Black Wings

di L Change the World
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A New Life ***
Capitolo 2: *** He ***
Capitolo 3: *** Another Day ***



Capitolo 1
*** A New Life ***


Alzo lo sguardo al cielo. La luna è già visibile, una perfetta ed immacolata sfera di luce bianca circondata da nuvole grigie sature di una pioggia imminente. Metto il libro dentro la borsa a tracolla, oltrepasso un cancello dell’Hyde Park e mi incammino verso la stazione metro. Tutto sommato, Londra non mi dispiace affatto. E’ come se ci vivessi da sempre, anche se ci abito da poco più di un mese. Mio padre ed io ci siamo trasferiti dopo che mia madre è letteralmente scappata di casa, un giorno, all’improvviso. Quando ho chiesto a mio padre cosa fosse successo, mi ha guardata a lungo, poi ha abbassato lo sguardo ed una lacrima gli ha rigato il volto altrimenti impassibile. Per quindici anni papà ha vissuto con una donna che credeva lo amasse, che lo aveva sposato e gli aveva regalato una bellissima bambina. Finché non ha scoperto il doppiofondo del cassetto del comodino e ha trovato più di una dozzina di lettere da parte di un altro uomo, un uomo più bello, più affascinante di lui, di sicuro più ricco e carismatico che gli aveva portato via per sempre ciò che lui aveva amato di più. Ora ne parlo quasi con noia, ma per me è difficile raccontare la mia storia. Ne custodisco gelosamente il segreto, affogandolo nell’indifferenza. Ho semplicemente etichettato mia madre come “persona incapace di amare” e ho accettato l’idea che senza di lei la mia vita sarebbe stata migliore. Tutte cose, queste, che mio padre non ha fatto. O che non vuole fare.
Salgo sulla metro, mi siedo cercando di respirare il meno possibile quel tanfo disumano tipico dei mezzi pubblici. Domani è il mio primo giorno al secondo anno di liceo, e sono nervosa. Sono sempre stata una ragazza abbastanza socievole, ma l’esperienza mi ha insegnato a non fidarmi troppo delle persone. Ma voglio cambiare. Voglio dimenticare il mio passato, e crearmi una vita più felice, una vita nuova. Suono il citofono e la voce roca di mio padre brontola un:”Emily?!”
“Sì, sono io, papà!” dico, ed entro. Appena esco dall’ascensore, lo trovo ad aspettarmi sulla porta vestito in giacca e cravatta, dritto come un fusto e pettinato impeccabilmente.
“Papà, ma cosa…?”
“Sssh. Non dire niente.” Mi sfila la borsa, posandola rudemente a terra e mi mette le mani sugli occhi.
“Che significa?” chiedo, sorridendo e facendomi guidare lungo il corridoio.
“Ecco, ora puoi aprirli.” La cucina gialla è in penombra, illuminata da due candele che ornano il centro del tavolo accuratamente apparecchiato con il miglior servizio che possediamo.
“Oh, papà…” gli dico, abbracciandolo.
“Ho ordinato il sushi… Perché a te piace il sushi, vero?”
“Sì!” rispondo, trattenendo a stento una delle mie risatine idiote. Mi siedo sulla sedia nuova di zecca mentre mio padre mi riempie il piatto.
“Ho pensato che, dato che  domani inizierai la scuola, non avremo più tanto tempo per una cena a lume di candela, no?!”
“Hai pensato bene.”
“Allora, come ti sembra Londra?” mi chiede con un barlume di preoccupazione mista ad euforia.
“Non è male, penso che mi ci abituerò in fretta.”
“Uhm, bene” annuisce “In ansia per domani?”
“Un po’.”
“Vedrai che ti ci troverai bene. E’ una delle migliori da queste parti.”
“Lo so.”
Parliamo per un altro po’ del più e del meno, scherziamo, ci raccontiamo aneddoti. Una serata padre-figlia era ciò che ci voleva per scacciare tutte le ansie che mi attanagliano la mente da questa mattina. E quando bacio mio padre sulla guancia augurandogli la buonanotte e mi metto a letto, sono ottimista.


Angolo autrice ;)
Ciao a tutti! Spero che questo primo capitolo non vi abbia deluso. o.O Premetto che la vera e propria storia inizia dal prossimo capitolo, quindi non vi resta che attendere <3
Tanti baci! E recensite xD


 

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Capitolo 2
*** He ***


Disattivo la sveglia un attimo prima che si metta a strombazzare istericamente. Mi guardo allo specchio e per poco non urlo: un impertinente groviglio nero ha rimpiazzato quelli che solamente ieri erano i miei lunghi capelli fluenti, e due occhiaie scure sotto ai miei occhi verdi sono il risultato di una notte insonne passata a rigirarmi e contorcermi senza sosta tra le coperte. La giornata non poteva iniziare peggio. Scaravento un piatto con uova e bacon ancora fumanti sul tavolo ed inizio a trangugiare il tutto, rischiando anche di strozzarmi. Faccio una doccia, infilo jeans e una felpa verde petrolio e mentre dalla cucina proviene il ciabattare noncurante di mio padre. Sistemo alla bell’e meglio i capelli, che, misteriosamente, prendono una piega accettabile, mi disegno due linee di eye-liner sopra gli occhi, afferro lo zaino ed apro la porta.
“Sicura che non vuoi che ti accompagni?” biascica papà con gli occhi ancora mezzi chiusi.
“No, tranquillo. Ci vediamo a pranzo!” Dopo averlo abbracciato ed esser uscita, mi ficco gli auricolari a palla nelle orecchie e salgo sul mio autobus, cercando di convincermi a stare tranquilla.
Appena entro nella mia nuova classe vengo colta da un senso di impotenza davanti a tutti quegli occhi che mi fissano. Mi metto a sedere nella prima sedia libera che vedo vuota e aspetto, facendo finta di niente e cercando qualcosa di ignoto dentro lo zaino.
“Ciao! Tu devi essere quella nuova, non è così?!” Sobbalzo. Non mi ero accorta che il banco era già occupato. Fantastico.
“Sì.” rispondo, voltandomi verso la voce. Una ragazza bionda ipertruccata mi guarda con adorazione e curiosità insieme. Se avesse una coda, starebbe scodinzolando nevroticamente.
“Sono Grace.”
“Piacere, Emily.” dico, sorridendo imbarazzata.
“Allora, da dove vieni? Perché sei qui?” Inizia a tartassarmi di domande, e ci conosciamo da circa trenta secondi.
“Bhe, io vengo da…”
“Oh mio Dio, dove hai preso quella collana?” mi interrompe estasiata. Fisso il ciondolo comprato in un negozio al centro che ho messo solo perché è dello stesso colore della maglietta. “Lo sto cercando da una vita!” Sto per regalargliela, quando in classe entra un professore sulla trentina. Credo sia quello di inglese.
“Bentornati ragazzi! Bene bene, sento aria di novità.” Sfoglia il registro per alcuni secondi, poi mi guarda ed esclama:” Emily Rivers! Benvenuta fra noi.” Si alza, allarga le braccia e si inchina profondamente con fare teatrale. Gli altri ragazzi devono essere abituati a questo genere di stravaganze, perché si limitano a scuotere la testa e a sorridere. La lezione procede tranquillamente, a parte Grace che non smette un secondo di parlare sul fatto che ho degli occhi stratosferici e che sono uguali al ragazzo che le piace, ma che è già impegnato. Cerco di seguire la spiegazione del professor Summer mentre questo gira impettito e misure a grandi falcate l’aula, gesticolando con ampi gesti ed assumendo espressioni assolutamente innaturali. Decido che mi è simpatico.
Appena suona la campanella, automaticamente tutti si fiondano verso il mio banco, mentre Grace mi presenta a gran voce. Quando la situazione si smuove un po’, mi alzo e cerco di fare mente locale di tutti i nomi che mi hanno urlato. Un ragazzo mi si avvicina e mi sorride. Devo aver alzato il sopracciglio come di solito, perché assume un’aria vagamente preoccupata e mi dice:”Tranquilla, mica mordo! Sono Peter, e tu sei, ehm… Emily, dico bene?”
“Esatto!” E’ una delle prime volte che sorrido da quando sono in classe.
“Se vuoi, dopo io e Grace ti facciamo visitare la scuola, ok?” domanda Peter, facendomi l’occhiolino e avviandosi insieme a Grace verso il corridoio.
“Ottimo!” rispondo.
E poi lo vedo. E’ solo, le spalle ricurve su un libro e i capelli lisci e neri che gli coprono il viso cereo. E’ l’unico che è rimasto seduto, prima, e l’unico che non è ancora uscito in corridoio. Per un secondo, le sue labbra si assottigliano. Sa che siamo soli. Lentamente alza lo sguardo verso di me, e io rimango allibita: le iridi sono di un blu intenso, quasi elettrico, che io non ho mai visto a nessuno. Gli sorrido timidamente, ma sembra imbarazzarlo ancora di più, perché riabbassa di scatto lo sguardo e si liscia i capelli. Noto che addosso non ha un colore, è vestito e tinto esclusivamente di nero. Noto anche che io sono ancora là, ad osservarlo perché sta attirando la mia attenzione più di quanto lo abbiano fatto la stravaganza di Summer, l’euforia di Grace o l’entusiasmo degli altri studenti. Lui è diverso. E fremo per saperne il perché. Così, la curiosità prende il posto del timore, e mi sorprendo a dire:”Ciao. Sono Emily.”
“Lo so.” La sua voce è musica. Non saprei come altro definirla.
“Ehm… Tu come ti chiami?”
“Brian.”
“Ah.” Mi scervello a chiedere qualcosa, ma le parole mi muoiono in bocca. Mi ha ammutolito dicendo quattro sillabe, e questo mi provoca rabbia mista a frustrazione. Vorrei andarmene e lasciarlo nella sua asocialità, ma mi avvicino a lui, e scopro che ciò che ha davanti non è un libro qualsiasi. E’ un libro di disegni. Osservo i tratti di matita sinuosi e leggeri, ammiro la tridimensionalità che sembra avvolgere quei soggetti tanto perfetti quanto inquietanti: teschi, ragazze nude e straziate, segni gotici e rose nere. Potrei stare ore a fissarli e non capirne il senso, eppure sarei capace di rubarli e tenerli per me, custodendoli con gelosia. Basta. Devo uscire.
“Ci vediamo.” gli dico, ed esco. Con la schiena al muro, respiro a fondo e chiudo gli occhi. La sua presenza mi ha spiazzata. Mi volto, ed è ancora seduto lì. Piange.
 

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Capitolo 3
*** Another Day ***


La scuola è magnifica. Il giro turistico che Peter e Grace hanno organizzato per me è stato uno spasso. Peter conosce tutte le aule, i corridoi, i laboratori anche meglio delle sue tasche, mentre Grace si fermava ogni tre metri per attaccare discorso con la vittima di turno. Ogni giorno diventiamo sempre più amici, e, tutto sommato, è meglio di quanto pensassi. Le lezioni del professor Summer sono splendide, per il semplice fatto che dona alla lettura di un brano o ad una spiegazione un tocco di teatralità e passione che è impossibile ignorare. Va sempre oltre il significato apparente delle cose, scava a fondo nel tentativo di cercare ciò che si nasconde dentro una poesia o una parola. Anche papà sta migliorando: il brusco trasferimento lo aveva messo sotto stress, ma ora è decisamente più rilassato, ride e guarda programmi di cucina mentre armeggia con i fornelli. Va tutto secondo le mie aspettative. Tutto tranne lui. Brian. Il solo nome scaturisce in me mille emozioni diverse. Giro la testa verso sinistra ed eccolo lì, con quegli occhi blu che fissano un foglio bianco, la mano che armeggia con la matita in attesa della giusta ispirazione.
“Grace…” le do un colpetto sulla mano per distoglierla dalle sue unghie fucsia.
“Sì?!”
“Brian… chi è?” le chiedo con voce incerta.
“Bri… oh, lui.” dice voltandosi verso di lui e irrigidendosi.
“Cosa c’è?”
“Bhe, nessuno lo sa di preciso. I professori una volta ci hanno riunito e ci hanno detto di lasciarlo in pace perché ha una ‘situazione complicata’. Sì, hanno detto proprio così.”
“Che tipo di situazione? Gli è successo qualcosa?”
“Non hanno aggiunto altro. In effetti non parla con nessuno, non ha amici e sta sempre con quel libro in mano. Ma perché me lo chiedi?”
“No, niente. Era per sapere.”
Esco da scuola rimuginando sulle parole di Grace. Sarei tentata di andare da Brian e fargli le domande che da ore mi frullano in testa, ma non posso presentarmi di punto in bianco e dirgli:”Ehi, ciao! Perché sei così asociale?” No, sarebbe abbastanza brutto per entrambi. E non voglio farlo piangere di nuovo. Mi siedo alla fermata del bus e lo vedo, come sempre, mentre cammina al marciapiede opposto, un’esile sagoma nera che fluttua noncurante delle occhiate curiose dei passanti. E’ lì, a due passi da me, così vicino eppure così lontano.
                                                                                         
Finiamo il compito in classe nel caos: tutti hanno una faccia disperata, qualcuno scrive ma incerto se la risposta scritta sia corretta o errata. Non ho mai fatto un test così difficile, perciò consegno il compito per metà in bianco ed esco. Comincia a fare freddo, perciò butto lo zaino a terra e mi appiccico al termosifone come fosse uno scoglio in mezzo alla tempesta. Ogni ragazzo che esce dall’aula mi si rivolge con una faccia afflitta, bestemmia per bene e poi se ne va a prendere un caffè per tirarsi su il morale. Sono pronta a sorbirmi un’altra manciata di lamentele, quando dalla porta esce Brian, e il mio cuore perde un battito. Si accovaccia per terra, prende il suo libro dei disegni e la matita ridotta ad un mozzico e inizia a tracciare linee rette. Dopo un po’, la matita è talmente consumata che non riesce più a tenerla tra le dita esili. Cerca tra le scartoffie che popolano il suo zaino, ma non ne trova un’altra, e succede qualcosa che non mi sarei mai aspettata. Va nel panico, ansima, si prende la testa tra le mani tappandosi le orecchie ed incomincia a singhiozzare istericamente. Rimango immobile mentre la sua espressione si fa sempre più disperata. Decido. Afferro lo zaino, ne caccio fuori una matita a forza e gliela metto in mano. Nel momento stesso in cui tocco le sue dita, sussulta e si gira di scatto verso di me, fissandomi con quello sguardo che difficilmente riesco a sopportare. Arrossisce, e improvvisamente diventa un’altra persona: assume un’aria afflitta, consapevole di aver perso per un attimo il controllo, e, imbarazzato, abbassa la testa e si mette a studiare la mia matita.
“Scusa.” mormora dopo un po’.
“No, figurati, non fa niente.”
“Fa parte della terapia…”
“T… terapia?” chiedo incerta, cercando invano di far sembrare questa conversazione normale. Ma lui non risponde. Si limita a disegnare, e, per la prima volta lo vedo all’opera: tratti di matita si fondono insieme, creando un armonioso gioco di linee che costituiscono un sole ridente con occhi di bottone e raggi che sembrano dotati di una luce propria.
“E’ bellissimo” gli dico. E vedo un sorriso sotto i suoi capelli neri “Da chi hai imparato a disegnare così?”
“Da mio padre” mormora dopo un attimo di esitazione mentre il suo viso si rabbuia “Era un pittore, ma ora…” la sua voce si incrina, e ancora una volta stringe le labbra, come se volesse dire qualcosa ma non può. Così decido di cambiare argomento.
“Bhe, dovresti esporli, far notare il tuo talento.”
“Tu dici?”
“Io al posto tuo lo farei.”
“Io al posto mio li brucerei” dice sogghignando “I miei disegni. Così odiosi eppure dannatamente indispensabili.” Carezza la carta ruvida quasi con amore. “Scusa, parlavo da solo. Grazie della matita.” Si alza e se ne va, lasciandomi lì per terra, imbambolata. Mi sento una stupida. Alzo lo sguardo e Grace mi fissa con occhi sbarrati dall’angolo del corridoio.
“Che c’è?” le chiedo bruscamente.
“Oh, niente, figurati!” esclama lei tirando fuori il suo fedele specchietto e dirigendosi verso il bagno. Mi alzo, raccolgo lo zaino e me ne vado a passo svelto verso le scale.
 

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