Il filo rosso

di but honestly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** «Aut-aut.» ***
Capitolo 2: *** «The Beauty and the Beast.» ***
Capitolo 3: *** «Il canto del gallo.» ***



Capitolo 1
*** «Aut-aut.» ***


«Ehi, Masa! Guarda qua!». Masato si voltò di scatto, udendo nel bel mezzo della festa una voce familiare chiamarlo per nome. Eccolo, sì, lo vide: scorgeva distintamente la sua chioma bionda sbucare dalla tovaglia del tavolo accanto, fortunatamente ancora vuoto, mentre gli faceva cenno di avvicinarsi. Ren, sei il solito stupido! Pensò, passandosi la piccola mano sui lineamenti morbidi che costituivano il suo viso di bambino. Aveva dieci anni.
Si guardò intorno. I genitori erano troppo occupati nelle loro conversazioni concernenti affari e frivolezze per curarsi di lui. Con un gesto goffo, ma studiato, si lasciò scivolare di mano la forchetta di proposito, che cadde appena sotto la sedia, con un tintinnio vivace. Nessuno vi fece caso. Le diede un  calcio, facendola scivolare sotto il suo tavolo, all’oscuro della tovaglia. Quindi, a sua volta, si chinò per recuperarla e colse l’occasione per gattonare verso l’amico, a pochi metri di distanza. Quando lo raggiunse, nulla potè salvare il giovane e spavaldo Ren da un rimprovero: «Sei impazzito!? Cosa ti dice il cervello?» esclamò, pur mantenendo il tono di voce ad una tonalità bassa, affinché nessuno li scoprisse (accortezza cui il biondino, al contrario, non aveva pensato). «Se ci scoprono, mia madre mi chiuderà in casa a vita! Te ne rendi conto?» lo guardò dritto negli occhi di un celeste chiaro e limpido, ma la sua espressione noncurante e, anzi, perfino vagamente divertita, gli suggeriva che il compagno non doveva aver recepito il concetto. «Allora!?» lo esortò ad esprimersi, spazientito, mentre il volto gli si coloriva di un rossore lieve. Ren tirò un sospiro, sistemandosi con la mano una ciocca di capelli biondi e spettinati che gli solleticava la fronte. «Sei troppo agitato,» considerò, annuendo con convinzione a conferma delle sue stesse parole «dovresti rilassarti di più, come faccio io.». L’espressione di indecifrabile irritazione che assunse il compagno a quelle parole fu una risposta  più che sufficiente a provocargli una grossa risata. «Stai zitto, imbecille!» lo rimproverò ancora Masato, portandosi l’indice alla bocca ed imponendogli di abbassare il tono della voce «Che c’è di importante?».
Ren sfoggiò ancora il suo solito sorrisetto, sfacciato al punto che il giovane lo avrebbe volentieri schiaffeggiato, se non fosse  stato docile per natura. Già, in qualche modo, gliela faceva sempre passare liscia. Solo allora  notò che aveva una mano nella tasca anteriore destra dei pantaloni, alla ricerca di qualcosa. Quando l’ebbe trovata, assunse un’espressione vittoriosa. «Dammi la mano.» ordinò, senza troppi complimenti, quindi il compagno obbedì senza riflettere. Il ragazzino dalla chioma dorata, allora, gli lasciò cadere qualcosa tra le dita; Masato guardò, curioso. Un intreccio di fili rossi, piuttosto semplice, neanche troppo bello a vedersi, ma evidentemente realizzato a mano con impegno. «Che ne pensi?» domandò l’evidente autore, con un sorriso trionfante, ma il destinatario del regalo si trovò spiazzato nel dover dare immediatamente una risposta e rimase interdetto  per qualche istante. «Che roba è?» domandò, infine, ponendo fine ad ogni suo dubbio, ma innescando anche un  senso di desolazione nel compagno, che fino a quel momento era rimasto in trepidante attesa di un verdetto positivo e che fu obbligato a realizzare quanto male fosse riuscito il suo lavoro. «Idiota, è un braccialetto!» spiegò, assumendo un’espressione di sufficienza che sfumava sempre più nell’offesa, mentre l’altro s’irrigidì di colpo «Ne ho fatto uno uguale anche per me.».
Masato passò più volte  lo sguardo tra il piccolo oggetto e il volto imbarazzato del compagno (che cercava invano di nascondersi dietro la frangia, non abbastanza lunga da coprirlo) senza darsi una spiegazione precisa. Cercava il colore intenso dei suoi occhi, mentre lui pareva sfuggirgli, eludendo ogni suo tentativo di leggergli dentro. Forse non aveva ben  chiara la divisione tra i due operata dalla rivalità delle loro famiglie? Non avrebbero più potuto vedersi per molto, molto tempo.
Non rispose. Non sapeva cosa dire.
«Non voglio che ti dimentichi di me.» esordì allora il biondo, pronto a spiegarsi come sempre «Non mi interessano i pareri di mio padre e neanche il tuo futuro come capofamiglia.»; Masato inarcò un sopracciglio, ma continuò ad ascoltare ignorando la propria perplessità «Diventa chi vuoi, studia quello che vuoi: noi saremo amici, al di là di tutto questo.» lo sguardo di Ren si fece improvvisamente più sicuro «Per sempre, giuralo!».
Dagli occhi azzurri, appena coperti dalla  frangia blu, il giovane lanciò al compagno un’occhiata interrogativa. Il suo tono aveva assunto quella serietà improvvisa che, in lui, non aveva mai notato. Sentiva la sua forza impetuosa travolgerlo d’improvviso, senza che potesse reagire. Cosa significa tutto questo?
«Giurare cosa?»
«Che non lo dimenticherai. Io lo giuro, su questo bracciale, lo giuro! Fallo anche tu.»
Masato sorrise brevemente, un sorriso spontaneo e pieno di vita.
«Lo giuro.»
 
Il ticchettare ritmico della lancetta dei secondi, su quell’orologio tondo, bianco, anonimo, appeso alla parete di fondo dello studio di registrazione. Continuava ad avanzare, nel suo inesorabile incedere ritmico: si muoveva, si fermava, si muoveva ancora. Gli occhi brillanti, come due zaffiri incastonati nel suo viso incredibilmente candido, erano puntati su quell’immagine da più di un’ora, senza che quel piccolo, forse inutile orologio potesse risolvere il problema. Si morse appena il labbro inferiore, trattenendolo tra i denti e quasi graffiandosi, poi si scostò dalla fronte una ciocca di capelli blu notte, mentre essi emanavano un riflesso pallido della luce elettrica nella sala. «Non verrà,» concluse Syo, appoggiando la schiena al muro e calandosi il cappello sugli occhi celesti «lo sapevo! Come al solito, è inaffidabile!». Masato si voltò appena in sua direzione, le braccia conserte, le pupille vibranti contornate dalle iridi azzurre e limpide che si alternavano tra la figura del biondino e quella di  Otoya, che già si avvicinava al compagno alterato per cercare di placarlo. «Avrà avuto un contrattempo, non essere così severo con lui… avanti.» cercò di giustificare il compagno assente, attraverso delle parole alle quali lui stesso pareva credere poco. Masato lo aveva compreso perfettamente con l’aiuto di un solo sguardo, non appena era riuscito a incrociare il suo con quello del ragazzo dalla chioma vermiglia; si erano scambiati delle occhiate cariche di significato, eppure indecifrabili: quasi si stessero esortando a vicenda a prendere una decisione, senza essere in grado di giungere ad una conclusione. Si morse ancora il labbro, stavolta  finchè non sentì la fitta di dolore che lo invitò a desistere con non troppa grazia. In verità, avrebbe potuto benissimo chiamarlo, aveva il suo numero memorizzato nella rubrica del telefono da parecchio. “Jinguuji”. Ma la possibilità di ricevere in risposta la solita scusa da parte del compagno di stanza lo affliggeva più che mai. Perché avrebbe mentito: sì, ne era perfettamente consapevole e, inspiegabilmente, questa era la parte  di tutto ciò che stava accadendo che gli causava più pensieri, più angoscia. Più timore.
Da quando gli Starish avevano cominciato ad essere un gruppo Idol di successo, Ren si era  allontanato sempre più dai suoi compagni. Inizialmente, non ci aveva fatto neanche caso: la loro separazione era cominciata molto prima del loro rincontro alla Saotome Gakuen, in maniera quasi forzata dai loro genitori. Certo, anche Masato si era adoperato con impegno al fine di inculcarsi in testa la decennale rivalità della sua famiglia, Hijirikawa, con quella dell’amico. L’amicizia era improbabile, se non impossibile… no?
«Jin… Jinguuji-san?» la voce delicata di Haruka sembrò ricondurre gentilmente il giovane idol dalla pelle lattea alla realtà. Sollevò il volto,  che nel frattempo si era chinato verso il basso, mentre era immerso nei suoi pensieri, senza che se ne rendesse conto. La ragazza aveva cominciato a preoccuparsi ed aveva deciso di effettuare un tentativo col proprio cellulare. Fortunatamente, Ren era stato abbastanza educato da rispondere ad una giovane amica, piuttosto che attaccarle il telefono in faccia: ma l’espressione che lentamente andava delineandosi sul suo viso andava ben lungi dal sollievo. Masato riconobbe la delusione negli occhi della compagna e tirò un sospiro profondo. «Capisco. Allora ci vediamo domani, alle prove.» fu l’ultima frase di quella conversazione telefonica; prima che Haruka fosse in grado di spiegare, tutti avevano già compreso quanto si era verificato. «Ohi!» tuonò Syo, ancora una volta, sbattendo con violenza il pugno contro la parete della stanza, alle sue spalle «Sono stufo di questo suo  atteggiamento! È la terza volta in due settimane!». Subito intervenne Natsuki, sistemandosi gli  occhiali sul naso e passandosi una mano tra i capelli: «A me non piace davvero avanzare polemiche…» si prese una pausa; Tokiya ebbe il tempo di voltarsi verso di lui, per guardarlo in volto, negli occhi verdi e chiarissimi. «Ma Syo ha ragione. Non possiamo concederci il lusso di rilassarci, non adesso che siamo in vetta. Il suo comportamento non è affatto professionale.» concluse il biondo, serio. La ragazza trattenne il respiro per qualche istante. Il volto di Shinomiya, privato  del suo sorriso entusiasta, non preannunciava nulla di buono.
Nello stesso momento, Masato si alzò in piedi. Lo sguardo basso, il volto inespressivo come sempre, la testa che gli si faceva pesante, al punto che pensava di non poterla più sostenere sulle spalle. «A questo punto, me ne torno a casa anch’io.» annuncia, avviandosi verso la porta, sotto gli occhi di tutti, «Non possiamo registrare se non siamo al completo.». Loro malgrado, anche gli altri componenti della band dovettero dargli ragione. Per sua fortuna, Natsuki trovò immediatamente  consolazione nello scattare qualche fotografia del volto del piccolo Syo, mentre esibiva un’espressione corrucciata. «Ohi, Natsuki, smettila!» fu l’ultima frase che Masato udì prima di uscire.
Mosse un passo dopo l’altro, lentamente, allontanandosi gradualmente dalla porta dello studio ed attraversando con lo sguardo basso il corridoio del piano di registrazione. La frangia scura gli solleticava la fronte e seguiva lentamente il movimento dei suoi passi, oscillando. Improvvisamente, avvertiva il bisogno impellente di aria fresca, di uscire dalle pareti chiuse che lo circondavano.
Accelerò il passo e raggiunse il terrazzo del quarto piano: con una piccola pressione esercitata sulla maniglia, riuscì ad aprire la porta e ad uscire. La pressione che sembrava opprimergli i polmoni ed impedirgli di respirare sparì di colpo; sospirò appena, passandosi una mano tra le ciocche blu e morbide, mentre rapidamente realizzava che, al contrario, quell’angoscia che l’assenza del compagno gli provocava non era svanita.
Non si era mai dissolta, neanche per un istante, da quando si erano separati da bambini.
Era rimasta al suo fianco come una compagna fedele, una sorella sciagurata ed una consapevolezza pesante da trascinarsi dietro a forza: qualcosa  alla quale si era  rassegnato da tempo. Schioccò le labbra tra loro, socchiuse gli occhi e inspirò profondamente: no, non era solo angoscia. Non era solo ansia a tamburellare nel suo cranio come un picchio impazzito.
C’era dell’altro; qualcosa che nessuno avrebbe potuto comprendere meglio di lui. Non si trattava di una frase, né di un’offesa che Ren gli aveva anche involontariamente rivolto. Era qualcosa di più sottile e meno percettibile, ma sicuramente di più tagliente.
Il suo sguardo. Sì, quello sguardo sfacciato, rilassato, ma allo stesso tempo nervoso e penetrante. Quegli occhi celesti e limpidi che indagavano nei suoi, ogni volta che i loro visi si scontravano. Che lo scrutavano come una preda da aggredire, ma, allo stesso tempo, come un completo estraneo al quale non si rivolge attenzione per disinteresse, al quale non si fa caso: distante, irraggiungibile, inarrestabile, quegli occhi significavano tutto questo.
Quegli occhi che lo accusavano e, senza alcuna compassione, lo giudicavano.
Perché Ren aveva saputo ribellarsi. Aveva sempre posseduto la faccia tosta di rispondere con un “no” secco ad ogni proposta che gli veniva fatta. Sempre. Con tutta probabilità, perfino l’accademia era stata un suo capriccio che i suoi genitori  avevano deciso di assecondare, vero?
Quello sguardo significava un rimprovero sincero e doloroso, carico di sdegno, ma privo di qualunque parola: era un castigo che il ragazzo aveva deciso di infliggergli dal momento in cui Masato era stato costretto a porre un termine alla loro amicizia.
Strinse i denti e i pugni, graffiandosi appena i palmi delle mani con le unghie. «Jinguuji…» sibilò, assottigliando lo sguardo verso il cielo appena visibile tra le fronde degli alberi che circondavano l’edificio. Se solo avesse saputo le responsabilità gravose che influivano nella sua vita di primogenito degli Hijirikawa, allora avrebbe compreso. Invece no: il biondino era l’ultimo della famiglia, il più giovane e, tutto sommato, i suoi compiti non aveva mai avuto la necessità di portarli a termine.
Così come ora stava abbandonato le prove per una presa di posizione priva di fondamento, allo stesso modo aveva adottato un comportamento estremamente irriverente nei suoi confronti. E non aveva ancora compreso quanto questo potesse ferirlo.
Per un istante, quel ricordo balenò nella sua mente in un lampo bianco ed intenso: quelle labbra sottili che balbettavano incerte qualcosa, mentre le sue mani si muovevano in un fremito sul suo corpo quasi cogliendo un frutto proibito.
Si raccolse nelle spalle, scuotendo il capo e scacciando via quel pensiero che pareva averlo turbato parecchio. Prese un profondo respiro, lo sguardo tremante che lentamente scendeva verso il tronco della grande quercia innanzi a lui.
«Al diavolo.» concluse, volgendo le spalle al robusto albero e a quella sorte infelice, che sentiva di non possedere la forza di cambiare. 

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Note dell'autrice ~
Wah! Non posso credere di aver pubblicato questa storia perchè, ad essere sincera, pur avendo ben chiara in mente lo svolgimento successivo della trama (a eccezioni delle idee che probabilmente mi verranno strada facendo) questo primo capitolo non mi soddisfa pienamente nella sua seconda parte. Spero di aver introdotto bene il rapporto che lega profondamente Ren e Masato in questa fic e di risultare un po' meno piatta nel prossimo capitolo!
Personalmente, sono molto legata a questa coppia e confido davvero in un buon risultato! Grazie mille per aver letto questo primo capitolo, ci vediamo nel prossimo ~

River

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Capitolo 2
*** «The Beauty and the Beast.» ***


«Ancora una volta.» i suoi occhi chiusi, il respiro regolare, mentre dondolava le piccole gambe sotto la sedia, lentamente, ritmicamente. Sembrava stesse riposando, rilassandosi e lasciando la testa abbandonata alla forza di gravità: con tutte quelle ciocche lisce e blu che gli scendevano dolcemente davanti al viso, accarezzandoglielo; invece no: era concentrato.
 
Stava ascoltando. Ascoltava le note musicali che uscivano in rapida sequenza dal sassofono che Ren teneva tra le piccole mani, già incredibilmente esperte per la sua giovane età. «Di nuovo?» protestò lui, sbuffando lievemente e riponendo lentamente lo strumento nella sua custodia nera «Basta, sono stanco! ». Suonava da un paio d’ore: quello spazio di tempo che aveva ritagliato tra un impegno e un altro, solo per far visita a quel suo caro amico da cui mai avrebbe voluto separarsi.
Aveva solo dodici anni, il biondino, ma la sua agenda era completamente piena di impegni d’ogni genere: incontri con famiglie altolocate, imprenditori importanti, cerimonie. Ognuno di questi eventi andava ben lungi dai suoi interessi. Accettava, certo, purchè potesse avere ogni giorno il tempo necessario a vedere Masato e a divertirsi anche un paio d’ore con lui. Il suo unico amico. L’unico  e solo: e non avrebbe mai potuto chiedere altro.
 
«E’ tardi, meglio che me ne vada.» ammise, nascondendo una certa riluttanza a riporre il sassofono e a varcare la porta d’uscita. Il compagno riaprì gli occhi di scatto, come colto d’improvviso da un colpo al petto: «Ca-Capisco…» balbettò, incerto, le iridi azzurre che si piantavano lentamente sul terreno, quasi potesse trovare nella trama scura del legno una soluzione.
Ren gli rivolse uno sguardo fugace; passò gli occhi celesti sui suoi lineamenti gentili, su quell’incarnato candido, come di porcellana finissima, che sembrava bramare qualcosa di inesprimibile.
Chiedimi di restare.
Richiuse la custodia del sassofono, producendo un sibilo leggero.
Chiedimi di restare.
Aspettò cinque, dieci secondi. In piedi, davanti a lui, attendendo qualcosa. Un gesto, un solo gesto, anche minuscolo, sarebbe bastato a convincerlo. Sì: al diavolo la scuola, i doveri familiari, tutto. Altri dieci minuti non avrebbero distrutto i suoi piani per il futuro. No?
Ma Masato non si mosse. Non aprì bocca: dalle sue labbra fine non uscì alcun suono. Solo il respiro regolare, i suoi pugni chiusi.
Ren sospirò appena e si voltò. «Beh… Ci vediamo, Masa.» lo salutò con un cenno della mano. Si avvicinò alla porta con passo lento, varcarla significava tornare nella vita insignificante che conduceva ogni giorno. Quella vita in cui nessuno gli avrebbe mai riconosciuto il suo talento: la vita di Jinguuji Ren, l’ultimogenito di un imprenditore, che avrebbe fatto strada in virtù del suo solo cognome, mai per qualche sua qualità.
 
Jinguuji è un nome importante. Avrà sempre tutto, non gli sarà negato nulla.
Queste parole gli venivano rivolte continuamente, mentre lui si limitava a rispondere con un sorriso di cortesia, velando una certa noncuranza. Ma rispecchiavano la verità?
 
Il sassofono gli sembrò incredibilmente più pesante rispetto a quando era entrato.
«No!» un mormorio appena percettibile, ma sufficientemente udibile per bloccare il biondino a pochi centimetri dall’uscita.
Qualcosa lo trattenne per la manica della camicia, non seppe definire se si trattasse della mano del compagno o, più probabilmente, solo della sua immaginazione. Si voltò appena e lo vide. Il suo sguardo supplice, il suo sorriso timido che affiorava appena sulle sue gote candide lievemente tinte di rosso. «A-Aspetta…» balbettò, irrigidendosi di colpo «Quella canzone… Me la suoneresti di nuovo? ».
Quello sguardo. Quegli occhi limpidi. «Una volta sola… per favore.».
Ren sorrise. Non un sorriso falso e puramente formale, di quelli che mostrava continuamente alle cerimonie, alle uscite pubbliche con la famiglia, ai ricevimenti. Il suo era un sorriso spontaneo, semplicemente felice di ciò che si apprestava a fare. Un sorriso appagato e finalmente gioioso.
«Uff… Va bene, ma una volta sola!» cercò di fingere irritazione, ma quel suo sorriso dovette far crollare ogni copertura. Il volto di Masato s’illuminò improvvisamente.
Suonò fino a sera. Suonò per lui, per vederlo sorridere in quel modo. Se avesse potuto vederlo sorridere per sempre, non avrebbe mai fermato quelle sue dita sottili che scorrevano sapientemente sui tasti dorati del sassofono:  avrebbe soffiato fino a perdere del tutto il fiato.
Per l’unica persona che lo apprezzava per quello che era davvero. Per Masato. Per lui.
Forse lo realizzò solo allora.
Quanto il suo cuore accelerasse, avvicinandosi a lui.
 
 
 
Ren spalancò gli occhi.
La luce del sole, che trapelava dalle foglie sui rami dell’albero che gli faceva da sostegno, gli ferì gli occhi limpidi. Doveva essersi addormentato.
Si passò la mano sinistra tra i capelli fluenti e morbidi, massaggiandosi appena il capo, mentre con l’altra cercava il telefono nella tasca dei pantaloni. Quanto aveva dormito?
Dopo aver chiamato Haruka, inventando una scusa a caso per non recarsi alle prove, si era semplicemente steso a terra, nei giardini dell’Accademia Saotome, completamente incurante del fatto che qualcuno avrebbe potuto notarlo e, magari, avvertire i suoi compagni.
Non trovando alcuna occupazione utile per il suo tempo, aveva finito con il riflettere e conseguentemente addormentarsi. I pensieri che gli avevano concesso una tregua, durante il sonno, tornarono d’improvviso ad invadergli la mente con il loro ronzare caotico.
Prese un respiro profondo, cercando dentro di sé quella calma che non gli era mai appartenuta. Si sforzò di trovarne quanta ne bastava per scacciare il ricordo che il sogno gli aveva riconsegnato.
Un regalo indesiderato, specialmente in un momento come quello.
Un gioiello prezioso che voleva restasse chiuso nel suo scrigno ancora  per un po’.
 
«È passato tanto tempo… » un sussurro leggero gli sfiorò appena le labbra fine e rosse, per dissolversi nel vento leggero che gli scompigliava le ciocche bionde, destinando quelle parole a non essere mai udite da nessuno «…adesso non ha più importanza, no? ». O almeno, così avrebbe  voluto. Ma sembrava che questo ragionamento valesse soltanto per uno dei due ragazzi. Per quanto si sforzasse, Ren non riusciva a nasconderlo: non riusciva a celare quel vuoto incolmabile che la separazione da Masato aveva aperto nel suo cuore, nella sua anima.
Il suo unico e solo amico. L’unica persona a cui avesse mai tenuto. Sbuffò. No, non l’avrebbe mai ammesso apertamente.
Non posso.
Il ricordo di quel giorno era ancora una ferita dolente e aperta. Gli faceva troppo male anche solo per dimenticarla e ricominciare.
Era sufficiente alzare gli occhi verso lo sguardo implacabile di Masato, verso la sua totale indifferenza verso i suoi gesti per accorgersene.
Si passò ancora una mano tra i capelli, sbattendo appena la nuca contro il tronco dell’albero. Lasciò scorrere le dita lungo il viso, digrignando i denti. «Maledizione. » sibilò, deglutendo come per ingoiare un boccone amaro, un sorso di una medicina dal terribile sapore.
Chiuse ancora gli occhi, si ordinò di mantenere la calma. Il cellulare iniziò a squillare, ma lui non ci fece neanche caso: stava già esplorando i meandri della propria mente, alla ricerca di una spiegazione che valesse tutta quella fatica.
Quando era cominciato quel profondo cambiamento nel loro rapporto? Il passaggio all’adolescenza era stato così brusco?
Ren inspirò profondamente. Le immagini nella sua mente si fecero mano a mano più nitide, i loro contorni più netti e definiti.
 
 
 
Era primavera. Si, lo si capiva dai fiori di ciliegio che inondavano le strade, inebriando i passanti con il loro profumo delicato.
Un cancello di ferro dipinto di un nero lucido, che la luce del sole faceva risaltare. Ne riconosceva l’insegna in alto, semicircolare, in evidenza; sì, era l’insegna della sua scuola media. Quella scuola che condivideva con Masato, ovviamente un istituto d’élite, nel quale era entrato grazie al suo nome, piuttosto che per la sua condotta o per i suoi meriti scolastici.
 
Oh, ma lui si impegnava. Si impegnava enormemente, in qualsiasi attività svolgesse: studio, ricorrenze familiari, incontri con personaggi emergenti dell’alta società; eppure, sembrava sforzarsi enormemente per far intendere il contrario.
Chiunque avesse parlato di lui, l’avrebbe indicato come Jinguuji, il “ragazzo ribelle” di quella famiglia d’imprenditori rivaleggiante con gli Hijirikawa. E lui era ben lungi dal smentire queste affermazioni.
Semplicemente, né l’opinione pubblica, né tantomeno l’opinione di suo padre lo interessavano minimamente. Considerava già il fatto di tagliare i legami con i suoi parenti, non appena ne avesse avuta la possibilità.
 
Tutta quella forza di volontà era necessaria a perpetuare un solo scopo: raggiungere lui.
Masato, che era sempre un passo avanti a lui in tutto. Non sembrava neanche doversi applicare in ciò che faceva: come se tutto gli risultasse infinitamente semplice e spontaneo, come se si trattasse di una realtà già insita nella sua natura.
E Ren voleva raggiungerlo.
Non l’avrebbe mai ammesso, mai: troppo era l’orgoglio che gli riempiva il petto. O forse, beh, forse si trattava soltanto di quell’inspiegabile batticuore che gli impediva di esprimersi come avrebbe voluto. Di fargli capire che in ogni momento, in ogni minuto che trascorreva dentro quella scuola, l’avrebbe voluto per  sé soltanto.
 
Invece eccolo lì: Masato, nell’aula di musica a suonare il pianoforte con tutta la sua passione, con il suo innato talento che lo rendeva incredibile agli occhi di tutti gli studenti che lo attorniavano.
Anche ai suoi occhi.
E lui? Lui se ne stava in cortile: seduto su un ramo di un grosso albero, lasciando correre le dita lungo i tasti del sassofono e soffiandovi per suonarlo al meglio, per far sì che quel suono si udisse oltre ogni altro commento e raggiungesse il suo orecchio.
La sua musica doveva essere più forte di qualunque altro suono avesse mai sentito.
Avrebbe dovuto rompere ogni barriera, solo per gridarlo al mondo: per urlare quelle parole. Lui appartiene a me.
Il suo tesoro più prezioso, che non avrebbe condiviso con nessuno, ma che tutti  sembravano possedere al suo posto. Non gli bastava guardarlo da lontano, il suo unico anelito era recuperare il loro antico rapporto. Ascoltami. Loro due, poi il resto del mondo. E ben presto, quel suo desiderio di raggiungerlo si trasformò, agli occhi di tutti, in una tacita competizione.
 
Riesci a sentirlo? Senti il battito del mio cuore?
 
Non ci volle molto a visualizzare quel momento.
Il cancello, la scuola: già, quel giorno stava aspettando. Doveva passare George, il suo maggiordomo, a prenderlo con la limousine per scortarlo presso un ricevimento dato da alcuni amici di suo padre.
Un’altra noiosa giornata che avrebbe preferito passare con qualcun altro, piuttosto che a sorridere cordialmente ad un branco di sconosciuti sciacalli, che non avrebbero esitato un istante a divorarlo se non fosse stato con suo padre.
Ma, da qualche tempo a quella parte, quell’assurda rivalità montata sui suoi gesti male interpretati aveva portato Masato sempre più lontano da lui. Il compagno non riusciva a cogliere la sfumatura leggera nascosta nei suoi gesti.
Il velato sentimento nascosto in ogni bizarro metodo escogitato per attirare la sua attenzione.
 
Sempre più raramente si concedevano dei pomeriggi insieme o si incontravano al di fuori degli orari scolastici anche solo per parlare qualche minuto.
La famiglia Hijirikawa sembrava esercitare pressioni sempre più gravose sull’erede più responsabile, mentre i Jinguuji erano sempre più indirizzati a fare di Ren una perfetta presentazione per gli sponsor dell’azienda.
E così, il loro rapporto si era ridotto a uno scambio di sguardi, di cenni, di frasi sfuggevoli. Persino il biondino aveva cominciato ad entrare nel ruolo del provocatore, ad abituarsi a quella sorta di conflittualità che credeva potesse permettergli di trasmettere un messaggio.
 
Riesci a sentirlo?
 
Poi, quella ragazza. Si era avvicinata con un sorriso gentile, i suoi boccoli castani che le scendevano morbidamente lungo le spalle. « Jin…Jinguuji-senpai? » mormorò, con voce candida e limpida, affatto fastidiosa ma, addirittura, melodiosa.
Magari un’ennesima, giovane ammiratrice, pronta a domandargli un appuntamento.
Quando Ren la vide, impiegò poco più di un secondo a ricollegare il suo volto ad un nome, riconoscendola. Himawari Kinomoto. La giovane figlia di un altro imprenditore affine alla sua famiglia. Aveva avuto modo di incontrarla durante un evento di marketing indetto da suo padre e, continuamente, a scuola, a parlare con Masato, ad ascoltarlo suonare, a farsi aiutare da lui nello svolgere esercizi complessi.
S’irrigidì d’improvviso.
L’aveva visto. Lo sguardo che Masato le aveva rivolto.
Uno sguardo pericolosamente gentile, caldo. Quegli occhi blu e profondi, che ormai non erano più interessati a lui. Perché non guardi me…?
 «Uhm?» mormorò appena, voltandosi verso la ragazza. In un’altra occasione, si sarebbe presentato con garbo e palesando uno sguardo seduttore che pareva fare grande scalpore tra le sue coetanee, ma no, non con quella giovane. Lei esibì ancora quel sorriso innocente, pieno di gentilezza, che lo metteva a disagio. Come un senso di fastidio che non sapeva spiegarsi.
Si scostò una ciocca di capelli dal viso, scrutandola dalla sua alta angolazione.
«Jinguuji-senpai… hai qualche minuto da dedicarmi? Non ti disturberò più, promesso!» esclamò, squillante, in un cinguettio degno di un canarino. Ren annuì brevemente, stirando le labbra fine in un sorriso sfacciato. «Purchè tu sia breve; vado di fretta, dolcezza.» rispose, seccamente. Mentiva, Himawari doveva averlo intuito, ma il suo interesse per la sua reazione rasentava lo zero. Probabilmente, non avrebbe neanche prestato attenzione alle sue parole. Avrebbe finto di capire, poi si sarebbe congedato in fretta. George l’avrebbe raggiunto altrove.
Himawari si dilungò in alcune formule di cortesia che al giovane giunsero come un eco distante. Si perse completamente nella prima parte del discorso rivoltogli, mentre annuiva fingendo coinvolgimento. I suoi pensieri erano rivolti a tutt’altro.
Non si spiegava il motivo di quel suo comportamento, né tantomeno tentava di comprendersi. Faceva tutto parte di un lato istintivo del suo essere.
«Tu sei molto amico di Hijirikawa, non è vero?». Ren raddrizzò la schiena di colpo, come colpito da un pugno, per poi lasciar cadere la schiena sulla cancellata che decise di sfruttare come sostegno. Sollevo il capo, per squadrare la giovane dall’alto di quell’angolazione.
Già semplicemente il fatto che l’avesse intuito, andava fuori dal comune. Tutti li avevano sempre considerati rivali, mai più di questo.
«Sì, diciamo di sì.» tagliò corto, scrollando le spalle salde. Masato faceva parte di un intero universo che non doveva riguardarla in alcun modo.
Come una rosa profumata e meravigliosa, coperta da una campana di vetro.
Non gli interessava quanto avrebbe dovuto sporcarsi le mani, per difenderla.
L’unico, il solo, vero cavaliere.
 
Dalle dita affusolate della ragazza fece capolino una busta di carta, da recapitare a qualcuno. «Potresti… Potresti portare questo invito a Hijirikawa da parte mia?» Ren non riuscì a nascondere una certa sorpresa in quelle parole «Ho provato a parlargliene di persona, ma sono troppo insicura per farlo… e so che tu hai la possibilità di incontrarlo.». Il volto dai lineamenti morbidi le si nascondeva tra le ciocche castane, mentre gli consegnava la lettera con le mani tremanti. Ren la prese.
Respirò a fondo, passando lo sguardo tra la carta e la bella giovane. Non rispose. Non riusciva a dire nulla. In lui si era accesa una scintilla che lo stava rapidamente consumando. Un presagio inaccettabile.
Poi, raccolse il coraggio di fare qualcosa.                                     
«Non accetterà.» affermò, con un’espressione sfacciata «Non accetterà, non ha tempo per queste cose. E ti farà soffrire.».
Himawari inarcò un sopracciglio, in un sussulto. «Q-questo… dovrebbe deciderlo lui, non trovi?» rispose, stizzita.
 
Decidere.
 
Quelle parole. Quelle parole gli avevano appena suggerito la soluzione al problema.
La sua rosa blu doveva essere protetta, non importava a quale costo.
Himawari era sul punto di aggiungere qualcosa, quando George sopraggiunse, alla guida della limousine bianca. «Certo, senz’altro.» commentò, scrollando le spalle, per poi sfiorarle il mento con l’indice della mano libera, quasi in una carezza «Allora ci vediamo, little lamb.». Sorrise, mentre si faceva scortare alla macchina e vi entrava, producendo un suono sordo nel richiudere la portiera.
 
«Accelera, George.».
 Osservò la ragazza allontanarsi, chiusa nelle spalle, come confusa dal comportamento a cui aveva assistito. Le scoccò un’occhiata fugace e penetrante, prima di essere troppo lontano per scorgerla ancora.
Poi, la sua attenzione si posò sulla lettera. Prese un respiro profondo, ne afferrò i due lembi e… strap. Il danno era fatto. In pochi secondi, l’aveva completamente ridotta in minuscoli brandelli, tanto da renderla impossibile da ricomporre. Non aveva avuto neanche interesse nel leggerla, il suo unico desiderio era stato sbarazzarsene.
Abbassò il finestrino e gettò i pezzetti di carta in strada, liberandoli in una danza che avrebbe destinato un importante messaggio a non essere mai recapitato.
Appartiene a me.

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Note dell'autrice ~

Eccoci qui ancora una volta! Anzitutto, spero che il mio secondo capitolo  vi sia piaciuto (e chiedo venia per aver impiegato tanto tempo a postare, ma sono impegnata con la maturità, comprendetemi!). Ho fatto di tutto per risultare meno piatta possibile, ma necessitavo almeno di un altro capitolo per introdurre il punto di vista di Ren. Comunque, l'ultima parte ho cercato di renderla un po' più movimentata. I prossimi capitoli dovrebbero essere meno riflessivi e più incentrati sull'azione, ma da brava autrice non vi anticipo nulla u.u
Spero di essere stata chiara nell'intrecciare il presente coi ricordi, comunque da qui in poi dovrei riuscire a rendere flashback meno confusi xD E magari ad essere più breve x°
Detto ciò, recensite e ditemi cosa ne pensate ;) Grazie per aver letto e al prossimo capitolo! (speriamo di finirlo presto x°°)

River ~

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Capitolo 3
*** «Il canto del gallo.» ***


Musica leggera, un ricco buffet, un centinaio di invitati e fin troppi falsi sorrisi.
Ren era lì. Tra le mani teneva un calice di vino, che lasciava oscillare tra le dita senza, tuttavia, mai prenderne un sorso.
Lo teneva in mano da più di un’ora, da quando gliel’aveva offerto una donna di cui, a dire di suo padre, avrebbe dovuto ricordare il nome, ma della quale, per la verità, aveva impressa nella memoria solo quell’espressione assecondante e ipocrita che sembravano avere un po’ tutti, ai ricevimenti dell’alta società.
E lui rispondeva a tutti allo stesso modo: un sorriso leggero, un lieve inchino col capo, dopodichè si allontanava accennando un “con permesso”.
 
Non gli interessava frequentare, né tantomeno farsi favorevoli, nessuno di quei personaggi opportunisti e carichi solo dei propri interessi. Fosse dipeso da lui, non si sarebbe neanche avvicinato alla sala. Sarebbe fuggito abbozzando una scusa qualunque o, magari, non si sarebbe neanche presentato.
Suo padre non avrebbe notato la differenza. Non gli era mai interessato.
 
Ren è un ragazzo sveglio, ma non sarà mai all’altezza dei fratelli.
 
Finalmente si decise a prendere un sorso da quel calice che torturava da più di un’ora, dapprima inumidendo appena le labbra fine nel liquido violaceo, poi assaggiandone il sapore rosso pungente. Stirò appena le labbra in una smorfia.
Il vino era raffinato, ma non faceva per lui.
 
Almeno è di bell’aspetto. E’ utile solo a migliorare la nostra immagine.
 
Un altro sorso. Un sospiro.
Dieci minuti, ancora dieci minuti. Se poi non l’avesse visto, sicuramente se ne sarebbe andato senza curarsi di salutare.
L’unico motivo per il quale non aveva deciso di restarsene a casa, o di andare a creare guai da qualche parte in un locale di città, era lui.
Masato Hijirikawa.
Bastava quel nome a fargli sussultare il cuore. Si morse appena il labbro inferiore, mentre lo cercava tra la folla di invitati. Esattamente come tanti anni prima, a quella prima festa. Non importa cosa farai, noi saremo amici per sempre.
Anche quella bella canzone, come tutte, era destinata ad avere una fine… no?
Continuò a ripetere quel nome tra sé e sé, come per ricordarsi il motivo per il quale si era presentato a quell’unica celebrazione, dopo tanto tempo di assenza.
Masato Hijirikawa. Masato… «Oh, sei tu, Hijirikawa.»
Ren si voltò di scatto.
Era bastato udire quel nome per fargli scivolare il bicchiere di mano, lasciandolo infrangersi sulla moquette rossa della sala. Irrimediabilmente macchiata. Qualcuno rise, additandolo… ma non ci fece neanche caso. Un sorriso soddisfatto di sé stesso gli illuminava il  volto, spiccando sulla carnagione olivastra.
Masato si era voltato verso di lui e aveva notato subito quello sguardo su di sé, quelle labbra fine stirate in un’espressione di compiacimento. Scosse il capo e fece finta di nulla. Ma questo non bastò affatto a scoraggiare il biondino. Aveva già puntato la sua preda.
 
Mosse qualche rapida falcata in direzione del giovane ospite, portando entrambe le mani alle tasche. Non per un gesto di noncuranza, piuttosto perché le dita gli tremavano sensibilmente e far notare questo spasmo al rivale, più che alla folla, l’avrebbe messo in una condizione di estremo disagio.
Quando gli fu vicino e potè osservare i suoi occhi limpidi e il suo sguardo assorto, mentre si districava silenziosamente tra i discorsi frivoli dei presenti, il suo cuore ebbe un fremito. Ma diede la colpa del fatto all’alcol e si ripromise di non toccare più un calice di quel pregiato vino rosso per parecchio tempo.
 
Affiancò Masato, ma questo fece finta di non notarlo. Quando gli fu inesorabilmente vicino, però, e gli rivolse la parola davanti a tutti i suoi interlocutori, ignorarlo fu praticamente impossibile. «Vorrete perdonarmi se allontano il vostro giocattolino solo per qualche secondo, vero?» esordì Ren, con le labbra distese in un sorriso sicuro di sé, mentre ammiccava vivacemente.
Masato avvertì una goccia di sudore freddo scivolargli lenta lungo la schiena e un brivido percorrergli la spina dorsale. Gli invitati guardavano già entrambi con un certo sdegno. «V-Vogliate scusarmi…»  balbettò, allontanandosi al seguito del biondo che già considerava l’idea di trascinarlo via con la forza, pur di avere un colloquio con lui in privato.
Si allontarono dalla sala a passo svelto ed in silenzio assoluto, percorsero corridoi ed attraversarono porte, fin quando non si trovarono nel giardino esterno alla residenza dove si teneva il ricevimento.
 
Lo sguardo severo di Masato penetrò subito attraverso gli occhi di Ren, affilato come una lama,  in contrasto con le fiamme azzurre e sfavillanti del compagno. «Che cosa vuoi, Jinguuji?».
Lui rise. Rise di gusto, passandosi una mano tra i capelli in un gesto rilassato. In realtà, sentiva i muscoli irrimediabilmente tesi. «Ehi, ma così mi spezzi il cuore! Adesso mi chiami per cognome anche in privato?» sorrise, sfacciato «How cruel!» ammiccò con complicità, ma Masato congedò quell’espressione con un gesto stizzito della mano.
«Se vuoi fare il pagliaccio con me, stai perdendo tempo. Io torno dentro.» lo avvisò, con fermezza di spirito, ma no, Ren non aveva affatto concluso. Al contrario, aveva appena cominciato.
 
«Himawari Kinomoto.»
 
L’avanzata di Masato si arrestò di colpo. Gli occhi azzurri spalancati a fissare il vuoto.
Era bastato quel nome.
Ren avvertì distintamente qualcosa dentro di lui lacerarsi, lentamente.
 
«Cosa c’entra Kinomoto, adesso?»
Ren scrollò le spalle, fingendo una certa noncuranza. «Oh, non saprei, sei tu che ti sei fermato.» commentò, con un ghigno furbo stampato sul viso, che Masato non si voltò nemmeno a guardare. Si limitò a tenere i pugni serrati, le braccia distese lungo i fianchi.
Ancora quella fitta al petto: Ren cominciava seriamente a pensare che l’alcol potesse avere effetti terribili sul suo corpo.
«Per caso ho toccato un tasto delicato?» si passò la lingua fra i denti di madreperla, quasi assaporando un sapore che poteva soltanto immaginare «Ti interessa parecchio, vero?»
«È una ragazza del mio corso… tutto qui.»
Oh, Ren era astuto. Sapeva già che Masato avrebbe negato fino alla morte l’esistenza di qualunque legame che potesse essere per lui fonte di soggezione. Anche se fosse stato coinvolto sentimentalmente, anche se… «Allora non ti dispiace se diventa mia, no?».
 
Masato si voltò verso di lui, con uno sguardo incendiato celato dietro il suo volto impassibile. Non rispose. Forse credette che dovesse trattarsi di una provocazione, di un gioco.
Ma Ren probabilmente non era mai stato così serio.
Quello era decisamente stato il principio del declino.
 
Tu devi guardare… soltanto me.
 
 
Delle volte se lo chiedeva anche: se fosse stata proprio quella sua decisione cambiare il volto delle cose. Ed era ciò a cui aveva pensato per tutto il lasso di tempo impiegato per spiegare al preside dell’accademia, ovvero anche il manager degli STARISH, il motivo fondamentale per il quale aveva intrapreso un preciso cammino.
Una decisione irrevocabile.
«Non avrai un’altra occasione come questa.»
«Adesso non ne ho più bisogno.»
Quell’uomo vide spegnersi sulle labbra del ragazzo il sorriso e comprese. Qualcosa doveva davvero essersi rotto dentro di lui, in frammenti così piccoli da rendere impossibile qualsiasi tentativo di riparazione. Lo  sguardo stanco, provato, lasciava intuire che doveva aver riflettuto a lungo sulla questione, prima di poter trovare il coraggio necessario per farsi avanti.
Quell’espressione… non era da lui. O forse, era la prima vera immagine di Ren Jinguuji dopo l’incrinatura della sua ultima maschera.
La fine delle bugie.
Non disse nulla,  lo congedò con un cenno del capo ed un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.
Ren chinò appena il capo in segno di rispetto, quindi si voltò verso la porta con passo flemmatico. Pensava che quel cambio di prospettiva gli avrebbe subito giovato, ma bastò varcare la porta e incrociare lui nel corridoio per lasciare che tutta la sua ansia investisse di colpo la sua sicurezza.
 
«Jinguuji.»
Il modo in cui pronunciava il suo nome. Lentamente, con quel tono gelido che lo sottoponeva ad una lenta agonia ogni volta. Ogni parola che usciva da quelle labbra rosee corrispondeva ad un passo che lo separava da lui.
No, non rispose, non era nemmeno in grado di alzare lo sguardo sul suo viso ancora una volta. Voleva riuscire a ricordarlo con il suo sorriso ingenuo, da bambino, quando ancora non poteva fare a meno della sua presenza.
Quando, nel suo piccolo universo, esisteva soltanto lui.
«Jinguuji!» chiamò ancora, ma era già troppo tardi. A passo svelto, con le mani affondate nelle tasche, lo stava scavalcando per uscire in fretta dai corridoi. Le dita di Masato formicolarono appena, quando si voltò per fermarlo. Non riuscì neanche a sfiorargli la mano.
Lo vide allontanarsi silenziosamente nella penombra della sera, mentre si trascinava dietro il pesante fardello della sua sofferenza. Quel dolore anonimo che non poteva condividere con nessuno. Neanche con lui. Da quel giorno, non era cambiato per nulla.
 
Sfuggente e incomprensibile. Ogni volta che gli sembrava interessato, in realtà era annoiato, mentre se intendeva essere serio appariva sempre tutto come un gioco.
Il gioco dell’amore… non è perso al primo segno di cedimento?
Masato si portò una mano al petto, imboccando la direzione opposta per raggiungere i dormitori del piano inferiore.
Decise solennemente che quella questione non avrebbe dovuto toccarlo mai più.
Allora, perché fa così male?
Era sempre stato un ragazzo incredibilmente razionale. Le relazioni, i legami, i sentimenti… tutto questo non faceva parte del suo mondo. E non perché non fosse capace di apprenderli, no. Era una sua scelta. Era stato lui.
Lui aveva scelto di non avvicinarsi alla fiamma della candela, per non doversi mai bruciare. Perché aveva assaporato il gusto amaro della perdita una volta, così da imparare la lezione… e aveva deciso di non legarsi più a nessuno che avesse potuto rappresentare così tanto, per lui, da lasciargli un vuoto dentro.
Perché poteva deciderlo, no? Se il suo cuore non lo avesse ascoltato, si sarebbe imposto. Se avesse potuto, gli avrebbe impedito di battere.
Decido io.Doveva seguire le sue regole.
Doveva essere così.
La fioca luce che trapelava dalle finestre innestate nella parete di destra scandivano il suo camminare lento come il ticchettio di un orologio. Si ordinò di allontanare ogni pensiero da quanto aveva visto. Qualunque fossero stati i motivi di Ren… di Jinguuji, per aver assunto un comportamento tanto diverso dal solito, sicuramente non lo riguardavano.
Erano, anzi, dovevano essere irrilevanti. Si ordinò di liberare la mente da tutti i pensieri e le preoccupazioni che inspiegabilmente la affollavano, ma dovette stringere i pugni fino a graffiarsi i palmi delle mani con le unghie.
Smetti di riflettere e vai a dormire.Ormai era vicino alla sua camera. Domani registreremo, con o senza di lui.
Che avesse voluto o meno dargli spiegazioni, avrebbe comunque dovuto passare da quella stessa stanza per riposare. Cosa pensava di ottenere, evitandolo? Come poteva sperare di…? No, no, ecco che l’immaginazione ricominciava ad annebbiargli l’intelletto.
 
Allungò la mano destra verso la maniglia d’ottone, tirando fuori la chiave dalla tasca con la sinistra. Prima di infilarla nella serratura, lasciò correre lo sguardo sulla porta.
Era un gesto semplice, che aveva compiuto miliardi di volte da quando era stato accettato all’accademia. Eppure… Eppure uno strano presentimento stava cominciando ad assumere il controllo del suo corpo, come paralizzandolo. Si irrigidì di colpo. Fu come un lampo, un presagio.
Non seppe spiegarsi il motivo di uella sensazione.
Era come tenere il cuore in una stretta di ferro. Faceva male.
Improvvisamente il corpo sembrò rianimarsi come folgorato da un fulmine. Inserì rapidamente la chiave nella serratura. Uno, due, tre scatti. Clack.
La porta si aprì.
E lo notò subito.
 
«Cosa diavolo…?» mormorò, sottovoce, come un sussurro a sé stesso.
Mancava qualcosa. Anzi, mancava una metà. Della camera. Di lui stesso.
Il letto sfatto, la giacca della divisa abbandonata alla sedia sulla destra, il bersaglio per le freccette che lui utilizzava spesso per diletto, il sassofono adagiato in un angolo con cura, fuori dalla custodia nera che troneggiava in terra, aperta, il CD che non gli aveva mai permesso di toccare e che doveva essere incredibilmente importante per lui; era sparito tutto, come se fosse evaporato, dissolto in un odore impersonale di sapone appena passato che aveva incancellato anche il suo profumo che aveva pensato indelebile.
E non riuscire a ricordarlo, improvvisamente, lo spaventò.
Se ne era andato.
 
Fu come essere trafitto in pieno petto da una spada avvelenata. Non solo bruciava: quel dolore si diffondeva rapidamente in tutto il suo corpo, prendeva il  cuore, la testa, gli toglieva il respiro. Ed era esattamente come lo ricordava.
 
 
Masato era un bambino estremamente fragile.
Di salute cagionevole, costantemente messo sotto sforzo dal suo fisico instabile, tenuto lontano dal resto del mondo. Non poteva frequentare la scuola pubblica, non poteva allontanarsi da casa se non per i ricevimenti ufficiali del padre. Sempre acccompagnato dai fratelli, che non si curavano di lui come avrebbe voluto. Non aveva amici.
Nella sua notte brillavano sempre troppe poche stelle. Ad Oriente, all’alba, solo lui era il Sole.
Da quando aveva avuto modo di incontrarlo, non aveva passato un giorno solo senza passare almeno un’ora del suo tempo con lui. Ad ascoltarlo. Il modo con cui le sue dita scorrevano sui tasti del sassofono aveva un qualcosa di prodigioso.
Amava immensamente e, allo stesso tempo, odiava quella musica. Perché quel talento era qualcosa che a lui mancava e che sapeva di non poter raggiungere senza un impegno mostruoso ed indefesso.
Ma fintanto che aveva modo di ascoltarlo ed averlo vicino, questi due sentimenti costrastanti riuscivano a compensarsi a vicenda. Non c’era mai un eccesso d’invidia o ammirazione. Soltanto il piacere pieno nell’ascoltare quelle melodie che gli avvolgevano l’anima con il loro tepore.
Ren aveva la musica dentro e ne aveva regalata un po’ anche a lui.
Era la sua stella. L’unica del suo cielo.
 
Poi, improvvisamente, smise di fargli visita.
«Non dimenticarti di me… io non ho dimenticato nulla di te.»
Attese una, due settimane. Senza il suo sorriso solare, i suoi capelli biondi ed i suoi modi un po’ bruschi, ma pieni di buona volontà.
Forse fu allora che si accorse che, più che la sua musica, era lui a mancargli da morire.
E faceva male.
Fu suo padre a spiegargli che non sarebbe tornato.   «È un Jinguuji. La loro famiglia è una nostra rivale.» il suo tono era freddo e distaccato, riuscì ad infilare completamente il dito nella ferita del cuore di Masato fino a spaccarlo del tutto «Non voglio che tu lo veda ancora. Probabilmente voleva avvicinarti solo per arrivare a qualche informazione.».
Quelle parole penetrarono nella sua essenza come colpi di fucile. Aveva davvero abusato del loro legame? «Tutti gli uomini sono uguali, Masato, tutti si curano dei propri interessi. Prima lo imparerai, prima potrai difenderti da loro.».
Suo padre era un uomo rigido, severo, calcolatore, probabilmente tutto ciò che aveva desiderato in quel momento era impartire un insegnamento a suo figlio.
Ciò che ottenne, però, fu una cicatrice indelebile che non sarebbe mai riuscito a lavare via con un colpo di spugna.
Se fa così male, non voglio più legarmi a nessuno.
 
Lui era la sua unica stella.
Gliel’avevano portata via.
 
 
Richiuse la porta di colpo, davanti a sé. Qualcosa lo stava travolgendo come un fiume in piena. Emozioni, ricordi, speranze mai rivelate a nessuno.
Tutta una parte del suo mondo stava lentamente scivolando via dalle sue mani, come sabbia tra le dita. Mutilo di una parte di sé, finchè non l’avesse ritrovata.
Lo aveva rincorso per tutta la vita, limitandosi a guardarlo da lontano.
Tutto ciò che aveva voluto era scaldarsi con il tepore piacevole della luce di quella stella distante, che non avrebbe mai più potuto pretendere solo per sé. Passò rapidamente lo sguardo sulle mani, i palmi aperti davanti a lui. Tremavano. Non è possibile…
Una parte di lui si rifiutava con sdegno e riluttanza di accettare quella sensazione come testimonianza di un legame. Non voglio soffrire. La consapevolezza di essere soli è un peso insopportabile per chiunque. Specialmente per lui. Non voglio avvicinarmi. Per lui… e per me.
Ma mentre si ripeteva questo, cercando di convincersi a restare in camera e riposare, le sue gambe avevano già incominciato a muoversi verso l’uscita. Non riusciva a fermarsi, né a rallentare. I rumore ritmico dei suoi passi scandiva il tempo più del suo respiro affannato, irregolare. Correva a perdifiato, lo sguardo determinato ma, allo stesso tempo, iniettato di paura, di insicurezza. Paura di bruciarsi a contatto con quella fiamma.
Ma non avrebbe permesso più a quella stella di fuggire da lui, né il contrario.
Non dimenticarti di me.


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Note dell'autrice ~


E allora... eccoci di nuovo qui! Chiedo umilmente perdono a tutti i lettori per aver impiegato così tanto per scrivere, ma sono stata impegnata con alcuni problemi e, soprattutto, con la maturità i cui risultati mi sono arrivati solo oggi. Avevo anche perso un po' l'ispirazione, perchè questo doveva essere un "capitolo di passaggio", intermedio, e avevo paura di risultare scontata o ripetitiva. Adesso ho più che altro timore di essere diventata pure confusionaria, ma nel prossimo capitolo cercherò di spiegare il tutto al meglio. Vi anticipo che la fanfiction si avvia verso la fine, i nodi presto verranno al pettine! Conto di fare un altro paio di capitoli al massimo, vedremo. 
Stavolta ho puntato molto su Masato, spero di non pentirmi di questa scelta, perchè fino a questo momento il perno è stato Ren.
Ah, ho visto anche che è stata subbata la seconda serie di Utapri... chiedo venia ma non ho ancora avuto modo di vederla, me la godrò appena avrò tempo... quindi prendete questa fanfic come un seguito alternativo della prima stagione :3
Detto ciò, ringrazio tutti coloro che mi supportano e vi chiedo di recensire se avete qualche consiglio da darmi, anche critiche purchè siano costruttive (L)
Un bacio a tutti, al prossimo capitolo!

River ~

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