Mononoke.

di DoubleLife
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricordi. ***
Capitolo 2: *** Le fiamme azzurre della disperazione. ***
Capitolo 3: *** Quel casuale incontro. ***
Capitolo 4: *** Una giornata piena di cambiamenti. ***



Capitolo 1
*** Ricordi. ***


Ricordo ancora l’espressione di mio padre quando riattaccò il telefono: un misto tra terrore e stupore. E io, ingenuamente, gli chiesi cos’era successo. Lui mi sorrise malgrado il grosso shock che aveva preso pochi attimi prima e mi rispose che non era successo niente.
“Io … vado fuori un attimo a fare una commissione.”, disse con voce irrequieta.
“Posso accompagnarti?”
“No. Ma promettimi che non aprirai la porta a nessuno.” e mi abbracciò talmente forte da soffocarmi in quel gesto affettuoso.
Poi aprì la porta di casa e, prima di andarsene, mi sorrise. Aveva un’ espressione triste malgrado il sorriso.
E poi il silenzio. Rimasi in piedi davanti alla porta ancora un attimo, poi salii le scale che conducevano al piano di sopra e mi chiusi in camera. 
Pensai che papà sarebbe ritornato nel giro di una mezz’oretta, massimo un’ ora. Ma non fu così. Passarono ben tre ore e di lui non c‘era ancora nessuna traccia. Ma ero tranquilla, perché pensavo dovesse fare qualcosa di veramente importante e sarebbe rientrato il giorno dopo. 
Stavo giocando con la casetta di legno quando arrivò quella macchina sinistra che si fermò perpendicolarmente davanti a casa mia. Mi alzai e controllai dalla finestra, scostando leggermente le tende di tonalità azzurra tendente al grigio: da quella macchina uscì un uomo vestito in nero, che a prima vista mi sembrò subito cattivo.  Notai immediatamente la pistola che teneva alla mano destra. Si stava dirigendo dalla mia parte, con passo deciso. E io ero inconsapevole di quello che stava succedendo. Mi vennero in mente le precauzioni di mio padre, “Ma promettimi che non aprirai la porta a nessuno”. 
Aprii il mio armadio, presi la prima borsa a tracolla che vidi e la riempii di oggetti: bambole che capitavano a tiro, peluche e arnesi vari. Ero ancora piccola, potete immaginare le cose a cui una bambina di 7 anni tiene di più. Oltre alla borsa presi un cappello rosa pallido largo, assieme a guanti e sciarpa abbinati, li indossai e chiusi la porta della stanza in un secco e rumoroso botto; scesi le scale in fretta in furia, perdendo per strada il contenuto della borsa e andai in cucina a prelevare budini al cioccolato in caso se mi fosse venuta fame. 
Poi mi resi conto che sul tavolo c’era una lettera. Presi anche quella, assieme al bento racchiuso in un fazzoletto arancione.
L’uomo vestito di nero era già arrivato da un pezzo davanti a casa mia e stava bussando alla porta in modo violento, aspettando una risposta. Mi gettai alla porta che apriva al garage, a mani tremanti girai la chiave che tolsi dalla serratura subito dopo e scappai. 
Avevo paura. Molta. Indescrivibile fu la strada che feci mentre scappavo da casa mia: mi graffiai la faccia più volte andando incontro a dei rami che, come mani ossute e maligne, cercavano di bloccarmi. Più graffiate ricevevo, più correvo. L’ adrenalina mi incitava ad correre ancora, ancora e ancora. Tanti brividi mi percorsero il corpo sudato e tremolante dalla stanchezza. 
Mi fermai solo quando trovai un lampione sperduto in mezzo alla notte. Non si vedeva né l’inizio e né la fine della strada; solo la fioca luce di quella finta luna. Mi avvicinai lentamente verso la luce e quando riuscii a toccare il palo con le mani gelide, finalmente mi sedetti per terra raggomitolata su me stessa, sempre rimanendo vicino al lampione. Solo in quel momento la fame si fece sentire. Tirai fuori il bento e staccai un budino al cioccolato da altri 5 che mi ero portata dietro prima di uscire di casa. Mangiai con avidità il budino in due bocconi e una piccola parte del cestino contenente il cibo. Poi riposi tutto ordinatamente nella borsa a tracolla.
“Mi deve bastare per un paio di notti”, pensai tastando il cibo nella borsa. Già. Quanto dureranno un paio di notti? Due, tre, quattro, cinque? Non lo sapevo, davvero. Avevo solo paura. La paura, quel sentimento così bastardo che ti divora dall’interno, come una termite che non ti lascia finchè l’hai fatta evacuare dal tuo corpo. 
Presi dalla borsa l’unico ricordo di casa mia, perché il resto era volato via dalla tracolla: un gatto nero in peluche. Lo strinsi fortemente a me, quasi piangendo. 
“Buonanotte”.
E rimasi sveglia in attesa di una risposta da qualcuno. Quanto desiderai che quel qualcuno fosse stato mio padre. Ma l’unico che vegliò su di me per tutta la notte fu il lampione con la sua luce giallastra che dava un senso di inquietudine. 
 
Quando mi risvegliai il paesaggio circostante si trasformò in una normale stradina mattutina di città, con tanto di vento autunnale. Mi sgranchii le gambe e sbadigliai con ancora in braccio il peluche della notte scorsa. Passai ancora tre secondi alzata fissando il cielo grigio e cupo, prima di cominciare a camminare. Incamminarmi verso dove, poi! Ero totalmente disorientata e non avevo mai percorso le strade di Tokyo da sola, se non con mio padre. Ma lui non c’era. Feci una smorfia ripensando a papà, come se avessi preso una cucchiaiata di una medicina amara tutto d’un sorso.
Seguii gli aceri in fila che proseguivano vicino al marciapiede interminabile, pestando con forza le foglie bordeaux secche; tenevo ancora ben stretto a me il pupazzo, che a momenti pensavo potesse esplodere per la forza che mettevo nelle braccia spingendole contro il petto.
Arrivai fino ad un parco, mai visto prima d’allora, e mi sedetti sulla prima panchina che trovai. Mi venne fame e tirai fuori un budino dalla tracolla, ancora mangiabile malgrado avesse trascorso un‘intera notte fuori dal frigorifero; e mentre stavo curiosando nella borsa mi resi conto della lettera che era allegata al bento.
“Per la mia piccola Mononoke”, sussurrai leggendo l‘elegante carattere della scrittura sulla carta. 
“È per me la lettera … ”, pensai rigirando più volte la lettera su se stessa cercando il modo per aprirla. 
Aprii la busta e cominciai a leggere.
 
Cara Mononoke,
Se stai leggendo questa lettera significa che non sei a casa, ma al sicuro. Bravissima.
Scusami se ti ho lasciata all’improvviso, ma se ti avessi portata con me saresti finita male. Non preoccuparti di me, io sto bene.
Spero che il tuo disorientamento ti abbia portato nel quartiere dove vive tuo zio, perché lui è la sola persona di cui mi fidi ciecamente e sono certo che ti terrà con sé per i prossimi anni. Il suo nome è Himitsu Kurosaki.  
Quando arriverai a casa sua digli che ti ho mandato io: capirà al volo cos’è successo.
Sarà l’ultima volta che ti scriverò, ormai mi manca poco tempo prima che mi catturino. 
Ricorda che ti vorrò sempre bene qualsiasi cosa accada e un giorno rivivremo insieme, nella nostra casetta.
 
Papà
 
Rilessi la lettera più volte, per capire se quello che leggevo era giusto. Quando finalmente compresi che niente era irreale, alzai la testa e urlai. Un grido lungo e disperato che si propagava per tutto il parco, in cerca di aiuto. 
“PAPÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀÀ!!!!”.
Ero incredula di quello che stava accadendo. Papà si divertiva a farmi gli scherzi, pensai subito che era una balla la lettera. Ma per essere uno scherzo doveva essere davvero di cattivo gusto.
Mi rivenne in mente un ricordo, quando papà mi rimboccava le coperte e mi accarezzava dolcemente la testa in attesa che prendessi sonno.
“Piccola mia, affronteremo questo mondo insieme. Noi due contro il mondo intero!”. E da quel momento in poi mi ritrovai sola contro il mondo. Un mondo che ancora dovevo scoprire e che mi sembrava gigantesco, come l’universo stesso.
 
Però c’erano altri pensieri che mi affollarono la testa: raggiungere la casa di mio zio. La mia unica salvezza, il mio unico rifugio. L’ultima cosa che mio padre mi aveva pregato di fare. Lasciarmi alle spalle la vita trascorsa con lui e ricominciarla con un altro uomo. Non potevo disobbedire. Non volevo deluderlo.
Scivolai con decisione dalla panchina alla ricerca del presunto quartiere dove c’era mio zio. Chiesi indicazioni a una coppietta che incrociai durante la loro passeggiata per i sentieri del parco; mi stupii quando loro mi dissero che il quartiere di cui parlavo non era affatto lontano, anzi, bastava proseguire il sentiero davanti a me per poi trovarmi a destinazione.
Quando arrivai in zona domandai ad un passante dove vivesse questo Himitsu Kurosaki.
“Ah, quello che recita i versetti del Vangelo alle due di notte …”, esclamò senza alcun entusiasmo, “Vedi quel grosso edificio in fondo alla strada? Lui si trova là.”. Indicò la grossa casa alla fine della strada su cui eravamo. Ringraziai l’uomo e cominciai a correre cantando Alleluia trionfante, anche se col fiatone.
Finalmente arrivai davanti ad una porta color mattone. Era la casa di mio zio. Ebbi qualche esitazione nel suonare il campanello: ero eccitata, sudata e coi capelli scombinati. Il cappello lo tenni in mano, per evitare di perderlo.
Qualcuno pochi attimi dopo aprì la porta. Era un tipo alto in veste nera dai capelli marrone sbiadito scompigliati con un viso piuttosto affascinante da cui trasparivano i suoi trentasei anni tenuti piuttosto bene, ma nascosti da un paio di occhiali dalla montatura nera. Abbassò la faccia; in questo modo notai una certa somiglianza con mio padre attraverso gli occhi color nocciola.
“Sei Mononoke?”, mi domandò.
Ripresi un ansimare dopo la corsa. “Sì”.
Si limitò a sorridermi affettuosamente, con un una punta di tristezza.
“So già tutto. Entra, avrai sicuramente fame”.

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Capitolo 2
*** Le fiamme azzurre della disperazione. ***


Mi alzai di scatto. Ero completamente sudata e le coperte ribaltate per terra. 
“Ancora quell’incubo …”, mugugnai a denti stretti coprendomi gli occhi coi palmi.
Erano passati più o meno otto anni da quando mi ero trasferita da lui.
“Non preoccuparti, ho la situazione sotto controllo”, mi aveva sorriso dolcemente appena avevo varcato la porta di casa sua. Quelle parole mi erano sembrate così rassicuranti quanto quelle di papà. E proprio per questo non mi ero mai fidata di Himitsu. 
Mi aiutai con la luce che filtrava dalle tapparelle per avvicinarmi all’armadio dalle ante bianche scorrevoli. Afferrai i miei jeans attillati, una camicia e una maglietta blu: il solito abbigliamento. Mi chiusi in bagno e mi lavai velocemente, per poi vestirmi. Quando andai in cucina trovai un uomo sui quarantaquattro anni castano schiarito da qualche capello bianco, segno che stava invecchiando. Era rimasto sempre con la stessa faccia, anche se percorsa da qualche leggera ruga, e aveva sempre lo stesso paio di occhiali dalla montatura nera. 
“Buongiorno, zio Himitsu”, dissi allegramente abbracciandolo. Ricambiò l’abbraccio e mi sorrise.
“Buongiorno, Mononoke. Dormito bene?”, domandò. Sorrisi più convinta possibile.
“Come sempre.”
Himitsu mi invitò a sedermi e a bere un po’ di cioccolata calda. Riempì una tazza e me la porse facendola scivolare sulla superficie liscia del tavolo; la presi e cominciai a berla a piccoli sorsetti per non ustionarmi la lingua. 
Una volta finita la cioccolata, Himitsu si alzò dalla sedia e mi fece cenno di venire con lui.
“Oggi vieni con me in un posto speciale … ti va?”, disse entusiasta. 
Annuii energicamente alzandomi subito dalla sedia. Ero divorata dalla curiosità di sapere dove saremmo andati; presi la borsa in camera mia e uscimmo di casa.
Notai del nervosismo nei movimenti di zio. Ma feci finta di niente e continuai a seguirlo tenendo il passo.
 
Himitsu era solito ad uscire in modo nervoso, veloce. Il più delle volte mi appariva così. Poi c’erano casi particolari in cui era talmente rilassato che pensavo fosse sotto l’effetto di qualche calmante. Puntai su quella opzione, perché ingoiava sempre qualcosa prima di bere il caffè. Delle pillole. 
“Come mai prende dei calmanti prima di uscire?”, pensai. Questa è ansia. Capita che i sentimenti prendano il soppravvento in una persona e che quest’ultima provi stress. Poi se questo stress non viene scaricato in qualche modo si trasforma in ansia. Himitsu-san ne aveva molta. Col lavoro che faceva lo stress lo scaricava immediatamente: tornava a casa stanco, ma sereno. Però era una cosa che si ripeteva ogni giorno.
 
Improvvisamente si fermò: eravamo arrivati. 
Non dissi niente. Anzi, non riuscivo a dire niente. Rimasi a contemplarla, come se fosse stato un quadro. La casa di papà. 
“Entriamo.”, disse dolcemente. Risposi annuendo in modo vago.
La casa col tempo si era rovinata. Le erbacce nel giardino erano aumentate, nascondendo i pezzi di tegole provenienti dal tetto sfondato e i cocci delle finestre rotte, da cui uscivano le tende talmente sbrindellate che davano l’impressione di essere delle ragnatele. Quando arrivammo alla porta verde oramai scolorita dal tempo, notammo che la serratura era stata violentemente forzata. Ci limitammo a scostarla leggermente per entrare.
Le condizioni della casa erano pessime: il parquet sul punto di rompersi, le pareti invecchiate, i gradini delle scale scheggiate e cocci dappertutto. 
Non capii le intenzioni di zio. 
“Perché qui..?”, gli chiesi. Non mi rispose. Indicò la porta aperta sul garage e con un gesto delle mani volle farmi capire che dovevamo scendere. Rabbrividii. Avevo desiderato in tutti quegli anni di non ripercorrere le scale. Costretta a farlo scesi gradino per gradino, cercando di non farli scricchiolare. Il cuore mi batteva a mille, le mani inspiegabilmente tremolanti. Rivivevo la paura di quell’episodio così struggente e orribile. Se avessi avuto la possibilità di farlo, sarei fuggita dalla casa. Dal giardino. Sarei fuggita lontano da lì e grazie al mio disorientamento sarei giunta ad una stradina sconosciuta. L’unica cosa che avevo messo sottochiave in fondo al mio cuore. Il mio passato non lo doveva sfiorare nessuno. Lo avevo imposto a tutti, anche a me stessa.
Arrivammo al garage. Poi Himitsu-san mi diede qualcosa. Una lettera. 
“Tuo padre mi chiese di darti questa una volta che avessi compiuto 15 anni, anche se ancora manca qualche giorno al tuo compleanno.”. Aprii la busta: c’era una foto. Una ragazzina in costume da bagno rosso, dai capelli arancio chiaro, sui sette anni stava in braccio ad un uomo abbronzato bellissimo dai capelli mogano arruffati e dagli occhi color nocciola. Entrambi erano così felici da far venire il sorriso al solo sguardo. Quei due eravamo noi. Io e papà.
Una lacrima rigò la mia guancia. 
“Papà.”, dissi sconvolta guardando zio. Mi sorrise dolcemente, comprendendo i miei sentimenti. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e me lo porse. Mi asciugai gli occhi e mi ripresi subito.
“Poi c’è anche questa, è meglio se …”. Non finì la frase. Notò il mio viso impallidito rivolto verso l’alto. Lo alzò anche lui. Aggrappato come una scimmia al soffitto, un demone stava origliando. Anche se era buio intravedevo parte del suo corpo. Due pupille brillanti verdi quanto i capelli ci stavano osservando. 
Tutto avvenne in un attimo. Il demone cercò di avventarsi su di me, ma fu interrotto da una spinta che mi diede zio per farmi cadere per terra. I due combatterono a lungo; Himitsu riuscì a bloccarlo per le braccia.
“Scappa!! Vai il più lontano possibile da qui!!”, mi urlò. Io ero paralizzata. Le mie gambe, le mie braccia. Erano immobili. I miei occhi erano ancora fissi sul demone che cercava di liberarsi dalla stretta dell’uomo. Per un attimo sembrò che stesse sorridendo. 
Mi alzai da terra e corsi più in fretta che potevo verso le scale. Il demone si liberò dello zio Himitsu e si lanciò al mio inseguimento. Inaspettatamente riuscì a prendermi un piede e a farmi sbattere la faccia su ogni gradino, trascinandomi a sé. Himitsu lo prese per il collo e lo sbatté per terra in un colpo solo; riuscii ad allontanarmi dal demone. Tossii; la mia mano si macchiò di sangue. Sbiancai.
“Adesso hai la possibilità di scappare mentre lo trattengo!”, ansimò l’uomo. Io non mi mossi. Tremavo come una foglia.
Il demone approfittò del momento di distrazione e lo scaraventò al muro con un calcio. Si girò verso di me, spalancando gli occhi e facendo un ghigno agghiacciante. 
“Himitsu-san!!”, urlai spaventata.
Il demone si alzò e camminò dalla mia parte. Indietreggiai più che potevo aiutandomi coi talloni, finché non ebbi il muro alle spalle. Poi mi prese per i capelli con una sola mano e avvicinò il suo viso al mio per guardarmi meglio. Trattenni il respiro. Mi annusò il collo; gelai quando mi sfiorò appena con le sue dita fredde l’orecchio. E poi cominciò a sghignazzare compiaciuto, divertito della situazione.
“Il fratellone è stato generoso …”, si limitò a dire. 
Mi trascinò per la stanza tenendomi sempre per i capelli. Mi dimenai per essere lasciata andare, ma era troppo forte la sua presa.
“Mononoke!!”, urlò zio cercando di rialzarsi. Il demone non si curò dell’uomo e si avviò verso l’uscita del garage; cercai di opporre resistenza, ma anche il secondo tentativo di ribellione fallì.
“Lasciami andare! Subito!”, ringhiai al mostro minacciosamente. Questo si girò, mi alzò da terra e disse: “Sai che faccio adesso? Ti ammazzo.”. Mi scaraventò per terra e mi diede un calcio in pieno stomaco; urlai per il dolore. Non contento me ne diede altri quattro, paralizzandomi per terra. Sputai parecchio sangue. Mi ripulii la bocca e cercai, in qualche modo, di fuggire. Il mostro mi prese per il colletto della camicia e mi lanciò al muro. 
Respirai affannosamente massaggiandomi il ventre, ormai massacrato. Poi mi accovacciai su me stessa, aspettando solo che il demone mi finisse. Sentivo il cuore scoppiare per la paura. La paura di morire.
Ma non sentii nessun dolore. Incredula alzai la faccia. Qualcuno era stato colpito, ma non io. Cadde per terra non molto distante da me. Mi precipitai subito da lui. Zio Himitsu si era fatto colpire al posto mio. Toccai la sua pancia: era sporca di sangue.
“Perché l’hai fatto?”, gli chiesi con voce pacata ma tremante. Mi si offuscò per un attimo la vista e sentii la faccia avvampare. 
Lui mi sorrise malgrado la ferita e mi accarezzò la guancia affettuosamente come se fossi stata la cosa più importante della sua vita.
“Perché ti voglio bene.”. Ritirò lentamente la mano a sé e chiuse pian piano gli occhi. “Ora va via …”
Non percepii più alcun battito cardiaco.
In quel momento il mio cuore si arrestò come il suo. Come se parte del mio mondo fosse finita con lui. Ma non provai tristezza o gioia. Sentii una gran rabbia crescere. A dismisura. 
Il bastardo da dietro mi prese per un braccio; molto lentamente girai la testa. Aveva le unghie della mano sinistra sporche di sangue. Il sangue di Himitsu-san. Non riuscii più a controllarmi. 
Mi girai e gli diedi un pugno in faccia; il demone rotolò a pochi metri da me. Mi alzai molto velocemente e gli andai incontro restituendogli i quattro calci che mi aveva dato prima, mettendoci tutta la forza che avevo.
“Questi sono per il dolore che mi hai inferto!”, urlai. Sputò del sangue.
Pestai col piede lo stomaco spingendolo sul pavimento, come lui aveva fatto prima a me.
“Questo è per il calcio di Himitsu-san!”.
Lo presi per il colletto della sua giacca con entrambe le mani e lo lanciai più lontano possibile verso l’aperto. 
Il demone cominciò a ridere di gusto con la bocca tinta di rosso.
“Ma allora è vero!”, esclamò felice rialzandosi, “Hai ereditato le sue fiamme!”.
“Le fiamme?”, pensai non seguendo il discorso.
Vidi in fondo alla stanza uno specchio frammentato che rifletteva ciò che ero diventata. Avevo le orecchie lunghe e a punta, dei canini appuntiti simili a quelli dei vampiri, una coda color pece che ondeggiava dietro le gambe semiaperte e, soprattutto, ero ricoperta di fiamme azzurre. Ero qualcosa che non avevo mai visto prima nei miei quattordici anni di vita.
Il demone mi afferrò per il collo e mi sollevò da terra. Infilzai nel suo avambraccio le mie unghie con l’intento di liberarmi, ma senza successo. 
“Adesso ti porto dal nostro signore, così diventerai completamente una di noi.”
“NO!” 
Improvvisamente il braccio che mi teneva sospesa in aria prese fuoco e mi lasciò cadere per terra. Massaggiai la trachea e respirai a pieni polmoni affannosamente. Tutto il corpo di quel mostro venne avvolto dalle fiamme. Si dileguò cercando di spegnere il fuoco. Ma dubitai che sarebbe sopravvissuto più di una giornata.
Mi guardai le mani: erano sporche di sangue. Rimasi inquietata da questo mio lato nascosto.
Allora ripresi il controllo di me stessa. Vidi che il fuoco attorno a me si stava calmando e che il calore era diminuito. 
Mi rialzai molto lentamente ed andai dal corpo morto di zio. Gli toccai la mano. Versai una lacrima. Per colpa mia si era sacrificato e per colpa mia era morto. E tutto questo prima che compiessi quindici anni.
Ripresi la foto mia e di papà da terra; la piegai e la misi nel taschino della camicia. Sollevai il corpo di zio con tutta la forza che avevo e me ne andai.
 
Era una giornata cupa e piovosa quando si celebrò il suo funerale. Erano presenti tutti i suoi colleghi e gli amici più stretti. Qualcuno piangeva, qualcuno rimaneva col capo abbassato. 
“Fatti forza, Mononoke.”, disse uno di loro cercando di consolarmi. Abbassai gli occhi.
 
Quando arrivai in quartiere mi venne incontro tutto il vicinato. 
“È morto zio Himitsu. Qualcuno ci ha assaliti; lui si è sacrificato per proteggermi.”, mi limitai a dire. 
Nessuno comprese più di quello che dissi. Aspettarono solo che facessi trasparire qualcosa dalla mia faccia. Volevano solo una mia reazione.
Corsi a casa come una forsennata e quando arrivai mi chiusi a chiave in bagno. Aprii l’acqua della doccia e mi misi subito sotto, malgrado fosse gelida. Mi coprii gli occhi con le mani. 
“Adesso mi sveglio e scopro che è un incubo”, ripetei più volte ad alta voce nervosa. Quando li riaprii la prima cosa che vidi fu la coda tremare. La mia prima reazione fu gridare per la disperazione; mi coprii la bocca per soffocare l’urlo.
 
Quando il prete fece il segno della Croce rivolto alla bara tutti i presenti lo imitarono e nel giro di pochi secondi se ne andarono tutti. Rimasi solo io, in piedi davanti alla sua lapide. 
“Amen.”. E me ne andai pure io, trattenendo lacrime e dolore.

 

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Capitolo 3
*** Quel casuale incontro. ***


Volevo non esistere. Mi ero chiusa in casa e avevo abbassato le tapparelle. Mi ero svestita e avevo preso una delle sue camice dall’armadio in mogano. La annusai: profumava ancora di colonia. Ricordava zio. Malgrado fosse morto da due giorni lo sentivo ancora attraverso quell’indumento. Lo sentivo così vicino a me che immaginavo di sentire il suo respiro pacato quando l’abbracciavo. 
Feci scivolare la camicia lungo il corpo. Esageratamente grande. Ma dava un senso di sicurezza, di protezione. Come quando stavo con Himitsu. Mi sentivo al sicuro. 
Gattonai sul suo letto e mi ci appallottolai sopra. Non potevo che pensare a lui. Desideravo più di ogni altra cosa che fosse stato lì accanto a me, ad accarezzarmi. Potevo solo immaginarmelo. 
 
Himitsu-san era una persona molto cauta. Era sempre distaccato dalla vita del quartiere, evitava di parlare con i vicini se era possibile o si rinchiudeva in casa sorseggiando del caffè e leggendo una quantità assurda di libri scelti dallo scaffale di camera sua. 
“Semplicemente mi basta vivere in questo modo.”. La sua risposta, anche se era stata detta con tono pacato, sembrava diffidente. Himitsu-san certe volte pareva proprio così. Capitava che non mi rivolgesse parola per un intera giornata perché era immerso nei suoi pensieri. Si appoggiava coi gomiti sul tavolo della cucina e pensava, come se anche lui avesse dovuto capire che cosa gli passasse per la testa. 
“A cosa pensi?”, gli domandai un giorno. Allora sorseggiava caffè guardando fuori dalla finestra. 
“A proteggerti.”, disse volgendo il capo dalla mia parte. Il suo leggero sorriso dipinto sul viso mi aveva fatto arrossire. 
Himitsu era tanto dolce. Per me era stato il padre che era scomparso a sette anni e che non vidi più. Si era preso cura di me con tanto affetto, come se fossi stata sua figlia. 
“Sei l’unica persona di cui mi fidi. Non tradire la mia fiducia”. Me lo confidò al giorno del suo compleanno. Sentii le guance riscaldarsi. In quel momento mi resi conto quanto zio mi volesse bene. 
 
Mi rialzai dal letto. Il corpo era indolenzito e mi bruciavano gli occhi. Me li sfregai e feci un rumoroso sbadiglio. Mi sembrava di essermi risvegliata da un sonno durato anni, quando in realtà erano passate due ore. Balzai dal letto e mi stiracchiai. Quando passai davanti allo specchio della stanza, notai la coda ondeggiare placidamente dietro di me. Mi fece venire in mente quella volta, quando avevo dieci anni. Allora era autunno. 
 
Himitsu-san stava leggendo un libro con fare curioso. Sfogliava le pagine ingiallite del manoscritto delicatamente e non gli staccava gli occhi di dosso. Continuava a leggere lo stesso libro da settimane. 
“Che leggi?”, gli avevo chiesto. Con l’indice mi aveva invitato ad avvicinarmi a lui.
“Leggiamo assieme, così passiamo il tempo.”, esclamò. Mi ero seduta sulle sue gambe infilandomi dietro le sue braccia, mentre quest’ultime mi avevano circondato le spalle. Una volta messa comoda con lui ci eravamo messi a leggere. 
“È il diario di una ragazza giovane che fa carriera appena diventa maggiorenne.”, mi aveva introdotto la storia molto semplicemente, “E inizialmente viveva assieme alla sua famiglia, fino a quando lei e sua sorella non vengono vendute, ritrovandosi a Kyoto!”.
Avevo sgranato gli occhi. “Vendute?!”
“Esattamente!”, proseguiva allegramente, “La protagonista era così bella che era stata mandata in una casa di geishe, a differenza della sorella che era stata mandata in un quartiere bruttissimo rinomato per le sue sventure!”. 
E così avevamo passato un intero pomeriggio insieme, mentre zio leggeva ad alta voce ed io ascoltavo attentamente individuando le righe dal libro. 
La sua voce, così motivata nel leggere il romanzo, mi rendeva felice. Le sue risate, le imitazioni delle voci che adattava da persona a persona, il suo respiro. Non mi ero sentita mai così sciolta da quando avevo messo piede a casa sua. Notavo che anche lui era rilassato. 
“Mi piace quando leggi i libri!”, avevo detto girandomi verso di lui. L’avevo abbracciato e gli avevo sussurrato quasi sul punto di addormentarmi “Ti voglio bene.”. 
Mi aveva preso in braccio e mi aveva portato in camera, stendendomi sul suo letto. 
“Ti voglio bene anch‘io, piccola.”, aveva bisbigliato. Mi aveva baciato la fronte scostandomi leggermente i ciuffi arancio e aveva abbandonato la camera, spegnendo la bajour.
 
“Chissà se le geishe soffrivano in situazioni simili …”, pensai contemplando la mia figura riflessa sullo specchio. Imitai la posa di una geisha, facendo finta di impugnare dei ventagli immaginari in modo artistico. Rimasi seria, fino a quando non feci una boccaccia. Scoppiai a ridere.
“Quanto sono stupida!”, risi. Placai la risata pochi attimi dopo, finchè non vidi veramente la mia faccia. Inespressiva. Vuota. Triste. Mi misi il ciuffo dietro l’orecchio. Era appuntito, quanto i canini che sfoggiai in quel preciso istante.
“Come sono ridotta …”, dissi pensierosa con tono sommesso. 
Mi diressi verso il bancone della cucina. C’era ancora la tazza di Himitsu semipiena di caffè. La presi e la sciacquai nel lavandino. Vidi che attaccato al frigorifero con un magnete azzurro c’era un disegno. Raffigurava un fiore, la pervinca. Era colorato a pastello a cera blu acceso in modo grezzo. 
“Teneri ricordi …”, sussurrai accarezzando delicatamente la carta colorata. Sentii una grande nostalgia incombermi addosso.
 
Himitsu-san aveva molti passatempi, ma sicuramente il suo preferito era quello dei fiori. Aveva molti libri riguardo le piante e spesso me ne parlava. 
“Quello che fiore è, Himitsu-san?”, gli avevo domandato indicando il fiore vicino alla finestra della cucina. Era fatto da cinque petali tendenti ad un celeste violaceo accompagnato da una foglia color verde brillante appena sbocciata. 
“Quella è una pervinca, Mononoke.”, rispose l’uomo, “Significa teneri ricordi.”. 
Quel termine poteva significare tante cose, ma strettamente collegato ad una sola cosa. L’affetto. 
“Da piccolo mi innamorai di una bambina della mia scuola. Un giorno dovette trasferirsi in un’ altra città e, prima di lasciare il quartiere, passò a casa mia. Mi porse un fiore, una pervinca. Fu lei a dirmi che il significato di quel fiore era teneri ricordi…E allora nacque la mia passione per i fiori.”, mi aveva raccontato. La sua voce mi era arrivata filtrata dalla sua tristezza alla notizia della partenza di quella bambina. Himitsu-san contemplava quel fiore con tale nostalgia che avevo cercato di richiamare l’attenzione su un’altra pianta.
“Quello invece?”, gli chiesi tirandogli la manica nera. Si era voltato e aveva visto l’altra pianta, sopra la credenza.
“È un ibisco.”
“Che significa?”
“Delicata bellezza.”, disse prendendo il vaso e appoggiandolo sul tavolo in cui ero seduta, “Si addice perfettamente a te.”. Arrossii al suo complimento e sorrisi. 
“Grazie.”. Sorrise anche lui.
 
Mi strofinai la faccia, cercando di pensare ad altro. Ogni gesto che facevo mi ricordava Himitsu e mi voltavo al passato alla ricerca del suo corpo vivo. Ma purtroppo era impossibile e questo mi sconfortò così tanto da farmi chiudere gli occhi. 
Li riaprii dopo un paio di minuti, con l’intenzione di fare ciò che non avevo fatto in quei due giorni. Andai in camera mia e aprii l’armadio. Raccattai un paio di pantaloni scuri attillati, una camicia a maniche corte nera e una maglietta bianca. Mi sfilai la camicia di zio e indossai tutto. Presi le All Star rosse e infilai le chiavi di casa e il portafoglio in tasca. Quando uscii la luce del sole mi accecò e mi coprii con il braccio. 
“Accidenti!”, mugugnai quasi sul punto di imprecare. Mi ripresi e respirai a pieni polmoni l’aria frizzante mattutina. Quella che non avevo respirato per ore, se non in una camera impolverata. Cambiare non faceva affatto male.
Mi incamminai per la strada che si affacciava sul muretto color piombo che si estendeva per tutto il sentiero, finchè non mi trovai davanti al fiorista. Il tintinnio delle campanelle appese sopra il cornicione della porta avvertirono il negoziante del mio arrivo.
“Salve, ha bisogno di qualcosa?”, mi chiese pulendosi le mani sporche di terriccio con un panno.
“Del mirto.”, risposi. Per un attimo mi guardò stupito, ma cominciò a frugare tra i ripiani stracolmi di fiori colorati di tutte le sfumature possibili. Dopo cinque minuti ritornò da me con un mazzo dai piccoli fiori candidi, accompagnati da altrettante minute foglie color verde mela. 
Dopo aver pagato uscii dal negozio e svoltai a sinistra, per poi continuare sulla via. 
Arrivai ad un grosso cancello arrugginito che apriva la strada ad un’area completamente isolata dal quartiere. Lo oltrepassai, entrando così dentro il cimitero.
Il posto, immerso nella quiete, fu spezzato dai miei passi che qualche volta si fermavano perché ero alla sua ricerca. Quando mi rivenne in mente il luogo in cui si era celebrato il funerale arrivai finalmente davanti alla sua lapide.
Himitsu Kurosaki
nato il XXX e morto il XXX
“Buongiorno, Himitsu-san.”, sorrisi dolcemente. Silenzio totale. Mi chinai e gli porsi il mazzo di mirto.
“Ti ho portato dei fiori.”, precisai. “I miei preferiti.”. Esitai ad appoggiarli sull’erba, in attesa di una risposta. Il mirto mi piaceva molto. Esprimeva al meglio ciò che provavo per lui. Amore.
“È un fiore molto bello.”. 
Mi girai, allarmata. Qualcuno mi stava osservando con fare curioso, quasi ossessionato. La figura coprì la faccia, nascondendo il sorriso con parte del palmo, arricciando le dita sulla bocca.
“Lei chi è …?”, chiesi. Non rispose alla mia domanda subito, ma iniziò porgendomi la mano color lavanda. 
“Mephisto Pheles, piacere di conoscerla…”. Quando gliela porsi molto timidamente, mi strattonò la mano e mi ritrovai faccia a faccia con lui, col busto leggermente inarcato in avanti. 
“…Signorina Kurosaki.”, terminò la frase con classe. Mi spaventai ritrovandomi i suoi occhi verdi fissi sui miei. Mi allontanai lasciandogli il guanto.
“Mi dispiace per quello che le è successo.”, continuò l’uomo fingendo con una faccia dispiaciuta, “Condoglianze.”. 
Cercò di accarezzarmi la spalla, ma anticipai il suo gesto e indietreggiai rimanendo piegata per terra. L’uomo ritirò la mano riportandosela vicino al viso, sempre sghignazzante.
“Qualcuno è scontroso… non la biasimo.”, esclamò l’uomo con viso divertito. Mi arrabbiai.
“Cosa vuole da me??”, domandai mantenendo le distanze da lui. Non fece trasparire alcun sentimento dalla faccia, ma si voltò verso la lapide. Si tolse il cappello sgargiante dalla testa, facendo fuoriuscire un simpatico ciuffo giallo sulla capigliatura ordinata blu, e chinò la testa.
“Siamo in presenza di un morto, suvvia …!”, mi fece notare. Mi girai. Zio Himitsu stava davanti a noi. Rimasi in silenzio non trovando altro da dire.
Mephisto si rimise il cappello in testa due minuti dopo e mi fece capire che voleva parlarmi. Non mi mossi dalla mia posizione; rimasi a capo abbassato.
“Prima che morisse, suo zio mi fece promettere che al suo quindicesimo compleanno lei sarebbe entrata nell’Accademia della Vera Croce.”, mi informò l’uomo. 
Cosa? E soprattutto perché? Non avevo intenzione di andare da nessuna parte; volevo rimanere nel mio quartiere continuando a vivere la mia vita di sempre, anche senza Himitsu.
“E se le dicessi che non voglio andare dove ha detto lei?”, dissi scettica accarezzando con insistenza il mazzo di mirto. Lo strano individuo non si scompose; anzi, sfoggiò un sorrisetto divertito per poi aprire bocca.
“Guardi che non ha nessuno su cui fare affidamento.”. La frase mi allarmò. Alzai la testa sconcertata. Due occhi dall’aria sadica mi osservavano divertiti, accompagnati dal ghigno dai denti appuntiti.
“Non se la prenda con me se non ha qualcuno che si prenda cura di lei …”; si piegò sentendo le sue labbra all’altezza del mio orecchio.
“Che sia zio o padre …”, bisbigliò. Ghiacciai. Cosa voleva dire? Non è che …
“Sa di mio padre …?”, sibilai presa alla sprovvista.
… conosceva papà?
Si rimise col busto dritto e prese a camminare dalla parte opposta in cui ero coricata. Non si girò per controllare che lo stessi seguendo: obbedii senza protestare.
 
Non era affatto normale seguire uno sconosciuto comparso dal nulla dopo che mi aveva spinta ad andare con lui chissà dove. Ma sapeva qualcosa su mio padre e questo aveva catturato tutto ciò che era rimasto di me. Nonostante ciò, avrei dovuto ringraziare quello strano “Cappellaio Matto“. 
Mai ero stata così allerta come dopo quel casuale incontro. Sempre se casuale lo si potesse definire.


Ed ecco che la storia si vela di mistero ancora una volta. Grazie per chi mi segue! ^^
P.s: Quesito per voi, povere vittime: che libro sta leggendo Himitsu-san con Mononoke durante il ricordo? :)
Alla prossima!
DoubleLife

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Capitolo 4
*** Una giornata piena di cambiamenti. ***


Qualcuno bussò alla porta. Le nocche dell’individuo battevano energicamente sul legno ormai scrostato dal tempo. Ipotizzai che fosse il postino, il vicino di casa o … 
“Signorina! Sono il preside dell’Accademia della Vera Croce!”
… Mephisto Pheles. Non volevo crederci.
Sbuffai stropicciandomi appena l’occhio e andai ad aprire la porta. Mephisto mi augurò il buongiorno con un raggiante sorriso, togliendosi la tuba colorata dalla testa. Accennai appena con un altro sonoro sbadiglio. 
“Hai dormito bene?”, mi chiese notando che non prestavo molta attenzione alla sua allegria.
“No.”, ammisi freddamente. 
 
Non avevo dormito per tutta la notte. Avevo ripensato alle parole di quell’uomo cercando di decifrarne il senso, “Non se la prenda con me se non ha qualcuno che si prenda cura di lei … Che sia zio o padre …”. Avevo sospettato ciò: Mephisto sapeva qualcosa su mio padre. La sua affermazione non era stata casuale; era come se avesse saputo dell’incidente avvenuto anni fa, quando papà mi aveva lasciato sola in casa. Era stato detto con un tono complice, quasi malizioso. Più pensavo a ciò che mi aveva sussurrato in quell’istante, più ero presa a scoprire che cosa tramasse quel Cappellaio Matto. Non mi aveva detto più niente dopo che mi aveva accompagnata a casa. Mi aveva solo informata che il giorno dopo mi avrebbe ripresa per partire con lui verso la sua scuola. 
Sarei andata via con quell’uomo solo per la volontà di sapere dove stava l’unica persona di cui mi potevo fidare ciecamente. L’unica capace di farmi addormentare con le sue carezze e con le sue parole incoraggianti. Qualcosa che sicuramente valeva più di una storia letta assieme a Himitsu e che non poteva competere con uno dei suoi abbracci. Purtroppo mi avrebbe perseguitato il fatto che si era sacrificato per me. Non potevo ripagargli il favore in nessun modo. 
 
Mi resi conto di aver sonnecchiato in piedi davanti all’individuo, che stava contemplando il cielo terso tenendo fermamente la visiera del copricapo, con l’altra mano impegnata a tenere uno strambo ombrello su cui era ricamato un pasticcino.
“Vado un attimo a fare una cosa.”, gli dissi. Neanche mi parlò.
Andai in camera di Himitsu-san. Aprii l’armadio e presi una busta bianca arrotolata su se stessa, con scritto Mononoke. Sapevo di doverla prendere. Quando avrei compiuto gli anni lo zio mi avrebbe regalato qualcosa a cui teneva particolarmente e che aveva conservato esclusivamente per me in uno dei suoi cassetti. Me lo disse una settimana prima che morisse. 
Dopotutto il giorno successivo sarebbe stato il mio compleanno. La srotolai non riuscendo a contenere la curiosità. Quando tirai fuori la mano mi meravigliai di scoprire che ciò che conteneva la busta era una cravatta. Era a strisce nere e rosse e terminava con una parte nera su cui compariva un simbolo. Me la ficcai in tasca confidando che prima o poi l’avrei usata. Poi controllai di aver nel taschino della camicia la fotografia: c’era. 
Una volta preso ciò che mi serviva, ritornai al ciglio della porta. Mephisto si girò nello stesso momento in cui scostai leggermente la porta semichiusa. Si avvicinò e mi prese per una mano, trascinandomi con sè. 
Mi girai per l’ultima volta verso la casa di Himitsu-san. Non l’avrei mai più vista. L’uomo mi condusse ad una limousine color rosa molto elegante dall‘aria infantile, dal quale sventolava su una bandierina. Mi costrinse ad entrare e farmi scivolare lungo il sedile. La macchina partì immediatamente. 
“Quando arriveremo dovrai essere in divisa.”, disse Mephisto facendo dondolare la testa ai lati, “Per cui ti dovrai cambiare.”. Cosa avrei dovuto fare …? Non volevo cambiarmi in macchina, soprattutto in sua presenza!! Come potevo nascondere la coda?! 
Sentii la faccia bollire dalla vergogna. “Cosa?!”, urlai cercando di sembrare più arrabbiata che imbarazzata. L’uomo mi fece un occhiolino accompagnato da un sorriso a trentadue denti e mi porse una busta.
“Esatto. Si deve cambiare in macchina. Faccia velocemente, non ha molto tempo a disposizione.”, mi avvertì spensieratamente. Sgranai gli occhi, facendogli intendere che non ero disposta a cambiarmi davanti a lui. 
L’uomo si coprì la faccia con la mano e disse, “Ho capito, mi copro gli occhi.”.
“Ma che …?! Lei non ha capito che non mi voglio cambiare qui, davanti a lei e con i finestrini aperti?!”, sbraitai. Non si mosse dalla sua posa e aspettò che cominciassi a cambiarmi. Accidenti, gli avrei tirato il cilindro fuori dal finestrino come un frisbee!
Mi tolsi la camicia e la maglietta il più in fretta possibile, rimanendo in reggiseno. La coda, rimasta per tutto il tempo sotto la maglietta, si srotolò dalla vita ondeggiando finalmente senza esser messa in soggezione da un pubblico indiscreto. Allungai lo sguardo su Mephisto: stava rivolto dalla parte opposta con ancora la mano sugli occhi. Mi potevo fidare della sua parola.
Mi portai le ginocchia al busto e rovistai nel sacco. All’interno c’era una camicia bianca a maniche corte, una gonna color rosa pastello e delle calze molto lunghe color panna. Sembrava che tutto fosse esattamente della misura giusta. Quando mi abbottonai la camicia potei confermare ciò che avevo creduto pochi attimi prima. Pensai che fosse stato un caso quello della camicia; ma quando indossai la gonna mi accorsi che anche quella era esattamente della mia taglia, seppur abbastanza corta. Indossai le lunghe calze, che coprivano tre quarti delle gambe. Rimisi le All Star che avevo dovuto slacciare per sfilarmi via i pantaloni. Conclusi il tutto appallottolando i miei vestiti dentro il pezzo di plastica. 
Quando Mephisto si rigirò dalla mia parte erano passati più o meno sette minuti. Mi squadrò per qualche attimo, controllando se la divisa della scuola mi andasse bene.
“Pensavo che portassi una taglia in più, ma vedo che ti sta la 40“, disse con un sorrisetto sbruffone. Come faceva a sapere che taglia portassi?! Sbiancai; me ne resi conto dall’offerta gentile che mi fece poco dopo l’uomo dall‘abbigliamento insolito. 
“Ti senti bene, signorina? Vuoi che faccia arieggiare la limousine?”. Scossi la testa velocemente. Ignorò la mia risposta e aprì leggermente il tettuccio poco più avanti a sé. 
Non gli rivolsi la parola per il tragitto, quindi per circa mezz’ora. Allora guardai fuori dal finestrino. Lo spiffero d’aria che ci sfiorò le teste mi scombinò i capelli. 
Rimasi sbalordita dalla vista che mi si presentava davanti agli occhi. Il cielo limpido, abbellito dal raggiante sole che sprigionava luce da qualche nuvola traforata, ospitava una piccola metropoli appollaiata su una sorta di promontorio, con tante casupole e ponti al suo interno. Nel suo insieme sembrava un ammasso di case, circondato dalle varie autostrade collegate. Aveva un certo fascino il paesaggio da lontano; non riuscii a trattenere l’entusiasmo e aprii completamente ciò che Mephisto aveva scostato molti minuti prima e mi affacciai, mettendomi in punta di piedi.  
“Signor Mephisto! Dove si trova la scuola?!”, gli urlai. 
“Sta esattamente davanti ai nostri occhi, Mononoke-chan!”, arrivò l’uomo al mio fianco scontandomi leggermente per farsi spazio. 
“Mononoke-chan?!”, esclamai stupita quanto inorridita alla sua risposta, “Chi le ha dato queste confidenze?!”.
“Io!”, disse circondandomi le spalle col suo braccio. Cercai di liberarmi dalla sua stretta in modo sciatto, ma ciò venne interrotto dalla sua voce.
“Stai attenta alla coda, Mononoke-chan. Nessuno, oltre a me, lo dovrà sapere. Altrimenti come potrai sopravvivere d’ora in poi?”, sussurrò con una certa flemma. 
Eh …? 
A quelle parole ritornai dentro la macchina e mi sedetti sconcertata. Mi seguì anche Mephisto. 
“Siamo quasi arrivati. Cominciati a preparare.”, disse l’uomo. “Ah!”. Indicò la mia camicia. 
“La coda, Mononoke. Nascondila.”. La sua osservazione fece notare la coda al mio fianco. La nascosi attorcigliandola alla vita.
La limousine accostò al primo marciapiede che vedemmo. Il signor Pheles scese dalla macchina per primo e si mise al lato dello sportello aperto, aspettando che uscissi. Una volta che lo feci la limousine scomparve nel traffico davanti a noi creatosi dapprima che arrivassimo.
Ci ritrovammo davanti ad un imponente edificio che si apriva con un cancello. Era l’Accademia della Vera Croce.
“Mononoke-chan, ti manca una cosuccia …”, notò Mephisto squadrandomi una seconda volta dall’alto verso il basso. Si accarezzò il mento con le dita, finché non capì ciò che mancava alla divisa; a quel punto prese dal taschino interno della giacca colorata un fiocco a strisce rosse e nere e me l’avvolse intorno al colletto della camicia; mi fece un grazioso fiocco e si allontanò per vedere il risultato.
“Adesso stai molto meglio!”, esclamò allargando le braccia in aria sentendosi realizzato. 
Poi si avvicinò nuovamente a me. Mi mise in una mano qualcosa. Quando potei aver la possibilità di controllarla meglio notai dei ghirigori che abbellivano l’impugnatura. Era una chiave.
“Mononoke cara, eccoti la chiave per il corso per esorcisti. Usala su qualsiasi porta della scuola e vedrai che ti aprirà la via per l‘aula.”, spiegò semplicemente l’uomo. Alzai il capo.
“Ossia … non solo dovrò fare la scuola normalmente, ma dovrò fare orari extra per un corso per esorcisti?!”, domandai quasi scioccata. Lui si limitò a sghignazzare compiaciuto della mia reazione, se non voltarsi per nascondere il suo sorriso soddisfatto. Mi arrabbiai e gli afferrai la mantella color crema, pretendendo delle spiegazioni. Non mi aveva detto niente riguardo ai corsi extracurriculari a cui dovrei esser stata sottoposta.
“Mi deve delle spiegazioni, signor Pheles!”, gli ringhiai più gentilmente possibile, anche se a momenti rischiavo di strappargli la mantellina. Lui si girò, spaventato dalla mia faccia quanto divertito. 
“Bhe, non lo sapevi?”, mi chiese lui con tono impertinente. Scossi la testa. Fece spallucce e riprese il pezzo di stoffa che tenevo in mano.
“Adesso lo sai!”. La risposta detta in modo così presuntuoso mi provocò, a tal punto da sentire  un gran caldo. Concentrai la vista sul suo cilindro pacchiano. Avevo una voglia matta di buttarglielo: mai trovato una cosa più odiosa al momento. 
Improvvisamente una fiammella azzurra comparì sul copricapo del preside e in men che non si dica aveva la testa infuocata. Lo strambo tipo prese il cappello e lo pestò con foga in modo goffo, per spegnere le fiamme. Osservavo la scena con gusto e ciò non riuscii a nasconderlo: la risata si levò spensierata riecheggiando davanti alla scuola. Quando Mephisto riprese il cilindro fumante da terra fece una smorfia. Ebbi le lacrime agli occhi per la scena; allora mi fulminò con un’occhiata piuttosto arrabbiata che mi allarmò che era il momento di finirla. Mi ricomposi.
“Adesso che abbiamo bruciato il mio prezioso cilindro andiamo?”, mi domandò sarcasticamente. Annuii.
Il signor Pheles si diresse alla prima porta testabile che incontrò. Mi invitò ad inserire la chiave nella serratura ed a girarla. Quando entrammo ci ritrovammo in un corridoio infinito dai toni scuri dall’aria antica che terminavano con soffitti altissimi che sembravano interminabili. Osservavo il posto con grande curiosità. Camminammo perpendicolarmente verso sinistra, fino a che non ci fermammo davanti ad una porta aperta, sul quale ci aspettava qualcuno. Un ragazzo molto alto in veste nera che dava l’impressione di aver la mia stessa età. Le maniche, arrotolate su se stesse, lasciavano scoperti gli avambracci dalla pelle candida. Mi accorsi dei innumerevoli nei sul viso, ma soprattutto della montatura nera che incorniciavano due occhi color blu magnetizzanti. Non distolsi lo sguardo dalla sua figura, ma quando mi resi conto che avevo spostato l’attenzione su di lui mi imbarazzai molto; allora abbassai gli occhi timidamente.
“Mi chiamo Yukio Okumura, piacere. Sono il professore della classe.”, si presentò in modo serio e gentile il ragazzo, “Tu devi essere Mononoke Kurosaki, giusto?”. 
“Esattamente. Il piacere è mio.”, risposi educatamente tendendogli la mano destra. Ci stringemmo la mano, poi ripresi a parlare.
“Ok, signor Mephisto, adesso …”, dissi rivolgendomi al Cappellaio Matto. Era scomparso!
Yukio sbuffò rumorosamente, portandosi una mano sugli occhiali. “Quell’uomo è davvero strano …”. Strano …? È un pazzo stalker, ecco cosa. Strano è un aggettivo che non basta neanche per il suo abbigliamento!
“Entriamo, adesso.”, sbottò improvvisamente Yukio. Sentii una grande agitazione incombermi addosso, per cui esitai ad andare in classe col professore; mi precedette lui, dicendo qualcosa ai suoi alunni. Poi mi guardò, facendomi intendere di entrare in aula.  
Devo solo fare solo qualche passo in più, che sarà mai. E come mai così tanto agitata, Mononoke? Non credevo ti facessi sopraffare dai sentimenti!
Camminai decisa verso la porta. Arrivai da Yukio e finalmente mi ritrovai davanti a quelli che sarebbero stati i miei compagni. L’immensa classe dalla parete a scacchi rossi e neri era in contrasto col muro verde smeraldo. Erano disposti sui banchi in modo sparso, a fissarmi. Feci altrettanto con loro: un branco di persone inespressive. Che allegria … 
Bhe, in effetti non erano in quell’aula per accogliermi allegramente. Avevano preso la decisione di essere esorcisti, e sicuramente l’allenamento non era affatto facile. Certo, potevano farmi un cenno di consenso o un piccolo sorriso, ma si vedeva che non stavano aspettando il mio arrivo. Anzi, dai loro sguardi si poteva dedurre che sarebbe stato meglio se non mi fossi mai presentata e che quell’idiota del preside non mi avesse accompagnato fin là!
Spiccò tra loro una ragazza in kimono che si sforzò di sorridere nel modo più carino possibile. Mi fece molta tenerezza e ricambiai con un dolce sorriso che durò meno di due secondi. 
“Kurosaki, eh? È molto carina!”, bisbigliò entusiasta un ragazzo dai capelli color pesca ad uno dalla cresta gialla da gallo, che non rispose al compagno e continuò a squadrarmi. 
“Bene, Kurosaki. Puoi sederti dove vuoi.”, mi invitò il professore gentilmente. 
“HO FATTO DI NUOVO RITARDO!!”, improvvisamente si sentì fuori dal corridoio. La porta della classe venne aperta improvvisamente in un secco botto da un ragazzo dai capelli blu spettinati. 
“Okumura. Chi l’avrebbe mai detto.”, esclamò senza stupore il professore inarcando un sopracciglio.
“S-stai zitto tu! Perché non mi hai svegliato prima?!”, mugugnò paonazzo il ragazzo. Il viso arrossato si accorse della mia presenza. Aveva una faccia stravolta, quasi sudata per la corsa che dovette fare per assistere alla lezione di Yukio. I bottoni della camicia erano stati messi male quanto i pantaloni messi all’incontrario; alla spalla poggiava un fodero rosso dal cinturino nero su cui era riposta una spada. Gli occhi che incrociai in quell’attimo erano semplicemente meravigliosi. Erano blu come quelli di Yukio, ma completamente diversi. Come se sprizzassero da sé quella vita che negli occhi del professore era assente.
“Scusa, lei chi è …?”, domandò al professore. 
“Mononoke Kurosaki.”, intervenni. “Tu chi saresti?”, chiesi in modo alquanto brusco quanto deciso. Il ragazzo esitò a dirmi il suo nome, mi sorrise e mi tese una mano.
“Rin Okumura, piacere!”, disse allegramente sfoderando uno dei suoi sorrisi. Non potei fare a meno di arrossire, esitando di stringergli la mano rimanendo ancora stupefatta dal sorriso. 
“Bene, ora che avete fatto le presentazioni sedetevi ai vostri posti”, mi riportò alla realtà il professore con tono quasi impaziente. Feci un cenno a Rin che il posto accanto alla ragazza in kimono sarebbe stato mio; lui si limitò a sedersi dietro di noi, al secondo banco per due da solo. 
“C-ciao Kurosaki! Io sono Shiemi Moriyama, ma puoi pure chiamarmi Shiemi e basta!”, balbettò timidamente quanto determinata a farsi conoscere la verde. Ricambiai con un sorriso, il quale fece diventare le gote della ragazza di un rosso lucido accompagnato da una bocca sorridente. 
“Va bene, Shiemi. Tu chiamami allora Mononoke!”, le dissi col tono più dolce che potevo avere. In pochi attimi ero riuscita a farmi un’ amica all’interno del corso. Mica male!
Notai anche che in fondo alla classe c’erano due tipi piuttosto strambi. Uno con una marionetta in mano e l’altro incappucciato in modo tale da non far vedere la faccia intenta a seguire più che la lezione di Yukio una PSP ed esultare divertito e soddisfatto.
Il resto della classe era formata da un gruppo di ragazzi, di cui uno mi aveva approvato, uno con una cresta da gallo gialla e una faccia dura e un altro che sembrava più piccolo e provveduto rispetto agli altri due, mentre invece nella parte opposta due ragazze che seguivano attentamente la lezione ma che a prima vista si potevano definire amiche per la pelle. Accanto a me ci stava una ragazza che trasmetteva una grande innocenza e tenerezza e dietro di me ci stava già qualcuno che dormiva facendo intuire che si stava annoiando mortalmente. 
Dopo aver assistito a un’ora di quella lezione barbosa su cose che non avevo mai sentito prima decisi di andare al cortile della scuola, isolato e deserto. I fiori rigogliosi e sbocciati pendevano dai rami di ciascun albero piazzato da ogni parte del posto, rendendo l’atmosfera più festosa. Ma io mi limitai a sedermi accanto a uno di quelli che dovevano essere lampioni, che non lo sembravano affatto. Quando guardai il cielo terso senza nemmeno una nuvola sospirai tristemente. Provai un grande sollievo dopo che la coda uscì allo scoperto sotto la camicia. Si posò sulla colonna delicatamente, per poi ondeggiare tranquillamente. Pece come il carbone. 
Rimasi lì a rilassarmi, passandomi una mano tra i capelli e respirando quanto potevo permettermi l’aria cercando di far mente locale. 
Improvvisamente sentii dei passi. Erano ancora lontani dalla mia postazione, ma subito mi allarmarono e la coda, automaticamente come se avesse percepito il mio timore, si nascose sotto la camicia.
“Kurosaki! Kurosaki! La lezione di ginnastica comincia tra poco!”, annunciò la voce ansimante per la corsa. 
“Cosa?”, dissi agitata per lo spavento. Yukio mi dovette far uscire dallo scoperto da dietro la colonna per consegnarmi una busta di plastica bianca.
“Il signor Pheles me l’ha consegnata con l’intenzione di darla a te,”, spiegò il professore, “sarà meglio che ti cambi da qualche parte e vai in aula!”. Doveva esser passata più o meno mezz’ora da quando stavo in cortile. 
“Mi sono riposata un po’ troppo. Grazie per avermi avvertito, professore Okumura!”, ringraziai sforzandomi di sorridere. 
“Chiamami Yukio, per favore. Professore è solo come mi chiamano durante il corso.”, mi invitò il professore gentilmente. 
“Va bene, Yukio. Tu chiamami Mononoke.”, risposi ricambiando il sorriso di nuovo. Detto questo camminammo per un certo tratto insieme, poi mi divisi da lui usando come scusa il bagno per cambiarmi. Lui fece un cenno come per salutarmi, facendosi liquidare. Mi chiusi si servizi della scuola, rovistando all’interno della busta. C’erano un paio di pantaloni neri attillati sul polpaccio e a sbuffo sul sedere, una canotta aderente rossa fiammante e una felpa che riprendeva il modello della parte inferiore. 
 
Per fare ginnastica bisogna avere i vestiti giusti e questo le starà perfettamente bene!
Mephisto 
 
Sì, il biglietto dentro la tasca della felpa non stava affatto sbagliando: mi stava perfettamente bene, come era stato scritto. Bhe, questa cosa mi scioccò meno della divisa scolastica: mi dovevo cambiare in macchina davanti ad uno sconosciuto. 
Riuscii miracolosamente a non fare ritardo alla lezione per un pelo, oltrepassando il ciglio della porta dell’aula di corsa. A quel punto mi potei rilassare per due minuti buoni, legandomi due ciocche di capelli in modo equo e tirandomi indietro la frangia con una molletta, che stava dentro il felpone assieme agli elastici. Evidentemente Mephisto pensò che io fossi stata una specie di bambolina da vestire e da abbinare gli accessori come in un gioco. Però ammisi che i pantaloni erano stati pensati per la coda, che in quel momento poteva stare al sicuro anche sotto la felpa che mi copriva il fondoschiena. 
In poco tempo la classe del corso per esorcisti era riunita in una sconfinata palestra che portava ad un piano inferiore con delle grate d’acciaio, le quali terminavano aprendo la strada ad una gigantesca area che ospitava due rospi dalle dimensioni spropositate che come cani erano legati a ciascuno una gabbia. Al di sopra di tutti ci stava una specie di terrazzino da cui controllava uno dei professori. Rabbrividii per il disgusto nel vedere quei esseri starsene impalati al centro di quella specie di scatola che si doveva definire l‘arena.
“Bene, ragazzi. Oggi testeremo, per volere del preside, le capacità della nuova arrivata.”, annunciò la voce con una certa solennità. L’attenzione dei presenti si concentrò su di me, mettendomi in soggezione e in imbarazzo. Che aveva in mente quel Cappellaio Matto?
“Mononoke, buona fortuna.”, sentii timidamente dire da Shiemi, che malgrado la lezione di ginnastica stava ancora in kimono, anche se rispetto a quello di prima era più formale di quello bianco e rosso che indossava in quell‘ora. Scivolai sulla discesa liscia della palestra, pronta ad essere messa in prova sotto il volere dell‘uomo. 
“Il Tip Leaper è un demone solitamente docile, ma purtroppo è capace di leggere la tua mente e ti aggredisce quando ti ritrovi davanti a uno di loro. Metterò in prova la tua velocità, preparati!”, mi avvertì riferendosi ad uno di quei rospi. Il cuore mi batteva talmente forte che pensai che quel demone avesse già letto i miei pensieri e avesse già intuito che fossi una preda facile per lui, visto lo stress che mi crollò addosso rese quasi impossibile il movimento di un solo arto.
Notai che la catena del Tip Leaper era stata allentata. Terrorizzata guardai l’esorcista, che sembrava avere la situazione sotto controllo. Mi sarei ritirata all’istante dalla prova giustificandomi con un finto mancamento di forze. Ma supposi che Mephisto avesse detto il professore esplicitamente di mandare in palestra l’intera classe con l’unico scopo di farmi recuperare ciò che i miei compagni avevano svolto il giorno precedente.
La gabbia venne aperta facendo schizzare via il rospo diretto a me, desideroso di divorarmi. Le mie gambe si mossero da sole intente a fuggire dall’orribile creatura. Almeno mi sollevò il fatto di poter contare sulla mia velocità, che scoprii proprio quando fuggii dalla casa con papà. Himitsu-san spesso mi sfidava a correre per un certo tratto fino a casa sua quando era ancora in grado di permetterselo. Poi si slogò una caviglia andando contro una siepe del giardino pubblico e da allora decise che avrebbe rinunciato a competere con una ragazzina di nove anni, oltretutto alla pari delle sue aspettative.
Continuai a correre terrorizzata all’idea che, se il demone mi avrebbe raggiunta, mi avrebbe finita sul colpo. Questo pensiero mi incitava a correre ancora più velocemente anche se, dopo sette minuti di corsa, ero sfinita. Il pubblico osservava la scena con grande interesse, anche se non interveniva.
Passarono altri sei minuti e io cominciai a delirare inseguita da quel rospo che non la smetteva di seguirmi. Le imprecazioni si fecero chiare mentre ansimavo scatenando una serie di urla disperate. I miei compari mi osservavano spaventati, anche se qualcuno di loro se la rideva sotto i baffi comprendendo fin troppo bene ciò che stavo provando. 
“Basta, Kurosaki. Sei stata eccellente!”, sentii dire dal professore. Il Tip Leaper venne subito tirato per il collare e rinchiuso in gabbia. Feci un cenno come per salutare il professore e mi diressi alle scalette.
Fottiti rospo schifoso, ho avuto la meglio io!
Senza forze e, completamente sudata, salii e, come se fosse stato ovvio, caddi in ginocchio esausta. Mi si offuscò la vista per un attimo e non riuscii a respirare per lo sforzo fatto in quei minuti passati a girare in tondo per la palestra. L’acido lattico, che era alle stelle, mi paralizzò le gambe tremolanti che non erano capaci di sopportare nemmeno il peso stesso del corpo. Accorsero in seguito alla mia caduta Rin e il ragazzo dalla cresta, seguito dai suoi amici e Shiemi, preoccupata delle mie condizioni.
“Ehi! Tutto bene, Kurosaki?”, domandò il ragazzo dai capelli color pesca.
“Ovvio che non sta bene, cretino!”, rispose bruscamente al posto mio il galletto. La risposta mi piacque.
Non mi opposi quando Rin circondò le spalle e la vita, quasi sollevandomi da terra.
“La porto nella sua stanza, ragazzi. A dopo.”, disse il ragazzo. Tutti accennarono in segno di approvazione. Dopodiché svenni non riuscendo a restare cosciente per il resto della giornata.   
 
Quando mi svegliai la luna era già in cielo circondata da un cielo tappezzato di stelle. Era notte fonda. 
Ero stesa su un letto e avvolta da un piumino accaldato e morbido. Mi si era appiccicato alle braccia e mi dovetti scuotere per scollarmi da questo. Indolenzita e ancora debole mi alzai, cercando di capire dove e, soprattutto, quando ero giunta nella stanza. Poi mi ricordai che svenni sostenuta dall’aiuto di Rin che mi aveva portata fin lì. Per cui ipotizzai che fossi nella mia nuova stanza.
Aprii la finestra e una brezza leggera si posò sul viso sudato. Contemplai la scuola da lontano e la luna, che brillava la strada desolata e senza anima viva. 
Sentii uno scricchiolio da dietro. Mi spaventai e mi girai allarmata. Per un attimo mi sembrò che qualcuno mi stesse controllando. Scossi la testa: non poteva essere possibile. C’ero solo io nella stanza. 
Notai l’orologio appeso sopra la scrivania davanti a me. Le lancette segnavano le due del mattino. La mia bocca si contorse in un sorriso forzato, come se avessi avuto un regalo spropositato da qualcuno. 
“Tanti auguri a me …”. Intonando ironicamente la canzoncina, desiderai che nessuno e, nemmeno io, assistesse alla scena, perché mi accasciai per nascondere il mio dolore e la vergogna per la persona che ero.
 
 
 
 
DL: Allooooooora.... Salve a voi che avete finito di leggere il quarto capitolo della mia ff! \ò/ Non sapete quanto mi fate felice esser a conoscenza del fatto che qualcuno mi segue!! çAç
Mononoke: Qualcuno legge la mia vita...?! CHE STORIA E' QUESTA?!
CHOP!
DL: Sssssh! òAò zitta, che spaventi la gente!
Mononoke: Ahi! Guarda che nessuno legge ste porcate che scrivi!
DL: Ma lo sai che sei tu a raccontare? 
*Mononoke si rende conto che si è autoinsultata*
DL: Bene, continuo a parlare. Mi dispiace di questo enorme ritardo!! >_< ho scritto a pezzi la storia quando potevo, per cui è venuto fuori una schifezza! :( oltretutto non ho potuto usare il pc per molto, anche se la storia doveva esser pubblicata un mese prima o due addirittura o.o sì, perché in realtà la storia l'avevo finita molto prima di marzo! 
Comunque, spero che non ci troviate nulla di brutto, copiato o altro. L'ultima modifica del capitolo risale a...? *vede un attimo il documento* ...... °° è da 2 mesi che non la modifico...... oddio o.o 
Mononoke: Abbiamo finito di tormentare i lettori? Non gliene importa di niente delle tue scuse! ò.ò
DL: Saluto qui allora. Commentate se desiderate! =3=/
 
DoubleLife.

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