E' una lunga storia di ombre scure,senza gloria

di Valerie Clark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** cattive conoscenze ***
Capitolo 3: *** il luogo più bello dove poterti augurare il buongiorno è sul mio viso ***
Capitolo 4: *** se vuoi ballare ***
Capitolo 5: *** quando un uomo è stanco di londra, allora è stanco della vita ***
Capitolo 6: *** cet amour tremblant de peur comme un enfant dans le noir ***
Capitolo 7: *** avvinghiati ***
Capitolo 8: *** niente ***
Capitolo 9: *** arrivederci ***
Capitolo 10: *** gatto nero ***
Capitolo 11: *** sbattuti dal vento ***
Capitolo 12: *** disprezzo ***
Capitolo 13: *** mia ***
Capitolo 14: *** bel air ***
Capitolo 15: *** nuit ***
Capitolo 16: *** sopportare ***
Capitolo 17: *** ce monstre disloqué fut jadis une femme ***



Capitolo 1
*** prologo ***


È una lunga storia di ombre scure, senza gloria.

 

A girl
who has so many eyes,
but you really get wet
when she breaks down and cries

staring girl,
I once knew a girl
who would just stand there and stare.
at anyone or anything,
she seemed not to care

-Tim Burton

 
 
Prologo-

‘Raccontate tutto quello che ricordate, signore, io lo trascriverò.’
 
 
C’era qualcosa nei suoi occhi, come una scintilla, una bellissima scintilla ardente che volava.
C’era qualcosa di caldo e freddo allo stesso tempo; profondi ma impenetrabili.
Aveva l’infinito negli occhi.
Non scherzo, ce l’aveva davvero; una piccola linea che partiva da sotto l’occhio destro, risaliva il naso e accompagnava il sinistro. Dicevano che avesse semplicemente un occhio troppo grande, qualcuno rimproverava l’altro di essere troppo piccolo, e detta così non sembra una gran bella cosa.
Ma se avevi il coraggio di avvicinarti a lei, di attraversarla, per quanto quegli occhi lo permettessero, te ne accorgevi che il suo era un viso particolare.
Ma non molta gente si avvicinava a lei, in tanti ci provarono per anni, non c’era modo; era impenetrabile.
Era chiusa e non c’era una chiave per aprirla.
Guardava fuori, osservava tutto senza dare importanza a nulla, eppure molti avrebbero voluto guardare dentro di lei, molti avrebbero voluto darle importanza. Importanza poi, quell’importanza che si da alle cose che rincorri per tutta la vita? No. Quella che svanisce appena ti accorgi che fai tentavi a vuoto.
A nessuno importava veramente.
 
Girano voci qui, strane voci di chi, senza coraggio, afferma di non essere mai nemmeno riuscito a decifrare il colore dei suoi occhi; sempre cangianti e fuggitivi.
Ma io ci scommetto: nessuno l’aveva mai capito perché non erano colorati quegli occhi, erano infiniti e l’infinito non è un colore. L’infinito non è una cosa alla portata delle menti di tutti. L’infinito ce l’hai tra le mani per un secondo e poi ti scappa, e così lei distoglieva, abile e veloce, lo sguardo.
Dicevano che era una strega: non c’è donna al mondo con uno sguardo del genere.
Dicevano che celava un segreto o si sarebbe fatta guardare.
 
Io la conobbi, forse fui l’unico a conoscerla, e posso giurare che non c’era niente in quella figura così perfetta che si possa definire malvagio.

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Capitolo 2
*** cattive conoscenze ***


Cattive conoscenze-

Pioveva quando l’ho incontrata per la prima volta.
Era pomeriggio, ma la nebbia e la pioggia rendevano l’atmosfera scura e triste; e poi c’era lei.
Raggomitolata come un cucciolo sul davanzale della mia finestra.
‘Cosa ci fai lì?’
La finestra era aperta, come accidenti l’aveva aperta?
Teneva in mano un vasetto con un cactus e se lo rigirava incuriosita. Era il mio cactus. Che accidenti ci faceva  con il mio cactus?
Si portava lentamente la sigaretta alla bocca e il fumo si confondeva con la nebbia pesante che l’avvolgeva come una grande coperta.
Non mi ha risposto, qualche giorno dopo ho avuto modo di capire che non mi rispondeva spesso; lei diceva ‘E’ che a volte ho la testa tra le nuvole’ ma io sapevo che semplicemente non voleva dire ‘Non sono fatti tuoi.’ e quindi se ne stava zitta.
Quando si trattava di lei, la maggior parte delle volte non erano mai fatti miei.
Quel giorno però ancora non lo sapevo, e quindi riprovai: ‘Fumare fa male, lo sai?’ e lei spostò velocemente lo sguardo su di me, facendo cadere il (mio) cactus e rompendo il (mio) vasetto.
Alzò un sopracciglio, mosse le spalle e aspirò di nuovo.
Non c’era verso di comunicare con lei, non c’era mai. Era testarda, si metteva in testa una cosa e non si smuoveva.
 
Continuava a non parlare ma forse era meglio così, perché questa storia non sarebbe mai successa se non avessi sentito la sua voce.
‘Mi annoio.’ così, secca.
Porca miseria, che voce che aveva; era vellutata, quasi rassicurante, strano se esce da una seduta sulla tua finestra, con in mano il tuo cactus e che, non so ancora come, è riuscita quasi ad entrar in casa tua.
Era incantante, sarei restato secoli ad ascoltarla parlare.
‘E quando ti annoi di solito rubi le finestre alla gente?’ scherzai.
Non rispose, tanto per cambiare.
‘Come hai fatto?’ chiesi avvicinandomi.
Lei mi fece vedere una forcina e sorrise sgranando gli occhi, come a dire ‘Ma che sei cretino? Secondo te come si scassinano le finestre, idiota?’.
Beh io che ne so di come si scassinano le finestre, non ho mai provato e ancora non sono del tutto convinto di come abbia fatto.
Feci segno di sì con la testa sorridendo, aprii la porta di casa e rimasi sorpreso nel vedere che, a parte la finestra aperta, era tutto esattamente come l’avevo lasciato.
Lei seguiva ogni mio movimento con quegli occhi grandi e attenti e poi rise forte.
‘Non sono una ladra’ disse ridendo.
‘Oddio’ pensai, ‘Questa qui non risponde se le faccio una domanda ma mi legge nel pensiero’.
‘Davvero, non ho rubato niente. Non mi interessano le tue cose, sono troppo antiche e puzzano di vecchio. Il cactus però era carino’ .
‘Sì ma l’hai rotto.’
Si girò di scatto e mi fulminò con lo sguardo, sembrava volesse mangiarmi, sembrava affamata.
‘E’ stato un incidente!’ gridò.
‘Va bene, va bene, scusa. Stavo … stavo scherzando’.
‘Senti io, io non volevo. Mi dispiace, ok? Posso restare qui?’
Perché vuoi restare qui, scusa? Non ce l’hai una casa, o una piantagione di cactus da rompere? Proprio qui devi restare? Non lo so se puoi restare, insomma, io vivo da solo, ho una casa piccola, le mie cose ti fanno schifo, anche il mio cuscino è vecchio, non so quanto potrebbe farti piacere poggiarci la testa.
Sì, se vuoi resta, ma io non so che dirti, non so nemmeno come ti chiami e non sono bravo a fare conversazione.
E non ho la cena, di solito non ceno, ma se vuoi puoi restare.
Ci terremo compagnia a vicenda, in silenzio, senza guardarci.
O magari ci guarderemo ma non ci capiremo, non entreremo in comunicazione, non parleremo perché tu non parli spesso ed io non ho mai cosa dire, quindi me ne sto zitto anche io.
Quindi, non so. Fai come vuoi, se vuoi restare resta, se vuoi andare via vattene, la gente etra ed esce facilmente dalla mia vita, non ne faccio un problema.
Potremmo anche fare conoscenza, mia madre me lo diceva sempre da bambino: ‘Fai conoscenze’.
E poi io ho fatto cattive conoscenze.
‘Certo’ fu poi l’unica cosa che le risposi.
Si illuminò; fece un grande sorriso e saltò dentro, sempre dalla finestra, incurante del fatto che non ero abituato ad avere qualcuno che fumasse in casa.
Più tardi mi sono abituato a quell’odore, aveva ragione lei: le mie cose sembravano puzzare un po’ di vecchio, e quindi ci fumava sopra. Non gliene importava niente di quelle cose, non gliene importava niente di me, non gliene importava niente di niente ma a me andava bene così perché per tutta la vita avevo tanto voluto essere come lei.
 
Forse non gliene importava niente nemmeno di se stessa, o almeno fu quello che pensai quando la vidi meglio, alla luce del mio vecchio lampadario; era bella.
Poco curata, con i capelli arruffati e raccolti in una pessima treccia.
Aveva un cappotto marrone, troppo grande per le sue fragili spalle, e due scarponcini vecchi. Ma non aveva detto che odiava la roba vecchia?
-Non importa cosa aveva detto, guarda che occhi che ha.
Guarda come mi fissa con quell’aria da cerbiatto e quel nasino all’insù.-
Ci misi un po’ a realizzare che mi ero quasi incantato a fissarla e abbassai lo sguardo verso le mie scarpe, pieno di vergogna.
Lei mi si avvicinò piegando leggermente la testa, come a cercare di intrufolarsi tra i miei occhi e le scarpe; sembrava confusa, curiosa, come se fosse tutto nuovo per lei.
Come se nessuno avesse mai distolto lo sguardo da lei prima. Come se nessuno si fosse mai sentito in soggezione con lei prima.
Accidenti, io sono un essere umano, tu sei un essere umano, cosa c’è da capire? Mi vergogno, tu sei così bella e io mi vergogno.
‘Cosa fai?’ sorrise.
Alzai di nuovo gli occhi e me la trovai a un palmo dal naso, ‘Niente’ balbettai.
Era assurdo, non riuscivo a staccarmi da lei. Volevo girarmi e andare in un’altra stanza, il più lontano possibile. Ma la calamita del suo sguardo mi teneva incollato, senza nemmeno sbattere le palpebre. Nessun muscolo mi rispondeva più.
‘Hai fame?’
Come ho fame? Ma che ti viene in mente, ti pare che mi chiedi se ho fame? Mi vedi che me ne sto come un idiota a fissarmi in testa la tua figura perfetta, poi le scarpe e di nuovo te, e mi chiedi se ho fame?
No, non ho fame.
O forse ce l’ho, non me lo ricordo più, non mi ricordo più nemmeno come mi chiamo. Mi ricordo solo i tuoi occhi.
Lei spostò lo sguardo oltre di me e sembrò stupita da qualcosa,
‘Cos’è quello?’ mi chiese con una strana felicità nella voce.
Mi girai per vedere anch’io a cosa si riferisse
‘Quello? Quello è il modellino di un ponte, vedi?’
‘E’ bellissimo. A che serve?’
‘Sono un architetto.’
Mi guardò come un punto interrogativo. Ma certo, che scemo che sono. Faccio l’architetto e ho un modellino di un ponte in casa, che me ne faccio? Che ci faccio con un modellino? Me lo studio per poi costruire un ponte vero, che domande, ma mica sono tutti architetti, no?
‘Beh, io ne dovrò fare uno identico, solo più grande. Uno su cui la gente possa camminare. Uno vero’
‘Oh, ma è bellissimo! Mi fanno paura i ponti, sono troppo grandi, ma questo no, questo è bello!’
Non so che dire. Ti fanno paura i ponti, perfetto, buono a sapersi, ce n’è uno dietro l’angolo, quando uscirai da qui ti avviserò.
‘Una volta dormivo sotto un ponte’
Bene, mi fa piacere ma non so che dire nemmeno ora.
‘Sai che sono un architetto quindi … e tu che fai?’
Sorrise e uscì.
Chissà se torna.
Accidenti, era uno di quei silenzi non-sono-affari-tuoi e non me ne sono accorto.
Mi sono anche dimenticato di dirle del ponte dietro l’angolo.

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Capitolo 3
*** il luogo più bello dove poterti augurare il buongiorno è sul mio viso ***


 

Il luogo più bello dove poterti augurare buongiorno è sul mio viso-

Il tempo di sbattere un attimo le palpebre ed era tornata, con in mano ‘le sue cose’.
Giustamente hai detto che vuoi venire a vivere qui, devi portarti le tue cose.
Le ‘sue cose’ erano il mio cactus e un pacchetto di sigarette che secondo me in tasca, senza che entrava, se ne andava e tornava, ci stava benissimo.
Non aveva altro. Non si portava dietro altro. Non le serviva altro, diceva. Anzi, il cactus non era nemmeno indispensabile, ma le piaceva e le dava uno strano senso di felicità con tutte quelle spine così lunghe e pronte a far male.
Le sigarette se le portava dietro, insieme a qualche soldo per comprarne delle altre quando finivano, e non viveva di altro. Non rubava; lavorava, diceva. Chiedeva, diceva.
Non m’interessava particolarmente cosa si fosse riportata a casa, l’importante era che avesse riportato se stessa.
 
‘Posso metterle qui, le mie cose?’ ha chiesto indicando un cassetto vuoto sotto la finestra.
Hai venti sigarette, che te ne fai di tutto un cassetto? E poi perché sotto quella finestra, che ha quella finestra che ti fa impazzire così tanto?
Comunque sì, mettile dove ti pare, magari finisce che le perdi e le ritrovo quando te ne sei già andata; e allora io che me ne faccio di venti sigarette che non ho mai fumato in vita mia? Magari poi finisce che te ne vai e finalmente riesco a dimenticarti e invece saltano fuori quelle venti sigarette che ti eri persa, e allora io come faccio? Fai come vuoi, tanto questa è casa mia e mi sento comunque invisibile e indifferente.
‘Sì, certo, mettile dove vuoi’
Prende una sigaretta dal pacchetto prima di riporlo nel cassetto e mi chiede se voglio provare.
Se voglio provare. Come sa che non fumo?
Poi mi sono accorto che c’erano cose, molte cose, che lei sapeva anche se io non ne avevo mai fatto parola.
E dopo ancora mi sono accorto che invece io non ho mai saputo davvero tutto di lei.
Non si è mai ricordata bene cosa avesse fatto prima, cosa avesse fatto la sera prima, ma di me si ricordava.
‘No, grazie’ sorrisi.
Mi era tornato in mente che mi ero scordato di avvisarla che c’era il ponte poco lontano; evidentemente non l’aveva visto. Meglio così.
 
 ‘Questa donna non dice già niente…’ pensavo ‘Qualcuno dovrà pur parlare qua dentro!’
E invece no.
La maggior parte delle volte non parlavamo.
Non dico che ci comprendevamo al volo o che capivamo l’una i bisogni dell’altro, quello no, nessuno dei due penso che abbia mai scoperto a fondo l’altro, ce ne stavamo semplicemente zitti, ognuno nell’angolo di silenzio che si era accuratamente ritagliato.
Lei parlava di rado, diceva parole a caso, a volte ho avuto anche l’impressione che fosse matta.
Che poi, anche se lo fosse stata, che male ci sarebbe? Era matta, e allora? A me piaceva.
E comunque no, lei prevalentemente rideva all’inizio. E la maggior parte delle volte non era nemmeno a causa mia; diceva che erano i ricordi a provocarle sorrisi, non l’ho mai capito.
Non l’ho mai capita davvero.
 
Qualche giorno dopo il suo brusco e del tutto inaspettato arrivo nella mia vita ,ce ne stavamo appallati sul divano davanti la finestra, a quell’ora dell’alba il cielo era talmente bello che quasi mi dispiaceva guardare lui piuttosto che lei, io con il mio thè e lei con la sua combinazione vincente di caffè e sigaretta, e lei mi ha detto: ‘Ballerina.’
Così.
Dopo una notte passata sul mio letto a leggere libri di  poesia d’amore in francese di cui, ammettiamolo, né io né te abbiamo capito una parola, senza mai guardarci negli occhi, senza mai dire una parola che non fosse scritta sui quei libri, senza toccarci, senza entrare in contatto, senza niente, tu mi dici ‘ballerina’.
Cioè, potevi anche dirmi ‘termosifone’ per quello che ne so, ma perché adesso hai deciso di parlarmi?
Io non ti capisco.
‘Cosa?’
‘Tu hai detto che sei architetto. Io sono, o meglio ero, una ballerina.’ E conclude buttando fuori il fumo e portando la tazza di caffè fumante alle labbra.
‘Mi piacciono le ballerine.’
‘Non credo sia vero.’
Ah, mica dice ‘Non è vero.’, no, lei crede che non sia vero. Comunque ha ragione.
Non credo che mi piacciano.
Certo, se sapessi qualcosa di più su di lei capirei meglio se mi piacciono o meno le ballerine, ma non posso mica costringerla.
‘Non balli più?’
Silenzio.
Eccolo, il famoso silenzio. Questo era uno di quelli non-sono-fatti-tuoi, ma io non lo sapevo ancora.
Magari ci stava male, che non ballava più. Che ne so, un brutto incidente.
Però mi dispiaceva; ce la vedevo, con quel suo corpicino, ad alzarsi sulle punte e volteggiare.
E girare e girare e girare ancora, e fare dei grande cerchi per aria.
Tutta quella forza racchiusa in un corpo così piccolo. Tutta quella voglia di vivere, di danzare, di muoversi.
Tutta quella disciplina che si mischia all’abbandono dei sensi.
Mi piaceva.
È lei che mi piaceva.
Mi piaceva tutto di lei; i suoi occhi curiosi e che mi incuriosivano, il suo silenzio, l’odore delle sue sigarette, il suo cappotto troppo grande, il fatto che faceva sembrare più bello ed elegante il mio cactus quando lo sfiorava, la sua pronuncia sbagliata del francese, la strana paura che aveva verso i ponti, il fatto che non mi parlava di questo passato di ballerina, il fatto che non mi parlava di questo passato in generale.
E sentivo che mentre facevo l’elenco dentro di me, il mio cuore piano piano accelerava il ritmo, come se volesse danzare anche lui con lei.
‘Ti va di parlarne?’ Le ho chiesto piano, con una mano poggiata sulla spalla, come un amico, come se ci conoscessimo da sempre.
Non so perché l’ho fatto; l’ho vista lì, mi ha fatto tenerezza. Sembrava un cucciolo in cerca d’aiuto.
Eppure, in qualche modo, ho fatto centro: mi ha guardato. Non ha detto ‘Sì’ o ‘No’, non ha scosso la testa, non ha annuito. Mi ha solo guardato.
Eppure, in qualche modo, ho capito di aver creato un qualche legame con lei.
‘Ok.’ Ho sorriso ‘Comunque, buongiorno’.

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Capitolo 4
*** se vuoi ballare ***


Se vuoi ballare-

Ve l’ho detto, non so cosa di preciso ha fatto scattare tra noi quella sottospecie di contatto, solo che un bel giorno, all’alba, dopo una notte insonni a leggere poesie, è successo.
Così, ‘parlando’ di ballerine e vecchi ricordi lei mi ha guardato come non aveva mai fatto prima.
Come nessuno aveva mai fatto prima.
Quella domenica è passata come molti altri giorni: senza lasciare traccia.
Nel senso che se quella domenica c’era o non c’era, a me non cambiava niente. O meglio, allora mi sembrava non cambiasse niente; stavamo là seduti, ogni tanto ci spostavamo, qualcuno leggeva, qualcuno scarabocchiava, la noia in un certo senso ci mangiava vivi.
Perché in un certo senso? Non lo so veramente ma non ero annoiato.
Quella sera lei si era addormentata sullo stesso divano da cui avevamo visto sorgere il sole, con un libro che le cadeva sul volto. L’ho coperta con un maglione e mi sono messo a letto.
Quella sera ero felice, il perché, tutt’oggi, mi è ancora sconosciuto.
 
Un altro grande mistero è perché, appena sveglio la mattina dopo, il mio primo pensiero è stato lei; cosa fa, dov’è, come sta.
Mi sono alzato e sono andato a vedere se dormiva ancora come una bambina, con quel ciuffo di capelli scuri sulla guancia, ma lei non c’era.
Non lo so di preciso cosa ho fatto, l’ho cercata per tutto il mio piccolo appartamento, anche fuori dalla finestra su cui l’avevo trovata la prima volta, ma non aveva lasciato tracce.
Sentivo qualcosa dentro simile alla rabbia, rabbia mischiata a tristezza, con un pizzico di gelosia forse.
Ho aspettato.
Ho aspettato seduto sul divano su cui lei aveva dormito.
Ho aspettato seduto sul divano su cui lei aveva dormito leggendo e rileggendo il libro che aveva letto la sera prima. Cercando di coglierne il profumo.
Delle sue sigarette neanche l’ombra.
‘Sono morto.’ Ho pensato.
 
Poi, accidenti a lei, è entrata con un sorriso che non avevo ancora mai avuto il piacere di vedere, stringendo un vecchio album di fotografie polveroso.
‘Sono vivo.’ Ho detto a me stesso in tono rassicurante. 
‘Sei un idiota.’ Ha riso lei.
E non ho mai scoperto se ho parlato ad alta voce.
 
‘Cos’è?’
‘Il mio vecchio album di fotografie. È la cosa più preziosa che ho.’
E dove lo tieni un album di fotografie se non hai una casa, scusa? Non che io ti voglia cacciare, per carità, non ora che inizi pure a piacermi, ma giusto sapere.
‘Ci sono le foto di quando ero ballerina. Volevo che le vedessi.’
Sorride. Che bella che è quando sorride, quando sembra che non pensi a nulla e allora ti viene da non pensare a nulla pure a te.
E così, passo dopo passo, foto dopo foto, mi ha fatto rivivere i suoi momenti più intimi.
Alla fine aveva le lacrime agli occhi, lei diceva perché le mancava la danza, e probabilmente aveva anche ragione, ma io so che principalmente era perché non si era mai aperta con nessuno come stava facendo quel giorno con me.
E questo la spaventava, le faceva paura.
È ovvio.
È naturale avere paura. Vorrei abbracciarla, stringerla forte a me, accarezzarle i capelli così scuri e perfetti e sussurrarglielo che non è poi così drammatico avere paura.
È solo umano.
Ma è questo il punto, penso. Lei non è umana. Lei non vuole essere umana. O meglio, lei non è come tutti noi. Ha qualcosa che la eleva, qualcosa che riesce a portarla più su, più in alto di chiunque altro io abbia mai conosciuto.
È bellissima.
 
‘Avevo tre anni.’ Spiega indicando una bambina paffuta e sorridente.
Questa bimba ha gli occhi grandi e sembra guardare la macchinetta fotografica con la faccia a punto interrogativo, esattamente come la prima volta che ci siamo visti.
Indossa un body bianco e delle scarpine.
‘Ho iniziato propedeutica perché mamma mi portava ai balletti’ ha sorriso ‘e poi ho continuato con la classica.. ‘ ed elencava tutti gli spettacoli a cui aveva preso parte.
Uno ricordo che mi aveva colpito particolarmente, l’ultimo: mentre le foto del primo atto la ritraevano felice, col viso rilassato e i movimenti fluidi, quelle del secondo atto facevano quasi paura.
Sembrava posseduta.
Aveva degli occhi terrificanti. Erano cattivi.
‘Poi ho lasciato.’ Ha abbassato gli occhi, ha chiuso l’album di scatto e si è accesa una sigaretta.
‘Mamma se n’era andata da un po’, poco dopo è andato via anche papà, che continuavo a fare?’
Ma andati dove? Continuavo a domandarmi io. Erano morti? Che le potevo dire?
Deglutivo.
‘Qualche anno dopo non avevo un soldo’ ha continuato ‘così sono andata a lavorare in un teatro non troppo famoso della città, ma non abbiamo avuto fortuna.’
‘Dovevi essere brava però…’
‘Non lo so, ma mi piaceva da matti.’
‘Qui c’è abbastanza spazio se vuoi ballare!’ Ho sorriso.
Non so perché l’ho detto.
Oddio, che imbranato, è ovvio che se uno ha voglia di ballare balla, no?
Ecco, sorride. Ora ride. Ora ride. Ora ride di me.
Sta sorridendo. Che imbranato.
Come se la nostra non fosse una relazione già abbastanza strana, con io che me ne stavoo zitto a fissarmi le scarpe e questa che dormiva, fumava, prendeva e spariva, ritornava con nuovi oggetti che non sapevo dove prendesse e andava via di nuovo.
E in tutto ciò non volava mai una mosca.
Oddio, che imbranato.
Sorrideva.
Ma non rideva di me, si avvicina.
Il suo nasino così perfetto tocca il mio, siamo naso contro naso, labbra contro labbra.
E mi bacia.
Non ci baciamo. Non la bacio. È lei che mi bacia, è lei che bacia me.
Mi bacia.
Poi non capisco più niente, metto a fuoco il suo volto, i suoi occhi, le sue lentiggini, i suoi capelli.
 
-La mattina dopo non è scappata, è qui con me, è qui con me nel mio letto.
Dorme sul mio petto con un sorriso sereno stampato sul volto, lo stesso che aveva ieri sera, quando le ho detto che poteva ballare qui, se le andava.
Accidenti, anche stamattina sono felice quindi.
Stamattina non è scappata.
Stamattina non sono solo, non ho l’impressione di restare sempre solo e non so il perché, ma l’idea della solitudine non mi piace più così tanto.
I raggi del sole ci accarezzano la faccia e mi fanno il solletico. Mi fanno ridere. Il sole mi fa ridere. La vita mi ridere.
Questa donna mi fa ridere.-

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Capitolo 5
*** quando un uomo è stanco di londra, allora è stanco della vita ***


Quando un uomo è stanco di Londra, allora è stanco della vita-                              

Mentre il sole ci accarezzava il viso e la fresca aria mattutina che entrava dalle finestre ci abbracciava, ripensavo a quello che era successo la sera prima.
‘Niente.’ Mi aveva detto poi lei, quando si era svegliata.
Mi sembrava più bella del solito, quando si era svegliata, con gli occhi ancora in un mondo che non ci appartiene e i capelli scombinati. Si copriva, come se si vergognasse di me, di uno che si fissa le scarpe.
Sembrava un cerbiatto, sembrava indifesa.
Ma sorrideva, sorrideva rilassata.
Io mi ero quasi sentito in colpa nel vederla coprirsi, così fragile, così in difficoltà, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo; non potevo proprio.
Quando aveva detto ‘Niente.’ l’avevo guardata con la faccia a punto interrogativo.
Non che mi ricordassi molto, peccato, ma avevo la strana sensazione che era stato qualcosa di speciale, come magico, non so… non me lo spiegavo. E lei non me lo spiegava, lei non spiegava mai niente.
O stava zitta o diceva poco, se non capivi erano affari tuoi.
 
Ero passato sopra le notti sul divano, l’odore delle sigarette, i sorrisi, le poesie d’amore in francese, la storia della ballerina, quello strano contatto creato qualche ora prima, ma mi rifiutavo di passare sopra ciò che era successo quella notte. Non volevo dimenticarlo.
Quel bacio, per quel che mi ricordo, era stato uno di quelli che annebbiano la mente. Che fanno dimenticare i baci precedenti. Che fanno venir voglia di fare l’amore. Che fanno pensare a quanto sia tutto così bello e perfetto.
Non avevo avuto molti momenti belli e perfetti nella mia vita, questo non potevo permettermi di perderlo.
Evidentemente lei sì.
Forse lei poteva permetterselo. Forse quel bacio non le stava a significare proprio un bel niente. Forse me l’ero pure immaginato proprio, il bacio.
Avevo deciso di passarci sopra.
Mi dispiaceva, quella sembrava quasi una notte come molte altre in questo modo, ma sicuramente era insolito, per quello strano ‘noi’ appena nato, quello che stavamo per fare: uscire di casa.
Forse non l’ho detto, forse sì, lo ridico: vivevo a Londra, la mia Londra. La nostra Londra.
 
Lo sapete che si dice di Londra, no? Che quando un uomo è stanco di Londra, allora è stanco della vita e stronzate varie. Non so se siano vere, ma in quel periodo io avevo perso fiducia in quella mia Londra che da piccolo mi ero tanto sognato.
Trasferito nella capitale inglese all’età di diciassette anni, solo, senza parenti né amici - non mi interessavano né gli uni né gli altri - per studiare architettura.
Ammaliato dalle luci emanate dagli sfarzosi teatri della grande città, trovai un piccolo appartamento vicino al centro, quando ancora costavano pochissimo, e abbandonai tutto fiero la vita di campagna tra fattoria, fango ed animali per vivere niente di meno che a Londra.
Dei miei vecchi ‘amici’ non ne sentii più nessuno, tagliai con loro tutti i ponti per costruirne di nuovi, in tutti i sensi possibili, volevo farla finita con quel periodo della mia vita.
Volevo cambiare qualcosa, ma non so se fu Londra a deludermi o fui io; non cambiò nulla, per giorni, per mesi, per anni. La grande città di cui mi ero innamoratosi rivelò grigia, priva dei colori che mi ero immaginato.
Una mattina, bevendo un caffè davanti alla finestra di casa mia, lessi un cartello che diceva ‘Se un uomo è stanco di Londra, allora è stanco della vita!’ ed ebbi paura di essere stanco della vita.
E allora, invece di crucciarmi per uno stupido cartello, decisi di non crederci.
Decisi di incolpare Londra.
Non sapevo che qualche giorno dopo sarebbe arrivata lei.
Non sapevo, non avrei mai potuto immaginare e sinceramente ancora non so come abbiamo fatto, che ci saremmo salvati a vicenda. Ma l’abbiamo fatto.
Quella mattina, per esempio, è stata lei a salvare me.
 
‘Ti va di uscire oggi?’ Aveva chiesto seduta sul letto con indosso il mio maglione.
Mentre mi ero fermato a ripercorrere passo passo la mia strana relazione con la città in cui vivevo lei si era alzata e infilata un mio maglione, senza che me ne accorgessi.
Rimpiangevo di essermi perso quei dieci minuti di lei.
‘Ti porto a fare colazione.’ Le avevo sorriso io. Non ci eravamo detti buongiorno, non eravamo come le altre persone secondo me. Non che io avessi molto spesso provato l’emozione di vivere in coppia, ma presumo che ci si dica ‘Buongiorno’ appena alzati. Come minimo.
Invece noi no.
Noi sorridevamo.
In silenzio.
 
Qualche minuto dopo, il tempo di vestirci senza neanche lavarci per non toglierci dalla pelle il profumo dell’altro, eravamo seduti uno di fronte all’altro al primo bar che avevamo trovato.
Faceva freddo ma c’era il sole, strano per essere in Inghilterra. Pensavo che quella donna aveva portato il sole nella mia vita.
C’era un vento leggero che le scompigliava i capelli, mentre lei tentava invano, con le sue dita fini, di rimettere in ordine le ciocche. Sempre così: contro natura.
Non era una mattina da cappotto scuro, avevo pensato, così le avevo prestato lo stesso maglione color pesca con cui l’avevo trovata la mattina, che ora l’abbracciava. Mi sembrava che fossi io ad abbracciarla.
Avrei voluto essere io ad abbracciarla.
Mentre io bevevo il mio solito thè sciapo e lei il suo solito caffè con sigaretta, canticchiava.
Canti? Ora canti anche? Pensavo che te ne stessi sempre zitta per i fatti tuoi, non ti stai allargando troppo? Mi stai dicendo troppo, mi stai venendo addosso come un tornado, io non capisco più niente così.
 
L’ho portata in giro per Londra, sembrava che la vedesse per la prima volta.
Sembrava che la vedessi per la prima volta anche io. Era un po’ il periodo delle prime volte per me, per lei non lo so, non ne ho mai avuto idea.
Sembrava che mi avesse ridato la voglia di vivere, eppure io Londra la conoscevo come le mie tasche.
Ce ne stavamo lì, mano nella mano, a camminare ed io le elencavo tutti i monumenti, ogni angolo, ogni spigolo, da bravo architetto.
È stato lì che la gente ha cominciato a guardarci.
Siamo tornati a casa in silenzio, come due fuggitivi.
Non so lei a cosa pensasse, io contavo. Contavo i giorni, da quanti giorni era qui.
 
Torno a casa e la trovo sulla finestra a fumare con il mio cactus, bellissima, primo giorno. Poesie francesi, caffè, thè, albe, tramonti, altre poesie, sigarette, sempre bellissima, un numero indeterminato di giorni. Credo massimo otto. Ieri sera, quel bacio che non so perché vuole farmi dimenticare. Oggi, nono giorno.
Nove giorni. Nove giorni sono più o meno duecentosedici ore. Duecentosedici ore per innamorarmi di lei.
 
‘Innamorarmi di lei’ pensavo. Accidenti.
Ho aperto piano la porta, ho posato le chiavi sul tavolo, lei ha spento l’ultima sigaretta e mi ha baciato. Mi ha baciato di nuovo. In un modo diverso però.
Non era come l’altra volta, sembrava un bacio impaurito, un bacio tenero, un bacio che cercava sicurezze.
E poi abbiamo fatto l’amore.
Lì, su quel divano su cui per la prima volta le avevo posato la mano sulla spalla. Su quel divano su cui lei mi aveva parlato di un pezzo, per quanto minimo, della sua vita.
Ed era mia.
E Londra, quella Londra di cui lei mi aveva fatto innamorare di nuovo, ci guardava.
Non riuscivo a pensare ad altro, avevo solo lei in testa. Lei.
Solo lei.
Lei.
E poi lei ha fatto una cosa strana: mi ha sussurrato all’orecchio un ‘Ti voglio bene.’
Messo lì, quasi a caso, appeso per aria, come se stesse lì per sbaglio.
Ora, non per dire niente, ma quante persone dicono che si vogliono bene in un momento del genere? Puoi dirmi che mi ami, che mi vuoi, puoi anche non dirmi niente, ma che vuol dire che mi vuoi bene?
Comunque grazie, penso di volerti bene anch’io.
Sì, credo proprio di sì. Ti voglio bene.
Almeno per una volta hai detto quello che ti passava per la testa.

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Capitolo 6
*** cet amour tremblant de peur comme un enfant dans le noir ***


Cet amour tremblant de peur comme un enfant dans le noir-
‘Non so se voglio parlarne.
Non so se mi va adesso di mettermi qua a raccontarvi di quanto eravamo belli insieme quella notte.
Non ve lo racconto.
In fondo non è che ci sia molto da dire, voi lo sapete come vanno le cose no? Ormai lo sanno anche i bambini, ormai tutti sanno tutto, non ci sono più le sorprese, i segreti, le novità o anche gli infarti, perché no. Era per questo che lei mi piaceva; lei era tutta segreti e sorprese in un mondo in cui sappiamo sempre cosa troveremo girato l’angolo.
È per questo che lei mi piace.
Mi dispiace, sto divagando.
Mi dispiace, non voglio raccontarvelo.
E poi cosa ne volete sapere voi di noi? Di quello che avevamo? Di quello che ci legava? Non sono bravo con le parole, mi sembra che ormai si sia capito, non saprete mai cosa avevamo noi. Non riuscirete mai a definirlo.
Non si può definire. Non si deve definire.’
 
 
In ogni caso, si era fatta quasi la fine di dicembre.
Volete un riepilogo, ve lo faccio:
due mesi che era qui, due mesi che sorridevo, due mesi che l’amavo. Non ricordo bene da quanto tempo le cose erano realmente cambiate; da quanto fumassi anch’io, da quanto non potessi più fare a meno di lei al mattino quando mi svegliavo, da quanto appartenessimo l’una all’altro.
 
Mi fermo un attimo, respiro, prendo fiato.
 
Non parlavamo quasi più.
 
‘Ti va di uscire?’ chiedevo.
Scuoteva la testa.
‘Ti va di leggere?’
Scuoteva la testa.
‘Hai fame?’
Scuoteva la testa.
‘Sonno?’
Scuoteva la testa.
‘Sete?’
Scuoteva la testa.
Se ne stava seduta sul divano avvolta in una coperta rossa di lana. Oggi sembrava brutta. Oggi sembrava come tutte le altre. Oggi sembravo come tutti gli altri anch’io.
 
Ho preso una sigaretta, me la sono messa in bocca, l’ho accesa e gliel’ho offerta.
Ha scosso la testa.
Perché cazzo scuoti la testa? La smetti, per favore? Mi innervosisci, mi dai fastidio. Me la fumo io la tua sigaretta, smettila di torturarmi.
‘Che ti va di fare allora?’
‘Niente.’
Perfetto.
Ho preso e me ne sono andato. La sigaretta me la sono portata dietro, insieme a tutto il pacchetto, per farle dispetto, così se voleva fumare non fumava. Stronza.
Lei è rimasta lì seduta a guardare fuori dalla finestra, sempre avvolta nella coperta rossa di lana.
Io me ne sono tornato in camera mia, sbattuto sul letto da solo. Non ero più abituato alla solitudine, non mi piaceva più; mi erano bastati due mesi per .. come si dice? Disabituarmi? Che cosa strana, l’abitudine. Per tutta la vita sono stato abituato a determinate cose e poi un giorno puff: un’estranea si presenta alla mia finestra e mi manda tutto all’aria. E mi sconvolge tutto. E allora le abitudini cambiano.
E non mi piace più starmene da solo sul letto, voglio te.
Sei te la mia abitudine adesso; il tuo odore, il tuo sapore, i tuoi occhi. Non posso farne a meno.
Essere qui da solo ora mi mette solo un’enorme tristezza.
 
‘Che fai?’
È tornata. È sulla porta, sempre nella coperta rossa, tra le dita sottili una tazza fumante e gli occhi grandi e rossi di pianto.
‘Perché piangi?’ Le ho chiesto invece io.
Ha scosso la testa.
Avete presente quella tristezza di cui parlavo? Andata in frantumi. Non c’era più, sparita. È venuta su la rabbia invece: ‘Smettila di scuotere la testa!’ ho urlato.
Si è spaventata, l’ho spaventata.
Ha spalancato i suoi occhi da cerbiatto e la tazza è caduta in frantumi. Le tremavano le labbra, come se un vento freddo si fosse all’improvviso introdotto con violenza in casa. Anch’io avevo la stessa sensazione.
‘Non voglio parlare con te.’ Ha sussurrato piano con la voce tremante, raccogliendo i cocci dal pavimento, piegata in due dal dolore.
‘Che vuol dire?’ Giuro che la maggior parte delle volte non la capivo; perché vivi con me se non mi vuoi parlare? Mi fai venire voglia di sbatterti al muro, accidenti a te.
‘Niente. Dimentica tutto.’
‘Come faccio a dimenticare tutto? Dove vai? Non puoi prendere e andartene, ti prego, ti prego non andartene.’
 
‘Non andartene.’
 
Abbiamo litigato tutta la notte, non ricordo quasi niente.
Alla fine lei ha gridato ‘..E buon Natale!’. Accidenti, era Natale, avevamo passato la notte di Natale a litigare.
Sembravamo due persone diverse, due persone qualsiasi. Due persone che urlavano.
Passavamo da una stanza all’altra, rincorrendoci a passi veloci.
Gesticolando come due bambini.
Penso che mai come quella volta avevamo parlato così tanto, non tra noi, in generale. Abbiamo usato più fiato quella notte che in tutta la vita.
Urlavamo, scoppiavamo a piangere forte, sbattevamo oggetti per terra e urlavamo ancora.
Non ci riconoscevo più.
 
All’alba eravamo nel mio letto, pelle contro pelle, rabbia contro rabbia.
Era piccola, raggomitolata sul mio petto con i capelli spettinati.
Sui nostri volti i segni di quello che era successo la notte prima; gli occhi gonfi di pianto, le guancie arrossate e lo sguardo perso nel vuoto.
Sembrava non ci fosse amore, invece c’era. Credetemi, l’amore c’era eccome. Lo si poteva notare in ogni piccola cosa, in ogni minuscolo movimento; dalle sue dita che si muovevano lentamente tra i miei capelli alle mie labbra che si muovevano frenetiche sul suo braccio.
Sorridevamo.
Si è girata per rovistare sotto il letto.
Mi ero appoggiato alle sue spalle così minuscole quando si è girata e mi ha dato un libro; ‘Leggi qualcosa.’ mi ha ordinato felice.
Erano quelle poesie francesi che ci piacevano tanto, quelle che potevamo anche continuare a leggere tutta la vita, non avremmo comunque mai capito niente.
Ho aperto una pagina a caso, mi sono schiarito la voce e ho iniziato:

 

Cet amour
Si violent
Si fragile
Si tendre
Si désespéré
Cet amour
Beau comme le jour
Et mauvais comme le temps
Quand le temps est mauvais
Cet amour si vrai
Cet amour si beau
Si heureux
Si joyeux
Et si dérisoire
Tremblant de peur comme un enfant dans le noir
Et si sûr de lui
Comme un homme tranquille au millieu de la nuit
Cet amour qu faisait peur aux autres
Qui les faisait parler
Qui les faisait blêmir
Cet amour guetté
Parce que nous le guettions
Traqué blessé piétiné achevé nié oublié
Parce que nous l’avons traqué blessé piétiné achevé nié oublié
Cet amour tout entier
Si vivant encore
Et tout ensoleillé
C’est le tien
C’est le mien
Celui qui a été
Cette chose toujours nouvelle
Et qui n’a pas changé
Aussi vrai qu’une plante
Aussi tremblante qu’un oiseau
Aussi chaude aussi vivant que l’été
Nous pouvons tous les deux
Aller et revenir
Nous pouvons oublier
Et puis nous rendormir
Nous réveiller, souffrir, vieillir
Nous endormir encore
Rêver à la mort,
Nous éveiller, sourire et rire
Et rajeunir
Notre amour reste là
Têtu comme une bourrique
Vivant comme le désir
Cruel comme la mémoire
Bête comme les regrets
Tendre comme le souvenir
Froid comme le marble
Beau comme le jour
Fragile comme un enfant
Il nous regarde en souriant
Et il nous parle sans rien dire
Et moi je l’écoute en tremblant
Et je crie
Je crie pour toi
Je crie pour moi
Je te supplie
Pour toi pour moi et pour tous ceux qui s’aiment
Et qui se sont aimés
-Cet amour, di Jacques Prévert

 
‘Non ricordo nulla di quello che mi hai detto ieri notte.’
‘Cosa?’ Le ho chiesto io posando il libro.
‘Lo faccio sempre; elimino tutto quello che mi provoca dolore, non me lo ricordo’ ha detto ad occhi bassi ‘lo elimino e poi mi resta solo il ricordo del dolore.’
‘Mi dispiace per ieri sera.’ Ho sussurrato io.
‘No, avevi ragione: io non parlo, io non ho mai parlato tanto. Nessuno di noi due parla.’
‘Stiamo parlando adesso.’
‘A volte ho paura di impazzire.’
L’ha detto così, con le lacrime agli occhi, senza vergogna. Avrei voluto dirle che no, non si impazzisce così da un giorno all’altro e che a me lei proprio non mi sembrava una pazza. Ma che ci potevo fare, non me la sentivo di mentirle.
A volte avevo anch’io paura che impazzisse. Che impazzisse mentre guardava gli stormi d’uccelli volare fuori dalla finestra e se ne stava immobile tutto il giorno, mentre non faceva nient’altro che fumare, mentre scoppiava a piangere senza motivo, mentre cambiava all’improvviso.
L’ho solo abbracciata e le ho sussurrato all’orecchio ‘Non vedo l’ora.’.
Non mi veniva niente di meglio in mente al momento, lei ci ha riso su.

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Capitolo 7
*** avvinghiati ***


Avvinghiati-

Già, ci ha riso su.
Io le dico che non vedo l’ora che impazzisca e lei ci ride su.
 
È bella quando ride.
 
Non smettere di ridere; e non andartene, per favore non andartene mai. Non lasciarmi qua da solo.
Voglio viverci, voglio invecchiarci con te. Avere dei bambini con gli occhi grandi come i tuoi a cui piace ballare, passeggiare ancora per quella Londra che mi sembrava tutta nuova, ridere, fumare, crescere insieme.
Vivere.
Fare l’amore con te; ogni cosa è fresca, ogni cosa è un inizio, ogni cosa è un preliminare con te.
‘Tu li vuoi dei bambini?’
‘No.’
‘Perché no?’
‘Non mi piacciono. Per niente.’
Non pensavo esistesse una donna a cui non piacessero i bambini, ma, alla fine, cosa ne sapevo io della vita? Avevo appena scoperto che c’era gente capace di amare senza amare davvero quando io non riuscivo nemmeno a mentire. Effettivamente non sapevo proprio niente della vita io. C’era bisogno che arrivasse lei a chiarirmi le idee, a spiegarmi le cose; ero un ingenuo, un povero scemo, un imbecille.
 
Non abbiamo più parlato né di bambini né di un futuro insieme, io e lei. Anzi, io continuavo ad immaginarmelo, me lo vedevo chiaro nella mente ogni volta che potevo, lei non lo so; vedevo noi due, ogni giorno più vecchi, ogni giorno più stanchi, nel mio appartamento di sempre, sul nostro divano di sempre, con il nostro libro di poesie di sempre e il nostro odore di sempre, quell’odore per cui a volte la mattina litigavamo con la doccia, tanto non volevamo togliercelo da dosso.
Vedevo amore, amore ovunque.
Poi dei bambini, piccoli, indifesi, teneri, come lei, come lei era ancora. Bambini nati dall’amore.
E vedevo la città che invecchiava con noi; una crepa su un palazzo, un negozio che chiudeva, un albero che moriva. E i passanti, i cittadini, che hanno sempre tanto parlato male e alle spalle di lei, li vedevo che finalmente si azzittivano, si rendevano conto che non potevano scalfirla.
Che non potevano scalfirci.
Ma questo tra tanti anni, mi ripetevo, per ora voglio che restiamo così. Mi piace così.
 
Non siate ridicoli, non dite a me che sono ridicolo, per favore; non sto mica fantasticando sulla fine di una guerra, la pace nel mondo o che so io. Non è forse lecito sognare un futuro con la persona che si ama? Alle ragazzine alla prima cotta, quando fanno le prove sul diario segreto del loro nome da sposate, nessuno si azzarda a dirgli niente. ‘Lasciamole sognare; sono solo ragazzine, bambine!’ ci ridete su. Magari per loro è importante. Per me era importante. Ero un uomo grande, grosso e vaccinato, ed essendo uomo non mi servivano nemmeno le prove del mio nome da sposato, dal momento che non l’avrei cambiato, ma che male c’è a fantasticare alla mia età? Che male c’è a fantasticare se si è maschio? Che male c’è a piangere se si è maschio? Ad amare se si è maschio?
Io devo ammettere, signori miei, che queste cose ore le sto dicendo a voi, ma a quel tempo non mi ponevo neanche il problema; pensavo fosse normale.
Non ero mai voluto entrare veramente in contatto con il mondo, non conoscevo la cattiveria di cui era impregnato.
Se volete che vada avanti, per favore, non ridete, non commentate. Ce ne avrei io, di commenti da fare! Continuo?
Continuo.
 
Albe e tramonti dopo, all’inizio non ci eravamo nemmeno resi conto di quante albe e quanti tramonti fossero passati, un rumore ci aveva svegliato.
Botti, grida, spintoni.
Avevo aperto gli occhi di colpo mentre lei aggrottava piano la fronte, ancora addormentata, e piagnucolava ‘Cosa succede?’.
Mamma mia che colpo che ci siamo presi; siamo corsi alla finestra, io mezzo nudo e lei avvolta nella coperta, barcollante, ancora non del tutto sveglia. Aperta la persiana, il rumore si è fatto più intenso e ci è venuta incontro una luce.
‘E’ capodanno!’ Ho riso io.
E noi che ci eravamo spaventati, pensavamo fosse chissà che e invece erano fuochi d’artificio.
Ecco si è svegliata e si è accesa una sigaretta. Ha sbadigliato piano e ha sussurrato ‘Auguri…’
‘Aspetta.’ Ho quasi urlato io. Ho rovistato sotto il letto in cerca di un maglione e poi in cucina: champagne almeno, no?
Senza bicchieri appropriati, senza smancerie, ho aperto la bottiglia e gliel’ho data.
Quella è stata la fine dell’anno, o meglio, l’inizio del nuovo anno.
Alle tre di mattina del primo di gennaio, seduti sul nostro divano a fumare e bere champagne dalla bottiglia. Poco eleganti, poco tradizionali, molto noi.
Le tende aperte e fuori i fuochi d’artificio di mille colori che sono andati avanti per tutta la notte.
Niente feste, niente amici, niente gente ubriaca, niente auguri finti, niente sorrisi. Solo il necessario.
E sapevo, forse per la prima volta in vita mia ne ero così certo, che non mi sarebbe servito altro per tutto l’anno: bastava lei.
Sinceramente non ho mai amato il capodanno, è solo un altro pretesto per bere e festeggiare devo ancora capire se l’inizio o la fine di qualcosa; visto che non vado matto né per le fini né per gli inizi, non lo festeggio. Ma questo è diverso. Questo mi sembra davvero la fine di qualcosa e l’inizio di un’altra.
 
‘Mi dispiace di tenerti così fuori dal mondo, che non ci eravamo nemmeno accorti che fosse capodanno.’
‘Ma cosa dici?’
Era un momento perfetto, c’era bisogno di rovinarlo così? Non mi tieni fuori dal mondo, sei tu il mio mondo adesso, non farti strane idee.
‘Non ci eravamo nemmeno accorti che fosse la notte di capodanno.’ Ha ripetuto a occhi bassi.
Avrei voluto iniziare uno di quei discorsi lunghi che iniziano con ‘Ascolta’, finiscono con un ‘hai capito?’ ed un sorriso e in mezzo c’è tanta dolcezza, ma sentivo che stava per parlarmi, per dirmi qualcosa.
Così l’ho solo guardata, in attesa che finalmente mi dicesse qualcosa di lei.
‘E’ solo che a me piace stare chiusa, starmene per conto mio, stare da sola. Non posso farci niente, è così da quando sono piccola. E in particolare mi piace starmene qui rinchiusa con te, io e te da soli. So che il resto non vale niente, so che del resto non ci importa niente perché siamo io e te. Avevo solo bisogno di un posto dove stare all’inizio, pensavo mi avresti buttato fuori da un momento all’altro, ma non l’hai fatto. Io lo so di essere strana, lo so quello che la gente dice di me, ma mi dispiace se ti ho incatenato qui, se ti sei sentito schiavo in casa tua. Mi dispiace, ecco.’ Piangeva quasi. L’aveva detto tutto d’un fiato, senza l’aiuto della nicotina, senza guardarmi negli occhi, con un dito che tremava sulla sigaretta ormai allo stremo.
Mi sono girato verso di lei, le ho preso la mano e ho iniziato il mio con ‘Ascolta’:
‘Ascolta, non scusarti, non scusarti mai più chiaro? Non ho mai festeggiato capodanno, non mi è mai piaciuto capodanno, non me n’è mai importato niente di capodanno. Non me ne importa niente nemmeno degli altri, hai ragione: siamo io e te qui dentro. Non scusarti. E non andartene, io non ti manderei mai via, mai, hai capito?’
Mi ha sorriso, nient’altro.
‘E comunque non pensavo potessi dire così tante cose.’ Le ho strappato una risata, almeno.
Qualche sorriso dopo mi sono accorto che il suo dito tremava ancora.
‘Quello?’ Le ho chiesto indicandoglielo.
‘Penso sia un tic nervoso, ma non lo so bene veramente. È un po’ che va avanti.’
‘Un po’ quanto?’
‘Qualche anno credo.’
L’ho guardato pensieroso.
‘Non credo bisogni preoccuparsi adesso per un dito che trema, no?’
‘Non lo so. Non l’ha mai visto nessuno?’
‘Oh sì. Il mio medico di base, quello che vive sopra le nuvole e che ho pagato con monete di cioccolato, ma ha detto di non preoccuparsi: uno dei Muppets aveva la stessa cosa eppure è ancora sano come un pesce. È un suo paziente, sai?’
‘Ma quanto siamo spiritosi oggi.’ L’ho abbracciata io. ‘Secondo me, comunque, lo dovrebbe vedere qualcuno.’
‘Sicuramente.’ Ha sorriso. Sicuramente da sola non l’avrebbe fatto vedere a nessuno.
 
‘Beh, sono le cinque. Abbiamo bevuto, abbiamo festeggiato, che si fa?’
‘Dormiamo?’ Ha proposto con un sorriso a trentadue denti ch mi ha fatto scoppiare a ridere.
‘Dormiamo.’ Ho acconsentito io.
 
Ma nel letto, abbracciati, avvinghiati una sopra l’altro, non potevamo proprio dormire. Non quella notte, non così.

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Capitolo 8
*** niente ***


Niente-

E poi ci siamo addormentati, stanchi come due bambini che hanno giocato tutto il giorno.
Prima di chiudere gli occhi le ho sussurrato all’orecchio che avrei voluto che tutto l’anno prossimo fosse come erano state quelle due ore. Che avrei voluto dimenticare tutto quello che era stato prima di incontrarla, perché non mi interessava più. Perché mi sembrava tutto così sciapo, così senza sapore se non c’era lei.
Non ha risposto, che novità.
‘Non mi interessa se non rispondi; lo so che mi hai sentito.’.
 
Le nostre vite, i nostri umori e i nostri orari erano del tutto sballati da quando ‘vivevamo insieme’. Dormivano quanto ci andava e dove ci andava, ci svegliavamo all’ora che volevamo, fumavamo in ogni angolo della casa, la cena era quasi unicamente versata ultimamente. Specialmente ci amavamo, sì. Ci amavamo.
Mi sembrava di avere di nuovo sedici anni e di essere stato lasciato un week-end a casa da solo: tutta la casa per me, tutta la vita per me. L’unica differenza era che invece della prima persona singolare mi ero abituato ad usare la prima plurale; tanto brutto?
Noi dormiamo, noi fumiamo, noi beviamo, noi ci amiamo.
Suona decisamente meglio delle frasi che iniziano con ‘Io’, io di qua, io di là, manco fossi il centro del mondo.
Adesso è ‘Noi siamo il centro del mondo’.
Mi piace molto di più questo noi.
 
 
‘Signore, mi scusi se glielo dico, ma lei è un po’ troppo ripetitivo; siamo qui da ore.’
‘Signore, mi scusi se le rispondo, ma lei dovrebbe proprio chiudere quella boccaccia. Siete stati voi a cercarmi no? Voi che volevate sapere di quella donna, voi che mi costringete a tirare fuori ricordi che mi graffiano il cuore. Mi permette almeno di dire quello che mi passava e mi passa per la testa?
 Bah, tanto non voi non capirete mai, nessuno di voi capirà mai. Sto qui a sprecare fiato, con tutte le cose che potrei fare, tutte le cose che mi farebbero meno male, io invece vado a raccontarvi la mia vita.
Comunque dicevo …’
 
 
Mi piace molto di più questo noi.
Mentre ci pensavo era sorto di nuovo il sole, ma non era il primo di gennaio, era il due. Mi sono alzato e vestito in silenzio, non volevo svegliarla. Ho deciso che vado in biblioteca, pensavo, così prendo altri libri di poesia.
Le ho scritto un biglietto, mi sono impegnato per fare una bella grafia, e l’ho messo sul comodino.
 
Buongiorno.
Sono in biblioteca, torno presto.
 
Mentre camminavo guardavo per terra; osservavo le cartacce, i fiori, le foglie cadute, quello che rimaneva dei fuochi d’artificio non ancora tolti. Pensavo a lei.
Pensavo che potevo scriverle qualcosa di più su quel biglietto.
Accidenti, speriamo che dorma ancora quando torno, così lo levo.
Ecco la biblioteca. Sono entrato, non ho fatto rumore, ho preso un libro in silenzio sotto la voce ‘Poesie, scrittori francesi’, ho controllato di non averlo a casa, sono andato alla cassa e sono uscito.
Mi sbrigo; voglio rivederla. Voglio eliminare quel brutto biglietto.
Tornando ha aperto il fornaio. Ho comprato la colazione, la colazione per noi.
Ho girato piano le chiavi nella serratura e lei era lì davanti ad aspettarmi. Sveglia.
‘Buongiorno.’ Le ho sorriso posando il libro sul tavolo e tirando su la busta con la colazione, tutto fiero del mio bottino.
Mi ha fulminato con lo sguardo e ha sibilato: ‘L’altra notte mi hai detto che non ti dispiaceva startene chiuso qui.’.
Andiamo, che ti succede adesso? Mi va bene stare chiuso in casa ma una boccata d’aria ogni tanto la posso anche prendere, credo. Accidenti.
‘Volevo solo prendere un libro alla biblioteca.’ Mi sono giustificato.
‘Con tutti quelli che hai in casa? Avevi bisogno di un altro libro con tutti quelli che hai in casa?’
‘Li abbiamo letti tutti, quelli che ho in casa.’
‘Quindi avevi bisogno di un altro libro con tutti quelli che hai in casa.’ Ha concluso.
Ho alzato un sopracciglio.
Sì, mi sembra ovvio. Se sono andato a prenderlo evidentemente ne avevo bisogno, o magari mi faceva piacere averlo o volevo leggerlo, non lo so, ma questo ti crea così tanti problemi?
Come se mi avesse di nuovo letto nella mente, si è abbandonata sul divano, si è accesa una sigaretta e si è portata una mano sulla fronte. Il dito, accidenti, le trema di nuovo il dito.
‘Io ti ho parlato quella sera, ti ho parlato come non avevo fatto con nessuno. Tu invece cosa hai fatto? mi hai detto quello che volevo sentirmi dire.’
‘Non ti ho detto niente per farti felice: non so mentire! Ma che stai dicendo?!’
‘Se tu ti alzi e te ne vai lasciandomi da sola nel letto per prendere un libro alla biblioteca perché quelli che hai qui in casa non ti bastano più, vuol dire che stare qui in casa non ti basta più. Che io non ti basto più. E, di conseguenza, tutto quello che mi hai detto l’altra notte non lo pensavi davvero.’
‘Sì che lo penso davvero, volevo solo un libro.’
‘Non lo pensavi davvero…’ continuava a ripetere.
La vedevo lì sul divano che si dimenava, che torturava il filtro della sigaretta con le mani e con le labbra. Con quel dito che tremava senza fermarsi un attimo.
‘Non lo pensavi davvero…’
‘Sì che lo penso davvero. E ora vado a farmi una doccia.’ Ho concluso.
 
Ho sbattuto la colazione sul tavolo, se la vuole se la mangia.
Mi sono chiuso in bagno; avevo voglia di urlare.
Sono rimasto sotto il getto dell’acqua per ore, la doccia più lunga che la storia ricordi, fuori dal mondo, fuori da ogni rumore.
Anche troppo fuori.
 
Infatti quando sono tornato nell’altra stanza lei non c’era; l’ho cercata in salotto, sul nostro divano, in camera da letto, in cucina, in bagno, fuori dalla finestra su cui l’avevo trovata … non c’era.
Avevo voglia di piangere, avevo gli occhi lucidi, avevo un nodo allo stomaco.
Mi mancava l’aria.
Ero mangiato da un senso di vuoto. Anzi più che mangiato direi che ero divorato. Sì, m divorava. Mi lacerava. Mi lacerava ogni organo, ogni cellula del mio corpo.
Cos’ero io senza di lei? Ecco, la domanda che mi ponevo sempre. Pensavo di non essere niente, pensavo di non essere niente. In quel momento ho capito che avevo ragione.
Niente.
Assolutamente niente.
Vagavo per la casa come un disperato, perso.
 
Niente.
 
Poi l’ho vista; una pila di maglioni, una lettera e un pacchetto di sigarette, tutti uno sopra l’altro.
Erano i miei maglioni, quelli che aveva messo lei ultimamente.
La lettera.
Ho preso la lettera e l’ho aperta.
Un respiro profondo e ho cominciato.

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Capitolo 9
*** arrivederci ***


Arrivederci-

(La lettera)
 
Ho finito qui, ho chiuso.
Me ne vado.
Ma diciamoci le cose come stanno: tu non appartieni ed io non appartengo a te, lasciamoci andare, con oggi ho finito di tenerti rinchiuso.
Hai visto? Scrivo. Io scrivo. Quante cose non sai di me, quante non te ne ho mai dette. Alcune non le so neanche io, pensa. Ma il punto non è questo; il punto è che basta. Ti ho lasciato i tuoi maglioni puliti, rimesso a posto i libri, lasciato le sigarette. E me ne vado. Vado via.
Vado via prima che tu te ne accorga.
Sono preoccupata per te però. Ricordi quando m’hai detto ‘Non lasciarmi.’, come un lamento, come una preghiera? Mi dispiace; ti sto lasciando.
Ti prego, non pensare che lo faccia con cattiveria, che non ci abbia pensato; ci ho pensato, ci ho pensato tanto, te lo giuro. Sono solo giunta alla conclusione che credo sia meglio così per te.
Non voglio essere un peso.
Non mi piace.
Piuttosto mi piaci tu. Ecco, non sapevo come dirlo e l’ho detto: ora lo sai.
Ho solo paura che un giorno, se andiamo avanti così, tu possa disprezzarmi per quello che ti ho fatto.
Lo sai, io penso che tu sia una persona veramente buona, forse la più buona che conosca, e magari il disprezzo, quello vero, non lo conosci. Ma io sì. Io l’ho provato, io lo conosco, e non voglio che tu lo provi per me.
E quindi me ne vado prima che accada. Scappo, scappo di nuovo.
Forse non lo sai, forse l’avevi intuito: scappare è la mia specialità. Scappare dai problemi, dalla paura, dalla vita, dalle relazioni, dai luoghi, dalle persone.
Non preoccuparti per me, in ogni caso: troverò qualcosa da fare. Magari ricomincerò a ballare. Magari un qualche teatro o una qualche compagnia di ballo mi vorrà di nuovo. Magari la mia carriera non è finita. Magari la mia vita non è finita.
Credimi, neanche la tua vita è finita. Per favore, credimi.
Costruisci tanti ponti, leggi poesie, ama ancora, non morire. Non morire mai.
Basta, me ne vado.
Non voglio più scrivere niente, sto piangendo.
Ah sì, piango anche.
Non so se ho mai pianto davanti a te.
Non ho altro da dirti.
Ripeto: non morire.
Arrivederci.

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Capitolo 10
*** gatto nero ***


Gatto nero-

‘Quindi se n’era andata?’
‘Sì. Se n’era andata così, lasciandomi solo una lettera e una pila di maglioni.’
‘E le sue sigarette.’
‘Le avevo fumate tutte mentre leggevo la lettera, lo ricordo bene. Ricordo anche che piangevo. Quando mi sono reso conto che non sarebbe tornata, mi sono quasi sentito in colpa di aver finito quelle sigarette. Quell’unica cosa che mi restava di lei.’
‘Se non vuole andare avanti con il racconto lo capisco.’
‘Voglio andare avanti invece. Ormai sono vecchio, che mi resta, se non i ricordi?’
‘I ricordi fanno male però.’
‘Tutto fa male, signore mio.’
‘Ha ragione anche lei. Vorrei che continuasse. La storia mi intriga, mi affascina. Cos’era davvero quella donna? Cosa faceva? Perché è andata via?’
‘Con calma. Vedete la lettera? Guardate. Volete sapere che tipo di donna era: guardate la grafia. Così pulita, così piccola.’
‘Sì, la vedo.’
‘Anche la penna stava sulle sue. Credete che quella donna avesse qualcosa da nascondere? Sicuro.’
‘Sicuro.’
‘Ma ditemi ora se credete che potesse essere qualcosa di maligno, qualcosa di cattivo.’
‘No.’
‘Dicevano che era una strega. Come si può dire una cosa del genere?’
‘Non lo so.’
‘Siete in difficoltà?’
‘Io non c’ero a quel tempo, non ero lì, non posso affermare che fosse una strega o meno. Cos’è poi una strega? Una che fa magie o una che seduce? Parliamo di una strega bianca o di una strega nera? Sicuramente dalle vostre parole, signore, non emerge nulla di maligno. L’unico fuoco in cui ella meritava di bruciare era quello dell’amore e della passione.’
‘Piano. Non stiamo facendo un processo a nessuno.’
‘Mi scusi.’
‘Quando loro dicevano ‘strega’, io pensavo che sì, da una parte avevano forse ragione. Strega in senso buono, certo. Ogni volta io la guardavo e me ne innamoravo. Non ricordo quasi nulla, colpa della vecchiaia, eppure guardate: di lei mi ricordo perfettamente. Non è forse in un certo senso magico tutto questo?’
‘Forse.’
‘Insomma mi guardi. Ho la barba, non sono di bell’aspetto e non che prima fossi tanto meglio; avevo i capelli corti e rossi. Sa cosa dicevano dei rossi? Che puzzavano. Che erano degli … come si dice oggi? Sfigati. Ecco, io ero proprio uno sfigato. Sfigato e pure ingenuo. Ero bassino, con gli occhiali tondi. Lei invece, lo sapete, era bella. Era troppo per me. Troppo per chiunque.
Sa perché ne parlo con lei?’
‘No.’
‘Perché non ne ho mai parlato con nessuno. Non ho mai avuto amici. Non ne ho mai voluti. Avevo solo lei.’
‘Sì ma poi lei se ne è andata.’
‘Oh no. Quella volta non se ne era andata. Non per sempre almeno. Non definitivamente.’
 
 
Leggevo e fumavo, fumavo e leggevo; il fumo mi uccideva, quel dannato pezzo di carta era peggio.
Poi piangevo.
Dopo la tristezza era arrivata la rabbia, lo ricordo bene.
Bene, se questo è quello che hai da dire, pensavo, anche io ho qualcosa da dire!
Cos’è finito qui? Cos’avevamo noi? Aiutami a definire quello che eravamo ti prego. Io avevo bisogno di aiuto e tu te ne sei andata. Stronza.
E poi che vuol dire ‘tu non appartieni a me ed io non appartengo a te, lasciamoci andare’? Nessuno appartiene a nessuno, Gesù, siamo persone. E poi lasciamoci andare dove? Dov’è che dovrei andare io? Così, da solo? Uno che si guarda le scarpe. E poi, accidenti, l’avrò detto una decina di volte che non mi tieni rinchiuso proprio da nessuna parte.
E per la cronaca i maglioni e le sigarette potevi anche tenerteli; se mi fai questo, meno mi ricordo di te e meglio è.
E che cazzo vuol dire che sei preoccupata perché non volevo che mi lasciassi e poi prendi e mi lasci?! Allora o mi lasci e non ti preoccupi o ti preoccupi e non mi lasci. Dico bene?
E sì, comunque penso che tu lo faccia con cattiveria.
Ok magari non è che proprio lo penso, ma questa è la sensazione che ho.
Mi hai fatto male, che ci vuoi fare?
Ma in ogni caso penso che proprio no, non potrei mai disprezzarti. Proprio no.
E allora se te ne vuoi andare, vattene; recita, balla, fuma, fai quello che accidenti vuoi, non mi interessa.
Stronza.
E non ti credo: la mia vita mi sembra finita, finita per davvero. Cosa vuol dire poi ‘Per favore non morire.’? Non ho proprio intenzione di morire, tranquilla. Non so di quale morte tu parli, ma in ogni caso non posso prometterti niente, mi dispiace.
Oddio quanto ti odio adesso.
Non lo immagini neanche.
Ma grazie per aver detto che ti piaccio.
 
Mi sentivo solo, vuoto, triste. Piangevo, parlavo, urlavo.
Giravo per casa come un matto gesticolando, come quando avevamo litigato quella volta. Mi mancava. La stavo ancora cercando. Sapevo che non era più lì eppure non me ne facevo una ragione.
Mi sono messo il cappotto e sono uscito.
Continuavo a urlare. Non so cosa urlassi.
Bestemmiavo.
La gente mi guardava come se fossi matto. Forse ero impazzito davvero.
‘La troverò.’ Mi ripetevo.
 
La troverò.
 
Ho attraversato la città, erano settimane che non mi spingevo così oltre. L’ho cercata ovunque. Poi ho pensato ai teatri. I teatri.
Li ho girati tutti. Tutti quanti, ne avessi lasciato uno.
 
L’ho trovata.
Una figura piccola, scura, tutta nera. Seduta sotto un’insegna luminosa cadente.
La gente non si sarebbe nemmeno accorta che quella cosa era una persona. Era più che altro un batuffolo nero dentro un cappotto nero su un marciapiede nero.
Teneva gli occhi bassi. Era vergogna?
Mi sono avvicinato lentamente.
C’erano così tante cose che avrei voluto dirle in quel momento, ma non riuscivo a dire una parola. Tremavamo tutti e due. Immobilizzati, pietrificati, cristallizzati.
‘Ho fatto l’audizione qui.’ Ha esordito senza alzare gli occhi.
Io zitto.
‘Hanno detto che non sono precisa.’ Ha sussurrato con una cattiveria nella voce che non avevo mai sentito, né da lei né da nessun altro.
Era questo il disprezzo di cui parlava in quella maledetta lettera?
‘Io sono precisa’ ha continuato ponendo l’accento sul verbo, come se volesse dimostrare qualcosa a qualcuno, ‘Io ballo bene. Io sono brava. L’imprecisione non fa parte di me. Perché hanno detto che non sono precisa?’
‘Torna a casa.’ L’ho supplicata.
‘Non posso, ho preso un gatto.’
Sei davvero assurda. Ti ho cercata ovunque, ti ho cercata per ore. Sei seduta per terra, ti sto offrendo una casa e tu rifiuti perché hai preso un gatto? Portatelo, il felino. Ce lo mangiamo per cena, il felino, che ti devo dire.
‘Viene a casa con noi.’
‘Davvero?’ Mi ha guardato abbozzando un sorriso.
Ho visto i suoi occhi grandi e lucidi come non li avevo mai visti; tristi, vuoti e delusi come non li avevo mai visti. Il trucco colato, i capelli spettinati, il dito che tremava.
‘Davvero.’ Ho sorriso.
Si è alzata e ha tirato fuori da sotto il cappotto un fagottino; me l’ha messo in mano sorridendo e tirando su con il naso.
‘Ti piace?’
Era un gatto, un gatto minuscolo. Così piccolo che avevo paura di stringerlo. Ma mi piaceva.
 
Mentre tornavamo a casa, io, lei e il gatto, a poco a poco il ricordo del dolore che avevo provato in quelle ore che ero rimasto solo andava svanendo. Sulla porta già non c’era più. Morto.
 
Eravamo di nuovo sul divano, era di nuovo l’alba.
Non abbiamo più parlato di quella lettera né del fatto che un bel giorno avesse deciso di prendere e andarsene; con lei era così. Se di una cosa non se ne parlava, allora non era un problema. Scappava, ma d’altra parte che male c’era? L’aveva ammesso lei stessa.
E a me andava bene così. Finché lei restava a me andava bene tutto.
 
‘Però non ho capito perché ci siamo portati il gatto.’
‘Mica potevamo lasciarlo per strada! Hai visto anche tu quanto è piccolo.’ Ha detto cullandoselo. Mi è venuto in mente il discorso dei bambini e di quanto non le piacessero. Il senso materno, pensavo, di sicuro non le manca.
‘Sì ma non mi hai detto come l’hai trovato.’
‘Era nel teatro dove ho fatto l’audizione.’ Ha risposto tranquillamente mentre continuava a occuparsi di quella bestia, senza degnarmi di uno sguardo.
‘Che ci faceva un gatto nel teatro?’
‘Era con la sua mamma e i suoi fratelli. Mi sa che erano i gatti del coreografo o di qualcuno che lavorava lì.’
‘Allora perché l’hai preso?’
‘Perché hanno detto che non sono precisa.’
‘E quindi gli hai rubato il gatto per dispetto?’
‘No. Anche perché mi piaceva.’ Ha detto. Ma era rivolto più al gatto che a me credo. L’aveva detto con una voce stupida proprio. Quelle voci che la gente fa con gli animali. Non pensavo la sapesse fare anche lei.
‘E poi senti’ ha continuato ‘hanno la mamma gatto e altri quattro cuccioli. Uno più, uno meno penso che nemmeno se ne accorgano.’
‘Sicuro.’
Mi ha fulminato.
‘Perché proprio lui?’
‘Mi piacciono i gatti neri.’
‘Hai rubato un gattino e per di più nero. Sei una strega.’ Ho scherzato.
Si è fermata un momento, ha posato il gatto e mi ha guardato.
‘Lo dicono in molti.’
Accidenti, mi è uscito così; come una battuta, uno scherzo. Una battuta idiota.
Le tremava di nuovo il dito.
‘Scusami, io scherzavo. Era solo una battuta.’ Le ho sorriso.
Ha ricambiato il sorriso.
Le ho preso la mano, ‘Per questo cos’hai intenzione di fare?’ Ho chiesto indicando il suo dito.
‘Niente.’ Ha sbuffato.
Le ho stretto la mano nella mia, prima dolcemente, poi forte.
‘Domani lo facciamo vedere.’
‘Immaginavo.’ Ha riso lei.

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Capitolo 11
*** sbattuti dal vento ***


Sbattuti dal vento-

Una delle notti più belle che ricordi, senza dubbio.
No, non è come credete; non è per deludervi, ma non abbiamo fatto l’amore. Non abbiamo fatto niente.
Ci siamo solo amati.
Un amore grande.
Un amore enorme.
Ho notato molte cose quella notte. Voi direte ‘Idiota. Avevi lei tutta per te, era lì per te, e hai notato molte cose.’. Sì. Le ho notate.
Voi non potete capire quanta pace dava stare lì a fissarla, fissarla per ore.
Volete un elenco di queste cose? Roba tipo lista della spesa.
Oppure qualcosa di sentito, di personale?
‘Signore, mi sembra che sia tutto sentito e personale.’
‘Ha ragione. Vada per una via di mezzo.’
 
Tutti dicono che l’amore fa male, ma non è vero. La solitudine fa male. Il rifiuto fa male. Perdere qualcuno fa male. Tutti confondono queste cose con l’amore, ma in realtà, l’amore è l’unica cosa in questo mondo che copre tutto il dolore e ci fa sentire ancora meravigliosi.
- Oscar Wilde.
 
Ho notato che i suoi occhi diventavano sempre più belli, sempre più grandi, sempre più profondi. Sempre più scuri. E che mi guardavano in un modo tremendo, in un modo che mi faceva quasi paura.
Aveva quelle lentiggini che mi confondevano, che erano così tante che mi ci perdevo.
Aveva una piccola voglia che ricordava un cuore sulla scapola.
Sapeva di buono anche al mattino, appena sveglia, quando non sapeva di niente.
Era innamorata, credo.
Non so se di me o della vita, ma di qualcosa sicuramente. Amava. Nel suo sguardo c’era amore, un amore infinito.
La mattina la vedevo guardare fuori dalla finestra; innamorata delle rondini.
Osservava tutto, mi sembrava innamorata di tutto. Della macchinetta del caffè, della poesia, del gatto, delle sigarette, della pioggia.
Di me?
Come si fa ad innamorarsi di me? Ci vuole coraggio, ci vuole fegato. Ci vuole un gran cuore. Ci vuole una qualità che ti permetta di guardare oltre ciò che vedono tutti, oltre l’involucro. Sì, ho detto ‘una qualità’, così, molto generale.
Non so se mi sono spiegato: non esiste una parola per descrivere quella qualità. O per descrivere lei. Non l’hanno ancora inventata.
Ora ditemi: se io non amo la gente, come fa la gente ad amare me?
Sono solo, me ne sto sempre solo per i fatti miei, perché la gente dovrebbe amarmi? Dovrebbe innamorarsi di me? Quella notte, per la prima volta, ho pensato che lei l’aveva fatto.
 
 
‘E l’aveva fatto davvero? Era davvero innamorata?’
‘Con calma.’
 
 
Ha sbadigliato, si è stiracchiata sotto le coperte e mi ha sorriso. Sembrava felice davvero stamattina.
‘Buongiorno.’
‘Buongiorno.’
Il gattino si è arrampicato sul letto, ci è venuto addosso, si è messo tra di noi. In mezzo.
Lei se l’è preso in grembo, se l’è coccolato, se l’è abbracciato e l’ha tenuto stretto a sé. A volte ho avuto l’impressione che tenesse più a quella palla di pelo felina che a me. Molte volte.
 
‘Oggi non scappi, lo sai: devi andare da un dottore.’ Le ho sussurrato all’orecchio.
‘Che accidenti ti preoccupa tanto di questo dito? Trema, e allora? Lascialo tremare.’ Ha ribattuto.
‘Non credo che vada proprio così quando uno ha qualcosa che non va.’
‘Va così quando io ho qualcosa che non va.’
Tu hai un’innumerevole quantità di cose che non vanno, avrei voluto dirle. E invece non le ho detto niente.
‘E’ solo una visita.’
‘Appunto; si può evitare.’
‘E’ un mio amico dell’università, non ti porto in un ospedale o in un posto strano, promesso.’
‘Non vado da nessuna parte.’ E ha ricominciato ad abbracciare il gatto.
‘Vado a fare il caffè.’ Ho rinunciato alzandomi.
‘Anche io lo voglio!’
‘Se non ti alzi dal letto e non vai dal medico la caffeina non ti serve.’
Ha fatto una smorfia e ha sussurrato ‘Magari ci vado …’ , come se volesse lanciarmi una sfida.
Abbiamo riso insieme. Tranne il gatto, lui no; lui non capiva mai niente, non faceva mai niente con noi. Anzi, quando noi facevamo qualcosa si metteva in mezza, bisognoso d’affetto, il felino, mi dava ai nervi.
Lei lo amava, lo amava da morire. Io ero niente in confronto al gatto.
Non gli ho voluto nemmeno dare un nome, lo chiamavo solo ‘gatto’, sì, bravo, lo scriva con la ‘g’ minuscola, tanto quell’animale prima me lo dimentico e meglio è.
Un giorno che è distratta lo butto, pensavo, e poi le dico che è scappato. Era un pensiero ricorrente.
 
‘Non mi piace qua fuori.’ Si è lamentata due passi fuori casa.
Camminavamo mano nella mano, stretti nei nostri cappotti, nel freddo di quella Londra che ormai non sentivamo nemmeno più nostra.
‘Dieci minuti, facciamo la visita e torniamo.’ L’ho rassicurata dandole un bacio sul naso.
‘Facciamo in fretta.’
 
Siamo tornati a casa in silenzio.
Intorno a noi c’erano decine di persone, passavano decine di macchine, cadevano decine di foglie; tutto era vivo, tutto era in movimento. Noi no.
Un movimento frenetico, voglia di vivere.
Non ci tenevamo più neanche per mano.
Eravamo soli.
Quel movimento non ci aveva preso, a noi. Non ci toccava.
Niente poteva più toccarci.
Sapevamo che c’era qualcosa di sbagliato adesso. Che non andava tutto bene, che le cose facevano il loro corso per un motivo. Un motivo. Non lo vedevamo noi, quel motivo.
‘Non vi preoccupate, per ora.’ Ci avevano detto.
Come parlare al vento. Tempo perso, fiato sprecato.
Ci muovevamo lenti, le nostre gambe andavano da sole, un passo dopo l’altro. Dove siamo diretti? Chi lo sa.
Finiremo dove ci porteranno i nostri piedi, questo è quanto.
Così camminavamo; corpi vuoti, svuotati dal dolore. Portati dal vento.
Sbattuti dal vento.
 

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Capitolo 12
*** disprezzo ***


Disprezzo-

Corpi vuoti, svuotati dal dolore. Portati dal vento.
Sbattuti dal vento.
 
Dopo qualche minuto fuori dal mondo, non so quanti, entrati a casa, l’ho vista buttarsi per terra in ginocchio tenendosi la testa tra le mani. Gridando, urlando una serie di parole che non ho mai capito, bestemmiando. Singhiozzando.
Era fatta; l’avevano frantumata, l’avevano lacerata. La scienza le aveva dato la prova di ciò che lei temeva da sempre. Non era brava a fare niente. Non riusciva a fare niente.
Eccolo il motivo di cui parlavo, ecco perché ‘non era precisa nella danza’.
Mi aveva supplicato di non morire mai, ora la stavo vedendo morire io.
 
Sono seguiti giorni, settimane, in cui ho assistito ad un suo cambiamento radicale.
Morta.
Se prima parlavamo pochissimo, poi un po’ di più e poi era solo amore, adesso, credetemi, non era proprio niente; lei non dormiva, non mangiava quasi mai, non parlava, non rideva, non guardava fuori dalla finestra.
Non faceva niente.
Morta.
Eravamo divisi.
Avevo paura di avvicinarmi troppo, così restavo qualche metro più in là a guardarla mentre se ne stava sdraiata per terra accanto al gattino con gli occhi fissi nel vuoto.
Quegli occhi che non erano più nemmeno i suoi. Sembrava che da quel giorno le avessero mangiato tutta la vita che c’era dentro, sembrava che gliel’avessero succhiata via. Occhi vuoti. Corpo vuoto.
Morta.
‘Buongiorno.’ Le dicevo. E lei annuiva.
‘Mi dispiace.’
E lei annuiva.
‘Ti voglio bene.’
E lei annuiva.
‘Vado a fare il caffè.’
E lei annuiva.
L’unico suono che emetteva era quasi disumano.
 
Ricordo che stava così male che faceva stare male anche me. Non lo sopportavo.
 
Ma comunque me l’avevano detto che, molto probabilmente, a questa malattia se ne sarebbe aggiunta un’altra: la depressione.
‘Stia attento’ avevano detto anche, ‘che la depressione rende cattivi.’.
Ho sorriso; avrei voluto sputargli.
La depressione rende cattivi. Dov’è che l’avevo già sentita?
Film, libri, riviste.
Aggiungerei però un bel ‘con sé stessi’; sì, ‘la depressione rende cattivi con sé stessi’ al massimo. Suona meglio e forse si addice anche di più.
Ma perdio, a tutti i grandi scienziati, medici e psichiatri che hanno partorito questa perla di saggezza io vorrei sputare in faccia che la depressione non rende cattivi.
Al massimo stronzi, menefreghisti, sporchi, ma cattivi proprio no.
La depressione rende depressi, non mi sembra ci voglia un genio per capirlo. La depressione rende morti.
 
Un giorno, dopo un mese di agonia, finalmente si è addormentata.
Era notte, io ero sveglio, sul divano poco lontano da lei a leggere. L’ho guardata e mi sono accorto che dormiva. Piangeva anche nel sonno, piangeva anche quando non lo sapeva, anche quando non era lei a deciderlo.
Con gli occhi lucidi mi è venuto da sorridere.
L’ho presa in braccio e l’ho portata in bagno.
L’ho spogliata e l’ho messa nella vasca piena d’acqua e sapone.
Ha aperto gli occhi e mi ha guardato mentre piano la lavavo, come lei non aveva più voluto fare. Mi prendevo cura di lei come lei non mi aveva mai permesso.
Ha ricominciato a piangere, questa volta piano, in silenzio, coprendosi il volto con le mani.
E finalmente ha parlato: ha sussurrato ‘Grazie.’ con quel poco fiato che aveva e a me, mi dispiace, proprio non m’è venuto da risponderle.
La mattina dopo, quando ci siamo risvegliati io su un lato del mio letto e lei dall’altro, sembrava aver dimenticato la notte prima.
 
 
‘Quindi è per questo che la gente diceva che era una strega; un disturbo psichico che in quegli anni il mondo non era pronto ad accettare?’
‘Forse. Ricordo che tutti i passanti si turbavano dai lamenti e dalle urla che provenivano dal mio appartamento e tutti sapevano che ci viveva lei.’
‘Però ci sono cose che voi, signore, tenete per voi, tenete nascoste; ci sono come dei buchi in questa storia.’
‘Sì.’
‘Ci sono dei buchi nella vostra memoria?’
‘No, ci sono cose che tengo per me. Cose che voglio tenere nascoste.’
‘Ma non credete che sarebbe meglio dirle?’
‘Credo che sarebbe superfluo dal momento che né lei, mi perdoni, né altri le capirebbero.’
‘Ah.’
 
 
Siamo andati avanti così finché non è arrivata la lettera dallo studio medico. Aveva fatto degli esami, ‘Non sono cose che si risolvono in pochi minuti.’ ci aveva detto il dottore ad occhi bassi. Ma una sua idea ce l’aveva, ce l’avevamo tutti, e quella lettera è stata solo la conferma.
‘Sono i risultati.’ Le ho sussurrato spaventato di farle del male.
In ogni parola che dicevo, in ogni gesto che facevo, mi muovevo con cautela; avevo paura di ferirla, di farla stare male. A volte mi veniva da chiedermi se si potesse stare peggio di così.
Mi rispondevo solo che era meglio non rischiare.
Si è seduta a gambe incrociate, si è messa il gatto nero in grembo, ha teso la mano ed io le ho dato quel pezzo di carta.
Secondi che sembravano secoli.
I suoi occhi, sempre più vuoti del giorno prima, scorrevano veloci tra le righe.
Ha sospirato, l’ha piegata, ha accarezzato il gatto.
Mi ha guardato e per pochi attimi ha provato ad abbozzare un sorriso, col il mento che le tremava dalla voglia di piangere.
Volevo avvicinarmi ma mi ha fermato con un gesto della mano.
Sono andato a chiudermi in bagno, l’ho lasciata alla sua solitudine.
 
Qualche minuto dopo ho sentito un urlo disumano, un urlo incomprensibile, un urlo in cui c’erano racchiuse tutte quelle parole che non era riuscita a dire.
Un urlo pieno di odio e di disprezzo, e, purtroppo, sapevo che chi disprezzava in quel momento era sé stessa.
Un urlo in cui potevo sentire bene la morte di un sogno. La fine di qualcosa.
Avrei voluto abbracciarla e dirle che andava tutto bene, che io ero lì, ma sapevo che avrei fatto solo peggio.
Sono rimasto in bagno.
Ho abbassato la testa, ho chiuso gli occhi e ho detto piano: ‘Parkinson.’.

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Capitolo 13
*** mia ***


Mia-

Si è presentata in bagno come una furia; ‘Chiariamoci’ ha iniziato tra un singhiozzo e l’altro, ‘se mi sveglio nel cuore della notte piangendo, non significa che ho bisogno di te. Se mi ritrovi per terra, non significa che ho bisogno di te. Se piango, non significa che ho bisogno di te. Se ti sembro triste, arrabbiata, svuotata, in ogni caso, fidati: non significa che ho bisogno di te. Non ho bisogno di nessuno, non trattarmi come una malata, ok?’
‘Come vuoi.’ Ho balbettato io.
Ha fatto un respiro profondo, a occhi chiusi, col viso contratto, e così com’era entrata è uscita.
Sono seguite notti e giorni in cui non eravamo lontani; di più. La nostra … non lo so, come la vogliamo chiamare, relazione? La nostra ‘relazione’ sembrava un vecchio matrimonio che non si reggeva più in piedi. Ognuno a cercare cose diverse, ognuno a tenersele per sé.
Ognuno a leggere libri diversi, a prendere sigarette della stessa marca ma da pacchetti diversi, a guardare le cose in modo diverso.
Non eravamo noi. La odiavo per questo.
Chi avrei dovuto odiare, scusate? Me stesso? Il medico? La medicina in generale? Le sue cellule malate? Non lo sapevo, quindi odiavo lei.
Quanto tempo fa avevo detto che amavo ogni sua mossa, ogni suo respiro? Poco, pochissimo.
Ora la odio.
 
Odiavo quando mi facevo in quattro per lei e non se accorgeva.
Odiavo quando quasi morivo per lei e non le importava.
Odiavo quando passavo la notte sveglio a guardarla e lei era girata dall’altra parte, facendo finta di dormire.
Odiavo quando non mi parlava.
Odiavo quando mi parlava.
Odiavo quando parlava con il gatto invece che con me.
Odiava quando parlava in generale.
 
Odiavo quando mi sembrava che fosse colpa mia che lei era triste.
Odiavo quando non sapevo cosa fare.
 
Odiavo quando fumava.
Odiavo quando piangeva.
Odiavo quando singhiozzava.
Odiavo quando urlava.
 
Odiavo quando mi diceva ‘Non ho bisogno di te.’.
 
Avrei solo voluto che non si fosse mai fatta trovare su quella finestra. Avrei solo voluto che la mia vita non fosse cambiata.
Avrei voluto tenermi il mio lavoro, il mio appartamento solo per me, i miei libri, il mio silenzio, i miei polmoni sani, il mio cuore sano anche magari.
Davvero, ora sarà lei, signore, a detestare me, ma odiavo, di nuovo, questa situazione; non respiravo, mi mancava l’aria. Mi mancava lei.
Avevo bisogno di aprire la finestra, magari la stessa su cui ci siamo conosciuti. Volevo l’aria.
Volevo una ventata d’aria fresca, volevo che le cose cambiassero.
‘Che faccio? Glielo dico o non glielo dico?’ Mi chiedevo ogni minuto di ogni ora di ogni giorno della settimana. Glielo dico; dorme, che peccato. Glielo dirò la prossima volta.
Non gliel’ho detto.
Però, credetemi, da una parte avrei tanto voluto, solo che non ce n’è stato bisogno: l’occasione possiamo dire che si è presentata da sé.
L’occasione aveva anche un nome, i suoi bei palazzi, i suoi fiori profumati e il suo romanticismo; Parigi.
Due settimane, un viaggio di lavoro.
‘Lavoro’ avevo ridacchiato guardando la lettera d’invito; e chi ci va più a lavoro? Adesso è questa donna la mia unica preoccupazione. Dalla mattina alla sera. Sempre.
 
‘Devo andare a Parigi per due settimane per lavoro. Vieni? È una città bellissima, sarebbe un’opportunità da non perdere!’ Mi sono auto- invitato. Facevo le prove come se dovessi chiederle di sposarmi.
Avevo davvero paura di spingermi troppo oltre, di ferirla, di dirle qualcosa che non avrei dovuto dire.
Speravo davvero che un viaggio potesse farle bene, un viaggio fa bene a tutti.
E comunque così non va bene; sembro uno spot pubblicitario.
Le ho provate tutte:
‘Mi hanno chiesto di andare a Parigi per due settimane, per lavoro; ti va di venire come me?’ Mi sono invitato di nuovo. Non mi piace nemmeno questa.
‘Le persone che tornano da un viaggio non sono mai le stesse che erano quando sono partite.’
‘Devo andarci per lavoro, ma mi hanno detto che è una città bellissima! Mi farebbe piacere se venissi.’
‘Dai, perché non vieni?’
‘Accompagnami, ti prego.’ Supplicavo alla fine.
Mi premevo la lettera sulle tempie disperato. Stavo per prendere a testate il muro, giuro.
‘Mi farebbe piacere.’ Ha sussurrato cogliendomi di sorpresa.
 
Se ne stava in piedi, immobile a braccia incrociate, sulla porta a fissarmi.
Aveva un’aria stranamente divertita. Era divertita? Lei era divertita? Quasi non me la ricordavo nemmeno, la sua espressione divertita.
Aveva la pelle del viso quasi grigia, gli occhi scuri e socchiusi.
Il dito che tremava forte.
Avrei voluto chiederle come stava, magari mi avrebbe finalmente risposto, ma ero troppo egoista in quel momento.
Ho sorriso. Stavo per piangere.
‘Davvero?!’
Ha annuito freneticamente mordendosi il labbro inferiore.
‘Possiamo andare quando vogliamo dalla settimana prossima in poi, basta che glielo faccio sapere.’ Ho detto avvicinandomi veloce.
‘Possiamo anche partire subito.’ Sempre più vicino.
L’ho abbracciata, l’ho abbracciata forte.
L’ho respirata.
Dio, quanto mi era mancata.
 
La mattina dopo era nel mio letto a supplicarmi di partire.
Aveva gli occhi un po’ meno piccoli, la pelle un po’ meno grigia.
Era bella.
Profumava di nuovo di noi. Avevamo dormito abbracciati, solo abbracciati; tutto l’amore del mondo in quell’unico, minuscolo, apparentemente insignificante, abbraccio.
Le baciavo il dito ogni volta che lei provava a muoverlo, lo odiavo quel dito.
‘Sei sicura di voler partire?’ Le ho chiesto accarezzandole i capelli.
‘Ti prego, partiamo e basta.’
Ho riso, mi faceva ridere.
Lei canticchiava.
 
You say you wanna make me smile and see my wild side;
if we don't leave town now
we're never gonna get out of here alive
*
 
Accidenti.
No, non era vero che la odiavo, non la odiavo per niente. Ero innamorato, sempre più innamorato.
‘Caffè, doccia e valigia?’
‘Caffè, doccia e valigia.’ Ha sorriso.
 
‘Sai’ ha detto mentre sorseggiava il caffè bollente seduta sul letto ‘sono contenta che ti abbiano chiesto di andare lì per lavoro. Avevo paura che per colpa mia non lavorassi più.’
 Ho deglutito.
‘Ma mi fa piacere se ti hanno chiesto di andare lì per lavoro.’ Ha concluso.
‘Un vecchio amico dell’università. Vuole che veda alcuni edifici per aiutarlo a progettarne di simili.’ Ho spiegato.
Ha sorriso.
‘Cosa sono tutti questi sorrisi?’
Ha alzato le spalle.
‘Non vedi l’ora di andartene via di qua, èh?’ Ho scherzato.
‘No.’ Mi ha quasi gridato.
‘Lo … lo so. Io, io scherzavo.’
‘Non sono mai stata a Parigi.’
Abbiamo abbassato gli occhi tutti e due. Per favore, no. Non potevo aver rovinato tutto proprio ora.
‘Il gatto lo portiamo?’ Ha chiesto.
‘Veramente non so se si possono portare i gatti in treno. Comunque il gatto è un animale indipendente, possiamo lasciargli il cibo e lui se lo saprà dividere per le due settimane che staremo via.’
‘Ma potrebbe sentirsi solo.’ Ha detto con voce triste.
‘Vedremo di portarlo allora.’
Un sorriso a trentadue denti.
‘Basta con gli sbalzi d’umore. Chiamo il mio amico e poi prepariamo le cose, ok?’
Ha annuito.
 
Mentre finivo di chiudere le poche cose che mi sarei portato in una valigia pensavo a cosa sarebbe potuto succedere in quelle due settimane. Forse era stato un errore. Forse non avrei dovuto accettare.
Forse, peggio ancora, lei non dovrebbe venire.
Tutte le stronzate sul ‘chi torna da un viaggio non è mai come era quando è partito’ mi sembravano proprio stronzate.
Potevo farle male.
Era una cosina così piccola, una cosina così minuscola, ed io potevo ferirla con una sola parola, una sola virgola.
 
 
‘Perché state sorridendo?’
‘Ricordi.’
‘Avete gli occhi lucidi; non avevate mai sorriso così prima.’
‘Stavo ripensando a quella notte. Quella prima della partenza.’
‘Cos’è successo quella notte?’
 
 
Dopo tutte le volte che mi aveva chiesto di lasciarla sola, tutte le volte che mi ha aveva urlato contro che non aveva bisogno di me, quella notte l’ho trovata raggomitolata sul letto a piangere con le coperte tirate sopra fronte.
Piangeva in silenzio.
‘No … Hei, che hai?’ Ho chiesto cercandola nel buio.
‘Scusa … non volevo svegliarti. Non ho niente.’
‘Non è vero.’ L’ho abbracciata.
Volevo calmarla e invece ha solo iniziato a piangere più forte. L’ho detto, era così piccola tra le mie braccia. Bastava un mio respiro a ferirla.
Quella notte si è lasciata andare. Quella notte era mia.
 
 
‘Ma lei era già vostra, signore.’
‘Gliel’avevo detto che non avrebbe capito. Mia. Era mia come nulla lo era mai stato. Aveva preso coraggio e aveva pianto. Ci vuole coraggio per piangere, lo sa? Non è una cosa che sanno fare tutti.’
‘Sì.’
‘Non mi crede? Lei non mi sta né simpatico né antipatico; mi è assolutamente indifferente. Ma spero che un giorno trovi qualcuno che riesca ad essere suo come lei è stata mia quella notte perché, mi creda, tutto il sesso, tutta la passione, anche tutto l’amore se vogliamo, del mondo, non saranno mai comparabili a quello che vorrei, ma non riesco, a descriverle. È una cosa che bisogna provare, non si può raccontare o scrivere su un giornale.’
 
*Paris, di Lana Del Rey

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Capitolo 14
*** bel air ***


Bel air-

Il nostro primo risveglio a Parigi è stato brutto.
Ecco, lo sapevo, ho pensato, ho sbagliato a portarla qui.
Ho sbadigliato e lei era seduta ai piedi del letto, a fumare nella penombra, chiusa in una coperta di lana. Non mi aveva svegliato, non mi aveva chiamato, niente. Voleva di nuovo stare da sola. Non mi voleva.
Non aveva bisogno di me.
 
 
‘Questa storia è tutta sbalzi d’umore, èh?’
‘Sì, signore. Ma stavate dicendo di Parigi …’
 
 
Eravamo arrivati di sera, troppo stanchi dal viaggio per guardarci intorno, troppo stanchi anche solo per guardarci in faccia.
Il mio amico ci aveva prenotato un appartamentino, ci aveva dato l’indirizzo, e siamo andati subito lì. Non l’abbiamo neanche visto, l’appartamento; siamo crollati sul letto.
La mattina dopo mi ha svegliato l’odore delle sue sigarette.
Il gatto comunque non ce l’eravamo più portato; non tanto per il treno, ‘Magari soffre il mal di mare.’ aveva suggerito lei preoccupata per il viaggio in nave. Io avevo alzato semplicemente le spalle come a dire ‘Come vuoi tu.’ perché tanto di quell’animale me ne importava poco o niente.
E alla fine è rimasto a casa con il suoi cibo che spero si sappia dividere per le due settimane.
Meglio così. Magari adesso dedicherà un po’ più d’attenzioni a me che a quel felino.
Che poi mi ritrovavo sempre a pensare quanto male bisognasse stare per essere gelosi di un gatto.
In ogni caso, vane speranze; per i primi tre giorni almeno non ha aperto bocca. Non mi ha parlato. C’eravamo solo io e lei e non ha detto niente a nessuno. Si è tenuta tutto per sé, come d’altronde era abituata a fare.
Niente di nuovo.
L’ho portata in giro per Parigi, ci siamo svegliati la mattina guardando la Tour Eiffel fuori dalla finestra, ci siamo innamorati di ogni minimo dettaglio di quella città e lei niente.
Lei aveva gli occhi lucidi e stava zitta.
E niente.
Avevo paura che sarebbe stato così per tutto il viaggio. Avevo paura che sarebbe stato così per tutta la nostra vita.
 
‘Esco.’ Le ho detto una mattina.
Ha annuito.
No dico, ti ho portata in un altro stato solo per stare insieme e ti sto dicendo che me ne vado e ti lascio qui; potresti dire qualcosa. Potresti fare qualcosa invece che annuire semplicemente.
È ricominciato il voto di silenzio e me lo sono perso?
Dio, non di nuovo.
‘Vuoi venire con me?’
Ha scosso la testa. Interessante reazione.
‘Rimani qui da sola?’
Ha annuito.
‘Starò via un po’ di tempo.’ Ho concluso irritato.
Ho preso la mia roba, sbattuto la porta e mi sono acceso una sigaretta. Di nascosto, fuori, lontano da lei; non volevo mi vedesse. Non volevo sapesse che ero debole. Volevo pensasse che fossi io quello forte, che fossi io quello su cui poteva contare. Grande cazzata.
Io non riuscivo a starle dietro.
La stavo perdendo.
Non riuscivo a starle dietro.
 
Non riuscivo a starle dietro.
 
Non era facile vivere con lei, guardarla affondare, osservarla mentre si distruggeva.
Ma era bello. Sì perché sapete, non tutto quello che è bello è necessariamente facile. Io mi ci impegnavo con lei. Ci morivo per lei.
No guardate, proprio non mi va di parlare di quei primi giorni a Parigi. Giuro, li voglio dimenticare.
Li ho odiati.
Non c’è stato momento passato con lei che mi abbia fatto più male, che mi abbia mai trafitto di più.
Eppure lei non stava peggio del solito, lei stava come al solito; ma io avevo fallito. L’avevo ferita portandola lontano da casa e lei mi aveva travolto con il suo dolore.
Ma come si fa a dire ad una donna così che la stai perdendo?
Non puoi dirglielo. Non puoi presentarti lì e dire ‘Ti sto perdendo’. Punto. Accidenti.
Magari anche lei adesso starà pensando che mi sta perdendo. Magari anche lei adesso non ha idea del perché.
Accidenti.
Comunque non mi va proprio di parlarvene, di quei primi giorni a Parigi; vi basti sapere che credo siano stati i nostri giorni peggiori.
 
 
‘… Non volete dire altro?’
‘No, e non faccia quella faccia sconvolta. Non voglio dire altro. Si faccia gli affari suoi.’
‘Veramente siamo qua perché voi raccontiate della vostra vita con quella donna.’
‘Veramente siamo qua perché lei è venuto a chiedermi di raccontarle la mia vita con quella donna. Lei fa le domande, io rispondo. Se mi va. Se non mi va lei sta zitto, scrive e passa alla prossima domanda. Fine. Dubbi?’
‘No, signore.’
‘Guardi, io davvero non so che cosa dirle. Quella donna era pazza, folle. E la cosa peggiore, o migliore, era che non voleva guarire. Si dice guarire? Non credo.’
‘Sì, si dice così.’
‘E invece no. Non era malata, l’aveva detto lei stessa, che non voleva essere trattata da malata, questo glielo avevo detto, se lo ricorda, no? La pazzia non è una malattia.’
‘Veramente credo che lo sia.’
‘Si levi quell’espressione divertita dalla faccia, lo credevo anch’io prima di conoscerla, prima di avere quella conversazione a Parigi, quando ha finalmente ricominciato a parlare. Lo credevo anch’io, che la pazzia fosse una malattia da cui si deve guarire, lo sa? E invece no. Lei era superiore a me. A lei non importava essere sana secondo i canoni imposti dalla società; a lei importava essere felice e se felice significava essere pazza era pronta ad esserlo. Era pronta a tutto. Non era debole.’
 
 
Era pronta a tutto.
 
Ero tornato nell’appartamento senza neanche guardarla, dopo aver passato tutta la mattinata a girare da solo per quella che tutti definiscono la città più romantica del mondo.
Mi sono buttato sulla poltrona in salotto, al buio, di nuovo da solo. Sempre da solo.
Poi è arrivata lei e all’improvviso non mi è sembrato più tutto così buio.
 
Aveva un grosso maglione colorato, giallo, vivo. Le stava grande sulle spalle e le copriva le cosce.
Aveva i capelli sciolti. Vivi.
Fumava, fumava sempre. Si portava la sigaretta alla bocca con lentezza, quasi le stancasse quel movimento. Aveva le dita sottili, più sottili del solito. Lo smalto nero.
Un dito tremava, come sempre.
Non so perché in quel momento, ma avevo notato tutti quei dettagli, quei minuscoli, apparentemente insignificanti, dettagli che rendevano così minuscola anche lei.
‘Mi sei mancato oggi.’
Ha detto proprio così. Non aveva voluto dire niente per giorni e poi aveva detto che le ero mancato.
Menomale che ti sono mancato; sono l’unica persona che conosci. Sono il tuo unico amico, il tuo amante. Anche tu mi sei mancata. Tu mi manchi sempre ultimamente. Non fai altro che mancarmi.
Mi manchi sempre.
Che ti succede? Perché non mi parli? Perché ti sei allontanata? Perché?
Mi manchi.
‘Anche te.’ Le ho risposto.
Ha sorriso; un sorriso sincero.
‘Che hai fatto?’
‘Girovagato per Parigi. Te?’
Ha alzato le spalle. Non me lo vuole dire. Sarà uno dei famosi silenzi non-sono-fatti-tuoi.
 
E invece no.
 
La mattina dopo siamo rimasti nel letto, abbracciati sotto le coperte come due amanti spaventati che qualcuno li potesse vedere.
La mattina dopo eravamo felici.
Lei aveva una lacrima profonda che le attraversava la guancia e gli occhi chiusi, ma qualcosa mi faceva pensare che forse per un attimo ero riuscito a renderla felice.
‘Credo di essere diventata pazza.’ Ha detto.
Ha rotto il silenzio.
Le ho accarezzato il capelli e ho risposto, ridendo: ‘Credo di no.’
Lei ha aperto gli occhi e mi ha guardato seria.
‘Non scherzo. E non lo dico nemmeno come se fosse una cosa brutta, non so se capisci.’
Ho annuito, in realtà non avevo capito niente.
‘A me starebbe bene, lo sai? A me basterebbe essere felice, sì. Felice. Mi andrebbe bene vedere le cose in maniera diversa da come la vedono gli altri, pensarla diversamente, essere diversa; il giusto prezzo da pagare per essere felice.’
‘Essere diverso è diverso dall’essere pazzo, lo sai, sì?’
‘Non hai capito. C’è una libreria qui sotto, è lì che sono stata tutto ieri. Su un libro c’era scritto qualcosa sul perdere il contatto con la realtà e scivolare nella pazzia, nella follia. La definivano una malattia.’ Ha pronunciato l’ultima parola come uno sputo, come se le facesse schifo.
‘Credo che sia una malattia.’
‘Non sono malata!’ Ha urlato.
‘Lo so.’ Ho balbettato.
‘Ma forse sono pazza, e allora? Che male c’è? Sin da piccola ho sempre vissuto in un mondo immaginario, un mondo mio, un mondo in cui l’unico a cui ho permesso di entrare sei stato tu. Non mi piaceva la realtà, così la cambiavo. Lo facevo anche da ragazza, lo faccio ancora. Non esco mai. Il mondo fuori è reale, lo spazio che mi costruisco io no. E poi pensa al fatto che ballavo; vivevo una realtà diversa con ogni spettacolo che mettevamo in scena, un personaggio, un’epoca, un luogo, una storia diversa. E soprattutto solo quando ero qualcun altro io riuscivo ad essere veramente me stessa.’
Aveva gli occhi lucidi.
‘Anche ora sei te stessa, e non stai interpretando nessun ruolo.’ Le ho sorriso baciandole la fronte.
‘Sì invece. Sto facendo la pazza.’
Colpito e affondato.
Puff.
‘Quand’è che non reciti allora?’
‘Mai.’ Ha risposto ad occhi bassi.
Io ho riso.
‘Non so chi sono, non ci riesco a non recitare; devo essere per forza qualcuno.’ Ha aggiunto lentamente, mentre torturava il lenzuolo con la mano e le tremava il dito per l’agitazione.
Non sapevo che cosa dirle. Io pensavo che scherzasse; ti pare che non sai chi sei? Lei non lo sapeva.
Lei era stata così tante persone che si era persa.
E poi ora aveva scoperto che, a causa delle sue cellule malate, non sarebbe potuta essere più nessun personaggio. Non sarebbe potuta essere più nessuno. Non sarebbe potuta essere più niente.
In quel momento ho capito davvero cosa significasse il termine ‘folle’, e no, non era una malattia da cui bisognava guarire. Aveva ragione lei: la tristezza era l’unica malattia da cui bisognava guarire.
Per me poteva vivere nell’universo parallelo che più le piaceva, poteva essere diversa quanto voleva, andare contro tutti, pensarla diversamente da tutti, perché sì, aveva ragione lei: effettivamente era il giusto prezzo da pagare per essere felici.
 
 ‘Sai chi voglio interpretare oggi?’ Ha sorriso asciugandosi le lacrime.
‘Chi?’
‘La donna che va a spasso con il suo uomo per Parigi.’
Le ho sorriso anch’io.
Ci siamo alzati e vestiti in silenzio, un silenzio che urlava più di mille parole, e siamo usciti.
 
Faceva freddo fuori, ma c’era il sole.
Lo racconto col sorriso sulle labbra, come se lo stessi rivivendo, come se quel sole potesse ancora spazzare via tutto il freddo, tutta la tristezza del mondo.
Abbiamo fatto colazione in un bar vicino alla libreria in cui aveva passato le giornate da sola; continuava a parlare di quel luogo, di quei libri. Sembravano l’unica cosa che la tirassero veramente su. Sorrideva.
Siamo andati a comprare le sigarette e abbiamo passeggiato per quella che tutti definiscono la città più romantica del mondo insieme.
Insieme.
Abbiamo anche comprato un vestito, così avrebbe smesso di rubare i miei maglioni. Però mi piaceva, quando me li restituiva, ancora impregnati del suo odore, e io me li mettevo subito per sentirmela vicina, per sentirmela addosso.
Ma le serviva un vestito, diceva.
Penso le ricordasse i balletti; così elegante, così femminile, così vivo.
Mi sono girato un attimo a guardare un uomo che suonava l’armonica per strada e lei si era allontanata; era davanti alla vetrina di un negozio, a fissare quel vestito con gli occhi lucidi.
‘E’ bellissimo.’ Ha sussurrato.
Il tempo di battere le ciglia e sembrava essersi dimenticata di me, di Parigi, del resto del mondo, del suo dolore; si è fiondata dentro come un bambino eccitato all’entrata del parco divertimenti, lasciandomi lì, quasi fregandosene del fatto che ci fossi.
Qualche minuto dopo era incartata nell’abito più bello che io avessi mai visto, con gli occhi lucidi, i capelli tirati su e un sorriso, quasi si fosse commossa nel guardarsi allo specchio.
Il dito, dice? No, il dito in quel momento non le tremava.
E allora niente, abbiamo proprio dovuto comprarlo.
 
Non che quel vestito le sia servito poi a molto, chiariamoci.
L’ha indossato quella sera stessa, al tramonto, davanti alla Tour Eiffel, sul balconcino dell’appartamento, solo per leggere un libro.
Io me ne stavo poco distante ad osservarla come se ancora non la conoscessi, come se ancora non l’avessi capita; era folle, sì. Mi piaceva per questo. Mi piaceva guardarla mentre se stava a leggere avvolta dalla luca rosea di Parigi. Mi piaceva sempre.

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Capitolo 15
*** nuit ***


Nuit-

Notte.
Quante cosa hanno detto riguardo alla notte. Che appartiene agli amanti, che fa paura, che è buia, che tace. Ma perché devono? Perché hanno dovuto? Dico io, non era molto meglio se ne stavano zitti per i fatti loro? Si sente il bisogno di scrivere su tutto, di esprimere la propria idea, come se le idee degli altri fossero tutte sbagliate. È giusta solo la vostra, conta solo la vostra.
Ah, ma la mia preferita è che la notte si alterna al dì e che la notte è un periodo del giorno in cui gli esseri umani riposano; tanto valeva dire che è uno spreco di tempo. Io non lo conosco un essere umano che riposa, mai conosciuto.
E anche io, con lei, alla notte non riposavo.
La guardavo, osservavo, ammiravo.
 
La guardavo.
 
E mentre la guardavo e fantasticavo su come sarebbero stati i nostri giorni, le nostre notti, insieme, sentivo una fitta allo stomaco.
Sentivo l’aria riempirsi piano del suo odore ed entrarmi violentemente nei polmoni. La sentivo dentro di me anche quando non la volevo.
Mi si stringeva il cuore a guardarla, mi veniva la voglia di ridere, urlare, vivere. Amare.
E sentivo che più tempo passavo con quella donna, più le somigliavo.
Quella notte, per esempio. Io, fosse stato qualche mese fa, avrei dormito nel mio pallido letto, avvolto dal mio pallido pigiama, soffocato dalla mia pallida vita in una pallida Londra. E invece quella notte no; me ne stavo lì come un idiota a guardarla.
A guardare il suo viso quasi contratto, come se dormire le venisse difficile, e i suoi pugni chiusi.
Fermo al buio a fumare l’ennesima sigaretta e a bere l’ennesimo caffè, più che consapevole del fatto che mi avrebbe tenuto sveglio, ma era quello che volevo.
Volevo che quella notte non finisse mai.
 
Londra.
Dopo due settimane, finalmente Londra.
Con il suo profumo di bagnato, la sua nebbia che t’avvolge come una coperta calda, la sua architettura sospesa a metà tra passato e futuro, che è l’unica cosa che ti permette di capire che sei tu il presente in quella città. Che sei tu il presente nel tuo mondo, nella tua vita.
Cosa ci era rimasto alla fine di Parigi?
Un vestito, tante lacrime, qualche vecchio e polveroso libro di psicologia e una manciata di ricordi. Nient’altro. Tutto qui.
 
Aperta la porta del mio appartamento, mentre lei si coccolava il gatto ripetendogli quanto ci fosse mancato, quanto fosse cresciuto e quanto il suo pelo fosse diventato più nero e lucido, mi è venuto da chiedermi se ne era valsa la pena.
Mi è venuto da sorridere quando mi sono risposto che no, non ne era valsa la pena probabilmente.
Ma poi lei ha lasciato il gatto, l’ha messo giù, tranquillamente, come se non le fosse mancato affatto, ed è venuta da me per poggiarmi la fronte sulla spalla, tenendomi la mano.
Ho pensato ‘Perché uscire dall’Inghilterra, da Londra, da questo appartamento, se abbiamo tutto quello che ci serve qua?’.
E sapevo che lei stava pensando la stessa cosa, mentre lasciava ondeggiare il suo corpo senza lasciarmi andare la mano.
 
E infatti non uscimmo più.
 
Ci rintanammo lì dentro come avevamo sempre fatto, come abbiamo sempre fatto.
E ci siamo accorti che effettivamente il mondo ci piaceva molto di più guardato da una finestra piuttosto che vissuto in mezzo alla strada, con gli altri. E ci siamo anche resi conto, entrambi, che non ci serviva la ‘vita sociale’; eravamo noi la nostra ‘vita sociale’.
Sì, perché gli altri non ci piacevano, lei d’altra parte me l’aveva sempre detto che non le piaceva molto la gente, mi sentivo fortunato.
L’uno bastava all’altra.
 
 
‘Non capisco.’
‘Non mi aspetto che lei capisca.’
‘Le persone devono avere una vita sociale, devono uscire, non gli basta guardare il mondo da una finestra. Non capisco. Non capisco come si possa vivere chiusi in una casa, come si possa stare sempre con una sola persona, sempre la stessa. Non capisco come si faccia a non averne abbastanza.’
‘Non ne avevo mai abbastanza.’
‘Non capisco.’
‘Vede, a volte le cose non devono essere necessariamente come è consuetudine che siano. A volte le persone non si comportano come si pensa che dovrebbero, non per dispetto, non per ripicca, solo per il piacere di stare bene. Pensi ad un uccello, per esempio: quale è la prima cosa che dovrebbe saper fare un uccello? La cosa che pensiamo che gli dia più piacere in assoluto?’
‘Volare, credo.’
‘Volare. Ed ora pensi ad un uccellino nato senza una delle sue belle ali; cosa dovrebbe fare? Volare non se ne parla, non ci riuscirebbe mai, e allora magari, non so, decide di vivere fermo a terra, oppure decide di camminare più svelto degli altri. Prima o poi, l’uccellino – sempre che sopravviva, visto che nessuno sembra darsi pena di dirti come si fa a sopravvivere se si è diversi - si dovrà fare una ragione del fatto che non è come gli altri, e allora avrà due possibilità: raggirare l’ostacolo o arrendersi.’
‘State parlando ancora degli uccelli?’
‘Non lo so, ma che motivo avrebbe che l’uccellino torturarsi per provare ad appartenere ad un mondo che ha ormai scoperto non essere suo? Che motivo avremmo avuto noi?’
‘E voi come fate a sapere che quell’uccello è felice a guardare gli altri volare mentre lui rimane a terra e corre. Gli uccelli non corrono. Per non parlare poi delle difficoltà che avrebbe per procurarsi il cibo. È un discorso che non ha senso; in natura non avrebbe proprio senso. Cosa pensate di saperne, voi, che l’uccello è felice così?’
‘Se non lo fosse gli resterebbe sempre la seconda opzione.’
‘Gli uccelli non ragionano.’
‘Tutti ragionano. E non è stata una scelta dettata semplicemente dal caso quella di rimanere confinati nelle nostre quattro mura, è stata una scelta nostra, inizialmente inconscia, ma nostra. Nostra perché tenevamo al nostro bene, perché tenevamo all’altro.
Gliel’ho detto, non mi aspetto che lei capisca.’
 
 
E nello starcene lì rinchiusi nel nostro odore, sembrava che la vita fosse tornata a scorrere nelle sue vene; rideva poco, ma più di prima, soprattutto sorrideva, e la cosa mi faceva impazzire, e ogni tanto ballava. Ogni tanto, convinta che io dormissi, si intrufolava in una stanza libera in piena notte e ballava.
Così, liberamente. Senza accendere le luci, senza scarpe, a volte senza vestiti. Ad occhi chiusi, a volte con le lacrime pesanti che le attraversavano tutte le guance. Senza musica, senza fare rumore, senza toccare nemmeno un oggetto.
Non sapevo di preciso quando avesse iniziato, una notte mi sono svegliato e non c’era. Era in salone, non mi sarei nemmeno accorto della sua presenza se non mi fosse volteggiata in avanti come un fantasma. Non si era accorta di me, e i suoi occhi sigillati, quasi doloranti, mi avevano messo una certa paura addosso, ma da quella notte ho iniziato ad aspettare che lei si addormentasse per addormentarmi anch’io, così che se fosse andata a ballare avrei potuto rivederla.
Forse era il buio, forse la sonnolenza o semplicemente il fatto che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovarle difetti, ma a me lei non sembrava proprio ‘poco precisa’.

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Capitolo 16
*** sopportare ***


Sopportare-

Sembrava che andasse tutto bene, in quel periodo, ma tanto con lei era così; un giorno andava tutto bene, il giorno dopo tutto male, quello dopo ancora sembrava una bambina il giorno di Natale e poi, tempo due ore, era di nuovo a pezzi. A volte cambiava umore persino nel sonno. Ci provava a spiegarmi che cosa avesse, lo giuro, poveretta, lei ci provava sempre, e non so se fossi io troppo stupido o lei poco chiara, ma non ci capivamo.
Scoppiava in lacrime mentre aspettava che si facesse il caffè;
Rideva di gioia ogni volta che il gatto si muoveva;
Si addormentava nella vasca da bagno, sul divano, per terra, con le coperte, senza coperte; si addormentava ovunque.
Entravo in camera e la trovavo a fumare, interrotta dai singhiozzi, e a ripetersi ‘Per favore, basta’, quasi implorando al suo corpo, alle sue cellule, alla sua mente o a qualsiasi cosa fosse rimasta di lei, di smettere di torturarla.
Era distrutta.
 
Sapevo che c’era il dolore, un dolore enorme, un dolore che l’accompagnava sempre, che non la lasciava in pace neanche il tempo di sciacquarsi la faccia. Un dolore che la stava mangiando, divorando.
 
‘Mi perseguita.’ Mi ha sussurrato piano una notte, con la voce bassa, come per non farsi sentire, ma ferma.
‘Chi?’
‘Non lo so! Qualcosa!’ Ha urlato scoppiando in lacrime.
Quando piangeva così non voleva essere toccata, lo sapevo bene. Voleva tenerselo per sé, quel suo dolore. Mi uccideva vederla lì, poco distante da me, con le unghie che graffiavano la carne e gli occhi rossi fissi nel vuoto, e sapere che qualsiasi cosa mi venisse in mente di fare, poteva solo farla stare peggio.
Prima di quei giorni non sapevo che un uomo potesse soffrire a tal punto.
 
Un venerdì pomeriggio, lo ricordo come se fosse ieri, è arrivata una lettera: era stata strutturata per un’audizione.
La volevano; volevano lei.
L’abbiamo aperta insieme, letta insieme, i nostri occhi si sono mossi velocemente tra quelle righe e poi lei ha sussurrato ridendo: ‘Vogliono me.’
Aveva un’aria così persa, così vaga, come se fosse sorpresa che qualcuno le avesse chiesto di ballare. Le leggevo in faccia il terrore. Avrei voluto dirle che sì, che certo che qualcuno la vuole vedere ballare, che è brava, che è perfetta. Avrei voluto dirle che non ero del tutto sorpreso, che bisognava festeggiare. Avrei voluto dirle che aveva una seconda possibilità, che era la cosa più bella del mondo.
Ma lei ha iniziato a ridere, una risata cattiva, una risata che non avevo mai sentito.
Ha tirato fuori l’accendino, si è accesa una sigaretta e ha cominciato piano a dare fuoco alla lettera.
Guardava le fiamme bruciare la carta e le scintille le si riflettevano negli occhi.
Mi faceva paura.
 
‘Non la voglio fare.’ Continuava a ripetermi quella notte, dopo aver singhiozzato tutto il pomeriggio perché no, lei l’audizione proprio non la voleva fare ed io il motivo non potevo capirlo.
Io me ne stavo lì e pensavo che la detestavo in quel momento, mentre mi costringeva a convincerla a fare una cosa che non sapevo se le avrebbe fatto bene o meno. E poi mi dava fastidio, mi faceva salire come una certa rabbia, come una gelosia, il fatto che ora, ora che era mia, qualcun altro la voleva.
‘È inutile che ti spiego il perché; non la faccio e basta.’
‘Non voglio convincerti, né tantomeno costringerti.’
‘Davvero?’  
‘Non lo so veramente.’
Ha fatto un respiro profondo e si è preparata a dirmi perché, dopo tutto quello che era successo, ora non voleva più ballare: se le avessero detto di no, o anche solo se avesse sbagliato un passo o mosso un muscolo quando non avrebbe dovuto, sarebbe stata per lei una delusione troppo grande da sopportare.
E non solo per lei, ma anche per chi la guardava, diceva. ‘Cosa penseranno?’ ‘Mi vergognerei da morire.’
Proprio non ci riusciva ad accettare il fatto che potesse sbagliare.
Non era proprio orgoglio il suo, era più paura. Una paura folle di non essere abbastanza.
Questa è stata l’unica cosa che ho capito, tra una lacrima e l’altra, ma sentivo che non potevo biasimarla; chi non ha paura?
 
‘Ma se non provi sarà come aver fallito in partenza.’
‘Ma almeno non lo saprà nessuno!’
 
Non voleva sentire ragioni, diceva che non ce la faceva, e ho lasciato perdere.  L’ho cullata, l’ho tranquillizzata, le ho dato piano un bacio e ci siamo addormentati lì, sul divano, come facevamo sempre. Mi ha sussurrato che mi voleva bene come non aveva mai voluto bene a nessun altro.
Prima di chiudere gli occhi l’ho stretta forte a me e ho pensato di essere davvero l’uomo più fortunato del mondo.
La mattina dopo mi sono svegliato con i suoi capelli che mi facevano il solletico sul collo. Ero felice; lei invece non si più svegliata.

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Capitolo 17
*** ce monstre disloqué fut jadis une femme ***


Ce monstre disloqué fut jadis une femme-

‘Non si è più svegliata?’
‘Non si è più svegliata.’
‘Era morta? Era morta così, senza un motivo, senza una parola?’
‘Era morta come si muore; nulla di più, nulla di meno delle altre persone.’
 
 
L’ho guardata a lungo quella mattina. Pensavo dormisse.
Non sentivo battere veloce il suo cuore e ho pensato che si fosse finalmente calmata. Non l’ho mai saputo se si fosse calmata.
Non ricordo quando ho capito che non si sarebbe più svegliata, ricordo solo che non riuscivo a farmene una ragione; la guardavo come l’avevo guardata per tanto tempo, e lentamente ogni segno del dolore spariva dal suo volto. Le occhiaie svanivano, le labbra si rilassavano, gli zigomi non erano più così scuri e segnati, le guance riprendevano colorito. Non è strano? I cadaveri diventano bianchi, lei no. Lei si colorava, si colorava per tutte le volte che il colore le era stato tolto dal viso, si colorava di vita nel primo istante in cui la vita l’aveva abbandonata. Contro corrente anche da morta.
Non riuscivo a non guardarla. Era un cadavere.
Lei, la donna che mi aveva dato così tanto in così poco tempo, che mi aveva preso e portato dove nessuno era mai arrivato, era morta. Mi ripetevo la parola ‘morta’ nella testa;
morta, morta, morta, morta.
L’ho guardata anche fissando la mia immagine nello specchio; all’improvviso le sue occhiaie, le sue lacrime, le sue palpebre sigillate erano diventate le mie, la sua tristezza che l’aveva accompagnata fino alla morte era entrata dentro di me. E diventavo un cadavere.
Mi sentivo solo, abbandonato; prima del dolore è arrivata la rabbia.
-Perché mi hai lasciato? Come hai potuto? Come hai potuto fare questo a me? A me?!
Hai preso e te ne sei andata.
Ci hai pensato a me? Ci hai pensato al male che mi avresti fatto, al vuoto che mi avresti lasciato dentro?! Sei stata un’egoista. Cosa dovrei fare io adesso? Cosa mi rimane di te, di noi?
Sei stata un’egoista.-
 
Mi aveva lasciato nella disperazione; se n’era andata.
Ma dico io, si può prendere e sparire così? Sentivo il dolore che mi mangiava le viscere, la vita che mi abbandonava insieme a lei. Mi chiedevo se fosse questo il dolore di un cuore spezzato, ma a me faceva male tutto, non solo il cuore; le mie mani tremavano, i miei occhi bruciavano, la mia testa scoppiava. Non riuscivo a muovere un muscolo, non riuscivo a staccare gli occhi da lei, non riuscivo a fare un passo. Se mi chiedeste cosa provavo, non saprei rispondere. Direi che ho sentito tutti gli organi sparpagliarsi nel mio corpo, unirsi per poi staccarsi, allontanarsi il più possibile e premere sulla mia carne per il desiderio di uscire, di mettere più spazio possibile tra gli uni e gli altri. Direi che ho sentito il battito del mio cuore che mi martellava il cervello, tanto da sperare di essere io quello morto. Direi che ci sono stati dei minuti in cui non ho avuto il coraggio di provare niente. Direi che ho avuto un’enorme paura.
Paura di restare solo.
Paura di dimenticare.
Paura che di lei non mi rimanesse niente.
Ho iniziato a urlare, a gesticolare, a svuotare i cassetti, a buttare i vestiti per aria. Ero impazzito? No, volevo solo una prova del fatto che lei fosse passata per di lì. Volevo trovare una prova che testimoniasse che c’era stata nella mia vita.
Come avrei fatto a ricordarla per sempre senza poterla stringere tra le braccia, senza poter sentire il suo profumo salirmi nelle narici?
Non c’era niente. Né una foto, né un biglietto, niente. C’era il gatto, quel gatto che sicuramente senza di lei non ci sarebbe stato, ma il gatto non sarebbe rimasto per sempre.
Un gatto, sette sigarette e un vestito: ecco tutto ciò che quella relazione mi aveva lasciato. Nient’altro.
Urlavo, sbattevo i pugni al muro. Niente poteva ridarmela indietro. Guardavo i libri per terra, i vestiti strappati, i piatti rotti. E poi guardavo lei, e mi chiedevo cosa c’entrasse quel disordine con la sua perfezione.
Ho deciso che avrei fumato per sempre solo per provare a sentirmela accanto.
Che avrei conservato quelle sette sigarette nel cassetto vicino al letto e sarebbero rimaste lì per sempre, intatte.
Che avrei tenuto quel vestito nell’armadio, accanto ai maglioni che metto tutti i giorni, nella speranza di sentire il suo odore.
Che mi sarei sforzato di amare quel gatto almeno la metà di quanto l’amava lei. Ma niente poteva ridarmela indietro.
Nella mia testa la vedevo scivolare via, lontano da me. Non era semplicemente andata via, no, lei era andata via per sempre e, anche volendo, non l’avrei mai più rivista, toccata ed ero pronto ad attaccarmi a tutto pur di toccarla un’ultima volta.
La paura di dimenticarla mi massacrava.
E lei invece? Lei si sarebbe ricordata di me? Voglio dire, chi ci assicura cosa accade dopo la morte? Potrei essere quello su cui butta sempre un occhio da lassù, o potrei non essere niente per lei. Potrebbe ricordarmi per sempre o avermi già rimosso. Voglio che mi ricordi, voglio continuare a far parte di lei, ma non so come fare. Non ho avuto nemmeno un momento per pensare a questo, non avevo mai nemmeno pensato che sarebbe accaduto.
Noi saremmo dovuti essere per sempre.
-Almeno era quello che pensavo, non so neanche se ho mai avuto la possibilità di dirtelo. Di dirti che io ti amo – ti amavo -, che avrei voluto passarci la vita con te, che avrei voluto dei bambini, anche se a te i bambini facevano schifo, non mi interessava, volevo qualcosa che fosse nostro, qualcosa che avevamo creato noi. Che dovevi fare attenzione al ponte poco distante da qui. Che morivo dalla voglia di vederti di nuovo su quel palco, anche se la gelosia mi divorava perché tu sei mia. Eri. Eri mia.
E invece non ho avuto il tempo di dirti nessuna di queste cose.
E non abbiamo neanche creato qualcosa di nostro.
Chi ci ricorderà allora? Non come me e te, ma come ‘noi’; chi ricorderà ‘noi’? Non lo so, non lo so più, non so più niente.-
A volte pensavo di sapere tutto di lei, altre pensavo di non sapere niente. Adesso so che non sapevo neanche il suo nome. Ma non importa; un nome è da dove veniamo, l’importante è dove arriviamo.
Se conoscessi il suo nome adesso lo urlerei e poi lo inciderei sulla tua lapide. Ma non lo farò, perché il suo nome, che è la cosa che l’accompagna da più tempo, non lo so. Quindi non ci saranno lapidi: la porto nel mio cuore.
 
Sono scivolato per terra. Ho pianto. Ho singhiozzato. Ho pianto ancora. E poi, proprio quando pensavo di dovermi rassegnare all’idea di vivere in un ricordo, ho posato gli occhi gonfi sulla pagina scarabocchiata di un libro;
Quel jour sommes-nous ?
Nous sommes tous les jours, mon amie
Nous sommes toute la vie, mon amour
Nous nous aimons et nous vivons
Nous vivons et nous nous aimons
Et nous ne savons pas ce que c'est que la vie
Et nous ne savons pas ce que c'est que le jour
Et nous ne savons pas ce que c'est que l'amour.

di Jacques Prévert
Questo c’era scritto, su quella pagina, circondato da scarabocchi e cancellature. Una poesia, una poesia francese e lei: questo c’era scritto su quella pagina.
 
Ho sfogliato il libro; altre pagine, altre poesie e poi altri libri, tutti scritti. Non ne aveva lasciato uno.
Non capii mai cosa ci avesse scritto, perché le parole erano leggere e cancellate, ma ognuna di essa sembrava gridare ‘Non ti scordare di me!’.
Perché?
Si aspettava che mi avrebbe lasciato?
Si aspettava che sarebbe successo questo?
Forse non si aspettava niente, ma, meglio di me, sapeva come andava la vita. Io, per esempio, non l’ho mai capito come andasse, la vita. Speravo di passarla con lei e invece non ho potuto. Ero sicuro che nessuno ce l’avrebbe mai tolta, quella vita che ci riempiva le vene fino a farci scoppiare, e invece ce l’hanno portata via.
Ma noi la volevamo, la volevamo sempre, la volevamo anche quando andava male, la volevamo anche quando pensavamo di non volerla più. La volevamo tutta; ne volevamo tutti i dettagli, tutte le sfumature, tutte le pieghe.
Tutti i tagli, le cicatrici, i morsi.
E invece sono riusciti a strapparcela. Ma non è importante, pensai dopo, perché la vita se ne va, il tempo ci sfugge dalle mani, le persone ci abbandonano, ma la gioia e l’amore no, quelle non ci lasciano. Quelle non ci lasciano mai.
 
E allora sì, abbiamo lasciato qualcosa di ‘noi’al mondo. Abbiamo lasciato la gioia e l’amore; l’abbiamo lasciati per noi, perché gli altri non li vedevano, sotterrati da uno strato di odio, urla e follia. Ma che importa degli altri, di quello che vedono, di quello che pensano. Importa di noi due, solo di noi due.
-E l’amore che mi hai lasciato tu lo sento accarezzarmi tutto il corpo, cellula per cellula, mentre sale dalle narici, dall’ombelico, da ogni taglio. Ed è l’amore più bello che io abbia mai sentito.-
 
 
‘E il lieto fine?’
‘Non c’è un lieto fine, non c’è nessuna fine. Lei muore. Muore senza che nessuno se ne accorga, muore improvvisamente, muore lasciando gli altri nel dubbio. Gliel’ho detto, muore e basta. Muore come muoiono tutti.
Questa non è una storia particolare. In fondo, questa non è soltanto una lunga storia di ombre scure, senza gloria?’

 
 
 
 

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