Terra e porpora

di Melian_Belt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo mondo ***
Capitolo 2: *** Una casa troppo grande ***
Capitolo 3: *** Una bella storia ***
Capitolo 4: *** Uno strano nome ***
Capitolo 5: *** Un uomo particolare ***
Capitolo 6: *** Un bel posto ***
Capitolo 7: *** Un padrone troppo buono ***
Capitolo 8: *** Uno sguardo perso ***
Capitolo 9: *** Un tipo sgradevole ***
Capitolo 10: *** Un vecchio dolore ***
Capitolo 11: *** Una inaspettata novità ***
Capitolo 12: *** Uno stupido motivo ***
Capitolo 13: *** Un mondo di ombre ***
Capitolo 14: *** Una scelta fortunata ***
Capitolo 15: *** Un tramonto troppo rosso ***
Capitolo 16: *** Un destino incerto ***
Capitolo 17: *** Uno specchio infinito ***
Capitolo 18: *** Una stella custode ***
Capitolo 19: *** Una decisione dolorosa ***
Capitolo 20: *** Un futuro tutto mio ***
Capitolo 21: *** L'uomo col nome della stella ***



Capitolo 1
*** Un nuovo mondo ***


Roma, 410 d.C.


Dicono che un tempo le condizioni degli schiavi fossero peggiori, che ora la società sia più clemente. Ora se un padrone è troppo  crudele è costretto a venderti, o a pagare se ti uccide. Ora se tua madre è stata libera per un periodo tra il concepimento e la nascita, nasci libero anche se sei un bastardo senza famiglia alle spalle. Lo chiamano favore di libertà. Se tutto questo è vero, perché un padre può vendere il proprio figlio?
Io nemmeno me lo ricordo così bene mio padre. Ma sono sicuro di aver avuto dei fratelli e di venire da qualche parte su nel nord, dove faceva freddo e dove ho rimediato gli occhi blu, unico dono fattomi da qualunque luogo io provenga. A quanto ho sentito dire dal mio primo padrone, fui venduto per qualche moneta, l’ultimo nato di una serie di figli impossibile da sfamare. Dei motivi che mi hanno portato ad essere schiavo, del perché proprio non avessero potuto tenermi, ormai non ci penso più tanto come quando ero bambino. Mi sono stancato.
Ripenso a quei pochi avvenimenti che hanno segnato la mia vita, mentre mi lascio condurre per le strade caotiche, affollate di così tanta gente che mi chiedo se oggi non si sia radunato il mondo qui. Il mio primo padrone era un vecchio padre di famiglia con due figlie femmine e nessun maschio, vedovo di una moglie che in eredità gli aveva lasciato enormi terreni. Gli servivano molte braccia per coltivare e per quello i miei genitori lo convinsero a comprarmi, nonostante fossi troppo piccolo anche per alzare una pala. Seminavo, passando le ore chino sul terreno, o scacciavo gli uccelli se non c’erano erbacce da sradicare. Era un bravo vecchio, che aveva passato gli ultimi anni della sua vita a parlare per ore con gli uomini di Chiesa della zona, a pregare.  Poi le figlie si erano sposate e i terreni erano finiti nelle loro doti, insieme agli schiavi che ci lavoravano. Uomini disinteressati allo sviluppo agricolo, più impegnati alla vita sociale che altro, i mariti avevano venduto molti di noi ai vicini, tanto per loro non eravamo utili così in tanti.
Fu allora che scoprii lati dell’umanità che avrei preferito rimanessero dall’altra parte della strada rispetto a me. Ormai ero un ragazzo, irrobustito dal lavoro nei campi, ma avevo mantenuto la pelle chiara. Lì, non è che ci fosse molto sole. A quanto pare, la pelle bianca e gli occhi chiari piacciono. Di sicuro piacevano al mio nuovo padrone, un relitto dell’antica nobiltà cresciuto su fondamenta ormai consunte di vecchie tradizioni morenti. Nessuno è mai riuscito a capire la mia indole orgogliosa da dove sia scaturita. Un uomo cresciuto schiavo dovrebbe essersi adattato alla sua condizione di cosa. Ma io ero una cosa schifata da certi utilizzi che se ne potevano fare. Ed ogni volta che penso a quelle mani impreziosite da anelli e profumate di oli sulla mia pelle, la rabbia torna viva come il fuoco quando si soffia sui carboni morenti.
 
Troppa gente. Nemmeno l’aria sembra abbastanza per tutti. E questi grandi palazzi di marmi colorati, le statue di bronzo, i teatri. Sembra di essere in un altro mondo rispetto alle campagne dove ho vissuto finora e mi chiedo come ci sia finito io qui. Non che abbia avuto scelta, tanto per cambiare. A disagio, cerco di evitare il contatto con le persone accalcate, mi preoccupano soprattutto i soldati di passaggio, con i loro sandali chiodati. Essere pestato da uno di quelli non deve essere piacevole. La piccola carovana di schiavi si ferma e sospiro. Il pensiero di trovarmi in un luogo così diverso, con padroni a me del tutto estranei, mi turba. Peggio degli ultimi due non potranno essere, no? Ma questo mondo così diverso mi toglie ogni sicurezza. Forse qui hanno costumi diversi e i loro modi di divertirsi peggiori di quelli da me già sperimentati. “Ti vedo sovrappensiero”. Mi giro, osservando cautamente lo schiavo alla mia destra. Uno degli uomini che ci controlla si gira a sentirlo parlare, ma per il resto non da segno di voler fare nulla. Lo schiavo sarà sui trent’anni, forse un po’ di più. Non è troppo alto ma in compenso ha un fisico taurino. Storco la bocca: “Può darsi”. Sembra stupito dal suono della mia voce. Non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo, non che mi importi. Sorride: “Accidenti, hai una voce bella profonda tu. Con quei lineamenti androgini non si direbbe”. So che il colore dei miei occhi dà un taglio gelido allo sguardo, che in molte situazioni mi riservo di utilizzare: “Prego?”.
“Siamo quasi arrivati, forza muovetevi!”. In due rapide falcate mi distanzio, cercando di allentare la presa delle catene intorno ai polsi. Non è che pesino troppo, ma dopo tutte queste ore di cammino sento che le spalle si stanno staccando dal polso.
Prendiamo una stradina leggermente in salita, passando per un lungo portico colonnato. Alle spalle di una grande basilica si apre la porta ad una domus immensa, costruita a ridosso di altre, sempre grandi seppure meno imponenti. Veniamo condotti in un piccolo cortile interno costellato di aiuole curate in modo quasi maniacale. C’è un pozzo e poco distante una fontana i cui zampilli brillano alla luce del sole. I muri sotto il portico sono tinteggiati di rosso acceso, con piccole figure geometriche. Una serie di lucernari in bronzo è allineata tra le colonne, a illuminare la strada di notte. Ma in che razza di casa sono finito?
Sento delle risate e due bambine escono dall’interno della casa, spingendo in avanti un cerchio di legno. Mi sfugge un sospiro: non so perché, la vista di bambini mi tranquillizza. Come se mi aspettassi di trovarmi in una casa di esseri semi-umani. Un uomo dai capelli marrone scuro e la barba corta esce, andandoci incontro: “Sono tutti i nuovi schiavi?”. L’uomo che ci conduceva annuisce: “Sì. Il nostro compito è finito, come da contratto. Ora se scappano sono affari vostri”.
“Aspettate. Il padrone li vuole vedere prima. Spero non ci siano vizi nella merce di cui non ci avete parlato”.
In quel momento, da una porta collegata al giardino, esce un uomo. Porta una tunica bianca con una fascia rossa che gli circonda una spalla. Non è troppo alto, o per essere più preciso non lo è rispetto a me. Sono sempre stato esageratamente…elevato. Altro dono delle mie origini del nord, qui al sud non c’è quasi nessuno che arrivi a superarmi la spalla. Quando si avvicina e posso fare un paragone, noto che rispetto alla media di qui deve essere considerato, se non un gigante, discretamente alto. Ma la prima delle sensazioni che mi dà nell’accostarsi, è di rilassamento, anche se non totale. Mi fido molto dei miei istinti, se c’è qualcosa che non va in una persona, nel senso che potrebbe rivelarsi un pericolo nei miei confronti, lo sento a pelle. E quest’uomo sugli ultimi anni della trentina, i capelli neri corti e gli occhi grandi, non mi incute alcun timore. Le iridi sono di un marrone simile al colore delle castagne, sarà che sono grandi ma brillano più di quanto faccia in genere una tonalità così comune da queste parti.
Il suo sguardo si poggia per un attimo su di me. Al solito, attiro l’attenzione. Ma è questione di un istante. Annuisce: “Bene. Potete andare”. Gli incaricati dai nostri precedenti padroni di portarci qui, se ne vanno. Vengo liberato dalle catene ma quasi non me ne accorgo. Nella testa continua a ronzarmi la voce roca del nuovo padrone della mia vita.   

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Capitolo 2
*** Una casa troppo grande ***


 
La casa è tanto grande che potrei perdermici. I pavimenti decorati a mosaico variano da piano a piano, anche se non vado spesso ai piani superiori. Mi chiedo a cosa possa servire un’abitazione così immensa, ci saranno almeno una cinquantina di schiavi al servizio della famiglia e qui vivono insieme al padrone sua sorella con marito e bambini, la vecchia madre e credo almeno cinque parenti più alla lontana, senza contare le decine di ospiti che gravitano spesso intorno alla casa, i clienti, gli amministratori. E ancora si trovano aree vuote. Un secondo cortile con un porticato in legno è costellato di aranci ora in fiore, aiuole e una grande vasca che al momento è usata per fare crescere enormi ninfee, insieme a pesci colorati di fogge mai viste.
Se c’è un luogo che sicuramente è sempre occupato, è la parte riservata alla palestra, alle piscine, alle terme. Dove vivevo in precedenza c’erano strutture simili, ma erano pubbliche. Questa famiglia ha delle terme in casa, sempre piene di ospiti. Da quanto ho sentito dire, gli antenati del padrone sono stati senatori da prima della nascita dell’Imperatore, ma se c’è qualcosa che so dei romani, è che spesso esagerano. Hanno delle case fuori città, al Sud. Dei terreni dove altre decine di schiavi coltivano i campi e pascolano le bestie. È assurdo pensare che pochi abbiano così tanto, una ricchezza immensa e potere sulla vita di decine di persone. Eppure, a guardare il padrone camminare taciturno per le ricche sale, non si direbbe un uomo di tale potere. Il suo sguardo scuro si posa su cose niente affatto interessanti e rimane lì assorto, le mani raccolte dietro la schiena. La cosa che fa più spesso è sedersi nei giardini della casa, lunghi rotoli di papiro stretti tra le dita. Un po’ legge, un po’ si distrae guardando ciò che ha intorno. Con gli schiavi ha uno strano modo di fare, non rivolge quasi mai loro la parola. A gestire le decine di dipendenti, sotto la sua sporadica supervisione, è un tale Doroteo, schiavo intorno alla quarantina. Un tipo dallo sguardo severo ma che sembra non perdere mai la calma.
Per quanto mi riguarda, non mi interessa davvero ciò che succede nella casa. Ma non mi interessa nemmeno avere rapporti di alcun tipo con gli altri schiavi, quindi osservo e basta. Il padrone non è sposato, stranamente, anche perché sembra che gli piacciano i bambini, i pochi sorrisi che fa li esibisce quando prende in braccio le nipotine. Non mostra i denti ma solleva le labbra, portando appresso le guance un poco sporgenti e un breve scintillio nei grandi occhi castani. Solo la sorella lo chiama per nome: Giuliano.
Una sera mi sono ritrovato a ripeterlo nel buio e nel silenzio. Giuliano. Hm…niente di speciale. Non ha niente di imponente, niente di esotico. Mi trovo a ridacchiare amaramente, il petto che risuona delle vibrazioni: parlo io, che non ho nemmeno un nome. Non è che serva molto, il nome di uno schiavo qualunque. Ed io non ricordo come mi chiamassero i miei, o forse non voglio nemmeno ricordarmelo. Quelli che mi hanno abbandonato non possono darmi un’etichetta come il nome.
Per i primi giorni pulisco i piani inferiori e il cortile. Rispetto ai lavori pesanti della campagna è quasi rilassante, se non monotono. E almeno qui non ho quei “dopolavoro” che piacevano tanto ai padroni precedenti. In casa vivono anche delle concubine, quattro o cinque, ma non ho chiesto a chi dispensino i propri servigi. Al padrone immagino. Eppure tutto quello che vedo fare loro è passeggiare, andare in giro per Roma nei bei vestiti ricamati e fare il bagno nelle piscine. Non ho nemmeno chiesto se il padrone abbia degli amanti maschi, non voglio passare come un povero disgraziato con queste paure.
Una settimana dopo il mio arrivo, mi mandano nelle stalle a sistemare fasci di paglia. Sono al coperto e il sole non arriva ma, abituato alle temperature del nord, sento il caldo appiccicarmisi addosso e togliermi pian piano le forze. Quando finisco è quasi sera, sono così stanco che non ho nemmeno voglia di mangiare, ma devo aiutare nelle cucine e lì fa ancora più caldo, tra le decine di fuochi e pentoloni bollenti. Col passare dei minuti arriva la fame, non ho mangiato quasi niente in tutto il giorno. Ma porta il cibo lì, pulisci là, non ho nemmeno il tempo di respirare. Una ragazzotta dai capelli mori e cespugliosi mi passa malamente un vassoio colmo di frutti: “Portalo nella sala”. Chiudo la bocca in una linea sottile, socchiudendo gli occhi. Non ha detto niente di strano né fatto niente di male, oggettivamente. È il suo stesso essere che mi disturba. Mentre esco, una delle schiave mi guarda, abbozzando un sorriso. Dovrebbe essere suadente? Sollevo scocciato gli occhi al cielo. Nel corridoio l’aria è più fredda e rabbrividisco per il cambiamento brusco.
Nella grande sala dove si cena sono poggiati molti tavolini in argento pieni di cibo e bevande, intorno ai quali sono riuniti i commensali beatamente poggiati sui cuscini. Gli odori si mescolano insieme e il mio stomaco si ribella, indeciso tra la nausea e la fame. Mi gira la testa e la scrollo, cercando di non inciampare in niente mentre mi faccio largo verso il tavolino del padrone. È seduto con la nipotina più piccola sulle ginocchia, che cerca invano di aprire una noce. Lui sorride e ne prende due, chiudendole nel pugno della mano. Quando stringe si sente il rumore delle cocce che si rompono e le porge alla bambina, che con le dita sposta il commestibile da quello che non lo è. A quanto ho sentito ha dei problemi di vista e lo zio le dà una mano, mettendo via i cocci. Con un profondo respiro poggio il vassoio su un tavolino, prendendo quello ormai vuoto. Solo ora il padrone alza la testa a guardarmi. I suoi occhi rimangono fissi nei miei, uno sguardo troppo profondo per i miei gusti. Corrugo la fronte. Vorrei chiedergli perché mi sta fissando e di smetterla, ma ovviamente non posso. Non posso mai fare nulla di quello che davvero voglio. Come se una sedia scegliesse d’improvviso di diventare una ballerina e suonatrice d’arpa. Semplicemente non può.
Finalmente distoglie lo sguardo e si allunga verso il tavolino. Dalle maniche lunghe della tunica si intravede il muscolo del braccio sinistro, definito ma allungato. Molti nobili romani a quanto ho potuto vedere, tengono all’allenamento. Passano ore in palestra e nelle piscine, ma non credevo che anche lui fosse così, forse per l’aria calma e distante. Afferra una mela e me la porge. Io rimango immobile. Cosa diavolo vuole questo? La soppesa nella mano: “Prendila. Sei bianco come un cadavere”. Incerto e con quello che so non essere uno sguardo amichevole, allungo la mano. I colori delle nostre pelli sono diversi, la sua del colore del miele all’eucalipto lo sembra ancora di più contro la mia. Aspetta…da dove mi è venuta fuori la metafora? Afferro velocemente il frutto e ritiro la mano. Mi schiarisco la voce, incerto su cosa fare. “Hm…grazie?”. Spalanca appena gli occhi, piegando la testa di lato. Poi sorride: “Bella voce”. Abbozzo un mezzo sorriso, tra l’interdetto e il preoccupato. E me ne vado, evitando accuratamente di evitare ogni sguardo, compreso quello di un giovinetto che mi sembra fin troppo interessato. Pelle bianca della malora…
 
So bene che è la terza volta che pulisco questo punto del pentolone, ma non faccio che distrarmi. Non mi sono mai interessati gli uomini, nemmeno le donne ad essere sinceri. Allora perché continua a tornarmi in mente il suo sorriso e la sua voce mi riecheggia nelle orecchie? Ha un gran bel sorriso ecco tutto, gentile, ed io non sono abituato a niente di gentile. Dev’essere per questo e la sua voce ha un timbro particolare, un po’ roco ma vivo e pieno di sfumature. Sembra un’altra lingua rispetto a quella che sentivo nella campagna. “Ehi…” uno mi si avvicina. Da come è vestito e dai suoi capelli, capisco che è uno di quelli che qui chiamano schiavi puliti. Quelli che non si sporcano mai le mani, che non fanno lavori pesanti, ma si occupano dei bambini, che i padroni abbiano il necessario, di quello che si mangia. Lo fulmino mentre mi giro verso di lui e devo abbassare lo sguardo per incrociare il suo: “Sì?”. Anche lui rimane stupito dalla mia voce. Che cosa terribilmente noiosa. Sbuffo, incrociando le braccia al petto: “Che vuoi?”. Solleva una mano, agitandola nell’aria: “Sì beh…come ti chia…”
“Non ho un nome” taglio corto. Rimane immobile per un secondo, poi scrolla le spalle. “Il padrone ti vuole nel sua stanza personale. Muoviti”. Un frastuono mi echeggia nelle orecchie, ma intorno a me nessuno ha fatto movimenti bruschi o parlato a voce troppo alta, né fatto cadere qualcosa. È il mio cuore che batte a ritmo di danza e qualcosa nel mio petto deve non funzionare, se lo sento nella testa. Rimango pietrificato. “Hai capito?”. Annuisco appena, troppo paralizzato per dare la rispostaccia che vorrei. Quello se ne va e io spero che non fosse mai arrivato. Ma per quanto cerchi di convincermi che si è trattato di un sogno ad occhi aperti, come tattica non funziona. No, non di nuovo. Non voglio che succeda di nuovo, basta!
Mentre mi dirigo a passi lenti nella stanza del padrone, mi vengono in mente varie vie di fuga. Potrei lanciarmi giù per le scale e farmi male, ma questo non mi terrebbe al sicuro a lungo e nemmeno è detto che funzionerebbe. Occhieggiando i bracieri disseminati qua e là, penso che potrei sfigurarmi. Ma no, non permetterò ai miei padroni di farmi anche questo. Sospiro, sperando che si tratti di un evento sporadico, che si tolga lo sfizio e poi mi lasci in pace.
Ingoio il masso che mi si è fermato in gola prima di bussare. “Avanti”. Serro la bocca e chiudo gli occhi per un attimo, poi entro. Il padrone è seduto su uno sgabello, intento a sistemarsi un sandalo i cui lacci evidentemente si sono rigirati. Alza la testa: “Ah, eccoti”. Incastro le dita delle mani dietro la schiena, senza dire niente. Lascia lo sgabello e si avvicina di un paio di passi: “Non sapevo il tuo nome, ma a quanto pare è bastato dire quello nuovo con gli occhi blu per farsi capire”. Rimango in silenzio, evitando accuratamente di guardarlo. Si rischiara la voce. Aspetta un attimo…non sarà in imbarazzo vero? Mi ci manca sono lo sfruttatore imbranato: “Come…come ti chiami?”. Ora lo fisso, tutta la rabbia che provo annidata negli iridi che quasi fanno male. “Il mio primo padrone mi chiamava Marco, il secondo troia ed il terzo coso. Decidi tu il prossimo, padrone”. Gli ho praticamente sputato il titolo in faccia, cosa poco furba da parte mia. Ha gli occhi leggermente più aperti del solito e mi osserva interdetto. Si morde il labbro inferiore: “Ah…”. Ancora una volta si rischiara la voce: “Hai attirato la mia attenzione prima, in sala, perché…”. No, questo no. Tutto tranne questi ridicoli preamboli. La voce mi esce a scatti dalle labbra serrate: “Sì immagino. Ora vogliamo cominciare così ci diamo un taglio?”. Stavolta stringe chiuse le labbra. Apre la bocca per ribattere, ma la richiude. Con un gesto meccanico, porta un braccio verso il grande armadio attaccato al muro, pieno zeppo di scartoffie: “…sei alto”. Cade il silenzio, interrotto dopo qualche secondo dalla mia voce: “Cosa?”. Si avvicina all’armadio, indicando lo scaffale più alto. Abbozza un sorriso, tra il divertito e l’imbarazzato: “Credo proprio che tu sia il più alto della casa. Io non ci arrivo, potresti…”. Oh.  

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Capitolo 3
*** Una bella storia ***


Socchiudo la bocca, serrandola nuovamente in una linea sottile quando l’entità della mia pessima figura viene compresa dal cervello. Perfetto, sono veramente un deficiente. Emetto un sospiro nervoso e rapidamente mi accosto all’armadio, allungandomi sulle punte per raggiungere i papiri dell’ultimo ripiano. Il padrone si è allontanato di un paio di passi e sembra intento a fissare l’assoluto nulla, le mani giunte dietro la schiena come sua abitudine. Ma da quando mi interessano le abitudini della gente? Gli porgo i quattro papiri che sono riuscito ad afferrare. “Sono questi?” la voce mi è uscita bassa, contribuendo a sottolinearne la profondità. Fingo un colpetto di tosse, sentendo l’impellente desiderio di andarmene. O forse no. Insomma, non è che ci siano cose fantastiche ad attendermi uscito di qui. Scuoto leggermente il capo: perché, che diavolo ci dovrebbe essere di fantastico in questa stanza? Il padrone mi guarda in silenzio, l’espressione che non muta nonostante debba aver notato i miei gesti inconsulti. Probabilmente è una di quelle persone che manifestano la propria perplessità rimanendo impassibili. Bene, sono i meno imbarazzanti per quanto mi riguarda.
China lo sguardo sui papiri e li prende, abbozzando un sorriso quando torna a guardarmi: “Grazie”. Mi piace il modo in cui sorride e questo non va bene. “E smettila di sorridere”. II silenzio che segue mi fa capire che sì, l’ho detto ad alta voce. Stavolta sbarra leggermente gli occhi e si morde appena il labbro inferiore.
Il mio carattere di ghiaccio va in frantumi mentre porto le mani avanti: “M-mi spiace io…”. Le agito nell’aria, prima di lasciarle cadere a peso morto sui fianchi. Chiudo gli occhi: “Accetterò qualsiasi punizione, padrone”. Il viso mi si contrae quando mi rendo conto della stupidaggine appena detta, che si va a mettere in fila con le altre. La mia accettazione, come se gli servisse.
“Ehm…”. Guarda i papiri che ha in mano, poi il tavolino, infine me. Solleva leggermente le spalle: “Non c’è problema”. Indica la porta con la testa: “Puoi andare…”. Si interrompe, il fatto che non ho un nome gli impedisce di terminare la frase come da intenzione. Non me lo faccio ripetere due volte e mi volto per andare via, ricordandomi solo sul corridoio di fare un lieve inchino.
Scivolo per i corridoi semibui, la mia ombra rapida sulle pareti stuccate. Non so nemmeno dove conducano le strade che imbocco e continuo a camminare per qualche minuto, fermandomi solo quando l’aria fresca mi avvolge. Mi appoggio con la schiena ad una delle colonne del porticato e accolgo nei miei polmoni quanta più aria possibile, prima di lasciarla andare in respiro tremolante. Mi passo una mano sul viso, lasciandola penzolare all’altezza della bocca. “Non posso crederci…” sussurro, i muscoli che mi si irrigidiscono per il nervosismo. Cosa mi è preso? Non può essere stata…attrazione quella che ho provato. Il solo concetto legato alla parola mi da il voltastomaco. In questo mondo nessuno merita niente, nessuno mi hai mai dato niente. Sono un uomo e non posso nemmeno decidere di andare a vedere il mare. Non l’ho mai visto il mare, non riesco a immaginare come possa essere un’enorme distesa d’acqua, non so nemmeno come sia la terra sotto di essa, che sapori, che odori, che rumori siano quelli marini.
Si contano sulle dita della mano le cose che posso scegliere riguardo alla mia vita e tutte si riferiscono al mio sentire, al mio pensare. Azioni che non sono connesse nella mente delle persone di questo mondo agli schiavi. Forse da qualche parte non esistono schiavi e padrone, ma anche se fosse a me che me ne fregherebbe?
L’unico modo per riconoscermi, collegarmi all’idea di qualcosa di umano, era distinguermi. Io sono al di fuori degli altri, i miei padroni potranno decidere del mio corpo, ma dentro di me governo io e solo io. Ed ora, finalmente libero dalle mani di coloro che mi strappavano goccia a goccia la dignità, sbavo dietro al nuovo padrone. Anche il poco controllo che avevo sulla mia vita, gettato nello sterco.
Lo so che ti piace”. Scaccio via una mano invisibile che mi teneva il braccio, ma altre dita scendono sulla mia pelle, sporcandola. La voce odiosa rimbalza nella mia testa, sempre più forte e veloce. Chiudo gli occhi, mi lascio scivolare a terra, le dita strette intorno ai riccioli appena accennati.
 
Non è la prima volta che sono contento di avere molto lavoro, mi aiuta a non pensare. E al momento ne ho davvero bisogno. Al mattino ho pulito la stalla, tanto per variare e andare sul profumato. Poi ho setacciato le acque delle vasche della casa in cerca di sporcizie, ora mi tocca spaccare la legna, un lavoro di muscoli che mi permette di sfogare al meglio la tensione. Un colpo ben assestato, forse anche troppo vigoroso, e il ciocco si spacca a metà. Lo lancio con poca cura sugli altri già tagliati e una voce mi chiama. “Ehi…tu!”. Sollevo gli occhi al cielo. Decisamente è il momento di risolvere questo problema. “Tu” non è un nome particolarmente affascinante. Incastro l’ascia nel ciocco seguente, lasciandola lì mentre mi giro. Raccolgo le braccia al petto e scruto impassibile chi è l’ennesimo che ha osato avere a che fare con me. Schiavo. Mai notato prima. Dimenticabile. “Bisogna pulire il giardino interno, ci sono ospiti domani”. Non bado di rispondere e mi asciugo le mani sudate sulla veste. Prendo al volo una scopa abbandonata e nelle mie solite falcate mi dirigo in giardino, sperando di essere l’unico con questo incarico e quindi non avere nessuno a rompermi le scatole.
Il buio scende, coprendo ogni cosa, i fuochi accesi per la casa avversari poco utili a contrastarla. Mi chino per raccogliere un coccio, rimanendo immobile e trattenendo un’esclamazione poco educata quando le nipotine del padrone arrivano correndo, una con un po’ più di cautela non potendo distinguere nemmeno un cavallo da suo zio con questo buio e la vista non perfetta. La maggiore si gira, facendo un ampio cenno con il braccio: “Zio, vieni?”. È una questione d’istinto la velocità con la quale mi nascondo dietro una colonna. Per un attimo penso di andarmene, ma non mi piace l’idea di lasciare il lavoro a metà. Forse passerò inosservato. Ma poi perché mi interessa essere notato o meno? Semplicemente non mi va, ecco tutto.
Il padrone si passa una mano tra i capelli, mentre l’altra viene presa da una nipotina vergognosamente entusiasta. “Ci racconti le stelle, zio?”. Corrugo la fronte: ma che gli danno da bere ai bambini? L’uomo alza lo sguardo verso il cielo, intrattenendosi un attimo a scrutare i puntini luminosi del cielo. Accarezza distrattamente la bambina sulla testa e si siede su uno dei lettini al centro del prato. Le due cimici si arrampicano su di lui, appollaiandosi ognuna su una gamba. Mi affaccio da dietro la colonna, stringendo il labbro inferiore tra i denti. È strano pensare che sia una bella scena?
Il padrone guarda le stelle, spostando il capo da un lato all’altro: “Allora…di quali non abbiamo mai parlato prima?”. E di colpo il tempo non sembra avere più la grande importanza che gli attribuiamo. Le parole, convenzioni degli uomini, diventano qualcosa di più grande nel descrivere eteree anime i cui nomi hanno tante storie, così tante e melodiche che credi davvero lì ci siano chiome di regine e cani fedeli. Così tante che ora ti appaiono come una congregazione di sorelle che ti scruta dall’altra, ognuna con il proprio carattere e i propri vissuti. La minore tace, immersa nei racconti, lo sguardo immobile. La maggiore, che può vedere le stelle, segue il dito dello zio, che traccia linee immaginarie d’improvviso quasi reali. “Quella? Quella è Antares, la rivale di Marte”. Piega leggermente il capo e rimane immobile, ricominciando con voce distante. “È rossa come Marte, ma non è il rosso della guerra, del sangue, è il rosso del cuore”. Abbozza un sorriso imbarazzato, schiarendosi la voce: “Quindi protegge le persone irascibili, forti, che amano la vita nella loro pienezza. È la stella di chi non ama la guerra e il sangue che portano morte, qualunque cosa impedisca loro di vivere con pienezza”.
Lascio che la mia mano scivoli giù per il marmo freddo, rendendomi conto solo ora di essere rimasto immobile per tutto questo tempo. Mi strofino un muscolo indolenzito, cercando di intrappolare nella mia memoria, che per fortuna è eccellente, tutte quelle storie.
“Lavinia, Flavia, venite subito a dormire!”. Non ho mai odiato tanto la voce della sorella del padrone come in questo momento. Ma non poteva nascere muto quel demone? 
 

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Capitolo 4
*** Uno strano nome ***


Le due bambine rientrano in casa, lasciando il padrone solo nel giardino. Vedo la sua schiena piegarsi in avanti, i gomiti poggiati sulle ginocchia mentre incrocia le dita. Va bene, direi che ho perso abbastanza tempo. Prendo il sacco dove avevo raccolto la sporcizia, bloccandomi quando i cocci al suo interno cozzano l’un l’altro in un confuso ticchettio. Non perdo tempo e faccio per imboccare il corridoio che porta all’interno della casa, ma il padrone mi chiama. Lentamente e con riluttanza, mi giro. Mi sta guardando, il viso imperscrutabile. Rimaniamo immobili, io che sposto il peso da un piede all’altro senza accorgermene. Smetto, innervosito da un gesto che dimostra insicurezza, almeno per me. “Hai…” si schiarisce la voce. “…hai in mente un nome, che ti piacerebbe? Non so…” scrolla le spalle, senza continuare. Lo fisso, sforzandomi di mantenere l’espressione più gelida possibile: “Non mi interessa”. Corruga la fronte: “Non ti interessa?”. Un sorrisetto serafico mi piega le labbra prima che possa impedirlo: so che mi dà l’aria da bastardo: “Perché dovrebbe? È solo un modo in cui la gente mi chiamerebbe”.
“E a te la gente non interessa”. Stavolta sono io a stupirmi, io che mi credevo in grado di prevedere tutto ormai, di assistere impassibile ad ogni cosa con tutto quello che mi è successo nella vita. Negli ultimi giorni ho sempre visto il padrone come uno che non dà mai giudizi, la sua testa assorta in un mondo astratto che ha poco a che fare con quello degli altri. Ed ora eccolo lì, il primo che abbia effettivamente detto qualcosa giustamente riferibile a me. Gli occhi marroni sono leggermente illuminati dal fuoco di un braciere, le sporgenze del viso accentuate dal gioco di ombre e luce. Ma nemmeno così ha un aspetto minimamente grottesco o inquietante, i grandi iridi di chi pensa troppo e i lineamenti tranquilli troppo aperti per essere trasfigurati.
Sbatto le palpebre per convincermi di essere vivo. “Infatti” ribatto, con una nota di incertezza nella voce che mi impedisce di riconoscerla per la mia. Un lato della sua bocca si incurva appena, un accenno di sorrido che nasconde nella mano. “Non…” esordisco, ricacciando subito le parole in gola. Mi mordo il labbro inferiore, una smorfia in viso mentre mi costringo ad andare contro la mia solita attitudine e terminare la frase: “Ieri sera, non intendevo sul serio dirti non sorridere”. Scuoto la testa, un ricciolo che mi va a coprire appena un occhio. “Lo so che non conta che io te lo dica o meno, giusto?”. Ora riconosco il ghiaccio nel mio caro, vecchio tono, un gelo arrabbiato di chi non può esplodere come vorrebbe.
Chiudo gli occhi per cercare di contenere la rabbia che veloce come un fulmine mi è salita in petto. Emetto un breve respiro, serrando poi le labbra. Il padrone si alza e, non so perché, io indietreggio di un passo. Ma lui non accenna a muoversi: “Da quanto sei schiavo?”. Vorrei sibilargli contro che lo sono da sempre, urlare che sono un figlio venduto, accusare il mondo intero. Ma i miei occhi si incastrano nei suoi, per la prima volta la sensazione di avere davanti qualcuno degno di una mia risposta. E la lunga mancanza di questo mi porta a rispondere, la voce ridotta ad un sussurro: “Da sempre”.
I suoi occhi si stringono appena: “Non l’avrei detto”.
Solleva il capo, tornando a guardare le stelle. Dopo qualche secondo, nasconde lo sguardo nell’erba, prima di tornare a guardarmi. Si passa appena le dita sui capelli della tempia: “Ti piace Antares?”. Quando si dice cambiare argomento. “Non so dove sia” ribatto, scocciato della brusca deviazione di argomento. Darei una testata contro il muro: come mi sono ridotto in basso, desiderare di parlare di me. Con il padrone poi, un fatto assurdo, ma che colpa ne ho io in fondo se l’unico con cui vorrei parlare è lui?
Mi fa cenno di avvicinarmi con la mano. Con pochi gesti meccanici, lascio cadere il sacco, accostandomi a lui il meno possibile. Anche da qui, riesco a sentire il buon odore che emana, un odore di pulito, di olio e di cereali. Scuoto il capo: che sciocchezze, mica è un tavolo per il pranzo… Devo avere le allucinazioni per sentire queste cose. “È facile da trovare” dice, la voce roca ruvida come un panno di fili di ferro contro il mio stomaco. “Ecco, vedi lo Scorpione?”. Traccia la figura nell’aria, io a disagio per una cosa che non ho mai fatto prima. È strano, perché non ho mai cercato immagini nelle stelle? Questo avrei potuto farlo. Poi comprendo. Ero troppo preso dal disgusto dentro e fuori di me per perdere tempo in attività così…umane, credo sia il termine giusto per definirlo. Così concentrato nel mantenere qualcosa dentro di me, non ho mai davvero cercato una via di fuga in attività che potessero distrarmi.
Chino il capo, una tristezza che speravo aver sconfitto torna a cercarmi. Anche se ora guardo le stelle, sono sempre uno schiavo. Prendo un respiro profondo, dimenticandomi dell’uomo accanto a me. Fino a quando delle dite calde non mi si poggiano sulla spalla. Balzo indietro, nemmeno mi avesse punto un ape. Trattengo il respiro, fissando il padrone, leggermente interdetto. “Tutto a posto?”. Rimango immobile, cercando di ricordare quand’è stata l’ultima volta che mi è stato chiesto. Sorride, portando le mani avanti: “Stai tranquillo e chiudi un poco quegli occhi, sono talmente chiari che fanno paura così”.
Non posso fare a meno di trattenere un sorriso, che nasce spontaneo, quasi a specchio del suo: “Credo che siano in molto a pensarlo”.
“Può darsi” concede. “Ma sono belli”. Stranamente, il commento non mi mette a disagio. Sarà per il tono spontaneo, o per la sua espressione tranquilla. Con un cenno del capo mi invita a tornare vicino a lui. Obbedisco, la mente ed il corpo incredibilmente leggeri. Ora sta guardando un punto indistinto nel buio sotto il porticato. “A volte capita di essere tristi nei momenti più belli” dice, la voce decorata da una nota di imbarazzo. “O almeno, capita a me” aggiunge scrollando ironicamente le spalle. “Forse è per questo che ti rendono triste i momenti in cui non fai cose da schiavo”. Lo osservo, mentre lui ignora il mio sguardo. “Perché sai che non dureranno”. La voce gli si è abbassata, poco più di un mormorio. Un cipiglio malinconico gli tinge il viso. Non so da dove mi è escano queste parole: “Brutta cosa pensare troppo”. È colpito dalla mia risposta e lo stupore lascia il posto ad una breve risata, contenuta però: “Già. A quanto pare hai capito qualcosa di me, al contrario degli altri”.
Mi verrebbe da dirgli “lo stesso vale per me”, ma trovo una via di uscita chiedendogli: “Perché, gli altri cosa pensano?”. Sospira, ancora un sorriso sulle labbra: “Giuliano, l’uomo più distratto e…”. Agita una mano nell’aria: “…metafisico della famiglia. Il simbolo del termine della gloriosa stirpe romana: il temuto uomo tranquillo. Che purtroppo per tutti è nato primogenito, unico maschio”. Ha un tono buffo e rido, incuriosito da come suoni attualmente la mia risata. Fa strano per una voce scura come la mia, abituata a ben altri usi.
“Allora, questa Antares?”.
Ritorna indicare il manto stellato: “Quella è la costellazione dello scorpione. La penultima stella prima delle tre che formano la coda. È facile, la più grande, rossa. Le altre sono tutte azzurre”.
Aguzzo la vista, invano: “Io non vedo nessuna differenza di colore”.
“Fissale”. Lo faccio e piano piano scorgo dei riflessi: “Aspetta…credo di aver capito qual è. Ma perché volevi farmela vedere?”. Tutto mi sarei aspettato tranne la risposta che arriva: “Perché secondo me vi assomigliate”. È in imbarazzo, come indica il mezzo sorrisetto e il fatto che guarda a terra: “Insomma…come nome Antares non è il massimo ma…”
“Come nome…per me?”. Annuisce. Piego la testa verso una spalla: “Ma non è un nome da uomo”.
Si mordicchia il labbro inferiore. “No” ammette. “È greco per contro-Ares, contro Marte. Pensavo che…oh lascia stare”. Torno a guardare la stella. “Antares va bene” mormoro, la vista che si perde per la vastità di quanto c’è sopra di me.  
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Capitolo 5
*** Un uomo particolare ***


Rimaniamo in un piacevole silenzio, interrotto solo dalle voci dei passanti fuori dalle mura di casa. Prima di andarmene abbozzo un sorriso, non so se lo vede. Non mi inchino, tanto so che a lui non interessa e l’idea di poter prevedere il comportamento di qualcuno, perché lo conosco, mi da una sensazione di strana familiarità. Mentre mi lascio assorbire dalle ombre dei corridoi, penso che un po’ di umanità potrebbe non essere una brutta cosa, in fondo. Al mattino mi sveglio poco prima dell’alba, ma stavolta rimango sulla brandina nell’angolo della stanza. mi poggio una mano sulla fronte, un nome che continua ad echeggiarmi nella testa. “Antares” mormoro, cercando di collegare quel gruppo di suoni a me. Perché secondo me vi assomigliate. Chissà, forse con il tempo mi ci riconoscerò. E così mi tiro a sedere, una mano tra i capelli e un sorriso incerto sulle labbra: oggi ho davvero un nome. Ed è diverso da quello di tutti gli altri.
“Ehi” mi giro a guardare lo schiavo che si è affacciato sulla porta. Non mi interessa dirgli come mi chiamo, mi risulta innaturale e sarebbe solo una perdita di tempo. “Cosa?”. “Oggi hai il turno alle fornaci. Muoviti”. Corrugo la fronte. Questa è una cosa che non ho mai fatto e il pensiero di passare ore sottoterra ad alimentare un fuoco non mi attira particolarmente. “Per quanto?” chiedo lapidario, trattenendo note scocciate. “Quattro ore. Poi arriva il cambio”. Non aggiungo altro, mi alzo e sistemo un po’ la tunica, irrimediabilmente stropicciata e sporca. Forse dovrei chiedere come averne una nuova, ma non voglio certo chiedere l’elemosina a nessuno. Mi sciacquo il viso e lo lascio un po’ bagnato, prevedendo il calore che dovrò affrontare da qui a dieci minuti. Per arrivare alle fornaci che riscaldano le terme bisogna scendere per una scaletta vicino al salone centrale, usato soltanto per le occasioni più che speciali. I colori dei mosaici sul pavimento sono tiepidi, riprendendo l’acqua cristallina della fontana in fondo alla sala, sopra la quale vi è una nicchia con un grande vaso bianco. Un secondo piano a soppalco è sostenuto da colonne con capitelli dorati e vi sono sistemati lettini con gambe d’argento. Mi perdo un secondo appena a guardare: decisamente questa casa è diversa dalle precedenti. Imbocco la scaletta e dopo pochi scalini l’umidità mi si attacca alla pelle. Il corridoio è quasi completamente buio, ad eccezione del bagliore rosso che proviene dal fondo. Quando entro nella sala delle fornaci mi manca di colpo il respiro.
È ancora presto e i fuochi sono stati accesi da poco, ma l’aria stessa sembra un incendio. Grandi tubi in bronzo portano il vapore nelle saune e a riscaldare il calidarium ma una parte rimane qui. Le immagini degli altri quattro schiavi al lavoro sono distorte dai movimenti d’aria calda e strofino gli occhi quando mi si appannano. Cerco di respirare il meno possibile e solo attraverso il naso, altrimenti la gola prende fuoco e tossire rende solo la situazione peggiore.
Una grande clessidra serve per regolarsi con i turni e non posso fare a meno di guardarla spesso, imprecando sottovoce perché quella maledetta sabbia sembra rallentare apposta. Il sudore mi attacca i capelli alla fronte e lo sento scivolare giù per la schiena, la pelle è arrossata per la vicinanza alle fiamme. Nessuno di noi parla. Prima uno, poi l’altro e infine il terzo di quelli che stavano qui da prima di me se ne vanno, sostituiti abbastanza puntualmente da nuovi. Il lavoro procede quasi senza interruzioni e il tempo passa. Non sono sollevato quando l’ultimo granello del mio turno scivola via, non lo sarò fino a quando non arriverà il sostituto. Mi affaccio un attimo all’entrata, ma non si vede nessuno. Sospiro, togliendomi il sudore dalla fronte. Riprendo il lavoro, l’ultima cosa che voglio è fare la figura del lamentoso o del debole. Sto spalando carbone alla base della fornace ardente, quando i polmoni sembrano non volerne sapere di trovare aria. Chiuso gli occhi, lasciando cadere la pala mentre raccolgo la testa fra le mani. Cerco di concentrarmi, di respirare. Ma tutto quello che sento è un calore insopportabile. E l’oscurità si fa più nera.
La prima cosa che sento, è un dolore che stringe le mani, taglia i polsi e sale su per gli avambracci. La seconda, che non fa più caldo, ma c’è una brezza piacevole che mi accarezza i capelli. La terza, è che qui c’è un buon odore. Con un po’ di fatica, apro gli occhi, incontrando un soffitto con fiori in legno. Corrugo la fronte: ma dove diavolo…Mi giro, incontrando il viso sorridente del padrone. E di nuovo non posso fare a meno di pensare che mi piace quando sorride. È più di un sorriso in effetti. Più uno strano demone, che mi ammorba la testa e riempie lo stomaco di un solletico caldo.
“Ti ho fatto portare nelle mie stanze” mi informa, sollevando le spalle. È seduto su uno sgabello a lato del letto dove sono sdraiato, le dita delle mani incrociate in grembo. “Dici che sparleranno?”. “Raramente…non lo fanno”. La voce mi è uscita terribilmente roca, come se per uscire fosse passata per una grattugia. Tossisco appena e la gola si trasforma in cenere. Lo vedo alzarsi e tornare con una coppa d’acqua. Mi guarda incerto, spostando lo sguardo dal mio viso alle mie mani. Sollevo le braccia il minimo indispensabile per vedere che sono ricoperte di fasciature. La mia espressione stupita e dubbiosa lo spinge a spiegarmi: “Sei caduto sui carboni”. Mi mordo un labbro, destabilizzato dal non sapere come la mia pelle sia ridotta lì sotto. Mi mancano solo delle cicatrici da scherzo della natura per continuare in bellezza. Il padrone si siede sul bordo del letto: “Metteresti da parte l’orgoglio per…”.
Sembra pensarci sopra: “…cinque secondi?”. Annuisco, nascondendo le braccia tra le lenzuola: “Potrei”. Accosta la coppa alle mie labbra, alzandola un po’ per volta per far entrare il liquido fresco nella mia bocca. Se fosse stato qualcun altro, probabilmente lo avrei già calciato via. Ma con lui è come se esistesse un secondo me e davvero, non sono tanto sicuro che questa sia una buona cosa. Anche perché come al solito non posso sperare in niente di buono, davvero non dovrei essere così stupido da farlo. Quando allontana la coppa e incontro di nuovo il suo viso assorto, il mio per reazione si svuota di tutto, rimanendo una maschera apatica. Si tira in piedi, poggiando la coppa su un tavolino e prendendo una ciotola, al cui interno si muove una strana crema troppo viscida per essere guardabile e troppo verde per i miei gusti critici.
Torna sullo sgabello dove sedeva all’inizio, indicando le mie braccia: “Posso?”. Sempre più confuso, incastro lo sguardo tra le lenzuola: “Perché me lo chiedi?”. Mi viene da stringere i pugni, ma una scossa di dolore me lo impedisce. “Sei il mio padrone, perché diavolo chiedi il permesso?”. Ho quasi urlato stavolta e ne pago il fio quando la gola si ribella. Lo spio con la coda dell’occhio, i pensosi occhi marroni presi in chissà cosa. Si scuote: “Troppa filosofia greca, immagino. O troppo Seneca”. Quasi con noncuranza prende la mia mano destra e la soppesa nella sua: “Ti faccio male?”. I punti dove mi tocca sembrano volersi sciogliere, ma si aspetta davvero che dica di sì? “No” borbotto. Scuote appena il capo: “Che bugiardo”. Con una delicatezza che non ho mai collegato a questa vita, scioglie le bende, scoprendo la pelle ustionata. Il vento leggero che arriva dalla finestra aperta scivola come una lama sulle bruciature, ma non voglio guardare. Non voglio scoprire segni che sono destinato a portarmi per la vita.
Maneggia la mia mano tra le sue, sollevandola un poco per scrutare il palmo. “Puoi guardare. Non è così grave”. Le palpebre semichiuse, mi allungo per vedere il braccio, sospirando di sollievo nel constatare che a parte un rossore eccessivo e qualche bruciatura non ci sono danni. Sorride di nuovo e stavolta, senza farlo apposta, sorrido anch’io. “Il medico ha detto che in meno di sette giorni tornerai praticamente come nuovo. Basta…” prende la ciotola con l’altra mano. “Metterci questo”.
Mi sporgo per annusare, storcendo il naso all’odore acre e portando indietro il collo. Poggia il braccio sulle lenzuola, continuando a tenere la mano sotto la mia: “Sembri un gatto”. Con due dita, spalma l’untume sulla pelle in lenti cerchi, il colore verdognolo che man mano si fa sempre meno evidente. Il dolore sparisce ed è piacevole, davvero piacevole. Non capivo perché la gente si facesse fare i massaggi, ora sì. Le palpebre si appesantiscono, cullate da vibrazioni che dal braccio salgono per la spalla e giù per la schiena, un torpore che per un attimo, finalmente, porta via tutti i pensieri. E davvero, non credevo che sarei mai riuscito a farmi toccare da qualcuno senza ribrezzo o vergogna. Risollevo le palpebre, non è il caso di addormentarsi. La lingua è pesante dentro la bocca e le parole si strascicano quando mi sforzo di metterle una dietro l’altra: “Chi…è Seneca?”.
Un lieve bagliore gli illumina gli occhi, ma muore quando torna a concentrarsi sull’opera in corso: “È stato molte cose”. Sorrido malignamente: “Ne sei ammiratore, eh?”. Con finta aria colpevole annuisce: “Per quanto si possa ammirare un uomo morto secoli fa”. Lo studio per qualche secondo, questo strano uomo che racconta le stelle e guarda a uomini polvere da tempo. “E che diceva?”. Sposta gli occhi ad incontrare i miei, due cancelli ad una mente che davvero deve pensare troppo: “Che gli uomini sono fatti della stessa sostanza, schiavi e liberi”. Per un attimo si immerge nei suoi pensieri, la voce un poco distante: “E uno schiavo può essere libero nell’animo”. Abbozza un sorriso imbarazzato, prendendo delle bende pulite da in fondo al letto. Perplesso, cerco di assorbire quelle parole. Non che io non le abbia mai pensate, ma sentirle dire da un padrone è tutta un’altra cosa: “Tu…sei davvero…particolare”.


Grazie per aver letto! Se avete tempo, mi piacerebbe una vostra opinione! :D Grazie!

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Capitolo 6
*** Un bel posto ***


Abbozza un sorriso: “Sono stato definito peggio”. Corrugo la fronte, chiedendomi a chi mai potrebbe saltare in mente di offendere un romano come lui, padrone di talmente tante cose che probabilmente non se le ricorda nemmeno tutte. “Tu…” mi fermo, cercando le parole esatte. “…sei potente, vero?”.
Spalanca appena gli occhi, la bocca chiusa in un’espressione incerta: “Potente?”. Ripete, la voce arrochita. Io annuisco, rendendomi conto di quanto stupida possa sembrare come domanda. Ma cosa sono, un bambino petulante di cinque anni? Si schiarisce la voce: “Beh…sì, diciamo di sì”. Prende il mio braccio destro, sciogliendo tranquillamente le fasciature. “Come mai me lo chiedi?”.
Scrollo le spalle, evitando di guardarlo: “Se sei potente, non vedo perché tu debba accettare che ti descrivano male”. Lo intravedo che si volta verso di me, prima di ridere: “Se sono potente, non vedo perché uno schiavo possa dirmi cosa fare”.
Chino leggermente il capo. Ecco, perfetto, ho un padrone gentile e cosa faccio? Lascio che il mio orgoglio e il mio caratteraccio prendano il sopravvento. “Chiedo scusa” borbotto a denti stretti. Non mi piace scusarmi, specialmente per avere espresso una mia opinione, ma riesco a costringermi a farlo.
Ma il padrone sta sorridendo, le grandi iridi castane lucenti: “Era un esempio per mostrare il punto”. Comincia a spalmare l’unguento sull’avambraccio e non posso fare a meno di rabbrividire. “Male?”. Di certo rispondere che mi piace il suo tocco leggero è fuori discussione. “No” mormoro, mettendo nell’elenco delle cose da fare dare una testata al primo muro disponibile. Sto decisamente diventando stupido. Mi ritornano in mente i visi dei miei padroni precedenti e sento scorrere nelle mie vene l’odio provato nei loro confronti. Cerco con tutta la forza di volontà che ho di trasferire quel sentimento all’uomo di fianco a me, ma si dissolve come fumo non appena guardo i capelli castani illuminati dal sole nelle loro sfumature e le dita della mano fremono nel desiderio di sentire se siano morbidi come sembrano.
Con viso impassibile, riavvolge il braccio ferito in bende nuove. “Comunque…” dice, il tono della voce calmo e pacato. “…è la mia famiglia a criticarmi. Nessun altro si permette di farlo”. Sorride: “Il vantaggio e lo svantaggio del mio nome”. Bevo tutte le parole che escono dalla sua bocca e vengo attratto dal desiderio di seguirle fino alla fonte. Abbasso lo sguardo, prima di fare qualcosa di completamente impensabile per lo schiavo che prima non aveva un nome. “Ah” è tutto ciò che riesco a commentare.
“A parte te”. Sollevo in fretta il capo, le orecchie improvvisamente piene del battito del cuore: “Mi spiace, io non…”. Alza una mano in un cenno pacificatorio: “Non importa. Va bene così”.
Arrossisco, nascondendo le braccia sotto le lenzuola ora che posso. Sento che mi sta osservando e non riesco a fingere di non accorgermene. Siamo solo noi due in questa stanza e non posso nemmeno distogliere l’attenzione su qualcos’altro.
“Cambi attitudine in fretta, tu”. Corrugo la fronte: “Come?”. Continua a studiarmi, lo sguardo assorto: “A volte ho l’impressione che siate tanti gemelli uguali in questa casa”. Non posso fare a meno di ridacchiare: “Addirittura?”. In risposta sorride: “Sì.
Si tira in piedi, portando indietro la schiena per tendere i muscoli. “Sei stato stupido, comunque”.
Rimango in silenzio. Possibile che anche sentirmi dare dello stupido da questo qui non mi offenda.
Si china appena alla mia altezza: “C’è un motivo se il massimo di ore lì sotto è di quattro”. Faccio per ribattere ma me lo impedisce. “Sì lo so che non è arrivato il cambio. Per un errore l’hanno mandato al mercato stamattina. Ma non voglio che succeda mai più, va bene?”.
Sorridendo come un idiota, annuisco: “Sì, grazie”. Aggrotta la fronte: “Perché ringrazi?”. Vorrei rispondergli che nelle sue parole la mia testolina in fase degenerante ha trovato una traccia di premura, ma ho una reputazione da difendere. “Niente” mi affretto a rispondere.
“Secondo” riprende, avvicinandosi ad una sedia e prendendo in mano una tunica logora. “Nessuno in questa casa deve ridursi a portare questa roba. Abbiamo abbastanza vestiti per coprire una legione”.
Chino il capo, accorgendomi solo ora di indossare una tunica bianca, morbida e profumata. Ma chi diavolo mi ha cambiato? Il mio sguardo di puro panico lo fa ridere: “Non preoccuparti. È stato Argiolas, un vecchio schiavo di famiglia”. Sospiro. Certo, devo essere completamente ammattito a pensare che un padrone si metta a cambiare uno schiavo fuori uso.
“Starai qui per i prossimi giorni. Il medico tornerà domani a controllare”. Spalanco gli occhi: “Come…rimarrò qui?”.
“Sì. È pulito e non voglio correre il rischio che le ferite si infettino. Poi non è che tu possa fare molto senza le mani. Hai qualcosa in contrario?”. Sento le lenzuola morbide e accoglienti, l’odore che sa tanto del padrone e osservo l’uomo di fronte a me, la tunica grigia poggiata elegantemente sulla pelle ambrata e un viso bello e tranquillo.
“No. È un bel posto qui”.  

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Capitolo 7
*** Un padrone troppo buono ***


Sorride e mi lancia uno sguardo che sembra dire: non fare stupidaggini. Non so bene perché me lo indirizzi, come se avesse paura che io possa fare qualcosa di poco intelligente. L’unica cosa poco intelligente che potrei fare ora è scendere da questo letto ed esplorargli la bocca. L’immagine mentale è talmente forte che rimango paralizzato e devo per forza distogliere lo sguardo. Decisamente sto impazzendo. Per un attimo temo che l’occhiata di prima sia stata perché si è accorto di tutto, di come lo guardo e di come lo vorrei toccare. Ma il suo atteggiamento tranquillo e distante mi rassicura che no, probabilmente sono riuscito a mascherare bene la follia che mi sta trascinando via dall’uomo che fino ad ora credevo di essere.
“Bene” dice, la voce calda e roca che mi provoca un subbuglio per la spina dorsale. “Hai fame?”. Faccio un cenno di diniego e sono sincero: ho lo stomaco talmente chiuso che il pensiero del cibo mi dà nausea.
“Davvero?” mi chiede, mentre cerca di capire se stia mentendo o meno. Annuisco, sforzandomi di essere il più convincente possibile: “Non me la sento molto di mangiare, ora”. Sospira appena: “Va bene, riposati allora”. Esce dalla stanza, d’improvviso tremendamente vuota. Mi abbandono conto i cuscini, gli occhi chiusi: “Sono un completo, povero deficiente”.
Non mi ero accorto di essere così stanco e mi lascio andare al sonno dopo una decina di minuti, sperando che il suo oblio porti via i pensieri e le immagini che (maledetti bastardi) mi sono entrati nel cervello malato. Decisamente una brutta idea.
La stanza è buia, l’unico rumore che si sente è il turbinio cupo del vento fuori delle finestra, da dove entra a fasci la luce della luna. Un rumore mi fa sobbalzare, qualcosa abbassa il materasso al mio  fianco. Il cuore rimbomba nelle orecchie mentre mi costringo a non chiudere gli occhi e a guardare chi o cosa sia. La prima cosa che vedo sono due occhi, profondi come pozzi, lucenti come se ancora ci fosse acqua da cogliere. Un corpo caldo si stende su di me e mi sento  andare a fuoco, non più in grado di elaborare un pensiero corretto.
Giuliano sorride, prende le mie braccia ferite e con cautela le sposta parallele ai fianchi. Lo vedo afferrare le lenzuola che mi coprono e farle scivolare giù, con un tocco leggero sposta le bretelle della tunica per farla cadere dalle mie spalle. Giuliano sposta una gamba oltre la mia vita, sedendosi a cavalcioni su di me. Non pesa, tutto quel che sento dove il corpo dell’uomo è a contatto con il mio è calore. Le labbra di Giuliano si muovono, la voce calda mi risuona nelle orecchie scendendo verso l’interno delle viscere: “Ora è notte, Antares”. Si china su di me, la bocca a un centimetro dalla mia: “Non hai ancora fame?”.
Giuliano tende un braccio nel buio e prende un piatto colmo di frutta già tagliata. “Solo, temo che tu non possa con quelle mani, hm?”. Non è davvero Giuliano che parla, quell’espressione intorpidita e quel tono sensuale non sono i suoi. Ma gli stanno dannatamente bene. Prende uno spicchio di arancia e lo porta alle mie labbra, che incerto gli permetto di poggiare  sulla mia lingua prima di chiudere la bocca e sentire il succo amaro giù per la gola. Ingoio e un secondo spicchio mi viene porto. Stavolta un po’ di succo scende per il mio collo, lasciando una scia fredda. Giuliano si china e tutto quel che vedo sono i suoi capelli, resi argentei dalla luce lunare, mentre con la lingua lecca salendo per il collo, togliendo ogni traccia del succo d’arancia. Fremo dalla testa ai piedi. Dopo l’arancia vengono grappoli d’uva, il cui succo scende ancora, stavolta arrivando fino al mio petto scoperto. E di nuovo Giuliano ne lecca via ogni traccia, mordendo ad un punto particolarmente sensibile alla base del collo. “Antares”.
I colori neri e argentei della notte scompaiono d’improvviso, il prurito alle braccia mi riporta nella realtà insieme ad una voce che mi chiama con il nome della stella. “Antares?”. Spalanco gli occhi, il fiato pesante. Mi guardo intorno e quasi balzo giù alla vista del padrone vicino al letto. La fronte corrugata, piega leggermente il capo su una spalla: “Ti stavi agitando nel sonno”. Ti prego, fa che non abbia detto cose strane. “Ah, sì”. Mi sposto un ricciolo finito in un occhio, nascondendo con cura il rigonfiamento nel basso ventre con le lenzuola. Mordo il labbro inferiore, cercando di non fargli capire. Ma sono accaldato e quella zona pulsa da far male. “Mi…fanno un po’ male le mani”.
Il padrone solleva le sopracciglia, l’espressione di chi non ha colto molto bene quel che sta succedendo. “Hm. Vuoi che ti rimetta la lozione?”. Porto le braccia in avanti, quasi a tenerlo lontano: “No, grazie!”.
Preso alla sprovvista dalla mia reazione esagerata, si allontana di un paio di passi: “Va bene…”. Mi porge un piatto con della carne e un’arancia: “Vuoi mangiare qualcosa?”.
Rispondergli “sì, te”, decisamente non è la mossa giusta da fare. Le immagini del sogno mi tornano vivide in mente e mi irrigidisco al pulsare di una parte del corpo che fino ad ora non mi aveva mai tradito. “No, grazie” riesco a dire con voce strozzata. Con un lieve sospiro porta indietro il braccio per poggiare il piatto di nuovo sul tavolino, i muscoli sinuosi del suo collo si tendono e mi chiedo che sapore possa avere insieme al sugo dei bocconcini di carne. Riesco a riprende un po’ di controllo sulla mia espressione facciale prima che si rigiri. “Sei magro” dice, gli occhi castani che vanno ad incontrare i miei. “Per oggi passi, ma domani mangerai almeno tre volte, intesi?”.
“Sì mamma”. Non sono riuscito a trattenermi, ma a quando pare l’idea fa ridere anche lui. Trattiene a stento la risata, sorride.
Fuori è l’ora del tramonto, i cui colori caldi tinteggiano la stanza e la sua pelle dandogli il colore del rame, i suoi capelli delle sfumature di fuoco. “Buonanotte, allora”.
“Buonanotte” rispondo, la brezza che proviene da fuori ha placato un poco i miei bollenti spiriti e mi permette di agire quasi normalmente. È sulla porta quando le parole mi escono senza che lo decida io: “Grazie, molte”. Si volta: “Non c’è di che”. Mi schiarisco la voce, prima di parlare ancora: “Sei troppo buono, lo sai vero?”.
Sorride, il viso troppo gentile e baciabile perché sia corretto mostrarmelo più di dieci minuti al giorno: “Certo che lo so”.
 
  
 
 
 
   

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Capitolo 8
*** Uno sguardo perso ***


Sono giorni strani quelli che seguono. Mi sembra di essere appena nato, che mi sia stato dato del tempo per abituarmi ai colori e agli odori della vita prima di uscire dalla porta di questa stanza. Tutto sembra così diverso ora, migliore, non tutto da buttare. I ricordi del passato tornano durante le notti silenziose, ma le giornate con la loro luce danno sufficiente forza per affrontarle. Il padrone viene a trovarmi, spesso si siede a leggere alcuni dei papiri accatastati sull’armadio nella parete di fondo. Non so da dove mi sia uscito, ma una volta gli chiesi di leggere ad alta voce. Rimase incuriosito all’inizio, eppure lo fece lo stesso. Un padrone che legge allo schiavo, che cosa assurda direbbe chiunque. Ma il modo di fare del padrone, così tranquillo e disteso, mi fa dimenticare quello che siamo, anche se solo per brevi istanti. Mi piace la voce modulata che usa mentre legge, non è monocorde, sembra una specie di musica. Ha un suo ritmo, accarezzato dalla sua voce un po’ roca che mi ricorda le foglie secche che scivolano sul terreno.
In uno strano momento, mi ha chiesto se volevo imparare. Io non ho saputo cosa rispondere. Quei segni neri mi si confondevano nella vista, quasi come se si muovessero. Poi, mi si è seduto vicino, a fianco a me sul letto. Le nostre spalle si toccavano, ma lui non ci dava peso, ignaro del calore che mi aveva assalito il viso e del groppo fermo in gola. Piano piano indicava i segni e gli dava voce, le ore passavano senza che nemmeno mi accorgessi del sole che terminava la sua traiettoria.
“Non…hai degli impegni di cui occuparti. Insomma…”. Alza la testa verso di me, dal punto in cui sta leggendo, seduto su uno sgabello. Mi schiarisco la voce: “Avrai qualcosa di meglio da fare, che stare qui con me”. Chiude il papiro e stira leggermente la schiena, sospirando: “Come cosa?”. Scrollo le spalle: “Non saprei. Amministrare i beni, darsi alla politica…cose da uomini potenti, insomma”. Sorrido, ma lui non riesce molto bene a farlo, oggi. Rimaniamo in silenzio, il padrone assorto in pensieri che dalle ombre sul suo viso non sono le solite elucubrazioni celesti. “Padrone?”. Non si gira verso di me, ma fa un cenno con il capo a indicare che sta ascoltando. “C’è qualcosa che non va?”. Rimane pensieroso per qualche altro secondo, prima di alzarsi. A passi lenti si accosta alla finestra, spostando la tenda con la punta delle dita per guardare fuori.
Piega le labbra, sospira per l’ennesima volta oggi. “Varie cose” risponde infine. Si gira a guardarmi, lo sguardo intenso reso torbido da preoccupazioni che non riesco a decifrare. Apre la bocca per dire qualcosa, ma cambia idea. Solo dopo un po’ se ne esce fuori con: “Oggi arriva mio cugino”.
Assorbo le sue parole, prima di esibire un sorriso scettico: “Non sarà una cosa del genere a preoccuparti”. Scuote le spalle: “Non mi piace mio cugino”. Non faccio domande, anche se so che mi sta nascondendo qualcosa. Probabilmente non ha davvero una passione per questo parente, ma c’ qualcos’altro. Qualcosa di molto più grave, il padrone è un uomo troppo intelligente per incupirsi così per una simile sciocchezza.
Mi studio le mani, lieto nel constatare che ormai sono quasi guarite. Lieto, ma anche un po’ amareggiato. Questo vuol dire che dovrò tornare nella stanza con gli altri schiavi, niente più scuse ormai.
“Rimarrai qui per un’altra settimana”. Spalanco gli occhi, pensando per un attimo che mi abbia letto nel pensiero. Ma il padrone è intento a guardare fuori dalla finestra, come se io non ci fossi. “Devo andare”. Si allontana di un paio di passi prima che io gli chieda: “Quanto starà tuo cugino?”.
“Una settimana”. E se ne va. Bene, non ci vuole un genio per capire che non voglia farmi vedere questo fantomatico essere. E se il padrone non vuole, allora sono sicuro che non deve succedere.
E così rimango qui, isolato in una stanza profumata. Non che la cosa mi dispiaccia, ma il padrone non torna per l’intera giornata. Al mattino dopo, passa a salutare ma va subito via, senza che io sia in grado di chiedergli niente. Un altro schiavo mi porta da mangiare e per fortuna è il vecchio schiavo di fiducia, che con me finora è stato molto gentile. Non sento nessuno sguardo accusatore da parte sua, come invece mi sarei aspettato. Uno schiavo che viene accudito nelle stanze del padrone, sarebbe ovvio pensare che il suo ruolo lì sia uno solo. E invece mi sorride, mi chiede come vanno le ferite e poi se ne va, impegnato ad aiutare il padrone ad amministrare la casa.
Le ore passano con una lentezza esasperante, cerco di leggere quegli strani simboli disegnati sui rotoli ma di colpo sembra molto più difficile. Nemmeno in quelle ore passate nelle fornaci il tempo era trascorso così lentamente. “Oh adesso basta!”. L’ultima cosa che voglio al mondo è disubbidire al padrone, ma la noia mi sta uccidendo. Sono abituato a lavorare, ad essere sfruttato persino. La noia era una bestia che non avevo mai affrontato prima e non credevo che potesse essere così devastante. Mi sento stanco nonostante abbia passato giorni interi a dormire, tutto il corpo si muove a rilento, senza seguire i miei comandi.
I colori dell’alba tingono gli stucchi della casa, i mosaici che compongono i pavimenti. Fuori, sull’ingresso del cortile, si sente il vociare dei clientes del padrone, pronti a prestargli omaggio e a chiedere favori, protezione. Mi fermo davanti ad un vassoio lucido, dimentico di come fosse il mio aspetto, non che mi fosse mai interessato. Gli occhi chiari, lunghi e affusolati, spiccano sulla pelle bianca, resa tale ancora più del solito dai giorni passati al chiuso. I riccioli neri scendono ormai liberamente giù per la fronte, decisamente dovrei decidermi a tagliarli. Silenzioso, cammino per i corridoi.
A quest’ora la casa è stranamente piacevole, tutti sono ancora intorpiditi e rilassati dal sonno, cullati dai raggi tiepidi del primo sole. Sono uno schiavo in questo posto, come sono stato per tutta la vita, ma di colpo mi sembra una realtà quasi più vivibile. È un pensiero non del tutto malvagio, ma lo sento dentro di me che è pericoloso. Non devo sperare, finirebbe per uccidermi. Sperare in cosa, poi? Nemmeno io riesco a dirlo. Sono in mani tutto tranne che mie, il mio destino non esiste, non esiste il caso, non esiste la scelta. Esiste, ma quella degli altri.
Mi strofino un braccio indolenzito, mentre entro nella grande palestra delle terme di famiglia. La grande piscina, il cui fondo è ornato di mosaici di bestie marine, è silenziosa. Le immagini di Poseidone, di delfini mostruosi e cavalli marini si frastagliano al muoversi dell’acqua, rendendo difficile distinguerne i dettagli.
Solo due schiavi sono al lavoro, intenti a pulire i bordi della vasca. Poi le noto, due braccia che al ritmo spezzano la fresca superficie. Assottiglio lo sguardo, cercando di distinguere la figura. Con cautela, cammino a lato della piscina, accostandomi piano, pronto ad allontanarmi in caso si riveli un pericolo. Non so in che genere di pericolo io possa incorrere, ma potrebbe succedere.
Le braccia sono sode, i muscoli si flettono nelle bracciate regolari. Un uomo, di sicuro, anche perché in genere le donne non usano questa piscina. Lo vedo arrivare alla fine della vasca ed aggrapparsi al bordo, la testa castana rilassata tra le braccia. In quel momento, si gira: “Antares?”. Mi paralizzo, incerto sul se tentare la fuga o rimanere al mio posto. Comprendo l’idiozia della prima opzione e rimango fermo.
Il padrone si stacca dalla parete di fondo e con lenti movimenti si avvicina. Si tira un po’ su, incrociando le braccia sul bordo laterale. “Cosa ci fai qui?”.
Chino il capo, conscio di essere stato miseramente beccato nella mia disubbidienza. “Mi stavo annoiando, chiedo scusa”. Lo sento sospirare: “Va bene, capisco. Le mani?”. Le sollevo, senza però distogliere lo sguardo da terra. “Stanno bene. Il medico mi ha fatto togliere le bende”.
Attimi di silenzio: “Sai nuotare?”. Senza nemmeno accorgermene, arriccio il naso: “No, non mi piace”. Lo sento ridere: “Sembri davvero un gatto”.
“Hai provato a buttarne uno in piscina?”.
“No” risponde, il sorriso nella voce. Solo ora mi azzardo ad alzare la testa. Il padrone tiene il mento poggiato sulle braccia, i capelli tenuti indietro, a liberargli il viso. Gli occhi sembrano più chiari del solito, illuminati dalla luce riflessa sull’acqua che gli entra nelle iridi. La pelle bronzea è lucida per l’acqua che la ricopre come una patina, le gocce scendono giù per i muscoli delle spalle e delle braccia.
Sotto le tuniche ampie che indossa e il temperamento calmo, riflessivo, ha un fisico di muscoli sinuosi e flessibili, morbidi nella loro definizione. Lascio scorrere lo sguardo su ogni singolo dettaglio, lui di nuovo perso in preoccupazioni oscure.

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Capitolo 9
*** Un tipo sgradevole ***


Dopo un breve sospiro, solleva gli occhi verso di me: “Mi passeresti un asciugamano?”. Raccolgo le braccia al petto e sorrido, una brutta abitudine di questi giorni: “Sei il padrone, me lo dovresti ordinare”. Scrolla le spalle, del tutto intoccato dalla mia provocazione: “Non mi viene molto da”. Senza lasciarmi sfuggire altri commenti, mi giro per prendere uno dei teli bianchi e candidi ordinatamente impilati su un lungo tavolo in legno scuro. Mi accosto al bordo vasca e lo apro, mentre il padrone fa leva sulle braccia per tirarsi su.
Distolgo accuratamente lo sguardo e sento il suo su di me. Mi toglie l’asciugamano dalle mani ma io continuo ad evitare di guardare, temendo di poter tradire qualcosa. “Ti mette in imbarazzo?” mi chiede, la voce piegata in un lieve stupore. Io in imbarazzo? Figuriamoci. Per provargli il contrario giro il capo verso di lui. Per la miseria! Quel telo è enorme, perché diavolo si è limitato ad avvolgerlo intorno alla vita?
Tiene il capo un po’ piegato su un lato, i grandi occhi marroni fissi intensamente su me, come se cercasse di leggermi dentro. Probabilmente è quello che sta facendo. Inarco le spalle, incrociando le mani dietro la schiena: “Non è quello”. Poi mi viene in mente la battuta ideale e sogghigno: “Perché, avresti preferito che ti guardassi?”. L’aria imbarazzata e il rossore sulle sue gote è impagabile. Probabilmente non è avvezzo a questo tipo di battute. “Non intendevo questo!” si affretta ad assicurare, indietreggiando appena.
Ora ha il capo piegato verso il basso, osserva nervosamente le mattonelle. Prima non potevo, sarebbe stato troppo palese, ma ora che non mi guarda posso far scendere lo sguardo giù per il collo insieme alle goccioline d’acqua, la pelle morbida e lucida che si fa più solida all’altezza dei pettorali, eleganti come il busto ampio ma flessuoso, la carnagione uniforme accentuata da una vita senza cicatrici e fatiche che minacciano di portare imperfezioni. Si passa una mano fra i capelli e si schiarisce la voce, flettendo i muscoli del braccio destro che si muovono in sinfonia: “Lo so che non sono molto credibile a dare ordini”. Abbozza un sorriso. “Ma rimani nella tua stanza per un po’”. Sospiro, piegando le labbra in una smorfia: “Va bene”. Perfetto, noia torna da me. Senza nemmeno accorgermene faccio un breve inchino, come se farlo a lui avesse un significato tutto diverso, come se lo facessi perché voglio io: “Vado ora?”. Lui annuisce, apre la bocca con fare incerto: “Senti…”. Rimango ad osservarlo, piantando le mie iridi azzurre nelle sue, maledettamente da cerbiatto pensieroso. Per un attimo è indeciso se parlare o no, nonostante non sembri affatto messo in soggezione dal mio sguardo: a molti succede, non abituati a un colore simile. Fino ad ora mi è sempre stato utile. “C’è…una cosa che devo dirti. Più tardi”. La mia mente si addormenta di colpo, nemmeno riesce ad elucubrare sulle possibili alternative delle cose che potrebbe dirmi. Ne rimane solo una, ma non capisco perché ciò mi crei questo tremolio nelle gambe, questa sensazione sgradevole alla base dello stomaco e in gola. Annuisco, nascondendo il fastidioso tremolio delle mani.
Paura? No, non è possibile, non posso avere paura di lui. Senza aggiungere parola, mi dirigo verso l’uscita dalla piscina, ignorando gli altri schiavi impegnati nella pulizia. Rallento il passo quando arrivo nel cortiletto interno, indugiando per qualche secondo a raccogliere il sole che inonda le aiuole. Entro nel portico e sto per imboccare il corridoio interno che porta alle stanze del padrone, quando una voce mi ferma. “Ehi, tu!”. Il mio primo istinto è non fermarmi, c’è qualcosa nel tono dell’uomo che mi si è rivolto che mi piace poco. Mi giro, mantenendo l’espressione più gelida possibile. “Sì?”. E’ un ragazzotto sui trent’anni, i capelli corti e marroni che incorniciano un viso largo, contorniato da una barba sottile. Cammina con le gambe leggermente aperte, decisamente non con grazia felina a dispetto del corpo atletico e dei movimenti rapidi con cui si avvicina. Sorride, un sollevarsi di un lato della guancia mentre mi analizza da capo a piedi come se fossi un cavallo appena comprato. Porto indietro la schiena e mi faccio scudo spostandomi su un fianco, innervosito. “Sì?” sibilo una seconda volta. Punta gli occhi nei miei, un’espressione di tanta ostentazione e sicurezza in se stesso da farmi vomitare. Non ti ho mai visto prima” serra le labbra in apprezzamento. “Sei un ospite?”. Vorrei non rispondergli proprio, ma non sapendo chi è sarebbe da imprudenti. Se non fossi uno schiavo, potrei. “Vivo in questa casa. Tu chi sei?”. Solleva appena le sopracciglia, ma non muta l’atteggiamento: “Sono Alessandro, mio padre è il fratello di Giuliano”. Il suo sorriso si amplifica, qualcosa brilla negli anfratti delle pupille marroni: “Il tuo padrone, immagino”. Mi irrigidisco: “Sì”. Si avvicina, troppo per i miei gusti. Solleva una mano verso il mio viso, trattenendo il mento tra l’indice e il pollice. Mi costringe a voltarmi da una parte all’altra e devo trattenermi dal morderlo. “Però” commenta. “E io che pensavo fosse un idiota. Non sei davvero niente male tu”. Tutto quel che posso fare è puntare gli occhi su di lui, l’unica arma a mia disposizione, terribilmente poco efficace. Lascia la presa, pur senza allontanarsi: “Dimmi dov’è”. Stringo i pugni, le braccia che tremano per lo sforzo di contenermi: “Nella piscina”. Mi guarda di nuovo dalla testa ai piedi, mentre arretra di un paio di passi: “Ci vediamo”. Ah no, col cavolo che rischio di beccarlo di nuovo. E Giuliano non mi concederà a lui, non potrei mai crederlo. L’idea mi spaventa, troppo forte perché la fiducia nel mio nuovo padrone riesca a sconfiggerla. Lui se ne va e arriva la rabbia. Non per come mi ha osservato, per come mi ha toccato. Ma per come ha chiamato il padrone. E io non ho detto niente contro l’insulto.

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Capitolo 10
*** Un vecchio dolore ***


Detesto le attese. Per tutta la vita ho dovuto attendere, oggetto delle decisioni altrui, con il minimo spazio decisionale. Emetto un sospiro nervoso e mi affaccio alla finestra, i gomiti poggiati sul davanzale infreddolito dalla brezza serale.
Il sole sta tramontando, il disco rovente è poggiato sul muro esterno della casa, al di là del cortile, dalle cui aiuole sale un odore di fiori d’arancio. Passo una mano tra i capelli e sobbalzo, dimentico delle ferite ancora dolenti. Mi concentro su ogni singolo punto delle fasciature, le studio con un’attenzione che non meriterebbero: ma forse così smetterò di pensare. A quello che mi deve dire il padrone, all’odioso cugino.
Il sole scende del tutto all’orizzonte, rimangono solo in lontananza gli ultimi colori del giorno. Un rosso poco acceso, un giallo grano che si stende in linee disordinate nel cielo, un lieve rosa che ogni tanto muta le sfumature degli altri.
Lascio cadere lo sguardo nel portico e il mio momento di stasi si frantuma come un bicchiere di vetro sul marmo. Indietreggio e mi nascondo con la tenda, senza spostare lo sguardo dal giovane uomo che è appena apparso nel cortile. Alessandro ha lo sguardo diretto verso di me, un lieve sorrisetto sulle labbra.
“Merda” sussurro, scostandomi dal davanzale nemmeno scottasse. Forse sono solo paranoico, ma sento impellente il desiderio di correre via. Magari non mi ha visto, o comunque non farà niente.
Al diavolo, ho sempre seguito il mio istinto e non smetterò proprio ora. In pochi rapidi passi imbocco la porta, prendendo il corridoio semibuio.
Sobbalzo quando qualcosa mi afferra per il dietro della tunica, il cuore mi batte a mille. Mi giro, una strana sensazione di immobilità mi pervade il corpo a dispetto del respiro affannato. Alessandro sorride sornione e lascia andare la tunica: “Come mai così di fretta?”.
Corrugo la fronte, sperando soltanto che mi lasci in pace: “Ho…ho da fare”.
Piega il capo su una spalla, gli occhi nocciola tinti di una vena divertita: “Ho chiesto in giro. Negli ultimi giorni non ti sei mosso da queste stanze”.
Indietreggio appena: “Non posso fare altro”.
Inarca un sopracciglio e china lo sguardo a studiare le mie mani: “E Giuliano tiene sempre gli schiavi feriti nelle sue stanze?”.
“Il padrone fa quello che vuole”. Per un attimo sembra preso in contropiede, ma subito torna il sorrisetto sicuro di sé, dannatamente opposto a me che vorrei scappare via: “Immagino che tu abbia ragione”.
Allunga il viso verso di me: “Ma per quello che ho intenzione di fare, non è detto che ti servano le mani”.
Indica la stanza con un cenno del capo: “Vediamo di finire prima di cena”.
Il respiro mi si ferma in petto. Guardo verso il corridoio, schifato dall’espressione disperata che non riesco a contenere: “Io…non sono quel tipo di schiavo”.
Spalanca gli occhi, seriamente stupito: “Perché? Ci sono tipi differenti?”. Ridacchia: “Questa mi è una novità. Forza bellezza, non ho tutto il giorno”.
Il padrone doveva parlarmi, perché non arriva? Non so a chi io stia pregando, ma per favore fate che arrivi prima che sia troppo tardi. Serro gli occhi, rimproverandomi mentalmente. Io sono uno schiavo, perché il padrone dovrebbe difendermi da questo tipo di uso? Uno dei doveri di uno schiavo è soddisfare in ogni richiesta, anche degli ospiti del padrone. Ma io non voglio.
“Non…voglio” sussurro a denti stretti.
Alessandro solleva gli occhi al cielo, afferrandomi una spalla: “Fai poco il difficile”.
Mi giro verso di lui quando con una spinta mi fa rientrare nella stanza, poi scruto la finestra, chiedendomi se non sia il caso di gettarsi dalla finestra e basta. Mando giù un groppo che mi ostruiva la gola ed emetto un lungo respiro tremolante, disgustato dallo sguardo dell’uomo su di me nonostante la sua espressione sia incuriosita, solo un leggero incupimento delle iridi a indicarne la lussuria.
Si poggia sullo stipite della porta e incrocia le braccia al petto, la fronte appena corrugata: “Sei troppo bello perché sia la tua prima volta”. Non riesco a capire se sia un’affermazione o una domanda, ma con fatica scuoto il capo in un cenno di diniego. Bello. Un complimento che mi fa rivoltare le viscere.
A che serve la bellezza se non posso decidere io cosa farne? Per loro è come un vaso, una coppa ornata, gioielli, cose belle per essere da loro usati e mostrati agli altri.
Entra del tutto nella stanza: “Spogliati, tra poco c’è la cena”. Irrigidisco i muscoli e per fortuna riesco a ritrovare la maschera di freddezza che per anni mi ha tenuto intatto. Posso farcela, non mi farò vedere debole da lui. Lo scruto con la coda degli occhi mentre si sfila rapidamente le vesti, scoprendo un fisico da atleta. Ha la carnagione più scura di quella del padrone, ma gli stessi occhi grandi.
Si accorge che non mi sono mosso: “Su, muoviti”.
Nascondo lo sguardo nel muro dall’altra parte della stanza e con movimenti meccanici porto la mano alla bretella sinistra della tunica. Lui per ora non mi guarda, osserva distrattamente un affresco dai colori sgargianti. Si comporta come se stesse facendo una passeggiata, probabilmente io non sono che uno dei suoi tanti sfizi. Invece di schifarmi a questo pensiero, il fatto che sia una cosa così passeggiera per lui mi fa uno strano effetto, divento un po’ più tranquillo.
Non sta pensando di violare me, tutto ciò che vuole è spassarsela per una mezz’ora con lo schiavo del cugino che gli è piaciuto. Lascio cadere la veste a terra e subito arretro fino a sedermi sul letto, unico modo per nascondermi almeno in parte.
Fisso il vuoto, conscio che l’unica cosa da fare è attendere che sia tutto finito. Lo scorgo con la coda dell’occhio, si avvicina a me. Non riesco a impedire un sussulto, quando le sue dita si poggiano sotto il mio mento a sollevarmi il viso. Si accosta a me, la distanza che ora ci separa è minima: “Hai degli occhi stupendi”.
Li distolgo da lui e sibilo: “Facciamola finita. Mi fanno schifo i complimenti”.
Sorride: “Sei uno strano schiavo”.
Poggia una mano sul mio petto e piano mi spinge con la schiena sul letto. Sento il suo sguardo toccare ogni parte del mio corpo e mi costringo a rimanere immobile, incastro le dita nelle coltri per evitare di fare qualcosa per la quale uno schiavo può finire in grossi guai. Vorrei colpirlo, fuggire di qui, ora che sono così scoperto quel poco di tranquillità che avevo acquisito è scappato dalla finestra.
Chiudo gli occhi con forza al tocco delle sue mani sui miei fianchi, alla strana sensazione della sua pelle nuda dove le nostre gambe si toccano. Sento il suo respiro caldo alla base del collo: “Ti vedo teso”.
Accarezza le costole, si infila piano tra la mia schiena e il materasso, mi solleva.
“Sono gentile in genere” commenta con voce distante, il suo corpo che piano si stende completamente su di me. Chiudo i pugni, accettando come una benedizione il dolore alle ferite: “Non me ne frega niente. Basta che finisca”.
Rimane per un attimo in silenzio: “Come ti pare”. Infila il braccio del tutto sotto di me e mi rigira sullo stomaco, senza mollare la presa mentre mi tiene inarcato. Mi mordo un labbro, porto una spalla indietro alla sensazione calda e bagnata della sua bocca alla base del mio collo.
Le sue mani mi accarezzano l’interno delle cosce, le spalanca e sento l’orrendo intruso, teso contro di me, pronto a prendere il piacere che vuole. Chino la testa tra le mie braccia e trattengo il respiro, spalanco gli occhi al primo dolore.
Il mio ultimo padrone era violento, rapido nell’iniziare e lento nel porre fine, mi raccapriccio di me stesso al sollievo che provo quando il cugino del padrone non si fa strada con una sola spinta, ma aspetta.
Sento il suo respiro profondo sopra di me, lo strofinare di pelle contro pelle mentre si sistema meglio.
La sua presa intorno alla mia vita si stringe, mi porta più indietro e trattengo a stento un gemito.
“Non avresti…” ansima. “…dovuto avere tutta questa fretta”. Spinge ancora di più e stavolta è lui a gemere: “Non mi ti hai fatto prepar…la miseria se sei stretto”.
Porta bruscamente in avanti il bacino ed entrambi finiamo in avanti, incapaci di mantenere l’equilibrio. Il dolore è lancinante, mi sento spaccare a metà. Mi bruciano gli occhi e nascondo una lacrima poggiando il viso contro il braccio. Per un po’, avevo sperato di non risentire mai più questo dolore, questa vergogna.
Mi sento più sano al sentire la rabbia crescermi nel petto, rabbia per tutto ciò che mi circonda per il fatto di essere come è. Non mi pento nemmeno di pensare al padrone con odio, ora. È stata colpa sua, lui che ha fatto cadere le mie difese, mi ha fatto sentire al sicuro e invece è stata tutta un’illusione.
E rabbia verso me stesso, per essere stato così stupido.  
Spalanco gli occhi: e se il padrone sapesse? Se sia stato lui a concedermi al cugino?
No, non è possibile. Lui mi aveva detto di stare nascosto perché veniva il cugino che non gli piaceva, lui…
Il filo dei miei pensieri si spezza, lasciando spazio alla scossa di spasimo che mi attraversa la schiena. 

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Capitolo 11
*** Una inaspettata novità ***


Non mi muovo, quasi non respiro, quando il cugino del padrone esce da me e ansimando si lascia cadere sul materasso. Continuo a guardare fuori dalla finestra, senza davvero vedere nulla. Se mi muovessi, il dolore che provo alla base della schiena diventerebbe insopportabile, e con esso arriverebbero non so quali altri pensieri e sensazioni che al momento voglio evitare. Nascondo il viso nel cuscino e mi concentro sulla profondità dei miei respiri, sperando che arrivi il sonno a portarmi via.
Mi irrigidisco, sentendo delle dita giocherellare con i miei capelli. “Ehi, sei vivo?”.
Sposto la testa, togliendomi dal suo tocco, senza rispondere. Ridacchia: “Davvero, sei un tipo strano”.
Il peso accanto a me sul letto scompare, un rumore di tessuto su pelle. Dei passi e finalmente rimango solo. Non riesco a capire come funzioni il tempo in questo momento, mi sembra che sia stato tutto velocissimo, probabilmente perché è stato così. Mi tiro un po’ su, un labbro tra i denti non per il dolore, ma per la rabbia che mi fa tremare le braccia, con le quali sostengo il mio corpo inarcato.
Il dolore non è terribile, ho sperimentato di peggio, ma le mani bruciano, le fasciature ormai completamente fuori posto, dei fili di marionetta che pendono dagli avambracci. In ginocchio, fisso il muro davanti a me, un piccolo disegno di satiro con flauto, che danza in un rosso accesso.
Il respiro mi muore in petto e la rabbia esplode, ma non c’è nulla che possa aiutarmi a sfogarla, a tirarla fuori, quello che è appena successo incancellabile. In un impeto senza pensiero sbatto il pugno contro la parete, gridando per il dolore e la furia, una ferita si apre e il sangue si confonde con il pompeiano dello stucco.
Gli occhi sbarrati e il fiato pesante allungo un braccio per riprendermi la tunica, mettendola alla bell’è meglio. Rimango seduto sul bordo del letto, la testa fra le mani a tirare i capelli, incastrando le dita nei ricci. Una goccia di sudore mi scende per il collo e la asciugo con un gesto nervoso.
Mi passo una mano sul naso, gli occhi lucidi che fanno male, due orbite vuote su cui le palpebre si irrigidiscono. Cerco di calmare il respiro, ma non cambia il masso in mezzo al petto.
Spalanco gli occhi quando sento dei rumori dalle scale, dei leggeri passi in corsa. Vorrei alzarmi, andare via, ma rimango congelato sul posto, continuando a fissare la penombra fuori dalla stanza come se dovesse uscirvi un mostro.
Sembra un’allucinazione, il viso del padrone, il fiato pesante e la toga che cade disordinatamente su una spalla. Corruga la fronte e guarda la stanza, i grandi occhi castani che si poggiano su di me con fare interrogativo. Si tira su la spallina caduta in un gesto meccanico: “Cos’è successo?”.
Le mie spalle si inarcano mentre rido amaramente, scuotendo la testa. Vorrei rispondere qualcosa, ma non mi viene in mente niente. Vorrei fare finta che non sia successo nulla, forse se taccio non lo saprà mai. Ma ho una strana voglia, il desiderio di sbattergli tutto in faccia, un pensiero irrazionale che però si ingrandisce in pochi attimi, prendendo il controllo della mia testa.
 “Chiedilo a tuo cugino”. Una frase banale, sibilata a denti stretti, ma fatico a mettere una parola dietro l’altra in un filo coerente. Sbarra gli occhi, il bel viso una maschera di smarrimento per interminabili secondi.
Apre la bocca, ma la richiude senza parlare. Si passa una mano tra i capelli ordinati, le sfumature di cedro e castagno delle sue ciocche evidenziate dagli oli che le ungono, tenendole indietro a liberare la fronte pensierosa. Torna a guardarmi, incapace di decidere come agire.
Sorrido, un acido inarcamento delle labbra: “Vuoi il tuo turno?”. Spalanco le braccia: “Prego, padrone”.
Ormai non penso più, non mi interessa se è un comportamento ridicolo da parte di uno schiavo, se verrò punito per questo. Tanto non ho niente da perdere.
Mi tiro in piedi, avvicinandomi a rapidi passi. Non vedo bene, una patina sugli occhi mi confonde la vista: “Forza! Perché fai il gentile con me, eh? Io sono uno schiavo, tu il padrone, più facile di così si muore!”. Grido, il viso ora a pochi centimetri dal suo.
Continua a tenere il viso corrucciato, ma una strana durezza gli fossilizza i lineamenti, le iridi due pozze di pensieri che non riesco a leggere.
Lo guardo dall’alto della mia altezza, fregandomene di dovermi mostrare inferiore davanti al mio padrone, gli occhi stretti a due fessure gelide: “Cos’era che dovevi dirmi? Che vuoi vendermi a tuo cugino? O magari sono un regalo, dato via insieme a un paio di specchi e di fottuti dipinti!”.
Mi poggia una mano sul petto, allontanandomi un poco da sé: “Io ti avevo detto di non uscire”.
Per un attimo mi mancano le parole, la rabbia impedisce alla bocca di funzionare a dovere: “Ah…è…è colpa mia adesso? È colpa mia?”.
Mi accorgo della luce severa che ora gli illumina lo sguardo, dell’aria grave che aleggia intorno alla sua figura, ma non realizzo del tutto. “Che stupido sono stato…” mormoro, indietreggiando. “Un perfetto idiota”.
Mi giro, dandogli le spalle. Aspetto che se ne vada, che mi dica qualcosa, ma lui continua a rimanere lì, respirando piano.
“Fa qualcosa! Piantala di startene sempre a pensare per la miseria!”.
“Devi lasciare Roma”.
Torno a guardarlo, gli occhi sbarrati: “Come?”.
Il padrone non muta espressione, un leggero stringersi delle labbra  a indicarne la tensione. Il suo sguardo sembra guardarmi attraverso, una miriade di pensieri cupi che si alternano negli occhi intelligenti: “Un esercito di barbari ha distrutto le legioni del nord. Stanno arrivando”.  

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Capitolo 12
*** Uno stupido motivo ***


Rimango immobile, uno strano torpore mi invade il corpo. Solo dopo qualche secondo assottiglio gli occhi, confuso: “Un esercito…hanno…com’è possibile?”. Termino con un filo di voce, incapace di formulare un pensiero compiuto mentre la mia mente assorbe tutto ciò che una simile disfatta implica.
Il padrone sospira, passandosi tra i capelli una mano, che poi tiene sul collo: “Giravano voci al riguardo già da qualche giorno. Poche ore fa un messaggero ha dato la notizia al Senato”.
Avanzo di mezzo passo, la fronte corrugata: “Quindi che succederà?”
I suoi occhi, ora pozzi di tristezza, si fissano nei miei: “La fine di Roma”.
Mi avvicino ancora di più, stringendo i pugni: “Non è possibile! Roma…Roma c’è da sempre!”.
Abbozza un mesto sorriso: “Da 1163 anni, più o meno”.
Si passa le dita sul volto, d’improvviso incredibilmente stanco. Piano, si accosta alla finestra, affacciandosi dal balcone: “Anni fa, lessi su un commentario che quei popoli non navigano”.
Si gira verso di me, il bel viso seminascosto nella penombra: “Domani mattina all’alba, le donne, i vecchi e i bambini di questa casa partiranno per la mia casa di Ostia. Non è lontano, ma spero che sarà sufficiente a tenerli al sicuro, se davvero questi barbari non passano vicino al mare”.
Abbasso la testa al suolo: “Non servirà a niente. Se ci invaderanno…”.
“Sono nomadi…” mi interrompe, la voce che tradisce un lieve barlume di speranza. “Possiamo solo augurarci che depredino ciò che trovano, e poi se ne vadano via”.
Torna a guardare dalla finestra, prendendo un lungo respiro: “Peccato…Roma è così bella”.
Mi accosto a lui, sentendomi sopraffatto da strane emozioni  a leggere l’angoscia profonda che gli tinge i lineamenti, l’immensa tristezza. Mi schiarisco la voce, avvicinandomi come trainato dal suo profumo leggero e gentile: “Non c’è modo di fermarli?”.
Fa un cenno di diniego con il capo: “No…temo di no”.
“E la popolazione? Cosa gli accadrà?”.
“Ciò che accade ad un popolo sconfitto, sotto ai colpi di chi uccide e distrugge”.
Inarca le spalle: “Ci sarà resistenza. Gli uomini di Roma cercheranno di difenderla, ciò che rimane del nostro esercito si sta radunando…e chi non riesce, o non può immaginare una vita al di fuori di questa città, non fuggirà”.
Rimango in silenzio per qualche lungo attimo, sentendo il venticello della sera accarezzarmi i capelli.
“Perché?” chiedo infine. “Perché vieni a dire a me queste cose? Sono…il tuo schiavo, puoi semplicemente ordinarmi di andare via. Non hai bisogno di spiegarmi”.
Sorride, poggiando i gomiti sul marmo del davanzale: “Vero. Ma tu non ti comporti da schiavo. Poi, non tutti i padroni vi trattano come animali privi di intelligenza”.
Mi scruta, i suoi occhi nocciola leggono dentro di me: “E tu sei intelligente, Antares”.
Inarco le sopracciglia in un tentativo di ironia: “Non che questo mi renda le cose facili”.
“È la condanna di chi pensa troppo”.
Incrocio lo sguardo nel suo, rabbrividisco a sentire le nostre braccia sfiorarsi. Corruga appena il viso, mentre si tira un po’ su. Tentativamente, allunga la mano verso di me, io che rimango fermo a sentire il battito del mio cuore.  Le sue dita, gentili e morbide, mi spostano una ciocca di capelli, accarezzando lievemente la mia fronte.
“È la condanna di chi è troppo vivo” sussurra, le sue labbra troppo vicine alle mie. Vorrei impadronirmene, baciarle con foga per poi accarezzarle, sentirle con dolcezza.
Lo vedo mandare giù della saliva, l’elegante pomo d’Adamo che si solleva per il collo sinuoso e bronzeo. Le sue dita ora mi sfiorano gli zigomi, tracciano con cautela la linea della guancia.
Non so cosa mi stia succedendo, ma sento i miei occhi inumidirsi, quasi un dolore dietro le orbite.
“Cosa…farai tu?” mormoro, spaventato nel profondo dalla risposta. “Verrai con noi?”.
Sorride, senza alcuna felicità, continuando ad osservarmi con la stessa pacifica ammirazione che si usa ad un panorama caro: “No”.
Lo afferro per il polso, sentendo la pelle morbida sotto la mia, ruvida per il lavoro. Senza nemmeno rendermene conto, la mia altra mano va dietro al suo collo, a tenere il suo viso rivolto verso di me: “Perché?”.
Spero che lui non veda l’angoscia che mi dilania, ma ormai so che per lui sono un libro aperto.
Sospira, scuotendo lievemente il capo: “Non posso fuggire. È la mia città”.
“Non vale la pena morire per delle mura!” esplodo, sentendo il viso avvampare, un fuoco bruciarmi l’intestino.
Alza il braccio, andando a chiudere in una morsa gentile il mio, ancora ancorato dietro al suo collo.
China un poco il capo verso di me, come un uomo che svela una verità ad un bambino. “Non sono mura”.
La sua mano si poggia del tutto sulla mia guancia e non riesco a non accomodarmi nel palmo caldo e rassicurante. “È vita, è storia. Io amo ogni singola strada di Roma, perché è la mia città, è il luogo che mi ha reso ciò che sono. Amo le sue biblioteche, le sue insule, le sue piazze”.
Sposta la mano dal suo viso e mi vergogno di me stesso, ma mi sento freddo e abbandonato. Afferra le mie spalle, cercando di trasmettermi con lo sguardo una miriade di emozioni che le parole sono troppo poche a descrivere: “Ogni suo mattone racconta una storia, la storia del mio popolo, che è anche la mia”.
Guarda la stanza, soffermandosi con affetto su ogni singolo dettaglio. Prende un ampio respiro, al termine del quale la sua schiena si rilassa. “E questa casa” mormora. “I miei antenati hanno governato, hanno amato, hanno vissuto qui. In ogni libro ci sono i segni delle loro dita, su ogni pezzo di mosaico si sono soffermati i loro occhi ora chiusi”.
Mi scuote appena: “Nei mattoni di questa casa scorre il mio sangue, lo capisci?”.
Distolgo lo sguardo: “No, non lo capisco”. Ed è difficile parlare contro la calce che mi ostruisce la gola.
Sospira, ma ancora sorride mentre allenta la presa su di me: “Non posso non difenderla. Io sono questa casa”.
“No!” grido, arretrando di un passo, staccandomi bruscamente da lui: “Tu sei un uomo! Morirai se resti qui! E la tua morte non cambierà niente! Questo posto verrà distrutto che tu ci sia o no!”.
Annuisce, incrociando tranquillamente le braccia al petto: “Lo so”.
“E allora perché…” afferro i miei capelli, la rabbia e la delusione mi impediscono di esprimermi.
“Allora io rimango qui! Sono un uomo e devo combatte…”.
Spalanca gli occhi e per la prima volta lo vedo agitato: “No!”.
Scuote il capo: “Questa non è la tua battaglia”.
“Sono.Un.Uomo” ribatto, puntualizzando ogni parola a denti stretti. “Perché non dovrei combattere come tutti gli altri?”.
Sono proprio io che sto parlando? Cosa me ne dovrebbe importare di queste persone, di questa società che mi ha reso un oggetto?
Il padrone mi prende un gomito, sollevandolo: “Con queste braccia vorresti impugnare una spada? Con queste mani ferite?”.
Mi libero bruscamente dalla presa: “Non c’è differenza tra me e te! Sarebbe in ogni caso una follia suicida!”.
Arretra di un passo, chiudendo per un attimo gli occhi. “Forse” concede. “Ma io sono il padrone. È vero che il mondo come è stato finora potrebbe finire in un cumulo di macerie. Ma fino a che questo non accadrà, tu devi obbedirmi”.
Sento il suo sguardo triste punzecchiarmi il cuore: “Partirai domani”.
Prima che possa fare niente, raggiunge la porta. Rimane per un attimo immobile, prima di girarsi: “Mio cugino…”. Tace per soppesare le parole.
“Mi dispiace, se ti ha fatto del male”.
 E senza aggiungere altro, mi abbandona qui. 

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Capitolo 13
*** Un mondo di ombre ***


 
Mai la realtà è stata più difficile da accettare. E nella mia vita ne sono successe di cose improvvise e sgradevoli. Questa casa, fino a ieri simbolo di una potenza imperitura, ritagliata in un marmo incorruttibile, oggi non è altro se non una tana di formiche, che scappano dal fuoco.
Vecchi, donne e bambini prendono quel poco che possono, ciò che dovrà rimanere loro a ricordo di tutta una vita, se mai sopravvivranno. Qualche moneta, delle statuine, vesti, ma niente di tutto questo potrà mai essere un contentino sufficiente di quello che lasciano, di coloro che lasciano.
Gli uomini, con l’eccezione di quelli che scorteranno i fuggitivi, cercano di armarsi come possono, costruiscono barricate intorno alla casa, chiudono entrate secondarie.
Nel trambusto di questo mattino di dolore, è difficile trovare il padrone. Non so nemmeno cosa gli direi, se dovessi incontrarlo. Ma l’ordine è di partire prima che il sole si faccia implacabile, l’idea di andarmene senza vederlo mi uccide, mi brucia lentamente e inesorabilmente il petto.
Per una volta, non mi lascio trasportare da correnti di pensieri, sarebbe insopportabile tra mogli che implorano i mariti di farle restare, vecchi che si abbeverano dei luoghi che devono lasciare alla distruzione di mani ostili. E così cammino senza sosta, un burattino senza coscienza, per gli splendori di questa casa.
L’ultimo splendore di un giardino fiorito, destinato a seccarsi nella morte col giungere della sera.
Osservo i tendaggi, le statue antiche, i bei giardini, con la tristezza dell’ultima volta. Non ho motivo di amare questo luogo, ma ne sento per la prima volta l’essenza, il passato fatto di vicende umane che aleggia nella sua bellezza costruita nei decenni.
Rimango per un attimo intento a guardare i bei pesci nella vasca. È un pensiero stupido, ma mi chiedo che fine faranno da qui a pochi giorni.
Mille voci e passi echeggiano per le mura, un ultimo sprazzo di vita nell’immagine che ho del silenzio tombale in cui cadranno questi luoghi. E in tutto questo rumore non mi accorgo dell’uomo alle mie spalle:
“Ehi”.
Le mie spalle si irrigidiscono, i pugni si chiudono. Mi giro, fulminandolo con tutto l’odio che è possibile accumulare negli occhi: “Lasciami in pace”.
Alessandro inarca le spalle, accostandosi a me nei pressi della vasca come se io non avessi detto niente. Si tende, guardando un grosso pesce dalle sfumature perlacee: “Giuliano mi ha dato una grattata di capo, ieri sera”.
Si passa una mano tra i capelli, abbozzando un sorriso sotto al mio sguardo incredulo: “Chi avrebbe mai detto che fosse un tipo geloso delle sue cose”.
“Io non sono una cosa”.
Mi studia, gli occhi marroni stranamente acuti, simili a quelli del padrone. Sorride di nuovo: “Più o meno la stessa cosa che ha detto lui”. Sospira: “Chissà chi ha influenzato chi”.
“Nessuno ha influenzato nessuno” sibilo, girandomi per andare via.
Mi allontano di un paio di passi, prima di sentire la sua voce ironica alle mie spalle: “Nessun bacetto di addio?”.
“Ma vai a morire!”.
Lo intravedo raccogliere le braccia al petto, un sorriso che non riesco a decifrare sulle labbra: “Probabilmente…”.
Fingo di non sentirlo e rientro nelle mura della casa, imboccando il portico per poi immergermi nel più fresco corridoio, nei meandri più nascosti e riservati della casa. La luce del primo mattino entra comunque dalle finestre e gli stessi colori sgargianti degli stucchi sembrano darle forza.
Per un attimo mi sento un fantasma che vagabonda in un tempo passato, poi incontro i primi schiavi intenti a prendere i pochi oggetti di valore per nasconderli chissà dove.
I polmoni faticano a funzionare quando mi ritrovo all’entrata della casa, nel cui cortile principale i carri con i fuggitivi sono già pronti. Prendo un ampio respiro, cercando di combattere il masso che mi ammorba il petto.
E lì lo vedo.
Rimango immobile come uno spettatore, mentre con dolcezza bacia la fronte della nipote più piccola, la maggiore che si stringe alla sua tunica, le piccole dita tese per la forze che cerca di mettere nella presa.
Vedo la sorella del padrone asciugarsi una lacrima, accostandosi piano per abbracciare il fratello. Gli sussurra qualcosa all’orecchio e lui sorride, continuando a tenere le mani sulle teste delle bambine a lui ancorate.
Poi, il viso pallido, prende le figlie e le conduce con sé, uno schiavo che le carica sul carro, quello coperto da un bel tessuto ricamato.
I carri cominciano a muoversi, le bambine che salutano lo zio con cenni della mano, le spalle scosse dai singhiozzi. Il padrone risponde al saluto, continuando a sorridere fino a che non scompaiono oltre al porticato. Poi, le labbra si fermano in una linea piatta.
Apro bocca per dire qualcosa, ma qualcuno mi chiama e vorrei strozzarlo: “Ehi tu! Muoviti, stiamo partendo!”.
Il padrone si gira a guardarmi, gli occhi talmente pieni di pensieri ed emozioni che mi sento travolgere. Rimaniamo immobili a fissarci, per un attimo sembra che voglia venirmi incontro. Qualcosa dentro di me si piega quando, come se io non fossi qui, imbocca il corridoio opposto al mio.
Di nuovo quell’odiosa voce: “Ti vuoi sbrigare?”.
Piano, mi giro verso i carri. Faccio un paio di passi, le mie gambe di colpo pesanti come il piombo. E poi, mi fermo. No, non posso andarmene così. Ne sarei logorato per tutta la vita.
Mi volto, ignorando lo schiavo che mi chiama. Mi lancio dietro al padrone, pregando di trovarlo subito, che non si sia nascosto nei meandri della sua amata tana.
Il sollievo sembra mettermi le ali quando lo trovo subito, in piedi davanti alla libreria. Scorre delicatamente le dita sui papiri, ne accarezza la consistenza come se fossero di seta purissima.
Si gira quando entro in fretta nella stanza: “Antares, cosa…”.
Basta parole, basta pensieri. Mi lascio trascinare da un impulso della cui origine non so nulla e non gli permetto di terminare la frase. Serro la sua bocca con la mia senza perdere tempo, mi impadronisco di quelle labbra piene mentre con un braccio gli cingo la vita, stringendomi contro il suo corpo flessuoso, ma morbido e caldo.
Lo sento sussultare, i suoi occhi si spalancano. Poggia le mani sulle mie spalle e ho paura che mi allontani, ma mi rilasso quando non lo fa, la sua presa che si allenta a modellarsi intorno alla mia pelle.
Passo una mano sui suoi capelli e sì, sono setosi come li ho sempre immaginati, resi leggeri da balsami e oli. Non è un uomo che si cura spasmodicamente, ma è un potente nobile e mentre lo tengo tra le braccia mi sembra di maneggiare un simulacro sacro, forgiato di cure lussuose e di potere, di venerazione e invidia. E il fatto che nonostante tutto questo sia così, così buono e intelligente, e non stucchevolmente dolce mi annebbia la vista.
Lo bacio, per la prima volta nella mia vita, con passione, accarezzo la pelle morbida, mai niente fu così bello da toccare. E quando una sua mano scivola sul mio braccio in un tocco gentile, mentre lascia che sia io, io, lo schiavo ad avere accesso alla sua bocca aprendo le labbra, mi sento sopraffare. Il pensiero che finalmente, dopo una vita di sofferenza, io abbia trovato qualcosa di così bello, per perderlo in modo così crudele, è troppo da sostenere.
Gli prendo il viso tra le mani, fissando gli occhi nei suoi. “Ti prego” sussurro a fior di labbra. “Ti prego, vieni con me”.
Le sue spalle si piegano per un attimo, la tristezza gli invade i lineamenti. Sorride, sfiorandomi la guancia con le dita. “Mi dispiace…” mormora. “Non posso”.
Stringo la presa, scuotendolo un poco come per imprimergli il messaggio: “Non voglio che tu muoia. Non puoi…sei troppo…”.
Mando giù della saliva, incapace di dire a parole quanto lui sia.
E così lo abbraccio, affondando il viso nel suo collo, nel suo profumo. Cerco di fargli capire con la mia stretta, con il calore del mio respiro sulla sua pelle: “Ti prego”.
Non riesco a dire altro. Lo sento cingermi la vita, mentre con una mano mi accarezza piano i capelli. Comincia a muoversi piano, ondeggiando. Mi stringo a lui da far male, ma lui non emette suono.
Quasi non ricordo l’ultima volta che ho pianto. E di certo, non ho mai pianto per dover lasciare qualcuno.
Per qualcuno.
Sono perso quando mi stacca da sé. Corruga appena la fronte, perso in chissà quali pensieri. Sposta una ciocca di capelli neri, delineando il mio viso con la punta delle dita. “Sei così bello” mormora, la voce distante, lontana.
Si gira e senza accorgermene faccio un passo per andargli dietro, fermandomi nel mezzo del movimento. Prende una bisaccia da terra, tornando subito verso di me. Non capisco cosa stia succedendo, quando me la porge, facendo stringere le mie dita intorno al tessuto ruvido: “Tienila con cura”.
Sorride: “Spero che ti servirà”.
Sono ancora inebetito quando si tende verso di me, poggiando lievemente le labbra sulle mie.
“Vivi, Antares” sussurra, puntando lo sguardo nel mio. Mi da un altro bacio, stavolta rimanendo un poco più a lungo. Il lieve schiocco echeggia nel silenzio quando si divide da me, arretrando.
Sono pochi passi, ma di colpo la distanza tra noi sembra un baratro.
Distoglie il viso, indicando con un cenno la porta: “Vai”.
Rimango immobile.
“Devi andare, forza”.
Scuoto il capo: “No…io…”.
“Per favore”. La sua voce mi trapassa da parte a parte. Non avrei mai voluto sentire questa nota di disperazione, di sconfitta, provenire da lui.
E so che se mi riavvicinassi a lui andarsene sarebbe troppo doloroso. E so che lui non mi permetterebbe di restare. E così mi volto, senza osare voltarmi a guardarlo.
Devo costringere il mio corpo a muoversi da solo per salire sull’ultimo carro, ignorando qualcuno che mi si rivolge. Mi accovaccio con le gambe strette al petto, tra di esse la borsa che mi ha donato.
Con ogni passo che i cavalli fanno, la luce intorno a me sembra farsi più buia, uno strano gelo mi paralizza in contrasto con il sole caldo contro la mia testa.
“Come vanno le ferite?”.
Alzo stancamente la testa, incontrando il vecchio che mi ha curato giorni or sono.
“Bene” rispondo, la voce roca e secca come una foglia d’autunno.
Fa un cenno di assenso, senza aggiungere più nulla.
Mi passo una mano sul viso, per poi aprire la bisaccia. I miei occhi si spalancano per lo stupore a vedere ciò che contiene: due papiri, uno dall’aspetto antico, uno nuovo. Ma ciò che mi lascia senza fiato è il mantello purpureo che li tiene insieme, il colore intenso della più bella rosa vermiglia.
Le dita quasi mi tremano mentre accarezzo la stoffa preziosa, simbolo di potere e regalità. Qualcosa di così inestimabile donato a me, che ho passato la vita con le mani nella terra e nei letti di uomini indegni.
Emetto un lungo respiro, che stavo trattenendo.
Lasciamo le porte della città, il sole che si muove nella volta celeste. Il dondolio del carro è cullante, mi sembra di essere in un sogno.
Estraggo con cautela i due papiri, corrugando la fronte. Non so leggere, il padrone mi ha insegnato qualcosa ma…
“Vecchio”.
Quello che si volta verso di me, gli occhi per nulla annebbiati dall’età.
Gli pongo i papiri: “Sai leggere?”.
Annuisce, in un lungo gesto solenne. Le dita rugose si stringono con cura tremolante intorno agli oggetti, poggiando uno in grembo mentre apre il secondo. Vedo le sue iridi muoversi mentre legge. Poi sorride:
“Ah…la Storia Vera di Luciano”.
Mi schiarisco la voce: “Cos’è?”.
“Un racconto di incredibili vicende, in cui l’unica cosa davvero vera è che…non c’è niente di vero”.
Me lo tende, osservandomi come se potesse leggermi dentro, come se sapesse verità a me nascoste: “In cui tutto è possibile”.
Stringo il papiro tra le mani, mentre srotola il secondo. Spalanca gli occhi, legge fino all’ultima riga, io che attendo fremente.
“Allora?” mi sporgo, cercando di comprendere. “Cosa c’è scritto?”.
Il suo sguardo si inumidisce, serra le palpebre. “Questo…” sussurra con voce tremante, d’improvviso molto più vecchio. Si incurva, accarezzando il papiro: “…è il testamento del padrone”.
Prende le mie mani, stringendole intorno all’oggetto. Le solleva, tenendomi piano per i polsi: “Sei un uomo libero, ragazzo mio”.
Un tonfo, poi il mio cuore smette di battere. Apro il papiro con foga, riconoscendo l’elegante calligrafia del padrone.
Il vecchio parla di nuovo, il tono rotto da qualche emozione che lo strozza: “E ricco”.
Indica una riga, scorrendo mentre legge: “Ordino che lo schiavo Antares sia libero ed erede…”.
Ma io non lo sento, le orecchie non hanno più la loro funzione. Stringo la sacca e il papiro al petto, lascio che una lacrima scenda per la guancia. Mi volto verso Roma, un’illusione in fondo alla strada. 

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Capitolo 14
*** Una scelta fortunata ***


Mi sembra di muovermi verso un’altra realtà, la mia mente galleggia in uno strano limbo in cui i ricordi di Roma si mascherano da immaginazione. Ma il sole che batte sulla mia testa è reale, così come anche la buca in cui il carro si imbatte. Sobbalzo, gli occhi sbarrati mentre esco dal torpore che mi aveva avvolto.
Corrugo la fronte, combattendo contro i raggi accecanti, pungenti contro le mie iridi chiare.
Ma che diavolo sto facendo?
La bocca stretta in una linea sottile, balzo giù dal carro. Stranamente, l’anziano schiavo seduto vicino a me non dice nulla. Corro verso uno dei pochi uomini della scorta, afferrando le redini del suo cavallo: “Devo tornare a Roma”.
Quello mi guarda come se fossi impazzito, arretrando fino a strapparmi le redini di mano: “Il caldo ti ha bruciato il cervello?”.
Lo fulmino con lo sguardo: “Dammi questo maledetto cavallo, o ti ci calpesto”.
L’uomo scivola dalla sella, avvicinando il viso al mio: “Voglio proprio vedere come fai”.
L’armatura leggera che indossa per un attimo mi acceca, il sole riflesso sul metallo. Stringo le dita sulla placca che porta sul petto, scuotendolo: “Tu sei fedele al padrone?”.
Alza le mani per rompere la mia presa, ma le ferma a mezz’aria: “Come?”.
“Hai sentito”.
Assottiglia gli occhi neri, districandosi dalle mie dita con una determinazione pensosa: “Sì, lo sono”.
“Allora dammi quel maledetto cavallo”.
Mi scruta per qualche secondo. Poi china la testa sulla bisaccia che tengo nel pugno sinistro. La apre un poco con il dito, gli occhi che si spalancano per lo stupore.
“Ma questo è…”.
Prima che possa dire altro tiro fuori il contenuto, porgendoglielo bruscamente: “Immagino che una testa di legno come la tua non sappia nemmeno cosa siano le lettere”.
Storce la bocca in una smorfia nervosa, aprendo il testamento con cautela, il mantello di porpora appeso sull’avambraccio: “Bada alla lingua, schiavo”.
Sobbalza appena per la sorpresa, la bocca un po’ spalancata. Si schiarisce la gola: “Non più, a quanto pare”.
Risolleva il capo verso di me e ne sostengo lo sguardo scrutatore, che cerca di analizzarmi. Senza la dolcezza e saggezza di Giuliano, ma per una volta la fortuna potrebbe avermi sorriso: forse ho scelto l’uomo giusto.
Riarrotola piano il testamento, mentre una seconda guardia gli arriva alle spalle: “Luciano, che stai facendo?”. 
Chiude la bisaccia, sempre senza interrompere il contatto visivo con me: “Torno a Roma”.
Non riesco a nascondere lo stupore, come nemmeno l’altro soldato: “Che? Ma sei impazzito?”.
Si gira, nascondendo la bisaccia sotto la coperta tra il cavallo e la sella. Issandosi con le braccia scottate dal sole, mi lancia uno sguardo impassibile e tende una mano.
Rimango inebetito per un secondo. “Mi stai prendendo in giro?”.
“Ho l’aria di uno che scherza?”.
Non bado a rispondere e mi sollevo sul cavallo, ignorando la sua offerta di aiuto. Le ferite alle mani non sono del tutto guarite, ma il dolore è sopportabile.
Senza dire altro al secondo soldato che ci guarda perplesso, l’uomo parte al galoppo, il gruppo in lenta fuga lasciato rapidamente alle nostre spalle.
Non sono abituato a cavalcare e devo afferrare quel Luciano per la vita per non cadere, ignorando la mia repulsione per il contatto. Lui volta appena il capo verso di me: “Tieniti”.
“È quello che sto facendo” borbotto di rimando, cercando di non graffiarmi con le placche della sua armatura.
Mi era sembrato di essere stato su quel carro per secoli, invece nemmeno un’ora dopo Roma è di nuovo di fronte a noi, come l’avevamo lasciata. Rallenta, accarezzando distrattamente il collo sudato del cavallo.
Sulla strada lastricata le persone in fuga si affrettano a lasciare la città eterna il più in fretta possibile, come se minacciasse di collassare su se stessa da un momento all’altro, troppe le memorie della sua storia.
Pesci contro corrente, il cavallo prosegue su un lato della strada, diretto verso la stessa porta in marmo da cui eravamo usciti.
Il soldato guarda distrattamente verso le colline, a est rispetto a noi. Si volta e mi osserva con la coda dell’occhio, lo sguardo penetrante: “Che razza di nome è Antares?”.
Ora che non rischio di cadere, mi allontano da lui: “Che ti frega?”.
Inarca un sopracciglio: “Non mi interessa neanche più di tanto. Comunque potresti essere più gentile con me, considerando chi ti ha portato qui”.
Passiamo sotto la porta, evitando di poco un carro che prosegue un po’ troppo veloce.
Rimaniamo in silenzio per qualche secondo, rotto da lui: “Devi tornare al palazzo?”.
“Sì…” mormoro, uno strano sfarfallio nello stomaco, la mente distratta.
“Ah…no” mi correggo. “Non fin lì, ma vicino”.
Il soldato corruga la fronte, poi scrolla le spalle: “Sei un tipo strano”.
Non mi interessa ribattere, ma per la prima volta perdo davvero tempo a vedere Roma, con gli occhi dell’addio. Per quanto questi palazzi dai marmi sfavillanti, questi obelischi e templi innalzati verso il cielo siano costruiti su basi di sangue e schiavitù, la bellezza delle cose per un attimo mette un velo alla crudeltà, assimilandola agli dei pagani, vendicativi ma splendenti.
Il soldato si ferma, indicando l’imponente palazzo del padrone, alle spalle di un’alta colonna ricolma di effigi, una statua d’oro sulla cima.
Annuisco e scendo da cavallo, afferrando al volo la bisaccia che mi lancia. Controllo che ci sia tutto, non importandomi di fare la figura del malfidente. Lo sono.
Solleva gli occhi al cielo: “C’è tutto. Se avessi voluto portartele via l’avrei già fatto”.
Gli lancio un’ultima occhiata, prima di voltarmi per andare via.
Ho fatto un paio di passi, quando mi richiama.
“Ehi”.
“Che vuoi?”.
Si passa una mano tra i capelli corvini, dita ruvide adattate alle armi. Poi torna a guardarmi, un qualcosa di indeciso nei lineamenti. “Perché sei tornato?”.
“Non sono affari tuoi”.
“Sì che lo sono” ribatte, il cipiglio duro.
Sbuffo, l’unico desiderio liberarmi di questo scocciatore. Mi è stato utile, ma è ora che mi lasci in pace.
“Voglio aiutare il padrone, da bravo schiavetto ubbidiente. Ora vattene”.
Per qualche istante sembra perso in ponderazioni, poi porta una gamba su questo lato e si lascia scivolare giù. Avanza verso di me e io indietreggio: “E ora che vuoi?”.
Mi afferra per un braccio, poco sopra la spalla. Fissa gli occhi nei miei: “Se il padrone muore, tu sei il suo erede”.
Provo a liberarmi dalla presa, ma è di ferro: “E allora?”.
Gli lancio uno sguardo di ghiaccio: “Non penserai che io voglia ucc…”.
“Non ho detto questo” mi interrompe, brusco.
Sospira appena, prendendo il morso del cavallo: “Vieni”.
E mi trascina verso un porticato: “Mollami!”.
Ma lui non da segno di sentirmi: “Ti ho detto di lasciarmi!”.
Con una spinta mi porta davanti a sé, la mia schiena a pochi centimetri da un muro che odora di urina.
“Sei qui per aiutare Giuliano?”.
Corrugo la fronte a sentirlo chiamare per nome.
“Sì…” rispondo, titubante.
Sinceramente non so nemmeno cosa ho intenzione di fare. Ma almeno so cosa non voglio, ovvero fuggire.
Annuisce: “Bene”.
Prende una delle varie sacche che porta appese alla cavalcatura, estraendone una spada, che si appende alla cinta: “Allora rimango con te”.
“Cosa?”.
Scuoto il capo: “Scordatelo!”.
Fa un sorrisetto, il primo che gli vedo fare: “Voglio vedere come pensi di fermarmi”.
Rimaniamo immobili a fissarci, io cercando di gelarlo sul posto, lui con l’aria beffarda di chi sa di aver già vinto.
Faccio un gesto di stizza: “E perché vorresti farlo? Se non sbaglio stavi scappando con la coda tra le gambe”.
Scrolla le spalle, intoccato dal mio punzecchiamento: “Stavo ubbidendo agli ordini. Ma ho cambiato idea”.
Senza preavviso, si gira e mi lancia una spada. La lascio cadere, evitando di poco la lama tagliente: “Ma sei deficiente o cosa?”.
L’idiota si limita a ridacchiare, stringendosi intorno alle mani delle fasce marroni.
Raccolgo l’arma da terra: “Rispondi alla mia domanda”.
“No”.
“No…cosa?”.
“No, non sono deficiente”.
Scuoto il capo: “Per quanto potremmo aprire un dibattito su questa affermazione, non mi riferivo a quello. Perché vuoi rimanere?”.
Resta per un attimo in silenzio, studiandomi. Poi sorride, spalancando le braccia: “Guardami. Come sono?”.
“Completamente idiota”.
Una lieve risata gli scuote il petto placcato: “No, direi di no”.
Accarezza il cavallo, affondando appena i polpastrelli nella pelle morbida e pulsante: “Non sono bello quanto te…”.
Mi irrigidisco, apprezzando poco il commento.
“…né altrettanto giovane. Ma sono di bell’aspetto e…sono Greco”.
Spalanco gli occhi: “Greco? Ma tu parli…”.
“Parlo bene latino, sì. Ma l’ho imparato quando ero giovane”.
“Non capisco…” mormoro. “Non vedo cosa c’entri la tua vita personale. Quindi taglia, non ho né tempo né voglia di sentirla”.
Sorride, i denti bianchi in mostra: “Bugiardo. Comunque…è cominciato tutto circa cinque anni fa, quando sono stato venduto”.
“Venduto?”.
“Sì. Sai, sto cominciando a credere che tu sia davvero sordo”.
“Ah…ah…”.
Un gruppo di soldati ci investe, portando ampi fasci di legnami. Passano tra di noi e tacciamo, ne approfitto per scrutarlo, cercando di capire se mi stia prendendo in giro.
“Quindi tu…saresti uno schiavo”.
Fa un cenno di diniego con il capo: “No, non più. Grazie a Giuliano”.
Ridacchia, una luce malinconica nello sguardo: “Un giorno ero un uomo libero, il seguente ero incatenato al mercato degli schiavi, destinato a chissà cosa. Mi stavano vendendo ad un’asta, come un pezzo di carne invecchiato ma ancora mangiabile e un tipo aveva appena fatto l’offerta più alta”.
Il suo viso si incupisce, raccoglie le braccia al petto: “Ricordo ancora il suo sguardo, mi fissava come se volesse mangiarmi, come se…” agita una mano nell’aria, cercando le parole. “…ma immagino che tu lo sappia”.
Non annuisco, è inutile.
“E in quel momento, arrivò Giuliano, gli occhi distanti e il viso pulito, una visione in quel branco di animali. Mi scrutò per qualche istante e mi comprò, pagando molto più di quanto valesse uno schiavo quasi trentenne, mai stato tale prima”.
Si morde appena un labbro, prendendo un ampio respiro: “Non capivo…perché tra tutti gli schiavi in vendita avesse preso proprio me…perché non un altro, o un’altra”.
Sorride, facendo un segno davanti al proprio petto: “Un giorno, trovai il coraggio di chiederglielo. Quando mi ha comprato avevo una targa al collo con scritto il mio nome. Ha detto che è stato quello ad attirare la sua attenzione e poi…quando aveva visto me e il tizio che stava per prendermi, non aveva potuto fare altrimenti”.
“Gli piace un certo Luciano…” mormoro.
“Sì, quasi quanto Seneca. Ma il punto è…senza la bontà di Giuliano, sarei stata la puttana di qualche romano impaccato di soldi. Forse ora non sarei nemmeno più vivo. Quando mi ha liberato, ho giurato che lo avrei servito per sempre e ho continuato a difendere la sua famiglia. Per questo stavo partendo…”.
Si passa una mano sul viso: “…ma non ce la faccio a lasciarlo qui, non dopo quanto gli devo”.
Ridacchia: “Sei stato fortunato a scegliere proprio me”.
Sbuffo: “Questione di punti di vista”.
Inarca la sopracciglia, il bel viso scottato dal sole tinto di non malevolo scetticismo.
 
 
 
  

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Capitolo 15
*** Un tramonto troppo rosso ***


 
In realtà, quasi mi viene da credere che tutta la sfortuna della mia vita sia stata pareggiata dalla fortuna che ho avuto nel trovare proprio Luciano, tra tutti. Ma ovviamente non ho la minima intenzione di farglielo sapere.
Tacciamo, osservando immobili il viavai di soldati e fuggiaschi, i visi spauriti di chi non avrebbe mai creduto che Roma potesse cadere da un giorno all’altro, di chi arriva a immaginare le cose più fantasiose di un popolo sconosciuto.
Sono passate ore da quando siamo arrivati e nemmeno nelle lunghe giornate passate nei campi il tempo mi è sembrato così crudelmente lento. Luciano se n’è anche andato per una buona ora, rifiutando di dirmi dove e perché. Ovviamente mi sono insospettito e ho preferito spostarmi dal punto dove mi aveva lasciato, pur rimanendo lì vicino a controllare. Non mi è sembrato stupito di non trovarmi e quando mi sono fatto rivedere, avendo constatato che era effettivamente solo, non ha detto una parola.
Alzo il capo al soffitto del porticato, dove siamo semi-nascosti tra le barricate in legno, fragili e inutili, improvvisate nelle strade più piccole della città. Passiamo la notte lì, combattendo la stanchezza nonostante l’adrenalina che mi elettrizza le vene. Al contrario di me Luciano non pare minimamente disturbato, vigile come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno.
Ha acceso un piccolo fuoco nella città silenziosa e i suoi lineamenti tranquilli vengono illuminati dalle fiamme rosse. Quando d’improvviso parla mi fa sobbalzare: “Dormi. È da stupidi stare entrambi svegli”.
“Lasciami in pace” borbotto.
Sospira, guardando in alto: “Come ti pare”.
Ma le mie palpebre decidono di non darmi ascolto e continuano a chiudersi. Le serro un attimo e nemmeno mi rendo conto di addormentarmi. Quando mi sveglio, corrugo la fronte per la mano che brucia, avendo dormito poggiato su di essa. Stiracchiandomi, apro lentamente gli occhi. Ma che diamine…con mio improvviso orrore, mi rendo conto di avere la testa poggiata sulla gamba di qualcuno, il viso spiattellato contro il suo fianco.
Balzo a sedere e subito sono in piedi, guardando sdegnato Luciano, che mi osserva di rimando, gli occhi svegli come se non avesse appena passato la notte in bianco.
“Prima che tu dica qualcosa” esordisce, alzando una mano con un sorriso.
“Sei tu che sei crollato su di me. Io non mi sono mosso”.
Raccolgo le braccia al petto, sentendo il viso avvampare: “Certo, come no!”.
“Stai insinuando che abbia cercato di sedurti? Tranquillo, non sei il mio tipo”.
Scrolla le spalle, continuando con voce innocente: “Preferisco quelli più maturi, con grandi occhi castani e pelle ambrata. Se poi ha anche dei morbidi capelli color nocciola, meglio”.
Rimango immobile per qualche secondo, prima di ridurre gli occhi a due fessure: “Che stai dicendo?”.
“Ops” risponde, fingendosi stupito. Sorride, puntandomi contro un dito: “Mi sa che quelli sono i tuoi gusti”.
Dopo un primo momento di stupore, digrigno i denti. “Ma cosa ti salta in mente?” sibilo.
Lui scrolla le spalle, con tutta la tranquillità di questo mondo: “Non ti biasimo. Anche io ci avrei fatto un pensierino”.
Sento le mie guance prendere una tonalità vermiglia e vorrei tirargli qualcosa, magari uno di questi calcinacci: “Rimangiatelo”.
Sorride, passandosi una mano tra i capelli: “Rilassati. Non capisco perché te la prendi così tanto”.
Si tira in piedi, stiracchiando la schiena. Mi lancia la sua bisaccia: “Mangia qualcosa. Tendi allo scheletrico”.
“Questo non è vero!” ribatto, offeso. “E non ho bisogno della tua pietà”.
I suoi occhi scuri mi fissano, scrutatori: “Per quanto tempo sei stato schiavo?”.
Innervosito, sostengo il suo sguardo: “Praticamente da sempre”.
“Strano…” commenta, voltandosi verso la strada principale.
 
Nell'attesa non mi muovo molto per la città e nemmeno ci ho vissuto tanto da conoscerla nella sua vita di sempre, ma è inquietante vederla così deserta e silenziosa. Le strade dove non si poteva camminare senza essere pestati sono dei teatri di desolazione. Specialmente ora che si avvicina il tramonto, sembra che si stia in attesa della fine del mondo e che, dopo questa notte, nessuno si sveglierà più. Il sole sta calando rosso su Roma e in lontananza si sente un boato, un insieme di rumori indecifrabili che sembra la carica del mondo dei morti, che sale con i suoi demoni a trascinarci tutti sotto terra.
Mi tiro in piedi, una strana pesantezza nel petto. “Sono qui” mormoro, la voce raschiata. Luciano si limita ad annuire e mi passa una spada sottile, prima di salire in groppa al proprio cavallo.
“Aspettami qui”.
“Dove stai andando?”.
“A controllare una cosa. Poi vedrai”.
Senza darmi tempo di dire altro, parte al galoppo, lasciandomi solo. Impreco sottovoce, il cuore che batte a mille. Poter solo sentire il nemico, senza vederlo, mi terrorizza, io che mi sono sempre ritenuto superiore per il mio sangue freddo, per il mio sprezzo della vita. Arretro sotto al portico, mescolandomi nell’ombra.
I pugni stretti con forza, prendo ampi respiri, mentre combatto il forte impulso di correre via, di lasciarmi tutto alle spalle. La mia solita sfiducia mi porta a sospettare di Luciano. Potrebbe non tornare, potrebbe uccidermi, anche se non saprei dire un perchè. Sarebbe irrazionale, visto quello che ha fatto fino ad ora, ma c’è un’acidità senza logica nel mio petto che non mi è affatto nuova e quando penso al soldato greco una smorfia si allunga indipendente sulle mie labbra.
I rumori si fanno sempre più forti e chiudo gli occhi, sperando, non per la prima volta nella mia vita, che le cose siano diverse da come sono. Trasalisco a un rumore più vicino e sussulto a vedere un’ombra, prima di riconoscerla come quella di Luciano.
“Muoviamoci, potremmo non avere molto tempo”.
Mi afferra per un braccio, trascinandomi via: “Aspetta, dove vai? La casa è dell’altra parte!”.
“Giuliano è andato alle mura”.
Sbarro gli occhi: “Cosa? Ma…potremmo non trovarlo”.
“Taci e corri”.
Mi libero dalla sua presa, correndo tra le strade. In fondo, si sta innalzando una nube di fumo. Ansimante, dopo un po’ fatico a stare al passo di Luciano, ma non rallento né rimango indietro. Ci troviamo di fronte una delle tante barricate e comincio ad arrampicarmi, le mani che mi fanno vedere le stelle.
Sono troppo dolorante per protestare e lascio che Luciano mi aiuti, un braccio stretto con forza intorno alla mia vita.
“Forza, ci siamo quasi… “.
Annuiscono, issandomi fino in cima. Subito mi lascio cadere a terra e riprendo a correre, distanziando il soldato per la prima volta. Non mi fermo a chiedergli dove diavolo abbia messo il cavallo proprio ora, la mia mente occupata da due grandi occhi castani, mentre corro a perdifiato verso la mia probabile morte.
Giungiamo alle mura e lì mi fermo, davanti allo spettacolo di fuoco che mi si mostra davanti.
Gli assediati stanno scoccando frecce dalle feritoie, mentre altri si sono arrampicati per lanciare di tutto contro gli aggressori. La confusione è tale che non riesco a capire esattamente cosa stia succedendo, chi sta facendo cosa e perchè.
La mano di Luciano sulla spalla mi risveglia dal momentaneo torpore: “Forza. Dobbiamo cercarlo”.
Scuoto il capo: “Ma come facciamo…in mezzo a…”.
Le parole non riescono a formarsi e rimango fermo, inebetito.
Luciano mi lascia, la spada stretta nel pugno: “Non so tu, ma io combatto, ora che sono qui”.
Mando giù un groppo per la gola. È vero, questa non è la mia città e questo è il popolo che ha reso la mia vita quello che è stata e me un animale. Ma è per la mia vita che ora devo combattere, e per potere rivedere Giuliano.
Prendo un ampio respiro: “Va bene…”.
Luciano mi fa un cenno con il capo e io lo seguo, i miei occhi che fremono alla ricerca di Giuliano. L’idea di essere rimasto in questo inferno, per poi non riuscire a trovarlo mi fa venire voglia di gridare al cielo, ma con la mascella serrata seguo Luciano fino alle mura.  

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Capitolo 16
*** Un destino incerto ***


Sangue, fuoco, fumo, grida. Sono in una voragine eterna in cui nulla sembra avere più un senso, tutto quello che so è che il mio corpo non ce la fa più. Le mani bruciano, ardono più di quando caddi sui carboni. L’elsa apre la pelle e la lascia scoperta contro il caldo, contro le ventate che ogni tanto sferzano la carne viva. Prendo un ampio respiro, combattendo i polmoni chiusi, e approfitto del momento di breve stasi per passarmi una mano sulla fronte per togliere il sudore. Quattro giorni, quattro maledetti giorni di questo Tartaro, ma sembra che vada avanti da secoli.
Luciano si abbandona al mio fianco, poggiando la schiena contro un muro semi-distrutto. Ha il viso ricoperto di polvere, fuliggine e altro che non voglio riconoscere. Un taglio sanguinante gli attraversa l’avambraccio e quasi in automatico afferro il suo braccio e me lo poso in grembo, cercando di liberarlo dallo sporco. Il primo a curarmi è stato lui, dando inizio ad un’abitudine rapida e silenziosa di leccarsi le ferite a vicenda. Taglio un brandello della mia tunica, ormai a pezzi, per fare una fasciatura occasionale, anche se ormai siamo più laceri che interi.
Tossisce, un suono roco e secco, che sa di polvere e fumo. Abbozza un sorriso quando finisco la mia misera opera e non mi stizzisco quando passa una mano tra i miei capelli, a metterli ancora più in disordine, se possibile. Sono troppo stanco per innervosirmi, figurarsi per reagire, e lui non si sposta quando poggio la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi.
È notte fonda, ma questo non vuol dire che arriverà il riposo. È solo un illusorio attimo di tregua, lo sappiamo benissimo. Non dovrei distrarmi, ma ho imparato in questi giorni ad affidare la mia schiena a Luciano, che non ha mai mancato di proteggerla. Quindi lascio che il sonno mi prenda, sospirando appena quando il mantello donatomi da Giuliano mi avvolge, dandomi un’irrazionale sensazione di sicurezza. Giuliano…dovrebbe intristirmi pensare a lui, non so se sia morto o vivo, forse in questo momento sta morendo in qualche buco. Ma al momento sono troppo stanco per pensare e ogni cosa fluttua via, arretrando nel buio fino a scomparire nell’oblio.
Vorrei dormire per sempre, ma Luciano mi scuote per una spalla: “Antares, svegliati!”.
Mugugno qualcosa di cui nemmeno io conosco il senso, cercando invano di staccarmi dalla sua presa.
“Antares! Hanno aperto la porta Salaria, dobbiamo andare!”.
Decisamente, questo è sufficiente per farmi sbarrare gli occhi: “C-cosa?”.
Luciano mi afferra per un braccio per tirarmi su e fatico a sentire le parole seguenti nella confusione: “Qualcuno ha tradito. Dobbiamo andare alla domus, se è ancora vivo, Giuliano sarà tornato lì”.
Se è ancora vivo.
In quest’alba che è l’inizio della fine, seguo il soldato con un magone nel petto e nella gola. Non ho idea di dove abbia nascosto il cavallo, quindi corriamo a perdifiato nella città annerita dal fumo, attraversando il foro, dritti verso la basilica Ulpia. Inciampo ma riprendo in fretta l’equilibrio, con le ali ai piedi quando scorgo la casa.
Mi lancio nel cortile interno, incontrando gli sguardi atterriti dei pochi uomini rimasti a difesa della casa.
“Antares?”.
Il fiato pesante, riesco ad emettere solo un soffio stizzito a vedere Alessandro. Prendo un ampio respiro e lo afferro per le spalle, ignorando il dolore: “Giuliano, dov’è?”.
Ha un occhio chiuso, ricoperto dal sangue rappreso provocato da un taglio sulla fronte. Odora di fumo, come me immagino, di polvere e sudore. Mi guarda perplesso e lo scuoto: “Rispondimi!”.
“Non so dove sia…eravamo insieme quando la porta è stata aperta. Poi…l’ho perso, quando i barbari hanno cominciato a farsi strada”.
Sento il sangue congelarsi sul mio viso, la testa svuotarsi.
“Dove?”.
“D-dove cosa?”.
“Dove eravate!”.
Sono cosciente di urlare come un folle, ma non me ne curo. L’unica cosa che questo deficiente deve fare è dirmi dove posso trovare Giuliano, perché non può essere morto, non può… Stringe una mano insanguinata intorno al mio polso: “Perché? Per andare a cercarlo?”.
Scuote il capo: “Inutile, ho tentato. Sarò un bastardo, ma non avrei abbandonato Giuliano”.
Sento il rumore secco delle ossa quando lo colpisco in pieno viso e so di starmi vendicando dell’umiliazione, della rabbia che in questi giorni non hanno fatto che aumentare e accumularsi in me insieme alla disperazione.
“Dimmi dove!”.
Il capo piegato per il colpo, mantiene il viso impassibile. Passa il dorso della mano sulla bocca per pulirla dal sangue, scoprendo il labbro spaccato. E continua a tacere.
“Bastardo!”.
Faccio per lanciarmi su di lui, preda della furia, ma delle braccia si stringono intorno alla mia vita e vengo trascinato indietro. Scalcio, graffio persino, ma la presa non si allenta.
“Lasciami! Per la miseria Luciano, lasciami!”.
“Calmati, Antares” mormora, vicino al mio orecchio. “Non cambierà nulla, agendo in questo modo”.
La mia vista sta degenerando, tutto si fa sfocato, il mio corpo mi tradisce se piange da solo. Allungo un braccio verso Alessandro, cercando di afferrarlo per fargli sputare quello che sa.
“Ma…Giuliano…” mi esce un miagolio sommesso e la stretta di Luciano si allenta un po’. Emette un breve, doloroso sospiro.
Non abbiamo tempo per dire altro, perché alle nostre spalle un uomo si lancia nella casa: “St-stanno arrivando! Sono al Campidoglio!”.
Uno schiavo si mette le mani nei capelli, tirando le ciocche da far male: “Roma è caduta…siamo condannati”.
Il cortile cade nel silenzio, in contrasto con le grida provenienti da fuori. Si sente un colonna cadere e Alessandro sussulta, forse riconoscendone l’ubicazione: “Sono qui”.
Manda giù un groppo di saliva e stringe le dita intorno alla spada: “Barricate la porta! Voi cinque, salite sul tetto, non fategli oltrepassare le mura! Forza, muovetevi!”.
Ma non c’è speranza, è davvero la fine. Prendo ampi respiri col naso, alzando lo sguardo verso l’edificio che Giuliano amava così tanto. Guardo i portici in cui è cresciuto, il corridoio dal quale è uscito la prima volta che l’ho visto. E così, devo finire così, senza nemmeno vederlo un’ultima volta. Perché anche se non è certo che sia morto, lo saremo tutti entro il tramonto. Mi sacrificherò per chi nemmeno sa che sono tornato per lui.
Luciano mi lascia e poggia una mano sulla mia spalla in una presa gentile, prima di aiutare gli altri a serrare l’ingresso.
“Che vita di merda”.
E mi giro, aiutando ad assestare una trave, ignorando di essere a fianco di Alessandro. Ora non è il momento per l’odio, ma quello di combattere fino alle fine, di aggrapparsi ad una pur inesistente speranza.
I primi schianti contro il portone arrivano dopo pochi minuti e la voce di Alessandro mi esplode nelle orecchie, mentre da ordini a noi sopravvissuti, che fortunati non possiamo definirci.
Il fuoco si alza verso il cielo e comincia ad avvolgere la casa dal settore ovest, forse appiccato nella casa vicina. Alessandro, fino ad ora colui che ha animato le nostre forze, incitando con grida forti e senza paura, si blocca a vedere le fiamme che piano incombono verso di noi. Ed è Luciano che prende il suo posto, dando istruzioni per usare le riserve di fontane e piscine. Le tubature vengono sfondate e l’acqua si espande tra i giardini e sui mosaici, a rallentare l’inevitabile. Sotto i miei occhi, il nido di Giuliano viene divorato lentamente, da qualche parte tra le mura i suoi libri scompaiono per sempre, i suoi giardini muoiono.
Il tempo non ha più senso, attendo il momento in cui una spada mi trafiggerà. Ma certo non sarò io ad arrendermi e ne porterò con me quanti potrò, immaginando che ognuno di loro abbia ucciso l’unico che io abbia mai amato.
Luciano si sbraccia nel dare indicazioni, con la postura e la voce di chi ordinato per tutta la vita. Il suo corpo da soldato brilla di sudore e i suoi occhi di forza, imperioso anche nel togliersi la polvere dal viso. Alessandro tace, il viso una maschera di cera, immobile di fronte al portone con la spada e lo scudo. E quando le nostre difese cedono con uno spaventoso scricchiolio di legno, è lui il primo ad abbattere un nemico, spaccando un cranio senza esitazioni.
Forse lancio un grido prima di prendere parte all’attacco, io che per tutta una vita ho lavorato la terra, spazzato i cortili e scaldato i letti dei padroni. E non sarò forte quanto Luciano, che falcia il nemico con la forza di Marte, i muscoli potenti e flessuosi sotto l’armatura in pezzi. E la mia abilità non è nulla in confronto a quella di Alessandro, che incurante delle proprie ferite difende la dimora degli avi. Ma non servono anni di addestramento per trovare l’ardore di combattere per la propria vita.
In minoranza, sfiancati, non resistiamo nemmeno un’ora, prima che il portone crolli del tutto e un gruppo di barbari faccia irruzione nel cortile.
Arretriamo e c’è uno strano momento di stasi, in cui noi e questi uomini, della nostra stessa razza, che vogliono distruggerci ci confrontiamo, nel rumore dei nostri fiati spezzati e doloranti. Forse si chiedono se sia il caso di attendere, senza rischiare, perché di certo non ci vorrà molto prima che altri loro compagni si lancino su questa grande domus, brillante per i marmi ora infuocati.
Luciano mi afferra per un braccio e mi spinge dietro di sé. Sembra in procinto di dire qualcosa a…ai barbari? Ma con un grido di battaglia qualcuno si lancia nel cortile alle spalle degli assalitori, facendomi sussultare per l’interruzione improvvisa del silenzio. Riconosco armature romane e i pochi rimasti dei difensori della casa, poco più di una decina, non perdono tempo a lanciarsi contro il nemico, ora tra due fuochi.
È una breve vittoria, che probabilmente farà cadere ancora più dolore sulle nostre teste, ne siamo tutti coscienti. Tra i nuovi arrivati riconosco il capo degli schiavi e altri uomini un tempo al servizio della casa, probabilmente tornati dalle mura, ora che sono irrimediabilmente cadute. Forse Giuliano è con loro… e poi l’orrore si abbatte su di me, quando scorgo una figura tenuta tra due uomini, abbandonata nell’immobilità.
Nessuno parla, mentre con volti gravi i due soldati portano il corpo inerte nel cortile, poggiandolo piano sul terreno. I capelli castani la cui morbidezza mi aveva ammaliato sono incrostati di rosso, quegli occhi pieni di così tanta umanità sono chiusi. La pelle è ricoperta di polvere, graffi e tumefazioni. Sul viso, sporco da essere quasi irriconoscibile per il fumo e il sangue, si espande un doloroso livido violaceo.
E nel fianco, è ancora incuneato il legno di una lancia.
Emetto un verso strozzato, la mia mano non riesce nemmeno più a tenere la spada. Nessuno mi ferma quando piano mi accosto a lui, trascinandomi sulle gambe d’improvviso cedevoli, come se le avessero private di ossa e muscoli. Cado in ginocchio non appena gli sono vicino, atterrito a riconoscere i lineamenti di Giuliano.
Il mondo al di fuori è lontano, la mano mi trema quando sfioro la sua fronte, incapace di toccarlo.
“G-giuliano?”.
Una lacrima mi cade per la guancia, poi un’altra.
“Giuliano!”.
Ma lui rimane immobile, il viso rilassato come se stesse dormendo. Singhiozzo, fregandomene di come io debba apparire. Se non è questo il momento di mettere da parte ogni cosa, ora che ora cosa è finita, quando lo sarebbe?
Stringo in una mano la sua e chino il capo, nascondendo il viso nel suo collo.
“No…no…Giuliano…”.
E come un dono dall’oltretomba, le sue dita si stringono intorno alle mie. La sua voce, pur flebile e provata, accende un fuoco nel mio petto, quando sussurra nel mio orecchio: “Maledetto sia il dio…che ti ha dato un animo così ribelle”.
Spalanco gli occhi e il mio cuore da un’incredibile botta contro il petto quando incrocio quelli di Giuliano, appena aperti per mostrarmi saggezza e dolore. Solleva una mano e senza forza lambisce la mia guancia con le nocche delle dita.
Tolgo con forza una lacrima e poggio una mano sulla sua testa, incapace di parlare. Scuote il capo, quasi impercettibilmente: “Perché…perché sei tornato”.
Non è una domanda e mi strugge sentire la sua voce ridotta ad un sussurro, con la coscienza di essere io a provocare quella nota di costernazione. Il rumore di armi, passi, di ordini in una lingua a me ignota presagisce l’arrivo di un nuovo attacco, stavolta il definitivo. Ma non distolgo lo sguardo dal viso tumefatto di Giuliano e, gli occhi nei suoi, mi chino per far incontrare le nostre labbra. Quando mi separo poggio la fronte contro la sua, lasciando che i nostri ultimi respiri si mescolino nell’aria che ci divide.
Qualcuno si avvicina e alzo lo sguardo per trovare Luciano, che ci fissa in silenzio. Poi solleva il capo verso l’ingresso e, davanti agli attoniti presenti, si fa strada fino al portone. Fa segno di arretrare e dopo un attimo tutti obbediscono.
Anche Giuliano lo guarda, ma ormai i suoi occhi parlano di un altro mondo, lontano da questo. Non c’è sorpresa, sono solo stanchi. Le sue dita si stringono nel tessuto della mia tunica e senza indugio lo prendo tra le braccia, stringendolo possessivamente contro il petto. Ogni suo caldo respiro è un tesoro, mi rassicura che è ancora qui, ma l’idea che presto qualcuno oserà fargli ancora del male mi provoca un conato di bile. Mi accorgo che sta fissando la propria casa, piano consumata dal fuoco e nascondo il suo viso contro di me, come una madre il bambino dinnanzi ad un crude spettacolo.
Osservo Luciano, immobile all’ingresso, ritto tra i detriti del portone. Corrugo la fronte.
“Luciano! Che diavolo vuoi fare?”.
Il soldato si gira e mi rivolge un sorriso spezzato: “L’unica cosa possibile”. Nemmeno mi accorgo dei barbari che con cautela si accostano alla nostra casa e mi sembra di star sognando, quando Luciano abbandona la spada, lanciandola a terra.
E sotto ai nostri sguardi allibiti, dice parole a noi sconosciute, ma che fermano i guerrieri in avvicinamento. Si scambiano qualche frase. Luciano, se davvero questo è il suo nome, è composto e autoritario, mentre i barbari lo scrutano con sospetto, alcuni si inalberano. Uno alza l’ascia e Luciano lo arresta con tono aggressivo, senza muoversi di un centimetro.
Infine, un uomo dalla barba bionda annuisce, dando ai compagni quello che credo sia un ordine. Uno se ne va quasi in corsa, mentre altri due afferrano Luciano, che non oppone la minima resistenza.
Alcuni tra noi fanno per intervenire, ma il soldato li ferma: “No! State fermi!”.
Giuliano mi afferra un braccio e solo ora mi rendo conto che sta cercando di alzarsi.
“Resta giù” mormoro contro la sua fronte. “Non so cosa stia succedendo, ma non muoverti”.
Scuote il capo, lanciando un’occhiata confusa a Luciano, che senza protestare si fa legare le mani dietro la schiena e portare un coltello alla gola. Il sangue mi si gela nelle vene, ma la lama non si muove, limitandosi a toccare la pelle in forma di ammonizione.
Alessandro zoppica fino a noi, sotto al controllo torbido dei barbari.
“Cosa succede?” sussurra, ma noi non abbiamo spiegazione.
Quello che sembra comandare il piccolo gruppo brontola qualcosa a Luciano e dopo un breve scambio il soldato annuisce, accorto della lama contro il collo.
“Abbandonate le armi e arretrate fino al portico”.
Esclamazioni di sdegno e qualche bestemmia erompono dalla ventina di protettori della casa e la tensione torna a salire, i barbari someggiano le armi pronti ad attaccare.
Giuliano prende un ampio respiro, prima di riuscire a parlare: “Fate come dice”.
Per un attimo nessuno si muove e, inaspettatamente, il primo a obbedire è Alessandro. Senza dire una parola, mi aiuta a sollevare Giuliano per trasportarlo verso il portico. Allo spostamento, un gemito di dolore gli sfugge dalle labbra e perde in un colpo solo il colorito rimastogli.
Di fretta ma con tutta la cautela possibile lo poggiamo a terra. Alessandro scruta il pezzo di lancia ancora incuneato nel fianco del cugino e un’ombra scura gli attraversa il volto: “Se lo togliamo, rischia il dissanguamento”.
Sfiora l’oggetto e Giuliano si irrigidisce, mugolando per la sofferenza.
“Non possiamo certo lasciarlo lì!”.
Alessandro si passa una mano tra i capelli e lancia un’occhiata al corridoio poco distante: “Dentro potrei trovare qualcosa di utile. Ma dubito che mi lasceranno muovere”.
Senza perdere tempo a dubitare, mi giro verso Luciano, ancora sotto la lama del guerriero nonostante i nostri abbiano obbedito alle direttive.
“Luciano! Giuliano ha bisogno di cure!”.
Luciano, la schiena rigida stretta contro il petto del proprio sorvegliante, parla con voce modulata: “Cosa volete?”.
“Alessandro deve entrare in casa”.
Luciano guarda l’abitazione in fiamme: “Non credo potrà”.
Faccio per rispondergli che se fa in fretta c’è una speranza, quando i guerrieri barbari si spostano, entrando nel cortile. Luciano viene trascinato dentro senza troppa gentilezza e mi fa un cenno di diniego, per dirmi di tacere.
Obbedisco, ma non riesco a trattenere il tremore a vedere altri nemici giungere. Presto il cortile è pieno, l’uscita ben protetta. Stringo Giuliano e cerco disperatamente di capire cosa Luciano stia facendo, ma lui non incontra più il mio sguardo.
I barbari si spostano, facendo rispettosamente largo ad un uomo  alto, dai capelli marrone scuro appena ondulati, che scendono quasi fino alle spalle. Il fisico è imponente nei vestiti leggeri che porta in questa calda giornata e procede maestoso e silente.
Luciano viene spinto ai suoi piedi e cade sulle ginocchia, subito sollevando il capo a guardare il nuovo arrivato. Il barbaro si ferma e il suo contegno si allenta quando spalanca gli occhi grigi, preda di un improvviso stupore. Come se non credesse a quello che vede, poggia una grande mano sotto il mento di Luciano e ne solleva il viso. Scuote appena il capo, corrugando la fronte. Solo dopo qualche istante la sua voce profonda da suono a un confuso borbottio: “Tu? Perché…com’è possibile?”.
Non capisco quello che dice, ma la sua espressione sorpresa e non astiosa mi fa sperare. Mi chino a guardare Giuliano, che fatica a tenere gli occhi aperti. Qualsiasi cosa Luciano abbia in mente, spero solo che si sbrighi. Nel caso fallisse, dopo avermi dato questo barlume di fiducia, lo perseguiterei in qualunque vita ci aspetti dopo di questa.
Il barbaro lascia la presa e arretra di mezzo passo: “Mi avevano detto che eri morto”.
Trovai rifugio in una Chiesa. Ma in cambio della mia vita, fui venduto oltremare”.
L’uomo prende un respiro, alzando il petto ampio. Luciano si avvicina un poco a lui: “Se ancora tieni in conto ciò che feci per te, risparmia questi uomini. Se porti ancora nella memoria la salvezza tua e della tua famiglia, ripaga così il debito. Tra di essi vi è uno a cui devo tutto, come tu lo devi a me”.
Gli occhi grigi sfidano per lunghi momenti quelli neri, prima che il barbaro parli: “Non sei più tornato”.
Luciano non dice nulla, ne la sua postura cambia quando l’altro annuisce: “Così sia”.
Il guerriero si china fino all’orecchio di Luciano, in un roco mormorio: “Ma tu sarai con me”.
Siamo d’accordo”.
Il capo barbaro si solleva, imperioso: “Conducete questi uomini fuori dalla città, non fate loro del male”.
Non ho capito nulla dello scambio appena avvenuto, ma Luciano si volta a guardarmi: “Non opponete resistenza. Vi porteranno fuori dalla città, nessuno di voi verrà ucciso. Antares, il mio cavallo è nella piccola cavità accanto alla basilica, usalo per portare via Giuliano”.
“Ma…tu cosa farai?”.
Fa un cenno con il capo, ma non risponde. La mia presa intorno a Giuliano si stringe, quando i barbari mi afferrano per una spalla e fanno per separarci. Smetto di dimenarmi quando Alessandro carica l’inerte cugino sulle spalle, sfidando con lo sguardo chiunque si avvicini.
Mani forti e ruvide mi trascinano verso l’uscita distrutta. Nella confusione quasi non riesco a vedere Luciano, ma poco prima di essere spinto sulla strada lo scorgo, la figura in contrasto contro il fuoco alle sue spalle. Non dice nulla, né fa una qualche espressione. China il capo, per poi sollevarlo verso l’imponente barbaro al suo fianco. Inciampo nella strada rovinata e subito mi accosto ad Alessandro, stringendo con forza una mano di Giuliano. E anche se Roma brucia intorno a noi, anche se i morti costellano le strade, anche se ho dovuto lasciare indietro un amico, la fortuna non mi ha mai arriso così nella mia vita. Tranne che nel giorno in cui un certo senatore mi ha acquistato, insieme a tanti altri.  

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Capitolo 17
*** Uno specchio infinito ***


Il caldo brucia la strada e il vapore sale a deformare l’orizzonte, rendendo l’immagine dei guerrieri che si trascinano per la strada ancora più miserevole. Il cavallo procede lento, per quanto desideri lanciarlo al galoppo verso Ostia, ma soprattutto verso il medico.
Stringo con cautela il braccio intorno al petto di Giuliano, cercando di tenerlo contro di me per evitare che cada in avanti. Ogni buca su cui il cavallo incespica lo fa sussultare dal dolore, nonostante oscilli nell’incoscienza. La benda provvisoria non riesce a fermare il sangue, che mi sembra bollente nel punto in cui infradicia la mia tunica. Piego il capo verso il suo, abbandonato contro la mia spalla. Gli sposto i capelli dalla fronte, liberando il viso contorto dalla sofferenza.
“Ha la febbre…” mormoro, la voce roca. Alessandro, che impassibile ci zoppica accanto, solleva la testa.
Poggia una mano sulla gamba di Giuliano e la stringe appena, un gesto silenzioso che vuole solo far sentire la propria vicinanza. Non mi piace la sua presenza, ma fino ad ora il suo comportamento è stato…apprezzabile. Non lo perdonerò, questo mai, ma è stato un coraggioso difensore della casa e ancora adesso non si allontana mai da noi, scrutando il cugino con occhi cupi.
“Quanto manca per arrivare?”.
“Mezz’ora, continuando di questo passo”.
Emetto un lungo respiro e inizialmente non sento la voce che mi sussurra contro il collo. Solo la seconda volta spalanco gli occhi, a percepire il fiato caldo sulla pelle: “Antares…”.
Il petto appesantito, sposto il braccio per incrociare i suoi occhi: “Giuliano?”.
Le palpebre si aprono lentamente, scoprendo due iridi lucide, dalle pupille dilatate. Un lieve sorriso si tende sulle labbra insanguinate, ma subito si piega in una smorfia: “Vedrai il mare…per la prima volta”.
Rimango per un attimo immobile, prima di esplodere: “Che vuoi che me ne freghi!”.
Giuliano mi guarda stanco, ma con una scintilla di umorismo. Torna a poggiarsi contro il mio petto, sfiorandomi con i capelli che adoro, anche se ora sono sporchi di polvere e sangue. Passo delicatamente le dita tra le ciocche, scendendo per accarezzare il collo.
“Stupido filosofo con la testa tra le stelle…” bofonchio, ma Giuliano non risponde, continuando a rimanere con la fronte bollente stretta contro la mia spalla. Abbasso la voce e gli sussurro piano, così che solo lui possa sentirmi: “Resta con me, va bene?”.
Le sue dita si stringono flebilmente nella mia tunica, ma non apre nemmeno gli occhi, privo di forze. Non è da me, diavolo se non lo è, ma poggio le labbra sulla sua pelle calda e increspata, stringendolo un po’ di più.
Alessandro ha distolto lo sguardo, dirigendolo verso la strada che ancora ci si para davanti. Solo ora noto che ha un taglio profondo sulla coscia destra, che ancora perde sangue e macchia il manto del cavallo. Seguo la scia vermiglia e scorgo una bisaccia dall’aria familiare, quella che Giuliano mi ha donato. Bene, avrò l’occasione di bruciargli davanti quello stupido testamento.
Chissà che fine ha fatto il mantello di porpora, il mio ultimo ricordo è Luciano che me lo pone sopra. Luciano…mi giro verso la città, le fiamme che la invadono si alzano terribili verso il cielo oscurato dal fumo. Non so nemmeno se fosse davvero Greco, se Luciano fosse il suo vero nome. Ma io e questi venti uomini gli dobbiamo tutto, gli devo Giuliano tra le mie braccia. Quindi davvero tutto.
Posso solo sperare che anche la sua vita verrà risparmiata, ma non ho idea alcuna di ciò che si siano detti lui e il capo barbaro, non sono nemmeno riuscito a comprendere in che rapporti fossero.  
Aumento un poco l’andatura e supero due uomini, uno che sorregge pesantemente l’altro. Sono simili, hanno gli stessi colori e lineamenti. Devono essere fratelli, quello che porta l’altro praticamente sulle spalle dev’essere il maggiore. Il sudore gli cola per la fronte e anche lui è ricoperto di tagli e contusioni, ma fissa lo sguardo davanti a sé, portando un piede avanti all’altro con la mascella serrata. Il minore ha il fiato pesante, ma gli occhi sono aperti e presenti. Vorrei potergli offrire aiuto, ma Giuliano è in condizioni più gravi e non posso rischiare di muoverlo.
Lo stringo come il bene prezioso che è e mi costringo a superarli, lasciando indietro anche Alessandro. Sospiro di sollievo e mi sciolgo di un malinconico stupore a vedere un immenso specchio d’acqua che si tende verso l’infinito, brillante di mille scaglie lucenti sotto il sole. Mi hanno detto che l’acqua del mare non si può bere, ma la sua vista non può che evidenziare la mia gola roca e le labbra secche.
Veniamo individuati da sentinelle lontane, sento delle grida e poi il silenzio, poi ancora richiami lontani. Alcuni di noi crollano appena entrati nella città, altri riescono a trascinarsi fino alla casa della famiglia di Giuliano, sotto la guida di Alessandro che è riuscito a tornare alla testa del gruppo. È lui che prende il cavallo per le briglie e lo porta fino ai giardini profumati che circondano la villa, ignorando chi gli chiede notizie della città con l’angoscia nella voce e nello sguardo.
Una donna emette un breve grido e la sorella di Giuliano ordina ad una schiava di portare via le bambine, prima di correre verso di noi. Afferra la mano del fratello: “Giuliano…”.
Le lacrime agli occhi, ci aiuta a farlo scendere da cavallo. Ma non lascio che nessun’altro lo prenda e lo porto tra le braccia fino all’ombra del porticato, che si posa come una carezza sulla pelle bruciante. La donna mi guida ad una stanza, mentre con il fiato spezzato ordina che si chiamino i due medici.
Poggio il corpo inerte di Giuliano sul letto e qualcosa mi muore dentro quando la sua testa cade di lato, a peso morto. Mi inginocchio sul pavimento piastrellato e prendo tra le mie la sua mano, poggiando la bocca sulle nocche rovinate.
Alessandro si mette alla testa del letto, sempre silenzioso. Un uomo sulla quarantina corre nella stanza, con dietro un giovane schiavo.
“Via, fatemi spazio!”.
Trattengo l’istinto di morderlo e mi allontano, ma non districo le dita di Giuliano dalle mie.
Il medico dà una rapida occhiata e subito fa segno allo schiavo di avvicinarsi con vari panni e bisacce. Con delle forbici, taglia la tunica di Giuliano . La sorella, rimasta fino ad allora sul ciglio della porta, impallidisce e si porta una mano alla bocca per il turbamento.
“Vado…vado ad assistere gli altri”.
A passi rapidi, si affretta verso il cortile. Il medico non da segno di accorgersi di ciò che gli accade intorno. Quando uno schiavo porta una bacinella colma di acqua pulita, vi immerge un panno e lambisce la ferita sul fianco per pulirla dallo sporco. Giuliano si irrigidisce e geme di dolore, muovendo appena il collo.
Il secondo medico giunge altrettanto di fretta. In mano ha un calice di vino color rubino e vi mette dentro una polverina nera.
Si rivolge a me con un accento che ricorda quello di Luciano: “Prova a svegliarlo”.
Spalanco gli occhi, orripilato all’idea di rendere Giuliano cosciente per il dolore delle cure: “Cosa?”.
“Deve bere questo. Forza, muoviti!”.
Faccio un po’ fatica a respirare e ho la testa leggera, ma mi costringo a poggiare una mano sulla fronte imperlata di sudore. Lo chiamo due volte, poi lo scuoto piano per una spalla. Gli parlo contro l’orecchio: “Giuliano, devi svegliarti”.
Con cautela, mi siedo sul letto e lo sollevo, poggiandolo contro il mio fianco. Spalanca gli occhi con un sussulto e subito il fiato gli si spezza. Gli prendo le mani prima che riesca a toccarsi la ferita e gli sussurro sciocchezze senza senso per farlo calmare, odiando la sua espressione confusa e atterrita.
Il medico mi porge il calice e glielo porto alla bocca: “Forza, devi bere questo”.
Ma la mente di Giuliano sembra distante e non mi ascolta, sposta il viso con una smorfia disgustata, cerca flebilmente di liberarsi dalla mia presa. L’anziano greco gli poggia una mano sulla spalla e per un attimo i suoi lineamenti si addolciscono: “Figliolo, è la mia bevanda ai semi di papavero. Diminuirà il dolore”.
Malgrado i nostri sforzi congiunti riusciamo a farlo bere solo quando l’altro medico poggia il panno con più forza contro lo squarcio nella carne. La promessa di meno dolore sembra dare un messaggio ai pensieri confusi di Giuliano, che quasi si strozza nell’affannato tentativo di affievolire quello che deve essere un male atroce. Mi sforzo a non guardare il buco che gli dilania la carne, il cui solo pensiero mi fa salire una nausea acida.
Il Greco prende un pezzo di corteccia lungo quanto un palmo e lo mette tra le labbra di Giuliano, che lo stringe disperatamente tra i denti. “Corteccia di salice. Masticala figliolo. Bravo, così”.
Giuliano sembra andare a fuoco, le sue gote sono arrossate e prende ampi respiri col naso. Tossisce e subito Alessandro mi porge un panno bagnato, col quale gli pulisco il viso da sangue e polvere.
Quelli che vengono dopo sono tra i momenti più miserabili della mia vita. Io e Alessandro teniamo fermo Giuliano mentre i medici estraggono schegge dalle sua carne, la puliscono più e più forte. I suoi gemiti strozzati mi echeggeranno nella mente molto a lungo, come ricorderò i suoi grandi occhi sbarrati. Quasi crollo per il sollievo nel momento in cui si arrende all’incoscienza, quando cominciano a suturare.
È ormai il tramonto quando finiscono di curare ogni sua ferita e la stanchezza mi invade le ossa, ma non mi allontano. Alessandro emette un lungo sospiro e crolla a terra, poggiando la testa contro il materasso. Subito i medici si rivolgono a lui ed è semi-svenuto mentre due schiavi lo portano via, nonostante le sue flebili proteste.
Nell’innaturale silenzio che segue, allungo un braccio verso una caraffa colma d’acqua e bevo qualche sorso, con cautela per non agitare il mio stomaco. Le guance arrossate di Giuliano, in contrasto con il pallore del resto del volto, danno un illusorio tocco salubre, ma è la febbre a causarle. Accarezzo i capelli, ora puliti, faccio scorrere la punta delle dita sulla sua spalla, evitando le ferite che la costellano.
Lo copro con un lenzuolo candido e con cautela lo circondo con un braccio. Poggio la testa accanto alla sua, ma non chiudo gli occhi, pronto a vegliare per ogni attimo della notte.   

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Capitolo 18
*** Una stella custode ***


Mi sveglio con un sussulto, sentendo un caldo innaturale e bagnato contro il mio fianco. Tolgo i capelli sudati dalla mia fronte e in pochi istanti torno a ragionare, ricordando in un turbine gli eventi degli ultimi giorni. Il respiro di Giuliano sussurra nella penombra della stanza, illuminata da una piccola lucerna ad olio. Poggio delicatamente una mano sul suo petto, rigido sotto il mio palmo. È madido di traspirazione, il volto, piegato in una smorfia di dolore anche nell’incoscienza.
Costringo le mie gambe distrutte a muoversi e bagno una pezza umida. Scotta come una fornace e lo bagno ripetutamente, cercando di non toccare le numerose ferite, ma è quasi impossibile. Il più anziano dei medici passa qui ripetutamente nel corso della notte e io non permetto più al sonno di sconfiggermi. Gli faccio da assistente al meglio delle mie possibilità, odiando con tutto me stesso i momenti in cui non si può fare altro se non aspettare. Stringo la sua mano, gli accarezzo i capelli, il viso, sussurrando stupide cose senza senso. Se gli dei mi hanno dato una voce che piace così tanto, provo l’irrazionale certezza che l’abbiano fatto solo per questo momento. Guardo il suo petto alzarsi e abbassarsi, trattengo il fiato ogni volta che un respiro non segue il precedente abbastanza in fretta, mi sento morire quando il suo corpo si irrigidisce, per poi rilassarsi con un rantolo soffocato.
Al mattino, Giuliano apre gli occhi. Per un attimo temo che sia tutta un’illusione, poi il suo sguardo confuso si poggia su di me. Corruga appena la fronte, ma anche quel piccolo movimento gli provoca una fitta alla testa.
“Cosa…Antares?”.
Rimango a fissarlo per dei lunghi istanti e mi passo una mano sugli occhi, togliendo le zuccherose gocce che stavano per scendere. Non riesco a trattenermi e lo stringo tra le mie braccia, affondando il viso nel suo collo e innamorandomi ancora una volta della sua essenza, presente sotto il sangue e la violenza.
Un suo braccio si stringe flebilmente intorno alla sua schiena e nascosto come sono lascio scappare una lacrima, una sola però. Le sue labbra si poggiano sulla mia testa e mi viene un magone in gola.
Lo sento sorridere contro i miei capelli: “Dovresti farti un bagno…”.
Ridacchio, probabilmente sembro un deficiente in questo momento. Mi separo da lui e mi accartoccio per la colpa a vedere il dolore che ha cercato di nascondermi mentre lo stringevo come un ramo d’edera.
Torna ad abbandonarsi contro i cuscini e guarda la stanza con un cipiglio perplesso.
“Dove siamo?”.
Sbuffo di stizza, pur stringendo la sua mano ferita tra le mie come fosse una reliquia: “Sei una vergogna. Non riconosci nemmeno casa tua”.
Sorride, ma ci sono malinconia e affetto per qualcosa di perso nel suo sguardo: “Avevo molti cose. Ma la mia casa era una sola”.
Si stira, sussultando per le ferite. Mi scuoto dalla mia imbecillità e mi affretto a mescolare la brodaglia dal colore lattoso che il medico mi ha raccomandato di fargli bere. Lo sollevo con cautela e Giuliano trattiene il respiro. Quando si rilassa almeno un po’ gli porto la ciotola alle labbra e arriccia il naso.
“Disgustosa”.
“Non fare il bambino e bevi”.
“Non possiamo… aspettare un attimo?”.
Ghigno, avvicinando il viso al suo. Sbarra i grandi occhi castani quando poggio le labbra sulle sue. Ha un’espressione che sarebbe comica, se non fosse per il suo corpo ferito. “Se ti comporti bene, ne avrai ancora”.
Inarca un sopracciglio, perplesso a scoprire questo lato di me che non conosceva. Sinceramente, era ignoto anche a me. Sospira, guardando la ciotola con arrendevolezza.   
Con un po’ di pazienza ne svuota il contenuto, non senza rischiare di rigettare miseramente la bevanda, che effettivamente non ha un buon odore. Fa un’altra smorfia, insieme ad un verso di sconforto.
Lo faccio sdraiare con cautela e mi alzo per andare a chiamare il medico, ma le due dita mi afferrano flebilmente la tunica. Mi chino a guardarlo: “Che c’è?”.
Si schiarisce la voce, mastica appena il labbro inferiore. Un imbarazzato rossore gli invade le gote: “Mi…mi sono comportato bene, no?”.
La ciotola mi cade dalle mani e la ignoro, chi mi biasimerebbe in un’occasione simile? Stringo il suo viso tra le mani e affondo la mia bocca contro la sua, famelico del respiro caldo che ho vegliato per ore eterne. Non ha la forza nemmeno di alzare le braccia, ci prova ma ricadono sul letto.
Non ricordo l’ultima volta che ho scambiato un bacio simile. Mai, mai così. Non sono mai stato io a volere, ero solo un oggetto al potere di altri. E non credevo di potere avere una passione simile, una voglia bruciante che consuma in questo modo e affumica il cervello.
Lo scavalco con un gamba e fatico a non poggiare il peso sul suo bacino. Lo tengo sollevato con un braccio intorno alla schiena e la sua arrendevolezza, l’essere io a maneggiare un uomo così prezioso, mi provocano una scossa elettrica nello stomaco.
Ci separiamo con il fiato pesante e poggio la fronte sulla sua, cercando di riportare aria nei polmoni affaticati.
“Grazie…di essermi venuto a prendere”.
Fisso gli occhi nei suoi. Con dita improvvisamente tremanti, forse per la stanchezza, delineo i contorni del suo viso. “Lo farei altre tremila volte”.
Chiude le palpebre e sposta la testa, poggiando le labbra sul mio palmo logorato. Sospiro, le membra troppo pesanti per essere sostenute da un corpo consumato. Anche io chiudo gli occhi e la mia mente si annebbia. È una sensazione lontana, sentire due braccia portarmi su un materasso morbido, stringermi ad un fianco in un cui mi incastro alla perfezione, come se fossi stato modellato per completarlo.
Una voce troppo bella per essere davvero contro il mio orecchio, sussurra una di quelle frasi che mi hanno sempre fatto sbeffeggiare coloro che le dicevano, ma mai a me.
“Antares…la mia stella custode”.
La mia bocca sorride da sola, non me ne rendo nemmeno conto. Affondo il viso contro la mia ancora, abbandonandomi finalmente ad un sonno sicuro e protetto, per la prima volta da quando venni al mondo.
  
 
 
 
  

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Capitolo 19
*** Una decisione dolorosa ***


 
È l’apice del mattino, il sole entra forte dalla grande finestra e fa brillare i muri bianchi quasi da accecare. Da fuori, arriva un rumore nuovo, un fruscio cullante che non avevo mai sentito prima. Giuliano dice che è il mare. Dal giardino gli aranci combattono contro l’arsura, una fontana zampilla a fatica. Sembra un altro mondo rispetto agli orrori degli ultimi giorni.
Giuliano sorride, ma un velo malinconico si è aggiunto a quello che già aveva di indole. La nipote più piccola è abbandonata contro una sua spalla, mentre la maggiore si sporge per guardare i pesciolini nella vasca, oltre al portico. La sorella di Giuliano è passata più volte, cercando inutilmente di portarle via per far riposare lo zio.
Io rimango seduto in fondo al letto, la sua gamba contro la mia schiena è un contatto rassicurante. Sospira e chiude gli occhi, una cosa che fa sempre per combattere il dolore. Ha rifiutato di prendere dosi troppo massicce di anti-dolorifici, dice che lo confondono e non vuole tornare nello stato di stupidità in cui lo riducono.
Ormai sono passati due giorni da quando siamo arrivati qui e notizie di distruzione e massacri continuano a giungere, ma queste ville sembrano protette da un qualche potere, perché rimangono un’oasi di pace. Sappiamo che tutto potrebbe cambiare in un istante, ma per ora andiamo avanti, nonostante tutto ciò che abbiamo lasciato indietro.
Qualcuno si schiarisce la gola e Giuliano apre gli occhi stanchi, dirigendoli verso l’entrata. Il medico lo guarda e qualcosa nella sua espressione grave fa corrugare la fronte a Giuliano.
“Leptos…cosa c’è?”.
L’anziano greco sospira e avanza nella stanza. Ha l’aria stremata, due profonde occhiaie segnano gli occhi insieme alle grinze dell’età.
“Tuo cugino, mio signore, non migliora affatto”.
Giuliano sbarra gli occhi e anche io non riesco a nascondere la sorpresa. Mi tiro in piedi, fissando il medico con incertezza: “Ma…avevate detto che l’unica ferita grave era quella alla gamba”.
“È così. La prima notte le sue condizioni erano buone, a parte l’affaticamento. Quando gli è venuta un po’ di febbre, non ci siamo preoccupati. Ma stanotte si è alzata e non riusciamo a svegliarlo da ieri”.
La bambina alza il visino verso lo zio, non dice nulla ma tira su col naso. Giuliano la stringe un poco con il braccio:  “Quale può essere la causa?”.
“Crediamo che la lama fosse avvelenata”.
Il poco colore che Giuliano ha ripreso scompare dal suo volto. Non posso condividere il suo accoramento, ma non sono tanto crudele da gioire di una simile notizia, soprattutto se fa soffrire Giuliano. Alessandro non è più oggetto del mio odio, in questi due giorni i miei pensieri non l’hanno nemmeno mai sfiorato e devo riconoscere che senza di lui forse non saremmo qui.
“Avvelenata…?” ripete Giuliano con voce flebile.
“Sì. Un veleno non potente abbastanza da uccidere, ma ha indebolito il suo corpo già affaticato. La ferita mostra già i primi segni di infezione”.
“Ha delle possibilità?”.
Leptos annuisce: “Potrebbe farcela. Tutto si deciderà prima di domani all’alba, se riusciremo a combattere l’infezione è probabile che vivrà senza complicazioni. Ma se dovesse peggiorare…allora avrai una scelta difficile da prendere”.
“Quale?”.
“In caso l’infezione prendesse piede, l’unico modo per dargli una possibilità sarà amputare”.
Un pesante silenzio cade sulla stanza alle ultime parole, Giuliano trattiene il respiro, immobile. Tace, affonda le dita nelle lenzuola, ma non fa altro.
È Leptos a riprendere il discorso: “Aspetteremo il più possibile, poi sarai tu a dover decidere. Possiamo solo fare del nostro meglio per evitare che si infetti in modo irreparabile”.
Con un breve inchino, se ne va a passo trascinato. Scruto Giuliano per qualche istante, prima di sedermi accanto a lui e prendergli una mano. Accarezzo il palmo, dove un livido si sta ingiallendo. Trattiene a stento un’espressione  di doloroso sconforto, ma leggo i suoi occhi troppo bene per farmela sfuggire.
La sorella appare sulla porta, con un’espressione molto simile sul viso. Deve leggere le emozioni del fratello, riconosco l’empatia nei suoi lineamenti sconfortati. Alza le mani pallide: “Bambine, ora è davvero il momento di lasciare zio a riposare. Tornerete oggi pomeriggio”.
Giuliano le rivolge un sorriso affaticato, che prende una sfumatura affettuosa quando Flavia gli poggia un bacio sulla guancia e balza giù dal letto.
Nonostante tutto sono due bambine simpatiche e sono molto affezionate allo zio, il che me le fa piacere. Ma sono contento che se ne siano andate. Lo bacio lentamente, ma non troppo a lungo. Non sono bravo a confortare, ma so che Giuliano mi capisce anche senza le parole.
Mi rivolge un ultimo sguardo prima di assopirsi, pur mantenendo una vena di afflizione sulla fronte corrugata. Stavolta poggio lì le labbra, distendendo quelle malevole pieghe fino a che, con un sospiro, non entra in un pacifico oblio.
 
  
 
È l’apice del mattino, il sole entra forte dalla grande finestra e fa brillare i muri bianchi quasi da accecare. Da fuori, arriva un rumore nuovo, un fruscio cullante che non avevo mai sentito prima. Giuliano dice che è il mare. Dal giardino gli aranci combattono contro l’arsura, una fontana zampilla a fatica. Sembra un altro mondo rispetto agli orrori degli ultimi giorni.
Giuliano sorride, ma un velo malinconico si è aggiunto a quello che già aveva di indole. La nipote più piccola è abbandonata contro una sua spalla, mentre la maggiore si sporge per guardare i pesciolini nella vasca, oltre al portico. La sorella di Giuliano è passata più volte, cercando inutilmente di portarle via per far riposare lo zio.
Io rimango seduto in fondo al letto, la sua gamba contro la mia schiena è un contatto rassicurante. Sospira e chiude gli occhi, una cosa che fa sempre per combattere il dolore. Ha rifiutato di prendere dosi troppo massicce di anti-dolorifici, dice che lo confondono e non vuole tornare nello stato di stupidità in cui lo riducono.
Ormai sono passati due giorni da quando siamo arrivati qui e notizie di distruzione e massacri continuano a giungere, ma queste ville sembrano protette da un qualche potere, perché rimangono un’oasi di pace. Sappiamo che tutto potrebbe cambiare in un istante, ma per ora andiamo avanti, nonostante tutto ciò che abbiamo lasciato indietro.
Qualcuno si schiarisce la gola e Giuliano apre gli occhi stanchi, dirigendoli verso l’entrata. Il medico lo guarda e qualcosa nella sua espressione grave fa corrugare la fronte a Giuliano.
“Leptos…cosa c’è?”.
L’anziano greco sospira e avanza nella stanza. Ha l’aria stremata, due profonde occhiaie segnano gli occhi insieme alle grinze dell’età.
“Tuo cugino, mio signore, non migliora affatto”.
Giuliano sbarra gli occhi e anche io non riesco a nascondere la sorpresa. Mi tiro in piedi, fissando il medico con incertezza: “Ma…avevate detto che l’unica ferita grave era quella alla gamba”.
“È così. La prima notte le sue condizioni erano buone, a parte l’affaticamento. Quando gli è venuta un po’ di febbre, non ci siamo preoccupati. Ma stanotte si è alzata e non riusciamo a svegliarlo da ieri”.
La bambina alza il visino verso lo zio, non dice nulla ma tira su col naso. Giuliano la stringe un poco con il braccio:  “Quale può essere la causa?”.
“Crediamo che la lama fosse avvelenata”.
Il poco colore che Giuliano ha ripreso scompare dal suo volto. Non posso condividere il suo accoramento, ma non sono tanto crudele da gioire di una simile notizia, soprattutto se fa soffrire Giuliano. Alessandro non è più oggetto del mio odio, in questi due giorni i miei pensieri non l’hanno nemmeno mai sfiorato e devo riconoscere che senza di lui forse non saremmo qui.
“Avvelenata…?” ripete Giuliano con voce flebile.
“Sì. Un veleno non potente abbastanza da uccidere, ma ha indebolito il suo corpo già affaticato. La ferita mostra già i primi segni di infezione”.
“Ha delle possibilità?”.
Leptos annuisce: “Potrebbe farcela. Tutto si deciderà prima di domani all’alba, se riusciremo a combattere l’infezione è probabile che vivrà senza complicazioni. Ma se dovesse peggiorare…allora avrai una scelta difficile da prendere”.
“Quale?”.
“In caso l’infezione prendesse piede, l’unico modo per dargli una possibilità sarà amputare”.
Un pesante silenzio cade sulla stanza alle ultime parole, Giuliano trattiene il respiro, immobile. Tace, affonda le dita nelle lenzuola, ma non fa altro.
È Leptos a riprendere il discorso: “Aspetteremo il più possibile, poi sarai tu a dover decidere. Possiamo solo fare del nostro meglio per evitare che si infetti in modo irreparabile”.
Con un breve inchino, se ne va a passo trascinato. Scruto Giuliano per qualche istante, prima di sedermi accanto a lui e prendergli una mano. Accarezzo il palmo, dove un livido si sta ingiallendo. Trattiene a stento un’espressione  di doloroso sconforto, ma leggo i suoi occhi troppo bene per farmela sfuggire.
La sorella appare sulla porta, con un’espressione molto simile sul viso. Deve leggere le emozioni del fratello, riconosco l’empatia nei suoi lineamenti sconfortati. Alza le mani pallide: “Bambine, ora è davvero il momento di lasciare zio a riposare. Tornerete oggi pomeriggio”.
Giuliano le rivolge un sorriso affaticato, che prende una sfumatura affettuosa quando Flavia gli poggia un bacio sulla guancia e balza giù dal letto.
Nonostante tutto sono due bambine simpatiche e sono molto affezionate allo zio, il che me le fa piacere. Ma sono contento che se ne siano andate. Lo bacio lentamente, ma non troppo a lungo. Non sono bravo a confortare, ma so che Giuliano mi capisce anche senza le parole.
Mi rivolge un ultimo sguardo prima di assopirsi, pur mantenendo una vena di afflizione sulla fronte corrugata. Stavolta poggio lì le labbra, distendendo quelle malevole pieghe fino a che, con un sospiro, non entra in un pacifico oblio.
 
  

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Capitolo 20
*** Un futuro tutto mio ***


 
Quella notte, Giuliano è silente nell’attesa. Si irrigidisce quando Leptos entra e, piano, scuote il capo in cenno di diniego. Giuliano stringe i pugni con quel poco di forza che ha ritrovato, i suoi occhi tremolano alla luce del fuoco.
“Fate…quello che dovete fare”.
Il medico annuisce con aria grave: “Bene, ma non è detto che questo possa salvarlo”.
“Dobbiamo almeno tentare”.
Aspetta che Leptos se ne vada, poi solleva il capo verso di me. “Aiutami ad andare da lui”.
“Cosa? Non se ne parla”.
“Antares”. Il suo sguardo, così serio e forte, mi lascia senza parole. “Lo farò, anche senza il tuo aiuto”.
Chiudo i pugni. Stupido! Si è già dimenticato che solo una notte fa sembrava sul punto di morire?
Ma so che niente può fermarlo e scuoto il capo in un moto nervoso: “Tsk, e va bene”.
Porto un suo braccio sulle mie spalle e piano ci solleviamo, fermandoci ad ogni suo segno di sconforto. Per fortuna Alessandro non è stato portato molto lontano, ma Giuliano è esausto solo per il breve tragitto. Ovviamente entrambi i medici ci saltano addosso dandoci dei pazzi incoscienti, ma Giuliano ha occhi solo per il cugino e li zittisce con un gesto della mano. Bel momento per ricordarsi di essere il padrone.
Riusciamo a farlo sdraiare su un divanetto, tenuto sollevato da più cuscini profumati. Ci mette un poco a trovare una posizione in cui le ferite non lo facciano svenire dal dolore, quando riesce allunga una mano. mi stupisce vederlo stringere quella di Alessandro, in una stretta piena d’affetto. Non credevo che andassero così d’accordo, ma in fondo li conosco da talmente poco tempo…nonostante vorrei donare ogni istante che mi è concesso a questo testardo sognatore.
Alessandro non reagisce, il suo respiro è faticoso e ogni movimento del suo petto è accompagnato da un sibilo rauco. La pelle è pallida e umida, ha un colorito cinereo che turba persino me.
Giuliano fissa il volto esangue con intensità: “Potrebbe svegliarsi, mentre operate?”.
“No, siamo riusciti a fargli bere un sonnifero. Unito alla sua debolezza, non tornerà cosciente prima di molte ore, se mai lo farà…”
Giuliano annuisce: “Procedete”.
Leptos prende una piccola sega, mentre l’altro medico afferra la gamba e la tiene stretta. La vista della carna arrossata e ricoperta di pus mi fa salire un conato e devo girarmi, appena in tempo per sentire la lama raggiungere il ciocco di legno su cui avevano poggiato l’arto. La sola idea mi fa girare la testa e devo poggiarmi al muro, prendendo ampi respiri.
Dopo un’altra mezz’ora, i due medici si congedano. Sono esausti per lunghi notti insonni, ma si sistemano poche stanze più in là, in caso i loro servigi siano ancora necessari.
Ora Alessandro è ricoperto dalle lenzuola e non vedo ciò che rimane della sua gamba. Giuliano ha perso molto colorito, ma la sua mano si stringe ancora intorno a quella inerte di Alessandro.
“Sai…” sussurra, con voce flebile e stanca. “Siamo cresciuti insieme, con altri sette bambini…tutti cugini e fratelli”.
Un lieve sorriso gli increspa le labbra ferite: “Vivevamo in una grande casa in campagna, nel sud dell’Italia. C’erano dei colori splendidi, la luce delineava le come se fossero stati dei disegni splendenti. Avevamo tutori, balie, allenatori. Già allora eravamo diversi…”.
Si schiarisce la voce, prende un ampio respiro con un po’ di fatica: “A me piacevano le lettere, lui era bravo in qualsiasi attività fisica. Era un po’ pigro, ma quando lo mettevano nella sabbia buttava tutti a terra in poche mosse, era…forte come un toro. Forse nel nuoto potevo tenergli testa…Ma quando gli dicevano di correre, sembrava trascinato dal vento”.
Facendo meno rumore possibile, mi siedo accanto a lui. Poggio la mano sul suo fianco, muovendo il palmo in cerchi confortanti.
“E…” manda giù un groppo in gola, i suoi occhi si fanno lucidi e questo mi lascia di sasso. Ma non più delle sue parole successive. “…quando una lunga malattia si portò via mio fratello minore, il mio sole di dieci anni, lui non mi lasciò mai”.
Torna a guardarmi, la sua mano libera mi afferra e incastro le dita con le sue. Sta per piangere, Giuliano è sull’orlo delle lacrime, non credevo avrei mai visto una cosa simile, mi sta uccidendo.
“Potrà essere un irresponsabile vanitoso, ti ha ferito…è anche un po’ superficiale ma…è l’unico che…che…”.
Strofino la fronte contro la sua, tenendo il suo viso tra le mani. Si stringe a me con forza, ma sono solo brevi istanti. Con un sorriso affettuoso ma imbarazzato si separa da me. Si abbandona contro i cuscini e da un’ultima stretta alla mia mano, prima di riprendere quella del cugino.
 
Quattro giorni sembrano passare in un’eternità. Non c’è stato modo di allontanare Giuliano da Alessandro, io non ho tentato più di tanto. Fino a che non si agita al punto da riaprire le ferite, non vedo il motivo di un simile allontanamento. Sgranchisco la schiena, occhieggiando la fasciatura intorno al mio braccio. Ero stato talmente preso dal dolore e dalle ferite di Giuliano, da quasi dimenticarmi delle mie.
Scuoto il capo con un sorrisetto: sono proprio diventato un idiota. Rientro nella stanza, trovando Giuliano seduto, anche se sorretto dalla solita torre di cuscini. Se questi giorni gli hanno restituito un po’ di salute, lo stesso non si può dire per Alessandro. Ancora non si è svegliato del tutto, a parte qualche movimento senza lume non ha riacquistato consapevolezza di sé.
Sono riusciti a fargli ingerire qualcosa, ma il tempo lo sta deperendo velocemente, gli zigomi sporgono ed evidenziano le fosse che gli circondano gli occhi. Giuliano mi saluta con lo sguardo, quando mi siedo vicino a lui poggio il mio fianco contro il suo, le nostre gambe si toccano.
“Antares?”.
“Hm?”.
“Non te l’ho mai chiesto…tu hai una famiglia?”.
Un tempo questo pensiero mi avrebbe irritato, avrebbe provocato una rabbia che serviva a nascondere un dolore più profondo. Sono contento di non provare nulla di tutto ciò, solo una lieve amarezza: “Forse…non la ricordo più bene”. La sorpresa ci coglie a sentire un colpo di tosse, proveniente da nessuno di noi due. Giuliano volta il capo per guardare Alessandro, gli afferra la mano e stringe con forza, la speranza evidente nei lineamenti del viso. Un istante che sembra durare per sempre passa, non succede nulla.
La speranza svanisce veloce come è giunta e china gli occhi al suolo, cercando di mascherare la delusione. Una pressione stringe la sua mano quando Alessandro lo afferra di rimando. Gli occhi di Giuliano si sollevano di scatto, incapaci di credere. Non sembra nemmeno accorgersi di me quando mi alzo per vedere meglio, mentre le palpebre di Alessandro si sollevano lentamente.
Tossisce di nuovo e Giuliano si allunga verso un piccolo comodino per afferrare un bicchiere d’acqua. Lo aiuta a prenderne un sorso, adagio e sostenendo il peso di Alessandro con un po’ di difficoltà.
“Come ti senti?” gli chiede in un sussurro, poggiando con cautela la sua testa sul cuscino.
“Stanco…” risponde Alessandro, con un tono ancora più flebile. La sua voce è roca e tossisce più volte, il suo intero corpo trema in un breve spasimo. “Strano…eppure devo aver dormito per…parecchio…”.
Giuliano sorride, io mi sposto verso la porta per non disturbare.
“Decisamente parecchio, sì”.
Alessandro risponde al sorriso: “Sono contento che tu te la sia cavata…non mi andava di organizzare un altro funerale”.
Si guarda intorno, corruga la fronte: “Dove sono? Cosa…cosa è successo? Ricordo solo un bruciore infernale…”.
Giuliano lo scruta con tristezza. Alessandro non si è ancora reso conto della mancante parte di sé. Vorrei aiutare Giuliano in questo momento, ma non sta a me intromettermi.
“Ricordi la ferita alla gamba?”.
Alessandro annuisce: “Sì…difficile dimenticarla. Ha cominciato a prudere più di un formicaio”.
Giuliano prende fiato per parlare, ma in quel momento Leptos fa la sua entrata alle mie spalle. Sorride a trovare il paziente sveglio e le sue spalle si rilassano, come se liberate da un peso.
“Oh, bene. Ci hai fatto temere il peggio in questi giorni”.
Alessandro gli rivolge uno dei suoi soliti ghigni: “Chiedo scusa”.
“Stavamo perdendo la speranza. La decisione non è stata facile da prendere, ma ti ha salvato la vita”.
Alessandro corruga la fronte, una luce turbata gli brilla nello sguardo: “Come? Di cosa stai parlando?”.
Il medico sembra preso alla sprovvista. Giuliano ha un improvviso interesse per il pavimento e stringe le mani a pugni con forza, la mascella serrata.
Leptos comprende e si sforza di mantenere un tono neutrale quando riprende: “La gamba era infetta, un veleno ti stava uccidendo. Abbiamo dovuto amputare”.
Alessandro fissa la propria gamba, o meglio il punto in cui dovrebbe essere. Fino ad allora aveva sentito un dolore sordo, ma lo aveva collegato alla ferita. Confuso dalla febbre, stremato, non aveva notato come ora la mancanza di sensazioni all’altezza della gamba.
Lentamente, sposta il lenzuolo, incapace di crederci. Guarda il moncherino senza espressione, ma smette di respirare. C’è solo un moncherino, niente ginocchio, niente polpaccio, niente piede. Gli sembra di guardare la gamba di qualcun altro, non può essere la sua, è così surreale...sbagliato. No no no, non è la sua…
“Beh…poteva andare peggio” commenta, con un ottimismo che lascia tutti senza parole. Giuliano lo fissa ad occhi sbarrati. “Avrei potuto lasciarci le penne, giusto?”.
Giuliano scuote appena il capo, attonito. Il mondo di Alessandro si è appena rovesciato e questa è la sua reazione?
“Alessandro…”.
“Insomma…sarà un bel cambiamento” balbetta, i suoi occhi si spalancano sempre di più e la voce prende una nota di panico. La sua maschera comincia a cedere. “Tu eri il filosofo della famiglia, il cervellone sempre perso nel suo mondo…ora anche io avrò il mio titolo. Quello di un inutile, disgustoso storpio!”.
Ridacchia, ma gli occhi si fanno lucidi.
“Alessandro…mi dispiace”.
Solleva il viso, di colpo distrutto, senza più difese, verso il cugino. “Lo rifarei di nuovo…” sussurra. Un sorriso gli fallisce sulle labbra e la tensione emotiva straripa. Giuliano lo avvolge con le braccia e il primo singhiozzo esplode dal petto di Alessandro, che afferra disperatamente il davanti della tunica del cugino.
A Giuliano sembra di essere tornato a molti anni prima, quando Alessandro aveva appena tre anni e lui già sei. Al tempo piangeva spesso, ma bastava un abbraccio e un bacio sulla testa da sua madre o sua zia, e tutto il dolore passava. Ma nulla sarebbe più tornato come prima, nulla gli avrebbe più ridato la sua gamba.
Non può confortarlo come vorrebbe, desidera con tutto il cuore ritornare a quei giorni. Non è possibile e si limita a stringerlo, sentendo la prima lacrima scendere.
Io osservo dalla porta, prima di andarmene in silenzio. Cammino nel rumore del mare e da esso mi dirigo, attratto da questo gigante che mai prima aveva incontrato. La sabbia è morbida sotto i miei piedi, un tappetto di cristalli scintillanti sotto il sole. Il vento ha un odore che ha sapore, si poggia ruvido sulla pelle, insaporisce le labbra. Guardando questa distesa infinita piena di vita, i dolori sembrano di un altro mondo.
Mi siedo, raccolgo le gambe al petto e aspetto il resto della mia esistenza, che finalmente è davvero mia.   




Bene! Ordunque si è arrivati alla fine anche di questa! Il prossimo sarà l'epilogo! :)



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Capitolo 21
*** L'uomo col nome della stella ***


                                                                                        Attenzione, qui si copula. DECISAMENTE.



Le pietre del muretto mi riscaldano le gambe. Il sole splende alto nel cielo, in questo calmo giorno d’estate. La sua luce ha la stessa intensità di quel mattino di cinque anni fa, in cui Roma cadde. Da allora, molti sono stati i saccheggi, molte le battaglie. Ma un’inspiegabile scudo invisibile ha protetto questa casa, difendendola da ogni male.
Non siamo più tornati a Roma, più volte ho chiesto a Giuliano il perché, ma non mi hai mai risposto. Molti membri della famiglia si sono riuniti qui, sotto la protezione dell’unico uomo che non ha perso ogni cosa.
Giuliano ha in parte ricostruito la sua collezione di libri, custodendo i tomi scampati alla distruzione, al fuoco dei saccheggi. La più piccola delle nipoti, Flavia, si è spenta meno di due anni fa, di una malattia lenta e dolorosa che ha lasciato un corpicino distrutto, prima di portarla via definitivamente. Una parte di Giuliano se n’è andata via con lei, ma ho potuto riconoscere la verità nelle parole che mi rivolse quando Alessandro sembrava perso. Il cugino non si è mai separato da lui in quei giorni difficili, anche se la sua personalità è profondamente mutata dalla perdita di Roma. Si è fatto stranamente silenzioso, di un mutismo non cupo o depresso, ma di chi sembra semplicemente rimasto senza parole.
La sua compagnia è stata costante, ma senza parole di conforto. La sue mani si stringevano intorno alle spalle di Giuliano, ma nei suoi occhi c’era la mesta indolenza di chi sta assistendo ad uno spettacolo non nuovo.
Ancora adesso è difficile riconoscerlo come l’uomo che mi forzò in quella lontana notte. Osserva e tace, ogni tanto sghignazza ma è difficile che rida apertamente. Qualche volta nuota, ma quando cammina odia ogni singolo movimento che è costretto a compiere.
Un gatto mi passa vicino, dà una strusciata al mio polpaccio e saltella via. Si sdraia all’ombra di un albero e sbadiglia. Stiracchio la schiena e mi stacco dal muretto, affaticato da questo sole bollente. I sassi scricchiolano sotto di me mentre cammino. Una seconda sinfonia di tramestii mi fa capire che c’è qualcuno dietro di me e mi fermo. In contemporanea, anche gli altri passi si arrestano.
Corrugo la fronte e mi giro. Spalanco gli occhi, la mascella si allenta per lo stupore. Scuoto la testa: questo sole deve avermi cotto il cervello, comincio ad allucinare.
L’uomo davanti a me ride, someggiandosi meglio la bisaccia sulle spalle. Una barba curata gli incornicia il volto scottato dal sole, un colorito che evidenzia il sorriso bianco. I capelli scuri sono un poco striati di grigio, gli occhi incorniciati da pieghe del sorriso e di mille esperienze. Si pulisce una mano dalla polvere, continuando a sorridermi: “Guarda chi si rivede. L’uomo col nome di stella”.
Sbatto più volte le palpebre, incredulo: “L-Luciano?”.
Scrolla le spalle, la bocca piegata in una linea divertita: “Se ti va”.
Mi riprendo in parte dallo shock e rispondo al suo sorrisetto: “Già. Immagino che il tuo nome sia un altro”.
Si avvicina di qualche passo e toglie la bisaccia dalla spalla. La apre, estraendone un manto dalle sfumature di rubino. Me lo tende: “Credo che questo sia tuo”.
Titubante, lo stringo tra le dita. Lo apro, faticando a convincermi di non star sognando: “Tu, tu…”.
Mi schiarisco la voce: “L’hai tenuto per tutto questo tempo?”.
Luciano guarda il manto con una lieve traccia di nostalgia, ma non accenna a riprenderselo: “Vale più di quanto tu possa immaginare, soprattutto ora che Roma è caduta. È più raro che mai”.
Senza pensarci due volte, glielo ripongo tra le braccia. Inarca un sopracciglio, perplesso.
“Tienilo tu. Io ho tutto ciò di cui ho bisogno”.
Dopo un istante, mi lancia un’occhiata complice: “Ah. Qualcosa riguardante un uomo maturo, dai grandi occhi castani, pelle ambrata? E magari ha anche dei setosi capelli dal colore delle nocciole”.  
Rido, profondamente divertito: “Che vuoi farci. È il mio tipo ideale”.
Sorride e in contemporanea ci stringiamo in un breve abbraccio. Mi da una pacca sulla schiena e si separa, pur tenendo una mano sulla mia spalla: “Ti trovo bene”.
“Lo stesso per te. Considerando che ti credevamo morto”.
“Ipotesi legittima”.
Riprende a camminare per il sentiero e io lo imito, procedendo insieme. Avrei tante domande da porgli, negli ultimi anni la curiosità di capire chi fosse davvero mi ha colto più volte. Ma non avrei mai creduto di rivederlo, soprattutto con gli arti al loro posto.
Fa un mezzo sorriso, scoprendo i denti: “Puoi chiedere”.
“Chi diavolo sei tu?”.
Ride, poi mi rivolge un sorrisetto strafottente: “Se ti dicessi che ho governato l’impero d’Oriente, mi crederesti?”.
Mi fermo di botto, poi la sorpresa diventa sospetto: “Mi stai prendendo in giro”.
“Può darsi. Ma può darsi che dica la verità. Chi pensi che vi abbia protetto in questi anni?”.
Riprendo a camminare, raggiungendolo in rapidi passi: “Oh insomma! Come ti chiami?”.
“Comincia con la S”.  
“Per la misera, dacci un taglio!”.
Ma lui si limita a ridacchiare e per quanto insista non mi dice altro, nemmeno quando gli do un calcio sulla gamba.
 
La figura vestita di bianco di Giuliano si staglia in evidenza sul cielo, incorniciato dall’ampia finestra del suo studio. Nel giardino di fronte non c’è nessuno, solo pesci e uccelli si muovono tra le acque balzellanti e le aiuole profumate. Si sente il mare non lontano, una musica perpetua, incessante che accompagna le nostre giornate da ormai cinque anni.
Si passa una mano sulla spalla destra, dove una ferita non gli ha mai dato pace. Lo sento sospirare, intravedo il suo sguardo pensoso perso nel nulla, un irrecuperabile uomo con la testa sempre nello spazio. Sorrido, entrando nella stanza a passo leggero, tanto che nemmeno mi sente. Sussulta quando poggio la mano sulla sua, ma si rilassa subito. Ridacchio, poggiandogli un bacio alla base del collo mentre prendo le sue spalle tra le dita, per allentare la tensione nei muscoli affaticati. Mi siedo dietro di lui, circondandolo con le mie gambe eccezionalmente lunghe.
“Hai parlato con l’uomo senza nome. Com’è andata?”.
Poggia la testa contro il mio petto. Le mie carezze hanno spesso l’effetto di ammutirlo ed è una cosa di cui vado piuttosto fiero, con un uomo controllato come lui. Infatti risponde con un “bene” che è più un mugugno di altro.
Massaggio un punto particolarmente sensibile e gli sfugge un gemito roco. Mi piace sentire i suoi muscoli morbidi e forti flettersi sotto ai miei palmi, farsi modellare nell’abbandono della fiducia. Cinque anni fa, mai avrei pensato che avrei scoperto piaceri simili, io che ero arrivato ad odiare e temere il tocco altrui. Ma Giuliano è un amante assurdamente generoso e gentile, anche se sono io a sottomettermi nella nostra relazione lui non la fa mai sembrare una degradazione, più come un dono che io gli porgo ogni volta e che lui tratta come se fosse sceso dal cielo. Ma oggi è particolarmente stanco, forse troppi ricordi gli annidano la fronte in questo pomeriggio che ricorda quello in cui la sua casa bruciò e divenne cenere, portandosi le ombre della sua famiglia, i suoi libri.
E come sempre quando uno di noi due viene sopraffatto, l’altro c’è. Conosciamo i nostri corpi a memoria, sappiamo cosa ci piace, cosa meno, il timore dei primi tempi ha lasciato spazio alla sicurezza di un affetto prolungato, di una passione fisica che invece di scemare si è accresciuta con la conoscenza.
Premo di più contro la sua schiena, stringo la pelle calda del suo collo tra i denti e do una beccatina all’attaccatura con l’orecchio. Con la punta delle dita, sposto i suoi rivoli castani dalla base della nuca, dove li ha lasciati crescere di un paio di dita, lasciandovi una serie di baci e morsi leggeri. Intanto porto le mani davanti, lavorando sui lacci della sua tunica.
“Antares…” sussurra e la sua voce roca mi fa rabbrividire dalla soddisfazione. “Siamo sul giardino…”.
“Sono i tuoi giardini privati. Non entra nessuno senza permesso”.
Sembra ancora perplesso e, come sempre agli inizi delle nostre effusioni, un lieve imbarazzo gli tinge le guance. Il mio obbiettivo è ogni volta farlo perdere al punto da scordare tutto il resto. Fa per ribattere e io ridacchio ferino, dandogli un leggero pizzico sul fianco mentre sfrego il bacino contro di lui, mozzandogli il respiro.
“Tu lascia fare a me, per oggi…”.
Prendo il suo sospiro come un assenso e procedo a rimuovere gli strati delle sue vesti, scoprendo lembi di pelle su cui poggio i miei palmi tesi, carezzando i pettorali delicati ma definiti, scendendo per l’inguine ma senza scendere troppo in basso per guadagnarmi uno splendido uggiolio inquieto.
Piccoli versi rochi echeggiano nella sua gola, li sento contro il petto, vibrano nelle mie ossa. Finalmente lancio via la sua tunica, libero di godere di tutta quella pelle calda e così ben conosciuta. Lo stringo con quel tocco di possessività che non fa male e affondo i denti nella sua spalla, mai troppo da provocargli dolore ma abbastanza da causare un pungente pizzicore.
Sussulta ed emette un respiro tremolante. Faccio scorrere le mie mani gentilmente sul suo busto, lascio un bacio sulla spalla marchiata. Afferra le mie braccia, fa lenti movimenti circolari sulla mia pelle. Si gira un poco, il minimo per lanciarmi un sorrisetto: “Vedi di non rompermi, non sono più un ragazzino”.
I suoi occhi di cioccolato brillano mentre mi chino a baciarlo, affondando le dita nei capelli che portano i colori dell’autunno nella sostanza e nei riflessi. Mi separo un istante per spostare la testa ed il secondo bacio è più intenso, profondo, lui vi si rilassa dentro, il suo corpo morbido ma forte si piega contro il mio. Un roco brontolio mi erompe dal petto, con una mano salgo per il suo torso, stuzzicando la carne che pulsa per il battito accelerato. Scendiamo piano a terra, gli sposto i capelli dalla fronte, prima di lambirlo con la bocca giù per il collo, scendendo sempre più in basso, solleticandolo con le mie ciocche ondulate. Apre le gambe intorno a me e mi stringe a se. Continuo lento ed inesorabile, arrivo alla deliziosa V che incrocia pube e gambe e Giuliano sussulta, afferrandomi per le spalle. Gli lancio un ghigno felino e in una rapida mossa mi tolgo i vestiti di dosso, scoprendo la mia pelle così pallida rispetto alla sua baciata dal miele.
Non vedo il vaso situato contro il muro e lo faccio cadere per terra, fracassandolo. Il rumore esplode eccessivamente rumoroso nella stanza e Giuliano mi lancia un’occhiata di rimprovero, piuttosto buffa insieme alle guance arrossate e i capelli in disordine: “Antares…”.
Scrollo le spalle, incurante. Colgo l’opportunità per prenderlo alla sprovvista e strofinare i fianchi tra le sue gambe spalancate, guadagnando un gemito sorpreso. Il suo collo si inarca, chiude gli occhi con un sussulto mentre le sue mani si stringono di più sulle mie spalle.
E in quel momento bussano alla porta.
Ci blocchiamo, pregando che chiunque sia abbia il buonsenso di non entrare…spero non sia la bambina, sarebbe particolarmente imbarazzante. Più tanto bambina non è, ma comunque…
Giuliano cerca di comporsi, molto blandamente.
“S-sì?” domanda con voce appena instabile.
“Va tutto bene, signore?” risponde una voce nervosa. Una delle serve che non riesco a riconoscere.  “Ho sentito un grande boato dal corridoio e mi sono preoccupata”.
Ridacchio e di nuovo Giuliano mi guarda storto. Mi vendico con un’altra decisa sfregata, costringendolo a reprimere un ansimo contro il dorso della mano. Appena ne è in grado mi lancia un’occhiataccia.
“Sto bene…sono solo inciampato mentre…mentre mi vestivo”.
Scuoto il capo, divertito dalla sua incapacità nel trovare scuse.
“Sei sicuro, mio signore?” .
Sollevo gli occhi al cielo quando lei parla di nuovo.
“Se hai bisogno di aiuto…”.
“No no! Tutto a posto, faccio da solo, grazie…Puoi andare”.
“Oh, bene. Buon pomeriggio, signore” dice la vocina chiara dall’altra parte della porta dopo lunghi attimi di titubanza. Si sentono i suoi passi in allontanamento e Giuliano sospira, rilassandosi di botto.
Ghigno, chinandomi per poggiare il peso sui gomiti. “Aw, come sei stato rude. A quella ragazza sembravi piacere proprio”.
Spalanca gli occhi: “Rude? Non mi sembr…”.
Capisce che lo sto prendendo in giro e sbuffa. Con una manovra da vero lottatore, mi capovolge e ora sono io a trovarmi sotto. Mi sorride dall’alto, con un tocco di finta sbruffonaggine che gli dona particolarmente:
“Tocca a te il pavimento. È piuttosto scomodo”.
L’atmosfera di gioco mi lascia, perché mi perdo a fissarlo con reverenza. Piega il capo su una spalla, perplesso. Poggio le mani sulle sue gambe: “Sei…splendido”.
Arrossisce, meno a disagio dei primi tempi ma comunque sempre in difficoltà con i complimenti. Lo conosco bene e per risparmiargli ulteriore imbarazzo lo attiro verso di me, facendo scorrere le dita tra i suoi capelli mentre lo bacio in profondità, gemendo nella sua bocca quando il movimento fa incrociare le nostre eccitazioni.
Faccio un grande sforzo per separarmi da lui. Sospira, arricciando le labbra per lo scontento. Sento il suo sguardo su di me mentre mi trascino fino alla cassettiera in un angolo della stanza. La apro e con foga comincio a tirare fuori tutto ciò che contiene.
“Antares!” mi rimprovera, ma io sorrido trionfante, mostrandogli la boccetta d’olio. Gattonando torno da lui, avvicino le labbra alle sue. Mi poggia una mano sul petto: “Apprezzo il tuo zelo tesoro, davvero. Ma è da cinque anni che ogni volta mi butti tutto all’aria!”.
Assumo un’aria impunita, lambendogli la bocca: “Non fare il noioso”.
“Non faccio il noioso” mormora, non troppo convinto visto che ho ripreso a mangiargli il collo. Una mano si stringe tra i miei capelli: “Ma potresti metterlo in un posto fisso, ecco…”.
Mi limito ad annuire con un verso, non badando particolarmente a quello che dice. Torno a montargli sopra, ma di nuovo mi ferma. Stavolta sono io a lanciargli un’occhiata innervosita: “Insomma, cosa c’è?”.
“Non è che, tanto per essere estremi, potremmo farlo sul letto? Giusto per provare”.
Sorrido: “Sei proprio un vecchio”.
“E tu un assatanato”.
Scrollo le spalle: “Va bene. Letto sia, ma per il resto facciamo come voglio io”.
“Non lo facciamo sempre?”.
Lo afferro con un braccio e ci sollevo. Il letto non è lontano e in un paio di passi ci casco sopra, ovviamente schiacciando Giuliano. “Ahia…” commenta, ma ha l’aria di chi si è arreso da tempo.
Ghigno malvagio e mi sollevo a sedere, esponendomi del tutto al suo sguardo. Le sue gote prendono un lieve colore: “Sei senza vergogna”.
“Ti piace”.
“Questa poi…”.
Fa per prendermi l’olio dalle mani ma io lo allontano: “No”. Corruga la fronte, sorpreso. In genere è lui a occuparsi di questi preparativi, ma abitudinario com’è devo ideare qualche novità ogni tanto.
Si abbandona contro il letto, lasciandomi fare con un tocco di curiosità. Verso l’olio sulle mie mani e lo spargo con cura. Quando sono soddisfatto, socchiudo gli occhi con un sorrisetto e mi sollevo sulle ginocchia, portando una mano sotto di me. Mi sfugge un sibilo alla prima intrusione e serro le palpebre mentre cerco di allentare la tensione. Quando le apro mi esce una risata spezzata alla sua espressione attonita, occhi sbarrati e bocca semiaperta: “Attento, ingoi le mosche così”.
“Antares, tu sarai la mia morte…”.
Rido, allargandomi ancora con movimenti più sicuri.
“Spero non presto…ho ancora qualche esperimento da fare con te”.
Sposto dalla fronte i capelli bagnati per il sudore e di nuovo ungo il palmo con l’olio rimasto. Lentamente, lo stringo intorno alla sua virilità e Giuliano sobbalza, stringendo le lenzuola nei pugni tesi. Mugola, ma come sempre quando dimostro di voler avere il controllo non reagisce. Quest’uomo è troppo buono, vorrei vederlo arrabbiarsi più spesso. Ma so che sotto tutta questa mitezza si nasconde un vulcano.
Prendendo la sua erezione in mano, mi sollevo sopra di essa, sistemandola contro la mia apertura senza andare oltre. Lo tocco a malapena fino a quando tremola, gli occhi chiusi con forza: “Andiamo, Antares…per favore!”.
Sorrido in trionfo e finalmente mi muovo, calando su di lui fino a sentirlo riempirmi completamente, seduto sulle sue cosce mentre cerca di controllare il respiro. Lo bacio con fervore, sibilandogli contro le labbra: “Per la miseria Giuliano, attivati!”.
È come una diga che si rompe. Il mio caro Giuliano, adoro conoscerlo così bene, come se fosse un’altra parte di me. Una parte con un torso meraviglioso e delle gambe splendide. Si siede, afferrandomi per i fianchi e sollevandomi con la forza che non usa mai sugli altri. Mi porta giù con vigore e vedo le stelle, ma non gli è facile muovermi in questa posizione e anche io trovo scomodo non avere appigli. Mi stringe con un braccio e dà una spinta poderosa, sdraiandomi contro le lenzuola. Le mie gambe si spalancano e non perdo tempo a stringerle intorno al suo bacino, con la forza di cui si lamenta spesso quando finiamo: in effetti gli lascio sempre un po’ stroppi segni addosso, anche se è passato del tempo dall’ultima volta che l’ho graffiato. O morso. O fatto cadere per terra.
Porto indietro la testa, sommerso dal piacere. Una scossa mi attraversa quando colpisce quel punto speciale che mi fa sempre esplodere e che lui non manca mai di raggiungere. La stimolazione è troppa, intrappolato contro il suo corpo, e bastano pochi, intensi minuti per raggiungere il mio apice. Il mio corpo si stringe spasmodico intorno a lui e sono talmente confuso che quasi non sono cosciente del bacio che ci scambiamo. Dà un’ultima spinta prima di irrigidirsi, le braccia tremolanti per lo sforzo di sostenerlo. La vista è annebbiata, ma bevo del suo collo inarcato, dei muscoli del stomaco che sussultano, flessuosi.
Cade intorno a me, stringendomi tra le sue braccia, il viso nascosto contro la mia spalla. Il suo respiro è bollente sulla mia pelle e accarezzo la sua schiena, ancora attraversata da lieve spasmi. Ridacchio, anche se senza fiato: “Stai proprio….diventando vecchio”.
 Non mi dà la soddisfazione della risposta e avvicino la bocca al suo orecchio: “Luciano, o comunque si chiami, sembra parecchio in forma. Dovremmo chiedergli di partecipare, ogni tanto”.
Si tira su e i suoi capelli sparati mi impediscono di non ridere, soprattutto se accostati ai suoi occhi lucidi, nemmeno avesse bevuto oppio: “Un tempo parlavi così poco”.
Sorrido, poggiandogli piano le labbra sulla bocca.
“Poi sei arrivato tu”.
 
 
  


Bene, qui termina Terra e Porpora! Spero che vi sia piaciuta e ringrazio chiunque sia arrivato fin qui!
In genere non lo faccio, ma mi dispiacerebbe non avere pareri riguardanti questa storia, ora che è terminata. Purtroppo non ha ricevuto molte recensioni, ultimamente ha oscillato tra l'1 e le 2, probabilmente perchè l'ho lasciata da parte troppo a lungo e i lettori si sono stancati. Ma se postiamo le storie qui è perchè ci rende felici sapere cosa ne pensano altri, quindi per favore ditemii vostri pareri! Mi fareste davvero contenta e perdereste pochi secondi. Se questa storia vi ha ispirato qualcosa, anche di negativo, vi esorto a informarmene! :-)
Ringrazio chi l'ha messa tra le seguite, tra le preferite, chi ha recensito e chi l'ha solo letta. Un abbraccio grande va alla splendida e incommensurabile Serelily, che segue da tempo e con fedeltà  i miei deliri! Grazie grazie! Questi ultimi capitoli sono tutti per te!!
Spero a presto, auguro a tutti voi una felice e cioccolatosa Pasqua!!
Vostra,
M.

 

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