» risposi, saltando giù dal muretto e aspettando che il moro seguisse il mio esempio, raggiungendomi davanti alla porta del terrazzo. «Poi si vedrà».

«Ehi Fin, non è che hai visto il mio cellulare?» domandai, frugando tra la mia roba e piegandomi in avanti per controllare se per caso fosse andato a cacciarsi sotto il letto, ma scoprendo che, per mia sfortuna, purtroppo non era lì. Mi rialzai, sbuffando, e mi grattai la testa.
«Eppure sono sicuro di averlo avuto in tasca quando sono arrivato» mi scervellai, confuso.
«Forse ti è caduto in bagno» propose il moro, alzandosi dal suo letto e andando a controllare. Attesi speranzoso, continuando a cercare nella sua camera, ma purtroppo dovetti arrendermi al fatto che non era da nessuna parte e che doveva essermi caduto da qualche altra parte.
«Niente» mi annunciò il ragazzo, rientrando nella stanza a mani vuote con una smorfia dispiaciuta.
«Prendi il mio e chiamati» tentò quindi, aprendo un cassetto e tirando fuori il suo, passandomelo. Lo ringraziai e composi velocemente il mio numero, portandomi il cellulare all'orecchio e aspettando che cominciasse a suonare, ma la segreteria telefonica mi avvisò che il mio apparecchio non era al momento raggiungibile e che avrei dovuto riprovare più tardi. Aggrottai la fronte.
«Allora?» domandò Fin, dondolando le gambe dalla brandina e guardandomi dal basso in alto.
«Ci sono punti in cui non prende, qui?» chiesi a mia volta, ridandogli il cellulare. Sembrò sorpreso.
«No, non penso. Alicia lo sa di sicuro, comunque, andiamo a chiamarla» disse, saltando giù dal letto e uscendo dalla stanza, aprendo tutte le porte che incontrammo sulla nostra strada. Mi parve di udire uno scalpiccio e aprii di colpo una porta, ma tutto ciò che trovai fu una stanza vuota e una finestra aperta, dalla quale mi sporsi senza vedere nulla.
«Qualcosa che non va?» domandò Fin, tornando sui suoi passi per raggiungermi.
«No, pensavo di aver sentito dei passi ma evidentemente me li sono immaginati» risposi, chiudendo la finestra e serrandola col fermo, per poi voltarmi verso il moro con un gran sorriso.
«Oh. Sì, effettivamente questa casa è parecchio strana. Ogni tanto si sentono cose che non ci sono». Sorrise. «È abbastanza inquietante, se ci pensi; ma per il resto va benone». Annuii e ci sorridemmo a vicenda, poi lui uscì in corridoio e io lo seguii. Improvvisamente mi sembrò tutto un po' più cupo, così cercai di stare più vicino al ragazzo, a cui la cosa non parve dispiacere poi così tanto, e aprii gli occhi il più possibile, sistemandomi meglio la cuffietta. Finalmente avevo potuto rivestirmi e far ripartire il piano, dopo aver passato un'ora circa a non pensare ad altro, e dovetti ammettere che sapendo che i miei amici stavano vegliando su di me mi sentivo decisamente più al sicuro, tanto da staccarmi un po' dal moro e rimanere leggermente indietro rispetto a lui.
I grandi quadri attaccati ai muri sembravano lanciarmi sguardi di austera minaccia da dietro degli occhietti piccoli e socchiusi, man mano che rallentavo il passo per osservare meglio ciò che mi circondava, e la cosa mi faceva accapponare la pelle di tanto in tanto; costringendomi a trotterellare di nuovo dietro al mio amico. Ogni volta che mi fermavo, sentivo posarsi su di me degli occhi che seguivano con insistenza ogni mio movimento e ogni mia mossa, quasi dovessero controllare che non mettessi niente a soqquadro, e fui più volte tentato dal chiedere al moro di fermarsi solo per poter curiosare in giro senza sentirmi un cacciatore di souvenir sulla scena di un delitto, ma per mia fortuna avevo ancora un po' di pudore, così tacqui e feci finta di niente. L'immaginazione può creare e poi dar vita alle peggiori paure, ed ero più che certo che quella sensazione di malessere fosse causata solo dalle parole di Fin e dalla mia eccessiva mania di persecuzione, quindi non c'era nulla di cui allarmarmi o spaventarmi: nel peggiore dei casi mi sarebbe caduto un ragno in testa o una falena avrebbe cominciato a ronzarmi attorno. Insomma, viva la paranoia.
«Gerard? Ehi?». Scossi la testa con un sobbalzo e mi voltai verso destra, trovando il moro che mi guardava con aria preoccupata. «Tutto okay?» domandò, avvicinandomisi aggrottando la fronte.
«Sì sì, stavo guardando questo.. questo.. coso» guardai meglio il coso, imbarazzato per la mia definizione, e lo presi in mano, tastandolo coi polpastrelli con aria interessata. Era fatto di ceramica bianca e sembrava piuttosto antico, ricoperto com'era di decorazioni in rosa, verde chiaro e azzurro, ma non riuscivo a capire cosa potesse essere. La sua forma ricordava quella di una zuccheriera d'altri tempi, ma se così fosse, che diavolo ci faceva su un tavolino a metà del corridoio?
«Oh, quello. Ci siamo sempre chiesti cosa significasse» disse Fin con noncuranza e sporgendo il labbro inferiore in avanti, alzando ed abbassando le spalle, osservandomi mentre lo posavo.
«La casa era già arredata quando siamo arrivati noi. Alicia la trova inquietantissima, ma non ci è permesso spostare i mobili» m'informò, mentre ci rimettevamo in cammino e lanciavamo qualche occhiata alla miriade di oggetti e oggettini stipati sulle mensole o su piccoli tavolini di pesco, posti ai lati del grande corridoio dal pavimento marmoreo. Effettivamente, era inquietante.
«L'uomo che hai menzionato prima, Ramsey, è quello che... insomma...» provai a dire, imbarazzato.
«Che ci ha adottato? Sì, sì è lui; ed è anche quello che ha ereditato la casa. Cioè, credo che l'abbia ereditata. Lo spero per lui: se non fosse, avrebbe dei gusti davvero, davvero strani» storse la bocca con distacco, soppesando in mano una statuetta raffigurante un angelo che danzava spensierato.
«Capisco» mormorai, mentre lui rimetteva l'oggetto a posto.
«Andiamo avanti?» disse, indicando la fine della strada con un cenno del capo. «Mi pare di aver sentito un rumore da quella parte, probabilmente è la volta buona» cinguettò, improvvisamente allegro. Annuii e lo seguii di buon grado, senza più fermarmi, finché non raggiungemmo una grande porta di un legno chiaro e lavorato, dove il moro bussò. Aspettammo un paio di secondi e la ragazza venne ad aprire, con in mano una scopa e una paletta piena di polvere.
«Oh, ciao» ci salutò, posando gli attrezzi contro il muro. «Vi serve qualcosa?»
«Sai se ci sono punti in casa in cui il cellulare non prende?» domandò il moro, frettolosamente.
Alicia ci pensò su, mettendosi una mano davanti alla bocca, poi il suo volto s'illuminò di un'idea.
«Sì, vicino alla cantina non prende per niente» rispose. «Come mai lo chiedete? Non avete campo?»
Le spiegammo rapidamente che non trovavo più il mio telefono e che non riuscivamo a chiamarlo, e lei parve sinceramente stupita. Aggrottò la fronte e ci guardò, come se non capisse un punto.
«Ma scusate, non siamo mica stati in cantina ieri» ci fece notare.
Ci guardammo negli occhi e Fin sbiancò leggermente. «Dici che è tornato?»
«Tornato chi?» ribattei, senza capire. Alicia rimuginò un attimo e scrollò le spalle, arrendendosi.
«Potrebbe anche essere, non ne ho idea» si limitò a rispondere, ignorando la mia domanda.
«Se così fosse non dovreste proprio scendere in cantina» ci ricordò, riprendendo in mano paletta e scopa e tornando al suo lavoro, fischiettando un motivo molto più teso di quello di prima. Guardai il moro e lui ricambiò il mio sguardo, abbozzando un sorriso imbarazzato.
«Andiamo a fare un giro in giardino?» propose, scusandosi con gli occhi. Annuii, senza capirci nulla, e lo seguii ciecamente mentre lui attraversava di nuovo quel lungo e grottesco corridoio e si spicciava a raggiungere l'uscita, come se ci fosse qualcosa a corrergli alle spalle. Sbucammo in giardino dopo tre minuti circa e fummo accolti da un'inaspettata folata d'aria fresca, che accolsi con un gran senso di sollievo e un sorriso. Mi voltai a guardare il moro e lui abbassò lo sguardo, come se si sentisse colpevole di qualcosa di molto grave, e si morse il labbro, inquieto.
«Immagino che ti debba delle spiegazioni» mormorò con un sospiro, sedendosi sul muretto di pietra. «Vedi, devi sapere che non siamo soli in questa casa. Non lo siamo mai stati».




Nel frattempo, alla base i ragazzi cominciavano a svegliarsi e si preparavano a dare il cambio alla riccia, che ormai aveva smesso di annoiarsi a morte, e tiravano a sorte per chi sarebbe andato a comprare la colazione agli altri due, sacrificandosi.
«Ho capito, ho capito, ci vado io» sbuffò Ray, alzando le braccia in aria a mo' di sconfitta.
«Già che ci sono compro anche il pranzo» annunciò poi, frugando nello zaino alla ricerca del portafoglio e facendo una colletta tra i presenti per racimolare i soldi necessari, annotandosi gli ordini su un foglietto di carta e risalendo la scaletta ferruginosa fino al portellone.
«Sarò di ritorno fra un'oretta o giù di lì, state attente» si raccomandò, ricevendo come risposta un mucchio di 'lo sappiamo, lo sappiamo' e 'vedi di sbrigarti, sto morendo di fame', dopodiché tirò fuori le chiavi, aprì lo sportello di cemento e sgattaiolò fuori, richiudendoselo alle spalle. Columbia si alzò dalla sedia e andò a chiudere a chiave dall'interno, per essere sicura che nessuno avrebbe potuto sollevare il portellone, e tornò dall'amica, un po' più rilassata, lasciandosi cadere accanto a lei.
«Successo qualcosa d'interessante?» domandò la bionda, girandosi verso la riccia.
«Niente di che durante la prima ora e mezza, ma ora il roscio si è finalmente rimesso le cuffiette, quindi possiamo vedere qualcosa che non sia il buio e racimolare un po' più informazioni».
Si avvicinò allo schermo e indicò un punto nero col dito, voltando il viso verso l'altra, attenta.
«Qui non si vede niente perché la cuffia è rotta o sporca - non saprei quale delle due con certezza - ma puoi benissimo immaginarti cosa succede grazie alle altre parti» la informò, ritraendo il dito. Si rimise sulla sedia e unì le dita delle mani, intrecciandole fra loro con un sospiro appena accennato, e alzò lo sguardo al soffitto, pensierosa.
«Cosa ne pensi di questi due?» domandò, tornando a incrociare lo sguardo dell'amica.
«Non sembrano coinvolti, ma spesso l'apparenza inganna» commentò lei, storcendo la bocca.
«Il ragazzo, Fin, è innamorato perso di Gerard e sembra essere ricambiato, ma potrebbe benissimo star fingendo per attaccarlo alle spalle quando meno se lo aspetta. La ragazza, invece, non sembra particolarmente interessata al suo ospite da quando il 'fratello' ci ha messo gli occhi sopra, e passa poco tempo insieme ai due, ma non possiamo escludere che stia comunque tramando qualcosa contro di lui in gran segreto. Insomma, è ancora presto per dire qualsiasi cosa» aggiunse.
«Per ora non mi sbilancerei troppo, ma c'è qualcosa che mi puzza. Non ho mai visto questi due in giro, tantomeno camion dei traslochi o macchine non appartenenti alla cittadinanza parcheggiate vicino al bosco; e a meno che non abbiano amici giù in paese mi sembra assurdo. Anzi, anche se li avessero rimarrebbe comunque assurdo il fatto che nessuno li ha mai visti anche solo andare al supermercato a comprare qualcosa da mangiare, figuriamoci passeggiare tranquillamente per le vie. No, c'è qualcosa di troppo surreale in tutto questo per essere vero» ragionò, pensierosa.
«Neanche noi ci facciamo vedere parecchio, in paese» osservò la riccia.
«Vero, ma quando scendiamo non cerchiamo di non farci notare e ci fermiamo sempre a fare due chiacchiere con qualcuno. Senza contare che abbiamo sempre fatto di tutto per non farli insospettire di niente, che compriamo le nostre provviste al supermarket vicino al municipio e che ci capita di frequentare spesso i pub o i caffé, durante il pomeriggio, e che quindi non siamo immuni alla vita sociale e ai pettegolezzi della nostra città. Siamo figure non dico costanti, ma comunque presenti, non fantasmi che nessuno ha mai davvero notato in giro» ribatté la bionda.
«Un altro punto a nostro favore è il fatto che quando arriva qualcuno di nuovo in città non si parla d'altro per giorni, a volte anche per settimane, e di loro non ha parlato assolutamente nessuno. Mia madre è una pettegola di prima categoria, quindi sono sempre al corrente di quello che accade in città, e visto che muore dalla voglia di accasarmi con qualcuno dubito che si sarebbe lasciata sfuggire la possibilità di presentarmi al nuovo arrivato, che non sbandiera da tutte le parti di essere gay e che comunque non lo sembra per niente, quindi siamo a ben due stranezze. È tanto, se ci pensi, considerando che non abbiamo neanche passato tanto tempo ad ascoltarli e che non sappiamo quasi nulla di loro. Mi chiedo chi gli fornisca il cibo e come facciano con la spazzatura, con i vestiti, con le materie prime in generale e comunque con la claustrofobia, visto che ogni tanto tutti sentono il bisogno di fare una passeggiatina e uscire da casa. Eppure non mi sembra di averli mai visti in mezzo ai boschi, neanche per sbaglio, quindi se escono rimangono sempre vicino alle telecamere e alla recinzione, cosa che a lungo andare è un'altra stranezza. Quando si è appena arrivati è normale aver paura di perdersi, ma dopo un po' che si abita in un posto si possono benissimo comprare delle cartine o fare un'escursione, calcolando che qui il segnale c'è anche quasi ovunque e che non c'è neanche il rischio di rimanere isolati in una situazione di pericolo. Continuo a pensare che ci sia qualcosa che puzza in tutto questo, ma è meglio aspettare ancora un po' prima di confermare qualsiasi impressione e accusarli di aver attaccato James. Chissà, magari sono solo dei tipi un po' eccentrici che hanno paura della gente e si vergognano di scendere in paese perché sanno già che gli altri li sommergeranno di domande indiscrete». Scrollò le spalle e storse la bocca, senza staccare gli occhi dallo schermo, e sentì l'amica annuire, dopo aver sospirato.
«Speriamo bene» si limitò a commentare, scuotendo il capo.
«Aspetta!» la bloccò la bionda, acchiappandola per la manica della felpa.
«L'hai visto anche tu?» esclamò con foga, indicando col dito un punto sullo schermo. Columbia strizzò gli occhi per cercare di distinguere qualcosa, ma si arrese e scosse le spalle, rassegnata.
«A me sembra solo un brutto quadro» ammise, scoraggiando la bionda.
«Eppure potrei giurare di aver visto un guizzo nei suoi occhi...» s'insospettì quella, cercando d'ingrandire l'immagine e trovare un particolare che le provasse che non era pazza, ma gli occhi del dipinto erano perfettamente incollati dov'erano e non sembravano aver voglia di guardare qualcosa che non fosse un vecchio muro che osservavano da ormai parecchie generazioni. Lindsey sospirò.
«Probabilmente me lo sono immaginata» concluse, reingrandendo la visuale, che ora inquadrava di nuovo quella ragazzina magra, stavolta intenta a fare le pulizie, che tanto incuriosiva la bionda. Le stavano chiedendo se ci fosse un punto in cui il cellulare non prendesse o era lei che aveva sentito male? Tese le orecchie e aguzzò la vista, alzando il volume del video, e ricominciò a capire qualcosa grazie alla breve spiegazione che rivolsero alla mora, prima che lei li avvertisse che qualcuno era tornato e probabilmente si trovava in cantina, e che quindi dovevano starne alla larga. Si chiese perché ma nessuno dei due padroni di casa sembrò intenzionato a svelare il mistero, così si rassegnò e li seguì con lo sguardo lungo quell'inquietante corridoio di marmo, in cui i loro passi faticavano a non riecheggiare per tutta la villa, e si trovò a tirare pure lei un sospiro di sollievo quando i due sbucarono in un giardino a metà tra il curato e il selvatico. Il ragazzino sembrava teso e, sebbene ci si sforzasse, il roscio non faceva che inquadrare lui e il suo volto pallido, rendendo la tensione ancora più palpabile. Lindsey si sistemò meglio sulla sedia, alzò ancora un po' l'audio e inclinò leggermente il monitor, in modo da permettere anche all'amica di assistere, e fece correre lo sguardo da un volto all'altro, concentrandosi su ogni minimo scatto delle mani o ingrossamento delle vene del collo, segni naturali d'ansia, e cercò d'indovinare cosa c'era all'interno della mente del moro, visibilmente spaventato da qualcosa che lei e il roscio ignoravano. Fece per mettere la riccia al corrente di un'idea che le era venuta in mente ma fu preceduta dal ragazzo, che si sedette su un muretto di pietra a poca distanza dal roscio, cinse le mani, accarezzandosele, e abbassò gli occhi, prima di rialzarli e piazzarli, tremanti, sul viso del cameraman. Lindsey aggrottò la fronte e fece cenno a Columbia di avvicinarsi ancora, strizzando gli occhi, e rimase in silenzio finché lui non aprì nuovamente la bocca, intenzionato a spiegare qualcosa sulla misteriosa presenza in casa sua.
«Bingo» sussurrò la seconda ragazza, appoggiando una mano allo schienale della sedia con aria di vittoria, sporgendosi poi in avanti per ampliarsi la visuale. Lindsey collegò il monitor al lenzuolo accanto a loro e l'immagine venne prontamente proiettata anche lì, così la riccia poté staccarsi e trovarsi una sistemazione più comoda, con suo grande apprezzamento.
Il ragazzo aprì la bocca e la richiuse, serrando la mascella, e si portò una mano vicino all'orecchio, come se avesse tagliato da poco i capelli e non si fosse ancora liberato dal tic di portali lontano dal viso con un gesto secco, e deglutì, teso. Gerard non staccava gli occhi da lui.
«Vedi, devi sapere che non siamo soli in questa casa. Non lo siamo mai stati» cominciò, torturandosi le mani ed esitando prima di continuare, come se quell'argomento lo spaventasse più del normale.
«C-che intendi dire?» domandò il roscio, vacillando. Lindsey riusciva a sentire i battiti del suo cuore.
«Intendo dire che Ramsey è qui con noi
. O meglio, un altro Ramsey, uno cattivo, facilmente irritabile, uno molto più violento e secco, che non ha problemi a far male a qualcuno o a ferirlo verbalmente e che per qualche strano motivo è avverso a gran parte della popolazione del tuo paesino. Per questo non posso andarci, mi ucciderebbe di botte» sputò fuori, spaventato.
«Ma se tu sarai discreto lo sarà pure lui e non ci saranno problemi» si sbrigò ad aggiungere.
«Vedi, lui non è una persona cattiva, ha solo avuto un passato difficile e ha un modo tutto suo di conviverci e non venir sommerso dal dolore» disse poi a mo' di giustificazione, e il roscio deglutì.
«Se non ti spiace, vorrei andare a casa» mormorò in un sussurro strozzato. Fin sbatté le palpebre e incassò il colpo, assumendo un'espressione profondamente ferita.
«N-no, ti prego, ti giuro che non ti farà niente. Te lo giuro sul mio corpo, su Alicia, su mia madre, su qualunque cosa tu voglia, ma ti prego, non andare. Ti prego.. ti prego» lo supplicò con gli occhi, velati da una sottile patina di lacrime, e il roscio esitò, colto alla sprovvista.
Lindsey si voltò a guardare l'amica, gli occhi sgranati e le pupille dilatate dalla sorpresa.
«Prendi le pagine bianche, svelta» ordinò freneticamente, tornando ad occuparsi del video con il cuore a palla. Quel nome non le era nuovo, ma non riusciva a ricordarsi di chi si trattasse.
«Raltz, Ramgrhy, Ramprew, Ramset... Ramsey! Ecco, trovato» esclamò l'altra posandole il libro davanti agli occhi, sbattendolo con più forza di quanto volesse contro la scrivania e facendo sussultare la bionda, che lo consultò e sgranò gli occhi, impallidendo.
«Oddio, vuoi vedere che...» mormorò, saltando in piedi e correndo verso l'archivio. Spalancò il primo e il secondo cassetto e ci frugò dentro con fretta finché non trovò ciò che cercava, ritornando quindi al suo posto per mostrarlo alla riccia, soddisfatta. Lo lasciò cadere davanti al suo naso attonito.
«Guarda qui» cominciò, togliendo la polvere dal plico e aprendolo.
«L'annuario scolastico dei primi anni del liceo» si compiacque, facendo scorrere i polpastrelli lungo la prima pagina ingiallita e fermandoli alla fine della pagina, prima di cominciare a sfogliarle.
«Questa no, questa no, questa no, questa... questa sì, finalmente» gioì, fermandosi a contemplare una foto di media grandezza che riempiva forse metà dello spazio disponibile nella pagina, in cui qualche studente camminava lungo un corridoio lindo e immacolato e si fermava ad osservare un grande orologio nero, posto sopra l'aula 204. Doveva essere ora di lezione, perché il corridoio, di solito gremito di alunni di ogni età e nazionalità, era paurosamente vuoto e abbandonato a se stesso, se non fosse stato per la presenza di quei tre ragazzi e di un uomo dal mento aguzzo, che sembrava leggermente irritato dal loro ciondolare senza meta.
«Bingo» esultò la ragazza soddisfatta, battendo il dito contro la figura solitaria del bidello.
«Abbiamo il nostro uomo» annunciò all'amica, godendosi la sua aria stupita e compiaciuta.
«E abbiamo anche un movente per l'assassinio» aggiunse, lasciando la riccia completamente sbalordita. Sorrise fra se, segretamente fiera della sua intelligenza, e ritornò a sfogliare il fascicolo con attenzione, mentre l'altra, visibilmente spiazzata, cercava di concentrarsi sul video.
Ma diavolo, avevano finalmente un vero sospettato, e con pure un movente!
Columbia si fermò, togliendo le mani dalla tastiera. Doveva assolutamente avvertire Ray.



Angolo dell'autrice: So che questo capitolo non ha svelato molte cose e che non è neanche particolarmente accattivante, ma non so mai quando scrivo troppo e quando troppo poco, quindi è un po' un casino per me regolarmi. Scusate cwc

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


combattere contro il passato (cap 11) «Dì un po', questo che ti ricorda?» domandò la bionda all'amico ricciuto, appena lui ebbe posato la busta del pranzo sul tavolo e si fu avvicinato ulteriormente a lei, passandogli l'annuario e voltandosi a guardarlo. Lui lo prese in mano con aria corrucciata, aprendolo e sfogliandolo finché lei non gli disse di fermarsi, fece correre lo sguardo sui visi dei ragazzi immortalati e si soffermò a lungo su quello contratto dell'unico uomo della scena, visibilmente contrariato da qualcosa presente nella fotografia, e allontanò il fascicolo dagli occhi.
«Cosa dovrebbe ricordarmi esattamente?» chiese, alzando le sopracciglia e guardandola negli occhi. Poi sospirò.
«Saranno stati cinque o sei anni fa, prima che la scuola venisse ristrutturata» disse, cercando di stimare la data e tornando ad analizzare l'immagine, «quindi quest'uomo qua è il vecchio bidello, il signor Ramsey, e questi due ragazzi ripresi di sfuggita siamo io e il moro quando abbiamo deciso di saltare l'ora di matematica per andare a leggere fumetti in biblioteca. Questo dev'essere Oren, come al solito in giro a cazzeggiare, e quest'aria incazzata dev'essere dovuta al fatto che lui aveva appena finito di pulire ed eravamo arrivati noi a sporcargli tutto senza alcun riguardo». Guardò l'amica in cerca di una conferma e lei annuì, sorridendo, incitandolo a proseguire. Ray respirò a fondo e tornò a guardare l'uomo, malinconico.
«Mi ricordo questo giorno; era aprile, maggio al massimo, e tutta la scuola era su di giri perché era venuta a sapere che il vecchio preside sarebbe andato in pensione a fine pentamestre, e che quindi dall'anno successivo le cose avrebbero preso una svolta positiva per tutti quanti. Avevamo organizzato una festa, quella sera stessa, e ognuno doveva portare qualcosa da bere, così io e Frank ci siamo presentati con due bottiglie di vodka, decisi a spassarcela al massimo, e abbiamo dato il meglio di noi, ubriacandoci come non mai. Fortuna che il giorno dopo avevamo due ore di buco e siamo potuti entrare alle dieci, altrimenti non saremmo neanche riusciti a reggerci in piedi per più di cinque minuti» ricordò, ridendo.
«Possiamo lasciar perdere la festa e concentrarci sull'inserviente?» domandò Lindsey, cercando di non sembrare troppo scortese agli occhi dell'amico.
«D'accordo, ma su di lui non posso dirti molto. Era piuttosto severo e non vedeva di buon occhio il nostro continuo ciondolare lungo i corridoi durante le ore di lezione, ma svolgeva il suo lavoro con una pignoleria impeccabile e non ricordo di aver mai visto le aule sporche dopo il suo passaggio. Ci metteva l'anima in quel che faceva e non si lamentava mai, quindi doveva essere contento di trovarsi lì, anche se era un lavoro duro e a volte gli toccava fare da balia a quelli che venivano buttati fuori dai loro professori; ma credo che sotto sotto non gli dispiacesse neanche quello» cominciò, portandosi un dito davanti alla bocca man mano che proseguiva, «Certo, essendo un inserviente aveva qualche problema con gli studenti più sciocchi, che lo sfottevano e si divertivano a sporcare apposta per farlo sfacchinare di più, ma niente di troppo grave, credo. L'unica cosa che forse poteva dargli fastidio era un gruppo di ragazzi del quarto anno, dei deficienti convinti che prendersela con un bidello fosse la cosa più spassosa del mondo, che l'aveva preso di mira e si divertiva a riempirlo di scherzi, più o meno gravi. Lui non si lamentava mai, se non qualche volta con il preside, ma credo che avrebbe dovuto farlo fin dall'inizio, così avrebbe stoppato la cosa sul nascere e quelle teste calde sarebbero state costrette a calmarsi» commentò.
«Scherzi, hai detto?» ripeté la bionda, pensierosa. «Che tipo di scherzi?»
«Ah, non ne ho proprio idea» ammise il riccio, scrollando le spalle e scuotendo il capo. «So solo che a volte erano piuttosto pesanti, tanto che quando stava da solo era sempre guardingo e sulle spine, e che comunque non erano robetta da niente, ma cose ben architettate e pensate con cura. Insomma, questo povero cristo viveva con un clima di ansia perpetua sulle spalle e non doveva essere una cosa molto carina, visto che alla fine si è ribellato» disse.
«Ribellato?» la ragazza corrugò la fronte, stupita. Vista la mole modesta dell'uomo, una sua possibile vendetta contro dei ragazzi fisicamente più sviluppati e caratterialmente più ottusi e aggressivi di lui le sembrava piuttosto improbabile.
«Parlo per sentito dire perché quel giorno ero a casa con la febbre, ma pare che un giorno abbia organizzato un piano per stanare i suoi aguzzini e si sia nascosto in mezzo alle frasche per ore, pur di riuscire nel suo intento, ma che per sua sfortuna abbia beccato i ragazzi sbagliati, capitati lì per puro caso e ignari di tutto quanto, e che li abbia inseguiti lanciandogli contro tutto ciò che trovava sul suo cammino. Quelli si sono spaventati da morire e si sono rifugiati in un locale, il cui padrone si è offerto di proteggerli, bloccando l'inserviente e costringendolo a calmarsi, e poi da lì hanno chiarito tutto. Comunque sono certo che gli amici di quei ragazzi non abbiano digerito la cosa bene quanto i protagonisti, perché il giorno dopo l'uomo è venuto a scuola con qualche escoriazione sul braccio e gli occhi velati di paura, quindi qualcuno dev'essere andato a fargli visita, e non dev'essere stato troppo piacevole» raccontò, scuotendo la testa.
«Ma a parte quello si trovava bene a scuola, no? Hai detto che gli piaceva lavorare qui, che s'impegnava da morire e che non si lamentava mai di niente, quindi perché negli annuari successivi sembra essere scomparso?» domandò la bionda.
«Be', perché semplicemente è  scomparso. Vedi, qualche mese prima della fine della scuola, qualcosa gli ha fatto perdere completamente le staffe ed ha avuto un esaurimento nervoso di quelli seri, al punto che sono dovuti intervenire degli infermieri a sedarlo perché sennò avrebbe combinato sicuramente qualche casino. Il consiglio d'istituto ha indetto una riunione straordinaria e ha ritenuto più opportuno offrirgli una vacanza anticipata, in modo che si riprendesse totalmente dallo stress e dalla fatica a cui aveva sottoposto il suo organismo, così lui è partito, una tiepida mattina di metà maggio, e ce ne siamo dimenticati tutti, tornando alla solita routine di sempre. Solo che, contrariamente a quanto si aspettassero il consiglio docenti e tutti gli altri membri dello staff, lui non si è più fatto sentire e non ha più messo piede in città, facendo perdere completamente le sue tracce. Facendo bene i calcoli, è uscito di testa poco dopo la scomparsa di Frank» rimuginò il ragazzo, guardandola negli occhi.
«Pensi che possa essere coinvolto nel caso?» suggerì lei, a cui la domanda era ronzata in testa fin dall'inizio.
«Non penso niente» smentì invece il riccio, passandosi le dita sul mento e corrugando la fronte, «ma devo ammettere che la cosa è piuttosto sospetta».
«Escludendo la possibilità che fosse implicato nella scomparsa del moro, cos'altro avrebbe potuto farlo impazzire?» insistette la ragazza, ansiosa di sentire il suo parere. Ray tacque e ci pensò su per un po', poi scrollò le spalle storcendo la bocca.
«Be', la vita di un bidello è uno stress continuo: pulisci qua, pulisci là, il gesso, le cimose, la lavagna, l'aula video, il laboratorio, questo che deve uscire prima, quello che deve entrare dopo, il caffè, lo zucchero, il latte, i fogli, i plichi, il secchio... Hai tante cose a cui pensare, e a tutte queste devi sommare i dispetti degli studenti, i capricci dei professori e le preferenze dei colleghi, senza contare che il tuo stipendio non ti permette neanche una casa o una macchina da re e che i turni di lavoro sono a dir poco massacranti. Diciamo che viveva in una vasca di stress, ma che tutto sembrava scivolargli addosso come l'acqua, e che quindi la causa del suo esaurimento va cercata da qualche altra parte. Forse è stato rapinato o aggredito, o forse qualcuno se l'è presa con qualcuno a lui caro, con qualcosa di sua proprietà o con qualcosa di comunque importante, e quando l'ha scoperto è andato su tutte le furie, rompendo il delicato equilibrio che era riuscito a crearsi attorno e facendosi crollare addosso tutta la merda che era riuscito ad evitare per anni e anni» ipotizzò, guardando l'amica negli occhi.
«Potrebbe anche darsi...» commentò lei. «Credi che ci sia un modo per far chiarezza su tutto questo?»
«Posso collegarmi al sito della polizia e controllare le denunce per aggressione e furto risalenti a quegli anni» propose lui, 
«magari trovo qualcosa che ci possa tornar utile».
«Saresti in grado di farlo?» domandò la ragazza, piacevolmente impressionata dalla sua abilità. 
«Be', ci posso provare» scrollò le spalle, con l'aria di chi non è minimamente preoccupato, «non è niente di troppo difficile, secondo me. Dopotutto me la cavo piuttosto bene con computer, password e tutta quella roba lì, Jimmy mi ha insegnato tutti i trucchi del mestiere. E poi non sarebbe la prima volta che m'intrufolo in un sistema di qualcun altro».
«Sul serio?» ripeté la bionda, estasiata, e lui annuì imbarazzato, come se non fosse tutta 'sta gran cosa.
«Sul serio» rispose, staccando le spalle dal muro e dirigendosi verso l'altra parte della stanza, mentre lei lo seguiva con lo sguardo e sorrideva. «Dammi cinque minuti» borbottò, accendendo il portatile e premendo qualche tasto con aria esperta, mentre la schermata del sito della polizia si faceva velocemente strada sullo schermo azzurrino. Ray s'immerse nel suo lavoro e la bionda tornò a dedicarsi al video, dando il cambio a Columbia, che raggiunse il riccio con una grande tazza di caffè fumante e gli si fermò alle spalle. Gliela porse e lui la prese con un sorriso riconoscente, tornando quindi ai suoi codici criptati e lasciandola lì come se fosse la cosa più normale del mondo, mentre lei sorrideva e scuoteva il capo, sentendosi come una madre intenerita davanti alla figura del figlio completamente catturato da un nuovo videogioco. Si lasciò sprofondare sulla poltrona poco distante e sorseggiò un po' del suo caffè, rilassata. Aveva la massima fiducia in Ray e sapeva che non l'avrebbe lasciata a mani vuote, quindi non aveva niente di cui preoccuparsi. A parte, forse, quell'uomo che tanto spaventava Fin.


«N-no, ti prego, ti giuro che non ti farà niente. Te lo giuro sul mio corpo, su Alicia, su mia madre, su qualunque cosa tu voglia, ma ti prego non andare. Ti prego... t-ti prego...» singhiozzò il moro mordendosi il labbro, gli occhi improvvisamente pieni di lacrime.
Fin stava praticamente supplicandomi in ginocchio di rimanere e, sebbene fossi spaventato e terribilmente in ansia, non ebbi la forza né il coraggio di mollarlo lì e tornare in città, così mi arresi con un sospiro e scrollai le spalle, cercando di rassicurarmi.
«D'accordo, rimango, ma a una condizione» dissi, cercando di sembrare il più sicuro possibile.
«Quale?» trillò il ragazzo, con un lampo di speranza in viso.
«Mi porti giù in cantina. Ora» annunciai, la voce dura e piatta e la mascella contratta.
Non sapevo esattamente perché, ma qualcosa mi diceva che era la mossa giusta da fare, così mi c'impuntai e, nonostante le proteste e i tentativi di dissuadermi del moro, mantenni la mia posizione fino all'ultimo, vincendo la sua resistenza dopo qualcosa come un centinaio di vane preghiere e suppliche. Con il cuore in gola e una faccia spaventosamente cadaverica, il ragazzo mi guidò giù, senza fare pause e senza obiettare più nulla, e si fermò davanti a una grande porta marrone scuro, a cui era attaccata una pesante maniglia d'acciaio affiancata da una serratura aperta; si guardò intorno e poi si voltò verso di me, come a cercare una mia conferma. Lo incitai ad andare avanti con un cenno del mento e lui fece un respiro profondo, spostando con la mano le ragnatele penzolanti che adornavano e rendevano più grottesco l'ambiente, spinse il portone e lo aprì con un cigolio acuto, fermandosi a bussare prima di metter piede nella stanza. La sala era illuminata dalla luce del sole, che filtrava attraverso una modesta finestrella che dava sul prato, posta troppo in alto rispetto al pavimento, e l'odore di polvere e muffa che vi ristagnava era quasi nauseante, ma delle impronte di piedi e dei mobili spostati di recente tradivano la presenza di qualcuno, in quel lugubre sotterraneo, così mi spinsi in avanti e curiosai in giro in cerca di materiale sospetto, guardingo. Tuttavia dovetti ammettere che non c'era nulla d'interessante o fuori dal normale in quel luogo e, sebbene il mio accompagnatore sembrasse completamente terrorizzato dal solo trovarsi nella stanza, non riuscii a trovare niente di troppo rilevante o anche minimamente utile all'indagine, così scrollai le spalle e lasciai perdere, uscendo dalla sala. Fin mi seguì con un sospiro di sollievo e si chiuse la porta alle spalle, delicatamente e stando attento a non far troppo casino, e trotterellò sulle scale, rimanendomi dietro. Per quanto lui fosse sollevato dalla mia infruttuosa ricerca, io ero insoddisfatto e non riuscivo a smettere di pensare e ripensare alle parole della mora, a quelle del fratello, alle sue occhiate spaventate e al suo impallidire quando avevo espresso il mio desiderio di scendere in cantina; ed ero più che convinto del fatto che quella stanza mi stesse nascondendo qualcosa, un segreto che a me non era dato conoscere e che sarebbe dovuto rimanere tale ancora a lungo, se non per sempre. Scossi la testa, improvvisamente colpito da una scossa di autostima e consapevolezza delle mie capacità. No, sarei riuscito a scoprire pure quello, avrei solo dovuto aspettare un altro po' di tempo prima di far luce anche su quel mistero: tornare laggiù immediatamente sarebbe stato inutile e avventato, senza contare che avrebbe potuto mettere in allarme il misterioso padrino, che avrebbe poi potuto prendersela con Fin appena me ne sarei andato, e non volevo che il ragazzo passasse dei guai per causa mia. Certo, ne avrebbe passati per avermi permesso di andare a frugare in mezzo a tutta quella roba, ma se fossi tornato giù una seconda volta non oso immaginare cosa quell'uomo avrebbe potuto fargli; la sua descrizione di uomo violento e rabbioso mi preoccupava non poco, e il suo nome continuava a rimbombarmi in testa, come se da un momento all'altro dovesse scattarmi in testa un campanello d'allarme o qualcosa del genere. Effettivamente, quel nome mi diceva qualcosa, ma non avrei proprio saputo dire cosa. Del resto, tante cose mi ricordavano qualcosa, ma a volte era solo frutto della mia immaginazione e comunque non c'era verso di sapere se le mie supposizioni erano fondate o meno, quindi avevo smesso da tempo di fidarmi dei ricordi e delle sensazioni. Be', okay, magari non del tutto, ma c'ero quasi.
«Soddisfatto?» domandò a un certo punto il moro, appena fummo di nuovo seduti in giardino. Grugnii.
«Immaginavo... che ti immaginavi di trovare?» aggiunse, con una leggera nota di delusione.
«Non lo so. Qualcosa» ribattei, tagliando corto. Non avevo voglia di parlarne, tanto meno con lui.
«Allora... rimarrai?» chiese quindi, abbassando lo sguardo dai miei piedi e poi portandolo sui miei occhi, speranzoso.
«Ma certo, io mantengo le promesse» sorrisi, anche se effettivamente non gli avevo promesso niente. Il suo volto si illuminò e un sorriso si fece strada sulle sue labbra fine, quasi inconsapevolmente, e il ragazzo si morse l'indice, come a sopprimere un urletto; si voltò a guardarmi, visibilmente felice, e si morse il labbro inferiore, aggiungendo un grazie che più sincero non poteva essere. Mi sentii come lusingato da quella sua aria pura e estasiata e non potei fare a meno di sorridere. Rimanemmo in silenzio per un po', a guardarci e arrossire, poi l'improvviso levarsi in volo di uno stormo d'uccelli ci riportò sulla terra, dove ormai era l'una meno un quarto e tutte le famiglie si stavano raggruppando in cucina per preparare qualcosa, in attesa del ritorno chi del marito, chi dei figli, chi di qualche amico. All'improvviso mi ricordai del vecchio e mi sbattei una mano in fronte.
«Merda, devo chiamare mio padre!» esclamai, ricordandomi quindi che non avevo trovato il mio cellulare.
«Tieni, usa il mio» si offrì il moro, passandomelo con un gesto impacciato. Lo ringraziai con gli occhi, sbloccai il display e composi il più velocemente possibile il numero di mio padre, portandomi l'apparecchio all'orecchio e respirando più volte a fondo, come a prepararmi psicologicamente alla sua voce sgradevole e ai suoi modi burberi, che sfoggiò appena prese in mano la cornetta.
«Senta» rispose, scocciato «non so chi sia né cosa venda, ma non ho bisogno di niente, ha capito?»
«Papà, sono io, Gerard». Lo sentii annuire alla cornetta, per niente colpito.
«Si può sapere dove ti sei cacciato, ragazzo?»
«Sono con gli altri, volevo dirti che non verrò a pranzo».
«E quando pensi di tornare, signorino?» sbuffò.
Guardai prima il moro, poi la casa, poi il bosco, mordendomi le labbra e esitando un attimo, poi sospirai.
«Domani mattina, credo; abbiamo un casino di cose da fare» risposi. Annuì.
«
Poi fammi sapere, in caso cambiassi idea. Vedi di non farmi vergognare di te, mh?»
«D'accordo. Ciao pa'» mi congedai, poi lui riagganciò, lasciandomi un attimo stupito della sua calma.
«Hai detto domani mattina, rimarrai qui anche stanotte?» mi chiese d'un colpo il moro, raggiante.
«Se mi sopportate» scherzai con un sorriso, restituendo il cellulare al ragazzo e ringraziandolo per la sua gentilezza. Lui fece segno che non importava e mi prese per la mano, trascinandomi dentro con aria euforica e andando a cercare la sorella.
«Aliiicia? Ehi, Ali, dove sei?» gridò, amplificando la voce con la mano e ricevendo una risposta dal salone. Ci avviammo verso la sala e superammo il corridoio in tempo record, così velocemente che non ebbi neanche il tempo di fermarmi a accarezzare i dipinti con lo sguardo, e la figura magra della ragazza ci venne incontro sulla porta, appoggiandosi allo stipite.
«Be', cos'è quest'aria felice?» domandò, incrociando le braccia con lo sguardo di chi ha già capito tutto.
«Gerard rimane a dormire anche stanotte» le annunciò il moro, che si era completamente lasciato alle spalle il pallore e il timore che lo avevano assalito mentre ci avventuravamo nei sotterranei e che ora sembrava decisamente al settimo cielo.
«Ah, questa sì che è una bella notizia» commentò lei, «allora mangeremo in tre».
«E quel tizio che è appena arrivato? Lui non mangia?»  domandai io, aggrottando la fronte.
«Ah bho, non penso proprio» rispose lei scuotendo le spalle, «non si fa mai vedere durante il giorno. Lavora molto e mai nello stesso punto, quindi non sai mai a che ora e come tornerà, abbiamo smesso di aspettarlo da parecchio e a lui sta bene così».
«In questo caso vuol dire che mangerò anche per lui» scherzai, ricevendo una sonora pacca sulla schiena.
«Questo è lo spirito, ragazzo mio» si compiacque, «poi più tardi andremo a cercare il tuo cellulare. Sono sicura che è finito sotto qualche divano o in un posto impensabile, ma vedrai che riusciremo a recuperarlo».
Annuii, fiducioso, e lei sorrise, mentre il fratello la salutava e mi trascinava da un'altra parte. Voltandomi, mi sembrò di scorgere un lampo di preoccupazione nei suoi occhi carbone, ma forse fu solo una mia impressione, visto che qualche secondo dopo era già tornata alle sue occupazioni, tranquilla.
«Fin, dici che vostro padre avrà bisogno della brandina?» domandai dopo un po', rompendo il silenzio.
«Nah, ha una stanza tutta sua con un letto mille volte più comodo di quello che hai tu» ribatté con sicurezza.
«Al massimo, se proprio la rivuole, ti toccherà dormire con me» aggiunse, sorridendo sotto i baffi.
«A me sta bene, basta che non russi» scherzai senza sbilanciarmi, beccandomi una spinta.
«Seriamente, è l'Anti-Fin Day o cosa?» fece lui, fingendosi esasperato e alzando le mani al cielo.
«C'hai preso in pieno, fratellino» confermò la mora, raggiungendoci. «Ora vai, è il tuo turno di cucinare».
Il ragazzo si alzò in piedi, scuotendo leggermente la testa con aria divertita, e uscì dalla stanza, senza che l'altra si muovesse per seguirlo o dargli anche solo una pacca sulla spalla. Aspettò in silenzio che il rumore dei suoi passi scomparisse definitivamente e poi si voltò a guardarmi, improvvisamente seria.
«Posso parlarti un attimo?» domandò. Annuii, deglutendo, e mi aspettai il peggio.
«Non andate in giro per casa stasera e non avvicinatevi alla cantina per nessuna ragione, okay? Questa mattina passi, e se volete tornarci anche dopo pranzo va più che bene, ma stasera non vi azzardate a metterci il muso dentro, sono stata chiara?»
Annuii nuovamente, sentendomi mancare il terreno sotto ai piedi.
«Non lo dico per farvi un torto o niente, ma esclusivamente per la vostra sicurezza» aggiunse, guardandomi con aria premurosamente preoccupata, «e perché vorrei che tu fossi in grado di tornare a casa, domani mattina».
A questo punto dovetti per forza impallidire notevolmente, perché lei mi posò una mano sulla spalla e me la strinse delicatamente, scuotendola e cercando di tranquillizzarmi. Esisteva la possibilità che non sarei stato in grado di andarmene?
«Vedi, il nostro patrigno non è cattivo, ma certe volte non riesce proprio a controllarsi. Di colpo diventa un'altra persona e perde ogni freno inibitorio, ed è proprio questo che vorrei evitare di farti vivere» sussurrò, accarezzandomi la spalla.
«Non è colpa sua, ovviamente, come non lo è di nessuno di noi, ma è meglio non rischiare troppo, se si può».
Mi guardò con apprensione e io abbassai lo sguardo, elaborando le ultime informazioni.
«Siamo tutti un po' strani in questa casa, ma nessuno ha scelto di esserlo. Evitate di stuzzicarlo e non succederà niente, tranquillo» concluse, ritraendo la mano e alzandosi, per poi fermarsi per qualche secondo accanto alla porta e lanciarmi un'ultima occhiata.
Dal canto mio, non sapevo cosa pensare. Era una situazione surreale, ma non mi sentivo davvero come se ci fosse un pericolo che incombeva dietro l'angolo, anzi; era come se il pericolo ci fosse sì, ma non mi riguardasse minimamente, quindi riuscivo a preoccuparmi solo fino a un certo punto. E pensare che fino a una mezz'ora prima mi stavo cagando in mano!
Scossi la testa e mi alzai in piedi, seguendo le orme dei due ragazzi. Quell'enorme casa mi metteva a disagio, e ancora più mi colpivano quei quadri, enormi ritratti dei tempi che furono, che sembravano spiarmi e seguirmi con lo sguardo ovunque io andassi, anche in presenza del moro; e l'ultima cosa che desiderassi era rimanere da solo con loro, alla mercé dei loro sguardi arcigni e delle mie paranoie inutili. Percorsi il corridoio quasi di corsa e quando raggiunsi gli altri tirai un taciturno sospiro di sollievo, mi proposi di aiutarli e dare una mano ad apparecchiare e loro accettarono, senza smettere un secondo di ridere e chiacchierare. Alicia aveva ripreso la sua aria spensierata, anche se ogni tanto mi lanciava un'occhiata per vedere come me la cavassi, e mi fu impossibile non notare che Fin sembrava a dir poco su di giri per la mia presenza, anche se cercava di non darlo a vedere; e non riuscii a non sorridere nel prendere parte ai loro piccoli rituali quotidiani, sentendomi parte per qualche minuto della famiglia che avrei tanto voluto avere.


«Vittoria!» esclamò Ray, allontanandosi dal computer col un colpo al muro e alzando le mani in aria, trionfante.
«Ce l'hai fatta?» domandò la bionda, sgranando gli occhi per l'ammirazione e avvicinandoglisi, al settimo cielo. Ray annuì, orgoglioso.
«Jonathan Tim Ramsey, collaboratore scolastico con più di diec'anni di onorevole servizio, è stato pestato e legato a un palo sulla statale, esattamente tredici giorni prima della scomparsa del nostro amico. A quanto pare è stato un automobilista ad avvertire la polizia dell'accaduto: stava dirigendosi verso Newark dopo una serata passata a cena di alcuni parenti quando ha visto una figura mezza accasciata per terra e si è insospettito, così ha spento l'auto ed ha trovato il nostro uomo, in stato di semi-incoscienza e coi vestiti violentemente stracciati. A quanto dicono, non aveva soldi o documenti addosso, e il telefono gli era stato sottratto in precedenza, per poi venir ritrovato in un cestino nei pressi del municipio qualche giorno dopo. Non si è mai scoperto il colpevole e la polizia ha archiviato il caso senza troppi problemi» alzò gli occhi sull'amica, «probabilmente causando uno stress troppo grande per un uomo già troppo esposto all'esaurimento, che quindi ha avuto una crisi ed è  diciamo così - impazzito». Respirò a fondo, analizzando la situazione.
«Non c'è da stupirsi se se n'è andato» commentò poi, storcendo la bocca mentre l'amica rimuginava.
«Quando sono state interrotte le ricerche del suo aguzzino?» s'informò la bionda, pensierosa.
«Più o meno quando è scomparso il moro. Non che li si possa biasimare, l'intera comunità era in subbuglio e pretendeva che la polizia ritrovasse il più presto possibile il ragazzo, sbattendosene le palle di un fatto che non era neanche stato pubblicato sul giornale locale, sotto richiesta della vittima, quindi non hanno avuto molta scelta. Per la cittadinanza era vitale».
«E se l'avessero fatto apposta? Se la loro fosse stata una specie di spedizione punitiva, e il rapimento del moro solo un diversivo per distogliere l'attenzione della polizia locale da un fatto di cui tutti erano più o meno colpevoli?» azzardò. Ray la guardò, inespressivo, e considerò l'idea, prendendosi il mento tra le dita.
«Potrebbe anche essere» ammise, «ma allora perché non farlo ricomparire dopo aver scacciato Ramsey?».
«Forse sapeva troppo e l'hanno fatto fuori per essere sicuri che non potesse spifferare niente a nessuno» suppose. 
«A volte succede».
«Può anche darsi, e questo spiegherebbe perché l'altro giorno si sono mostrati tutti stranamente taciturni; ma allora perché non far sparire il ragazzo in un momento di solitudine, senza dover correre il rischio di venir poi riconosciuti?» ribatté il riccio.
«Forse avevano bisogno di un capo espiatorio, un qualcuno a cui addossare la colpa, o forse non potevano soffrire Gerard e basta, così hanno deciso di far fuori pure lui, solo che non ci sono riusciti».
«Allora perché abbandonarlo lì così, senza dargli il colpo di grazia? Il corpo è stato ritrovato solo alcune ore dopo, quindi non c'è neanche la possibilità che gli assassini siano stati intravisti da qualcuno e quindi messi alla fuga. Ammesso che ci sia stato un testimone, avrebbero potuto tranquillamente freddare anche lui e portare via anche il suo, di cadavere, senza doversi esporre così tanto» ragionò il ragazzo. «No, secondo me è successo qualcos'altro. Nessun assassino è così sprovveduto».
Lindsey tacque, appoggiata al muro, e continuò a rimuginare; poi si allontanò con una spinta dal cemento e raggiunse la busta con il cibo, tirandone fuori una bottiglietta di succo alla mela e portandosela alle labbra, senza spiccicare parola. In effetti, l'amico aveva ragione, anche se qualcosa le diceva d'insistere. Scrollò le spalle. L'avrebbero scoperto presto.
«Ehi, venite a vedere!» esclamò d'un colpo la riccia, che era rimasta in silenzio durante tutti i loro ragionamenti, facendola sobbalzare e cadere dalle nuvole con un sonoro sussulto, facendole cenno di avvicinarsi velocemente. Raggiunse l'amica e si sporse in avanti, cercando di vedere oltre la sua spalla; quella alzò il volume, in modo che tutti potessero sentire ciò che stava dicendo la ragazza nel video, e si spostò un po' di lato, lasciando agli altri anche una visuale migliore. Lindsey rabbrividì.
«Cosa pensate che significhi?» domandò, improvvisamente molto più pallida.
«Non ne ho idea, ma la faccenda si complica» commentò la riccia, storcendo le labbra. «E parecchio».


«Ti va di andare a vedere le stelle, Gerard?» domandò dopo un po' il moro, sorridendo.
La cena era finita da un po' di tempo ed eravamo placidamente seduti sul divano, mentre Alicia guardava una soap opera nella stanza accanto, decisa a lasciarci soli il più possibile, e nella sala aleggiava un'aria sciolta e rilassata, che io mi stavo godendo con tutto me stesso. Sulle prime mi venne spontaneo dire di sì, poi mi ricordai le raccomandazioni della ragazza ed esitai.
«Non pensi che sarebbe meglio restare dentro?» obiettai, «fuori fa un po' freddo...». Non avevo il coraggio di dirgli che non mi fidavo del suo patrigno in piena notte e mi sentii un po' in colpa a mentirgli così, ma non avevo altra scelta - sarebbe sembrato come se non volessi stare con lui.
«Oh, freddo dici?» ripeté lui, come cadendo improvvisamente dalle nuvole.
«Ma certo, come ho fatto a non pensarci? Aspetta, vado a prenderti una felpa» mi annunciò, correndo via e lasciandomi solo. Lo osservai scomparire nel buio del corridoio e respirai a fondo, silenziosamente, deglutendo e serrando forte le labbra, per poi guardarmi attorno e concentrarmi sulle voci del programma della mora, senza muovere un muscolo o aprire bocca. Dopo un paio di minuti mi accasciai sul divano e mi morsi il labbro, ormai conscio che sarebbe stato impossibile dissuadere Fin dall'idea di andare a vedere le stelle, e mi rassegnai al fatto che avremmo rischiato come non so cosa. Sospirai e mi parve di scorgere un'ombra alla fine del corridoio; rabbrividii istintivamente e mi spostai un po' più a sinistra, togliendomi dalla visuale e dandomi l'impressione di essere un po' più al sicuro, e attesi, ansioso. Fin entrò di corsa nella stanza e mi raggiunse sfoggiando un enorme sorriso a trentadue denti, mi passò una felpa e riprese fiato, mentre io la indossavo cautamente.
«Spero non ti stia troppo piccola, è la più grande che avevo» ansimò, le mani posate sulle ginocchia.
«Va alla grande, grazie mille» lo rassicurai, stringendomici e avvolgendomi nel suo profumo. Lui sorrise e io feci lo stesso, poi mi porse il braccio e io mi ci avvinghiai, felice. Percorremmo il corridoio in silenzio e sbucammo in un altro punto del giardino, abbastanza vicino alla nostra camera da letto, e il moro si sdraiò sull'erba, mettendosi le braccia dietro la testa a mo' di cuscino. Seguii il suo esempio e mi stesi a pochi centimetri da lui, riempiendomi gli occhi di astri, nuvole e satelliti, sempre senza dire niente, e sorrisi, percependo lievemente il calore del ragazzo al mio fianco. Sospirai il più delicatamente possibile e mi voltai a guardarlo, attento a non farmi vedere, e rimasi catturato dalla sua candida bellezza, accentuata dalla luce della luna e addolcita dal vento che ci accarezzava i volti. Sentii un tuffo al cuore e arrossii, così decisi di tornare a guardare il cielo per calmare un po' il turbine di ormoni che aveva preso possesso del mio corpo e socchiusi gli occhi, rilassando ogni muscolo che potevo controllare, e sentii un sospiro compiaciuto da parte del moro.
«Sai, mi piacciono molto le stelle» mormorò, senza staccare lo sguardo dalla volta celeste, «uno dei miei sogni è riuscire a diventare un astronauta e salire lassù, sulla luna, per poter vivere un paio di mesi circondato solo da loro, per poterle studiare, vedere, sentire, per poter assaporare ogni minimo particolare che possiedono. Se ci pensi, è come una magia». Tacque un attimo, sbattendo le palpebre. «Voglio dire, la maggior parte delle stelle che vediamo ora è già morta, esplosa o in mutazione, eppure noi non riusciamo ad accorgercene, perché la loro luce impiega milioni di anni a raggiungerci e con tutte le luci che ci sono oggi è praticamente impossibile vederne tante. Quando abitavamo in città, era una cosa che detestavo, e spesso e volentieri guardavo e riguardavo documentari sull'universo e sugli altri pianeti, dove le stelle si vedono sempre benissimo e dove non ti devi preoccupare di aerei, satelliti e stronzate varie. Siete solo tu, le stelle e un qualche professore che puoi zittire benissimo abbassando il volume del televisore» proseguì, gli occhi ancora chiusi.
«Tu guardi mai le stelle?» chiese, un po' per farmi sentire meno a disagio, un po' per effettiva curiosità.
«Quando sono qui, sempre, ma in città lo spettacolo è piuttosto ridotto» risposi, dandogli ragione; lui annuì e conservò il silenzio, pensieroso.
«A che pensi?» domandai dopo un po', voltandomi verso di lui. Fin scrollò le spalle, increspando le labbra.
«A tutto e a niente» mormorò, guardandomi, «tu?» .
«Niente di che, ma sono felice di essere qui» commentai, abbozzando un sorriso.
«Anche io» convenne il ragazzo sorridendo, avvicinandosi più a me. «Guarda, questo è il Corvo» mi spiegò, passandomi un braccio sotto il collo per indicarmi meglio una costellazione molto piccola, formata al massimo da dieci-undici stelle che brillavano nella parte meridionale del cielo, altrimenti piuttosto buia.
Il suo braccio era bollente, o forse ero io a esserlo diventato al contatto con la sua pelle. Rabbrividii.
«Hai ancora freddo?» domandò, posando lo sguardo su di me. Per un attimo temetti che mi avrebbe lasciato da solo nel bel mezzo della notte per andare a prendere un'altra giacca da mettermi su, invece mi si avvicinò ancora di più e mi abbracciò stretto, avvolgendomi tra le braccia e posando la testa sul mio petto. Arrossii da morire, ma il buio lo nascose.
Feci per aprire bocca ma mi morsi la lingua e mi godetti il momento, inspirando il suo profumo.
Dio, quant'era bello quel ragazzo, e Dio quanto mi piaceva.
«Gee?» mi chiamò dopo un po', spostando il viso verso il mio e guardandomi negli occhi.
«Sì?» replicai, allentando istintivamente la presa. Forse gli stavo facendo male.
«Grazie». Lo guardai e lui mi sorrise, sincero; al che arrossii di nuovo e distolsi lo sguardo, mordendomi il labbro.
Oh Dio.
«Sei carino quando arrossisci» disse, guardandomi dolcemente con un sospiro.
«Ah beh, tu sei carino sempre» replicai, pescando il coraggio da chissà dove. Lui sorrise e rise fra se.
«Dico davvero» insistei, «sei... sei carino».
Oh Dio, perché insisto? Smettila, coglione, smettila, prima che sia troppo tardi.
«Grazie» mormorò, abbassando e rialzando lo sguardo, come se non riuscisse a sostenere il mio.
«Io... a parte Alicia, sei il primo che me lo dice» mi confidò. Sgranai gli occhi, stupito.
«Il primo?» ripetei; lui annuì e socchiuse un attimo gli occhi.
«A quanto pare non sono bravo a piacere alla gente» sospirò, tornando a guardare il cielo.
«Be', a me piaci» replicai senza pensarci, prima di sigillarmi la bocca con una mano e maledirmi mentalmente.
«D-davvero?» domandò, girando la testa verso di me. 
«Davvero» annuii, cercando di non sembrare completamente terrorizzato dallo scoprire quella che sarebbe potuta essere la sua reazione.
«Anche tu mi piaci» sorrise «e tanto anche».
Sorrisi, arrossendo, e lo guardai, realizzando che l'unico ad arrossire ogni tre secondi ero io, ma per una volta me ne fregai. Lo strinsi più forte, lasciando che affondasse il viso nel mio petto, e gli baciai la nuca, il cuore che batteva a mille, felice; lui portò le mani vicino al volto e si aggrappò a me, come se temesse che sarei potuto correr via da un momento all'altro, e mi lasciò un bacio sulla felpa, uno di quelli così delicati che quasi non li senti, che quasi non sai di riceverli.
Rimanemmo lì avvinghiati per un po', poi il fresco aumentò e decidemmo di rientrare, lasciando stare stelle, luna e satelliti vari e concentrandoci sul calore soporifero che emanava la casa, già pochi passi oltre la porta, e ci dirigemmo verso la stanza da letto del moro, evitando di accendere le luci per non svegliare la mora.
«Fin, Alicia? Che cosa ci fate svegli a quest'ora?» domandò secca una voce alle nostre spalle, avvicinandosi lentamente.
«Dovreste essere a letto da un bel po', non lo sapete questo?» insistette, sempre più vicina. Deglutii, arretrando.
«Lo sapete cosa succede quando mi disubbidite, non è vero? Perché volete farmi scomodare a quest'ora della notte? E io che pensavo di potermi fidare, a lasciarvi a casa da soli... Be', evidentemente mi sbagliavo» sbuffò stancamente, sbattendo qualcosa contro la mano e arrestando per qualche secondo la sua camminata.
«F-fin?» balbettai, ricordandomi quello che mi aveva detto la mora, «cosa succede quando disobbedite?»
«Tira fuori la cintura» impallidì il ragazzo, indietreggiando di qualche passo. Sbiancai, deglutendo.
«Non dici sul serio, vero?» domandai con voce strozzata, cercando di scorgere la sagoma dell'uomo, protetta dal buio più nero. Il ragazzo scosse il capo.
«È la verità» sussurrò, cercando di mandar giù il groppo che gli aveva prepotentemente attanagliato la gola.
«Oh mio Dio» mormorai, andando a toccare il muro con la schiena. Mi voltai, ma eravamo in un vicolo cieco. «No...».
«Fiiin, Aliiiciaa, lo sapete che non potete scappaaaree» ci chiamò l'uomo, avvicinandosi ancora, «Smettetela di nascondervii, tanto lo sapete che è inutilee».
Fece qualche altro passo in avanti, mi posai le mani davanti alla testa e cercai di farmi il più piccolo possibile, realizzando che al mio fianco il moro non c'era più. Sgranai gli occhi e lo cercai con lo sguardo, terrorizzato, ma mi trovai davanti solo Ramsey, in tutta la sua pazzia.
«Cucù, ragazzino» cinguettò. «Hai visto, che ti ho trovato?» trillò poi, scrocchiandosi le ossa del collo e avvicinandomisi spaventosamente, un raggio di luna che gl'illuminava il volto.
«
Ora imparerai a non disubbidirmi mai, mai, mai più» mi annunciò con un ghigno, poi alzò la cintura verso l'alto e me la scagliò addosso.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


combattere contro il passato cap12 bozza3 Sentii la cintura fendere velocemente l'aria e incrociai le braccia davanti al volto tenendole più in alto possibile, nella speranza di diminuire l'intensità del contraccolpo; strizzai gli occhi fino a farmi male e mi morsi il labbro, aspettando che il metallo mi entrasse nella carne, cruento e inesorabile, per poi uscire e rientrare ancora e ancora, più violentemente che mai. Trattenni il respiro e udii uno schiocco sonoro, come di qualcosa che si rompeva, e temetti che mi avesse già colpito e frantumato qualche osso, ma l'unica cosa costruttiva che riuscii a fare fu annaspare per un po' d'aria, preparandomi a fronteggiare l'arrivo del dolore, e strizzare gli occhi ancora di più, senza permettere alle lacrime di trovare una via d'uscita da sotto le mie palpebre serrate.
«Gerard!» sussurrò Fin, scuotendomi ripetutamente le spalle, «Gerard, sono io, apri gli occhi per favore».
Sussultai nel sentire la sua voce e mi sentii riempire di speranza nel capire che non se n'era andato abbandonandomi al mio destino per pararsi il culo ma che era rimasto acquattato nel buio e che mi aveva salvato la pelle, nonostante quello che mi aveva attaccato fosse il suo patrigno. Scattai in avanti e mi avvinghiai alla sua felpa, tremando, farfugliando parole di ringraziamento e tirando su col naso, ma lui non si concesse il tempo di ascoltarle e mi tirò su, spingendomi energicamente verso il corridoio.
«Non possiamo restare qui un secondo di più, dobbiamo trovare Alicia e  scappare il più lontano possibile prima che albeggi e lui ci possa trovare» mi ricordò frenetico, lanciandomi uno sguardo di scuse e cominciando a correre a rotta di collo, mosso da un'adrenalina e una paura che raramente avevo visto in un essere umano. Lo seguii a ruota e notai che continuava a girarsi per controllare che il suo cosiddetto papà non ci stesse già alle calcagna, rischiando di cadere in avanti; così accelerai e gli presi la mano, cercando d'infondergli un po' di fiducia in sé stesso. Lui fece un sorriso di circostanza, un disegno di terrore e morte su un viso altrimenti angelico, e imboccò il corridoio di destra, entrando senza bussare in camera della sorella, che si svegliò di soprassalto mentre io irrompevo nel locale e il moro la scuoteva violentemente. «Lui è qui Ali, lui è qui ed è arrabbiato» farfugliò, gli occhi scuri sgranati e infossati nel volto scarno, «l'ho colpito alla nuca con qualcosa di pesante e penso sia ancora svenuto, ma fra poco si sveglierà e quando realizzerà ciò che ho fatto perderà il controllo e finirà l'opera che aveva minacciato d'iniziare. Dobbiamo andarcene, scappare prima che sia troppo tardi, hai capito?».
Il sorriso le morì sulle labbra con un rantolo di terrore e si coprì istintivamente la bocca con le dita, come per scongiurare la remota possibilità che le sue corde vocali potessero emettere qualsiasi suono sgradito; e l'unica cosa a cui riuscii a pensare fu che non mi ero mai reso conto di quanto fossero magre e affusolate in confronto a quelle del fratello. Mi stupii di quanto potessi essere fuori luogo in un frangente del genere e feci una smorfia, affrettandomi a riempire lo zaino che mi aveva passato il ragazzo con delle felpe e degli spray antizanzare che avevo trovato nella libreria della mora, sopra una pila di cd di heavy metal e un libro di fotografia. Alicia uscì dal piccolo bagno adiacente alla sua camera con addosso un paio di jeans pieni di tasche e una giacca a vento scura, infilandosi gli anfibi man mano che barcollava verso di noi, e Fin inforcò la porta, lasciando cadere una bottiglietta d'acqua nella borsa a tracolla che aveva ripescato da sotto i peluche della sorella. Mi chiesi da quanto tempo stessero pianificando la fuga e deglutii, senza sentirmi autorizzato a domandargli alcunché, ma mi limitai a corrergli dietro e spegnermi la luce alle spalle, per non lasciare tracce del nostro passaggio. «Aspetta» mi fermò Alicia, ripiegando sui suoi passi, «lasciamo accesa quella a basso consumo del bagno e spezziamo qualcosa nella serratura di entrambe le stanze, così penserà che ci siamo chiusi lì dentro per sfuggirgli e quando tenterà di aprirla non ci riuscirà, così sarà costretto ad andare a cercare qualcosa per forzare la porta. Se abbocca all'amo, perderà come minimo una decina di minuti prima di mangiare la foglia» ragionò, sistemando velocemente tutto.
«Forza, venite» ci esortò con frequenti cenni del capo il moro, che nel frattempo aveva aperto una porta sul giardino e aveva in mano il telecomando che permetteva l'apertura del gigantesco cancello d'argento, di cui io mi ero completamente dimenticato ma che era un ostacolo a dir poco insormontabile per chiunque fosse poco allenato come me. Disattivò il sistema d'allarme e chiuse la porta, lasciando che fossimo noi i primi a correre verso l'esterno, e con suo grande sgomento percepì dei rumori all'interno della villetta. Colto dal terrore più profondo che avesse mai provato in vita sua, scattò in avanti e ci raggiunse in una manciata di secondi, dicendoci di accelerare il passo e dirigerci verso i boschi il più silenziosamente possibile, e di non parlarci a meno che non fosse strettamente necessario. Annuimmo e continuammo per la nostra strada, ricominciando a respirare solo una volta dopo aver oltrepassato il confine della proprietà, quindi percorremmo altri cinquecento metri e ci fermammo dietro un cespuglio, per riprenderci e darci qualche disposizione. A dispetto di tutte le mie iniziative, non fu Fin a parlare: la sorella ci circondò le spalle con le braccia e ci avvicinò, guardandoci negli occhi mentre riprendeva il controllo dei suoi muscoli, e prima che uno di noi potesse anche solo pensare di aprir bocca, ce le tappò con una mano e ce le tenne bloccate. La morbidezza della sua pelle bianca era in contrasto con il suo sguardo affilato e pungente, ma non ebbi tempo di pensarci perché lei annuì tra sé e sé, s'inumidì le labbra con la lingua e cominciò ad esporci il suo piano, senza tralasciare alcun dettaglio.


Steve si strizzò gli occhi fra le dita, seccato, e continuò a misurare il perimetro della cella a grandi falcate, interrompendosi ogni tanto per emettere uno sbuffo nervoso e massaggiarsi la nuca, riflettendo sul da farsi. Era bloccato in centrale e aveva appena dovuto fronteggiare una specie d'interrogatorio preliminare, consistente solo nei fatti essenziali per la compilazione della sua scheda di detenuto e per incastrarlo lì per un altro paio d'ore, finché i suoi non fossero arrivati per discutere con le guardie e tirarlo fuori. Suo padre avrebbe salutato l'agente con un pacifico e neutrale buongiorno e sua madre avrebbe sfoderato il suo sorriso più smagliante, tendendogli la mano in segno di fiducia e riservando al figlio la sua peggiore occhiata alla 'dopo te la vedrai con me, signorino', tornando poi a concentrarsi col poliziotto per trasmettergli tutta la positività possibile. Si sarebbe schiarita la gola quasi impercettibilmente e si sarebbe aggiustata la borsa firmata sulla spalla, tenendola ferma con un gesto delicato della mano che agli occhi meno allenati sarebbe potuto sembrare casuale, e avrebbe spostato il peso dal piede destro a quello sinistro, senza però dar alcun segno d'impazienza o frenesia. Suo padre si sarebbe levato gli occhiali, avrebbe tirato fuori un pezzo di stoffa dalla tasca e gli avrebbe dato una pulita superficiale, senza staccare lo sguardo da loro, per far pensare al poliziotto che andava tutto bene e che non c'era motivo di credere che suo figlio, il ragazzo intelligente ed educato che aveva cresciuto con tanta premurosità, potesse realmente essere un criminale, o tuttalpiù un complice. Ma allora dov'erano adesso?
Riprese a percorrere la stanza in lungo e in largo, contando le piastrelle del pavimento e il numero delle sbarre, si sedette sul letto scomodo che veniva messo a disposizione di chiunque fosse sospettato di qualcosa e si prese la testa fra le mani, massaggiandosi le tempie con gesti lenti e regolari. Aveva telefonato alla sua ragazza quando gli avevano concesso la sua chiamata libera, ma ci aveva pensato la polizia ad avvertire i suoi genitori e a dir loro di venire a trovarlo in centrale, chissà che magari a loro non si aprisse, confessando di aver mandato in coma il suo migliore amico. Non trovava motivazioni valide per cui avrebbe dovuto farlo, ma era perfettamente conscio del fatto che nel mondo degli adulti bastasse una semplice gelosia per far credere a un'intera giuria che in realtà loro non erano gli amiconi che volevano far credere, ma due persone che si detestavano vivamente e che altrettanto vivamente cercavano di ferirsi l'un l'altra, senza risparmiarsi alcun colpo basso. Sputò a terra e si sentì intrappolato da quelle mura, così fini eppure così insormontabili, e cercò di calmarsi ripetendo tra sé e sé gli elementi della tavola periodica, che gli insegnanti lo avevano costretto ad imparare a memoria quando avevano cominciato a studiare chimica e a fare esperimenti, qualche anno prima del suo diploma e del conseguente abbandono delle materie scientifiche di quel tipo. Non aveva nulla contro la scienza, anzi era convinto che fosse una delle poche benedizioni dell'era in cui viveva, quando veniva utilizzata per degli scopi utili, di cui potevano beneficiare centinaia di altre persone; ma la chimica semplicemente non faceva per lui. Meglio i computer, meglio la matematica, meglio la certezza che a tutto c'è sempre una risposta e la piacevole distanza che studiare questi argomenti porta a chiunque provi ad immergervisi per più di qualche secondo, spinto da qualcosa di più di un desiderio di ottenere un bel voto da parte di quel prof che si aspetta sempre troppo dai suoi alunni e che inevitabilmente finisce con mettere dei votacci a tutti perché non riescono a soddisfare le sue aspettative. No, a lui piaceva la scienza, ma gli piaceva praticarla in completa autonomia, senza esser costretto a spiegare il perché di ogni sua decisione a qualcuno che tanto avrebbe fatto qualunque cosa tranne cercare di venirgli incontro e seguire i suoi ragionamenti passo dopo passo; e per questo motivo era capitato che fosse sbattuto fuori da club o associazioni specializzate più che spesso.
«Ma questo è completamente irrilevante» mormorò il ragazzo fra sé e sé, alla ricerca delle accuse che avrebbero potuto rivolgergli per incolparlo dell'incidente, «la mia socialità riguarda me e solo me e non possono cavarne fuori niente, per quanto possano provarci. Solo perché non amo stare in mezzo alle persone quando lavoro non significa che sia affetto da un qualche disturbo della personalità che mi porta ad uccidere - o in questo caso tentare - le poche anime che mi stanno accanto da quando sono piccolo. Non sta né in cielo né in terra, chiunque abbia studiato un minimo lo capirebbe». Si sentì un po' più al sicuro.
«E anche se fosse, non ho mai dato segni di soffrire di una patologia del genere - non più degli altri ragazzi della mia età, almeno - quindi non avrebbero neanche le basi complete su cui accusarmi» commentò.
«No, non possono trattenermi per questo. Possono provarci ma è una storia che non regge minimamente, non gli farebbe guadagnare neanche un pugno di minuti se venisse portata davanti a un tribunale. Ma che dico, anche un qualunque passante si renderebbe conto del fatto che stanno accusando un ragazzo comunissimo di soffrire di una qualche malattia mentale solo perché gli torna comodo al momento visto che non hanno altri sospetti; non ho nulla da temere». Sorrise. Forse le cose avevano finalmente cominciato ad andare per il verso giusto per lui e i suoi amici.
Il ripetersi del suo nome da parte di una voce roca e man mano meno distante lo riportò alla realtà, giusto in tempo per girarsi e incrociare lo sguardo dell'uomo che l'aveva sbattuto lì dentro un paio d'ore prima, dopo che era stato accolto all'ospedale da un paio d'infermiere terrorizzate e una manciata di dottori dagli sguardi tanto sospettosi quanto il numero di spike dell'amico. A nulla erano valse le sue proteste e le sue spiegazioni, la polizia era stata chiamata e con lei quel detective, che per puro caso invece di trovarsi nel suo appartamento nella città vicina si trovava in macchina a gironzolare nei pressi della statale ed era
quindi riuscito ad arrivare in tempo quasi reale per gli standard del loro piccolo paesino. Steve era rimasto stupito dall'arrivo di uno straniero ma non l'aveva dato a vedere minimamente; si era limitato a scrollare le spalle, storcere la bocca e osservarlo il più attentamente possibile mentre quello si faceva riassumere la situazione dai medici, che ogni tanto gli lanciavano delle occhiate diffidenti e preoccupate da dietro la schiena del poliziotto. Lui aveva annuito varie volte, sempre mantenendo il silenzio, aveva tirato fuori un involucro dalla tasca da cui aveva tratto delle sigarette e l'aveva rimesso a posto, tenendo lo sguardo fisso verso i volti degli interlocutori; poi, mentre il più capelluto dei tre elencava energicamente i particolari della faccenda che lo inquietavano maggiormente e l'avevano convinto a fare quella telefonata, si era portato una stecca alla bocca e aveva smesso di distrarsi. Aveva ascoltato in religioso silenzio fino alla fine, immobile, aveva ringraziato i dottori e li aveva guardati allontanarsi, sotto suo consiglio, dalla saletta dove si trovava ancora il sospettato, che lo osservava interessato senza scomporsi. Si era acceso la sigaretta mentre si girava, lentamente, aveva messo l'accendino in tasca, aveva inspirato e poi espirato, ma non aveva ancora aperto gli occhi e guardato l'avversario in faccia. Steve aveva pensato che fosse uno nuovo, qualcuno d'importante che si credeva chissà chi, e aveva trovato irritante quella sua maniera di comportarsi così arrogantemente lenta e tranquilla, quasi si trattasse di una faccenda che non valeva nemmeno la pena ascoltare; e per un paio d'istanti aveva pensato di dargli del filo da torcere giusto per il gusto di vederlo sguazzare nella sua stessa impotenza, poi aveva scosso il capo e l'idea era semplicemente scomparsa. Voleva essere rilasciato, non attirare l'attenzione dell'intero corpo di polizia su di sé, quindi avrebbe dovuto rigar dritto e rispondere alle domande del detective, fingendo non solo di fidarsi di lui, ma anche di stimarlo e, chessò, credere che avrebbe potuto davvero risolvere questo mistero rimasto abbandonato per oltre sei anni, come se il primo venuto avesse davvero potuto cambiare qualche carta in tavola.
«Ciao» gli aveva detto, e Steve si era sentito decisamente sminuito.
«Ciao» aveva risposto, facendo bene attenzione a ricambiare il tono dell'altro.
«I dottori qui mi dicono che il tuo amico è in coma» aveva cominciato indicando il reparto con un dito, e Steve aveva annuito, senza aggiungere nient'altro. «Non voglio cominciare col piede sbagliato, ma mi spieghi com'è possibile?»
Steve lo fulminò mentalmente.
«Non sono un dottore, ma una bella botta dovrebbe bastare».
«Una botta esageratamente forte, ad essere precisi. Non vorrei essere nei suoi panni» aveva proseguito, prendendo la sigaretta tra le dita e storcendo un attimo le labbra in una smorfia che avrebbe dovuto divertire il castano. Non lo fece.
«Sei shoccato?» aveva domandato; 'che domanda cretina' aveva pensato l'altro, che invece aveva solo annuito lentamente.
«È il mio migliore amico, non vedo come potrei non esserlo» aveva mormorato, respirando a fondo senza scomporsi. «Ma se lei è qui significa che qualcuno mi crede responsabile di qualcosa, o sbaglio?»
«Non sbagli» aveva sorriso il poliziotto, inspirando, «quindi dovrò farti qualche domanda».
«Faccia pure, non ho niente da nascondere» aveva ribattuto, guardandolo negli occhi.
«Allora non ti dispiacerà salire in macchina e seguirmi in centrale» aveva espirato l'altro con uno scintillio negli occhi, aprendo le braccia per indicargli l'uscita e sottolineando il gesto con un movimento del capo. «Da questa parte» aveva aggiunto poi, come per rendere le cose un po' più ufficiali. Steve non aveva battuto ciglio e aveva risposto il più esaurientemente possibile a tutte le domande che gli erano state poste riguardo le circostanze dell'incidente, del ritrovamento e del successivo ricovero, e il poliziotto si era mostrato leggermente preso alla sprovvista da questa sua partecipazione attiva e accondiscendente, abituato com'era a trattare con gente che negava anche quando veniva sbattuta in carcere dopo un regolare processo. Lo aveva ringraziato, gli aveva stretto la mano, gli aveva detto che avrebbe potuto fare una telefonata a chi voleva e che in successione avrebbero chiamato i suoi genitori per informarli dell'accaduto e scagionare la possibilità che loro figlio fosse coinvolto in una brutta situazione di qualunque tipo, poi l'aveva pregato di rimanere in cella ad aspettare che arrivassero e se n'era andato tranquillamente.
'E ora eccolo qua' pensò Steve, per niente contento di dover vedere la sua faccia malrasata piuttosto che quella dei suoi genitori.
«Ehilà» lo salutò l'uomo, stavolta senza che ci fosse una sigaretta a pendergli dalle labbra.
«Ehilà» salutò a sua volta il ragazzo, senza smettere di ripetere gli elementi della tavola periodica in maniera meccanica.
«Come ti senti?» domandò il primo, appoggiandosi alle sbarre con il fianco destro. Steve si domandò se gliel'avesse chiesto davvero o se fosse stato uno scherzo della sua mente, che aveva cominciato a sottovalutarlo da quando gli si era presentato.
«Come uno il cui migliore amico è appena finito in coma e l'unica cosa a cui gli altri pensano sia come addossargli la colpa per quello che è successo. Come se non lo facessi già abbastanza da solo» rispose, amareggiato, e il poliziotto annuì.
«Già, non dev'essere una bella situazione» convenne, lasciando che la conversazione morisse per un paio di minuti prima di riprenderne le redini; «senti, qui fuori ci sono i tuoi genitori, te la senti di vederli o vuoi che li faccia tornare più tardi?»
«Nono, va bene, non si preoccupi. Prima questo casino finisce, prima potrò andare a visitare Jimmy e portare le mie condoglianze alla sua famiglia; vorrei evitare di trovarmi faccia a faccia con loro dopo che lui si sarà svegliato con il 'mi dispiace' ancora in gola, ci farei la figura del cafone insensibile che abbandona gli amici nel momento del bisogno» cercò di sdrammatizzare. L'altro sorrise.
«D'accordo; li faccio accomodare allora» annuì, andando ad aprire la porta ai due coniugi, che ringraziarono con uno dei loro più convincenti sorrisi di circostanza e un cenno del mento, prima di entrare e salutare il figlio.
«Allora, agente, cos'ha combinato di strano stavolta?» cinguettò sua madre, girandosi verso l'uomo in divisa con civetteria.
O almeno, questo è quello che avrebbe detto se fosse stata lì.
Steve si premette i pugni contro la fronte, le tempie che gli pulsavano sotto il ritmo accelerato dell'inquietudine, e strizzò gli occhi finché non ricominciò a vedere delle macchie di colore stagliarsi contro il nero che si faceva strada tra i suoi pensieri, sentendosi istantaneamente un po' meno solo. Era lì da ore e non si era fatto vivo nessuno, né sua madre, né suo padre, né Lindsey. Figurarsi, poi, le aveva detto lui di non venire e tenersi sulle sue per un po' di tempo per il bene di tutto il gruppo, ma non aveva calcolato quanto potesse essere opprimente il silenzio per chi aspetta di essere messo a nudo e smontato pezzo per pezzo da un agente di polizia. Sentiva i suoi nervi allentarsi e annodarsi sempre di più man mano che il tempo passava, e a volte gli sembrava di perdere completamente la lucidità per un tempo che gli sembrava eterno, anche se poi si rivelava essere solo qualche secondo nel mondo reale; e aveva paura di non poter sostenere un interrogatorio in quelle condizioni. Sapeva che era esattamente ciò che il detective voleva si dicesse, quindi ripeteva fra sé e sé la sua versione dei fatti e rispondeva a tutte le domande immaginarie che riusciva a porsi al riguardo, sospirando sollevato ogni volta che eludeva un pericolo, e si tranquillizzava pensando a tutti gli interrogatori che aveva visto in tv o nei film fino a quel momento. Non sembravano troppo duri e la cosa lo riempiva di fiducia, ma d'altra parte neanche l'attesa sembrava poi così tremenda, mentre lui in quel momento avrebbe potuto palpare la tensione e plasmarla come più gli piaceva senza il minimo bisogno d'immaginazione. Si asciugò il sudore e sentì una serratura scattare; alzò il viso in direzione del rumore e si chiese se non stesse per rivivere per l'ennesima volta la scena dell'arrivo dei suoi genitori, ma ciò che vide gli fece passare lo sconforto: non erano né i suoi genitori né il poliziotto che l'aveva interrogato, era la donna delle pulizie che passava di lì per lavare i pavimenti anche in quell'area dell'edificio. Notò che Steve la stava fissando e si avvicinò.
«E tu che cosa hai fatto?» chiese indicandolo senza mezzi termini, appoggiandosi con entrambe le mani al manico della scopa.
«Ho accompagnato un mio amico all'ospedale dopo un incidente su in montagna» rispose lui, riabbassando lo sguardo.
«Non mi sembra poi così grave. Sei sicuro che non ci fosse dell'altro?»
«Be', era in coma» commentò storcendo la bocca, come se fosse accaduto a qualcun altro e non a lui qualche ora prima.
«Ma è terribile, mi dispiace» fece la donna, coprendosi la bocca con le dita, «e pensano che tu sia colpevole?»
Steve si chiese se potesse fidarsi, poi si disse che sarebbe comunque venuta a saperlo da qualcuno e annuì per cortesia. Lei parve sinceramente indignata e gli lanciò un'altra occhiata compassionevole, prima di storcere le labbra e sospirare.
«Io non posso di certo farti uscire, ma non penso che tu debba stare qui se l'hai solo aiutato».
«Il detective dice la stessa cosa, e che questa è solo la procedura» le confidò, giocherellando con i suoi capelli.
«Può anche darsi; ma dammi retta, non è come sembra. Oltre il muro, può esserci qualsiasi cosa» lo avvisò, riprendendo a pulire. Steve la guardò e si chiese cosa intendesse, ma la porta si aprì di scatto prima che potesse arrivare a una conclusione che riuscisse a soddisfarlo, lasciando spazio al poliziotto, così fu costretto a pensare ad altro e concentrarsi su di lui.
«Ehilà» lo salutò l'uomo, aprendo la cella «devi venire un attimo con me. Ci sono i tuoi».
Steve annuì e lo seguì docilmente, voltandosi sull'uscio per vedere se la donna lo stesse osservando, ma il suo sguardo incontrò il vuoto. Un'altra allucinazione. Scosse il capo e chiuse la porta.


Quando ci separammo eravamo usciti dalla loro proprietà da meno di quattro minuti scarsi, sebbene a tutti sembrava fosse passata un'eternità, e non ci fu esitazione da parte di nessuno quando venne il momento di tirar fuori le torce, abbracciarci e proseguire io e il moro verso sud-est, lei verso sud-ovest. Fu un saluto spiccio ma mi sentii male nel vedere quanto significasse per i due fratelli, che dopotutto scappavano da quello che sarebbe dovuto essere il loro salvatore e che avrebbe dovuto garantir loro non solo un'esistenza migliore, ma anche affetto, appoggio e tutto quello che un padre dovrebbe rappresentare per i figli. Mi ripromisi di essere più presente nelle loro vite, in futuro, poi scacciai quell'immagine dalla mente e mi concentrai sulla fuga, dalla quale sarebbe dipeso il resto della mia esistenza.
Dalla villa non si sentivano rumori, ma anche se ce ne fossero stati non saremmo stati in grado di udirli, impegnati com'eravamo a correre in mezzo agli arbusti cercando di non inciampare rovinosamente e di non strapparci i vestiti nelle piante spinose, visto che un frammento di stoffa avrebbe potuto indirizzarlo verso di noi e rovinare tutto il nostro piano in un batter d'occhio. Le foglie scricchiolavano sotto i nostri piedi barcollanti, mentre al buio i sentieri che avevo percorso due giorni prima mi sembravano diversi e pieni di intemperie, al punto che non riuscivo a non domandarmi come avessi fatto ad attraversarli la prima volta; ma nonostante tutto continuavamo a correre, senza avere la forza d'animo di scambiare qualche parola. Ci fermammo quando raggiungemmo uno spiazzo ombroso che ci parve lontano abbastanza dalla villa e ci accasciammo dietro un masso colorato dal muschio, ansimanti e terrorizzati. Il sangue che mi pompava nelle tempie e lo stomaco sottosopra, trattenni il respiro per cercare di stabilizzarlo e mi concentrai su quello di Fin, che mi sembrava molto più silenzioso e normale, socchiudendo gli occhi. Solo allora mi accorsi di quanto mi bruciassero sia loro che la faccia e mi portai una mano alla guancia, bagnata da quello che sperai fosse solo sudore; mi voltai ad osservare il moro e mi accorsi che anche lui era nella mia stessa situazione: visibilmente spossato, tremante e spaesato, eppure ancora vigile e attento ai dettagli, come se non avesse corso per niente. Fu lui ad accorgersi dei rumori.
Mi si avvicinò, si fece il più piccolo possibile e rimase in ascolto, premendomi una mano sulle labbra e facendo lo stesso sulle sue, e aspettò, deglutendo, che la tempesta si scatenasse e c'investisse in pieno, senza cercare di alzarsi e riprendere a correre. Lo sentii fremere e, se possibile, rimpicciolire ancora di più, ma tenne gli occhi aperti e serrò la mascella, deciso ad andare fino in fondo nel combattere le sue paure. Lo scalpiccio affannato si fece più vicino e Fin tremò più violentemente, ma con altrettanta decisione non staccò la mano dal mio viso e continuò a stringere i denti, facendo appello a tutto il suo coraggio e la sua convinzione per non scoppiare in un urlo disperato e consegnarci nelle mani del suo patrigno, che ormai potevo scorgere sporgendomi oltre la zona sicura. Non riuscivo a vederlo in faccia e non avevo voglia di espormi una seconda volta per controllare quanto profondamente fosse incazzato per ciò che gli avevamo fatto e che eravamo riusciti ad architettare nel giro di pochi minuti, ma sentivo nella pelle che se ci avesse notati sarebbe stata la fine per ognuno di noi, nel senso più significativo della parola, quindi mi rintanavo anche io contro il moro, sperando con tutte le mie forze che ci superasse senza intoppi. Il suo passo sincopato si fece vicinissimo e si fermò di colpo, seguito da un ansimare intenso e irato, e in quell'istante il mio cuore smise di battere, mentre i più bei momenti della mia vita mi martellavano la mente, sovrapponendosi alle delusioni e alle amarezze che ero stato costretto a mandare giù nel corso dei miei ventitré anni, e mi domandai per la prima volta se fossi pronto a morire. Pensai a me, pensai alla mia famiglia, pensai ai miei amici, pensai al mio ragazzo scomparso, che mai avrebbe voluto che scomparissi dalla faccia del pianeta, e realizzai che no, non era ancora giunta la mia ora, che volevo continuare a vivere e godermi ogni giorno, e mi sentii più all'erta che mai, come se un'improvvisa scarica di energia mi avesse attraversato il corpo. Rimasi immobile finché la sagoma non riprese a muoversi, recuperato il fiato e scorto superficialmente il paesaggio, superandoci lentamente, dopo essersi guardata attorno e aver strizzato gli occhi in seguito a una folata di vento nella nostra direzione. Ramsey si era avvicinato un paio di metri, poi una folata proveniente dall'altra parte dello spazio aperto lo aveva distratto e dirottato verso un altro percorso, più o meno verso nord-est, lontano sia da noi che dalla nostra amica. Avevamo tirato un tacito sospiro di sollievo e avevo stretto la mano del moro, che aveva sorriso di un misto tra gioia, paura e soddisfazione e si era lasciato scivolare con la testa in mezzo all'erba, coccolato dalla vista delle sue amate stelle. Aspettammo cinque minuti prima di permetterci di uscire dalla nostra zona sicura per lanciare un'occhiata intorno e controllare di avere campo libero, e quando fummo tranquilli riprendemmo ad allontanarci un po' più verso ovest, camminando all'inizio e correndo alla fine, una volta sicuri di non doverci più preoccupare del rumore del sottobosco sotto le nostre scarpe. Corremmo per quelli che a me parvero chilometri e, chi lo sa, forse lo furono. Sbucammo in un sentiero di uso più comune su cui potevamo scorgere impronte di varia grandezza e diffusione, e procedemmo ai lati, in modo da poterci nascondere nella vegetazione rigogliosa in caso di bisogno ma di rimanere comunque abbastanza vicini a una strada non trafficata, ma che alla civiltà forse ci avrebbe portati; e ci sforzammo di mantenere il silenzio, nonostante le scariche d'adrenalina che ci inducevano a pensare che il grosso ormai era fatto e che potevamo anche cominciare a rilassarci ed allentare un po' la tensione, perché al pericolo maggiore eravamo bell'e scampati; e gli attacchi di realismo, che invece ci facevano realizzare il rischio che avevamo corso e che ancora correvamo, e che ci facevamo quindi dubitare delle nostre possibilità di sopravvivenza.
Nonostante tutto, riuscimmo a sbucare nei pressi di una baita disabitata che mi sembrò di riconoscere, ma, quand'eravamo sul punto d'entrare, il pensiero di un'imboscata mi attraversò la mente e mi portò a trascinare il moro lontano dall'abitazione di peso, costringendolo a tornare in mezzo all'erba. Fin si sforzava di sorridermi quando lo guardavo, ma gli si leggeva in faccia che era esausto e che non ci sarebbe voluto molto prima che le gambe gli cedessero e gli impedissero di proseguire; così sfruttavamo gli ultimi guizzi di energia che avevamo e correvamo lungo la strada, sforzandoci di arrivare il più lontano possibile senza lasciare tracce troppo evidenti. Stavamo per imboccare la curva quando intravedemmo due fari in una lontananza sempre più vicina, così ci buttammo di lato e rotolammo nel sottobosco, terrorizzati quanto lo eravamo stati fino a qualche ora prima. Già, perché ormai che ore dovevano essere? Fin si accasciò contro un albero e lasciò ciondolare la testa in avanti, distrutto; raccolsi qualche ramo da terra, ne strappai qualcuno da un albero e glieli disposi sopra con delicatezza, cercando di mimetizzarlo nel miglior modo possibile, poi mi sistemai accanto a lui e ripetei lo stesso processo per me, addormentandomi pochi secondi dopo aver chiuso gli occhi.


«Avete visto anche voi quello che ho visto io?» boccheggiò Columbia dalla sua sedia, gli occhi sbarrati fissi sulla massa scura rivolta davanti al roscio, che si confondeva con l'oscurità e faticava a immaginare come un uomo.
«Ti prego, dimmi che questo coso ha registrato quello che è appena successo» sussurrò invece Lindsey, bianca come un cencio.
«Non ne ho la minima idea, ma anche se l'avesse fatto non potremmo denunciarlo» la premonì Ray, mettendole una mano sulla spalla, «a meno di non voler venir denunciati anche noi per aver invaso la sua privacy con una telecamera non autorizzata».
«Cioè noi sappiamo che quell'uomo è un pericolo pubblico e non possiamo dirlo a nessuno?» ripeté lei.
«Per quanto possa far schifo, è così» annuì il riccio, storcendo le labbra e incrociando le labbra sul petto, amareggiato.
«Che mondo di merda, cazzo» esclamò, scattando in piedi e andando a tirare un calcio al suo cuscino, sedendosi poi sul letto improvvisato stringendosi la testa fra le mani. «E se fossero morti? Se fosse successo qualcosa? Come avremmo fatto?».
Ray si alzò dalla sua postazione e la raggiunse, mettendole un braccio attorno alle spalle.
«Shh, calma, non importa. Quello che conta ora è che stanno bene e che hanno un piano per tirarsi fuori da questo casino prima dell'alba, okay? Il resto non è importante, ci penseremo dopo. Andrà tutto bene, non preoccuparti. Troveremo il modo di denunciare quel bastardo, ma ora Gerard ha bisogno di te come non mai, e ha bisogno di saperti al massimo delle tue forze per poter portare a termine la missione senza ulteriori preoccupazioni. Ha bisogno di sapere che qui va tutto bene, che siamo pronti ad aiutarlo e a parargli il culo in caso di bisogno, e che anche se a volte i cattivi vincono, i buoni sono sempre pronti a tornare in campo e dargli un paio di calci nel sedere. Andrà tutto bene, ma abbiamo bisogno di te ora» sussurrò, accarezzandole i capelli. Lei sorrise.
«Hai ragione come al solito» commentò, asciugandosi gli occhi con la manica e rimettendosi alla sua postazione tirando su col naso, «e vedremo quanti calci in culo questo stronzo potrà sopportare, prima di arrendersi e tornarsene a casa».
«Secondo me tanti quanti vorresti tu» li interruppe la riccia, che indicò un punto sullo schermo, «guarda». Le luci all'interno della casa si erano accese, mentre i tre ragazzi erano intenti a parlottare, e la silhouette del patrigno si era stagliata davanti alla finestra del corridoio più di una volta, carica di oggetti sempre differenti, e ogni tanto si passava una mano fra i capelli, sfiorandosi quella che la ragazza immaginò dovesse essere la ferita. L'omaccione non sembrava intenzionato a fermarsi prima di aver portato a compimento la sua opera e Lindsey si sentì invadere da un senso di ammirazione nei confronti del lampo di genio di Alicia, che evidentemente aveva progettato tutto da tempo, vista la rapidità con cui aveva preparato le borse.
«Oddio guarda, si stanno separando» si angosciò Columbia, stringendo forte la manica dell'amica, «mi sento male per loro».
«Vedrai che ce la faranno, sono persone intelligenti e pronte a tutto» la tranquillizzò l'amica, che tuttavia condivideva le sue ansie e si domandava come sarebbe andata a finire la faccenda, «e poi hai visto com'erano decisi, non si fermeranno davanti a nulla».
«È proprio questo che mi spaventa» squittì lei, «sono ragazzi in fuga perseguitati da un possibile assassino, non hanno né cibo né acqua e stanno correndo a rotta di collo dentro un bosco pieno di pericoli che sembra tutto uguale albero dopo albero».
«Su una cosa ti sbagli, non è tutto uguale» intervenne Ray, che nel frattempo era tornato alla sua postazione e stava osservando con minuziosa attenzione il paesaggio, confrontandolo con delle foto, «infatti penso di aver appena riconosciuto la loro posizione».
Columbia s'illuminò.
«Dici davvero?»
«Non ne sono sicuro al cento per cento, ma direi che vale la pena provare» annuì lui, allontanandosi dallo schermo per permettere alle ragazze di individuare il punto sulla mappa, «anche perché se non lo facciamo potrebbero vedersela molto brutta».
«Aspetta, e quando li troviamo cosa facciamo?»
«Be', li portiamo alla base, mi sembra ovvio» rispose aggrottando le sopracciglia.
«No, vabbé, questo è sottinteso, ma non possiamo tenerli qui per sempre, non abbiamo abbastanza soldi, cibarie e letti. Possiamo anche organizzarci e prepararne qualcun altro, e magari qualcuno può anche andare a fare la spesa di tasca sua, ma non possiamo tenerli rinchiusi sottoterra fino alla fine dei loro giorni, qualcuno verrà a cercarli o potrebbe insospettirci non vedendoci» lo incalzò.
«Columbia ha ragione, il nostro piano ha delle falle» convenne la bionda, «ma d'altra parte, che altro possiamo fare?»
«Io potrei portare Alicia a casa mia e spacciarla per una mia vecchia amica che ho conosciuto durante un viaggio, dubito che a mia madre possa venire in mente che sia una fuggitiva ricercata da un possibile assassino» propose la prima, «però metti che quello si crea una storia e viene a sporgere denuncia in città - a quel punto che facciamo?»
«Okay, okay, ho capito, dobbiamo rivedere seriamente i nostri progetti» acconsentì Ray, calmandole con un gesto delle mani.
«Ma non ora; non ne abbiamo il tempo materiale» precisò, lanciando un'occhiata allo schermo, dove il roscio si era fermato ed accasciato contro una roccia muschiosa, in un paesaggio ancora più brullo e desolato. Lindsey tacque e si avvicinò.
«Questo posto lo conosco» mormorò corrugando la fronte e poi allontanandosi, «è a nord dello chalet».
«Aspetta, che cos'è quello?» la bloccò Columbia, indicando con un dito una sagoma in avvicinamento.
«Non ci credo, come diavolo ha fatto a trovarli?» boccheggiò Lindsey, colta alla sprovvista.
«Non ne ho idea, ma non posso aspettare un minuto di più» esclamò la riccia, schizzando in piedi e correndo verso la scaletta, estraendo le chiavi dalla tasca.
«Columbia, aspetta; è pericoloso» esclamò Ray, facendo per alzarsi, ma la bionda gli serrò una mano sul braccio e scosse il capo.
«Lasciala andare, ha ragione» sussurrò, sentendola armeggiare con la serratura e aprire il portellone.
«Fammi almeno andare con lei» insistette il ragazzo, sentendosi completamente inutile, «metti che succeda qualcosa, metti che il motore si rompa, metti che incontri traffico e si annoi ad aspettare da sola, metti che--».
«Se dovesse succedere qualcosa, la tua presenza lì non potrebbe cambiar nulla, mentre invece qui la differenza la faresti» ribatté.
Il portellone si chiuse violentemente e l'impatto fece sobbalzare il riccio, che ingoiò un nodo alla gola e rilassò i muscoli, sospirando.
«D'accordo» annuì, «vediamo di renderci utili». Si alzò e tornò alla sedia, leggermente più pallido. L'uomo era scomparso dallo schermo e i due avevano ripreso a respirare, sebbene impercettibilmente, e il riccio si sentì come se avesse appena mandato l'amica al macello inutilmente. Sperò con tutto sé stesso che sarebbe tornata presto e senza un graffio, ma un brutto presentimento gli avvolgeva lo stomaco e gli ricordava quello di cui quell'uomo era capace. Si strizzò le palpebre fra le dita e Lindsey gli mise una mano sul braccio, scuotendolo delicatamente e guardandolo negli occhi con apprensione.
«Resto io qui, va a bere qualcosa» mormorò, ricevendo un'occhiata grata da parte del ragazzo, che si alzò e si accasciò sulle coperte. Non avrebbe avuto pace finché Columbia non fosse tornata alla base e ne erano entrambi più che consapevoli, ma forse avrebbe potuto mostrarsi di una qualche utilità mentre lei non c'era, così da riuscire a velocizzare il suo ritorno. Si tirò in piedi e andò a aprire il mobile che conteneva i fascicoli coi dati raccolti negli ultimi anni, le pagine gialle e quelle bianche, gli annuari scolastici e la mappa della città , e si chiese se nel controllarli la prima volta non avessero tralasciato qualcosa d'importante. Agguantò un paio di fascicoli e li portò alla scrivania, dove cominciò ad esaminarli e non si accorse dell'ombra che aveva oscurato il viso di Lindsey.
Aveva perso completamente il contatto visivo con Gerard.



Note: okay, probabilmente è troppo corto rispetto agli altri capitoli però va bene, insomma, non scrivevo cose serie da settembre, quindi è un risultato piuttosto accettabile. Avevo preparato altre due bozze che avevo sviluppato anche abbastanza a lungo, però erano banali da far schifo quindi alla fine le ho abbandonate e bam, ho proprio smesso di scrivere per qualcosa come quattro mesi. L'altro giorno mi sono svegliata in piena notte per la febbre e avevo l'idea in testa, quindi sotto consiglio di una mia amica l'ho sviluppata ed ecco qua. Visto il tempo fra l'ultimo capitolo e questo il mio stile è cambiato, però bene o male penso di ricordarmi abbastanza i caratteri dei personaggi. Oddio boh non so che dire, siate buoni ciao

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