Trying not to love you

di Chara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** XIX ***
Capitolo 20: *** XX ***
Capitolo 21: *** XXI ***
Capitolo 22: *** XXII ***
Capitolo 23: *** XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***



Capitolo 1
*** I ***


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I

 

 

 

Che diavolo ci facevo a Londra nel bel mezzo delle vacanze estive?

Certo, come dimenticare: niente vacanze per me. Soltanto il lavoro, lavoro e ancora lavoro. O, almeno, quell’unica cosa che potevo considerare tale, nella speranza che qualcuno si fosse degnato di accorgersi che una laurea in lingue valeva un po’ più di una giornata passata a controllare l’ingresso di una vecchia biblioteca di quartiere.

Così, con un sospiro frustrato, scesi dalla metro per riemergere in superficie e godermi quel timido sole che splendeva sulla città, ma che non riscaldava praticamente nulla, già seminascosto dalle nubi. Era quello il motivo per cui, sopra la maglietta, indossavo un cardigan nemmeno troppo leggero, rubato alla mia coinquilina, che disseminava per casa tutto lo scibile umano.

Ogni tanto mi chiedevo come sarebbe stato vivere in Spagna o, perché no, direttamente in California. La mia pelle aveva bisogno di un po’ di abbronzatura ogni tanto e le docce solari non erano decisamente una soluzione che ero disposta ad adottare. Ero nata salutista.

Fu con quei pensieri, lamentosi come al solito, che mi diressi al piccolo paradiso di tranquillità e carta in cui lavoravo da qualche anno a quella parte, per pagarmi gli studi. Di certo non era uno stipendio degno di nota, così ero costretta, nei weekend, a fare la barista in un locale dietro Piccadilly. La mia vita sociale era completamente sacrificata, i miei amici me lo dicevano sempre e non facevano che lamentarsi, rinfacciandomi una latitanza di cui purtroppo non ero nemmeno la responsabile. Ma avevo sempre sperato che capissero che non ero esattamente felice di fare la reclusa, così non mi ero mai impegnata a farmi vedere troppo spesso. Anzi, preferivo fare un turno in più nel mezzo della settimana.

Mi piazzai davanti a un semaforo, in attesa che diventasse verde, e lasciai vagare il mio sguardo lungo la strada, alla mia destra. Davanti alla vetrina di un negozio per giocattoli un bambino, un batuffolo che probabilmente non aveva nemmeno tre anni, stava litigando furiosamente con quella che immaginai essere la nonna. Forse voleva un nuovo gioco e lei si stava rifiutando di compraglielo, ipotizzai. Non mi piacevano i bambini viziati, mi ricordavano il marmocchio a cui facevo ripetizioni di inglese ai tempi del liceo. Così distolsi lo sguardo, tornando a puntare gli occhi sul semaforo che sembrava essersi fossilizzato. Avevo fretta, per l’amor del cielo!

Improvvisamente un guizzo alla mia destra e un urlo terrorizzato mi distrassero dai miei pensieri stizziti e vidi il bambino di poco prima lanciarsi in mezzo alla strada, incurante di un taxi che si stava dirigendo a tutta velocità proprio su quella corsia.

Mi sentii morire, ma, senza nemmeno sapere come, trovai la forza di scattare fulminea e portai via il bambino dalle braccia della morte. Mi lanciai sull’asfalto con quel fagottino terrorizzato tra le braccia e, per evitare che si ferisse, gli attutii l’impatto scivolando sulla schiena.

Sentii distintamente la mia pelle lacerarsi, ma rimasi raggomitolata sulla striscia bianca, dove nessuna auto avrebbe dovuto passare, stringendo il bambino al petto.

Lo sentivo piangere, così come sentivo gli schiamazzi della gente attorno a noi, preoccupata e terrorizzata di dover raccogliere ben due persone con la spugna.

Aprii gli occhi, cercando poi di capire se mi fossi fatta male da qualche parte. Oltre alla schiena, ovviamente. Quella bruciava come l’inferno.

«Ti sei fatto male?» domandai al bambino, cercando di regolarizzare il respiro e di allentare la presa. Alzò il capo dal mio petto, rilassando al contempo i pugni che aveva stretto sui lembi del mio cardigan, e scosse il capo, mentre due enormi lacrime rotolavano giù dai suoi occhi.

«Colin, Colin!» chiamò la nonna, venendoci incontro tra le auto ferme. Il semaforo finalmente era scattato, così mi ritrovai immersa in un vortice di ruote ferme e tubi di scarico che, a voler guardare, non facevano nemmeno tanto bene alla salute. Salutista anche nelle peggiori situazioni, insomma.

Mi alzai, tirando in piedi quello che evidentemente si chiamava Colin. Lo presi per mano e, il più velocemente possibile, mi affrettai a toglierlo dalla strada.

«Signorina, sta bene? – mi domandò la nonna – Non so nemmeno come esprimerle tutta la mia riconoscenza, grazie davvero!»

Annuii sovrappensiero, toccandomi la schiena. Bruciava da impazzire, quella era la vera riconoscenza per aver salvato il suo pargoletto dal muso nero del black cab. Nessuna buona azione resta impunita, l’avevo sempre saputo.

E dal nulla mi venne in mente quando, da piccola, cadevo sulle ginocchia e, inspiegabilmente, riuscivo a sbucciarmi la pelle senza però rovinare i pantaloni. Avevo sempre creduto che qualche amico immaginario li ricucisse a tempo di record, per evitare così di far arrabbiare mia madre, e forse avrei potuto pensarlo anche in quel momento, poiché la stoffa sulla mia schiena era integra. Probabilmente l’amico immaginario aveva deciso di pararmi le spalle dalle urla di Amber, a cui avevo silenziosamente preso in prestito il cardigan.

«Scusami, signorina – borbottò il bambino, la voce ancora tremula per il pianto che ancora sconquassava il suo piccolo petto – Ma ero ‘rabbiato con la nonna.»

«Non fa niente – sorrisi, accovacciandomi per non guardarlo dall’alto in basso. Non volevo metterlo a disagio più di quanto già non fosse – Come ti chiami?»

«Colin, picere» si presentò subito, raddrizzando la schiena e porgendomi la destra.

«Io sono Phoebe – sorrisi, stringendogli la mano – Ma dimmi, Colin, perché eri arrabbiato con la nonna? Non ti sei comportato molto bene.»

«Nelly è malata – riprese mettendo il broncio – Volevo penderle un bimbo.»

Immaginai si stesse riferendo ad un bambolotto e sorrisi, incrociando lo sguardo di sua nonna.

«Chi è Nelly?» chiesi, carezzandogli il capo riccioluto. I suoi occhi castani si illuminarono, lasciandosi alle spalle ogni traccia di pianto. Non sembrava più così viziato come quando l’avevo visto di fronte alla vetrina.

«Mia soella. Ha la frebbe

«E tu volevi prenderle un regalo per farla guarire più in fretta?»

Annuì, riportando ancora il volto verso il basso. Non alzò lo sguardo, nemmeno quando la nonna si giustificò, cercando di fargli capire che non aveva portato denaro a sufficienza, soprattutto per un negozio così costoso come quello a cui era interessato Colin. Avrei voluto comprarlo io quel bambolotto, ma non credevo di essere economicamente disposta meglio di loro.

«Te lo compro io» disse improvvisamente una voce alle mie spalle. Mi voltai, vedendo una giovane uomo sorridere al piccolo Colin e alla nonna, e una consapevolezza piovve dal nulla: quel ragazzo era l’attore che, alcuni anni prima, aveva recitato in Hex. Amber adorava tutte quelle serie inutili e, a meno che mi stessi clamorosamente sbagliando, recitava anche in quella serie americana sui vampiri che tanto spopolava tra le ragazzine arrapate. D’accordo, la mia coinquilina aveva un ragazzo con cui sfogare gli ormoni e non era nemmeno più una ragazzina, ma evidentemente non le bastava.

«Chi scei? Suo amico?» chiese il bambino, mentre indicava me con un dito. Quasi mi accecò e mi sbilanciai all’indietro nel tentativo di evitare il suo indice paffuto, ma il nuovo arrivato si spostò rapidamente dietro di me e finii con la schiena contro la sua gamba. Trattenni un gemito di dolore e alzai lo sguardo, incrociando i suoi occhi azzurri che mi fissavano con quello che sembrava rimprovero. Che diavolo voleva?

Lasciò che riacquistassi il mio equilibrio e poi si accovacciò al mio fianco. Apprezzai quel gesto, nonostante l’avessi già bollato come essere antipatico e indegno di considerazione per quell’entrata fenomenale e da supereroe. Grazie al cielo Colin non sembrava essere così affascinato dalla sua voce profonda e continuava a preferire me.

«Ehm, sì. Sono Joseph, un amico di…» mi lanciò uno sguardo allarmato, rendendosi conto che si era messo nei casini da solo. Avrei anche dovuto tirarcelo fuori, vero? Solo per comprare quel maledetto bambolotto alla sorellina di Colin.

«Phoebe» mormorai, per poi fingere un colpo di tosse. Mi sforzai di fingere collaborazione, sebbene non mi piacesse affatto fare squadra con un damerino. Non andavo pazza per i tipici gentiluomini britannici, infatti quella zecca che mi aveva rovinato l’ultima volta veniva dal continente. Dopo di lui, avevo smesso di apprezzare anche i mezzi tedeschi.

«Stai bene, Phoebe? – mi chiese quel Joseph dei miei stivali, facendo per darmi una pacca sulla schiena. Sembrò ripensarci fortunatamente, perché mi carezzò soltanto un braccio – Comunque, dicevo, sono un suo amico. Vuoi quel bambolotto?»

«Per Nelly» precisò orgoglioso, come a rimarcare il fatto che lui non giocasse con quisquilie del genere. Dio, quel maledetto orgoglio maschile era già presente anche alla sua età. Incrociai lo sguardo con sua nonna, che sospirò spazientita, sorridendomi poi con comprensione. Ci eravamo perfettamente intese a riguardo. Dopotutto era una donna anche lei.

«Certo – sogghignò il damerino, alzandosi e porgendo la mano a Colin – Andiamo a prendere il regalo a Nelly, allora.»

Il bambino agguantò le sue dita lunghe, stringendole tra le sue. Rimasi imbambolata a fissare quella mano, così elegante e sicura di sé. Il classico genere di mano che ogni donna avrebbe voluto avere addosso.

«Non vieni con noi, Phoebe?» mi disse Joseph, sfoderando di nuovo la sua voce profonda. Il mio nome sembrava quasi esotico se pronunciato da lui, non mi sarebbe affatto dispiaciuto sentirglielo ripetere. Scossi il capo per scacciare quei pensieri molesti. Alla fine era sempre così che andava: gli uomini più affascinanti erano quelli che avrei più voluto prendere a pugni.

Gli comprò davvero la bambolina, pagandola fior di sterline, così la gratitudine andò tutta a lui e non a me. Che importava se avevo la schiena a brandelli, ma il portafogli vuoto? Ah, il consumismo! Era inutile che me la prendessi a quel modo, davanti ad una mazzetta anch’io mi sarei dimenticata della mia schiena. Insomma, sarebbe guarita o presto o tardi.

«Grazie Phibe» mi disse Colin. Mi stupii quasi che si ricordasse di me, con in mano quel giocattolo. Gli sorrisi, scompigliandogli la zazzera di ricci castani, e lo guardai redarguire la nonna su come dovesse tenere la borsa per non sgualcire il fiocco.

«Lei lavora alla biblioteca della signora Flynn, non è vero? Quella che c’è là all’angolo» mi domandò improvvisamente la nonna, aggrottando le sopracciglia con fare pensieroso.

Incrociai lo sguardo di Joseph, illuminato da uno scintillio di interesse, e annuii, i denti serrati per il fastidio di far sapere al maledetto damerino anche dove lavorassi.

Che poi, perché lo chiamavo damerino? Indossava una semplice tuta blu, una maglietta bianca e delle auricolari erano abbandonate sulle sue spalle. Non era poi così elegante. Ah, al diavolo. Lo odiavo comunque, ecco la verità. Aveva quell’aria supponente e fintamente caritatevole che mi dava il voltastomaco.

«Non guardarmi a quel modo» mi disse quando rimanemmo soli in mezzo al marciapiede.

«Veramente non ti sto guardando affatto» precisai stizzita, tenendo d’occhio l’orologio.

«Ma hai quell’espressione di disgusto stampata in viso – ribatté, trascinandomi per un braccio fino alle scale che portavano alla stazione della metropolitana – Dimmi dove abiti.»

«Cosa? – sbottai, puntando i piedi a terra – Non devo andare a casa e non ho bisogno dell’animaletto da compagnia per andare dove devo. Non mi interessa se sei quasi famoso, la balia falla a qualcun altro.»

«Senti, ragazzina – sibilò, alzando un sopracciglio con freddezza – Ti ho vista cadere sull’asfalto e quella schiena sarà tutta graffiata. Ti aiuto a disinfettarti.»

«Il mio ragazzo ti prenderà a pugni» sorrisi melliflua, sbattendo gli occhi rapidamente.

«Non ce l’hai un ragazzo – sbuffò, guardandomi come se fossi stata una povera malcapitata – O altrimenti non saresti così caustica. Non credi?»

«No.»

«D’accordo – sospirò, scendendo le scale senza accennare a lasciarmi il braccio. Così fui obbligata a seguirlo, senza ovviamente smettere di divincolarmi. Le occhiate dei passanti erano tutto dire, ma non avrei certo smesso di comportarmi a quel modo per tranquillizzarli – Dove abiti?»

«Al 10 di Downing Street» replicai, e sembrò stizzirsi.

Mi lasciò il braccio proprio in quel momento e rischiai di cadere all’indietro, data la forza con cui cercavo di opporre resistenza, ma lesto passò le braccia attorno ai miei fianchi e finii spalmata contro il suo corpo. Ad una distanza così breve dal suo viso potei rendermi effettivamente conto di quanto azzurri fossero i suoi occhi e di quanto le sue labbra fossero invitanti. Ah, maledizione. Forse aveva ragione lui, mi serviva un ragazzo.

«Credo che il Presidente sia un tantino meno recalcitrante di te e, se fossi sua figlia, sarebbe terribilmente a disagio nel saperti così odiosa

«Sei tu quello che…» m’interruppi, sentendo le sue dita premere contro la mia schiena, e boccheggiai, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo per evitare che vedesse quanto stravolta dal dolore fosse realmente la mia faccia.

Dio, che buon profumo.

«Dimmi dove abiti» sospirò di nuovo, allentando la presa senza però lasciarmi andare. Così cedetti, lasciando che mi accompagnasse a casa.

 

 

 

*

 

 

 

Ringrazio Ili_sere_nere per aver betato tutta la storia e per avermi regalato il bellissimo banner che vedete là sopra.

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Capitolo 2
*** II ***


II

 

 

 

Per quasi tutto il tragitto non aprii bocca, infischiandomene completamente del pesante silenzio che si era creato. Non volevo essere cordiale, era stato lui stesso ad impormi la sua presenza. Per cui, se non altro, potevo comportarmi come più mi veniva naturale: da apatica e stronza. Non potevo farci nulla se ero fatta così, o se lo ero diventata dopo relazioni turbolente – che peraltro avevano sempre avuto i propri lati negativi in superficie, per cui probabilmente la mia ruvidità era dovuta al biasimo verso me stessa per non aver capito che sarebbe stato meglio se mi fossi fatta gli affari miei.

C’era da dire che, anche se così saputo e superiore, Joseph non si degnò di cominciare una conversazione se non nel momento in cui, ad una fermata, due ragazze iniziarono ad agitarsi dopo averlo riconosciuto. E, per sviare i sospetti, fece la cosa più sleale del mondo: mi trasse a sé, infilando le mani nelle tasche posteriori dei miei jeans e seppellendo il viso tra i miei capelli.

«Prima che ti vengano le crisi epilettiche – sbuffò sarcastico, prevedendo già il momento in cui avrei iniziato a divincolarmi – Aspetta almeno che la metro riparta. Quelle due continuano a fissarmi e al momento non ho tempo di firmare autografi.»

«Sì che ce l’hai il tempo – sibilai, costringendomi a passargli le braccia al collo, in cerca di credibilità. Non avrei potuto sopportare una sua critica sul mio mancato spirito di recitazione – Nessuno ti obbliga qui a stressarmi l’anima.»

Ringraziai il cielo che i suoi occhi non potessero vedermi, perché quelle mani sul mio fondoschiena avevano avuto il potere di farmi arrossire, così come i suoi fianchi contro i miei. Forse non ero più abituata a trattare con gli uomini, era più di un anno che non uscivo con nessuno, ma quella reazione mi sembrava comunque esagerata. Doveva essere colpa del suo profumo, decisi.

Quando la metropolitana ripartì fummo sbilanciati all’indietro, complice la mancata furbizia di appenderci a qualche sostegno. Dio, ma come poteva essere così vuota la mia testa?

Finii con la schiena contro la porta e lui addosso a me. Un bruciore acuto mi avvolse la schiena, lasciandomi un senso di nausea potentissimo. Dovetti mordere qualcosa per impedirmi di urlare, e guarda caso a portata di denti c’era solo la maglietta di Joseph.

«Non ti facevo così focosa» mormorò divertito quando infine lasciai la presa. Come osava? Aveva capito benissimo perché l’avevo fatto. Dio, avevo una voglia immane di ridurre la sua faccia come la mia schiena! Non mi sarebbe affatto dispiaciuto, poi, constatare l’effettiva efficacia del trucco di scena e di tutte quelle porcherie che avevano in faccia per mostrare vent’anni meno.

«Stai per caso dicendo che sono frigida?» lo accusai, inarcando scettica un sopracciglio. Non accettavo critiche da qualcuno che mi conosceva da un quarto d’ora. Anzi, cosa diavolo stavo dicendo? A ripensarci bene nemmeno mi conosceva!

«Com’è che ti scaldi tanto? – mi provocò, tirandomi un ciuffo di capelli. Gli arrivò uno schiaffo sulla mano, ma riuscì a cogliere al volo l’occasione per intrecciare le dita con le mie e tirarmi verso un posto libero, e mi obbligò a sedermi sulle sue ginocchia – Ti senti punta sul vivo, forse?»

«Mi sembri un po’ troppo presuntuoso» mormorai, cercando di concentrarmi su ciò che dicevo e non sul calore che emanava il suo petto, a contatto con la mia spalla. Non potei, però, esimermi dal notare come fosse attento a quelle che, in quel momento, potevano essere considerate le mie esigenze: mi aveva fatta sedere in modo che la schiena non fosse a contatto con nulla e persino il suo braccio, che mi circondava i fianchi per aiutarmi con l’equilibrio, era messo in modo da non arrecarmi fastidio. E mi resi conto che, probabilmente, non si trovava nel massimo del comfort.

«Sei sicuro di essere comodo?» gli domandai, voltando il capo vero di lui. Facendolo, il suo naso si scontrò con il mio e sussultai. Non mi ero resa conto che il suo viso fosse così vicino.

«Ti preoccupi per me, ragazzina?» sorrise divertito, vedendo come fossi quasi spaventata dalla sua vicinanza. Girai definitivamente il volto dalla parte opposta, pentita di essermi interessata a lui anche solo per un momento. Perché diavolo mi stavo preoccupando per uno sconosciuto? Solo perché era famoso? Non era certo da me un comportamento del genere, avrei dovuto farmi psicanalizzare da Amber, ma se le avessi detto in braccio a chi ero seduta forse avrebbe perso la decenza e tanti saluti alla psicanalisi. Già, perché, in barba all’imminente laurea in psicologia, era ancora una ragazzina in preda agli ormoni e con un sacco di attori da soap opera appesi alle pareti della stanza. Soap opera, serie TV da scompenso ormonale, cose così insomma. Era una cosa a cui pensavo spesso, perché non riuscivo a togliermi dalla testa la sua immagine di adorazione per lo schermo di un televisore: da brividi.

«Pura educazione» sibilai in risposta, tenendo il capo ostinatamente fisso davanti a me.

«Non mi sembrava che fino a pochi minuti fa ti importasse dell’educazione» ribatté di nuovo. Dio, poteva una sola persona darmi così tanto sui nervi? E dire che quel braccio attorno ai miei fianchi sembrava così innocuo…

Mi alzai, senza più degnarlo di uno sguardo, scendendo al volo non appena le porte si aprirono. Mi raggiunse quasi di corsa, prendendomi un polso per farmi voltare. Quell’odioso sorriso aleggiava ancora sulle sue labbra piene e non accennava ad andarsene. Era irritante.

«E dai – mi riprese, passandomi con calma un braccio attorno alle spalle. Il mio stomaco fece una capriola, sembrava quasi che mi considerasse di vetro – Non stavi scappando, vero?»

«Niente affatto – risposi a tono, camminando a passo spedito, incurante della sua ingombrante presa sulle mie spalle – Questa è la fermata, genio

«E io che pensavo stessi provando a seminarmi» sogghignò, scompigliandomi i capelli. Si prese la mia peggior occhiata al vetriolo, ma non fece altro che ridere. Se era furbo anche solo la metà di quello che sembrava, sapeva già abbastanza cose di me da scriverci un libro. Che poi, perché diavolo di motivo gli interessava?

Chiamai la signora Flynn mentre percorrevamo il breve tragitto dalla fermata della metropolitana fino all’appartamento in affitto che dividevo con Amber e la informai sull’ormai lampante ritardo che avrei avuto, assicurandole che per le undici sarei arrivata. Fortunatamente era una signora molto comprensiva, si era solamente preoccupata per la mia salute, ma non avevo perso tempo a spiegarle cosa fosse realmente successo o le sarebbe preso un attacco di cuore.

Durante tutta la telefonata Joseph si era comportato quasi bene, non aveva fatto battutine di sorta e si era limitato ad osservarmi con interesse, le mani sprofondate nelle tasche della tuta e lo sguardo assorto. Più volte persi il filo del discorso con la signora Flynn, perché troppo presa a domandarmi per quale motivo si fosse tanto fissato con me.

«Ma non hai qualche film da girare tu? – sbuffai alla fine, cercando le chiavi nelle tasche del cardigan di Amber – O qualche copione da studiare?»

«Niente da fare ragazzina, sono in pausa» mi rinfacciò soddisfatto. Sembrava stesse godendo come un riccio solo dicendomi quella frase. Si accontentava di poco.

«Amber Staveley e Phoebe Prentice – lesse poi, lo sguardo fisso sul citofono – Chi è Amber?»

«La mia coinquilina» risposi secca, non dicendogli nulla di più di quanto non avesse dedotto già da solo. Insomma, perché diavolo voleva sapere tutte quelle cose?

«Non potresti essere un po’ meno scontrosa?»

«No – soffiai, chiudendogli inaspettatamente in faccia il cancelletto – Devo ancora capire quale insulso motivo ti abbia portato fin sotto casa mia. E tutto ciò ignorando il fatto che sei più appiccicoso di una cozza e che non ci conosciamo

«Perché – divenne serio improvvisamente, stringendo le sbarre di ferro con le mani – Quella schiena ha bisogno di una disinfettata e no, da sola non ci arriveresti.»

«E perché non avrei potuto chiedere a Amber?» gli domandai, retorica. Però scosse il capo, come se fosse ovvio il motivo per cui non avrei potuto.

«Vorrei ricordarti che ti sei buttata più o meno spontaneamente sotto una macchina – si stizzì, sbattendo la mano contro il cancelletto – Come maledizione facevo a sapere che non saresti svenuta nel bel mezzo di Londra? Smettila di fare la sostenuta e apri questo dannato cancello!»

Boccheggiai un momento. Non credevo si fosse preso così a cuore la mia salute. Pensavo davvero fosse solamente un modo per stressarmi l’anima, anche se il motivo mi rimaneva oscuro. Invece ero partita prevenuta, ma la verità era che avevo smesso da tempo di fidarmi degli uomini.

Infilai la chiave nella toppa, sempre tenendo gli occhi bassi. Sapevo di avere il suo sguardo addosso, ma non avevo il coraggio di alzare il viso. Mi sentivo terribilmente in imbarazzo.

Così aprii la serratura, lasciando che fosse lui a spingere il cancello verso di me. Mi giunse davanti, sollevando il mio mento con due dita, e mi ritrovai catapultata nei suoi occhi celesti. Era un mondo a parte, non credevo fossero così profondi.

«Andiamo a sistemare quella schiena» sogghignò, tornando odioso come sempre. Gliene fui immensamente grata, era mille volte più facile detestarlo se metteva su quell’espressione così da schiaffi. E di non detestarlo non volevo nemmeno saperne.

Lo guidai dentro il palazzo, lasciando che mi seguisse per le due rampe di scale che feci rapidamente, com’era mia abitudine. Quando aprii la porta di casa fui investita dall’atmosfera accogliente e caotica che vi regnava, segno tangibile della presenza di Amber. Abbandonai le chiavi sul muretto della cucina, insieme al piccolo bonsai che la mia coinquilina insisteva a dire che portasse tanta fortuna.

«Che buon profumo» disse Joseph, fermo sulla porta.

«Cos’è, devo invitarti ad entrare?» borbottai, avvicinandomi al frigorifero per leggere il post it che vi era appiccicato, tenuto fermo da una calamita a forma di porcellino.

«Allora mi segui in televisione» insinuò, avvicinandosi dopo aver chiuso la porta. Roteai gli occhi, infastidita. Era troppo vanesio, non l’avrei sopportato ancora a lungo.

«No che non ti seguo in televisione – replicai, credendo a stento alle mie orecchie – Ma seguirò la tua traiettoria quando, con un calcio, ti avrò fatto volare fuori dalla finestra.»

«Dio, quanto sei intrattabile – sbottò, correndo subito a leggere il bigliettino che avevo appena posato sul tavolo – Amber dice che non tornerà stasera perché rimane da Drew a dormire.»

«Lo so, l’ho appena letto – gli feci notare mentre lanciavo sul bancone della cucina il cotone e del disinfettante – Forza, disinfettami questi due graffietti sulla schiena così poi, finalmente, sparirai dalla mia vista e dalla mia vita

D’accordo, ero stata troppo brusca e me ne ero perfettamente resa conto. Immaginai non fosse piacevole per Joseph sentirsi dire una cosa del genere e lo intuii anche dal silenzio che seguì quell’affermazione. Aprì la busta dell’ovatta con uno strappo secco, che mi fece sussultare, e non parlò fino a che, una volta tolta la maglietta, non gli mostrai la schiena.

Dio, lo stavo trattando malissimo.

«La scapola sinistra è pessima» mi informò atono, prendendo a tamponare la mia pelle. Strinsi i denti per impedirmi di urlare, ma un ringhio frustrato sfondò le mie difese e mi voltai stizzita, fulminandolo con gli occhi.

«Potresti fare più piano? – sbottai, le guance lievemente imporporate d’imbarazzo – Fa male.»

«Anche gli ingrati fanno male – rispose a tono, per poi lasciar cadere lo sguardo per un attimo sul mio corpo seminudo. Sospirò di frustrazione, facendomi un cenno vago con la mano – Voltati.»

Le sue dita erano leggere sulla mia schiena e mi sfioravano in carezze apparentemente casuali, accompagnate dal suo alito caldo che mi solleticava ininterrottamente. Socchiusi gli occhi, godendomi il suo tocco, e non parlai più fino a che non ebbe finito.

«Puoi rivestirti – mormorò ad un certo punto. Infilai la maglietta rapidamente, ma mi bloccò a metà – Ferma, non così veloce.»

Sentii il suo palmo aperto posarsi al centro della mia schiena, la stoffa della benda tra la sua pelle e la mia, e cercai di ignorare i brividi che mi avevano colta impreparata, scuotendomi da cima a fondo. Era impossibile che non se ne fosse accorto, ma apprezzai il suo silenzio. Doveva essere ancora arrabbiato per la mia uscita infelice di poco prima, e aveva ragione.

«Grazie» sputai tra i denti. Fu faticoso dirlo, ma subito mi sentii più a posto con me stessa. Lo meritava, gliene avevo dette di ogni tipo era ancora lì. E non era poi così male, la stronza ero io.

«Fai cambiare i cerotti da qualcuno questa sera – mi disse, avviandosi alla porta – Se la pelle rimane idratata si formeranno croste meno spesse.»

«Ehi, aspetta…» provai a chiamarlo ma, con ultimo sorriso sofferto e appena accennato, uscì dalla porta. E dalla mia vita, come gli avevo chiesto.

O così credevo.

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Capitolo 3
*** III ***


III

 

 

 

Due giorni.

Erano passati due giorni e io, regredendo di più di dieci anni, ad ogni momento libero mi precipitavo su internet, a cercare notizie su Joseph Morgan. D’accordo, mi ero fermata alla sola Wikipedia, che dava abbastanza poche informazioni da farmi morire di curiosità, ma avevo un orgoglio che bruciava come l’inferno e mi sarei rifiutata di visitare tutti i vari siti a lui dedicati, tanto più che continuavo a essere convinta di non avere nessun interesse a riguardo.

«Oh, Phoebe» sospirò la signora Flynn, passando dietro la mia schiena e cogliendomi in flagrante per l’ennesima volta. Le avevo raccontato il motivo per cui, due giorni prima, avevo fatto tardi al lavoro e subito aveva iniziato a fantasticare sulla possibile attrazione, per i suoi magnetici occhi azzurri o per il sorriso accattivante, che mi sforzavo di nascondere. Attrazione che non c’era, mi sembrava anche piuttosto ovvio, o non lo avrei respinto in modo così definitivo, ma la sua anima romantica non sembrava essere dello stesso avviso.

«Per favore, signora Flynn – esclamai con un sorriso tirato, soffocando nel rispetto che nutrivo per lei qualsiasi tipo di imprecazione – Sto solo cercando di capire che tipo di sconosciuto mi sia portata in casa.»

«Un bel tipo di sconosciuto, decisamente» ammiccò maliziosa, preparando tre tazze per il the perché, come diceva lei, non si poteva mai sapere chi sarebbe entrato da quella porta. Così, ogni giorno, finivamo per offrire da bere a qualche cliente che, fino ad allora, non si era mai mostrato particolarmente interessante. Alcuni erano anche sospettosi, come se al posto delle zollette di zucchero mettessimo del cianuro.

Nonostante si avvicinasse immancabilmente ai sessant’anni, Gloria Flynn aveva l’anima di una giovane spensierata e spesso suo marito entrava nella piccola biblioteca sbatacchiando la porta, furioso per qualche cosa che sua moglie aveva combinato.

Aveva due figlie poco più grandi di me, una lavorava come ricercatrice a Stanford, in California, mentre l’altra faceva la guida turistica a Londra. Non aveva figli maschi e se n’era già ampiamente rammaricata, visto il suo desiderio di vedermi fidanzata con qualche bel giovanotto d’altri tempi. E, ci avrei messo la mano sul fuoco, le sue antenne si erano pericolosamente rizzate quando le avevo raccontato di come quell’attore damerino avesse insistito per accompagnarmi a casa.

«E Amber che dice a tal proposito, cara?»  mi domandò, sorridendo furbescamente.

«Non gliel’ho detto – confessai, incassando il capo nelle spalle con espressione colpevole – Non volevo iniziasse a squittire, dato che non mi sembra ci sia nulla di interessante in tutto ciò.»

«O forse avevi paura di sentirti dire che, in realtà, il tuo comportamento era dovuto all’attrazione che cercavi di nascondere?»

«Oh, per favore! Quale attrazione? – esclamai, saltando per aria come un petardo – Mi sono comportata a quel modo perché è stato odioso fin dal primo momento.»

«Eppure mi sembra si sia comportato molto bene con quel povero bambino» tentò di nuovo. Non risposi, ma mi alzai e, scuotendo il capo, mi inoltrai tra i grandi scaffali ricolmi di pagine ingiallite dal tempo e dalle dita di tutti coloro che le avevano sfogliate, lasciando nella carta un pezzo di loro e un vortice di irrefrenabili emozioni. Andai diretta verso lo scaffale dedicato ai classici della letteratura inglese, sfilando a colpo sicuro Orgoglio e Pregiudizio, il mio libro preferito in assoluto. Non passava giorno che non leggessi almeno un passo di quel romanzo così emozionante e, come sempre, aprii a caso una pagina. Mi piaceva tutto, non c’era capitolo che preferissi o disdegnassi rispetto ad altri. Quel giorno mi toccò la visita di Lizzy a Pemberley e lessi delle lodi meravigliose che la domestica di Darcy tesseva per lui, doti che la signorina Bennet decisamente non condivideva.

Mi stizzii improvvisamente: quella scena aveva fin troppe analogie con la conversazione che avevo avuto poco prima con la signora Flynn. Così chiusi il volume di scatto, riponendolo al suo posto. Forse feci troppo rumore, perché una giovane, probabilmente una studentessa come me, saltò lievemente sulla sedia. Alzò poi lo sguardo, incrociando il mio sorriso di scuse, e mi fece un cenno con il capo. Sospirai, decidendo di tornare all’ovile.

Mano a mano che mi avvicinavo, sorpassando scaffali e tavolini in legno scuro, sentii un chiacchiericcio concitato e sorrisi, rendendomi conto che anche quel giorno la tazza di the che la signora Flynn aveva preparato non sarebbe andata sprecata.

Quella voce era profonda e familiare, così provai a fare mente locale e dedussi che doveva per forza trattarsi di Peter Flynn, il marito della mia datrice di lavoro.

Sollevai sarcasticamente un angolo della bocca: lui odiava il the delle cinque, lo riteneva un’inutile tradizione tipica degli inglesi più conservatori. Ricordavo distintamente la prima volta che avevo udito quelle argomentazioni: lo sguardo sarcastico di sua moglie lasciava decisamente ad intendere che anche lui fosse quel genere di uomo, rigido e conservatore, che tanto diceva di disprezzare. Formavano davvero una bella coppia, sempre così pepati e in conflitto tra loro. Di certo non si annoiavano mai, anche dopo più di trent’anni.

Tuttavia, venni bruscamente strappata a quei piacevolmente tranquilli ricordi quando mi trovai davanti il nuovo arrivato. Piegato leggermente in avanti, con la sicurezza di chi sapeva che il suo corpo sarebbe risultato elegante in qualsiasi posizione, se ne stava con i gomiti poggiati sul bancone, proprio di fronte al monitor del mio computer. Grazie al cielo avevo chiuso Wikipedia.

Parlottava con una entusiasta signora Flynn e ogni tanto rideva, mettendo in mostra quelle accattivanti fossette sulle guance e i suoi denti bianchissimi.

No, non era decisamente Peter, ma era la mia persecuzione, il mio peggiore incubo, il destino che mi si ritorceva contro. Era Joseph Morgan.

«Ciao Phoebe!» esclamò ad un certo punto, scorgendomi arrivare con la coda dell’occhio. Mi abbagliò con il suo sorriso perfetto e con quegli occhi azzurri così dannatamente luminosi, e cercai di ignorare quanto fosse affascinante e carismatico. E bello.

«Quale piacere» mormorai apatica, tornando a sedermi alla mia postazione. Non lo guardai in viso, preferii mantenere lo sguardo dritto avanti a me. Forse, se avessi fatto finta che non fosse lì presente, si sarebbe arreso e avrebbe deciso di andarsene.

E perché diavolo non era più arrabbiato con me, poi? Pensavo che, dopo la mia cattiveria gratuita di quel giorno, non nutrisse più tutto quel desiderio di vedermi di nuovo. E invece no, mi sbagliavo. Ma avevo già potuto sperimentare quanto imprevedibile potesse essere.

«Vado a prendere il the – annunciò la signora Flynn, sparendo dietro la porticina che dava sulla piccola stanza che ospitava il fornello e poco altro – Ne vuoi un po’, Joseph caro? Ho giusto una terza tazza.»

Joseph caro? Ma cosa… Il mondo si era forse capovolto e io non me n’ero resa conto?

«Sì, grazie Gloria – rispose a voce alta, per poi abbassare la voce e rivolgersi solo a me – Dove sono finite le tue sopracciglia, Phoebe?»

L’avrei mandato al diavolo. Oh, sì. L’avrei fatto proprio entro il prossimo respiro. Alzai finalmente gli occhi dal computer, che peraltro era in standby, e  me lo ritrovai più vicino di quanto pensassi. Si era sporto sul bancone e mi scrutava con quel cipiglio divertito che tanto mi faceva arrabbiare ogni volta che respiravamo la stessa aria.

Fece il giro del bancone, arrivando al mio fianco. Vide un block notes di fianco al tappetino del mouse e provò ad aprirlo ma, con uno schiaffo sulla mano, glielo impedii.

«Sei curioso come un maledetto gatto» sibilai, fulminandolo con gli occhi. Mossa sbagliata, ovviamente, perché senza che me ne fossi accorta si era avvicinato ancora di più al mio viso. Intrappolò il mio mento con le dita, facendosi di colpo così serio che quasi parve un’altra persona.

«Invece di sbraitarmi contro – mormorò, lo sguardo che indugiò sulle mie labbra prima di fissarsi di nuovo nei miei occhi che, determinati, lo fissavano senza indecisioni di sorta – Perché non mi dici come sta la tua schiena, ragazzina?»

«Prude – fu il mio laconico commento. Non provai a divincolarmi, sapevo che non me l’avrebbe permesso, ma non volevo nemmeno che si avvicinasse come stava facendo – Come le mie mani.»

«Vuol dire che guarisce – ignorò il mio commento sarcastico e la sua voce divenne roca, abbassandosi ancora di più. Sarei stata una bugiarda se avessi negato anche a me stessa quella scarica di brividi che riempiva la mia schiena martoriata, ma non avevo la ben che minima intenzione di lasciare che anche Joseph lo sapesse.

«No – berciai, scostando inaspettatamente la sua mano con l’ennesimo schiaffo ben piazzato sul polso. Dove dannazione si era cacciata la signora Flynn con quelle tazze di the? – Vuol dire che sei tu a darmi l’orticaria, caro il mio attore da quattro soldi.»

Sospirò, scuotendo il capo con desolazione. Si accomodò su uno sgabello, dopo aver accuratamente spostato la pila di scartoffie che vi risiedevano, e mi guardò di nuovo, un muto rimprovero nelle iridi celesti.

«Phoebe, detta anche la donna che uccideva l’atmosfera» mi prese in giro, provando a sollevare l’orlo della mia camicia.

«Che diavolo fai?» strillai, saltando per aria come un petardo. Tuttavia mi ritrovai a ringraziarlo silenziosamente, perché se non avesse compiuto quel gesto idiota avrei dovuto rispondere alla sua affermazione sull’atmosfera e, beh, non avrei potuto effettivamente negare l’evidenza.

«Controllo la tua schiena» replicò, con una tale ovvietà che sentii le mie guance andare a fuoco.

«Oh, ragazzi – esclamò la signora Flynn, rispuntando dal nulla. Tra le mani reggeva un vassoio con tre tazze fumanti di the alla cannella, quello che amava definire per le occasioni importanti – Scusate, avevo messo il sale invece che lo zucchero, sono proprio sbadata! »

Ignorai il suo commento, dato che sapevo benissimo che non c’era nessun barattolo di sale in tutta la libreria, e mi avvicinai per prendere una tazza. Dopotutto un po’ di educazione faceva ancora parte di me, così la porsi a Joseph, che l’accettò con un sorriso, avvolgendo le mani a coppa attorno alla calda ceramica. Fece in modo di sfiorare la mie dita, trattenendole per un momento, per carezzarmi poi lievemente il dorso della mano con il pollice. Quello non poteva certo essere considerato un gesto casuale e rabbrividii, sebbene sentissi chiaramente addosso sia il suo sguardo che quello della bibliotecaria.

«Allora, Joseph, ti fermerai a lungo nella nostra amata Londra?» esclamò la signora Flynn, distogliendomi dai miei pensieri così confusi. Erano mesi, forse anni, che non mi sentivo più così confusa per un uomo e mi domandai quale potere si annidasse in lui, capace di sconvolgere la mia mente dopo solo pochi giorni dal nostro primo incontro-scontro.

«Non quanto vorrei, purtroppo» replicò. Mi sentivo osservata e, alzando gli occhi, scoprii che non aveva ancora spostato lo sguardo, dopo quella affermazione.

«Oh, cielo! – esclamò la bibliotecaria, saltando in piedi – Devo andare a Heathrow!»

«Paula torna a casa?» domandai, girando il cucchiaino senza molta convinzione. Paula era una delle due figlie della signora Flynn, che lavorava a Stanford come ricercatrice. Un po’ la invidiavo, l’America era sempre stata la mia meta, nonostante amassi alla follia anche la mia vecchia Londra.

«Sì, tra due ore o forse meno – replicò spiccia, raccattando le sue cose per infilarle nella borsa al volo – Peter chiederà il divorzio questa volta, se non arrivo a casa all’ora che gli ho detto oggi. Phoebe, chiudi tu dopo!»

Così, come un tornado ingovernabile, fuggì dalla porta lasciando dietro di sé uno scampanellio acuto e persistente. E mi ritrovai di nuovo da sola con Joseph.

Sospirai, portando via le tazze senza degnarlo di uno sguardo. Avevo già la guardia alzata, mi aspettavo qualche ritorsione, soprattutto ora che non c’eravamo che noi in quella grande biblioteca, e sicuramente non avrebbe perso l’occasione per tormentarmi almeno un po’. Fu per quello che mi allontanai nello sgabuzzino, per poter rimanere un attimo in pace con me stessa.

Peccato che il pericolo arrivasse dalle mie spalle e, silenzioso come la nebbia, mi stesse seguendo. Posai le stoviglie nel lavandino e sentii due braccia avvolgersi attorno ai miei fianchi e le labbra di Joseph contro il mio orecchio, l’accenno di barba che solleticava la mia pelle.

«Mi dici perché non mi lasci in pace?» domandai esasperata, ignorando con convinzione le acrobazie in cui si stava dilettando il mio stomaco traditore.

«Mi dici perché non mi sopporti?» replicò, con lo stesso tono che avevo usato io. Non sapevo cosa rispondergli, avrei potuto dirgli solamente che mi dava sui nervi perché mi sentivo attratta da lui? Sicuramente lo sapeva già, non ero mai stata brava a nascondere le emozioni.

«Sei appiccicoso» lo accusai, scostandomi dal suo abbraccio.

«E l’idea che mi interessi non ti è passata per la mente nemmeno un momento?»

Boccheggiai, ringraziando di essere di spalle o non avrei potuto nascondere il rossore furioso che aveva preso possesso delle mie guance. Mi allontanai, senza degnarlo di risposta, ma lo sentii seguirmi. Ridacchiava.

«Andiamo, ti accompagno – mi disse, guardandomi chiudere tutto – Voglio conoscere Amber.»

Roteai gli occhi, ma non mi opposi. Avevo già imparato che non sarebbe servito a niente.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV

 

 

 

«Fino a quando hai detto che ti fermerai?» chiesi vagamente disinteressata, armeggiando con la serratura della mia porta d’ingresso che, da qualche giorno a quella parte, era diventata a prova di scasso anche per noi che avevamo le chiavi.

«Non l’ho detto» precisò Joseph, appoggiato al muro con una spalla, mentre si godeva in prima fila la mia fatica furiosa. Ringhiai e, perdendo la pazienza, tirai una prepotente spallata alla porta, riuscendo a vincerla. Con un sospiro soddisfatto entrai in casa, subito seguita a ruota da quello che a quanto sembrava si era autopromosso come mia ombra. Tipo quella di Peter Pan, per intenderci. Peccato che non avesse l’intenzione di perdersi e io, in quel caso, non avrei fatto fuoco e fiamme per ritrovarlo e cucirmelo addosso.

«Dimmelo allora» lo incitai, andando a staccare l’ennesimo post it dal frigorifero. Meraviglioso, Amber sarebbe tornata solo dopo cena. Il che significava che avrei avuto una scusa per mandare via Joseph il prima possibile e lo avrei fatto nell’arco di dieci minuti, giusto per non essere ancora più scortese di quanto ero amabilmente stata fino a quel momento.

«Quindi ti interessa» dedusse con sagacia, un pigro sogghigno che si faceva largo sul suo viso.

«Effettivamente no, anche se non sarebbe male sapere fino a quando ti avrò tra i piedi – negai – Quindi stai pure zitto, puoi esser certo che non piangerò.»

Roteò gli occhi, lasciandosi cadere sul divano come se fosse stata casa sua. Non mi sembrava di avergli detto che avrebbe potuto far finta che lo fosse.

«Fino alla metà di agosto – replicò alla fine, ignorando la mia frase, per poi lanciare uno sguardo curioso al bigliettino che avevo accartocciato tra le dita – Che dice Amber?»

Possibile che, in un totale di mezz’ora all’interno della mia casa, avesse già capito come giravano le cose? Effettivamente, ripensandoci, non era molto difficile da capire, ma era anche vero che Joseph era curioso come un bambino e ogni scusa era buona per farsi i fatti miei.

Seriamente, io non lo capivo. Cosa poteva mai esserci di così interessante in una comune venticinquenne londinese come me, per di più caustica e tagliente come il vento invernale?

«Tornerà per le nove – soffiai soddisfatta, lanciando il post it appallottolato nel cestino – Quindi non la incontrerai, mi dispiace. Puoi anche andare via ora.»

«Invece ho un’idea migliore, sai? – esclamò, appoggiando i gomiti sul bracciolo del divano, per poi guardarmi con una luce perversa negli occhi – La aspetterò qui e ti farò compagnia per cena.»

Oh, no. No, decisamente no. Non doveva andare a quel modo, non avrei retto addirittura una cena in sua compagnia: mi avrebbe bloccato la digestione. E non poteva, maledizione, invitarsi così di punto in bianco. Soprattutto quando non c’era nessuna ragione per declinare l’offerta.

«E se venisse a cena il mio ragazzo?» tentai, riutilizzando quella pessima scusa che era stabile ancor meno di un castello di carte nell’occhio di un ciclone. Arrampicarsi sugli specchi era un’arte, e io decisamente non ero un’artista.

«Ancora con questa storia? – rise, battendo una mano sul cuscino in un invito a sedermi al suo fianco – Non sei poi così credibile, ragazzina.»

«Non chiamarmi ragazzina!» sbottai, accontentandolo. Dopotutto ero a pezzi, e quel divano mi chiamava insistentemente da quando avevo messo piede in casa. Non era vero che la mia schiena prudeva e basta: bruciava ancora e la pelle era tesa al punto da farmi temere che si rompesse.

«Perché no? Quanti anni hai?»

«Ne ho compiuti venticinque la scorsa settimana» puntualizzai, stizzita per l’ennesima informazione che era riuscito ad estorcermi. Non era giusto, io non sapevo niente di lui.

«Ti facevo più giovane – concesse, sorridendo mentre lentamente e quasi per caso si avvicinava a me – Ma io ne ho comunque trenta, sono più grande.»

«Non sembra che il tuo cervello ne sia consapevole.»

«Devo farti un regalo di compleanno» decise, ignorando la mia stoccata. Lo guardai picchiettarsi con un dito il mento velato di barba, e mi imbambolai con lo sguardo sulla sua mano. Scossi il capo, impedendo che la mia irrazionalità prendesse il sopravvento. Non potevo certo fantasticare su quanto fossero sensuali le mani dell’uomo che cercavo con tutte le forze di detestare, andava contro ogni logica del mondo.

«Certo, andando via magari» tentai, illuminandomi improvvisamente.

«Niente affatto, puoi anche smettere di tentare. Ho deciso: preparerò la cena, così eviterò anche che tu metta del cianuro nel mio piatto» disse invece, soddisfatto, accostando il viso al mio.

Sbattei gli occhi con educata incredulità, forse senza realizzare cosa avesse appena detto. O forse lo realizzai fin troppo bene, perché non ebbi nemmeno la forza di allontanarmi quando la distanza tra noi diminuì sensibilmente.

«E come posso essere sicura che non sarai tu ad avvelenare me?»

«Semplice – sorrise, sfiorando con le dita il profilo della mia mandibola – Perché mi piaci, credo anche di avertelo già detto.»

I suoi occhi si soffermarono sulle mie labbra e, ne ero certa, non gli sfuggì nemmeno il modo in cui si era irrigidita la mia schiena. Sembravo un pezzo di legno, mi sentivo tale.

Posò la fronte sulla mia e, all’ultimo momento, le sue labbra deviarono verso la mia guancia. Vi lasciò un bacio umido, senza preoccuparsi della mano che, dalla mia mandibola, stava irrimediabilmente percorrendo tutto il mio collo.

Il suo respiro si infranse sulla mia pelle e fu in quel momento che le mie difese presero a vacillare, quando sentii il secondo bacio posarsi sulla pelle sensibile della gola.

Deglutii rumorosamente e così si allontanò, ridacchiando divertito, ma palesemente soddisfatto.

«Vado a preparare la cena – annunciò, alzandosi con calma. Mi arrivò una ventata del suo profumo, così buono e fresco, e sentii le mie guance colorarsi di un rosso un po’ colpevole – Non vorrei che la tua schiena si spezzasse. È già abbastanza martoriata con tutti quei graffi.»

Mugugnai qualche imprecazione tra i denti, alzandomi per andare in bagno.

«Ti informo di non aver capito molto, ma “maledetto di uno stronzo attore da quattro soldi” è stato chiarissimo» disse, scoppiando a ridere ancora più forte, mentre andava in avanscoperta di tutti i cassetti della cucina. Sbuffai, vedendolo brandire un mestolo come se fosse stato la bacchetta di Harry Potter, e scossi il capo con rassegnazione.

«Vado a farmi una doccia – lo informai – E chiuderò a chiave, quindi non muoverti da quei fornelli perché sarebbe inutile.»

«Come distruggere i sogni di un uomo, vero tesoro?» mi prese in giro, ma lo ignorai sbattendo la porta del bagno con la palese intenzione di chiudere la conversazione prima che potesse di nuovo prendere una piega troppo difficile. Una doccia era decisamente quello di cui avevo bisogno.

Come da qualche giorno a quella parte, insaponarmi la schiena fu praticamente un inferno e, forse a causa del mio umore ballerino, riuscii anche a farmi sanguinare qualche graffio. Non me ne accorsi subito, ma quando trovai l’asciugamano macchiato di rosso imprecai, sapendo che non avrei avuto altra scelta se non quella di farmi mettere qualche cerotto da Joseph. Ma perché ero così maniaca della pulizia del corpo? Non avrei potuto aspettare quando sarebbe tornata Amber per farmi quella maledetta doccia? Al diavolo, l’universo si era coalizzato contro di me.

Così uscii dal bagno come un tornado, con addosso solamente un paio di calzoncini che usavo come pigiama e un reggiseno slacciato, che tenevo fermo con un braccio. Avevo i capelli ancora umidi e raccolti su una spalla e, grazie al cielo, mi aiutavano a nascondere almeno un pezzettino di pelle.

«Hai cambiato idea, per caso?» allibì sarcastico Joseph, vedendomi uscire dal bagno in quelle condizioni compromettenti. Non ero stupida però, avevo visto come stesse cercando di mascherare gli sguardi affamati rivolti al mio corpo. Se ci fossi andata a letto magari poi avrebbe smesso di tormentarmi, chissà perché non ci avevo pensato prima.

«No, ma prendi i cerotti – sbuffai, provando a sbirciare nella pentola che bolliva sul fuoco – Sicuramente ti ricordi meglio di me dove sono.»

C’era un profumino davvero squisito per casa ed ero curiosa di vedere cosa stesse cucinando. Peccato che lui non fosse dello stesso avviso perché, tenendomi per i fianchi, mi allontanò verso il divano, impedendomi di soddisfare la mia curiosità.

«Non sbirciare» sogghignò, sfiorandomi la fronte con le labbra. Si era preso decisamente troppa confidenza con tutti quei baci e non sapevo come fare per ripristinare le distanze. Probabilmente non ci sarei riuscita; non sapevo se si comportasse così solo con me o cosa, ma sembrava la classica persona che si prendeva tutto il braccio anziché il dito che gli si porgeva.

Come pochi giorni prima, però, fu impeccabile a medicarmi la schiena, usando movimenti delicati e senza fare troppa pressione sulla mia pelle. Solo una volta non si risparmiò una battutina, chiedendomi se per caso avessi usato un rastrello per insaponarmi.

Mi allacciò anche il reggiseno, e non provò più a mettermi quelle labbra maledette da qualche parte sul corpo. Così mi rifugiai in bagno, per indossare una maglietta prima che cambiasse idea e, quando uscii, stava servendo il primo.

«Hai una candela, Phoebe?» mi chiese con apparente noncuranza. Avevo imparato che, quando usava quel tono, non c’era mai da star tranquilli. Sicuramente aveva in mente qualche idiozia e guarda caso la vittima sarei stata io, ne ero praticamente certa.

«No – replicai, inarcando un sopracciglio – Ma se vuoi ho un accendino.»

«D’accordo, ma non è molto romantica una cena a lume d’accendino – rise, prendendo ad avvicinarsi come un cacciatore con la sua preda – Non credi?»

«Beh – sibilai, portando le mani avanti. Ancora un passo indietro e sarei andata a sbattere contro il tavolo – Per bruciarti i capelli andrà benissimo.»

Sbuffò, scostandomi la sedia per incitarmi a sedermi a tavola. Si rifiutò categoricamente di dirmi cosa avesse cucinato e quali ingredienti avesse utilizzato. Ne ero sicura, non erano cose che avevo in dispensa. Quindi, per forza, doveva essere sceso al negozietto di sotto mentre io ero in doccia.

Continuò a pavoneggiarsi, esibendo espressioni deliziate ad ogni boccone che ingeriva e, più volte, tentai di bucargli una mano con la forchetta.

«Se vuoi mangiarmi devi solo chiedere.»

«Per caso è la prima volta che ti mando al diavolo?» gli chiesi, alzandomi per lavare i piatti.

«Sì, ma sono sicuro che sarà la prima di una lunga serie» ridacchiò, e lo sentii avvicinarsi. Ne ebbi la conferma quando le sue braccia si avvolsero attorno ai miei fianchi e il suo petto si posò alla mia schiena. Ebbi la fortissima sensazione di lasciarmi andare con il capo all’indietro, ma riuscii a trattenermi.

«Sei una piovra» lo accusai.

Rise, incrinando per un momento la mia ferrea volontà di resistergli. Il suono della sua voce era così bello, perché stavo facendo la sostenuta? D’accordo, lo sapevo perché. C’erano delle ferite che bruciavano ancora e no, non parlavo di quelle sulla mia schiena. Quelle ferite mi impedivano di lasciarmi andare a qualsiasi uomo, soprattutto agli uomini come Joseph.

Mi fece voltare, portando un ciuffo dei miei capelli dietro l’orecchio e, nel frattempo, carezzandomi il volto. La sua espressione era così seria che sentii le mie pulsazioni accelerare. Cuore traditore.

«Fino a quando hai intenzione di scappare?» mormorò, sfiorando le mie labbra con un dito.

«Fino a quando smetterai di seguirmi.»

«E se non volessi smettere?» chiese di nuovo, avvicinandosi. Posò la fronte contro la mia e le mie labbra presero a formicolare, in attesa delle sue che, lo sapevo, questa volta sarebbero arrivate.

Ma il destino mi salvò, perché il campanello prese a suonare come impazzito e saltai praticamente per aria, precipitandomi ad aprire.

Dio, grazie.

Come avevo fatto a farmi imbambolare a quel modo, come? Se fossi rimasta un momento di più sarebbe successo l’irreparabile e io, che mi vantavo di essere granitica, avevo praticamente ceduto davanti a due occhi a calamita e a quelle labbra che… Dio, quelle maledette, dannate e fottute labbra!

Sentivo gli occhi di Joseph puntati sulla mia schiena, ma lottai in tutti i modi per ignorarli. Le mie guance andavano a fuoco e avrei evitato di dargli anche la soddisfazione di vedermi arrossire, soprattutto dopo quella che – lo sapevo – stava ponderando come una vittoria.

«Phee, dimmi che ci sei – si lamentò la voce della mia salvezza, Amber – Ho dimenticato le chiavi.»

«Arrivo, sono qui» gracchiai, prendendo a lottare con la serratura.

«Per tutti i cervelli che ho studiato! – sbraitò, quando riuscimmo a sbloccare l’ingresso – Dobbiamo aggiustarla quella maledetta porta, non voglio finire come una carcerata o, peggio, come una senzate…»

Si bloccò, gli occhi spalancati e le labbra che descrivevano un cerchio pressoché perfetto, e poi mi fulminò con uno sguardo di quelli che nemmeno mia madre mi aveva mai rivolto.

«Ora mi dirai cosa mi sono persa.»

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Capitolo 5
*** V ***


V

 

 

 

Sospirai pesantemente, chiudendomi la porta alle spalle. Vi posai la fronte e chiusi gli occhi, sentendomi prosciugata di tutte le forze. Quella serata era stata davvero un massacro per me: il fuoco incrociato di della mia migliore amica e del mio peggiore incubo erano stati davvero deleteri per la mia psiche e anche per il mio stramaledetto corpo pieno di graffi.

Amber era scesa ad accompagnare Joseph e, grazie al cielo, ero stata risparmiata almeno di quell’incombenza. D’accordo, probabilmente non era una cosa buona visto che, come minimo, quell’idiota le avrebbe fatto migliaia di domande su ogni aspetto della mia vita e lei, dimenticandosi di chi dei due fosse effettivamente amica, avrebbe risposto a tutto, anche alle richieste più imbarazzanti. Soprattutto a quelle.

Qualcosa quindi mi disse che, da quel giorno, Joseph Morgan avrebbe saputo anche di che colore erano le mie mutande preferite. E l’avrebbe usato contro di me. Beh, quello era scontato in realtà.

«Sei una stronza schifosa, mi hai tenuto nascosta una cosa del genere! – la voce di Amber mi investì furiosa, quando rientrò dall’ingresso. Roteai gli occhi, prendendo una vaschetta di gelato – E non provare a sfoderare quella cosa, questa volta non riuscirai a comprare il mio silenzio con della stracciatella.»

«Non voglio comprarti, infatti – replicai totalmente incurante, sprofondando nel divano che, solo poche ore prima, aveva visto me e Joseph troppo vicini. Almeno per i miei standard – Voglio solo avere la bocca piena e, quindi, una scusa per non risponderti.»

«Perché non mi hai detto che hai conosciuto Joseph?» strillò, saltando sul divano al mio fianco.

«Perché sapevo che avresti reagito esattamente in questo modo» sogghignai, puntandole contro il cucchiaio. Conoscevo la mia migliore amica, ci vivevo insieme da cinque anni e non mi ero mai sbagliata su una sua possibile reazione.

«Ma Phee – si lagnò, posando il capo sulla mia spalla – Hai anche solo presente quanto sia bello e affascinante? Come puoi non cedere di fronte a quello sguardo, quelle labbra, quelle mani… Dio, Phoebe, la sua voce

Mi mossi agitata, fingendo di cambiare posizione pur di non dover guardare la mia amica in viso. Santo cielo, non c’era una cosa che non avesse colpito nel segno. Lo sapevo, lo sapevo dannatamente bene quanto fosse sensuale, quanto ogni suo movimento trasudasse fascino. Finché non iniziava a prendermi in giro, mi dissi, finché non iniziava ad umiliarmi e a ricordarmi perché non mi fossi ancora buttata tra le sue dannate braccia famose.

«Non mi riguarda, è un essere odioso – le dissi infatti – Lo prenderei a pugni da mattina a sera, maledizione. È così pieno di sé, sembra che tutto gli sia dovuto e lo sai che non sopporto le persone così! Inoltre, sembra che si diverta a gironzolarmi attorno, ogni scusa è buona per mettermi un dito addosso, per farmi una delle sue squallide battutine e… e…»

«E ti piace» concluse divertita, rubandomi il cucchiaio per mangiare a sua volta.

«Fossi matta! – sbuffai, riprendendo possesso di quella sottospecie di badile – Avevi detto che non ti saresti fatta comprare da un po’ di gelato. Rivoglio il cucchiaio.»

«Tesoro – sospirò, chiudendo le mani a coppa sul suo viso – Hai mai visto Ben Hur, no vero?»

«Certo che l’ho visto, con chi credi di parlare? È un cult. Mio padre ne va assolutamente pazzo e almeno una volta l’anno obbliga tutta la famiglia a rivederlo. Non ti dico che tortura» le lanciai un’occhiata in tralice. Mi sembrava stanca. Probabilmente il suo pomeriggio con Drew aveva dato i suoi buoni frutti, anche a giudicare da quanto fossero sconvolti i suoi corti capelli biondi.

«No, ragazzina, non quel Ben Hur» precisò, guardandomi come se fossi stata una povera bambina infelice e con un’infanzia altrettanto infelice. Beh, la mia infanzia era stata anche piuttosto bella o come minimo normale e, se proprio quel film che diceva fosse stato importante, ero ancora in tempo per guardarmelo. Peccato che, dato l’argomento di cui stavamo discutendo, avrei dovuto immaginare che no, non fosse importante in nessun modo se non per i suoi ormoni impazziti. Meno male che ero io quella delle due a non essere in attività da un bel pezzo.

«Innanzitutto non ti azzardare mai più a chiamarmi con quell’orrendo soprannome, mi ricordi il tuo amico attore da quattro soldi, che sembra divertirsi a ricordarmi che è più vecchio di me. Con quella sua immaturità dovrebbe solo andarsi a nascondere, invece» sbottai, ricominciando la sequela di insulti che Amber aveva interrotto prima.

«Stai buona – rise, per poi alzarsi dal divano con un movimento che tradiva tanta impazienza – Vado a prendere il tuo portatile, devo metterti assolutamente a scaricare Ben Hur.»

«Ma mi dici che razza di versione è?»

«Con Joseph, naturalmente.»

Roteai gli occhi. Come avevo fatto a non pensarci prima, eh? Ormai non vedeva altro davanti ai suoi occhi. Avrei potuto coalizzarmi con Drew, geloso fino al midollo se non di più, per ucciderlo e occultarne il corpo. Non sembrava poi così male come idea, e di sicuro lui mi avrebbe appoggiata.

«Siccome ci vorrà un po’ – mi disse, tornando con il computer – Ci guardiamo tutti i siti su cui si potrà spulciare qualche informazione decente.»

«Dato che siete diventati così intimi, perché non chiedi direttamente a lui?» domandai, ricevendo in risposta uno sguardo di compatimento.

Lasciai andare il capo sul cuscino, gemendo disperata. Non avrei retto un minuto di più con tutta quella smania di avere informazioni su Joseph, non era più semplice chiederle davvero a lui, visto che le interessava così tanto? Io ero sempre del parere che, meno sapessi su di lui, meglio sarebbe stato in futuro. Perché, sicuramente, avrebbe trovato il modo di estorcermi le informazioni che sapevo e avrebbe rigirato la frittata, facendomi passare per la stalker. Me, non lui. O peggio, per la ragazzina innamorata e governata dagli ormoni.

«Ora entro su Twitter e… lo seguo» mugugnò mentre la ignoravo bellamente, alzandomi e girovagando per casa. Improvvisamente però mi fermai, inarcando un sopracciglio.

«Amber – la chiamai – Tu segui già tutti gli attori di quel tuo stupido telefilm, no?»

«Non è stupido – protestò, per poi annuire – Comunque sì, li seguivo già. Infatti sono entrata con il tuo account.»

Il mio account. Ma certo. Perché lasciavo le maledette password impostate, perché?

Lasciai cadere il cucchiaio, che si schiantò al suolo insieme alla mia mandibola, e spalancai gli occhi. Presi ad avvicinarmi lentamente alla mia coinquilina, forse troppo timorosa di scoprire che aveva davvero fatto ciò che mi aveva detto. Mi sentivo male, sì. Decisamente.

«Amber – sibilai, provando a rubarle il mio netbook. Non vi riuscii, la sponda del divano sembrava essere un ostacolo insormontabile e finii per ribaltarmi quasi sui cuscini, di nuovo seduta di fianco a lei e a quel maledetto computer su cui campeggiava il profilo twitter di Joseph – Amber, perché mi fai questo?»

«Phee, vi ho visti solo per un’oretta insieme – mi disse improvvisamente seria – Lui ti cerca con lo sguardo, sempre. In ogni momento.»

Roteai gli occhi, forse per la milionesima volta in quella giornata, e feci per risponderle. Ma di nuovo mi bloccò, alzando una mano e ricominciando a parlare.

«E tu – sospirò, fissando il suo sguardo celeste nel mio – Il tuo corpo si tende verso di lui, anche se con il capo e con gli occhi tendi ad allontanarti.»

«Ti fa male la psicologia» sbuffai, voltando lo sguardo dall’altra parte.

«Lo sai che sto facendo la tesi sul linguaggio del corpo, non puoi pretendere che non analizzi ogni situazione. Soprattutto se mi sta a cuore come in questo caso, come te.»

Mi sciolsi un po’, sorridendole incerta. Ma sapevo quel che volevo, ero determinata a stare lontano dagli uomini almeno fino al momento in cui il mio orgoglio non si fosse ripreso del tutto dall’ultima storia, o presunta tale, che avevo avuto. Ne era già passato di tempo, ma bruciava ancora come se fosse stato solo ieri. Amber aveva delle teorie a riguardo, ma se la sua soluzione tampone era farmi fiondare tra le braccia di un attore allora forse avrebbe dovuto rivedere i suoi punti di vista.

«Joseph Morgan deve restare fuori dalla mia vita» dichiarai solennemente, provando a convincerla.

«Vuoi forse negare che ti faresti fare un bel lavoretto da quelle labbra? O da quelle mani? – sbottò finalmente, dandomi di gomito. Mi sembrava strano che fosse rimasta seria così a lungo, non era da lei parlare con quel tono professionale per più di cinque miseri minuti, e in quella conversazione il budget era già stato sforato – O da labbra e mani contemporaneamente?»

«Amber, sei da ricovero» la accusai, guardandola con malcelata compassione e finto disgusto.

«E tu sei frigida – sbuffò, per poi sedersi sulle mie gambe. Portò le mani ai lati del mio viso, obbligandomi a mantenere lo sguardo fisso nel suo – Voglio solo che mi giuri, guardandomi negli occhi ovviamente, che non provi un’attrazione letale per lui, un’attrazione di quelle che ti fanno venire i brividi anche solo guardando le sue sopracciglia ammiccare perché sai che ti sta facendo una battutina maliziosa; un’attrazione di quelle che ti fanno rimanere con lo sguardo fisso sulle sue mani come se, con la tua sola forza di volontà, potessero arrivare a posarsi sul tuo corpo; un’attrazione di quelle che, quando lo vedi fumare, ti senti formicolare il basso ventre perché non vorresti altro che essere quella sigaretta. Dimmelo, Phoebe, dimmi che non provi tutto questo.»

Roteai gli occhi. Di nuovo. Non era possibile che, all’alba dei venticinque anni, dovessi ancora avere un’amica che mi metteva in mente certi pensieri. Sapevo pensare anche con la mia testa, sebbene avessi messo in standby il cervello dopo la laurea, in attesa di un qualcosa che desse una svolta alla mia vita. E non accettavo che una persona con un così notevole ascendente su di me, come la mia migliore amica, provasse ad inculcarmi in testa dei sentimenti e delle sensazioni che dovevano rimanere fuori dalla mia vita.

«Non provo quell’attrazione che dici.»

«D’accordo – ribatté aspra. Sapevo che si era offesa e che la sua mente stava lavorando frenetica per trovare qualcosa che mi smascherasse – Qui dice che ha una ragazza. Emily.»

«Brutto nome – sospirai, prendendo a girovagare come un’anima in pena – Mi dispiace per lui.»

«Perché?» chiese senza staccare gli occhi dallo schermo.

«Quando all’ultimo anno di liceo andai per un anno all’estero, in Canada, una mia compagna di classe si chiamava così – sbuffai – Era una ragazzina vanitosa oltre ogni limite, faceva tanto l’amica per poi parlarmi alle spalle. Quando lo scoprii, smisi di passarle i compiti di matematica. Da lì smise di essermi amica. Emily VanCamp, detta Emily LaVamp. Come dimenticarla?»

«Ehi – esclamò Amber, scattando come una molla – Anche questa qui si chiama in quel modo.»

Scossi vagamente una mano, avvicinandomi di nuovo al divano dove la mia coinquilina stava distesa, il computer sulla pancia e i piedi sul cuscino dove avrei tanto voluto sedermi.

Le afferrai le caviglie, portandomele in grembo, e mi accomodai ignorando la sua occhiata di protesta e il dolore alla mia schiena.

«Ce n’era almeno un’altra che si chiamava così nella nostra scuola» mi strinsi nelle spalle, ignorando completamente il problema.

Una parte di me mi fece notare che, alla fine, Amber stava riuscendo a farmi interessare degli affari di Joseph, ma chiusi fuori dalla mente quell’avvisaglia. Non dovevo pensare alle sue parole di poco prima, non dovevo pensare a quanto avessero realmente fatto breccia nella mia corazza.

«Guarda la foto, allora – mi incitò, passandomi il netbook – Eh? Allora?»

«Oh, cazzo» alitai sconvolta, sentendo l’aria fuggire dai miei polmoni. Non poteva essere vero, mi rifiutavo di pensare una cosa del genere.

Ricordavo quel suo dannato viso, quella mascella troppo pronunciata che ospitava un sorriso costruito, fatto di melassa, e che veniva sfoderato ogni volta che i compiti di matematica e trigonometria davano problemi a tutti tranne che a me.

La odiavo. L’avevo sempre odiata e, maledizione, mi resi conto che vederla al fianco di Joseph stava alimentando tutto il mio risentimento in modo esponenziale. Non proprio come se mi fosse indifferente. Mi insultai mentalmente per qualche secondo, prima di realizzare una verità ancora più sconcertante. Joseph aveva provato ripetutamente a baciarmi, ed era fidanzato. Quindi, la vera domanda era: cosa voleva da me Joseph, se era fidanzato con quella?

«Vado a dormire» annunciai atona mentre Amber mi guardava ancora a bocca aperta. Non risposi, ignorai tutto se non la porta della mia camera. Sembrava una meta.

Proprio nel momento in cui posai il capo sul cuscino, però, il cellulare vibrò, annunciando l’arrivo di un messaggio. Lo aprii, curiosa di sapere chi potesse mandarmi un messaggio a quell’ora.

 

«Buonanotte, ragazzina.»

 

Non conoscevo il numero, ma mi lasciai andare ad un sorriso nel buio della mia camera per niente stupita. Lo aspettavo, quel messaggio.

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Capitolo 6
*** VI ***


VI

 

 

 

La musica mi rimbombava nelle orecchie, impedendomi di pensare troppo, complice  l’enorme cassa vibrante che stava proprio sul soffitto, appena sopra il ripiano delle bottiglie di alcolici e non. Le mie mani appiccicavano per colpa dei vari miscugli che avevo prodotto fino a quel momento e la fronte era imperlata di sudore. Faceva sempre un caldo assurdo in quel locale e le luci soffuse non aiutavano affatto l’impressione di soffocamento che provavo ogni volta che vi mettevo piede.

«Scusami – urlò una ragazza, già palesemente oltre il limite di saturazione. Ondeggiava un po’, i suoi occhi erano socchiusi e un sorriso ebete faceva bella mostra di sé sul suo viso – Potresti…»

«Scordatelo, bellezza! – gridai di rimando, alzando il viso solo per agitare lo shaker – Sono piena qui, vai al tavolo e aspetta che Drew venga a prendere l’ordinazione, a meno che tu non abbia tutta questa grande urgenza di raggiungere il coma etilico.»

Ma se ti metti a vomitare sul parquet che dopo dovrò pulire io ti faccio fuori, maledetta befana.

Se ne andò imbronciata, senza più rispondermi, e tornai alla mia occupazione. Stavo preparando due Midori Sour per una coppia di piccioncini che era appena entrata, nonostante fosse già l’una e mezza abbondante. Evidentemente avevano bisogno di caricarsi un po’ per finire la serata col botto, o forse non si sopportavano più e avevano bisogno di annebbiarsi la mente per poter finire in modo dignitoso. Anche se, inarcai un sopracciglio rendendomene conto, il Midori non era esattamente qualcosa di forte. Scrollai le spalle, dopotutto non mi interessava. Io venivo pagata ugualmente.

Verso le due e mezza cominciarono tutti a sloggiare: sapevano che avremmo chiuso di lì a poco. Amber, che lavorava come cameriera insieme al suo ragazzo Drew, passò davanti al bancone facendomi un occhiolino e immancabilmente non capii cosa intendesse. C’erano serate in cui, per ogni ragazzo decente che entrava senza una piovra appesa al braccio, lei mi strizzava un occhio. Mi chiesi come mai non le fosse mai venuta una tendinite acuta a qualche muscolo facciale, dato che era umanamente impossibile riempire le persone di occhiolini e scamparla indenni… era un’ingiustizia!

Così anche quella volta alzai lo sguardo e trovai niente meno che Dave, il mio ex ragazzo. D’accordo, chiamarlo ragazzo era un po’ un’esagerazione, visto che aveva passato sei mesi, più di un anno prima, a giocare con me al gatto col topo e io, povera illusa, non avevo potuto resistere davanti ad un bel faccino. Più o meno il gioco che sembrava avesse intenzione di giocare Joseph, ecco. Per quello non volevo assolutamente che prendesse a gironzolarmi attorno.

Sapevo di aver perso in partenza anche questa volta, perché il mio corpo si era sempre rifiutato di seguire il mio cervello e, lentamente, ma inesorabilmente, aveva cominciato ad avvicinarsi q quel dannato attore da strapazzo, che era pure fidanzato! Anche Dave era fidanzato, all’epoca. Probabilmente lo era anche in quel momento e quella povera ragazza, Elettra se non mi sbagliavo, ne aveva sopportate talmente tante che avrebbero dovuto santificarla. Già, perché lei sapeva che il suo ragazzo la tradiva, eppure lo amava così tanto che aveva deciso di lasciar correre. Più che altro, per come la vedevo io, amava poco se stessa. Risi tra me. Anch’io allora amavo poco me stessa, se per più di sei mesi mi ero ridotta a fare la parte dell’amante, l’altra.

«Pensi troppo – mi redarguì Amber, portandomi un vassoio pieno di bicchieri vuoti – Guarda questi, si sono mangiati anche il ghiaccio.»

«Fanno bene – sbuffai, rubando a mia volta un cubetto dalla ciotola – Fa troppo caldo qui dentro.»

«Soprattutto se c’è Dave che ti punta da quando ha messo piede al locale» replicò, l’espressione del suo viso a metà tra lo scocciato e il malizioso. Prese una cannuccia e me la infilò nella scollatura, sogghignando perfidamente.

«Ma che diavolo fai?» allibii sconvolta, senza tuttavia riuscire ad impedirmi di scoppiare a ridere.

Dave non mi toglieva gli occhi di dosso nemmeno per un momento, lo sapevo. Sentivo il suo sguardo indecifrabile perforarmi la schiena, ma non avrei ceduto per niente al mondo. La sua presenza era fastidiosa, persino più di quella di Joseph, che in quanto a mettere angoscia era decisamente un maestro.

E fu così che, quando vidi entrare anche lui da quella dannata porta del locale, mi ritrovai quasi a esserne felice, a gioire e a tirare un sospiro di sollievo. Prima ovviamente di rendermi conto dell’idiozia che avevo appena pensato e maledirmi violentemente: Joseph e Dave nella stessa stanza con me potevano solo significare la mia morte cerebrale. Non avrei potuto nemmeno salutare i miei genitori e la signora Flynn.

Sbattei con forza il panno umido sul bancone, prendendo ad asciugare tutte le varie goccioline che, seccando, avrebbero formato degli aloni sul marmo nero e dato un minimo appiglio a quell’essere tirchio del mio capo, altresì conosciuto come Gary, per non pagarmi gli straordinari.

All’improvviso, però, e con prepotenza, il ricordo del viso di Emily si introdusse nella mia mente, ricordandomi perché avessi ancora meno voglia del solito di rivedere Joseph, nonostante la presenza molesta di Dave sotto il mio stesso tetto. Mi sarebbe piaciuto chiedergli per quale motivo non stesse passando il sabato sera con la sua beneamata ragazza famosa, ma non volevo che pensasse che ne fossi gelosa. E, se anche lo fossi stata, sicuramente non sarebbero stati fatti suoi. Ma io non ero gelosa, ovviamente.

«Ciao» mi disse con un sorriso, piombando vicino a me senza che me ne accorgessi. Irrigidii la schiena, ma non servì assolutamente a nulla perché fui ugualmente sommersa da una miriade di brividi. Non sapevo se fossero causati da quel suo sguardo così impertinente, così… capace di farmi sentire bella, oppure solo per il suono della sua voce profonda e, malgrado tutto, dannatamente sensuale.

«Ciao» risposi atona senza alzare lo sguardo, prendendo a pulire il bancone con più forza. Non mi ero nemmeno resa conto che si fosse avvicinato, presa com’ero a maledire il fatto che avesse una ragazza. Se Amber avesse saputo cosa mi ronzava per la mente avrebbe già preparato le partecipazioni per le nozze. No, era meglio tacere. Presto se ne sarebbe tornato dall’altra parte dell’oceano e mi sarei levata la sua faccia dalla testa.

«Me lo fai un cocktail?» mi chiese, di nuovo quel sorriso. Posò i gomiti sul ripiano che avevo appena asciugato, senza minimamente curarsi del fatto che avrebbe potuto essermi d’intralcio.

«Non vedi? Sto pulendo – sbuffai, lanciandogli un’occhiataccia – Quindi trovati un altro locale, perché qui non si fa più niente.»

«E dai – insistette, posando il mento su una mano – Poi pulisco io, se sporchi per me.»

Lo fissai per un lungo istante, cercando di capire se, assecondandolo, gli avrei concesso una vittoria più o meno pesante. Perché tutto tra noi era una sfida, peccato che io non lo considerassi decisamente come un gioco. Avevo lasciato che l’istinto di conservazione avesse la meglio e l’avevo presa troppo sul serio.

Infine cedetti, roteando gli occhi, e posai un gomito di fianco al suo, seppur a debita distanza.

«Cosa vuoi, sentiamo?»

«Alexander – sogghignò, gustandosi la vittoria – Senza cianuro, possibilmente.»

«Però – soffiai ammirata, dandogli le spalle per nascondere un sorriso – Che classe.»

«Lo vedo ugualmente il tuo bellissimo sorriso, è inutile darmi le spalle – strabuzzai gli occhi, alzando poi lo sguardo – Dovresti sorridere di più.»

Incrociai le sue iridi celesti nello specchio dietro le bottiglie e mi maledii per non averci pensato prima. Così presi il ghiaccio, il brandy, la panna e la crema di cacao e posai tutto sul bancone, cercando di sporcare il più possibile. Shakerai per otto dannati secondi, tempo in cui Joseph non accennò a togliere lo sguardo da me. Anche Dave mi fissava e Amber mi sorrideva, ovviamente fissandomi. Mi sentivo decisamente troppo osservata quella sera e nessuno lo stava facendo per puro diletto. Tutti avevano un secondo fine: Amber che mi incoraggiava, Joseph che mi prendeva in giro e Dave… lo scopo del mio ex mi rimaneva ancora piuttosto oscuro. Che diavolo voleva da me dopo tutto quel tempo? Forse non ero stata abbastanza chiara l’ultima volta; gli avevo solo rotto il naso. Forse avrei dovuto rompergli le costole, lì sì che avrebbe capito bene.

Chiusi quei pensieri fuori dalla mia mente e piantai il bicchiere di fronte al viso divertito di Joseph, insieme allo straccio che fino ad un momento prima avevo avuto sulla spalla, facendogli chiaramente intendere che avevo preso sul serio quella storia del pulire.

«Quanto ti devo?» domandò poi, prendendo ad asciugare le gocce di panna che avevo lasciato quasi di proposito. D’accordo, l’avevo fatto spudoratamente di proposito.

«Niente, Cenerentola – sibilai, prendendogli il mento tra due dita – Offro io, per ripagarti di tutta questa tua, come dire, onnipresenza

«E se adesso cogliessi al volo l’occasione e ti baciassi?» sussurrò, avvicinandosi come un predatore. Era incredibile come si fossero invertiti i ruoli in meno di un secondo, ma dopo una serata devastante, alla fine di una settimana ancor più devastante, le mie difese non erano certo al meglio, avrei dovuto pensarci prima.

«Vai a baciare la tua ragazza, seccatore» berciai, allontanandomi con una smorfia. Presi a riordinare tutte le bottiglie, dandogli le spalle e tenendo gli occhi bassi per evitare che incrociasse il mio sguardo nel riflesso. Meglio non commettere due volte lo stesso errore.

«Domani – mi disse e di scatto mi voltai verso di lui, che rimarcò – Domani la bacerò, contenta?»

No.

«Te ne vai?» chiesi. Volevo suonare speranzosa, ma mi resi conto che forse non mi uscì un tono particolarmente felice e soddisfatto. Ovviamente Joseph sorrise, interpretando il mio tumulto meglio di quanto non stessi facendo io stessa.

«No – ribatté – Viene lei qui a Londra.»

- Oh, quindi non ti farai più vedere – sospirai, guardando il lato positivo e riuscendo davvero per un momento a sentirmi meglio – Avrò di nuovo un po’ di fiato.»

Ridacchiò – ma non sapeva fare altro? –, ma non rispose. Che uomo strano, la fama gli faceva male. O forse gli faceva male il brandy. In ogni caso, avrebbe dovuto ridere di meno, anche solo per nascondere ai miei occhi quelle fossette pericolose.

Con la coda dell’occhio vidi Dave dirigersi con passo sicuro verso Amber, che sembrava stranita quanto me, e dirle alcune cose all’orecchio. Forse ero paranoica, ma mi sembrava che lui mi avesse indicata, almeno con un cenno del capo. Ne ebbi la conferma quando gli occhi spalancati della mia migliore amica di posarono su di me. La vidi negare freneticamente e Dave se ne andò con un sogghigno soddisfatto.

«Complimenti, Phoebe – disse poi Joseph, riportando i miei pensieri sulla terra – Non assaggiavo un Alexander così buono da un sacco di tempo.»

«Non adularmi, brutto idiota» sbuffai senza però arrabbiarmi seriamente. Che ci voleva a fare un cocktail così semplice? E poi era il mio preferito, avevo saputo modificare le quantità per renderlo davvero sublime. Quindi, in un certo senso, non mi aveva adulata, ma aveva solo detto la verità.

«Senti – sospirai, incurvando un momento le spalle. Mi passai una mano sul viso, decidendo per un momento di deporre l’ascia da guerra e sperare che lui non facesse domande – Vai a salutare Amber, d’accordo?»

«Ma sto parlando con te, non mi va di andare da Amber adesso…» sbatté gli occhi, disorientato dal mio cambio repentino di atteggiamento.

«Vai – ringhiai, per poi lasciare che la mia voce tornasse un sussurro – Per favore.»

Non replicò più, solo inarcò le sopracciglia e con la sua falcata elegante si incamminò verso la mia migliore amica. Rimasi per un momento incantata su di lui, sul suo b-side, prima che Drew mi affiancasse.

«Vuoi degli altri bicchieri da lavare, Phee?» sogghignò, sommergendo la mia visuale del fondoschiena di Joseph con una marea indistinta di vetro che puzzava di alcol e frutta.

«Mi verranno le piaghe sulle mani» mi lamentai, cominciando subito a risciacquare i bicchieri prima di metterli nella lavastoviglie.

«Perché hai mandato Joseph da Amber? – mi domandò poi, andando dritto al sodo come sempre – Solo per guardargli il culo?»

«Ho visto che ha parlato con Dave, speravo mi avresti informata» risposi, ignorando la sua provocazione. Quando ci si metteva era proprio degno di Amber.

«Certo, ho sentito tutto» annuì, lanciandomi uno sguardo che non prometteva nulla di buono.

«Andrew – lo minacciai con un cucchiaio – Sputa il rospo e vedi anche di fare in fretta.»

«Sei nei casini, Phee. Dave ha deciso che ti rivuole e lo sai, in un modo o nell’altro ti avrà.»

Il bicchiere che avevo in mano cadde, rompendosi. Il rumore attirò l’attenzione di Joseph. ma soprattutto di Amber che, lanciandomi uno sguardo, mi fece capire quanto anche lei fosse preoccupata. Drew conosceva Dave da anni, non c’era motivo di pensare che non avesse ragione. E, per me, poteva solo significare un guaio ben peggiore di quanto non fosse la presenza di Joseph.

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Capitolo 7
*** VII ***


VII

 

 

 

Lanciai un’occhiata a Dave, ancora seduto a uno dei tavolini mentre parlava e rideva con Gary. Mi maledii di nuovo, ripensando a quanto ero stata stupida, cieca e totalmente innamorata di quel bel faccino e del suo fisico da cestista. Scossi il capo, riempiendomi di insulti come ogni volta in cui irrimediabilmente finivo a pensare a quel periodo, senza potermi capacitare di come fosse successo tutto. Era tutto ridicolo, a cominciare dal modo in cui mi atteggiavo nel presente, come se un anno prima non fossi stata umiliata a sufficienza da evitare gli specchi per settimane.

«Se vuoi andare ti consiglio di farlo ora – mi disse Drew, lanciando un’occhiata a Dave, mentre inconsapevolmente metteva un freno ai miei peggiori pensieri – Il Boss non lo terrà impegnato ancora a lungo e sai cosa farà quando sarà libero.»

Verrà a cercarmi.

«D’accordo» sospirai, sentendo l’adrenalina prendere possesso delle mie vene al posto del sangue, per quella fuga clamorosa che, ne ero quasi certa, in un modo o nell’altro sarebbe fallita. Guardai Amber, ancora intenta a confabulare con Joseph, e non potei evitare di chiedermi cosa diamine avessero sempre da dirsi. Fu forse con una punta di fastidio che li vidi sorridersi l’un l’altra. Innegabilmente erano diventati molto complici in poco tempo e lanciai un’occhiatina anche a Drew, per cercare di carpire i suoi pensieri dall’espressione del suo viso. Ricambiò il mio sguardo con divertimento, accompagnandomi fuori dal retro con la scusa di portare la cassa delle bottiglie vuote.

«Non guardarmi così, Phee» sogghignò e mi sentii come se fossi stata colta con le mani nel sacco. In quale sacco, però, non avrei saputo dirlo, anche se di certo Drew non aveva i miei stessi dubbi.

«Così come?» chiesi, facendo volutamente la vaga. Era stato un riflesso istintivo quello di voltarmi a curiosare la sua espressione, ma d’altra parte sapevo bene anche come fossero le dinamiche di coppia dei miei migliori amici: incrollabili.

«Come se ti aspettassi di vedermi geloso della mia ragazza che parla con Joseph, lo stesso Joseph che proprio Amber in persona cerca di infilarti a tradimento nelle lenzuola.»

Scoppiai a ridere di gusto. Il linguaggio di Drew era sempre stato senza peli sulla lingua e, nonostante si stesse parlando delle mie possibili relazioni sentimentali, in particolare con un personaggio da prendere con le pinze come Joseph, non potei proprio rimanere seria.

«Farò in modo che non ci riesca – sorrisi di nuovo, sentendomi improvvisamente incerta – A infilarmelo nelle lenzuola, dico.»

«Sarebbe sempre meglio di Dave – ribatté, inarcando le sopracciglia con espressione pensierosa – Spero vivamente che i suoi grandi occhi neri non ti facciano più perdere l’uso della ragione, Phee.»

Dio solo sapeva quanto avesse ragione, ma ero già riuscita a svicolarmi dalla morsa di Dave in passato e, se questa volta per tenermelo lontano avessi davvero dovuto rompergli una costola, beh, lo avrei fatto.

«Già. Vado sul serio adesso – sospirai, abbracciando Drew – Grazie mille per l’aiuto e chiedi scusa ad Amber da parte mia per non averla salutata. Immagino che non tornerà a dormire stanotte.»

«Probabilmente sì invece – mugugnò mentre mi allontanavo – Anche se non sembra, ne sono successe di cose stasera e vorrà parlarne bene con te.»

«Allora la aspetterò alzata» replicai, ma probabilmente non mi sentì. Stava già rientrando e io mi ritrovai immersa nella notte illuminata di Londra. Mi strinsi la giacca al petto, l’aria era piuttosto fresca e anche in tempi migliori non si poteva certo dire che dopo il tramonto in Gran Bretagna facesse caldo. E tra le altre cose gironzolare a piedi da sola alle tre di mattina per una metropoli del genere non era proprio una scelta saggia, ma l’avevo sempre fatto e non avrei avuto paura proprio quel giorno.

«Non dovresti andartene in giro da sola – disse infatti una voce alle mie spalle, voce conosciuta tanto quanto poco gradita, soprattutto in quel momento – Potresti incontrare dei personaggi poco raccomandabili.»

Tutti i miei tentativi di fuga andarono miseramente in fumo in pochi secondi. Dave.

«Come te, ad esempio?» chiesi senza mezzi termini, voltandomi spavalda a fronteggiarlo. I suoi occhi neri provarono a catturarmi come avevano sempre fatto, ma quella volta fallirono miseramente. Una parte del mio cervello registrò quanto gli occhi di Joseph fossero effettivamente molto più intriganti dei suoi e sorrisi, consapevole del fatto che Dave non avrebbe più avuto alcun potere su di me. Certamente avrei dovuto preoccuparmi dell’ascendente di quell’altro essere maledetto che mi tormentava, ma non in quel momento. Dovevo rimettere il seccatore al suo posto, prima di tutto.

«Mi sembra sia passato un secolo dall’ultima volta, amore mio – sorrise, avvicinandosi, e sentii le sue dita carezzarmi leggere la pelle del viso – Mi sei mancata da impazzire.»

Socchiusi gli occhi mentre le sue carezze riportavano alla mente momenti meravigliosi che, visti con il senno di poi, assumevano tutta un’altra prospettiva.

«Parli di prima o dopo che ti ho rotto il naso?» domandai sarcastica, allontanando il volto dalle sue dita troppo abili.

«Sei troppo irascibile, amore» sbuffò, avvicinandosi di nuovo. Per ogni passo che muoveva in avanti io ne muovevo uno indietro, cercando di mantenere le distanze. Peccato che finii contro un muro e più indietro di così non sarei potuta andare.

«Non chiamarmi amore.»

«Perché? Lo sei.»

«No che non lo sono, santo cielo!» esplosi, come da troppo tempo avevo bisogno di fare, e gli sputai in faccia tutta la mia collera repressa. Ero arrabbiata perché alla fine Dave mi aveva raggiunta e non ero riuscita ad impedirlo, ero arrabbiata perché mi considerava una sua proprietà e aveva sbagliato di grosso, ero arrabbiata perché Gary si appigliava ad ogni possibile scusa per non pagarmi gli straordinari, ero arrabbiata perché il giorno dopo sarebbe arrivata la ragazza di Joseph, ero arrabbiata e basta.

«Lo sei sempre stata, anche quando non volevi più esserlo» mi provocò, avvicinandosi così tanto che sentii il suo alito caldo sfiorarmi la pelle. Ero in trappola, me ne resi conto vedendo le sue mani appoggiarsi al muro ai lati della mia testa, e il mio respiro prese ad accelerare.

Così, presa dal panico alzai un ginocchio e lo colpii proprio all’inguine, quel maledetto inguine che avrei dovuto castrare molti mesi prima. Fu un colpo basso, molto basso, ma riuscii a fuggire dalla sua morsa maledetta mentre si contorceva accovacciato a terra in preda al dolore. Fu una scena piuttosto commovente, a dire il vero, un’interpretazione degna di un premio Oscar, ma ad ogni modo si riprese piuttosto in fretta, troppo in fretta, perché mi agguantò un polso facendomi voltare per infilarmi la lingua dritta tra le labbra e farmi una specie di ispezione del cavo orale, tanta era la foga che ci stava mettendo. E non doveva andare così, io dovevo riuscire ad allontanarmi. Non volevo stare in balia di Dave, non…

Ok, Phoebe, respira, mi dissi. Lo spintonai via, schiaffeggiandogli una guancia con violenza. Peccato che la sua mano fosse ancora stretta intorno all’altro mio polso e non avesse intenzione di allentare la presa, così mi ritrovai strattonata a mia volta mentre indietreggiava.

«Lasciala» disse una voce determinata, intromettendosi in quel quadretto inquietante. Una voce che, per la prima volta nella mia vita, accolsi come la manna dal cielo.

«Chi diavolo saresti, sentiamo? – sputò Dave al nuovo arrivato – Ti ho visto prima mentre parlavi con Phoebe al bancone, siete troppo intimi. Lei è mia

«Ehi – ringhiai, tirandogli un calcio negli stinchi – Potresti anche parlare come se io fossi qui perché, vedi, io sono qui. E le tue patetiche scenate di gelosia non voglio nemmeno sentirle.»

«Lasciala» ripeté Joseph con calma serafica, avvicinandosi di un passo. Lo guardai avanzare con quel suo incedere elegante, le mani in tasca e l’espressione decisa e fiera. Era maestoso. Non aveva nessun senso quel pensiero, ma era tutto ciò che la mia mente riusciva a formulare, pressata com’era dal dolore al polso. Probabilmente stava recitando, mi trovavo di fronte a quel vampiro sanguinario per cui Amber andava pazza.

«D’accordo» sogghignò Dave. Mi sospinse in avanti e volai con le ginocchia a terra, mentre lui si lanciava verso Joseph con una furia spietata. Perché non era capace di risolvere le situazioni in modo civile, maledizione?

Portai le mani alla bocca mentre il terrore mi invadeva il corpo, bloccando ogni mio movimento. Grazie al cielo il primo colpo andò a vuoto, e anche il secondo. Ma, proprio mentre cominciavo a sperare che l’agilità di Joseph, che sembrava non avere nessuna intenzione di contraccambiare tutti gli affondi subiti, fosse abbastanza, ecco che Dave centrò il suo viso con un pugno per fortuna non troppo assestato. Sicuramente non gli ruppe il naso, ma lo fece barcollare all’indietro con l’espressione stravolta dal dolore.

«D’accordo, adesso basta. Smettetela» sibilai, frapponendomi tra loro. Davo le spalle a Joseph, era quello di cui mi fidavo di più e di cui non temevo attacchi, rapimenti o chissà che altro. Se mi fossi trovata in altre circostanze, avrei riso della fiducia sconsiderata che riponevo in lui.

«Ti preoccupi per noi? – mormorò l’idiota, prendendomi il viso tra due dita – O soltanto per me?»

«Sono gelosa, Dave – sibilai con pesante sarcasmo, scostando la sua mano di malagrazia – Non mi va che qualcuno prenda a pugni il tuo viso. Solo io voglio avere questo onore.»

«E sei anche brava – ridacchiò, non capendo minimamente che facessi sul serio. Quanto era idiota! Più me ne rendevo conto e mi sentivo idiota a mia volta – Mi hai rotto il naso l’ultima volta.»

«Mi rammarico solo di non averti spezzato qualcos’altro» replicai, arretrando di un passo. Sentii le dita di Joseph insinuarsi tra le mie e le strinsi debolmente, come per rassicurarlo.

O forse per sentirmi rassicurata.

Però, comunque, apprezzai come, nonostante fosse venuto in mio soccorso da buon principe azzurro dei miei stivali, mi stesse lasciando fare a mio modo. Non voleva intromettersi, voleva che chiarissi ogni problema come più mi andava, e gliene fui immensamente grata. Con Dave non sarebbe servito a niente fare a botte, non avrebbe mollato la presa su di me se davvero era intenzionato a riavermi.

«Non me lo dai un bacino della buonanotte, amore?» sogghignò di nuovo, scrutandomi a fondo con i suoi penetranti occhi neri.

Per tutta risposta gli mollai l’ennesimo schiaffo, artigliando poi le dita in modo da lasciargli tre profondi graffi lungo tutta la guancia destra. Poteva interpretarlo come più gli aggradava, ma certamente mi ero presa la mia vendetta personale per essere stata baciata a tradimento, oltre che per la nottata inevitabilmente rovinata.

«Questa è la buonanotte che ti meriti, razza di idiota – sbottai con rabbia, sorpassandolo con una spallata senza mollare la presa sulla mano di Joseph – Porta quei graffi a Elettra. Vorrei solo vedere come reagirà, capendo che non sono del suo gatto.»

E lo piantammo in asso, nel bel mezzo di Londra, mentre spedita come un treno mi dirigevo verso casa. Ci sarebbero voluti almeno altri quindici minuti a piedi, così mi sentii tirare un polso da Joseph. Mi voltai, vedendo che aveva chiamato un black cab, ma non avevo la forza per protestare. Mi limitai a seguirlo passivamente, lo sguardo perso nel vuoto e come unico appiglio alla realtà le sue dita, che mi trasmettevano tutto il calore di cui avevo bisogno in quel momento.

Mi resi conto vagamente della sua voce che diceva l’indirizzo di casa mia al tassista, così come per inerzia scesi dal taxi quando lo stesso Joseph mi aprì la portiera.

«Ehi – provò a chiamarmi, chiudendo le mani a coppa sulle mie guance – Come stai?»

Forse fu la sua voce, i suoi occhi o la sua vicinanza a farmi ridestare, non avrei saputo dirlo con certezza, ma spalancai gli occhi di botto e lo spinsi via.

«Non c’era minimamente bisogno di fare il cavaliere, me la sarei cavata benissimo da sola» dissi con stizza, guardandolo con superiorità.

«Questo è il ringraziamento per il mio aiuto, ragazzina?» sbuffò incredulo, scuotendo il capo con disapprovazione. Cosa si aspettava, che stendessi un tappeto rosso? Poteva benissimo tornare a Hollywood, se la sua massima aspirazione era quella di camminare su uno zerbino di velluto.

«Aiuto che nessuno ti ha chiesto» precisai, fulminandolo con gli occhi. Ma ciò che vidi non era  quello che mi aspettavo, così mi avvicinai lentamente, alzando una mano per sfiorargli il viso.

«Che fai?» mugugnò contrariato mentre le mie dita toccavano il suo naso dolorante.

«Il tuo naso sta sanguinando – sussurrai preoccupata – Non te ne accorgi?»

Alzò una mano per tastare il liquido viscoso che gli imperlava il labbro superiore, portandola inevitabilmente sopra la mia. Ebbi un fremito, rendendomi conto di quanto fossimo vicini.

«Vieni, ti do un po’ di ghiaccio – sogghignai poi, allontanandomi verso la porta d’entrata – Non vorrei che perdessi il tuo bel nasino per strada.»

Lo sentii ridacchiare e improvvisamente mi ricordai di una frase che mi aveva rivolto giorni prima.

Phoebe, detta anche la donna che uccideva l’atmosfera.

Sorrisi anch’io senza farmi vedere: aveva ragione, dopotutto.

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Capitolo 8
*** VIII ***


VIII

 

 

 

Era da più o meno dieci minuti, ovvero da quando avevamo messo piede in casa, che mi stavo mentalmente riempiendo di insulti neanche troppo femminili per la delicata situazione del cazzo in cui mi ero andata a cacciare. Volontariamente, per di più!

Dalla padella alla brace. Era un modo di dire, ma sembrava che in quel caso suonasse a meraviglia.

Joseph era seduto su una sedia della cucina e io, mentre tamponavo il suo naso con dell’ovatta, ero praticamente a cavalcioni sulle sue gambe, perché il signorino sembrava fare apposta a stare il più comodo possibile. Finiva così che l’unico modo che avevo per non perdere l’equilibrio era proprio stare in quella posizione compromettente mentre guardavo la sua faccia da schiaffi con quell’espressione così dannatamente soddisfatta e divertita sul volto. Avrei dovuto concludere l’opera iniziata da Dave, cioè rompergli quel nasino delicato, non medicarlo. Al diavolo tutte le buone azioni del mondo! Dopotutto, rompere il naso agli uomini mi riusciva molto più facile rispetto a qualunque altra interazione potessi avere con loro.

«Ti vedo rigida» mormorò vagamente sarcastico, cercando di muovere il volto il meno possibile. Per tutta risposta premetti un po’ più forte il batuffolo sulla sua pelle, provocandogli un gemito di dolore e protesta che non riuscì a trattenere.

«Sono scomoda» sibilai inviperita, rovesciandogli addosso tutta la mia stizza per quella situazione in cui mi aveva costretta. Se non fosse stato così supponente e ironico, non sarebbe stato difficile trovare un modo per incolpare Dave anche di quella situazione, ma la verità era che preferivo riempire di insulti Joseph, in un certo senso c’era più gusto. O forse, semplicemente, avere davanti la sua faccia nutriva la mia vena poetica.

«Basta fare così» replicò, la voce ancora più bassa e ancora più sensuale. Non capii cosa intendesse fino a quando non sentii le sue mani posarsi sui miei fianchi e scendere con lentezza esasperante lungo le cosce fino alle ginocchia. Le sue dita premettero sulle mie gambe, che cedettero, e mi ritrovai seduta.

Su di lui. A cavalcioni. Bene.

«Cosa diavolo fai, di grazia?» ringhiai, provando ad alzarmi. Peccato che le sue mani fossero ancora fossilizzate sulle mie ginocchia e non avessero intenzione di muoversi.

«Ti faccio stare comoda. E non stringere così tanto quell’ovatta, non ti ha fatto niente.»

«Al contrario di te, vero?»

Il suo viso era pericolosamente vicino al mio, non ci avrei messo molto a tirargli un pugno, ma non ci avrei messo molto nemmeno ad avvicinarmi e a baciarlo. Sarebbe stato così semplice…

Mi sfiorò una guancia con le dita e distrattamente realizzai che la sua mano non mi stava più bloccando le gambe. Avrei potuto alzarmi con facilità, ma sembrava che il mio corpo non volesse rispondere alla mia mente, così rimasi ben piantata sul mio trono d’eccezione a godermi le carezze di Joseph. Mi scostò una ciocca di capelli, portandola dietro la mia spalla, e socchiusi gli occhi quando la sua fronte si accostò alla mia e i nostri nasi si sfiorarono.

«Ti prego, non scappare – sussurrò, chiudendo le mani a coppa sulle mie guance – Non di nuovo.»

«Joseph» sospirai, sentendo i suoi polpastrelli sfiorare la pelle sottile sotto gli occhi, dove sicuramente campeggiavano due enormi occhiaie. Dovevo fermarlo, dovevo fermarci prima che succedesse l’irreparabile. Ci eravamo troppo vicini.

«Zitta, sta’ zitta.»

«La tua ragazza» mormorai in una blanda protesta che, però, non ebbe effetto.

La mia compagna stronza dell’ultimo anno di liceo.

«Non distruggere tutto un’altra volta» mi implorò, sfiorandomi le labbra in una carezza così lieve che pensai di essermela immaginata. Avevo completamente perso il controllo del mio corpo, non sapevo cosa fare, come farlo. Ero alla deriva.

Ero in una situazione compromettente, seduta in quel modo su di lui, qualunque movimento avrebbe scatenato un qualcosa di irrefrenabile, eravamo troppo a contatto, così vicini che il suo calore diventava mio.

Avevo perso, no? Tutta la mia fatica per tenerlo a distanza era andata clamorosamente in fumo, eppure non si decideva a baciarmi come si deve. Se dovevo alzare la bandiera bianca, che fosse almeno per un motivo valido come un bacio passionale di quelli che ti facevano ritrovare senza vestiti, sul pavimento, senza nemmeno accorgertene.

Invece no, rimaneva lì fisso con gli occhi nei miei, così vicini che quasi non riuscivo a guardarli. Mi sembrava che volesse leggermi dentro, come se davvero ci fosse altro, un'altra fetta di desiderio oltre a quella che non stavo più nascondendo. Mi sentivo impotente, non c’era più modo di fermare le pulsazioni del mio cuore impazzito e nemmeno la mia testa, che lavorava frenetica cercando già un argomento per il dopo, perché sapevo che non ci saremmo fermati ad un semplice bacio.

Ero ridicola e sentii le mie guance imporporarsi al pensiero che Joseph potesse capire le stupidaggini che mi passavano per la testa.

Tuttavia, però, qualcosa ci interruppe di nuovo. E di nuovo si trattava del campanello.

Non potevo crederci, davvero. Le mani di Joseph, che mentre rimuginavo sulle mie idiozie si erano spostate sotto la maglietta, lungo la spina dorsale, si bloccarono di colpo e senza fretta tornarono sui miei fianchi, per poi allontanarsi dal mio corpo.

Non riuscivo a capire se fossi effettivamente grata per l’interruzione di quella specie di resa dei conti oppure fossi dispiaciuta per non aver assaggiato una volta per tutte le labbra di Joseph. Che ormai lo volessi e fossi disperatamente attratta da lui mi sembrava ovvio, e negarlo anche a me stessa sarebbe parso davvero fuori luogo.

«Phee, ti prego, dimmi che ci sei e che stai bene» esclamò Amber, la voce ovattata sul pianerottolo, per evitare di svegliare i vicini.

«Per essere una che tifa per me – sussurrò Joseph guardandomi negli occhi, le labbra così vicine che ad ogni parola sfioravano le mie, procurandomi una serie infinita di brividi lungo la schiena – Ha un tempismo davvero orribile.»

Sogghignai lievemente per dissimulare l’imbarazzo, scampando alla sua presa per l’ennesima volta, mentre mi avviavo verso la porta con tutta calma. Quando aprii, ovviamente con una buona dose di fatica perché non eravamo ancora riuscite a far avanzare i soldi per chiamare qualcuno che la aggiustasse, la mia migliore amica si precipitò all’interno, blaterando senza sosta mentre dietro di lei uno sconsolato Drew si prendeva l’onere di litigare con la porta, scuotendo il capo per la logorrea della sua fidanzata.

«Oddio, Phee, mi dispiace così tanto – stava dicendo, agitando le mani come se fosse stata posseduta dal demonio – Quando Dave è venuto da me a chiedermi se Joseph fosse il tuo ragazzo non sono riuscita ad inventarmi niente, ho dovuto dirgli la verità. Mi aveva presa troppo alla sprovvista! Oddio!»

«Non fa niente, rilassati – mugugnai, cercando senza successo di interrompere il suo sproloquio, più ingovernabile di un fiume in piena – Se anche tu gli avessi detto una bugia avrebbe lo stesso trovato il modo di scoprirlo.»

«Ma mi sento in colpa – gemette con voce stridula, portandosi le mani nei corti capelli biondi, arruffandoli fino a sembrare quasi un ombrellone – Spero davvero che non ti abbia raggiunta! Quando l’ho visto uscire ho cominciato ad agitarmi come una pazza… dillo a Drew, avevo paura di svenire. Così ho mandato Joseph a cercarti, ti ha trovata? Oddio, dimmi che ti ha trovata!»

«Sì – annuii, spiegandole a grandi linee l’accaduto – È arrivato proprio mentre Dave stava iniziando ad essere insistente e siamo riusciti ad andarcene, fortunatamente.»

«Come sarebbe a dire che Dave stava diventando insistente?» indagò, avvicinandosi di qualche passo. Continuava a dare imperterrita le spalle alla cucina e vidi distrattamente Joseph sogghignare, divertito dall’irruenza e dalla preoccupazione di Amber. Notai anche Drew fargli un cenno con il capo, se non altro lui si era accorto della sua presenza.

«Niente, come al solito – sbuffai, cercando di ignorare Joseph che a gesti mi diceva che gli avrebbe tagliato la gola – Sai com’è fatto lui, no?»

«Sì, sì – blaterò, agitando la mano come se stessimo parlando di quisquilie rispetto all’argomento che, se la conoscevo almeno un po’, stava per sganciare come una bomba – Comunque spero anche che tu l’abbia ringraziato come si deve, Joseph intendo, magari infilandogli la lingua in…»

S’interruppe, sentendo la risata del diretto interessato arrivare proprio dalle sue spalle. Si voltò di scatto mentre le sue guance si imporporavano leggermente. Era un evento più unico che raro vedere il vulcano Amber arrossire d’imbarazzo e mi godetti lo spettacolo dalla prima fila, divertita nonostante si stesse parlando dei miei affari privati e di quello che, secondo lei, avrei dovuto fare – e che tra l’altro avevo quasi fatto, prima che lei giungesse a salvarmi per l’ennesima volta con il suono del campanello.

«Purtroppo no – sogghignò Joseph, un gomito posato sul tavolo e la mano che sorreggeva il suo mento velato di barba – La lingua di Phoebe si è mossa solamente per parlare a sproposito, come al solito, ma niente ringraziamenti. Neanche a parole.»

«Vai al diavolo, altrimenti ti romperò il naso – berciai, incrociando le braccia con stizza – Dico davvero.»

«D’accordo» esclamò Amber, roteando gli occhi con impazienza mentre si frapponeva tra me, che stavo partendo alla carica per andare a ucciderlo, e Joseph.

«D’accordo un…»

«Phoebe» ringhiò la mia migliore amica, imponendo la sua voce al di sopra della volgarità che stava per uscirmi dalle labbra. Quel maledetto attore da quattro soldi sembrava avere il potere, oltre alla capacità di farmi perdere l’uso della ragione, di farmi diventare davvero, ma davvero volgare. Una vocina nella mia testa, la voce della coscienza che inspiegabilmente assumeva lo stesso tono di Amber, mi fece notare che diventavo scurrile solo quando non riuscivo a gestire le situazioni e, beh, non ci voleva certo il grillo parlante dei poveri per farmi notare che Joseph decisamente non era governabile nemmeno con il mio talento per l’organizzazione.

«Che vuoi?» sbuffai, incrociando le braccia al petto. Voltai il capo verso la finestra, mantenendo lo sguardo ostinatamente fisso per evitare di incrociare il sorriso sarcastico di quel maledetto che prima o poi avrei ucciso. Cianuro o arsenico, qualche modo l’avrei trovato. Lo dovevo a me stessa.

«Io vado da Drew – mi disse, una vena sadicamente divertita nella sua maledetta voce – Non c’è bisogno della mia presenza qui, Joseph basta e avanza.»

«Sì, avanza decisamente» replicai secca, tornando a puntare il mio sguardo tagliente su di lui.

«Non voglio saperne – si arrese Amber – Come ti ho detto, vado a dormire dal mio fidanzato. Spero, domani quando tornerò, di non vedere la testa di Joseph rotolare per il soggiorno. Buonanotte. Ciao Joseph, mi raccomando abbi cura di te.»

E si defilò, portandosi dietro il suo ragazzo che ebbe appena il tempo di mugugnare un saluto prima che il tornado Staveley lo trascinasse giù per le scale e poi per Londra.

«Devo andarmene anch’io al più presto, vero?» sussurrò Joseph, avvicinandosi con calma. Era serio, sembrava stesse valutando quale sarebbe stata la mia reazione ad ogni cosa avesse detto.

Annuii, incapace di parlare. Vedergli quell’espressione in viso mi aveva fatto passare tutta la spavalderia. Volevo che restasse. Ma la presenza di Emily che aleggiava sulle nostre teste come una scure mi impediva di lasciarmi andare.

Lo accompagnai alla porta e si voltò a guardarmi. Provò di nuovo a baciarmi, in un modo così diretto che non mi sarei certo aspettata da lui, ma scostai il viso e le sue labbra sfiorarono la pelle della mia guancia, pericolosamente vicino all’angolo della bocca. Dio, erano così morbide, così calde, le volevo disperatamente, ma avrei fatto in modo di non averle per un bel pezzo.

«Ho perso il treno per stasera, vero?» sussurrò, carezzando la mia mandibola e poi il mio collo con il naso. Inspirò il mio profumo a pieni polmoni, per poi lasciare un lieve bacio appena sotto l’orecchio, laddove la pelle era più morbida e sensibile.

«Buonanotte, Joseph» sussurrai, forse troppo poco convincente, sentendo che non aveva nessuna intenzione di allontanarsi da me. Ma d’altra parte non avevo la forza per dirgli che aveva perso ogni treno possibile, non ero brava a dire bugie.

Ridacchiò lieve, allontanandosi finalmente, e la sua voce profonda mi fece vibrare il petto e l’anima. Mi sentii sospinta verso di lui da un istinto prepotente, che mi gridava di tuffarmi tra le sue braccia e baciarlo e farmi spogliare e toccare e amare lì, sul pianerottolo o in qualunque altro posto, ma farlo subito. Così artigliai le dita nel legno della porta, inspirando bruscamente, dandogli l’ennesimo segnale di quanto fossi in balia delle sensazioni che mi dava.

«Buonanotte, ragazzina» replicò in un soffio. Lanciò un’ultima occhiata famelica alle mie labbra e poi si dileguò giù per le scale. Rimasi a fissare la sua schiena allontanarsi e, quando dal portone d’ingresso si voltò per sorridermi, non riuscii ad impedire alle mie labbra di ricambiare.

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Capitolo 9
*** IX ***


IX

 

 

 

Era lunedì. Di nuovo.

Ed effettivamente non si poteva negare che avessi passato un fine settimana d’inferno. Prima Dave, poi Joseph, sempre Joseph, poi mia madre che rivendicava dei diritti su di me e infine anche quella infame traditrice di Amber. La mia migliore amica era stata peggio di una coltellata tra le scapole, per dirla senza mezzi termini, e mi aveva giocato un tiro mancino di quelli che non si potevano nemmeno descrivere a parole. E quel che era peggio era che l’aveva fatto di proposito. È ora di darsi una bella svegliata, mi aveva detto. Al diavolo.

«Cos’è quel muso lungo, Phoebe cara?» chiese la signora Flynn, passandomi a fianco con un carrellino stracolmo di libri ancora impacchettati. La guardai di sbieco, dall’alto della scala su cui ero abbarbicata da almeno venti minuti, e sbuffai sonoramente.

«C’entra ancora il nostro bellissimo Joseph?» tubò, quasi canticchiando. Il suo umore così sgargiante mi dava praticamente sui nervi. Di sicuro era colpa del fatto che fosse lunedì, lei era più felice perché era scampata all’ennesimo weekend dai parenti di suo marito e io ero sempre più stanca dalla settimana precedente. In particolare, da quell’ultimo sabato sera che aveva ucciso il mio già molto precario equilibrio, con Dave che cercava di baciarmi, Joseph che cercava di baciarmi, entrambi che cercavano di farmi uscire di testa.

« Il nostro bellissimo Joseph? – riecheggiai incredula, sistemando con un colpo secco un tomo enorme che proprio non ne voleva sapere di stare al suo posto – Non le sembra di esagerare?»

«Certo che no, mia cara – rispose continuando a passarmi libri, incurante del fatto che fossi appesa come una scimmia e che farmi agitare avrebbe potuto fruttarle un sacco di soldi in assicurazione, nel caso in cui mi fossi sfracellata al suolo come una pera troppo matura – Mi sembra anche abbastanza palese il fatto che sia bellissimo. Oppure, se non vuoi usare quella parola, puoi sempre dire affascinante, carismatico, sensuale, magnetico

«D’accordo, basta – la interruppi forse poco cortesemente – Ho capito.»

Era una congiura, tutti quanti sembravano essersi messi d’accordo per parlarmi di quell’essere. Era appiccicoso anche quando non c’era, per l’amor del cielo! Erano tutti affascinati da lui, ma possibile che solo io non sentissi quel bisogno disarmante di ammirarlo e adorarlo come un dio?

Bugiarda, mi dissi. Non ci credevo nemmeno io a quel pensiero idiota che avevo appena formulato; era solo il mio orgoglio che mi impediva di lanciarmi clamorosamente tra le braccia di quell’attore da quattro soldi, che però sembrava davvero tanto, tanto giusto. Non sapevo per cosa di preciso fosse giusto, ma non mi venivano in mente altre parole così azzeccate come quella.

«Ad ogni modo – trillò di nuovo la bibliotecaria, dopo un momento di silenzio in cui avevo inutilmente sperato che avesse deposto la sua maledetta curiosità. Mi diedi della stupida, dopo più di tre anni in cui la conoscevo non avevo ancora imparato ad aspettarmi il peggio, ad accorgermi quando stava macchinando qualcosa – Non mi hai ancora detto se per caso è successo qualcosa che ha a che fare con Joseph.»

«Assolutamente no – replicai, distogliendo lo sguardo velocemente – Stavo soltanto pensando ad un film che ho guardato ieri sera con Amber.»

«Oh, d’accordo, scusami se ho tratto le conclusioni sbagliate. Vado a mettere sul fuoco l’acqua per il the» annuì, per poi allontanarsi silenziosa. Non mi convinceva affatto quella donna, si comportava in un modo un po’ strano. Era dannatamente palese che qualcosa stesse ronzando nel suo cervello, ma avevo la testa altrove e l’ultima cosa che volevo era decifrare i comportamenti di una signora di mezza età, specialmente se era la mia datrice di lavoro.

Alzai lo sguardo, rendendomi conto che qualcuno aveva sistemato dei libri in modo davvero vergognoso e disordinato, così provai ad arrampicarmi un pochino di più per sistemarli. Quella scala non era abbastanza alta, però, così dovetti poggiare un piede sul ripiano di uno scaffale, su cui a malapena c’era lo spazio necessario perché si posasse la polvere. La mia caviglia resse per un po’, giusto il tempo per farmi sistemare il volume fuori posto, e poi cedette. E caddi. E urlai.

Mi ritrovai a precipitare nel vuoto senza nemmeno rendermene conto; ero stranamente preparata a un impatto violentissimo, che mi avrebbe spezzato in due la spina dorsale senza possibilità di rimedio – una parte del mio cervello ponderò il fatto che, forse, su una sedia a rotelle Dave e Joseph mi avrebbero trovata meno attraente. Sentii l’aria venire risucchiata dai polmoni e i miei occhi riempirsi di lacrime. Non ero stata così male nemmeno quando, solamente una settimana prima, mi ero lanciata praticamente sotto il muso nero di quel black cab d’epoca.

Però c’era qualcosa di strano, riflettei. Non mi sembrava che il pavimento fosse così poco doloroso e così avvolgente. E decisamente non era così profumato, anche se io stessa lo lavavo ogni giorno. Non mi sembrava nemmeno che avesse delle mani così calde, così adatte a circondare la mia schiena. No, decisamente non era il pavimento, o non avrei potuto abbarbicarmi al suo collo come se fosse stato la mia ancora di salvezza. E lo era, effettivamente.

Le dita del pavimento presero a carezzarmi lievemente i fianchi, per quel poco che potevano muoversi, ma non accennai a rilassare la schiena o a mollare la presa. Mi ero spaventata a morte, quella volta avevo davvero creduto che sarebbe andata a finire male. Eppure lui mi aveva salvata.

Lo avevo già sentito quel profumo.

Trovai finalmente il coraggio e la forza di alzare il viso dall’incavo del collo del mio salvatore e la mia guancia strofinò contro un’altra guancia decisamente più ruvida. Barba, c’era un lieve accenno di barba su quel viso. Non ero poi così lucida, evidentemente, visto che non riuscivo a immaginarmi chi fosse.

Non dovevo per forza conoscerlo, effettivamente. Magari era un ragazzo bellissimo, uno studente della facoltà di medicina che mi aveva vista passare per le strade di Londra, mi aveva pedinata e ora mi aveva salvato la vita. Magari con due profondi occhi azzurri e la voce…

«A volte mi chiedo come tu abbia fatto a sopravvivere senza di me in questi ultimi venticinque anni» sogghignarono le sue labbra perfettamente disegnate, carnose, rosse. Da mordere.

Oh. La voce decisamente c’era. Gli occhi anche. Il carattere, invece…

«Joseph» ansimai, rendendomi conto solo in quel momento di quanto il mio cuore stesse palpitando furiosamente. Ero riuscita a farmi un film da premio Oscar in soli due minuti, senza pensare all’opzione più ovvia.

Ridacchiò, voltando il capo per incrociare il mio sguardo sbarrato. Di nuovo, per l’ennesima volta, mi ritrovai con le labbra ad una millimetrica distanza dalle sue. Perché finivamo sempre così, maledizione?

«Ciao Phee» sussurrò, abbassando lo sguardo sulle mie labbra. Mi domandai quando gli avessi dato il permesso di storpiare il mio nome come solo Amber e Drew potevano fare.

«Puoi mettermi giù, comunque – gli feci presente, voltando il capo dalla parte opposta rispetto al suo viso, così tentatore e peccaminoso – Non mi sono fatta niente, questa volta.»

«Ti ho già detto cosa fai?» sogghignò, cercando di nascondere la delusione per quel bacio mancato. Le stava provando tutte, realizzai. Aveva provato a baciarmi con calma, cogliendomi all’improvviso, bloccandomi la fuga, provocandomi e in altri modi, ma nessuno era ancora andato a buon fine fino a quel momento. Forse avrebbe dovuto prendere in considerazione l’idea di smetterla, di lasciarmi perdere e di tornarsene in America.

No.

«Certo – sospirai, roteando gli occhi con impazienza – Uccido l’atmosfera.»

«Esatto – annuì vigorosamente, per poi schioccarmi un bacio sulla fronte. Ma basta! – Ad ogni modo, è già da un po’ che non ti chiedo più della tua schiena. Come sta?»

«È piena di croste. Grazie per avermelo ricordato, seccatore!» sbuffai, allungando una mano per grattarmi. Non mi ci doveva far pensare, non doveva ricordarmi che su quella dannata schiena c’era qualcosa che prudeva fino all’inverosimile, dannazione.

«Sta’ buona» mi blandì divertito, fermandomi i polsi e stringendoli lievemente tra le sue dita. Oh, grazie! Non gliel’avrei detto, chiaramente, non era il caso che si allargasse ancora di più.

«E il tuo naso?» domandai vaga, chiedendomi per quale motivo fossimo ancora lì sommersi dai libri e non stessimo tornando verso il bancone a berci il the.

«Come nuovo» ammiccò. Effettivamente, notai, non c’erano segni violacei da nessuna parte.

«Che fortuna.»

«Ad ogni modo – insinuò, avvicinandosi come un predatore – Ho sentito Amber, questa mattina.»

«Ma davvero?» mi sentivo in trappola, e non parlavo solo delle sue mani che dai miei polsi si erano spostate sui ripiani ai lati della mia testa, e nemmeno dei suoi fianchi stretti posati senza mezzi termini sui miei, ma piuttosto di ciò che avrebbe detto di lì a poco. Sentivo che non sarei riuscita a controbattere e fuggire ancora.

«E mi ha detto – le sue labbra si spostarono verso il mio orecchio e prese a parlare solleticandomi la pelle. Sarei impazzita, oh sì, l’avrei fatto – Che ieri sera avete visto un film di cui non ricordo il titolo… Ah, sì. Ben Hur

Boccheggiai, il respirò mi si mozzò in gola e sentii le mie guance avvampare in un attimo. Ma no, cosa stavo dicendo? Non stavo avvampando, andavo letteralmente a fuoco. Non ci voleva uno studio per capire quanto fossi arrossita, ma il calore non arrivava solo da lì. E nemmeno dal corpo di Joseph, sempre così caldo, no. Arrivava dal mio corpo, dal mio ventre, e si stava diffondendo ovunque. Così mi dimenai a disagio, stringendo con forza le gambe tra loro, con il solo risultato di aderire ancora di più al suo corpo.

Sentii la sua risata giungermi lieve all’orecchio, insieme alle sue parole così dannatamente peccaminose. Perché mi faceva questo? Perché si divertiva ad avermi in pugno?

«Ti è piaciuto?»

Mi morsi il labbro inferiore per evitare di sospirare, gemere o addirittura urlare. Non doveva parlarmi così, non avevo autocontrollo sufficiente a resistergli, l’avevo esaurito tutto in quella scorsa settimana. Se solo ci avesse provato mi sarei fatta prendere lì, contro uno scaffale di quella maledetta biblioteca.

«Preferivo – tentai, umettandomi le labbra improvvisamente secche. Ringraziai che avesse il viso sepolto nel mio collo o non avrei potuto compiere un gesto così azzardato – Preferivo quello del 1959: molto più realistico.»

«Amber mi ha anche detto – sussurrò sulla mia pelle, carezzandomi con le labbra la mandibola fino al mento, che baciò leggermente – Che l’hai trovato molto interessante

«Amber segue da anni un corso di teatro» mugugnai, sentendo i miei occhi chiudersi da soli quando i suoi fianchi presero a strofinarsi contro i miei. Sarei impazzita, sì, decisamente.

«Phoebe…» il mio nome suonava così bene se pronunciato dalla sua voce profonda, non doveva essere così. Le sue labbra si posarono sulle mie e lo sentii sorridere vittorioso. Se fossi stata padrona del mio corpo probabilmente anch’io avrei sorriso. Dopotutto, era ora.

«Joseph? – chiamò una voce fastidiosa qualche scaffale più in là – Ma dove ti sei cacciato?»

Joseph mi morse lievemente il labbro inferiore con stizza, per poi tirare un pugno al ripiano in legno che ci aveva fatto da sostegno fino a quel momento. Si allontanò da me e mi guardò implorante, forse colpevole, ma non capii per quale motivo.

Tra l’altro, avevo già sentito quella voce, ma non riuscivo a ricordarmi dove, quando o perché. Sicuramente Amber avrebbe saputo dirmelo o forse l’avrei saputo anch’io se fossi stata un po’ più lucida.

Mi leccai lentamente le labbra per assaporare bene quel bacio mancato. Era buono, troppo buono. Forse non avrei saputo accontentarmi di un solo bacio, forse non avrei saputo accontentarmi solo di baciarlo. Ma lui aveva una ragazza, e io ero una semplice venticinquenne inglese che non aveva nessuna attrattiva se non quella di un carattere pessimo e intrattabile. Così, improvvisamente, una consapevolezza piovve dal cielo e mi colpì come un pugno.

Emily. Era quella la voce che stava chiamando Joseph. E lui aveva osato baciarmi con la sua ragazza a pochi metri di distanza? Non sarebbe stato affatto male scatenare un putiferio con la sua fidanzatina, io non ero un maledetto gioco!

Se avessi avuto la mente un po’ più lucida forse mi sarei resa conto che era un rischio davvero enorme baciarmi in una situazione del genere ma, se anche l’avessi realizzato, sicuramente avrei attribuito tutto ad un patetico gioco del suo smisurato ego maschile, non ad un reale interesse.

«Joseph, ma dove…» la sua figura comparve improvvisamente dalla corsia, entrando nel mio campo visivo con la violenza di un pugno, e scoprii di non essere pronta a rivederla, dopo sei anni. Forse non sarei riuscita a fingere di nuovo un’amicizia così solida come quella che aveva sempre sbandierato per i corridoi del liceo.

«Ciao Emily» sorrisi sarcastica, vedendo la sua mandibola pronunciata sfracellarsi al suolo insieme a quella di Joseph.

«Phoebe» allibì. Oh, sì, sarebbe stato divertente.

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Capitolo 10
*** X ***


X

 

 

 

Per un momento fu quasi piacevole realizzare come la mia mente fosse lucida e in grado di analizzare ogni singolo movimento di quello strambo triangolo formato da me, Emily e Joseph. Se da una parte non riuscivo a non essere sconvolta per essermi trovata davanti la sua dannata faccia spigolosa e arrogante, dall’altra ero anche tremendamente divertita per l’espressione che aveva assunto Joseph dopo aver scoperto che la sua ragazza e quella che, a quanto sembrava, aveva puntato come amante si conoscevano dai tempi dell’infame adolescenza.

Così, dal nulla, realizzai che l’avrei fatta pagare a Joseph per avermi trattata esattamente come Dave. Perché, dopotutto, era quello che stava facendo. Voleva fare il porco con me pur essendo fidanzato. E io ne avevo decisamente basta di essere l’altra, quella messa al secondo posto, quella per cui non valeva la pena di buttare all’aria una storia, per quanto fasulla.

Il gioco non valeva la candela. Ero un gioco di merda, in sostanza.

Quindi, secondo quel ragionamento che nella mia testa non faceva una grinza, avevo deciso che mi sarei comportata con Emily come una vera amica, come lei tanto si spacciava al liceo e si stava spacciando anche in quel dannato momento. E avrei fatto venire i capelli bianchi a Joseph, oh sì.

«Dio, dolcezza, sei uno splendore» esclamai, andando incontro alle sue braccia aperte. Ovviamente prima osservai attentamente che nelle sue mani non si nascondessero cose come coltellini svizzeri o armi di sorta.

«Anche tu – disse con uno squittio troppo acuto. La sua voce mi feriva le orecchie e destabilizzava la mia glicemia. Era così stucchevole, sarei diventata diabetica e lei l’avrebbe avuta vinta per l’ennesima volta – Non credevo nemmeno che ti avrei rivista dopo il liceo!»

«Ha dell’incredibile, vero? – ridacchiai, passando un braccio attorno ai suoi fianchi mentre mi voltavo per guardare Joseph, la cui espressione sbigottita mi ripagava almeno in parte per la sofferenza che stavo facendo passare alle mie orecchie – E pensa che è tutto merito di quel simpaticone del tuo ragazzo.»

«Vedi – sospirò, mandandogli un bacio volante che subito fu ricambiato – È un uomo perfetto!»

Certo, un uomo perfetto che ti cornifica, cretina. Non sapevo se considerare Joseph uno schifoso essere per il suo comportamento, oppure ragionare sul fatto che potesse essere colpa dell’insopportabilità di Emily se lui tentava di tradirla con una persona come me, che, per quanto acida e insopportabile, era almeno dotata di una voce normale.

Quelle loro moine mi davano il voltastomaco, tra le altre cose. Non mi sembrava che Joseph fosse una persona di quel genere, quindi cosa diavolo ci facevano insieme? Forse erano i miei pregiudizi, forse volevo vederli come una coppia male assortita, o forse no. Certo, se fosse stata colpa della mia incapacità di giudizio ci sarebbe stato da preoccuparsi, perché avrebbe significato che mi interessava davvero. E non volevo scoprire una verità così scomoda, non volevo scoprire proprio di volere Joseph. Avrei perso di nuovo. Volevo trovare qualcuno che mi amasse, non un idiota che si prendeva gioco di me e poi tornava come un cagnolino dalla fidanzata senza carattere – o, peggio, con un carattere odioso, come nel caso di Emily.

«Sei pensierosa, Phoebe – mi fece notare la suddetta con un sorriso. Non potevo certo dirle su cosa stavo davvero riflettendo, così lavorai freneticamente per inventarmi una scusa.

«Stavo solamente pensando all’ultimo anno di liceo» mugugnai incerta mentre li incitavo a seguirmi verso il bancone, dove la signora Flynn stava versando il the.

«Racconteremo tutto a Joseph – assicurò entusiasta ed esaltata, riuscendo con un colpo di capelli a spazzare via tutta la mia energia vitale – Ma prima voglio sapere come vi siete conosciuti! Non devo essere gelosa, vero?»

Aveva anche imparato a recitare negli anni, era quasi emozionante. Il che, considerando il lavoro che faceva, doveva essere utile. Il tono della sua voce sembrava davvero sospettoso, ma sapevo quanto fosse egocentrica nella realtà e sicuramente non si preoccupava che Phoebe la sfigata potesse rubarle il ragazzo. Peccato che avrei potuto in ogni momento farle i complimenti per il meraviglioso sapore delle labbra di Joseph, ma sicuramente non sarebbe stata un’uscita idilliaca. Anche se comunque molto soddisfacente.

«No che non devi» sogghignò lo stronzo, abbracciandola di slancio. Lei sprofondò con il viso nella sua spalla e provai un’orribile stretta allo stomaco che non significava nulla di buono. Avrei imprecato per le prossime tre ore, era certo.

Joseph allungò una mano e con il pollice mi sfiorò il labbro inferiore. Se non fossimo stati in quella situazione orrenda forse avrei potuto anche rendermi conto dell’intensità con cui mi guardavano i suoi occhi, oppure anche delle sue labbra piegate in un sorriso così dolce, ma ero furiosa. Con quale diritto si comportava così? L’avrei volentieri ucciso, ma invece mi limitai ad allontanare la sua mano con uno schiaffo secco, che purtroppo o per fortuna venne attutito dall’orologio che portava al polso.

«Però voglio saperlo – protestò Emily, staccandosi dall’abbraccio e tornando a rivolgersi ad entrambi – Come vi siete conosciuti?»

«Niente di che – sbuffai reticente, non avevo voglia di raccontarle come erano andate le cose – Stavo per finire sotto un taxi e Joseph si è offerto di accompagnarmi a casa perché temeva uno svenimento, che ovviamente non c’è stato.»

«Che cavaliere! E tu, ovviamente, sei sempre la solita sbadata – squittì la belva, tuffandosi di nuovo tra le sue braccia. Roteai gli occhi con palese disgusto, senza minimamente curarmi del fatto che potessero vedermi. Erano pessimi.

«Phoebe – sogghignò Joseph di punto in bianco – Ci mostreresti casa tua?»

«Oddio sì, voglio vedere dove vivi, tesoro!» rincarò anche Emily.

Lo odiavo. Lo odiavo dal più profondo della mia anima. Ma non riuscii a controbattere e ce li portai davvero a vedere quella che sicuramente avrebbero etichettato come una topaia. La signora Flynn sembrava essersi coalizzata con loro perché mi spedì praticamente via dopo il the, quasi impaziente di farmi sprofondare nella più nera vergogna. Joseph sapeva meglio di me com’era casa mia anche se si fingeva innocente, ma il giudizio di Emily sarebbe sempre stato troppo devastante per il mio stupido orgoglio. Lei era stata abituata a vivere nel lusso fin da quando era nata.

«Non aspettarti chissà che casa, tesoro» sorrisi imbarazzata, per nulla pronta ad una cosa simile.

«Non sarà peggio della camera che avevi al liceo – sogghignò divertita quando finalmente riuscii ad aprire la porta – Anche se dall’ingresso già promette benissimo.»

Stronza, sei una stronza.

Cercai di sorridere, ma l’occhiata sarcastica che mi riservò Joseph mi fece capire che non dovevo esserci riuscita molto bene. Così diedi loro le spalle, entrando per prima.

«Molto accogliente» disse Joseph, fingendo stupore e interesse. Certo, forse non si era mai interessato molto alla casa in sé, visto che tutte le volte in cui ci aveva messo piede era sempre stato intento a fare il cascamorto con la sottoscritta, ma era un po’ bugiardo.

Realizzai che, forse, mentire gli riusciva troppo facile e, nonostante si trattasse di Emily, non potei non dispiacermene, almeno un pochino. La mia mente traditrice, che ormai sembrava aver assimilato il fatto che Joseph mi piacesse, ebbe la malsana idea di partire per un film mentale epico e mi suggerì che, se mai avessimo dovuto instaurare una relazione, la fiducia sarebbe venuta a mancare da subito perché io avevo già visto quanto fosse abile a mentire.

Mi insultai, ovviamente. Mi insultavo sempre quando la forza del mio ragionamento rompeva quel muro che cercavo di tenere in piedi e alla fine ammettevo cose che non dovevo nemmeno provare.

«Molto caotica» commentò invece Emily, distogliendomi dal mio personale delirio.

Roteai gli occhi, sorpassandola senza mezzi termini. Filai dritta in cucina a prendermi un bicchiere d’acqua, lasciandoli lì nel bel mezzo dell’ingresso a guardarsi intorno.

«Sempre meglio del monotono ordine che c’era a casa tua, dolcezza» replicai alla fine, dopo aver tentato invano di tacere.

«E disegni ancora?» chiese, ignorando bellamente la mia stoccata, e prese a curiosare tra alcuni fogli che Amber aveva lasciato in giro. Joseph si voltò verso di me senza riuscire a mantenere quella calma serafica che aveva ostentato fino a quel momento e gli lanciai un’occhiata gelida.

Era curioso. No, era avido di sapere ogni cosa su di me e non mi andava bene affatto. Poteva interessarsi alla sua ragazza, sicuramente lei l’avrebbe apprezzato un po’ di più.

«Ogni tanto» risposi evasiva. Mi sentivo presa sotto attacco, in un certo senso.

«Phoebe, amore, non mi presteresti il bagno per un momento?»

Ci mancava solamente il bagno, dannata seccatrice! Non poteva essere come tutte le donne, gelosa del suo uomo? Ma certo che no, doveva lasciarci da soli e sembrava divertirsi nel farlo! La odiavo!

Le indicai l’unica porta chiusa di tutta la casa e mi accomodai su uno sgabello della cucina, assolutamente incurante della molesta presenza che mi fissava senza nemmeno preoccuparsi di nasconderlo.

«Cosa disegni?» domandò, appena Emily si fu chiusa in bagno.

«Ieri ho disegnato te appeso per il collo.»

«Perché sei così acida? – mormorò avvicinandosi. Posò le labbra sulla mia tempia, per poi farle scorrere lungo il profilo del mio viso – Sei gelosa?»

«No – replicai tranquilla, alzandomi per mettere tra noi una distanza di sicurezza – Sono infastidita dal fatto che, nonostante tu abbia una ragazza, sia ancora qui a rompermi i…»

«Phoebe – sogghignò, interrompendomi con un gesto della mano – Ho capito.»

Si avvicinò di nuovo. Questa volta eravamo al centro del salotto, esattamente in linea d’aria con la porta del bagno che, se si fosse aperta, sarebbe stata la causa dell’apocalisse.

«Perché non puoi lasciarmi in pace?» ringhiai a denti stretti, sentendo che stava intrecciando le dita con le mie. Ritrassi la mano con stizza e ignorai l’espressione leggermente delusa che si era dipinta sul suo bel viso. Mi stava portando all’esasperazione e poi aveva anche il coraggio di rimanerci male?

«Ma io non voglio lasciarti in pace.»

Feci per rispondere, ma la porta di casa si aprì, rivelando la figura di Amber. Aveva gli occhi arrossati e le guance completamente bagnate, mentre sulle labbra campeggiava un morso profondo, che sicuramente aveva sanguinato fino ad un momento prima.

«Cosa succede, Amber?» mormorai preoccupata, asciugandole le lacrime con il pollice. Non rispose a parole ma, con l’ennesimo singhiozzo, si buttò tra le mie braccia e scoppiò a piangere più forte di prima.

Scambiai una rapida occhiata con Joseph, che nel frattempo era stato raggiunto da Emily, silenziosamente uscita dal bagno.

Ero preoccupata, non era mai successo che la mia migliore amica si ritrovasse in quelle condizioni così disastrose e continuai a carezzarle i capelli, nel tentativo di calmarla. Dubitavo di riuscirci davvero, in effetti, ma non potevo lasciarla lì a disperarsi da sola.

«Drew – gemette, il volto ancora infossato nell’incavo della mia spalla – Ho litigato con Drew.»

«Come mai?» mi azzardai a chiederle. Si allontanò di scatto da me, guardandomi con occhi sbarrati, e scosse il capo freneticamente. Qual era il problema? Sapevo che era sempre stata molto discreta riguardo al rapporto con il suo ragazzo, ma non avevo mai capito perché non volesse addirittura dirmi nulla.

«Non piangere» mugugnò Emily imbarazzata. Vidi Amber aggrottare le sopracciglia con fare confuso e poi sbattere ripetutamente gli occhi per mettere a fuoco la sconosciuta che si permetteva di dirle cosa fare o cosa non fare. La cosa peggiore che si potesse fare era proprio darle ordini quando era così in quelle condizioni e sapevo che si stava preparando a risponderle per le rime. Cercai di impedirmi di sorridere ma rilassai le spalle, pronta a godermi lo spettacolo direttamente dalla prima fila. Invece Amber mi stupì di nuovo, avvicinandosi alla mia ex compagna.

«Sei Emily VanCamp» soffiò aspra, assottigliando gli occhi. Non era una domanda, era un’affermazione, ma Emily annuì comunque, quasi terrorizzata da quel suo repentino cambio di umore. I suoi occhi rossi passavano in secondo piano rispetto all’espressione diabolica sul suo viso e, ammisi tra me e me, mi inquietava davvero un bel po’.

«Il mio ragazzo – riprese melliflua – Si chiama Andrew. Drew per gli amici, ma fortunatamente non ti interessa. Sai, lui è un tuo fan davvero accanito ed è per questo che prima o poi arriverò a farti una bambolina voodoo. Gli ho fatto togliere i tuoi poster dalle pareti e ora li ha appesi dentro l’armadio, come se io fossi così stupida da non rendermene conto. Ma ora, nonostante sia gelosa marcia della tua presenza nella testa del mio uomo, tu verrai con me e mi aiuterai a fare pace, rendendoti utile e non solamente continuando ad appestare armadi senza nessun senso logico.»

Sbattei gli occhi ripetutamente, sentendomi quasi male quando vidi Amber tirare Emily per un braccio fuori dalla porta. Non avevo mai visto la mia migliore amica comportarsi in quel modo, da ogni sua parola trasudava cattiveria. Sebbene non mi dispiacesse il fatto che fosse rivolta alla mia acerrima nemica di sempre, mi preoccupò. E, cosa molto più importante, non potevo credere che mi avessero di nuovo lasciata sola con lui.

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Capitolo 11
*** XI ***


XI

 

 

 

Lo schianto con cui la porta si chiuse alle nostre spalle fu, per le mie orecchie, più spaventoso del boato di un’esplosione. Suonava come una condanna, come un qualcosa che avrebbe scatenato delle conseguenze irreversibili e, forse, dopo tanto tempo, il mio istinto aveva preso a funzionare di nuovo. Mi stava avvertendo del pericolo che correvo, ma certamente me ne sarei accorta anche senza il suo aiuto, lampante com’era l’elettricità che scorreva lungo le pareti come lava incandescente.

Joseph mi guardò per un lungo momento dritto negli occhi, facendomi sentire quasi un’estranea nella casa in cui vivevo, per poi prendere a muoversi diretto verso la mia camera senza alcun permesso. Non vi era mai entrato prima e sembrava essere tornato lo stesso Joseph dei primi due giorni dopo l’incidente con il taxi, curioso di tutto ciò che mi riguardava, dal colore delle mie lenzuola ai cd che avevo ordinati sulla mensola – e, in un certo modo, mi sembrava quasi di vedercelo con i Pink Floyd nelle orecchie. Sperai non avesse l’intenzione di aprire anche il cassetto dell’intimo per vedere con i suoi occhi le mie famose mutande preferite, che Amber gli aveva descritto con una probabile dovizia di particolari tale da permettergli di riconoscerle senza averle mai viste prima.

«Deve fidarsi davvero molto di te Emily se mi lascia qui da solo in tua compagnia» esordì di punto in bianco con voce apparentemente casuale, esplorando con interesse minuzioso le foto appese lungo una parete della mia camera. Ritraevano la mia vecchia compagnia di amici dell’università, quelli che vedevo sempre meno da quando avevo iniziato a lavorare da Gary e da quando avevo dovuto studiare un metodo per evitare le bravate di Dave.

«Non si è mai fidata di me per dire la verità, nemmeno a scuola – sibilai amara, ricordando le occhiate superiori che mi aveva sempre rivolto, come se avessi avuto la lebbra o cose del genere – Semplicemente mi ritiene troppo insulsa per rappresentare un pericolo.»

Ero stufa di fingere che fossimo amiche per la pelle, ero stufa di tutto ciò che riguardava lei e, purtroppo, mi ero anche stufata del teatrino che avevo messo su solamente per imbarazzare Joseph. Non mi interessava minimamente fargli sapere che odiavo la sua ragazza, lei stessa sapeva alla perfezione quanto il nostro rapporto fosse fasullo e non si sarebbe stupita se Joseph le avesse spifferato ciò che gli stavo dicendo, cosa che comunque ero abbastanza certa che non avrebbe fatto.

«E ha ragione?» chiese con leggerezza, voltandosi a guardarmi da sopra la spalla. Fu così facile osservare quanto fosse dannatamente sexy in ogni suo atteggiamento che mi morsi la lingua per evitare di dirglielo. Sembrava non avere nessun problema a fingere di stare con lei – o standoci davvero – pur provandoci spudoratamente con me, così tentai con tutte le mie forze a ripristinare le distanze che ero riuscita a mantenere per i primi cinque minuti di conoscenza. Mi ritrovai anche a sperare che quella maledetta di Emily venisse presto a riprenderselo o chissà cosa avremmo combinato insieme, da soli nella stessa casa, di nuovo. La sentivo davvero l’elettricità tra noi, la sentivo dal primo giorno in cui ci eravamo conosciuti, e sembrava diventare una presenza sempre più ingombrante ogni volta in cui ci ritrovavamo sotto lo stesso tetto, non importava quanto fosse grande la stanza. Mi ero persino stancata di negarla, anche se per il mio bene avrei dovuto ricominciare a farlo.

«No» smentii con malcelato orgoglio, raggiungendo la scrivania di fianco alla quale Joseph si era improvvisamente fermato. Stava osservando tutte le mie matite, tutti i libri dell’università e anche i blocchi su cui scarabocchiavo quando, in biblioteca, passavano le ore senza che nessuno venisse a chiedermi un libro o qualsiasi altra cosa. Appoggiai un fianco contro il tavolo mentre incrociavo le braccia sotto il seno, in attesa della sua replica che non tardò ad arrivare.

«Quindi se io volessi baciarti non ti tireresti indietro? – ipotizzò con una noncuranza degna del lavoro che faceva – Giusto per conferma della tua non inferiorità.»

«E da quando chiedi prima di farlo?» domandai stupita e sarcastica, ricordando le mille volte in cui ci aveva provato e anche quando poche ore prima ci era riuscito.

«Devi volerlo anche tu, devi essere consapevole che vuoi baciarmi. E devi saperlo prima di averlo fatto, non quando ti ci ritrovi catapultata dentro. Non voglio che mi guardi e mi giudichi per una cosa che brami quanto me.»

Il suo tono di voce cambiò, divenendo tutt’a un tratto serio e profondo, e incredibilmente persi tutta la spavalderia che avevo ostentato fino a pochi attimi prima. Come diavolo riusciva sempre a spiazzarmi quel maledetto uomo? Cosa si celava dietro quella voce profonda, dietro le sue iridi così azzurre? Avrei potuto passare la vita a guardare quegli occhi, ma dovevo difendermi e lui non doveva intuire, più di quanto già non avesse fatto, le sensazioni sconvolgenti che mi provocava.

Era come se avessi sentito che presto saremmo arrivati a una svolta e non mi sentivo affatto pronta.

«Non amo essere messa al secondo posto» replicai, evitando alla bell’e meglio di rispondere chiaramente a una domanda che, in fin dei conti, non lasciava scelta sulla risposta da dare. Si poteva forse dirgli di no? Quale donna avrebbe potuto resistere alla sua eleganza e al suo fascino? Non io, certamente. Avevo avuto la presunzione di crederlo, ma in una settimana tutte le mie certezze erano clamorosamente crollate. Una settimana di lotte con me stessa, in cui la sua presenza costante era sembrata un attentato alla mia lucidità – ma al contempo qualcosa che si era insinuato tra le costole della mia quotidianità fino a rendere destabilizzante la sua assenza.

«Se Emily fosse davvero al primo posto non avrei la minima voglia di baciarti» mormorò roco, avvicinandosi piano come un cacciatore con la sua piccola preda. Sapevo di essermi irrigidita, la mia guardia era alta come e più del solito, ma lui non indietreggiò, non l’aveva mai fatto. Era sempre corso incontro alla mia reticenza come se fosse stata un muro contro il quale non aveva paura di scontrarsi. Ma perché mi voleva?

«E quindi vorresti farmi credere che ci sia io al primo posto?» chiesi, caustica e scettica, inarcando un sopracciglio nel tentativo di spegnere tutta l’elettricità che si era creata. Se dovevo permettergli di avvicinarsi, non gli avrei certo concesso anche di averla vinta con facilità. Era chiaro come il sole che non fossi la donna più importante per lui, anzi avevo la fortissima impressione che mi stesse prendendo in giro o, nella migliore delle ipotesi, che fosse solamente alla ricerca di un passatempo – e, guarda caso, sulla sua strada ero capitata io, una povera illusa che non era nemmeno una sua ammiratrice. Non sarebbe stato difficile per lui rendersi conto che ero finita tra le sue grinfie solamente a causa del puro fascino che emanava.

«No – negò con un sorriso complice, forse capendo cosa passasse nella mia testa incasinata – Voglio solo dire, ragazzina, che il primo posto è vacante e lo è da un bel pezzo, Emily o non Emily. E non mi dispiacerebbe affatto trovare qualcuno disposto ad occuparlo.»

Se il mio cuore avesse potuto staccarsi dai vasi sanguigni che lo irretivano e saltellare in giro per Londra, sicuramente l’avrebbe fatto, ma invece si limitò a battermi furiosamente nel petto, diffondendo un rossore inequivocabile sulle mie guance, che portò Joseph a sogghignare con divertimento mentre si avvicinava definitivamente con passo lento e sicuro.

Mi sentivo andare a fuoco, ma rimasi interdetta ad ammirare quasi ipnotizzata quell’incedere elegante, rendendomi forse conto che mi stava dando l’opportunità di allontanarmi, se solo avessi voluto. Per tutta risposta mossi un paio di rapidi passi in avanti, buttandomi senza riserve tra le sue braccia.

Lo volevo, dannazione. E non realizzai fino in fondo la reale portata del mio desiderio finché non sentii le nostre labbra scontrarsi, dapprima lievemente e poi con sempre più urgenza.

Non riuscivo più a combattere: dovevo averlo, anche solo per una volta.

Mi sconvolgeva rendermi conto di come stessi praticamente rinunciando a tutto, anche e soprattutto al mio orgoglio, solamente per un bacio. Non era da me comportarmi in quel modo, non l’avevo mai fatto, e mi aggrappai alle sue spalle cercando di scacciare il terrore che mi stava cogliendo. Avevo paura di provare sensazioni così forti per qualcuno.

Poi d’un tratto sentii la sua lingua carezzarmi il palato e gemetti nella sua bocca, dimenticandomi tutte le paure e i timori. Mi sentii sollevare e finii dritta sulla scrivania, mentre tutti i fogli che avevo diligentemente impilato franarono a terra.

Sentii le labbra bollenti di Joseph scendere a baciarmi il collo, lambendolo con la lingua, e di nuovo sospirai, sentendo il suo lieve accenno di barba solleticarmi la pelle. Artigliai i suoi capelli con le dita, spingendolo sempre più verso di me. Le sue mani vagavano lungo tutta la mia schiena quasi febbrilmente, stringendo, graffiando e spingendomi a loro volta verso di lui.

Era quasi un bisogno il modo in cui entrambi sembravamo cercarci, avvicinarci e trovarci. Presto ci ritrovammo senza maglia, seminudi e sdraiati sulla superficie piana del tavolo. Le mie gambe si sollevarono quasi da sole e si serrarono attorno ai fianchi stretti di Joseph, che intanto muoveva il bacino con movimenti regolari. La sua eccitazione premeva sul mio ventre e la mia mente si annebbiò, non riuscendo a pensare ad altro se non al suo corpo così dannatamente caldo.

Lo volevo.

Tornò a baciarmi, intrufolando la lingua tra i miei denti e iniziando una lotta senza pari con la mia. Graffiai debolmente il suo petto nella foga di sentire la consistenza della pelle sotto alle mie dita, continuando poi a toccarlo e a delineare i contorni dei suoi muscoli. Sentivo le sue mani sfiorarmi il ventre e, proprio quando riuscirono ad artigliare un seno attraverso la leggera stoffa dell’intimo, un suono fastidioso riempì le orecchie di entrambi.

Passò ancora l’interminabile tempo di qualche bacio prima che finalmente ci rendessimo conto che qualcuno aveva appena suonato il campanello. Presi com’eravamo non ce n’eravamo nemmeno accorti, ma quando aprimmo gli occhi, fissandoci con un’intensità spaventosa, fu quasi una doccia fredda capire che qualcuno ci stava cercando e che non ci avrebbe trovati come si aspettava.

Emily.

Lo spinsi lontano con uno scatto improvviso, rivestendomi rapidamente, per poi raccattare di malagrazia tutti i fogli sparsi sul pavimento. C’era il caos, sperai di riuscire a sistemare tutto.

«Vai ad aprire, ci penso io qui» sussurrò lieve al mio orecchio, la voce roca e leggermente ansante. Mi voltai confusa e le nostre fronti si scontrarono. Mi rubò un altro bacio, stavolta più dolce, leggero, ma ugualmente intenso. Mi allontanai rapidamente, prima che degenerassimo di nuovo, facendo calare a picco la sua storia insieme al mio autocontrollo e alla mia dignità. Anche se a dire la verità mi importava di più di quest’ultima.

Così mi alzai, facendo quasi violenza sul mio corpo, e mi obbligai a ignorare il suo petto nudo e le sue spalle ampie, a cui mi ero aggrappata fino ad un momento prima e a cui avrei tanto desiderato aggrapparmi mentre facevamo l’amore.

Smettila, Phoebe.

«Credo che faresti meglio a vestirti» gli intimai secca, andando verso la porta. Non rispose e sperai che mi ascoltasse, perché non avevo intenzione di voltarmi di nuovo per controllare.

Aprii la porta, trovando Emily e Amber, che aveva ancora gli occhi arrossati, ma una nuova determinazione sul viso. Doveva aver chiarito con Drew, se erano già di ritorno. Mi domandai se la mia migliore amica avrebbe svuotato il sacco su quanto era successo, perché mai l’avevo vista così sconvolta per aver litigato con il suo ragazzo.

«Come va?» chiesi incerta.

«Se non fosse stato per Emily questa volta sarebbe finita male» esclamò Amber, abbracciandomi forte. Stava con Drew da anni, sapevo che se la loro storia fosse finita il suo buonumore e la sua vitalità avrebbero subito un duro colpo, forse non sarebbe più stata la stessa fantastica persona. Non credevo che il litigio di un giorno potesse affossare un rapporto così solido, ma mi fidavo del suo giudizio e, se lei temeva quella possibilità, allora la temevo anch’io.

«Mi fa piacere averti aiutata – replicò con un sorriso, non più spaventata da lei – Joseph dov’è?»

«Dentro» mugugnai, spostandomi per indicarle di entrare. Scosse il capo, sorridendo di nuovo.

«Non importa, sono solo passata a prenderlo: dobbiamo andare subito se vogliamo uscire stasera» mi spiegò, scuotendo i lunghi capelli biondi. Inarcai un sopracciglio, soprattutto vedendo la mia migliore amica sgusciare all’interno con espressione colpevole e terrorizzata.

«D’accordo» disse la voce di Joseph proprio dietro di me, facendomi saltare per aria dallo spavento. Gli lanciai un’occhiata al vetriolo, ricevendo in cambio una carezza sulla testa che, in realtà, fu solo un pretesto per scompigliarmi i capelli fino a rendermi una specie di leone.

«A stasera» esclamò Amber dalla cucina e anch’io annuii, guardandoli andarsene. Quando mi chiusi la porta alle spalle, vidi la mia coinquilina defilarsi in bagno, chiudere a chiave e accendere lo stereo ad un volume sufficientemente alto per evitare di sentire la mia voce.

Presi una sedia e, dopo averla girata al contrario, mi sedetti a cavalcioni esattamente davanti alla porta. L’avrei aspettata, non avevo fretta, ma prima o poi avrebbe vuotato il sacco.

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Capitolo 12
*** XII ***


XII

 

 

 

Forse Amber non si aspettava che mi mettessi a fare picchetto davanti alla porta del bagno, e quando uscì mancò poco che cacciasse un urlo apocalittico. Sogghignai divertita e soddisfatta, alzandomi con calma esasperante dalla sedia, e le andai incontro. Indietreggiò fino a posare le spalle al muro, gli occhi sbarrati e le labbra strette in una smorfia sottile per la consapevolezza di essersi messa in gabbia da sola. Con le spalle al muro, letteralmente.

Ignorai con fermezza la vocina nella mia testa che mi suggeriva le mille somiglianze tra quel mio comportamento e quello che abitualmente assumeva Joseph nei miei confronti, perché non sarei stata davvero pronta ad ammettere una sua così grande influenza su di me. Dopotutto, di ammissioni nelle ultime ore ne avevo già fatte a sufficienza.

«Perché ti terrorizzo? – chiesi quindi, divertita dalla sua reazione, inarcando le sopracciglia con curiosità crescente – Hai forse la coda di paglia, tesoro?»

«Non so di che parli» balbettò in risposta, cercando con gli occhi una via di fuga che, però, ero intenzionata a non darle. Volevo che svuotasse il sacco, e l’avrebbe fatto entro pochi minuti.

«Allora ti rinfresco la memoria – sbuffai – Noi stasera dobbiamo uscire con Emily e Joseph. E per noi intendo tu, Andrew… e io. Mi dici cosa ci faccio con due coppiette? Come diavolo ti sarebbe saltata in mente una stronzata simile?»

Sussurrò qualcosa, ma lo disse così piano che non riuscii a capire. Doveva proprio essere una bomba se toglieva la parola a una persona logorroica come Amber, così iniziai a sudare freddo e a preoccuparmi seriamente, ma tentai di mantenere un minimo contegno fino alla notizia.

«Non ho sentito» le dissi, incitandola con un cenno del capo a ripetere.

«Dave» sbottò infine, dopo aver preso un profondo respiro di incoraggiamento. Cercai a tentoni la sedia che avevo lasciato pochi passi più indietro e vi sprofondai letteralmente, all’improvviso prosciugata di tutte le forze.

Ti prego, fa’ che abbia capito male.

«Lo abbiamo trovato a casa di Drew e per non si sa quale motivo è uscito il tuo nome, così Dave si è autodefinito come tuo fidanzato. E a Emily, che credo non abbia digerito per nulla il fatto che tu avessi un ragazzo tanto figo, è venuta la malsana idea di uscire tutti insieme appassionatamente. Probabilmente per verificare che stiate davvero insieme.»

«Ma noi non stiamo insieme.»

«Questo lei non lo sa – precisò concitata – E io non me la sono sentita di smentire per due motivi: uno, sono terrorizzata follemente da Dave; e due, ho pensato che ti servisse un pretesto per dimostrare a Emily che non sei sfigata come ti crede. E poi potresti far ingelosire Joseph…»

Sull’ultima parte le lanciai un’occhiata talmente tagliente che incassò il capo nelle spalle, praticamente sconvolta. Dire una cosa del genere equivaleva per me, anche se lei non lo poteva sapere, ripensare agli avvenimenti di poco tempo prima sulla scrivania della mia camera. Inoltre, Joseph si era preso un pugno sul naso per difendermi da Dave, per cui mi sembrava una mancanza di rispetto fingere di stare con l’uomo con cui aveva fatto a botte – perché, nonostante tutto, dovevo rispettare Joseph in almeno qualche sfaccettatura della nostra equivoca relazione.

«Mi do malata» decretai infine, scuotendo il capo come in trance. E continuai a comportarmi in quel modo anche mentre Amber mi spingeva dentro al bagno, accompagnando il movimento del mio capo con scuse ininterrotte che non compresi fino in fondo. Lo faceva per il mio bene, diceva, ma io mi sentivo ad ogni momento di più verso il patibolo. Non avevo ancora abbandonato del tutto l’idea di darmi alla macchia, ma la verità era che non sapevo dove andare per non correre il rischio di essere trovata. E sapevo anche che la mia migliore amica non mi avrebbe coperta, lasciandomi sola in casa, ma piuttosto avrebbe fatto in modo di spostare la serata nel nostro salotto, e io Dave proprio non ce lo volevo.

Così lasciai che scegliesse per me cosa indossare, senza nemmeno lamentarmi. Erano rare le volte in cui non esagerava, ma evidentemente quella sera si sentiva troppo in colpa per farmi vestire come una ballerina da night club, sempre che si potessero definire davvero ballerine. E optò per un vestitino bianco che sicuramente avrebbe sollevato le mie obiezioni, se subito non mi avesse spinto in mano anche un corto giubbotto di pelle marrone.

Niente da dire, mi conosceva alla perfezione, ma se fosse stato per me mi sarei coperta fino ai piedi.

«Ti sei salvata in corner» brontolai, cominciando a vestirmi.

«Ma tu no – sogghignò, dimenticando per un momento i suoi sensi di colpa asfissianti – Hai una faccia sconvolta, tesoro…»

Non risposi, roteando gli occhi, e abbassai il capo con la scusa di vestirmi.

«Phoebe, guardami in faccia e dimmi cos’hai» mi intimò, con un cipiglio così deciso che quasi mi ricordava quella seccatrice di mia madre, che però un po’ mi mancava lo stesso.

«Quando siete tornate eravamo già senza maglietta – ringhiai, scoppiando infine come una bomba – Non oso immaginare cosa sarebbe successo se aveste ritardato di altri cinque minuti.»

«Quindi… voglio dire, quindi…» balbettò spalancando gli occhi con incredulità. Mi sembrava strano che non riuscisse a credere a ciò che le avevo detto. Dopotutto era la prima sostenitrice dell’idea che io e Joseph fossimo attratti l’uno dall’altra. E cosa fanno sue persone che si attraggono? Si saltano addosso, ovviamente.

«Quindi abbiamo dato una lucidata alla scrivania della mia camera – confermai, dandole le spalle. Ero imbarazzata a morte, mi infastidiva immensamente ammettere di aver ceduto, di non essere riuscita a resistergli, di provare delle sensazioni tanto forti per lui – Ma perdonaci se non abbiamo avuto il tempo di lucidare anche la tua.»

«Oh, non serve – ridacchiò spensierata, forse troppo contenta per i miei passi avanti con Joseph. Che poi, quali passi avanti? Mi ero fatta incartare per bene e quella serata avrebbe complicato il tutto ulteriormente, con la presenza di quell’idiota del mio ex… ex cosa? – L’abbiamo lucidata io e Drew giusto l’altro giorno.»

«Poi sono io quella volgare, vero?» sbuffai, piazzandomi davanti allo specchio per stendermi un velo di cipria sul viso.

«No, tesoro, non ci siamo proprio – mi redarguì, guardandomi con un’espressione che non riuscivo a definire in nessun modo, se non disgustata – Ti trucco io.»

«Non siamo ad Halloween, Amber.»

«Sei scorbutica» mi accusò lanciandomi un’occhiataccia, e non me la sentii proprio di darle torto.

Però, come aveva fatto per i vestiti, non fu esagerata e non trovai nessuna lamentela da presentare. Certo non fu lo stesso quando giungemmo al luogo in cui avevamo appuntamento, un pub molto semplice ma allo stesso tempo elegante, che mi ricordava terribilmente Joseph. Drew ci venne incontro con Dave alle calcagna e l’espressione soddisfatta del suo viso mi fece tornare di nuovo quel bisogno di fuga che si presentava come un orrendo formicolio alla bocca dello stomaco, e, guarda caso, sempre quando mi trovavo davanti la sua pessima persona.

«Ciao Phoebe» mormorò suadente, avvicinandosi pericolosamente alle mie labbra. Da una parte avrei voluto scappare, mentre dall’altra non mi sarebbe affatto dispiaciuto impiastricciargli tutta la faccia con il gloss. Tuttavia l’istinto di conservazione ebbe la meglio e alla fine mi scansai: per uno della sua risma non mi sarei nemmeno rovinata il trucco.

«Non toccarmi» gli intimai con un sibilo, guardandolo quasi schifata. Lo detestavo, non mi era mai sembrato così viscido, ma nonostante ciò dovetti per forza ammettere che la camicia bianca gli stava d’incanto. Sembrava quasi un bravo ragazzo, peccato che quella faccia da schiaffi lo smentisse in pieno. Era così sbruffone e idiota che di nuovo mi presi a insulti per essermi fatta abbindolare.

«Quella bionda – sogghignò poi, le labbra accostate al mio orecchio – Emily, mi pare che si chiami, è la ragazza del tuo principino azzurro, non è così? Sai, quello che si è preso un pugno dal sottoscritto. E lei crede che siamo fidanzati.»

«Lo so già – gli rinfacciai, scrollandomi di dosso il braccio che mi aveva posato sulle spalle – Non è necessario che me lo spieghi di nuovo, oltre al fatto che Amber è stata molto più esauriente di te.»

«Sei acida – ridacchiò, prendendo il mio viso con decisione e disegnando con la lingua il contorno delle mie labbra – Si vede che non passi più il tuo tempo sotto di me.»

«Tu invece dovresti passare il tuo tempo sotto un autobus.»

«Le tue dimostrazioni d’affetto sono un po’ da capire – esclamò la voce di Joseph alle mie spalle, ma sempre più vicina a noi – Ma quando finalmente si capisce il senso ti fanno venire voglia di abbracciarti e di volerti bene.»

Non sopportavo la gente che arrivava così di soppiatto come un aggressore, soprattutto se proprio in quel momento Dave stava dicendo che non andavamo più a letto insieme e che quindi non eravamo fidanzati come l’idiota aveva voluto far credere. Se Emily avesse sentito una bomba del genere sarebbe saltata tutta la serata e, benché non mi dispiacesse affatto l’idea di scoprire la realtà dei fatti, non volevo che Amber mi tenesse il muso per non aver sfruttato l’occasione di mettere la mia peggior nemica, o così l’aveva etichettata, in un angolo e con l’ego a pezzi. Quindi avevo deciso di reggerle il gioco per qualche stupida ora, ma non avevo avuto modo di troncare la conversazione prima di sapere che due idioti della peggior specie si stavano avvicinando di soppiatto, ascoltando ogni frammento di conversazione con quello che si spacciava per uomo della mia vita. Cominciavamo già male, e non erano nemmeno le dieci.

«Non so se avrai mai tempo di conoscermi, Joseph – replicai soave e velenosa, inarcando le sopracciglia – Ma mi sembra quasi di essere un libro aperto, per te.»

«Senza dubbio» ridacchiò, ammiccando senza pudore. Quello scambio di battute si stava effettivamente svolgendo di più con gli occhi che con le parole, e forse Emily dovette accorgersene perché decise di pararsi esattamente davanti al suo uomo, cogliendo ovviamente l’occasione per squadrarmi da capo a piedi.

«Non sarai vestita un po’ troppo poco?» mi chiese dubbiosa, occhieggiando le mie gambe che erano sempre state più affusolate e dritte delle sue. Le trovavo un sacco di difetti, eppure il suo sorriso perfetto e quegli occhi scuri da cerbiatta mi avevano sempre fatta sentire parte della tappezzeria.

«Buonasera anche a te – replicai con sufficienza, senza smettere comunque di sorridere – Vorrei ricordarti che vivo a Londra: sono abituata al freddo e anche all’umidità. Se invece temi che il tuo ragazzo mi guardi le gambe puoi stare tranquilla, credo di non essere proprio il suo tipo. Voglio dire, sicuramente non mi sbatterebbe su un tavolo per dei preliminari focosi

Fu il mio turno di ammiccare e Joseph impallidì leggermente. Forse non credeva che mi piacesse giocare così direttamente, ma non ero io quella che aveva qualcosa da perdere. Non avevo punti deboli quella sera, ma lui sì. E gliel’avrei fatta pagare per aver minato il mio autocontrollo di ferro. Anzi, gliel’avrei fatta pagare per quel doppio gioco che stava conducendo da troppo tempo.

« Certamente – ridacchiò Emily, stringendosi di nuovo al braccio del suo ragazzo fedifrago – A lui poi piace andare con calma, non è il tipo da mettere in disordine un tavolo.»

Avrei dato un braccio per poterle scoppiare a ridere in faccia e spiegarle per filo e per segno come avessimo messo a soqquadro la mia scrivania, i miei appunti e tutte le mie scartoffie, ma purtroppo non potevo. Avevo le mani legate e la serata era solo all’inizio. Avrei avuto tempo, dovevo solo godermela.

«Scusate» s’intromise Amber, rimasta fino a quel momento in un angolo a scambiarsi effusioni con Drew. Ogni volta che litigavano e poi facevano pace sembravano regredire all’età della tempesta ormonale, ma ormai avevo smesso di preoccuparmene.

«Sì?» sogghignai, per poi roteare gli occhi quando la mano di Dave si intrufolò sotto al giubbino di pelle, alla ricerca di un lembo di pelle esposto che, però, non trovò. Non ero così idiota da stare troppo nuda in sua presenza, ma evidentemente lui era idiota da non capirlo.

«Forse – ipotizzò la mia migliore amica, gesticolando in direzione dell’ingresso – Forse sarebbe il caso di entrare, non trovate? Stare tutta sera qui fuori potrebbe essere noioso dopo un po’.»

Non mi sfuggì nemmeno per un momento l’occhiata di profondo e disperato ringraziamento che Joseph le riservò e provai a trattenere un sorriso, ma non vi riuscii. Così abbassai il capo per evitare di farmi vedere, principalmente da quell’arpia di Emily, e Dave ne approfittò di nuovo, baciandomi la nuca con fare lascivo.

Rialzai lo sguardo con uno scatto, per fulminare il mio accompagnatore, ma incrociai lo sguardo azzurro di Joseph che sembrava non essersi perso nemmeno un movimento. La mia vanità sembrava troppo su di giri, così decisi di farle prendere il sopravvento almeno per un attimo, in modo che poi potesse starsene tranquilla e non darmi disturbo: sorrisi di nuovo, stavolta più apertamente e senza curarmi di farmi vedere, e li incitai a smuoversi di là.

«Andiamo, allora?»

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Capitolo 13
*** XIII ***


XIII

 

 

 

«Stupido microcefalo» sbottai a un certo punto, quando finalmente riuscii a trascinare Amber in bagno senza l’ingombrante e fastidiosa presenza di Emily. Lanciai il mascara contro lo specchio del lavandino, per poi dare le spalle al mio stesso riflesso. Era proprio vero che lo specchio poteva essere considerato il migliore amico delle donne perché non mentiva mai, e in quel momento mi stava ricordando che un’espressione funerea come quella che stavo mostrando non era proprio coerente con la meravigliosa serata che un occhio esterno avrebbe dovuto vedere mio malgrado. Avrei dovuto essere felice di avere un ragazzo che passava ogni secondo ad infilarmi la lingua in un orecchio, perché voleva dire che era molto attratto da me. E invece no, io lo detestavo e detestavo anche quell’altro, il ragazzo della mia nemica del liceo, che però continuava a lanciarmi sguardi di un’intensità disarmante, forse ricordando la strusciata che, peraltro, ci eravamo dati poche ore prima proprio sul tavolo della mia stanza.

«Cerca di resistere – sospirò Amber, senza però insistere troppo – Mi dispiace tantissimo, lo sai.»

«Lascia perdere – replicai, rimettendo i trucchi nella borsa con un gesto seccato – Non è colpa tua. Sono io che non dovevo farmi imbambolare da Joseph e prima ancora da Dave. Dio, non so proprio scegliermeli gli uomini!»

«Ma Joseph è fidanzato – mi fece presente, dubbiosa – Teoricamente non…»

«Dave non sta forse con Elettra?» domandai retorica, interrompendo il suo discorso. Non volevo sentire che tra me e Joseph non c’era nulla perché Emily era la sua ragazza, non volevo sentire niente. Non volevo rendermi conto che per me quell’idiota era già importante. Più del consentito.

«Andiamo» la incitai poi, vedendo che non rispondeva. Non volevo metterla in difficoltà solo perché io non sapevo vivere una vita semplice, lontana dai guai.

Tornammo al tavolo e la prima cosa che fece Dave fu infilarmi una mano tra le gambe – chiaramente scoppiai di gioia come una testata nucleare, emettendo radiazioni degne di Hiroshima. Fortunatamente non risalì mai oltre la metà coscia, ma era già abbastanza fastidioso così, perché mi costringeva a mantenere la guardia ancor più alta.

«Puoi smetterla, per favore?» sibilai al suo orecchio con un sorriso finto ma, per tutta riposta, mi baciò e interruppe qualsiasi protesta che sicuramente sarebbe nata dalla mia bocca.

Improvvisamente, però, sentii un’altra mano carezzarmi la gamba, fortunatamente non la stessa, e mi resi conto che Joseph era seduto al mio fianco. Che strano, prima c’era Drew.

Un momento. Non potevo credere che stesse succedendo davvero.

Gli lanciai uno sguardo confuso e pieno di rancore, non volevo credere che entrambi stessero facendo la stessa stupida cosa. Erano paragonabili, allora. Erano due microcefali.

«Tutto bene, Phee?» mi chiese Amber, vedendomi strabuzzare gli occhi dallo sconvolgimento. Annuii senza spiccicare parola e per temporeggiare un po’ vuotai d’un fiato quel che restava della mia birra. Non molto, purtroppo.

«Ho solo caldo» mi giustificai, guardando Emily con la coda dell’occhio. Sperai vivamente che non si fosse accorta della mano del suo ragazzo che vagava sotto la mia gonna.

Ah, no. Quella era la mano di Dave, stava sulla destra. La presi e la scostai malamente, piantando le unghie nelle sue dita. Gemette lievemente dal dolore, ma lo sentii solo perché eravamo molto vicini. Dubitavo che chiunque altro se ne fosse accorto.

La mano di Joseph invece era più delicata, sfiorava in leggere carezze la pelle appena sopra il mio ginocchio, ed era anche piacevole se proprio dovevo essere sincera. Ma la scostai ugualmente: non era diverso da Dave sotto certi punti di vista.

«Allora usciamo a prendere aria – mi propose con calma serafica, totalmente incurante del fatto che avessi appena respinto le sue avances e che la sua ragazza ci stesse guardando con attenzione – Ti devo giusto una sigaretta.»

Come se fumassi.

«Esco anch’io» si intromise Dave, lanciando un’occhiata torva prima alla mia scollatura e poi a Joseph. Credeva che la sua conquista sarebbe stata in pericolo e probabilmente aveva ragione, ma non avevo proprio voglia di perdermi quei cinque minuti di pace senza i suoi tentacoli sotto i vestiti – sempre che di pace si potesse parlare, dato che qualcosa mi diceva che sarei finita dalla padella alla brace.

«Non è necessario – sorrisi, allungandomi poi a dargli un bacio – Facciamo presto, tranquillo.»

Rimase imbambolato con gli occhi socchiusi anche mentre ce ne andavamo e sogghignai, sapendo che in quel momento lui mi credeva nuovamente ai suoi piedi e non avrebbe temuto in alcun modo la presenza di Joseph; era facilmente impressionabile, dopotutto. Allo stesso modo Emily, vedendoci così affiatati, rilassò le spalle e non sollevò altre obiezioni, limitandosi a guardarci uscire insieme.

Una volta fuori, però, fui investita dall’aria fredda che tirava. D’accordo, era estate, ma eravamo pur sempre in Gran Bretagna. E il mio giubbotto era dentro, ordinatamente posato sullo schienale della sedia. Dannazione.

«Sai – buttò lì Joseph, accendendosi una sigaretta – Se non avessi lanciato quella frecciatina, poco fa, avrei pensato che quei preliminari focosi su una scrivania fossero stati solamente il frutto di un mio sogno.»

«Non credo che tu sia così pazzo di me da sognarmi addirittura» ribattei piccata, incrociando le braccia per scaldarmi un po’ e distogliendo lo sguardo dal suo, forse troppo profondo per me, in quel momento.

«E tu? – chiese, evitando sapientemente la mia provocazione che, però, ero sicura che non fosse andata a vuoto – Sembra che sia tu ad esserti dimenticata di avermi baciato. Mi tratti come un estraneo.»

«Questo non è affatto vero – precisai, stizzendomi ancora di più – Ma se preferisci rifare sul tavolo del pub quello che abbiamo fatto sul mio tavolo hai solo da chiedere. Penso che Emily sarebbe davvero entusiasta di farci un video e poi guardarselo tutte le sere prima di andare a dormire. O magari lo metterebbe su YouTube, giusto per farsi vedere felicemente cornu…»

«Il problema, quindi, sarebbe Emily?» mi interruppe con veemenza, avvicinandosi di qualche passo. Portò una mano a scostare un ciuffo di capelli dal mio viso e ringraziai il cielo che l’altra fosse occupata con la sigaretta, o avrei rischiato di trovarmi intrappolata tra un muro e un uomo per l’ennesima volta.

«Scusami – allibii sconvolta: non potevo credere che per lui fosse un problema di poco conto, e subito dopo mi maledii per aver implicitamente ammesso che se non fosse stato per quello sarei già stata tra le sue braccia. Ma aveva ancora senso mentire dopo il bacio di poche ore prima? – Ma in occidente la poligamia non è legale. E se anche lo fosse stata ti avrei mandato al diavolo ugualmente.»

Inarcò le sopracciglia perplesso; forse non credeva che nonostante tutto fossi ancora così piccata, agguerrita e determinata a tenermelo lontano, ma evidentemente non mi conosceva abbastanza, sebbene sembrasse vantarsi della sua capacità di guardarmi dentro e leggermi come un libro aperto.

«Infatti – continuai con tono saccente – Forse oggi eri troppo preso dal tuo testosterone, ma, se per caso ti ricordi qualcosa oltre alla scena sulla mia scrivania, ho anche detto che non ho la minima intenzione di essere messa al secondo posto.»

«E io ti ho detto…» provò a controbattere, ma di nuovo lo fermai.

«Lo so quello che mi hai detto, ma sono già stata additata come una poco di buono, per non dire altro, quando uscivo con Dave. E pensa: nemmeno sapevo che l’avesse, una fidanzata. Ma stavolta lo so, quindi vedi di starmi alla larga il più possibile, prima che sia troppo tardi

«Troppo tardi? – sussurrò, buttando la sigaretta fumata solo per metà per poter posare entrambe le mani sulle mie spalle. In una lenta carezza risalì fino al mio viso, sfiorandomi gli zigomi con le dita – Non sai quanto vorrei che lo fosse già.»

Forse lo è.

Evitai accuratamente di dirglielo, però, anche se avrei voluto disperatamente. Stavo cedendo.

«Hai freddo» mormorò d’un tratto, guardandomi con intensità. Distolsi lo sguardo, affrettandomi a negare con il capo. La spavalderia che avevo vantato fino ad un momento prima si era dissolta nel nulla davanti al suo sguardo così liquido.

«No, sto bene così» replicai, venendo però tradita dall’ennesimo brivido che mi fece battere con forza i denti. Dopotutto avevo le spalle completamente nude.

Improvvisamente però sentii della stoffa morbida sfiorarmi la pelle e mi resi conto che Joseph mi aveva coperta con la sua camicia. Incrociai il suo sguardo, così dannatamente vicino, e quando alzai una mano per sistemare l’indumento sfiorai inavvertitamente le sue dita. Una scossa profonda partì dal punto in cui le nostre mani vennero a contatto e rabbrividii ancora di più.

E fu ancora peggio quando lo vidi avvicinarsi alle mie labbra. Le sfiorò leggermente, come se volesse assaporare il mio sapore per davvero. Come una prima volta. O forse l’ultima.

«Joseph» gemetti con tono di supplica, scostando un po’ il capo.

«Perché? – mi chiese determinato ad ottenere ciò che desiderava – Fatti dare soltanto un dannato bacio, ti sto supplicando

«Torniamo dentro – replicai invece, scuotendo il capo mestamente – Emily e Dave ci aspettano.»

«Dave non è il tuo ragazzo per davvero!» protestò, prendendomi per le spalle. Come potevo resistergli, se si comportava in quel modo? Avrei ceduto molto presto, volente o nolente.

«Ma tu stai davvero con Emily – l’avevamo appena fatto quel discorso e non avrei sopportato di sentirlo di nuovo – Non voglio ripetere tutto da capo.»

Faceva troppo male.

«Phoebe, domani…» mormorò mogio e il tono che usò, come se si sentisse in colpa per qualcosa, mi impedì di starlo a sentire.

«Non importa – replicai, alzando una mano per fermarlo – Rientriamo.»

Sapevo che non avrei dormito quella notte al solo pensiero di ciò che avrebbe voluto dirmi, ma non ero psicologicamente pronta per una botta delle sue. Sapevo che, qualunque cosa mi avesse detto, avrei sofferto. Soprattutto perché non volevo vederlo, domani, non volevo che uscissimo di nuovo tutti insieme, sempre domani. Volevo leccarmi le mie ferite in santa pace, perché ce n’erano in abbondanza, e la colpa era tutta mia.

«Pensavamo vi foste persi – sogghignò Emily per accoglierci, quando finalmente tornammo al tavolo – Tutto bene?»

«Certo amore, perché?» chiese Joseph, dandole un bacio su una tempia.

«Non so, avete due facce…»

Dave, vedendo il gesto di Joseph, si affrettò a tuffarsi di nuovo su di me. Fu molto meno educato e molto più plateale, visto che la sua lingua mi carezzò praticamente le tonsille.

«Non potresti essere un po’ meno volgare, tesoro?» sibilai melliflua, piantandogli le unghie nel collo con l’intento di lasciare dei solchi profondi.

«Aspetta – esclamò di nuovo Emily – Joseph, dove hai lasciato la tua camicia?»

Il diretto interessato guardò il suo petto, coperto solo da una maglietta grigia con la stampa di una chitarra, e poi guardò me, che indossavo la suddetta camicia a quadri sopra il vestito.

«Ce l’ho io – sorrisi, togliendomela per ridarla al proprietario – Scusami.»

«E di che cosa? – domandò Joseph, strizzandomi un occhio con complicità. Tutta la tensione di poco prima sembrava essersi dissolta nel nulla per lui, ma certamente non per me – Avevi freddo.»

«Che dolce il mio amore – ridacchiò Emily, posando il capo sulla sua spalla, ora nuovamente coperta dalla camicia – Sono felicissima che siate diventati amici. Sei importante per me, anche se non ci vedevamo da tanto tempo, e poter passare una serata insieme mi fa stare bene.»

Scambiai un rapido sguardo con Amber e Drew, ignorando Dave che ovviamente mi stava addosso come una calamita. I loro occhi mi stavano supplicando di stare calma, di non fare quello che mi si leggeva in faccia che avrei fatto, e provai ad ascoltarli.

Ma non ci riuscii.

«Sai, Emily, non capisco perché viga tra di noi questa stupida regola della recita scolastica – sbottai infine, complice forse la seconda Gordon Platinum che Amber mi aveva obbligata a bere poco prima di uscire – Mi sono stufata di fingermi tua amica. Ti odio esattamente come ti odiavo cinque anni fa e sono sicura che per te è lo stesso. Quindi puoi anche smetterla di essere così caritatevole e sdolcinata. E se vuoi posso renderti felice un’altra volta: io e Dave non stiamo insieme, ma gioirai nel sapere che grazie a te è rientrato prepotentemente nella mia vita e non riuscirò a scollarmelo di dosso senza scartavetrarmi la pelle. Quindi sì, mi hai dato fastidio di nuovo in un solo giorno, come ti è sempre piaciuto fare. Dopotutto è sempre stato quello il tuo scopo.»

E lasciai tutti lì, compreso il mio presunto fidanzato che mi guardava sconvolto, ancheggiando fuori dal locale con una sicurezza che non avevo mai avuto. Forse qualcuno mi seguì, ma andavo troppo veloce e, per una volta, la fortuna fu dalla mia parte: un taxi passò proprio in quel momento e lo chiamai al volo, facendomi portare verso casa, lontana da tutta l’ipocrisia e il bombardamento di sensazioni contrastanti che nessuno, nemmeno io con la mia corazza, avrebbe retto senza conseguenze. E forse, se provavo quella strana sensazione alla bocca dello stomaco ogni volta che pensavo a Joseph, la corazza indistruttibile che tanto vantavo faceva acqua da tutte le parti.

E non sarei mai dovuta arrivare a quel punto per capirlo.

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Capitolo 14
*** XIV ***


XIV

 

 

 

Il giorno dopo non ebbi tregua: lavorai da mattina a sera in biblioteca, con la signora Flynn che mi tartassava di domande a cui non sapevo rispondere. Fortunatamente sua figlia venne a trovarci e, capita l’aria che tirava, attaccò a parlare della California e della sua vita americana. L’America mi ricordò Joseph e anche ciò che doveva essere una distrazione si rivelò l’ennesimo modo per incrinare la mia già instabile tranquillità. Era come se tutta la Gran Bretagna si stesse rivoltando contro di me, facendomela pagare per qualcosa di cui non ero a conoscenza.

Tornai per cena, facendo una doccia al volo e mangiando altrettanto velocemente, poiché io e Amber avevamo una festa di laurea. Fortunatamente, o forse no, scoprii soltanto durante la cena cosa volesse dirmi Joseph quella dannata sera. E non mi piacque per niente. Fu Amber ad informarmi, forse credendo che lo sapessi già, ma come al solito la sua mancanza di giri di parole risultò essere una specie di pugno nello stomaco senza che lei nemmeno se ne rendesse conto.

«Adesso come farai?» chiese. Non ci eravamo viste prima, durante il giorno, dato che io avevo lavorato e lei era stata rinchiusa in università per preparare quella dannata tesi che faceva impazzire lei e le persone che la circondavano.

«Di che parli?» domandai subito dopo aver deglutito un boccone, mentre con il telecomando facevo zapping alla velocità del suono. Non avevamo tempo di cincischiare, ma lo zapping era sempre stato una mia abitudine.

«Di Dave, di Joseph…» elencò, agitando blandamente la forchetta.

Le lanciai un’occhiataccia: toccava a me pulire la cucina quella settimana, non volevo che si trasformasse in un porcile! In cambio ricevetti solo un sorrisino di scuse e un incitamento a rispondere alla sua domanda. Così sospirai, ricapitolando tutti i pensieri che mi frullavano nella mente da poche ore. Avevo ripercorso la serata mille volte e mi soffermavo sempre di più a chiedermi cosa diavolo avesse voluto dirmi Joseph prima che lo interrompessi. Non sapevo che lo avrei scoperto proprio in quel preciso momento.

«Dave è un idiota» sentenziai infine, decidendo che insultarlo fosse sicuramente meno impegnativo che parlare di Joseph e delle cose senza nome che mi provocava.

«Lo sappiamo – annuì la mia migliore amica – Ma mi ha detto che è davvero intenzionato a riconquistarti, e sai che lo farà con ogni mezzo.»

«Purtroppo la povera idiota che ne pagherà le conseguenze sarò ancora io» sbuffai sconsolata, scostando il piatto con stizza: mi era passata la fame sentendo di quell’odissea che sicuramente avrei dovuto passare, per colpa di un ragazzo talmente borioso da non capire quando riceveva un due di picche. Era anche vero, però, che Joseph sarebbe presto tornato negli Stati Uniti e io dovevo trovarmi qualcuno che distraesse la mia mente.

Chiodo scaccia chiodo, insomma. Nessuno aveva mai davvero creduto nell’efficacia di quell’espediente così ortodosso, perché io avrei dovuto essere diversa? Senza contare il fatto che, tra due chiodi così controproducenti, forse avrei scelto ancora Joseph.

«E di Joseph che mi dici? – insistette – Vi siete detti qualcosa?»

«Ha tentato di convincermi che il suo fidanzamento sia di secondaria importanza – sbuffai, passandomi una mano nei capelli umidi – E ovviamente mi ha baciata. Per fortuna sono riuscita ad allontanarmi prima che la sua spocchiosa lingua mi facesse un’ispezione del cavo orale.»

«Ma tu guarda che stronzo – sibilò Amber; era divertente il modo in cui si preoccupava per me, perché sembrava fosse lei a vivere in prima persona tutto quello che, invece, passava sulla mia pelle – Per fortuna che se n’è tornato in America, anche se un po’ mi dispiace che vi siate lasciati così male.»

Boccheggiai, sentendo le sue parole. La vista si offuscò per un momento e, mandando al diavolo il mio orgoglio per una misera volta, lasciai che il mio corpo si sentisse male.

 

«Phoebe, domani…» mormorò mogio e il tono che usò, come se si sentisse in colpa per qualcosa, mi impedì di starlo a sentire.

 

Maledizione, se l’avessi ascoltato! Mi odiai profondamente: non potevo credere che se ne fosse andato e che, con la mia solita impulsività, non gli avessi nemmeno dato il tempo o la possibilità di dirmelo. In quel momento capii finalmente perché la sua espressione fosse così truce e perché la sua voce fosse così priva di quella solita vitalità che lo caratterizzava.

Ero un’idiota.

«Phee? – balbettò la mia migliore amica, sbattendo gli occhi incredula – Non dirmi che non lo sapevi, non dirmi che non te ne ha fatto parola!»

«Lui… – sussurrai, scuotendo il capo per riprendermi dallo sconvolgimento e per mostrarmi superiore – Lui ha tentato di dirmelo, ma io mi sono rifiutata di starlo a sentire. Ero arrabbiata, ero furibonda. Sono stufa della gente che gioca con i miei sentimenti come se fossi un bambolotto. Che diavolo ho scritto in fronte, eh?»

«Quando te ne sei andata, ieri sera – prese a raccontare, lo sguardo perso nel ricordo – Voleva seguirti, ma gliel’ho impedito. Non sapevo come avresti reagito, ma sapevo che se eri così sconvolta una parte di colpa doveva per forza essere sua. Poi, per qualche miracolo divino, siamo riusciti a stare un momento da soli. Dovresti ringraziare l’abilità di cantastorie del mio ragazzo per questo… ma, dicevo, siamo rimasti da soli e mi ha detto di porgerti le sue scuse. Però non mi ha detto per che cosa. Ora ho capito.»

«Che idiota! – gemetti, sbattendo la fronte sul tavolo – Io mi rifiuto di starlo a sentire e lui mi chiede scusa. Cos’ho fatto di male nella vita?»

«Forse le sue scuse sono per questa situazione in generale, ci hai pensato?» ipotizzò, aiutandomi a sparecchiare.

«Se davvero si fosse invaghito di me a tal punto non ci metterebbe molto a lasciare Emily» sibilai iraconda, sbattendo nel lavandino i piatti con un po’ troppa forza. Grazie al cielo rimasero intatti, ma un brivido di terrore mi strinse la schiena per un momento. Mancava soltanto di rompere i piatti, tagliarmi le mani con le schegge e non poter portare i vassoi al pub!

Ero così tragica.

«Non hai pensato che potrebbe tenere a lei e non voglia ferirla?»

«Se tenesse a lei non avrebbe tentato di baciarmi praticamente dalla prima volta che ci siamo visti, compresa ieri sera con la sua ragazza, quella a cui tiene così tanto, dall’altra parte della parete.»

Amber scosse il capo, forse rinunciando a fare un ragionamento con me. E a ragione, perché ero ancora troppo scossa e furiosa con lui e con me stessa per poter utilizzare l’obiettività che mi aveva donato madre natura. Sempre che me ne avesse donato anche solo un briciolo.

Ai miei occhi, in quel momento, Joseph era solamente un attore da strapazzo che, pur di fare il narciso con una qualunque ragazza incontrata per strada e che non mostrava un minimo di interesse nei suoi confronti, aveva iniziato a fare il cascamorto, finendo per farle del male e, forse, fare del male anche a se stesso. Per non parlare ovviamente della sua fidanzata, così tanto adorante nei suoi confronti, che per una presa in giro del destino era anche una mia ex compagna di liceo che mi detestava a morte, ovviamente ricambiata.

Decisamente, la situazione faceva schifo. E non potevo credere che il caso ce l’avesse così tanto con me da farmi patire un’agonia simile. Non mi ero mai trovata in una situazione così frustrante.

Così mi rinchiusi in bagno, cercando di rendermi un po’ più presentabile – o, almeno, di togliermi gli occhi sbarrati dalla faccia –, e poi lasciai che la mia migliore amica mi trascinasse a quella maledetta festa a cui non avevo nessuna intenzione di partecipare.

Il locale era in una piazzola dimenticata da dio, ed era famoso solamente per il costo pressoché ridicolo dei cocktail. Era sempre pieno di ragazzi ubriachi, ma che si divertivano come pazzi. Non contavo più il tempo dall’ultima volta in cui mi ero presa una sbronza e avevo potuto comportarmi da universitaria comune. Mi sembrava persino che quell’ambiente fosse diventato più squallido, o forse la spocchia di Joseph – che vedevo solo io – mi aveva contagiata a tal punto.

Ma, dopotutto, se avessi vinto quel meraviglioso master a cui tanto agognavo, avrei avuto altri due anni di tempo per comportarmi in modo più appropriato e diventare una perfetta donna di società, con tubini inguainanti e mascara sempre perfetto. Quel quadro mi disgustava quasi quanto quello delle sbronze in una piazzetta nascosta nei vicoli di Londra.

«Phoebe – la voce di Joel, il neodottore, mi distolse dai pensieri poco filosofici in cui mi stavo perdendo e lo abbracciai, rendendomi conto troppo tardi di chi avesse di fianco – Che bello vederti dopo… quanto? Quattro mesi?»

«Due – precisai con un sogghigno acido, ostentando indifferenza nei confronti di quegli occhi scuri che mi fissavano in modo troppo curioso – Vedo che hai portato a spasso il cagnolino.»

L’animaletto in questione, per gli amici David Rosenberg, non smetteva di osservare ogni centimetro del mio corpo con bramosia malcelata, complici forse i mille bicchieri di whiskey che aveva già trangugiato. Sperai non provasse a baciarmi.

«Sei bellissima stasera, Phoebe» mi disse e con la coda dell’occhio vidi Joel allontanarsi divertito, scuotendo il capo ininterrottamente. Che colpa ne avevo io se Dave era un idiota? E, soprattutto, dove diavolo si cacciava ogni benedetta volta la mia migliore amica quando avevo più bisogno del suo supporto morale e fisico?

«Grazie» sbuffai disinteressata senza nemmeno guardarlo in viso. Fu il mio più grande errore, poiché non mi accorsi dei suoi passi avanti e mi resi conto che mi stava baciando solo quando sentii la bocca invasa dal forte e aspro sapore del liquore preferito di Dave. Lo spintonai con tutta la mia forza, fulminandolo con lo sguardo. Arretrò di svariati passi fino a sbattere le spalle contro un muro e mi sentii soddisfatta: almeno da ubriaco aveva la peggio con me.

«La mia risposta non è cambiata, razza di idiota – sibilai, puntandogli un dito contro – Esattamente come non è cambiata la mia insofferenza per le persone che mi baciano a tradimento e perlopiù con quell’osceno sapore in bocca. Tornatene dalla tua ragazza: è ora che ti renda conto che non è un tappetino, così come non lo sarò mai più nemmeno io.»

«E da quando ti importa di lei?» mi sfidò con un sogghigno, cingendomi i fianchi con le braccia. Il suo sguardo era liquido per via dell’alcol, forse troppo, e la voce strascicata era insopportabile ancor più del solito.

«Non mi importa di lei, non sarò certo io la goccia che farà traboccare il suo vaso – ribattei stizzita e sarcastica, provando ad allontanarmi senza risultato – Ne hai avute così tante che ormai una in più non farebbe differenza. Dico bene?»

«Tu sei diversa, sei speciale.»

Sarebbero state delle bellissime parole, indubbiamente, se non fossero state pronunciate da una persona del tutto discutibile e se il sorrisetto spavaldo della suddetta persona non fosse stato in netto contrasto con esse. Non era mai stato un ragazzo romantico, lui prima se le portava a letto e poi… poi niente, poi le scaricava. Non esisteva un “poi” con quell’idiota.

«Allora posso già considerare la mia testa impalcata di corna pur non essendo la tua donna.»

Forse avrebbe dovuto sentirsi lui speciale. Insomma, stava tirando fuori la parte peggiore di me e non ci era riuscito nemmeno Joseph con la sua terribile insistenza. Non era, però, da sottovalutare il fatto che Dave fosse molto più insistente di Joseph e con decisamente meno classe.

«Sono cambiato.»

«Non è vero – replicai tranquilla, rinunciando a divincolarmi. Incrociai le braccia sotto il seno, in modo da mettere una seppur minima distanza tra noi, e indossai la mia migliore espressione di sufficienza – Altrimenti non saresti qui a provarci come un assetato nel deserto pur avendo una ragazza da qualche altra parte, magari che ti aspetta.»

«Tu sei più importante di lei» tentò di nuovo e in risposta stirai un sorrisetto di compatimento.

«Dici? Allora lasciala e poi torna a dirmi tutte le tue stronzate del caso.»

Lo spintonai di nuovo e riuscii ad allontanarmi, proprio quando credeva che mi fossi arresa a rimanermene placida tra le sue braccia. Se mi avesse conosciuta anche solo la metà di quanto ogni persona normale conosce l’altro dopo una relazione semiclandestina di un anno, allora avrebbe saputo da solo che non ero mai stata placida nemmeno nella culla, ma dagli idioti ci si aspetta questo.

«È per quel damerino inglese, non è vero?»

«Dio! – mi voltai da sopra una spalla, guardandolo con la coda dell’occhio – Qui siamo tutti inglesi, sei tu l’unico cresciuto mezzo tedesco.»

«Lascia perdere – ringhiò, perdendo la pazienza. Mi allontanai di un altro passo, sempre dandogli le spalle, ma mi agguantò un braccio e mi fece girare – Cosa provi per lui?»

Sbarrai gli occhi, sentendomi colpita da quella domanda più profondamente di quanto credessi. Cosa provavo per Joseph? Non lo sapevo. C’era ancora una parte di me convinta di odiarlo. Risi di me stessa e risi di Dave. Forse eravamo destinati a stare insieme, eravamo due idioti.

«Phoebe.»

La voce ammonitrice di Amber mi destò dai miei pensieri e colsi al volo l’occasione per fuggire a gambe levate. Lo sguardo preoccupato della mia migliore amica mi fece chiaramente capire che mi avrebbe portata a casa in meno di dieci minuti, e non potei che esserle grata.

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Capitolo 15
*** XV ***


XV

 

 

 

Dave era un idiota.

Probabilmente era la frase che ripetevo più spesso da qualche settimana a quella parte, ma davvero non riuscivo a spiegarmi per quale motivo lo fosse così tanto. Anche in quel momento, mentre pulivo il bancone in attesa che iniziasse la serata, mi stava fissando con quell’espressione idiota che lasciava presagire un sacco di guai. Mi irritava così tanto che avrei voluto cancellare quella faccia dalla mia vita, dalla terra intera, e possibilmente farlo a pugni e calci. Dopotutto, gli avevo già rotto il naso.

Erano passate tre settimane dall’ultima volta in cui aveva tentato di riconquistarmi, tre settimane in cui ero miracolosamente riuscita a evitare che mi assillasse come uno strozzino. Certo era, però, che anche Joseph si era volatilizzato, praticamente dissolto nel nulla. Non mi aveva mandato nemmeno un minimo messaggio, niente di niente. Si era limitato a seguirmi su twitter, ma di certo non avrei ricambiato se non fosse stata Amber ad entrare con il mio account da buona traditrice. Non usavo nemmeno quello stupido social, per cui era inutile.

«Stai tranquilla – mi blandì Andrew, passandomi a fianco con in mano un vassoio – Non ti disturberà questa sera: lo sai che Gary non transige.»

«Ma tu guarda, dovrò pure ringraziarlo quel maledetto schiavista» commentai piena di sarcasmo.

«Smettila – rise senza però darmi torto – Sarà carino stasera, anche se dovremo sgobbare un po’ di più.»

Gary aveva deciso di sperimentare un nuovo tipo di serata, e quale giorno migliore se non il venerdì in cui c’era il pienone? Dopotutto lui se ne stava seduto a un tavolino con Dave e quegli altri scimmioni senza cervello dei suoi amici, che gli importava se noi dovevamo dannarci l’anima per portare bicchieri, stuzzichini e da quella sera anche bigliettini?

Già, perché la sua ultima trovata si chiamava “serata incontro” e consisteva in uno scambio infinito di bigliettini da un tavolo all’altro: ragazzi che avrebbero scritto a ragazze, e viceversa. Sarebbero piovuti numeri di cellulare, proposte indecenti e chissà cos’altro. A quanto pareva, però, il personale doveva restarne fuori, anche se molto probabilmente nessuno avrebbe rispettato quella regola: le ragazze andavano matte per Drew, e Amber aveva sempre i capelli in piedi per questo.

«Phoebe» si lagnò la mia amica, venendo verso il bancone quasi di corsa. Mi sembrava strana, come se stesse cercando di trattenere il suo vero stato d’animo. Quale fosse, però, non avrei saputo dirlo.

 Sapevo che mi nascondeva qualcosa e ne ebbi la certezza quando scambiò prima uno sguardo con il suo ragazzo e poi lanciò un’occhiatina al tavolo di Dave e Gary.

«Che c’è?» chiesi, lasciando correre sul suo comportamento. Se gliel’avessi chiesto apertamente non mi avrebbe mai risposto, per cui tentai di aggirarla.

«Sostituiscimi un attimo ai tavoli, io preparo i cocktail al tuo posto. Ne ho abbastanza di questi bigliettini. Ah, e questo è per te.»

Come volevasi dimostrare.

Il suo tono così schietto e deciso non mi fece pensare nemmeno per un momento di rifiutare, ma la guardai in modo eloquente, promettendole che prima o poi le avrei fatto sputare il rospo. Peccato che, anche se ancora non ne avevo idea, il suddetto rospo me lo sarei trovato davanti in meno di cinque minuti. Anzi, lo avevo proprio tra le mani in quel momento.

Così aprii il bigliettino che mi aveva porto la mia migliore amica e lessi: “Un Alexander al B7, dolcezza.”

Roteai gli occhi: era possibile che non avessero capito il meccanismo? E dire che non era difficile, bastava chiedere alle mille cameriere che gironzolavano tra i tavoli. Così chiesi a Samantha di prepararmene uno mentre Amber sistemava il bancone e, quando lo finì, lo portai sul vassoio insieme ad altri due o tre bicchieri che andavano smerciati nelle vicinanze.

Sfrecciai in mezzo ai tavolini con agilità e abilità consumata, nonostante fossero mesi in cui, ormai, stavo trincerata dietro al bancone a maneggiare bottiglie. Qualche borioso idiota ebbe la meravigliosa pensata di tirarmi una stecca sul fondoschiena, sghignazzando complimenti e cose improponibili come “ci sei mancata fra questi tavoli e anche fra queste gambe”, ma non avevo tempo da perdere per loro.

Un rumore di sedie scostate attirò la mia attenzione, obbligandomi a voltarmi per vedere cosa stesse succedendo. Dave teneva sollevato per la maglia uno stuzzichino con i capelli rossi, che doveva essere l’idiota che mi aveva poco sottilmente dato della prostituta di basso borgo, come se lui per primo non l’avesse fatto per i due anni precedenti. Certo, mi aveva insultata con i fatti e non con le parole, ma l’aveva comunque fatto.

«Ancora un po’ più vicini – sogghignai, inclinando il capo da una parte – Così posso centrare la faccia di entrambi con un solo bicchiere. Offre la casa.»

L’espressione da cucciolo bastonato di Dave fu impagabile, ma almeno anche l’altro idiota non osò più muovere mani o labbra a caso. Si limitò a guardarmi come se volesse spogliarmi, o uccidermi, ma non proferì più oscene battutine fuori luogo. Dopotutto bastava la sua sola presenza ad esserlo.

«Che cavaliere» sogghignò il ragazzo del tavolo B7, quello che voleva un Alexander.

Non mi voltai a guardarlo, rimasi per un momento con lo sguardo puntato su Dave, cercando di capire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Si limitò a tornare al suo tavolo con la coda tra le gambe, ma  on uno sguardo che non prometteva di certo la pace. Così risposi al ragazzo, che sicuramente doveva essere un cliente abitudinario data la familiarità della sua voce, sempre continuando a tenere d’occhio il mio ex… ex e basta.

«Quasi quanto te che mi mandi i bigliettini solo per farti portare da bere prima del tuo turno.»

E gli posai il calice davanti. Fu solo quando alzai lo sguardo che persi sessant’anni della mia vita. Quel dannato uomo mi avrebbe fatta morire giovane con tutte quelle manie di apparire dal nulla.

«Joseph» allibii infatti, sbattendo gli occhi rapidamente, forse sperando che si dissolvesse nel nulla e che fosse solamente uno scherzo dato dalla stanchezza.

«Ciao Phoebe – sogghignò, assaggiando subito un sorso del drink. Fece una smorfia e scosse il capo – Questo non l’hai fatto tu.»

«Che ne sai?» chiesi.

«Non è buono come l’altra volta, si sente che chi l’ha preparato non se ne intende come te.»

Inarcai un sopracciglio. Effettivamente Samantha odiava il brandy e odiava preparare i cocktail con la panna. Gli rubai un sorso senza chiedere, riconoscendo che il mio Alexander fosse molto più buono.

«Mi dispiace – sbuffai indifferente, contraddicendo le mie parole con il tono della voce – Ma Amber mi ha chiesto di servire ai tavoli, non avevo tempo anche di preparare da bere ai damerini come te.»

«Pungente la ragazza» sorrise il giovane uomo seduto di fianco a Joseph. Solo in quel momento mi resi conto che non era da solo ma in compagnia di due adoni greci scesi direttamente dall’Olimpo con l’intento di farmi saltare le coronarie. Ian Somerhalder e Paul Wesley.

Allora capii fino in fondo lo sconvolgimento di Amber, aveva molto più senso considerando che almeno ogni settimana si sparava la sua dose di quella serie sui vampiri. Ed erano così dannatamente fighi che toglievano l’uso della parola.

«Puoi scommetterci – risposi al giovane con i capelli più chiari, Paul – Spero che tu e il tuo compare non siate ansiogeni come Joseph o mi vedrò costretta a sbattervi fuori a calci.»

«Tranquilla – rise anche Ian – Noi siamo impegnati.»

«Beh – sogghignai perfida, ammiccando in direzione di Joseph – Anche lui lo è.»

Paul diede una pacca sulla spalla a Joseph, mormorandogli qualcosa all’orecchio. Inarcai un sopracciglio con incredulità: erano proprio incuranti della mia presenza. Insomma, parlavano del mio rapporto con Joseph in presenza di entrambi. Non potevo crederci.

Improvvisamente lo sguardo mi cadde sul tavolino, sul quale facevano bella mostra di sé tre mucchietti esorbitanti di bigliettini accartocciati o appallottolati.

«E questi?» allibii, indicandoli con un dito. Era uno spreco di carta inimmaginabile: ogni singola persona del locale sembrava fosse intenzionata a passare la serata mandando bigliettini a quei tre.

«Perché credi che Amber ti abbia chiesto il cambio, tesoro?» rise Joseph, fissandomi con uno strano luccichio negli occhi. Inconsciamente arretrai di un passo e distolsi lo sguardo, con ogni barriera eretta a muro davanti a me, comprese le difese immunitarie: l’ultima volta in cui mi aveva fissata in quel modo eravamo finiti a baciarci selvaggiamente sulla scrivania della mia camera e al solo pensarci la mia schiena si riempiva di brividi ingovernabili.

Se solo non avessero bussato alla porta…

«Questo – esclamò d’un tratto Ian, forse per spezzare la tensione. Non avrebbe mai avuto la minima idea della reale entità della mia gratitudine – È il mucchietto delle ragazze che ci chiedono se siamo davvero noi.»

Beh, non erano poche. Probabilmente la maggior parte, ma immaginai che non ricevessero delle risposte soddisfacenti, o che non ne ricevessero affatto. Oppure, che alla maggior parte delle ragazze non interessasse minimamente la provenienza di tanta carne da macello.

«E voi cosa rispondete?» sogghignai, mentre ne approfittavo per caricare sul vassoio i bicchieri vuoti di Ian e Paul.

«Che non siamo noi, ovviamente – rispose proprio quest’ultimo, porgendomi una fetta di limone che non ero riuscita a raggiungere. Lo ringraziai – Che abbiamo vinto un concorso ad Edimburgo sui sosia di quei tre attori e ora siamo qui a girarci la Gran Bretagna. Se ci parlassero dovremmo fingere un accento… esotico. Ma sarebbe divertente.»

Sogghignai per l’originalità della farsa, nonostante fosse palese che era proprio una farsa, e anche per la pronuncia così americana di Gran Bretagna. Insomma, non era così che si pronunciava! Ci voleva più gola, più profondità.

Ah, mi stavo perdendo nelle pronunce altrui, ma, d’altra parte, avevo passato gli ultimi cinque anni a viaggiare e studiare ogni sfaccettatura dei linguaggi.

«Carina – commentai – Ma non vi avrei creduto.»

«Infatti non ci crede nessuno – rise Ian, giocherellando con lo spigolo di un foglietto – Continuano a chiederci la verità.»

«Poi, però, c’è anche quest’altro mucchietto – mi fece presente Joseph e per un attimo rimasi ipnotizzata sulle sue mani che giocavano con la carta in quel modo così provocante. Lo stava facendo palesemente di proposito – Qui ci sono quelle ragazze che ci chiedono se siamo disposti a tradire le nostre donne e ci corteggiano apertamente.»

«E siete disposti a farlo?» chiesi. Stavo diventando una provocatrice infame, mi detestavo da sola eppure non riuscivo a smettere. Mi sembrava di sentire la voce della mia migliore amica nella testa che mi redarguiva sulla mia sconsideratezza e mi faceva notare che, se avessi continuato in quel modo, non avrei avuto più alcun diritto di lamentarmi delle avances di quell’attore ingrato con l’ego più grosso di Buckingham Palace. E come avrei potuto darle torto?

«Beh – sogghignò appunto Joseph, senza dare il tempo ai suoi compagni di rispondere al suo posto. Era un povero illuso se credeva di conquistarmi in quel modo, io sapevo già che non si faceva scrupoli nemmeno con la sua ragazza alla distanza di pochi metri – Non con la prima che capita, decisamente. Dovrebbe essere una donna capace di colpirmi molto più di Emily, più affabile di lei, più magnetica, più solare, più tutto.»

«L’opposto di me, quindi» sbuffai sarcastica. Voleva giocare? E allora avremmo giocato.

«Mi associo a Jos – saltò subito in mezzo Paul, avendo la saggia pensata di bloccare quella discussione spinosa sul nascere – Ma ce ne vuole per superare Torrey, non a caso ci siamo sposati.»

«Concordo anch’io – annuì Ian con un sorriso innamorato. Mi sarebbe piaciuto che un uomo pensasse a me con un sorriso del genere, forse non era mai successo. Ma forse non avevo mai avuto un uomo degno di quel nome – Non penso troverò mai donne come Nina.»

«Comunque – continuò Joseph, senza osservarmi direttamente in viso: i suoi occhi vagavano ansiosi ovunque tranne che su di me, mi evitavano con un’accuratezza degna di nota, come se il rischio di posarsi su di me li mettesse nella posizione di prendere fuoco – Mi porti un altro Alexander? Fatto da te possibilmente.»

«Non ho tempo» replicai, mentre indietreggiavo di un passo per andarmene. Gary mi guardava eloquentemente dall’altra parte del locale e gli dedicai un sorriso di scuse il più credibile possibile, ma era famoso per la sua severità – anche se preferivo chiamarla schiavismo – e una smorfia languida non sarebbe servita a niente.

«Non ascoltare Jos, è viziato» rise Ian, dandogli un colpetto lieve sulla spalla. Risero tutti insieme, erano carini visti così, dopotutto.

«Cos’è quello?» esclamai improvvisamente, indicando un piccolo gruppo di foglietti appallottolati sotto le mani di Paul. Non me ne avevano parlato, erano forse insulti nei miei confronti? Paranoia.

«Quello… – Joseph si schiarì la voce prima di proseguire – Lì ci sono le avances più spietate.»

Presi un bigliettino a caso, curiosa, e lo aprii. Era indirizzato a Joseph e il contenuto era così… indecente che arrossii furiosamente, posandolo di nuovo al suo posto. Mi lanciò uno sguardo impenetrabile e preferii prendere le distanze prima che davvero capisse che mi ero immaginata con lui nella stessa situazione di quel bigliettino.

«Torno al lavoro – borbottai cupa – Non vorrei che Gary mi licenziasse davvero.»

E li lasciai lì a lanciarsi occhiatine consapevoli, fingendo di non accorgermi di nulla.

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Capitolo 16
*** XVI ***


XVI

 

 

 

Vidi Joseph molto spesso quella sera, molto più spesso di quanto avessi voluto, ma da ogni tavolo piovevano decine di bigliettini destinati a quel dannato B7 e mi vedevo costretta a passare continuamente di là per consegnarli, come se fossi stata una maledetta postina – dovetti anche stare al loro gioco, perché tutte le ragazze mi chiedevano se quelli fossero davvero gli attori di quel telefilm sui vampiri e no, dovevo sempre rispondere di no.

Ogni volta quel damerino idiota mi riempiva di sorrisini impertinenti e non avrei voluto fare altro se non lanciargli in faccia quei bicchieri che, imperterriti, continuavano a trangugiare come delle spugne. Ma l’alcol era acqua per quei tre maledetti?

L’unica cosa che mi trattenne dal lavare Joseph con della tequila fu il fatto che, poi, avrei dovuto pulire io personalmente. E un po’ anche l’espressione truce di Gary che, ogni volta che passavo vicino ai tre attori, mi teneva d’occhio come se fossi stata un detenuto durante l’ora d’aria.

Ma non era colpa mia se, o per i bigliettini o per le migliaia di drink, dovevo sempre passare di là! Continuando di quel passo avrebbero arricchito il mio capo e un’illusione si accese nella mia mente come una lampadina: forse, guadagnando di più, avrebbe sganciato i soldi degli straordinari che doveva a me e Drew. Amber, chissà come mai, riceveva le buste paga perfettamente puntuali. Sospettavamo che fosse invaghito di lei, ma Andrew alzava le spalle ogniqualvolta glielo facevamo notare: era convinto di essere mille volte meglio di Gary e, a ben pensarci, non aveva nemmeno tutti i torti.

«Questi – sbuffai sbattendo la mano sul tavolino B7 insieme a un’altra manciata di bigliettini – Sono gli ultimi. Tutti i tavoli hanno finito i fogli e anche noi non ne abbiamo più da dare.»

«Sarai contenta, immagino» rise Paul, agguantando i foglietti per smistarli. Ignorai le sue sopracciglia inarcate quando, molto probabilmente, si ritrovò davanti qualcosa di molto somigliante alla trama di un porno.

«Come nemmeno ti immagini – replicai con un sorriso – Non ne potevo più di vedere le vostre brutte facce.»

A quell’esclamazione le sopracciglia di Ian scattarono verso l’alto e mi guardò come se avessi detto un’eresia. D’accordo, era un’eresia bella e buona, ma avevo un minimo diritto di averne abbastanza. Anzi, i miei colleghi mi guardavano addirittura con compassione per la disgrazia di dover servire il settore del locale in cui stavano quei tre.

«Se noi tre siamo delle brutte facce tu sei Nina Dobrev» replicò con un invidiabile livello di autostima.

«Ottimo allora – sogghignai, piegandomi su di lui fino ad arrivare ad una spanna da quelle due ipnotizzanti pozze di ghiaccio – Ciò significa che ho tutto il diritto di provarci con te.»

Non era da me fare la gatta morta, ma me l’aveva servita su un piatto d’argento e dio solo sapeva quanto desiderassi farla pagare a quell’altro idiota che mi guardava fino a trapassarmi.

«Non t’azzardare!» esclamò sconvolto Joseph, spintonandomi leggermente all’indietro. La sua espressione corrucciata era impagabile, così scoppiammo tutti a ridere. Solo un momento più tardi mi resi conto che, in realtà, Ian aveva manovrato abilmente i miei fili per farmi rendere conto di come io e quell’egocentrico fossimo attratti l’uno dall’altra. Joseph lo sapeva bene anche senza quell’infame sotterfugio, ma ai suoi occhi ero io quella reticente. E lo ero sul serio, ma il vero problema non era capire cosa provassi… ma ammetterlo. E per quello ci sarebbe voluto ancora un bel po’, o così credevo.

«Me ne vado – decretai, facendo dietrofront – Mi innervosisce già abbastanza il caldo che c’è qui dentro, delle vostre idiozie non voglio nemmeno saperne.»

«Potresti spogliarti, anche se non credo ce ne sia poi così bisogno» ipotizzò Joseph mentre ammiccava con fare provocatorio, lanciando un’occhiata alla mia maglietta.

Abbassai lo sguardo sul mio corpo. D’accordo, ero piuttosto scollata con quella magliettina bianca dal pronunciato scollo a V, ma non mi sembrava il caso di guardarmi in quel modo, come se fossi stata una ballerina di burlesque. Senza contare che il grembiulino a righe non era esattamente da definire un indumento sexy.

«Vai al diavolo, idiota» replicai con uno sguardo di compatimento che con tutta probabilità spiegava ampiamente quanto la sua uscita fosse stata pessima. Forse la peggiore da quando lo conoscevo.

E me ne andai finalmente, lasciandoli lì a ridacchiare convulsamente come tre stupidi. D’accordo, due, perché Joseph non stava affatto ridendo. Per quel poco che potei osservare prima di dar loro le spalle, aveva indurito la mascella e mi osservava con quell’espressione indecifrabile che mi aveva sempre messa in difficoltà e che avrebbe continuato a farlo.

Così tornai da Amber, obbligandola con un’occhiata al vetriolo a scambiarci nuovamente le mansioni. Anche lei, come me poche ore prima, non se la sentì di contraddire il mio sguardo in fiamme e fece come le avevo chiesto.

Ero stanca della stupidità degli uomini, ero stanca di essere considerata il giochino di tutti. E ora ci si mettevano anche quei due maledetti americani a dare man forte a Joseph.

«Me lo fai un Midori Sour?»

Alzai lo sguardo, incrociando le iridi scure di Dave.

«Sloggia» sibilai secca senza un minimo di tentennamento. Continuai a preparare i miei cocktail fingendo che la sua insopportabile presenza si fosse dissolta nel nulla. Ma sentivo i suoi occhi addosso e mi infastidivano. Non sapevo come cacciarlo via.

«Voglio un Midori.»

Roteai gli occhi, sbattendo con poca grazia i drink pronti sul vassoio di Andrew, che con uno sguardo serio mi intimò di starmene tranquilla, buona e cara. Come se fosse stato facile mantenere il controllo del mio corpo e della mia mente con un borioso imbecille di quel calibro a portata di bicchiere.

«Mi sembrava strano che mi lasciassi in pace per troppo tempo, maledetto seccatore» sbuffai sarcastica. In quei giorni mi stavo acidificando più del normale; era incredibile come la sola presenza di quel ragazzo fosse sufficiente per mandarmi in bestia.

Lo guardai. Certo, era molto bello. Non sembrava tedesco, con quei capelli scuri e gli occhi così neri, ma non avevo badato alla provenienza quando l’avevo conosciuto.

Per un momento mi persi nel ricordo dei suoi sorrisi accattivanti, della rapidità con cui ero stata catapultata nel suo mondo fatto di passione e desiderio e mi chiesi perché non potessi ritornarci.

Passione e desiderio. E nient’altro.

Non fu difficile ricordare il motivo per cui non avrei potuto ripetere quella dannata esperienza. Io volevo di più dalla mia vita di un uomo che mi trattava come un giocattolo.

Joseph.

Perché in quel momento avevo pensato a lui? Il modo in cui mi guardava mi faceva impazzire, sarebbe stato davvero troppo facile cedere alle carezze del suo sguardo sulla mia pelle, al tocco delle sue dita e al sapore delle sue labbra. Tutto in lui era così tentatore da togliere il sonno, e il senno, ma qualcosa mi frenava.

La sua notorietà, la paura di essere ferita di nuovo, il suo fidanzamento di dominio pubblico.

Ma per quale motivo stavo rimuginando con una tale profondità mentre preparavo un cocktail per Dave? Già, perché alla fine gliel’avevo preparato. Avrei fatto di tutto pur di farlo stare in silenzio per un attimo, pur di evitare che allungasse i suoi maledetti tentacoli sul mio corpo o sulla mia libertà.

«Come sta Elettra?» soffiai mentre allungavo il bicchiere verso di lui. Mi sfiorò le dita con le sue per portarsi il drink alle labbra e non diedi alcun segno di aver notato il suo gesto. L’indifferenza era ciò che meritava e ciò che non sopportava. L’avrei ripagato così della sua insistenza.

«Non so – scrollò le spalle dopo aver bevuto un sorso – Credo bene.»

«Non esci mai con lei?» allibii. Avevamo già fatto quel discorso così tante volte negli ultimi due anni che oramai non tenevo più il conto. Era come parlare con un muro di cemento armato.

«Ci ha fatto l’abitudine» sogghignò, passandosi con lentezza la lingua sulle labbra.

«Credi di impressionarmi? – inarcai un sopracciglio, cominciando a pulire il bancone. Erano rimasti in pochi nel locale, si erano fatte le due e non era il massimo finire la serata in un pub – Te l’ho già detto poco fa, ma ripeterlo non ti farà male: sloggia

Invece me ne andai io, dandogli le spalle diretta all’altro lato del bancone. Presi a pulire tutto, passando poi ai tavoli. Era tardi quella sera, così raccattai i bigliettini e tutta la sporcizia il più rapidamente possibile, mentre Amber, con un perfetto gioco di squadra, mi seguiva con lo scopettone sotto lo sguardo di Gary, Dave, Joseph, Paul e Ian.

Siamo circondate da uomini idioti, avrebbe detto Amber. E ne avevo la certezza anche solo guardandola in faccia. Non avrei potuto darle torto, d’altronde.

Quando finimmo, ci ritrovammo fuori con i tre attori. Joseph e Amber fumavano placidamente una sigaretta mentre Drew, ancora dentro, finiva di sistemare le ultime cose facendo la spola dal retro. Avevo provato ad offrirgli una mano, ma mi aveva elegantemente sbattuta fuori, indignandosi anche.

«Io vado» decretai d’un tratto, lanciando un’occhiatina a Gary che parlava fitto con Dave in un angolo del locale. Mi domandai cosa dannazione avessero sempre da dirsi, da confabulare, e sperai che quell’idiota non mettesse in mezzo anche il mio capo nella speranza di riconquistarmi. Volevo lasciare la mia disgraziata vita privata fuori dal lavoro, per quanto fosse possibile con un ex che ogni sera ingrassava il portafogli del mio datore di lavoro a forza di birre e quant’altro. Ma non ce l’aveva un fegato?

«Così presto?» sbuffò Amber, lanciando un’occhiatina eloquente a Joseph, rischiando peraltro di farsi scoprire in pieno. Serrai la mascella, ma mi imposi di non fulminarla con lo sguardo, sarei stata ancor più palese di lei e volevo decisamente evitarlo.

«Ho aspettato anche troppo – spiegai spiccia – Gary non è un uomo di molte parole, soprattutto a quest’ora. Non credo che tratterrà Dave ancora a lungo, quindi farei meglio a sbrigarmi.»

Mi strinsi il giubbino di jeans addosso. Quella maglietta era davvero troppo scollata e a metà agosto ormai non era più adatta; mi domandai come ci fosse finita nel mio armadio, ma, nello stesso istante in cui mi ponevo la domanda, seppi già la risposta: erano i lati negativi di avere una migliore amica voltagabbana e tuttofare come Amber.

«Ti accompagno, dopo l’ultima volta non mi sembra il caso di andare sola» propose subito Joseph, ma scossi il capo con fermezza. Ignorai deliberatamente il suo sguardo da cucciolo bastonato e il lampo di delusione che passò sul suo viso, e ignorai anche l’istinto di abbracciarlo e baciarlo che mi nacque dentro vedendo la sua espressione. Era falsa, lui non era un cucciolo. Certo era però che, se avesse continuato su quella strada, sarebbe presto stato bastonato. Da me.

«Meno gente sparisce e meno probabilità ci sono che Dave si accorga della mia fuga» spiegai tranquilla. Non era nulla di personale, o almeno così gli feci credere.

In realtà, forse, la voglia di fuggire da lui era ancora maggiore di quella che avevo di fuggire da Dave. Avevo imparato a gestire Dave in qualche modo, ma con Joseph non sapevo come fare. Non ne ero in grado.

Così, come già avevo fatto circa un mese prima, infilai la porta sul retro con la copertura del mio fido compagno Andrew e camminai diretta verso casa, il passo spedito di un soldato in marcia.

Maledii la malsana idea di quella dannata città di chiudere le metropolitane dopo l’una di notte. Mi ero sempre chiesta secondo quale ragionamento avessero deciso una cosa del genere: in una metropoli come Londra nessuno gironzolava dopo quell’ora? C’era forse il coprifuoco?

Stavo delirando. E il peggio era che me ne rendevo perfettamente conto.

Succedeva solamente quando ero nervosa e di nuovo era colpa di Joseph: era stato lui a ricordarmi quando Dave mi aveva seguita, rincorsa e sbattuta contro un muro. Così, spaventata più dal fatto che potesse baciarmi di nuovo piuttosto che aggredirmi, velocizzai ancora di più il passo. Quando sbucai in Piccadilly, però, non potei non fermarmi e sorridere.

Non ero una ragazza romantica ma quella piazza, quel crocevia di strade, mi metteva i brividi. Tutte quelle luci avevano un che di arcano nella loro modernità, e avrei passato le ore a guardare tutte le scritte rincorrersi e rubarsi la scena. Fino a bruciarmi gli occhi.

Ma rimanevano pur sempre le tre di mattina e non era saggio rimanere là. Quando giunsi a casa dovetti anche armeggiare con il cancelletto. L’affittuario ci aveva dato un mazzo di chiavi tutte uguali e a quell’ora diventava improponibile ricordare i vari metodi di distinzione.

Quindi spostai il capo per permettere al lampione di illuminare la serratura, ma la luce venne presto coperta da qualcosa. Era una sagoma, una sagoma di una persona.

Il cuore schizzò in gola e mi voltai prendendo fiato, prontissima ad urlare. Ma una mano mi coprì la bocca, impedendomelo, e prima che potessi vedere in volto il mio aggressore un solo pensiero mi fulminò: merda.

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Capitolo 17
*** XVII ***


XVII

 

 

 

Il cuore mi pulsava in gola e nelle orecchie, batteva così forte che credevo mi avrebbe bucato il petto. Quella mano era dannatamente grande, mi copriva il naso oltre alla bocca e faticavo a respirare. Continuare a dibattermi come un’anguilla non sarebbe servito a molto, soprattutto perché era chiaro come il sole che lui fosse più forte di me, ma impiegai comunque più del dovuto a realizzarlo. Volevo solo respirare, non avrei chiesto altro. Dopotutto, con un po’ di ossigeno nei polmoni, forse sarei riuscita a rifilargli almeno una gomitata fra le costole.

Così sbattei ripetutamente gli occhi, lottando con il lampione che mi accecava, per mettere a fuoco il mio aggressore in modo da potermi ricordare il suo volto nel poco probabile caso in cui fossi rimasta viva dopo lo stupro o la rapina che stava per mettere in atto.

E ciò che vidi non era esattamente ciò che mi aspettavo. Sbarrai gli occhi, non potendo credere a ciò che avevo davanti. La situazione stava davvero degenerando.

«Io ti lascio la bocca – mi disse serio – Ma tu promettimi che non urlerai, non darai di matto e non farai nulla che possa destare l’attenzione di qualcuno di poco raccomandabile.»

Annuii con calma, senza sapere dove in realtà volesse parare. Avrei voluto fargli notare che era proprio lui quel qualcuno di poco raccomandabile da cui avrei dovuto guardarmi, ma la sua espressione era così tesa che non me la sentii di contraddirlo. Avrei avuto tempo prima o poi per una piazzata in grande stile, così decisi di lasciargli il tempo di scoprire le sue carte.

Lentamente allentò la stretta e, vedendo che ero perfettamente padrona del mio corpo e delle mie reazioni, la allontanò del tutto. Feci tutte le smorfie possibili ed immaginabili per riacquistare la sensibilità del viso, sotto il suo sguardo un po’ perplesso. Con che diritto, poi? Dovevo essere io perplessa e magari anche spaventata da quel mezzo rapimento.

Ma l’avevo già detto che ero circondata da idioti.

Così gliela feci pagare e, aprendo il cancelletto di scatto, entrai e lo chiusi tra me e lui.

«Avrai tempo di spiegarmi il motivo di questa tua ultima stronzata, ma non ora. Sono le tre di mattina e vorrei andare a dormire» sussurrai con un sorriso velenoso, facendo per avviarmi soddisfatta verso la porta di ingresso.

Stranamente non disse nulla, ma sentii i suoi occhi perforarmi la schiena, sempre con quell’intensità inimmaginabile che caratterizzava il suo sguardo. Se credeva che avrei ceduto solo perché mi aveva ipoteticamente protetta da un ipotetico aggressore si sbagliava di grosso. Anzi, lo sopportavo ancor meno per quella scenata degna da premio Oscar.

Ovviamente armeggiai un bel po’ con la porta; non voleva rispondere di giorno, figurarsi con il buio che non mi permetteva di vedere bene la serratura. Finalmente riuscii nel mio intento e, appena messo un piede all’interno, qualcosa bloccò la porta: era la sua mano.

«Che diavolo…» sussurrai concitata, vedendolo spingermi leggermente all’interno per poi chiudere. Mi spinse contro il muro, aderendo con il corpo al mio.

Non potei trattenere un sospiro e una scarica di brividi quando, posando le labbra al mio orecchio, parlò. Doveva smettere di giocare con i miei nervi in quel modo, ma proprio non riuscivo a metterglielo in testa.

«Ho scavalcato» mormorò sarcastico con la sua voce bassa e roca; quella carezza rovente, che dal lobo del mio orecchio scendeva fino al collo e poi di nuovo su fino allo zigomo, fu violenza al mio autocontrollo e mi morsi il labbro per non chiedergli di più, per non chiedergli di baciarmi e prendermi sul pianerottolo.

«Joseph.»

Imprevedibilmente sbarrai gli occhi e lo spintonai il più lontano possibile da me con tutta la forza che avevo e che, purtroppo, non era molta a quell’ora.

«Cosa diavolo significava quella sottospecie di aggressione nel bel mezzo di Londra, eh? – sibilai, sempre cercando di non alzare la voce – Sei un idiota!»

«Stai calma – mugugnò, quel sorriso impertinente che però non se ne andava dalle sue labbra – Se mi lasciassi spiegare, forse…»

«Non mi interessa – decretai, cercando a tentoni il pomello della porta – Fuori di qui!»

«Veramente volevo chiederti ospitalità per la notte.»

Il candore con cui sganciava certe bombe era quasi sconvolgente. Con quale coraggio si presentava da me dopo tre settimane di buio, faceva l’idiota al pub, mi aggrediva sotto casa e mi chiedeva persino di dormire a casa mia? Non c’era più un minimo di decenza al mondo, per l’amor del cielo!

«No, aspetta – risi istericamente, passandomi una mano tra i capelli e perfettamente incurante della posizione compromettente in cui eravamo – Non hai forse una casa qui a Londra?»

«Certo che sì, ma è un po’ tardi e oggi pomeriggio sono arrivati i miei genitori da Stoccolma. La loro casa ha bisogno di ristrutturazioni e dormono da me.»

I suoi genitori.

Magari li avevo anche incontrati, con tutta la gente che si riversava sempre per le strade di una delle città più importanti d’Europa.

«Quindi – continuò imperterrito, ignorando il tumulto che la presenza dei suoi in città stava causando dentro di me – Non mi sembra decisamente il caso di farli spaventare, dato che dovrei essere in America e non avrei dovuto avere in programma di tornare.»

«E per quale diavolo di motivo avresti fatto quella piazzata là fuori, un momento fa? – chiesi infine, lasciando per un attimo da parte la questione del luogo in cui avrebbe dovuto passare la notte – Sono proprio curiosa di saperlo.»

Joseph sorrise, forse credendo che avessi desistito e che avesse quindi ottenuto il permesso di dormire lì, ma se ancora non mi ero schiodata dal pianerottolo doveva esserci un motivo, no?

«Dopo pochi minuti da che te ne sei andata via, è uscito insieme a noi quella simpatica scimmia del tuo ragazzo, o presunto tale.»

«Non è il mio ragazzo» tenni a precisare, cercando di ignorare il sorriso che mi era nato sulle labbra quando gli aveva affibbiato l’epiteto di “scimmia”. Forse avrei fatto meglio a tacere, però, visto e considerato come Joseph sembrava intenzionato ad appigliarsi a qualunque cosa per rivendicare diritti su di me. Infatti sorrise, ma per una volta grazie al cielo si limitò a quello.

«Comunque – continuò, aggrottando le sopracciglia per chissà quale motivo e senza smettere un momento di accarezzarmi la schiena – Non appena ha notato la tua assenza è corso dentro, anche su suggerimento di Amber perché, a detta sua, eri nel retro con Drew a confabulare chissà cosa. Quindi, non appena è sparito dietro la porta, sono letteralmente corso qui e ho fatto quella cosa contro il cancelletto perché sapevo che Dave ormai era vicino e, se ti avesse sentito urlare, sarebbe venuto qui con la ferma certezza di trovarti. E so quanto non vuoi che ti stia intorno.»

«Dalla padella alla brace, quindi» decretai sarcastica.

Il suo discorso tranquillo e lineare non faceva una grinza, non c’erano quelle tipiche imperfezioni di una bugia, anche se costruita a regola d’arte. Ma era pur sempre un attore, era una sua abilità quella di mentire bene o trasformare la verità a suo piacimento.

Tuttavia mi arresi, trascinando entrambi in salotto con le dita di Joseph intrecciate alle mie per qualche ragione sconosciuta ed indubbiamente inutile, ma pareva non volesse saperne di lasciare la presa.

Scostai un poco le tende della finestra che dava sulla strada e, con un brivido, mi accorsi di una figura ben piazzata che mi attendeva appoggiata alla cancellata. Era Dave.

«Grazie» sospirai infine, rilassando le spalle. Forse abbandonare il mio orgoglio per quel momento non fu una grande idea, ma nemmeno negare che mi avesse tolto una immane scocciatura lo era. Così optai per essere ragionevole, sperando inutilmente che non si appigliasse anche a quello per tartassarmi l’anima e la pazienza.

«Figurati – sorrise, avvicinandosi di nuovo – Ma potresti cogliere l’occasione per darmi un bacio.»

Come non detto, pensai. Mi ritrovai di nuovo schiacciata tra il suo corpo e un muro, come ormai accadeva fin troppo spesso, e scossi il capo con vigore.

«Non ti rendi conto che con questa sottospecie di corte spietata e di pessimo gusto non fai altro che incrementare il mio ego?» domandai, sgusciando via per l’ennesima volta dalle sue braccia.

E poi, insomma, aveva già una ragazza, per quanto poco interessante, e non capivo proprio perché perseverasse nel tormentare la mia infame esistenza, come se già non fossi tormentata a sufficienza dalla calamita per gli imbecilli che madre natura mi aveva generosamente concesso.

«E tu non ti rendi conto di come questa tua fatica nel resistermi incrementi il mio, di ego?»

Touché.

Non sapevo nemmeno quanto ancora sarei riuscita a resistergli, soprattutto con quelle dita che proprio non mi lasciavano e si muovevano senza sosta tra le mie. Sapeva così dannatamente bene stringermi la mano che avrei potuto rimanere così per sempre.

«Dovresti lasciarmi – dissi invece di rispondere – Vorrei andare a farmi una doccia.»

Obbedì senza fiatare, forse rassegnato dal non ricevere una risposta e lo lasciai lì mentre mi avviavo al bagno. Prima di chiudermi la porta alle spalle mi voltai, facendo per parlare, ma mi interruppe.

«Lo so, chiuderai a chiave e quindi è inutile che cerchi di entrare» mi disse con un sorriso, forse triste, forse no.

Tentennai un momento, ma sparii all’interno del bagno prima che il mio istinto mi giocasse un tiro mancino di quelli a cui non avrei potuto rimediare. Lasciai che il getto bollente della doccia lavasse via la stanchezza e la rigidità dei miei muscoli, causata dalla guardia sempre troppo alta che Joseph mi costringeva ad avere. Non fu una specie di rinascita come spesso si sentiva dire delle docce calde, ma forse la colpa era di tutti gli assalti che, lo sapevo, avrei dovuto affrontare a causa della presenza di quell’essere appiccicoso dall’altra parte della porta.

Chissà cosa stava facendo. Per un attimo me lo immaginai mentre frugava nei cassetti del mio armadio alla ricerca della biancheria intima, o a spulciare nella mia casella e-mail, ma poi scossi il capo: quelli erano comportamenti che avrei potuto attribuire a Dave, non a Joseph.

Infatti lo trovai placidamente disteso sul mio letto che sfogliava un blocco da disegno.

«Questi?» allibì quando si accorse della mia presenza. Inutile dire che mi squadrò da capo a piedi e mi diedi dell’imbecille per non essere andata alla ricerca di un pigiama anti sesso di quelli che mi aveva regalato mia madre quando le avevo parlato di Dave la prima volta.

Presi il blocco dalle sue mani con stizza e lo riposi al suo posto, sulla mensola della libreria.

«Ti hanno mai insegnato a farti gli affari tuoi?» sbuffai, sentendo le guance imporporarsi leggermente. Quell’album era personale, per me. Se mi avesse vista in mutande forse mi sarei sentita meno nuda di così.

«Sei molto più brava di me» sorrise, non accennando ad alzarsi dal materasso.

«Non divagare – sbuffai, lanciandogli un’occhiata indagatrice – E che cosa hai intenzione di fare?»

«Dormire, no?»

Quell’espressione angelica gliel’avrei strappata a forza, prima o poi.

«La camera di Amber è la porta dopo il bagno» lo informai, il tono secco e determinato.

Si alzò controvoglia e per un attimo mi illusi che fosse davvero così semplice, ma l’avevo detto che la mia migliore amica era una voltagabbana. Anche indirettamente.

Joseph si presentò dopo pochi attimi con un post-it in mano e un’espressione alquanto perplessa. Sul foglietto la scritta: “Phee, non sederti sul mio letto. Drew era su di giri e non ho fatto in tempo a cambiare le lenzuola!”.

Sentii di nuovo le guance imporporarsi: Amber era sempre così schietta e con me aboliva ogni tipo di pudore. Non si aspettava certo che quella volgarità la leggesse anche Joseph.

«D’accordo – gemetti, realizzando che su quel piccolo divano non sarei riuscita a stendermi nemmeno io – Nel primo cassetto c’è una tuta di Andrew, quella è pulita.»

«Che te ne fai di una tuta di Andrew?» allibì sempre più perplesso.

«È la sua preferita – gli spiegai con un’alzata di spalle – Amber l’ha fatta sparire quando ha scoperto i poster della tua ragazza dentro il suo armadio. Si sta ancora disperando.»

Non riuscii a trattenere un sogghigno al ricordo delle sadiche vendette della mia migliore amica. Ogni tanto avevo paura che prima o poi si sarebbe ritorta contro di me.

«Destra o sinistra?» chiese Joseph, la voce improvvisamente priva di qualsiasi sarcasmo. Era forse nervoso? Credeva che mi sarei lasciata andare? Non poteva essere più fuori strada di così.

«Destra» roteai gli occhi per la stupidità della domanda. Se avessi potuto mi sarei tenuta tutto il letto, non solo una misera metà. Ed era a una piazza e mezza, inevitabilmente avremmo dormito troppo vicini.

Se non altro ebbe la sana pensata di darmi le spalle, una volta auguratami la buona notte.

La sua schiena contro la mia era bollente e mi provocò un torpore che, unito alla stanchezza che avevo nelle ossa, non fece altro che conciliarmi il sonno.

Quando ormai fui quasi completamente addormentata, sentii le sue labbra sulla tempia e il suo braccio cingermi i fianchi.

Traditore.

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Capitolo 18
*** XVIII ***


XVIII

 

 

 

Quando aprii gli occhi quella mattina, mi passò improvvisamente davanti tutto ciò che era successo la sera prima. A rimarcare ciò vi erano il braccio di Joseph, che mi stringeva il fianco debolmente ma con fermezza, e le sue gambe intrecciate con le mie. Era una sottospecie di stufa umana, emanava così tanto calore che le coperte erano aggrovigliate ai nostri piedi, apparentemente reduci da una guerra. Il suo respiro profondo e regolare mi solleticava la pelle del collo, provocandomi dei lievi brividi, e una parte di me sembrava impaziente di voltarsi per vederlo dormire con quella che, forse, era un’espressione naturale e rilassata.

Tuttavia mi imposi di non farlo, conscia che se l’avessi visto la voglia di sfiorare le sue labbra sarebbe esplosa dentro di me, ricordandomi per l’ennesima volta che ormai avevo perso. L’obiettivo, da quel momento, sarebbe stato cercare di non fargli capire nulla di tutto ciò, in modo da evitare che si accanisse nel suo proposito di diventare il centro del mio mondo.

Stavo forse diventando una tossicodipendente? Ricordai che, nelle tre settimane di tranquillità che avevo passato mentre Joseph era in America, non avevo fatto altro che pensare a lui e agli ultimi momenti che avevamo passato insieme, alla sua reticenza e a quel suo implorarmi di dargli una possibilità. E come dimenticare quel bacio, quei baci, che ci eravamo scambiati sulla stessa scrivania che stavo guardando proprio in quel momento?

Sarebbe bastato così poco per voltarmi e…

Serrai gli occhi e mi irrigidii, maledicendomi per quei pensieri, e, muovendomi con calma per evitare di svegliarlo, sciolsi l’abbraccio che mi legava a lui e mi alzai, diretta in bagno.

Mugugnò qualcosa nel sonno, forse il mio nome, e abbracciò il cuscino su cui fino a poco prima era posata la mia testa. Il mio stomaco fece una capriola alla vista di quella scena così dolce e fuggii in bagno, lasciando che la porta mi privasse della vista delle sue labbra dischiuse e delle sue mani strette sulla stoffa del guanciale.

Quelle mani.

Il mio corpo urlò a gran voce una verità fondamentale: avevo bisogno di schiarirmi la mente, di respirare aria pulita – per quanto Londra potesse permettermelo – e di capire come volessi risolvere quella situazione. Non potevo continuare in quel modo, girando ogni angolo con il terrore di finire tra le braccia di Joseph o di Dave, entrambi uomini fidanzati e apparentemente incuranti dei sentimenti di ogni essere umano.

Beh, Joseph non sembrava davvero così, e proprio per quel motivo mi riusciva difficile credere che stesse davvero facendo quello sporco gioco. Doppio.

Così indossai una tuta e, prese le auricolari e il lettore mp3, scesi in strada diretta verso Hyde Park.

Lasciai Joseph nel mio letto a riposare, forse troppo stanco per le lunghe ore che aveva trascorso su un aereo. Realizzai solo in quel momento che non doveva nemmeno essere tornato a casa, ma era venuto subito al pub, altrimenti i suoi avrebbero saputo della sua presenza.

Cosa dovevo pensare? Quali spiegazioni avrei potuto dare ai suoi comportamenti?

Mentre camminavo per le strade di Londra decisi che la corsa mi avrebbe aiutata a liberare la mente da quei pensieri per Joseph che non avrei dovuto avere per nessun motivo al mondo.

La metropolitana era gremita di gente, tutti turisti muniti di cappello, sciarpa e macchine fotografiche. Girovagavano alla scoperta della città e sorrisi, ripensando ai miei primi giorni a Londra, in cui tutto mi sembrava così grande e romantico. Ne era passato di tempo da quando pensavo al romanticismo. E dire che avevo solo venticinque anni, per l’amor di dio.

Scossi il capo e lasciai scivolare via quei pensieri e la malinconia che mi aveva colta, giunta finalmente ad Hyde Park. Era bellissimo: una pioggia di foglie crollava dalle cime rigogliose degli alberi, forse preannunciando l’autunno alle porte. Era ormai la fine di agosto, l’estate non sarebbe durata ancora a lungo, specialmente in Gran Bretagna.

«Non credevo che Londra fosse così piccola» una voce mi apostrofò divertita, facendomi voltare di scatto. Non mi aspettavo certo di trovarlo lì.

«Sembrerebbe di sì, invece» sorrisi, inquadrando lo sguardo luminoso di Paul Wesley che si intonava così bene al verde del parco. Sembrava catturarne i riflessi. Mi affascinava, il suo sorriso era solare ed enigmatico allo stesso tempo, oltre che terribilmente bello.

«Joseph mi ha parlato tantissimo di te» confessò misterioso, camminando insieme a me lungo uno dei vialetti di Hyde Park. La gente passava e ci guardava, ma nessuno lo riconosceva con quegli occhiali che si era improvvisamente calato sul naso. Nascondevano il suo sguardo, non erano onesti.

Roteai gli occhi spazientita, ma avrei dovuto mettere in conto che il discorso principale sarebbe stato quel maledetto di Joseph.

«Non immagino cosa ti possa aver detto» mugugnai quindi, ed era vero. Gli aveva forse detto che ero cotta di lui, che ero ai suoi piedi? Non mi sembrava il tipo di persona che gonfiava le situazioni in quel modo così disonesto, nonostante fosse disonesto in altre cose. E, d’altra parte, se fosse stato sincero la mia reputazione sarebbe stata quella di una maleducata psicopatica.

«Ha tessuto le tue lodi in così tanti modi diversi che ero convinto mi avresti delusa, nel momento in cui ti avessi finalmente incontrata» disse stupendomi. Joseph che parlava di me ai suoi amici, Joseph che raccontava dei miei presunti pregi nonostante con lui mi fossi sempre impegnata per comportarmi nel peggiore dei modi. Non credevo di meritarlo, in fin dei conti.

«Ed è stato così, giusto?» chiesi senza sapere nemmeno il perché. Non mi interessava il giudizio di Paul, sebbene lo reputassi una persona molto intelligente e anche astuta – senza peraltro nessuna base fondata –, ma era un amico di Joseph: doveva volere il meglio per lui.

«No – mi sorprese con quelle due piccole lettere. Guardava dritto avanti a sé, quell’espressione cordiale ma criptica sempre stampata sul suo volto – Prima di tutto sei una bella ragazza, nonostante per me mia moglie sia la donna più bella sulla faccia della terra. E sei forte, sei determinata, sei energica. Joseph si illumina quando ti vede, quando può seguire i tuoi movimenti. Sembra acquisti nuova vitalità ed è bellissimo vederlo in quel modo, per noi che siamo suoi amici.»

Non seppi mai spiegarmi le sensazioni che provai in quel momento, sentendo le parole di quel semisconosciuto al mio fianco. Non seppi mai spiegarmi nemmeno perché un semplice uomo come Joseph fosse riuscito a entrarmi sottopelle in quel modo, a sconvolgere la mia mente e il mio corpo, ma in qualche modo l’aveva fatto.

«Emily» sussurrai soltanto, incapace di dire altro. Nonostante tutto non volevo abbandonare il mio orgoglio, non volevo dire qualcos’altro rischiando che la mia stessa voce mi tradisse. C’era ancora quell’ostacolo, per me così insormontabile, ed era la sua ragazza.

«Sì, beh… – Paul tentennò un momento, abbassando il capo per nascondere un sorriso consapevole che, comunque, non mi sfuggì – Non credo che durerà ancora molto, questa storia.»

«Per i tradimenti, dici?» soffiai caustica, determinata a farmi valere. Come avrei potuto fidarmi di un uomo che tradiva la sua ragazza? Come potevo essere certa che non ci fosse un’altra donna con cui si comportava nello stesso modo con cui si comportava con me?

«Sta male per questa cosa – sospirò infine, forse vuotando il sacco o facendomelo soltanto credere – Emily è stata un passaggio importante della sua vita, eppure non riesce più ad amarla come la amava prima.»

Non risposi, non avevo nulla da dire.

Non reputavo Emily una brava persona: era piena di sotterfugi e usava dei mezzi meschini per ottenere ciò che più le interessava, l’aveva sempre fatto e io la conoscevo bene. Forse con Joseph era diversa, forse lo amava, ma se Paul per caso stava cercando di farmi sentire in colpa, beh, cascava male.

Forse dovette intuire i miei pensieri perché sorrise, affrettandosi a specificare.

«Non sto dicendo che sia colpa tua – disse a bassa voce – Intendo solo dire che, se Joseph si è sentito subito così attratto da te, allora significa che la sua storia con Emily è al capolinea. Non sei certo la prima donna in cui si è imbattuto in questo periodo. Eppure, nonostante i sensi di colpa che sta provando per una donna così importante della sua vita, non riesce a starti lontano. Non riesce a fare a meno di cercarti, di volerti.»

Il mio cuore batteva all’impazzata dopo aver udito quelle parole, negarlo persino a me stessa sarebbe stata la più lampante prova di ipocrisia, e di prove me ne stavo già dando a sufficienza. Ma, in fin dei conti, non ero ancora pronta per provare di nuovo tutte quelle sensazioni così sconvolgenti. Dave mi aveva segnata in profondità, mi aveva inferto delle ferite che non sapevo se si sarebbero mai cicatrizzate, se sarebbero mai guarite.

«Perché mi stai dicendo tutto questo?» gemetti infine, passandomi le dita tra i capelli con un gesto che tradiva tutto il mio stress e la confusione di quel momento.

«Perché solo un cieco, o forse nemmeno, non si renderebbe conto che anche tu provi le stesse emozioni che prova Joseph quando vi guardate negli occhi. E tu hai decisamente bisogno di una spintarella esterna alla questione, visto che la tua migliore amica, quella ragazza tanto simpatica che Joseph stima con tutto se stesso, ormai sembra non sortire più alcun effetto sulla tua mente.»

Ecco chi mi ricordava! Amber! Amber e il suo maledetto terrorismo psicologico che mi mandava fuori di testa! Come, ad esempio, quella volta in cui mi aveva letteralmente obbligata a guardarmi Ben Hur con annesso replay sulle scene che implicavano Joseph con pochi vestiti addosso. Se non era violenza quella…

«Quindi, fammi capire, Joseph ti ha detto di venire a farmi il lavaggio del cervello perché ormai Amber non funziona più?» domandai in un sibilo, inarcando un sopracciglio con palese compatimento. Sembrava di essere tornati alle elementari, quando i ragazzini non avevano il coraggio di parlare alle femminucce e mandavano avanti i loro amichetti.

«Sei pazza? – rise divertito, scuotendo il capo con incredulità – L’orgoglio di Joseph andrebbe in fiamme se sapesse quello che sto facendo ora. Perché, potrai non crederci, ma è disposto a rinunciare a quella parte del suo carattere solamente quando è con te.»

E faceva dannatamente bene, dato che io ero già abbastanza orgogliosa per entrambi. Sospirai per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta non seppi cosa rispondere. Mettere da parte l’orgoglio era una prova importante che chiariva molto bene quanto fosse attaccato a quel rapporto che non era mai nemmeno nato. Ma io non me la sentivo comunque di parlare, in fondo Paul aveva già capito tutto anche dal mio silenzio. Sapeva che la presenza di Emily mi frenava più di qualsiasi altra cosa, sapeva che quella storia mi ricordava tutto ciò che avevo già vissuto sulla mia pelle con Dave, un anno prima. Non potevo credere, non volevo farlo, che si stesse ripetendo tutto da capo. Non avevo più ventitré anni, ne avevo due in più ed erano proprio quelli che avrebbero fatto la differenza, che mi avevano resa così come ero in quel momento. La consapevolezza dei miei sentimenti faceva male perché, nonostante tutto, mi rendevo perfettamente conto anche senza l’aiuto di Paul che ciò che provavo per Joseph fosse in realtà molto più profondo dei sentimenti che avevo provato l’ultima volta, sebbene con Dave tutto fosse stato maledettamente tossico e pericoloso. Ma Joseph andava oltre, arrivava molto più in profondità di quanto non avesse mai fatto quell’altro idiota.

E mi faceva una paura dannata.

«Direi che ora posso lasciarti qui a pensare in solitudine, che te ne pare?» mi disse la voce di Paul, smuovendomi dal vortice di pensieri agitati in cui ero caduta. Ma, dopotutto, fare paragoni sembrava essere inevitabile.

«No – esclamai, stupendo me stessa prima di lui. Che diavolo dicevo? Dovevo affrontare me stessa e Paul non avrebbe certamente potuto aiutarmi – Volevo dire, sì. Scusami, ero sovrappensiero.»

«Tranquilla, ti capisco perfettamente» sorrise con il suo solito tono cordiale. Mi sembrava molto meno misterioso di quando l’avevo incontrato quella mattina, nemmeno un’ora prima. Forse ero solamente piena di pregiudizi.

Sogghignai tra me. Racchiudevo in me entrambi i difetti principali del mio libro preferito: l’orgoglio e il pregiudizio.

«Beh – mugugnai, trovando infine il coraggio di alzare gli occhi su di lui – Grazie.»

«E di cosa? – scoppiò a ridere, ammiccando spudoratamente – Di aver parlato così tanto da averti fatto saltare la corsa mattutina?»

«In realtà non corro mai – rivelai, stringendomi nelle spalle – Tranne quando devo fare chiarezza nella mia mente.»

«Allora spero di essere stato un valido sostituente al jogging – mi abbracciò brevemente, carezzandomi la nuca – Sono felice di averti conosciuta, sei una bella persona.»

«Anche tu lo sei, credevo fossi diverso.»

Valeva essere sinceri, no?

E, mentre si allontanava, mi strappò la promessa di rivederci presto, magari in America, sottintendendo migliaia di cose come ad esempio una mia relazione con Joseph.

Così, mentre il sorriso si perdeva sul mio volto, l’istinto decise di prendere il controllo del mio corpo e mi trovai diretta come un treno in corsa verso casa. Verso Joseph.

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Capitolo 19
*** XIX ***


XIX

 

 

 

«Phoebe» allibì Joseph vedendomi spalancare la porta di casa con un po’ troppa forza.

Non era la mia mente ad avere il controllo del mio corpo in quel momento: era il mio istinto, era tutto ciò che – lo sapevo, mi conoscevo –  tra meno di un’ora avrei odiato a morte. Odiavo sempre ciò che mi faceva perdere il controllo ed era quello il motivo per cui mi ero sempre accanita così tanto con Joseph, negando tutto ciò che poteva somigliare alla complicità; ma quella era arrivata lo stesso e mi ci ero ritrovata nel mezzo, senza possibilità di scelta.

Tanto valeva ballare, pensavo in quel momento. E, proprio perché sapevo che quella scintilla di follia non sarebbe durata per sempre, decisi di assecondarla e sciogliere quanti più nodi possibile.

«Ciao – sbuffai infine, appoggiandomi pesantemente contro l’ingresso. Lo guardai, lo fulminai anzi, per il modo in cui sembrava aggirarsi indisturbato e dannatamente a suo agio per casa mia: beveva il caffè nella mia tazza preferita, nell’altra mano aveva il telecomando della televisione del salotto e… – Che cosa diavolo ci fai senza maglietta?»

«Ho appena fatto una doccia – si strinse nelle spalle, perfettamente incurante dell’effetto sconvolgente che stava avendo sul mio corpo e sulle mie coronarie – Ma tu per quale motivo hai il fiato corto?»

«Ho corso – mormorai decisa ad ignorare la sua parziale nudità, indicando la mia tenuta da jogging e sperando che non notasse la completa mancanza di sudore che avrebbe smascherato la mia bugia – Sono uscita per quello.»

«Pensavo che fossi uscita per non dovermi vedere» sorrise incerto, porgendomi una tazza di caffè. Mi domandai perché, anche nei momenti in cui la sua spavalderia sembrava venire meno, risultasse ugualmente tanto sicuro di sé da farmi vacillare. Dove aveva imparato a essere così?

Non risposi a parole, comunque, perché non volevo dargli torto, ma nemmeno ragione, così mi limitai a stringermi nelle spalle e ad accettare la tazza che mi stava porgendo: era quella di Amber, dato che la mia la stava utilizzando indisturbato lui. Ma non poteva saperlo, giusto? Eppure le coincidenze sembravano perseguitarmi in quell’ultimo periodo, si accanivano su di me. Il primato di coincidenza più grossa e squallida però l’avrebbe sempre mantenuto l’identità della fidanzata dell’uomo che sembrava avere il gusto perverso di perseguitarmi.

«A cosa pensi?» mi chiese curioso, inclinando leggermente il capo da una parte. Sarebbe stato quasi buffo se avesse avuto una maglietta addosso. Quasi.

«A come evitare domande di questo genere» risposi secca, dandogli le spalle per un momento con la scusa di posare la tazza nel lavandino.

«Non potresti rispondermi seriamente almeno per una volta?» si lamentò, imitando il mio gesto.

La cosa buffa era che non avevo mentito: passavo le mie giornate a chiedermi come potessi eludere la sua sorveglianza, la sua perseveranza, la sua insistenza.

Sentii la stoffa della mia maglietta frusciare contro il suo petto nudo e repressi a stento un brivido lungo la schiena. Ogni scusa era buona per avvicinarsi, ogni scusa era buona per toccarmi.

«Scusami? – allibii con gli occhi spalancati – Ti sembro forse la persona che scherza ogni volta che apre bocca o che qualcuno le pone una domanda?»

«No, effettivamente non scherzi mai – concesse con un sorrisino ambiguo che non seppi interpretare – Però l’hai fatto ora.»

«Non mi hai certo chiesto cosa c’è da mangiare per pranzo – scattai subito, come una molla, mandando praticamente a quel paese i miei propositi di essere sincera – Vuoi sapere che mi frulla nella testa e, se permetti, sono affari miei!»

«Mi stai dicendo che posso rimanere anche per pranzo?» chiese, illuminandosi come un lampione.

Roteai gli occhi; era mai possibile che rigirasse ogni mia parola secondo i suoi porci comodi? Non potevo più nemmeno fare un paragone che lo prendeva per oro colato, dannazione!

Eppure, guardandolo in quel momento, con quel sorriso bellissimo e pieno di fossette, dimenticai il motivo per cui mi ero infastidita. Mi ricordò un bambino che, dopo mille suppliche, otteneva di andare al parco giochi. Anzi, mi ricordò il bambino del giorno in cui ci eravamo conosciuti, felice perché Joseph aveva comprato la bambolina per la sorella malata. Avevo scambiato il suo comportamento per vanità ed egocentrismo e invece in quel momento mi rendevo conto che era stata soltanto generosità. Aveva un grande cuore,  me n’ero resa conto quando ormai era già parte di me, quando la sua presenza si faceva notare perché troppo ingombrante nel mio petto, abituato a essere vuoto per via di quella nocciolina che batteva e mi dava le minime emozioni indispensabili.

«Mi dici a cosa pensi o devo farti una richiesta in carta bollata?» sbuffò divertito, posando le mani sul bancone ai lati del mio corpo. Le guardai per un fugace istante, ricordandole frenetiche sulla schiena e ovunque e quel brivido, quello che poco prima ero riuscita a reprimere, mi scosse dalla testa ai piedi. E, immancabilmente, Joseph se ne accorse.

«Vuoi sapere a cosa sto pensando?» mormorai incerta, puntando gli occhi nei suoi. Dio, erano così azzurri, così profondi che sarebbe bastato troppo poco per perdermi dentro di essi. Annuì.

Ero una stupida.

Continuai a ripetermelo anche mentre mi alzavo in punta di piedi e avvicinavo le labbra alle sue. Posai una mano sulla sua guancia velata di barba e l’altra sul suo petto, proprio sul cuore. Il battito lento e regolare sembrava beffarsi di me, che avevo un tamburo dentro. Avevo il fiato corto ancora prima che le mie labbra giungessero a destinazione, ma non mi importò, ormai sapeva quanto maledizione fossi attratta da lui.

Mi baciò lentamente, solo a fior di labbra. Le sue mani erano chiuse a coppa sulle mie guance e i pollici carezzavano la pelle dei miei zigomi, con dolcezza. Erano carezze leggere come le ali di una farfalla e teneva le palpebre ostinatamente serrate, quasi come se avesse avuto paura che, aprendo gli occhi, non mi avrebbe più trovata.

Sapeva di caffè e realizzai che probabilmente anch’io avevo lo stesso aroma sulle labbra. Eppure, nonostante quella fragranza così forte e decisa, il suo sapore era presente come un retrogusto non dolce, non amaro, ma di una delizia irresistibile. Era buono.

Avrei potuto passare la vita a baciarlo solamente per bearmi di quella fragranza così indescrivibile che avrei identificato solamente con le sue labbra, con la sua personalità. Era dannatamente buono.

Non tentò di approfondire il bacio, anzi non si oppose quando mi allontanai, e posò la fronte sulla mia. Sul suo volto aleggiava un sorriso appena accennato, quasi incerto, ma sicuramente sorpreso. Non era da me comportarmi in quel modo, prendere l’iniziativa. Ero sempre stata così cauta, così fredda e dubbiosa che io per prima non avrei mai creduto di cercare un suo bacio.

Ma ormai c’era complicità tra noi, me l’aveva strappata a forza, ma non avrei potuto negare che fossimo complici, molto più complici di quanto tra amici si dovesse essere. Avevamo dormito insieme, avevo finto di ignorare le carezze lente e circolari che le sue dita avevano dispensato al mio ventre mentre fingevo di essermi assopita, fino a che entrambi non fummo caduti per davvero vittime del sonno.

Così mi avvicinai ancora, sempre più incerta ma allo stesso tempo più decisa, perché mi resi conto, d’un tratto, che un solo bacio non mi era bastato. Ne volevo di più.

Ma questa volta Joseph fu preparato e mi venne incontro, sorridendo sempre più incredulo, ma determinato a cogliere l’occasione al volo e a godersi ogni momento. Il mio stomaco si aggrovigliò su se stesso e una parte di me avrebbe voluto ritrarsi e fuggire, spaventata dal suo sorriso e da ciò che stavo provando. Non volevo che capisse fino in fondo l’effetto che mi faceva, tuttavia non ebbi la forza di allontanarmi.

Mi lambì il labbro inferiore con la lingua, decidendo subito di approfondire il contatto, forse più coraggioso o fiducioso della mia disponibilità. O forse si era solo stufato di un bacio da bambini.

Lo lasciai fare, dopotutto ero io la prima a desiderarlo.

Mi sollevò per le cosce e mi fece sedere sul ripiano della cucina, senza staccare un momento le labbra dalle mie. Dio, erano così morbide che avrei potuto continuare a baciarle per il resto della mia vita. Attorcigliai le gambe ai suoi fianchi e lo spinsi verso di me, senza fretta.

Tuttavia mi stupì di nuovo, decidendo di punto in bianco di allontanarsi. Non mi aspettavo una mossa del genere, credevo anzi che sarebbe rimasto a baciarmi fino a che glielo avessi permesso.

«Che c’è?» gli domandai confusa. Dovevo riprendere il controllo di me stessa, non mi piaceva affatto quell’aria da svampita che stavo mostrando.

«Dimmelo tu – mormorò, ancora più confuso di me – Perché improvvisamente ti butti tra le mie braccia?»

«Se ti dà fastidio basta solo che tu lo dica – sibilai improvvisamente infastidita, spingendolo lontano e scendendo dal mio appoggio con un piccolo balzo – Mi sto sforzando di essere carina con te, per comportarmi come tu vorresti che mi comportassi.»

«Non devi sforzarti, maledizione! – sbottò, forse non capacitandosi delle mie parole – Devi essere come sei, io ti voglio come sei. E non fraintendermi, mi piace da impazzire quando ti lasci andare, ma voglio che tu sia… tu.»

Scossi il capo con rassegnazione, passandomi una mano tra i capelli per scostarli dal viso. Ero troppo nervosa, avrei sicuramente detto qualcosa di sbagliato.

«Io sono io, sono sempre io – sibilai. Battei un pugno contro il ripiano della cucina, forse sperando che il dolore mi facesse rinsavire – E vorrei, non sai quanto, potermi lasciare andare sempre.»

«Cosa diavolo stai dicendo?» sospirò, spegnendo d’un tratto la vena furiosa di un attimo prima. Forse era stanco, forse stava cominciando a capire quale fosse il problema, quale fosse sempre stato.

«Guardami, Joseph – mormorai, prendendo il suo viso tra le mani per fare sì che mi guardasse negli occhi – Lo sai cos’ho passato con Dave

«Io non sono Dave» protestò, seppur fievolmente.

«Lo so, hai ragione, e non sai quanto sia grata delle mille differenze tra di voi – concessi e poi mi morsi il labbro indecisa se dire o meno le parole che mi stavano nascendo sulla lingua – Ma so cosa vuol dire essere la seconda scelta per qualcuno, e non voglio esserlo di nuovo.»

«No, Phoebe, dannazione!» scosse freneticamente il capo tra le mie mani, ma non ero disposta a metterlo in condizioni migliori se poi avrebbe fatto del male a me. Stava già facendo male.

«Fa male vedere la persona che vorresti che non ti vuole abbastanza da lasciarsi tutto alle spalle per te – l’avevo detto, alla fine. Avevo mandato al diavolo il mio orgoglio, ma sapevo che ne avrei sofferto indicibilmente – Io non esiterei un momento.»

«Tu stai…» allibì, eppure cominciavo a vedere un barlume di gioia farsi strada nei suoi occhi. Lo fermai, non volevo che fosse felice di avermi incasinato la mente. Non ancora, perlomeno.

«No – scossi il capo con decisione, togliendo le mani dal suo viso – Non mi sto buttando tra le tue braccia, per come sono fatta sai che non lo farò mai. Ma non ti sto nemmeno obbligando a fare una scelta. Tu stai con Emily, quindi la ami e lei ama te. Non è giusto quello che stiamo facendo.»

Il discorso di Paul era ancora ben chiaro nella mia mente, anche se sembrava persino alle mie stesse orecchie che l’avessi dimenticato. Ma, come al solito, dopo una lotta del genere con il mio orgoglio, stavo ritrattando clamorosamente perché mi lasciavo governare da esso e dalla paura.

«Cosa dovrei dire adesso?» sussurrò. Non l’avevo mai visto incerto su qualcosa, non mi era nemmeno mai passato per la mente che potesse esserlo, data tutta la spavalderia che emanava solo respirando; ma fu confortante sapere che anche Joseph Morgan era un essere umano e, in quanto tale, aveva le sue forze e le sue debolezze.

«Forse dovresti andare dai tuoi genitori – ipotizzai – Sai, la mamma è sempre la mamma.»

«Hai ragione – concordò. Non riuscivo a capacitarmi di quanto fosse pensieroso: sembrava un’altra persona ed era colpa mia. Avevo creato un mostro – Mia madre è sempre con me quando devo prendere decisioni importanti.»

Ah, ecco il vero Joseph che tornava alla carica, che mi metteva in difficoltà anche solo con una piccola frase. Ringraziai di essere ancorata al ripiano della cucina o le mie gambe avrebbero ceduto. Non doveva dirmi quelle cose, maledizione!

Sparì dalla cucina e vi rientrò un momento dopo, finalmente vestito.

«Ho l’aereo questa sera – disse poi, quando fu sulla porta – Non so quando potremo vederci.»

Annuii senza ben sapere cosa dovessi dire, ma tenni ostinatamente lo sguardo basso. Di guardare quei dannati occhi limpidi, profondi e sicuri non ne volevo proprio sapere.

«Phoebe – sospirò poi, e lo vidi passarsi una mano sul viso con frustrazione – Lo so che ti arrabbierai a morte, ma proprio non riesco a fermarmi.»

E, senza nemmeno darmi il tempo di capire fino in fondo cosa mi stesse dicendo, mi ritrovai le sue labbra sulle mie in un bacio profondo, disperato, appassionato. Un bacio che sapeva di bisogno.

E, poi, mi lasciò lì come una scema a guardare la porta che mi si chiudeva in faccia.

Al diavolo, quel bacio lo volevo anch’io.

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Capitolo 20
*** XX ***


XX

 

 

 

La gente, di solito, detestava il lunedì mattina con tutto il cuore e con tutta l’anima. Io non l’avevo mai odiato, anzi mi piaceva: sembrava dovesse portare un po’ di aria fresca, come se ci fosse data la possibilità di cominciare una settimana con il piede giusto – cosa che, puntualmente, non riusciva mai a nessuno. Ma ci si provava sempre. O almeno a me piaceva provarci. Ma quel giorno sembrava sarebbe andata diversamente, dato che mi ero decisamente alzata con il piede sbagliato.

Sbuffai, appoggiandomi mollemente con la spalla al palo del semaforo, in attesa che quella maledetta luce pedonale mi desse il permesso di passare per andare al lavoro.

Beh, odiavo quel lunedì mattina. La settimana sarebbe cominciata malissimo, soprattutto considerando che nel weekend l’uragano Joseph aveva mietuto delle vittime, altro che Katrina, con vittime localizzate tra i miei neuroni e i miei ormoni, principalmente. La mia pazienza, poi, non avrei saputo come catalogarla.

Ah, maledizione, i semafori a Londra erano infiniti!

Strabuzzai gli occhi, rendendomi improvvisamente conto di dove mi trovassi: quel negozio alla mia destra era proprio quello in cui Joseph aveva comprato la bambolina per il bambino che mi aveva quasi fatta uccidere. Ripensai un momento, con giusto un briciolo di perplessità, se fosse stata una cosa normale non aver avuto nessun tipo di crollo psicologico dopo quel brutto momento. Mi ero vista passare davanti tutta la vita, eppure non avevo avuto crisi di nessun genere. Era anche vero che c’era stato Joseph a mantenermi stressata a sufficienza per non pensare a quanto avessi effettivamente rischiato di morire. Avrei dovuto ringraziarlo?

«Buongiorno, Phoebe cara!» esclamò la signora Flynn quando finalmente riuscii a varcare la soglia della piccola biblioteca. Come ogni volta, il profumo della carta investì le mie narici, facendomi subito sentire a casa e facendomi dimenticare per un istante il peso che mi gravava sul petto. Cercare di non pensarci era inutile, data la difficoltà della situazione. Ormai Amber non faceva altro che portare cattive notizie ogni volta che tornava a dormire a casa. Beh, non proprio tutte le volte, ma, insomma, ci metteva del suo. E quella volta ci era andata pesante.

«C’è qualcosa che ti preoccupa?» domandò la mia datrice di lavoro, aggrottando le sopracciglia sottili e screziate di bianco. Amavo il modo in cui si preoccupava per me, lo faceva con quella delicatezza così rispettosa e timorosa di infastidire che non poteva che farmi piacere. Mi sentivo un po’ più protetta, come se quella gran rompiscatole di mia madre fosse vicino a me.

Così le raccontai tutto ciò che la mia migliore amica mi aveva detto la sera prima, piombando a casa come un tornado. Avevo stampata in mente l’espressione di Andrew, a metà tra il rassegnato e il preoccupato, ma forse più per la tragicità della sua ragazza che del fatto in sé. Io, a differenza sua, avevo smesso di badare ai modi di fare di Amber, perché spesso distoglievano l’attenzione dal vero problema, e in casi come quello non me lo sarei proprio potuto permettere.

«Non c’è modo di sistemare tutto parlandone?» mugugnò la signora Flynn, carezzandosi il mento con fare pensieroso. Tuttavia era chiaro come il sole che non ci credesse nemmeno lei: conosceva i soggetti per fama e solo grazie a ciò che le avevo raccontato io, per cui conosceva solo i difetti delle persone coinvolte in quella spiacevole situazione. Io per prima dubitavo che potessero esserci dei pregi in loro.

Il sonaglino della porta scampanellò improvvisamente, facendoci troncare il discorso sul nascere. E in un certo senso fu un bene, perché non avremmo comunque cavato un ragno dal buco. Non potevamo trovare un metodo onesto per risolvere la situazione, perché non c’era.

«Joseph – allibii sconvolta, scoprendo che la persona che era appena entrata in biblioteca era proprio lui – Mi avevi detto che saresti tornato ad Atlanta.»

«Scherzavo – sorrise come un vero farabutto, lanciandomi un’occhiatina perforante mentre si dirigeva a dare due baci alla signora Flynn – Sono in vacanza tutta la settimana.»

«Non potevi dirmelo, scusa?» sbottai, incrociando le braccia al petto. Mi sentivo presa in giro, come accadeva praticamente nove volte su dieci quando avevo a che fare con lui.

«No – roteò gli occhi, forse divertito da quel mio comportamento indispettito – Perché non lo sapevo. L’ho scoperto solamente ieri pomeriggio, mi ha telefonato Julie.»

«Che bel lavoro fai – lo rintuzzai, improvvisamente molto più acida di prima che arrivasse – Piovono ferie come le caramelle.»

Scosse il capo con incredulo divertimento, facendo per avvicinarsi un po’ troppo – e con troppa nonchalance. Ovviamente arretrai fino a quando non mi trovai con le spalle al muro e con Joseph di fronte a me, che se la rideva tranquillo e beato. Si divertiva un mondo a mettermi in difficoltà e mi mandava dannatamente in bestia. Tutto di lui mi faceva infuriare, eppure mi attraeva come una calamita e lui lo sapeva. Dio, se lo sapeva. Per quello ero diventata il suo passatempo preferito.

«Non è vero – rispose – Julie è comprensiva: sa che devo… sistemare alcune cose.»

Aggrottai le sopracciglia, non capendo se stesse alludendo a qualcosa in particolare o meno. Avrei dovuto leggervi dei doppi sensi o si era soltanto lasciato sfuggire qualcosa di cui non voleva parlarmi? Mi resi conto, d’un tratto, che su di lui non sapevo nulla e che non sembrava nemmeno lontanamente intenzionato a dirmi nulla. La presi un po’ sul personale, dato che io ero pressoché un libro aperto.

«Nulla di cui preoccuparsi» rispose alla mia muta domanda con un sorriso, forse compiaciuto per la preoccupazione che non ero riuscita a celare dietro il mio solito sguardo teso.

«Non ti ho chiesto niente» tenni a precisare, stringendomi le braccia intorno al petto e distogliendo repentinamente lo sguardo. Sembrava insidiarsi con la facilità del profumo dei croissant alla mattina in ogni crepa del mio muro, e mi metteva a disagio.

«Lo so – annuì, giungendo a posarmi le mani sui fianchi – Ma ho voluto dirtelo ugualmente. Ho voluto risparmiarti l’imbarazzo di chiedere e la curiosità di non sapere.»

Boccheggiai un momento e ne approfittò per rubarmi un bacio lieve sulle labbra, e poi sul naso.

«E poi dici che non mi importa di te» continuò, colpendo di nuovo il mio cuore.

«Joseph» sussurrai, deglutendo a fatica. Avevo la bocca riarsa e il cuore che mi batteva nelle orecchie; ogni volta era sempre peggio, ogni volta colpiva sempre più a fondo e alla fine avrei sofferto solo io. Di nuovo.

«Dimmi.»

«La signora Flynn ha bisogno di qualcuno un po’ più alto di me e lei per sistemare quei libri appena arrivati» mormorai infine, provando a racimolare un po’ di orgoglio a sufficienza per ripristinare la facciata e le distanze.

Ma a chi volevo darla a bere? Forse a me stessa, ma sicuramente non a Joseph. Lui mi conosceva, sapeva quanto in realtà fossi scombussolata e quanto poco sarebbe bastato per averla vinta. Ma ogni volta si tratteneva, rispettava il mio volere nonostante per lui fosse una sofferenza. Ancora mi domandavo perché, dato che non si era mai fatto scrupoli per giungere dov’eravamo, e quel minimo passo per distruggere le mie barriere non avrebbe cambiato niente: avrebbe solo mantenuto una formalità, un po’ come la famiglia reale d’Inghilterra.

«Dovresti lasciarti andare un po’ – mi disse prima di darmi le spalle per raggiungere la mia datrice di lavoro, che si era messa discretamente in disparte, forse temendo di disturbare – Non mangio nessuno, tanto meno te, nonostante tu sia ancora convinta del contrario.»

Mi presi un momento solo per guardarlo camminare, per godermi come quella tuta blu che indossava ondeggiasse insieme al suo corpo perfetto, come ad ogni passo la stoffa si tendesse sulle gambe e su… Phoebe, no.

Se non fossi riuscita a chiudere la mia mente entro un millisecondo sarebbe finita anche troppo male. Peccato che Joseph si fosse voltato verso di me proprio in quel momento, con quell’espressione sorniona di chi coglie qualcuno in flagrante con gli occhi sul suo corpo.

Beh, era decisamente quello che stavo facendo.

«Sai, Phee – sogghignò, dandomi di nuovo le spalle come a mostrarmi ancora il suo fondoschiena fin troppo perfetto – Non dovresti guardarmi così se poi vuoi che me ne rimanga al mio posto.»

«Non rimarresti comunque dove devi stare – sbuffai, mettendomi a sistemare dei libri su uno scaffale dietro quello a cui stava trafficando, in modo da non poterlo vedere e da non farmi vedere a mia volta – Quindi tanto vale che faccia quello che mi pare.»

«Compreso spogliarmi con gli occhi? – estrasse un libro dalla mensola in modo da potermi guardare attraverso il muro di carta e inchiostro che ci separava e arrossii lievemente, trovandomi i suoi occhi a così poca distanza – Non che mi dispiaccia, sia chiaro.»

Avrei voluto negare, ma sarebbe stato fin troppo facile e fin troppo costruito, e non ci avrebbe minimamente creduto. Anzi, avrebbe fatto il giro dello scaffale, mi avrebbe sbattuta contro la libreria e mi avrebbe fatto pagare la mia sfrontatezza.

Un momento, stava comunque facendo il giro dello scaffale.

«Joseph – borbottai imbarazzata quando appoggiò i fianchi sui miei, spingendomi come avevo previsto contro la massa accatastata di libri alle mie spalle – Non hai un minimo di riguardo, la signora Flynn…»

«Gloria se la ride beata nella corsia qui di fianco – sogghignò – Sai, anche lei tifa per me. Solo tu non lo fai, o almeno è ciò che vuoi farmi credere.»

«Non sto fingendo – protestai offesa – Non sono il genere di donna che finge di essere schizzinosa per farsi rincorrere dall’idiota di turno.»

«Lo so – annuì tranquillo, come se stessimo parlando del più e del meno e non della nostra contorta e indefinita relazione – E io non sono un idiota, anche se rincorrerti è dannatamente eccitante.»

«Che diavolo hai stamattina? – sbuffai, posando le mani sulle sue spalle in un inutile tentativo di divincolarmi – Anzi… che diavolo ti ha detto tua madre per farti comportare in questo modo? Spero non sia squilibrata come te o dovrei cominciare a prendere in considerazione l’idea di fuggire da Londra.»

«Guarda che sei tu, qui, quella diversa dal solito – rise, strofinando il naso e le labbra nell’incavo del mio collo con il preciso intento di far riempire di brividi la mia pelle – Il tuo profumo è inebriante come sempre, ma il tuo carattere è ancora più ruvido.»

Si allontanò, sogghignando soddisfatto per l’ennesimo colpo che aveva inflitto alla mia corazza ormai martoriata, e parlò ancora.

«Non lo credevo possibile.»

«Va’ al diavolo» borbottai, spintonandolo per tornare alla mia tranquilla e innocua occupazione, che però prevedeva di dargli le spalle. Non fu decisamente una grande idea, perché me lo trovai di nuovo addosso, ma questa volta da dietro. E dire che non mi ero mai considerata un’amante del rischio.

«Non posso – soffiò al mio orecchio – Sono troppo vicino al paradiso.»

«Tu» sputai velenosa, sgusciando via di nuovo. D’accordo, ammettevo a me stessa di essere più frigida e acida di un ghiacciolo al limone, ma l’orgoglio vinceva sempre su tutto. Avrei dovuto imparare a dominarlo, riflettei. Non sarei certo potuta andare avanti in quel modo.

«Dopo il discorsetto che mi hai fatto ieri mattina non ci credo più alla tua reticenza» ridacchiò, guardandomi fuggire appoggiato al ripiano della libreria.

«Phoebe cara, ho avuto una fantastica idea» trillò dal nulla la signora Flynn. Sbarrai gli occhi: quella donna andava troppo d’accordo con Amber e Joseph per non farmi paura.

«Sentiamo» mugugnai poco convinta, mentre con la coda dell’occhio tenevo sotto controllo Joseph che si avvicinava di soppiatto. Probabilmente era curioso di sapere di cosa parlasse la bibliotecaria, perché, ormai ci avevo fatto l’abitudine, era avido di sapere ogni cosa su di me.

«Potresti andare con Joseph a fare quella cosa di cui parlavamo prima» ammiccò senza ritegno, facendo crollare di botto la mia pressione arteriosa. Con quell’espressione da ninfomane a Joseph si sarebbero rizzate le antenne e alla fine sarei finita in minoranza come al solito. Dio, era mai possibile che solo io avessi un po’ di ritegno sulla faccia della terra?

E, in ogni caso, quella della signora Flynn era una pessima idea.

«Di che si tratta?» domandò infatti l’idiota, quasi scattando come una molla.

Gli tirai un pizzicotto sulla mano quando le sue dita raggiunsero i miei fianchi e, precisamente, la pelle al di sotto della maglietta.

«Sono sicura che sarà divertente, Joseph caro» tubò giocosa, battendo le mani entusiasta della sua trovata. Non potevo crederci!

«Ma signora Flynn! – tentai di convincerla, sfoderando la mia migliore espressione da cucciolo bastonato, ma chiaramente gli occhi di Joseph erano molto più persuasivi dei miei e così rimasi con un pugno di mosche come al solito – Non è un gioco!»

«Lo so, cara – annuì con vigore, spingendo entrambi verso la porta – Per questo ti serve Joseph: ti serve qualcuno di cui fidarti ciecamente.»

«Ma se non sa nemmeno di cosa si tratta!» protestai lanciando un’occhiata al maledetto al mio fianco che, chissà come, era riuscito ad intrecciare le dita alle mie. Come diavolo aveva fatto?

«Gli spiegherai tutto strada facendo!»

E ci chiuse la porta in faccia, lasciandoci a guardarci negli occhi come due idioti.

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Capitolo 21
*** XXI ***


XXI

 

 

 

«Ricordami per quale motivo mi sto facendo coinvolgere in questa cosa di cui non so niente» sibilò Joseph a bassa voce, spalmato sul mo corpo in quella specie di sgabuzzino in cui c’era spazio a malapena per una scopa spelacchiata e un secchio che puzzava di candeggina.

Ah, se avesse saputo.

Meditai che, forse, prima o poi avrebbe comunque dovuto saperlo. Mi preoccupava l’idea che la cosa non gli dispiacesse, o addirittura che l’assecondasse.

«Colpa della signora Flynn. E poi perché dopo ti dovrò un favore e tu non vedi l’ora di chiedermi qualcosa in cambio» sospirai seccata, cercando di non alzare lo sguardo su di lui. Mi bastava il calore che emanava, la tonicità dei suoi muscoli a stretto contatto con il mio corpo e, maledizione, i suoi fianchi sui miei che mi facevano girare la testa a ogni movimento, volontario o meno che fosse.

Mi ero messa nei casini da sola, anche se non potevo dire che fosse una novità, soprattutto quando si trattava di Joseph. Approfittò di quel mio momento di distrazione e mi baciò lieve, a fior di labbra, sfruttando anche la mia impossibilità di movimento.

«Anche se – continuai velenosa, cercando di mascherare il tremore della voce – Sei schifosamente bravo ad ottenere quello che vuoi senza invischiarti in debiti e favori.»

«Cosa ti fa pensare che sia tutto qui quello che voglio?» sussurrò, sfiorandomi la linea della mascella con le labbra. Lo odiavo, riusciva ad azzerare la mia mente anche solo parlando. Dio, non avevo torto a dire che quella mattina fosse diverso dal solito!

«Non siamo qui per darci alla pazza gioia in uno sgabuzzino che puzza di chiuso e candeggina» lo bloccai proprio mentre le sue labbra si stavano aprendo sul mio collo, pronte a lasciarmi chissà quale dannato marchio violaceo. Non potevo cedere così, dannazione. C’era un motivo per cui provavo ininterrottamente a tenerlo lontano e quel motivo aveva due occhi, una bocca e due gambe come tutti. E si chiamava Emily. Peccato che mantenere le distanze con Joseph fosse peggio che mantenere una dieta lavorando in pasticceria.

«Hai ragione – concordò, allontanandosi per guardarmi in viso. Scoprii le sue labbra distese in quel maledetto sorriso furbo che aveva presagito sempre un sacco di guai – Preferirei un posto più romantico per fare l’amore con te.»

Se il mio stomaco avesse potuto uscire dal mio corpo e saltare addosso a Joseph al posto mio l’avrebbe fatto, invece si limitò a sconquassarmi il petto in perfetto accordo con il mio cuore, che a sua volta si stava impegnando a martellare furioso e a spingere tutto il mio sangue verso le guance. Per fortuna non c’era tutta quella luce, ma probabilmente il calore della mia faccia avrebbe sciolto anche il Polo Nord, per cui non l’avrei scampata ugualmente.

«Non avrei dovuto dirtelo, perdonami – non credevo alle mie orecchie, si stava davvero scusando per avermi messa in imbarazzo – Non era la mia mente a pensare in quel momento.»

«Certo, era quello che sta nel cavallo dei pantaloni» sibilai con cattiveria. Anche quando si scusava, doveva per forza fare pressioni su di me e sui miei sentimenti. Certo che non pensava con la testa, nessun uomo pensa mai con quella. Effettivamente, mi ero sempre chiesta perché l’evoluzione non li avesse portati a decapitarsi nei millenni, tanta era l’inutilità di quel pezzo del loro corpo.

Improvvisamente mi tappò la bocca con una mano e sprofondò il viso nei miei capelli, appoggiandosi completamente al mio corpo. Rimasi senza fiato per un attimo, sentendo il suo respiro caldo infrangersi sul mio collo e i suoi fianchi premere sui miei, ma fui subito distratta dal reale motivo per cui aveva compiuto quel gesto.

Proprio in quel momento Dave passò davanti allo sgabuzzino dove eravamo nascosti, apparentemente ignaro di ciò che stava succedendo dietro lo spiraglio di quella porta anonima.

«Non era nemmeno quella parte a parlare, stupida – disse Joseph quando i passi di Dave furono ormai una eco lontana per il corridoio – Era la stessa parte che pensa sempre per te, quella parte che ora sento martellare incessantemente contro il mio petto.»

«Non dire idiozie – sbottai a bassa voce, vagamente disgustata dalle romanticherie che stava profferendo senza paura delle conseguenze – Se davvero pensassi con il cuore ora non saremmo qui in questo anfratto buio e maleodorante.»

«E dove saremmo?»

Spalmati contro qualche superficie più comoda a fare la cosa più bella del mondo.

«È inutile che usi quel tono roco e provocante – sbuffai spavalda, fingendo che dentro di me le sue parole non avessero distrutto l’ennesima barriera tra il mio cuore e le sue labbra – Io probabilmente sarei in biblioteca a guadagnarmi i soldi per l’affitto e tu dall’altra parte dell’Atlantico.»

Grazie a quella poca luce che filtrava dalla porta lo vidi roteare gli occhi con impazienza, senza che chiaramente si fosse bevuto una singola parola di ciò che gli avevo appena detto; ma una parte di me ebbe l’impressione che in realtà fosse soddisfatto dalla mia risposta, come se in realtà non fossi riuscita a nascondere completamente ciò che pensavo. Conoscendolo, probabilmente aveva modellato e interpretato le mie parole a suo piacimento.

«Devi ancora spiegarmi il motivo per cui mi sono lasciato convincere a fare questa cosa» insistette poi, lasciando fortunatamente cadere il discorso di un attimo prima.

«Te l’ho detto prima il motivo» sbuffai, muovendomi per uscire da lì. Fu la mossa meno azzeccata che potessi fare, però, perché mi strusciai sul suo corpo teso e lo sentii inspirare bruscamente. Non ci avevo pensato, dannazione, ma io volevo uscire da lì, volevo mettere di nuovo una distanza tra me e lui. Avevo bisogno di fuggire.

«Non così» mi fermò con voce tremante, artigliandomi contemporaneamente i fianchi con le dita. Il tono che usò fu una stilettata al cuore e all’autocontrollo: era così dannatamente sensuale che una parte di me avrebbe voluto solamente chiudere la porta e buttare via la chiave.

Lo vidi muoversi e contorcersi un poco, riuscendo poi a sfilare i nostri corpi da quella morsa che ci teneva incollati. Sbirciò all’esterno e, appurato che non vi fosse anima viva, mi fece segno di seguirlo.

Tornammo rapidamente alla biblioteca, dove la signora Flynn ci aspettava ansiosa e con un the fra le mani, nonostante fossero a malapena le undici di mattina. Ma, dopotutto, era la sua medicina per ogni cosa.

«Allora?» ci chiese quando feci per sedermi al bancone. Tuttavia Joseph mi rubò il posto, facendomi poi sedere sulle sue ginocchia. Mi posò le mani sulle cosce in un gesto innocuo, ma dannatamente complice, e mi dimenticai cosa dovessi rispondere alla mia datrice di lavoro.

La dolcezza e la leggerezza con cui mi stringeva a sé, senza esagerare, mi fece desiderare per un momento di posare le mani sulle sue e, perché no, voltarmi per posare un bacio sulle sue labbra. Sarebbe stato bello poterlo fare senza distruggermi l’orgoglio e mi chiesi se saremmo mai arrivati a quel punto, se sarebbe mai successo qualcosa in grado di dare una svolta a quella relazione impossibile di cui eravamo entrambi preda – io più di lui, senza dubbio.

«Abbiamo dovuto rinchiuderci dentro una sottospecie di ripostiglio per scope e scopettoni – sbuffò Joseph indignato. E dire che non mi era sembrato così dispiaciuto quando ci eravamo trovati appiccicati in quello stanzino – Ma io non so ancora cosa stessimo facendo. Saresti così gentile da illuminarmi tu, Gloria? La tua piccola e sfrontata dipendente è più muta di una tomba.»

La signora Flynn spalancò gli occhi, guardandomi con muto rimprovero, salvo poi scuotere la testa per rendere palese anche ai muri quanto mi stesse disapprovando.

«Non c’era tempo – mi giustificai sfacciata, sollevando anche le spalle – E comunque non abbiamo combinato nulla, no? Può anche non sapere.»

«Come sarebbe a dire? – esclamò stupita la bibliotecaria, posando i pugni chiusi sui fianchi. Mi sembrava mia madre in quel momento, così distolsi lo sguardo – Lo riguarda!»

«Ma…» tentai.

«Perché?» mi bloccò subito Joseph, lasciando saettare lo sguardo da me all’anziana.

«Digli tutto, forza» mi intimò proprio quest’ultima.

«Glielo dica lei.»

«Phoebe…»

«D’accordo – sospirai scocciata, iniziando a sputare le parole con fatica – La sorella di Dave, Tiana, studia giornalismo alla mia stessa università. Beh, l’università in cui mi sono laureata a giugno… comunque, si laureerà a settembre, proprio come Amber.»

Mi bloccai, sapendo che quello che sarebbe uscito dalle mie labbra avrebbe provocato in Joseph qualcosa di molto simile ad uno tsunami.

«Va’ avanti» mi disse infatti, ora improvvisamente serio. Mi metteva in soggezione e mai come in quel momento avrei preferito il suo lato più sfacciato e scherzoso. Avrei preferito farmi sbattere sul bancone piuttosto che vuotare il sacco. Avevo una paura dannata della sua reazione e la cosa stupida era che non sapevo nemmeno se avessi preferito la sua furia o la sua indifferenza. E se invece la cosa l’avesse divertito, o magari gli avesse fatto piacere?

«Per il progetto di Tiana – continuai, ignorando forzatamente i miei pensieri – Oltre alla tesi è previsto uno scoop di proporzioni interessanti poiché, oltre alla lode che sicuramente avrà perché è brava solo ad andare a letto con il preside, c’è in palio un contratto free lance e un articolo su una testata giornalistica.»

Spalancò gli occhi, forse molto più vicino alla comprensione di quanto mi aspettassi. Ma Joseph era molto più avvezzo ai paparazzi, o aspiranti tali, di quanto non lo fossi io. Quindi era plausibile, dopotutto.

«Continua» mi incitò di nuovo, senza lasciar trasparire nulla dalla sua voce, perfettamente calma e posata come sempre.

«Drew è bravo a fingersi amico di Dave, perché fondamentalmente Dave è un idiota e, come tale, è convinto di essere importante per la gente. In particolare ha l’estrema pretesa di essere più importante per Drew di quanto non lo sia Amber. Così è riuscito a farsi mostrare delle foto e sono parecchio fraintendibili: una risale a quella notte in cui Dave ti ha dato un pugno; credo sia riuscito a scattarci una foto mentre ci allontanavamo insieme verso casa mia. Un’altra risale a quando mi hai braccata sotto casa per non farci vedere da lui, ma in realtà credo che lui fosse già lì e ha recitato tutto alla perfezione, ingannando entrambi.»

Alla fine avevo vuotato il sacco e mi sorpresi di quanto le parole mi fossero uscite con facilità. Dire tutto alla persona che nei casini ci era finita insieme a me era stato qualcosa di stranamente liberatorio. Ma non potevo negare di aver paura che Joseph volesse fare a modo suo e, a giudicare dall’espressione pensierosa che aveva dipinta in volto, sarebbe stato proprio così.

«Ho in mente una cosa» annunciò infatti, confermando le mie parole senza nemmeno darmi il tempo di convincermi di avere torto. E invece avevo ragione.

«Qualunque cosa sia, no» replicai secca e decisa, alzandomi per portare via la tazza sporca della bibliotecaria, come un riflesso condizionato di ciò che facevo tutti i giorni. Nel piccolo sgabuzzino tuttofare, che dopo l’esperienza appena vissuta mi ricordava terribilmente l’anfratto dell’università, sperai di potermi per un momento nascondere dallo sguardo di Joseph.

Ma, come ogni volta in cui speravo ardentemente qualche cosa, le mie preghiere non vennero ascoltate. Un’ombra piuttosto conosciuta oscurò il mio viso e, voltandomi in direzione della porta, lo vidi appoggiato allo stipite con le braccia incrociate e l’espressione tranquilla. Mi guardava con interesse, ma lo ignorai, continuando a trafficare per i fatti miei con le mille cose accatastate sulle mensole.

«Che vuoi?» sbuffai infine, vedendo che non aveva la minima intenzione di schiodarsi da lì e smetterla di guardarmi come se fossi stata un fenomeno da baraccone. E non me ne fregava niente nemmeno di risultare maleducata. Al diavolo, era snervante!

«Niente – sorrise – Mi piace guardarti. Sei bella

Un fantastico rossore virginale prese possesso delle mie guance. Certo, fantastico. Persino il mio corpo mi tradiva per una semplice frase. Ma, a ben pensarci, ero sempre stata tradita dal mio corpo. Sin dal giorno in cui ci eravamo conosciuti, avevo ceduto perché era stato il mio corpo a farlo. La cosa che non avrei mai voluto riconoscere, però, era che del corpo facevano parte sia la mente, sia il cuore. E allora avevo perso in partenza.

«Bene» sibilai, furente con lui e con me stessa. Mi stava adulando, lo sapevo, voleva fare in modo che acconsentissi a fare a modo suo quella cosa che nemmeno sapevo cosa fosse. Ma era un uomo, non faticavo ad immaginare che volesse prendere a pugni Dave fino a fargli dimenticare come si scattasse una fotografia.

«Dopo ieri sei tornata ancora più fredda» osservò, muovendo qualche passo in avanti.

«Forse mi sono resa conto di aver sbagliato» ipotizzai, stringendomi nelle spalle. E lo pensavo davvero: non avrei dovuto baciarlo, non avrei dovuto dirgli quelle cose. Era tutta colpa di Paul!

«Non scherzare! – sbottò quasi terrorizzato – Guardami.»

Mio malgrado lo feci e, girandomi, scoprii che era più vicino di quanto immaginassi. Mi persi nel suo sguardo celeste, sentendomi mancare la terra sotto i piedi.

«Non sto più con Emily.»

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Capitolo 22
*** XXII ***


XXII

 

 

 

Avevo vinto io, alla fine. Il piano di Joseph non avevo nemmeno voluto sentirlo e, tuttora, non sapevo di cosa trattasse. Mi ero fissata con la mia idea, che sicuramente non comprendeva pugni ricambiati o estorsioni. O tentati omicidi. D’accordo, stavo esagerando. Joseph era una brava persona, non sarebbe mai arrivato a tanto e io ne stavo facendo un dramma. Avrei dovuto dargli più fiducia, ma, come ogni volta in cui ero preoccupata per qualcosa, ero terribilmente melodrammatica e volevo avere il controllo della situazione per evitare che qualcosa andasse male a causa delle mie negligenze. Vedevo tragedie ovunque, avrei dovuto prendere un calmante.

Ma la cosa divertente era che nei guai mi ci ero ficcata da sola, perché non sapevo se in realtà il mio piano fosse davvero meglio. E me n’ero pentita solamente dopo che Joseph aveva ceduto.

Mi maledii incessantemente per tutto il tempo in cui rimasi sotto la doccia, tentando di farmi incoraggiare dal getto caldo e costante, e mi domandai anche per quale motivo non avessi ascoltato anche le lamentele e la preoccupazione della signora Flynn.

«Sei ancora in tempo per ripensarci» sbuffò infastidito Joseph per l’ennesima volta, non appena mi vide uscire dal bagno. Era tutto il pomeriggio che continuava con quella tiritera; gli avrei tirato un pugno o presto o tardi. Gli lanciai un’occhiata in tralice, scoprendolo comodamente spaparanzato sul divano con Amber addormentata con il capo sulla sua spalla.

«Zitto – gli dissi a bassa voce e roteai gli occhi – La sveglierai.»

«Meglio – continuò pungente – Almeno sarai in minoranza e riusciremo a convincerti a non fare questa stronzata.»

Sbattei le palpebre stupita: non avevo mai sentito Joseph esprimersi in modo volgare. Doveva essere davvero irritato. Così risi leggermente, passandomi le dita fra i capelli freschi di piastra. Mi facevano impressione, ero abituata alle mie morbide onde casuali e non mi piaceva affatto quell’innaturale perfezione… ma sapevo che c’era qualcuno che l’apprezzava. Un tempo ero solita acconciarmi i capelli in quel modo per compiacere un idiota, e rifarlo in quel momento portò facilmente a galla ricordi spiacevoli.

«Sei un povero illuso – lo sbeffeggiai, avvicinandomi al divano con un sogghigno superiore – Amber sarebbe dalla mia parte, sa che non c’è altra scelta.»

«Sì che c’è» perseverò, cercando di non alzare la voce.

«Joseph – lo chiamai, portandomi alle sue spalle e posando le mani su di esse – Abbiamo rifatto questa conversazione almeno dieci volte oggi. Non hai ancora capito che non cederò?»

Lo vidi alzare una mano per sfiorare le mie dita, ma mi allontanai rapidamente, consapevole del fatto che, con il peso di Amber sul suo braccio, non sarebbe riuscito ad alzarsi per rincorrermi come faceva ogni maledetta volta.

Voltò il capo appena sopra la spalla e mi fulminò con uno sguardo, capendo come stessi sfruttando la situazione a mio vantaggio, e increspai le labbra in un sogghigno. Era lui di solito quello che mi metteva alle strette, che mi impediva di comportarmi come più mi andasse. Avrei sfruttato la situazione a mio vantaggio, per l’unica volta in cui mi fosse concesso.

Se ripensavo a poche ore prima, quando in quello sgabuzzino ci eravamo letteralmente spalmati l’uno sull’altra anche involontariamente, sentivo ancora caldo alle guance.

«Perché arrossisci?» chiese Joseph con tono cauto, forse timoroso di ricevere l’ennesimo rifiuto senza nemmeno fare nulla. Ma che diavolo aveva al posto degli occhi, i raggi laser?

«Pensavo» risposi di riflesso, voltandomi per andare in cucina a prendermi dell’acqua. Stare nella stessa stanza con lui mi metteva sempre una certa arsura che, però, non ero sicura potesse essere placata con qualcosa che non fossero le sue labbra.

«A cosa?» lo sentii chiedere sommessamente, complice forse la distanza dal divano al frigorifero.

Roteai gli occhi: era mai possibile che fosse così invadente? La discrezione non era il suo forte, e dire che avrebbe dovuto essere abituato a starsene buono, vista la quantità ingente di paparazzi che quelli come lui dovevano sempre sopportare!

«Alla gente che non si fa gli affari suoi» sibilai in risposta, dopo aver bevuto con calma un bicchiere di acqua fresca. Quella sensazione di gola secca non passava; avrei solamente voluto lanciarmi contro di lui e baciarlo, per tentare ogni possibile rimedio. Magari ero solamente agitata per ciò che mi si prospettava davanti quella sera, o magari no.

«Quindi pensavi a me» dedusse e, dal tono, immaginai stesse sogghignando.

«Ammetti di non farti gli affari tuoi?» sogghignai a mia volta, credendo di averlo raggirato e finalmente convinto a tacere. Ma non avrei potuto essere più fuori strada di così.

«Ammetti che pensavi a me?»

Spalancai gli occhi, ringraziando che non potesse vedermi, e lentamente mi diressi di nuovo verso di lui, cambiando poi idea e decidendo di rimanere appoggiata al mobile della cucina. Vedevo la sua nuca anche da lì, mi bastava per tenerlo sotto controllo.

«Non posso non pensare a te se ho la tua faccia davanti agli occhi» tentai di ragionare, ma stavo cominciando ad arrampicarmi sugli specchi ed era palese anche alle mie stesse orecchie.

«Quindi mi pensavi» insistette con soddisfazione crescente. E perché non avrebbe dovuto cogliere l’occasione al volo?

«Vai al diavolo» sibilai, ed ecco che la mia pazienza andò al diavolo.

«Hai preso troppa confidenza con questa frase.»

«Mi porti ispirazione.»

«Tu invece…» esordì con calma serafica, e dal suo tono seppi che sarebbe stato meglio che non continuasse quella maledetta frase pericolosa.

«Non voglio nemmeno starti a sentire!» sbottai, tornando finalmente in salotto. Se dovevo litigare preferivo vederlo in faccia e mandarlo al diavolo facendomi guardare dritto negli occhi.

Ma ciò che vidi non mi fece di certo saltare dalla gioia: Amber era raggomitolata su un fianco e stringeva tra le braccia un cuscino, non più la spalla di Joseph. E cominciai a maledirla in tutte le lingue del mondo.

«Insomma – sbottò l’idiota, riuscendo finalmente ad alzarsi perché, a quanto sembrava, la mia migliore amica mi voleva male anche mentre dormiva – Ti ho detto che ho lasciato Emily, eppure tu ti comporti ancora peggio di prima!»

«Perché semplicemente non credo davvero a ciò che mi hai detto: non credo che tu l’abbia lasciata.»

«Perché no?» allibì incredulo, allargando le braccia come a mostrare che non aveva nulla da nascondere. Ci credevo poco.

«L’hai lasciata per telefono, quindi» dedussi, provando a dargli il beneficio del dubbio. Ma quella cosa ancora mi puzzava: stava cercando di combinare qualche malefatta delle sue, anche se non riuscivo proprio a capire cosa potesse essere. Tutto ciò che sapevo era che quella situazione faceva acqua da qualche parte, e, finché non avessi trovato la falla, non avrei mai potuto dargli fiducia.

«Ma sei pazza? – scoppiò a ridere senza reale divertimento, forse offeso per la bassa opinione che stavo mostrando di avere di lui – Che uomo sarei per fare una cosa del genere?»

«Quindi – continuai, prendendo a camminare avanti e indietro per la cucina, per non disturbare Amber che riposava stravolta in salotto – Emily è da qualche parte qui a Londra e mi hai negato il piacere di vederla?»

«Smettila con questo dannato sarcasmo di bassa lega» mi bloccò afferrandomi per le spalle e fui obbligata ad alzare il viso per guardarlo negli occhi. Sembrava sincero, ma degli attori non c’era mai troppo da fidarsi. Me lo ripetevo ogni volta in cui il suo attaccamento a me sembrava così dannatamente sincero da farmi quasi dimenticare come si facesse a maltrattarlo.

«Allora illuminami tu, perché se brancolo nel buio posso solo fare congetture sarcastiche» ribattei stizzita, facendo qualche passo indietro solo per il gusto di tenerlo a distanza. Peccato che di lì a poco ci sarebbe stata la credenza e la mia fuga sarebbe ingloriosamente finita, più o meno come ogni altra volta: quella casa era troppo piccola per la mia vigliaccheria.

«La scorsa settimana – cominciò con un sospiro, rinunciando almeno momentaneamente ad avare un contatto con il mio corpo – Emily è venuta a trovarmi ad Atlanta. Sai, sta girando a Los Angeles, ma ha avuto qualche giorno libero. Solo che ogni volta che la baciavo vedevo il tuo viso, così le ho detto che non la amo più e che non voglio continuare una storia che sarebbe una farsa.»

«Non le hai detto per caso anche dei preliminari focosi sulla mia scrivania e di tutte le volte che mi hai chiusa tra il tuo corpo e una dannata parete?»

Serrò la mascella e abbassò il capo, forse colpevole o forse solo infastidito dalle mie parole piene di astio. Ero perfettamente consapevole di aver esagerato, ma doveva pagare per ogni maledetto momento in cui mi aveva messa in difficoltà, facendomi rivivere di nuovo il mio rapporto con Dave. Lui non riusciva a starmi lontano pur avendo la sua Emily che lo aspettava a braccia aperte chissà dove, ma io non riuscivo a sfuggirgli e, dannazione, mi stavo invischiando in un maledetto rapporto senza né capo né coda, ma che mi creava una pericolosissima dose di dipendenza.

E quella che si sarebbe fatta male, guarda caso, sarei stata ancora io.

«Ti diverti a farmi sentire un essere infame?» mormorò dopo un breve momento di silenzio, alzando gli occhi contratti forse dalla rabbia.

«Ci sto riuscendo?» replicai in un sibilo, forse ancora più furiosa di quanto lui stesso non fosse.

Io per prima non capivo il mio comportamento, quale fosse la causa di tutto quel rancore che stavo sfoderando senza sosta. Ma immaginai che dovesse essere per colpa dei sentimenti dirompenti che stavano per arginare le mie barriere, quelle stesse che Joseph aveva minuziosamente sbriciolato minuto dopo minuto da che era piombato sulla mia strada. A ben pensarci, però, con lui avevo ceduto fin da subito, quando aveva insistito per accompagnarmi a casa e io non avevo saputo come controbattere per farlo desistere. Forse quello era stato un segno, forse avrei fatto meglio ad ascoltare quella voce che mi diceva di non rivolgergli la parola ogni minima volta in cui me lo trovavo di fronte. O forse ancora aveva ragione lui: il mio cuore aveva sempre pensato al posto della mia stupida testa e mi ero ritrovata in quella situazione assurda, con Joseph Morgan che mi stringeva di nuovo tra il suo corpo e un qualcosa perché non riusciva a ottenere le risposte che cercava.

Mi ritrovai a invocare l’aiuto di Amber, ma realizzai ben presto che, se anche si fosse svegliata, avrebbe finto di dormire per il semplice gusto di mettermi i bastoni tra le ruote e sperare che Joseph riuscisse finalmente a sciogliermi.

«Non serviva la tua cattiveria gratuita per farmi sentire un insetto – sputò quelle parole tra i denti, come se gli costassero una certa fatica o chissà per quale altro motivo – Ma starti lontano mi è impossibile.»

«Possibile che tu riesca a vanificare ogni mio tentativo di ragionamento?» allibii esasperata, cercando di divincolarmi dal suo ferreo abbraccio. Perché seppelliva il viso nell’incavo della mia spalla? Perché mi stringeva i fianchi come se fossi stata una cosa preziosa? E, soprattutto, perché lo faceva proprio in quel momento? Stava forse tentando di dissuadermi da ciò che mi ero prefissata di fare? Non c’era niente di più probabile, ma con quelle domande a me stessa non avrei cavato un ragno dal buco.

Avrebbe potuto rendermi le cose più facili ed essere un detestabilissimo uomo qualunque, ma se lo fosse stato forse non avrei perso la testa in quel modo per lui e allora non sarebbe sorto nessun problema.

«Certo che è possibile – sorrise, alzando il capo per incrociare i miei occhi, e mi sentii minuscola – E lo sai per quale motivo? Perché non si tratta di ragionare, adesso. Si tratta di sentimenti e quelli devi solamente seguirli. Pensare non basta. Anzi, non serve.»

Il respiro mi si mozzò in gola: sentirlo parlare di cose così profonde non poteva che scuotermi dentro. Odiavo la confusione che mi albergava nella mente.

«Joseph – sospirai, il suo respiro caldo si infranse contro le mie labbra – Devo andare adesso.»

Lasciami andare, o non riuscirò più ad allontanarmi da te.

Mi baciò lentamente e non mi opposi, lasciando che la sua lingua tracciasse con lentezza il contorno delle mie labbra. Non tentò di approfondire il bacio e gliene fui grata, anche se era sempre presente quella parte di me che avrebbe voluto ribellarsi e sbatterlo al muro fino a perdere il senno.

«Posso dirti di nuovo di ripensarci?» sospirò sulle mie labbra, la fronte contro la mia e le mani sulle mie guance. Sembrava una supplica, un disperato tentativo di impedirmi di compiere il mio dovere per salvare la mia faccia e anche un po’ la sua.

«No» replicai sicura, pur mantenendo la voce bassa. Non c’era possibilità di scampo quella volta, sapeva lui per primo quanto fossi decisa e non tentò più di fermarmi quando, agguantata la maniglia, uscii da quella casa e dal mio porto sicuro.

Avrei dovuto fare la parte della raggiratrice, avrei dovuto comportarmi in un modo che decisamente non mi piaceva per avere tutte le risposte che mi servivano. Ma non avrei potuto proprio lamentarmi: l’avevo deciso io.

Così, con la mascella indurita e le labbra strette dalla determinazione, mi avviai verso Longford Street e verso la mia maledetta condanna, che proprio non voleva saperne di lasciarmi in pace.

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Capitolo 23
*** XXIII ***


XXIII

 

 

 

Prendere la metropolitana con il buio non era mai stata la mia massima aspirazione nella vita, soprattutto se mi trovavo a doverci salire completamente da sola ed ero diretta verso un luogo che non mi piaceva affatto – forse ancora meno della sporca stazione della metro con i vari personaggi poco raccomandabili del caso, che sembravano spuntare come funghi quando calava il sole. Più volte mi ero domandata se tutto ciò avesse a che fare con il vampirismo, e in quell’ultimo periodo mi ero sentita ancora più ridicola con quell’idea in testa, e anche un po’ imbarazzata all’idea che Joseph lo scoprisse. Sapevo che era inutile, perché non poteva entrare nella mia testa – o forse mi leggeva come un libro aperto? –, ma i vampiri erano comunque un concetto legato a lui, e non volevo dargli l’ennesima occasione per pavoneggiarsi e considerarsi il centro della mia esistenza.

Strinsi a me la borsetta e tirai dritto per la mia strada senza nemmeno guardarmi attorno, senza titubare un attimo. Ed era lo spirito giusto, dannazione! Dovevo essere un po’ coraggiosa e dovevo anche sbrigarmela in fretta prima che la metropolitana chiudesse e fossi costretta a telefonare al sopracitato Joseph per farmi venire a prendere in qualche modo, cosa che avrei in tutti i modi evitato di fare: sarebbe stato come ammettere una sconfitta.

Alzai lo sguardo quando giunsi a destinazione: un imponente palazzo rosso mattone si stagliava davanti ai miei occhi, dominando tutta Longford Street, minaccioso come un temporale all’orizzonte. E a ben vedere rappresentava una minaccia anche per me, che avrei preferito scappare a gambe levate invece di suonare il campanello e puntare con orgoglio e arroganza gli occhi nel videocitofono. Non rispose nessuno, ma il portone scattò quasi immediatamente per permettermi di entrare.

Ricordavo bene la strada che portava all’attico illuminato di quel palazzo. Si vedeva una buona fetta di Londra, ma sicuramente non veniva valorizzato come avrebbe potuto. La donna che ci viveva non aveva quell’abilità e il gusto che avrebbe avuto chiunque altra con a disposizione un budget così consistente.

Sospirai, specchiandomi nell’ascensore. Non avevo detto proprio tutta la verità a Joseph, dato che lui non sapeva cosa stessi per fare, o meglio non sapeva come avessi intenzione di farlo. Ma conoscevo i miei polli, sapevo come andavano prese certe persone e dirglielo non rientrava nei piani per far parlare chi di dovere. Così come non sarebbe stato di utilità alcuna comportarmi diversamente da come avevo intenzione di fare.

Presi un sospiro prima di aprire la porta, lasciata accostata apposta per me. La luce del corridoio era fievole, era piuttosto da considerare una penombra, e dava una sensazione di irrequietezza accompagnata al tonfo sordo dei miei tacchi sulla moquette scura.

Che poi, per quale motivo c’era un corridoio? Quella porta era l’unica su tutto il piano, e l’appartamento era davvero enorme. Sarebbe stata molto più utile una porta appena fuori dall’ascensore, o l’ascensore che si apriva direttamente nell’ingresso, proprio come nei film. Scossi il capo: non era di mia competenza ottimizzare gli spazi là dentro. Dovevo solamente fare in fretta per tornare tra le braccia sicure di quel seccatore di un attore damerino.

«Phoebe» la sua voce mi accolse quando finalmente varcai la soglia, mentre una voce nella mia testa continuava a ripetermi quanto sarebbe stato meglio se per una volta avessi ascoltato Joseph, invece di buttarmi a capofitto in una situazione stupida come poche. E perché Amber non si era svegliata per dargli manforte? Anzi! Perché si era addormentata? Lei non dormiva mai prima di mezzanotte, aveva un orologio biologico spudoratamente assestato. Ma la mia vita era sempre stata un insieme di coincidenze sbagliate, quindi perché me ne stupivo proprio in quel momento?

«Ciao» risposi atona, guardandomi intorno. L’arredamento era sempre sui toni del bordeaux, moderno e minimale. E non avevo cambiato idea dall’ultima volta, faceva sempre schifo.

«Smettila di guardarti attorno con quell’aria disgustata» mi apostrofò, una lattina di birra tra le mani grandi ed evocative. Per me, per ciò che avevo provato.

«Scusa – sogghignai, prendendo a muovermi lentamente per esaminare i libri sulle mensole. Ero troppo spavalda, quella situazione si sarebbe ritorta contro di me – Ma lo sai come la penso, l’hai sempre saputo.»

«Mia sorella ha un pessimo gusto, non è mai stato un mistero per nessuno – concesse con tono ossequioso, avvicinandosi come una tigre alla sua preda. Era incredibile, stavo già perdendo terreno e, maledizione, se si fosse avvicinato ancora un po’ avrei perso anche la libertà di movimento – Ma c’è da dire anche che, quando venivi qui, non eri mai molto presa ad osservare l’ambiente.»

«Dave – sibilai, assottigliando gli occhi e bloccando improvvisamente ogni mio movimento per concentrare tutta la forza nello sguardo, sempre nel tentativo inutile di incenerirlo sul posto – Vattene al diavolo.»

«Che gattina scontrosa – ridacchiò divertito, arrivando a sfiorarmi la guancia con due dita – Cosa ci fai qui? Sei venuta solo per mandarmi al diavolo?»

«Sono venuta a darti quella possibilità che mi chiedevi un po’ di tempo fa, ma è difficile non pentirmene quando mostri quella faccia da schiaffi. Mi chiedo perché voglia provarci ugualmente» mormorai lieve, cambiando di nuovo tono della voce. Lo stavo confondendo, si leggeva a chiare lettere sul suo volto e non avrei potuto chiedere di meglio.

«Non ti credo» decretò dopo un lungo momento di silenzio. Però… allora non era ancora così citrullo.

«Fai come ti pare» replicai subito con un’alzata di spalle, facendo dietrofront per avviarmi nuovamente alla porta. Stavo rischiando, se davvero non mi credeva mi avrebbe lasciata uscire da quella porta senza dire nulla e avrei perso l’unica occasione per fare di testa mia. E forse stavo peccando di presunzione nel credere davvero di piacergli, ma ero lì e tanto valeva giocarmi il tutto per tutto.

«Ehi, no – mi bloccò per un gomito, facendomi girare verso di lui – Aspetta.»

I suoi occhi, neri come la notte, mi fissavano forse cercando di carpire qualcosa dal mio sguardo. Ma ero determinata a vincere e non avrebbe cavato un ragno dal buco. Tanto più che di me non ci aveva mai capito niente.

Infatti sembrò crederci, perché avvicinò il viso al mio fino a far sfiorare i nostri nasi. Sentivo il suo respiro bollente sulle labbra e sapevo che presto sarebbe arrivato anche il suo bacio.

«Dave – lo interruppi prima che potesse raggiungere il suo scopo e sorrisi – Ho fame.»

«Cinese?» replicò dopo un lungo momento di silenzio in cui mi chiesi, tra le altre cose, che diavolo gli frullasse per la testa. Sicuramente non pensieri poetici e filosofici perché, nonostante ne fossi stata follemente innamorata per un po’, ero pienamente consapevole che in realtà non fosse quel gran cervello che poteva sembrare dall’esterno. Beh, in realtà nemmeno dall’esterno. Se fossi stata americana, lo avrei sicuramente considerato come il classico capitano della squadra di football del liceo.

«Lo odio, come diavolo fai a non ricordartelo ogni dannata volta?» sibilai infastidita, alzando gli occhi al cielo. Avevo avuto l’ennesima dimostrazione di quanto fosse limitato. Stentavo persino a credere che lo fosse così tanto.

«Allora dimmi tu cosa vuoi» insistette, ignorando palesemente la mia stizza. Non capivo a che gioco stesse giocando: non sembrava impegnarsi per riconquistarmi, non sembrava nemmeno che avesse capito la reale portata di ciò che gli avevo detto. O forse, più semplicemente, non gliene importava più niente.

Eppure era stato lui stesso a rincorrermi per tanto tempo nonostante, con quella faccenda dello scoop e delle foto, il secondo fine fosse con tutta probabilità diventato il primo, e quello di riconquistarmi solamente un divertente effetto collaterale.

Non riuscivo a capire cosa frullasse nella sua orrenda testa da microcefalo e mi detestai perché gli stavo permettendo di nuovo di destabilizzare la mia povera psiche anche quando avrei dovuto avere io il coltello dalla parte del manico.

«Messicano» sibilai, agitando una mano forse per scacciare i pensieri poco incoraggianti che mi affollavano la mente. Avrei voluto rispondergli che volevo i negativi delle foto che mi aveva fatto insieme a Joseph, oppure anche solo la chiave di quello stanzino idiota dell’università. Se invece avessi potuto esprimere tre desideri avrei anche aggiunto che sparisse per sempre dalla mia vita, portandosi anche dietro quella smorfiosa di sua sorella e l’imbecille del mio capo che non mi pagava gli straordinari e che, guarda caso, era proprio suo amico.

Mentre Dave si chiudeva in bagno per telefonare, presi ad aggirarmi per l’ampio salotto nel tentativo di esaminare ogni pessimo dettaglio che esprimeva il gusto di Tiana. Tuttavia riuscii a muovere solamente un paio di passi prima che un’orribile consapevolezza mi piombasse addosso: non aveva senso chiudersi in bagno per telefonare al ristorante messicano, stava per forza di cose chiamando sua sorella. Così accostai l’orecchio alla porta e rimasi in ascolto, mentre con gli occhi continuavo a vagare alla ricerca di un qualsiasi indizio che mi potesse salvare da quella situazione idiota in cui mi ero buttata a capofitto.

«Ti ho detto che è qui nel salotto – stava bisbigliando in modo concitato e subito mi innervosii, capendo che avevo centrato in pieno il suo comportamento – Crede che stia ordinando la cena, quindi fai presto. Cosa devo fare? Ma ti ho detto che è qui perché vuole darmi un’altra possibilità, come diavolo faccio a cercarle dei succhiotti addosso? E poi, la fotografo nuda? Che diavolo di prova è?»

Si stava arrabbiando, ma sorrisi realizzando che tutto sommato non era così stupido: sua sorella lo era molto di più.

Improvvisamente lo sguardo mi cadde sul ripiano del mobile del salotto e mi avvicinai rapida, in punta di piedi. Un sacco di fogli ricoprivano quello che sembrava un mucchietto di cose di metallo e, scostando la carta, scoprii un mazzo di chiavi. Tra di esse troneggiava una chiave antica, in ferro battuto, e un portachiavi con il simbolo di un tempio greco. Scossi il capo, mentre un sorriso cominciava a delinearsi sul mio viso: era un ateneo! Era il simbolo dell’università e quelle erano le chiavi del laboratorio dei laureandi in fotografia!

Trattenni a stento una risata e sfilai la chiave il più velocemente possibile, infilandomela poi nel reggiseno. Era l’unico luogo che, specialmente quella sera, Dave non avrebbe mai raggiunto. Proprio in quel momento lo sentii che ordinava dei nachos e immaginai che avesse finito di parlare con Tiana. Così corsi in cucina e, memore di tempo prima, iniziai ad aprire a colpo sicuro gli armadietti, per apparecchiare la tavola per due. Così, quando sentii aprirsi la porta del bagno, estrassi il cellulare e corsi incontro a Dave con la migliore espressione sconvolta che fui riuscita a mettermi addosso.

«Hai preparato il tavolo? Ma cosa succede?» mi chiese pieno di confusione, aprendo le braccia per accogliere il mio corpo che, velocissimo, si stava tuffando su di lui. Lo abbracciai forte per le spalle, lasciando per una volta che le sue mani mi stringessero alla base della schiena. In condizioni normali gli avrei intimato di togliere i suoi sporchi artigli dal mio fondoschiena, ma non avevo l’occasione di comportarmi da me stessa. Così lasciai che mi spingesse contro un muro, sempre carezzandomi la schiena con lascivia, per poi posare le labbra sulle mie. Lo lasciai fare, ricambiando ampiamente, perché non avevo la minima intenzione di fargli sospettare qualcosa.

«Dave» ansimai quando mi strinse un seno, più che altro per il terrore che la chiave cadesse a terra. Se fosse successo avrei perso ogni possibilità di salvarmi la faccia.

«Dimmi, Phee» mugugnò senza accennare a distanziare le sue luride labbra dal mio collo. Dio, quanto era viscido! Come diavolo avevo fatto ad andarci a letto? Mi venivano i brividi al solo pensiero.

Una parte di me sembrò riflettere sul fatto che mi fossi ormai abituata a tutt’altra classe, ma la repressi in fretta, perché dovevo finire la mia pagliacciata e non mi andava proprio di farmi distrarre dal pensiero di Joseph.

«Mi ha chiamata Amber, ha litigato di nuovo con Drew… ultimamente sono piuttosto irrequieti» replicai dopo essermi schiarita la voce. Lo allontanai, guardandolo con gli occhi spalancati e la bocca lievemente dischiusa. Guardai i suoi occhi fossilizzarsi sulle mie labbra, rosse dei suoi baci, ed esultai dentro di me. Lo avevo in pugno. Ma, d’altra parte, che donna sarei stata se non avessi saputo alla perfezione il suo punto debole? Mi aveva manipolata per così tanto che glielo dovevo.

«Quindi devi andare?» mormorò, lanciando un’occhiatina alla tavola apparecchiata per poi tornare sulle mie labbra.

Mi complimentai di nuovo con me stessa per la freddezza che avevo usato nel programmare tutto nei minimi dettagli, in modo da lasciargli credere che fossi davvero andata là per lui e non per il tesoro che custodivo nella coppa preformata del mio reggiseno.

«Già – mormorai, arretrando verso la porta. Quando ormai fui fuori sorrisi con fare di scuse e gli mandai un bacio volante – Dave… ti amo.»

Certo, credici. Idiota.

«Anch’io, Phee.»

Gli diedi le spalle dopo un ultimo sorriso e, una volta al sicuro in ascensore, sogghignai con compassione per la scarsità delle sue doti recitative. Avrei dovuto chiedere a Joseph di farmi entrare nel suo show di vampiri, se non altro avrei guadagnato un po’ di soldi per poter pagare l’affitto e far sistemare la porta.

D’accordo, erano pensieri idioti. Ma sentivo la tensione allentarsi e le gambe cedere. Fu per miracolo che riuscii ad arrivare a casa sana e salva. Quando aprii la porta, però, lo sguardo di fuoco di Joseph fece morire il sorriso sulle mie labbra.

Fantastico, il signorino aveva fatto due più due.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***




Capitolo 24

 

Era da qualche minuto ormai che ce ne stavamo lì in silenzio, io con le spalle contro la porta, come se avessi bisogno di essere sorretta, e Joseph nel bel mezzo del soggiorno con in mano una lattina di birra. Dai suoi occhi si leggeva chiaramente quanto fosse arrabbiato e dovetti immaginare che fosse ancora una volta colpa mia o, più che altro, di quello che aveva capito fossi andata a combinare con Dave. Non me la sarei sentita comunque di dargli torto, o almeno non quella volta. Lo sapevo anche da sola di aver fatto una cosa incredibilmente stupida, ma non avrei proprio saputo come fare se non in quel modo. Una parte del mio cervello realizzò la presenza della chiave di metallo, ormai tiepida per il contatto con la mia pelle, ancora placidamente al suo posto e abbozzai un sorriso. Con Joseph avrei trovato il modo di avere un dialogo e di chiarire, ma l’importante era proprio che avessi ottenuto il mio scopo.

- Te lo avevo detto che sarei riuscita nel mio intento – mugugnai incerta, non sapendo in che modo iniziare la conversazione. Quando aveva quello sguardo scuro non sapevo mai se fosse opportuno parlargli o lasciarlo sbollire per i fatti suoi. Non lo conoscevo abbastanza, maledizione.

- Non mi avevi detto qualcos’altro, però – sibilò a voce bassa. Stringeva i pugni tanto da sbiancare le nocche e provai il forte impulso di arretrare di un passo. Peccato che fossi già contro la porta: non avrei potuto indietreggiare in ogni caso.

- Non capisco di cosa parli – mormorai spaventata. Mi sfrecciarono nella mente migliaia di ipotesi, una meno plausibile dell’altra, ma poi la verità mi piovve davanti agli occhi in modo disarmante: quella maledetta traditrice di Amber aveva vuotato il sacco con lui per l’ennesima volta, riferendogli la nostra conversazione di quella mattina, prima che andassi a lavoro. E, probabilmente, gli aveva anche spiegato in quale modo avessi avuto intenzione di raggirare quel povero idiota di Dave.

- Ne sei sicura? – riprese con voce rabbiosa, sbattendo il pugno contro il muro a lato della mia testa. Non mi ero nemmeno accorta che si fosse avvicinato tanto ero persa nei miei pensieri – Dall’espressione del tuo viso mi sembra proprio che tu abbia avuto un’illuminazione divina–

- Joseph, ascoltami – tentai di farlo ragionare, posando le mani sulle sue spalle per calmarlo o forse per tenerlo ad una distanza di sicurezza da me – Non è come pensi! –

- Ma davvero? – ringhiò prendendomi i polsi e sbattendoli contro la parete – Che ne sai di cosa penso? Magari è anche peggio di quello che penso io, perché è evidente che ti abbia decisamente sottovalutata. Non pensavo fossi capace di comportarti come… in questo modo -

D’accordo, forse avevo usato la frase più compromettente che potesse esistere e me ne ero resa conto troppo tardi. I miei occhi si fecero umidi senza un motivo ben preciso, o forse per le parole che stava per dirmi, e per un momento provai un moto di terrore temendo di non riuscire a parlare con lui. Se non avesse capito cosa diavolo avrei potuto fare?

Lo sconforto e la disperazione vennero però presto sostituiti dallo stupore, quando mi resi conto della bocca di Joseph che si muoveva impaziente e furiosa sulla mia, e dei suoi fianchi che si scontravano con i miei ad un ritmo incalzante. Non sapevo quando avessi schiuso le labbra per permettere alla sua lingua di toccare la mia, ma lo stavo facendo. Non ci eravamo mai baciati così, nemmeno quella volta sulla scrivania. Avevo continue scariche di brividi lungo la schiena e, a giudicare dai sospiri pesanti che riempivano la mia bocca, anche Joseph dovette sentirsi disorientato almeno quanto me. Eppure era stato proprio lui a cercare un contatto così diretto, così disarmante. Forse non si aspettava di provare delle sensazioni così forti, forse credeva che la sua mente avrebbe potuto ignorare quello che provava il suo cuore o, quantomeno, il suo corpo. Ma se tutto ciò che mi aveva mostrato in quelle settimane passate era vero anche solo a metà, non avrebbe potuto comportarsi come avrebbe voluto nemmeno sotto tortura.

- Non accetto – sussurrò posando la bocca sulla mia guancia, interrompendo il bacio senza preavviso – Che le tue labbra vengano baciate da qualcuno che non sono io –

Mi baciò ancora, a fior di labbra ma allo stesso tempo con una passione quasi struggente. Poi si distanziò di nuovo e mi guardò negli occhi mentre le sue mani si intrufolavano sotto la mia maglia per carezzare la pelle dei miei fianchi.

- E non accetto nemmeno – un altro bacio, questa volta più delicato – Che il tuo corpo venga toccato da qualcuno che non sono io –

Era una dichiarazione quella, se non d’amore almeno di intenti. Voleva avere l’esclusiva e, benché a conti fatti l’avesse avuta anche fino a quel momento senza nemmeno avere bisogno di chiederla, dirlo a parole significava iniziare qualcosa per cui non ero pronta. Come un impegno. Una relazione. Non ero mai pronta a niente, dannazione. Ero l’eterna indecisa, sempre codarda e mai fiduciosa nelle mie capacità. Vivevo all’ombra dei consigli che mi davano i miei amici e, in un momento di riflessione totalmente fuori luogo, temetti che fosse solo per falsa modestia. Ma quel pensiero fuggì dalla mia mente con la stessa rapidità con cui era giunto e decisi, almeno per una volta, di prendere una decisione importante.

Così guardai Joseph, i cui occhi erano colmi di qualcosa che non seppi distinguere, e realizzai quanto si stesse trattenendo. Non voleva esagerare: quel bacio profondo e passionale che ci eravamo dati poco prima sarebbe presto degenerato in qualcosa di molto più grande e non voleva compromettere quella fiducia che era riuscito così faticosamente ad ottenere. Ma non gliel’avrei tolta, mi ero pressoché votata a lui e mi sarei anche lanciata nel vuoto ad occhi chiusi, se solo avessi saputo che ci sarebbe stato Joseph a prendermi.

Per quel motivo, sommato a tanti altri che si potevano riassumere semplicemente con uno sguardo a ciò che avevamo passato insieme, mi alzai sulle punte e, come pochi giorni prima, presi l’iniziativa di baciarlo, sebbene la passione che impressi in quel momento non fosse paragonabile a nient’altro al mondo. Volevo che capisse che lo desideravo almeno quanto lui desiderava me, volevo che sapesse che mi fidavo di lui, che per me contava più di quanto non avessi mai dato a vedere.

E forse mi sarei pentita di tutta quell’iniziativa, ma in quel momento non c’era spazio per nulla nella mia mente che non fossero le sue labbra e le sue mani.

Mi stupì tantissimo, quindi, vederlo prendere di nuovo le distanze. Che diavolo gli prendeva? Improvvisamente non mi voleva più, o credeva soltanto di buttare tutto all’aria? D’accordo, nemmeno io ero sicura di ciò che stavo facendo, ma dovetti ammettere che mi fece piuttosto male vederlo allontanarsi in cucina e tornare poco dopo con un’altra birra.

- Ne vuoi un po'? – mi chiese e, quando scossi il capo, insistette – Sul serio, Phee, ti farebbe bene un po’ di alcol per schiarirti le idee. Mi sembri confusa –

- Non voglio farmi governare dall’alcol! – sbottai, raggiungendolo – Voglio essere padrona di quel che dico e faccio. Anche se so che farei dannatamente meglio a scolarmi d’un fiato quella birra, così se ti dicessi che ti voglio così tanto che mi toglie il fiato almeno avrei una scusa per non pentirmene –

Joseph non rispose subito, forse era rimasto sconvolto da ciò che gli avevo detto. Non che non fossi sconvolta io stessa, tra l’altro. Così abbassai il capo, colta da un improvviso attacco di timidezza.

- Guardami – sussurrò e sentii le sue dita leggere sul mio volto. Mi sollevò il mento per guardarmi in viso e sentii le mie guance imporporarsi leggermente.

- Joseph, non… - mormorai. “Non”, cosa? Cosa gli stavo per dire? Mi sarebbe davvero piaciuto saperlo, perché non ne avevo idea nemmeno io. Forse era quello il motivo per cui mi ero interrotta.

- Guardami e dillo ancora – disse invece, stupendomi. Non sembrava lo stesso che, fino ad un momento prima, se ne stava bloccato da mille catene invisibili.

- Ti voglio – sospirai dopo un lungo momento – Così tanto che mi toglie il fiato –

Appena finii di dirlo si buttò sulle mie labbra, divorandole con un ardore che non avrei dimenticato per il resto della mia vita. Sembrava che tutte le barriere fossero infrante e forse fu per quello che mi sembrò di sentire il fuoco dove le mani di Joseph mi toccavano, quando mi spinsero contro la parete. Mi ritrovai senza maglietta, ma anche lui lo era e mi domandai quando gliel’avessi tolta. La sua lingua esplorava la mia bocca con perizia, senza lasciarmi quasi il tempo di respirare. Sapeva di birra e quel miscuglio con il suo sapore era qualcosa di terribilmente eccitante.

Non avevo tempo di pensare, si muoveva troppo veloce. Non capivo cosa stesse accadendo, mi ritrovai prigioniera in un vortice di passione irresistibile, causata forse da troppa tensione, da troppe occasioni sfumate e da tutto quello che c’era tra noi. Perché c’era, dio se c’era. Avevo smesso da tempo di illudermi che fosse solo attrazione fisica quella che provavo, era una scusa che non stava in piedi.

I miei pensieri vennero interrotti da un sospiro profondo che, successivamente, scoprii essere uscito dalle mie labbra, più precisamente quando Joseph aveva interrotto il bacio e sepolto il viso nei miei seni, leccandone l’incavo. Strinsi i suoi capelli tra le dita, spingendolo di più verso di me e ansimai ancora. Ero priva di controllo, il mio corpo voleva di più e avrebbe fatto in modo di averlo. Fu così che portai le mani ai suoi pantaloni e con mosse agitate tentai di slacciarli. Il secondo bottone fu davvero complicato, ma grazie al cielo gli stavano piuttosto larghi e scivolarono ugualmente lungo le sue gambe. Se ne liberò con un calcio e, mentre imitava i miei gesti in modo decisamente più calmo anche se altrettanto deciso, le sue labbra disegnarono una linea di baci dal mio seno fino a tornare alla mia bocca. Mi bacio di nuovo, a fior di labbra, e si inginocchiò per baciare la pelle appena sopra il mio ombelico mentre accompagnava i miei pantaloni verso il basso, carezzando le mie natiche e poi le cosce. Si sollevò e prendendomi per i fianchi mi depositò sul mio letto con una dolcezza che, dato il momento, non mi sarei mai aspettata. Ma era Joseph, per lui mettere a mio agio me veniva prima di tutto. Non che avessi bisogno di particolari opere di convincimento, ma mi fece comunque piacere che mi riservasse tali premure.

Inarcai la schiena e subito intrufolò la mano tra essa e il materasso per slacciarmi il reggiseno, che poi lanciò via. Sentimmo chiaramente un tintinnio metallico che interruppe il nostro bacio. Sul pavimento, esattamente nel cono di luce che proveniva dal salotto, si stagliava imponente una chiave antica di metallo.

Joseph mi guardò e mantenni lo sguardo con espressione eloquente, accompagnandola con un sorriso. Ricambiò dopo un breve momento in cui i suoi occhi si adombrarono, ma fu solo un fugace istante. Spogliò entrambi degli ultimi indumenti rimasti e, quando ormai stava per entrare in me, posai un dito sulle sue labbra.

- Non sono andata a letto con Dave – mormorai sicura, tentando in ogni modo di risultare credibile – Non l’avrei mai fatto, non da quando ci sei tu –

Sorrise, baciandomi di nuovo con tenerezza. Dio, quelle labbra sapevano baciare in mille modi diversi, in modi che non avevo nemmeno mai ritenuto possibili.

Entrò in me subito dopo e persi completamente il lume della ragione. Mi ritrovai persa in un vortice di mille colori, di mille pensieri e di mille sensazioni. Tutto era come nuovo, le mani di Joseph non smisero per un secondo di accarezzarmi e le sue labbra di baciarmi. Mi faceva sentire così bene da farmi dimenticare i gemiti e gli ansiti che uscivano dalla mia bocca.

Nessuno mi aveva mai posseduta così, nessuno mi aveva mai amata così. Provai un piacere tanto intenso che per un momento mi fece dubitare che fosse reale. Forse sognavo, ma la mia mente non avrebbe mai potuto produrre un sogno tanto sconvolgente, perché non poteva sapere che delle tali sensazioni esistessero. Per la prima volta mi sentii in sintonia totale con qualcuno, mi sentii completa.



***



Giorno! Ve lo aspettavate? Siete liberissime di lamentarvi della sindrome bipolare di Phoebe, ma quando uno scoppia, beh, scoppia. Quindi mi limito a non dire nulla, ringraziandovi per le recensioni, i preferiti, le seguite e le ricordate. A domenica prossima :3

Giuggi

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***




Capitolo 25

 

Ero fuggita più o meno disperatamente da quella specie di nido d’amore che mi aveva vista cedere alla passione incontrollabile di Joseph, che sembrava non averne mai abbastanza. Anch’io, a mio modo, avrei voluto non smettere mai, continuare a sentire le sue mani sul mio corpo con quelle carezze impazienti ma allo stesso tempo dolci, così capaci di farmi sentire importante e bellissima. Il centro dei suoi pensieri.

Per quello ero fuggita, ritrovandomi a Dover, a casa dei miei genitori.

Quando mia madre mi aveva vista in lacrime sulla porta di casa, lacrime che per le quasi due ore di tragitto non avevano accennato a manifestarsi se non nell’attimo in cui avevo visto in lontananza la soglia della mia vecchia casa, aveva quasi avuto un tracollo. Mi ero affrettata a rassicurarla, a raccontarle quanto fosse stato difficile per me lasciar entrare un uomo nella mia vita e lasciare che prendesse un posto così importante.

Non la sopportavo, non l’avevo mai sopportata più di tanto: era pressante, mi voleva sempre a casa e, nonostante i miei venticinque anni, pretendeva sempre di organizzarmi le giornate e di dirmi cosa fare, pur vivendo a quasi ottanta miglia di distanza. Ma quando non c’era, per un motivo o per l’altro, avevo sempre bisogno di lei e di sentire la sua voce riempirmi la testa. Alla fine anche lei era la mia migliore amica, avevo bisogno di lei quanto avevo bisogno di Amber.

Ma quella volta non mi aveva aiutata, non era riuscita con le sue parole sagge e consapevoli a sciogliere i mille nodi che legavano il mio animo e il mio stomaco. L’ansia mi pervadeva, come se un demone avesse preso il controllo del mio corpo. E tutto per quel maledetto sorriso di Joseph, che mi era entrato nel sangue senza preavviso, senza nemmeno lasciarmi il tempo di provare a chiuderlo fuori. Ci avevo provato ugualmente, lo sapevo, ma ci avevo provato quando ormai era già troppo tardi e ne ero sempre stata consapevole. E negare a se stessi cose importanti come i sentimenti non dava mai buoni frutti; essi facevano pressione nella mente e nel petto ed esplodevano quando meno ce lo si aspettava e spesso ciò accadeva nel modo più sbagliato che potesse esistere, con reazioni che non potevano essere più lontane dai sentimenti reali.

Così ero fuggita anche da mia madre, in lacrime dopo il discorso a prova di bomba che mi aveva fatto, che aveva sconvolto lei ancora più di me, e mi ero ritrovata lungo la Marine Parade a guardare il mare. Alle mie spalle le bianche scogliere di Dover, ricoperte da cespugli verdeggianti nonostante l’autunno ormai imminente, mi facevano sentire a casa, al sicuro e protetta.

Ma chi mi avrebbe protetta da me stessa, dalla mia stupidità?

Camminare sul lungomare era sempre stato oltremodo rilassante, forse complice il profumo salmastro che, nonostante tutto, rimaneva persistente a dispetto del porto e dei suoi aromi poco piacevoli. Mi appoggiai con i fianchi alla ringhiera che separava il marciapiede dalla spiaggia, che si stendeva per alcuni metri poco più in basso. Strinsi il tubo di ferro tra le dita con tutta la forza che avevo, incurante della ruggine che mi avrebbe sicuramente sporcato le mani. Le avrei lavate, non mi facevo quelle inutili fisime. Ne avevo già abbastanza.

- Hai idea di come mi sia sentito quando mi sono svegliato in quel letto vuoto? –

Sobbalzai violentemente al suono di quella voce e mi voltai di scatto. Joseph era seduto placidamente sulla panchina dietro di me, sempre magnifico nella sua semplicità. Indossava un giubbotto nero sopra una maglia del medesimo colore a coprire quel petto niveo che avevo baciato e sfiorato ininterrottamente solo poche ore prima, petto che celava un cuore calmo e rassicurante che mi aveva cullata fino a quando non avevo ceduto al sonno. Una gamba tremolava assiduamente, tradendo forse il suo reale stato d’animo o forse un semplice vizio che non gli dispiaceva più di tanto. Dopotutto non aveva senso che fosse agitato, sembrava così tranquillo…

- Che c’è? – mi chiese poi con un sorriso incerto, forse accorgendosi del mio sguardo insistente sul suo corpo. Non sapevo nemmeno io per quale motivo lo stessi fissando, muta e ferma come una statua di sale.

- Come mi hai trovata? –

Sorrise di nuovo e mi immaginai la sua voglia sfrontata di ricordarmi che era maleducazione rispondere ad una domanda con un’altra domanda. Era molto più inglese di me sotto certi aspetti.

- Amber – rispose soltanto, con fare scontato. E lo era maledettamente, mi chiesi solo come avessi potuto non pensarci subito. La mia migliore amica si era mostrata molte più volte dalla parte di Joseph che non dalla mia. O forse stava solo dalla parte che riteneva più giusta per la mia felicità, infischiandosene se andava contro i miei desideri o a mie esplicite richieste. Non avrei potuto comunque lamentarmi della sua lealtà, era da cinque anni che era praticamente diventata la mia anima gemella, in barba a Drew che credeva ancora di esserlo, per Amber.

- Avrei dovuto immaginarlo –

- Sì – confermò Joseph per poi rabbuiarsi di colpo – Avresti dovuto, ma forse anch’io avrei dovuto immaginare che questa mattina non ti avrei trovata al mio fianco –

Abbassai il capo colpevole. Non era colpa mia se quel terrore folle di vedere i suoi occhi mi aveva colta così nel profondo. Sapevo da me di non essermi comportata in modo ineccepibile, ma non avrei potuto rimanere là e rischiare di mandare in frantumi il mio precario equilibrio psicofisico.

E, per l’amor del cielo, anche Joseph avrebbe dovuto smetterla di pretendere da me tutto quell’impegno! Non era un mistero che fossi reticente, soprattutto sugli uomini, e che fossi una piccola stupida con la flessibilità di un pilastro di cemento. Una bacchettona, ecco cos’ero!

Oddio, ero senza speranza!

- Ehi – mi disse, raggiungendomi in quattro ampie falcate – Non voglio farti sentire in colpa! –

Chiuse le mani a coppa sul mio viso, obbligandomi a guardarlo. Tuttavia serrai le palpebre, sentivo che sarei scoppiata a piangere altrimenti e non volevo farlo. Non di nuovo e non davanti a lui.

Sentii Joseph sospirare, forse di frustrazione o forse no, e posò la fronte contro la mia, facendo strofinare i nostri nasi. Fu un gesto tenero, ma i miei occhi rimasero ostinatamente serrati anche quando le mie mani andarono a raggiungere le sue.

Era più forte di me, non riuscivo a lasciarmi andare. Anzi, ci ero riuscita ma il momento era passato, probabilmente avrebbe dovuto faticare molto per farmi sciogliere di nuovo.

Non sapevo cosa mi stesse prendendo.

- Scusami – sussurrai con la voce rotta, lasciandogli chiaramente intendere che fossi sull’orlo delle lacrime. Non disse nulla, ma mi abbracciò stretta e posò un bacio tra i miei capelli.

- Non ti scusare – mormorò, distanziandosi un poco. Un meraviglioso sorriso fece capolino sul suo viso e mi incantai a guardarlo mentre a mia volta piegavo gli angoli della bocca all’insù – Ma i tuoi genitori ci aspettano per pranzo –

- Cosa? – sbottai sconvolta. E quando li aveva conosciuti i miei genitori?

- Non guardarmi così – sogghignò – Non ci sono ancora stato a casa tua, ma Amber mi ha mandato un messaggio. Lei e Drew sono ancora là e immagino abbiano sconvolto la cucina di tua madre –

- Conoscendola avrà già svaligiato il supermercato di fronte – sospirai, lasciando che Joseph mi prendesse per mano. Adoravo quel suo modo di non far pesare le situazioni, mi capiva fino in fondo ed era una delle cose su cui più contavo in una relazione. Dave non mi aveva mai compresa, si era sempre limitato a sfilarmi i vestiti e a farmi tacere infilandomi la lingua tra i denti. Ma Joseph era diverso, gli importava di me.

E riuscì a mantenere la mia ansia ad un livello accettabile, ad un livello normale per una venticinquenne in procinto di presentare un uomo ai suoi genitori. Non che fosse propriamente il mio ragazzo, ma era la persona più simile ad esso che avessi avuto da almeno cinque anni a quella parte e, decisamente, mi faceva un certo effetto portarlo a casa dei miei e arrivare sulla soglia con le dita strette nella morsa delle sue. Ma, se non altro, non fui mai così orgogliosa di un uomo come lo ero di lui.

Ci aprì mia madre, i suoi corti capelli rossi e sbarazzini catalizzavano l’attenzione e certamente Joseph ne rimase impressionato anche se, conoscendolo, avrebbe sicuramente voluto farmi credere che avesse notato prima di tutto i suoi occhi dello stesso colore dei miei. Me lo bisbigliò anche all’orecchio, appena mia madre ci diede le spalle un attimo, ma con una gomitata scherzosa gli assicurai che non me la sarei bevuta per niente al mondo.

- Mia madre è un po’ ansiogena – lo informai, posando le labbra contro il suo orecchio – Non parlare di voli transoceanici o potrebbe impazzire ed arrivare a mettere il sale nel caffè, ma per il resto è molto simpatica. Ti prego di non darle man forte quando attaccherà a prendermi in giro, ci pensa già Andrew –

- E che mi dici di tuo padre? –

Potei sentire un po’ di agitazione nella sua voce, rimarcata dal fatto che non avesse fatto battutine strane sulle prese in giro di mia madre. Col tempo, se avesse avuto davvero l’occasione di conoscere meglio la mia famiglia, sicuramente si sarebbe lasciato andare ad un buon umorismo inglese, ma quel giorno sarebbe stato rigido come un palo, nonostante le sue ottime qualità di attore fossero a sua completa disposizione per risultare amabile e rilassato.

- Non contraddirlo mai, nemmeno se ti dice che i maiali volano – lo avvisai seria, aggrottando le sopracciglia per cercare di fargli più paura possibile – Non parlare mai degli americani, non togliere la sedia su cui ha posato i piedi e non dire male del Manchester United o potresti venir messo alla porta. Ma se ti prende in simpatia sarete amici per tutta la vita. Ha un cuore grande –

Sapevo che la seconda parte della descrizione non corrispondeva affatto alla prima ed evitai di dirgli che partiva da una posizione svantaggiata per il semplice fatto di essere con me. Ma era piuttosto pallido e il suo sguardo sempre spavaldo aveva una sfumatura un tantino preoccupata, così intrecciai le dita alle sue e strinsi forte, prima di lasciarlo andare.

- Dimenticavo – un sorriso divertito si fece strada sul mio viso mentre incrociavo le sue iridi celesti – Non toccarmi per nessun motivo al mondo –

Avrebbe dovuto aspettarsi una frase del genere, anzi avrebbe dovuto saperlo da sé, ma trovò comunque l’occasione per roteare gli occhi spazientito.

Scott Prentice, alto e dalle spalle larghe, si presentò con una vigorosa stretta di mano perfettamente ricambiata. Vidi negli occhi di mio padre passare un lampo di apprezzamento per la stretta di Joseph. Ma, dopotutto, con quelle mani era davvero bravo.

Una vampata di calore investì il mio volto per quel pensiero sfuggito al mio controllo, facendo imporporare le mie guance. Se qualcuno se ne accorse fece abilmente finta di nulla, così mi ritrovai stretta nell’abbraccio stritolatore di mio padre che poche ore prima non aveva avuto l’occasione di vedermi.

Andò tutto sorprendentemente bene, Scott fu anche più cordiale del solito e non tentò varie domande a trabocchetto come aveva sempre fatto con i miei amici di Dover, che credeva tutti spasimanti accaniti. Sospettai ci fosse lo zampino di Amber, che aveva con mio padre un rapporto strano, basato su una grande stima reciproca e la fede profonda nel Manchester United. E fui tentata di chiederglielo sul treno di ritorno, ma lei e Drew si erano addormentati praticamente l’uno sull’altra e non me la sentii di svegliarli, così mi godetti le carezze di Joseph sul dorso della mia mano.

- Grazie per oggi – mormorai dal nulla, ma non mi riferivo solo al pranzo. Pensavo a quando non avevo saputo guardarlo negli occhi. Lui aveva capito, come sempre.

- Mi ha fatto piacere – rispose, scostando un ciuffo di capelli dal mio viso – Ma vorrei chiederti io una cosa, adesso –

- Dimmi – replicai subito. Dopotutto glielo dovevo.

- Fra due settimane mio cugino si sposa – disse con un’invidiabile faccia da schiaffi – Vorrei che fossi la mia dama –

Boccheggiai incredula: come avrei potuto declinare dopo che lui stesso si era ritrovato invischiato in un pranzo con i miei genitori? Senza via di scampo, ecco cos’ero. In gabbia.



***



Buonsalve!
Non arrabbiatevi con Phee, dopotutto grazie alla cospiratrice Amber (non vi ricorda un po' Caroline come vizio di impicciarsi e spifferare tutti i segreti? xD) Joseph l'ha raggiunta ed ha ottenuto molto di più di quanto si aspettasse xD Sappiate che amo Drew, non penso ci sia altro da aggiungere, ahahah! 
Ringrazio tutti per le recensioni, le seguite, le preferite e le ricordate e... andate a votareeee! xD A domenica!

Giuggi

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***




Capitolo 26

 

Me ne stavo da almeno dieci minuti in piedi di fronte al tavolo, sul quale giaceva una grande scatola di color avorio, rigorosamente aperta. Sul coperchio faceva bella mostra di sé il nome di una delle più grandi e rinomate griffe dell’alta moda, esattamente come sul mio viso campeggiavano migliaia di punti di domanda, probabilmente anche più appariscenti della scritta sulla scatola.

- Phee… - alitò Amber, forse ancora più sconvolta di me. Peccato che il suo sconvolgimento fosse più tendente all’euforia che alla furia cieca, sebbene io in quel momento non avessi per niente voglia di subirmi uno scoppio di esaltazione. Ero furente e la causa di quella rabbia avrebbe dovuto dire grazie a tutte le divinità in cui credeva per essere lontano da me quella dannata mattina. O non sarebbe arrivato vivo al matrimonio di suo cugino, e mi sarei premurata io stessa di fargli fare la fine che meritava. Come ad esempio un tuffo nel Tamigi con delle catene a mani e piedi.

- Non ti azzardare! – sibilai, distogliendo per la prima volta lo sguardo dalla scatola e dal suo contenuto ancora lievemente nascosto, per puntarlo insieme ad un indice verso la mia migliore amica, sul punto di tradirmi come ogni volta in cui c’era di mezzo Joseph – Quel dannato fattorino mi ha rivoltato l’umore per tutta la giornata e non ti azzardare a darmi contro! –

D’accordo, forse non meritava un trattamento di quel genere, ma essere svegliata alle nove del sabato mattina, dopo essere tornata alle quattro dal lavoro, non era decisamente il massimo della vita. Tanto più che quel dannato fattorino aristocratico aveva squadrato con palese disgusto noi e anche ciò che si intravedeva della casa attraverso lo spiraglio della porta. Avrei voluto fargli notare che il suo lavoro non lo rendeva certamente più altolocato di noi, ma poi mi ero morsicata la lingua per il bene comune e per farlo sloggiare il più in fretta possibile. Sempre per evitare di finire in galera.

Con la coda dell’occhio vidi Amber sollevare le mani come difesa, forse terrorizzata dal mio scoppio d’ira contro di lei, che non aveva nessuna colpa se non quella di essere nei paraggi.

- Scusami – sospirai, passandomi una mano sul viso per cercare di darmi una calmata – Dimmi –

- Lo so che sei furiosa, ma forse dovresti almeno spulciare un po’ dentro questa scatola che puzza di aristocratico e capire quanti insulti sia il caso di rivolgere al mittente – replicò con calma, scandendo bene le parole e tenendomi d’occhio, forse per paura che improvvisamente mi mettessi a mordere o a sputare fuoco. Non c’era assolutamente nulla da dire, in quei cinque anni di convivenza aveva imparato benissimo a circuirmi con le parole e aveva anche capito cosa fosse il caso di dirmi quando ero in condizioni pietose, come in quel momento. Ma non sarebbe stata la mia migliore amica, se così non fosse stato. E la ringraziai silenziosamente per quello.

Così presi un sospiro e, seguendo le indicazioni di Amber e forte del suo sostegno al mio fianco, scostai la carta che impediva ai nostri occhi famelici di scorgerne il contenuto. Prima di notare quella nuvola rosa che avrebbe scatenato in me sensazioni più disparate, i miei occhi focalizzarono un biglietto. Era un comune foglio bianco, nettamente in contrasto con l’eleganza e la classe del pacchetto in sé, ma lo presi ugualmente e lo scartai con tanta impazienza da rischiare di romperlo.

La grafia era semplice, comprensibile e accettabile ma vistosamente maschile. Lo benedii per aver pensato di scrivere il biglietto di suo pugno anziché incaricare qualche commessa di farlo al suo posto, altrimenti avrei avuto un altro motivo per affogarlo nel Tamigi e avrei preferito non essere così motivata, ecco.

 

“So quanto poco desiderassi di accompagnarmi a questo evento per me tanto importante, così ho voluto levarti un impiccio. Lo so, purtroppo non è quello che avresti voluto. Ma spero comunque che ti farà piacere. E poi, sarai sempre bellissima. J.”

 

- Che carino – squittì Amber quando finii di leggere ad alta voce ciò che Joseph mi aveva scritto. Inutile dire che la fulminai di nuovo, senza un minimo di pietà.

- Se davvero avesse voluto levarmi un impiccio avrebbe potuto semplicemente non invitarmi a questo dannato matrimonio! – esplosi furiosa come non mi capitava più da parecchio tempo – Ma lui no, lui prima mi mette nei casini fino al collo e poi crede anche di farmi un favore rimediando ad un danno a cui avrei rimediato anche da sola! –

- Sei sicura? – chiese la mia migliore amica, improvvisamente dubbiosa. Le avevo dato le spalle e, voltandomi, scoprii che aveva definitivamente scoperto il contenuto della scatola. Era un abito, meraviglioso anche. Ringraziai che almeno i gusti di Joseph non fossero pietosi come i suoi falsi tentativi di falsissime scuse o quella famosa lista per cui buttarlo nel Tamigi sarebbe diventata una specie di lista della spesa.

- D’accordo – sospirai frustrata, prendendo quella nuvola impalpabile tra le mani – Forse non avrei raggiunto un risultato così raffinato, ma se anche Kate Middleton riesce ad essere raffinata ed elegante vestendosi da Zara, beh, perché non dovrei riuscirci io? –

- Perché tu non sei la moglie dell’erede al trono d’Inghilterra – mi spense subito con uno sguardo divertito – Ciò che veste lei è aristocratico perché lei lo è, quindi su di te non avrebbe lo stesso effetto –

- Dovresti smetterla di contestare sempre quello che dico – borbottai mentre mi chiudevo in bagno per provare l’abito.

- E invece no, ti contesto perché sono tua amica – ribatté di nuovo, sempre ridendo – Ad esempio, ora contesto il fatto che tu ti stia chiudendo in bagno per provare quello straccetto da chissà quante centinaia di sterline. Non sarebbe la prima volta che ti vedo in intimo e poi, sicuramente, avrai bisogno di me per allacciare quella cerniera –

Mentre Amber parlava, mi ero chiusa la porta alle spalle e avevo indossato l’abito. La stavo deliberatamente ignorando, o non sarei riuscita a rimanere seria davanti alla sua faccia da schiaffi. Era incredibile come il suo costante buon umore riuscisse a far dimenticare alla mia mente persino la furia più cieca, quella furia che solo Joseph aveva il potere di provocarmi. E pensare che ancora mi chiedevo come ci riuscisse.

- Niente cerniera – replicai con un sorriso sornione quando uscii vestita di tutto punto. Beh, ok, mancavano le scarpe, ma le avrei comprate. Non potevo mandare Joseph a requisire anche quelle, o avrei mostrato anche troppo di aver bisogno di lui. Al diavolo pure quel maledetto orgoglio, persino nelle leggerezze doveva dettare legge nella mia vita!

- Beh, Phee – mormorò Amber con gli occhi scuri spalancati – Sei una favola –

Feci un giro su me stessa e mi ammirai nel grande specchio del salotto, appeso là perché era l’unica parete libera rimasta. E due donne non potevano non avere uno specchio intero.

L’abito era di un elegantissimo rosa tendente vagamente al salmone, mi sfiorava le ginocchia in una gonna ampia e impalpabile ed era drappeggiato su una spalla. In vita era stretto da una cintura della stessa stoffa dell’abito, con una fibbia dorata.

- Sai che ti dico? – improvvisamente mi illuminai come una lampadina – Tu mi presterai borsa e scarpe, sono anni che sogno l’occasione giusta per rubarle dal tuo armadio –

- Voglio essere pagata – saltò su subito lei, incrociando le braccia come una bambina capricciosa.

- Tesoro, se avessi soldi per pagarti allora, forse, avremmo già fatto aggiustare la porta. Che ne pensi? –

- Chi ti dice che voglia dei soldi? – fu il suo turno di sogghignare e, alzandosi, venne verso di me – Voglio tante parole. Voglio che mi racconti com’è il sesso con Joseph –

Arrossii come un pomodoro, sentii distintamente l’afflusso di sangue prendere possesso del mio collo, delle mie guance e, infine, di tutto il viso. Mi aveva colta alla sprovvista e non ero riuscita a controllare la mia reazione. Tanto più che anche i miei occhi erano spalancati, probabilmente se avessi continuato a tenerli in quella posizione sarebbero strabuzzati fuori dalle orbite e avrei dovuto raccoglierli dal pavimento. Oh, che scena macabra.

- E tu come diavolo lo sai che io e lui siamo stati a letto insieme? – allibii sconvolta, pensando subito che Joseph avesse cantato quel giorno in cui ero scappata a Dover.

- Beh, ho tirato a caso – rise – Ma ne ho avuto decisamente la conferma dal colore della tua faccina pura e casta, cara la mia rubacuori –

- Tu sei pazza – allibii, slacciandomi l’abito proprio davanti a lei, giusto per non darle modo di protestare di nuovo per qualcosa. Anche se, con quel discorso succulento tra le mani, sicuramente non avrebbe tergiversato.

- Non cambiare discorso e non darmi rispostine vaghe come fai sempre. Voglio sapere dimensioni, prestazioni, durata… - iniziò ad elencare estasiata.

- La marca di preservativi non ti interessa? – sbottai sempre più in imbarazzo, ripiegando l’abito per riporlo al suo posto nella scatola.

- Amica mia – sospirò, giungendomi alle spalle per picchiettarmi una mano tra le scapole – Se hai notato quella significa che le prime tre cose che ti ho chiesto sono state deludenti –

Roteai gli occhi. Era mai possibile che non riuscissi a farla franca mai nemmeno una volta con quella maledetta dalla lingua biforcuta?

Feci per risponderle ma mi resi conto che, sul fondo della scatola, c’era un altro biglietto. Non era un semplice foglietto come il precedente, ma una sobria busta bianca di forma rettangolare. Aggrottai le sopracciglia mentre anche Amber s’incuriosì e ci ritrovammo di nuovo nella stessa posizione di poco prima: due anime in pena chine su una scatola raffinata.

- E quello che cosa diamine sarebbe? – s’insospettì la mia amica – Su, forza! Aprilo –

Eseguii l’ordine senza ribattere e trovai l’ennesimo foglio scritto da Joseph, insieme a dei biglietti aerei che mi fecero subito andare il sangue alla testa.

 

“Temo di non averti riferito il luogo del ricevimento: si svolgerà al castello di Chenonceau, sulla Loira. In Francia, ovviamente. Ti ho prenotato il biglietto di andata e anche di ritorno, perché so già che riceverei un rifiuto se ti chiedessi di fare un giro per la Francia insieme a me. Partirai da Heatrow, atterrerai all’aeroporto di Tours e là troverai un taxi ad attenderti. Il viaggio fino al castello durerà circa un’ora, io sarò lì ad aspettarti. Poi rimarremo una notte nel castello e l’indomani torneremo a casa. Spero di non averti fatta troppo arrabbiare. J.”

 

- Ci mancava solo la letterina d’amore, adesso – ringhiai, lanciando tutto per aria. Mi lasciai cadere imbronciata sul divano, incrociando le braccia come una bambina in castigo. Sentii Amber sospirare di rassegnazione mentre probabilmente sistemava l’abito e anche i biglietti in modo che nessuno dei due si sgualcisse. Se non ci fosse stata lei probabilmente avrei già mandato al diavolo quello spudorato attore damerino da quattro soldi, bruciando tutta la scatola o magari buttandola nel Tamigi insieme al mittente.

Dio, mi aveva presa in giro! Gliene avrei dette di tutti i colori, avrei preso quell’aereo maledetto e sarei andata a quel castello con una tuta di Andrew solo per il gusto perverso di prenderlo a schiaffi davanti a tutti i suoi parenti. Damerini quanto lui, ci avrei scommesso la laurea.

Improvvisamente scattai in piedi, guardando Amber con fare terrorizzato. Non ero pronta. Sarei dovuta partire quattro giorni dopo e sembravo praticamente una senzatetto.

- Lo so, lo so. Non agitarti per nulla, lo sai che sono una persona previdente – annuì la mia migliore amica, prendendo in mano il telefono – Ti fisso l’appuntamento dall’estetista e dal parrucchiere. E sì, ti presterò le mie scarpe, ma azzardati solo a rovinare un tacco e ti farò soffrire –

- Per chi mi hai presa? – mi risentii – So come si cammina sui tacchi –

- Tu sai come si cammina con le scarpe da ginnastica, dolcezza – mi rintuzzò – Ora stai zitta e fai lavorare la tua bellissima e organizzatissima amica bionda –

- Ma che mangi a colazione? – borbottai. Mi guardò confusa e, con un cenno del capo, mi chiese di ripetere. La ignorai e mi lasciai cadere di nuovo sul divano mentre un gemito disperato lasciava la mia bocca. L’avrei ucciso, Joseph, se non nel Tamigi l’avrei affogato nella Loira, ma me l’avrebbe pagata cara.

Reclinai il capo sullo schienale e vidi la mia bellissima e organizzatissima amica bionda sul balconcino della cucina, che gesticolava al telefono. E, dopo tanto tempo, iniziai a pregare.



***



Ci tengo a precisare che, quando scrissi questo capitolo, la 3x14 non era ancora andata in onda, quindi. Poi, credo di aver passato due giorni su Wikipedia e Google Maps per capire quale castello sarebbe stato più adatto e anche il percorso per arrivarvi. Sono uscita di testa e ho rischiato il manicomio per dettagli che, magari, a molti sfuggiranno, ma non importa. Adoro fare le cose per bene. Nel prossimo capitolo vi metterò il link con la foto del castello, oppure googlatelo se siete curiose xD Al momento non posso perché il mio computer fa schifo ed è già qualcosa che riesca ad aggiornare -.- Mi scuso per l'assenza di Joseph, ma la sua bellissima faccia da schiaffi aleggia nell'aria quel tanto che basta a far uscire fuoco dalle narici di Phoebe. Vi ricordo che mancano altri quattro capitoli e la storia sarà conclusa. Se vi sembrano pochi non preoccupatevi, le matasse più importanti saranno slegate senza dubbio :) Grazie per l'attenzione, per le recensioni e tutto il resto. A domenica prossima! :)

Giuggi

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***




Capitolo 27


Il castello di Chenonceau si ergeva imponente di fronte ai miei occhi. Sentivo quasi le vertigini tanto era il tempo che avevo passato con il naso per aria, cercando di scorgere la sommità di quei muri di pietra che avevano visto lo scorrere dei secoli. Mi chiesi quali storie si celassero dietro quelle finestre provate dal tempo, dietro quei giardini alla francese che avevano accompagnato me e il mio piccolo trolley nel tragitto dal cancello fino all’ampio portone spalancato.

Avevo dovuto attraversare un piccolo ponticello sospeso sulla Loira che, dalla terraferma, mi aveva portata a quella parte di castello con le fondamenta nelle profondità del fiume. Sarei stata una bugiarda se avessi negato il brivido di eccitazione mista a terrore che avevo provato, sentendomi così piccola e in balia della furia cieca dell’acqua. Ma perché poi avrebbe dovuto crollare tutto ciò che per secoli era rimasto immutato in balia di guerre ed intemperie?

Mi sentivo filosofeggiante quel giorno, la storia francese mi aveva sempre affascinata, e pensare che stavo camminando sulla stessa pietra che avevano calpestato altre centinaia di nobili incipriati mi faceva un certo effetto. Mi sentivo quasi indegna di presentarmi lì in jeans e maglietta. E non ero nemmeno abituata ad un clima così poco umido, così diverso da quello della mia amata Londra.

- Phoebe, sei arrivata finalmente – la voce di Joseph mi distrasse dalle mie romantiche elucubrazioni, più romantiche di quanto non fossi io in realtà. Alle mie orecchie giunse lampante la sfumatura sollevata della voce del giovane uomo che avrei dovuto accompagnare a quell’accozzaglia di parenti e amici di famiglia in cui sarei risultata palesemente fuori luogo.

- Avevi paura che non venissi – mormorai avvicinandomi, dimenticandomi provocatoriamente di dare alle mie parole un’inflessione interrogativa. Volevo che sapesse che avevo colto alla perfezione la sua ansia, la sua incertezza. Era solo una piccola vendetta rispetto alla condizione in cui mi aveva infilata a forza, ma per me era importante.

- Diciamo che ci ho pensato – ammise abbassando il viso. Posai le dita sulla sua guancia, lasciando che la lieve barba mi solleticasse i polpastrelli, e lo obbligai ad alzare gli occhi per incontrare i miei. Di solito ero io a rifuggire il suo sguardo, sempre io che non volevo concedergli di scrutarmi dentro perché, che lo volessi ammettere o meno, era sempre molto più bravo di tutto il resto del mondo a leggere i miei sentimenti e a sbattermi in faccia con semplicità disarmante tutte quelle emozioni che ancora, anche dopo gli abbracci profondi di quella notte tra le lenzuola del mio letto, ero restia ad ammettere di provare. Fu per quel motivo che, almeno quella volta in cui sembrava così indifeso, decisi di andargli incontro e rassicurarlo, anche se certamente non era lui quello più traballante tra noi due.

- Ti avevo detto di sì – gli ricordai, senza fare saputo e senza il mio solito muro di diffidenza.

- Ti avevo obbligata – replicò invece, posando la fronte contro la mia – Ti avevo costretta, facendo leva su quella giornata passata insieme alla tua famiglia -

Sorrisi, scuotendo il capo per fermare quel fiume di parole che usciva dalle sue labbra con il solo intento di mortificarlo. Ero io, di solito, quella che cercava di nascondersi dietro le proprie azioni. Che gli succedeva?

- Se non avessi voluto venirci – dissi di nuovo, lasciando il trolley e portando anche l’altra mano sulla sua guancia – Avrei trovato il modo di dirtelo subito –

- Quindi – sussurrò emozionato, portando le mani sopra le mie mentre muoveva il capo per strofinare il naso contro la mia guancia – Eri davvero tu quella con cui ho fatto l’amore, non la tua gemella passionale –

Scostai di scatto la testa e le mani, arretrando di un passo. Non potevo credere che non sapesse godersi quei pochi momenti di umanità che concedevo. No, lui doveva sempre volere di più ed ecco che finivo a chiudermi in me stessa come un riccio. Avrei voluto essere una tartaruga, sarebbe stato ancora meglio! Avrei potuto ritirarmi nel mio guscio al sicuro e nessuno sarebbe riuscito a farmi uscire se non ne avessi avuto voglia io.

- Momento di tenerezza finito – sospirò con un sorriso allibito, scuotendo il capo con rassegnazione. Se lo meritava; credeva che bastasse solamente uno sguardo da cucciolo per farmi sciogliere? Beh, aveva capito proprio male. E se aveva capito male allora si meritava che mi comportassi così. Se invece aveva capito bene e stava solo giocando, beh… Facevo bene il doppio!

- Chi troppo vuole nulla stringe – recitai mentre, stringendo il trolley come se fosse stato il collo di Joseph, mi avviavo a passo di marcia verso l’ingresso. E non importava se non sapessi dove andare.

- Mi sembra di averti stretta più che in abbondanza, quella notte – sussurrò al mio orecchio con voce roca.

Un lieve ringhio irritato proruppe dalla mia gola prima che potessi fermarlo e mi voltai di scatto.

- Sai, Joseph – sibilai con stizza – Quando ho ricevuto quel fattorino idiota con la tua scatola ho provato il fortissimo impulso di venirti a cercare per buttarti nel Tamigi! –

- Beh… - tentò d’intromettersi, ma con un’occhiataccia lo feci desistere da quell’irritante proposito e continuai la mia supponente filippica.

- Qui non c’è il Tamigi, ma la Loira potrebbe andare bene ugualmente, quindi vedi di non fare troppo il maschio alfa che rivendica le sue aitanti prodezze con la fanciulla di turno – decretai e con un sorriso più falso della banconota da quindici sterline lo piantai lì nel bel mezzo del corridoio.

Lo sentii improvvisamente scoppiare a ridere e mi voltai, catturata da quel suono. Non potei impedirmi di notare quanto fosse bello quando sorrideva, le sue labbra piene erano così invitanti in qualsiasi espressione che, quando mi raggiunse di corsa per darmi un rapido bacio, non riuscii ad impedirmi di trattenerlo e approfondire il contatto. Era qualcosa di meraviglioso lasciarsi baciare così. Da lui.

- Mi sei mancata in questi giorni – sussurrò sulle mie labbra, stringendomi a sé.

Ringraziai di quell’abbraccio che mi permise di seppellire il volto nell’incavo della sua spalla ed evitare di rispondergli. Avrei potuto dirgli che anche a me era mancato da impazzire? La mia mente bacata sarebbe stata pronta ad una confessione così spiazzante? Forse il mio orgoglio no.

- Noto con piacere che siete amici intimi – scandì una voce alle nostre spalle, con una piacevole cadenza straniera. Mi ricordava il periodo che avevo trascorso a Goteborg, in mezzo a quella massa di scandinavi che parlava così rapidamente da farmi girare la testa. Joseph si irrigidì istantaneamente non appena sentì quelle parole e lo feci anch’io, potendo solamente immaginare chi avesse appena parlato.

- Mamma – sorrise Joseph, tenendomi un braccio sulle spalle con fare possessivo e protettivo allo stesso tempo, mentre confermava tutti i miei timori. Aveva riacquistato in un baleno quel suo modo di fare così arrogante e sciolto e roteai gli occhi, venendo però subito colta in flagrante da quella bellissima signora, alta e bionda, che ebbe il potere di farmi sentire la più insignificante donna del mondo.

- Trent’anni fa, caro Joseph – esordì la donna con un sorriso superiore – Tuo padre non si definiva mio amico

- Mamma – ripeté Joseph, stringendo i denti – Ti presento Phoebe, una mia cara amica

- È un vero piacere conoscerla – m’intromisi, sgusciando abilmente via dall’abbraccio della piovra, per stringerle la mano. La sua presa era salda, ma la mia non era da meno. Così sorrise, ma non seppi come identificare quell’espressione. Non capivo se mi considerasse un insetto o avesse di me un’opinione più alta. Forse, data la perfezione che rasentava, non avrei dovuto aspirare ad essere considerata come qualcosa di più di uno squallido scarafaggio.

- Il piacere è mio, naturalmente. Joseph, caro, vai ad aiutare tuo padre e tuo fratello. Con questa tua bravata dell’affitto a solo un mese dalla cerimonia di un castello abbiamo dovuto fare una corsa immane. Quell’arpia della madre della sposa non fa che lamentarsi da ieri mattina, santo cielo! –

Parlava. Parlava tanto, forse troppo. Capii immediatamente da chi avesse preso Joseph con quel suo instancabile ciarlare di ogni cosa. Mi chiesi come fosse suo padre.

- Ma, Phoebe… - tentò di protestare, continuando a lanciare sguardi a me e poi a sua madre, e poi di nuovo a me. E poi ancora a lei – Non farla girare da sola, mamma, non in mezzo a tutti questi svedesi –

- Non parlare degli svedesi come se non lo fossi anche tu, caro – lo riprese, senza però nascondere il suo divertimento.

Al diavolo, non avevo dubbi sul fatto che avrei adorato follemente quella donna. Sembrava vivere per mettere in soggezione suo figlio ed era una cosa paradisiaca, almeno per me. Nulla mi garantiva che per me avrebbe provato simpatia, però la stimavo solo per il suo comportamento, indipendentemente da tutto il resto. Nonostante fosse qualcosa di piuttosto importante.

- Stai tranquillo, Joseph – replicai tranquilla, facendogli cenno con una mano di sloggiare – Sono laureata in lingue e ho vissuto per un intero anno a Goteborg. Non sono così incapace di capire i tuoi parenti, inglesi o svedesi che siano –

- Oh – le sue labbra piene definivano un cerchio perfetto, così come anche i suoi occhi. Sua madre scoppiò a ridere, sempre con eleganza. Ma era divertita, e mi concessi il rischio di sorridere a mia volta.

- Sai, Phoebe – sospirò quando Joseph non fu più a portata d’orecchio – Mio figlio ha preso il peggio da entrambi i genitori. L’estrema sicurezza di se stesso da suo padre e la logorrea da sua madre. Per questo cerco sempre di smorzare quella spavalderia, anche se a dirla tutta spero che trovi una donna che lo faccia al posto mio e ho letteralmente adorato la risposta che gli hai dato un attimo fa –

Sorrisi, chinando il capo. Mi aveva fatto piacere sentirmi dire quelle cose, mi aveva implicitamente detto che non mi avrebbe presa di mira e non mi avrebbe detestata solo perché ero con lui. Se non altro non pensava che fossi lì per ambire alla notorietà. Dio, se c’era una cosa che odiavo era proprio quella di venire fotografata in ogni istante della mia vita.

- Prendi Emily, per esempio – continuò facendomi trasalire – Te ne parlo perché mio figlio mi ha detto che la conosci –

- Sì – annuii – Abbiamo fatto un anno di liceo insieme, in Canada –

- Lei è una cara ragazza, tutto sommato – ciarlò muovendo le mani, ma non sembrava particolarmente convinta delle sue parole. Forse mi sbagliavo – Ma, santo cielo, è una piattola! –

Scoppiai a ridere, i freni inibitori dispersi chissà dove. Non avevo potuto impedirmelo, però, e cercai di fermarmi anche nei minuti successivi, anche quando alla mia risata si unì la sua.

- Non mi è mai piaciuta, immagino tu possa capirmi – continuò tra una risata e l’altra – Era sempre lì a cercare di compiacere Joseph, e anche me e mio marito. Ogni cosa era sempre tutto un annuire, sembrava un cagnolino –

Non sapevo cosa dire. Mi trovavo talmente d’accordo sul modo di fare di quella maledetta che rimasi in silenzio a godermi quel livello di comprensione che sembravo aver raggiunto con una donna che avrebbe dovuto incutermi timore e, invece, si trovava sulla mia stessa lunghezza d’onda molto di più di quanto non avessi mai creduto possibile.

- Però, Phoebe cara, tu sembri diversa – mi sorrise di nuovo mentre si fermava davanti ad una porta. Non mi ero resa conto che ci fossimo inoltrate in un corridoio coperto, presa com’ero dal discorso – E ti darò man forte se cercherai di vincere in uno scontro verbale con mio figlio, anche se non credo ce ne sarà bisogno. Questa è la tua stanza per stanotte, quella di fianco è di Joseph se avrai bisogno di qualcosa –

Cercai di ignorare il luccichio dei suoi occhi, per la comodità di non doverlo interpretare. Era palese che non credesse alla mia amicizia con suo figlio, ma io stessa non avrei saputo definire il nostro rapporto e considerarlo tale sembrava comodo a entrambi.

Così rimasi lì a fissare la chiave che avevo in mano mentre quella sottospecie di modella svedese se ne andava ancheggiando sui suoi tacchi altissimi. Abbassai lo sguardo sui miei abiti e arrossii vedendo i jeans sbiaditi e le converse. Dio, persino la mia aspirante suocera mi faceva sentire una nullità.

Un momento. Avevo davvero detto “aspirante suocera”?

Merda.



***



Salve a tutti!
Come vi avevo detto la settimana scorsa, QUI trovate il castello di Chenonceau e QUI l'abito che Joseph ha regalato a Phoebe (anche se le scarpe le immagino mooolto più alte, visto che sono della cara Amber xD), mi ero scordata di mettervelo prima. Scusate se non mi dilungo come al solito (magari a voi farà piacere, chissà xD) e scusate anche per non aver risposto alle recensioni. L'aggiornamento di domenica prossima avverrà leggermente in ritardo, sono in viaggio e non so bene quando arriverò. Comunque, entro sera l'avrete. Parola di scout! Vi ringrazio per le recensioni e quant'altro, a domenica! :3

Giuggi

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***




Capitolo 28

 

Era stata una giornata massacrante. Avevo maledetto Joseph in tutte le lingue del mondo per avermi tirata in mezzo a quel dannato casino, in mezzo a tutti quegli svedesi logorroici e in mezzo a quel castello con il pavimento dissestato che mi aveva ucciso le caviglie. Se non altro non avevo fatto la pessima figura di cadere come quella sciacquetta della sorella della sposa, che aveva tentato di flirtare con Joseph tutto il santo giorno. Peccato che lui fosse praticamente incollato a me e, verso la fine della giornata, mi aveva persino dato un bacio davanti a tutti. Questo la diceva lunga su quanto fosse disperato per le avances di quella, visto che gli avevo espressamente proibito di comportarsi come un piccione innamorato davanti ai suoi parenti. Era già abbastanza dovermi sorbire le domande di tutti e gli sguardi divertiti di suo padre, senza che anche lui ci si mettesse di buona lena a fare la sua parte. Non potevo comunque negare che mi avesse fatto piacere stringere la sua mano sotto il tavolo quando, in alcuni momenti, qualche zia malefica, prima tra tutti la madre dello sposo, aveva insinuato che fossi interessata a Joseph solamente per la notorietà. Era stato bello sentirlo rispondere al mio posto, difendendomi a spada tratta. Mi aveva resa più, ecco, bendisposta verso di lui. Non avrei tentato di ucciderlo nel sonno, sebbene la tentazione fosse enorme a causa della vicinanza delle nostre camere.

Non appena riuscimmo a ritirarci dietro le nostre beneamate porte, la prima cosa che feci fu quella di precipitarmi sul balconcino per respirare un po’ d’aria. Non che avesse molto senso, dato che avevamo passato l’intera giornata all’aperto, ma respirare da sola dell’aria che fosse solamente mia sembrava essere più importante persino di togliermi le scarpe.

- Abbiamo avuto lo stesso bisogno, a quanto pare – una voce alla mia sinistra mi fece trasalire, intenta com’ero ad ammirare l’incedere maestoso della Loira sotto di me.

Mi voltai e vidi Joseph, una sigaretta accesa tra le dita e già consumata per metà.

- Tu non stai respirando solo aria – precisai con un blando sorriso.

Chinò il capo per un momento, ricambiando il mio sorriso, e lo alzò di nuovo per puntare i suoi occhi nei miei.

- Mi vergogno profondamente per non avertelo ancora detto, ma eri la più bella di tutte oggi – confessò a bassa voce e il suo sguardo mi fece davvero sentire bellissima. Ma anche terribilmente in imbarazzo, così provai a dissimulare scherzandoci su.

- Lo dici solo perché hai scelto tu il vestito – ribattei piccata, stringendomi le braccia al petto. Non avevo freddo, c’era un clima particolarmente mite, soprattutto per noi britannici che eravamo abituati a ben altre temperature, ma mi sentivo in imbarazzo. Sì, l’avevo già detto. Quando mi sentivo a disagio diventavo sempre ripetitiva, era una mia peculiarità.

- Lo dico perché lo penso – sorrise di nuovo, forse intenerito dalla mia ritrosia – E poi, se proprio vuoi contestarmi qualcosa, puoi sempre accusarmi di aver copiato un gesto compiuto dal mio personaggio –

- Non seguo quello show per ragazzine arrapate, pensavo di avertelo già detto in altre occasioni – replicai. Non avevo nemmeno pensato a quell’analogia, ero diventata talmente furente alla vista di quella scatola maledetta che avevo persino dimenticato cosa potessi davvero rinfacciargli.

- Bugiarda – sogghignò – Amber mi ha detto che ti ha obbligata a vedere tutta la terza stagione –

Arrossii leggermente, sentendomi colta in flagrante. Perché diavolo non stavo mai zitta? E per quale altro maledetto motivo la mia migliore amica mi tradiva sempre? Me lo chiedevo più o meno dal dannato giorno in cui avevo conosciuto Joseph, ma non sapevo mai darmi una spiegazione! Se avessi capito il problema avrei potuto aggirarlo, ma no, sarebbe stato troppo facile!

- Ti va di fare un giro per il castello? – mi chiese ad un certo punto, vedendo che non avevo intenzione di rispondere.

- Adesso? – allibii, alzando lo sguardo verso il cielo per constatare che davvero fosse notte fonda e non me lo fossi solamente immaginato – Joseph, è mezzanotte –

- Non avrai mica paura dei fantasmi – mi provocò, sorridendo con malizia. Avrei voluto allungare il braccio fino a tirargli uno schiaffo, ma non ci sarei arrivata comunque.

- Andiamo – sbuffai  – Dammi almeno il tempo di cambiarmi le scarpe, non vorrei farmi portare in braccio –

- Non mi dispiacerebbe poi così tanto – mi parve di sentirgli dire, ma non ero sicura che non fosse solamente il frutto della mia immaginazione. Estrassi dal piccolo trolley un paio di ballerine dorate e mi appuntai di ringraziare Amber per quella furbizia, nonostante l’avessi maledetta fino ad un momento prima.

Quando aprii la porta trovai Joseph ad aspettarmi contro la parete di fronte, solo il gilet slacciato lasciava intendere che fosse un po’ più stanco rispetto alla cerimonia di poche ore prima. Mi sorrise e mi porse il braccio, che accettai senza fare storie. Si fermò subito vicino ad un’ampia finestra e mi circondò la vita con un braccio. Posai il capo nell’incavo della sua spalla, inspirando il suo profumo così lieve ma tanto rassicurante, e chiusi gli occhi quando posò il mento sulla mia fronte, godendomi le ruvide carezze della sua barba contro la mia tempia. Sospirò.

- Sai, questo castello è stato sfortunato – cominciò senza accennare a spostare il capo. Quando parlava la sua mascella si alzava e si abbassava, nonostante stesse attento a muoversi il meno possibile, e mi carezzò involontariamente la fronte. Socchiusi gli occhi: mi sarei addormentata se avesse continuato, ero così stanca…

- Perché? – gli chiesi subito, per tenermi sveglia più che per reale impazienza. Sapevo che avrebbe continuato in ogni caso, non c’era bisogno che glielo chiedessi. Forse capì le mie intenzioni e sorrise, riprendendo a camminare mentre mi rispondeva.

- Fu costruito sulle rovine di un maniero dato alle fiamme – mi disse mentre ci inoltravamo nel buio, solo la luna e qualche fiaccola elettrica a guidare i nostri passi – Tuttavia venne venduto poiché il proprietario era fortemente indebitato, quindi lo distrussero di nuovo, ad eccezione della torre di vedetta, e fu costruito un altro castello che poi è questo –

- È stato distrutto così tante volte che, se fossi stata quel nobile, non l’avrei più fatto costruire – sorrisi incredula – Il destino era avverso –

- Non è finita qui – ridacchiò Joseph dopo un momento di incertezza. Avevo l’impressione che fosse tentato di dirmi qualcosa e immaginai che avesse a che fare con la mia frase sul destino, ma grazie al cielo non disse nulla – Fu ceduto alla corona francese a causa di alcuni debiti –

- Dio – esplosi incredula in una risata divertita, risvegliandomi improvvisamente – Perché la gente costruisce i castelli se non ha i soldi per pagarseli? –

- E, successivamente – continuò di nuovo, posando le labbra sul mio collo. Tutto il mio divertimento si spense in un lieve sussulto, che si trasformò presto in un brivido di eccitazione – Il re lo diede in dono alla sua amante –

Reclinai il capo sulla sua spalla e ne approfittò per baciare il mio collo proprio su quella vena pulsante che, in quel momento, aveva decisamente un gran lavoro da fare. Credevo che il cuore mi sarebbe uscito dal petto, mi sentivo così debole che avrei fatto l’amore con lui anche contro le pareti umide di un castello completamente buio nel bel mezzo della campagna francese, con un fiume che scorreva placido ma pieno di forza sotto i nostri piedi.

Mi sentivo perduta.

- Quando ti ho conosciuta – mormorò mentre con mani fin troppo abili prendeva a massaggiare la mia pancia, sempre al di sopra della stoffa del vestito – Mi hai colpita oltre ogni dire. Eri così decisa, così fiera, così brava a tenermi testa. All’inizio volevo che cedessi alle mie provocazioni solo per sentirmi superiore, perché volevo che fossi come tutte le altre. Ma, dopo solo pochi giorni dal nostro primo incontro, ho cominciato a sentire il desiderio di vederti, di passare del tempo con te. Da lì a cercare qualcosa per colpirti la strada è stata breve, fin troppo –

- Cosa stai cercando di dirmi? – sussurrai con gli occhi chiusi. Ero troppo stanca per opporre resistenza, ma provai ugualmente a protestare – E comunque sei un maledetto doppiogiochista, mi stai riempiendo di carezze solamente per togliermi la forza di insultarti –

- Lo so – rise leggermente e il suo alito caldo dietro l’orecchio mi provocò una potente scarica di brividi. Ero di burro tra le sue braccia, me ne accorsi quando mi fece voltare verso di lui – Ti ricordi quando mia madre, questa mattina, ha parlato della mia bravata riguardo al cambio di programma e l’affitto del castello? –

- Vagamente – mormorai a denti stretti, lottando contro un sospiro che tentava disperatamente di lasciare le mie labbra.

- Quando ho capito che mi interessavi, ho affittato questo posto per il matrimonio, spacciandolo come regalo di nozze – raccontò con serietà improvvisa – Volevo colpirti, volevo che mi considerassi una persona generosa e… -

- Sei un megalomane – risi piano, tentando di non spezzare l’atmosfera di pace che sembrava essersi creata. Mi resi conto che doveva aver fatto molta fatica per tirare fuori quella confessione, ma in realtà aveva sempre fatto di tutto per avere almeno una fetta della mia attenzione. Avrei dovuto sentirmi lusingata oltre ogni limite, probabilmente c’erano migliaia di ragazze che avrebbero dato un braccio per essere al mio posto.

- Me lo dice sempre anche mia madre – anche lui rise, e mi rilassai sentendolo più tranquillo.

- Ha ragione –

Mi voltai, facendo per dargli un bacio sul mento, ma si distanziò improvvisamente, facendomi mancare l’equilibrio.

- Quando il sovrano morì – riprese divertito, tirandomi per la mano – La vedova, Caterina De’ Medici, fece in modo di ottenere il castello dall’amante in cambio di un'altra proprietà, il castello di Chaumont. È molto bello –

- Ma questo lo è di più – dedussi con interesse, forse interessata più che altro a sentire Joseph che parlava. Le sue doti dialettiche erano stupefacenti, riusciva a rendere interessante persino una banale tresca aristocratica. E, si sapeva, l’aristocrazia francese di ogni epoca conteneva i peggiori cliché di tutta Europa.

- Infatti – annuì – Alla morte di Caterina, però, il castello andò alla nuora. Ella cadde in depressione e questa residenza divenne, da luogo di festa, luogo di tristezza. Successivamente passò di nobile in nobile e molte delle sue statue finirono a Versailles. Dopo molti anni fu riportato di nuovo, almeno in parte, ai suoi antichi splendori fino alla prima guerra mondiale, quando divenne un ospedale provvisorio. Durante la seconda, invece, fu usato come via di fuga dai nazisti –

- Come sai tutte queste cose? – chiesi colpita. La storia in sé era affascinante, ma la storia di ogni castello poteva diventare noiosa e asfissiante.

- Mi sono informato – rispose con un sorrisetto irriverente – E tu perché hai scelto di imparare lo svedese? –

- È una lingua interessante – mi strinsi nelle spalle, mi ero talmente innamorata di quella lingua, anni prima, da aver dimenticato la motivazione che mi avesse spinto a sceglierla. Tutto era bello: il tono, la pronuncia, il suono delle parole – Ed ho avuto la scusa per visitare almeno Goteborg e i dintorni –

- E Stoccolma? –

- Quella no – sporsi leggermente il labbro inferiore, senza nemmeno rendermi conto. Me ne accorsi quando Joseph mi diede un colpetto scherzoso e mi ritrassi.

- Potremmo andarci insieme, prima o poi – propose con uno sguardo da cucciolo – A mia madre farebbe piacere rivederti e io sarei felice di presentarti come qualcosa di più che una semplice amica

- Non dire cazzate, Joseph Morgan – sbottai seria mentre, senza nemmeno rendermene conto, eravamo di nuovo di fronte alla porta della mia camera – Mi hai già presentata come qualcosa di più –

- Beh – sorrise con furbizia, cingendomi i fianchi – Non ufficialmente

Roteai gli occhi, prima che le sue labbra e le sue mani mi spingessero contro la porta. A tentoni cercai la maniglia, riuscendo ad aprirla solamente dopo svariati tentativi, ma senza interrompere il bacio.

- Stai…? – mormorò la voce roca e il fiato corto, carezzandomi febbrilmente la schiena – Vuoi davvero farmi entrare? –

- Ti fai dei problemi dopo avermi regalato un abito senza cerniera? – risi ancora di più quando mi passò un braccio dietro le spalle e uno sotto le ginocchia, oltrepassando finalmente l’entrata.

Il suono deciso della porta che si chiudeva dietro di noi coprì il suono di tutte le mie barriere che, finalmente, crollavano al suolo.



***



Aggiornamento lampo, mi faccio una doccia e poi rispondo alle recensioni! A domenica :3

Giuggi

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***




Capitolo 29

 

Subito dopo essere tornati dalla Francia, ci eravamo messi all’opera per sabotare la laurea di Tiana o, più precisamente, il suo laboratorio infernale con annessi scoop che riguardavano me, Joseph e la nostra presunta relazione clandestina portata avanti sin dal periodo in cui lui era felicemente e pubblicamente fidanzato con quella simpaticona di Emily. Una piccola parte di me si sentiva in colpa per quel che stavamo facendo, perché sapevo bene quanta fatica costasse realizzare una tesi che potesse colpire la commissione. Ma se avesse dovuto colpire me, beh, allora i sensi di colpa svanivano come neve al sole.

Incredibilmente riuscii a collaborare con Joseph senza litigare ogni cinque minuti, ma più che altro mi innervosii con Amber, che in quei giorni sosteneva che il sesso selvaggio giovasse al mio pessimo carattere. Mi infastidiva che ne parlasse davanti a Joseph e, soprattutto, mi infastidiva terribilmente diventare rossa come un pomodoro.

D’accordo, in realtà mi infastidiva che avesse ragione!

Ma io ero un tipo dannatamente orgoglioso, colpi bassi di quel genere dalla mia migliore amica preferivo non averne. Era anche vero che Amber non era mai stata una migliore amica convenzionale, ma piuttosto era insistente come il ronzio di un insetto e blaterava come una vecchia comare, ma le volevo bene ugualmente. Forse appunto per l’odiosità del suo carattere, odioso solo la metà di quanto non lo fosse il mio.

- Guarda che carina questa, che te ne pare? – esclamò Joseph, piegando la testa per osservare meglio lo scatto che ci ritraeva insieme. Allungai il collo per guardare meglio e sentii le mie guance accaldarsi leggermente: era quella sera in cui mi aveva aggredita sotto casa. Ricordavo quel momento: mi aveva appena liberato le labbra e ci stavamo fissando parecchio intensamente. Dalla foto non traspariva la reale intenzione del mio sguardo, ma non potevo credere che Joseph avesse dimenticato con quanto impegno lo stessi fulminando. E con quanta furia, soprattutto. Se avessi potuto, lo ricordo benissimo, l’avrei preso a schiaffi fino a fargli cambiare i connotati. Sarebbe stato un enorme spreco, quello sicuramente, ma forse sarebbe stato persino più terapeutico di una buona nottata di sesso, in barba a tutto quello che diceva Amber.

- Che sguardi intensi – ridacchiai sarcastica, beffandomi di lui.

- Ho il mio fascino – concesse con superiorità, atteggiandosi peggio di un pavone nella stagione degli amori. Era comico fino all’inverosimile, e provai un piacere perverso a spegnere quella sua arroganza.

- Stavo solamente valutando l’angolazione perfetta per un pugno, non vantarti troppo –

La sua espressione fu impagabile: era un incrocio tra un cane bastonato e un bambino che scopre che babbo natale non esiste. Ma stavo parlando con Joseph Morgan, non era da lui rimanersene buono a contemplare qualcuno che prendeva la rivalsa su di lui. Era egocentrico, logorroico e anche troppo sicuro di sé. Dopotutto lo diceva sua madre, chi ero io per darle torto?

- Pugno che poi non mi hai dato – precisò, assottigliando gli occhi. Era diventata una questione di principio vincere quel dibattito, forse per lui ancora più che per me.

- Ho preferito chiuderti il cancello in faccia –

- Stiamo litigando? – mormorò, sfiorando le mie labbra. Al diavolo, era sexy.

- Tu cosa pensi? – replicai. L’effetto che mi faceva era quasi sconvolgente: avevo già il respiro accelerato, solamente per un semplice sfiorarsi di labbra. Nemmeno mi aveva baciata, accidenti!

- Penso che dovrei farti stare zitta –

Ecco, in quel momento sì che mi stava baciando. Adoravo quel modo in cui riusciva a farmi sentire bellissima solo baciandomi. Forse era solo una mia impressione, forse era quello che il mio inconscio voleva sentire o forse era solamente il suo modo di baciare in generale. Ma la passione che ci metteva era così dirompente che non potevo non perdere il controllo.

Mi ritrovai stesa sul tavolino, sotto un tappeto di fotografie di noi due, e Joseph in piedi abbracciato dalle mie gambe. Era quasi inquietante, ovunque mi girassi vedevo immortalati attimi in cui i nostri occhi erano incatenati e sapevo che mi sarebbe bastato incrociare il suo sguardo anche in quel momento per rimanerne invischiata di nuovo.

Per quel motivo chiusi ostinatamente le palpebre e, intrecciando le dita ai suoi capelli, lo avvicinai ancora di più a me, come se la profondità di quel bacio non fosse abbastanza.

Aveva persino un altro sapore da quando avevo smesso di essere reticente. Riuscivo a godermi al meglio ogni suo tocco, come ad esempio quelle maledette dita curiose che si infiltravano sotto la maglietta e lasciavano carezze lievi intorno al mio ombelico.

Alle mie labbra sfuggì un sospiro e lo sentii sorridere, così aprii gli occhi. Mi guardava, quelle due meravigliose pozze di un azzurro stupefacente erano incatenate alle mie con una tale intensità da farmi sentire nuda, e arrossii.

Il suo sorriso si ampliò e, di nuovo, si tuffò sulla mia pelle, lambendomi il collo per il piacere perverso di sentirmi sospirare ininterrottamente. Non riuscivo a smettere, riuscivo solo a rafforzare la stretta delle mie gambe attorno ai suoi fianchi stretti e la presa delle mie dita ai suoi capelli. L’altra mano era intrecciata alla sua e posata sul tavolo a lato della mia testa. Stringeva così forte che pensai avesse paura che scappassi, ma non avrebbe dovuto preoccuparsene dato che avevo anche smesso di provarci.

- Mi piace litigare in questo modo – sussurrò, sfiorando con le labbra la pelle sensibile sotto il mio orecchio – Diventi docile –

Piantai le unghie nella sua schiena, al di sotto della maglietta, giusto per dimostrare quanto poco veritiere fossero le sue parole. Non ero docile, non lo ero mai stata.

- Non essere idiota – risposi dopo che, per bloccare la mia ripicca, si fu buttato sulle mie labbra – Ti piaccio proprio perché sai che non sarò mai docile e accomodante –

- Stai diventando troppo sicura di te stessa – protestò, ma i suoi occhi esprimevano soddisfazione e ammirazione, erano più sinceri delle sue parole e ormai avevo imparato cosa notare quando non ero sicura di ciò che mi diceva – Posso permettermi di esserlo a mia volta: io so perché non mi hai tirato quel pugno, quella sera –

- Sentiamo – sbuffai con sufficienza. Lo sapevamo entrambi che non l’avevo fatto solamente perché mi bloccava le mani, forse anche perché ero sempre stata troppo educata e perché Joseph non era Dave.

- Mi amavi già all’epoca – replicò sagace, ammiccando spudoratamente. Irrigidii le spalle contro la mia volontà, cercando in ogni modo di non farglielo notare. Ma eravamo troppo vicini, il suo corpo era a stretto contatto con il mio e sembrava quasi che la nostra pelle fosse una sola. Così, purtroppo, si rese conto perfettamente della mia reazione.

Quel comportamento era del tutto ingiustificato, d’accordo, perché lo sapevo che stava scherzando. Lui scherzava sempre, lanciava sempre tutte quelle frecciatine azzardate che permettevano una risposta fuggevole ma anche una conferma delle sue parole. Era un lato positivo, tutto sommato: lasciava sempre una via di fuga. Ma per me i sentimenti spiegati a parole erano qualcosa che non doveva esistere, così come non esisteva una scadenza, una data di inizio di un sentimento. Non c’era un preciso momento in cui l’affetto diventava amore, o l’amore smetteva di essere tale per trasformarsi in abitudine.

Fu quello il motivo della mia reazione. Non mi sarebbe stato impossibile fuggire da quella frase se non avessi voluto rispondere. E in realtà, per come si erano messe le cose, forse sarei arrivata al punto di confermargli di provare qualcosa per lui. Pensavo fosse palese, ma la sua espressione cambiò rapidamente e vidi la situazione sfuggirmi dalle dita come una piuma in una folata di vento.

- Joseph – esitai preoccupata, vedendo i suoi occhi adombrarsi leggermente – Scusami, io… -

- No, scusami tu – replicò subito mentre si alzava, cercando di nascondere la delusione che provava – Non dovevo azzardare così tanto, credevo che i miei sentimenti fossero ricambiati –

- Non sto dicendo questo – mi sollevai a mia volta, per cercare il suo sguardo che, però, non riuscii a trovare – Joseph, ascoltami… -

Non rispose più e la sua mascella indurita mi costrinse a desistere. Così scesi dal tavolo, evitando di guardare le fotografie sparse su di esso e mi affiancai a lui, affacciato alla finestra che dava sulla strada. Gli sfiorai una spalla con le dita, ma si ritrasse subito, come se si fosse scottato. Fu peggio di uno schiaffo, ma forse non era l’unico ad aver distribuito schiaffi negli ultimi minuti. Portai le spalle al muro, sperando che mi aiutasse a sorreggermi e a nascondere quanto le mie gambe fossero deboli.

Come potevamo esserci ridotti a litigare sul serio per una cosa così stupida?

- Scusami – ripeté per l’ennesima volta, il tono di voce sempre più lontano da ciò che diceva. Era curioso come continuassimo a scusarci, nonostante per l’orgoglio fosse una delle più difficili parole da pronunciare. Ma non ci stavamo scusando per davvero, non erano scuse sentite perché nessuno di noi era convinto di aver sbagliato – Avrei dovuto sapere che, dato il tuo carattere, i sentimenti fossero una cosa incomprensibile. Sono stato stupido io a credere che nel tuo petto battesse qualcosa. Evidentemente non possiamo essere qualcosa anche fuori dalle lenzuola -

- Stai parlando sul serio? – sbottai incredula, piazzandomi davanti ai suoi dannati occhi azzurri – Tu non hai capito come sto io, quello che provo! Hai totalmente frainteso il mio comportamento –

- E invece tu l’hai capito benissimo cosa passa nella mia testa, ma non te ne importa niente perché sei una dannata egoista! – sbottò serio forse come mai lo avevo visto.

- E allora lasciami in pace, lasciami marcire nel mio stupido brodo e trovati qualche bambolina che sorrida a comando e squittisca in preda alle convulsioni ogni volta che apri bocca! – i miei occhi erano pericolosamente lucidi, avrei dato un braccio per non piangere davanti alla sua maledetta faccia – Io non sono così, io sono difficile, e non gioco con i sentimenti. Perché, notizia flash, l’amore non è un gioco, non è rose e fiori e non ci sono nemmeno quelle collinette bucoliche che dipingono i pittori e tutti quegli idioti che ne parlano in questo modo. L’amore fa male, fa dannatamente male ed ogni volta è come se il mio cuore venisse strappato a morsi quando provo a lasciarmi andare. E quelle ferite rimangono per sempre, non guariscono mai! Quindi, davvero, scusami se non sono la donna che vorresti –

Avevo quasi il fiatone dopo quella confessione così sconvolgente, avevo messo la mia anima a nudo e sentivo già il mio cuore sanguinare di nuovo per colpa di quelle ferite di cui avevo parlato fino ad un momento prima.

- D’accordo – sussurrò senza voce, la mano che stringeva in modo così convulso il bordo della finestra scivolò lentamente verso il basso, fino a posarsi inerme lungo il suo fianco – Mi dispiace che Dave ti abbia inferto delle ferite così profonde, se è così che la vedi comprendo bene il tuo desiderio di solitudine. E ora comprendo anche l’entità di quei morsi di cui mi hai detto: fanno fottutamente male –

Si allontanò da me con lentezza, gli occhi bassi. Mi sentii un insetto, avrei voluto dire mille cose, ma dalle mie labbra non uscì nemmeno una parola. Ero di pietra, ma in quale modo avrei potuto rimediare al danno che avevo creato? Era troppo grande, ne avrei pagato le conseguenze per molto tempo. Ne avevo la certezza.

- Solo… - esitò, posando una mano sulla porta – Non volevo farti del male, non ho mai voluto –

E mi lasciò lì, uscendo di nuovo da quell’ingresso che, impietoso e muto come una statua di sale, si era goduto tutti i nostri battibecchi, i nostri baci e tutto quello che c’era stato. Era stato testimone di un sentimento che avevo bloccato sul nascere, incapace di relazionarmi con gli altri come sempre era stato. Aveva ragione Joseph, ero più arida del deserto del Gobi.

Mi accasciai lentamente contro il muro, fino ad arrivare a sedermi a terra. Le lacrime scendevano copiose dai miei occhi e rigavano il mio viso, solleticandomi la pelle. Era da tanto tempo che non piangevo più così, con un dolore così forte da non riuscire nemmeno a singhiozzare. Non sapevo nemmeno piangere, era incredibile.

- No, non andare – gemetti, stringendo i capelli tra le dita – Non hai capito nulla, non andare –

Ma ormai era troppo tardi, non mi avrebbe più sentita.



***



Sono sadica, non è un mistero :3
Ma, nonostante la lite, si sono detti delle cose davvero importanti che avranno un notevole peso sul prossimo e ultimo capitolo. Ricordatevi che vi ho garantito il lieto fine, quindi deponete le armi ^^'
Vorrei ringraziarvi per le recensioni, che sono più o meno la metà rispetto alla prima metà della storia, e vorrei sapere se sono io ad essere diventata noiosa oppure siete voi che non avete tempo. Giusto per farmi un'idea, nient'altro, perché non è mia abitudine chiedere recensioni.
Ok, vado a sputare l'ultimo pezzo di polmone che mi rimane, a domenica prossima, cioè pasqua xD

Giuggi

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***




Capitolo 30

 

- Sei una stupida –

Beh, fin qui nulla di nuovo.

Da quando avevo conosciuto Joseph sembrava che Amber non avesse nulla di diverso da dirmi, o forse ero io ad essere diventata un’incredibile stupida da quella mattina nel bel mezzo di Londra. Forse, cercando di evitare di finire sotto quel black cab assassino, avevo sbattuto la testa senza rendermene conto e peggiorato il mio già difficile carattere.

- Grazie – borbottai apatica, ma ormai non sapevo nemmeno più che reazione avere. Sapevo di aver sbagliato, d’accordo, ma ci avevo provato subito a rimediare al mio comportamento. Peccato che Joseph avesse eretto un muro tra lui e me, impedendomi di chiarire. Sogghignai con amarezza: io, che da sempre mi nascondevo dietro ad una muraglia per evitare di espormi troppo, mi lamentavo di una persona che per una misera volta si era comportata come me. Quello avrebbe dovuto dirla lunga su quanto mi sentissi odiosa anche per me stessa.

- Che hai da ridere? – sbottò la mia migliore amica, in piedi di fronte a me con i pugni sui fianchi. Le mancava giusto un grembiule in vita e un cucchiaio di legno tra le mani e sarebbe potuta passare tranquillamente per un personaggio comico.

- Niente – sospirai, smettendo immediatamente di sogghignare – Non c’è proprio nulla di divertente, lo so –

- Meno male – soffiò acida, lanciando un’occhiatina di superiorità prima a me e poi alla foto che continuavo a rigirarmi tra le dita. Ritraeva me e Joseph nel bel mezzo di Londra e non ricordavo nemmeno di averlo incontrato, in quel preciso punto della città. Ovviamente i nostri sguardi erano saldamente allacciati e lui sorrideva. Ma la cosa stupefacente era che anche le mie labbra erano incurvate leggermente in un sorriso appena percettibile, ma sicuramente sincero.

- Senti ma si può sapere che diavolo vuoi? – sbottai infine, non riuscendo più a reggere quel suo sguardo pieno di accuse e insulti trattenuti a stento.

- Voglio che tu vada da lui – mi disse seccata, con il tono di una maestra con poca pazienza che deve rispiegare la stessa cosa ad una bambina poco perspicace – Gli devi delle scuse –

- Se proprio vogliamo essere sincere gliele avrei già fatte – protestai piccata. Se doveva essere antipatica allora lo sarei stata anch’io, dopotutto mi riusciva facile. Soprattutto quando ero di pessimo umore come quel giorno.

- Dubito che tu sia stata convincente, se proprio vogliamo essere sincere – mi scimmiottò, provocandomi un fortissimo prurito alle mani. Avrei voluto strapparle quei capelli corti tutti spettinati che si ritrovava.

- Sarà in aeroporto adesso, non farei comunque in tempo a raggiungerlo -

Già, perché partiva il maledetto. Se ne tornava ad Atlanta a recitare nel suo maledetto show sui vampiri, in cui ogni tanto veniva ammazzato ma poi magicamente risorgeva, per la gioia di tutti tranne che per la mia.

E se pensavo che nemmeno me l’aveva detto in faccia ma mi aveva informata via twitter come se fossi una sua semplice ammiratrice urlante andavo su tutte le furie. D’accordo, avevamo litigato, ma pensavo di avere almeno il diritto di sapere che entro poche ore sarebbe stato dall’altra parte del mondo e non sarebbe tornato per chissà quanto. Ultimamente passavano circa tre settimane, per carità, non sarei invecchiata nel frattempo, ma avrei comunque preferito saperlo.

Alzai lo sguardo, trovando Amber attaccata al cellulare che mandava messaggi. Fantastico, aveva deciso di ignorarmi anche lei.

- A chi scrivi? – borbottai senza reale interesse.

- Duff – rispose rapida e tagliente come un coltello – Lavora a Heatrow, lo sai no? –

Annuii, tornando ad osservare la fotografia che avevo in mano. L’avevo imparata a memoria, ormai. Conoscevo ogni dettaglio, ma non mi stancavo di osservarla. Si era persino stropicciata agli angoli.

- Il volo di Joseph parte alle tredici da Heatrowh – disse subito dopo, il tono più morbido e un’improvvisa scarica di adrenalina che riuscì a trasmettermi. Alzai di scatto lo sguardo su di lei, la vidi sorridere e fui tentata di farlo a mia volta. Ma erano già le undici, prima di tutto. E secondo, se anche l’avessi raggiunto cosa gli avrei detto?

- Amber… - sospirai, ma le mie parole furono interrotte da un paio di jeans e una maglietta che mi furono lanciati addosso con una rapidità tale da farmi gemere dalla sorpresa.

- Non voglio sentire nulla, hai capito? – sbraitò agitando il telefono, e di nuovo mi venne in mente il cucchiaio di legno. Dopotutto quale madre non aveva minacciato i propri figli con uno di essi? Quelli più sfortunati l’avevano anche assaggiato sulla schiena, ma fortunatamente non era il mio caso – Adesso tu prendi quei vestiti, ti levi quello sciatto pigiama e corri a Piccadilly a prendere la metropolitana, perché devi arrivare a Heatrow entro un orario decente per parlare con Joseph, per dirgli qualsiasi cosa, digli anche che sei incinta ma devi sistemare questo casino maledetto! –

- Io non sono incinta, ti è dato di volta il cervello? – allibii con una risatina sconvolta mentre cercavo di infilare contemporaneamente entrambi i piedi nei pantaloni. Fu un’impresa piuttosto ardua, perché la fretta rendeva sempre le persone più incapaci, ma alla fine ci riuscii.

Mi guardai rapidamente allo specchio, rendendomi conto di non essere particolarmente presentabile: i miei occhi erano rossi e gonfi a causa delle lacrime che avevo versato durante la notte e avevo anche due vaghe occhiaie a dimostrare la mancanza di sonno. Non era certo un aspetto che avrebbe reso Joseph più bendisposto nei miei confronti.

- Lo so che non sei incinta, brutta scema che non sei altro, ma adesso vattene. Non voglio rivederti qui almeno prima di tre ore – blaterò di nuovo, spingendomi praticamente alla porta. Mi piazzò in mano la borsa e, senza controllare che fosse presente l’abbonamento della metro o dei soldi per qualche eventuale biglietto, mi sbatté fuori dalla porta.

Fui tentata di andare a fare un giro per negozi, oppure di andare dalla signora Flynn ad aiutarla nonostante Amber le avesse chiesto al mio posto un giorno di malattia. C’erano mille cose che avrei potuto fare e che mi avrebbero portato via tre ore o magari anche di più, ma quando mi trovai a correre senza nemmeno rendermene conto verso la fermata della metro di Piccadilly capii che non avrei fatto nessuna di quelle cose. Heatrow sembrava una calamita per me, in quel momento, e fu uno strazio passare più di tre quarti d’ora su quel maledetto treno sotterraneo che portava in aeroporto. Contai non meno di una decina di volte le fermate che mi separavano da Joseph: erano diciotto e ogni volta sembrava che non saremmo mai ripartiti. Ci fu anche un inghippo più o meno a metà strada e rimanemmo fermi quasi un quarto d’ora: mi domandai per quale motivo fossi così sfortunata, perché proprio quando imploravo chissà quale divinità di fare in fretta tutto sembrava scorrere con la moviola.

Ma alla fine ci arrivai, a Heatrow. Erano le dodici e venti e avevo ancora venticinque minuti prima che il gate chiudesse. E sarebbero stati i minuti di corsa più sfrenata che avessi mai compiuto in tutta la mia vita. In seguito mi sarei stupita di come i miei polmoni fossero riusciti a non collassare, ma in quegli attimi riuscivo solamente a pensare quanto mancasse ancora prima di arrivare al gate da cui partiva il volo di Joseph.

Quando finalmente giunsi a destinazione, mi fermai di botto. Lui era là, la hostess gli sorrideva mentre gli strappava il biglietto e lui sorrideva di rimando. Provai delle sensazioni contrastanti appena i miei occhi si posarono sulla sua figura, così contrastanti da darmi un capogiro.

Lo odiavo. Sì, lo odiavo a morte perché non doveva sorridere così a qualcuna che non fossi io. Non doveva sorridere e basta, e non doveva nemmeno guardarle con quei maledetti occhi cristallini. Mi sentii una stupida: volevo avere l’esclusiva su un uomo che avevo negato di amare proprio nel momento in cui lui mi aveva chiesto di confessarglielo. Ero una bugiarda, oltre che stupida. Perché lo amavo, no? Avrei potuto non farlo?

E fu peggio di un pugno nello stomaco rendermene conto così, in quel momento, impiantata nella sala d’attesa dell’aeroporto più grande della Gran Bretagna, mentre decine di persone continuavano a passarmi davanti impedendomi la visuale dell’uomo che amavo. E piansi.

Piansi anche quando lui, inavvertitamente, si voltò e mi vide. Perse il suo sorriso, naturalmente. Non sarebbe potuto essere felice di vedermi, non dopo ciò che era successo poche ore prima. Eppure mi fece soffrire ugualmente non vederlo corrermi incontro a braccia aperte e non importava se ormai non poteva più andare in una direzione diversa da quella che portava al suo aereo. Volevo che scavalcasse le transenne per venire da me, baciarmi e dirmi che sapeva che ero una stupida e che non era arrabbiato.

Ma mi avvicinai io, senza nemmeno dare il comando alle mie gambe di muoversi io ero già lì, mentre stringevo il nastro rosso che lo separava da me.

La hostess di poco prima indurì i lineamenti ma, quando Joseph con uno sguardo le chiese il permesso di parlarmi, non riuscì comunque a dirgli di no. Nessuno riusciva a dirgli di no.

- Cosa ci fai qui? – mi chiese. La sua voce così indifferente, apatica, fece scendere un’altra lacrima dai miei occhi e mi morsi il labbro, nel tentativo di evitare almeno di singhiozzare.

- Volevo… - tentai, fissando i bottoni della sua maglietta senza avere il coraggio di guardarlo in viso. Ma non si meritava che gli parlassi così e quindi alzai lo sguardo fino a puntarlo nelle sue iridi celesti – Volevo salutarti –

- Beh, lo stai facendo – annuì di nuovo. Fece per dire qualcos’altro, ma poi si fermò.

C’era imbarazzo, forse ce n’era così tanto che mi avrebbe impedito di dirgli tutto quello che volevo.

- E volevo dirti anche un’altra cosa – presi un respiro profondo ma tremai, stremata dalla corsa e anche dall’agitazione – Volevo dirti che avevi ragione –

- Su cosa? Sul tuo carattere? – sul suo viso c’era confusione, ma anche curiosità. Non mi dispiaceva affatto che avesse deciso di non approfittare delle sue doti recitative.

- No – scossi il capo, per poi incurvare le labbra in un sorriso amaro – Beh, anche. Ma io parlavo di quel pugno che non ti ho dato –

 - Cosa? – allibì. Forse si aspettava di tutto, ma non si sarebbe mai aspettato quello. E nemmeno io. Quando Amber mi aveva sbattuta fuori di casa ero convinta che, se anche fossi andata in aeroporto, sarei comunque stata incapace di aprire il mio cuore per davvero, che l’orgoglio avrebbe vinto un’altra volta.

- Hai capito – sorrisi di nuovo, questa volta più sollevata. Il peso che sentivo sul petto si stava dissolvendo, indipendentemente da ciò che mi avrebbe risposto – Non ti ho dato quel pugno perché probabilmente ti amavo già allora –

- Davvero? – mi chiese di nuovo. Fu indubbiamente colpito dalle mie parole e anche le sue labbra si piegarono lievemente in un sorriso, che sembrò ai miei occhi ancora più luminoso del sole.

Annuii, incapace di parlare.

- Anch’io ti amavo già allora, forse ti amo da quando ti ho vista la prima volta tentare un suicidio nel traffico londinese – sussurrò, carezzandomi una guancia.

- Mi scusi? – la voce fastidiosa della hostess s’intromise tra di noi, gelida e invidiosa – Il volo partirà tra dieci minuti –

- Non importa – rispose Joseph, facendomi spalancare gli occhi.

- Non ti azzardare – sbottai puntandogli un dito contro il petto – Non fare il ragazzino! –

Scoppiò a ridere, baciandomi rapido ma con un’intensità dirompente, e si allontanò da me, sempre ridacchiando.

- Torno fra tre settimane –

- Ti aspetto – sorrisi, mandandogli un ultimo bacio di arrivederci.

Non era un lieto fine quello, forse piuttosto un inizio. C’erano ancora un sacco di questioni da sistemare: Dave che si era montato la testa e che sicuramente avrebbe preteso da me molto di più di quanto non avessi intenzione di dargli, Tiana che senza dubbio avrebbe sospettato di me per il furto di tutte le foto su me e Joseph e non avrebbe esitato a vendicarsi e, in ultimo ma ancora più importante, un rapporto ancora da definire con un attore famoso che mi avrebbe messa di fronte alla totale mancanza di vita privata. Ma, se l’attore famoso in questione fosse stato Joseph, sarei stata ancora più agguerrita a difendere la mia felicità.

Fine?



***



Salve! Sono arrivata alla fine anche con questa storia, ammetto che un po' mi dispiace ma è anche un po' una liberazione, per la complessità del carattere di Phoebe che l'ha portata più volte a scontrarsi con chi leggeva xD Avrei voluto fare grandi discorsi ma mi sono resa conto che l'ultimo capoverso parla da solo. Non è una fine, Phee deve ancora fare i conti con il suo carattere e con tutto quello che lei e Joseph si sono lasciati alle spalle negli ultimi due capitoli. Però sono cose che non ho voluto raccontare, un po' perché temevo di non esserne in grado e un po' perché l'obiettivo di questa storia è sempre stato un altro: la chiusura di Phoebe nei confronti del genere maschile e la conseguente apertura grazie a Joseph. Quindi, posso dire che un cammino c'è stato e ne sono abbastanza soddisfatta perché, come già vi avevo detto, questa protagonista è molto simile al mio carattere ed era per questo che, un po' scherzando e un po' no, vi avevo detto che avrei preso sul personale ogni critica al suo carattere e nei suoi confronti in generale.
Ma, a parte questo, passiamo ad altre cose: come avevo già detto, non ci sarà nessun missing moment, perché ritengo che la storia sia completa così, e ormai questi piccoli spin-off fini a se stessi, in cui non si fa altro che sfogare gli ormoni, non mi piacciono più. I miei gusti sono molto cambiati e così anche i miei fandom, quindi penso proprio che da queste parti non mi rivedrete più, se non per qualche sporadica one shot che, al momento, non è in cantiere (e non c'è nemmeno nessuna idea). Avevo intenzione di revisionare la mia storia vecchia, Too Lost In You, ma al momento ho altre cose da fare e non ho tempo per quella. Se vi va ho sempre quella raccolta di flashfic, ormai chiusa, che non si è filato nessuno, ma per il resto ho totalmente cambiato genere, visto che ho anche deciso di smettere di vedere The Vampire Diaries.
Poi boh, ho già sproloquiato da morire e non vi ho ancora ringraziate per le bellissime recensioni, per le fidatissime che non mancano mai, per le preferite, le seguite, le ricordate, chi ancora mi mette negli autori preferiti e poi anche chi legge soltanto. E Serena, che mi ha betata e mi ha regalato la bellissima copertina.
Non ho nient'altro da dire (e meno male xD), ci risentiremo presto o forse no, il mio profilo è sempre qui e, anche se i personaggi non sono più britannici dall'accento sexy o americani con gli occhi di ghiaccio, sono sempre io. Grazie di tutto, alla prossima ;3

Giuggi

P.S. Aggiungo queste due righe dieci giorni dopo la pubblicazione del capitolo. Se mai qualcuno leggerà di nuovo vorrei far presente che c'è un'altra storia bellissima su Joseph, che purtroppo è stata pubblicata quest'estate, durante il famigerato deserto dell'EFPSahara, e si intitola Light in the desert. Sono dieci capitoli, niente di esagerato, quindi se vi avanza un po' di tempo vi assicuro che merita tanto :)

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