Cavalcare la Tempesta II - L'Ultimo Volo

di Lantheros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Saltare dal Nido ***
Capitolo 2: *** L'Uccello ferito ***
Capitolo 3: *** Paura di Cadere ***
Capitolo 4: *** Oltre ***
Capitolo 5: *** Un Salto ad Occhi Chiusi ***
Capitolo 6: *** L'Arcobaleno Dopo la Tempesta ***
Capitolo 7: *** Oggi Come Allora ***
Capitolo 8: *** Il Viola e L'Arcobaleno ***
Capitolo 9: *** Qualcuno Volò sul Nido del Grifone ***
Capitolo 10: *** Tutto Crolla ***
Capitolo 11: *** Fly With Me ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***
Capitolo 13: *** Capitolo Bonus - Vedere col Cuore ***
Capitolo 14: *** Capitolo Bonus - Dopo la Pioggia ***
Capitolo 15: *** Capitolo Bonus - Mio Figlio ***
Capitolo 16: *** Capitolo Bonus - Calendula ***



Capitolo 1
*** Prologo - Saltare dal Nido ***


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La puledra dal manto dorato entrò nella stanza, con sguardo visibilmente preoccupato. La seguì il marito, un imperioso pegaso bianco, con criniera viola e un elegante doppiopetto scuro.

La giovane coppia si accomodò di fronte ad una scrivania farcita di documenti sparsi.

Dall’altro lato, estremamente pensieroso, un pony in camice osservava alcune lastre appese al muro, dando le spalle ai presenti, in completo e snervante silenzio.

I due si osservarono, attendendo qualche parola.

Fu Sunshine a farsi avanti: “D-Dottore?”, chiese, titubante.

“Sì, mi scusi”, rispose l’altro, girandosi e tornando alla realtà.

“Allora… cosa ci può dire su… su nostro figlio?”.

Il medico poggiò le zampe sulla scrivania e incrociò gli zoccoli di fronte alla bocca. Lo sguardo non faceva intuire niente di buono.

Il compagno prese la parola: “Icarus è un pegaso di soli sei anni… Forse… forse è ancora troppo presto, per lui… per...”.

L’altro scosse la testa: “I pegasi non possono volare, così piccoli, ma quanto è accaduto a vostro figlio è sconcertante…”.

La madre strinse le zampe sotto il mento, come se la notizia l’avesse pugnalata al cuore.

“Già quattro anni fa sapevate che Icarus aveva qualcosa che non andava al fisico, giusto?”.

“Sì…”, disse mollemente Sunshine, “Gli erano stati diagnosticati alcuni problemi articolari… però…”.

“Però ci dissero che, con la crescita, magari si sarebbe risolto tutto”, continuò Daedalus, accanto a lei.

Il dottore sospirò, girandosi nuovamente verso le lastre appese al muro: “Vedete queste?”.

La coppia annui, senza fiato in corpo.

“Icarus è caduto da appena un paio di metri. Ben assumendo una caduta sfortunata… Cioè… Presenta diverse fratture. Le sue ossa si sono spezzate con estrema facilità”.

Sunshine dovette trattenere il pianto.

“Da qui si evince subito come il suo non sia uno scheletro normale”, concluse l’esperto.

Lo stallone bianco cercò di consolare la compagna, come poteva: “Ma… ma è qualcosa di guaribile, vero?”.

L’espressione dell’altro si incupì, facendo temere il peggio: “Devo essere sincero con voi… Non sappiamo cos’abbia vostro figlio. Mi sono già consultato con i colleghi e nessuno riesce a capirci qualcosa. Sappiamo solo che… che le ossa di vostro figlio sono estremamente fragili… e che il suo fisico patisce anche solo il proprio peso sul terreno”.

A quelle parole, la puledra non seppe far altro che stringersi al marito, con il volto contratto in una smorfia di dolore e le lacrime che le scivolavano lungo le guance.

“Mi spiace dirvi tutto questo… Ma dovete sapere le condizioni in cui versa Icarus”.

Il padre si asciugò l’angolo di un occhio: “Questo… questo significa che… le sue ali… Icarus non…”.

“Mi spiace, signor Daedalus”, rispose debolmente il medico, “In queste condizioni… non credo che Icarus sarà mai in grado di volare…”.


    Ombre di un ricordo così lontano eppure così vivido nella mente di chi lo visse in prima persona, sulla propria pelle.

Ben dieci anni dopo, nelle fredde stanze di una isolata e nuvolosa abitazione lontana, nel cielo di Ponyville, si trovava un foglio abbandonato sul pavimento. La casa era al buio, disabitata. Qualcuno se n’era andato non da molto.

Sul foglio vi era inciso qualcosa, con carattere incerto e traballante.



Mi chiamo Icarus.


Sono uno dei campioni di Equestria.


Sono il vento che si muove senz’ali.


Sono la calma e la tempesta che risiedono sotto i miei sbalzi d’umore.


Sono un’arrogante testa di legno.


Sono tutto ciò che potreste odiare in qualcuno.


Sono l’unico pegaso che non può volare.


Sono colui che ha però imparato che si può volare anche senz’ali.


Ieri c’è stato il mio ultimo volo.


Mi sono librato per l’ultima volta nel cielo, solcando le nubi e tagliandomi il volto con la gelida aria notturna.


Non accadrà mai più.


Ho perso la mia battaglia.


Ho forse vinto la guerra?


Non lo so.


Non volerò mai più nel cielo.


Tutto ciò che sono, tutto ciò per cui ho combattuto… è svanito.


Svanito di colpo, come se un terremoto avesse distrutto ogni mia certezza.


Ora volerò…


Sì, volerò…


Ma non con il mio corpo.


                                                                                                                                                Volerò in un modo che nessun altro pegaso potrà mai fare.

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Capitolo 2
*** L'Uccello ferito ***


La fila di concorrenti saettò lungo una curva a gomito, facendo tremare gli spettatori presenti, che dovettero bloccare la criniera col peso degli zoccoli.

I pegasi presero a sfrecciare implacabili lungo il percorso, cercando di guadagnare terreno e superarsi a vicenda. Il cronista commentava ogni istante della gara, senza risparmiarsi sul crescendo di emozioni che percepiva nell’aria.

Rainbow Dash gareggiava per il podio, contendendosi la posizione con altri due avversari di fronte a lei. Uno di essi, in testa, era ovviamente Thunderlane: il pegaso nero sapeva davvero il fatto suo.

La puledra diede fondo a tutte le sue risorse: prese a curvare sapientemente ad ogni virata, sfruttò il più possibile le scie avversarie, planò, sfrecciò, contrasse le ali con tempismo perfetto. Superò il secondo concorrente.

Thunderlane buttò uno sguardo dietro di sé, come faceva spesso, e sorrise compiaciuto alla vista di Dash (questa volta con un doppio elastico agli occhialoni).

L’amica gli lanciò un ghigno divertito e si buttò verso di lui, a zampe tese.

Come per ogni testa a testa che si rispetti, era l’ultimo giro e la folla non aveva occhi che per loro.

Il pegaso blu continuò a dargli addosso, senza tregua, cercando di snervarlo, ma Thunderlane non era un novellino e non si sarebbe più lasciato fregare come l’ultima volta: accelerò il ritmo e distaccò l’avversaria.

Ogni cosa si sarebbe giocata in quei pochi, preziosi istanti.

Poi accadde.

    Nonostante fosse completamente concentrata nel vincere, Dash puntò casualmente lo sguardo al cielo, completamente azzurro e terso, scorgendo però un puntolino bianco: un’abitazione lontana.

Una fitta improvvisa e assolutamente imprevedibile la colpì al petto e alla mente, come se qualcosa di indefinito fosse stato anticipato da una sensazione di opprimente melanconia.

Sgranò gli occhi, completamente esterna alla realtà.

Le urla della folla e degli altoparlanti la riportarono alla gara: un soffice muro bianco le si stava avvicinando a folle velocità, proprio di fronte al muso.

“Oh! Per Celestia!!”, strillò,  gonfiando le ali e facendo di tutto per frenare.

Ma non bastò.

La concorrente si schiantò violentemente contro il nembostrato a ridosso della pista, sprofondando nella coltre bianca e sollevando batuffoli nebbiosi. Gli spettatori sopra di lei accompagnarono l’avvenimento strizzando gli occhi e digrignando i denti, quasi come se avessero percepito il dolore sulla loro pelle.

Rainbow emerse dopo parecchi secondi, con gli occhiali storti e la criniera arruffata.

Vide altri concorrenti sfrecciarle davanti: non perse tempo, spalancò le ali e cercò di guadagnare dolorosamente terreno.

Tagliò il traguardo in settima posizione.


    Dopo una decina di minuti, sulla coltre nuvolosa a ridosso della pista, Thunderlane veniva osannato dai presenti: una meritatissima prima posizione.

Dash si trovava un po’ in disparte, leggermente dietro alla folla, la cui attenzione era quasi totalmente rivolta al pegaso nero.

Abbassò lo sguardo alle nuvole sotto i suoi zoccoli e una bocca amareggiata si scolpì sul muso.

Rimase in silenzio ad osservare il nulla.

Una timida voce dietro di lei fece capolino: “Ehy, Dashie…”.

“Ciao Fluttershy…”, rispose debolmente, senza neanche girarsi.

L’amica cercò di trovare qualche frase da dire: “Ehm… Hai… hai volato molto bene…”.

“A-ah…”.

“Sì… Cioè, insomma… Quella virata al terz’ultimo giro è stata… Insomma… E’ stata… Yay!...”, si sforzò, con un filo di voce.

“Grazie, Fluttershy, ma la settima posizione è ancor meno della quinta dell’ultima volta…”.

“Oh… Beh… Ma… Cioè… L’importante è partecipare… O no?...”.

“Sì, sì… ovvio…”, disse, con convinzione prossima allo zero.

“E poi non ti sei divertita?”.

“Certo. Però…”.

Il pegaso giallo le si fece vicino: “L’ultima volta mi sembrava ti importasse solo gareggiare, non tanto vincere…”.

Gli occhi di Dash, sotto palpebre un po’ calanti, presero a muoversi in svariate direzioni: “Io… sì… Mi basta gareggiare, è vero…”.

“Però?”, domandò l’amica, con estrema gentilezza.

Rainbow sospirò: “Però… non è bello comunque… Essere abituati ad arrivare sul podio… e poi… Non è tanto il podio in sè… E’ che mi sono allenata duramente e… e vedere i tuoi sforzi buttati via così…”.

“Buttati? C’è qualcosa che non va, forse?”.

L’amica cercò di campar lì qualche mezza scusa: “No… non c’è niente… Soltanto…”.

“Ehy, RD!!”, tuonò Thunderlane, con una ghirlanda da vincitore al collo (e qualche ammiratrice al seguito, che smaniava per un autografo), “Va tutto bene?”.

“Ehy, Thunder… Non… Niente, va tutto bene…”, balbettò.

“Mh… ok”, tagliò corto l’altro, visibilmente sospettoso.

Le mantenne l’attenzione addosso fino all’ultimo, seguendola con la coda dell’occhio, mentre si incamminava verso le zone riservate dello stadio di Cloudsdale.


    Dopo circa un’ora, la puledra uscì dagli spogliatoi, con una sacca sulla groppa e lo sguardo triste. Erano andati via tutti. Quando non vinceva, preferiva così: in modo da potersene andare indisturbata. Ma quella volta fu diverso: Thunderlane la aspettava dietro l’angolo di un corridoio nebuloso. Quando lo vide, fece quasi un balzo all’indietro.

“Thunderlane!!”, esordì.

“Ciao, RD”, disse l’altro, appoggiato alla parete.

“Che… che ci fai ancora qui?...”.

“Niente”, rispose l’amico, “Aspettavo”.

“Aspettavi cosa?”.

“Te”.

“Ah”, esclamò l’altra, guardandosi attorno con nervosismo, “E… Ok… Quindi?”.

Calò il silenzio per qualche istante, poi il pegaso nero si decise a parlare: “Che ti succede, RD?”.

La puledra cercò di sviare: “Succede? In che senso? Non succede niente…”.

“Non mi freghi, Rainbow…”.

Dash ammutolì.

“Dimmi cosa c’è che non va… Sai che con me puoi parlare”.

Lo sguardo dell’amica si fece nervoso: “Non c’è niente che non va, te l’ho detto”.

“E’ già le terza volta che mi arrivi a mezzo metro dalla coda e poi fai qualche cavolata che ti costa parecchie posizioni… Ed io ero abituato a dovermi sudare la poltrona sul podio, con te… Quindi non me la conti giusta”.

“Non mi sono allenata abbastanza…”, mentì.

“Ti alleni quasi il doppio di me. Ti vedo, mentre saetti per il cielo su Ponyville…”.

“Sono stanca”, ribatté.

“Dormi fin troppo e ti appisoli sulle nuvole ogni pomeriggio”.

“Che fai? Mi spii?”.

“Dash… Che ti succede?”, replicò Thunderlane, con sguardo sincero.

Rainbow abbassò lo sguardo sconsolata, non riuscendo a reggere oltre la farsa.

“Io… Io… Niente: mi distraggo”.

“Ti distrai? Cos’è? Non riesci a reggere la vista del mio bel posteriore?”, buttò lì scherzosamente l’amico.

“Piantala…”, rispose stizzita.

“Seriamente: cos’è che ti distrae?”.

“E’… Sono ricordi. Memorie passate…”.

Thunderlane pensò bene a cosa dire e poi, senza peli sulla lingua, le domandò: “Ti riferisci a quel pegaso? Icarus?”.

La puledra drizzò le orecchie: allora la vicenda con Icarus non era passata affatto inosservata.

“I-Icarus?... No… Cioè…”, farfugliò.

“E’ come pensavo”, disse con un sorriso, “Ti manca quel pegaso, giusto?”.

“E-ecco… lui…”.

“…Ti manca tanto?”.

“E’ tardi… Devo andare”, dichiarò infine, passandogli rapidamente sotto al muso e trottando verso l’uscita.

“Ricordati della mia festa per la vittoria, questa sera!”, gli urlò Thunderlane alle spalle, “Dopo cena al Sugarcube Corner, come sempre!”.


*** ***** ***


    “Guarda: io ti ripeto che ho provato a mangiare un muffin con i rubini ma non mi è proprio piaciuto!”, dichiarò Pinkie, battendo uno zoccolo sul tavolo.

“Ehm… Pinkie”, buttò lì Spike, interdetto, “I pony non mangiano minerali preziosi…”.

Lo sguardo dell’amica si illuminò, come se tale informazione le avesse svelato misteri sconosciuti, e si portò gli zoccoli alle guance: “Uuhhh!...”.

“Mangiare pietre così stupende!”, bisbigliò Rarity, scioccata, “Preferirei abbellirci qualche bel tailleur…”.

“Perché non sei una draghessa”, rispose Spike, “Altrimenti sarebbe come appiccicarsi delle caramelle ai vestiti”.

“Io l’ho già fatto!!”, si intromise il pony rosa.

“Saresti una bellissima draghessa…”, sospirò il draghetto viola, con un filo di voce, quasi dovesse avere due cuoricini al posto degli occhi.

Poco lontano, in mezzo ad un gruppo di pony, un muscoloso pegaso bianco disintegrò il coperchio di un barile legnoso, con una poderosa testata. Sparse schizzi di sidro ovunque, quindi sollevò la testa (completamente fradicia) e ruggì: “YEAH!!”.

I presenti esultarono e riempirono i boccali.

“Piano, piano, gentaglia!”, commentò Applejack, “La riserva speciale di mia nonna non è roba con cui scherzare!”.

“Pff!”, rumoreggiò con le labbra qualcuno, “Posso reggere questo e ben altro!”.

“Certo amico… Ne riparliamo domani, quando ti sveglierai in un fosso o in cima ad un campanile, senza ricordarti più nulla”, lo ammonì la puledra, sistemandosi il cappello.

Twilight, per canto suo, stava prendendo appunti sui mutamenti sociali che i presenti subivano sotto l’effetto del sidro, annotando ogni minimo particolare: la sua ricerca sui nefasti effetti dell’alcol ancora non era terminata.

“Che… che shtai fashendo?...”, biascicò un pegaso vicino a lei, completamente ubriaco e incuriosito dagli appunti dell’unicorno viola.

“Niente”, rispose l’altra, senza schiodare lo sguardo dalla carta. “Dimmi: quanti zoccoli vedi?”, e sollevò una zampa.

L’altro incrociò gli occhi, spaesato: “I-io… Un... dre… Cioè… Viola!...”.

“Ok. Grazie della collaborazione”, e appuntò qualcosa.

Fluttershy, come suo solito, era invece in disparte, maggiormente intenta a guardare i vasi di fiori e assicurandosi che nessuno le si facesse troppo vicino.


    In un angolo della stanza, lontana dai festeggiamenti, Dash era appoggiata su un fianco, contro il davanzale di una finestra… la stessa finestra da cui aveva osservato per la prima volta l’abitazione di Icarus, proprio in circostanze analoghe. E così fece, di nuovo.

Alzò lo sguardo al cielo stellato e vide la sagoma scura della sua casa abbandonata, in contrasto col chiarore lunare.

Sospirò, con sguardo triste.

“…Tanto”, disse Thunderlane alle sue spalle.

Dash trasalì: “Cosa??”.

“Ti manca tanto”.

“Ma… ma…”, balbettò, visibilmente arrabbiata, “Ti fai gli affaracci tuoi??”.

“E’ la che abitava?”, chiese, avvicinandosi anch’egli alla finestra.

L’amica parve calmarsi leggermente: “Lui… sì”.

“Capisco. Ora dov’è?”.

“Lui è… partito. Per una cosa molto importante”.

Lo stallone afferrò due boccali appena riempiti: uno se lo portò alle labbra, l’altro lo allungò a Dash.

“Piano con ‘sta roba”, lo avvertì il pegaso blu, con un sorriso, “Ti posso assicurare che sembra leggera ma va a scoppio ritardato…”.

“Dopo la vittoria di oggi penso non me ne farò un problema”.

Rainbow si incupì.

“Cioè…”, dichiarò Thunderlane, cercando di correggere il tiro, “Non volevo dire… Insomma…”.

“No, hai ragione, Thunder. Non mi è mai capitata una cosa simile, prima d’ora… Tre gare… di fila…”.

“Sono cose che succedono…”.

“Ma non a me!”, sbottò, girandosi di scatto verso di lui, rovesciando quasi il sidro dal contenitore, “Non mi fossi allenata capirei! Ma… ma così… non ha senso…”, concluse, con tono calante.

“Capisco, RD. Non so cosa dire…”, e bevve un sorso.

“E’ soltanto che… credevo non mi importasse più di volare e vincere… E… e invece scopro che è ancora così… Che quel podio mancato mi brucia terribilmente…”.

“Sei come me, chioma arcobaleno. Siamo nati per vincere”, disse lui, con sicurezza, “Siamo i campioni di Equestria”.

A quelle parole, gli occhi di Dash si spalancarono.

“Ho detto qualcosa che non va?...”, domandò, un po’ intimorito.

“Campioni di Equestria…”, ripeté lei.

“Uhh… Sì…”.

“Già… Noi eravamo davvero i campioni di Equestria…”.

Non dissero più nulla per alcuni minuti e lo stallone si limitò a sorseggiare saltuariamente qualche sorsata di sidro.

Il pony nero riprese il discorso: “Sai che fine ha fatto?”.

“No…”.

“Ma sai dove andava?”.

“Sì… In un posto dove potessero… curarlo…”.

“E perché non vai a trovarlo?”.

Dash sospirò: “Non lo so… Potrei ma… non so se sia sotto cure, se sia disponibile… Non so… non so nemmeno se… se…”. Gli occhi le divennero lucidi.

“Beh… Se non provi non lo saprai…”.

“Lo so”, ammise, “Anche se… fra non molto c’è niente di meno che la Gara Equestre, uno dei più grandi eventi sportivi mai visti…”.

“Vuoi dire che gli allenamenti sono più importanti del voler rivedere il tuo amico?”, domandò maliziosamente.

“No… no, per niente…”.

“E allora perché ti preoccupi?”.

“Io… io…”. Rainbow si rivolse verso lo stallone, visibilmente turbata: “Io ho paura di rivederlo… ho paura di come potrei trovarlo… di cosa potrebbe essergli successo…”.

L’amico capì quello che provava. Bevve l’ultimo sorso di sidro, si passò una zampa sotto al muso e le disse: “Allora, amica mia… sei fregata…”.

“Cioè?”, chiese lei, non capendo le sue parole.

“Sei troppo presa da lui per stargli lontano, per non voler scoprire cosa gli è successo. Lo leggo nei tuoi occhi”.

La puledra si sentì vulnerabile: “Io… io non…”.

“Ehy, RD”, disse infine lui, mettendole uno zoccolo sulla spalla, “Anche i più grandi campioni hanno qualcosa dentro… Qualcosa per cui valga la pena sembrare meno ‘duri’ di quanto vorremmo… Qualcosa che ci imbarazza o che ci espone agli altri. Se vuoi bene a quel pegaso… se tieni a lui… sai che c’è un’unica cosa che puoi fare…”.

Dash rimase ad ascoltarlo in silenzio, incredula su quanto si stesse dimostrando sensibile.

“E poi”, aggiunse, “Questo è valido solo per gli altri. Io sono troppo macho per provare simili sentimenti”, mentì.

Le palpebre dell’amica calarono improvvisamente: “Certo, certo… Tu sì che sei un duro…”, lo canzonò.

“Scusa: ora, se non ti spiace, avrei un manipolo di ammiratrici desiderose di passare un po’ di tempo con me”, disse, posando il boccale e avviandosi.

Dash lo fermò per un istante.

“Ehy, Thunder…”, bisbigliò, “…Grazie”.

“Figurati. Con te fuori dai piedi, potrò allenarmi indisturbato per la gara. E vincere”, disse sorridendo.

L’altra gli mandò un sorriso di rimando: “Vedremo”.



    Dash si girò, notando un batuffolo rosa sbucare dal vaso di una pianta.

“Pinkie…”, bofonchiò.

L’altra non disse nulla.

“Pinkieee…”.

“Non sono Pinkie. Sono una pianta”.

“Pinkie, non esistono piante rosa confetto. E poi i vegetali non parlano”.

“Io sì”.

“Eddai…”.

“Uff…”, sbuffò il pony, emergendo sconsolata.

“Che diamine facevi lì dietro? Origliavi?”.

“No. Cioè. Ni. Cioè. Boh… Davvero andrai a trovare Icarus???”, farfugliò a mitraglia.

L’amica mosse la mandibola di lato, più volte: “Non lo so…”.

“Voglio vedere ancora il pony dalle ossa di caramello!!”, esultò, con un balzo.

“Anche io lo vorrei…”.

“E allora? Che aspettiamo??”.

“E’ che…”.

“Caramello! Caramello! Caramello! Carmarello! Marcamello!”.

Il pegaso ci pensò attentamente. Riportò la memoria alle ultime parole che si erano scambiati quella notte, tra le nuvole.

Ora sono qui ad osservare il cielo, come ho già fatto in passato, e mi sto chiedendo se… se questa non sarà l’ultima volta che potrò vedere le stelle… se potrò ancora udire il sibilare del vento tra le nuvole… se arriverà ancora un altro cielo stellato…”.

Una morsa le serrò il petto, facendole mancare il fiato nei polmoni.

Ho paura, Rainbow Dash…”.

“Ehy? Stai bene?”, le chiese Pinkie, visibilmente preoccupata.

“Sì”, rispose l’altra, deglutendo, “Sì, sto bene”.

“Allora? Quando partiamo per trovare Icarus??”.

Dash alzò lentamente lo sguardo alla finestra e, dopo una lunga pausa e un sorriso accennato, dichiaro: “Il prima possibile, no?”.

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Capitolo 3
*** Paura di Cadere ***


Il treno vibrava e sbuffava, mentre le amiche giungevano una dopo l’altra, preparandosi a salire in carrozza. Era pomeriggio inoltrato: il cielo vagamente nuvoloso e si udiva un po’ ovunque il vociare dei pony che si spostavano nella stazione.

Rainbow, ovviamente, arrivò per prima, quasi in concomitanza a Twilight e al suo assistente.

Il povero draghetto tentava di trascinare un piccolo carro ricolmo di libri, con immane sforzo.

“Grazie per il pensiero, Twilight”, la derise Rainbow, “Ma, dove andremo, credo abbiano già da accendere il camino”.

“Ah-ah…”, la canzonò, ciondolando la testa sui lati, “Lo sai che gli piace leggere. Chissà se ha finito i libri che gli ho passato quando è partito?? Oh! Non vedo l’ora di discuterne con lui!”.

“T… Twi… Twilight…”, ansimò Spike.

“Oh! Scusa, Spike!”, e sollevò magicamente il carretto verso di sè.

“Ma!... Ma!... Non potevi farlo prima??”.

Il pony viola sorrise imbarazzato: “Ehm… Scusa ancora, Spike, ero troppo assorta nel pensare alla partenza!”.

“Ehy, gentaglia!”, berciò Applejack, giungendo con tutta la famiglia Apple al seguito.

“AJ”, disse Rainbow, “E… vuoi portarti tutta la combriccola?”.

“Oh, no… Loro sono qui solo per la mia partenza…”.

“Io voglio venire!”, piagnucolò Applebloom, “Voglio sapere se ha ucciso altri draghi!”.

“Se ha ucc… COSA??”, strillò Spike.

“Dagli una ripassata da parte mia!”, rantolò Granny Smith, agitando uno zoccolo.

Macintosh scaricò invece una sacca dalla groppa, da cui proveniva un invitante odore di mele.

Giunsero quindi Rarity e Fluttershy, quest’ultima sorridente e con un piccolo topolino di campagna sulle spalle.

“Fluttershy”, intervenne Sparkle, “Dove andremo non credo siano ammessi animali…”.

“Oh”, rispose lei, senza smorzare il sorriso, “Non ti preoccupare. Ho pensato a tutto. E’ un topolino piccolo e intelligente. Potrà nascondersi e badare a se stesso e nessuno lo noterà. Credo… credo potrebbe tenergli compagnia”. Il roditore fece un saluto militare, serissimo, e poi scomparve nella sacca da viaggio del pegaso giallo.

Rarity giunse invece amabilmente, accompagnata dalla canonica aria da principessa (e un vestito piuttosto elegante, con tanto di cappello a tesa larga).

“Uhh, ehy dolcezza”, disse Applejack, “Mi aspettavo gli portassi almeno qualche capo in regalo…”.

La puledra bianca gettò di lato un vaporoso ciuffo della criniera viola e poi esordì: “Ma infatti…”.

Dietro di lei, sgobbando come muli, comparve un gruppetto di stalloni, intenti a trainare grossi carri ricolmi di pacchi, pacchetti e valigie varie.

Dash spalancò le fauci: “Ma… ma… come faremo a starci tutte, con quel mare di roba?...”.

“E’ semplice, mia cara”, la tranquillizzò l’amica, “Ho affittato una carrozza solo per questi bagagli!”.

“Tu… cosa?...”.

E così fu: i portaborse iniziarono a caricare ogni singolo pacco in una carrozza da trasporto.

“Ehy! Fate piano! Quella è seta! E… Oh! Oh! Lentamente, sennò le cuciture rischiano di rovinarsi!”.

“Ora ne manca solo più una…”, affermò Twilight, guardandosi attorno.

Rainbow assunse un’espressione spazientita: “Già… E chissà chi è…”.

“Chi è?”, chiese Pinkie, dietro di lei.

“P-Pinkie! Da quand’è che sei qui??”.

“Uhh… Da un po’… Perché?”.

“Non ti abbiamo vista…”, rispose Applejack.

“Oh! Questo perché ero in carrozza! Ho dormito lì!”.

La puledra dalla chioma dorata si grattò le tempie: “Ah… E… come mai?...”.

“Perché mi dimentico sempre le ore degli appuntamenti, quindi ho deciso di aspettarvi già qui, per sicurezza, no? Che domanda sciocca!”.

“Certo… Una logica inattaccabile…”.

“E poi, così, ho potuto caricare i sacchi di zucchero filato per tempo!”.

Applejack alzò le spalle: “Ecco… Una ha premura di caricare mezza tonnellata di vestitini… e l’altra mezza tonnellata di carboidrati…”.

“No!”, la corresse Pinkie Pie, “Zucchero filato! Niente carbone o idranti!”.

Fluttershy si avvicinò lentamente al pegaso blu: “E tu, Rainbow Dash? Tu non gli porti nulla?...”.

L’amica arrossì leggermente, spostando per un secondo lo sguardo sulla sacca al suo fianco: “Uhh… Ecco io… No… io…”.

L’altra le sorrise: “Ok, ho capito”.

    La locomotiva fischiò.

“Tutti a bordo, gentaglia!”, urlò Applejack, con un’impennata, e salì. Le altre la seguirono (Rarity non si risparmiò sulle ultime raccomandazioni riguardo il trasporto dei suoi preziosissimi doni).

Una volta in carrozza, ognuna prese il proprio posto.

“Dov’è che andiamo??”, chiese Pinkie, saltellando sul giaciglio.

Dash esternò un’espressione interdetta: “Cioè… vieni qui e non sai nemmeno dove andiamo?...”.

“Esatto!”, rispose, senza scomporsi, piantando poi una craniata contro il tettuccio.

Twilight intervenne: “Siamo dirette all’Emerald Lake, non molto lontano dalla fumosa Steamdale”.

“Stim… che?”, chiese l’amica rosa, massaggiandosi la nuca, dolorante.

“Steamdale: è una megalopoli che è stata edificata con l’ausilio della tecnologia a vapore. E’ una sorta di… città tecnologica… Ma una tecnologia piuttosto… Come dire? Rozza…”.

“Rozza??”, chiese Rarity, preoccupata.

“Sì… Cioè: ingranaggi, olio colante, sbuffi di vapore…”.

“Stai scherzando, vero??”, berciò l’altra, stringendosi la chioma e iniziando a immaginare i mille e uno modi con cui il suo look si sarebbe potuto rovinare in modo irreparabile.

L’unicorno viola fece un sorriso di circostanza.

“Ma è terribile!!”, concluse l’amica.

“Ehm…”, continuò Sparkle, “Ma dove andremo noi è all’Emerald Lake…”.

“Lake? Lago?”, domandò la puledra bianca.

“Sì! Niente olio o vapore, quindi!”.

“Ma è ancora più terribile!! I laghi sono pieni di umidità, zanzare e altre creature mostruose!... Come… come… Ah! Le zanzare sono già abbastanza mostruose!!”.

“Chissà com’è la fauna locale?...”, chiese Fluttershy, alzando gli occhi al cielo, attraverso le vetrate.

Twilight riprese il discorso: “Tranquilla Rarity. Il lago è senza acqua da molto tempo ormai. Si è prosciugato parecchi anni fa, per via di una secca colossale. Al suo posto non rimane che un largo cratere”.

Spike si grattò le scaglie: “E perché andiamo in un luogo simile?... E’ lì che hanno portato il pegaso?”.

“Ai tempi edificarono un grosso ospedale, proprio per avvalersi del paesaggio rilassante. Ovviamente questo accadde prima che il lago si prosciugasse. E’ comunque rimasto uno dei luoghi di ricerca medica più facoltosi in Equestria”.

“Ha delle buone referenze?...”, domandò Dash, un po’ preoccupata.

“Tranquilla, è un posto molto importante e conosciuto. Se Icarus è lì si trova in buone zampe!”, la rassicurò Twilight.

    La carrozza ebbe quindi un sussulto e la stazione sullo sfondo prese a scorrere lentamente.

Applejack si sporse da un finestrino con le zampe anteriori, salutando calorosamente la famiglia, che contraccambiò il gesto.

“Chiedigli se ha ucciso altri draghi!!”, urlò Applebloom, quando la sorellona era ormai lontana.

“Certo, zuccherino! Mi farò fare l’elenco!”.

“Questa dopo me la dovrete spiegare…”, commentò Spike, con sguardo cagnesco.

Il convoglio prese quindi velocità, scorrendo rumorosamente lungo le rotaie metalliche e allontanandosi progressivamente da Ponyville.

“Spero tanto che Angel si ricordi di mangiare la sua verdura…”, disse Fluttershy, leggermente ansiosa.

I presenti decisero quindi di dedicarsi ad alcune attività a loro consone: il viaggio non era lunghissimo ma si trattava comunque di una dozzina di ore di viaggio ed erano partite verso sera, in modo da dormire sul treno e giungere all’Emerald Lake in pieno giorno.

Dopo qualche scambio di battute sull’entusiasmo per rivedere l’amico, ognuna si intrattenne come meglio credeva: Twilight lesse alcuni libri, Rarity (ovviamente) si agghindò ad uno specchietto, mentre Pinkie tentò di coinvolgere Fluttershy nel gioco “indovina cosa vedo dal finestrino?”, con scarsi risultati. Applejack, invece, si appisolò rapidamente nel giaciglio, col cappello sul volto e un sorriso di beatitudine.


    Solamente Dash non riuscì a rendere il viaggio più piacevole. Sincerandosi che nessuna le stesse prestando attenzione, decise di uscire dalla porticina della carrozza: si mosse lungo una passerella a lato del mezzo, fermandosi ad un certo punto nella zona da cui si vedeva meglio il paesaggio.

L’aria le sferzava violentemente la criniera e il rumore delle ruote metalliche sui binari dominava l’intera scena: un suono ritmico ma non assordante.

Il pegaso sospirò e poggiò le zampe anteriori sulla ringhiera della passerella, perdendo lo sguardo verso l’orizzonte.

Rimase a pensare per diversi minuti, finché una vocina non giunse dai dintorni.

“Ehy, Dash”. Era Spike, avvinghiato con un artiglio alla ringhiera, coprendosi leggermente gli occhi con la zampa libera.

“Ehy, soldo di cacio”, rispose l’amica, sorpresa.

“Come mai sei venuta qui?”, domandò, mettendosi accanto a lei e prendendo anch’egli ad osservare il paesaggio e tutto ciò che passava vicino a loro a gran velocità.

“Io… niente. Avevo solo voglia di uscire”.

“Non puoi resistere, eh? Devi per forza sentire il vento sulla pelle”.

“…Sì”, mentì.

“Sai”, riprese il drago, passandosi una mano sul mento, “Io non ho conosciuto bene questo pegaso… Questo Icarus. Non come lo hai conosciuto bene tu, perlomeno”.

“Non è che io e lui ci siamo conosciuti poi così tanto. Siamo stati insieme appena qualche giorno…”.

“Già… Eppure tanto è bastato per piazzarti su un treno e farti fare più di dieci ore di viaggio solo per vedere come sta”.

“Beh… E’ normale. E’ mio amico”, ammise.

“Si può diventare amici in così poco tempo?...”, la interrogò il draghetto viola, visibilmente sincero, “Sai, io ho sempre e solo conosciuto Twilight, prima di incontrare voi”.

“Beh… Di solito ci va un po’ di tempo… Però… Non so… con Icarus è stato diverso. Ci siamo voluti bene, e a tratti detestati, in modo rapidissimo. E’ stato… strano. Molto strano”.

“Certa gente è strana fin da subito, effettivamente”.

“Effettivamente…”, gli fece eco, non sapendo cosa dire.

Ci fu una pausa.

Spike si girò verso Rainbow: “Come pensi che stia?”.

“Non ne ho davvero idea”, gli rispose, a sguardo basso, “Era in una situazione non facile…”.

“Hai paura per lui?...”.

“Chi io? Paura? Non scherzare…”, ridacchiò, con scarsa convinzione.

“Mhh… Io avrei paura”.

“Che senso avrebbe?... Insomma… Non so cosa gli è successo ma in fondo potrebbe star bene. Forse potrebbe essere già guarito o… o in via di guarigione. Perché devo subito pensare al peggio?...”.

“Beh, non ho detto che devi pensare al peggio… Anzi, se la vedi così, secondo me è una buona cosa! Almeno non stai in ansia fino all’ultimo!”, concluse, sfoggiando buonumore. Dash, tuttavia, si fece contagiare dal suo ottimismo solo superficialmente.

“Vabbè”, disse infine Spike, “Io torno dentro. In effetti qui fuori non è male ma dopo un po’ il vento nelle orecchie mi rintrona… Ci vediamo…”.

“Ciao Spike. Ci vediamo dentro”, rispose l’amica.


    Il sole stava ormai calando all’orizzonte e il cielo divenne scuro.

Le prime stelle iniziarono a diffondersi nel cielo. L’aria si fece più fredda. Dash si strinse nelle spalle, rabbrividendo, e decise di tornare.

Dormivano tutte, fatta eccezione per Twilight, coricata sotto le coperte, intenta a leggere un tomo. Aveva gli occhi stanchi e il corno era appena luminoso, giusto da permetterle di osservare le lettere sulle pagine.

“Ehy, bentornata, finalmente”, disse, chiudendo il libro.

“Ciao Twilight…”.

“Iniziavo a chiedermi se il vento non ti avesse trascinata via”.

Rainbow si sforzò di sorridere: “Già… Io ora… andrei a letto”.

“Sicuro! Devi essere in forma per domani! Per l’incontro con Icarus”.

Quelle parole non la confortarono per niente. Anzi: le misero addosso un’ansia ancora maggiore di quanto avrebbe voluto.

“Sì. Vado a dormire”.

“Bene. Buonanotte, allora!”.

“Buonanotte, Twilight”.


Il pegaso si infilò nel giaciglio, su un fianco, dando le spalle al resto delle amiche assopite.

Pensieri e mille emozioni fecero capolino dentro di lei.

Si strinse su se stessa, inarcando la schiena.

Chiuse le palpebre, accompagnate da una lieve smorfia di sofferenza.

Non riuscì a comprendere cose le stesse succedendo.

Perché era così nervosa? Cosa la agitava?

Avrebbe rivisto Icarus, in fondo. O no?

E, se lo avesse trovato… in quale stato di salute?

Troppe Domande. Nessuna risposta.

Solo… il timore… il timore che il suo amico, che tanto aveva sconvolto la sua vita in così poco tempo… potesse…

Piccole gocce si formarono ai lati dei suoi occhi. I muscoli iniziarono a tremare, come se stesse morendo di freddo.

Una sensazione spiacevole si diffuse lenta ma inesorabile in tutto il suo corpo…


Provò paura.

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Capitolo 4
*** Oltre ***


“Avanti! Noi pegasi abbiamo coraggio da vendere!”, lo incitò l’insegnante, emettendo poi un trillo acuto dal fischietto che portava al collo.

Il piccolo pegaso verde fece sbucare il musetto dal limitare della nuvola, sincerandosi di quanto fosse lontano l’arrivo.

I compagni di classe dietro di lui, tutti più o meno sulla decina d’anni, iniziarono a saltellare e ricoprirlo di incitamenti.

“Forza!”, riprese l’insegnante, “Un bel respiro: salti, apri le ali e atterri sulla nuvola laggiù!”

Lo studente deglutì. Buttò un’ultima occhiata indecisa dietro di sé e, dopo aver visto gli amici festanti, prese coraggio: il suo sguardo si fece combattivo.

Si raggomitolò a terra e, strizzando le palpebre, decise di saltare nel vuoto.

Cadde per alcuni metri, sentendo lo stomaco arrivargli fino in gola

“Le ali, Smeraldo! Apri quelle ali e plana!!”, gridò il docente, facendo conchetta sul muso.

L’altro spalancò gli occhi di colpo, tastando il nulla con le zampe: dopo un drammatico momento di perdizione, spiegò finalmente le ali, che si gonfiarono prontamente. Il pony cercò quindi di planare, con traiettoria incerta e traballante, fino all’arrivo, rotolando rovinosamente sulla nuvola.

I compagni esplosero in un euforico grido di gioia.

Smeraldo si risistemò la criniera scompigliata, visibilmente contento.

“Bravo! Ti meriti almeno un nove”, dichiarò l’istruttore.

    Poco distante, in disparte, un gracile pegaso grigio osservava tristemente la scena. L’enorme chioma viola lo sovrastava nettamente, rendendolo più minuto di quanto già fosse.

Gli occhi saettarono rapidamente su ognuno dei compagni, vedendoli saltellare con l’ausilio di qualche battito d’ali.

Sospirò.

“Ehy, stecchetto”, disse una voce roca dietro di lui, “Che fai? Ti prepari anche tu per il salto?”.

Icarus si girò: era Rufus con i suoi due leccazzoccoli al seguito. Il pegaso dal manto nocciola gli si fece vicino, con un sorriso di sfida.

Il pony grigio distolse lo sguardo, visibilmente infastidito.

“Ehy, grissino, sto parlando con te”, disse con arroganza.

“Già! Sta parlando con te!”, gli fece eco uno dei compagni.

“Che vuoi?”, sbuffò Icarus, senza degnarlo di uno sguardo.

“Niente. Mi chiedevo solo quand’è che avresti fatto il salto anche tu”.

L’altro non rispose.

Il bullo infierì: “Ah già… Tu non puoi volare… Scusa… me n’ero proprio scordato”.

Il piccolo pegaso abbassò lo sguardo e corrugò la fronte, senza dir nulla.

Rufus spalancò le ali, già moderatamente sviluppate per un pony della sua età: “Come ci si sente, Icarus… Cactus… o come ti chiami… a non poter spiegare le ali, eh? Vorrei saperlo…”.

Gli occhi di Icarus si posarono per un attimo sulle proprie, di ali. Cercò di muoverle ma avvertì una spossatezza innaturale. Si fece triste e gli altri ridacchiarono tra loro.

Quando si zittirono, Rufus preparò ben bene il proprio discorso: “Sai, Icarizio? Avere te qui intorno è una vergogna… La vergogna per ogni pegaso che si rispetti”.

L’altro prese ad accumulare rabbia.

Il bulletto continuò: “Non dovresti nemmeno farti vedere… Un pegaso che non può volare… che può solo zampettare, e nemmeno tanto bene, è un po’ come… come… come un pesce che non sa nuotare!”.

I due amici si sforzarono di ridere.

“Non puoi volare e non potrai volare. Per quale motivo rimani qui, me lo spieghi? Perché non te ne vai da qualche altra parte? Nella palude laggiù, ad esempio? Lì non serve volare…”.

Icarus esplose: si issò malamente sulle zampe e, con tutto il fiato che aveva in corpo, gli urlò: “Non è vero!! Io posso volare!!”.

Così dicendo, si girò con convinzione verso la zona di prova, dove i compagni stavano esultando.

Il piccolo pegaso prese a trottare in modo un po’ scoordinato, acquisendo tuttavia una discreta velocità.

“Bene, WhiteCrow, almeno un otto e mez…”, stava per dire l’istruttore, quando Icarus gli sfrecciò sotto al muso.

“Icarus!!”, urlò, completamente esterrefatto, “Fermati!! Che stai facendo??”, e iniziò a corrergli dietro.

L’insegnante si buttò per bloccarlo, mancandolo nell’esatto istante in cui si lanciò dalla nuvola.

Icarus si trovò improvvisamente nel vuoto, con la criniera spazzata verso l’alto: raccolse il coraggio e spiegò le ali, subito prima di emettere un agghiacciante verso di dolore.

Le ali si girarono in modo innaturale, accompagnate da un rumore simile a legnetti che si spezzano.

Il pegaso strizzò gli occhi, per la paura e per il dolore.


La nuvola sotto di lui pose definitivamente fine alla sua caduta libera.

 

*** ***** ***
 

    “Dash… Dash, sveglia…”.

La puledra aprì gli occhi di scatto: mise a fuoco Fluttershy, sopra di sé, intenta a scrollarla dolcemente.

“Sveglia, Dashie… Siamo arrivate…”.

Il pegaso dalla chioma arcobaleno si alzò mollemente dal giaciglio, emettendo un verso di vaga sofferenza: aveva dormito poco. E male.

La carrozza era illuminata dai raggi del sole, che filtravano attraverso le finestre.

“Uao! Guarda che roba!”, strillò Twilight eccitata, appannando un finestrino col muso.

L’amica blu si girò in direzione del paesaggio, ancora un po’ rintronata.

Ciò che vide, però, fu effettivamente inusuale.

Il treno era giunto in stazione. Ma non era una stazione qualsiasi: tutto, dalle pareti ai pavimenti, era costituito da logore placche di metallo. Chiazze di olio e rumorosi ingranaggi untuosi facevano capolino un po’ ovunque, unitamente ad improvvisi sfoghi di vapore provenienti da tubature di chissà quale labirintico complesso.

Dietro il colossale edificio, che costituiva la stazione d’arrivo, si ergeva in lontananza e con altrettanta maestosità, un caotico assembramento di altissimi edifici squadrati. Una serie quasi infinita di comignoli fumosi riversava in cielo una quantità spaventosa di nubi nere e grigiastre. La volta non sembrava nemmeno azzurra: aveva piuttosto le tonalità dell’arancione e del marrone opachi.

Per concludere il quadro: un po’ ovunque fluttuavano imponenti palloni volanti. “Zeppelin”, come li definì Twilight di lì a poco.

Rainbow spalancò la bocca: “Che… che diavolo…”.

“Questa è la periferia di Steamdale”, aggiunse l’unicorno viola, con una certa saccenza.

“Oh… per… Celestia…”, dichiarò Rarity, con occhi semplicemente terrorizzati, “Ma… ma stai scherzando?? Questo luogo è il girone infernale dei pony per bene… E… e… oh, santo cielo, ma cosa mi tocca vedere??”.

La puledra bianca si mise le zampe sulle guance, vedendo come i passanti fossero vestiti e agghindati in modo decisamente datato: cilindri, completi con code di pinguino, messe in pieghe che sfidavano la gravità e tutta una serie di altri accessori “vintage” che non avrebbero stonato in una logora foto d’altri tempi.

Fluttershy si fece piccola piccola: “Non… non mi sembra che qui la natura sia particolarmente considerata”. Un piccolo germoglio sbucò da una crepa nel metallo di un marciapiede, morendo subito dopo nel canonico ultimo respiro.

“In effetti, zuccherino”, puntualizzò Applejack, rivolgendosi a Sparkle, “Devi ammettere che questo posto è un tantinello… come dire?... Innaturale?...”.

“Fa schifo, ecco cosa fa!”, concluse Pinkie, visibilmente demoralizzata dalle tinte “asettiche” del luogo.

“Su, su…”, fece Twilight, cercando di risollevare il morale, “Non dovremo rimanere qui… non ci resta che prendere lo Zeppelin che ci porterà fino…”.

“P-prendere cosa?...”, balbettò Fluttershy, improvvisamente spaventata.

“Io sto con la dottoressa Dolittle!”, dichiarò Rarity, stringendo il pegaso giallo a sé, come fosse un oggetto, “Penserai mica che venga lassù, in mezzo a quel… a quel tugurio di smog e roba varia?? Non esiste!”.

“La principessina ha paura di un po’ di polvere?”, ironizzò maliziosamente Applejack.

“Ah! Certo! Per una che nella polvere è abituata a rotolarcisi quotidianamente è facile!”.

“Suvvia ragazze, state calme…”, si intromise Twilight, “Purtroppo l’Emerald Lake è ancora piuttosto lontano e qui gli Zeppelin sono il mezzo migliore per coprire grandi distanze. Su! Sarà divertente!”.

“Sìì!! Divertente!!”, strillò Pinkie, che percepì solo quell’unica parola dell’intero discorso.

    Dash, tra tutte, non disse nulla. Si limitò a guardare l’esterno con una vaga aria di melanconia.

“Ehy… Rainbow Dash?”, chiese Spike, dandole un colpetto col gomito, “Che guardi?”.

“…Niente”, rispose.

“Ehy, signorine”, si intromise il draghetto, “Vorrei ricordarvi che qui abbiamo un pegaso da visitare…”.

“Uff… Hai ragione Spikino ciccino!”, sentenziò Rarity, incredibilmente impettita, “Per Icarus sarò ben disposta a rovinarmi gli strass e impolverarmi la chioma!”.

“Questo è parlare!”, esultò Twilight.

“Se però non hanno una doccia giuro che faccio una strage…”, aggiunse la puledra bianca, decisamente sottovoce, incamminandosi verso l’uscita.


    Il gruppo si riversò nella stazione, portando con sé il carico di doni.

“E i tuoi vestiti?”, chiese Applejack, rivolgendosi all’amica dalla criniera viola.

“Il corriere ha l’ordine di portarli a destinazione!”.

“Hai pensato proprio a tutto, eh?...”.

Gli zoccoli risuonarono fastidiosamente sul marciapiede metallico, come se stessero camminando su una passerella.

“Oddio… Ma come fanno?...”, borbottò Rainbow, iniziando immediatamente a fluttuare ad una spanna da terra.

Pinkie, per tutta risposta, prese a saltellare gioiosamente, provocando il rumore di un martello su un foglio di lamiera: “Sìì! Sdeng! Sdeng! Wee! Sdong! Bing! Bang!”.

Sparkle la bloccò a mezz’aria con un incantesimo. Tutti ringraziarono.

I sette si mossero quindi attraverso i corridoi interni, incrociando una marea di pony con vestiti retrò e giungendo infine in un enorme androne semiaperto, da cui decollavano e atterravano decine di Zeppelin dalle forme e colori più disparati.

Un acre odore di gasolio punse il muso dei presenti.

Uno sbuffo di vapore improvviso investì quindi Rarity in pieno volto, strinandole i capelli all’indietro e spedendo il suo elegante cappello in orbita, come un aquilone.

“Calma, Rarity”, disse, digrignando i denti, “Lo fai per una giusta causa…”.

“Numero otto… numero otto…”, sibilò Twilight, scrutando alcuni mezzi volanti, con occhi sottili, “Ah! Eccolo! Numero otto!”.

Uno Zeppelin di medie dimensioni, dotato di un grosso pallone color amarena, li attendeva ad un lato di una scaletta, su cui già si stavano imbarcando alcuni passeggeri.

Un tizio baffuto, in testa alla coda, mosse rapidamente una zampa e un meccanismo a molla installato sulla spalla gli catapultò un orologio a cipolla sullo zoccolo. Lo osservò attentamente e poi strillò a squarciagola: “Volo otto!! Direzione Greywood, Highcliff, Emerald Lake, Whitedale e PegasusNest, prossimo alla partenzaaa!!”.

Il gruppetto si affrettò a salire, accomodandosi nell’ampia cabina sottostante, insieme ad altri pony.

Pinkie spintonò per riuscire ad affacciarsi ad un oblò, visibilmente eccitata.

Un trillo avvertì la chiusura dei portelli e, dopo un po’, il velivolo prese a tremare e a sollevarsi da terra.

    In pochi minuti il terreno divenne sempre più distante.

La stazione e l’immenso traffico volante divennero immediatamente ben visibili.

Si riuscì ad osservare meglio anche l’impressionante Steamdale ma la cappa di smog rendeva tutto ovattato, impedendo alla vista di proseguire oltre un piccolo assembramento di montagne poco lontano.

Fluttershy sbuffò dispiaciuta.

Lo Zeppelin impostò quindi una traiettoria parallela al terreno, lasciandosi Steamdale alle spalle, superando i monti.

Oltre la catena rocciosa, non più smorzato dalla cappa di inquinamento, fece capolino un paesaggio spettacolare, costituito da dense pinete verde scuro e scintillanti laghi celesti.

Il pegaso giallo sgranò quindi gli occhi (e così fece il topolino, senza che nessuno lo notasse).

Il velivolo proseguì nel tragitto, superando altri assembramenti bucolici mozzafiato.

Le amiche proruppero diverse volte in esterrefatti versi di sorpresa, sincerandosi come, al di là della caotica città di metallo, ci fosse una natura densa e rigogliosa.

Lo Zeppelin sì fermò quindi due volte: una per Greywood (un grosso villaggio folcloristico, immerso nel verde) e una per Hichcliff (una città di pietra scolpita a ridosso di una montagna). Entrambe fenomenali.

Le turiste non riuscirono a trattenere la meraviglia.

“Ci siamo!”, disse improvvisamente Sparkle, “La prossima fermata è per l’Emerald Lake! Icarus è vicino!”.

Quando sentì il nome dell’amico nelle orecchie, Dash drizzò improvvisamente il capo, riprendendosi dalla tristezza… per sprofondare in una crescente agitazione.

“Ehy! Hai sentito, zuccherino?”, proruppe Applejack, voltandosi dal sedile di fronte, “Stai per rivedere il tuo amico!”.

“E’… è fantastico…”, rispose l’altra, simulando un sorriso.

“Sìì!! Ali di caramello!!”, esultò Pinkie

Rainbow sentì il fiato crescere di frequenza e farsi estremamente corto. Deglutì un bolo quasi privo di saliva.

Per un singolo istante si chiese cosa diavolo stesse facendo. Perché fosse su quello Zeppelin. Cosa si aspettasse di trovare.

Icarus poteva anche non essere lì… Se fosse stato trasferito? Se fosse guarito e se ne fosse andato? No… sarebbe probabilmente tornato. O no? Magari si sarebbe invece goduto le proprie ali, come suo diritto.

E se fosse stato sotto le cure?... Se non avessero dovuto disturbarlo… Se… se la cura non avesse funzionato?... Se le cose fossero andate…

Storte?…

Il cuore prese a batterle forte.

“Non vedo l’ora di fargli assaggiare il mio pasticcio di mele!”, dichiarò Applejack.

E se stesse male? Se… se… se fosse stato meglio non partire?

Aspettare, forse. Evitare di intromettersi?...

Sparkle sfregò gli zoccoli tra loro: “Chissà cosa penserà leggendo il settimo capitolo di questo plico arcano!”.

No… no: era una cosa sbagliata. Non sarebbero dovute essere lì… Forse… forse avrebbero ancora fatto in tempo a tornare indietro, prima di…

“Dash! Dash, siamo arrivate!”, le disse Twilight, scuotendola con un sorriso.

Il pegaso blu ruotò rapidamente la testa, tornando alla realtà.

Lo Zeppelin era fermo.


    Le amiche scesero dal mezzo.

Una serie di verdeggianti montagne faceva da padrone sullo sfondo, ricoperto dalle già decantate pinete.

L’aria era fresca e il cielo limpido. Un tipico paesaggio montano.

Un piccolo sentiero conduceva verso una struttura distante, collocata a ridosso di una sporgenza: quella era l’unica cosa che stonava, rispetto al resto, trattandosi di un edificio bianco latte la cui funzione doveva essere quella di un ospedale (quindi funzionale piuttosto che pittoresco).

In mezzo alla vegetazione, tuttavia, ricreava un contrasto accettabile, perlomeno rispetto alla fumosa e rugginosa Steamdale.

Al di sotto della struttura era ben visibile un enorme cratere ricoperto di erba e arbusti: ecco ciò che rimaneva dell’Emerald Lake. Era ancora abbastanza profondo da poter contenere dell’acqua ma, senza una sorgente ad alimentarlo, non si sarebbe di sicuro riempito per una semplice pioggia.

Ovunque si udiva il canto degli uccelli e il fruscio del vento tra le piante.

Rainbow Dash rimase piacevolmente colpita: “Beh… almeno il posto sembra carino…”, disse sottovoce.

Il topolino di Fluttershy le balzò su una spalla, particolarmente felicitante.

“Uuhhh… hai visto?”, gli disse il pegaso dalla chioma rosa, “C’è un sacco di verde, qui!”.

Applejack si strofinò il mento: “Quello è l’ospedale, quindi…”.

“Sì”, rispose Twilight, “E’ un importante centro clinico, specializzato nella cura e negli studi su malattie rare”.

“Icarus! Icarus! Icarus!”, cantilenò Pinkie, prendendo a saltellare lungo il sentiero.

“A-aspetta!...”, la fermò Dash.

L’amica si bloccò, girandosi verso di lei: “Sì?”.

“Ecco… Solo… solo un attimo…”.

“Non ti senti bene?”, chiese Fluttershy, un po’ preoccupata.

“No io… sto bene… E’ solo… è stato il viaggio… L’altitudine…”, buttò lì.

Spike aggrottò le sopracciglia, incredulo: “Eh? Cosa?...”.

Rainbow scosse la testa: “Niente. Andiamo”.

    Il gruppetto seguì quindi il sentiero, giungendo di fronte ad un grosso cancello che permetteva l’ingresso attraverso mura di cinta in pietra grigia.

Dinnanzi alle inferiate vi era un unicorno in camicia bianca e un cartellino al petto.

“Buongiorno”, disse, con tono sicuro e autoritario.

“Buongiorno”, rispose cortesemente Sparkle, “E’ possibile entrare nella struttura?”.

“Certo: i visitatori hanno accesso a tutte le aree non riservate, fino al termine della giornata, secondo questi orari”, e indicò una targhetta metallica all’ingresso.

La puledra viola lesse quanto riportato, poi gli chiese: “E’ anche consentito visitare i pazienti?”.

“Se non sono in cura presso aree speciali, non ci sono assolutamente problemi”.

Rarity inclinò il volto su un lato: “Aree… speciali?”.

L’altro si voltò verso la clinica: “Sì, ci sono aree dove i pazienti devono stare sotto una sorveglianza particolare e possono essere visitati solo in determinate circostanze”.

“Abbiamo capito”, concluse Twilight con un sorriso, “E’ stato molto gentile”.

“Dovere. Ah, e comunque”, aggiunse, mentre apriva loro il cancello, “Per qualsiasi problema rivolgetevi pure al personale. Potrebbero esserci dei pazienti… problematici… Ma sono per lo più curati in zone non accessibili, quindi non preoccupatevi”.

“Non ci bastava Pinkie”, bofonchiò Spike, vagamente preoccupato, “Ora ci tocca andare in mezzo ai matti?...”.

“Spike!”, lo ammonì l’unicorno viola.

“Ma dov’è il corriere con le mie valige??”, chiese Rarity, stizzita, continuando a lanciare occhiatacce al sentiero da cui erano arrivate.

I sette superarono quindi le cinta e si trovarono in un lussureggiante giardino farcito di salici, piante da fiore e fontanelle. Un luogo tutto sommato piacevole.

Alcuni pony passeggiavano tranquillamente su piccoli sentieri in ciottolato, mentre altri si godevano il luogo, adagiati comodamente su panche e sedie in legno.

Un certo numero di pazienti era chiaramente scortato dai medici, probabilmente per evitare l’insorgere di problemi di sorta.

Uno di loro, con barbetta da capra e una strana scintilla negli occhi,  si avvicinò improvvisamente alle puledre, dichiarando: “Tentare di tentennare tenendo teneri tentativi…”.

Un tizio in camicia bianca, lì vicino, gli mise una zampa sulla spalla e lo ricondusse indietro: “Tranquillo, tranquillo… Sono solo dei visitatori, non vedi?”, lo rassicurò.

“Vedo veramente verificando verità!”, farneticò. E si allontanarono.

“Che bel posto! E che gente simpatica!”, concluse Pinkie Pie, entusiasta.

Spike lanciò un’occhiataccia a Twilight che gli rispedì un sorriso imbarazzato.

Muovendosi lungo i sentieri, giunsero infine all’ingresso dell’edificio vero e proprio: il centro medico si sviluppava su tre piani, dotati di ampie vetrate a specchio e alcune balconate. La struttura era stata vagamente abbellita con qualche pianta in vaso e alcune edere: un pallido tentativo se confrontato con il verde che faceva da padrone nelle zone limitrofe.

Rainbow seguì il complesso con lo sguardo, per tutta la sua altezza, arrivando a puntare gli occhi quasi al cielo.

“Icarus si potrebbe trovare lì dentro”, pensò, e percepì nuovamente un’ansia crescente farsi strada nel suo cuore.

Entrarono.


    L’interno si presentò semplice e minimale.

Una grossa stanza era adibita a sala d’attesa e accoglienza.

I nuovi arrivati scrutarono l’ambiente: mura bianche e corridoi interminabili si stagliavano da tutte le parti, con tanto di strisce colorate lungo le mura, per aiutare ad orientarsi.

Non c’era molta gente ma, da alcune stanze, si udivano echi di numerosi pony che parlavano.

Luoghi di terapia, forse?

“Buongiorno! Posso aiutarvi?”, chiese una receptionist bionda, con eleganti occhiali da lettura.

“Aww!”, rispose Rarity, “Sì! Lei mi deve proprio dire dove ha trovato quello splendido paio di occhiali!”.

“Uh… Oh? Questi?... Sì li ho presi in un piccolo negozietto a…”.

“Ehm…”, si intromise Twilight, appena sorridente, “Mi scusi… Volevamo sapere se c’è un pegaso ricoverato nel vostro centro…”.

L’altra fece ritorno al presente: “…Uhh… Ah! Sì! Mi dica: chi cercate?”.

“Un pegaso di nome Icarus. Però non sappiamo con certezza se si trovi qui”.

“Certo. Ora controlliamo”, e, sistemandosi gli amati occhiali sul muso, prese a scartabellare alcuni fogli che teneva vicino al bancone.

“Icarus… Icarus…”, iniziò a ripetere sottovoce, corrugando la fronte.

Dash, dietro tutte, sentì l’ansia crescere.

“Mhh… Non è qui…”, concluse infine l’altra.

Il pegaso blu svuotò i polmoni con uno sbuffo, non sapendo come prendere quella notizia.

“Ah no, aspettate!”, si corresse prontamente, “Eccolo, era nello schedario vicino. Icarus. Paziente numero ottantotto, sotto cure mediche di livello B, stanza tre”.

A quelle parole, la tensione in Rainbow Dash tornò più potente che mai.

Applejack si girò verso Pinkie con un sorriso: “Ah! Allora si trova qui!”.

“Sìììì!””, urlò l’altra, “Caramello!”.

“Cure di livello B?”, domandò Sparkle alla receptionist che, dopo aver spazzato il ciuffo biondo dietro una spalla, rispose: “Sì, indica che il paziente è sotto ricovero intensivo di tipo speciale”.

“I-intensivo?”, balbettò Dash.

“E’ il settore al secondo piano, dove i pazienti necessitano di cure particolari e costante attenzione dal personale medico”.

Uno spicchio di Fluttershy sbucò da uno spiraglio tra le amiche: “E’… è possibile visitarlo?”.

“Sì ma solo se un medico o un infermiere vi assiste nella visita”, rispose.

“Capisco”, concluse Twilight, girandosi poi verso le altre, “Beh! Non ci resta che andare a trovarlo, no?”.

Le compagne risposero con entusiasmo. Tutte tranne Rainbow, ovviamente.


    Le puledre e il draghetto si avviarono per i corridoi, seguendo la traccia colorata che conduceva al secondo piano, verso il reparto B. Nel tragitto incrociarono diverse stanze per le terapie: in alcune vi erano rinchiusi dei pony vestiti da personaggi famosi, in altri vi erano strani macchinari per la riabilitazione fisica, dove i pazienti trottavano, sudavano e sbuffavano.

Passarono anche d’innanzi alla sala per il recupero mentale, dove videro un po’ di tutto: pony che parlavano allo specchio, pony di terra convinti di volare come pegasi, pegasi convinti di saper incantare come unicorni e unicorni convinti di essere attaccapanni (con tanto di giacca appesa al corno).

Pinkie divenne sempre più felicitante: “Mi piace un sacchissimo qui!”.

Salirono quindi una rampa di scale in marmo bianco: il rumore dell’ambiente circostante e il brusio delle chiacchiere li abbandonarono quasi improvvisamente, come se fossero giunti in una zona molto più sorvegliata.

Vasi, oggetti, quadri e qualsiasi altro elemento d’arredo erano assenti; le finestre socchiuse, creando una leggera penombra in ogni angolo e insenatura.

Qualcosa lasciava intuire come il silenzio fosse inviolabile. Un pungente odore di disinfettante aleggiava più o meno ovunque.

“E’ qui che hanno messo Icarus?...”, chiese Rainbow sottovoce, incupita per la tristezza di quei corridoi.

“Credo… credo di sì…”, rispose Twilight, anch’essa un po’ assoggettata dall’ambiente.

Il rumore dei loro zoccoli prese a rimbalzare debolmente sulle pareti spoglie, mentre si inoltravano nel labirinto di stanze e stanzette, seguendo le indicazioni. L’ambiente si fece sempre più silenzioso e scuro.

Giunsero infine davanti ad una porta su cui erano registrati tre pazienti, tra cui il numero ottantotto.

“Ci… ci siamo, gentaglia”, disse Applejack con voce un po’ tentennante, sistemandosi il cappello.

Persino la goliardica vivacità di Pinkie si fece piccola piccola, fino quasi a scomparire, dinnanzi alla stanza numero tre.

“Dash…”, disse Sparkle all’amica, “Vuoi… vuoi avere tu l’onore di…”.

L’altra trasalì: “C-cosa? Io?...”.

“Sì… Cioè… Vuoi entrare tu, per prima?...”.

Le zampe del pegaso tremarono appena: “Io… io…”.

“RD?”, intervenne Spike, “Che ti succede?...”.

Lo zoccolo della puledra dalla chioma arcobaleno si sollevò debolmente, poggiandosi sulla maniglia.

Dopo qualche attimo di esitazione, si mosse e fece scattare il meccanismo. La porta si aprì lentamente.

Rainbow prese un respiro profondo e decise di infilare la testa all’interno, assolutamente incerta su ciò che avrebbe visto.

Icarus non c’era.

Nella stanzetta erano collocati tre lettini, uno occupato da un anziano pony dallo sguardo triste; l’altro da un piccolo unicorno viola, di poco più di sei o sette anni, con il capo completamente rasato e intento a leggere un fumetto.

Il terzo lettino, vicino ad una grossa porta-finestra, era vuoto. Le coperte, tuttavia, erano in disordine. Era forse uscito?

“Ciao”, disse il giovane pony, sollevando i grossi occhioni celesti, quasi vitrei.

Solo in quel momento Dash intuì che si trattava di una femmina e non di un maschio: il capo rasato l’aveva tratta in inganno.

“Uh… Oh… C-ciao…”, rispose.

“Chi sei?”, chiese innocentemente.

“I-io… Mi… mi chiamo Rainbow Dash”.

La piccola, con il volto assolutamente inespressivo, dichiarò: “Piacere. Io mi chiamo Velvet”.

“Piacere mio…”.

“Rimarrai qui?”, domandò.

“Eh?”.

“Rimarrai qui con noi? Ogni tanto arrivano dei pony e ci rimangono per un po’. Poi se ne vanno. Tu rimarrai qui?”.

“No… no, io… sono solo di passaggio…”.

“Oh. Ok”, e riportò lo sguardo al fumetto.

Il vecchio sbuffò, apparentemente stizzito.

“Ehm…”, farfugliò il pegaso, “Sai… sai mica se c’è qualcuno qui… Cioè… se c’è qualcuno che… Insomma… che dovrebbe essere qui, oltre a voi due?”.

Velvet rialzò lo sguardo verso l’interlocutrice: “Stai parlando dell’uccisore di draghi?”.

Dash ebbe un tuffo al cuore e un timido sorriso le nacque spontaneamente sul volto: “S-sì… l’uccisore di draghi…”.

“Guarda cosa mi ha regalato!”, disse l’altra, con un improvviso impeto di energia, e le mostrò una gemma che teneva sul comodino vicino al letto.

La puledra blu cercò di smorzare la emozioni dentro di sé: “E’… è molto carino…”.

“Se lo tocchi in un certo modo si illumina!”.

“Lo so…”.

“E’ molto bello…”, concluse la piccola, osservando il monile e incupendosi progressivamente.

“Comunque”, riprese Velvet, prima di tornare alla sua lettura, “E’ uscito un attimo con l’infermiera. Lo fa spesso. Si fa portare davanti alla finestra alla fine del corridoio”.

“Ah… O-ok…”.

“Forse vuole controllare se scorge dei draghi nel cielo…”.

“Forse…”, sussurrò, accertandosi come la piccola paziente fosse tornata nel mondo del suo fumetto.

“Io vado a cercarlo, allora…”.

“M-mh. Ok. Ciao”.

“…Ciao”.

    Dash si voltò quindi verso le altre.

“Uao…”, ammise Spike, un po’ triste, “Certo che… che qui… è parecchio pesante la faccenda…”.

“E’ pur sempre un ospedale, Spike”, gli disse Twilight.

“Già…”

Lo sguardo del pegaso cadde sull’angolo del corridoio oltre la stanza, dove si sarebbe potuto trovare l’amico.

“Su…”, disse, come se dovesse affrontare una delle questioni più importanti della sua vita, “Andiamo a vedere…”, e si incamminò lentamente. Le altre la seguirono.

A pochi metri dell’angolo, sentì una coppia di voci: una femminile e una maschile, vagamente famigliare.

Raccolto l’ultimo briciolo di coraggio che le rimaneva, decise di sporgersi oltre.


Lo vide.

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Capitolo 5
*** Un Salto ad Occhi Chiusi ***


Rainbow Dash sgranò gli occhi, portandosi contemporaneamente gli zoccoli alla bocca.

Le sopracciglia assunsero una connotazione mista a sorpresa e dolore.

Giù, in fondo al corridoio, un’infermiera in camice bianco si trovava dietro una carrozzina su cui sedeva l’amico. I due le davano le spalle e non si erano accorti della sua presenza, collocati d’innanzi ad una finestrella da cui Icarus poteva osservare una piccola parte di paesaggio.

Il pegaso grigio era ancor più magro di quanto se lo ricordasse. Il suo viso era stanco, leggermente incavato e solcato da profonde occhiaie. Sul corpo, proprio di fianco alla cinghia attorno al busto, si potevano quasi contare le costole. Le ali sembravano logore e un po’ spiumate.

La sua criniera non era più brillante e vaporosa ma cadente e spenta.

L’amica provò sensazioni contrastanti: gioia, dolore, sorpresa, apprensione, felicità… ma più di tutto lo colpì il suo sguardo, intravisto di profilo: triste, freddo e melanconico. Di certo non lo sguardo fiero e combattivo che le era rimasto impresso nella memoria.

Pinkie cercò di dire qualcosa ma Dash le fece cenno di non muoversi e si incamminò molto lentamente verso di loro, con sguardo estremamente triste e senza farsi sentire.

L’infermiera proseguì il dialogo con il paziente, continuando ad ignorare la presenza di Dash che sopraggiungeva: “…E così non ti mancano le altitudini, Icarus?”.

L’altro raccolse il fiato, con un sibilo preoccupante dalle narici. Lo sguardo tornò serio e fiero, per un istante: “No. Non mi mancano”.

“Non ti piaceva osservare il mondo, da lassù?”.

“No. E’ una cosa di cui non mi importa”, mentì.

“Dov’è che stavi prima, Icarus? Forse me lo avevi già detto ma non ricordo…”.

Dash, sempre più vicina, si immaginò una risposta stizzita da parte dell’amico, com’era suo solito, ma non fu così.

“Una casa ad alta quota, sopra Ponyville, vicino a Cloudsdale”.

“Cloudsdale… Ne ho sentito parlare”, continuò l’altra, con evidente falso interesse.

Icarus sbuffò: “Sì. Una città tra le nuvole…”.

“Dev’essere un bel posto”.

“Boh. Se non voli, non sei fatto per Cloudsdale”, ammise amaramente.

“Non l’hai mai vista, quindi?”.

“Una volta. Da piccolo. Ma tanto… poco importa. Se non voli… non sei fatto per Cloudsdale”.

L’infermiera rimase in silenzio.

L’altro parve immergersi nei propri pensieri: “In fondo… il cielo e tutto ciò che contiene… è completamente estraneo a chi non può volare…”.

La puledra stette per rispondere ma Dash si intromise di fianco a lei, alzando uno zoccolo e facendole segno di non parlare. L’infermiera fece un piccolo sobbalzo, non aspettandosi l’arrivo di qualcuno alle spalle. Ma poi capì e lasciò il posto a Dash.

Icarus, ignaro di tutto, continuò il suo discorso, a sguardo basso: “Che poi… non voglio fare la vittima… I pony di terra non volano. Non è che loro possano… Insomma… Però… però, nascere pegaso… e non… e non poter volare… è come farti nascere e poi rinnegare automaticamente ciò che sei… Come… come toglierti l’aria dai polmoni… Senza contare i problemi alle ossa e tutto il resto…”.

L’amica continuò ad ascoltarlo in silenzio, sempre più affranta.

La voce di Icarus si arricchì di un lieve tremore: “Ogni tanto… ogni tanto mi chiedo perché tutto questo debba capitare… Cosa ci sto guadagnando… se sto migliorando in qualcosa… A me non sembra. Anzi… è come se tutto non avesse senso… Certe volte… lo ammetto… vorrei solo poter spiegare le ali… e… e volare lontano. Lontano e veloce… via da tutto questo… Per sempre…”. Scosse il capo.

La puledra raccolse fiato e coraggio e, stringendo saldamente le maniglie della sedia tra gli zoccoli, sussurrò: “Sai… una volta ho conosciuto un pegaso…”. Le orecchie di Icarus si drizzarono improvvisamente e le sue palpebre si spalancarono.

Dash continuò: “…Un pegaso che mi disse… che tanto più voliamo veloci… e tanto più ci allontaniamo da coloro che non possono volare”.

Il pony dalla criniera viola si girò lentamente.

Quando gli sguardi dei due si incrociarono, si mise uno zoccolo sul petto, avvertendo un mancamento al respiro.

“Icarus!”, intervenne subito l’altra, poggiandogli una zampa sulla spalla, “Icarus, che hai??”.

L’amico la cinse per il collo con la poca forza che aveva. Rainbow non seppe come reagire.

“Dash… Dash…”, disse, strizzando gli occhi per la commozione, “Sei… sei davvero tu… Non… non ci posso credere…”.

“S-sono qui, Icarus. Sono io…”.

    Ci fu un lungo, interminabile attimo, in cui i due non fecero altro che stare vicini, senza dir nulla.

Quando la presa dell’amico si allentò, si poterono di nuovo osservare negli occhi, con un sorriso.

Nonostante fosse sciupato, il volto di Icarus parve illuminarsi leggermente.

“Non sai cosa significhi per me”, riprese lui, asciugandosi una lacrima, “Averti qui… in questo momento…”.

“A-anche per me… Cioè… vale… vale lo stesso per me…”, farfugliò l’altra, in imbarazzo.

“Mi scusi”, intervenne l’infermiera, “Stia attenta a non stressarlo troppo. E’ in terapia e…”.

Ma Icarus non le fece terminare la frase. La fulminò con lo sguardo e, con rinnovatissima arroganza, le puntò uno zoccolo contro e berciò: “Scusa…? Non vedi che stiamo parlando. Eh? Par-la-ndo. Non quella specie di teatrino che intrattieni con me tutti i pomeriggi…”

“Ah… M-ma io…”, balbettò.

“Ecco, va a controllare se non hanno bisogno di qualche semolino giù al reparto cariatidi, ti spiace?”.

L’infermiera, impreparata ad una simile reazione, fece qualche passo indietro e si congedò, interdetta.

Il pegaso la riprese un ultimo istante: “Ah e per la cronaca… Te l’ho detto sette volte che vengo da Ponyville… PONYVILLE... Pony. E ville. Non è difficile, ok? Se hai problemi di memoria, fatti un appunto”.

“Icarus!”, intervenne Dash, a metà tra il divertito e la mamma ammonitrice, lieta di rivedere in lui la foga di un tempo, “Non ti sembra di averla trattata male persino per i tuoi standard?”.

“Ridicolo!”, rispose, “Per i miei standard avrei dovuto tirarle un vaso, se solo ne avessi avuto la forza… e se solo ce ne fosse uno, qui intorno”.

“Sono contenta di rivedere il vecchio Icarus testardo e scontroso”, ammise ridendo.

Lo sguardo dell’amico si fece improvvisamente serio, non riuscendo a schiodarsi da quello della puledra.

“Mi… mi sei mancata tantissimo… Dashie…”, dichiarò, con un filo di voce.

Rainbow arrossì leggermente: “Non mi… non mi avevi mai chiamata così, Icarus… Però anche tu mi sei mancato… Non sai quanto…”.

Dopo un silenzio fatto di fugaci giochi di sguardi, Dash si voltò: “Ehy! Ma non è tutto! Guarda chi c’è là!”.

A quelle parole, Pinkie non riuscì a trattenersi e voltò l’angolo strillando come una pazza, saltellando verso di lui: “Carmarelloooo!!!”. Le altre la seguirono a ruota.

Applejack si prodigò in un’impennata, accompagnata da una tipica esultanza mandriana, mentre Rarity e Twilight fecero un’entrata meno appariscente. Per ultima, ovviamente, si presentò la tentennante Fluttershy, assieme al drago viola.

Il pony rosa gli saltò letteralmente al collo: “Icaruuuus!!”.

“Ah! Occhio! Il caramello si spezza facilmente, razza di pazzoide!”, disse ridendo, cercando di contenere la foga dell’amica.

“Oh!”, aggiunse Rarity, quasi stesse recitando un ruolo melodrammatico, “Vedo che non hanno tenuto conto dello SPLENDIDO e accuratissimo lavoro di makeup che ti ho riservato alla Carousel Boutique! Dovremo rimediare quanto prima! Se solo quel dannato corriere si sbrigasse ad arrivare!...”.

“Ci… ci siete proprio tutte…”, concluse il pegaso, con un sorriso.

“Certo, zuccherino!”, rispose Applejack, “Una promessa è una promessa! E guarda un po’ qui!”.

La puledra slacciò la sacca sulla schiena e un intenso profumo di mele si diffuse nei dintorni.

“E’ quella sbobba che osaste propinarmi alla tenuta?...”.

“Eyup!”.

“Splendido”, ammise, con sguardo goloso.

“Così è anche più buono!”, affermò Pinkie, vuotandoci sopra una borsa colma di zucchero filato.

“Ehy!!”, tuonò l’amica arancione, “Che diavolo fai?? Così li rovini!”.

Twilight sollevò magicamente i tomi che portava a tracolla e glieli mise vicino: “Tieni, Icarus. Questi sono i volumi di cui ti avevo parlato… Ricordi?...”.

“Ah!”, ridacchiò, “Cos’è? Credi mi sia rimbambito del tutto?? Scommetto che si tratta dell’um-um-um! L’Artium Arcanorum Tabulatorum!”.

“Esatto!”, rispose con felicità.

In quel preciso istante, un pony ansimante e sudaticcio sbucò dall’angolo del corridoio. Tra i denti reggeva un foglietto. I presenti lo osservarono con aria interrogativa.

“Miss… miss Rarity?...”, sbuffò, col fiatone, “E’ qui una certa Miss Rarity?...”.

“Sono io”, rispose la puledra.

“Il… il suo carico… la attende… fuori dal cancello…”.

“Ah! Finalmente! Era ora!”.

“Potrebbe… cortesemente… porre una firma… qui?”, e le allungò foglio e matita. L’altra pose la firma tramite la magia, realizzando una scritta elegante e ricca di ghirigori.

Fluttershy, per canto suo, rimase dietro tutte, componendo piccole traiettorie circolari sul pavimento con una zampa.

“Avanti, Flutterhy”, la incitò Dash. Icarus la osservò senza dire nulla.

“Oh… Ehm… Io… Ecco…”.

Il pegaso grigio assunse un’espressione maliziosa: “Se Fluttershy non va dallo storpio… allora lo storpio va da Fluttershy!”, e diede un paio di colpi sulle ruote della sedia, avvicinandosi alla puledra dalla criniera rosa, che quasi si ritrasse.

“Allora??”, domandò, cercando di incrociare il suo sguardo basso, sotto la chioma cascante.

L’amica emise un verso strozzato, poi riuscì a buttar lì due parole: “Lui… lui… spero ti possa tenere compagnia… Si chiama Nicodemo”.

“Uh… Chi? Cosa?”, domandò Icarus, senza capire.

Ma il topolino già si trovava sulla sedia a rotelle, di fianco alla sua spalla, e lo osservava con sguardo vispo. Il giovane pony lo notò solo all’ultimo.

Fluttershy continuò: “E’… molto intelligente… Penso possa tenerti compagnia senza causarti troppi fastidi. Lui… lui sa badare a se stesso, non devi preoccuparti…”.

“Nicodemo, eh?”, sbuffò Icarus, lanciando uno sguardo di sufficienza al roditore. Il topolino inclinò il capo su un lato, con vaga curiosità.

“Non… non ti piace?...”, tentennò l’amica.

Icarus portò delicatamente uno zoccolo verso il musetto dell’animale, il quale si fece carezzare il capo, salendogli poi sulla zampa. Il pegaso sorrise divertito e, subito dopo, infilò la testa sotto la criniera penzolante di Fluttershy, finendo muso a muso con lei: “Grazie. Sono sicuro che mi terrà molta compagnia”.

L’amica si ritrasse improvvisamente, imbarazzatissima, con le guance rosse.

“E tu, piccoletto viola?”, chiese quindi a Spike.

“Uuhhh…”, esitò il drago, aggrovigliando le dita tra loro, come se avesse un rospo da sputar fuori da un momento all’altro: “Senti… Che cavolo è questa storia dell’uccisore di draghi, si può sapere??”, sbottò infine.

“Eh!”, ridacchiò il pony, “Come? Non lo sai? Io sono un ammazza draghi!”.

“Sì, Spike”, continuò Rainbow, con sguardo accondiscendente, “Icarus, quando non è occupato a rimorchiare puledre o a fare i giri dell’isolato, si dedica all’uccisione indiscriminata di grossi draghi feroci”.

“Tramite palle di fuoco”, aggiunse l’altro.

“Già. Dimenticavo le palle di fuoco”.

“Dalle narici”.

“Giusto: dalle narici”.

Spike si grattò la testa: “Voi due siete matti da legare… Abbiamo sbagliato reparto…”.

Si sollevarono alcune risate.

“E’ fantastico avervi qui!”, concluse Icarus.

“Sono contenta”, ammise Dash, “E… senti… Anche… anche io avrei una cosa per te… Una… una sciocchezza… non pensare a chissà cosa…”, e si girò verso la sacca a tracolla, per afferrare qualcosa con i denti.

Ma qualcuno li interruppe.


    L’infermiera di prima si ripresentò, preceduta da un unicorno verde pallido, in camice. Il pony era piuttosto avanti con l’età, caratterizzato da alcune rughe in viso, una corta criniera brizzolata e un paio di occhialini tondi. Il suo sguardo, tuttavia, sprizzava autorità e professionalità da tutte le parti.

Quando Icarus lo vide, la sua felicità parve smorzarsi improvvisamente, come se la presenza del medico gliela avesse strappata di dosso. Abbassò lo sguardo.

L’infermiera si fece da parte, aggiungendo: “Ecco… Pensavo che…”.

L’unicorno si sistemò gli occhiali e poi, con un’altezzosità al limite dell’arroganza, dichiarò: “Ha fatto benissimo ad avvertirmi, miss Cheesnut”.

“Ehm… Chestnut…”.

“Quel che è”.

Twilight sfoderò un sorriso sincero e gli disse: “Oh, ci scusi se…”.

“Ecco appunto”, intervenne bruscamente, “E’ un po’ tardi per le scuse”.

“C-come?”.

“Vogliate perdonarmi, signorine, ma questo è un centro medico altamente qualificato”, continuò, corrugando la fronte, “E i visitatori chiassosi minano la calma che i pazienti del luogo richiedono per la loro guarigione”.

Pinkie Pie si fece un po’ triste: “Me è così serio, qui…”.

“C’è un motivo, mia cara. Forse non le è chiaro che si trova in un luogo di cura”.

“Appunto!”, continuò rapidamente, “Non c’è nulla che non si possa risolvere almeno un po’ con una risata e invece qui è tutto triiiiiiiste triste, quindi non c’è motivo di immusonirsi, no, e la cosa importante è riuscire a portare un po’ di all…”.

Il corno del dottore si illuminò di magia, creando una pezza di stoffa a mezz’aria, che si stampò immediatamente sulle labbra del pony rosa, zittendola.

“Ecco. Questo è il silenzio di cui necessitiamo qui”, dichiarò lapidariamente.

Le altre rimasero un po’ spiazzate, osservando Pinkie nell’intendo di liberarsi dall’oggetto, senza riuscirci.

“Ora”, riprese l’unicorno verde, “Se voleste scusarci… Il paziente ottantotto dovrebbe ritornare nella propria camera”.

“Sì, dottore”, sussurrò debolmente il pegaso, con gli occhi puntati al pavimento.

“M-ma…”, si intromise Rainbow, “Siamo appena arrivate… Abbiamo appena avuto il tempo di…”.

L’unicorno la interruppe immediatamente, unendo gli zoccoli anteriori tra loro e assumendo un’espressione strafottente: “Allora… Vedo che la comprensione è un problema che vi accomuna un po’ tutte… Cercherò di essere breve: questo piano è al limite della riservatezza. Le visite sono ammesse ma non potete arrivare qui portando quello che vi pare e facendo fracasso in mezzo ai corridoi. E il numero ottantotto può stare pochissimo fuori dalla propria stanza. E’ sotto una terapia importante e pericolosa per la sua salute. Gli stress e gli avvenimenti esterni possono minare seriamente la sua situazione già precaria”.

Il pegaso blu non disse nulla e si limitò a deglutire.

“E ora lo riporti in stanza, miss Cheescake”.

“Ma io mi chiamo… Sì, va bene”, rispose sconsolata la puledra, prendendo a spingere la carrozzella. Il pony brizzolato si allontanò, dando loro le spalle.

Rarity osservò il pegaso mentre si faceva sempre più triste, quindi raccolse tutta la sua energia e sbottò in un intervento altezzoso almeno quanto quello del primario: “Senta lei!!”, tuonò verso il dottore.

L’altro si fermò.

“Ci siamo fatte più di dodici ore di viaggio! Abbiamo attraversato una città che puzzava come una friggitoria… Ho i capelli che quasi trasudano olio e mi sono impolverata tutti gli abiti! Ha idea di quanto mi costerà risistemare i tessuti?? E ora, dopo che abbiamo a malapena parlato con Icarus, lei ci dice che dobbiamo andarcene??”.

“Vedo che lei è l’unica a comprendere le mie parole. Sì: dovete andarvene”.

“Ah! E’ uno scandalo!”, commentò, “Aspetti solo che il Daily locale sappia di come ci avete trattato e…”.

Il medico strabuzzò improvvisamente gli occhi, a orecchie dritte: “Il… Daily?...”.

“Sì!”, rispose stizzita l’unicorno bianco, “Ho intenzione di andare a raccontare come trattate i visitatori da queste parti”.

L’interlocutore si girò prontamente verso di lei, utilizzando il camice per pulirsi le lenti degli occhiali: “Ora, ora, ora… non precipitiamo gli eventi… Adesso che mi ci fa pensare…”, borbottò con un falsissimo sorriso, “L’orario delle visite scade giusto fra un’oretta…”.

“Ah, ecco, mi pareva!”.

“Però…”.

“Però??”.

“Però vi chiedo solo questa piccola cortesia: limitate le visite ad un pony per volta. La stanza è piccola e accoglie altri pazienti. Se volete parlare con il numero ottantotto… va bene, fatelo. Ma non tutte assieme”.

Rarity si strofinò il mento, facendo la preziosa: “E’ sicuro di non poter fare di meglio, mio gentile signore?...”.

“Sicurissimo, mi creda”.

“…E va bene”.

“Ottimo… Ah, un’ultima cosa”, aggiunse, “Questa volta passi ma se doveste tornare… evitate di portare tutta questa roba. Non possiamo riempire ogni stanza con le cianfrusaglie che ogni visitatore ci porta. E non cercate di nasconderle. A me non sfugge nulla”, e si congedò con freddezza.

Non appena diede loro le spalle, Nicodemo sbucò dalla chioma di Icarus, facendogli una boccaccia, sfuggendo completamente alla sua attenzione per l’appunto.

    Le amiche seguirono quindi il pegaso grigio nella stanza tre, portando con loro i regali e fermandosi davanti all’entrata.

“Bene”, disse Twilight, rivolgendosi a Dash, “Noi ti aspetteremo al piano di sotto, nella sala d’attesa”.

“Ma… guardate che non è che devo entrare subito io…”.

Le puledre si incamminarono e Applejack le fece l’occhiolino: “Tranquilla, dolcezza. Sono sicura che avrete cose importanti da raccontarvi. Quando finirete, faremo un salto anche noi”.

“Mmmhh… M-mh! Mh! Mhmmmh!”, puntualizzò Pinkie, senza rendersi conto che aveva ancora la bocca tappata.

“O-ok…”, concluse Rainbow, improvvisamente sola.

Si girò verso la porta ed entrò.

Icarus era stato adagiato sul lettino, sotto le coperte.

Il medico di prima, intanto, stava osservando il paziente anziano, scrutando di tanto in tanto la sua cartella clinica: “Mhh… Allora, signor Crumple, come andiamo?”.

L’altro, con volto cupo, non disse nulla.

“Vedo che i valori sono un po’ ballerini… Non è che ha fatto il furbo, vero?”, sentenziò, con una vena di cattiveria, “Guardi che lei sta occupando un posto… un posto che potrebbe essere destinato a pony bisognosi… Quindi veda di attenersi alle regole e non faccia strani scherzi, intesi?”.

Quando si accorse della presenza del pegaso blu, richiamò l’infermiera e si congedò: “Mi raccomando”, aggiunse, prima di chiudere la porta, “Un’oretta, non di più. Non mi faccia pentire della mia gentilezza”.

Uscì.

“Non si preoccupi”, rispose Dash, sicura che non l’avrebbe sentita, “Sono certa che la sua presunta gentilezza non le causerà alcun problema, visto che se n’è andata da tempo…”.

Riportò quindi lo sguardo verso l’amico sconsolato.

Si avvicinò al lettino, sedendosi a fianco del paziente: “Ehy, Casanova…”.

L’altro si illuminò con un sorriso.

Lo sguardo di Rainbow si fece malizioso: “Ma che è successo a quello?... Gli è andato lo stetoscopio di traverso?...”.

“Oh, quello?... Quello è Panpipe… E’ il mio medico curante”.

“E’ sempre così simpatico?”.

“No. Di solito è anche peggio”.

“Spero che almeno sia un bravo dottore”.

Icarus si incupì di nuovo: “Lui… Sì, lui è bravo. Molto referenziato. Un nome importante, insomma”.

“Se Pinkie avesse un camice”, disse ridendo, “Sono sicura che tenterebbe di risolvere ogni cosa con un naso rosso, palloncini e barzellette”.

“Ci servirebbe proprio”, rispose con sincerità.

I due si scambiarono un sorriso, precedendo un lungo silenzio.

Lo sguardo dell’amica cadde sulla porta-finestra, da cui si poteva vedere un po’ del magnifico paesaggio montano.

“Come ti trovi, qui?”.

“Non male. Mi propinano una pappetta viscida tutti i giorni, mi trattano come uno scemo e non posso uscire da queste mura. Esattamente come prima, quindi, con la differenza che non sono tra le nuvole”.

Rainbow percepì l’ironia nera nelle sue parole.

“E’ vero quello che hai detto prima all’infermiera? Che non ti mancano le altitudini?...”.

Icarus sospirò e aggiunse: “Certo che mi mancano… E’ vero che anche a Ponyville ero segregato in casa… ma almeno ero nell’azzurro del cielo. Qui sembra di stare in una gabbia di cemento”.

“Mi spiace…”.

“Che ci vuoi fare? L’avevo messo in conto, quando ho deciso di iniziare la cura”.

Il pegaso blu slacciò uno dei sacchetti che aveva portato Applejack ed estrasse una crostata.

“Fossi in te ne approfitterei, ora che non c’è quello sbruffone!”, ridacchiò.

Velvet, poco distante, abbassò il fumetto e strillò: “Tortaaa! Ne voglio un pezzo!”.

“Ehy, nana!”, sbottò Icarus, “Prima io!”.

“Non sono una nana!!”.

“Sì, sei una nana…”, e addentò un boccone.

“Nooo! Prima io!”.

“No. Prima gli ammazza draghi. Devo recuperare le energie”.

La piccola assunse un’espressione imbronciata, poi chiuse gli occhi e si concentrò sul corno, cercando evidentemente di far levitare un po’ di cibo verso di sé. Rimase in quella posizione per alcuni secondi, fino a divenir paonazza.

Icarus alzò gli occhi al soffitto, sorridendo, e poi le lanciò una fetta, che atterrò sulle coperte accanto a lei.

Quando la puledrina riaprì gli occhi, scoppiò di gioia: afferrò la crostata e iniziò a sbaffarsela golosamente.

“Ah! Hai visto??”, disse a bocca piena, estremamente orgogliosa di sé, “Posso fregarti quando e come voglio”.

“Questa volta me l’hai fatta, dannato diavolo viola!”, rispose l’altro, agitando uno zoccolo.

Il vecchio accanto a loro osservò la scena, leccandosi le labbra.

Dash ne staccò un altro pezzo: “Aspetta: offro una fetta anche a lui”.

“No”, la interruppe l’amico e gli mise un pezzo di crostata sul comodino, da cui l’anziano avrebbe fatto una certa fatica a raggiungerlo.

“Ma che fai?”, gli chiese la puledra, un po’ interdetta.

“Se lo vuole, che se lo venga a prendere…”.

“Icarus…”, rispose seriamente, “Non ti sembra di esagerare?...”.

“Per niente. E’ solo vecchio e decrepito. Ha le zampe. Può usarle, no?”.

“Icarus! Ti pare questo il modo di parlargli?”.

“Io almeno dico le cose come stanno”, ribatté l’amico, porgendo una briciola di dolce a Nicodemo, “Velvet è mezza cieca, Crumple è un vecchio decrepito e io sono un pegaso storpio che non può volare. Semplice, no?”.

“Sei diventato molto più cinico di quanto ricordassi…”, concluse mollemente.

“Sono solo realista. Le persone, qui, sembra che ti debbano sempre trattare come se fossi diverso da ciò che sei in realtà. E per quale motivo?”.

“Sì, lo so…”.

“Non abbiamo bisogno della pietà di nessuno. Vero, Velvet??”.

“Verishimisshimo!”, rispose la piccola, sputando qua e là pezzetti di torta.

“Va bene”, dichiarò infine Rainbow, chiudendo gli occhi e alzando le spalle, “So che è inutile discutere con te”.

“Brava. Lo sai che tanto ho sempre ragione”.

“Certo. Quando non hai torto hai sempre ragione”.

Icarus si prese qualche minuto per finire la torta.

“Ohh… Questo sì che è cibo… La cosa più buona che ho mangiato qui ultimamente è stata una mela…”.

“Le mele sono buone”.

“Sì ma queste arrivano dalle colture intensive di Steamdale. Sembra di mangiare del catrame…”.

Crumple, intanto, stirava e allungava la zampa in direzione della fetta di torta, facendo di tutto pur di raggiungerla, con scarso successo.

“Forza, brontolone!”, lo incitò Velvet.

L’anziano sbuffò, decidendo di riprovarci a breve.

Rainbow Dash cercò la forza di porgli una domanda di cui temeva terribilmente la risposta.

Alla fine si decise: “E… la cura come sta andando?”.

“Boh. Va avanti”, rispose Icarus, con voce atona.

“In cosa consiste?”.

“E’ una… cura combinata”.

“Combinata?”.

“Sì. In pratica utilizzano cure mediche classiche in concomitanza ad elaborati incantesimi di guarigione”.

“Sembra promettente”.

Il volto dell’amico si dipinse di un amaro sorriso e si sollevò verso di lei, mostrando le occhiaie scure in tutta la loro interezza: “E’ anche molto faticoso… e non molto piacevole”.

“C-capisco…”, balbettò, decisamente demoralizzata, “Però… sta funzionando? Ci sono dei risultati?”.

“Impossibile dirlo ora. Mi stanno sottoponendo a tutti i cicli necessari. Ma soltanto fra qualche giorno o forse qualche settimana potranno dirmi se la cosa sta funzionando… o se è stato un altro buco nell’acqua”.

L’amica cercò di rincuorarlo: “Sono sicura che sarà un successo”.

“Non sei mai stata brava a mentire, Dashie…”.

“Ma io…”.

“Non ti preoccupare”, aggiunse l’amico, “Non devi dirmi nulla per tirarmi su di morale… Mi basta la tua presenza qui… che tu sia venuta… I due campioni di Equestria di nuovo riuniti”.

“Già…”.

Lo sguardo di Icarus si focalizzò sulla sacca a tracolla di Rainbow: “Ehy! Ma tu non dovevi darmi qualcosa??”.

“Ah già! Me ne stavo dimenticando!”.

“Bella considerazione che hai per me!”.

“Ma smettila, testa di legno!”.

“Sì sì… bel trattamento… Non come Rarity che mi ha portato un intero carico di… di… Ma che cosa c’è in quel carico, alla fine?...”.

Il pegaso blu estrasse un foglio dalla sacca e glielo consegnò. Icarus lo guardò intensamente.

“Te l’ho detto che era una sciocchezza…”, commentò le puledra sottovoce.

Icarus parve intenerirsi: cosa rara per lui.

Il foglio riportava l’immagine di Dash mentre superava il traguardo, nella gara che li aveva fatti incontrare. Sotto vi era scritto: “Da Dash a quell’arrogante sbruffone di Icarus. Da un campione per un altro campione. Perché non tutti i pegasi che non sanno volare possono dire di aver Cavalcato la Tempesta”.

“Ti ricordi quando mi chiesi l’autografo la prima volta?... Ti detti quella foto con quel commento scialbo e scontato… Così ho voluto rimediare…”.

“Sì… mi ricordo… Ho ancora quella dedica. Effettivamente faceva proprio pena”.

“Ehy!”, rispose l’altra arrabbiata, con le zampe ai fianchi, “Io cerco di farti un gesto carino… E tu??”.

“Ah! Faceva pena, lo sai bene!”, disse ridendo.

“Sì… sì è vero”.

“Però questo… questo è molto meglio”, ammise, “…Grazie, criniera multicolore…”.

“Figurati… testa di legno…”.


    I due rimasero quasi un’ora intera a chiacchierare.

Quando Dash se ne accorse, si precipitò rapidamente verso le amiche, scusandosi per non essersi resa conto del tempo che passava.

Le puledre, ovviamente, capirono perfettamente e si recarono per alcuni minuti a far visita all’amico.

Quando ebbero terminato il giro, si portarono tutte d’innanzi all’ingresso della stanza, con Rainbow in testa. Panpipe già controllava una piccola clessidra e le teneva d’occhio da lontano, con sguardo ammonitore.

“Andate già via?...”, domandò Icarus, a orecchie basse, circondato da pile di doni.

All’esterno, intanto, stava calando la sera.

“Sì, zuccherino”, rispose Applejack, “Purtroppo abbiamo tutte degli impegni, giù a Ponyville… Il lavoro nei campi, la boutique di Rarity, la gara di Rainbow Dash…”.

“Gara?”, chiese il pegaso grigio.

Dash si grattò la chioma: “Uuh… Sì, fra meno di un mese c’è la Gara Equestre e…”.

“Ma allora che diavolo ci fai qui con un pony malaticcio!”, sbottò l’amico, “Torna subito ad allenarti!”.

“Ma guarda che…”.

“Non esiste! Con la cura e tutto il resto mi ero dimenticato di quell’evento. Devi assolutamente parteciparvi!”.

“Sì, voglio partecipare ma… ma venire qua è stato più importante. E mi spiace non poter restare… o fare di più…”.

Icarus prese ad osservare i doni che lo circondavano, incluso Nicodemo, ancora intento a sgranocchiare un po’ di torta: “Ma infatti avete fatto benissimo… Sono davvero contento che siate venute. Però, Dash, non puoi restare qui, dietro alle mie cure. Hai una vita da vivere. Non ha senso sprecarla in attesa che un manipolo di scienziati trovi un rimedio… un rimedio che non sappiamo nemmeno se esiste…”.

La puledra divenne triste e non seppe cosa dire.

Il paziente riprese il discorso: “Guarda, facciamo così: venite a trovarmi almeno un paio di volte al mese e vi prometto che non vi tratterò troppo male quando arriverete”.

Applejack si avvicinò al lettino: “Attento… Guarda che un patto è un patto…”.

“Certo che è un patto…”.

“E allora”, continuò, sputando su uno zoccolo, “Andata?”. E gli allungò la zampa.

Rarity si girò verso il muro, visibilmente schifata.

L’altro sputò a sua volta sulla sua zampa e la mise a contatto con quella del pony arancione: “Andata”.

“E comunque”, riprese Icarus, “Ora ho di che leggere, di che mangiare, un mini peluche vivente e… vestiti?”.

L’unicorno bianco iniziò a parlare, componendo ampi gesti nell’aria con una zampa: “Oh! Spero solo che il personale li abbia trattati col dovuto riguardo! Mi hanno comunicato che i tuoi vestiti sono nel magazzino… Ho dovuto discutere un po’ con quell’antipatico del primario… ma alla fine la scusa del Daily funziona sempre!”.

“Tranquilla… sono sicuro che se dovrò andare al cinema o in palestra potrò contare sui tuoi splendidi capi, per uscire”.

Sparkle si avvicinò all’amica dalla chioma arcobaleno: “Dash… dobbiamo andare… L’ultimo Zeppelin passa fra meno di mezz’ora”.

“Uffa…”, farfugliò Pinkie, “Io volevo fare i muffin con lui…”.

“Quando sarò guarito sarà la prima cosa che faremo, una volta tornato a Ponyville”.

“Davvero??”, chiese trepidante, “Sììì!! Che bello!”.

Il pony blu divenne cupo: “Mi… mi dispiace doverti già lasciare, Icarus…”.

“Stai tranquilla. Oggi mi avete fatto un regalo bellissimo, venendomi a trovare…”.

“Immagino. Però…”.

Il pegaso scosse il capo: “Dash… lo sappiamo entrambi che non sei portata per i saluti. Non è il caso che tu dica nulla. Ormai ti conosco. Vai pure. Sai che me la caverò”.

L’amica fece qualche passo indietro: “Va bene… Allora… allora ci vediamo… Icarus…”.

Il gruppetto iniziò ad uscire dalla stanza.

“Mi raccomando, Fluttershy”, aggiunse il pony grigio, prima che lei se ne andasse, “Togliti quel ciuffone dal viso, ogni tanto. Hai un musetto così carino. Sarebbe un peccato nasconderlo”.

Il pegaso virò dal giallo paglierino al rosa intenso, affrettando il passo e non riuscendo a dire alcunché.

“E tu smettila di ammazzare draghi…”, concluse Spike scherzoso, lanciandogli un’occhiataccia.

“Vedrò di contenermi…”.

Rainbow fu l’ultima ad andarsene. Uscì di spalle, senza riuscire a schiodare gli occhi dall’amico che, dal lettino, continuò ad osservarla con un sorriso melanconico.

“Ci vediamo, chioma arcobaleno”.

“…Ci vediamo… Cavalcatore di tempeste”.


    Lo Zeppelin ebbe un sussulto e si staccò dal terreno.

La cabina conteneva pochi passeggeri e si udiva per lo più il ronzio delle eliche esterne.

Dash si avvicinò ad un finestrino, osservando il centro medico in lontananza. Era buio ma si potevano scorgere molto bene le finestre illuminate.

Le amiche erano piuttosto tristi e taciturne, persino Pinkie Pie.

Fluttershy si avvicinò: “Hai visto, Dashie? Abbiamo incontrato Icarus”.

“Già…”.

La puledra dal manto paglierino cercò qualche parola di conforto: “Ehm… Tutto sommato sta bene, no? Qui il posto è abbastanza carino… C’è verde, l’aria è buona…”.

“Sì…”.

Spike si mise a zampe conserte: “Certo che… Sbaglio o è sciupato un po’, rispetto all’ultima volta?...”.

“Spike!”, lo riprese prontamente Sparkle.

“Che ho detto??”.

Il pegaso blu sospirò: “No, il soldo di cacio ha ragione… Non posso dire che stesse male ma… Cioè… i suoi occhi…”.

“Ricordati sempre che sta affrontando una cura per il suo bene”, commentò Twilight.

“Mah… Per il suo bene, dici? Lo hai visto? Quando è arrivato il dottore… quel… quel tale, Pan… Panpippo…”, farfugliò, visibilmente innervosita, “Cioè… Icarus si è trasformato in… in un cane bastonato… E io ero abituata a vederlo rabbioso e temerario…”.

“Cavolo, dolcezza!”, si intromise Applejack, “Hai visto come ha trattato l’infermiera? Se non è essere temerari quello…”.

“Già… ma è come se qualcosa lo soffocasse… Come… come se…”.

“Quel posto è triste!”, ripeté Pinkie.

Sparkle riprese la parola: “Te l’ho detto… è sotto una cura importante. E’ normale che non si senta in forma. Ma vedrai che, una volta superata, tornerà come nuovo!”.

Rainbow non rispose e si limitò a sospirare sconsolata.

    Dopo parecchi minuti, si tornò a sentire l’odore di smog e la caotica Steamdale, illuminata come un albero di natale, sbucò a fatica dalla coltre di smog.

Il velivolo atterrò alla stazione, dove il treno le attendeva poco distante, in procinto di partire.

Il gruppo si accomodò nella carrozza, nei rispettivi posti.

“Andiamo, amica mia”, disse Applejack, vedendo Dash sempre più triste, “Sai che Icarus non vorrebbe vederti così”.

La puledra blu, tuttavia, non riusciva a schiodarsi dalla mente lo sguardo rassegnato del pony grigio…

“Vero”, continuò Rarity, “Adesso lo stanno trattando come un paziente… ma vedrai che, quando tornerà, lo rimetteremo in sesto!”.

“Già”, le diede corda Applejack, “Lo ingozzeremo di mele e lo vestiremo come un signorino! Vedrai come starà meglio!”.

Il treno fischiò, iniziando a muoversi.

Fluttershy, infine, mise una zampa sulla spalla dell’amica e le disse: “E’ vero, Dashie… Cerca di non buttarti giù. Si stanno occupando di lui. Vedrai che le cose andranno bene… Non ha senso star male se ancora non sai come andrà a finire…”.

L’amica riuscì a trovare un piccolo conforto nelle sue parole e le sorrise debolmente.

Il treno acquistò velocità e le luci di Steamdale si fecero sempre più lontane.

“Mamma mia che sonno…”, commentò Applejack, stiracchiandosi.

Twilight si sistemò magicamente le coperte del letto: “Sfido io… questi viaggi sono stressanti, per non parlare del carico emotivo di questa giornata!”.

Rainbow Dash, però, continuava ad osservare la città dal finestrino, assolutamente assorta in qualche tipo di pensiero.

Rarity si portò uno zoccolo alla fronte: “Non vedo l’ora di arrivare a casa per farmi finalmente un bel bagno… Anzi… andrò direttamente al centro di bellezza”, e si buttò di schiena sul giaciglio.


Dash chiuse gli occhi.

Iniziò a pensare.

Pensieri calmi e profondi.

Come faceva ogni tanto, anche se di rado.

Pensò. Iniziò a riflettere.

Poi qualcosa scattò improvvisamente.

I pensieri svanirono.

In lei rimase solo un’emozione.

Una candida consapevolezza.

Una certezza innegabile.

Senza ulteriori indugi, riaprì le palpebre e fece un respiro profondo.

“Dimmi, Pinkie”, disse all’amica rosa, con voce bassa.

“Sì, Dash?”, domandò con un sorriso, portandosi alle sue spalle.

“Lo chiedo a te perché credo che tu, di queste cose, ne faccia spesso…”.

“Uuh… Cosa? Muffin? Sì ne faccio spesso!”.

“No… intendo… di cose assurde…”.

“Mhh… Boh, forse. Non ci ho mai riflettuto”.

Rainbow raccolse aria nei polmoni: “Perché credo di stare per compiere la cosa più assurda che mai farò in tutta la mia vita…”.

“Cosa? Un muffin con frullato di sedie??”.

    Il pegaso blu si girò improvvisamente, portandosi al portello che collegava le carrozze.

“Ehm… Dash?...”, farfugliò Pinkie, “Non è li che si trovano le sed…”.

La porta si spalancò e il vento entrò prepotentemente nella carrozza. Tutte trasalirono.

Dash tentennò ancora qualche secondo, girandosi un ultimo istante verso le compagne incredule… E poi… compì un salto ad occhi chiusi.

Si ritrovò investita dalla gelida aria notturna. La velocità a cui si muoveva il treno la catapultò letteralmente in un ciclone, da cui ne uscì con estrema fatica e trottando istintivamente con le zampe a mezz’aria.

“Daaaaash!!!”, urlò Fluttershy da un finestrino, sempre più lontana.

L’amica blu cercò di riprendere fiato, poi dispose gli zoccoli attorno al volto e urlò: “Tranquilla!! Tornerò!!”.

Il pegaso giallo disse ancora qualcosa ma era troppo lontano affinché potesse udirlo.

Il treno, dopo qualche istante, scomparve dietro una collina.

La puledra, rimasta sola e al buio, si guardò attorno, un po’ spaesata.

Riconobbe quindi le luci di Steamdale e prese a volare rapidamente verso la destinazione.

“Bene, Rainbow”, disse a se stessa, senza riuscire a nascondere una profonda dose di paura, “Hai fatto la stupidaggine di una vita… Tutti ne hanno fatta almeno una… Tu hai dovuto farla adesso: lontana da casa, da sola e di notte. Complimenti”.

“Non c’è che dire”, concluse, scuotendo il capo, “Prima porti un pegaso malato in una tempesta e poi ti getti da un treno in corsa. Stai facendo progressi”.

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Capitolo 6
*** L'Arcobaleno Dopo la Tempesta ***


“Avanti, ragazzi, ancora dieci minuti e poi potrete uscire!”, disse la maestra, cercando di contenere il brusio generale.

Gli alunni erano per lo più in piedi e intenti a chiacchierare tra loro.

Era il giorno di San Valentino: il momento in cui era usanza scambiarsi letterine o piccole frasi sdolcinate. Perlomeno: questo era quello che faceva una tipica classe di pony di undici anni.

Quella mattina, ognuno aveva ricevuto qualche augurio di sorta. Era troppo presto per parlare di vero amore e si trattava per lo più di carinerie e prime cottarelle.

Tutti ricevettero qualcosa: tutti tranne un pegaso grigio, l’unico ancora seduto al banco.

Il ripiano di fronte a sé era sgombro da qualsiasi tipo di busta o lettera, a differenza dei compagni che parlavano e scherzavano, con vari fogli tra le zampe.

Icarus non sembrava farci molto caso ma si intuiva immediatamente come cercasse di dissimulare.

“Ehy, Icarizio!”, disse Rufus dietro di lui, colpendolo su una spalla, “Nessun messaggino per il nostro campione del volo??”.

Il docente lo riprese immediatamente: “Rufus!! Piantala subito o chiamo di nuovo i tuoi genitori!”.

“Certo, maestra”, ripose l’alunno, ridendo sotto i baffi, “Non sia mai che il povero Icarizio voli via dalla rabbia”. E si allontanò.

Il piccolo pony adagiò mollemente una guancia sullo zoccolo, puntellandosi col gomito.

Poi qualcuno passò di fronte a lui e lasciò una busta sul banco.

Icarus alzò lo sguardo, incrociando per un istante quello di TinyBell, prima che gli desse le spalle: era una puledrina bianco latte e dalla chioma celeste. Sulle prime pensò avesse sbagliato pony ma poi, con sguardo incredulo, si sincerò di come la letterina fosse intestata a lui.

Suonò la campanella e la classe si riversò rumorosamente all’esterno.

Il pegaso prese la lettera e uscì a sua volta, per ultimo, visti i problemi nel camminare.

Una volta all’esterno, assicurandosi che nessuno lo stesse prendendo di mira, aprì la busta e lesse il contenuto: “Da TinyBell ad Icarus. Non essere così triste. Non sei solo”.

Quelle parole ebbero uno strano effetto su di lui.

Nessuno, prima d’ora, aveva mai manifestato qualche tipo di affetto nei suoi confronti. Certo: a parte genitori e parenti. Ma loro facevano testo fino ad un certo punto.

Possibile che TinyBell provasse qualche simpatia per lui?

“Io che piaccio ad una femmina?...”, berciò tra sé e sé, inscenando una smorfia a narice sollevata.

Poi la vide: il pegaso color latte stava salutando le amiche, pronta ad imboccare una stradina per tornare a casa.

Mise la lettera nella sacca a tracolla e decise di raggiungerla: l’altra camminava soltanto ma, dati i suoi problemi motori, dovette impegnarsi a fondo per riuscire ad acchiapparla.

TinyBell sentì l’amico ansimare dietro di sé e si girò.

Icarus, col fiatone, cercò di ricomporsi.

“C-ciao… TinyBell…”, le disse.

L’altra sembrò vagamente imbarazzata: “Oh… Ehm… Ciao, Icarus…”.

I due non seppero cosa dire per alcuni istanti.

La puledra si guardò attorno: “C’è… c’è qualcosa che devi dirmi?...”.

“Oh! Ecco… sì, io… cioè…”.

“Sì?...”.

“Insomma… q-quella… quella lettera… cioè…”.

TinyBell lo osservò in silenzio.

Icarus continuò: “Insomma… Io non pensavo che… che tu…”.

“Ah… no… aspetta…”, lo interruppe.

“Dimmi…”.

“Quella… quella lettera… Scusa, non vorrei che fraintendessi…”.

L’altro corrugò la fronte.

“La lettera che ti ho dato… Cioè…”.

“C’è scritto Da TinyBell ad Icarus… Non puoi esserti sbagliata, eh…”.

“No… no, volevo darla a te… Però…”, rispose, sempre più in difficoltà.

“Però?...”.

“Insomma… Icarus, ti ho dato quella lettera perché… perché eri solo… perché nessuno ti ha fatto niente per San Valentino…”.

Il pegaso scosse debolmente il capo: “Cosa… cosa vorresti dire?”.

“Intendo… Mi hai fatto… insomma mi hai fatto un po’ pena… così ho pensato che quella lettera potesse tirarti su di morale…”.

A quelle parole, Icarus sentì un chiodo trafiggergli il petto e un nodo stringergli lo stomaco: “P-pena?...”.

“Sei… sei sempre così solo… Io… io volevo solo che anche tu fossi un po’ felice, come lo erano gli altri, in una giornata come questa…”.

Il pony dalla chioma viola abbassò lo sguardo e iniziò a respirare più velocemente. Chiuse gli occhi in un’espressione di vaga sofferenza.

“Va… va tutto bene, Icarus?”.

L’altro spalancò le palpebre, sfoderando un paio di occhi in grado di far rabbrividire persino un drago, e la fissò: “Certo. Certo che va bene. Ci vedi forse qualche problema, in tutto questo?”.

“Ah… I-io…”, farfugliò, leggermente preoccupata.

Icarus prese a muoversi lentamente attorno a lei: “Sì insomma: è normale, no? Dov’è il problema? Sentirsi dire da qualcuno che fai pena è perfettamente lecito, per un pony che non ha mai avuto problemi di sorta”.

“M-ma… Icarus… Scusami, non volevo ferirti, non è quello che intendevo con…”.

“Taci!”, la interruppe, facendola sobbalzare, “Che cosa stupida… E io, ancor più stupido, a credere che tu potessi trattarmi come un normalissimo pony…”.

L’altra cercò di rispondere ma l’aggressività del compagno di classe la disarmò totalmente: “E infinitamente più stupido a pensare che la piccola TinyBell, un pegaso moccioso e viziato, potesse andare al di là di ciò che vede dal proprio muso…”.

“I-Icarus…”.

“Sai che ti dico?”, concluse, afferrando la lettera tra i denti e buttandogliela alle zampe, “La prossima volta fai un favore a me e alla natura: non sprecare della cellulosa per scrivere simili stupidaggini. Rimani nel tuo tugurio di amichette vanitose e non rubarmi l’aria che respiro. Sarò malato ma, nel caso non lo avessi notato, respiro esattamente come voi”.

TinyBell si girò di scatto e si allontanò a passo spedito.

Icarus, col fiato accelerato per la sfuriata, stette ad osservarla mentre svoltava l’angolo al fondo della strada.


La lettera ai suoi piedi si arricchì di una macchiolina scura, proveniente da una goccia trasparente e leggermente salina.


*** ***** ***
 

    Dash giunse alla stazione, sudata e ansimante.

“Per la miseria…”, sbuffò, “Sembrava molto più vicino…”.

Si guardò attorno e poi decise di seguire i corridoi per giungere al centro cittadino di Steamdale.

La megalopoli si presentò in tutto il suo “sintetico” splendore: ogni singola struttura del luogo era stata edificata in metallo. Le luci artificiali, installate su imponenti lampioni in ferro nero, brillavano ad ogni angolo di strada. Sull’asfalto sfrecciavano con frequenza rumorosi e puzzolenti automezzi a carbone, che rilasciavano fumi neri e sbuffi di vapore ad ogni istante.

Ma più di tutto imperversava ovunque una certa decadenza: gli ingranaggi e i tubi che sbucavano qua e là rilasciavano volentieri olio e altri liquami in giro, mentre la ruggine e lo smog facevano il resto.

Nonostante tutto, i pony gironzolavano tranquillamente per la città, scafandrati nei loro abiti d’altri tempi, sormontati dalle loro criniere imponenti (parrucche probabilmente) e agghindati con orologi a cipolla, orecchini osceni e monocoli in metalli preziosi.

La puledra osservò allibita la scena.

Aprì quindi la propria sacca e contò il denaro che aveva con sé.

“Ok, la mia stupidità dilaga… Non solo mi butto da un treno in corsa a più di mille chilometri da casa… ma porto con me il necessario per comprarmi un’insalata e poco altro… Complimenti davvero, Stupid Dash”.

Gettò quindi un’occhiata tra i vicoli fumosi e decise di farsi coraggio: “C’è poco da fare… Devo trovare un posto economico dove dormire oppure mi toccherà pernottare su qualche lamiera arrugginita…”.

Girovagò quasi un’oretta, rendendosi conto di quanto fosse sconfinata la città.

Alla fine, dopo aver chiesto consiglio a qualche passante, decise di appartarsi in un Bed & Breakfast denominato “Rusty’s”: una piccola struttura fatiscente con tanto di insegna luminosa all’ingresso (e lettere intermittenti… per il malfunzionamento).

    La puledra entrò, sincerandosi di come vi fosse una clientela molto contenuta… e quei pochi che c’erano sembravano decisamente poco raccomandabili.

Al bancone, indossando un logoro e macchiatissimo grembiule con le iniziali del locale, si trovava uno stallone fulvo, grosso quanto Big Macintosh.

Il bestione portava una barba incolta e stringeva il mozzicone di un sigaro tra i denti. Il suo sguardo sprizzava noia e scarsa intelligenza da tutti i pori.

“Ehm… Buonasera”, tentennò Dash.

“Sera”.

“Sono… sono disponibili dei posti per dormire?”.

Il pony afferrò una scopa tra le zampe e colpì prepotentemente il soffitto un paio di volte: “Amandaaa! Ci sono ancora dei posti per dormire?”.

Rainbow pensò seriamente di fuggire.

Una voce roca e femminile proruppe dal piano di sopra: “Che vuoi?? Che hai?? Mi sto facendo una maschera di bellezza!”.

“Piantala di usare quelle cavolate e dimmi se ci sono ancora dei posti!”.

“Sìì… due stanze. Però una ha la finestra rotta”.

Lo stallone, con rinnovata noia, riportò lo sguardo verso la cliente: “Due stanze. In una fa un po’ freddino”.

“Ah… Sì… Ehm… ecco… Quanto costerebbero, rispettivamente?”.

L’altro tirò fuori un borsellino rosa: “Tu quanto hai?...”.


    La puledra entrò in stanza, accompagnata dal proprietario.

Il locale era minuscolo e appena illuminato da una lampadina sul soffitto. Sulle pareti metalliche era stata stesa un’oscena carta da parati (che già si stava staccando) e il lettino sembrava fosse stato usato come barricata per respingere un’orda di zombie.

Un paio di tendine svolazzavano d’innanzi ad una finestra rotta.

“Questo è il posto”, disse mollemente lo stallone.

“Ah… Ehm… Splendido!”.

“Se lo dici tu…”.

Un cigolio fece rizzare i peli sulla schiena della puledra, che digrignò di denti.

“Ah sì… Una volta all’ora circa… c’è un ingranaggio dell’edificio vicino che stride per via di un dente rovinato”.

L’altra si tappò le orecchie: “E non potete aggiustarlo?”.

“Certo. Se mi dai i soldi lo faccio”.

“Ok, come non detto…”.

“Serviamo la colazione dalle otto alle nove del mattino. Mele fresche e un bicchiere di acqua quasi filtrata”.

“Quasi?...”.

“Sì… il depuratore è un po’ guasto ma di solito esce che è abbastanza limpida”.

Dash iniziò a pentirsi di ogni cosa che aveva fatto nelle ultime due ore.

“Ah, un’ultima cosa”, aggiunse il pony, prima di andarsene, “Se senti qualcuno che raschia contro la porta… Non aprire… O se lo fai: non siamo responsabili di cosa potrebbe entrare. Ok?”.

“O-ok…”, balbettò.

“Buonanotte, chioma stramba”, e sbatté la porta. Un altro pezzo di carta da parati si staccò, arricciandosi verso l’alto.

    La puledra controllò la stanza, visibilmente demoralizzata.

Rumoracci metallici provenivano dall’esterno, attraverso il grosso buco nel vetro.

“Sai che ti dico??”, sbottò, prendendo il materasso e poggiandolo di prepotenza contro la finestra, “Tanto su quella roba non ci dormirei manco morta!”.

Andò quindi in bagno, in cui trovò i sanitari e una vasca da bagno decisamente incrostata, con un cartello: “Rotta. Funziona solo l’acqua fredda. E solo nei giorni dispari”.

“Perfetto…”, dichiarò sconsolata.

Afferrò una coperta e provò a crearsi un giaciglio nella vasca, alla bene e meglio.

Si coricò, cercando di ignorare i mille rumori cittadini a cui non era minimamente abituata.

Si portò gli zoccoli agli occhi.

“Ma che diavolo sto facendo?...”.


*** ***** ***


    Un altro cigolio terrificante proruppe nella stanza.

Il pegaso blu spalancò rapidamente le palpebre: i suoi occhi erano solcati da piccole vene rossastre e presentava due profonde occhiaie.

Era mattina e il fracasso, all’esterno, era aumentato incredibilmente di intensità: Steamdale, di giorno, era decisamente più caotica rispetto alla notte.

“Oh mamma…”, blaterò, passandosi gli zoccoli sul viso, “Questa è stata la notte più terribile di tutta la mia vita…”.

Si mise in piedi, scrocchiandosi la schiena e cercando di sistemarsi la criniera arruffata.

Si controllò nello specchietto crepato, sopra al lavandino, e per poco non riconobbe la propria immagine riflessa. Dopo un ultimo crepitio della colonna vertebrale, aprì la porta e giunse nella sala d’ingresso.

Un paio di pony erano riversi ai banconi, probabilmente reduci da qualche bevuta notturna.

Dash si portò a fianco di loro, leggermente preoccupata, e si rivolse al proprietario: “Ehm… Vorrei le mele fresche e la… uh… acqua quasi filtrata…”.

“No”, rispose l’altro.

“Come?”.

“Niente mele. Niente acqua”.

“Ma… avevate detto che…”.

Il tizio la sovrastò col tono della voce: “Avevo detto che la colazione era servita dalle otto alle nove”.

“Quindi?”.

Lo stallone puntò lo zoccolo in direzione di un orologio meccanico appeso al muro: “Sono le nove e quattro minuti, dolcezza”.

Rainbow non poté credere alle proprie orecchie: “Ma… ma… stai scherzando, spero??”.

“Io scherzo solo tra le quattro e le cinque del pomeriggio”.

L’altra sentì una rabbia crescente farsi strada nel proprio corpo: iniziò a sbattere le ali, fluttuando a mezzo metro da terra, e si portò contro lo stallone, afferrandolo per il colletto della divisa.

“Ah, ma davvero??”, lo minacciò, senza preoccuparsi troppo della differenza di corporatura.

Il bestione non si fece ovviamente intimidire e affondò la fronte contro la sua: “Hai dei problemi, pettiblu??”.

“E se anche fosse??”, rincarò l’altra.

I due premettero le teste una contro l’altra, con occhi irosi.

“R-Rainbow Dash??”, proruppe una voce femminile alle loro spalle.

Dash girò istintivamente la testa, portandosi guancia a guancia con il proprietario barbuto, esclamando: “Sunshine??”.


    “Mi vogliate perdonare per il mio scarso tatto, signorina Rainbow Dash”, si scusò gentilmente lo stallone, porgendo loro un vassoio colmo di mele e acqua fresca, “Non sapevo conosceste la signora Sunshine!”.

Le due erano sedute ad uno dei tavoli del Rusty’s e servite direttamente dal proprietario, improvvisamente gentile e disponibile.

“Non… non importa”, mentì Dash, guardandolo comunque con sospetto.

L’amica dal manto dorato bevve un sorso d’acqua: “L’ultima cosa che mi aspettavo era di… di incontrarti a Steamdale! In una bettola così, poi…”.

“Già”, rispose l’altra, afferrando una mela, “Non ci credo nemmeno io… ma… ma tu hai già visto quel tizio?... Appena ha scoperto che ci conoscevamo è diventato tutto un miele…”.

“Lui? Lui è Brutus, un mio lontano parente…”.

“Ah…”, commentò stupita, “Tu e lui… siete parenti?...”.

La giumenta sorrise, posando il bicchiere: “Lontani, ho detto!”.

“Certo che ultimamente incontro solo pony simpatici e accomodanti…”.

“Oh, non giudicarlo male… Brutus è a conoscenza della… della situazione di Icarus. Sta tirando la cinghia perché stiamo spendendo tutti i soldi per la sua cura…”.

La puledra si girò verso lo stallone, non riuscendo a cavarci fuori nient’altro che un serio volto barbuto, e si sentì improvvisamente dalla parte del torto: “Ah… c-cavolo… io… pensavo che…”.

Sunshine vuotò il bicchiere e poi sorrise, formando parecchie rughe d’espressione attorno agli occhi: “Ma come? Dash! Non sempre le cose sono quello che sembrano… Stare con mio figlio non ti ha insegnato proprio nulla, allora?”.

“A quanto pare no…”, concluse mollemente.

“Suvvia. Stavo scherzando”.

“No, Sunshine… Mi sa che non ho davvero imparato granchè… Ti dico… ti dico solo che ho perso alcune gare e mi sono arrabbiata tantissimo. Eppure credevo di essere cambiata…”.

La madre di Icarus iniziò ad addentare mele insieme all’amica: “Sai… io non credo che la gente possa realmente cambiare…”.

Dash la ascoltò in silenzio.

La giumenta dorata proseguì, tra un boccone e l’altro: “Al massimo si può… smussare…”.

“Sì ma… dopo tutti quei discorsi… dopo tutto ciò che credevo di aver appreso… insomma…”.

“Mia cara Rainbow Dash… hai volato per tutta una vita. Hai gareggiato, ti sei sacrificata per questa passione e spesso e volentieri hai vinto. Per quale motivo tutto questo dovrebbe perdere improvvisamente di importanza?”.

Il pegaso blu sospirò: “Non saprei… sinceramente… Davvero: non lo so…”.

Le mele erano terminate e se ne fecero portare cortesemente delle altre.

“Non sono malaccio, vero?”, disse Sunshine.

“Ehm… io ero abituata alle mele della tenuta Apple… Queste qui sono… cioè… strane”.

“Già. Fanno proprio schifo!”, ammise ridendo.

“Meno male che la pensi anche tu così!”.

“Vero… Le porterei a mio figlio se solo non fosse sotto regime alimentare controllato… A tal proposito… ieri sera sono tornata alla clinica ed ho saputo che eri passata a trovarlo. Ed ora ti ritrovo qui, a Steamdale… Rainbow: che stai combinando, eh?...”.

L’amica si passò una zampa dietro alla nuca: “Io… niente… Avevo un po’ di soldi da parte e ho deciso di fermarmi per dare un’occhiata alla città…”.

“Non me la conti giusta… Però”, aggiunse, mettendole uno zoccolo sopra al suo, “Sono davvero contenta che tu sia venuta a trovare Icarus…”.

“Beh… Sono felice che tu la veda così…”.

“E come potrebbe essere altrimenti??”, ammise con foga, “Quando l’ho rivisto, ieri sera, era triste perché te n’eri andata… ma… ma i suoi occhi erano diversi. Erano gli occhi di qualcuno che aveva di nuovo intravisto uno spiraglio di speranza… Il suo viso era diverso… sembrava… luminoso…”.

“E… pensi che fosse per via del nostro incontro?...”.

“Certo che sì! Non ha fatto altro che parlare di te, delle vicende che avete vissuto a Ponyville!”.

“Uao…”, sussurrò, incredula.

La madre prese un lungo respiro e Dash la vide intristirsi sempre di più.

“La verità”, disse, “E’ che mio figlio, in queste ultime settimane, è… è quasi diventato uno straccio. Quando ha iniziato la cura… era ancora fiero e battagliero. Iniziò quella terapia spaventosa con un coraggio da leoni. Poi… poi le cose sono lentamente cambiate. La cura e i trattamenti con scarsi risultati hanno iniziato a minarlo dall’interno, a renderlo sempre più stanco e… senza speranza. Lo vidi in quello stato pochissime volte, da piccolo… Guardarlo di nuovo così… mi… mi ha fatto malissimo, Dash”.

Sunshine si asciugò una lacrima e poi, con un mezzo sorriso, riprese il discorso: “Invece, ieri sera, sembrava tornato ai tempi antichi… quando, nonostante tutto, nonostante i mille problemi… si alzava ogni giorno e ci PROVAVA… ci credeva…”.

“Io… io non so che dire, Sunshine…”.

“Non devi dire niente. Venire a trovare mio figlio è stato il gesto più bello che potessi fare… E… e ora credo di rendermi conto che… che tutto ciò che sta spingendo Icarus a continuare la sua battaglia… sia la speranza di volare di nuovo… con te…”.

Rainbow buttò giù un altro pezzo di mela, incapace di realizzare quanto lei potesse rappresentare per l’amico.

“E… senti”, le domandò il pegaso blu, “La… la cura come sta andando? Sinceramente”.

L’amica si spense all’improvviso: “Io… io non lo so. I medici dicono che l’esito è incerto… che se dovessero esserci dei progressi si vedrebbero solo fra un po’ di tempo… Io continuo a sperare ma…”.

La voce le si fece tremolante: “…Ma la verità è che io osservo mio figlio divenire più debole ogni giorno che passa…”.

Calò il silenzio.

Brutus portò alcuni dolci industriali, decisamente datati.

“Grazie, Brutus”, commentò Sunshine, vagamente risollevata.

“Di niente, cucciola”, rispose lo stallone, con labbrucce all’ingiù.

“Per quanto ti fermerai a Steamdale, Rainbow?”, le chiese la puledra.

“Non lo so…”, dichiarò, controllando la sacca, “Mi restano pochi spiccioli e…”.

“Lascia stare”, intervenne prontamente la madre, “Parlerò con Brutus. Potrai stare qui per tutto il tempo necessario”.

“Ma… ma non è il caso… io…”.

La giumenta si fece serissima e raccolse le zampe di Dash tra le sue, portandosele al petto: “Ascolta, amica mia”, le disse, “Ti devo chiedere un favore enorme… un favore grandissimo…”.

“I-io…”, tentennò l’altra, impreparata.

“Ascoltami, ti prego… Rimani qui ancora un po’… e… e vai a trovare Icarus. Vallo a trovare più volte che puoi. Io… io vedo solo che mio figlio si sta spegnendo. Ora dopo ora. La cura non sappiamo se lo aiuterà… Per ora… lo sta solo rovinando…”.

“Sunshine…”, bisbigliò Dash, scuotendo la testa, con occhi spalancati.

“Io non so cosa accadrà ad Icarus ma… ma se un domani non dovesse più vedere quel cielo stellato di cui mi ha parlato più volte… allora… allora, almeno, lo vorrei vedere un po’ felice, prima che…”.

Il pegaso blu si liberò dalla presa, sollevandosi grazie alle ali: “Non dirlo nemmeno per scherzo!!”, tuonò, con la fronte corrugata.

“Mi… mi fa piacere vederti così convinta…”, ammise l’altra.

“Parli come… come se…”.

“No… scusami… hai ragione. Sono solo… molto stanca e… e vedere Icarus com’era messo nei giorni scorsi mi ha… Scusami…”.

“Niente scuse…”, tagliò corto, “Ma non dirlo mai più…”.

“Certo. Hai ragione. Forse… non sia mai… che tu possa essere… la vera cura per Icarus…”.

Il pegaso si calmò, tornando a sedersi.

Sunshine concluse il discorso: “Ma non voglio nemmeno farmi facili illusioni. Per ora mi basterebbe che mio figlio ritrovasse un po’ di serenità. Non chiedo altro”.

“Ok…”.

“Dai…”, aggiunse, tornando a sorridere leggermente, “Vieni. Andiamo a fargli una visita insieme, ti va?”.


*** ***** ***



    Lo Zeppelin lasciò le puledre sulla stessa stradina che Rainbow aveva percorso il giorno precedente.

La giornata era soleggiata proprio come quel pomeriggio e faceva persino un po’ più caldo.

“Sai”, riprese Sunshine, portando avanti un discorso iniziato già sul velivolo, “Sono davvero contenta che tu abbia incontrato mio figlio…”.

“Anche io sono contenta di averlo conosciuto…”.

Le due presero a percorrere il tragitto in mezzo al verde delle montagne, dirette all’ospedale.

“Non è solo quello”, precisò l’amica, “Tu sei l’unico pony che, in tutto questo tempo, sia mai riuscito a scalfire quella corazza che Icarus si era creato per proteggersi dal mondo…”.

“Io credo che anche Icarus abbia avuto la sua parte nel riuscire a scalfire la mia, di corazza…”.

“Lo so che ti sto chiedendo tanto…”.

Dash scosse il capo: “In che senso?...”.

L’altra si fermò e prese ad osservare il paesaggio, sul ciglio della strada: “Parliamoci chiaro, Rainbow Dash… Tu sei un asso del volo. Sei il pegaso che meno dovrebbe trovare interesse nel…”. Sunshine abbassò la testa: “…Nel stare qui, ferma, a terra… a badare ad un pegaso su una sedia a rotelle”.

“Ehy!”, proruppe la puledra blu, visibilmente infastidita, “Se c’è una cosa che ho imparando stando con tuo figlio… è che non c’è niente di peggio che fare le cose forzate o per pietà”.

“Un pensiero onorevole…”.

“No. Non è un semplice pensiero. Io ammiro tuo figlio. E lo rispetto tantissimo”.

“Va bene… ti credo”, le rispose con sorriso.

    Dopo qualche minuto varcarono nuovamente le cancellate dell’istituto.

Dash osservò di nuovo l’edificio, questa volta con meno apprensione.

Una volta dentro, il personale non fece alcuna domanda: evidentemente sapevano bene che Sunshine era la madre di uno dei pazienti più “singolari” ospitati dalla struttura.

Salirono le scale e si portarono davanti alla camera tre, immersa nel silenzio più assoluto.

Un istante prima che entrassero, la porta si spalancò di colpo: l’infermiera Chestnut uscì con la coda tra le zampe, mentre un piatto di purea si infrangeva sonoramente sopra il suo capo, spandendo schizzi ovunque.

La coppia di pegasi fece un balzo all’indietro, completamente sconcertata.

Dall’interno proruppe la voce di Icarus: “Ti ho detto che non la mangio quella roba!! Solo perché sono un paziente non significa che dobbiate trattarmi come se non mi funzionassero le papille gustative!!”.

“Giusto!! Parapille guastaviche!!”, incalzò Velvet.

Chestnut si risistemò la chioma e poi notò le due amiche.

“B-buongiorno, signora Sunshine…”, buttò lì.

“Ciao, cara…”, disse lei, “Cosa… cosa sta succedendo?”.

L’infermiera cercò di mantenere un minimo di contegno: “Oh… ehm… niente… E’ il pazien… cioè è Icarus che oggi… è un po’… energico... tutto lì”.

La madre si girò verso Dash, con un ghigno compiaciuto: “A quanto pare la cura a base di arcobaleno di ieri sera sta funzionando”.

Il pegaso blu, imbarazzato, cercò di minimizzare: “Ma no… io non credo che possa essere io ad aver…”.

“Rainbow Dash??”, urlò Icarus, oltre le mura, “Sei tu??”.

Si udirono alcuni rumori e un tonfo sordo sul pavimento.

“Stupide coperte!”, blaterò l’amico, presentandosi subito dopo sulla sua cigolante carrozzella.

“Tu. Cosa. Ci fai. Ancora. Qui!?”, domandò, scandendo attentamente ogni parola, con viso severo.

L’amica non seppe che dire e Sunshine prese la parola: “Rainbow Dash è ospite presto il Rusty’s”.

“Quella discarica che si fa chiamare bed & breakfast?...”.

“Sì. Quella”.

Icarus fulminò Dash con lo sguardo: “…Si può sapere che diavolo ti salta in mente?”.

“Non sei contento di vedermi?”, domandò maliziosamente.

“Certo che no. Ieri ho solo fatto finta di essere felice”.

“Se vuoi torno a Ponyville”.

“Fa pure!”, dichiarò, mettendosi a zampe conserte e girandosi dall’altra parte, imbronciato.

Chestnut, grattandosi la testa, si intromise: “Uhh… Dovreste abbassare la voce… questa è una zona che…”.

Il pegaso grigio raccolse fiato nei polmoni, pronto a dirgliene quattro, ma la madre gli tappò prontamente la bocca: “Grazie, cara”, le disse, cercando contemporaneamente di contenere la foga del figlio, “Ma ora me la posso cavare benissimo da sola”.

“M-ma… il paziente ottantotto deve stare sotto costante osservazione del personale e…”.

Sunshine le sorrise amabilmente, con una smorfia che lasciava intendere come cercasse di essere molto cortese, forse molto più di quanto volesse: “Mia cara… bado ad Icarus da quasi diciassette anni. Penso di sapere cosa fare con lui, non credi?...”.

L’altra si impietrì: “C-certo”, e si allontanò.

“Che scocciatura…”, sbuffò infine Sunshine, quando l’infermiera era ormai lontana.

Icarus, di nuovo libero di parlare, berciò: “Sei stata fin troppo morbida, mamma… Fosse stato per me le avrei…”.

“Taci tu. Come hai imparato ad essere così sboccato, stando sempre isolato sulle nuvole?”, lo riprese, arruffandogli la criniera.

“E’ attitudine. Tratto male chi mi tratta male”.

Rainbow sorrise divertita: “Ti fai trattare male da un’infermiera?”.

“Scherzi?? Quella è terribile! Mi porta delle pappette semisolide due volte al giorno, fa finta di ascoltarmi e intanto magari pensa allo shopping che farà con le amiche nel pomeriggio…”. L’amico sollevò quindi le zampe a mezz’aria, separando gli zoccoli tra loro di circa mezzo metro: “Pensa che l’ultima volta era arrivata con un termometro lungo così e…”.

“Ok, ok”, lo interruppe l’interlocutrice, “Non entrare nei dettagli…”.

Sunshine osservò i due scherzare e il suo cuore tornò a scaldarsi leggermente, mentre sul viso stanco nacque un’espressione di dolcezza crescente.

“Ehy!”, disse ad un certo punto Dash, “Perché non usciamo un po’ da queste mura ammuffite??”.

Icarus batté un colpo sul bracciolo: “Non posso… Se metto una zampa fuori da questo piano, mi saltano addosso e mi riportano in stanza…”.

“Cosa? E perché?”.

“Perché sono dei sadici e vogliono vedermi soffrire…”.

La madre si riprese dalla commozione, tirando su col naso, e aggiunse: “Oh, suvvia! Sono sicura che non faranno tante storie per una piccola sortita nel giardino là fuori!”.

“Mamma… lo sai che non posso…”.

“Io dico che puoi”, lo corresse Sunshine.

“Ma…”.

“Tu e Rainbow andate in giardino… Io intanto vado a parlare col primario”. Il volto di Icarus si accese di gioia.

“Questa volta, però”, concluse con sguardo ammonitore, “State lontani dalle tempeste…”.


    I due pegasi si muovevano lungo i piccoli sentieri ciottolati del cortile: Rainbow, fluttuando leggermente, spingeva la carrozzella di Icarus, che sussultava ad ogni pietra o piccolo dislivello che incontravano lungo il percorso. Nicodemo, annusando incessantemente l’aria, si trovava sul capo del padroncino, circondato dalla folta criniera viola.

“Finalmente un po’ d’aria…”, sospirò, osservando l’azzurro del cielo, “Non ne potevo più di quel tanfo di disinfettante misto pastone della mensa…”.

“Non ti fanno uscire, solitamente?”.

“Di stanza qualche volta al giorno. Dall’istituto: un’ora a settimana, se Panpipe è di buonumore”.

“E’ quando non è di buonumore?”.

“Mi inchioda alla parete con delle manette, a pane e acqua, e butta via le chiavi delle segrete”.

“Un uccisore di draghi che si fa ridurre così da un povero vecchietto?”.

“Vecchietto: forse… Povero?... Il potere di quell’unicorno non deriva tanto dalla sua magia, quanto dai soldi che ha nel conto in banca, credimi…”.

La carrozzella prese una buca.

“Ehy!”, si lamentò Icarus, vittimizzando oltremisura, “Guarda che sono un paziente delicato! E sono sotto la tua responsabilità!”.

I due giunsero all’ombra di un grosso salice piangente: “Ohh”, lo canzonò Dash, “Povero piccolo… ti sei fatto la bua?”.

“Non farai tanto la furba quando mostrerò ai dottori i lividi che mi sono fatto in questo percorso accidentato…”.

L’amica smise di sbattere le ali e si sedette a terra.

Calò il silenzio, interrotto saltuariamente da qualche uccello lontano e dal lieve fruscio del venticello tra le piante.

La coppia alzò lo sguardo, osservando i rami del salice ondeggiare al ritmo dell’aria, creando un mosaico luminoso: i raggi del sole che filtravano attraverso la trama della chioma.

Passarono diversi minuti.

“Non è poi tanto male”, commentò Dash, rilassata.

“No…”, ammise Icarus, “Non lo è affatto… Per questo… vorrei che mi facessero uscire più spesso…”.

“Non sarà un problema: mi dici quando e io verrò a rapirti alla finestra. Dovrai solo lasciarla un po’ aperta e…”.

Lo sguardo dell’amico si fece serio: “Dimmi una cosa, Dash…”.

“Ti ascolto”.

“Dimmelo sinceramente… perché sei rimasta qui?”.

L’altra ci pensò un attimo: “Perché sì. Perché volevo restare”.

“E la gara?”.

Rainbow si fece baldanzosa: “La Gara Equestre? Non mi preoccupo! Potrei affrontarla anche ad occhi chiusi se solo lo vol…”.

La zampa del pegaso grigio si posò sulla sua spalla: Icarus la osservava sempre più serio.

“Rainbow Dash… non provare a fare la scenetta con me…”.

“Scenetta?”, domandò perplessa.

“Cosa diavolo ci fai, qui… con un pegaso malato, in un ospedale, a più di dieci ore da casa… con una gara di livello continentale alle porte? Sai come la penso su queste cose. Non ho bisogno della pietà di nessuno”.

“Cosa??”.

L’amico si ritrasse contro lo schienale della carrozzina, tornando ad osservare gli spicchi di cielo tra le fronde: “Scommetto che è stata mia madre a convincerti. A volere che tu mi facessi da balia. Beh. Sai che ti dico? Che non…”.

Dash lo cinse all’altezza delle zampe: questa volta fu lei a sfoderare uno sguardo estremamente serio.

“Ehy, Icarus”, gli disse con tono lapidario, “Puoi accettare per una buona volta che qualcuno voglia fare qualcosa per te e basta?...”.

“Ridicolo. Nessuno fa nulla per nulla…”.

“Appunto. Credi che, se non volessi stare con te, ora sarei qui?”.

“Se vuoi compagnia credo tu ne abbia di più simpatica e più congeniale a Ponyville”.

La puledra sbuffò spazientita: “Ma è questo il punto! Certo che potrei tornarmene a Ponyville e in qualsiasi istante! Ma non lo faccio… non… non è quello che voglio… Adesso non voglio tornare dalle mie amiche…”.

Icarus si girò verso di lei, cercando di decifrare le sue parole, con sguardo incerto.

Dash continuò: “Adesso voglio rimanere qui. E’ una mia scelta… Adesso voglio solo stare… stare con…”.

    Un insieme di versi sconnessi li sovrastò improvvisamente, ponendo fine al discorso: il pony con la barbetta, lo stesso che le amiche avevano incontrato il primo giorno, sbucò alle loro spalle, starnazzando frasi senza senso.

Dash cacciò un urlo, ribaltandosi sull’erba dallo spavento.

L’amico, invece, non si scompose minimamente: sollevò le sopracciglia e osservò la puledra distesa a terra, visibilmente spaventata.

“C-c-chi diavolo…”, farfugliò.

“Diavolo di diametro diametralmente diamagnetico!”, rispose il pony.

“Complimenti”, commentò l’amico, “Questo sì che è il coraggio che si addice ad un campione di Equestria…”.

“Piantala! Mi ha quasi fatto venire un infarto!”.

Il paziente si sedette di colpo, con un sorriso da ebete e la lingua ciondolante, ad un angolo della bocca.

“Come va, Ate? Tutto bene?”.

“Bene benestare, beninteso!”.

“Ate?...”, domandò Dash.

“Sì”, rispose il puledro, “Lui è Ate. E’ più fuori di un balcone. E’ con lui che mi intrattengo, di solito, quando mi fanno uscire”.

“Parli con… con un…”.

“Parlo con chi mi pare”, rispose stizzito, “E Ate è l’unico che mi ascolta e non fa domande, giusto amico?”.

“Amico ammiccante ammira amministratori ammainati!”.

“Ma perché fa così?”.

“Boh”, bofonchiò, alzando le spalle e rivolgendosi poi al matto: “Perché fai così?”.

“Così cosiddetto costituente costeggia!”.

“Sentito, Dash? Perché così cosiddetto costituente costeggia”.

Rainbow si sentì come Ponyce nel Paese delle Meraviglie.

Icarus si impettì, poggiando una zampa sulla spalla dell’altro: “Ah! Caro Ate!... Tu sei come me. Sei solo contro il mondo! Io sono pegaso e non posso volare… Tu sei boccamunito ma capace di far fuoriuscire solo frasi sconnesse e dal significato incerto. Com’è difficile la vita, per noi avventurieri dell’ignoto!”

“Ignoto ignobile ignorante ignezione!”.

“Guarda che iniezione non si pronuncia in quel modo…”, lo corresse.

Ate spalancò la bocca e incrociò gli occhi: la frase dell’amico lo aveva evidentemente mandato in tilt. Dopo qualche inconsistente tentativo di ulteriore pazzia, si allontanò.

“Visto, Dash? Ha ancora il cervello che gli funziona a sufficienza per capire cos’abbia senso e cosa no”.

“Se lo dici tu”, gli rispose, poco convinta.

Il pony dalla chioma viola assunse un’espressione amareggiata: “Qui tutti ti considerano come se fossi il peggiore degli appestati. Io ho le ossa fragili e vengo trattato come se non potessi muovere un muscolo. Ate è un po’ pazzo e dicono che è pericoloso… quando la cosa più pericolosa che gli ho visto fare è stato mordersi la lingua per sbaglio, durante uno dei suoi farneticamenti… Velvet viene considerata come una completa non vedente…”.

“A proposito”, chiese incuriosita, “Cos’ha che non va, quella puledrina?...”.

“Come tutti i pazienti che stanno qui, ha una malattia rara e poco conosciuta. Li hai visti i suoi occhi?”.

“Sì… sono un po’… strani”.

“Sta perdendo progressivamente l’uso della vista. Ora come ora distingue ancora i colori e i contorni ma non riesce a riconoscere minimamente i dettagli. Di te riconoscerebbe solo la silhouette ma, per vedere i lineamenti del tuo volto, sarebbe costretta a toccarti il viso”.

Rainbow si intristì leggermente: “Capisco… e… quel vecchio?”.

“Crumple?...”, disse, massaggiandosi il mento, pensieroso: “Guarda, non lo so… le possibilità sono due: o è un caso di senilità acutissima… oppure quello è un gran furbacchione e si finge uno straccio solo per starsene comodo su un lettino tutto il giorno…”.

“Ma figurati se uno ha voglia di starsene tutto il giorno sdraiato a far nulla!”.

“Oh, può essere, mia cara! Lui non parla, non riesce a muovere un muscolo e si deve far imboccare… Comoda la vita, così!”.

“Mamma mia quanto ti sei incattivito!”, commentò, dandogli un colpetto col gomito.

“Vero, eh?”, rispose orgoglioso, “Mi alleno tutti i giorni con l’infermiera”.

“Un giorno o l’altro te la prenderai con il pony sbagliato, che te le darà di santa ragione!”.

“Ridicolo!”.

“Cos’è? Pensi di tenere testa a chiunque?”.

“No. Punto sul fatto che non abbiano il coraggio di picchiare un pony in carrozzina”.

    I due si sorrisero e poi stettero altri minuti ad osservare il cielo, in completa beatitudine.

Ad un certo punto, le orecchie dell’amico ebbero un sussulto: qualche idea malsana gli stava balenando in testa.

“E… senti… così stai al Rusty’s, eh?”.

“Sì…”, rispose sconsolata.

“Hai già conosciuto il proprietario?”.

“Brutus?”.

“Sì, lui!”.

“Sì… ci siamo già… ehm… conosciuti…”.

“Mi piace un sacco, quel tizio!”.

“Perché?”.

Il pony grigio si animò di energia: “E’ così… scorbutico! E’ un musone, iroso, asociale e arrogante!”.

“Ecco perché ti piace: è come te!”, lo derise l’altra.

“Sì ma poi, sotto sotto, è davvero uno stallone dal cuore d’oro…”.

“Ah no… mi correggo: allora non è come te”, aggiunse scherzosamente.

L’espressione dell’amico si fece scaltra: “Chissà come dev’essere Steamdale…”.

“Bah…è un posto terribile… C’è… c’è caos ovunque… Sporco, smog, chiasso…”.

“Ma è comunque un luogo singolare, no?”.

“Sì… e di notte, con tutte quelle luminarie, è abbastanza spettacolare, devo dire. Ma tu non l’hai vista, quando sei venuto all’Emerald Lake?”.

“No. Mi hanno impacchettato direttamente sullo Zeppelin e spedito qui. Di Steamdale ho solo visto la stazione, di sfuggita”.

“Beh”, disse con ottimismo, “Quando sarai guarito la potrai visitare”.

“E se non dovessi guarire?”.

“Piantala!”.

“No, intendo: perché fare una cosa domani quando la potresti fare oggi?”.

Rainbow spalancò lo sguardo e si girò verso l’amico: era spaventosamente serio.

“Icarus… che diavolo vuoi dire?...”.

Il puledro alzò le spalle, stringendosi gli zoccoli tra le cosce e sfoderando un paio di occhioni da cucciolo: “Mhh… Non so… cioè… tu hai le ali… io ho le ruote… Con il supporto delle prime e le proprietà fisico-meccaniche delle seconde posso percorrere lunghe distanze”.

“Ah! Mi hai già fregato con la tempesta!”, gli rispose, alzando e abbassando una zampa, sicura di sé, “Non succederà due volte!”.

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Capitolo 7
*** Oggi Come Allora ***


I passeggeri si accodarono per salire sullo Zeppelin: la fila non era molto lunga ma si muoveva con eccessiva lentezza.

Dopo qualche minuto, qualcuno cacciò un urletto di dolore, preceduto dal rumore di una bastonata.

La scena si ripeté più volte, con passeggeri sempre più vicini al terminare della fila finchè, dal serpentone di pony, non si palesarono Rainbow Dash e un pony su sedia a rotelle.

Icarus era inarcato in avanti, con le ali leggermente sollevate, a simulare una gobba: volto e parte della schiena erano racchiusi da un foulard avvolto, facendo sbucare solo una parte del muso. Il pegaso stringeva un bastone da passeggio e menava fendenti a destra e a manca.

“Si muova, giovanotto!”, rantolò, simulando una voce da vecchietta, “Non è che abbiamo tutto il santo giorno, per Celestia!”.

Uno stallone si beccò un colpo su una zampa e strillò spaventato: “M-ma cosa??...”.

“Si faccia da parte e lasci passare una povera anziana indifesa, mariuolo!”.

“Ma… ma…”.

“Cos’è??”, lo minacciò, sollevandogli una narice con il bastone puntato, “Non lo sa che mio marito ha combattuto nella guerra di Ponalamo?? Mica come lei che se ne sta tutto il giorno a trastullarsi con le puledre che incontra per strada!”.

“Ah! E’ così??”, le disse la fidanzata lì vicino, iniziando un litigio.

Dash mosse rapidamente le ali e spinse la carrozzella a bordo, come un fulmine.

“Ma ti sei ammattito??”, gli sibilò in un orecchio, decisamente innervosita.

“Eddai”, gli disse l’amico, alzando un lembo del foulard e rivelando un occhietto divertito, “Non fare sempre la solita!”.

“Solita un accidente! Sto continuando a fare una stupidaggine dopo l’altra! Come sobbarcarmi tutte le conseguenze dell’averti portato fuori dall’istituto di cura!”.

“Puoi sempre dire che ti ho minacciato con la forza…”.

“Oh, per la miseria…”, disse, iniziando ad impanicarsi leggermente, “Mi troverò contro un’orda di medici ed unicorni che…”.

“Ma va… al massimo ti daranno un po’ di olio di ricino e via… Ehy, lei!”, proruppe, colpendo un altro malcapitato, “Si sposti di lì che mi toglie la visuale dall’oblò! Ho dei diritti anche io, anche se sono vecchia, sa??”.

Rainbow si avvicinò di nuovo alle sue orecchie, stringendo i denti: “Piantala! Non basta che fuggiamo di straforo?? Devi anche fare il pazzoide in mezzo alla gente?”.

“Prima che incontrassi Pinkie, certe cose non mi erano nemmeno passate per l’anticamera del cervello. Quindi è colpa tua che me l’hai presentata”.

“Ecco. Perfetto”, concluse, passandosi uno zoccolo sulla fronte, “Ovviamente è tutta colpa mia”.

“Dovevi pensarci prima di fermarti a Steamdale solo per stare con me, mia cara, carissima Rainbow Dash”, le rispose, con un sorriso a trentasei denti.

I passeggeri, intanto, presero posto nella cabina dello Zeppelin, tenendosi a debita distanza dalla “vecchietta” irascibile e facendole cerchio attorno.

“Ecco, geniaccio”, si lamentò Dash, “Se non dovevamo dare nell’occhio direi che ci siamo riusciti perfettamente…”.

“Sei sempre a lamentarti…”.

“Senti chi parla…”.

“Ma io ho la malattia. Sono giustificato a lamentarmi”.

Dopo qualche istante di battibecchi, il mezzo prese finalmente a sollevarsi da terra.

Icarus si stampò contro un finestrino, osservando l’istituto farsi sempre più lontano.

“Arrivederci, gabbia di matti”, dichiarò, facendo un saluto con lo zoccolo.

Il velivolo sorvolò le foreste, fece le tappe consuete e superò infine le catene montuose, piombando improvvisamente nella cappa di smog della megalopoli. Quando l’inquinamento parve diradarsi, Steamdale apparve in tutta la sua imponenza.

Il pegaso grigio strizzò gli occhi: “Così è quella Steamdale…”.

“Già. Bella roba, eh?”.

“Hai visto quanto fumo?”.

“Sì… e fra poco lo sentirai anche col naso…”.

“Figurati”, minimizzò, “Ho la narici quasi bruciate da quegli intrugli medicamentosi che mi propinano…”.

La cabina dei passeggeri iniziò a tremolare, in concomitanza alla manovra d’atterraggio.

“Uao! Questa cosa balla la cucaracha!”, ridacchiò Icarus.

Uno dei presenti si voltò verso il puledro, corrugando lo sguardo: “Ehy! Ma tu non sei una vecchietta! Chi sei in realtà??”.

Il pegaso dalla chioma viola si voltò molto lentamente verso di lui, con occhi sottili: “Sono il tuo incubo peggiore…”.

“Non ci faccia caso”, si intromise Rainbow, con un sorriso di circostanza, “Lui è…”.

“Sono il suo fidanzato storpio”, tagliò corto Icarus, con atteggiamento solenne, “Sono il suo storpidanzato”.

L’altro divenne confuso: “Il… cosa?”.

Dash si passò nuovamente lo zoccolo sulla fronte: “Senta… possiamo stare a discutere con questo pony cocciuto per tutto il pomeriggio. Si fidi: lo farà ben volentieri”. L’amico si impettì, orgoglioso. “Per cui le consiglio di lasciar perdere oppure ci toccherà stargli dietro fino a che non sarà notte”.

“Uhh… o-ok…”.

Un sussulto fece intuire che lo Zeppelin era atterrato.

La cabina iniziò a svuotarsi.

“Storpidanzato?”, domandò la puledra, riprendendo a spingere la sedia a rotelle.

“Sì. Storpio più fidan…”.

“Ho capito da cosa hai coniato il termine…”.

“Scusa, non ti facevo così intelligente”.

“Guarda che  smetto di spingere e ti lascio qui, furbacchione”.

La coppia era uscita e si trovava di fronte alla facciata principale della stazione, in mezzo ad un grosso andirivieni di pony.

Icarus bloccò le ruote con le zampe: “Sai che ti dico?”, affermò con improvvisa convinzione, “Che hai ragione: non devi più spingere”.

“Come?”, domandò incredula.

Il pony dalla chioma viola puntellò gli zoccoli sui braccioli e cercò di tirarsi su, con evidente sforzo.

Rainbow stette per dire qualcosa ma poi le tornò in mente con chi aveva a che fare.

L’amico sbuffò, strinse i denti e le zampe gli tremarono.

L’altra si mise in disparte.

“Beh, razza di insensibile?”, domandò Icarus col fiato corto, a metà dell’impresa, “Non mi dai una zampa?”.

“No”.

Il pegaso grigio sorrise compiaciuto: “Vedo che ormai mi conosci…”.

Con un ultimo gesto di sofferenza, si sollevò dalla sedia e ricadde sulle zampe: un ginocchio gli cedette, costringendolo a terra. Cercò di tirarsi su e si trovò la puledra al suo fianco, nell’intento di sollevarlo con il dorso del collo.

Quando fu in piedi, osservò l’amica negli occhi e non seppe cosa dire. Scosse quindi il capo, come ripresosi da un imbarazzo improvviso: “O-ok… senti… lasciamo la carrozzella qui, in custodia”.

“Sei proprio deciso a camminare, eh?”.

“Ascolta… oggi voglio che tu faccia una cosa per me…”.

“Sentiamo”, rispose, un po’ preoccupata.

“Io… io vorrei passare con te una giornata… normale…”.

“Normale?”.

“Sì”, disse, “Quando ero a Ponyville, tra le nuvole… osservavo spesso la vita degli altri, attraverso il mio piccolo telescopio. Li guardavo mentre uscivano di casa, andavano a fare compere, giocavano con gli amici. Cose così”.

“Ehm…”, commentò, aprendo la sacca a tracolla, “Non ho molto denaro con me… Non credo potrò portarti a fare compere”.

“E cosa dovrei comprarmi? Un monopattino?... Senti: voglio che passiamo una giornata come… come se fossimo solo due pony normalissimi che escono in un pomeriggio. Niente di più”.

“Un appuntamento galante, quindi?”, lo schernì, “Ma non hai il frac o il cilindro… non sei molto elegante…”.

“Eddai… sai cosa voglio dire…”.

“Va bene… e… quindi, la carrozzella?...”.

“I pony normali… camminano. Non mi va di vederti spingere un paraplegico fino a sera. Sulla mia Cirrus aveva un senso… con quel trabiccolo invece no”.

L’amica si grattò le tempie: “Ah… con la Cirrus aveva senso?...”.

“Certo! E’ un articolo di lusso! Avrei potuto sfoggiarla in giro! Invece questo aggeggio infernale e mezzo arrugginito mi fa sembrare ancora più menomato di quanto non sia”.

“D’accordo. Sei tu l’esperto trabiccoli”.

    I due percorsero i corridoi della stazione.

Icarus si muoveva lentamente e zoppicando. Dash, inizialmente, dovette rallentare per stare al passo ma poi il ritmo le venne naturale, imponendo una camminata tranquilla e rilassante.

Quando sbucarono all’interno della città, l’amico sgranò gli occhi, completamente esterrefatto d’innanzi ai palazzi altissimi, gli assurdi veicoli che passavano per le strade e il denso fumo cangiante che colorava il cielo di tonalità spente e innaturali.

“Benvenuto alla fumosa, fatiscente e rumorosissima Steamdale”, affermò Dash.

“Però… è davvero…”.

“Sporca?”.

“Anche… Volevo dire che è davvero… grande…”.

“Questo è vero”.

Il pony rimase in silenzio ad osservare il luogo.

“Ehy, Casanova, non mi sono accollata la tua fuga per rimanere imbambolati tutto il giorno ad osservare lamiere arrugginite…”.

“Cosa suggerisce, allora, madame?”.

Rainbow contò le monete che le rimanevano: “Uuhhh… vediamo…”.

“Vorrai mica portarmi al Rusty’s?...”.

“Stai scherzando, vero?...”.


*** ***** ***


    Icarus osservò più volte il menù, senza riuscire a decidersi.

Dash guardava l’amico, annoiata, con palpebre calanti e la guancia poggiata ad uno zoccolo.

I due erano seduti al tavolino di un bar in centro, in una zona esterna al locale.

La gente passava incessantemente attorno a loro, creando il tipico brusio delle chiacchiere di sottofondo.

“Entro la giornata, possibilmente…”, lo istigò.

“BlueMagic?... Che cavolo di nome sarebbe, per una bevanda?...”.

“Ma che ti importa? Deciditi e basta”.

“Aspetta che lo rileggo da capo”.

La faccia di Rainbow scivolò verso la superficie del tavolo, colpendolo sonoramente.

L’altro poggiò il menù: “E va bene, e va bene! Che fretta che hai…”.

“Ti sei deciso?”, chiese.

“No. Prendo quello che prendi tu”.

L’amica diede un colpetto al cameriere lì vicino, che dormiva in piedi, nell’infinita attesa di appuntarsi l’ordine.

“Uh… oh… C-che succede?”, blaterò.

“Prendiamo due SnowCherry”.

“SnowCherry??”, trasalì Icarus, “Ma che razza di nome…”.

Il cameriere segnò i due frappé e si congedò.

“Sei proprio un brontolone”, continuò Dash.

Il pegaso grigio si osservò attorno: scrutò i passanti, controllò gli altri clienti seduti ai tavoli e poi riportò l’attenzione sulla puledra.

“E così è questo che fanno i pony normali?”.

“Cioè… vuoi farmi credere che non sei mai uscito una volta con degli amici?”.

“Sinceramente? No. Mi isolai tra le altitudini impervie, da vero macho, poco dopo la scuola”.

“E prima?”.

Icarus cercò di simulare un’eccessiva sicurezza, come se ciò che stava per dire non gli importasse granché: “Prima niente. Tutti si allontanavano da me. Oppure si avvicinavano, mi dicevano qualcosa di offensivo e poi se ne andavano. Quindi non ho mai bevuto al tavolo con nessuno”.

Dash sorrise: “C’è sempre una prima volta”.

“Meglio tardi che mai! A proposito… cameriereee!! Dove sono i nostri… affari beverecci dai nomi strambi?”.

“E smettila! Lo hai fatto aspettare per quasi venti minuti, ora non è che…”.

“Ecco a voi: due SnowCherry pronti da bere”, intervenne il cameriere, posando una coppia di calici.

Dash ringraziò e saldò il conto.

Il pegaso grigio, intanto, prese ad osservare il bicchiere come se fosse un organismo alieno: conteneva un liquido rosato, sormontato da un soffice strato di panna montata, una ciliegia e una cannuccia.

“Ehy, genio: è da bere, non da guardare”, lo punzecchiò l’altra, poggiando le labbra sulla cannuccia.

“Non mi fido. Sembra un frullato di… roba rosa…”.

Il pony blu tirò a pieni polmoni, svuotando il contenitore della metà, tutto d’un colpo. Emise un verso di soddisfazione: “Aah! Guarda che se non lo vuoi te lo finisco io, eh”.

“Giù le zampe!”, berciò, portandosi il calice al petto, come un cimelio. Dopo un attimo di esitazione, bevve un sorso.

Fece schioccare la lingua contro il palato e poi aggiunse: “Mh. Non c’è male. Ho bevuto di peggio”.

Dash, intanto, aveva vuotato il bicchiere, producendo un rumore poco raffinato con la cannuccia: “Beh, nella tua scala di valori è il massimo. Tu hai: non mi piace, mi fa schifo, è terribile, lo odio e, al massimo del punteggio, troviamo c’è di peggio”.

“Che vuoi farci? Sono di palato fino”, rispose, mandando giù una gollata. “Ahhh… che male!”, si lamentò, mettendosi una zampa dietro alla nuca infreddolita.

“Eh. Non sei un bevitore di frullati come me”, commentò sorridendo.


    Dopo aver terminato i frappé, decisero di fare una passeggiata per il centro cittadino.

Steamdale era una città superaffollata e i negozi erano presenti ad ogni angolo di strada.

La coppia percorse le vie principali in lungo e in largo. Icarus si fermò quasi ad ogni vetrina, commentando e sputando sentenze su ogni articolo su cui posava lo sguardo. Rimase poi affascinato ad osservare i giocolieri di strada, intenti a raccattare qualche spicciolo con spettacoli semplici ma d’effetto.

Finirono infine in una grossa piazza in cui era stata costruita un’enorme fontana in grado di realizzare singolari giochi d’acqua e schizzi: la tecnologia si Steamdale, tutto sommato, poteva anche essere piacevole.

Giunti a metà pomeriggio, i due si sedettero sul bordo della fontana.

Il pegaso dalla chioma viola era visibilmente stanco.

“Allora… come sta andando?”, gli chiese Dash, “Vuoi che torniamo?”.

“Fossi matto… Voglio godermi la giornata finché non sarò sfinito…”.

“In altre parole: complicando la mia situazione oltremisura, quando farò ritorno a tarda sera con un pony agonizzante sulla groppa”.

“Più o meno… Ma ora che facciamo?”.

La puledra si guardò attorno, pensierosa: “Mhh… non saprei…”.

Scrutò la zona e la sua attenzione venne attirata da un grosso cartello metallico: si avvicinò e lo lesse ad alta voce.

“Visitate il ventitreesimo Centro Igneo di Steamdale. Una guida vi mostrerà le meraviglie del sottosuolo e il potere strabiliante del vapore che anima la città. Boh. Che ne dici?”.

“Sottosuolo? Sono venuto a Steamdale per osservare della terra?...”, la schernì.

“Non saprei. Eri venuto a Ponyville con l’intento di cavalcare una tempesta?...”.

“Stai utilizzando quell’episodio come arma impropria. Sei sleale”.

“Imparo dal migliore”.

“E sia. Andiamo a divertirci qualche metro sotto terra…”, concluse, con scarsa convinzione.


    La visita guidata partì all’ingresso di un’enorme impalcatura di metallo, che rinforzava un foro circolare in una parete rocciosa, grosso almeno quanto uno degli Zeppelin che solcava il cielo.

Oltre ad Icarus e a Dash, vi erano altri turisti, tra cui una coppia di pony giallo limone dagli occhi sottili e grossi denti sporgenti: i due possedevano una collana composta letteralmente da macchine fotografiche e non si risparmiavano su flash e registrazioni d’ogni sorta.

“No!”, li riprese prontamente la guida, prima di condurli all’interno, “Niente foto! Troverete poi dei simpatici souvenir al termine del percorso!”.

Il primo tratto gettò i presenti nell’oscurità, appena smorzata da alcune luci elettriche affisse alle pareti terrose. Echi di rumori metallici e una calda corrente d’aria provenivano dal fondo del tunnel.

Icarus deglutì ed ebbe un attimo di esitazione. Dash gli diede un colpetto sul fianco: “Allora? Che hai? Paura?”.

L’altro cercò di dissimulare: “Scherzi? Ho cavalcato una tempesta, io. Che vuoi che sia… un… un tunnel? Un buco scavato nel terreno?…”.

“E allora muoviti, minatore, sennò la guida ci lascia qui”.

Giunti al termine della galleria, tra ombre sinistre e rumori mai sentiti, comparve una grossa gabbia di acciaio incassata tra le rocce.

La guida attirò l’attenzione di tutti: “Ora salite ordinatamente sull’elevatore! Quando saremo tutti lì, ci condurrà direttamente nella zona calda!”.

“Zona calda?”, commentò Icarus a bassa voce, sempre più titubante.

Il gruppo montò sul macchinario, facendo risuonare gli zoccoli sul pavimento di metallo. La struttura parve oscillare debolmente.

Il puledro grigio, senza rendersene conto, si portò al fianco dell’amica, vagamente impaurito.

“Ci siamo tutti?”.

“Potele fale foto a glosso cubo di metallo, sì?”, domandò uno dei pony gialli.

“Sì ma poi dovrò requisirvi gli apparecchi fotografici e distruggerli”, e tirò una grossa leva.

Tutto iniziò a tremare e, dopo alcuni secondi, un cigolio precedette il movimento ascensionale dell’elevatore.

La discesa fu piuttosto lunga e, a tratti, spaventosa: clangori, sfiati di vapore e colpi lungo le pareti rocciose fecero cacciare più volte versi di spavento ai presenti.

La discesa parve quindi rallentare, finché la struttura non si arrestò con un ultimo sussulto.

    Di fronte a loro si estendeva un altro tunnel: i rumori di prima erano ora più chiari, forti e nitidi. Anche la corrente d’aria era più calda e aveva un odore sulfureo.

In fondo, proprio oltre una svolta, una baluginante luce rossastra pulsava caoticamente, creando intricate trame d’ombra per via della moltitudine di stalattiti e stalagmiti.

Il timore di Icarus venne ben presto sostituito da una curiosità crescente.

“State vicini a me”, urlò il pony che li conduceva, alzando una zampa, “Stiamo entrando in una zona pericolosa. Non dovete allontanarvi o sporgervi oltre i limiti di sicurezza”.

I visitatori proseguirono quindi l’iter, fermandosi dopo aver svoltato l’angolo da cui proveniva la luce. Di fronte a loro si palesò uno spettacolo affascinante e terrificante al tempo stesso: il tunnel terminava in una caverna gigantesca, il cui fondale era costituito da un’interminabile distesa di magma incandescente.

C’era così tanta pietra fusa da illuminare tutta la zona, come se si trattasse di un tramonto perpetuo. In lontananza, lungo le pareti, vi erano decine di pony intenti a scavare e attivare valvole, leve e ingranaggi. Un complicato sistemi di tubi, carrucole e mezzi su binari si articolava in ogni direzione.

Ma la cosa più impressionante era costituita da una imponente gru azionata a vapore: l’enorme braccio meccanico si spostò sopra la lava, rilasciando poi una morsa che si tuffò letteralmente nel liquido, spandendo schizzi a metri di distanza.

“Guarda che roba…”, disse Icarus a bocca aperta.

“Solo roccia, eh?...”, commentò Dash, anch’essa decisamente impressionata.

La morsa riemerse poi qualche istante dopo: tra i denti di metallo stringeva una manciata di pietre incandescenti.

Il puledro inarcò un sopracciglio: “Che roba è?”.

La guida prese la parola: “Sono Pietre Ignee. Si tratta di conformazioni minerali di origine magica. Si formano solo nelle zone più calde che esistano in Equestria. Steamdale è stata edificata sopra trentanove giacimenti ignei e l’estrazione di queste meraviglie rappresenta la principale fonte di sostentamento della città”.

“Glosso blaccio plende pietle luminose!”, puntualizzò uno dei presenti.

“Vogliate seguirmi! Il nostro viaggio continua!”.

Il gruppo si spostò quindi all’interno della caverna, percorrendo una passerella che la attraversava per tutta la sua lunghezza. Il calore che proveniva sotto i loro zoccoli era rovente. Non a caso gli operai erano scafandrati in curiose tute protettive.

“Fa calduccio qua, però…”, disse uno dei turisti.

Un manovale lì vicino sentì le sue parole, si tolse la maschera e rivelò un volto emaciato e con pochi denti in bocca: “Mio caro signore: a lungo andare questo calore è in grado di rendere la gente coooompletamente fuori di testa!”. Si girò, prese un sasso e iniziò a sbatterlo sul proprio piccone.

“Secondo me sarebbe il compagno di giochi perfetto per il tuo amico Ate…”, sussurrò Dash ad Icarus.

Entrarono quindi in un altro tunnel, giungendo infine in una seconda grotta mastodontica.

All’interno era collocata quella che, di primo acchito, poteva essere una grossa pentola a pressione.

“Ed ecco come viene generato il vapore per l’intera Steamdale!”.

Gli operai erano intenti a muovere carrelli colmi di luminose Pietre Ignee: queste vennero versate nel contenitore, finché uno dei lavoratori comunicò che il livello era pieno.

Gli altri si fecero indietro, chiusero l’apparecchio e poi ruotarono un insieme di valvole.

“Ed ecco che l’acqua va a finire direttamente nel reattore…”.

Si udirono diversi gorgoglii e poi, all’improvviso, tutto quanto parve essere investito da un terrificante terremoto: pezzetti di roccia si staccarono dal soffitto; le tubature pulsarono, ondeggiarono e sfiatarono il vapore attraverso sfoghi rumorosissimi. Un assembramento di oleosi ingranaggi scuri, incassati qua e là, prese a ruotare lentamente.

Centinaia e centinaia di luci elettriche si accesero progressivamente nell’intera grotta, creando un tappeto di puntini luminosi che proseguì in verticale, a perdita d’occhio.

Tutti alzarono lo sguardo.

Icarus e Dash spalancarono le fauci, assolutamente meravigliati dai prodigi di quel luogo curioso.

“Ed ora…”, riprese la guida ammiccante, “Vi farò vedere come fa il vapore a fornire l’energia meccanica. Successivamente potrete farmi delle domande, se vorrete, nonché visitare il nostro fornitissimo negozio di souvenir!”.

“Ohh!”, fecero eco i due pony gialli, all’unisono.


*** ***** ***


    Il sole stava tramontando, regalando al cielo nebuloso di Steamdale un disteso chiarore aranciato.

La coppia di pegasi passeggiava su un marciapiede, con gli occhi rivolti al cielo.

“Sai”, commentò Rainbow, “Non riesco a distinguere dove finisca il sole e dove inizino i fumi rossastri…”.

L’altro non disse nulla.

“Ehy, Icarus? Va tutto bene?”.

“Sì”, rispose pensieroso, “Stavo pensando alla grotta di prima”.

“Ti è piaciuta la visita?”.

“Stai scherzando?”, sbottò con entusiasmo, “Hai mai visto niente di più spettacolare??”.

“Devo ammettere di no”.

“Cavolo! Tutta quella lava ribollente! Quelle pietre meravigliose! E… e quella grotta immensa!”.

“La caldaia…”.

“Già! La caldaia! Mai visto un simile prodigio della tecnica! Dovrà operare in regime isotermico adiabatico e…”.

L’amica scosse la testa, facendo ondeggiare la criniera arcobaleno: “Frena, frena, stai parlando in una lingua sconosciuta per me!”.

“Oh… è che… essendo sempre stato solo… ho letto molto, spaziando dalla letteratura ai testi scientifici…”.

Il pony blu chiuse gli occhi e sorrise: “Sai… ogni tanto mi ricordi Twilight…”.

“Ah! Come vorrei essere un unicorno! Ma, con la fortuna che ho, probabilmente sarei nato con una chiave inglese al posto del corno…”.

“Nel qual caso saresti stato uno fantastico meccanico”.

“O un idraulico con i controfiocchi”.

I due si fermarono quindi ad una panchina.

Icarus si sedette, leggermente dolorante.

“Direi che la giornata sta volgendo al termine, amico mio…”.

“Già…”, rispose sconsolato, perdendo lo sguardo tra gli altissimi palazzi cittadini.

Tra tutti, notò che quello vicino a loro era probabilmente l’edificio più alto che ci fosse in zona.

“Sai”, buttò lì, con un mezzo sorriso, “Mi chiedo come dev’essere la vista da lassù”.

Dash alzò gli occhi: “Certo che a te vengono sempre idee poco originali… e poi non hai visto il paesaggio dallo Zeppelin?”.

“Sì. Ma lo Zeppelin volava nella cappa di smog e alla periferia della città. Chiamalo paesaggio…”.

Ci fu una pausa, seguita da Rainbow che si colpiva le cosce con gli zoccoli: “Sà! Ho capito… Vado a prendere una nuvola e ti portò lassù…”.

“Ma che dici?”, la interruppe.

“Prendo una nuvola e…”.

“Non puoi”.

“Come?”.

“Non puoi! Steamdale è no fly zone!”.

“Ma che stai dicendo?”, domandò incredula.

“Guardati attorno. Quanti pegasi vedi?”.

L’amica scrutò i passanti: “Effettivamente… Ma questo cosa vorrebbe dire?”.

“Pensavo lo sapessi. Steamdale conta un’altissima concentrazioni di unicorni, seguiti da pony di terra e quasi nessun pegaso. Così hanno risolto il problema con i palloni volanti, gli stessi su cui abbiamo viaggiato”.

“Ma non hai detto che è proibito volare?...”.

Il puledro puntò uno zoccolo verso di lei: “Solo ai pegasi!”.

“E allora come ci arriviamo lassù? Almeno che tu non sappia costruire un aggeggio volante non credo che…”.

“Beh, dovranno pur riuscire a raggiungere i piani alti, in qualche modo, no? E non credo che ognuno abbia il proprio pallone volante per riuscirci…”.

“Quindi?...”.

“Quindi proviamo a chiedere…”.


    Dopo una ventina di minuti circa, i due amici si trovavano in un elevatore interno, che funzionava in modo simile a quello utilizzato nella grotta. Questo, però, era molto più piccolo, raffinato e decisamente meno rumoroso.

Un inserviente li stava conducendo fino alla zona apicale dell’edificio.

“La tecnologia a vapore è davvero strabiliante, lo ammetto”, concluse Dash.

“Appunto”, commentò Icarus, “Perché stancarsi le ali volando quando puoi far lavorare acqua in forma gassosa al posto tuo?”.

Una campanella annunciò l’arrivo e l’apparecchio si fermò.

Il terzo pony augurò loro buona serata e i due uscirono in una piccola stanzetta.

Attraversarono quindi una porta un po’ arrugginita, giungendo su un enorme terrazzo: il tetto di quell’altissimo edificio.

Fu allora che Rainbow Dash si rese conto di quanto Steamdale potesse togliere il fiato.

La città, vista dal centro cittadino, su un edificio così alto, si perdeva a vista d’occhio. I grattacieli sembravano dover bucare le nubi e migliaia di camini creavano un tappeto di comignoli in ogni direzione: da essi provenivano esalazioni di vari colori, tipicamente grigi, neri, rossastri e (ma solo alcuni) quasi celesti.

Gli scarichi salivano alti nel cielo, incontrandosi e miscelandosi tra loro come se fossero le tinte di un pittore che si erano inavvertitamente rovesciate sulla tela.

Un sole enorme e arancione occupava quindi buona parte dell’orizzonte, probabilmente intensificato dai fumi di dubbia natura.

“Per la miseria…”, concluse la puledra, esterrefatta.

L’altro le lanciò un ghignò malizioso: “Chi è che deve rimangiarsi le proprie convinzioni, adesso?”.

I due si avvicinarono alla ringhiera e Dash vi poggiò sopra le zampe anteriori.

“E’ veramente… fantastico…”.

Icarus si sedette in silenzio e un lieve venticello iniziò a far ondeggiare lentamente le chiome della coppia.

“Già”, disse infine il pony grigio, “Dopo il cielo stellato… ci ritroviamo a parlare d’innanzi ad esalazioni tossiche e un sole alquanto singolare…”.

“Nella vita non ci si annoia mai, vero?”, concluse divertita, girando il volto verso di lui.

Icarus, tuttavia, non rise: “Beh… insomma… buona parte della mia vita non è stata proprio così movimentata…”.

“Io… scusa non intendevo…”.

“Uff…”, sbottò stizzito, “Odio quando la gente mi fa le scuse…”.

“Ma io non sono la gente…”.

“Lo so…”.

Una piccola mongolfiera, molto simile a quella di Twilight, se non per il colore, passò a qualche centinaio di metri da loro. Sopra vi era uno stallone con grossi baffi grigi, un cilindro e un cannocchiale.

Puntò l’apparecchio visivo verso una zona del cielo e poi strillò: “Fumo fumante a babordo!!”.

I due pegasi risero di gusto.

“Certo che il mondo è pieno di matti!”, commentò Rainbow.

L’amico si avvicinò, issandosi a fatica sulla ringhiera, proprio come aveva fatto lei.

“E’ stata… è stata una bella giornata… Dashie…”.

I due si girarono, osservandosi negli occhi.

“Sì… è stata proprio una bella giornata…”, e puntarono di nuovo lo sguardo all’orizzonte.

    Dopo qualche minuto, Icarus fece un respiro profondo e chiuse le palpebre.

“Sai qual è la cosa più dolorosa della mia malattia?”, le chiese.

Dash scosse la testa, non sapendo cosa stesse per dirle.

L’amico parve esitare, come se cercasse di raccogliere ogni dose di coraggio che riusciva a trovare.

“Non credo le abbia mai viste nessuno… a parte i miei genitori, intendo…”.

“Di cosa stai parlando?”, gli sussurrò, con un filo di voce.

Icarus riportò l’attenzione su di lei: il volto di lui era vagamente sofferente, come se stesse per compiere un gesto di fondamentale importanza.

Spostò il muso verso un fianco e staccò la cinghia che gli teneva strette le ali, con un colpo di denti. La cintura cadde sul pavimento, con un lieve tintinnio delle parti metalliche.

“Cosa… cosa vuoi fare, Icarus? Ti sei già slacciato la cintura, una volta…”.

“Sì… ma tu non hai mai visto… insomma… non le ho mai…”, e strizzò gli occhi, mordendosi un labbro.

Le sue ali tremarono, in un evidente sforzo fisico. I relativi muscoli si contrassero e iniziarono ad avere piccole convulsioni.

Dash ebbe un attimo di spavento, scese dalla ringhiera e fece qualche passo indietro.

Anche Icarus mise tutte e quattro le zampe a terra e, dopo un immane sforzo e un verso liberatorio, riuscì a spalancare completamente le ali.

L’amica si portò le zampe sul muso: la sagoma nera di Icarus, circondata dall’enorme disco rossastro del sole, si stagliava d’innanzi a lei. Le sue ali, seppure un po’ logorate dalla terapia, erano stupende: lunghe, anzi lunghissime… Non solo per un pony per la sua stazza: era un paio d’ali che avrebbe fatto gola ad un asso del volo.

Rainbow, a vederlo così, ad ali spiegate, in netto contrasto con le luce del tramonto… provò uno strano formicolio al petto. Lentamente, si riportò a fianco dell’amico, senza accorgersi della mascella leggermente spalancata.

Il volto dell’altro era fiero e deciso, seppure in tensione per lo sforzo e il dolore che provava nel tenere le ali spiegate.

“Sono… sono bellissime, Icarus…”, gli disse, sfiorando le piume.

Quando l’amico sentì il tocco di Dash sulle ali, ebbe una reazione istintiva che portò a ritrarle, ma si concentrò per mantenerle comunque distese.

La puledra blu lo guardò con melanconia: “Ti fa… ti fa tanto male tenerle così?...”.

“Abbastanza… Comunque… capisci di cosa ti parlavo? Non sono semplicemente un pegaso che non può volare… ma… ho persino delle ali che molti miei coetanei non disdegnerebbero…”.

“Scherzi? Disdegnerebbero? Sono… sono più grandi delle mie… eppure sono affusolate… fini… eleganti…”.

“Già… non lo nego mica. Pensa se avessi potuto usarle. Un pegaso come me, magro e leggero, con un paio di ali come queste… Pensa ai voli che avrei potuto compiere…”.

“Io… io non so che dire, Icarus”, farfugliò, sentendo un forte dolore salirle verso il cuore.

La resistenza di Icarus giunse al termine e dovette rilassare i muscoli, ripiegando dolorosamente le ali di nuovo lungo i fianchi.

Crollò a terra.

“Icarus!”, intervenne prontamente l’amica.

Il pegaso grigio alzò gli occhi umidi: “Capisci, ora, perché non riesco ad accettare il mio destino?... Capisci perché, nonostante io mi sforzi di combattere… Ogni tanto… semplicemente… non ce la faccio… perché non riesco ogni volta ad accettare che pony più fortunati di me vivano un’esistenza più semplice e appagante… con amici, compagni e compagne, senza doversi preoccupare di rompersi una zampa solo a dover salire una rampa di scale… a non dover… a non doversi sottoporre a dolorose cure dall’esito incerto solo nella speranza di… di... mentre la vita degli altri ti scorre sotto il muso e… e la tua rimane ferma…”.

Il puledro iniziò a tremare.

Dash gli si fece vicino: spalancò un’ala e lo avvolse, stringendolo a sé con una zampa.

L’amico chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro la guancia della puledra dal manto celeste, cercando il calore del suo corpo e la carezza delle sue piume.

“Lascia stare, Icarus”, gli sussurrò dolcemente, “Ora non pensare più a nulla. Non pensare…”.

E l’altro così fece, abbandonandosi completamente alla vicinanza che mai aveva provato appieno in tutta la sua vita.

Il vento riprese a muovere le loro chiome ma Icarus quasi non lo sentì, totalmente perso in quella situazione che gli regalò, seppure per poco, una serenità che mai aveva provato prima d’ora.

“Adesso, proprio come allora”, concluse Dash, “…Vorrei tanto che questo momento potesse durare per sempre…”.


    Dopo qualche minuto, il puledro ritrasse la testa, estremamente imbarazzato.

Dash si riportò in piedi, offrendosi di aiutarlo. L’altro, questa volta, non si fece pregare e si tirò su con l’ausilio della compagna.

Cercò quindi la cintura e, quando la trovò, girò un attimo lo sguardo verso di lei: le sue guance erano rosse come pomodori.

“G-grazie, Dashie…”, balbettò, “Non c’è giorno che passi in cui io mi chieda come farei se… se non avessi incontrato te…”.

L’altra gli sorrise con estrema tenerezza: “Di sicuro non incontrerai nessuno così matto da condurti in mezzo ad una tempesta… oppure a portarti via di straforo da un centro medico…”.

“O che si trovi a proprio agio con un pegaso malato, storpio e testardo…”.

In quell’istante, Dash gli disse le parole che non avrebbe mai dimenticato.

“Tu, per me, non sei nessuna di queste cose. Tu sei Icarus. Sei ciò che sento dentro di me. Non ciò che vedo o posso udire. Tu sei… semplicemente tu”.

Il pegaso rimase in silenzio per qualche attimo, poi si rimise la cinghia attorno alla vita.

“Stai diventando troppo sdolcinata”, dichiarò, cercando di nascondere il fatto che, in realtà, quelle sue parole le erano piaciute tantissimo.

“Che vuoi farci?”, gli rispose, facendo spallucce, “Forse è stato lo SnowCherry”.

“ Che nome ridicolo…”.

“Già… è proprio vero… Dai. Scendiamo. Volente o nolente ti devo riportare all’ospedale”.

“Ok…”.

Quando fece il primo passo, tuttavia, l’amico emise un altro verso di dolore.

“C-cavolo…”, farfugliò, “Forse ho voluto strafare un po’ troppo…”.

“Ecco… bravo fenomeno! Visto cosa succede a fare il furbo??”.

“Maledizione… e ora come scendiamo di qui?”.

“Uhm… fammi pensare… Forse, se vado un attimo in strada e…”.

    In quell’esatto istante, un’ombra scura passò rapidamente sopra le loro teste.

Alcune piume bianche caddero lentamente verso terra.

Un imperioso pegaso dalle tonalità dell’avorio e criniera violacea scese accanto ai due, sbattendo vigorosamente le ali.

Icarus sgranò gli occhi e si fece piccolo piccolo.

“Ehy!”, proruppe l’amica, “Ma non avevi detto che qui i pegasi non possono volare?”.

Lo stallone squadrò i due con volto severo, posando poi gli occhi sul puledro.

“Ehm… ciao… papà…”.

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Capitolo 8
*** Il Viola e L'Arcobaleno ***


Grossi fiocchi di neve scendevano lenti dal cielo notturno, poggiandosi candidamente su quelli già depositati sull’intera Ponyville. La piccola cittadina era quasi totalmente imbiancata e, nell’oscurità, si potevano scorgere le finestre illuminate e le luci baluginanti di alcune lanterne all’esterno.

Era tutto molto silenzioso, fatta eccezione per alcuni versi di gioia che prorompevano di tanto in tanto dalle case lontane.

Icarus, da una piccola collinetta in periferia, osservava le luci e udiva il brusio delle risate.

Indossava una sciarpa azzurra e reggeva una cuffia di lana tra le zampe: la madre gliela aveva infilata in testa prima che uscisse ma lui se l’era prontamente tolta, non appena sicuro di non essere più osservato.

Un leggero strato di nevischio si era formato sulle sue spalle e sulla folta chioma: era lì ormai da molto tempo.

Lo sguardo era completamente inespressivo e indecifrabile.

Una porta lontana si spalancò e una coppia di puledri ne uscì, ridacchiando e scambiandosi gesti d’affetto.

Il pony grigio li osservò a lungo e poi, con un profondo sospiro, si voltò verso la pineta alle proprie spalle.

Iniziò quindi una lenta camminata tra gli arbusti, componendo solchi nella neve con gli zoccoli: tre a forma di ferro di cavallo e un quarto strascicato. Una zampa già risentiva terribilmente della malattia e il pegaso non poteva far altro che trascinarla sul terreno.

Marciò per parecchi minuti, inoltrandosi sempre di più nella pineta, a sguardo basso, finché non sbucò in una piccola radura. Era notte ma la neve bianca rifletteva quella poca luce presente, permettendogli di scorgere i dintorni con una certa chiarezza.

Si sedette su un tronco di legno marcio.

La tristezza si fece strada nel suo cuore e un profondo senso di abbandono lo colse, inesorabile.

Alzò il capo verso il cielo, scorgendo i fiocchi scendere verso di lui, nel più completo e totale silenzio.

“Certo che”, sussurrò a se stesso, “Se rimanessi congelato qui, stanotte, nessuno se ne accorgerebbe. A parte i miei genitori”.

Un ghignò amaro si formò sulle sue labbra: “Già… mamma e papà… Se c’è una cosa che odio più di tutto, della mia malattia, è il fatto di… di dover pesare sulle loro spalle…”.

Portò l’attenzione in una zona particolare, oltre le fronde degli alberi: “Hanno speso un capitale per quella casa tra le nuvole… mi hanno dato una montagna di libri da leggere… un telescopio… oggetti, attenzioni, cirri incantati… Ora stanno investendo ogni soldo e ogni energia rimasti per questo progetto… per questa… cura…”.

Icarus si alzò e iniziò a camminare su e giù, con volto rabbioso: “E’ una cosa che detesto… Passi che la mia vita sia un inferno… ma non voglio… non voglio che anche la vita dei miei genitori venga rovinata dal mio destino infelice… Già soffrono per me. Ora si ridurranno sul lastrico?...”.

La sua espressione si fece poi ancora più cupa: “Ma con chi sto parlando?...”, chiese debolmente.

Si sedette sulla fredda neve.

Passarono i minuti. Minuti in cui il pegaso sentì un crescente bisogno di piangere salirgli direttamente dal petto.
Chiuse gli occhi.

Si sdraiò a terra, stringendosi in posizione fetale.

La neve continuò a scendere, coprendolo sempre di più.

“Forse”, bisbigliò, spandendo un po’ di vapore dal muso, “Forse potrei davvero… rimanere qui, stanotte. Restare nella pineta finché non sorge il sole. Forse… per allora sarebbe tutto finito. Io non avrei più… più problemi… e non lo sarei più nemmeno per i miei genitori”.

Una lacrima gli solcò la guancia, provocandogli un’accentuata sensazione di gelo.

“Basterebbe così poco. Nessuno se ne accorgerebbe. Nessuno verrebbe a cercarmi. La vita di tutti continuerebbe esattamente come prima e mamma e papà non dovrebbero più rinunciare a tutto per me”.

Per un piccolo istante, quella soluzione gli sembrò l’unica strada percorribile… l’unica possibilità per scrollarsi di dosso quella terribile sensazione di peso, inutilità e solitudine che l’accompagnava ormai da anni.

Il freddo iniziò ad intirizzirgli le estremità delle zampe e il suo corpo reagì con delle convulsioni sempre più intense.

Il pony era ormai ricoperto da alcuni millimetri di neve, che lo rendevano sempre più difficile da distinguere rispetto al candido manto bianco che lo circondava.

Ci fu silenzio.

Il tempo avanzò inesorabile.

I fiocchi caddero copiosi.

“No”, disse, riaprendo lentamente le palpebre.

“No”, ripeté, con convinzione, “Non ha senso”.

Cercò di allungare le zampe tremanti, ormai insensibili. Provò dolore.

“Mi rifiuto… categoricamente…”. Si portò in posizione quasi eretta, facendo cadere ciò che si era accumulato su di lui.

Inspirò a pieni polmoni e gettò nuovamente lo sguardo al cielo.

“Qualsiasi cosa accada… qualsiasi cosa succeda… non me andrò da qui senza aver lottato. Non me ne andrò piegato su me stesso, arreso alla vita e a tutte le cose brutte che mi sono successe. Se proprio dovrò andarmene… sarà in mezzo ad una battaglia. Che sia per mano di una spada, di una malattia sconosciuta o della vecchiaia… lotterò. Lotterò fino alla fine. Giocherò tutte le mie carte. Non la darò vinta a nessuno”.

Slacciò la cinghia e strinse i denti.

Le ali ebbero un fremito e poi si aprirono, spandendo attorno a lui candido nevischio luccicante.

Il pegaso portò il petto in fuori. Il suo volto si fece fiero e battagliero. Le ali sovrastarono maestosamente la sua figura minuta.

“Qualsiasi cosa mi arrivi contro”, concluse con tono solenne, “La affronterò a muso duro”.

“Sono Icarus, avete capito??”, urlò, rivolto ad ascoltatori inesistenti, “IO SONO ICARUS! IO ESISTOOO!!!”.

Il suo grido riecheggiò nella notte buia.

Nessuno lo sentì.


*** ***** ***
 

    Il pegaso blu afferrò un piatto tra le zampe, gli diede una passata di spugna e poi lo immerse in una tinozza sul bancone. Il suo volto era triste e taciturno.

Brutus, di fianco a lei, prese una stoviglia sporca dal cumulo da lavare e glielo porse, mostrando un’espressione spenta almeno quanto quella della puledra.

Si udì un rumore e Sunshine apparve di spalle, spingendo una porta a due ante, con altri piatti sporchi da lavare. Li aggiunse al mucchio.

Lo stallone si schiarì la voce: “E-emh… allora… com’è andata?...”.

La madre di Icarus alzò le spalle: “Niente di che. Daedalus lo ha riportato all’istituto, gli ha fatto una ramanzina e tutto è finito così”.

Rainbow provò un profondo senso di colpa: “Mi… mi dispiace, Sunshine. In un modo o nell’altro… riesco sempre a fare la cosa più irresponsabile”.

L’amica trattenne una risata: “Cara Rainbow Dash… sei giovane e avventata. Ma sei anche una puledra dal cuore d’oro. Combina le cose insieme e avrai un pegaso che compie… giuste cose avventate!”.

“Giuste?... Ho portato tuo figlio nel cuore di una tempesta… L’ho imbacuccato come una vecchietta, messo su uno Zeppelin, portato via dalle sue cure, condotto in una grotta ribollente di magma e sulla ringhiera del grattacielo più alto di Steamdale…”.

Sunshine inclinò il capo: “Ah… la cosa del grattacielo mi mancava…”.

Dash si accorse di aver nuovamente parlato troppo e riprese a pulire vigorosamente i piatti.

“Ma non importa”, riprese il pegaso dorato, “So soltanto che Icarus, con te, è felice. Quando me lo riportasti da quella fuga notturna… aveva un’ala fratturata… eppure era gioioso come non mai”.

“Gli hai rotto un’ala??”, tuonò Brutus, mettendosi le zampe ai fianchi, decisamente adirato.

“Ehm… i-io…”.

“Calmati, bestione”, lo rassicurò Sunshine, “E’ stato un incidente. E l’unica cosa che so è che, quando tu sei con mio figlio, gli succedono sempre cose pericolose… ma poi lui è felice”.

L’amica smise di pulire per un istante: “Cosa vuoi dire?”.

“Voglio dire che… che tu stai facendo vivere Icarus. Io, come madre, vorrei tenerlo lontano dal mondo… perché ho paura di quanto potrebbe farlo soffrire… ma il mio buonsenso mi dice che lui deve VIVERE… non sopravvivere… quindi… che si rompa tutte le ossa che vuole, se questo gli farà vivere dei bei momenti”.

“Parli come se io gli causassi solo ossa rotte…”.

“Suvvia, era per dire… Per quanto mi riguarda… avrei voluto che Icarus ti incontrasse tanto tempo fa. O che incontrasse più pony come te… in grado di andare oltre il suo fisico e il suo carattere difficile…”.

“Se lo dici tu…”, bofonchiò, riprendendo spugna e stoviglie tra gli zoccoli.

“Infatti ancora mi chiedo… perché tu stia spendendo tutto questo tempo con mio figlio… Va bene che ti possa star simpatico… ma ti sei lanciata da un treno in corsa, quasi senza un soldo, con una gara in arrivo, sei finita in questa bettola…”.

“Ehy!!”, ruggì Brutus.

“…E tutto questo per…”, continuò Sunshine, “Per far visita a mio figlio?...”.

“A quanto pare sì…”, rispose debolmente Dash.

“Stai attenta… non rinunciare alla tua vita per qualcuno… anche se quel qualcuno è mio figlio e ti sta molto a cuore…”.

L’altra ebbe un pensiero nella propria testa: “E se… e se invece rinunciare ad Icarus e tornare alla mia esistenza di prima… se fosse quella la vera rinuncia?...”.

“Hai ragione”, le mentì infine.

L’amica dal manto dorato fece fatica a crederle: “Va bene…”.

“Comunque… sei sicura che la nostra fuga di ieri non gli abbia causato troppi problemi?”.

“Ah!”, sorrise la madre, girandosi un ultimo istante, prima di uscire, “Icarus e Dash sono due nomi che, messi insieme, sono sinonimo di troppi problemi! Ma non temere… gli hanno fatto una strigliata e poco altro”.

“Capisco…”.

“L’unica cosa: magari per un paio di giorni evita di fargli visita. Lasciamo che le acque si calmino un po’”.

“Credo tu abbia ragione. Non facciamo la falcata più lunga della zampa”.


*** ***** ***


    “Mi spieghi cosa credevi di fare?”, gli domandò il padre, con tono severo.

Il figlio, a sguardo basso, non rispose.

“Sai, vero, che cosa sarebbe potuto succederti?”.

“Ma non è successo niente…”.

“Eri a terra e tremante. Tu lo chiami niente?”.

Icarus era nel suo lettino in ospedale. Velvet e Crumple assistevano alla scena in silenzio.

In un angolo, soffiando su una tazzina di caffè, Panpipe attendeva di poter intervenire a favore di Daedalus.

“Papà… sono solo uscito un attimo per…”.

“E’ questo il punto!”, lo interruppe, “Tu non dovresti uscire! Glielo dica anche lei, dottore”.

Panpipe sorrise compiaciuto. Era arrivato il suo momento.

“Assolutamente sì. Mio caro Icarus: sei sotto un regime controllato e cure decisamente non facili da sopportare. Ci rendiamo tutti conto che non sia semplice restare per così tanto tempo chiusi tra queste mura. Ma, se vuoi che la terapia possa aver successo, è necessario che ti applichi ogni giorno e con assoluta costanza”.

“Se non farai così”, continuò il padre, “Tutti i gli sforzi che abbiamo fatto fino ad ora… non saranno valsi a nulla”.

Il pegaso grigio si strinse su se stesso: “Io… io volevo solo… sorridere ancora una volta…”.

Daedalus gli poggiò una zampa sulla spalla: “Tu tornerai a sorridere. Quando la cura sarà finita… tu potrai camminare. Potrai volare. Sarai un pegaso… come tutti gli altri”.

Quando sentì quelle parole, Icarus ripensò a “tutti gli altri”… a tutti i pony che lo avevano fatto soffrire in passato.

“Come tutti gli altri?... Allora preferisco rimanere così…”, sussurrò, senza quasi farsi sentire.

“Come?”.

“Niente”.

L’unicorno verde iniziò a pulirsi gli occhiali con un lembo di camice, come suo gesto abituale: “Stia tranquillo, signor Daedalus. Saltare un giorno non comprometterà l’intera cura. Ma non dovrà più succedere. E quella… quella puledra… Rainbow Cash…”.

“Dash…”, lo corresse il puledro.

“Quel che è… Insomma… secondo me è un elemento destabilizzante per la terapia. Rende il paziente… rende suo figlio irrequieto. E lui ha invece bisogno di molta calma e riposo”.

La rabbia del pegaso dalla chioma viola salì incontenibile: “Cosa ne sa lei di cos’è meglio per me??”.

“Forse perché sono dottore?”, rispose saccentemente.

“E allora vada a farsi un giro tra le stanze del suo facoltosissimo istituto… e si renda conto della tristezza e dell’abbandono che aleggia tra i pazienti!”.

“Mio giovane amico: in un ospedale i pony vengono a farsi curare dalle malattie e altre cose brutte. E’ normale che non sprizzino allegria da tutti i pori…”.

“Forse sarebbero un po’ meno giù di morale se lei iniziasse a trattarli come individui e non come potenziali portafogli da svuotare, signor Pane&pepe!”, sbottò.

“Icarus!!”, ruggì Daedalus, facendolo quasi sobbalzare, “Ora basta! Come ti permetti? Chiedi subito scusa al dottore!”.

“Lasci stare, signore. Sono abituato al disprezzo che le gente ha per i medici curanti. Ma confido che il nostro piccolo amico mi ringrazierà, quando potrà di nuovo solcare i cieli di Equestria”. E bevve un sorso di caffè.

Velvet, alle sue spalle, prese a farne l’imitazione con la lingua di fuori.

Icarus e Crumple la videro e cercarono di trattenere un sorriso.

“Va bene, dottore”, concluse lo stallone, “Per oggi direi che ne abbiamo avuto abbastanza…”.

“Ma certo. Lasciamo pure che Icarus si calmi un po’. Ormai è sera inoltrata. Domani riprenderemo la terapia come di consueto. Venga. Le offro un caffè”.

Il padre annuì e fece per uscire. Si girò un’ultima volta verso il figlio e poi, senza dire nulla, si congedò con il primario, chiudendo la porta dietro di sé.

La piccola puledrina viola saltò su tutte le furie: “Stupido antipatico dottore puzzolente!! Un giorno o l’altro prendo il tuo caffè e te lo verso in test…”. Si agitò così tanto che cadde dal letto, battendo una nasata sul pavimento.

“Ahiaaa! Stupido dottore!! E’ tutto colpa tua!”.

“Calmati, nana. Non ha senso agitarsi tanto per una serpe come quella…”, brontolò l’amico, stringendosi le zampe al mento.

“E’ antipatico!”.

“Anche io lo sono…”.

“No! Tu sei antipatico ma bravo! Lui è antipatico e cattivo!”.

“E’ solo un dottore. Fa il suo lavoro. Spillare soldi dalle disgrazie altrui… Vabbè… non tutti sono così… e se uno doveva esserlo, ovviamente, non poteva che essere il direttore di un istituto di larga fama”.

“Hai tanta fame?”, chiese la piccola, capendo solo metà di ciò che aveva detto.

“No”.

“E così ieri sei uscito con quella puledra, eh? E’ la tua fidanzata?”.

“No, è mia moglie”, le mentì divertito.

“Cosa?? Ma non è giusto! Io dovevo essere tua moglie!”.

“Beh… puoi essere la mia amante”.

“Cos’è un’amante?”.

“Ehm… forse è meglio se parliamo d’altro…”, concluse imbarazzato.

“Cos’hai fatto ieri?? Dove sei andato?? Hai ucciso dei draghi?”.

L’amico assunse un’espressione maliziosa: “Sono stato… nella magica città di Steamdale!! Un luogo arcano dove correnti di vapore e strane creature volanti si incontrano ad ogni angolo del posto!”.

Velvet risalì faticosamente sul lettino, prendendo poi ad ascoltare la voce del pegaso, completamente assorta.

Icarus iniziò ad agitarsi, accompagnando il suo racconto con numerosi gesti delle zampe.

“Siamo stati in una bottega locale, dove ci hanno servito cervello frullato di scimmia con occhi rossi di salamandra!!”.

“Bleah!! Che schifo!”, lamentò la piccola, cacciando la lingua di fuori.

“…Poi a milletrecento chilometri sotto terra, giungendo al centro del pianeta! Lì abbiamo attraversato le miniere Ignee di… di… di Igneeville? Sì, Igneeville, e poi ho assistito alla creazione di un intruglio magico a base di pietre magiche, acqua e… e… e pony gialli”.

“Pony?? Usano i pony per fare gli intrugli??”.

“Sì! Hanno messo tutto dentro un enooorme calderone e poi c’è stato un fracasso pazzesco e dei cristalli magici hanno illuminato il posto intero!!”.

L’amica si eccitò, sporgendosi oltre il lettino, in preda all’enfasi: “E poi?? E poi??”.

Icarus parve calmarsi: “…E poi… poi siamo andati in cima ad una torre altissima… da cui si poteva osservare il fuoco nel cielo… una bestia panciuta ha fluttuato accanto a noi, scrutando l’orizzonte con il suo occhio retrattile… poi…”, continuò con un filo di voce, “Poi qualcosa mi ha toccato il cuore…”.

“Un mostro ti ha preso il cuore??”.

“Qualcosa di simile…”.

“E… e ora dov’è il tuo cuore??”.

Il pony alzò lo sguardo verso di lei: “Io… io non lo so…”.

La porta si aprì lentamente.

L’infermiera Chestnut fece la sua comparsa: “Ehy, ragazzi… è notte ormai… Fate silenzio e non disturbate. Tutti a dormire”, e spense la luce, prima di uscire. La stanza piombò nell’oscurità, fatta eccezione per un piccolo lumino di cortesia accanto all’ingresso.

“Naaa!”, piagnucolò Velvet.

“Tranquilla, nana”, concluse Icarus, infilandosi sotto le coperte, “Domani ti farò sapere come ho intenzione di ritrovare il mio cuore!”.

“Sììì!”, gli rispose, cercando il cuscino a tentoni, “Non vedo l’ora!”.

“Ora cerca di metterti a nanna… E non fare chiasso: gli ammazza draghi devono essere riposati, visto il mestiere che fanno”.

Il giovane unicorno annuì, simulando di serrare una cerniera davanti alle labbra.

    Il pegaso si mise su un fianco e chiuse gli occhi, aspettando che il sonno lo cogliesse.

Ma qualcosa continuava a lasciargli il battito del cuore leggermente accelerato.

Il ricordo della sera prima gli ronzava incessantemente nella testa. Rivisse il momento in cui uscì sul terrazzo, il vento tra la chioma, il sole sanguigno, i fumi che si mescolavano… e Dash.

L’istante in cui lei gli toccò le ali.

Il momento in cui lo avvolse nell’abbraccio, pelle contro pelle.

Il suo calore.

Il suo respiro.

Il battito del suo cuore.

Persino il suo odore, che gli ricordava il sentore dell’ozono che anticipava un temporale.

Le sue parole… “Tu, per me, non sei nessuna di queste cose. Tu sei Icarus. Sei ciò che sento dentro di me. Non ciò che vedo o posso udire. Tu sei… semplicemente tu”.

Il puledro fece un respiro profondo e si portò pancia all’aria, osservando il soffitto.

“Dash”, si domandò, “Perché perdi il tuo tempo dietro un pegaso malato e antipatico?... Perché non mi lasci perdere, come fanno tutti?... Perché…”.

Qualcosa lo riportò alla realtà.

   

    Un insieme di respiri accelerati proveniva da un angolo della stanza.

Icarus si girò, cercando di capire cosa stesse succedendo ma era troppo buio.

“Crumple?”, domandò, senza ottenere risposta.

Scese lentamente dal letto e accese la piccola lampada sul comodino.

Quando vide la scena, si coprì il muso, preoccupato.

L’anziano pony era disteso sul giaciglio. Il volto era leggermente sofferente e completamente sudato. Il suo petto si alzava e abbassava con ritmo disconnesso, innaturale.

“C-Crumple? Che hai?”, farfugliò. L’altro parve non sentirlo.

Il pegaso si guardò attorno, spaesato, poi aggiunse: “A-aspetta, vado a chiamare qualcuno!”.

Con un gesto fulmineo, il vecchio lo bloccò con una zampa. I suoi occhi si aprirono, puntando dritti alle pupille dell’altro.

“N-non… non… non andare… Icarus…”, balbettò, tra un respiro e l’altro, con estrema fatica.

“M-ma… allora parli…”.

“Icarus… non andare…”.

“Che stai dicendo? Come, non andare?? Devo chiamare qualcuno! Stai male!”.

“Ti prego… Icarus… non andare… non voglio…”.

“Sei matto?? Se non chiamo qualcuno…”.

Crumple cercò di ricomporsi leggermente: i suoi respiri si fecero leggermente più regolari, seppur ancora molto rapidi, e si inumidì le labbra per parlare meglio.

“Ascolta, Icarus… ho bisogno che tu faccia una cosa molto difficile, per me…”. L’altro ammutolì.

“Non devi… non devi chiamare nessuno”, continuò.

“Cosa? Ma…”.

“Ascoltami, per favore. Non chiamare nessuno. Rimani qui”.

“Non puoi chiedermi una cosa simile!”.

L’anziano sorrise: “Te l’ho detto che era molto difficile… non voglio che chiami nessuno…”.

“Ma… almeno dimmi perché…”.

“Perché? Cosa… cosa pensi che accadrà… se chiamerai qualcuno?... Accadrà… che un paio di medici verrà qui… mi faranno qualche iniezione… mi daranno delle pillole… e… e poi niente… Tutto continuerà così… fino alla prossima volta… fino alla prossima iniezione… fino alla prossima pillola… finchè non basteranno più nemmeno quelle…”.

“Io… cioè non puoi essere serio! Ti… ti stai arrendendo così??”, chiese, vagamente alterato.

“No, Icarus… non mi sto arrendendo… Ho vissuto la mia vita… è stata una bella vita, con gioie e rimpianti… ma l’ho vissuta… Ora… ora sono vecchio… ho fatto il mio tempo… perché continuare a tenermi qui, all’infinito?... La mia famiglia è lontana, ormai… vengono a farmi visita ogni tanto… e per cosa?... Per far vedere ai nipotini il loro nonno decrepito?... Non è così che vorrei che mi vedessero…”.

Il puledro lo ascoltò in silenzio, facendo estrema fatica ad accettare ciò che gli veniva richiesto: “Ti rendi conto che… che mi stai dicendo di lasciarti… qui… così…”.

“Sì”, rispose, con viso addolcito, “Lo sto chiedendo a te… perché tu, Icarus… sei l’unico pony che, negli ultimi giorni… in questo istituto… mi abbia trattato come un pony normale… come qualcuno degno di rispetto… e non come un ferro vecchio o un semplice paziente… Tu sei stato… l’unico…”.

Nicodemo si portò lentamente sulla spalla del padroncino, osservando incuriosito la scena.

“Io… io non so cosa fare, Crumple…”.

“Non devi fare niente… anzi”, aggiunse, puntando il muso dall’altro lato della stanza, “Una cosa puoi farla…”.

Sul lettino, la piccola Velvet era stretta su se stessa, con i grossi occhioni vitrei spalancati. Icarus intuì come la piccola, udendo quei respiri e quelle parole, si stesse spaventando.

Il pegaso si sentì combattuto e le sopracciglia si inarcarono verso il basso, mentre cercava di prendere una decisione. Alla fine, si mosse con convinzione verso l’unicorno viola.

La stretta dell’anziano lo fermò un ultimo istante.

“Ascolta… un’ultima cosa… non cambiare mai…”.

“Come?...”.

“Non cambiare mai… sei un piccolo pegaso… ma hai un cuore grande… sei combattivo… non ti ho mai visto arrenderti una sola volta… non ti conosco così bene ma… secondo me… hai qualcosa dentro… un fuoco che arde… con l’intensità di mille soli…”.

Il labbro di Icarus tremò debolmente.

“E non dimenticarti”, concluse Crumple, prima di rilasciare la presa, “Che i soli bruciano… ma non si consumano… sii sempre… te stesso…”.

L’amico abbandonò il giaciglio, udendo il respiro dell’altro farsi nuovamente rapido e caotico. Salì sul lettino di Velvet che, istintivamente, si strinse subito a lui. Il puledro la cinse con delicatezza.

“Cosa… cosa sta succedendo al vecchio brontolone?”, gli domandò con la vocina.

Il pony grigio ci pensò un attimo: “Lui… lui sta… facendo un incantesimo…”.

“Un incantesimo?...”.

“Sì… un incantesimo d’aria… è per questo che respira così… non devi preoccuparti…”.

“E… e cosa fa questo incantesimo?”.

“Serve per… per volare. Per volare via da qui”.

Il vecchio, udendo quelle parole, formò un lieve sorriso sulle labbra.

“Cosa? Quindi Crumple andrà via?”.

“Io… io credo di sì…”.

“E dove andrà?”.

“Beh…”, gli rispose l’amico, “Non lo so… lo sa solo lui… e ora non può dircelo. Ma sono sicuro che sarà meglio di questo posto triste…”.

“Beh… non ci va molto a trovare un posto meno triste…”.

“Già…”.

“Allora”, disse la piccola, “Arrivederci, signor Crumple…”.

L’altro non sembrò udire alcunché.

Icarus strinse ancor di più Velvet a sé e poi iniziò a coccolarla e a passarle una zampa sul capo privo di chioma.

Gli occhi della puledrina si fecero sempre più pesanti, finché non si appisolò contro il compagno.

L’amico cercò di stare sveglio il più possibile ma poi, senza che se ne rendesse conto, il sonno arrivò anche per lui.

    Un lieve trambusto lo fece destare. Era sdraiato sul lettino di Velvet e la piccola dormiva ancora, accoccolata al suo fianco. Il sole mattutino filtrava dalle finestre.

Il puledro alzò lo sguardo e vide l’infermiera Chestnut portare dentro un cambio di lenzuola.

Il giaciglio del vecchio Crumple era vuoto.

Un tuffo gli arrivò rapidamente al cuore.


    Velvet si svegliò poco dopo, stiracchiandosi e realizzando uno sbadiglio a bocca sfacciatamente aperta. L’amico la guardò e si intenerì.

La puledrina prese a tastargli il viso: “Icarus? Sei tu?”.

“Sì. Sì sono io”.

“Vedevo il tuo volto chiaro… e la tua criniera scura… Pensavo fossi tu ma non ne ero sicura”.

“E da cosa mi hai riconosciuto?”.

“Dalle labbra”.

“Dalle labbra? Cos’hanno di caratteristico le mie labbra?”.

“Niente. Appena le sfioro sono rivolte all’ingiù ma poi, quando le tocco meglio, si mettono subito a sorridere”.

Non sapeva se fosse per quella situazione emotivamente carica o per la dolcezza della piccola ma, subito dopo averla ascoltata, le prese le tempie tra gli zoccoli e la baciò sulla fronte.

“Smettila! Che fai?!”, starnazzò divertita.

“Sei mia moglie, no?”. E la strinse.

“E… Crumple? E’ andato via?”.

“Sì… lui è… andato via…”.

“Oh… che peccato… non parlava molto ma ero abituata a sentirlo lì, di fronte al mio lettino”.

“Sentirlo?”.

“Sì, insomma… sapevo che era lì. Percepivo la sua presenza”.

“Nonostante non lo vedessi bene e non parlasse praticamente mai?”.

“Sì. Sai, no? Certe volte senti e basta…”.

“Vediamo se senti questo…”, e, con una risata, iniziò ad ucciderla di solletico.

L’unicorno viola prese a lanciare urla e gridolini.

Chestnut sopraggiunse immediatamente: “C-che succede??”.

“Si chiama…”, rispose Icarus, beccandosi una zoccolata sul naso e prodigandosi ulteriormente nel solletico, “Icaroterapia… permette di far ridere il paziente fino a provocarne la dipartita per troppe risate”.

“Bah…”, disse la puledra, prendendoli per mezzi matti.

“Smettilaaa!!”, urlò Velvet, con le lacrime agli occhi.

“Va bene…”, e si fermò. L’amica cercò di riprendere fiato.

“Sai, Velvet?...”.

“Cosa?”.

“Quando saremo guariti penso che potremo continuare a vederci, non credi?”.

La piccola si fece triste: “Tu… tu pensi che guariremo?”.

L’altro non si aspettava certo una domanda simile: “Beh… ma certo. Perché non dovremmo?”.

“E’ da tanto tempo che sono qui… Prima vedevo abbastanza bene. Ora scorgo appena sagome e colori”.

“Ma ti stanno curando…”.

“Sì ma… allora perché continuo a vedere sempre peggio? Magari un giorno non ci vedrò più”.

Icarus cercò di rincuorarla: “Non dire così… Ci vedrai benissimo”.

“Ma non mi importa, sai? Già ora quasi non ci vedo più. Non mi cambia granchè… Prima provavo ancora a leggere i miei fumetti, osservando solo le figure sfocate… Ora non ci riesco, praticamente. Però posso sempre ascoltare gli altri, toccarli e parlare con loro”.

L’amico provo grande orgoglio per lei, quasi fosse la sua sorellina: “E’… è il giusto atteggiamento, sai?”.

“Tu, invece? Tu guarirai?”.

“Non… non lo so…”, disse, dopo un lungo sospiro.

“Il tuo problema è che non voli, giusto?”.

“Più o meno. In realtà ho lo scheletro da buttar via. Così volo e cammino con difficoltà”.

“Ma puoi fare altre cose! Come vedere! O ascoltare, parlare, ridere e… farmi il solletico!”.

L’amico buttò giù un bolo di saliva: “Non… non è solo questo… E’ una malattia… debilitante… se continua così… potrei anche… io potrei…”.

“Potresti cosa?”, domandò, senza capire.

“Niente”, tagliò corto, sviando il discorso “Potrei non volare mai più, come ti ho detto”.

“E vabbè! Vorrà dire che ci incontreremo sul terreno! Io ti porterò in giro sulla sedia con le ruote e tu dovrai dirmi avanti, destra, gira a sinistra, occhio al passante!”, e rise.

L’altro riuscì a scucirsi un altro sorriso sul muso. Osservò poi il calendario appeso al muro. Contò i giorni in cui era lì dentro. Valutò che, fra circa un paio di settimane, avrebbe ricevuto una conferma dell’efficacia della cura. Osservò poi i mesi… e si rese conto… di come il tempo fosse passato. Di come le previsioni su di lui… seppur si fossero dimostrate errate… non lasciassero ben sperare.

“Ascolta, piccola”, le disse, con estrema dolcezza.

“Sì?”.

Il pegaso scosse il capo e alzò una spalla. Su di essa si palesò il minuto topolino.

Velvet aguzzò lo sguardo: “Che… che cos’è quella robetta?”.

“Lui… è un mio amico… Si chiama Nicodemo. E’ un topolino”.

“Blè! Un ratto!”, strillò.

Nicodemo mise le zampette conserte, visibilmente offeso.

“Non è un ratto, testona! E’ un topolino di campagna. E’ piccolo, furbo e, soprattutto, molto più pulito dei ratti…”. Il roditore fece un cenno d’assenso col capo.

“Sentivo un odore particolare, da qualche giorno… mhh… formaggio?”.

“Può essere”, ammise, “Sa badare a se stesso”.

La piccola provò ad accarezzarlo e, quando sentì il suo pelo morbido, lanciò un’altra risatina: “E’ carino!”.

“Sì. E’ carino”.

“Volevi farmelo conoscere?”.

“Sì… anche… Ti piace?”.

“Sì sì!”. Il piccoletto le balzò sullo zoccolo e poi prese a correrle addosso, provocandole gridolini di gioia.

“Ma allora è un vizio!!”, disse Velvet.

“Ti andrebbe di tenerlo?”.

L’altra si bloccò: “Cosa? Perché? Non è il tuo topolino?”.

“Sì ma…”, buttò lì, guardando ancora una volta il calendario, “Non so… non so quanto potrò rimanere qui, all’istituto…”.

“Te ne vai??”, domandò preoccupata.

“No, no… per ora rimango… Però… però potrei andarmene. Senza troppo preavviso, intendo. Per via… per via del mio contratto come ammazza draghi”.

Il volto dell’unicorno si illuminò e la puledrina spalancò la bocca meravigliata: “Oooh! Adesso capisco!”.

“Già. E Nicodemo non può venire a combattere i draghi con me. Sarebbe troppo pericoloso. Quindi… mi chiedevo se ti andasse di tenerlo con te…”.

“Ma certo!”, rispose contenta.

Lo sguardo del pegaso si fece un po’ severo: “Promettimi che lo curerai come si deve, intesi?”.

“Sì! Promettissimissimo!”, dichiarò, carezzandolo dolcemente.

Il topolino osservò il suo ex-padroncino, senza capire bene perché lo avesse dato a lei.

“Guarda”, aggiunse Velvet, “A questo punto spero che non guariremo!”.

“Perché dici una cosa simile?”.

“Perché così noi siamo speciali!”.

“Speciali?”, le domandò, non capendo le sue parole.

“Sì! Tu sei unico! Sei Icarus: l’unico pegaso alato che non può volare! E io sono Velvet! L’unicorno cieco che… che…”.

“Che potrebbe sollevare una tonnellata di crostata con il solo potere del corno, se volesse!”, la aiutò.

“Esatto!”.

“E sei anche l’unico unicorno che… che vede attraverso le zampe…”, concluse, mettendo gli zoccoli contro i suoi.

Il volto della puledrina si dipinse di un ennesimo, bellissimo sorriso.

“Sono contenta di averti incontrato, Icarus…”.

“Anche io, piccola. Anche io sono contento di averti conosciuta”.

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Capitolo 9
*** Qualcuno Volò sul Nido del Grifone ***


Rainbow Dash si mosse alcune volte sotto le coperte, quasi impossibilitata nel dormire.

Non era il rumore: la finestra era stata sbarrata con alcune travi di legno, mentre l’ingranaggio era stato manomesso di nascosto dalla puledra, di notte, in modo che non gli rimanesse nemmeno più un dente a far presa.

Allora cos’era?

Non faceva freddo.

Non era mancanza di sonno.

Il letto era tutto sommato comodo.

Cos’era?

Era lo strano connubio tra mente e cuore.

L’immagine di Icarus contro il sole… la silhouette nera circondata dalla luce… Quelle ali semplicemente maestose. Non aveva mai visto il pegaso sotto quell’ottica. Mai aveva pensato di ritenerlo…

“Quel corpo minuto… le zampe sottili… la folta chioma… le sue ali… Sembrava quasi…”, sussurrò, con una zampa sugli occhi.

“E il suo sguardo… Un pegaso che non avrebbe mollato mai… Se avesse potuto volare… sono sicura che lo avrebbero preso tra i Wonderbolts in quattro e quattr’otto”.

Si girò sul fianco.

“Mi spiace tanto che il destino ti abbia riservato tutto questo, Icarus… Non te lo meritavi… nessuno se lo meritava ma tu meno di tutti. Spero davvero che quella cura possa funzionare. Lo spero davvero. Con tutto il cuore”.


    La giornata seguente, la puledra decise di fargli visita.

Erano passati due giorni dal loro ultimo incontro, durante i quali aveva cercato di rendersi utile presso il Rusty’s come lavapiatti e svolgendo altri lavoretti: impieghi tutto sommato inadatti per un campione dei cieli; ma anche l’umiltà era una dote che andava coltivata in ogni sua sfaccettatura.

Dash varcò la soglia dell’ospedale, di prima mattina.

Quando mise la zampa sul primo gradino della scalinata, udì una voce fastidiosa dietro di sé.

“Signorina Rainbow Cash…”, sentenziò Panpipe.

“Dottor Panpippo…”, rispose l’altra, senza nemmeno voltarsi.

“Immagino lei stia andando a visitare il paziente ottantotto”.

“No. Sto andando a trovare Icarus”.

Il medico sorrise beffardo: “La sua presenza qui non è molto gradita, sa?”.

“Penso valga lo stesso per lei…”.

L’unicorno parve innervosirsi: solamente lui poteva derogarsi il diritto di battute taglienti.

“Non so cosa pensa di fare ma… se davvero vuole continuare così… sappia che andrà incontro a parecchi problemi. E’ stata avvertita”, e si allontanò.

Il pegaso riprese a salire le scale finché non raggiunse il corridoio della stanza tre.

Improvvisamente, da dietro l’angolo, appena uscito dalla camera di Icarus, Daedalus la incrociò lungo il tragitto.

Rainbow fece un passo indietro, con volto sorpreso.

Lo stallone la scrutò per qualche secondo e poi continuò a camminare, come se nulla fosse.

Il pony blu decise di non pensarci troppo e varcò l’ingresso.

“Permesso?”.

Icarus era nel suo letto, con le lenzuola tirate fino al collo. Sembrava piuttosto annoiato.

“Icaruuus!”, strillò Velvet, “Guarda! E’ tua moglie!”.

“Ciao Dashie…”, le disse senza guardarla.

“Moglie? Non stai correndo un po’ troppo? Prima voglio almeno un anello con brillanti…”, scherzò.

“Il massimo che potrò darti è un anello di cipolle fritte, direttamente dalla rosticceria”.

Rainbow si avvicinò all’amico: “Che hai? Sembri… un po’ giù…”.

“Sono stanco…”, ammise, “Ieri ho avuto un altro ciclo di cura… non ne posso più”, concluse, passandosi le zampe sugli occhi.

“Dai… lo so che è dura… Per quanto pensi che ne avrai ancora?”.

“Poco meno di due settimane”.

“Beh non è tanto”.

“E’ questo che mi spaventa un po’… Tra circa quindici giorni saprò se la cosa sta funzionando o meno. Se il tempo e le sofferenze sono valse a qualcosa…”.

“Inutile che cerchi di rincuorarti, vero?”.

“Esatto. E comunque… se non funzionerà… non so cosa potrebbe accadere…”.

“In che senso?...”, chiese preoccupata.

Il puledro si lasciò scivolare mollemente lungo il materasso: “La cura non è proprio salutare… Può risolvere il problema ma le aspettative… insomma… è una cura debilitante, hai presente? Il problema è che… che costa un sacco. E se non dovesse funzionare…”.

“I tuoi genitori…”.

Icarus riprese bruscamente il discorso: “I miei genitori sono quasi sul lastrico, per via di tutto questo. Stanno dando fondo ad ogni centesimo. Se non funzionerà questa cura… beh, non ci sarà più nessuna cura. Ed io rimarrò con gli acciacchi di questa… con… con tutte le conseguenze che ciò comporta…”.

Rainbow Dash si intristì, poi notò il lettino vuoto.

“Dov’è il vecchio?”, chiese.

“Non c’è più”.

Velvet alzò le zampe al soffitto: “E’ volato via!”.

Il pegaso dalla chioma arcobaleno si girò verso Icarus: “Intendi dire…”.

L’altro scosse la testa, in segno d’assenso.

“Cavolo… mi… mi dispiace…”.

L’amico si tirò su e le lanciò uno sguardo, unitamente ad una strana scintilla nei bulbi oculari: “A tal proposito…”.

“Ah no… non mi piace quando mi guardi così… Significa sempre che stai per tirare fuori una delle tue pazzie!”.

“Sono così prevedibile?”, domandò con supponenza.

“Sì. E stavolta non voglio nemmeno ascoltarti”.

“Non vuoi nemmeno sapere di cosa si tratta?”.

“No”.

“Sicura?”.

“Sì”.

“Sicura sicura?”.

“Certo che sono sicura”.

Dash distolse lo sguardo, cercando di non cedere.

Icarus le sorrise.


*** ***** ***


    Passò circa una settimana in cui, con ampia soddisfazione del primario, Rainbow Dash non mise zoccolo nell’istituto nemmeno una volta.

Panpipe si trovava nel suo studio all’ultimo piano.

Era collocato d’innanzi ad una grossa finestra e soffiava sulla sua tazzina di caffè. Da lì poteva godere di un’ampia veduta sul paesaggio del luogo, in particolare del grosso cratere del lago prosciugato.

Qualcuno bussò alla porta.

“Avanti”.

L’infermiera Chestnut si palesò, un po’ tentennante: “Buongiorno, dottore. C’è qui… il signor FullPockets”.

“Lo faccia accomodare, grazie”.

Un elegante pony in gessato entrò sorridendo, sfoggiando denti luccicanti quanto uno specchio.

Posò una costosissima valigia ventiquattrore sul parquet.

“Buongiorno, dottor Panpipe!”, esordì, sollevando il cappello.

“Oh, suvvia! Chiamami solo Panpipe e dammi pure del tu! Siamo amici, ormai…”.

“Come vuole… cioè: d’accordo, Panpipe!”.

“Siediti pure”.

“Grazie!”.

“Allora”, continuò, bevendo un sorso, “Immagino tu sia qui per un motivo…”.

“Come ogni volta, caro amico mio!”, rispose con entusiasmo.

“Vediamo che hai stavolta…”.

Lo stallone mise la valigia sulla scrivania, di fronte al primario, e fece scattare i due sistemi di chiusura. La aprì e poi la ruotò verso di lui. All’interno vi erano alcune scatolette. Panpipe si mise gli occhiali sul muso: ne afferrò un paio e le scrutò con attenzione.

Passò qualche minuto.

“Allora? Che ne pensi?”, domandò Pockets, trepidante.

“Mhh… non saprei… Mi sembra la stessa cosa dell’altro”.

“Sì ma il nome è diverso!”.

“Ho capito ma… il principio attivo è lo stesso. E con la stessa concentrazione…”.

“Non è esatto! Controlla meglio!”, puntualizzò, trattenendo una risata a denti stretti.

Il dottore strizzò le palpebre: “Qui dice… che… che contiene anche l’un percento di Tibidina…”.

“Esatto!!”, esultò l’altro.

“Ma questo è un farmaco che viene venduto contro i problemi al fegato. La Tibidina non fa nulla al fegato. E’ un lenitivo per il mal di gola…”.

“Appunto!”.

“Non ti seguo…”.

“Immagina!... Prendiamo il vecchio prodotto, ci aggiungiamo l’un percento di Tibidina, gli cambiamo nome e lo immettiamo sul mercato come rivoluzionario!”.

Il primario rimise gli occhiali sulla fronte: “Rivoluzionario?”.

“Sì! Pensa al marketing! Da oggi non solo vi garantiamo di risolvere i vostri problemi epatici ma… con il nostro nuovo prodotto proteggeremo i vostri organi per tutto il tragitto che dovrà compiere il cibo! Dalla gola fino alle ghiandole filtranti!”.

Panpipe si mise gli zoccoli sul muso e scosse la testa. Ripose le scatole.

“Mio caro Pocket… direi che non ci siamo proprio… Tutta questa faccenda non mi piace. L’un percento di Tibidina? Che senso avrebbe sostituire il vecchio prodotto con questo?”.

Lo sguardo dell’altro si fece sardonico: “Ti ho detto che lo venderemo ad un prezzo superiore del trentatre percento rispetto al precedente??”.

Gli occhi dell’unicorno verde si illuminarono: “Ora si che iniziamo a ragionare…”.

“Quindi? Ci stai?”.

“Mhh… penso di sì”.

“Splendido!”.

“Però voglio essere sicuro. Inizia portarmene un lotto per la prossima settimana e fammi sapere come vanno le vendite nelle farmacie. Al resto penseremo dopo”.

Lo stallone richiuse la valigia e sfoggiò un altro accecante sorriso: “Ma sicuro! Non c’è fretta! Procederemo come al solito! E alla fine divideremo di un terzo!”.

“Ottimo”, concluse, riportandosi alla finestra e apprestandosi a consumare definitivamente la propria bevanda a base di caffeina.

“Mi farò sentire al più presto!”, gli comunicò l’amico, subito prima di andarsene.

L’altro non disse nulla. Sorseggiò.


    Il suo sguardo venne quindi traviato da una strana immagine lontana.

L’unicorno abbassò la tazzina e si mise una zampa sopra la fronte, come una vedetta.

“Che… che è quello?...”, bofonchiò.

A parecchie centinaia di metri, nell’alto dei cieli, proprio d’innanzi al paesaggio montuoso, un’enorme chiazza nerastra si stava avvicinando minacciosa: un grosso agglomerato di nubi cariche di pioggia e illuminate da sporadici lampi prese ad ingrandirsi sempre di più.

“Un… un temporale?”, buttò lì, cercando di capirci qualcosa.

Ma non si trattava di un temporale normale. Si avvicinava troppo in fretta ed era troppo circoscritto. Eppure, dopo alcuni secondi, il sole venne oscurato e l’intera zona cadde rapidamente sotto una cappa d’ombra. I tuoni iniziarono a rimbombare e a far tremolare i vetri.

Panpipe sgranò gli occhi.

Chestnut bussò alla porta ed entrò subito dopo: “Dottore c’è il…”. Le parole della puledra si interruppero, quando vide l’enorme massa nebulosa avvicinarsi a loro. Le bocche di entrambi si spalancarono.

“Ma… ma cosa sono quelli??”, berciò quindi il primario, scorgendo alcune figure attorno alle nuvole.

Rainbow Dash, con l’intera squadra meteorologica di Cloudsdale, era intenta a spingere l’ammasso di nubi. Con lei era presente uno stuolo di pegasi, tra cui Thunderlane e l’immancabile pony bianco e muscoloso (che proruppe nel canonico gridò di esultanza).

“Avanti!”, urlò Dash, “Spingiamo questa bomba d’acqua proprio lì, sul cratere, vicino all’edificio!”.

Tutti aumentarono il battito delle ali, provocando un ulteriore spostamento della tempesta.

A terra, intanto, personale medico e pazienti si erano affacciati alle finestre, completamente esterrefatti.

Alcuni presero addirittura ad uscire in cortile, in mezzo alle raffiche di vento sempre più forti. Gli infermieri erano così allibiti che, per un istante, si dimenticarono di sorvegliare i pazienti. I rami degli alberi iniziarono ad oscillare e tutt’intorno si diffuse la tipica sensazione di pioggia imminente.

“Siete pronti, ragazzi??”, urlò Dash. Gli altri le risposero con grida e gesti.

“E allora… diamo via alle danze!!”.

    La squadra circondò rapidamente l’agglomerato di nubi, prese una lieve rincorsa e poi… si tuffò violentemente contro le pareti scure.

La massa ebbe un sussulto e i pony si allontanarono.

Un boato terrificante fece eco in ogni direzione e la pioggia cadde all’improvviso, violentissima. Tuoni, fulmini e saette si abbatterono in rapidissima successione.

Ogni forma di vita nel raggio di chilometri pensò di essere finita in mezzo alla fine del mondo.

La pioggia cadde, cadde e cadde. Gocce grosse e cariche, battenti, assolutamente inarrestabili.

Fu così tanta l’acqua che venne giù che il cratere iniziò a riempirsi molto lentamente: il terreno non riusciva a drenare a sufficiente velocità.

La tazzina di Panpipe cadde a terra, infrangendosi.

L’unicorno non credeva ai propri occhi.

    Dopo qualche minuto, le nubi iniziarono lentamente a virare verso il bianco e a diradarsi. La pioggia diminuì di intensità. I fulmini cessarono e i tuoi divennero solo degli echi lontani.

A poco a poco, tornò a spuntare il sole.

Ci fu quindi uno scintillio: la luce della stella venne riflessa da una superficie cristallina come non si vedeva ormai da anni.

L’Emerald Lake era tornato, accompagnato dai primi versi di stupore degli osservatori.

Ma non era finita: da dietro le nubi, sempre più sottili, sopraggiunse una grossa chiazza informe dai colori vivaci. Fluttershy, in testa, stava conducendo centinaia di uccelli e farfalle colorate verso il lago rinato.

“Avanti, piccole creaturine”, disse loro con gentilezza, indicando la direzione, “Guardate che bel posto che c’è laggiù!”.

Gli animali presero a volare verso l’Emerald Lake e, in pochissimo tempo, il luogo iniziò a brulicare di vita e di colori. I versi di stupore crebbero di numero e intensità.

Ma… non era finita.

Davanti al lago, non distante dal cortile dell’istituto, ci fu un accecante bagliore violaceo. Tutti si coprirono gli occhi. Dopo qualche secondo, Twilight, Applejack, Rarity, Pinkie Pie e Spike fecero la loro comparsa, insieme ad alcuni grossi carri ricolmi di oggetti di vario genere.

Sparkle si concentrò intensamente e una strana bolla traslucida apparve attorno all’intero lago.

Applejack prese quindi a smontare un carro, creando un appetitoso banchetto colmo di pietanze.

Pinkie raccolse oggetti alla rinfusa e iniziò a decorare il posto con palloncini colorati, piccoli drappi e tavolini di dolci. Si vestì anche in maniera oscenamente ridicola.

Spike aiutò Rarity ad aprire il suo carro (in verità fece praticamente tutto lui), rivelando un contenuto colmo di abiti e tessuti pregiati.

Calò quindi un attimo di silenzio.

    Alcuni anziani pazienti misero timidamente zoccolo fuori dalle porte dell’istituto, ancora increduli di quanto fosse successo. Poi, sempre meno titubante, uno di loro decise di oltrepassare la bolla magica, che si increspo leggermente al suo passaggio, come se fosse d’acqua.

Il vecchio scrutò i dintorni, osservando le puledre sorridenti.

Il corno di Rarity si illuminò per un istante: un capo di abbigliamento della sua collezione scomparve, per riapparire sul corpo dell’anziano.

L’ospite non disse nulla, evidentemente spiazzato. Una farfalla azzurra si mosse quindi verso di lui. Il pony alzò una zampa tremante e l’insetto si posò su di essa. Un piccolo sorriso si dipinse sul suo volto: “Questo… questo è l’Emerald Lake che ricordavo…”.

Le puledre esplosero in una cacofonia gioiosa.

Da quel momento, fu un crescendo. Altri pazienti, di tutte le età e afflitti dalle più svariate malattie, presero a spostarsi dall’istituto verso il lago. Persino il personale non riuscì a trattenere l’entusiasmo e decise di seguire l’esempio, accompagnati da sorrisi di felicità.

Alcuni, tuttavia, rimasero ligi al loro dovere: Ate sfrecciò rapidamente verso le puledre e una coppia di pony in camice cercò di acchiapparlo. Il pazzoide attraversò la bolla mentre gli altri due sbatterono sonoramente il muso contro di essa, cadendo poi a terra, doloranti.

“Mi dispiace signori”, dichiarò Twiligh con sguardo di sufficienza, “Sono ammessi solo i matti, qui dentro!”.

“Matti mattoni materni maturando mattarelli!!”, li rimproverò Ate, prima di unirsi alla calca di pony festanti.

Perché quello era.

Una festa. Una festa mai vista prima d’ora.

Ogni presente venne agghindato con i vestiti dell’unicorno bianco, mentre Applejack offriva calde e saporite pietanze. Pinkie Pie, intanto, si divertiva ad intrattenere i piccoli puledri, che smaniavano e scalpitavano come pazzi di fronte alle assurdità del pony rosa.

E ovunque scintillava l’acqua de lago. Ovunque gli uccelli cantavano, le farfalle coloravano il verde della vegetazione e qualcuno azzardò persino dei tuffi. Rainbow Dash, Fluttershy e addirittura i pegasi di Cloudsdale si unirono ai festeggiamenti.

Il personale si tolse il camice, si gettò nel lago, addentò fette di torta, bevve il punch, rise, scherzò e passò il tempo con gli altri.

Quali erano i matti?

Chi erano i medici?

Chi i pazienti?

Chi ci capiva più nulla, in quel caos!

Tutti erano uguali. Tutti ugualmente matti.

E tutti ugualmente felici.

    L’occhio di Panpipe, dall’alto del suo ufficio, ebbe un tic nervoso.

“Signorina Cheesnut!! Provveda subito a chiamarm…”.

Ma l’infermiera gli gettò il proprio camice bianco sul muso, con volto iroso: “Io. Mi. Chiamo… CHESTNUT!! E d’ora in poi potrà compiere da solo le proprie faccende, carissimo dottore… Io me ne vado a farmi un bagno! Tanti saluti!”. E si congedò.

“Ma… ma… E’ inammissibile!”.


    Qualcuno, però era assente… e si presentò di lì a poco.

Quando Dash lo vide, fece cenno a tutti di far silenzio, tramite un passaparola che portò rapidamente la calma tra i presenti. I pony puntarono lo sguardo verso l’uscita posteriore dell’istituto.

Un tenue cigolare si fece sempre più vicino e poi, illuminato progressivamente dal sole, Icarus emerse dall’oscurità delle mura, sulla sedia a rotelle.

La piccola Velvet era accoccolata sulle sue ginocchia e seguiva con l’udito ogni cosa che udiva attorno a sé, dai tuoni ancora lontani, al canto dei numerosi uccelli.

Il pegaso continuò a spingere le ruote del mezzo, avvicinandosi lentamente alla bolla magica.

Vi era un silenzio quasi assoluto, rotto solo dagli animali e dai vagiti metallici del mezzo.

Il puledro giunse infine al limitare della bolla. Dash, dall’altra parte, lo osservava con sguardo commosso.

“Hai fatto un lavoro magnifico, Dashie…”, commentò l’amico, con occhi umidi.

“Io non ho fatto quasi niente… Mi sono limitata a chiamare le mie amiche, i pegasi e… e ad ascoltare un’arrogante testa di legno…”.

Icarus varcò la bolla con un ultimo colpo di ruote, arrivando vicinissimo a Rainbow.

Velvet balzò rovinosamente a terra, finendo col sedere per aria.

“Ahio…”, berciò.

Icarus si issò dolorosamente sulle proprie zampe. L’amica lo aiutò, sorreggendolo.

I due si guardarono intensamente negli occhi.

“Sono molto contento di quello che hai fatto oggi… Questo è il gesto più avventato che potessi fare… e ora ne pagherai tutte le conseguenze, lo sai, vero?”.

“Non mi importa minimamente”, tagliò corto l’altra, con voce tremante.

“Così… se anche un domani dovessi andarmene… sono sicuro che qualcuno si ricorderà di me… di noi… dei campioni di Equestria… Di quello che abbiamo fatto… Se un giorno non dovessi più…”.

Rainbow non riuscì a trattenersi e lo abbracciò, lasciandosi persino sfuggire alcune lacrime sul viso: “Stai zitto, stupido…”, bisbigliò, sull’orlo del pianto.

Icarus, dapprima impreparato ad un simile gesto, chiuse gli occhi. Passò le zampe attorno al corpo dell’amica, ricambiando teneramente il gesto.

Quando Pinkie li vide, i suoi livelli di euforia sforarono nella zona offlimits e il pony proruppe in un acutissimo verso di gioia. Tutti si girarono e poi, contagiati dalla sua felicità, ripresero a far festa, più chiassosamente di prima.

I due pegasi, tuttavia, quasi non se ne accorsero e rimasero abbracciati tra loro, incuranti del movimento che li circondava.

   

    Perché, in quel momento, tutto era perfetto.

Tutto era come doveva essere.

Non importava cosa sarebbe successo.

Non importava se Panpipe sarebbe giunto per porre fine a tutto quanto.

Nulla aveva più importanza.

L’unica cosa che aveva senso…

Era una coppia di pegasi.

L’azzurro e il grigio.

Il viola e l’arcobaleno.


I Campioni di Equestria.

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Capitolo 10
*** Tutto Crolla ***


Il pegaso grigio entrò nella propria stanza, sbattendo rumorosamente la porta dietro di sé.

“Icarus!”, intervenne la madre dall’altro lato, “Mi spieghi cosa è successo?”.

“No. Non voglio parlarne. Lasciami solo”, e girò la chiave della serratura.

Il puledro era molto agitato: il suo sguardo a metà tra l’adirato e il sofferente.

Iniziò a camminare nervosamente da un lato all’altro delle mura e, alla fine, decise di portarsi d’innanzi all’enorme finestra che spaziava sul paesaggio notturno di Equestria.

Da quelle altitudini riuscì a localizzare un lumino lontano, parzialmente occultato dalle fronde degli alberi: la casa di Fluttershy.

Il ricordo del litigio con Dash, avvenuto giusto il giorno prima, gli pesò sul petto come una dozzina di mattoni.

“Come ti permetti?? Chi ti credi di essere?”, gli aveva urlato.

Quella parole lo ferirono tremendamente e stette male… molto male… e non capiva perché.

“Tu chi ti credi di essere??”, rispose ad alta voce, stizzito, senza qualcuno a cui rivolgersi.

“Te l’avevo detto di non portarmi nella tua stupida Ponyville! Ti avevo avvertito!... Anche mia madre lo aveva fatto. L’ho sentita, sai, quando ti disse che avrei potuto non piacerti affatto. Le credi, ora??”.

In preda allo sfogo, colpì il davanzale con forza, percependo un dolore lancinante alle ossa.

“Maledizione!!”, sbottò, “Hai voluto strafare?? Hai pensato che potesse esserci qualcosa di buono, in me?? Ebbene… ti sbagliavi!! Io non sono fatto per la tua vita… io non la voglio una vita normale!! Non voglio pegasi timidi e incapaci che mi stiano attorno, pronti a contagiarmi con il loro vittimismo e la loro paura... E… e la loro scelta di… di non volare!!”.

Il puledro notò la dedica di Dash adagiata sulle coperte del letto. Si avvicinò con decisione, afferrò il foglio tra i denti e tornò alla finestra. La spalancò.

Stette per gettarla fuori ma poi, un attimo prima di compiere il gesto, parve calmarsi.

Gli occhi si posarono sull’immagine di Rainbow mentre tagliava il traguardo. La strinse tra gli zoccoli e la osservò a lungo.

Nella sua mente gli balenò l’episodio avvenuto nella casa di Fluttershy.

“No, non mi zittisco, perché di fronte a certe situazioni non riesco a star zitto! Perché tu, Fluttershy, sei proprio il tipo di pony che ho cercato di evitare fino ad oggi: codardo, falso e patetico!”.

L’espressione del pegaso giallo si era contratta in una smorfia di dolore, come se quella frase le fosse arrivata addosso come un pugnale.

In quel momento, lassù, nella casa tra le nuvole, si rese conto del dolore che aveva provato la puledra.

Si rese conto della sensazione di superiorità che aveva percepito nel dirle quelle parole.

In quel momento… provò odio per se stesso.

Pensò a quanto si fosse divertito con Pinkie e Twilight. Pensò all’abbuffata presso la tenuta Apple, alla sensazione di importanza che aveva vissuto raccontando le sue storie e facendosi quasi osannare dalla piccola Applebloom. Che strane emozioni… Non le aveva mai provate, prima.

Cercava forse di giustificarsi? Scosse il capo.

“Non ho scusanti…”, bisbigliò, “Sono soltanto… un arrogante… Sono sbagliato. E’ vero: non centra la mia malattia. Sono semplicemente… impossibile…”.

Chiuse gli occhi.

Il dolore per quanto successo divenne sempre più incontenibile.

Alcuni singulti presagirono l’arrivo dei singhiozzi, sintomo di un pianto trattenuto a forza.

“Mi… mi dispiace…”, dichiarò, con un filo di voce, asciugandosi frettolosamente i bordi degli occhi con le zampe.

“Mi dispiace… mi dispiace… io… io non voglio far star male gli altri… non volevo ferire quel pegaso… E’ che… è che è tutto così difficile… Per anni non ho avuto nessuno… Non un solo pony che mi abbia degnato della minima attenzione… se non per lanciarmi improperi e cattiverie… e… e poi…”, continuò, portandosi la foto accanto al muso, “…Poi sei arrivata tu… come un fulmine a ciel sereno… Hai creduto in me. Hai guardato oltre… Mi hai fatto… mi hai fatto conoscere la compagnia… Hai tolto il velo di pietà… Hai visto cosa avevo dentro… ed io… io ho sbagliato. Mi sono lasciato trasportare… Sono stato un insensibile… sono stato come tutti coloro che mi hanno sempre fatto soffrire…”.

Il pony si accasciò sul ventre, questa volta riuscendo malapena a contenere il pianto. Continuò ad osservare la dedica.

“Dash, ti prego… perdonami… Non lasciarmi… non voglio perderti… Sei la cosa migliore che mi sia capitata in tutta la vita… Perdona la mia arroganza, la mia saccenza… perdona questo stupido pegaso e i suoi modi incomprensibili…”.

Una luce abbagliante illuminò la stanza per una frazione di secondo.

Dopo qualche istante sopraggiunse un tuono sommesso.

Icarus, con occhi leggermente arrossati, drizzò la testa, osservando il paesaggio dalla finestra.

Lontano, all’orizzonte, i lampi illuminavano alcune frazioni di nubi nere.

“Un… un temporale?...”, balbettò, cercando di riprendersi.

Si portò al davanzale e osservò le nubi sottostanti: un enorme tappeto nero.

“I pegasi di Cloudsdale… si sono dati da fare…”.

Ci fu un altro tuono, in concomitanza ad una idea malsana che proruppe nella testa del pegaso.

Icarus si guardò attorno, cercando di mettere insieme i pezzi di un piano a dir poco malsano.

Dopo qualche minuto, fece un profondo respiro, prese la cintura e se la legò ai fianchi.

“Rainbow… se ancora pensi che io valga qualcosa… questa notte farai la cosa più stupida di tutta la tua vita…”.


*** ***** ***



    “E’ stata la cosa più stupida che potessi fare in tutta la tua vita!!”, la rimproverò Brutus, con il Daily tra le zampe.

“Guarda qua!”, continuò, “Un manipolo di pegasi provenienti da Cloudsdale ha gettato l’istituto dell’Emerald Lake in mezzo ad un temporale di proporzioni epiche! Un gruppo di pony scalmanati ha quindi quindi organizzato una festa all’insegna dei bagordi e dell’alcol!”.

“Alcol??”, sbottò Dash, smettendo di pulire i piatti, “Ma che fesserie! C’era giusto il punch portato da Pinkie!”.

“Inoltre un nutrito stormo di cornacchie e insetti dannosi hanno invaso la flora locale, mentre unicorni e pony si dilettavano nel lanciare incantesimi incontrollati e propinare ai presenti pasti dalla dubbia natura”.

“Ma!... Ma!... Chi è che ha scritto questa roba??”.

Brutus si schiarì la voce, imitando la postura di Panpipe: “Il primario, il dottor Panpipe, ha dichiarato: questo è uno scandalo! Codesto atto sovversivo mina il buon nome dell’istituto! Si tratta di un attentato anarchico insurrezionalista con il chiaro intento di provocare l’affondamento del buon nome della ricerca medica!”.

Rainbow digrignò i denti, afferrò un piatto e lo disintegrò contro il bordo del bancone, assolutamente furibonda.

“Ehy!!”, la riprese l’altro, “Guarda che quello…”.

La puledra cacciò il muso contro il suo, esternando una rabbia terrificante: “Quello cosa??...”.

“Ehm…”, farfugliò Brutus, apparentemente in soggezione, “Niente. Quello è… era così sporco che l’unica soluzione era buttarlo via, in effetti…”.

“E’ stata proprio una stupidaggine”, commentò Sunshine a sguardo basso, intenta anch’ella a pulire le stoviglie.

“Lo… lo pensi davvero?...”, chiese Dash, un po’ delusa.

“Sì”, rispose sorridendo, “Una bella… bellissima stupidaggine”.

L’altra si sentì risollevata.

Riprese a lavare i piatti.


    Si udì il tintinnare del campanello all’ingresso e poi le due ante della porta per le cucine si spalancarono violentemente.

“Scusa”, intervenne stizzita Sunshine, “Ma questo locale è riservato solo a…”.

La giumenta si zittì improvvisamente. Di fronte a lei, sempre con sguardo serio e severo, si stagliava il marito.

“D-Daedalus?... Che… che ci fai qui?”.

Gli altri due si girarono e Dash si preparò al peggio.

“Ciao, cara”, disse, con voce atona, “E… e tu devi essere Rainbow Dash, giusto?”.

Il pegaso blu lanciò uno sguardo di circostanza all’amica, che non seppe cosa dire.

“S-sì… sono io”.

“Perdonate la mia intromissione… Vorrei parlare con la signorina Rainbow Dash, se fosse possibile, ovviamente”.

“Ma… caro”, aggiunse Sunshine, “Si può sapere che cosa vuoi fare?”.

“Niente. Voglio solo parlarle”.

“Beh, fallo qui, no?”.

“In privato”.

Rainbow deglutì e sentì il cuore batterle forte.


    I due pegasi si trovavano nella sala interna di un discreto bar di Steamdale: un luogo decisamente più raffinato rispetto a quello in cui erano stati lei e Icarus, qualche giorno prima.

La puledra si sentiva irrequieta, assolutamente assoggettata dalla personalità seria e taciturna dello stallone.

Un cameriere con baffetti e doppiopetto giunse per annotare le ordinazioni.

“Prendo un sidro: un BrownApple”, affermò lo stallone. L’altro scrisse qualcosa su un taccuino.

“E tu, Rainbow Dash? Cosa prendi? Offro io”.

L’altra si grattò la chioma arcobaleno: “Ehm… i-io non saprei… Prendo… prendo anche io un sidro… lo stesso del… del signore…”.

“Due sidro in arrivo”, concluse l’inserviente.

“Bevi anche tu sidro?”, gli chiese Daedalus, senza scomporsi.

“Sì… io… non mi spiace affatto…”.

“Vieni da Ponyville, giusto? Fanno del buon sidro, là?”.

“In realtà sono di Cloudsdale… ma ho un’amica che vive nelle periferie di Ponyville e che produce un sidro artigianale molto… molto buono”.

“Ahh… il sidro artigianale… Quello sì che merita. Qui hanno questi prodotti industriali… Certo: il prezzo è buono ma la qualità… meglio non parlarne. Beh, vedo con piacere che abbiamo almeno una cosa in comune. Ci piace il sidro”.

“Sì, insomma… lo bevo ogni tanto…”, buttò lì, scacciando dalla mente le innumerevoli volte in cui si ricordò di volare a zig zag tra le nuvole, per via di qualche boccale di troppo.

Il cameriere consegnò loro le bevande.

“Alla salute”, disse il pegaso bianco, sollevando il calice.

“Alla salute…”, gli fece eco mollemente Dash, creandosi baffi di schiuma sulle labbra.

Daedalus si asciugò il muso con un tovagliolo.

“Ora… veniamo a noi, Rainbow Dash”.

“O-ok…”, tentennò, non sapendo cosa aspettarsi.

Daedalus si riempì i polmoni: “Mi sono informato un po’ su di te…”.

“Ah… sì?”.

“Sì. So che sei un’atleta niente male. So che voli molto bene e che hai vinto parecchie gare. Sembra che molti ti conoscano, a Cloudsdale e a Ponyville”.

“Beh… in realtà sono anche nella squadra meteorologica…”.

“L’ho notato… e mi riferisco all’Emerald Lake”.

“Ehm… quell’episodio… insomma…”.

Lo stallone bevve un altro sorso: “So anche che hai portato mio figlio in una tempesta”.

La puledra cercò quasi di nascondersi sotto al tavolo.

L’altro continuò: “So che si è rotto un’ala e che non ha fatto che parlare di te per un sacco di tempo”.

“Io… io non…”, cercò di discolparsi.

“Lasciami finire. Volevo dirti che… che io capisco quello che stai facendo”.

“Come?”, chiese incredula.

L’interlocutore tracannò il boccale in un sol sorso: “Non so quale idea ti sia fatta di me, Rainbow Dash. Ma io capisco benissimo che tra te e mio figlio c’è un legame molto profondo che vi unisce”.

“Siamo grandi amici…”.

“E’ vero e si nota subito. Apprezzo molto quello che stai cercando di fare per lui. Nessuno aveva mai osato tanto. Nessuno aveva mai cercato di stargli così vicino… di dargli così tanto rispetto e affetto come stai facendo tu. E di questo te ne sono davvero molto… molto riconoscente”.

Solo in quel momento Dash notò come lo sguardo dell’altro si fosse improvvisamente incupito, rivelando alcune rughe di stanchezza e occhi piuttosto tristi.

“Ora però”, riprese, “E’ il momento che tu la smetta”.

La puledra scosse la testa: “In che senso?...”.

“La cura di Icarus dovrebbe giungere al termine tra una settimana”.

“Sì… sì, mi aveva accennato a questa cosa”.

“E allora capirai come si tratti di un periodo critico. Un periodo dove mio figlio necessiti di completo e assoluto riposo”.

“Certo, lo capisco… però… da quando ci siamo incontrati di nuovo… mi è sembrato che lui… si riprendesse… che si sentisse…”.

“Ascolta, Rainbow Dash… Da quanto tempo conosci Icarus?...”, chiese, con gli zoccoli riuniti sul muso.

“Non saprei… Un paio di mesi?”.

“E per quanto gli sei stata accanto? Intendo: fisicamente”.

“Uhm… qualche… qualche giorno?”.

“Qualche giorno. Io invece gli sono accanto da quando è nato. Sono diciassette anni che io e Sunshine cerchiamo di risolvere la sua situazione. Diciassette anni in cui vediamo nostro figlio peggiorare e farsi sempre più debole. Diciassette anni in cui lo vediamo lottare giorno dopo giorno… con un coraggio e una forza che non avrei avuto nemmeno io”.

“Sì ma… cosa centra con?...”.

“Tu pensi che quello di cui ha bisogno Icarus sia la tua presenza, vero?”.

“Non mi reputo così importante…”, puntualizzò con fermezza.

“E allora ti sbagli. Tu rappresenti tantissimo per Icarus. Sei la sua fuga da un mondo cupo e triste. Sei la sua speranza. Sei un’amica e non solo. Ed è per questo che devi lasciarlo stare finché la cura non sarà terminata”.

“Ma… non capisco…”.

“Ogni volta che Icarus ti vede”, le disse, puntandole uno zoccolo contro, “Ogni volta che Icarus passa del tempo con te… lui diventa felice. Ma la sua cura ne risente. Una cura che va avanti da quasi un mese. Una cura che lo fa soffrire. Che lo fa star male. Sei così importante, per lui, che sta mandando all’aria tutto quello che ha affrontato, terapia compresa. Sei tutto per lui. Non gli importa più di guarire. Gli basta passare del tempo con te”.

Dash osservò un punto indefinito sul tavolo: “Io non credevo… non pensavo che…”.

“Io so che tu vuoi bene ad Icarus… e, proprio se gli vuoi bene, dovresti capire che ora deve superare questa cura. Deve impegnarsi per guarire. Tu potresti dargli gioia ancora per qualche giorno… ma sarebbe qualche giorno che potrebbe costargli la speranza di una vita. Che farà buttare via tutto il denaro, il tempo e l’impegno che ci abbiamo investito. Lo capisci, questo?...”.

L’altra non trovò la forza per rispondergli.

“La tempesta… il temporale all’Emerald Lake… Hai già fatto abbastanza. Mio figlio ha sorriso più volte. Ma ora deve dedicarsi a se stesso. Non deve più uscire dall’istituto. Non deve più agitarsi. Non deve più finire in cima ad un grattacielo, esanime e tremante. Ma… finchè ci sarai tu attorno… lui vorrà stare con te. Butterà via tutto, pur di stare con te”.

Dash osservò il boccale: un rivolo di schiuma scivolò lentamente lungo il vetro, adagiandosi poi sul legno del ripiano.

“Eppure… eppure mi sembrava che iniziasse a star meglio…”, bisbigliò.

“Sta meglio dentro. Non lo nego. Tu gli dai tanto. Ma non potrai farlo guarire. Anche se Panpipe è un dottore arrogante e saccente, è l’unico che possieda le conoscenze per poter guarire Icarus. Tu potrai guarire il suo cuore, Rainbow Dash… ma non le sue ossa. Non il suo fisico. Non le sue ali…”.

Il pegaso blu si sentì sprofondare e di nuovo non seppe cosa dire.

Daedalus la osservò a lungo.

“Allora, Rainbow Dash”, concluse con volto sincero, “Hai compreso il significato del mio discorso? Capisci che non sto cercando di separarti da mio figlio ma che… che temo per la sua salute? Per la sua vita? Se non ti vedrà per un po’ ci rimarrà male ma almeno avrà qualche possibilità in più di guarigione. E dopo potrete di nuovo vedervi, meglio di prima”.

“Io… io capisco, signor Daedalus”, rispose l’altra, visibilmente sofferente, “Credo… credo che sia la cosa giusta da fare, allora…”.

“Ma non basta dirlo. Devi promettermi… che Icarus non ti vedrà più fino alla termine della terapia. Una settimana. Non ti chiedo di più. Me lo prometti?”, le domandò, fissandola negli occhi.

Rainbow tentò più volte di rispondergli e, alla fine, cedette: “Va bene. Lo prometto”.

“Ti ringrazio. Vedrai che Icarus tornerà a star meglio”.

“Lo spero davvero…”.

“Grazie davvero, Rainbow Dash… per aver capito. E per il bene che dimostri verso Icarus. Lo dico come pony e… e come padre”.

Lo stallone le sfiorò la zampa, in un delicato gesto di gratitudine, e poi si alzò.

Le lanciò un’ultima occhiata e poi abbandonò il locale.

Rainbow Dash rimase lì ad osservare il sidro per così tanto tempo che la bevanda divenne quasi tiepida.

Sentì il bisogno di piangere. Ma si fece forza.

E uscì.


    Prese a camminare tristemente lungo le affollate strade di Steamdale.

Orecchie e coda erano basse, rivolte verso il terreno.

Pensieri ed emozioni turbinavano caoticamente dentro di lei, causandole un’apprensione ancora maggiore.

Poi, come l’unica isola di un mare in tempesta, si connotò una chiara sensazione: più precisamente un dubbio terribile.

“E se… e se davvero Daedalus avesse ragione? Se davvero… io non fossi affatto un bene, per Icarus? In effetti… da quando l’ho conosciuto… non gli ho portato altro che incidenti e un sacco di stress”.

Osservò uno degli Zeppelin che solcava il cielo plumbeo, senza però dedicarvi particolare attenzione.

“Da quando è nato… non è mai stato un vero pegaso… non ha mai potuto volare. Non ha avuto una vita come i suoi coetanei… e ora che potrebbe risolvere tutto… io non faccio altro che portarlo lontano da quella strada…”.

Lo sguardo tornò alle stradine di Steamdale.

“Di certo è più felice uscendo con me che non stando rinchiuso in un istituto, sottoponendosi a cure lunghe e dolorose. Come dargli torto? Ma, forse… io non sono davvero ciò che potrebbe aiutarlo, a lungo termine”.

Chinò il capo e pensò a lungo.

Alla fine si incamminò con decisione verso il Rusty’s: “Credo che suo padre abbia ragione. Sono venuta a trovarlo. Abbiamo passato del tempo insieme. Ora è il momento che si dedichi a questa terapia di fondamentale importanza. E’ l’unica cosa che importi, ormai. Quando l’avrà superata, potremo nuovamente rivederci e lui starà meglio. E’ così. E’ la cosa giusta”, concluse… cercando in ogni modo di auto convincersi.

    La puledra imboccò un viottolo, percorrendolo per tutta la sua lunghezza.

Iniziò a calare la sera. Le prime stelle comparvero in cielo.

Un vento freddo e tagliente si levò gradualmente, portando una buona dose di gelo tra i passanti.

Dash si strinse nelle spalle e rabbrividì per qualche secondo.

Era la prima volta che l’aria tirava in quel modo, a Steamdale: un fenomeno inusuale di cui nessuno si ricordava un precedente.


*** ***** ***


    I giorni sembrarono non passare mai.

Rainbow continuò le faccende presso il bar di Brutus, quasi contando i minuti che passavano.

Decise di non farsi più vedere, all’istituto: ci sarebbe tornata il giorno stesso dell’esito.

Sette giorni. Sette lunghissimi giorni.

Avrebbe tanto voluto parlare con Sunshine e chiederle notizie del figlio ma la puledra rimase assente per l’intero periodo, probabilmente impegnata ad accudire Icarus in quella settimana difficile.

Ci furono dei giorni dove fece ogni sforzo possibile pur di non tornare all’ospedale. E non fu facile. L’impulso di andare dall’amico per vedere come stava era davvero insostenibile, certe volte.

Ma, ripetendosi che era la cosa giusta da fare, riuscì a tener duro fino all’ultimo. Fino al settimo giorno.


    La puledra si diresse all’istituto nel tardo pomeriggio.

Prima di partire, aveva pensato di portargli qualcosa: un regalo, magari. Ma il suo borsello era praticamente vuoto e, se non fosse stata per la cortesia di Sunshine, non avrebbe nemmeno potuto soggiornarne a Steamdale così a lungo. Quindi rinunciò all’idea e partì comunque.

Quella volta l’ansia fu ancor più invadente: il problema non era dover rivedere Icarus dopo tanto tempo… Bensì sincerarsi che la cura, la cosa più importante di tutta la sua vita, avesse sortito qualche buon risultato. In quella giornata si sarebbe capito se gli sforzi erano valsi a qualcosa. Se ci sarebbe stato un futuro speranzoso, oppure…

Dash scosse il capo, cercando di non pensare al peggio, osservando l’Emerald Lake dallo Zeppelin, pronto ad atterrare. Dopo il “trattamento” che gli aveva riservato assieme alle amiche, il lago era letteralmente rinato.

Non soltanto aveva abbellito ulteriormente il paesaggio (ben visibile dalle vetrate dell’istituto, per gioia di pazienti e non solo) ma erano così giunti turisti e passanti, intenti a godersi le stupende flora e fauna locali.

Lo specchio d’acqua scintillava sotto il sole pomeridiano, quasi avessero sparso sottili frammenti di vetro sulla superficie. Gli uccelli volavano allegramente da un ramo all’altro e qualche pony locale si intratteneva beatamente lungo le sponde.

“Se ne ricorderanno, Icarus”, disse Rainbow a se stessa, “Se ne ricorderanno, non preoccuparti…”.

Il velivolo toccò il terreno e la passeggera si recò a destinazione, con il cuore che le batteva forte nel petto.

Dentro, tutto era esattamente come se lo ricordava ma, con spiccata sorpresa, molti dei medici e dei pazienti, vedendola passare, la salutarono sorridenti.

La puledra ricambiò i convenevoli: evidentemente la vicenda del lago era stata gradita ai più. “O quasi”, pensò, immaginandosi la faccia di Panpipe.

“Buonasera signorina Rainbow Dash!”, trillò la receptionist.

“Ehm, buonasera…”.

“Come sta? Va tutto bene?”.

“Sì. Sì, tutto bene…”.

“Ha bisogno di qualcosa, mia cara?”, le chiese gentilmente, sbattendo le lunghe ciglia nere.

“Sì. Sto… sto cercando… cioè…”.

“Icarus, vero?? E’ sotto un intervento molto importante!”.

“Ah… non è ancora terminato?”, domandò titubante.

“E’ al terzo piano… una zona a cui non è assolutamente consentito l’accesso ai visitatori… mi spiace…”, concluse con un velo di tristezza.

“Capisco. Beh, aspetterò. C’è qualche problema se mi reco alla stanza tre dov’era ricoverato?”.

La puledra si portò uno zoccolo al lato della bocca e si avvicinò a Dash, sussurrandole: “Guardi… tipicamente non sarebbe consentito ma non si preoccupi: vada nella stanza tre e stia tranquilla!”.

“Grazie. E’ molto gentile da parte sua…”.

“Si figuri!”, esordì, iniziando a lavorare su una zampa con un lima-unghie, “Questo e altro per la matta del meteo!”.

Rainbow storse il capo: “Come?...”.

“E’ così che la chiamano, sa? Per via del temporale che ha fatto scoppiare! La matta del meteo!”.

“Ah… Non so se esserne felice o meno…”.

“Ora vada, prima che il primario si faccia vedere!”, la esortò.

Il pegaso celeste salì lungo le scale: “Massì”, pensò, “La matta del meteo… Non suona poi tanto male…”.

Fece il suo ingresso nella stanza tre e, con grossa sorpresa, constatò come tutti e tre i lettini fossero vuoti.

Un infermiere stava sistemano il giaciglio dov’era solita sistemarsi Velvet.

“Buonasera, ha bisogno di qualcosa?”, domandò il pony.

“Uuh… Sì… sto cercando una puledrina… un unicorno viola…”.

“Velvet?”.

“Sì, lei”.

“E’ stata trasferita l’altro ieri”.

Dash percepì un profondo dispiacere: “Ah… Non sapevo che stesse per essere trasferita…”.

“Io ero il suo infermiere. Nemmeno lei lo sapeva. E’ stata una cosa improvvisa: pare che il suo problema agli occhi non fosse risolvibile...”.

“Mi dispiace molto…”, commentò tristemente.

“C’è stata anche una buona notizia: pare che non ci fosse la necessità di ricoverarla in questo istituto, in quanto la degenerazione della vista si sarebbe potuta rallentare considerevolmente con un semplice farmaco. Così è stata trasferita in un altro ospedale, per iniziare la somministrazione”.

“Quindi… non guarirà ma la vista non dovrebbe peggiorare?”.

“Esatto”, concluse con un sorriso.

“Beh… meglio di niente…”.

L’infermiere afferrò qualcosa sul davanzale: “Uhm… lei è Rainbow Dash, giusto?”.

L’altra si sfiorò gli zoccoli tra loro: “Sì… la… ehm… matta del meteo…”.

“Allora questo è per lei”, disse, consegnandole un foglio, “L’ha scritto Velvet i giorni scorsi. Mi ha chiesto di consegnarlo a lei o ad Icarus, chiunque dei due avessi incontrato per primo. E’ tutto un po’ traballante… Non riusciva a vedere cosa scriveva, quindi è andata a istinto, la piccolina…”.

Rainbow osservò il foglio e vide una serie di scritte sbilenche e tremolanti, nonché alcuni disegni stilizzati fatti a pastello.

“Ciao Icarus! Spero che l’operazione alla fine vada bene! Io ho saputo che i miei occhi non torneranno come prima ma mamma e papà dicono che c’è una medicina che non me li farà rovinare. Così partirò tra poco per provare. Mi spiace TANTISSIMISSIMO non poterti salutare… ma sappi che cercherò di venire a trovarti non appena potrò! Nicodemo è con me ed è simpaticissimissimo! Mi tiene tanta compagnia! Lo vedo solo io, gli altri non lo notano e così giochiamo un sacco dove ci pare! Vorrei che questa lettera la leggessi tu ma va bene anche se la leggerà tua moglie, la matta del meteo! Mi piace tanto, sai? Quando tu stai con lei e ritorni, sei sempre allegro e fai tanto lo sbruffone! Ogni tanto sei davvero un pallone gonfiato ma mi piaci tanto anche così! E se un giorno non ti dovesse più piacere, sappi che io rimango disposta a sposarmi con te!

Non c’è più spazio per scrivere, perché sull’altro lato del foglio ho fatto un disegno. Non ho visto cosa è successo quel giorno all’Emerald Lake… Ho solo potuto sentire e immaginarlo nella mia testa. Questo è ciò che ho sentito. Rimettiti presto! E ammazza tanti draghi cattivi! Ciao! Velvet”.

Dash girò il foglio e vide una strana scena disegnata con decine di colori diversi: vide un cielo azzurro, alcune chiazze multicolore che dovevano essere gli uccelli, alberi, alcuni pony disegnati decisamente male e, per ultimi, due figure: una azzurra ed una grigia, abbracciate tra loro. Vicino erano riportare due freccine: “la matta del meteo” e “mio marito l’uccisore di draghi”.

Il pony intervenne: “Penso voglia che anche Icarus la legga”.

Il pegaso sentì un calore scaldarle il cuore: “Sì…”, disse, stringendo la lettera a sé, “Gliela consegnerò quanto prima. Grazie per averla conservata…”.

“Si figuri…”.

“Posso… posso rimanere qui fuori ad aspettare l’esito della terapia di Icarus?”.

“Ma certo. La madre è stata ammessa al piano di sopra. Quando tornerà, saprà come è andata. Va bene?”.

“Va bene. La ringrazio molto”.

E aspettò.


    Passarono i minuti.

Trascorsero le ore. Si fece sera inoltrata.

Durante quella lunga, snervante attesa, la puledra continuò a lottare con la propria ansia, abbassando saltuariamente lo sguardo sulle letterina dell’unicorno viola, riguadagnando ogni volta un timido sorriso sulle labbra.

Alcuni zoccoli risuonarono quindi sulle scale che portavano al piano di sopra. Dash drizzò le orecchie e attese impaziente.

Sunshine si palesò: quando Dash la vide, i suoi timori si trasformarono in una sensazione terribile, simile ad un macigno che le veniva collocato sulla cassa toracica.

La giumenta era in lacrime. Lo sguardo basso. Gli occhi quasi chiusi.

Il pegaso blu ripose la lettera nella sacca e andò rapidamente verso di lei: “S-Sunshine!...”.

L’altra la guardò per un istante e poi, colta da altro dolore, non riuscì a far nulla se non piangere in silenzio.

“C-cosa è successo??”, domandò preoccupata, “E’ accaduto qualcosa ad Icarus??”.

L’amica scosse debolmente il capo e prese qualche istante per trovare la forza di risponderle: “Icarus sta dormendo”.

Quella notizia la risollevò parzialmente.

“Ma la cura”, continuò Sunshine, “La cura… non ha funzionato, Dash… non… non ha funzionato”.

Il pegaso dorato non resistette e si tuffò contro di lei, abbracciandola ed esplodendo in un pianto a dirotto.

“Non… non è possibile”, commentò Rainbow, incredula, “La… la cura non ha…”.

“Non è servito, Dash… E’ stato inutile... è stato tutto inutile…”, balbettò tra i singhiozzi, “Tutto questo tempo… non è servito a nulla…”.

Le due si strinsero con forza.

Il pensiero di Dash corse rapido verso l’amico: “Icarus come sta? Lo ha già saputo?...”.

“Sì”, rispose, asciugandosi le guance con un fazzoletto, “Lo sa. E’ a letto, adesso”.

“Come… come l’ha presa?...”.

Sunshine sembrò crollare emotivamente: “Scusa Dash… io non… non ce la faccio a parlarne… perdonami… non ci riesco… fa troppo male…”.

“C-capisco… Posso… posso salire a vederlo?”.

“Non… non credo ti faranno entrare… ma… aspetta… vieni: ti accompagno… ma non entrerò… non ce la farei, scusami…”.

“Va bene… lo capisco”.

Dopo qualche attimo per far riprendere la madre di Icarus, le due salirono lentamente le scale e si portarono di fronte ad una porta azzurra. Dash continuò ad osservare lo sguardo piangente dell’amica, non riuscendo a credere che la cura davvero non avesse funzionato.

Di fronte all’entrata vi era l’infermiera Chestnut.

“Oh!”, esclamò, quando vide Rainbow Dash, “Siete… sei…”.

“La… la matta del meteo…”, rispose debolmente.

“Chestnut”, le disse il pegaso dorato, “La faresti entrare?...”.

L’altra si guardò attorno indecisa: “Io… io non so se…”.

L’espressione di Sunshine era però così sofferente che la puledra non seppe rifiutarsi di collaborare: “Sentite… d’accordo… Non mi importa nulla delle conseguenze. Entra”, e, con quelle parole, si scostò dalla porta.

“Grazie, Chestnut…”, concluse Sunshine.

“Non ringrazi me… ringrazi loro due”, le confessò, riferendosi a Dash e Icarus, “Sono tra i pegasi più ostinati, buoni e temerari che abbia mai conosciuto… e non mi importa di cosa penseranno i primari. Entra pure”.

Le due si allontanarono, tornando al piano di sotto.

Rainbow rimase da sola con la propria apprensione. Pensò a cosa avrebbe detto al suo amico ma, in quel preciso momento, non le venne in mente nulla: mai avrebbe immaginato che la cura si sarebbe rivelata un fiasco… che tutto sarebbe finito in quel modo.

Poco prima di abbassare la maniglia, una voce nota e fastidiosa fece capolino dal fondo del corridoio.

Panpipe era di fronte al suo ufficio, con la canonica tazzina di caffè tra gli zoccoli: “Prevedibile”, sentenziò.

“Mi scusi?...”, sibilò Dash, decisamente pronta ad attaccar briga con lui, se solo avesse voluto.

“Dicevo: prevedibile!”, ripeté, raffreddando la bevanda col soffio, “Le avevo detto che la sua presenza sarebbe stata destabilizzante per il paziente”.

Gli zoccoli di Rainbow tremarono dalla rabbia.

“Non mi stupirei se…”, continuò il primario, “Se il fallimento della terapia sia dovuto in principal modo alle sue visite inopportune…”.

La puledra non ci vide più: spalancò le ali e, lasciando una fugace scia arcobaleno dietro di sé, si fiondò come un fulmine verso il dottore.

Tutto avvenne così in fretta che Panpipe non ebbe nemmeno il tempo di reagire: la tazzina cadde a terra e si ritrovò sollevato ad una spanna da terra. Dash lo tratteneva per il colletto della camicia, con sguardo assolutamente iroso.

L’unicorno si coprì il volto con le zampe e piagnucolò: “N-non picchiarmi, ti prego!! Ho la soglia del dolore bassissima!!”.

“Oh, stia tranquillo, mio caro dottore”, lo tranquillizzò Rainbow, con voce accomodante, “Non voglio farle del male. Voglio solo farle capire a cosa ha dovuto rinunciare Icarus per via della sua incompetenza…”.

    Poco lontano, lungo il lago rinnovato, Ate saltellava e faceva l’equilibrista lungo le sponde.

Un urlo improvviso attirò la sua attenzione verso l’edificio. Il paziente si voltò e vide un unicorno in camice venire espulso da una finestra del terzo piano, come un missile. Il malcapitato agitò le zampe nell’aria e la traiettoria lo portò direttamente nelle acque del lago, dove vi cadde pesantemente, riempiendo di schizzi il ricoverato.

Ate, non vedendo l’altro riemergere, si chinò verso la superficie del lago.

Panpipe sbucò all’improvviso, annaspando come un disperato.

“Q-questo… questo è innassimib…! Innammisbili…! Innamm…!”.

Il pony “pazzo” gli sollevò un ciuffo di crine fradici che gli copriva il volto: “Si dice inammissibile”, gli comunicò, sgranando gli occhi.

Panpipe smise di agitarsi, sentendosi improvvisamente crollare qualcosa addosso.

Dall’altra parte, di fronte alla finestra, Dash si sfregò gli zoccoli tra loro, con volto soddisfatto.

Quando si girò, una scrosciante cascata di applausi arrivò da alcuni pazienti (e anche qualche addetto) che avevano assistito alla scena.

La puledra, inizialmente, cercò di contenerne l’entusiasmo ma poi, improvvisamente inorgoglita, si lasciò andare ad un inchino.

Aprì quindi la porta azzurra, richiudendola dietro di sé e schermando la stanza dagli applausi residui in suo onore.


La realtà le piombò sul petto come un’incudine.


*** ***** ***


La camera era quasi completamente al buio.

Solamente un po’ di luce della luna, che iniziava a palesarsi nel cielo, riusciva ad illuminare debolmente la stanza.

Dash non vide nulla ma, dopo un attimo, i suoi occhi si abituarono all’oscurità e riuscì a distinguere il letto in cui era rannicchiato l’amico, sotto le coperte. Una flebo era collegata ad una zampa.

La puledra cercò di capire le condizioni di Icarus ma non vi riuscì. Attese pochi secondi e poi si avvicinò lentamente al giaciglio.

“I-Icarus?”, domandò. L’altro non parlò e continuò a respirare lentamente.

“Stai… stai dormendo?...”.

“No”, rispose, con un filo di voce.

Rainbow si sedette accanto a lui e riuscì a vederlo meglio: il pegaso grigio era raggomitolo su se stesso, su un fianco, dandole le spalle. Non piangeva ma il pelo sulle guance era leggermente scuro e arruffato, sintomo che le lacrime erano già scese copiose. Aveva gli occhi chiusi, leggermente contratti, formando qualche lieve ruga ai lati.

La puledra sospirò. Cosa dire? Cosa fare?...

Icarus non era il tipo da essere consolato, lo sapeva bene. Qualsiasi cosa avesse detto, probabilmente non sarebbe cambiato nulla… Anzi… forse avrebbe solo peggiorato la situazione.

Il silenzio era la scelta migliore? Poi le venne in mente: si girò verso la sacca a tracolla e addentò il lembo di un foglio, estraendo la lettera di Velvet.

La prese tra gli zoccoli e poi disse: “Questa… questa è della tua amica… Velvet… E’… è andata via qualche giorno fa…”.

Il puledro non mosse un muscolo, come se nemmeno avesse udito la notizia.

“Questa lettera l’ha scritta lei… E’… è per te… La vuoi leggere?”, gli chiese porgendogliela. Non ebbe nessuna reazione.

“Vuoi che… che te la legga io?”, domandò gentilmente ma Icarus, nuovamente, rimase immobile e in silenzio.

“Io… io te la metto qui, ok?”, e la poggiò sul comodino.

Passarono i minuti e Dash sospirò di nuovo, percependo un’enorme tristezza per la sofferenza dell’amico.

“Senti…”, buttò lì il pegaso blu, “Se… se ti va… posso chiamare le mie amiche. Che ne dici? Le chiamo, le faccio venire qui. Dirò a Pinkie di portare qualcuna delle sue stramberie e… e, se vuoi, mi farai l’elenco dei libri che vuoi leggere… Così… così potrò…”.

Le palpebre di Icarus si contrassero e il pony parlò, quasi non avesse fiato nei polmoni: “Smettila”.

“…Come?”.

“Ho detto smettila. Piantala”.

Rainbow si tirò un po’ indietro: “I-io…”.

“Senti… Lo so che ci stai provando. Ma questa volta è meglio se lasci perdere”.

“Lo so che non è facile tirarti su… Infatti volevo…”.

“Tirarmi su?...”, chiese ironicamente, “Ascolti la marea di sciocchezze che dici?”.

Rainbow capì che la cattiveria nelle parole dell’amico non era voluta… Che quella situazione era così pesante da tirare fuori il peggio in lui. Così lo ascoltò, senza dar troppo peso alle brutte cose che avrebbe sentito.

“Ti rendi conto… sai cosa significa?... Io… io ho perso, Dash… ho perso la mia battaglia… la mia speranza di una vita… Diciassette lunghi anni di sofferenze gettati al vento… e tu vieni qui con una stupida lettera e delle frasi patetiche?...”.

L’altra non disse nulla.

“Puoi anche risparmiartele, guarda. Anzi, fammi un favore: non voglio avere nessuno attorno. Vattene”.

“Non stai parlando sul serio”.

“Tu non sai cosa voglio io. Ora vattene”.

“Davvero non mi vuoi vicino, in un momento così?...”, domandò con sincerità.

L’altro rimase coricato su un fianco, ad occhi chiusi, sempre dandole le spalle: “Un momento così, dici?... E prima dov’eri? Dove sei stata in questi giorni, quando avevo bisogno di te? Dov’eri mentre mi sottoponevano a quelle maledette cure, togliendomi ogni energia che mi era rimasta?... Dov’eri?...”.

Dash si sentì malissimo: “I-io… ho pensato che… che avessi bisogno di riposo… che fosse meglio se non fossi venuta fino all’esito finale…”.

Gli occhi dell’amico si aprirono leggermente: “Hai parlato con mio padre, vero?...”.

L’altra cadde dalle nuvole: “Ehm… ecco…”.

“Lo immaginavo. Ti ha convinta a starmi alla larga. Era quello che temevo. E sono deluso dal fatto che ti sia fatta condizionare in quel modo. Complimenti”.

“Cercavo solo di fare la cosa giusta per te…”.

“La cosa giusta sarebbe stata rimanere al mio fianco. Ma ora non ha importanza. Anche se fossi rimasta… non sarebbe cambiato nulla. La cura è stata inutile ed è finita… Ed io… io finirò con lei…”.

“Non dire così…”.

“Cosa vuoi saperne, tu?”, continuò stizzito, “Sei forse stata con uno scheletro di vetro fin da quando eri piccola? Hai dovuto barcamenarti tra mille difficoltà, ogni giorno?... Hai vissuto nella speranza di poter essere normale, investendo ogni minuto della tua vita in una terapia assolutamente dolorosa?...”.

Rainbow non disse nulla.

“No. Non sai niente di tutto questo. Ora non abbiamo più un soldo e il costo dei farmaci continua a crescere in modo insensato, senza che però si ottengano risultati migliori. I miei hanno speso tutto per la casa incantata a Ponyville… casa che non potremo più mantenere. Dovremo vendere tutto. E andarcene”.

“Dove… dove andrete??”, chiese Dash, estremamente preoccupata.

“Non lo so. Non ha importanza. Non ho più un futuro. Qualsiasi cosa rimanesse di me… se n’è andata quest’oggi. Non volerò mai. Non sarò mai normale. E tutto questo non ha fatto altro che ridurre le mie aspettative di… di…”.

La puledra gli poggiò istintivamente una zampa sulla spalla: “Smettila subito!”.

Icarus si ritrasse dal suo tocco e Rainbow rimase profondamente ferita da quel gesto.

“Te l’ho detto. Lascia perdere. Non ne vale più la pena… Io… io non ho più la forza… Ho combattuto per anni… sono caduto… mi sono rialzato innumerevoli volte… Già in altre occasioni mi chiedevo quanto sarei durato… quanto la mia mente avrebbe retto a questa tortura… E’ stato come continuare ad annaspare in un mare in subbuglio… Hai presente?... La costante sensazione di essere a metà tra il pelo dell’acqua e l’aria, con il fiato che ti viene meno… Così… per diciassette anni… e… quando una speranza mi apparve come un unico approdo sicuro… quando l’ho vista svanire, oggi…”.

Gli occhi si chiusero e una lacrima apparve timidamente lungo le ciglia del pegaso.

“Io… io non ce la faccio più… Sono stanco… Non ho davvero più energie… e… vuoi un consiglio? Vattene. Non scherzo. Quando sono così so essere una carogna. Quindi evita di sorbirti il mio veleno e lasciami stare… Voglio restare solo”, concluse.

La puledra percepì un crollo, dentro di lei.

Tutto era svanito.

Tutto si era infranto improvvisamente.

Ogni cosa era andata come non doveva andare.

Si issò lentamente da terra e si diresse verso l’uscita.

“Cosa… cosa farai, adesso?”, gli domandò, prima di aprire la porta.

“Tornerò nella casa a Ponyville, per qualche giorno. Dovremo prendere alcune cose rimaste lì, poi venderemo l’abitazione e ce ne andremo con i pochi soldi rimasti”.

“Vuoi… vuoi che venga ancora a trovarti?”, sussurrò sottovoce.

Icarus ci pensò per un po’: “Non lo so. Ora voglio rimanere solo. Esci, ti prego”.

“…D’accordo”.


Aprì la porta, illuminando per un breve istante la stanza con la luce del corridoio.

Quando la richiuse, tornò il silenzio e la camera ripiombò nell’oscurità.

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Capitolo 11
*** Fly With Me ***


Il mondo andò avanti, nonostante tutto.

Che si tratti della disgrazia più straziante in assoluto o della gioia più grande che si possa provare… Al mondo non fa alcuna differenza. Il cielo resta azzurro. Le nubi si muovono lentamente lungo la volta celeste. Il sole sorge e tramonta come di consueto.

Indifferenza?

Menefreghismo?

Crudeltà?

No: il sole dispensa i suoi raggi a chiunque vi capiti sotto. Non distingue, non sceglie, non fa preferenze.

Tutto accade in un modo soltanto, ovvero l’unico fattibile.

Fatalismo?

Nemmeno. Si ha la possibilità di compiere scelte. Limitate che siano, sono pur sempre scelte.

E perché, allora, le cose possono andare così male?

Perché le speranze possono infrangersi improvvisamente contro un muro?

Se non è crudeltà quella… allora cos’è?

Se non è fatalità… allora di cosa si tratta?

E’ forse questo il prezzo da pagare per il libero arbitrio?

O è tutta una menzogna?...


    Dash fece ritorno a Ponyville.

Sarebbe potuta tornare con Icarus ma, viste le circostanze, preferì anticipare la partenza di un paio di giorni. Forse lo fece per buonsenso, forse per timore. Forse ebbe paura di riprovare quella straziante sensazione di inutilità che sentì durante l’ultima volta che lo vide.

Dopo quello che cercò di fare per lui… non seppe più come agire. Non sapeva se ciò che aveva fatto lo avesse effettivamente reso felice o se gli fosse costata la speranza di una vita.

Non lo sapeva.

Non sapeva a chi credere.

E così… fuggì. Prese il treno e si diresse a Ponyville, evitando di dover affrontare il problema.

Quando giunse nella piccola cittadina, cercò di non farsi notare e di rinchiudersi nell’abitazione a Cloudsdale.

Ma non ci volle molto affinché la notizia del suo ritorno si diffondesse rapidamente.

Quando le amiche seppero del suo arrivo, la andarono a trovare: dopotutto, l’ultima volta che l’avevano vista, si trovava ad una festa di matti!

Lo sguardo del pegaso dalla chioma arcobaleno, tuttavia, fece temere il peggio.

Ci fu un incontro molto breve, dove la puledra spiegò brevemente l’accaduto.

Nessuna ebbe il coraggio di aggiungere alcunché.

Tutte vennero colte da profonde tristezza e delusione.

Come poteva essere? Eppure… tutto si era infranto.

Pinkie ebbe la ricaduta peggiore tra tutte. Divenne triste come non mai, specialmente quando dovette buttare via gli enormi sacchi di zucchero filato che aveva preparato per la guarigione del suo amico.

E anche le altre reagirono con estrema apprensione, non riuscendo semplicemente ad accettare un destino così avverso.

Dash fece ritorno nella propria casa. Nessuno la vide per molto tempo.

Poi, un giorno, si accorse che le finestre dell’edificio in cui abitava Icarus erano nuovamente aperte.

Il pegaso grigio era tornato per prendere le ultime cose, come aveva precisato all’Emerald Lake.

La puledra non ebbe il coraggio di andarlo trovare.

Non sapeva cosa avrebbe detto. Cosa avrebbe fatto.

Temeva soltanto di provare e causare altro dolore.

Cercò di sopportare quella spinosa situazione ma non resse… E, in preda ad un’ultima disperata speranza, decise di fare visita ad un’amica…


*** ***** ***


    “Non ci posso credere… dici sul serio?”, domandò Spike, intento a spazzare il pavimento.

“Sì… sì, è la verità”, gli rispose mollemente Twilight.

Il draghetto bloccò la scopa e si puntellò grazie ad essa, facendosi triste: “E’… è assurdo…”.

“Purtroppo”, continuò l’amica, “Non c’erano certezze che avrebbe funzionato. Icarus ci ha provato fino in fondo…”.

“Sì ma… lottare così tanto… per poi fallire… è davvero qualcosa di terribile… un’ingiustizia…”.

“Sì, è un’ingiustizia… Ma, dopotutto, il concetto di giustizia è qualcosa che attribuiamo noi agli eventi. Non c’è nulla che, in natura, lasci presagire ad una forma di giudizio superiore”.

L’amico si grattò il capo, un po’ confuso: “Cioè?”.

“Per farla breve… le cose accadono… Che ci sia un motivo o meno, certe volte l’unica cosa che puoi fare è… accettarle”.

“Bella consolazione”.

“Non ho detto che sia una consolazione… Ma… insomma… che puoi farci?...”.

Qualcuno bussò alla porta.

Il draghetto si recò ad aprirla e vide Rainbow Dash, decisamente stanca e priva di brio.

“Oh!… Ciao, Rainbow…”.

“Ciao, Spike…”.

Sparkle si avvicinò ai due: “Ehy, Dash… E’ da un po’ che non ti vedevamo. Iniziavo a preoccuparmi…”.

“Sì, io… sono stata via per qualche tempo…”.

Spike si appoggiò al muro: “Beh, è comprensibile…”.

“Posso entrare?”.

“Certo, accomodati”.

    Il pegaso superò l’uscio ed iniziò a camminare tra le librerie dell’amica, scorrendo rapidamente gli occhi sui titoli delle copertine.

L’unicorno le giunse alle spalle: “Stai… stai cercando qualcosa di particolare?”.

L’altra scosse la testa: “Io… io non lo so… non so nemmeno cosa ci faccio qui, a dire il vero… Cosa spero di trovare…”.

“Cosa intendi dire?”.

La puledra celeste cercò di comunicarle qualcosa, con estrema difficoltà: “Non… non saprei, Twilight… Forse, come una stupida, cerco ancora di poter fare qualcosa per Icarus. Qualsiasi cosa…”.

Lo sguardo dell’amica si fece dispiaciuto: “Dash… io… io credo che non ci sia più niente da fare per Icarus… Lo hanno messo sotto una delle cure più avanzate che si conoscessero… Se non ha funzionato quello… non credo ci possa essere nient’altro…”.

Rainbow sospirò.

“Mi… mi dispiace…”, concluse Sparkle.

“Sicura che non ci sia nulla?... Proprio niente? Che so… un libro arcano… una pozione? Un amuleto? Qualcosa di assurdo, di impensabile… Qualsiasi cosa…”.

“No, Dash. Non esiste nulla, ne sono praticamente certa”.

“Forse”, buttò lì l’amica, “Forse potresti… potresti chiedere a Celestia! Tu la conosci! Sei la sua allieva preferita! Magari… magari un alicorno potrebbe riuscire a porre rimedio al problema di Icarus! Forse, potrebbe usare la sua magia per…”.

L’unicorno scosse il capo: “Io… io non volevo dirtelo, Dash, ma… ma mi sono sentita con Celestia già molto tempo fa… Nemmeno lei può risolvere un problema simile. Non c’è magia o incantesimo che permetta di guarire per sempre un pegaso con un problema genetico così radicato. Si tratterebbe di rinnovare il suo scheletro, il suo corpo, di ridargli anni… di vita”.

Quando la puledra dal manto arcobaleno sentì quelle parole, percepì i propri occhi inumidirsi.

Colpì quindi il tavolo con violenza improvvisa, facendo sobbalzare Spike dallo spavento.

“Io non lo accetto!!”, tuonò.

“Io non… io non riesco ad accettarlo…”, ammise, con voce rotta, “Non può finire così… Icarus non può… La sua speranza, la sua vita… non possono finire così, miseramente…”.

Twilight le passò una zampa sulla schiena: “Non so cosa dire, Rainbow… davvero…”.

L’altra continuò: “E’… è terribile, Twilight… Non è solo per lui… Io… io sto malissimo… Ho scoperto che quando lui è felice… allora lo sono anch’io… E quando lui è triste… io sono a pezzi. E’ come se mi strappassero il cuore dal petto… E vederlo in quello stato, l’ultima volta… è stata la cosa peggiore di tutte. Non poter far nulla per lui… Percepire quell’apatia, quell’abbandono… E’ come se Icarus fosse morto dentro, senza più avere il suo spirito combattivo, la sua arroganza, la sua testardaggine…”.

I due amici la ascoltarono con apprensione.

“E’… è terribile…”, sussurrò infine Dash, “Non riesco a rassegnarmi all’idea di non vederlo mai più sorridere… di vederlo costretto per tutta la vita su un lettino… fino… fino a che…”. Un pianto strozzato le bloccò le parole in gola. Durò poco, giusto qualche secondo, poi si riprese e cercò di farsi forza.

“Lo so”, disse Twilight, “Semplicemente… Icarus non può guarire. Mi spiace, non voglio sembrarti insensibile… Ma la realtà è questa…”.

“Lo so, Twilight. La mia mente lo sa. Ma il mio cuore non riesce ad accettarlo”.

“Ti capisco…”.

“Promettimi solo una cosa”, concluse tristemente.

“Dimmi…”.

“Promettimi che… se troverai una cura… o comunque un rimedio o qualsiasi cosa, anche piccola, anche minuscola, che potrà farlo star meglio… che potrà regalargli un attimo di gioia, insomma: qualsiasi cosa… anche per poco, anche se non lo aiuterà per sempre… promettimi che me lo dirai…”.

L’unicorno si fece cupo ed iniziò a riflettere.

Si spostò quindi lungo la libreria e prese a controllare magicamente un gran numero di tomi.

Ne prelevò quindi uno in particolare e tornò da Dash.

“…C’è un incantesimo”, le disse, “E’ un… incantesimo molto particolare… Molto difficile, molto potente… e che richiede dei catalizzatori rarissimi. Posso dare un’occhiata se c’è qualcosa di utile…”.

“Pensi che possa esserci qualcosa che potrà aiutare Icarus?”, domandò speranzosa.

“Te l’ho detto e non ti mentirò: Icarus non potrà guarire. Qualsiasi cosa si possa fare per lui sarà molto piccola o momentanea. Questo tomo… è molto potente… Se non ricordo male c’è qualcosa che potrebbe aiutare Icarus nel proprio handicap”.

“Dici sul serio??”.

“Sì ma, ti ripeto, sarà solo un miglioramento minore e momentaneo”.

“Ma potrebbe pur sempre essere meglio di niente, no?”.

“Se vuoi regalargli qualche attimo di felicità… forse potrebbe fare al caso tuo… Ma è un tomo molto criptico e che richiede catalizzatori dedicati”.

Rainbow iniziò ad intravedere uno spiraglio di speranza: “Detto in parole semplici?”.

“E’ molto complicato. Fammi dare un’occhiata. Ma sappi che non so cosa potrebbe contenere, esattamente”.

“Non importa!”, dichiarò con convinzione, “Leggilo, studialo e, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno per lanciare le tue stramberia magiche, cercheremo un modo per reperirle! Ti vado anche a prendere una stella di neve in cima ad un picco innevato, se ti servisse!”.


*** ***** ***


    La notte era fredda. Il cielo parzialmente coperto da un nutrito numero di nubi.

La luna si intravedeva solo di tanto in tanto, permettendo di illuminare saltuariamente l’ambiente.

Dash sferzava l’aria, dirigendosi verso l’abitazione di Icarus.

A quelle altitudini il gelo era quasi insopportabile, così si era munita di una mantella dalle trame arcobaleno che le aveva preparato direttamente Rarity. Ai lati era stata cucita una coppia di capienti tasche: in una era stato collocato il tomo di Twilight e, nell’altra, un piccolo regalo per il pegaso grigio.

La puledra mosse le ali con maggior energia, cercando di superare la zona d’aria rarefatta, con una certa fatica, finché non fu sufficientemente vicina alla casa dell’amico.

Scorse le finestre spalancate della sua stanza, con le tende che sventolavano verso l’esterno.

“Le finestre aperte con questo freddo?”, pensò, “E’ strano”.

Planò delicatamente verso il davanzale: la camera era buia e sembrava vuota. Per un istante pensò al peggio. Ma poi lo vide: l’amico era sotto le coperte, in modo analogo a come lo aveva visto l’ultima volta, all’istituto. Vicino al comodino riconobbe la lettera di Velvet: non era di certo stata dimenticata.

Rainbow fluttuò sul pavimento, provocando giusto un leggero rumore quando gli zoccoli toccarono la superficie. Si mosse quindi lentamente verso il giaciglio.

Il puledro dalla chioma viola era sciupato, esattamente come la prima volta che lo incontrò all’ospedale.

Una fitta di dolore le salì al petto ma cercò di scacciarla via: con molta dolcezza, scosse il corpo dell’amico.

Questo si destò mollemente, dopo qualche istante.

“Uuhhh… C-che… chi è?”.

“Ciao, Casanova…”, gli sussurrò.

“Dash?”, domandò stupito.

L’altra annuì.

“Cosa… cosa ci fai qui?...”.

“Sono venuta a farti una visita, mi pare ovvio, no?”.

“Ah… certo…”, commentò, stropicciandosi un occhio.

“Ti pare il modo di dormire? Con la finestra spalancata e questo freddo? Guarda come sono conciata io!”, affermò, sfoggiando le bellissima mantella di Rarity, che la ricopriva fino a terra.

“Mh… uao… Sei venuta qui solo per farmi vedere il tuo ultimo acquisto?”.

“Anche. Ah! Ne ho una anche per te! Ti servirà!”.

L’amica aprì una delle tasche ed estrasse un altro copricapo, del tutto simile al suo se non per il colore: era viola scuro e abbellito con stupende linee curve color avorio.

“L’ha fatto Rarity per te. Sai che lei ha il senso estetico, per queste cose”.

Icarus osservò l’indumento: “Un mantello?”.

“Sì. E, come ti ho detto, ti servirà in questa fredda notte!”.

“E… perché? Basta chiudere la finestra…”.

“Aspetta e vedrai”, aggiunse con malizia.

Dalla seconda tasca estrasse il libro di Twilight ed un ciondolo con una pietra blu.

“Mi hai portato da leggere?”.

“Molto di più! Questa è una cosa speciale. Fidati che ti piacerà”.

L’altro non parve convinto: “Ne dubito… Non ho molta voglia di leggere…”.

“Non devi leggerlo… E’ per… insomma, è un regalo per te… è per un incantesimo”.

Il puledro drizzò le orecchie: “Incantesimo? Che incantesimo?”.

L’amica assunse un’espressione eccitata: “Ne ho parlato con Twilight. Pare ci sia questo incantesimo… Non so come si chiami… so soltanto che può fare una cosa… una cosa molto speciale…”.

“Cosa?...”.

“Questo incantesimo… ti potrà… far volare… con le tue ali…”.

Ad Icarus parve uno scherzo: “Volare?”.

“Non farti subito strane idee: non è una cura. Non ti farà volare per sempre… Purtroppo… sarà solo per un’ora… Un’ora in cui potrai librarti con le tue ali…”.

“Dici… dici sul serio?...”.

“Se Twilight non ha preso una cantonata, cosa che di solito non capita… allora è tutto vero…”.

Il pegaso grigio spalancò gli occhi: “Volare?...”.

“Sì. Volare”, gli fece eco.

“Volare??...”.

“Ehm… Sì”.

L’altro esplose: “Ma… ma è stupendo!! Potrò volare!!”.

“Sì ma… solo per un’ora…”.

“Ma non importa! Potrò volare!”, strillò, agitandosi notevolmente, “Potrò finalmente volare!! Anche se per poco… Cioè, va bene lo stesso!”.

“Davvero? Pensavo che… che non fossi così entusiasta per il volo di una sola ora…”.

Il pony parve calmarsi un po’: “Oh beh… non sarà come volare per sempre ma… Che diamine!… Non mi importa. Ho passato questi ultimi giorni come un cadavere. Questa cosa che mi hai detto è come il sole in una notte eterna… non so se mi spiego…”.

“Sì… direi che rendi l’idea…”.

“Uao! Potrò… potrò volare!!”, ripeté trepidante.

“Beh… Prima vediamo se l’incantesimo funziona… non vorrei regalarti un’altra delusione…”.

    La puledra aprì il tomo nel punto segnalatole da Twilight, mettendo da parte il ciondolo.

Avvertì poi una pressione alla spalla. Era Icarus.

“Senti, Dashie…”, le sussurrò, con volto dispiaciuto.

“Cosa c’è?”.

“Mi… mi dispiace per le cose che ti ho detto alla clinica… Io… io non…”.

L’altra gli sorrise dolcemente: “Cosa credi? Che non ti conosca? Lo so quando sei in modalità intrattabile!... E so anche che non pensavi realmente a quelle cose…”.

“In quel momento le pensavo… Perché… perché ero… insomma…”, farfugliò.

Anche Rainbow posò la zampa sulla spalla dell’altro: “Tranquillo, cavalcatore di tempeste… Come mi hai suggerito tu una volta… non devi dire nulla. Lascia stare. Ora vediamo di far funzionare questo mucchio di carta, ok??”.

Icarus sorrise: “Ok. Va bene!”.

Dash riprese a leggere alcune formule, senza sapere cosa stesse facendo esattamente, ma così le aveva ordinato di fare Twilight.

“Ma sai quello che fai?...”, chiese Icarus, titubante.

“Come no”, ironizzò, “Sono una nota esperta di incantesimi”.

“Sì ma…”.

“Tranquillo. Parte dell’incantesimo è già stato lanciato dalla cervellona. Io devo solo più leggere queste righe e poi…”.

“Poi?...”.

Rainbow sollevò il ciondolo con la pietra blu: “Poi… dobbiamo toccare entrambi questo raro catalizzatore…”.

“Ok…”.

“Intendo… adesso”.

“Ah! Certo!”, e poggiò lo zoccolo sul monile. Così fece anche la puledra.

Lette ancora una manciata di frasi senza senso, i due attesero qualche evento particolare ma l’unica cosa che accadde fu l’inscurimento della pietra, che si dissolse poi in un rivolo di polvere.

“Beh?”, bofonchiò Icarus, osservando la cenere per terra, “E adesso?”.

“Non saprei…”, commentò l’altra, riportando lo sguardo al libro, “Ho fatto tutto quello che ha detto Twilight…”.

“Forse non ha funzionato?...”.

“Come fai a dirlo? Come ti senti? Sei… diverso?”.

“Ora sono una femmina”.

“Piantala… Hai provato ad aprire le ali?”.

“Lo sai che mi fa male…”.

“Tu prova lo stesso”.

L’altro sembrò per nulla convinto ma decise comunque di tentare.

Si slacciò la cintura e poi si concentrò.

“Non credo che funzionerà, Dashie…”.

La puledra non disse nulla.

Le ali di Icarus si spalancarono di colpo, con evidente sorpresa di entrambi, spandendo splendide piume grigie in ogni angolo della stanza.

Il contraccolpo fu così violento e inatteso che Icarus si alzò inavvertitamente di mezzo metro da terra.

Rainbow fece una capriola all’indietro, investita da un muro d’aria.

“Dash! Dash!!”, strillò l’amico, “Guarda! Sono… sono spalancate!!”.

La puledra non riusciva a credere ai propri occhi. Le lunghe e magnifiche ali di Icarus erano spiegate, esattamente come sull’edificio a Steamdale. Questa volta, però… non tremavano. Non erano aperte sotto immane sforzo dell’amico.

Questa volta… erano la cosa più naturale che potesse esserci in quel momento.

Rainbow rimase incantata ad osservare quelle ali semplicemente meravigliose.

“Le vedo, Icarus… le vedo bene…”, farfugliò, quasi commossa.

“Ho le ali! Cioè… già le avevo… Ma ora posso… posso muoverle!”, e, con quelle parole, le fece sbattere rapidamente un paio di volte, provocando un altro caotico spostamento d’aria.

“Ehy! Frena l’entusiasmo, Casanova!”, rise l’amica, bloccando la criniera con una zampa.

Icarus era felicissimo. Non riusciva ancora a crederci!

Continuava a girare su se stesso, come un cane che si morde la coda, nell’intento di osservare le sue stesse ali. Poi inciampò dolorosamente.

“Icarus!”, intervenne il pony blu.

“Ah…”, rantolò a denti stretti, “Devo stare attento… Le ali sono a posto ma… ma le altre ossa sono ancora tremendamente fragili…”.

“Ecco”, lo riprese, aiutandolo a rialzarsi, “Allora vedi di darti una calmata e sfruttiamo il tempo che ci rimane”.

“Intendi dire…”.

“Intendo dire…”.

“Volare insieme?...”, avanzò, con un filo di voce.

“Sì, Icarus”, le rispose l’amica, porgendogli la mantella di Rarity, “Volare insieme”.

“Volare insieme… per davvero… Finalmente…”, concluse, fissandola negli occhi.


    La coppia avanzò fino alla grossa finestra spalancata.

L’aria gelida li investì per un istante e il paesaggio notturno apparve sotto i loro occhi, incluso qualche lumino della lontana Ponyville e le luci di Canterlot sullo sfondo.

Dash osservò l’amico tentennare: sembrava un puledrino al suo primo volo… Anzi… quello era il suo primo volo a tutti gli effetti.

Non sarebbe stato come cavalcare la tempesta su una nube.

Sarebbe stato il librarsi nell’aria con le proprie forze.

Avrebbe significato realizzare ciò per cui si è nati.

“Hai paura?”, le domandò Dash, girandosi per un istante verso di lui.

“Non è proprio paura… è…”.

“Eccitazione? Adrenalina?”, buttò lì, riconoscendo in lui le stesse sensazioni che provava ogni volta che si tuffava nel vuoto.

“Sì… cioè, ho un po’ di timore ma…”.

“Forse vuoi che iniziamo un poco per volta?”.

Icarus chiuse gli occhi e poi sfoderò uno sguardo arrogante e sicuro di sé, proprio come un tempo. Un ghigno strafottente si dipinse sul muso.

“Col cavolo…”, e contrasse le zampe anteriori, pronto a balzare.

“E-Ehy, Icarus, aspetta!”.

Ma l’altro fece la cosa più avventata in assoluto.

Saltò fuori dalla finestra.

    Rainbow lo osservò terrorizzata e poi si gettò a sua volta: Icarus stava cadendo verso il basso, con gli occhi socchiusi e una paura crescente ben leggibile nel suo volto. Le ali erano aperte ma aderenti ai suoi fianchi, come se volesse acquisire velocità in picchiata.

“Icarus!”, gli urlò, “Icarus, spiega quelle ali!!”.

“No!!”, rispose l’altro, combattuto tra il timore e l’eccitazione per il momento.

“Come sarebbe a dire!?”.

“E’ tutta una vita che osservo pegasi volare!!”, continuò, cercando di sovrastare il rumore dell’aria nelle orecchie. I due presero a sfrecciare come saette, sempre più veloci.

“Se devo far valere poco meno di un’ora”, riprese il pegaso grigio, “Voglio che ne valga la pena!!”.

Quando Icarus sentì di aver raggiunto la massima velocità sostenibile, deglutì e disse a se stesso: “O la va… o la spacca…”.

Le ali del puledro si aprirono e Dash lo vide retrocedere di colpo, superandola e schizzando verso il cielo. Lo osservò allibita: una manovra del genere avrebbe compromesso la schiena di qualsiasi pegaso… Ma non quella di Icarus… Il suo corpo, magro e leggero, sorretto da quelle ali perfette, gli permise di riprendere quota senza subire il benché minimo contraccolpo doloroso.

L’amico rimase stupito almeno quanto Rainbow che, per raggiungerlo, dovette invece impostare una traiettoria parabolica.

Il pony dalla chioma viola stava quindi volando… Sì… Stava volando!! Le piume delle sue ali vibravano nell’aria, facendolo planare ad incredibile velocità nella direzione in cui desiderava. Le nubi presero a scorrergli attorno e la mantella iniziò a svolazzare, saldamente legata al collo del proprietario.

“Daaash!!”, strillò, felice come non mai, “Dash!! Dashie, hai visto?? Sto volando!!”.

L’amica si portò di fianco a lui: “Lo vedo, Icarus!! Lo vedo!”.

“E’ bellissimo!! E’… è stupendo!!”.

“Ma tecnicamente non stai volando!”, lo schernì, “Per volare devi sbattere quelle due robe che hai sulla schiena! Così stai solo seguendo la corrente!”.

Icarus ascoltò le sue parole e poi decise di azzardare.

Rainbow cercò di frenare il suo entusiasmo: “Ma non strafare! E’ pericoloso, se non hai mai…”.

Ma parlò troppo presto: il pony alato inarcò leggermente il corpo e diede un poderoso colpo d’ali, distaccandosi dalla puledra di decine di metri.

Nuovamente, l’amica rimase allibita ad osservare la facilità con cui prese velocità.

“Vediamo se Rainbow Dash, il pegaso più cool di tutta equestria, riuscirà a reggere il confronto con Icarus, il campione di Equestria!!”, le urlò, con sguardo di sfida.

“Tu giochi col fuoco!”, lo ammonì, stando al gioco, “Avrai pure un gran paio d’ali ma io ho molta più esperienza di te!!”.

“Ah sì?? Provalo!”, e schizzò via come una saetta.

La bocca di Dash formò un ghigno compiaciuto e prese a volargli dietro, sicura che lo avrebbe presto raggiunto.

Ma così non fu.

Con sua somma sorpresa… Icarus volava come non aveva mai visto volare un pegaso in vita sua.

Prese a sbattere forsennatamente le ali, cercando di raggiungerlo ma l’amico era sempre qualche metro d’innanzi a lei: le zampe anteriori protratte in avanti, lo sguardo deciso e le ali in continuo movimento.

Non aveva una tecnica. Non stava applicando nessuna lezione che insegnavano alla scuola di volo, in quanto non aveva potuto provarne nemmeno una.

Icarus… era un talento. Un talento unico ed innato.

L’occhio esperto dell’amica lo analizzò: si muoveva ad istinto. Cabrava, si girava, contraeva i muscoli senza uno schema particolare: si limitava a sentire l’aria su di sé… ad anticipare i movimenti… Era quello che molti assi del volo definivano “Essere come Aria”.

Ed Icarus era come l’aria: leggero come una piuma  ma racchiudeva nelle ali una forza imponente, in grado di regalargli evoluzioni aeree impensabili per altri pegasi.

La puledra pensò a cosa sarebbe potuto divenire se solo non avesse avuto quella malattia… Perché ora era lì, di fronte a lei, assolutamente impossibile da superare in velocità e leggiadria, persino per un’esperta come lei. Se solo si fosse allenato… se solo ne avesse avuto l’occasione… Lo sapeva bene: Icarus sarebbe diventato probabilmente il più grande asso del volo che Equestria avrebbe mai conosciuto.

Quel pensiero le strinse il cuore.

“Ehy, chioma arcobaleno!!”, ridacchiò ad un certo punto, improvvisando un volo all’indietro (una tecnica che si imparava dopo mesi di pratica), “Hai visto che roba??”.

In quel preciso momento percepì addirittura una vena di invidia nei suoi confronti, che venne presto sostituita dalla felicità che provava per lui, nel vederlo finalmente così contento e trepidante: “Vedo, vedo! Ma non montarti la testa!!”.

“Senti chi parla!”.

    In lontananza, intanto, un agglomerato temporalesco iniziò ad essere solcato da lampi così distanti che ancora non si riuscivano sostanzialmente ad udire.

L’attenzione di Icarus venne attirata come da una calamita.

“Dashie! Guarda là! Una tempesta!”, urlò, continuando a volare come una furia.

“Oh no… ci risiamo…”, commentò l’altra sconsolata, “Ti prego: dimmi che non è vero…”.

Il puledro non stava più nel pelo: “Una tempesta, Dashie!! Potremo cavalcare la tempesta!! Insieme! Io e te! Per davvero!!”.

“Icarus, sei un pegaso fantastico, lo ammetto… voli come se non ci fosse un domani e sei dannatamente bravo… Ma una tempesta è troppo”.

“Lo hai detto anche l’altra volta!”.

“E infatti siamo finiti a terra e tu con un’ala rotta!”.

“Ma questa volta non accadrà! Questa volta non ci saranno cirri o ali di caramello a fermarci!!”.

L’amica gli chiese di rallentare un poco e lo affiancò: “Ascolta”, gli disse con sincerità, “Non è uno scherzo. Cavalcare le tempeste richiede un sacco di pratica. Nemmeno col tuo talento ci riusciresti… Non esagerare…”.

Lo sguardo dell’altro si fece melanconico: “Dashie… ascolta…”, le rispose lentamente, “Questa è l’opportunità di una vita. L’unica occasione che mai avrò per provare tutto ciò che mi rimane nella mia esistenza… un’esistenza che non so quanto durerà. Non ho più nulla da perdere, ormai. So che sei preoccupata per me… ma so anche che puoi capirmi… soltanto tu riesci a capirmi davvero…”, concluse con un sorriso.

Rainbow ci pensò un istante e poi sospirò: “D’accordo… tanto in un modo o nell’altro riesci sempre a spuntarla, con me…”.

“E’ ovvio, no? Io non sono una lumaca come te!!”, la derise, e partì a razzo verso le nubi scure.

“Ehy!! Almeno lascia che ti accompagni da vicino!!”, gli berciò alle spalle, cercando di non perdere terreno.

“Solo se mi acchiappi!”.

E così i due iniziarono un folle volo verso l’ammasso di nubi, che si fecero sempre più vicine.

Dash osservò l’amico di fronte a sé e poi udì un boato assordante a qualche centinaio di metri: la tempesta era in dirittura d’arrivo.

Le coltri nerastre presero a farsi sempre più fitte e i due iniziarono a bucarle una dopo l’altra.

Icarus volava sicuro, come se ciò che aveva dinnanzi non fosse altro che l’ultima occasione della sua vita.

I tuoni si fecero sempre più vicini, i lampi saettarono luminosi attorno ai due, accompagnati dai canonici boati assordanti.

Rainbow strinse i denti: “Mia Celestia… questa volta non ne usciamo tutti interi…”.

Il pegaso dalla chioma viola socchiuse gli occhi e protese ancor di più le zampe di fronte al muso.

“Dritto al cuore della tempesta”, sibilò a denti stretti.

Infranse l’ultimo strato di nubi nere, sparendo alla vista di Dash, che fece altrettanto subito dopo.


    Svaniti gli oscuri strati fumosi, la puledra poté nuovamente vederlo.

Icarus era nel tunnel nebuloso, lo stesso che i due avevano attraversato l’ultima volta.

Lo stesso ammasso cangiante attraversato da scariche elettriche e accompagnato da tuoni impressionanti.

Un lampo esplose a pochi metri dal puledro, che vacillò per un istante e rallentò, improvvisamente spaventato.

L’amica gli volò accanto e allungò una zampa verso di lui.

L’altro la osservò intensamente e poi allungò anche lui la zampa, mettendo a contatto il suo zoccolo con quello del pegaso blu.

Si sorrisero.

…E presero a cavalcare la tempesta come due veri Campioni di Equestria.


    Questa volta non c’era un cirro a cui affidarsi.

Non vi erano restrizioni fisiche o timori di sorta.

Due pegasi, completamente folli, presero semplicemente a percorrere un campo disseminato di elettricità, caotiche correnti d’aria ed esplosioni d’ogni genere.

Dash temette che Icarus non fosse all’altezza ma…

Ma Icarus non solo era all’altezza… ma, nella tempesta, sembrava quasi esserci nato.

Dopo i primi tentennamenti, il pegaso grigio guadagnò fiducia ed iniziò a destreggiarsi tra gli spettacolari fenomeni atmosferici.

Rainbow lo osservò attentamente e percepì nuovamente invidia ma era così tanta la gioia e l’orgoglio che provava per lui in quel momento che non poté far altro che sentire il petto esplodere di felicità.

Icarus alzò quindi il volto verso l’alto, eccitatissimo: “Dashie!! Proprio come l’altra volta!!”.

“Cioè?!”.

L’amico sorrise e poi virò inaspettatamente, investendola in pieno. L’amica trasalì.

Il puledro si strinse a lei e piegò le ali, in modo da iniziare una cabrata con avvitamento.

Dash fece ciò che gli aveva consigliato lei stessa, un tempo: non pensò.

Si mise a ridere e così fece il compagno.

La coppia iniziò a salire sempre di più, ruotando sul proprio asse: i fulmini e i tuoni risuonarono ovunque, finché…

Finché la volta nuvolosa non venne infranta.

Finché i due non si ritrovarono a percorrere la parte apicale della tempesta, con una distesa di nubi sotto di loro e la luna luminosa del cielo.

Il cielo terso e stellato diede loro il benvenuto.

I due riallinearono la traiettoria e presero a volare uno di fianco all’altro, osservandosi sorridenti.

“Visto, Dashie?... Proprio come l’altra volta…”.

L’amica cercò di trattenere la commozione.

    Planarono ancora per qualche minuto, fianco a fianco, finché Icarus non esordì in un verso di dolore: “Ah!... Le… le mie ali…”, ed ebbe un sussulto nell’aria.

“Cosa succede??”, domandò preoccupata.

“Le… le ali… mi fanno… male…”.

“Che sia…?”.

L’altro iniziò a perdere quota e, con un mezzo sorriso, le rispose: “Come passa in fretta un’ora, quando ci si sente bene, vero?...”.

“Aspetta… ti aiuto…”. L’amica si avvicinò a lui e lo supportò con il proprio corpo, addolcendogli la discesa.

Percorsero un tragitto ascensionale, circoscrivendo la tempesta ancora in atto, finché non notarono una piccola collinetta lontana, con alcuni meli su di essa.

Il terreno si fece sempre più vicino e Rainbow aiutò l’amico nel posarsi delicatamente sulla superficie erbosa.

Quando gli zoccoli di lui colpirono la superficie, le zampe tremarono e si accasciò a terra.

“Cavolo!...”, commentò dolorante, “Dopo un’ora nell’aria… la gravità sembra così… così pesante…”.

La puledra si coprì con la mantella e aiutò l’amico a fare altrettanto.

Le ali del puledro iniziarono di nuovo a tremare, fino a ritrarsi lentamente sotto il copricapo, di nuovo ai fianchi del pegaso. Il volto di Icarus si arricchì di dolore.

Dopo un sogno durato un’ora… tutto era terminato nel giro di pochi attimi.

L’ultimo volo… si era concluso.



    L’amica rimase qualche attimo ad osservare il pegaso.

Icarus divenne triste ma poi, dopo qualche istante, tornò a sorridere.

“E’… è stato bellissimo, Dashie…”.

“Sì”, disse l’altra, “E’ stato… molto bello”.

“Anche se solo per un’ora… questo è stato il regalo più bello che potessi farmi…”.

I due si trovavano sotto un paio di alberi, con le fronde leggermente mosse dal vento del temporale ormai lontano. Dalla collina si godeva di una discreta vista sul paesaggio di Equestria.

Il puledro sospirò.

Rainbow gli sfiorò una spalla: “Mi spiace che tutto sia già finito…”.

“Anche a me. Ma sono contento. Ho potuto realizzare il mio sogno, seppur per poco. Ho potuto inoltre capire che…”.

“Che?...”.

“Che sei una schiappa!!”, esordì, puntandole una zampa contro.

“Ehy!!”, sbottò imbronciata.

“Ah! Devi ammetterlo! Volavo… volavo come un campione! Ho stupito persino me stesso!”.

“E’ vero, Icarus… Sei… sei davvero un campione. Non lo nego. In confronto a te io non sono che una lumaca per davvero…”.

L’altro tornò vagamente serio: “Suvvia, tranquilla… Non potrò di certo portarti via il nome che ti sei creata attorno, ormai…”.

Lo sguardo dell’amica si addolcì: “Saresti stato… un avversario coi fiocchi…”.

Icarus rispose con un sorriso accennato.

“Dai”, tagliò corto Dash, “Meglio se torniamo”.

“Di già?”, chiese dispiaciuto.

L’altra sembrò vagamente a disagio: “Sì… meglio se torniamo… Siamo molto lontani, fa freddo e tua madre non sa che ti ho nuovamente rapito…”.

“Ormai ci sarà abituata…”.

“Un giorno o l’altro mi spiumerà per davvero…”.

“Rainbow Dash: il pegaso senza piume”, la canzonò.

La puledra celeste cercò di allontanarsi: “Su, andiamo…”.

“Ma allora dici sul serio? Dai, restiamo ancora un po’ qui!”.

L’altra parve riluttante: “E a far cosa?...”.

Icarus alzò lo sguardo al cielo nuvoloso: “La luna, vista da terra, è coperta dalle nubi, però…”.

“Ti riferisci a… quella notte?...”.

“Sì… la notte prima della mia partenza… quella tra le nuvole sotto casa mia…”.

“Scusa ma sono stanca… Non ho voglia di portarti oltre quegli ammassi scuri ad osservare la luna…”, mentì.

“Tranquilla… lo so che sei stanca… Per me andrebbe bene anche solo stare un po’ insieme sotto quell’albero…”.

Lo sguardo di Rainbow si fece indeciso.

Icarus abbassò gli occhi: “Sempre che… sempre che ti vada…”, farfugliò.

L’amica gli sorrise: “Ma certo che mi va”.


    I due erano coricati sui rispettivi fianchi, immersi nella tranquillità della notte, con solo il sibilare del vento e il rumore delle foglie a tener loro compagnia.

Dopo un lungo silenzio, Icarus prese la parola: “Sei taciturna Dash. Qualcosa non va?”.

“No”, disse con insicurezza, “Va tutto bene”.

“Sembri nervosa…”.

“Te l’ho detto… sono solo stanca…”.

“E io ti ho detto che non sai mentire…”.

“Icarus…”.

“Va bene, va bene… la smetto di essere logorroico”.

Un colpo di vento più forte spazzò indietro le chiome di entrambi.

“Ora cosa farai?”, gli chiese Dash, “Te ne andrai?...”.

L’altro si intristì: “Che altro potrei fare?... Non posso rimanere lassù… non possiamo più permetterci quella casa…”.

“E… e se rimanessi a Ponyville? O… o magari a Cloudsdale?”.

“Non lo so… sono successe così tante cose… Ed io sono stato così male che… che non sono più riuscito a pensare lucidamente, in questo periodo…”.

“Ti capisco. Era solo per sapere…”.

“Non sei stufa di avermi attorno?”.

“Infatti: te lo chiedevo così da potermi trasferire lontano da te”.

Passarono altri minuti di silenzio e il vento si alzò più forte.

Icarus tremò leggermente e Dash si strinse a lui.

“Sei troppo sdolcinata…”, gli disse l’amico, apprezzando il suo calore.

“Anche io ho freddo, cosa credi?”.

E, in effetti, apprezzava davvero molto quel momento.

Dopo un’ora di volo forsennato, la stanchezza le piombò addosso all’improvviso e la vicinanza dell’amico, il suo tepore, la indusse a rilassarsi oltremisura.

“Questa è un’altra di quelle notti strane…”, commentò Icarus.

“M-mh…”, farfugliò sommessamente Dash, quasi nel dormiveglia. La sua testa ciondolava e oscillava, combattendo contro un sonno dolce e molto invitante.

Le immagini si sfocarono leggermente e le palpebre si fecero pesanti.

Chiuse gli occhi. Forse si addormentò per qualche minuto. Non seppe dirlo.

Fatto sta che, all’improvviso, percepì qualcosa scuoterla.

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Spalancò lentamente gli occhi.

Icarus era accanto a lei, con il volto a metà tra il preoccupato e l’arrabbiato.

Tra le zampe teneva il libro di Twilight.

“Cosa… cosa succede?”, gli domandò, stropicciandosi gli occhi.

“Rainbow…”, dichiarò, con tono lapidario, “Questo libro… sai cos’è?...”.

“E’… è un libro…”.

“Sai di che libro si tratta??”.

“Ma… ma poi cosa fai? Prendi le mie cose?”, domandò innervosita.

L’amico parve stizzirsi: “Sarei un ladro, adesso? Ti sei addormentata e il libro ti è scivolato dalla tasca, così l’ho preso per rimetterlo dentro… Ma poi ho visto meglio la copertina…”.

“E allora?”, gli chiese.

“E allora… lo vedi questo simbolo inciso sopra?”.

La puledra squadrò una strana scritta runica: “Sì. Quindi?”.

“Io non sono un unicorno ma ho una discreta conoscenza di queste cose… Questo è il simbolo del Sacrificet. E’ il marchio che contraddistingue i tomi arcani più potenti e pericolosi che esistano…”.

“Sì…”, commentò la puledra, cercando di alleggerire volontariamente il discorso, “Twilight mi aveva accennato a qualcosa… ma alla fine mi ha rassicurata”.

“Rassicurata??”, sbottò, “Niente di buono può uscire dai Sacrificet!”.

“Stai facendo il melodrammatico”, tagliò corto, strappandogli il libro dalle zampe. Lo rimise nella tasca.

“In quei libri vengono descritti rituali che richiedono spesso e volentieri dei reagenti unici e dedicati…”.

“Sì, lo so”.

“E allora dovresti anche sapere che non ci sono formule gratuite in un Sacrificet!”.

Rainbow si alzò, visibilmente infastidita: “Non so di che parli. Ora andiamo”.

Icarus parve tutto tranne che convinto.

“No”, sbottò.

“Come?”.

“No. Non andiamo da nessuna parte”.

Dash si passò uno zoccolo sul volto: “Ti prego, Icarus… E’ tardi… torniamo a casa…”.

L’amico si alzò a fatica e colpì debolmente il terreno con una zampa: “Ho detto no. Tu non me la conti giusta. So troppo bene quando menti. E, questa volta, la stai sparando proprio grossa”.

Rainbow Dash aggrottò le sopracciglia: “Io non sto facendo proprio un bel niente. Sei tu che stai montando questo teatro pazzesco per una faccenda che vedi solo tu…”.

“Ah, ma davvero? Allora non ti spiacerà se leggo un po’ quello che c’è scritto, vero?”, e, con quelle parole, cercò di trafugarle il libro. L’altra si ritrasse prontamente.

“Perché non vuoi che lo legga, eh?? C’è qualcosa che stai nascondendo?”.

L’amica iniziò a perdere la pazienza: “Non sto nascondendo proprio un bel niente!”.

“E allora perché non me lo fai leggere?”.

“Smettila…”.

“Se vuoi posso anche non leggerlo… ma sappi che non me ne andrò finché non saprò la verità”.

“Non c’è niente da nascondere”, ripeté.

“E allora rimarrò qui”, e posò il sedere per terra, incrociando le zampe anteriori.

Dash stette per esplodere ma poi, improvvisamente, chiuse gli occhi e il suo volto divenne improvvisamente triste.

“Ti prego Icarus… lascia stare. Andiamo”.

“Ho detto di no. O mi trascini con la forza per chilometri o mi lasci qui al freddo e al gelo”.

L’altra sembrò visibilmente sofferente e scosse il capo: “Icarus… te lo chiedo per favore… Se… se davvero provi qualcosa per me… se davvero mi vuoi bene… se davvero tieni a noi… ti prego… andiamo via e basta…”.

Icarus sembrò sul punto di assecondare l’amica, percependo il disagio che provava ma alla fine il suo volto tornò fermo e impassibile. Non voleva assolutamente dargliela vinta.

Dash si sedette, a sguardo basso. Sospirò diverse volte e pensò intensamente per interminabili minuti.

Qualcosa, in lei, parve cambiare.

Raccolse l’aria nei polmoni e rilassò completamente i muscoli del volto.

Una calma improvvisa la pervase per tutto il corpo.

“Va bene”, dichiarò sottovoce, “Come vuoi. Se è questo che desideri… Va bene”.


    Icarus non capì.

L’amica portò il muso verso il proprio collo e afferrò un lembo della mantella.

Tentennò ancora per un istante e poi la slacciò. L’indumento cadde a terra.

Gli occhi di Icarus si spalancarono.

Le pupille si restrinsero e si coprì immediatamente la bocca con zampe tremolanti.

Ciò che vide gli causò, tra tutte le emozioni che mai aveva provato in diciassette anni di vita, la più violenta, travolgente e assolutamente terribile.


    La schiena dell’amica era liscia e levigata.

Non vi era traccia delle ali. Non c’erano segni o cicatrici.

Le sue ali, semplicemente, non c’erano più.

“Dash…”, sussurrò, soffocandosi le parole con le sue stesse zampe, “Dash… cosa… cosa hai fatto??...”.

L’altra si limitò a risponderli con un sorriso dolcissimo.

“Dashie… che hai fatto??”, riprese con foga.

L’amica non si scompose e continuò a sorridergli: “Ho fatto l’unica cosa giusta che mai potessi fare”.

“Ma… ma cosa stai dicendo?? Le tue… le tue ali…”.

Il pegaso ancora non riusciva a crederci e percepì una terrificante sensazione, come se qualcosa di terribile fosse appena successo.

“Ti rendi conto… E’… è questo quello che hai dovuto fare?? E’ stato questo il sacrificio per l’incantesimo??”, le domandò con insistenza, sempre più sofferente e con voce spezzata.

“Sì…”.

“E… lo sapevi? Lo sapeva anche Twilight??”.

“Sì… lo sapevo… Twilight mi ha messa in guardia… mi ha dissuaso in ogni modo possibile… Ma io… io ho voluto farlo. E lei, alla fine, ha accettato la mia scelta. Ha capito perché volessi fare tutto questo”.

La voce dell’amica era calma e dolce, come se ciò che gli stesse dicendo fosse semplice e naturale.

“Ha… ha capito?? Ma… no… non può essere… non puoi averlo fatto sul serio… Dimmi che non l’hai fatto per davvero!!”, aggiunse, scuotendo la testa e percependo le lacrime arrivargli agli occhi.

Rainbow sorrise.

“Cosa hai fatto, Dash… cosa hai fatto?... E’… è momentaneo? Torneranno??”.

L’altra fece un segno di dissenso.

Icarus si agitò enormemente. I suoi polmoni presero a contrarsi ed espandersi a ritmo accelerato. Le lacrime premevano per uscire. La bocca iniziò a tremargli.

“Perché l’hai fatto?? Perché??”.

“Per… per te, Icarus… E per me… per noi…”.

“Per me?? Io non volevo questo! Non volevo che tu rinunciassi alle tue ali per… per regalarmi un’ora di volo! Come… come ti è saltata in mente una cosa del genere?? Io ti sono costato le tue ali!”.

L’amico iniziò quasi ad impanicarsi: “Tu… non è possibile… Hai buttato via le tue ali, il volo, ogni cosa per me!! Non è questo quello che volevo!!”.

“Buttato via?”, domandò perplessa.

“Tutto questo è stato uno sbaglio! Oh santo cielo… non puoi averlo fatto… non puoi…”.

Icarus continuò ad agitarsi in modo incontrollato, quasi sull’orlo della disperazione.

“Non hai più le tue ali… non potrai volare mai più!!”.


    Dash lo abbracciò. Lo strinse a sé con estrema dolcezza.

Portò il suo muso accanto alla guancia dell’amico e gli sussurrò: “Calmati, Icarus. Tu non hai capito niente”.

Una lacrima solcò il voltò del pegaso grigio: “C-come?...”, balbettò osservandola negli occhi.

La puledra dal manto celeste non allontanò per un solo istante il suo sorriso gentile: “Non l’hai ancora capito, Icarus?... TU sei le mie ali…”.

“Cosa?...”, farfugliò incredulo.

Il sorriso si fece più intenso e sincero: “Me ne sono resa conto nelle ultima gare… quando volavo veloce tra le alte quote…”.

“Ma cosa dici?... Tu non potrai più volare! Non volerai mai più!”.

“E allora, stupido pegaso cocciuto, devi spiegarmi perché qui, proprio in questo momento, sul suolo, senza ali… io… io sento come se stessi volando a chilometri da terra… semplicemente stando con te…”.

Icarus impietrì. Non riusciva a credere ad una sola parola.

L’amica continuò: “Sei entrato nella mia vita come un fulmine, Icarus… Hai preso OGNI cosa che davo per scontata, OGNI cosa in cui credevo… e l’hai ribaltata. Mi hai fatto star male e mi hai fatto capire che io… che io non stavo volando. Stavo solo correndo veloce”.

Il puledro strizzò gli occhi e, per la prima volta in tutta la sua vita, Dash lo vide in un pianto liberatorio, con tanto di labbra contratte per la sofferenza.

La compagna mise la fronte contro la sua e gli passò una zampa dietro al collo: “…E quando te ne sei andato… hai lasciato un buco dentro di me… un foro enorme. Una mancanza inspiegabile. E ogni volta che tornavo a volare… io mi sentivo come se avessi avuto un peso attaccato alle zampe. Non riuscivo a capire. Eppure… poi compresi… compresi che solo con te volavo davvero. Con te accanto… Librarsi nel cielo era qualcosa che non poteva nemmeno reggere il confronto con ciò che provavo stando con te…”.

Icarus cercò di parlare tra i singhiozzi: “Io… io non posso credere… che tu… che tu mi voglia tutto questo bene… Non posso credere… di essere così importante per te…”.

“Neanche io ci credevo”, gli disse, facendo ruotare leggermente le fronti tra loro, “Ma poi mi sono resa conto che solo con te potevo volare. E… e vederti nello stato in cui versavi… è stata la cosa peggiore che potesse capitarmi. Non riuscivo più a mangiare, a dormire… Il pensiero di te e della tua tristezza fu così invadente da lasciarmi inerme e senza alcuno stimolo per continuare… così ho compiuto l’unica scelta che potessi mai fare”.

I due si abbracciarono ed Icarus buttò fuori tutte le lacrime che si era portato dentro in diciassette anni di sofferenze.

“Tu sei le mie ali”, ripeté Dash, socchiudendo appena le palpebre, “Tu mi fai volare. Tu mi fai gioire e soffrire. E vederti felice, per quell’unica ora, è stato il regalo più grande che potessi fare a te… e a me… Perché ora siamo io e te, insieme, qui… Ora potremo volare insieme, tutte le volte che vorrai…”.

L’amico parve calmarsi leggermente e si ritrasse, con gli occhi un po’ rossi.

Ci fu una lieve pausa, in cui Icarus sentì il bisogno di riprendersi.

Alzò quindi gli occhi verso il volto della puledra, sempre serena e sorridente.

“Nonostante io abbia perso la mia battaglia… ho forse vino la guerra?”, le disse, con un debole sorriso, “Tutto ciò per cui ho combattuto… è svanito… svanito di colpo… grazie a te… Sei arrivata come un terremoto… Hai distrutto tutto ciò che mi teneva ancorato al terreno…”.

Tirò su col naso e continuò: “Hai visto ciò che c’era in me. Hai saputo guardare oltre… ed ora hai compiuto questo gesto incredibile…”.

“Non so cosa accadrà in futuro”, lo interruppe Dash, “Non so se mai vorrò tornare indietro sulle mie scelte… Ma… qui, ora, in questo preciso istante… questa era l’unica cosa che potessi fare. Ne sono certa. E’ stata la cosa migliore che potessi fare per noi. Perché ora siamo riuniti sotto un’unica condizione. Ora siamo uguali. Ora siamo davvero i due Campioni di Equestria. E non avere dubbi… Non avrei mai più potuto solcare la volta celeste in piena libertà. Non dopo averti conosciuto. Non dopo averti fatto conoscere la mia parte di mondo. Non dopo aver conosciuto la tua parte di mondo… Non dopo aver cavalcato la tempesta con il più grande pegaso mai apparso nel creato…”.

Il puledro non riuscì a trattenere qualche altra lacrima e poi poggiò nuovamente la fronte contro la sua.

Si sorrisero.


    Le nubi si diradarono leggermente. Una luna argentata fece progressivamente capolino tra la coltre violacea.

Il satellite sullo sfondo li incorniciò entrambi, uno di fianco all’altra, sulla collina.

“L’unica cosa che mi spiace”, concluse Dash, “E’ che non potrò più avvolgerti con le mie ali…”.

Icarus si fece pervadere dalla commozione. Dopo un leggero sforzo, spalancò una delle sue ali e la poggiò delicatamente attorno al fianco di Rainbow.

I due si fecero vicini, osservando la luna nel cielo.

“Ora voleremo, Icarus. Gli altri non capiranno. Ci vedranno qui, a terra, segregati dalla gravità… e non capiranno… Non capiranno che, in realtà, noi due staremo volando più in alto di quanto credano”.

Chiusero gli occhi. L’aria sferzò i loro volti sereni… e sentirono le loro anime.

“Sì, voleremo”, continuò l’amico, “Voleremo… ma non con i nostri corpi. Voleremo in un modo che nessun altro pegaso potrà mai fare”.

   



    Le stelle brillarono.

La notte continuò a trascorrere come nulla fosse.

Che si tratti della disgrazia più straziante in assoluto o della gioia più grande che si possa provare… Al mondo non fa alcuna differenza. Le nubi si muovono lentamente lungo la volta oscura. La luna nasce e scompare come di consueto.

Indifferenza?

Menefreghismo?

Crudeltà?

No: la luna dispensa i suoi raggi a chiunque vi capiti sotto. Non distingue, non sceglie, non fa preferenze.

Tutto accade in un modo soltanto, ovvero l’unico fattibile.

E non ci fu più alcun dubbio, in quell’eterno attimo presente, che parve davvero non finire mai.


Perché, in quel momento, tutto era perfetto.

Tutto era come doveva essere.

Non importava cosa sarebbe successo.

Nulla aveva più importanza.

L’unica cosa che aveva senso…

Era una coppia di pegasi.

L’azzurro e il grigio.

Il viola e l’arcobaleno.


I Campioni di Equestria riuniti sotto un unico destino.

Un legame invisibile e indissolubile, perfettamente immortalato nello scorrere di un istante.


Un ultimo volo per suggellare un viaggio a quote ancora più elevate.


*** ***** ***



Mi chiamo Icarus.


Sono uno dei campioni di Equestria.


Sono il vento che si muove senz’ali.


Sono la calma e la tempesta che risiedono sotto i miei sbalzi d’umore.


Sono un’arrogante testa di legno.


Sono tutto ciò che potreste odiare in qualcuno.


Sono l’unico pegaso che non può volare.


Sono colui che ha però imparato che si può volare anche senz’ali.


Ieri c’è stato il mio ultimo volo.


Mi sono librato per l’ultima volta nel cielo, solcando le nubi e tagliandomi il volto con la gelida aria notturna.


Non accadrà mai più.


Ho perso la mia battaglia.


Ho forse vinto la guerra?


Non lo so.


Non volerò mai più nel cielo.


Tutto ciò che sono, tutto ciò per cui ho combattuto… è svanito.


Svanito di colpo, come se un terremoto avesse distrutto ogni mia certezza.


Ora volerò…


Sì, volerò…


Ma non con il mio corpo.


                                                                                                                                                   Volerò in un modo che nessun altro pegaso potrà mai fare.

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Capitolo 13
*** Capitolo Bonus - Vedere col Cuore ***


La puledrina osservò il corridoio, riuscendo a distinguere i lineamenti delle pareti e alcuni disegni confusi lungo di esse. In fondo, poco prima di quella che doveva essere una grossa pianta in vaso, riuscì a scorgere una porta arancione, da cui proveniva un gran baccano.

Uno zoccolo celeste le sfiorò la spalla.

“Su! Avanti, non avere paura”, le disse la maestra, con un dolce sorriso.

La piccola, sulle prime, non parve convinta. Buttò giù un bolo di saliva e poi, dopo un respiro profondo, decise di farsi forza e proseguire.

La coppia si portò all’ingresso e l’insegnante aprì la porta: il baccano, prima mitigato, le investì in pieno.

Urla, grida e schiamazzi intirizzirono le sensibili orecchie della nuova arrivata, che strinse i denti dal fastidio.

“Bambini!... Bambini!!”, ripeté la puledra, cercando di sovrastare il fracasso.

A poco a poco, il silenzio prese il posto del rumore e gli alunni si ricomposero ai propri banchi.

La puledrina ancora non era entrata, aspettando titubante alle spalle della maestra.

“Buongiorno signorina CelestRose”, fece eco la classe, educatamente.

La puledra azzurra sorrise: “Bambini, oggi c’è una sorpresa molto speciale!”.

“Davvero?? Cos’è??”, chiese qualcuno, trepidante.

“Avrete una nuova compagna!”.

Alcuni brusii e chiacchiericci si levarono tra i banchi.

Rose si voltò verso la piccola e cercò di incitarla: “Avanti, vieni a conoscere i tuoi nuovi compagni!”.

“O-ok…”, rispose l’altra, sempre più indecisa.

    Un tremolante zoccolo viola precedette la comparsa di un unicorno alquanto singolare.

Quando i compagni la videro, non riuscirono a trattenere sguardi meravigliati e alcune espressioni perplesse.

Il piccolo pony non aveva una criniera vaporosa… anzi… quasi non aveva criniera: sul suo capo era presente una lieve e fitta peluria a spazzola, come se la chioma le fosse stata rasata e stesse ricrescendo non da molto. E i suoi occhi… erano strani. Non erano colorati come quelli dei suoi coetanei, bensì chiari, quasi lattiginosi.

La puledrina squadrò l’ambiente e riuscì a notare solo un mare di sagome indistinte e sfocate. Abbassò lo sguardo, in evidente imbarazzo.

“Allora, vuoi dirci come ti chiami?”, le domandò Celest, carezzandola sulla groppa.

“Io… io mi chiamo Velvet…”.

L’insegnante alzò il muso verso gli alunni, aspettandosi evidentemente qualche tipo di risposta.

“Ciao Velvet”, dissero alcuni, ancora stupiti dall’aspetto dell’unicorno.

“Velvet è un pony particolare”, continuò la puledra, “Non ci vede molto bene”.

“Perché non ci vede bene?”, domandò un piccolo pegaso, alzando la zampa.

“Ha una malattia molto rara”, rispose, “Ma ora sta facendo delle cure e i suoi genitori vogliono che vada a scuola esattamente come tutti i pony della sua età”.

“Malattia?”, sussurrò una puledrina ad una compagna, “Non sarà mica contagiosa?...”.

Rose non udì il commento ma Velvet, che ormai si affidava principalmente all’udito, sentì quelle parole… parole che non la tirarono certo su di morale.

“Nonostante questa sua caratteristica, confido che saprete trattarla come una vostra nuova amica”.

Un altro pony alzò a sua volta lo zoccolo: “Ma come farà a leggere la lavagna?”.

“Io vi spiegherò le lezioni esattamente come prima e tutti insieme aiuteremo Velvet qualora fosse necessario leggere o apprendere qualcosa di scritto”.

Il brusio riprese. L’unicorno si fece piccolo piccolo.

La campanella segnalò l’inizio delle lezioni.

“Su, puledrina”, le disse l’insegnante, colpendola delicatamente col muso su un fianco, “Prendi posto, ci sono alcuni banchi liberi. Ti serve un aiuto per trovarli?”.

“Oh… oh, no, io riesco a capire quali sono occupati e quali no… non… non si deve preoccupare”.

“Bene. E se c’è qualche problema, non esitare a chiedere, mi raccomando!”.

“Va bene…”, concluse, mostrando un piccolo sorriso.

    Il pony viola non era mai stato a scuola. Non ne aveva mai avuto l’occasione.

La cura l’aveva strappata da una vita normale fin da subito. I suoi banchi di scuola erano i lettini ospedalieri. Le cartelle cliniche i suoi libri. Dottori dai paroloni complicati i suoi insegnanti. E i pazienti i suoi compagni di corso.

Era strano trovarsi lì, seduti, mentre qualcuno parlava di argomenti nuovi e curiosi.

Velvet scrutò i dintorni: sagome scure e indefinite. Una chiazza chiara sulla parete: una finestra.

Fu così per i primi minuti, dopo i quali cercò di concentrarsi sulla spiegazione dell’insegnante.

Ma poi li udì. Subito non ci fece caso ma, successivamente, il suo udito affinato le portò discorsi assai poco piacevoli alle orecchie. Mezze frasi appena sussurrate. Piccoli discorsi sotto il muso.

“Guardala… Dov’è la sua criniera?...”.

“Gli occhi…”.

“Hai visto? Sembra che stia guardando il nulla…”.

“Non è che poi diventiamo così anche noi, se le stiamo vicino?...”.


L’unicorno, per la prima volta in vita sua, smise di sentirsi speciale.

Per la prima volta in vita sua… si sentì semplicemente… sbagliato.


*** ***** ***


    Al suono della seconda campanella, i pony si riversarono nel giardino esterno, per l’intervallo mattutino.

Velvet si mosse lentamente verso l’esterno, non sapendo esattamente cosa avrebbe fatto. La luce del giorno le parve quasi abbagliate, finchè i suoi occhi malati non si abituarono.

E poi… rumori ovunque. I puledrini giocavano, correvano e scherzavano ad ogni angolo del cortile. C’era chi andava sulle altalene, chi si rincorreva semplicemente e chi chiacchierava e basta.

L’unicorno non era abituato a simili situazioni. Raggiunse la sagoma sfocata di un albero e si sedette. Sfilò lo zainetto ed iniziò a mangiare una mela rossa.

Un rumore alle sue spalle attirò la sua attenzione: si voltò e vide la silhouette di un gruppo di compagni, intenti a raggiungerla.

Lei continuò a masticare, in crescente disagio, non sapendo cosa aspettarsi.

“Ehy”, fece uno di loro, “Ti chiami Velvet, giusto?”.

“Sì…”, rispose timidamente.

“Davvero non ci vedi?”.

“Beh… più o meno…”.

Si levarono alcune risate: “Che è successo alla tua chioma?”.

La piccola sentì un fortissimo imbarazzo crescerle dentro e non seppe cosa rispondere: “I-io…”.

Uno dei compagni assunse un’espressione di ripudio. Velvet lo osservò senza accorgersi di tale espressione.

“Ma allora è proprio vero!”, commentò ironicamente il pony, “Ci vedi come mia nonna!”.

Le risate crebbero.

Un altro compagno diede una gomitata all’amico e gli sorrise ammiccando. Si portò quindi di fronte a Velvet e le fece una boccaccia ridicola. L’altra, tuttavia, non ci vedeva bene ma non era di certo stupida.

“Ehy!!”, sbottò l’unicorno viola, “Sono cieca, non scema! Lo so benissimo che mi stai prendendo in giro!”.

Il bulletto si fece spavaldo: “Ah! Lo sai ma non lo vedi!”.

“Dimmi, Velvet”, continuò una smorfiosetta, “Non è che sei contagiosa? Io ho occhi e chioma bellissimi e non voglio certo ridurmi come te…”.

La mela della puledrina, parzialmente mangiata, cadde a terra.

Velvet si rimise lo zaino sulla groppa e si allontanò, dirigendosi verso l’angolo più isolato che sarebbe riuscita a trovare.

Le risate dei compagni alle sue spalle continuarono, finchè il gruppetto non si stancò della scenetta e se ne andò per i fatti propri.


    Ripresero le lezioni e l’unicorno si sedette sconsolato al proprio posto.

Questa volta nessuno fece commenti o disse cattiverie.

“Forse si sono già stancati”, pensò.

Ma quando l’insegnante dovette congedarsi qualche minuto per una questione importante, lasciando gli alunni da soli, il teatrino riprese peggio di prima.

Un tizio si girò verso di lei: “Velvet! Quanti zoccoli sono questi??”, e scoppiò in una ridicola risata.

L’altra cercò di ignorarlo. Parole di scherno si levarono un po’ da tutte le direzioni. Il pony cercò di capire da chi provenissero ma non poteva veder altro se non sagome scure e indistinte.

Alle sue spalle proruppero risate ancora più forti.

Si girò per vedere chi fosse e poi capì: un rumore contro la sedia le fece intuire che qualcuno le aveva attaccato un foglio sulla schiena. Lo strappò con nervosismo e se lo portò al muso… ma non vide altro che una chiazza informe. Un disegno per ridicolizzarla, probabilmente. I suoi occhi, tuttavia, non le permisero di capire di cosa si trattasse.

Una profonda tristezza la colse improvvisamente.

I suoi grossi occhi vitrei si fecero lucidi e il labbro le tremò leggermente.

La maestra rientrò e tutti si ricomposero, come se nulla fosse accaduto.

“Scusate l’assenza, ora riprendiamo…”, annunciò Rose.

Velvet stropicciò il foglio e si passò uno zoccolo al bordo degli occhi.


    Forse era quello ciò che si meritano i pony sbagliati?


*** ***** ***


    Quando tornò a casa, i genitori le chiesero come fosse andata la giornata.

Velvet, sulle prime, non seppe cosa dire e, alla fine, mentì.

Non era mai stata il tipo da lamentarsi. Non le piaceva. Aveva sempre vissuto cercando di focalizzarsi sul lato bello della vita, nonostante i problemi. Eppure, quella volta, non riusciva a vedere nessuno spiraglio di bellezza in ciò che le stava succedendo.

Quando si coricò a letto, quella sera, provò una grossa voglia di piangere. Ma non lo fece e cercò di ragionare. Pensò che, dopotutto, era stato solo il primo giorno di scuola… Aveva sempre sentito dire che il primo giorno è il più difficile, quindi, magari, non sarebbe potuto che migliorare.

Purtroppo, con suo sommo dispiacere, scoprì ben presto che si sbagliava.


    I maltrattamenti continuarono senza diminuire d’intensità.

Dopo alcuni giorni, i compagni ormai le avevano affibbiato dei nomignoli quali “occhimorti” e “spazzolino”, per via dei capelli.

Così, nonostante quel nuovo, straziante modo di vivere la giornata… passò una settimana.

E Velvet non disse mai nulla ai genitori, pensando che avrebbe dato loro solo altri grattacapi cui pensare.


    Durante una notte, la piccola proprio non riusciva a dormire.

Aveva mille pensieri e sensazioni che le scorrevano nella mente e nel cuore.

Alzò la schiena e si mise in posizione seduta.

Emise un profondo sospiro.

Un formicolio si diffuse sulla sua spalla, facendole emettere un piccolo grido.

“Nicodemo!”, disse divertita, “Ti pare questo il modo!”.

Era buio ma, per i due, non faceva molta differenza. I topolini sono animali notturni e Velvet ormai si affidava prevalentemente ad altri sensi.

“Come stai? Hai passato una bella giornata?”.

Il roditore fece battere i denti tra loro.

“Oh, sono felice! Ti porterei con me a scuola ma, anche se sei piccolo, non voglio correr rischi che ti vedano!”.

Il suo sguardo si incupì: “…E… e poi non ti divertiresti granchè… Non c’è molta gente simpatica, lì…”.

La puledrina girò lo sguardo verso la finestra, identificando una sfera luminosa: la luna.

Emise un altro sospiro.

“Sai…”, continuò, con un filo di voce, “Ogni tanto… mi chiedo perché mi stia accadendo tutto questo… cosa ci sto guadagnando… se sto migliorando in qualcosa…”.

Poi, all’improvviso, le venne in mente un pensiero che le fece drizzare le orecchie: si voltò di scatto, quasi catapultando Nicodemo giù dal letto. A tastoni, trovò il cassetto del comodino, lo aprì e prese un piccolo oggetto. Lo portò a sé e lo strofinò.

Il monile si illuminò debolmente e l’espressione della puledrina si accese di gioia, insieme a lui.

Ma la gioia durò poco.

Prima lentamente, poi con maggior intensità, un pianto intrattenibile fuoriuscì con intensità.

Le labbra di Velvet si contrassero e i suoi occhi bianchi iniziarono a versare lacrime.

Nicodemo le le mise una zampetta sul fianco e la osservò con volto leggermente inclinato.

La piccola strinse con forza la pietra al petto.

“Icarus…”, farfugliò tra i singhiozzi, “Icarus, mi manchi da morire… Non… non pensavo l’avrei mai detto… Mi… mi manca l’ospedale… Mi manca Chestnut… mi manca persino quell’antipatico del primario… Mi manca Crumple… mi manca quel pegaso blu che può far piovere a comando… Ma più di tutti… mi manchi tu… l’uccisore di draghi… il pegaso che non può volare…”.

Le lacrime caddero sulla pietra.

Il pianto liberatorio continuò ancora per alcuni minuti e, dopo un po’, Velvet parve calmarsi.

    Un forte senso di struggimento e malinconia permeavano ogni centimetro della sua anima. Il pelo attorno alle guance era arruffato e umido. Qualche singhiozzo la scuoteva ancora, di tanto in tanto. Il monile era di fianco a lei, tra le pieghe delle coperte. In grembo teneva il piccolo Nicodemo, accoccolato e dormiente.

Poggiò la testa sul cuscino, esausta, svuotata dall’interno.

Chiuse gli occhi.


*** ***** ***


    Un odore pungente la destò all’improvviso.

Alzò il capo dal letto e si guardò attorno. Era buio pesto.

E l’odore… disinfettante?

Cercò la pietra a tentoni ma sentì solo le lenzuola.

“Nicodemo?...”, domandò, un po’ preoccupata. Non accadde nulla.

Qualcosa non andava. Non solo l’odore era diverso ma la sensazione era di non trovarsi più nella sua cameretta. E Velvet, di sensazioni, se ne intendeva abbastanza.

Quando iniziò a preoccuparsi seriamente, percepì qualcosa di strano e vagamente famigliare.

C’era qualcosa vicino a lei… Di nuovo una sensazione? Forse sì. Cos’era?…

Cercò di calmarsi e di fare ordine dentro di sé.

Allungò le zampe nel vuoto, fino a toccare il corpo di qualcuno.

Ritrasse prontamente gli zoccoli, spaventata… Ma poi qualcosa la spinse a riprovare e a mantenere la calma.

Il tatto fu la sua vista: un… un collo.

Salì: un volto. Delle labbra un po’ imbronciate.

Icaurs?? Poteva essere?...

No, aspetta… Barba un po’ pungente, delle rughe…

La puledrina spalancò le fauci: “C-Crumple??...”.

“Ciao, piccola”, disse la figura, con voce da anziano.

“Crumple?? Sei… sei davvero tu?”.

Il viso annuì.

“Sei tornato!!”, dichiarò trepidante.

“Sì, Velvet. Sono tornato”.

“Eri andato via con l’incantesimo!! Ora sei tornato!”.

L’altro ridacchiò e le afferrò le zampe: “Sì, sì… sono tornato!”.

“Oh, Crumple”, ammise con sincerità, “E’ vero che eri solo un vecchio brontolone in fondo alla stanza… ma mi sei mancato tantissimissimo… Mi è mancata la tua presenza… il tuo borbottare… Mi piaceva addormentarmi sapendo che tu eri in camera con me…”.

“Mi fa molto piacere sapere che tieni a me…”.

“Dove sei stato fino ad ora??”, domandò con curiosità.

“Ohh! In un posto lontano. Un posto che si può raggiungere solo con gli incantesimi!”.

“Ma io sono un unicorno! Posso sollevare tonnellate di torta, se solo volessi!”.

“Ah! La torta! Mi ricordo ancora quella crostata all’istituto… E quell’antipatico del pegaso grigio che me l’ha messa così lontano…”.

“Non parlare male di Icarus!!”, disse lei, con le guance gonfie di rabbia, tempestandolo di pugni sul petto.

“Ahia! Non voglio parlarne male! Ma ora voglio sapere di te. Come stai?”.

La puledrina si calmò e la tristezza si fece di nuovo strada dentro di lei: “Oh, io… io sto bene, grazie…”.

“Mhh… Non me la conti giusta…”.

“No… davvero… I medicinali che prendo non fanno peggiorare la vista e…”.

“E…?”.

“Niente… vado a scuola e tutto il resto”, concluse mollemente.

“Tutto il resto? Tutto il resto, cosa?”.

Velvet sbuffò sconsolata: “I miei compagni… Mi prendono in giro…”.

Crumlpe parve trasalire: “Oh! E perché mai??”.

“Perché sono… sbagliata”.

“Cosacosacosa? Ma che stai dicendo?”.

L’unicorno si stizzì leggermente: “Sì! Mi prendono in giro per la criniera rasata e per i miei occhi!”.

“Suvvia! La criniera ricrescerà e cos’hanno di brutto i tuoi occhi?”.

“Smettila! Sai benissimo di cosa parlo! Non fare finta di niente!”.

La zampa del vecchio sfiorò il musetto della puledrina: “No, davvero Velvet… Cos’hanno i tuoi occhi? Hai dei bellissimi occhi, grandi e simili all’avorio…”.

“Non ti credo…”, sussurrò.

“E a cosa credi?”, gli domandò maliziosamente.

“Cioè? Non ho capito, Crumple…”.

“Proprio tu dovresti capire cosa è giusto vedere e cosa è giusto credere!”.

La piccola mise le zampe conserte: “Continuo a non capirti, nonno!”.

“Velvet! Hai un dono bellissimo!”.

“Un dono?? Ma che stai dicendo? Questo… questo non è…”.

La zampa di Crumple la colpì delicatamente al petto: “Sì, Velvet! Tu hai un dono! Gli altri sono obbligati a vedere le cose con i loro occhi! Sono portati a fermarsi d’innanzi le apparenze, a bloccarsi di fronte ad un muro. Ma tu no! Tu puoi andare oltre! Tu non sei vincolata dall’aspetto, dall’apparenza o dall’immagine!”.

“Sì… ma…”.

“Ascolta, piccola mia, tu sei speciale. Non dimenticarlo mai. Ci sono pegasi che non possono volare eppure ci riescono lo stesso. Ci sono oggetti inanimati che possono quasi sembrare vivi. E ci sono piccoli unicorni che possono vedere attraverso il cuore”.

Velvet ci pensò un attimo, scettica.

Crumple riprese la parola: “…Oltre che poter sollevare tonnellate di crostata!”.

L’altra sorrise, poi aggiunse: “Non lo so… non è così semplice…”.

“Hai perfettamente ragione, piccola. Non è semplice. Ma tu hai quel sole che arde… quel sole che ho visto anche in Icarus… Hai un fuoco che non distrugge ma che crea e dispensa i suoi raggi come un regalo. Tu potrai vedere oltre… la tua sensibilità ti porterà a soffrire, questo è vero… Ed è il prezzo da pagare per essere speciali… per essere come coloro che possono DAVVERO migliorare questo mondo”.

“Tu… tu pensi questo di me?...”.

“Non ho dubbi“, gli disse con commozione, sfiorandole la fronte.

“Io sono speciale…”, ripetè Velvet.

“Ascolta… io… io ora devo andare…”.

“Di nuovo?”, chiese l’altra, leggermente triste.

“Sì…”.

“Devi proprio?...”.

“Sì, soldo di cacio. Devo proprio”.

“Oh beh… allora… E’ stato un piacere incontrarti di nuovo, Crumple”.

“Anche per me…”, rispose, cingendola in un abbraccio.

“Tornerai di nuovo?”.

“Chi lo sa?”, ridacchiò l’anziano, “Tutto può essere. E non dimenticarti mai: tutti vedranno attraverso i loro occhi. Solo tu riuscirai a vedere col cuore…”.

Con quelle parole, colpì gli zoccoli tra loro.

Velvet si destò all’improvviso.


    Si osservò attorno: si trovava nella propria cameretta.

Nicodemo dormiva sul suo ventre e la pietra brillava ad un angolo delle coperte.

Era tutto come lo aveva lasciato prima di chiudere gli occhi.

“Un… un sogno?”, pensò.

Le ci vollero parecchi minuti prima di riuscire a riprendere sonno. Era parecchio confusa e non sapeva bene a cosa pensare. Decise così di chiudere semplicemente le palpebre e lasciare che la stanchezza facesse il resto.


    Accanto a lei, in un angolo oscuro, la voce di un anziano si rivolse ad una presenza misteriosa.

“Grazie, spirito…”.

“Dovere”, rispose l’altro, anticipando una risata un po’ inquietante.


*** ***** ***


    Il giorno dopo, Velvet si recò a scuola dopo il breve week-end.

Il pony si incamminò tristemente verso la porta della classe, con lo zainetto sulle spalle, pronta ad un’altra giornata di scherzi fastidiosi.

Quando si presentò, i commenti non tardarono ad arrivare, ma Velvet aveva ormai imparato a presentarsi a lezione giusto qualche attimo prima dell’arrivo della maestra, proprio per offrirsi il meno possibile agli scherzi dei bulli.

La spiegazione iniziò come di consueto ma l’unicorno non riusciva a concentrarsi: si portò la guancia su uno zoccolo e prese a pensare al “sogno” su Crumple.

Dopo mezzoretta, la maestra dovette nuovamente assentarsi qualche istante. Il pony viola sospirò, pronta ad una nuova dose di male parole.

I compagni iniziarono a deriderla ma poi…

Poi qualcosa in lei scattò.

Le parole di Crumple le tornarono improvvisamente in testa: “Tutti vedranno attraverso i loro occhi. Solo tu riuscirai a vedere col cuore”.

La piccola si guardò attorno.

Le sagome dei compagni.

Le pareti indistinte.

La chiazza luminosa della finestra.

E poi…

“Ehy, Velvet!”, disse una sagoma più grossa delle altre, con voce nasale, “Ti ricrescerà mai la criniera??”.

Una voce nasale, come se avesse la sinusite… e quella silhouette così abbondante.

E così, senza nemmeno pensarci, l’immagine di un drago sovrappeso con la sinusite apparve al posto del pony, quasi come se lo avesse d’innanzi a sé.

Velvet sgranò gli occhi e cercò di trattenere una risata per l’immagine ridicola che aveva di fronte.

“No, no!”, fece un altro, “Sennò non sarebbe più uno spazzolino!”.

La puledrina si girò e vide la sagoma di uno spilungone… subito sostituita da una pannocchia parlante (con tanto di gambo lungo e sottile!).

Rise.

Gli alunni iniziarono a guardarsi tra loro con perplessità.

Velvet non capiva ma iniziava davvero a divertirsi.

Così provò: osservò la stanza sfocata.

Chiuse gli occhi. E li riaprì.

    La stanza non era più fredda e indefinita ma colorata e viva.

I suoi compagni erano tra le creature più strane e buffe che mai avesse visto. Alcune le ricordavano i grotteschi disegni che aveva osservato alcune volte nei suoi fumetti. C’erano mille finestre, da cui provenivano paesaggi assolutamente unici e fantastici.

Un paio di uccellini cinguettarono sul davanzale. Voltò il capo verso di loro, prima che volassero via, e vide due stupende fenici simili ad oro fuso.

La lavagna era un gigantesco fumetto delle avventure di Daring Do, che tanto le piacevano.

La cattedra un trono.

I banchi dei barili (ovviamente alcuni compagni erano dei pirati!).

E Velvet… Velvet rise. Rise sempre più forte, senza riuscire a contenersi.

Tutti ammutolirono.

“E’ pazza”, dichiarò la pannocchia.

Il drago sovrappeso emise una fiammella dalle narici, non riuscendo a disincastrarsi dal proprio posto, per via della pancia: “Ehy, ci sei o ci fai?”.

Un pony pirata sputò del tabacco per terra e le agitò una spada contro (in realtà era una matita): “Tu sei più fuori di un balcone”.

Velvet non si scompose e continuò a sorridere: “Oh sì! Yarhhh!! Ma la prego, non mi getti agli squali!”, lo schernì.

Quando l’insegnante tornò, l’unicorno dovette fare appello alla propria forza di volontà, per non continuare a spanciarsi… specialmente quando una rosa azzurra parlante disse: “Allora… continuiamo la lezione sulla botanica?”.


-Epilogo-


    La mattina era terminata.

I puledri sciamavano fuori dalla scuola, tra mille schiamazzi.

Velvet uscì con il sorriso sulle labbra e osservò il mondo… un mondo strano e cangiante, che si arricchiva di particolare buffi e assurdi ad ogni passo che compiva.

Alcuni compagni le passarono accanto. Fecero giusto qualche commento sarcastico ma poi presero subito le distanze, come intimoriti da quel sorriso sincero ormai perennemente scolpito sul muso del pony viola.

La puledrina si incamminò verso casa ma una giovanissima voce femminile, che non aveva mai sentito, si palesò vicino a lei.

“Ehm… ciao…”.

L’unicorno si voltò ma, stranamente, questa volta vide la canonica chiazza sfocata. Non ne capì il motivo ma non ci fece molto caso.

“Ciao”.

“Io… io mi chiamo Midnight”.

“Io sono…”.

“Velvet… ti chiami Velvet”.

La piccola storse il capo: “Ma… ci conosciamo? Non ti ho mai sentita, prima d’ora…”.

“Io… io sono in classe con te…”.

“Davvero??”, chiese stupita.

“Sì… Solo che… Non ti ho mai parlato… E non ho mai… insomma non ti ho mai presa in giro”.

L’altra parve rallegrarsi: “Ah! Ecco perché! Io non vedo molto bene… così posso distinguervi solo toccandovi o in base alla voce!”.

“Sì… sì, io… lo immaginavo”.

“Che hai? Sembri a disagio?”, domandò curiosa.

“No… è che… Ti ho vista ridere tantissimo, oggi… e anche ora mi sembri allegra…”.

Velvet ammiccò con gli occhi vitrei, sperando di azzeccare la giusta direzione: “Questo perché… sono speciale!!”.

“Davvero?”.

“Sì! Io non vedo! Io… sento!”.

L’altra parve sentirsi risollevata: “Sono contenta, allora…”.

“Come mai ti fischia la esse?”, domandò, senza tanti complimenti.

“Uuhhh… E’ che porto l’apparecchio”.

“Apparecchio?”.

“Sì… E’ una cosa… una cosa di metallo che metto sui denti… Perché sennò crescono storti”.

“Oohhh… Capisco. Ma perché sei contenta che io non veda ma senta?”.

La compagna sembrò di nuovo a disagio e prese a comporre dei cerchi sul terreno con gli zoccoli: “Ehm… Ecco… io… la verità è che non ho mai parlato perché… Ecco… io sono brutta…”.

“Sei brutta?”.

“Sì… mi prendevano sempre in giro… Poi, quando sei arrivata tu… hanno iniziato a prendere in giro te e a lasciarmi stare… Così non ho mai più detto nulla, per paura che tornassero a perseguitarmi… Mi… mi dispiace tanto, Velvet. E’ stata una cosa orribile da parte mia…”.

L’unicorno si fece pensieroso e poi iniziò a camminare attorno a lei, con volto solenne: “Sì. E’ stata proprio una cosa orribile”, disse con tono lapidario.

“Cos… cioè… io…”, farfugliò l’altra.

Il pony viola le sorrise: “Hai fatto una cosa orribile a non dirmelo subito!”, e le diede un colpetto sulla spalla. Midnight rimase un po’ spiazzata ma poi si fece contagiare dalla sua allegria e ricambiò l’espressione di gioia.

“Però questa esse che fischia è strana… Non è che puoi… toglierti l’apparecchio, solo per un attimo?”.

“Oh! L’apparecchio?... Sì… posso toglierlo un attimo, se vuoi…”.

“Solo se non ti crea problemi… vorrei sentire la tua vera voce. Sai: è il modo principale che ho per capire cosa ho attorno a me!”.

La puledrina sganciò l’oggetto dai denti, prese fiato e poi dichiarò: “Tanto non fa molta differenza… con o senza apparecchio rimango comunque brutta”.

La voce dell’amica, non più mascherata dall’apparecchio, giunse alle orecchie di Velvet come una melodia stupenda. E tanto bastò.

L’unicorno sbatté le palpebre e, al posto dell’immagine di Midnight, comparve un piccolo, stupendo alicorno blu dal sorriso d’argento.

“Beh? Ora fa differenza?...”, domandò l’alicorno, bello tanto quanto la tonalità della sua voce.

La puledrina viola spalancò la bocca: “Sei… sei bellissima, Midnight…”.

“Cosa? Ma che stai dicendo?”.

“Sei la creatura più bella che abbia mai sentito dentro di me in vita mia…”, ammise con sincerità.

L’altra non disse nulla e, dopo un po’, tirò su col naso, commossa.

“Senti”, buttò lì Midnight, “Che ne dici se… Insomma… ti andrebbe se ci accompagnassimo per il tragitto fino a casa?...”.

Velvet sorrise: “Ma certo”.


    L’unicorno viola e l’alicorno blu iniziarono a muoversi nel il viale alberato che conduceva alle loro abitazioni.

Ogni passo del pony dagli occhi vitrei era una nuova avventura fantasiosa, che veniva prontamente raccontata all’amica. Midnight non potè far altro che ascoltare assorta le stupende cose che l’altra riusciva a scorgere, commentando con la propria voce meravigliosa tutto ciò che le veniva detto.

“Sai, Midnight?”, affermò la puledrina ad un certo punto, “Ormai ho capito che io incontro solo gente speciale”.

“Ah sì?”.

“Sì. Io conosco un topo invisibile. Un vecchio che vola, che va e viene come gli pare. Un pegaso dalla chioma colorata che fa esplodere i temporali a comando. Un alicorno dalla splendida voce. E… e un pegaso che può volare anche senz’ali”.

“Uao. Sembrano davvero tutti speciali…”.


“Sì…”, ammise commossa, “Sì, lo sono”.

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Capitolo 14
*** Capitolo Bonus - Dopo la Pioggia ***


Un azzurro intenso. Carico. Profondo.

Un sole radioso.

Una distesa sconfinata di nubi, bianche come l’avorio: assembramenti più o meno omogenei, in grado di suscitare la fantasia dei sognatori che vi avessero rivolto lo sguardo, che si fossero sforzati di levare il capo al cielo.

Ma quella non era l’usanza tipica di coloro nati per solcare i cieli.

Quando un pegaso punta gli occhi in alto, è abituato a vedere soltanto la volta celeste, completamente sgombra da ostacoli. Perché le nubi, tipicamente, si trovano al di sotto delle rispettive zampe. Per loro il mondo si divide in almeno tre livelli. In basso vi è la terra: l’approdo sicuro di qualsiasi asso del volo affaticato. Più in alto le distese nebulose, su cui edificavano con maestria le loro strutture composte di spumose particelle d’acqua.

E poi, ancora più in alto… il vuoto.

La libertà più assoluta.

Infinite possibilità di navigare per le correnti ascensionali o planare nelle sacche di bonaccia. Il luogo dove ogni pegaso poteva dare il meglio di sé ed esprimere la propria vera natura.

Ogni pegaso è nato per volare.


Alcuni, tuttavia, erano in grado di volare in un modo inimitabile.

Alcuni… potevano farlo senza nemmeno spalancare le ali.


*** ***** ***


    Cirrus High 4000. Uno dei prodigi arcani meglio riusciti dalla collaborazione tra unicorni e pegasi.

All’inizio era solo un prototipo ideato per dimostrare come fosse possibile mantenere vivo un cirro anche a basse altitudini. Poi, un giorno, un pegaso bianco di nome Daedalus sovvenzionò il progetto e permise la produzione di alcuni costosissimi esemplari.

I risultati furono dei grossi batuffoli vaporosi, in parte simili alla nebbia, soffici e facili da trasportare. Non andavano maltrattati troppo: nonostante la stabilità arcana donata da alcuni incantesimi, potevano comunque risentire di urti e velocità troppo elevate.

Quello non era tuttavia il caso di Icarus, un pegaso che sarebbe riuscito a maltrattarle al massimo a suon di parolacce (cosa che aveva già fatto in passato).

Due zampe gialle puntellavano un lato del curioso velivolo, mentre un paio d’ali paglierine sbatteva lentamente, creando un movimento dolce e costante.

Così anche Icarus poteva muoversi nell’azzurro intenso… carico… profondo… con un sole radioso su di sé… e una distesa sconfinata di nubi al di sotto, bianche come l’avorio.

Il luogo ideato solamente per i pegasi di Equestria.

“Vuoi farmi credere”, domandò il pony grigio, “Che non sei mai giunta a queste altitudini?”.

Fluttershy si imbarazzò leggermente: “Ehm… più o meno…. Cioè… io… non… non ho mai volato molto in vita mia…”.

“Nemmeno io”, gli rispose sorridendo.

“Oh!”, farfugliò, bloccandosi all’improvviso, “Io non volevo insinuare… che… insomma…”.

L’amico gli lanciò un altro sorriso: “Ormai ti conosco… e anche tu dovresti conoscermi. Sappiamo tutti come sono andate le cose”.

“Sì… ma…”.

“Una volta mi sarei arrabbiato… lo sai meglio di me… ma ora ho capito… che esistono mille modi per volare… anche per un pegaso…”.

L’altra si grattò la chioma, fluttuando accanto a lui, entrambi sospesi nell’immensità del cielo.

“Lo so… è che… ho sempre avuto… paura… E poi da piccola… c’erano delle volte in cui… in cui…”.

Icarus capì perfettamente cosa cercasse di dire… perché, anche se in modi diversi, avevano entrambi dovuto affrontare una derisione legata agli organi piumati sulle rispettive schiene.

“Fluttershy…”, la interruppe con gentilezza, mettendole una zampa sulla spalla, “Il passato è passato… e se ti ho chiesto di portarmi qui, prima di andare a Ponyville… era perché… perché volevo vedere… questo…”.

Con quelle parole, il pegaso dalla chioma viola le indicò lo spazio sotto di loro. La coppia rimase in silenzio, leggermente lambita dal vento, a bearsi di un paesaggio degno di un pittore abilissimo e un po’ visionario.

Una distesa celeste.

Le nubi, arzigogolate tra di loro, fondendosi in mille tonalità lucenti, assieme alle calde tonalità dorate dei riflessi solari.

Le montagne lontane, ricoperte da pinete infinite, di un verde scuro… scurissimo.

E poi… le colline tempestate di meleti dormienti, in grado di donare trame ramate all’intera distesa coltivata.

Infine, appena visibile da uno spiraglio tra le nubi, una macchiolina colorata. Ponyville. La loro destinazione.

Non era la prima volta che Fluttershy vedeva il paesaggio in quel modo.

Ma in quell’istante… fu diverso. Fu come se lo avesse scorto nuovamente dopo tanto tempo. Come quando si torna in un posto affogato nel passato, per motivi poco piacevoli, che si rivelava invece qualcosa di… sorprendente.

L’amico fece un profondo respiro. Chiuse gli occhi.

Il pony paglierino notò come, sul suo volto, si stesse formando un’espressione a metà tra la beatitudine e una certa sofferenza.

“Ti spiace… reggermi questo un attimo?”, le chiese, senza scomporsi.

Fluttershy annuì, subito prima che Icarus si sganciasse la cintura sul fianco. La afferrò delicatamente tra gli zoccoli e poi si fece indietro.

Il vento si levò, leggermente più forte.

Con molta meno fatica rispetto alla prima volta… il pegaso dagli occhi viola… spalancò le ali.

Sentì l’aria scorrergli sul viso e tra le piume. Qualcuna volò via, inquadrata per un istante dall’attenzione del pony giallo, visibilmente stupito dalla bellezza che stava mostrando Icarus in quell’istante.

Il pegaso riaprì gli occhi, osservando il paesaggio di fronte e sé come se appartenesse a lui.

Come se quello fosse davvero il luogo in cui ogni pegaso avrebbe espresso il meglio di sé.


Il posto dove la sua vita, in un modo o nell’altro, era cambiata per sempre.


*** ***** ***


    Otto zampe, ovvero otto rumorosissimi zoccoli, scalpitavano invece a terra, molto più lontani rispetto alla coppia di pegasi nel cielo.

Due puledre correvano con affanno, lasciando però trasparire il divertimento sui rispettivi visi sudati.

Applejack era in testa e galoppava come una scheggia, sollevando polvere, balzando sopra gli ostacoli del percorso e mantenendo la giusta traiettoria.

Rainbow era ad appena un paio di metri da lei, altrettanto concentrata sul percorso.

Da una staccionata accanto, una puledrina dal fiocco rosso esplose in un grido di incitamento: “Forza sorellona!!”.

“E’ inutile, Dash!!”, affermò il pony dagli occhi verdi, con un incontenibile fiatone, “Non mi supereresti manco se andassi all’indietro!!”.

La puledra blu sfoderò il tipico sguardo di sfida: “Ah, sì??”, e spinse i muscoli oltre i propri limiti, proprio come aveva fatto in passato con le ali. Il dolore, tuttavia, rimaneva lo stesso… un dolore che conosceva bene, sintomo che le giunture facevano male e la fatica sarebbe presto arrivata per frenarla.

Ma, per lei, volare o galoppare… non faceva differenza. A quel punto... si trattava, oltre che di vincere, di spingersi oltre i limiti. Di rompere le barriere.

Applejack, basita, vide il corpo dell’amica affiancarsi al proprio: aveva recuperato inspiegabilmente.

“Noo! AJ!! Corri più forte!!”, strillò Applebloom.

Rainbow chiuse gli occhi per lo sforzo, investendo ogni grammo di energia rimasta in quell’ultimo slancio finale. Si fece rapire dalla situazione così tanto che, quando superò il traguardo, una spanna davanti all’amica arancione, perse l’attrito sul terriccio e franò a terra, rotolando più volte nella polvere.

Applejack cercò di evitarla ma la investì in pieno, ruzzolando assieme a lei.

La sorella minore si coprì il muso dalla paura, scorgendo soltanto un nuvolone vermiglio in cui le due erano scomparse.

La coltre fumosa si dipanò gradualmente.

Il pony dai crine dorati aveva perso il cappello. Tossiva e capì di essere distesa sul Rainbow.

“D-Dash?? Stai… stai bene??”, chiese preoccupata.

Ma l’amica… non solo stava bene… ma rideva anche come una matta, completamente sporca di terra.

“E’… è stato… fenomenale!!”, sbottò divertita.

“Uff…”, sospirò l’altra, risollevata, “Meno male…”.

“Ehy!”, la derise, “Ti ho tirato giù un capanno, una volta, a suon di craniate! Hai paura che un ruzzolone mi possa far male?”.

La coppia si rialzò. Dash afferrò la tesa del cappello coi denti, togliendolo da terra e mettendolo sulla fronte dell’altra.

“Sarò iperprotettiva, che devo dirti?”, commentò Applejack sorridendo, sistemandosi inoltre il copricapo come meglio preferiva.

Applebloom giunse sconsolata: “Naa… hai perso…”.

La sorella le scompigliò un po’ la criniera: “E’ vero! Ho perso! Nessuno può battere Dashie!”.

“Ah! No! Nel modo più assoluto!”, rafforzò l’ex pegaso.

“Che si tratti di volare, come di galoppare… Rainbow Dash rimane sempre la migliore…”, concluse il pony arancione.

“…Già…”, rispose la puledra, perdendo parte dell’entusiasmo.

L’amica pensò di aver detto qualcosa di troppo: “Ah… sì, insomma…”.

“Tranquilla, AJ”, la rassicurò.

Applejack abbassò lo sguardo, attraversando un breve momento di silenzio.

Diede quindi una pacca sul sedere alla sorellina: “Su! Per oggi non faremo più gare! Torna ad aiutare la nonna con le conserve!”.

“Uffaaa… va bene…”, bofonchiò, un po’ delusa, sperando che avrebbe visto ancora un paio di corse.

    L’attenzione del pony dagli occhi verdi tornò sull’amica, constatando come si fosse girata e stesse osservando il cielo.

Aveva forse detto davvero qualcosa di troppo?

“Ehm… RD…”, si intromise. L’altra non rispose.

“Dash?...”.

“Sì?”, domandò, continuando a scrutare le nubi.

“E’ per… per quello che ho detto?”.

“Detto cosa?”, chiese.

“Sì… insomma… il volo?”.

“Il volo?”, le domandò, tornando a guardarla, “Oh no, non centra quello che hai detto…”.

“Davvero?...”, dichiarò, scettica, “E’ che… ti sei piantata lì a guardare in alto… e allora… io…”.

La puledra dalla chioma arcobaleno sorrise.

“Ogni tanto…”, ammise con melanconia, “Ammetto che… che sento l’impulso… insomma… la mancanza del volo…”.

“…Mi stupirei del contrario, Dashie… E poi… è tutto successo neanche due settimane fa…”.

“Già…”.

Applejack cercò di ravvivare un po’ la situazione: “Però mi fa piacere vedere che ti tieni in allenamento! Continua così e, alla prossima corsa per l’autunno, straccerai tutti quanti!”.

“Perlomeno”, commentò con decisione, “Non lascerò più che una cervellona dal manto viola arrivi davanti a me!”.

“Ah!”, rise, “Quella me l’ero quasi scordata! Che vergogna!”.

“Infatti!”, riprese, tornando poi ad incupirsi, “Certe volte… il passato viene dimenticato…”.

L’altra percepì il senso di tristezza nel cuore del pony blu.

“Stai… stai ripensando alla tua… insomma… alla tua… decisione?”, butto lì.

“Ogni… ogni tanto ci penso, sì…”.

La puledra col cappello valutò attentamente se fosse il caso di pronunciare quelle parole: “…E… sei ancora… ancora convinta… di quello che hai fatto?”.

Rainbow le puntò lo sguardo dritto negli occhi e, senza esitazione, dichiarò: “Sì. Nonostante i problemi che sono sorti e sorgeranno ancora… sì”.

“Sono… contenta di sentirlo. E Icarus… Icarus come l’ha presa? Un gesto del genere lascerebbe chiunque spiazzato…”.

Dash ci pensò un attimo, come se dovesse riportare alla memoria alcune vicende poco piacevoli e poi, facendosi scudo di una mezza verità, le rispose: “Icarus… l’ha presa bene, direi”.


*** ***** ***


    Lo zoccolo del pegaso grigio si posò a terra, permettendogli così di abbandonare il proprio mezzo incantato. Fluttershy ed Icarus si trovavano poco distanti da un piccolo edificio sfarzoso, adorno di abbellimenti e ampie vetrate per l’esposizione: la Carousel Boutique.

“Grazie per il passaggio, Flutter”.

“Oh… figurati”.

Il puledro scrutò l’entrata della costruzione, percependo un certo sgomento salirgli alla bocca dello stomaco.

“Uff… ci siamo”, sbuffò.

“Vuoi che… venga anche io?”, chiese l’altra gentilmente.

“Fossi matto! Lì dentro avvengono cose terribili! Torture disdicevoli che lascerebbero atterrito persino il più valoroso dei pony d’Equestria! Lame! Rasoi! Spilli grossi così!”.

Ad ogni parola, il pegaso paglierino si arricchì di apprensione e vero terrore, nascondendosi sempre di più sotto la chioma.

“…E poi ti gettano addosso una sostanza dall’odore pungente, ti sollevano i crine e… ZAC!!”.

Solo in quel momento Icarus si accorse come Fluttershy fosse riversa a terra, con le zampe sul capo.

“Uuh… Flutter?”, chiese titubante, “Tutto… tutto bene?”.

“…i”, rispose l’altra, con un filo di voce.

“Io… allora vado…”.

“M-m-ma…”, balbettò, sperando si fermasse.

La porta della boutique si spalancò. Il pegaso fece un respiro profondo, chiuse gli occhi e varcò la soglia. Si sporse poi un’ultima volta, rivolgendosi alla puledra.

“Se non dovessi più uscire…”, dichiarò con aria solenne, prima che due zampe bianche gli cingessero le spalle, pronte a risucchiarlo all’interno, “…Lascio a te la mia collezione di cirri…”.

Una risata femminile anticipò il suo rapimento.

Quando la porta si richiuse rumorosamente, Fluttershy non resse oltre e volò via, strillando ad ultrasuoni.


    Un nuovo e rinnovato Icarus si incamminò successivamente per le strade di Ponyville.

Rarity (la sapiente stilista Rarity) era riuscita nuovamente a sistemarlo a dovere: nuova acconciatura, nuovi colpi di sole, cintura con l’iniziale del pegaso incisa sopra e… una cosa che non aveva mai visto. L’unicorno bianco gli aveva disteso ogni piuma e poi ne aveva intinto le sommità in un colorante viola per acconciature. Nonostante fosse inizialmente scettico, dovette ammettere che, con quelle belle striature lungo i fianchi, si sentiva decisamente a suo agio. Sfarzoso ma non troppo. Beh, forse un pochino sì.

Ma: “Al diavolo! Si vive una volta sola!!”, aveva dichiarato, ammiccando allo specchio.

    Mentre passeggiava per la cittadina, con passo lento e costante, notò con perplessità come gli abitanti lo salutassero cortesemente. Lo chiamavano addirittura per nome!

Nonostante fosse nuovo, da quelle parti, quanto successo con Dash non era… beh, non era una cosa che passasse inosservata. Sulle prime… pensò che lo avrebbero etichettato come una calamità ambulante. Non sapeva se Rainbow avesse parlato loro, spiegando come fossero andate le cose… Ma era di certo il benvenuto. Su quello non vi era alcun dubbio.

Era passato dall’essere deriso ed evitato da tutti… ad essere accolto col sorriso e trattato quasi come un pony normale. Quasi… perché molti ancora gli puntavano gli occhi addosso. Non lo facevano apposta e una volta avrebbe sbottato come il canonico cane dalla coda calpestata. Ma… quello era il passato. E le cose cambiano. I pony cambiano? Si smussano, forse.

Di sicuro… quello era un Icarus più maturo di quanto non fosse stato mesi prima.

Quella era una vita normale?

Non più deriso ma accolto?

Non più segregato ma vivo e attivo tra gli altri?

Poteva essere?

“Che strana sensazione”, pensò…


    Bussò delicatamente alla porta d’innanzi a sé.

Dopo alcuni secondi, un soldo di cacio gli aprì.

“Oh! Icarus!”, disse Spike, felicitante.

“Ciao… futuro spiedo sulla mia ammazzadraghi…”, rispose l’altro, con occhi sottili.

L’aiutante viola deglutì ma poi cercò di non farsi intimidire: “Ehy… aspetta ancora un po’ e vedrai come cresco… allora prenderò te e la tua ammazzadraghi e…”.

“Chi è, Spike?”, si intromise Twilight.

“Icarus!!”, esultò, quando lo vide, “Finalmente sei arrivato!”.

L’altro simulò una voce ammaliante e ammiccò: “Ehy, pupa… Non puoi stare un secondo lontana da me, eh?”.

“Ma sentitelo…”, commentò il draghetto, alzando gli occhi al cielo.

“Ohh! Entra subito! Ho messo da parte i tomi che mi avevi chiesto!!”.

Il pegaso tornò in sé: “Ah… sì, ecco io…”.

Un incantesimo lo sollevò da terra, conducendolo forzatamente all’interno, proprio davanti ad una scrivania colma di libri. Spike richiuse la porta.

L’unicorno non stava più nel pelo. Con trepidazione, iniziò a mostrargli in sequenza ogni trattato che aveva sotto al muso.

“Questo spiega come comportarsi in modo appropriato per ogni possibile tipo di festa! Questo, invece”, continuò, sollevandone un altro con la levitazione, “E’ il mio trattato sugli effetti del sidro in organismi equini!... Oh! Oh! Poi c’è questo! L’ho usato personalmente per organizzare dei passatempi quando Applejack e Rarity vennero a passare la notte da me!”.

“Interessante”, commentò, assorto.

“Ma… state scherzando, vero?”, sbottò Spike.

I pony lo osservarono.

“No, Spike!”, rispose saccentemente Sparkle, “Stasera Icarus avrà la sua prima vera festa in pieno stile! Mi pare DOVEROSO nonché ammirevole da parte sua informarsi, in modo da prepararsi psicologicamente e…”.

“Oh, ma dai…”, la interruppe il piccoletto, “Alle feste ti devi divertire e basta! Non fare come Twilight che studia sempre tutto… come quella volta che decise di andare a fare il bagno al lago con Fluttershy… Passò la mattina a cercare i libri e il pomeriggio a studiare le proprietà fluidodinamiche dell’acqua. Beh… il lago è ancora là che aspetta. C’è da sperare che anche Fluttershy non sia ancora là ad aspettarti, sennò si sarà infeltrita d’acqua peggio di…”.

“Spike!!”, ruggì innervosita.

“Bah. Fate come volete”, e si appoggiò al muro.

Dopo avergli lanciato un’altra occhiataccia, Twilight riprese il proprio discorso ma la zampa di Icarus tenne chiusa la copertina del libro di turno. La puledra lo osservò perplessa.

“Sai, Twilight?”, le disse sorridendo, “Forse… forse il nanerottolo ha ragione…”.

“Oh! Grazie a Celestia qualcuno mi ascolta!”, commentò, manco stesse recitando un’omelia in chiesa.

“Ma… Icarus…”.

“E’ vero”, la interruppe, “E’ la mia prima festa… ma… questa volta… al diavolo i patemi mentali. La state organizzando voi. Le mie amiche. Cos’ho da preoccuparmi?”.

Sparkle, in rapidissima sequenza, si immaginò: tutte ubriache di sidro; Pinkie che riduceva il posto ad un campo di battaglia costituito da dolci sparati da cannoni giganti; Rarity che dava lezioni di bòn tòn ad AJ, la quale avrebbe risposto con qualche tipica usanza contadina; Fluttershy con un’orda di animali.

“Assolutamente niente di cui preoccuparsi!!”, gli mentì, con un sorriso imbarazzato.

“E poi ci sarà Pinkie Pie. Cioè… Pinkie Pie. Hai presente, no?”.

“Purtroppo sì…”.

“Un party. E Pinkie Pie”, ripeté, massaggiandosi il mento, “Mhh… forse è meglio che vada a scrivere testamento”.


    La giornata, per il giovane puledro, continuò nel mercato, facendosi a tratti rapire dai bellissimi (e spesso curiosi) oggetti in vendita. Si diresse quindi verso la tenuta Apple, dove AJ e Dash lo stavano aspettando per fare merenda assieme, per poi continuare ad occuparsi per i preparativi della festa serale. Certo… le pietanze di Granny Smith (quel vecchio rudere sapeva il fatto suo, in fatto di cucina) erano un motivo più che valido per andare fin là. Ma più di tutto… insomma… gli sarebbe bastato sapere che Dash era là.

Si erano visti spesso, ultimamente. Dopo aver abbandonato la casa incantata, tra le quote impervie, i genitori cercarono una soluzione fattibile. La terra ferma, lo sapevano bene, avrebbe caricato di eccessiva fatica il figlio, giorno dopo giorno. Così Rainbow si offrì di ospitarlo nella propria abitazione su Cloudsdale, almeno finché non avessero trovato una soluzione.

E, quella sera, lui si sarebbe trasferito da lei. L’idea di condividere la casa con lei, da un lato, lo intimoriva… dall’altro… gli sembrava un’occasione unica. La possibilità di passare ancor più tempo con quel pegaso che…

Pegaso?

Icarus si fermò di colpo, lungo il sentiero per la tenuta.

Dentro di lui avanzò una sensazione che aveva vissuto più volte, in quel periodo… Abbassò un po’ le palpebre.

Dash non era più un pegaso.

E, a dirla tutta, non era nemmeno un pony di Terra, non essendo nato tale.

Lei aveva… perso tutto.

Tutto.


Solo per lui.


Scosse il capo.

“Basta con questi pensieri…”, disse a se stesso, riprendendo a camminare.

Già… camminare.

Quello che, all’Emerald Lake, non poteva fare. Anzi… sembrava quasi… che non ci sarebbe più riuscito, a causa della malattia… e della… cura.

Ma ora… non sapeva perché… stava meglio. La malattia non migliorava ma nemmeno peggiorava. Sembrava in una sorta di stasi momentanea. Anche le sue piume erano ricresciute, più belle e lunghe che mai. La criniera aveva acquisito vigore e un po’ di ciccia sulle ossa (a forza di ingozzarsi di crostata) le era finalmente arrivata. Certo, era ancora magro e asciutto, ma… per la miseria! Da una sedia a rotelle a quello, era un bel miglioramento!


    Un rumore lontano attirò improvvisamente la sua attenzione.

Tra alcuni arbusti, avvicinandosi con circospezione, vide una graziosa casetta su albero.

Dall’interno, tuttavia, provenivano dei singulti ritmati.

Corrugò la fronte.

“Un… pianto?”, pensò.

La zona era calma e deserta, con appena il cinguettare degli uccelli e il frusciare del vento leggero tra le prime foglie di stagione.

Si avvicinò. Era proprio un pianto.

Alla base del tronco, ammassati alla rinfusa, vi erano alcuni poster e fogli disegnati. Sentì uno strappo e altri frammenti cartacei piovvero dalla finestra soprastante.

Notò quindi un cartello conficcato nell’erba.

“Cutie Mark Crusaders”.

Rainbow gliene aveva parlato, qualche volta.

Prese uno dei fogli a terra e, dopo averlo srotolato, sembrò preda di strane ed inaspettate emozioni.


Era raffigurata Rainbow Dash, in una delle sue mirabolanti evoluzioni aeree. In un’altra, invece, il Rainboom Sonico. Una collezione, forse? Sembrava proprio di sì. Ma… chi era a piangere?

Sollevò lo sguardo e un barattolo lo intercettò in piena fronte.

“AHIO!”, sbottò, coprendosi il capo.

Il pianto parve bloccarsi e una puledrina arancione fece sbucare il muso dalla finestra.

Era un piccolo pegaso dalla chioma magenta.

Quando lo vide, la piccola non riuscì che a spalancare la bocca, apparentemente impreparata a quell’incontro.

“E-ehy!”, farfugliò Icarus, ancora dolorante, “Va… va tutto bene?”.

L’altra per un po’ non disse nulla, poi si decise: “…Sì… Ti… ti ho colpito con qualcosa?”.

“Uh. Sì. Un… un barattolo”.

“Ah. Scusa… mi… mi dispiace…”.

“Non fa niente…”.

Ci fu un’altra pausa ed Icarus si sforzò di essere sensibile (non che non lo fosse… ma gli era tremendamente difficile comportarsi come tale).

“Uhh…”, balbettò, “Stai… stavi… piangendo?...”.

Scootaloo tirò su col naso e si asciugò il muso: “Io… io non…”.

Il puledro osservò quindi i frammenti di fogli.

“Questi… sono tuoi?... Li hai… li stai togliendo?…”.

La piccola si incupì: “…Sì”.

Icarus sperò che non fosse per ciò che temeva: “Ah… e… perché, se posso saperlo?...”.

Il piccolo pegaso ammutolì.

Chiuse gli occhi e, con un filo di voce, dichiarò: “R… Rainbow… non volerà… non volerà più…”.

Il cuore, nel petto del pegaso dalla chioma viola, ebbe un battito più forte degli altri.

“Ah… s-sì…”, buttò lì, non sapendo cosa risponderle, “Dash… ecco… lei…”.

“Lei non volerà mai più”, ripeté Scootaloo.

In quel momento… la puledrina non fu cattiva. Non ci fu malizia nei suoi pensieri o nelle sue parole. Ma era giovane… e colma di rabbia. In quel momento… non riuscì a trattenersi… e la rabbia parlò per lei.

“Non volerà mai più. E… e tutto per colpa tua…”.


    Quella frase gli fece cascare un peso invisibile addosso.

Un timore che aveva sempre portato con sé e mai affrontato a muso duro con nessuno.

Ed ora… una puledrina… parlando dal profondo della propria impulsività di bambina, aveva forse detto ciò che in molti avevano solo pensato.

Il pony rimase impietrito, muovendo a scatti la mandibola, come per trovare delle parole che non vennero. Chiuse più volte le palpebre, visibilmente spiazzato.

“I-io…”, fu l’unica cosa che gli uscì dalle labbra.

“Rainbow… era… era fantastica, prima di incontrarti”, continuò l’altra, con voce triste, “Ma poi… è diventata prima taciturna… poi è stata via un sacco di tempo per visitarti… e… ed ora… non potrà più volare”.

Icarus deglutì e Scootaloo si asciugò una lacrima da una guancia.

“Scusami”, dichiarò infine la piccola, “Ora… ora ho da fare…”, e tornò dentro.


    Il visitatore rimase lì, fermo, per svariati minuti.

I pensieri e le emozioni gli vorticarono incessantemente nel cuore e nella mente.

Il suo volto apparentemente inespressivo.

Ma gli occhi… furono lo specchio della sua anima… che avrebbero mostrato, a chiunque gli avesse visti, che qualcosa in lui proprio non andava.


*** ***** ***


    Applejack poggiò una crostata fumante sul tavolo all’aperto, collocandola tra boccali di succo di mela, pasticcini e cesti di frutta.

“Ah!”, esultò, “Spero che il nostro ammazza draghi arrivi presto, sennò se la troverà bella fredda!”.

Appleboom saltellava trepidante: “Sìì!! Voglio sapere quali draghi ha fatto fuori al lago!!”.

“Ehy, confettino!”, disse la nonna alla nipote, dalla sua sedia a dondolo, “Ora mi tocca preparargli pure la merenda, a quel mariuolo??”.

“Dai, nonna!”, l’ammonì scherzosamente, “Ne ha viste di tutti i colori!”.

“Già!”, rispose, “Shei colori, per l’eshattezza! Shia ringrashiato il giorno che t’à incontrata, ah!”, e puntò il bastone in direzione di Rainbow, che si mise in disparte “alla Fluttershy”.

“Eccolo! Eccolo!!”, strillò la puledra col fiocco.


    Icarus giunse dalla sommità della collina, con il proprio passo incerto.

Quando Dash lo vide, non riuscì a trattenere un sorriso di impulsiva felicità. Ogni volta che lo rivedeva… qualcosa, dentro di lei, le metteva in subbuglio lo stomaco.

E anche Icarus… non poté esimersi dal tirare fuori un sorriso imbarazzatissimo, che cercò di nascondere in ogni modo.

Si mosse lentamente verso la tavola. Quando fu a pochi metri, l’amica blu lo raggiunse.

Si fermarono, uno di fronte all’altra… entrambi con un mezzo sorriso sul muso.

Gli occhi si fissarono intensamente tra loro.

L’ex pegaso sembrò trattenere anche una dose di commozione: “…Ciao… cavalcatore di tempeste…”.

“…Ciao… chioma stramba…”.

“Ehy, campione!”, tuonò Applejack, lontana, dandosi un colpetto alla tesa del copricapo.

Applebloom prese a trotterellargli attorno: “Icarus! Icarus! I draghi! Parlami dei draghi!”.

La sorella maggiore cercò di essere chiara: “Io ti consiglio di mangiare invece la crostata, prima che si freddi!”

“Bah!”, berciò l’anziana, “I giovani d’oggi non shanno più geshtire le proprie priorità!”.

“Anche io sono contento di vederti, vecchio rudere!”, l’apostrofò Icarus.

L’ennesimo battibecco.

L’ennesimo racconto sui draghi.

E crostata con i vecchi amici (uno lo era davvero, perlomeno).

Si sentiva proprio a casa.


    A pomeriggio inoltrato, proprio al sopraggiungere della sera, Icarus e Dash salutarono Applejack e famiglia per dirigersi a Ponyville. Quella serata era… la gran serata.

“…E così le ho detto di non toccarmi le piume… ma lei ha insistito e ha preparato comunque la tinta…”, raccontò il puledro all’amica, sulla strada di ritorno.

“Ah! Hai fatto bene! Mai mettersi a discutere con Rarity in fatto di moda!”.

“Scherzi? Era armata di forbici, spilloni e un metro di plastica. Avrebbe quindi potuto aprirmi, trafiggermi o garrottarmi! Fossi matto!”.

Il pony dagli occhi rossi gli scrutò i fianchi: “Dai! Ti stanno proprio bene!”.

“…Sì… lo penso… lo penso anche io…”, rispose, ricordandosi che lei, di piume, non ne avrebbe mai più avute.

Continuarono a camminare e lo sguardo di Icarus tornò più volte alle parole della piccola Scootaloo.

Il suo sguardo, quando era certo che lei non se ne sarebbe accorta, si posò alcune volte sui fianchi blu… sulla sua schiena, liscia e levigata.

Se qualcuno non avesse saputo cos’era successo… nessuno… nessuno avrebbe mai pensato che, in passato, Rainbow Dash fosse mai stata un… un pegaso. E non un pegaso qualunque… uno dei campioni di Equestria, nonché aspirante Wonderbolt.

“Icarus?”, intervenne l’amica, quasi a ridestarlo di colpo, “Icarus, va tutto bene?”.

“Uh… io… sì”.

“Sei… strano”, commentò, imponendogli di fermarsi, “Di solito, quando mi vedi, inizi a parlare a macchinetta. Stasera, invece, mi sembri decisamente taciturno… e anche un po’… irrequieto”.

Il pegaso cercò di dissimulare: “No, sono solo stanco per il viaggio. E poi è tutto il giorno che cammino”.

Dash sfoggiò uno sguardo poco convinto: “Icarus… a te non piace che ti mentano. Beh… non piace neanche a me. E sei un abile mentitore quanto la sottoscritta”.

Un sospiro prolungato, unitamente ad occhi tristi, fecero intuire alla puledra come il compagno avesse realmente qualcosa che lo affliggeva.

Uno zoccolo blu gli si posò delicatamente sulla spalla, quasi alla base del collo.

“Icarus”, gli disse Dash, con una dolcezza che riusciva a trovare solo quando stava con lui, “Sai che con me puoi parlare…”.

“Sì… sì, lo so… ma… è una cosa…”.

Icarus gettò il volto di lato, apparentemente arrabbiato: “E’… è la solita vecchia storia… So già che, se la tiro di nuovo fuori, finiremo col litigare”.

“Intendi…?”.

Arrivò il secondo sospiro e il puledro si sforzò di mettere insieme qualche parola: “…Sì… io… io ogni tanto… ancora ripenso… a quella notte. A quello… a quello che è successo… A quell’ultimo… a quell’ultimo vol…”.

Rainbow si allontanò da lui, rivolgendosi in direzione di Ponyville.

“Hai ragione”, gli disse, improvvisamente fredda e distaccata, “Tirando fuori questa storia… finiremo nuovamente col litigare…”.

“E’ che…”.

“Senti…”, gli disse, scrutandolo con la coda dell’occhio, “Te l’ho già detto mille volte. E’ stata una mia scelta. E la rifarei. Smettila di sentirti in colpa per qualcosa che ho scelto io… e non tu. Stasera… stasera sarà la tua sera. Vedi di non buttarti a terra con questi pensieri… E di non fare altrettanto con me”.

In effetti, non era la prima volta che affrontavano il discorso. Icarus si era sentito più volte in colpa per quanto successo… e ogni volta che ne aveva parlato con Dash, lei lo aveva liquidato innervosita. Forse ne aveva tutti i diritti. Gli aveva detto più volte come lei fosse felice delle proprie scelte.

Soltanto… qualche volta il pensiero tornava più forte che mai… e sentirsi responsabile per ciò che lei aveva perso era l’unica cosa che riusciva a fare.

“D’accordo”, le disse infine, ricominciando a camminare, “Non parliamone più”.


    Ripresero a muoversi verso la destinazione, entrambi in silenzio.

Il sole iniziò a calare all’orizzonte, allungando progressivamente le loro ombre lungo il sentiero.


*** ***** ***


    “E perché non posso già entrare?? Siete tutte lì!”, sbottò il pegaso grigio, spazientito.

“Ma no, sciocchino!”, gli spiegò Pinkie, impedendogli di varcare la soglia del Sugarcube Corner, “Deve essere tutto pronto per la tua festa a sorpresa!”.

“Pinkie…”, cercò di ragionare, “Non è una festa a sorpresa se la preannunci…”.

Il pony rosa sembrò assorto in qualche contorto ragionamento e, alla fine, trovò la soluzione: “Uhhh… ma questo perché NON è una festa a sorpresa! E’ solo un… uhhh… una sorpresa di festa! Insomma… ti aspetti che sia una festa a sorpresa, ma in realtà non lo è, ma proprio quanto pensi che non lo sia ecco che esce fuori la sorpresa e tu dici cavolo sono sorpreso di questa festa a sorspr…”.

“…Io ti aspetto qui”, si arrese.

“Okie dokie!”, e rientrò. Pensò di aver chiuso la porta ma questa, con un impercettibile cigolio, mise in evidenza uno spiraglio di luce da un lato.

Icarus si trattenne per qualche minuto, facendo appello alla propria condotta impeccabile… che franò miseramente quando la curiosità lo colse in modo incontenibile.

Con estrema circospezione (rendendosi di fatto ancor più sospetto) si avvicinò al legno e fece l’occhiolino, tentando di vederci qualcosa. Variò diverse angolazioni, provando così a scrutare quasi tutta la stanza.

In ordine sparso vide: un tavolo con alcuni barili di sidro, un grammofono, palloncini, bicchieri, giochi in scatola, altri palloncini, le amiche indaffarate con gli ultimi preparativi, palloncini, Pinkie che gonfiava palloncini e… e poi…

In un angolo, con il volto assorto verso la parete… c’era… Dash.

La sua Dashie.

L’ex pegaso aveva lo sguardo vagamente abbattuto… e stava osservando intensamente alcuni ritagli di giornale appesi ad un riquadro in sughero, formando una sorta di “bacheca degli eventi”.

C’era un po’ di tutto ma poi, sforzandosi di vedere meglio… scorse degli articoli molto particolari.

Tra di essi, quelli che gli causarono maggior apprensione furono: la notizia del Sonic Rainboom eseguito a Cloudsdale, l’apertura delle iscrizioni per l’Accademia Wonderbolts e… una pagina che non riuscì a concludere. Vide solo la foto di Rainbow e le parve fosse molto recente… o meglio… recente a sufficienza da immortalarla senza… senza le…

“ECCOOO!! VIENI! ENTRA!!”, strillò Pinkie, aprendo di colpo l’ingresso e ribaltandolo all’indietro con un colpo. L’amica lo osservò perplessa.

“…Ahio…”, disse l’altro, con le zampe sul volto e schiena a terra, “Ultimamente… ultimamente la mia curiosità è… dannatamente… dolorosa…”.


    La serata, iniziata apparentemente con un piccolo incidente (che costrinse il pegaso a portare un pezzo di carta arrotolato in una narice, per parecchio tempo), si impennò rapidamente.

Icarus non era abituato a simili situazioni. Sulle prime… si trovò in lieve imbarazzo.

Musica, giochi, bevande… Che… che doveva fare?

In quel momento, maledì di non aver dato nemmeno un’occhiata ai libri di Twilight…

Ma poi, un pony dalla chioma rosa e gli occhi azzurri, lo trascinò riluttante verso il suo primo boccale.

Sidro… mai bevuto in tutta la sua vita.

Un sapore apparentemente sgradevole, alla prima sorsata… ma… beh… la seconda sembrava meglio. La terza… ancora meglio. E la quarta… Ehy? Perché il bicchiere è già vuoto?

“Vacci piano, dolcezza!”, lo avvertì Applejack, che ormai la sapeva lunga, “Lo dico sempre… E’ un sidro… molto particolare. Una riserva unica e quasi mai vista. Lo definirei quasi un sidro proibito!”.

“Mh. Beh. Sì. Non c’è male”, commentò, scrutando il fondo del boccale e percependo una strana sensazione farsi largo nel suo corpo.

“Dai, AJ!!”, intervenne Dash, afferrando l’amico per una spalla e stringendolo a sé (nell’altra teneva stretti altri due boccali), “Lascia che si diverta! Che si sciolga un po’! Ne ha passate tante! Ora si merita un po’ di sano divertimento! Vero, Casanova??”.

Icarus si fermò e chiuse gli occhi. Posò il boccale e si allontanò da Dash, apparentemente scocciato. Tutte ammutolirono e la puntina del grammofono andò inspiegabilmente oltre il disco, assieme ad un rumoraccio fastidioso.

Il pegaso scrutò puledre e draghetto con aria di supponenza: “Mhf. E così questa sarebbe una festa, eh?”.

“Uhhh… sì?”, avanzò Pinkie, quasi intimorita.

“Ah. E… mi spiegate cosa ci sarebbe di bello in musica assordante, bevande frizzanti e giochi di società?...”.

Silenzio. Le amiche si osservarono tra loro, pensando che tutto fosse finito prima ancora di iniziare. Fluttershy, che aveva appena preso un pasticcino, lo rimise a posto, come se nulla fosse successo.

“No davvero”, riprese Icarus, “Spiegatemelo perché io ci vedo almeno qualche migliaio di buoni motivi per continuare!!”. Il puledro si sforzò di apparire galvanizzato dalla situazione… beh… in effetti non dovette sforzarsi granchè… e, vista la sua reazione, tutte superarono lo sbigottimento e ripresero a festeggiare più forte di prima.

E così… quella era una festa?

Che cosa strana… si parlava a fatica, tra la musica, eppure ci si capiva.

Chiunque poteva allungare una zampa e dissetarsi di sidro o che altro.

E quelle tartine sul tavolo? Non sarebbero durate a lungo.

Che fa Pinkie? Cos’è quell’arnese? Sembra un archibugio formato gigant… oh.


Mai provata la sensazione di ricevere coriandoli e crema pasticcera sparati in piena faccia.

Gradevole. Ma, la prossima volta, o coriandoli o crema pasticcera. Perché separare gli uni dall’altra non è affatto semplice.


*** ***** ***


    La bottiglia ruotò sul parquet, puntando sequenzialmente verso i presenti che si erano coricati accanto ad essa.

Era buio. Soltanto due di candele erano rimaste accese, giusto per lasciare la possibilità di vedere.

La musica era cessata, vista l’ora tarda, e le chiome di tutti (specialmente di Pinkie) trasbordavano di coriandoli e stelle filanti.

Icarus ciondolava un po’ e sorrideva quasi fosse inebetito. Allungò una zampa verso il boccale di fronte a sé ma uno zoccolo azzurro glielo trafugò rapidamente.

“Basta, per stasera!”, intervenne Rainbow.

“Ehy! Il mio… il mio sidro!”.

La bottiglia si fermò, puntando in direzione di Rarity. Ed era il turno di Applejack.

La puledra sfoderò un ghigno malvagio e si sfregò gli zoccoli.

“…Non… non oserai??”, domandò la stilista, presagendo il peggio.

“Oh, no, figurati. Obbligo o verità?”.

“Ehmm…”.

“Su, su… non abbiamo tutta la notte, mia cara!”.

“I-io… uhh… O… obb… NO! Aspetta! V-verità!”.

“Mh. Ok. Verità, eh?”, canzonò pensosa, “Dunque, dunque, dunque… Verità… Ok! Ci sono!”.

Rarity rabbrividì.

“Di che colore hai realmente la criniera??”.

“Cosa??”, domandò spiazzata.

“Sarebbe troppo semplice chiederti se ti tingi i capelli. Io scommetto che già te li tingi. Quindi, ora, non mi resta che sapere di che colore sono al naturale!”.

“M-ma… io… io non…”, tentennò imbarazzata.

“Andiamo! Devi ubbidire! Queste sono le regole! Su! Di che colore hai la criniera??”.

La puledra bianca biascicò frasi senza senso finché, con gli occhi di tutti puntati su di lei, non esplose in un pianto degno di una recita drammatica: “Io… io… è verooohohoooho!! Non… non sono un rosso prugna naturale ma bensì un vinaccia scuro!! Sono orribile!”, e si tuffò a terra, ricoprendosi il muso con entrambe le zampe.

“Oh… povera cara…”, la consolò Pinkie, massaggiandole la groppa.

“Ma… ma rosso prugna e vinaccia scuro sono praticamente ident…”, avanzò timidamente Fluttershy.

“Cosa vuoi saperne tuuu??”, singhiozzò l’amica, con il trucco in parziale disfacimento, “Tu sei rosa fior di melo! Non rosa quarzo o rosa perlato!”.

“Fluttershy, sei proprio un’insensibile!”, la rimproverò Pinkamena, mettendosi a zampe conserte. L’altra si nascose tra i crine rosa fior di melo, per la vergogna.

“Ehm.. dolcezza”, riprese Applejack, senza scomporsi di una virgola, “Ora sarebbe il tuo turno per girare…”.

“Oh! Ma è splendido!”, esultò Rarity, improvvisamente felice, e dando un colpo alla bottiglia.

Finì su Twilight.

“Oh mamma…”, dichiarò, colpendosi la fronte con uno zoccolo.

“Obbligo o verità??”.

“Uumh… Obbligo?...”, buttò lì, con una certa ansia.

“Ok… Allora… Mhh… Vediamo… Ti obbligo a… a…? Mh. Ti obbligo a fare una caricatura di Celestia e spedirgli subito dopo la lettera tramite lo Spike Express!”.

Sparkle spalancò le palpebre: “Stai scherzando vero??”.

Rainbow si mise una zampa sul ventre per trattenere le risate. Diede un colpetto alla stilista: “Oh! Rarity! Questa è proprio perfida!!”.

“Non vi aspettate mica che lo faccia??”, protestò.

“Certo!”, continuò Dash, “Le regole sono regole! Non si fanno favoritismi, qui!”.

“Ma! Ma!...”.

Spike, ridendo sotto i baffi, le porse papiro e inchiostro.

“Bah!”, sbottò, sollevando magicamente gli oggetti, “E va bene! Dammi qui… Ma guarda te… cosa mi tocca… ‘per sto giochino scemo…”.

Scarabocchiò qualcosa sul foglio e poi lo consegnò al drago, il quale lo scrutò con attenzione, subito prima di trattenere un’altra risata. Lo passò alle altre, suscitando l’ilarità generale (tranne Fluttershy che non trovava troppo divertente mandare figure stilizzate ad una regnante).

“Oh, Twilight!”, continuò a deriderla la puledra blu, “Dovevi fare la disegnatrice e non la studentessa di un alicorno! Anzi… uno stilicorno!”.

“Sentite… mandate questo messaggio e facciamola finita…”.

Spike lo riavvolse e se lo portò alle labbra. L’unicorno viola strinse i denti, pensando alla stupidaggine che stava per compiersi. Una fiammella verde e via… andato.

“Oh, santo cielo…”, concluse, terribilmente affranta, “Se finirò a lustrare i pavimenti reali, so chi venire a cercare per vendicarmi!!”.

Rarity abbassò uno zoccolo, minimizzando: “Oh, suvvia, è solo uno scherzo innocente. Dai. E’ il tuo turno”.

“Uff… meno male che è finita…”, e illuminò il corno, mettendo in movimento il contenitore.

Questa volta puntò su Icarus, che non parve minimamente intimorito dalla cosa.

“Allora… obbligo o v…”.

“Obbligo”, tagliò corto, sicuro di sé.

“Ah… o-ok. Obbligo, eh? Mhh…”, farfugliò guardandosi attorno in cerca di ispirazione, “Allora… io ti obbligo a… mhh… A baciare Spike sul muso!”.

Il piccoletto passò da un’espressione divertita ad una di assoluto terrore: “EEHH???”.

“Così la prossima volta impari ad assecondare la tizia dai capelli finti, piccolo drago ingrato!!”.

“Col cavolo che mi faccio baciare da…”.

Ma Icarus già stava allungando le zampe verso di lui, pronto a stampargli le labbra in faccia. L’aiutante squamoso fece un balzo sconnesso e annaspò per allontanarsi.

“Spikino!”, insistette scherzosamente il pegaso, “Dov’è che scappi?? Non possiamo sottrarci alle regole!”.

Il puledro voleva divertirsi e un paio di boccali di sidro gli aveva dato la carica per lanciarsi in quella e altre imprese.

“Stammi lontano!! Waaah!!”, e cercò di fuggire, chiudendosi a chiave nel bagno.

“Non uscirò di qui fino all’alba!”.

“Ah! Cavolo!”, si lamentò l’amica viola, “Dovremo aspettare la mattina, per questo obbligo, Icarus…”.

“Non è un problema”, la rassicurò, “Posso aspettare. Lì dentro potrà provvedere all’evacuazione del cibo ma non alla sua introduzione. Dovrà saltare fuori, prima o poi”, e tornò a coricarsi.

“Siete maligni!”, sbottò il draghetto, con voce parzialmente ovattata dalla porta.

“Dai… tocca a te…”.

“Non aspettavo altro”, dichiarò eccitato, dando un leggero colpo all’oggetto di vetro, che ruotò, ruotò… fino per puntare in direzione della puledra dalla chioma arcobaleno.

Una curiosa coincidenza.

“Ecco… sono fregata…”, sussurrò, preparandosi al peggio.

L’amico la osservò intensamente negli occhi: “Mhh… allora? Obbligo o verità?...”.

Dash sembrò combattuta: “Eh… Celestia solo sa cosa mi costringerebbe a fare la tua mente contorta! Quindi… quindi… io… opto per… verità”.

“Ok. Verità, dunque”.

Il pegaso grigio divenne pensieroso, cercando qualcosa da chiederle. Scrutò i dintorni, come avevano fatto le altre per farsi venire un’idea e poi… l’attenzione gli cadde sull’angolino con i ritagli delle riviste.

Il viso mutò istantaneamente in un’espressione di estrema serietà.

Tipicamente… non si sarebbe mai azzardato a fare una cosa simile e in quelle circostanze… ma, si sa… in sidro veritas.

“Verità… Va bene. Io voglio sapere… se… se…”.

Quell’indecisione non fece presagire nulla di buono a Rainbow.

“…Se… se tu… tornando indietro… rifaresti… le stesse cose. Se… mi doneresti ancora… quell’unica ora di volo… rinunciando a ciò che sai”.

L’atmosfera scherzosa subì una brusca variazione e i presenti sgranarono gli occhi. Spike uscì timidamente dal suo rifugio, anch’egli impreparato ad una domanda simile.

Il puledro stava fissando l’amica dagli occhi magenta, con totale serietà.

Dash, invece, non riusciva a crederci.

“Icarus… ma cosa…”, gli rispose lentamente, scuotendo lievemente la testa.

“Ti ricordo che non puoi mentire. Sono le regole”.

“Icarus!!”, sbottò furiosa.

“Ehmmmm…”, mugugnò Twilight, cercando di fare da mediatrice, “Forse… forse è un po’ troppo tardi… che ne dite… se…”.

“No”, la interruppe l’altro, “Devo saperlo”.

“Cosa vuoi sapere, ancora??”, riprese l’ex pegaso, “Ne abbiamo già parlato e riparlato mille volte!! E tu, nonostante io ti dica sempre la stessa cosa, continui ad insistere! E insistere! E insistere!”.

“Sì ma…”.

“Diamine, Icarus!”, aggiunse con foga, “E’ sempre la stessa cosa! Sempre la stessa domanda delle altre volte… Sempre la…”.

“Ma le altre volte tu non osservavi gli articoli delle tue glorie passate, con un volto così afflitto!!”, ribatté, cercando di issarsi sulle zampe.

La puledra rimase interdetta. Non sapeva che lui l’avesse vista mentre controllava le notizie sulla bacheca.

“Questo… questo che c’entra?”, gli domandò.

“C’entra! Perché non passa giorno in cui io mi chieda… in cui io…”.

“In cui tu… cosa?”.

“Io…”.

Il volto di Rainbow si arricchì di tristezza… e anche una vena di delusione.

“Tu cosa, Icarus? Cosa vuoi sentirti dire? Che non mi manca il volo?”.

Tutte intuirono come la situazione fosse irrimediabilmente caduta in uno stato difficile da gestire.

Il pony dalla chioma multicolore puntò lo sguardo al pavimento: “…Certo che mi manca il volo… Per me era tutto…”.

Il cuore di Icarus prese a battere forte… senza nascondere la sofferenza che quella frase gli causò.

“Ma… è proprio questo il punto. Ho trovato qualcosa di più importante a cui rivolgere me stessa…”.

Dash si alzò e, con la stessa delusione negli occhi, fece qualche passo indietro: “E se tu non vuoi credere alle mie parole… se tu non ti fidi di me… io non so che farci. Non posso obbligarti a credermi. Fa quello che ti pare…”, e si diresse verso le cuccette che avevano preparato nella stanza accanto.

Un’altra sensazione terribile cadde sul pony grigio: la sensazione di aver di nuovo commesso un grave errore. Di essersi lasciato trasportare. Di aver osato in modo eccessivo. Ma che altro poteva fare? Ok… forse aveva bevuto un po’ troppo…  Ma era da sempre che quel pensiero lo assillava. Avrebbe dovuto togliersi la spina dalla zampa o sarebbe diventato matto.

Forse… avrebbe potuto farlo in un altro momento e in altre circostanze.

Ma ormai… era successo.

E, come gli avvenne già in passato, si sentì davvero uno “stupido pegaso”.


    La serata non si concluse quindi nel migliore dei modi.

Dash scomparve nella stanza, accoccolandosi tra le coperte, senza più parlare con nessuno.

Le amiche cercarono di rincuorare un po’ l’amico, dicendogli che non era la fine del mondo e che il giorno dopo, con un bel riposo, si sarebbero sicuramente chiariti.

Forse sarebbe andata così, lo sapeva. Lui e Rainbow erano troppo legati per lasciare che simili battibecchi li separassero. Ma non era comunque piacevole.

Twilight, che dopotutto si sentiva in dovere di agire per l’amicizia dei due, gli propose di venire con lei a Canterlot, il giorno seguente. Avrebbe invitato anche Dash e le sue amiche, in modo da passare un pomeriggio in una città diversa e più dinamica. La sera sarebbero tornati ed Icarus avrebbe potuto trasferirsi in via definitiva dall’amica blu. Dopo una leggera titubanza, il pegaso accettò.

Così, dopo gli ultimi saluti, le puledre andarono a dormire nella stessa stanza in cui si era rifugiato il pony dalla criniera arcobaleno.

Icarus e Spike, essendo gli unici maschi, si accomodarono invece su alcune poltrone nel salotto, proprio accanto alla bottiglia con cui si erano divertiti fino ad un attimo fa.


    Il puledro rimase a lungo insonne, sdraiato ad osservare un punto indefinito sopra di sé, sospirando di tanto in tanto.

Spike, che era sicuramente stanco, non se la sentì però di appisolarsi da un momento all’altro, e cercò di comunicare con quel pegaso che non aveva mai avuto l’occasione di conoscere a fondo.

“…Non… non riesci a dormire?”, gli chiese, con voce assonnata, combattendo per restare sveglio.

“…Già”.

“E’… è comprensibile. E’ la tua prima festa e sarai carico di emozioni…”, buttò lì.

“Non… non è solo quello…”.

“Sì, io… capisco a cosa ti riferisci… Ma ora più ci pensi e più tardi ti addormenterai. Vedrai che domani si sistemerà tutto”.

Icarus non sembrò di certo risollevato: “Lo so…”.

Il draghetto sbadigliò in modo osceno: “…Vedrai che… che si sistemerà… tutto…”, bofonchiò, sprofondando tra le coperte.

Il pony, con sguardo un po’ triste, osservò l’amico cadere tra le grinfie di Morfeo.

Dormire? Certo… come no.

La sua testa era un ribollire di pensieri e sensazioni, altro che dormire!

Pensieri, già… lui pensava fin troppo. Sempre lì ad arrovellarsi il cervello… a porsi mille questioni… a crearsi mille patemi.

Dov’era il problema, dopotutto? Ok… Dash aveva compiuto un gesto al limite del credibile… Aveva sacrificato una fetta enorme della propria vita solo per lui. Ma era una scelta che avevo compiuto consapevolmente. Continuare a chiederle la stessa cosa e ad insistere… beh, avrebbe portato all’esasperazione chiunque.

“…Stupido… stupido, stupido, stupido!!”, ripete a se stesso più volte, colpendosi la fronte con uno zoccolo.

Ma perché doveva sempre fare il pony incerto barra insicuro barra antipatico barra stupido?

Che diamine…

Non gli bastava Dash?... La sua… Dashie?

Non gli bastava quella puledra, che tanto gli aveva donato, che tanto aveva sacrificato per lui?

Certo che gli bastava…

Anzi… ancora non poteva credere che Rainbow Dash, il campione dei cieli… gli volesse… tutto quel bene.

E lui la ripagava così? Facendo l’inesauribile testa di legno?

    Si alzò, con volto un po’ rabbioso (verso se stesso, ovviamente).

Basta. Doveva piantarla con quella solfa.

Rainbow, dopo tutto quello che aveva passato stando con lui, meritava di meglio.

Certo che… lei aveva fatto di tutto per aiutarlo… mentre lui si era limitato ad essere se stesso. Non era mai riuscito a contraccambiare. Anche perché tra cure, sedie a rotelle e sfortune varie, non ne aveva proprio avuto la possibilità. Ma ora, seppur parzialmente infermo, era a Ponyville: livbero di agire e di prendere in zoccolo la situazione.

Si spremette le meningi per qualche istante, lasciando che un’idea apparentemente in contrasto con lui e con il proprio passato facesse capolino.

In effetti… gli sembrava una cosa assurda. Ma il periodo era quello.

Si sentì irrequieto al solo pensiero… ma in fondo… perché no?


Ovunque si vada, che sia su un campo di battaglia o in una situazione di tutti i giorni… ognuno finirà col cavalcare le proprie tempeste… se spera di imparare a volare anche senz’ali…


*** ***** ***


    Un raggio di sole sbucò dalle colline, attraversando una delle finestre del Sugarcube Corner. La luce, intensificata dal vetro, manco fosse una lente, puntò dritta su un occhio sopito della puledra blu, che strizzò le palpebre. Si svegliò, di certo non nel migliore dei modi.

“Gah…”, blaterò infastidita. Scrutò i dintorni, ricordandosi solo alla fine dove si trovasse. Non c’era più nessuno con lei, fatta eccezione per Pinkie che dormiva sbavando sul cuscino.

“Oh… per Celestia…”, aggiunse, massaggiandosi le tempie, “Applejack… devo proprio dirle… di non portare più quel sidro…”.

Si sgranchì le giunture e raggiunse la sala all’ingresso, con palpebre ancora calanti e grattandosi sgarbatamente il sedere. Twilight era seduta ad un bancone, in compagnia di alcune scartoffie.

“Buongiorno, Dash! Ben svegliata!”.

L’altra cacciò uno sbadiglio degno di un ippopotamo: “Uh… g-grazie…”.

“Dormito bene?”.

“Più o meno… Che ci fai ancora qui?”, le chiese.

“Stavo compilando alcune cose, in attesa che ti svegliassi”.

“Ah. In attesa che mi… mi svegliassi?”.

“Sì! Devo chiederti una cosa…”.

La puledra inquadrò qualche avanzo di tartina sparso in giro e si preparò a racimolare una caotica colazione. Prese anche i rimasugli dalle bottiglie e li unì in un unico bicchiere. Sparkle la osservò basita.

“Bene”, le comunicò, addentando un frammento di pizzetta al rosmarino, “Sono qui. Chiedi pure”.

“Uhhh… ecco… volevo sapere se ti andrebbe di venire con me e le altre a Canterlot, questo pomeriggio”.

“A… Canterlot? E per cosa?”, chiese, scolandosi l’intruglio dal gusto incerto.

“Così! Solo per passare un po’ di tempo assieme! Ci sarà anche Icarus!”, aggiunse con felicità.

“Mh. Così la testa di legno… insomma… c’è anche lui”, commentò, cercando di celare le proprie emozioni.

“Già. Magari vi farà bene passare un po’ di tempo lontani da Ponyville”.

“Mah. Forse”, e tirò giù l’ultimo avanzo della sera prima, “Ora sai dov’è?”.

“E’ uscito molto presto. Sembrava frettoloso di andarsene”.

“Ah…”, esclamò stupita.

Forse… ieri aveva esagerato a trattarlo così? Poteva essersi offeso e ora non voleva più vederla, almeno per un po’?

“Quindi è… andato via?”.

“Sì. In direzione del mercato. Ma non si muove veloce, lo sai. Sono sicura che, se lo cerchi, lo troverai là”.

“Mh… ok…”.

“Allora… per oggi… ci sarai?”, domandò speranzosa.

Rainbow ci pensò un po’, fingendosi impegnata: “Ecco… penso… io penso di sì”.

“Splendido! Allora ci vediamo alla stazione subito dopo pranzo!”.

“Va bene”.


    Le amiche si salutarono e Dash uscì dal Sugarcube, desiderosa (ma cercando di non darlo a vedere) di parlare con l’amico dai crine viola, in riferimento alla discussione della nottata.

Trottò per la cittadina in lungo e in largo, finché non lo vide tra le bancarelle, con una sacca a tracolla sulla groppa.

Si avvicinò a lui.

“Ehy, Casanova!”.

Appena la sentì, il pegaso parve trasalire: richiuse bene la sacca e poi cercò di dimostrarsi disinteressato.

“Oh… ciao… Dashie…”.

“Così attivo poco dopo l’alba? Non ti facevo così volenteroso”.

“Già…”, rispose, quasi la stesse ignorando.

La puledra non capì. Era forse arrabbiato? Le stava tenendo il muso?

“E… senti”, aggiunse l’ex pegaso, “Riguardo la discussione di ieri… ecco… io…”.

“Scusa, Dashie”, tagliò corto l’amico, “Ora non è il caso. Ho alcune… uh… faccende da sbrigare. Oggi verrai a Canterlot?”.

L’altra rimase stupida dall’apparente leggerezza con cui venne trattata. Va bene essere imbronciati ma…

“S-sì…”, rispose, “Penso di venire…”.

“Allora”, concluse Icarus, “Avremo tutto il tempo per discutere, no? Ora ti prego di scusarmi ma devo proprio andare”, e si allontanò.

E di nuovo… Rainbow non riuscì a credere alle proprie orecchie.

L’aveva piantata in asso! E non nel senso di asso del volo o altra disciplina sportiva! L’aveva proprio lasciata lì, come se nulla fosse!

Quando il pegaso fu lontano, la puledra esternò la propria rabbia mista a frustrazione.

“Ah è così??”. Parte dei passanti si fermò ad osservarla.

“Vuoi fare la vittima di turno?? La principessina ferita??”.

Inconsciamente, afferrò un poveretto a caso e iniziò a sbraitargli contro: “Guarda che tu non hai proprio nessuna ragione da farti caro mio!!”.

“M-m-ma… sono… sono solo due etti di carote!”, biascicò lo sfortunato.

“Carote!!”, sbottò, continuando la sfuriata, “Tutto quello che sai dire è carote?? Bah! Al diavolo! Te e le tue carote!”, e lo lasciò andare, allontanandosi dal mercato, unitamente ad altri insulti a mezza voce.

Il poveretto scrutò preoccupato i propri ortaggi.

“Cos’hanno che non vanno le mie carote?...”.


*** ***** ***


    Era passato pranzo da circa un’ora ed Icarus e le amiche si trovavano in una delle carrozze del treno diretto a Canterlot.

Tutte, più o meno, si intrattenevano tra risa e schiamazzi. Tutte tranne il pegaso grigio e l’amica dagli occhi rossi, uno nell’angolo opposto rispetto all’altra.

Rainbow era imbronciata, pensando che Icarus la stesse volutamente ignorando.

Icarus, per canto suo… era imbronciato, pensando che l’amica non volesse parlargli, come l’aveva invece invitata a fare al mercato. Stavano andando a Canterlot, no? E allora perché se ne stava lì, zitta??

I due incrociarono per un istante gli sguardi, riportandoli fulmineamente al paesaggio dal finestrino.

“Fa proprio finta di niente!”, pensò Dash.

“Guarda come se ne sta per le sue…”, pensò Icarus.

Twilight notò invece la situazione nel suo insieme e sorrise, comprendendo come, in quella carrozza, i pony che si comportavano da stupidi fossero almeno due. Beh, poi c’era Pinkie Pie ma lei non faceva testo.

    Dopo un quarto d’ora spicciolo, il mezzo giunse alla stazione dell’immensa città fortificata.

Nonostante la situazione con Rainbow lo rendesse teso, il pegaso dagli occhi viola non era mai stato a Canterlot. L’aveva vista da lontano, attraverso il suo vecchio cannocchiale. Ma così era diverso.

Scesero dalla carrozza… e il cavalcatore di tempeste spalancò le fauci, rapito dalla bellezza del luogo.

In ogni direzione si stagliavano palazzi e abitazioni sontuose, incise nel marmo perlaceo e abbellite con rivestimenti in legno pregiato e altre chincaglierie. La torre regale si ergeva maestosa, quasi incastonata nella montagna a ridosso, mentre le mura, che sembravano d’avorio purissimo, racchiudevano il tutto come fosse uno scrigno prezioso.

Gli abitanti, ovviamente, non erano da meno: eleganti, sfarzosi e agghindati sapientemente. Forse… quello era il paradiso di Rarity? E meno male che la stilista lo aveva acconciato al meglio, giusto il giorno prima… In effetti… qualcuno si soffermò ad osservarne le ali dipinte.

“Oh! Ma quale innovativa bellezza scorgo dal mio monocolo!”, commentò uno stallone col cilindro.

L’unicorno bianco apparve accanto al pegaso, rapido come una saetta, e lo strinse a sé con eccitazione: “Oh! Sì! Sì! E’ una mia… personalissima creazione”, gli riferì, sfoggiando un atteggiamento degno delle più facoltose delle principesse, “Si chiama… uhh… ecco… Ali per sognare! Fa parte di una possibile collezione autunno-inverno da abbinare a…”.

Icarus riuscì fortuitamente a divincolarsi dalla morsa della puledra, riprendendo a seguire il gruppo, capeggiato da Twilight.

Dash, intanto, continuava a tenere una certa distanza.

    L’unicorno viola era a casa sua, quindi fu la guida perfetta per l’occasione.

Condusse i presenti tra le case ed i negozi; fece visitare loro gli enormi giardini reali, il labirinto in cui avevano affrontato Discord, nonché lo spiazzo olimpionico dove si allenavano le guardie.

Così, nonostante gli apparenti attriti tra i due, Icarus riuscì a godersi abbastanza le meraviglie del luogo.

Certo… Steamdale era affascinante, con la sua tecnologia a vapore, il metallo, gli zeppelin e tutto il resto. Ma Canterlot… beh… Canterlot sembrava realmente uscita da una fiaba.

Il tour continuò per un paio d’ore, finché Sparkle non decise di mostrare loro le stanze interne del palazzo (ovviamente solo quelle consentite ai visitatori). E le meraviglie… continuarono. Anche le stanze del palazzo avrebbero meritato tutta l’attenzione del mondo, con gli splendidi arazzi pregiati lungo le arcate; i capitelli incisi con sapienza; le finestre colorate, raffiguranti mille peripezie compiute dalle sue amiche e non solo… Insomma… un posto davvero unico e sorprendente.

Mentre avanzava, il gruppetto iniziò a sfoltirsi poco a poco: ognuna si intrattenne nel luogo più congeniale. Fluttershy venne persa al giardino reale; Applejack decise di soffermarsi in un’osteria locale che, almeno a detta sua, offriva uno dei sidro migliori della regione; Pinkie rincorse una farfalla e svanì nei vicoli; Rarity, infine, venne inghiottita da un raffinato centro di bellezza in centro.

Non rimanevano che Twilight e i campioni di Equestria, ancora intenti ad ignorarsi reciprocamente.

    L’unicorno li condusse in una grossa stanza degli ospiti, con tanto di letto a baldacchino e arredo degno di un re. Anzi… per quanto ne sapessero i due, si sarebbe potuto trattare della camera da letto di Celestia in persona!

“Uao”, esclamò Icarus, quasi intimorito dall’enorme quadro della regnante appeso ad una parete, “Certo che qui non badano a spese…”.

“Gli alicorni sono esseri millenari”, commentò l’amica dagli occhi viola, “Non è solo una questione di venerazione… ma anche di immagine”.

“Mah…”, sbuffò Dash, “Io renderei il tutto almeno… uh… il venti per cento meno sfarzoso”.

“Sentite”, concluse Twilight, “C’è una cosa che devo sbrigare alla biblioteca reale. Farò in fretta, sia chiaro. Giusto una mezz’oretta. Voi, intanto, perché non aspettate un po’ qui?”.

Rainbow lanciò un’occhiataccia ad Icarus, che ricambiò il gesto: “Intendi… io e lui… qui?”.

“Sì! Anzi… seguitemi”, e, dopo aver spalancato una porticina laterale, li sistemò in una strana stanzetta: una camera il cui soffitto sembrava tappezzato di stoffe e drappi pregiati. Una strana luce soffusa sembrava provenire da ogni direzione.

“Che roba è questa?...”, chiese la puledra.

“E’ una piccola stanza insonorizzata che ogni tanto la principessa usa per stare un po’ in tranquillità”.

“Quindi…”, riprese l’amico, “Intendi… che qui… Celestia viene a…”.

“Sì! E’ un luogo usato abitualmente dalla principessa!”.

“Urca…”, sbottò meravigliato.

Non era di certo il tipo da riverire qualcuno solo perché portava una corona in testa… ma… insomma, si trattava comunque di Celestia: regnante e guida di migliaia di pony d’Equestria.

“Scusa… e perché ci lasci qui?”, le chiese l’amica, scettica.

“Dai, Rainbow! Statevene un po’ tranquilli e non bisticciate!”, la esortò, mentre si allontanava verso i corridoi.

I due non sembrarono affatto convinti e, quando Sparkle voltò l’angolo, rimasero soli e al silenzio.


    La coppia continuò ad ignorarsi.

Dash si sedette in un angolo, apparentemente annoiata, mentre Icarus iniziò a muoversi lungo la pareti, sfiorando i soffici materiali che ricadevano dall’alto. Sembrava quasi un tendone da circo di seta pregiata.

Passarono i minuti e anche il pegaso, ad un certo punto, si stancò di osservare il luogo. Si fermò e si sedette per riposare, con un lungo respiro.

Quando Rainbow percepì la sua stanchezza, si voltò di scatto e domandò, leggermente preoccupata: “Icarus? Va… va tutto bene?”.

L’altro la scrutò con indifferenza: “Mhf. Cos’è? Hai improvvisamente ritrovato la voglia di parlare?”.

“Ma!...”.

La rabbia tornò a salire nel corpo della puledra, che cercò di restare calma: “Stavo solo cercando di sapere come stavi. Visto che è da ieri che non vuoi parlarmi, come faccio a sapere se…”.

“Io non vorrei parlarti?”, la interruppe, “Sei tu che mi hai tenuto il muso per tutto il giorno!”.

“Cosa?? Ma se stamattina te ne sei andato in fretta e furia e poi, quando ti ho cercato, mi hai trattata come se fossi Pinkie durante un’overdose zuccherina!”.

L’amico alzò gli occhi al soffitto: “Oh cavolo! Ma parlo draconico? Ti ho detto che avevo da fare e che potevamo parlare a Canterlot… ma tu ti sei tappata la bocca per tutto il tempo!”.

“E ci credo!”, protestò, “Mi hai bellamente ignorata, al mercato!”.

“Ma… ma è perché ero impegnato, quante volte devo dirtelo??”.

“Beh allora non sei l’unico a dover chiedere mille volte una cosa, pur di ricevere una risposta esauriente!!”, sbottò.

Dopo quelle parole, entrambi caddero nel silenzio, ed entrambi ebbero la sensazione di aver commesso, in un modo o nell’altro, qualche mezzo errore. E unisci un mezzo errore ad un altro… e viene fuori un errore completo.

Dash sospirò e Icarus distolse lo sguardo, massaggiandosi una zampa distesa con l’altro zoccolo.

I loro volti, prima imbronciati, divennero via via più dispiaciuti, come se nessuno dei due gradisse quella situazione spiacevole. Non era la prima volta che battibeccavano… e, puntualmente… quello che sentivano l’uno per l’altra li faceva desistere da ogni controversia. Probabilmente sarebbe andata così anche quella volta.

Come accadeva quasi sempre (poiché il compagno possedeva un orgoglio e una timidezza solo in parte ammorbiditi), fu Dash ad intervenire per prima.

“Senti, Icarus… io…”.

L’altro corrugò la fronte e alzò un orecchio: “Stai zitta un attimo…”.

“COSA??”, ruggì furiosa, “Non dirmi di st…”.

“No, no… non hai capito”, si affrettò a spiegare, “Senti anche tu… questo brusio?”.

“Brusio?”.

“Sì… avvicinati alla parete…”.

Il pony dagli occhi magenta non ne fu convinto ma decise comunque di avvicinarsi. Poggiò un orecchio sulle stoffe e, effettivamente, poteva udire un rumore profondo e costante… un brusio, in effetti.

“Sembra… sembra che…”, buttò lì la puledra, “Sembra quasi che ci sia della gente che parla, là fuori…”.

“I cittadini di Canterlot?”.

“Alla faccia della insonorizzazione!”.

“Infatti… è strano”, ammise.


    Poi… le tele ebbero un fremito, un sussulto.

I due fecero qualche passo indietro, osservando perplessi quello che stava accadendo.

Da un momento all’altro, senza il minimo preavviso, sembrò che le pareti venissero letteralmente sollevate dal pavimento… e una luce accecante, abituati com’erano alla penombra della stanza, li costrinse a coprirsi lo sguardo.

Quando la sensazione di abbagliamento passò… capirono… capirono dove si trovavano.

E non credettero ai propri occhi.

Erano sull’enorme balconata su cui Celestia si mostrava tipicamente durante le cerimonie. Il luogo era stato ricoperto da una distesa di tessuti, appena portati via da un gruppetto di pegasi imperiali, rivelando così il rispettivo contenuto: una coppia di pony, uno blu e uno grigio.

Ma ciò che lasciò di stucco entrambi fu quello che apparve d’innanzi a loro: con un sole appena arancione sullo sfondo, sinonimo di bagliori serali pronti a giungere, Celestia e Luna li scrutavano sorridendo. Oltre, al di là della balconata in marmo pregiato, videro un vero e proprio mare di pony, ammassati nella piazza principale della città-fortezza. I presenti fissavano in silenzio i due che, all’improvviso, percepirono l’attenzione di mezza Equestria su di loro.

E non c’erano solo gli abitanti, tra le fila… ma anche le loro amiche, i Wonderbolts, le guardie, Sunshine, Daedalus… e moltissime altre conoscenze.

La coppia si ritrasse leggermente, assolutamente sbigottita, con occhi sgranati e volti parzialmente intimoriti.

“Ma… che… cosa…”, farfugliò Rainbow, senza voce.

“Icarus!”, disse quindi all’amico, “Sei stato tu a…”.

L’altro si affrettò a scuotere la testa: “Ti giuro su tutti i miei cirri incantati che non ne so nulla!...”.

Il pony blu cercò di capire e poi notò di sfuggita lo sguardo imbarazzo dell’unicorno viola, proprio in prima fila.

“Mhf… Twilight!”, sentenziò.

Ma la loro meraviglia si intensificò ancora di più quando Celestia mosse gli zoccoli verso di loro, con un sorriso estremamente compiaciuto.

Solo allora Dash riuscì a riprendere il controllo e si prodigò in un inchino.

Icarus rimase invece ad osservarla, con la bocca aperta.

L’amica gli diede una gomitata: “Inchinati! Sei di fronte alla principessa!”.

“Oh!... Oh, sì! Giusto!”, balbettò sforzandosi in un inchino difficilissimo per lui, viste le condizioni in cui versava. E a quel punto… Celestia parlò.


Si avvicinò lentamente al pegaso e, con grande gentilezza e voce serena, disse: “Tranquillo, Icarus. Non è il caso…”.

L’altro drizzò le orecchie: “Cos… Voi… Voi mi conoscete?...”.

L’alicorno rise appena: “Sì, ti conosco! Così come conosco la qui presente Rainbow Dash, anche se da molto più tempo in effetti”.

La coppia tornò in piedi, sulle proprie zampe.

“M-ma…”, cercò di far chiarezza l’ex pegaso, “Io… io non capisco… Cosa… cosa sta…?”.

“Miei cari… io vi conosco molto bene”, riprese la regnante, “Twilight venne da me non molto tempo fa, per chiedere aiuto per un pegaso molto speciale. Un pegaso che… non poteva volare”.

Icarus e Dash si osservarono reciprocamente, non sapendo come comportarsi.

La puledra bianca continuò: “Fu per me molto doloroso comunicarle che nemmeno con la mia magia avrei potuto restituire la capacità del volo a qualcuno, perlomeno non per lunghi periodi. Ci sono cose che… semplicemente non possono essere cambiate”.

La platea, intanto, ascoltava assorta il discorso della principessa di Canterlot.

“Così dovetti rimandarla a Ponyville, pensando che nulla sarebbe cambiato. E… e invece…”, sottolineò, con viso estremamente orgoglioso, “Mi sono sbagliata”.

Il puledro si avvicinò ad un orecchio dell’amica: “Io… io ancora non ci sto capendo un tubero… Che ci facciamo qua?”.

“Ne so quanto te…”.

Celestia rise di nuovo: “La mia allieva aveva proprio ragione. Basta guardarvi per capire che voi due siete legati da qualcosa di unico!”.

I giovani si scrutarono nuovamente a vicenda.

“Dovete sapere che ho mandato Twilight a Ponyville proprio per farle studiare l’amicizia e tutto ciò che ne deriva. Lei ha svolto molteplici ricerche, sia teoriche che pratiche, anche sul proprio pelo. E… quando mi ha parlato di voi due… della vostra storia… delle vostre vicende…”.

“Voi… Voi sapete della nostra storia…?”, domandò titubante il pegaso.

Celestia si portò proprio davanti alla coppia: “Io… ho saputo ogni cosa di voi. Tutti i vostri amici mi hanno riferito la propria versione ed io ho messo insieme i pezzi… E così… so tutto. Quando vi siete incontrati per la prima volta, i vostri primi litigi, le ali di caramello, il volo nella tempesta, l’incidente, la partenza per l’ospedale…”.

L’altro non riusciva a credere alle proprie orecchie.

“…E poi… La cura, la decisione di Dash di rimanerti accanto, il fallimento della terapia… tutto quanto. Incluso… il vostro ultimo volo insieme”.

Udendo quel discorso, entrambi si sentirono corroborati da una sensazione un po’ struggente.

“Ma…”, intervenne Rainbow, “Sì… abbiamo fatto… tante cose… però… non è stato nulla… nulla di…”.

Celestia posò gli zoccoli sulle spalle di entrambi.

“No, Rainbow Dash”, le disse con serietà, “E’ stata una cosa unica e speciale”.

Il volto dell’alicorno si girò prima verso sorella dal manto stellato e poi salì al cielo: “Io… io sono un essere millenario. Ho visto tantissime cose, durante la mia esistenza. Mi sono fatta carico di gioie e altrettante sofferenze. E’ sia un vantaggio che un fardello a tratti insopportabile… Ma… devo essere sincera con voi. In tutta la mia vita… io non ho mai incontrato nessuno… nessuno come voi”.

Per l’ennesima volta, i due pony non credettero ai propri organi uditivi.

“Twilight mi ha detto”, riprese, “Che siete soliti chiamarvi con l’appellativo di Campioni di Equestria”.

Rainbow arrossì: “Uuhhh… ma… è solo un nome… così… tanto per… Non ci permetteremmo mai di…”.

“Voi”, la interruppe, “Voi non siete solo due semplici pony. Dopo tutto quello che avete passato. Dopo tutto ciò che avete sacrificato e imparato l’uno dall’altra. Dopo aver cavalcato la tempesta. Dopo aver compiuto l’ultimo volo. Dopo aver dimostrato, per la prima volta nel Creato, che si può volare anche senz’ali…”.

La voce di Celestia crebbe via via d’intensità, in modo che la piazza intera potesse udirla chiaramente.

“…Dopo aver compiuto tutte queste cose… Voi siete indubbiamente… i veri Campioni di Equestria”.

Il gesto che compì quindi la regnante li lasciò davvero senza fiato: Celestia si inchinò ai loro zoccoli, in un profondo e rispettoso gesto di riverenza.

“Io riconosco in voi un valore immenso…”, commentò, ad occhi chiusi, “E porto rispetto per tutto ciò che avete sopportato insieme… e per il grande progresso che i vostri cuori hanno compiuto in così poco tempo. I Campioni di Equestria sono qui, d’innanzi a me”.


Poi… fu Luna ad inchinarsi.

Quindi… la prima fila della platea.

Poi la seconda.

La terza…

E infine… Icarus e Dash si trovarono d’innanzi ad uno stuolo di pony che si inchinava d’innanzi a loro.

I due lasciarono cascare la mascella.

Tutti… persino gli alicorni e la guardia reale… tutti. Tutti si stavano inchinando.

Icarus si sentì tremendamente a disagio e altrettanto provò l’amica.

Non potevano… non riuscivano a crederci.

L’intera Canterlot e una buona fetta di Equestria stava porgendo loro una delle più importanti forme di rispetto che si potessero ricevere.

Solo per loro.

I Campioni di Equestria.


Celestia riprese quindi la postura regale, accompagnata da un sorriso altrettanto splendido: “Il legame che vi unisce è unico. Lo vedo… lo sento. Non importa quanti problemi dovrete affrontare. Avete giù superato ostacoli che avrebbero messo a dura prova chiunque. Io stessa… non so dove avrei trovato la forza per reagire come avete fatto voi due. I Campioni di Equestria.

I pegasi che dimostrarono al mondo intero… che si può volare anche senz’ali…”.


*** ***** ***


    Una porta di nuvole compresse si spalancò lentamente.

Dentro era buio e fuori notte inoltrata, quindi non si riusciva a vedere granché. La padrona di casa cercò un barattolo di vetro a tentoni e, quando lo trovò, lo scosse con delicatezza, ridestando le lucciole al suo interno.

La stanza si arricchì di una soffusa luce verdognola.

Icarus e Dash erano appena entrati nell’abitazione della puledra a Cloudsdale. Erano entrambi incapaci di volare con le proprie ali, quindi i cirri divennero indispensabili per entrambi e Fluttershy si offrì di accompagnarli ogni volta che avessero voluto.

Certo… quella era una soluzione estremamente drastica, se confrontata con le libertà di cui godeva inizialmente l’ex pegaso dalla chioma arcobaleno.

Ma in quel momento… stavano pensando a tutto tranne che a quello.

In effetti… non sapevano proprio a cosa pensare.

    Quella strana… cerimonia in loro onore si era conclusa da poco. Dannata Twilight. Aveva organizzato tutto solo per quello. Cosa le era saltato in mente?

Icarus scrutò l’ambiente, riconoscendo a colpo d’occhio il letto su cui vide Dash quando la raggiunse per cavalcare la tempesta.

Allora, un po’ com’era successo recentemente, avevano litigato e si erano riappacificati.

Il pegaso, tuttavia, si sentiva profondamente dispiaciuto per il proprio comportamento. Il discorso di Celestia aveva fatto ricordare ad entrambi chi fossero e cosa avessero affrontato insieme. Anche Dash, nonostante tutto ciò che di brutto aveva condiviso con l’amico, sapeva bene che difficilmente sarebbe riuscita a stargli lontano.

Lo aveva già detto più volte…

Lui era le sue ali.

Lui la faceva ridere e soffrire.

Con lui si sentiva…

Viva.


    La coppia sembrava immersa in un costante imbarazzo misto a timidezza.

Questa volta fu Icarus a tentare di rompere il ghiaccio.

“Così… uh…”, farfugliò, “E’… è qui che starò, per un po’?”.

L’amica sembrò sorpresa di sentirlo parlare per primo.

“Eh? Ah… sì. Sì, spero che… che la sistemazione sarà di tuo gradimento…”.

L’altro sorrise: “Tranquilla… ho passato gli ultimi mesi su un lettino d’ospedale. Qui sarà come stare in una reggia”.

Rainbow si rese conto del disordine che regnava infatti sovrano: libri di Daring Do sparsi ovunque, bustine di snack aperte e qualche attrezzo da palestra.

“Ehm…”, arrossì, “Scusa… non ho avuto tempo di…”.

“Non mi formalizzo. Non sono mica Rarity, io!”, scherzò, “E poi mi stai solo facendo un favore… mi sento già meglio, a posare gli zoccoli sulle nuvole. Senza contare che, anche se di pochissimo, la gravità si fa sentire meno”.

“Già… beh… spero passerai una buona permanenza…”.

“Sono sicuro che starò benissimo, qui con te…”, avrebbe voluto risponderle… ma purtroppo lo pensò solamente, troppo timido per azzardare una simile sortita.

“Sì, penso mi troverò bene”, concluse.

   

    Anche Dash era un po’ imbarazzata.

Icarus sarebbe venuto a vivere con lei per un po’. Ma non era solo quello… si portava ancora dietro una strana sensazione per via dell’incontro con Celestia. Ora tutti sapevano chi fossero e cosa avessero fatto. Ed Icarus era passato dall’essere il “mezzo” pegaso allontanato e deriso da tutti… ad un vero Campione di Equestria, nominato dalla principessa in persona.

Nascondeva a fatica la felicità per lui. Finalmente… era successo qualcosa di veramente bello. Finalmente… Icarus veniva riconosciuto per ciò che meritava.

Un pony semplicemente splendido ed unico, anche se testardo e a tratti arrogante.

Ma lei aveva imparato da tempo a volergli bene così com’era.

Perché i casi sono due… Quando scopri i lati più brutti di qualcuno… o ti allontani da lui o inizi ad amarlo veramente.

    “Senti, Dashie”, le domandò.

“Sì?”.

“Oggi ho… veramente… sudato come un cammello!”, confessò, con un sorriso, “Stare lì, di fronte a quella folla.. e con… la principessa… e con… con te…”.

“Eh?”.

“Niente. Dicevo… posso… posso solo andare a farmi una doccia?”.

“Ah, ma certo. Gira l’angolo a destra nel corridoio. Dovrebbe ancora esserci una nuvola con un po’ di pioggia. Forse è un po’ freddina”, gli spiegò.

L’amico si slacciò la sacca a tracolla e la posò sul letto, dirigendosi poi verso il bagno: “Meglio!... Così magari mi aiuterà a riprendermi un po’!”.

“Fai con comodo. E fammi sapere se ti serve qualcosa…”.

“Certo. Grazie…”.


    Dopo qualche minuto, Rainbow sentì l’acqua scorrere nella doccia.

Si sedette sul bordo del materasso spumoso, accompagnandosi con un lungo sospiro.

Poggiando una zampa dietro di sé, urtò accidentalmente la sacca di Icarus, che rivelò parzialmente il contenuto. La puledra si sincerò di non aver fatto danni e scorse un piccolo cartoncino color amarena su cui erano incise delle parole. Non voleva certo farsi gli affaracci degli altri ma, inavvertitamente, lesse “Da Icarus per Dashie”, su di esso.

La curiosità la investì come un treno in corsa.

…Dai… non poteva farlo.

O sì?

Buttò lo sguardo verso il corridoio: l’amico era ancora in bagno che si lavava.

Riportò quindi l’attenzione sulla sacca e, fischiettando come se non ne sapesse nulla, diede un altro paio di colpetti “accidentali” alla borsa, finché il cartoncino non cadde a terra. Non nascose che si sentì un po’ carogna, ma proprio non ce la faceva a resistere.

Lo afferrò delicatamente tra i denti e poi lo aprì sul materasso.

Non era semplice cartoncino… bensì sottile legno dipinto e rilegato. Di certo non qualcosa da due soldi. Le scritte all’interno erano state incise e poi rifinite con della pittura dorata. Sulla copertina, inoltre, vide delle lettere che le fecero aggrottare le sopracciglia: “S. Valentino”.

“Come sarebbe a dire?...”, chiese sottovoce a se stessa, “Icarus mi ha sempre detto che detestava quella ricorrenza…”. Poi alzò lo sguardo verso il calendario appeso al muro e si rese conto che doveva proprio essere così, visto che la festa cadeva da lì a poco.

Ma forse… forse era quello che stava facendo al mercato? Forse era vero… non la stava evitando… stava soltanto cercando di confezionare quel regalo?

Ci capì sempre meno… e decise infine di leggerla.


Ciao Dashie.

Quando leggerai questo piccolo biglietto (oserei dire… stupido biglietto) io di sicuro sarò da un’altra parte… perché non riuscirei a reggere l’imbarazzo del restarti accanto, mentre soppesi queste parole.

Perché io… sono sempre in imbarazzo quando provo a dirti certe cose.

Non ne capisco il motivo… ma mi è tremendamente difficile. Così… voglio provare a farlo con la scrittura. Forse riuscirò a comunicarti quello che sento, come invece non mi è mai stato possibile.


Ah, ovviamente non l’ho scritto di mio muso. Magari avessi una calligrafia così bella. E quindi… buona parte del mio imbarazzo è stato dettare tutto questo al pony qui presente. In questo momento. E ora mi sta osservando con aria perplessa, nello stesso momento in cui gli dico di incidere queste parole.

Sto divagando.


Il fatto è che… ci ho pensato molto… a quello che è successo.

Alle domande che ti faccio sempre.

Alla mia testardaggine.

Al fatto che tu mi accetti per come sono, mentre io mi sento sempre… inadeguato per te.


Io… fatico tantissimo a crederci.

Rainbow Dash. La mia… la mia Dashie... con… un pegaso come me.

Non riesco ancora a comprendere la situazione, credimi. Mi è difficilissimo.

Ma di una cosa ora sono certo…

Tu hai fatto tantissimo per me. Mi sei stata vicino nei momenti più detestabili della mia vita. Ti sei subita la mia rabbia… il mio veleno… la mia sofferenza. E… in tutto questo… mi sei sempre rimasta accanto.

Come se non bastasse… hai voluto farmi un regalo bellissimo. Un’ora di volo insieme.

Una delle cose più belle che io abbia mai provato. Soprattutto perché…

Perché ero con te.


E non voglio più parlare del sacrificio.

Mai più. Sarà l’ultima volta che lo citerò.

E lo faccio… solo per dirti… che farò di tutto…

DI TUTTO

Pur di non farti rimpiangere nemmeno per un istante la tua decisione.

Per cercare di rendere la tua vita migliore e più felice… come sei riuscita a fare tu con me.

Voglio poterti donare anche io qualcosa… ma non sono te.

Non credo riuscirò a compiere le gesta bellissime che tu hai rivolto a me.

Ma proverò comunque a fare quello che posso.

Questa testa di legno, vuole provarci…

E’ solo che…


E’ solo che… ti chiedo scusa, Dashie. Per tutte le volte che mi sono comportato come un arrogante, per la mia insicurezza e per non riuscire ad essere meno testardo.

Sono duro da cambiare. Mi porto dietro un passato che non so se riuscirò mai a tenere lontano del tutto.

E so che ti meriti di meglio. Quindi… voglio davvero… smetterla di aggrapparmi a cose spiacevoli.

Perché l’amore che mi dai (e non puoi immaginare la faccia che ho adesso, nel dire queste cose ad uno stallone che incide il legno) è… immenso. Non ho mai provato un calore nel mio petto, come quando sono stato con te. Ed ora che me lo hai fatto provare… non ne avrò mai più abbastanza…


Rainbow continuò a leggere, riga dopo riga.

Dentro di sé… iniziò a farsi strada una commozione crescente. Si mise una zampa sul collo e percepì un calore diffondersi per ogni centimetro del corpo. Una sensazione bellissima e straziante al tempo stesso… come non aveva mai provato prima.

A metà del testo, attaccato con una piccola spilla di metallo, c’era un curioso monile. Lo prese con uno zoccolo e lo osservò.

E… la riconobbe subito…

Era…

Era una sua piuma blu. Proprio la sua.

Attorno alla sommità inferiore aveva incastonato una catenina, insieme ad alcune piccole pietre azzurre, creando così un ampio girocollo. E la piuma faceva da ornamento.

Un’altra fitta di commozione la colpì dritta al petto.


La riconosci?

E’ una tua piuma.

L’ho trovata in camera dopo... dopo il nostro Ultimo Volo.

Penso tu l’abbia persa quando ho spalancato le ali che mi… che mi hai donato. Sai… c’è stata quella folata di vento e…

Spero che questa cosa susciti in te emozioni positive… e non… un ricordo doloroso. Lo spero davvero.

Perché non sono bravo a fare queste cose. Non le ho mai fatte. Non posseggo uno standard sociale, lo sai… In effetti… non posseggo nulla di sociale, io. Ma ci voglio comunque provare.


E meno male che sto scrivendo. A dirtele in faccia, certe cose… forse non ne sarei mai in grado.

E’ per questo… che voglio farti sapere…


Che ti voglio bene, Dashie.

Sei la cosa più importante che mi sia capitata.

Non riuscirò mai ad esprimere appieno tutto il bene che ti voglio… quello che sento realmente per te.

Sappi che anche quando sarò taciturno, quando farò il musone, quando sembrerò arrabbiato… io non riuscirò semplicemente a dirti che, in realtà… sei tutto per me.

Qualsiasi cosa succederà in futuro… tu sei e rimarrai… la mia Dashie.


La mia Dashie. Non in senso possessivo…

E’ che…

E’ come se ti sentissi parte di me. Non so come spiegarlo altrimenti.

Da quando attraversammo la tempesta insieme…

Da quando ci abbracciammo sotto le stelle e poi sulle sommità di un mondo fumoso…

Da quando posasti la tua fronte contro la mia, in quella terribile e al tempo stesso splendida notte…

Io non sono riuscito a dirti quanto tu fossi importante per me.


Spero di esserci riuscito ora.


Ti voglio bene, Dashie.

Grazie per tutto il tuo amore.


Icarus si palesò dal corridoio, con un asciugamano sulla groppa e i capelli fradici.

Quando vide Rainbow con la lettera, cadde dalle nuvole (in senso figurato).

“D-Dash!!”.

L’altra ebbe un sobbalzo e si girò verso di lui.

Aveva le labbra leggermente contratte e due grosse gocce saline le erano appena scese giù dagli occhi.

“Dash! Hai… hai letto…”.

“S-scusami… non… non volevo…”, buttò lì, cercando di trattenere i singhiozzi e passandosi il dorso di uno zoccolo sul viso.

“N-no… non è quello … è che…”, balbettò l’altro, imbarazzatissimo.

E la puledra… non riuscì più a trattenersi.

Gli balzò addosso, stringendolo in un abbraccio quasi doloroso e dando libero sfogo ad un pianto di gioia e commozione.

Il puledro non seppe cosa fare o cosa dire.

Dash strofinò la fronte sulla sua guancia, bagnandosi un po’ il muso dei suoi crine ancora zuppi.

“E… e tu… stupido pegaso cocciuto…”, gli disse piangendo, “Ancora mi chiedi se mi penta di quello che ho fatto?...”.

“Ah… è che… è che io…”.

“Stupido, stupido pegaso… quanto sei stupido, Icarus…”, continuò a ripetergli, senza smettere di abbracciarlo.

“Q-quindi… la… la lettera… è stata una stupidag…”.

La puledra spostò la fronte su quella dell’amico e sorrise, trascinandosi dietro un po’ di quel pianto: “E’… è stata una delle cose… più belle che qualcuno abbia fatto per me…”.

“D-davvero?”, chiese incredulo (e rossissimo).

“…Sì. E… mille volte”.

“…Cosa?”.

“Mille volte cavalcherei la tempesta con te… Mille volte ti rapirei da un ospedale… Mille volte… rinuncerei alle mie ali… per te…”, gli comunicò, sfoggiando un volto sempre più sincero.

Icarus sentì a sua volta un calore immenso dentro di sé, qualcosa che aveva provato solo poche volte… e solo con lei.

“Io… io non so cosa… dire…”.

Dash sorrise: “Certe volte non devi dire proprio niente… stupido pegaso…”.

“E… e la piuma? Spero non…”.

L’amica si allontanò da lui, trepidante, e andò a riprenderla.

“E’… è una cosa stupenda, Icarus!”.

“Sul serio?...”, chiese, drizzando speranzoso le orecchie.

“Sì ma… non dovrei portarla io…”.

“Ma è un regalo per te…”.

“Mhhh…”, mugugnò, con un sorriso furbetto, “Facciamo così!”.

“Facciamo cos… AHIO!!”. Con gesto fulmineo, Dash gli aveva appena strappato una piuma dalle ali. Era una piuma dai riflessi dell’avorio, con tanto di punta violacea, per via di Rarity.

“Aspetta lì!”, e si diresse verso una scrivania bianca, dandogli le spalle.

L’amico la osservò nell’intento di maneggiare qualcosa. Tornò quindi da lui: aveva semplicemente legato uno spago alla parte terminale della piuma.

“Ecco qui!”. Con quelle parole, si infilò il girocollo attraverso il muso. La piuma grigia ricadde sul petto blu.

Poi infilò a sua volta il monile di Icarus sul collo del puledro. La piuma blu ricadde sul petto grigio.

“Non è meglio, così?”, gli domandò entusiasta.

Icarus prese la piuma sullo zoccolo e la osservò intensamente. Quando riportò l’attenzione sulla compagna… i suoi occhi erano visibilmente lucidi.

L’ex pegaso gli sorrise dolcemente.


Alzò una zampa a mezz’aria, invitando l’amico a fare altrettanto.

Anche Icarus ricambiò un dolcissimo sorriso, questa volta senza sforzo alcuno, e portò lo zoccolo accanto a quello di Dash.

Spinsero debolmente la zampa una verso l’altra.

Non smisero per un solo istante di osservarsi e di sorridersi.


“In questo momento…”, riprese Dash, sentendo la commozione tornarle in corpo, “Tutto è come dovrebbe essere. Non importa cosa accadrà. Ora… l’unica cosa che ha un senso... siamo noi. Una coppia di pegasi che può volare anche senz’ali”.

“I Campioni di Equestria”, commentò Icarus, decisamente emozionato.

“Ehy…”, aggiunse dolcemente l’altra.

“Cosa…?”.

“Ciao… cavalcatore di tempeste…”.

“...Ciao… chioma arcobaleno…”.


*** ***** ***


    A terra, molto lontano rispetto alla casa volante in cui si trovavano i Campioni di Equestria, un piccolo pegaso arancione aveva appena percorso una scaletta per salire su un albero.

Si trovava in una casupola ed era buio, fatta eccezione per una piccola lanterna ad olio che stringeva tra i denti.

D’innanzi a lei, sulla parete, c’erano alcuni frammenti di un poster strappato in fretta e furia.

La puledrina osservò i resti e divenne triste. Si sentì in colpa, per ciò che aveva detto giusto il giorno prima. Avrebbe cercato di rimediare il prima possibile. Ma ora…

Srotolò una grossa foto di Rainbow Dash, quando ancora aveva le ali. La appuntò sul muro, proprio sopra quella vecchia. Da uno zainetto estrasse quindi una manciata di altre foto. Ne scelse una e appuntò anche quella.

Il risultato era completo.

Rainbow Dash e… Icarus. Certo… erano due immagini diverse ma a lei andava bene lo stesso.

Fece qualche passo indietro e osservò intensamente la piccola composizione.

Rainbow Dash… fiera… decisa…

Icarus… uno sguardo altrettanto battagliero…

Le parole del discorso di Celestia le balenarono nella mente.


I pegasi che dimostrarono al mondo intero… che si può volare anche senz’ali…


Scootaloo osservò i propri fianchi, riportò lo sguardo sui Campioni di Equestria e… sorrise.

La luce baluginante della lampada proiettò la sua ombra ballerina, verso il muro alle sue spalle.


Per un istante, nonostante fossero lungo i fianchi… sembrò quasi che possedesse un paio d’ali spiegate.

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Capitolo 15
*** Capitolo Bonus - Mio Figlio ***


-Un Raggio di Sole-
 
            Il puledro la osservò intensamente, da lontano, ponendo assoluta attenzione affinché non venisse notato. Lo aveva già fatto in passato ma, ogni volta… era come se fosse sempre la prima.
Ogni volta… il suo sguardo si perdeva sul corpo di lei; sulle lunghe ali piumate; tra i suoi crine simili a filamenti dorati; nei suoi occhi… caldi e profondi: due sfere di bronzo fuso. Semplicemente stupendi. E, ogni volta… si bloccava come il manichino di una boutique.
Si trovavano nel cortile della scuola di volo, in un soleggiato pomeriggio di pausa.
Sunshine era seduta su uno dei gradini nuvolosi della scalinata principale. Nessuno li usava quasi mai, potendo volare. Nessuno… tranne lei.
Il pegaso bianco continuò ad osservarla di nascosto, senza riuscire a schiodarle l’attenzione di dosso.
Un urto improvviso lo fece tornare con gli zoccoli a terra.
“Ah! Daedalus! Razza di cascamorto che non sei altro! Sempre a spiare le belle puledre, eh??”.
L’altro si girò e riconobbe immediatamente il ghigno divertito di Minos, uno dei suoi compagni di corso.
“Oh… E-ehy… ciao, Minos…”.
L’amico si sporse con irruenza, spingendo Daedalus da un lato, con una zampa: “OH! Ullallà! Ti stai rifacendo gli occhi su quella del terzo corso, eh??”.
“Piantala, imbecille!!”, sbottò divincolandosi.
“Andiamo, Ded!”, continuò, assumendo un atteggiamento meno strafottente, “Ormai mezza accademia sa che fai il filo a quella puledra!”.
“Cos…??”, farfugliò imbarazzato, “Lo… lo sa… mezza…”.
“Cosa pretendi? Ad ogni pausa pranzo vieni qui e ti metti a spiarla. E sempre nello stesso punto. Mica è così difficile fare due più due, eh…”.
“M-ma io…”.
Sunshine, intanto, si dilettava nello sfogliare un libro sulle tecniche di volo ed evoluzioni aeree, apparentemente all’oscuro dei due pegasi lontani.
“Per quanto ancora intendi perdere il tuo tempo qui, come un’aringa sul banco di un pescivendolo?”.
“Eh?...”.
Minos si spalmò uno zoccolo sulla fronte: “…Uff… Certo che sei tardo. Quanto ancora vuoi aspettare, prima che qualcuno te la freghi, amico?”.
“Freghi?...”.
“Sì. Ho saputo che Talus le ha messo gli occhi addosso e non perde occasione per civettare con lei”.
Il puledro bianco si grattò la chioma e distolse lo sguardo: “Beh… ma… che vuol dire? Ognuno è libero di… insomma… e poi lei…”.
“E poi lei, cosa? Guarda un po’ là!”, lo invitò, allungando una zampa.
Daedalus notò un tizio dal manto scuro avvicinarsi a Sunshine, con fare inconfondibile: l’atteggiamento di chi “puntava alla preda”. Lo spione si intirizzì e buttò giù un bolo di saliva. L’altro, invece, distolse la puledra dalla propria lettura e attaccò bottone.
“Che ti dicevo, razza di scemo??”, riprese Minos, “Di questo passo finirai solo per consumarti gli occhi e qualcuno se la piglierà al posto tuo!”.
“Ah… m-ma… ma io… cosa… cosa dovrei fare, allora?...”, tentennò, iniziando seriamente a pensare che stesse perdendo tempo prezioso.
“Beh ma che domande! Vai là e parlale!”.
“No”.
“…Come sarebbe a dire… no?”.
“I-io…”, ripeté arrossendo.
Il compagno di corso scosse il capo e lo osservò spazientito.
“Ok, ho capito”, gli disse infine, raccogliendo aria nei polmoni.
“Ehy… ma cosa…”, gli rispose Daedalus, presagendo a qualche gesto insano dell’amico.
“EHY!! SUNSHINE!!! SIGNORINA SUUUUUUNSHINE!!!”, si mise ad urlare all’improvviso, sbracciandosi come un matto.
Il pegaso bianco ebbe un tuffò nel petto e si ritrasse a denti stretti: “Shhhht!!! Ma sta zitto, sei matto?? Ci vedrà!!”.
“Appunto… SUNSHIIINE!!!”.
“Pezzo di idiota!”, lo apostrofò.
La puledra, infine, si girò e scorse il curioso duo di pegasi: uno seminascosto dietro una nuvola e l’altro che sembrava cercasse di volare con le zampe, piuttosto che con le ali. Aggrottò le sopracciglia e Talus, accanto a lei, sembrò decisamente spiazzato.
“SUUUNSHINE!! HAI UN ATTIMO DI TEMPO PER QUESTO QUI?? VORREBBE PARLARTI!!”.
“Oh mamma… oh mamma… tu sei fuori come un balcone!!”, continuò a blaterare Daedalus, sempre più agitato.
            In quel preciso istante… Sunshine non riuscì più a resistere e dovette mostrare un sorriso divertito.
“Ecco! Lo sapevo! Ora penserà che siamo due buffoni!!”, si disperò.
“Io sono figo. Al massimo tu sei un pagliaccio”, puntualizzò Minos.
La puledra congedò garbatamente il suo interlocutore e poi fece cenno a Daedalus di avvicinarsi.
“Ah! Visto! Che ti dicevo?? Vuole che tu vada là!”.
“L-l-lei… cosa??”, domandò incredulo, facendo emergere la testa dalla nuvola.
Ed era vero. Sunshine sorrideva e continuava a muovere la zampa per dirgli di avvicinarsi.
“Occavolo…”, commentò.
“Dai! Muovi i quarti posteriori! Non farla aspettare!”.
“Ma… ma io…”.
“EMMUOVITI!!”, ruggì l’amico, spintonandolo così forte da farlo quasi inciampare.
Il pegaso bianco cercò di non franare sul tappeto nebuloso e, dopo qualche balzello sconnesso, si riportò in posizione eretta. Non sapeva cosa stesse facendo. Sentiva solo un nodo allo stomaco e sudori freddi per tutto il corpo. Incrociò per un istante le sfere di bronzo fuso e riabbassò immediatamente lo sguardo, arrossendo in modo esagerato. Avrebbe voluto sprofondare sotto le nubi… anzi… avrebbe davvero potuto farlo… ma ormai… era troppo tardi.
Raccolse fiato e, con passo incerto, si avvicinò alla puledra, che non smise di sorridergli per un solo istante.
            Quando fu accanto a lei, tentò di schiarirsi la voce, e dire qualcosa.
Aprì la bocca ma, nuovamente, si perse nei suoi occhi.
L’altra rise appena.
“Ciao”, gli disse.
Silenzio.
La puledra tentò di nuovo: “Tu sei…”.
“S-S-Sunshine…”, rispose l’altro. Il pegaso dorato inclinò il capo e lanciò un’espressione ambigua.
“C-cioè!”, si affrettò a correggersi, “T-tu sei Sunshine! Non io! Io… io sono…”.
“Daedalus”.
“Ah…”, esclamò sorpreso, “Tu… tu conosci il mio nome?”.
La giovane aveva d’innanzi a sé un pegaso davvero curioso. Era bianco come l’avorio e, seppur non fosse particolarmente prestante fisicamente, possedeva una certa postura quasi autoritaria. Sembrava dovesse andarsene in giro con un atteggiamento impettito e fiero… che però si sgonfiava puntualmente quando le metteva gli occhi addosso. E la cosa la inteneriva non poco. Sfoggiava una folta capigliatura viola scuro e gli occhi possedevano una tonalità analoga, solo più brillante.
Sì.
Lo trovava carino.
“Conosco il tuo nome perché… volevo sapere chi fosse il tizio che mi osservava ogni volta a pranzo!”, confessò.
Daedalus desiderò l’evaporazione istantanea del proprio corpo.
“E-ecco… i-io…”. Si girò sperando che Minos potesse aiutarlo a sbrogliarlo da quella fastidiosa situazione… ma il maledetto aveva ormai affondato il muso in un osceno panino al fieno fritto. Nessuna forza in cielo avrebbe più potuto riportarlo indietro, ormai.
Se la sarebbe dovuta cavare da solo…
“Ti… ti chiedo scusa…”, continuò, con imbarazzo crescente, “Non volevo… insomma…”.
“E io che pensavo fossi incuriosito solo dai libri che leggevo!”, rispose divertita.
“Ah… i… i libri?...”, domandò, scrutando il trattato di volo, riposto sui gradini, “Ti… ti piace leggere, quindi…”.
“Molto! A te no?”.
“Un sacco!”, mentì.
“Adoro le evoluzioni aeree!”.
“Anche io! Però… non ti ho mai vista… cioè… partecipare agli eventi… e…”.
“No, a me piace osservare le prodezze nei cieli. Non sono tipo da… uh… eseguirle”.
Daedalus arricciò appena il naso. Un pegaso che non smaniava per svolazzare nel cielo? Strano.
“Sì, sì, lo so… E’ una cosa assurda per un pegaso…”, cantilenò Sunshine, come se quella fosse una storia trita e ritrita.
“No beh… I gusti son gusti… Fai conto che io ho la passione… dei… sì insomma dei…”.
“Sì?”, chiese incuriosita.
“…Dei… cirri…”.
“Davvero??”.
“Sì… mi interessano gli assembramenti d’alta quota. Lo so. E’ una scemenza. Sono nubi effimere, su cui non puoi farci granché. Non vanno nemmeno bene come materiale edile, figuriamoci per altre cose…”.
“E’ davvero una cosa bella!”, ammise con sincerità.
“D… davvero?”, chiese titubante.
“Certo! I cirri! Nubi isolate, altissime, poste a metri e metri di altitudine, dove pochissimi sono in grado di arrivare! Non sono come tutte le nubi che ci sono qua! Quelle sono rare e bellissime! Hai presente le trame che dipingono in cielo quando un po’ di vento le scompiglia??”.
 
Daedalus si sentì fregato.
Il cuore gli batteva forte, dannatamente forte.
Non solo era carina ma aveva quel qualcosa… quel “non so che”.
E, a quel punto, non seppe perché reagì in quel modo.
Lo fece e basta.
 
“Vuoi… vuoi venire con me a… a vedere i cirri da vicino?”, le chiese improvvisamente, interrompendola e fissandola negli occhi, senza imbarazzo.
Sunshine rimase un po’ sbigottita. Questa volta era lei quella senza parole.
Poi si ricompose.
Abbassò appena il muso e alzò gli occhi verso di lui.
Il puledro fu sul punto di esplodere.
 
“…Sì, Daedalus… mi… mi piacerebbe molto…”.
 
*** ***** ***
 
-Sulla Collina-
 
            Sunshine arrossì appena, ritraendosi leggermente.
Daedalus adorava quando faceva così.
“Allora?... Che ne pensi?...”.
La puledra cercò di dire qualcosa ma tutto ciò che riuscì a fare fu sorridere e abbassare le palpebre.
Il compagno si avvicinò a lei e le sfiorò le guance con il muso. L’altra tentò di allontanarsi ma il puledro la abbrancò con le zampe e la strinse a sé.
“Anche se mi fai impazzire, quando fai così, non te la caverai mica!”, le disse.
“Lasciami, scemo!”, strillò ridendo. Si dimenò così tanto da rifilargli inavvertitamente una zoccolata sul mento.
“AHO!”.
“Oh! Scusami!!”.
“Così mi piaci un po’ di meno, lo sai??”, la prese in giro, massaggiandosi la parte dolorante.
“Ohhh… povero il mio pegaso d’avorio…”, lo schernì, dandogli un bacio a livello del collo.
“Mh… Per questa volta passi…”, commentò, trattenendosi dal soffocarla di coccole.
“Come sei comprensivo…”.
La coppia era seduta sulla sommità di una collina erbosa. L’erba era alta e rigogliosa e gli insetti giravano ovunque, alla ricerca di nettare e pollini. La stagione perfetta per una cosa simile.
Daedalus tornò serio: “Davvero, Sun… Cosa… cosa ne pensi?...”.
“È… è una cosa difficile…”, disse.
“Lo so. Non voglio una risposta così su due zampe. Ma… insomma… solo capire cosa ne pensi…”.
“Io…”.
“Ormai… ormai è quasi un anno che stiamo insieme. Forse è ancora troppo presto, non lo so. Però… ci stavo pensando… Se… se io uscissi con buoni voti… e se mio zio sarà d’accordo… potrei iniziare a lavorare presso la fabbrica a Steamdale”.
“È che… Steamdale…”, ammise l’altra, “È… insomma… Il fumo, il chiasso… Scusa se te lo dico ma… non è proprio un luogo che mi stimoli particolarmente. E poi… sbaglio o non è permesso ai pegasi di volare?”.
Il puledro capì le ragioni della compagna e ci pensò su.
Dopo un breve silenzio, propose: “Beh.. e se… se io lavorassi fin là… ma… insomma… noi due andassimo a vivere insieme in una zona vicina. Tra i cieli, magari. Così, ogni volta, basterebbe che io mi recassi a lavoro e poi tornassi indietro”.
“Pegaso pendolare?”, lo derise.
“Beh. Qualcosa di simile. La casa sarebbe lontana dal caos cittadino… ma… saremmo comunque abbastanza vicini da permettermi il lavoro. E’ un lavoro ben retribuito, per uno che inizia da zero!”.
“Lo so, lo so… In effetti… potrebbe funzionare…”.
“Davvero??”, chiese entusiasta, drizzando le orecchie.
“Sì ma non ti montare la testa”, lo ammonì, picchiettandolo sul petto bianco, “Dobbiamo prima finire gli studi”.
“Certo, mia regina! Prima le scartoffie e poi edificheremo il nostro regno tra i cirri di Cirropoli!”.
“Quanto sei scemo quando ti ci metti!”, affermò ridendo.
 
            Alcuni petali dei meleti in fiore fluttuarono tra i due, sospinti da un venticello leggero.
Daedalus li osservò e poi tornò con lo sguardo su Sunshine.
“Senti, Sun…”.
“Dimmi”.
“C’è anche a un’altra cosa… a cui… insomma… a cui pensavo…”.
“No. Ti ho già detto che non sono brava a cucinare… se vuoi l’insalata con mele caramellate che ti piace tanto, allora…”.
“Non… non era quello”, la interruppe.
“Cos’è, allora?”.
Il puledro soppesò bene le parole, prima di sputare il rospo.
“Sunshine…”, ripeté, “Tu… cosa penseresti se… se ti dicessi… che… cioè… Come… come vedresti un… un cucciolo?...”.
“I cani non possono camminare sulle nuvole, Dedy”.
“…Non parlavo di un cane…”.
La puledra impiegò qualche secondo per elaborare correttamente quella frase. Quando il processo fu completo, sgranò gli occhi e si portò le zampe al muso, senza parole.
L’altro pensò di aver detto una stupidaggine: “O-ok… forse era meglio se… se stavo zitto…”.
Ma il pegaso dorato non riusciva semplicemente a parlare.
“Cambiamo discorso, ok?”, buttò lì Daedalus.
“N-no…”, bisbigliò la puledra, “E’… è una cosa… importante… Sono contenta che tu… ne abbia parlato…”.
“Davvero?”.
“Sì”, rispose, con un sorriso estremamente sincero, “E’ una cosa… che… che mi era venuta in mente più volte… Non… non ho mai voluto parlartene perché avevo paura che… che tu…”.
“Quindi…”, cercò di capire, “Mi stai dicendo che…”.
Sunshine lo zittì con una zampa: “Non sto dicendo niente, Daedalus. Ora è presto per pensarci… Ma sappi che… che… insomma…”.
Il puledro bianco sorrise e le strinse la zampa tra gli zoccoli: “Sunshine col pancione, eh?...”.
Di nuovo, l’altra non seppe come altro reagire… se non cercare di ritrarsi imbarazzata.
Questa volta Daedalus la lasciò andare.
“È… è tardi, Dedy. Devo tornare a casa”, tagliò corto, con guance rossissime, e spiccò immediatamente il volo.
 
Quando fu ad alcune decine di metri d’altezza, il pony dalla criniera viola fece conchetta con le zampe e urlò: “PANCIONE!!”.
La traiettoria di Sunshine ebbe uno svarione e intuì come, in quel preciso istante, lei lo stesse maledicendo con foga.
 
*** ***** ***
 
-Vento di Tempesta-
 
            “Fatemi passare!! FATEMI PASSARE!!”, urlò il puledro, galoppando tra i corridoi affollati del complesso.
“DOVE?? D-DOVE??”, blaterò, di fronte al primo infermiere che gli capitò a tiro.
Daedalus sembrava sul punto di collassare. Era sudatissimo, agitato come pochi e col fiatone. L’altro lo osservò preoccupato: “Uhhh… dove… cosa?”.
“DOVE’ MIA MOGLIE???”, gli urlò, strattonandolo con violenza.
“AHHHH! MI LASCI!!”, strillò spaventato.
“Che succede?”, domandò un collega in camice.
“C’è un pazzo che farnetica! Avete lasciato aperta la porta del reparto psichiatria??”, continuò ad urlare, mentre il pegaso lo trattava come fosse un pupazzo.
“Signore! S-signore!...”, intervenne l’amico, cercando di calmarlo.
Daedalus si ritrasse all’improvviso e afferrò una sedia lì vicino. La puntò verso l’infermiere, manco fosse al circo coi leoni.
“V-VOGLIO SOLO SAPERE DOV’È SUNSHINE!!”.
“Si calmi!”.
“Dov’è??”.
“Signore… primo: ci dica cosa è venuto a fare qui…”, avanzò uno dei tanti medici che gli si stavano ormai radunando attorno.
“SUNSHINE!!”.
“Ooookay. Ma… a noi questo nome non dice granchè… E poi… le spiacerebbe abbassare quella sedia? Spaventa i degenti…”.
A quelle parole, Daedalus parve ragionare. Scrutò i dintorni e notò come tutti lo stessero osservando con preoccupazione.
“Abbatti il sistema, compagno!!”, starnazzò uno dei ricoverati, prima che venisse riportato nella propria camera.
“I-io…”, balbettò il pegaso, “S-scusate… mi sono… lasciato trasportare…”, e posò l’oggetto.
“Bene…”, affermò l’infermiere, avvicinandosi cautamente a lui, “Ora… ci può dire perché è qui?”.
“Ah!... I-io… sono appena uscito da lavoro… non appena… ho saputo che Sunshine… insomma… mia moglie… e… cioè… pancione… e… ecco… i… iooohooohhh…”.
Con un ultimo vaneggiamento, il pony dagli occhi viola perse i sensi e cadde a terra.
 
            Si destò poco dopo, con un fastidioso neon del soffitto puntato ai suoi bulbi oculari. Si fece scudo con la zampa, per sopportare il fastidio, prima di rendersi conto di essere su una branda nel corridoio.
Un’infermiera si avvicinò a lui.
“Uh… i-io…”, balbettò il puledro.
“Signore… rimanga calmo… Ha avuto un calo di pressione improvviso”.
Daedalus cercò di mettere a fuoco la targhetta sul camice bianco.
“Uhh… S… signorina Cheesnut…”.
“…Chestnut…”.
“Ah… mi… mi scusi… i-io… stavo cercando… insomma…”.
“Sua moglie. Sunshine”.
“Sì! Mia moglie!!”, sbottò, alzandosi all’improvviso.
“Ok, ok! Si calmi!”, lo rassicurò, “Sua moglie sta bene. È nella stanza qui accanto”.
“Davvero??”.
“Sì”.
“E… e…”.
"È andato tutto bene”.
“Oh… grazie a Celestia…”, sospirò, ponendosi una zampa sul petto.
Dopo qualche secondo per riprendersi, il pegaso le chiese: “E… p-posso…”.
“Certamente”, rispose con un sorriso.
Non se lo fece ripetere due volte.
Saltò giù dal lettino e si fece accompagnare d’innanzi ad una porta verde pastello.
La tensione gli salì improvvisamente in corpo e il cuore iniziò a tamburellare come fosse impazzito.
Dietro… lì dietro… c’era…
Si fermò per un istante, sentendosi completamente impreparato ad un evento simile.
Infine… fece un profondo respiro e spalancò la porta.
 
            Una curiosa luce accecante lo abbagliò, giusto per poco.
La stanza era piccola ma munita di grosse ed ampie finestre, da cui filtrava un caldo sole di mattino inoltrato. Nonostante fosse quasi inverno, quella giornata seppe regalare un tepore inusuale per la stagione.
Quindi… la vide.
Sunshine era distesa su un lettino contro il muro. Un sorriso dolcissimo, come mai aveva visto prima d’ora, le adornava il volto. Tra le zampe reggeva un fagottino, qualcosa di piccolo e non meglio definito, in mezzo a tutti quegli indumenti avvolti.
Aprì la bocca, d’innanzi ad una delle scene più belle che mai avesse visto.
Accanto a lei, appoggiato con le zampe anteriori al letto, un piccolo puledrino, di appena qualche anno di età, osservava il fagotto con una strana scintilla negli occhi.
Daedalus si bloccò quando vide una zampina grigia sbucare e allungarsi verso il piccolo pony accanto. Il puledrino distese a sua volta lo zoccolo e i due si sfiorarono.
Chestnut, con molta cortesia, si avvicinò al piccolo e decise di intervenire.
“Vieni, Ate”, gli disse, invitandolo a seguirla, “Lasciamoli soli”. E si congedarono.
 
            Daedalus era spiazzato. Letteralmente spiazzato.
Osservò la moglie, senza sapere cose dire o cosa fare.
L’altra alzò lentamente lo sguardo su di lui.
“Ciao”, gli disse.
“Ci… ciao…”.
Sunshine presentava un volto stanco e appena madido di sudore. Nonostante tutto, però, emanava una dolcezza e una gioia che chiunque avrebbe avvertito.
“S… stai bene…?”, le domandò.
“Mio caro Dedy…”, dichiarò, riportando l’attenzione su ciò che stringeva tra le zampe, “Se fossi stato qui al momento della nascita… come minimo avrebbero dovuto dare più sedativi a te che a me…”.
Il marito deglutì: “Oh… e… È stato così doloroso?...”.
“Molto”, lo informò, con voce lapidaria, “Ma ora… ora è tutto passato…”.
“Meno… meno male… e…”.
L’altra sorrise di nuovo: “Vuoi vederlo?”.
“B-beh… ecco… io…”.
“Non puoi”.
“Eh?”.
“Lui è mio. Tutto mio”, scherzò, affondando il muso tra i panni. Una debole risalata infantile provenne dal fagotto e Daedalus subì un altro affondo al cuore.
Senza più dire niente, il padre si avvicinò ai due. Ancora non vedeva suo figlio… e Sunshine glielo porse delicatamente.
 
            Era leggerissimo. Sembrava di reggere una piuma.
Con un timore che mai provò in vita sua e zampe visibilmente tremanti… decise di scostare lentamente il panno.
E lo vide.
 
Un piccolo pegaso grigio, con una folta chioma viola, lo osservò con occhioni altrettanto viola.
Il fiato quasi gli venne meno.
Senza pensare, senza farsi domande… ma semplicemente seguendo l’istinto… Daedalus lo estrasse dai panni… e lo sollevò d’innanzi a sé.
Il sole alle spalle del piccolo creò un contrasto con la sua figura.
Il nuovo nato allungò le zampine verso il muso del padre, sfiorandolo, e si mise a ridere. Le ali sulla sua schiena si spalancarono e i genitori si resero conto di quanto fossero grandi, per un pegaso così piccolo.
E Daedalus… ancora non riusciva crederci.
 
Non riusciva a capacitarsi di quel piccolo volto sorridente.
 
Di quel corpo magro dalle sfumature color cenere.
 
Di quei grossi occhi vivaci.
 
Di quelle piccole risate.
 
E di quelle ali così belle.
 
Una lacrima gli scese lungo la guancia e portò il muso contro quello del pargolo.
 
 
Mai avrei pensato
Di sentire qualcosa dentro
Come quando ho visto
Questo piccolo pegaso appena nato
 
Mai avrei pensato
Di sentirmi così carico di vita
Come quando stetti accanto
 
A lui…
 
Mai stato
Così fiero
 
Mai stato
Così felice
 
Per lui…
 
 
Mio figlio.
 
*** ***** ***
 
-La Promessa-
 
            Chiamarlo stallone sarebbe forse stato un po’ presto. E magari non lo avrebbe nemmeno desiderato. Ma il tempo passa per tutti. E di certo, lui, ormai non era più un puledro.
Rimane tuttavia aleatoria come definizione. L’età non porta necessariamente a benefici quali la saggezza o la comprensione. E un giovane puledro può scoprirsi già anziano dentro, così come un venerando stallone potrebbe custodire lo spirito di un cucciolo.
Ma non ci furono dubbi.
Quella notte…
Daedalus affrontò qualcosa… che lo distaccò completamente dal mondo della propria infanzia.
Un avvenimento inaspettato.
Un avvenimento terribile.
 
            Il pegaso bianco entrò nella stanza.
Era tutto buio. Non aveva nemmeno acceso una candela. Ma non necessitava della vista per trovarla. I singhiozzi… si sentivano benissimo.
Sunshine era seduta al tavolo, con uno zoccolo a coprirle un occhio e l’altra zampa distesa mollemente sul legno. Le palpebre erano chiuse e le guance bagnate.
Anche il volto del marito era diverso dal solito. Era triste. Spento.
Terribilmente dispiaciuto.
Ma non era quello il momento per mostrarsi deboli. Se lui stava soffrendo… Sunshine, ne era sicuro, stava provando qualcosa di mille volte più intenso. La conosceva bene.
Anche se ancora non riusciva a crederci. Non poteva crederci.
 
Si avvicinò lentamente alla compagna, che continuò a piangere.
Non sapeva cosa dire. In effetti… pensò che fosse meglio non dire nulla.
“Io… io…”, balbettò quindi la giumenta, scuotendo il capo e cercando di contenere i singhiozzi, “Io non… non è possibile…”.
Daedalus abbassò lo sguardo.
“Com’è possibile?...”, continuò l’altra, “Perché?... Perché ad un cucciolo dovrebbe accadere una cosa così terribile??...”.
“Io… io non lo so, Sunshine…”.
Il pegaso dorato si strinse nelle spalle e cercò di parlare ma un pianto straziante le uscì dalla bocca, lanciando il marito nella sofferenza più totale.
“Io…”, riprese l’altra, “Io… io dare le mie ali… Ma cosa dico? Darei la mia vita… per… fare qualcosa per lui… Qualsiasi cosa…”.
Il pony bianco la abbracciò a sé: “Lo so, piccola. E’ una cosa… terribile. Io… io non…”, e si ammutolì, sentendo solo i singulti della compagna, la quale aveva affondato il volto tra le sue spalle.
Chiuse gli occhi.
 
Come poteva essere?
Una malattia sconosciuta?
Uno scheletro di… di vetro?
Senza una cura sicura.
Senza uno spiraglio di speranza.
 
Poteva essere?
 
Lui…
Suo figlio…
Un pegaso… che non avrebbe mai potuto volare.
Il figlio… a cui non avrebbe mai insegnato a volare.
 
Come… poteva essere?
 
“Lui… lui dov’è, ora?”, le chiese.
“È… è in camera sua…”.
Lo stallone rilasciò la presa su di lei e si diresse titubante verso la porta chiusa. Dentro si trovava… Icarus.
Il padre iniziò a respirare velocemente. Qualcosa di fastidioso gli investì ogni cellula del corpo.
Allungò una zampa verso la maniglia… ma…
 
Non ce la fece.
Lo riconobbe subito.
Non ne aveva il coraggio.
Non riusciva… non sarebbe mai riuscito ad affrontare con lui tale situazione.
 
In quel momento Daedalus capì… quanto fosse debole.
Aveva scalato la gerarchia della fabbrica in cui aveva iniziato a lavorare.
Era uscito con il massimo dei voti.
Era divenuto uno stallone robusto, autorevole e rispettabile.
Eppure…
Non trovò la forza di guardare negli occhi…
…suo figlio.
 
Abbassò la zampa.
Si girò di nuovo verso Sunshine, ancora in lacrime.
Dopo aver raccolto aria nei polmoni e con un volto estremamente deciso, le fece una solenne promessa.
 
“Te lo prometto, Sunshine. Farò di tutto… di TUTTO… pur di permettere a nostro figlio di volare. Almeno una volta in vita sua…”.
“M… ma…”.
“Non importa come. Prenderò tutti i soldi che ho guadagnato a Stemdale. Farò ricerche. Troverò medici. Interpellerò incantatori. Unicorni. Alicorni. Zebre. Non importa quanto tempo ci vorrà… o quanto dovrà sacrificare. Mio figlio volerà”.
Nonostante sapesse che fosse più una speranza che altro… Sunshine non poté fare a meno che sentirsi sollevata per quelle parole. Si asciugò le lacrime e, ancora con qualche singhiozzo, gli sorrise appena.
“Domani tornerò a Steamdale. Farò i doppi, anche tripli turni. Non importa”.
“Ma… Daedalus…”.
“Non mi importa delle conseguenze”, dichiarò con tono solenne, dirigendosi verso il proprio studio, “Lavorerò giorno e notte per trovare una soluzione. Mio figlio… mio figlio non si merita questo”.
 
Il marito chiuse lentamente la porta dietro di sé.
Sunshine sapeva bene quanto stesse soffrendo, anche se cercava di non darlo a vedere… e quello era il suo modo per isolarsi… e sfogarsi. Senza che nessuno potesse vederlo. Lui era fatto così.
 
Ci fu però una cosa che la lasciò ancor più preoccupata.
Era contenta che lui si prodigasse così tanto per la salute del figlio. Non poteva essere altrimenti.
Ma…
Quelle parole…
Lavorerò giorno e notte per trovare una solzuione. Mio figlio… mio figlio non si merita questo”.
La giumenta si incupì ed osservò la porta della stanza di Icarus.
“Attento, Daedalus…”, disse tra se e se, tirando su col naso, “Tuo figlio… si merita comunque un padre… Cerca di stargli vicino…”.
 
“Cerca di non allontanarti da lui…”.
 
*** ***** ***
 
-Ogni Cosa-
 
            “No… No! NO!!”, sbottò il pegaso, battendo un colpo sulla scrivania metallica.
Si trovava nel suo ufficio a Steamdale: la fabbrica di componenti per gli zeppelin. La struttura che era riuscito ad ereditare dai parenti, dopo un periodo di duro e faticoso lavoro.
“Sono stato chiarissimo, a riguardo!”, ruggì, facendo abbassare le orecchie al pony che aveva d’innanzi, “Avevo chiesto tre metri cubi di nembostrato incantato e due incantesimi per il cannocchiale!!”.
“Ah…”, si scusò l’altro, che era solo un semplice faccendiere, “I-io… ci dev’essere stato un errore, allora…”.
Il volto del pegaso era adornato da profonde occhiaie e trasudava nervosismo in ogni direzione.
“Senti…”, riprese, stringendosi gli occhi tra uno zoccolo, “Non mi importano le tue scuse. Ho bisogno di quelle nuvole. E di un cannocchiale che possa essere collocato in cima ad esse”.
“Certo, signor Daedalus… Vedrò di modificare l’ordine…”.
“Sarà meglio…”.
Con un gesto, gli fece cenno di andarsene.
L’ufficio era pieno di caos.
C’erano diverse parti metalliche dispose alla rinfusa per ogni angolo della stanza, sia per terra che su appositi ripiani. Contro la parete si trovava un’enorme lavagna piena zeppa di scarabocchi, fogli appesi e progetti quasi incomprensibili. Tra tutti, spiccava la gigantografia di una nuvola, su cui era stata riportata la scritta “Cirrus High 4000”.
Il pegaso puntellò le zampe anteriori sulla scrivania e sospirò, lasciando cadere i lunghi crine scompigliati sul muso.
Dalle ampie vetrate a muro poteva scorgere invece la catena di produzione vera e propria della fabbrica: ingranaggi, stantuffi e pistoni si muovevano incessantemente per ottenere i componenti dei velivoli di Steamdale.
O meglio… sperava che ancora fosse così. Da mesi a quella parte non aveva fatto altro che prodigarsi per trovare una soluzione al problema del figlio. Non riusciva a pensare ad altro, al punto da lasciare quasi incontrollata la gestione dell’azienda.
 
Qualcuno bussò e il proprietario fece cenno di entrare.
Un pegaso color ciliegia ed un unicorno azzurro si palesarono all’unisono. Possedevano un’aria autorevole e sembrava sapessero il fatto loro.
Si collocarono di fronte alla scrivania, cercando di schivare il disordine.
Daedalus li degnò appena di attenzione: “Qualche notizia?...”.
Fu il pegaso a prendere la parola: “Sì, signor Daedalus. Ci sono due possibili locazioni, attualmente. Una si trova nella periferia di Steamdale”.
“Bocciata”, si affrettò a liquidarlo, “E l’altra?”.
“Mhh… una piccola zona rarefatta nei dintorni di una piccola cittadina. Si chiama Ponyville”.
“Ponyville? Mai sentita”.
“Non è molto lontana da Cloudsdale. E Canterlot sarebbe a tiro di treno”.
“Mhf…”, bofonchiò, “Se non c’è niente di meglio… informatevi e poi portatemi i dettagli. Se fosse un luogo tranquillo, potremmo pensare di costruire lì l’abitazione”.
“Invierò allora gli specialisti per un sopralluogo”, gli comunicò, annotando qualcosa su un pezzo di carta.
“Tu, invece?”, chiese all’unicorno, “Hai qualche novità?”.
“Non molte, signor Daedalus. Stiamo proseguendo le ricerche sui cirri d’alta quota”.
“Dopo tutti i soldi che vi ho dato… mi aspetto qualche risultato…”.
“Arriveranno di sicuro. Ci vuole solo un po’ di tempo”.
Il pegaso dalla chioma viola parve incupirsi: “E… e invece per… per la…”.
“La cura?”.
“…Sì”.
“Ancora niente. Stiamo interpellando l’equipe di pegasi e incantatori che ci ha indicato. Stavamo pensando di sfruttare anche dei dottori”.
“Dottori?”.
“Medici. Specialisti. Forse, attraverso sforzi combinati di tre parti distinte, si riuscirebbe ad ottenere qualcosa. Una traccia per iniziare, perlomeno”.
“Sarebbe meglio di quello che avete ottenuto fino ad ora. Cioè niente”.
I due si osservarono, un po’ spiazzati.
Daedalus reclinò di nuovo il capo, come se gli mancassero le forze per tenerlo alzato, e l’unicorno riprese a parlare: “…Uh… Sta… sta bene, signor Daedalus?”.
“Sì… sì sto bene…”.
“E’ sempre… chiuso qui dentro… per fare queste ricerche… Non è affar mio ma… è sicuro di non esagerare? Di non aver abbandonato la fabbrica a se stessa?...”.
“Hai detto bene. Non è affar vostro. Vi pago per fare ricerche e non come rappresentanti della mia coscienza”, rispose infastidito, “Ora… se non avete altro da dirmi… vi inviterei ad andarvene”.
Il duo ubbidì e abbandonò il locale, lasciando lo stallone nella solitudine, accompagnato soltanto dal clangore dei macchinari lontani.
 
            Il pony bianco sospirò sommessamente.
Deambulò per l’ufficio, senza un’idea chiara in testa.
Si sentiva stanco. Molto stanco.
Svuotato. Nel corpo… e nell’anima.
Gli occhi si posarono per un istante sulla scrivania, su cui notò una foto quasi del tutto sommersa da un mare di scartoffie. Si avvicinò e la estrasse.
 
Era la foto… di Icarus.
Di suo figlio.
Nell’istante dello scatto, era nato da poche ore.
Piangeva tra le braccia della mamma.
Una mamma dolcissima.
Con un sorriso stupendo.
 
Passò lentamente uno zoccolo sulla figura di lei, lasciando poi che scivolasse sull’immagine del figlio.
Sentì l’impulso di piangere.
Ma si contenne e rimise la foto al suo posto.
Riportò lo sguardo verso i progetti sul muro.
 
“Tu volerai, Icarus. Fosse anche solo per un’ora nella vita… tu volerai.”
 
“Te lo prometto”.
 
*** ***** ***
 
-Sopravvivere-
 
            “COME SAREBBE A DIRE??”.
“Calmadi, Dedy…”, cercò di tranquillizzarlo Sunshine.
“Calmo?... CALMO??”, scoppiò, “Come faccio a star calmo?? Ma ti rendi conto?? Gli ha fratturato un’ala!!”.
“Sì è vero ma…”.
“Cosa diavolo le è saltato in mente?? A prendere… a prendere un puledro in quelle condizioni e portarlo… IN UNA TEMPESTA??? Ma stiamo scherzando??”.
Lo stallone era assolutamente furioso.
I genitori di Icarus si trovavano nel giardino dell’ospedale all’Emerald Lake. Lo stallone aveva preso in disparte la moglie, per non far risuonare la sfuriata tra le mura dei corridoi interni.
“Dedy… Non è successo niente…”.
“Una tempesta!! Sai che avrebbe anche potuto… anche potuto…”.
“Ma non è successo…”.
“E come se non bastasse, lo prende, lo tira fuori dall’ospedale e lo porta in cima… in cima d un grattacielo!! Dico, ma lo sai in che stato l’ho ritrovato??”.
La giumenta parve leggermente infastidita: “Mhf… Icarus viene preso, Icarus viene tirato fuori, Icarus viene portato, Icarus viene ritrovato… Parli di lui come se fosse uno stupido che viene sollevato e poggiato come un soprammobile…”.
“Cosa… cosa stai dicendo?”, le chiese interdetto.
“Senti, Daedalus…”, rispose con foga, “Lo so che sembra una cosa assurda… ma… da quando Icarus ha incontrato questo pegaso… Rainbow Dash… è come… come se qualcosa fosse cambiato…”.
“Fandonie!!”, sbottò bruscamente, “L’unica cosa che può avergli giovato è quella cura che…”.
“La cura?... La cura?? Sai cosa sta facendo la cura a nostro figlio, Daedalus?? Lo sta spegnendo giorno dopo giorno!! Viene rinchiuso qui, tra quattro mura asettiche e imboccato come un poppante!”.
“Lo sai che è per il suo bene…”.
“Non lo so. Non ne sono più così convinta…”.
“Bene!”, rispose ironico, “Allora lasciamo che se ne esca di qui e vada a sfracassarsi le ossa da qualche parte allora!”.
“Sinceramente, Ded?”, gli disse con sincerità, “L’ho visto più felice con un’ala fratturata che non qui all’Emerald Lake! E poi… avresti dovuto vederlo… dopo… dopo la tempesta che quella folle ha deciso di portare qui…”.
“Già. Anche lì è una bella storia… Una tempesta per riempire il lago prosciugato… Solo a certe pazzoidi potrebbero venire in mente certe id…”.
“Tuo figlio”, lo interruppe, a zampe conserte e sguardo ammonitore.
“Eh? M-mio figlio?”.
“L’idea l’ha avuta tuo figlio”.
“Ah…”, esclamò.
“Vedi??”, lo riprese, mostrandogli a gesti l’altezza a cui si trovava la finestra della sua camera, vista dall’esterno, “Sei così preso con questa faccenda della cura da lasciar perdere tutto il resto! Scommetto che non sai nemmeno dove si trova esattamente la camera di nostro figlio!”.
Il marito non rispose.
“Da quanto tempo è che non passi un po’ di tempo con lui?? Quand’è stata l’ultima volta che vi siete visti… per… per parlare?”.
“Ma… veramente…”, cercò di buttar lì.
“La strigliata dell’altra volta non conta, mi pare ovvio! Sei sempre focalizzato su come salvare la vita di tuo figlio che stai perdendo di vista una cosa ancor più importante!”.
“Ridicolo!!”, rispose, usando la stessa espressione che, evidentemente, un altro pegaso cocciuto aveva ereditato da lui, “Cosa c’è di più importante se non la salvezza della vita di…”.
“E’ questo il punto!!”, dichiarò, afferrandogli le zampe e sfoggiando un volto al limite dell’esasperazione, “Prima di salvargli la vita… tu… DEVI FARLO VIVERE!!!”.
“I-io…”.
“Icarus deve vivere!! Non sopravvivere!! Deve… deve essere felice per quello che è e per quello che ha!”.
“Insomma… deve essere felice senza volare? Senza che nemmeno ci proviamo?”, chiese stizzito.
“No!! Oh, per Celestia! Perché non capisci??”.
“Non sono io quello che non capisce!!”, ribatté.
“Daedalus!! Tuo figlio… è proprio tuo figlio! E come tale ha bisogno di un padre che gli stia vicino e che gli voglia bene! Poi spacchiamoci pure la testa nel trovare un rimedio ma, prima di tutto questo, dobbiamo dargli affetto! Quell’affetto che non ha mai avuto e che sta trovando solo ora con una puledra mezza matta che, non so per quale diavolo di motivo, gli vuole un bene dell’anima!”.
Il pegaso bianco emise un lungo respiro e si distaccò momentaneamente dal discorso, facendosi pensieroso.
Non condivideva appieno il discorso della compagna… o forse… un po’ sì? Ma il problema… era che… per più di dieci anni… dieci lunghissimi anni… lui non aveva fatto altro che dedicarsi a quella cura. Come poteva, di punto in bianco, lasciar perdere la cosa? Forse… forse erano davvero sul punto di scoprire qualcosa… Non poteva saperlo con certezza ma… E se quella fosse stata la strada giusta? Sarebbe bastato così poco per scoprirlo…
Non era per la questione della marea di soldi spesi.
Non era orgoglio.
Non era semplice testardaggine.
Lui ci credeva davvero. Si sentiva così vicino ad una possibile soluzione… ed ora Sunshine sembrava improvvisamente contraria.
Icarus soffriva… vero. Ma… se avesse funzionato… quella sofferenza sarebbe valsa a qualcosa. E sarebbe presto stata dimenticata, in prospettiva di un futuro più roseo.
 
            Lo stallone si girò e spalancò le ali.
“Ehy! Daedalus! Che fai?”, gli domandò Sunshine.
Il marito, scrutandola appena con la coda dell’occhio, rispose: “…Scusa piccola… Capisco cosa vuoi dire… Ma… Non posso mollare tutto proprio ora”.
“Ma… non ti sto dicendo di mollare!”.
“Lo so. Semplicemente… devo andare. Devo parlare con… con un pegaso”.
“Cos…”.
Lo stallone spiccò il volo, sbattendo con imponenza le enormi ali bianche.
“Daedaluuus!!”, strillò l’altra, mentre lo vedeva allontanarsi.
 
*** ***** ***
 
-Il Vento Sotto le mie Ali-
 
            Era notte.
Tutto taceva.
Non si udiva alcunché.
Il silenzio più assoluto.
 
Una porta di metallo si aprì lentamente, accompagnata da un vagito rugginoso, lasciando che un debole spiraglio di luce penetrasse dall’uscio.
La sagoma di uno stallone si palesò per un istante, prima che richiudesse la porta alle proprie spalle, con un tonfo che riecheggiò nell’enorme struttura abbandonata.
Quella… era la sua fabbrica.
Non c’era nessuno. E non perché fosse notte.
Semplicemente… non esisteva più.
Senza più soldi… dopo aver investito tempo ed energie in ben altra faccenda… non poteva durare. E così…
 
Daedalus si trascinò lungo i corridoi, con passo lento e rassegnato. Scrutò i dintorni immersi nell’ombra: le macchine abbandonate, i tavoli ricoperti di strumenti e… il suo ufficio in fondo al capanno. Le vetrate sporche di polvere e tappezzate con fogli vari.
 
Lo stallone non stava pensando a nulla.
Non sentiva nulla… se non un enorme senso di fallimento e abbandono.
I suoi crine erano appesantiti: non se li curava da giorni ormai. Le ali cascanti e gli occhi un po’ arrossati.
E il cuore… una ferita aperta nel petto.
 
Poco più di una settimana fa…
Tutto…
Tutto era crollato.
 
La speranza di una vita.
Un lumino nel buio.
Ormai spento per sempre.
 
La cura in cui aveva investito ogni energia, ogni singolo centesimo… non aveva funzionato.
Sentì di aver fallito. Ma, più di tutto, fu terribile pensare a…
 
Suo figlio.
Icarus.
Che mai avrebbe potuto volare.
 
Aprì l’ufficio e scrutò i dintorni. Nonostante fosse buio, notò i rimasugli dei progetti. C’erano ancora tutti. La Cirrus High affissa al muro. Le schede mediche. I fogli per incantare le nuvole…
Già. Le nuvole. Ora, senza più un soldo, senza più l’attività in piedi… come avrebbero fatto a mantenere la casa incantata a Ponyville? Cosa sarebbe successo?
Come sarebbe riuscito a guardare negli occhi… suo figlio?
 
Accese una lampada a gas, che portò un poco di luce nell’ambiente.
Cammino ancora per un po’ tra le quattro mura, scrutando gli oggetti presenti, con sguardo assente, decidendo poi di sedersi alla sua vecchia scrivania di metallo.
Si accasciò sulla sedia come se non avesse davvero più la forza di vivere.
Portò le zampe alla fronte e si appoggiò ad esse, chiudendo gli occhi.
Respirò. Lentamente.
Dopo svariati minuti, sollevò lo sguardo… e incrociò la vecchia foto che era stata scattata all’ospedale, poco dopo il parto.
La osservò intensamente. Molto intensamente.
La prese e la avvicinò a sé, passando nuovamente lo zoccolo sulla superficie un po’ impolverata.
 
Il… il piccolo Icarus.
 
Una sensazione straziante e terribile gli fece tremare le zampe.
Daedalus chiuse gli occhi.
Alcune convulsioni lo investirono senza preavviso.
Mai come allora… aveva pianto in quel modo: si portò la foto al petto e scoppiò in lacrime. Fu così tanto il dolore che fu costretto quasi a raggomitolarsi su se stesso, poggiando la fronte sul bordo del tavolo.
E pianse.
Pianse di un dolore così grande da lasciare senza forze… senza fiato. Un dolore grezzo e travolgente, incapace di farti pensare e ragionare.
 
“Mi… mi dispiace, Icarus…”, singhiozzò, osservando l’immagine del cucciolo grigio, “Mi dispiace tantissimo… Non… non ce l’ho fatta… Ho… ho fallito… Non… non ho mantenuto la promessa… Mi dispiace… mi dispiace… mi dispiace da morire…”.
Riportò l’attenzione sulla mole di progetti alla rinfusa, ritenendoli ormai anni e anni di lavoro sprecato: “Ho… ho sbagliato tutto… Non… non sono stato in grado di aiutarti… Io… io volevo solo che tu… che tu stessi meglio… che potessi… che potessi… vivere più sereno… volevo solo questo… per… per mio…”.
 
            Il rumore di una porta lontana risuonò per l’intera struttura.
Daedalus alzò repentinamente il capo e riconobbe alcuni zoccoli trottare verso l’ufficio, con l’eco degli scalpiccii sul metallo. Non sapeva chi fosse ma, istintivamente, cercò di ricomporsi: rimise la foto dov’era e fece di tutto per asciugarsi le lacrime, un istante prima che Sunshine facesse il suo ingresso.
“Sunshine!”, disse sorpreso.
“Daedalus! Allora sui qui!...”, gli rispose, con il fiatone.
“Cosa… cos’è successo?”, le domandò.
La giumenta si prese qualche istante per recuperare aria nei polmoni, quindi si avvicinò al marito e sfoggio un inaspettato sorriso.
“È… è successa una cosa straordinaria, Daedalus!!”.
“Una… cosa straordinaria?”.
“Sì!! Non ci crederai mai!!”.
“Già…”, commentò tristemente, “Ormai ogni cosa sarà meglio di quanto sta succedendo…”.
“Aspetta, aspetta!!”, lo interruppe con foga.
Il pegaso dorato aprì una sacca a tracolla ed estrasse una rivista, con i denti. La posò sulla scrivania.
“Guarda!! Leggi!!”.
L’altro non parve convinto: “Mhf. Cos’è?”.
“Zitto e leggi!”.
Lo stallone iniziò a controllare la prima pagina, con aria rassegnata.
 
Ma poi… il suo volto iniziò a dipingersi di strane espressioni: prima incredulità, poi sorpresa crescente e infine… sbigottimento più totale!
Guardò Sunshine dritta nelle sfere di bronzo fuso: “C-cos’è?... Uno scherzo?...”.
“No, Dedy!!”, disse festosa, “E’ tutto vero!! Nostro figlio… nostro figlio ha volato!!”.
“Nostro… nostro figlio…”.
“Ha volato!! Ha volato davvero!! Con le proprie ali!!”.
“Non è possibile”, rispose.
“Cavolo, Daedalus, hai letto?? Ha volato! Ti rendi conto?? Si è spinto nel cuore della notte, solcando i venti e… cavolo io te lo dico lo stesso!! Ha cavalcato una tempesta!! Tutto da solo!!”.
La compagna non stava più nel pelo, mentre l’altro ancora non riusciva ad accettare la notizia.
“Dovresti vedere com’è felice ora Icarus!! Sembra un altro puledro! È… è felicissimo!!”.
La moglie continuò a lanciare commenti di gioia, una gioia che si fece lentamente strada anche nel petto dello stallone. Ma… c’era una cosa che continuava a tenerlo inchiodato sul quotidiano. Una foto, in particolare… una foto che ritraeva… un pegaso. O forse… non esattamente un pegaso…
“Sunshine”, la interruppe.
“Sì?”.
“È… è vero quello che… quello che c’è scritto qui?...”.
“Ti… ti riferisci a…”.
“Sì… a lei…”.
Sunshine si pose in un atteggiamento a metà tra il commosso e l’afflitto: “Sì… Sì, Daedalus. È successo davvero…”.
“Non… non posso crederci…”, commentò, scuotendo il capo e non riuscendo a distogliere gli occhi dalla foto.
“Credici, Daedalus”, incalzò, mostrando un sorriso accompagnato da lievi rughe di stanchezza, “Tuo figlio… è riuscito a far breccia nel cuore di qualcuno… in un modo che nemmeno io riesco a concepire… E… e quel qualcuno… ha compiuto un gesto estremo… solo per lui. Solo per questo. Solo per regalargli… un’ora di volo”.
E Daedalus davvero non poteva crederci. Non ce la faceva.
Non ci riusciva.
 
“Quel pegaso blu…”, continuò Sunshine, “Ha affrontato il proprio ultimo volo… solo per Icarus. Solo per lui”.
 
“E… in un modo o nell’altro… non hai infranto la tua promessa, Daedalus. Icarus ha volato. Icarus ha volato per davvero”.
 
*** ***** ***
 
-Quando Nasce un Sole-
 
            Pensieri d’ogni sorta accompagnarono Daedalus per il tragitto di ritorno a Ponyville.
Lo stallone era seduto nella cabina del treno, a notte inoltrata, e si stava quasi mangiando gli zoccoli dal nervoso. Sunshine, invece, si era accoccolata contro di lui, con un sorriso di beatitudine che non le vedeva in volto ormai da anni.
Il paesaggio notturno scorreva veloce, sullo sfondo, accompagnato da una luna calante che illuminava debolmente il territorio.
Nonostante fosse stanco morto, e avesse più di un motivo per essere finalmente felice per qualcosa… non riuscì proprio a dormire.
            Il mattino, quando la moglie si svegliò, passarono un po’ di tempo a discutere (il viaggio era lungo e sarebbero arrivati solo tra qualche ora). Si chiesero cosa avrebbero fatto per il futuro. La fabbrica era fallita, la casa troppo costosa per essere mantenuta e, sostanzialmente, non avevano più un soldo.
“Beh”, propose la compagna, “Icarus potrebbe… stare da Dash per un po’. Che ne dici?”.
Per un istante l’altro parve trasalire: “C-cosa?? Icarus con… con una…”.
“Eddai, non fare il papà iperprotettivo! Rainbow ha una casa tra le nuvole. Icarus potrebbe stare in una zona a lui confortevole, così, non ti pare?”.
Daedalus non era convinto ma, alla fine, soprattutto dopo tutto ciò che aveva saputo, non poté far altro che ritenerla la soluzione migliore.
“E noi… noi che faremo, Sunshine? Non abbiamo soldi… non abbiamo un lavoro…”.
“Mah, tecnicamente”, buttò lì, con sguardo furbetto, “Brutus ha quel locale che…”.
“Cosa??”, sbottò, “Vuoi proporre di… di lavorare in quel buco ammuffito??”.
“Che vuoi che ti dica, caro?”, gli rispose con aria di sufficienza, dandogli due colpetti sulla testa, “Si fa di necessità virtù!”.
“Ma… ma… Brutus!! Io quello non lo posso vedere! E tantomeno odorare!! Puzza come una capra sudata!”.
“Quello oppure siamo punto e a capo”.
“Bah. Dannazione”, concluse con rassegnazione.
 
            Quando giunsero a Ponyville, non sapevano dove si trovasse il figlio. Poteva essere da Rainbow, come in città.
Il viaggio e il carico di emozioni, tuttavia, li aveva sfiniti entrambi.
Decisero così di sistemarsi in un piccolo bungalow per gli ospiti, riposarsi e solo in un secondo momento procedere alla ricerca di Icarus.
Dopotutto… aveva cavalcato una tempesta. Non avrebbe di certo avuto problemi a girovagare per una cittadina. E poi… ormai Daedalus ne era sicuro: lì, più o meno, erano tutti matti. Tanto valeva mettersi l’anima in pace e lasciare che le cose proseguissero per i fatti loro.
 
            Calò quindi la sera.
Sunshine ciondolava letteralmente dal sonno ed il marito era affacciato nervosamente alla finestra, controllando i dintorni manco fosse una vedetta.
“Pensi… pensi che stia bene? Non… non l’ho visto per tutto il pomeriggio…”, buttò lì il padre.
L’altra, che conosceva bene il figlio, non era minimamente preoccupata: “Mh… stai tranquillo. Starà benissimo”.
“E se gli fosse successo qualcosa?? Lui… lui ha lo scheletro fragile, lo sai, e…”.
La moglie cacciò uno sbadiglio assonnato e si stiracchiò i muscoli: “Senti… vieni a dormire… Domani mattina, quando tutta la città sarà sveglia, chiederemo e vedrai che salterà fuori”.
“…Un… un carro! Metti che sia passato un carro a piena velocità e… O-oppure un muro pericolante! Gli hai visti i muri, qui?? Sono vecchi e malandati! Non come il metallo di Steamdale o i cumuli di Cloudsdale! Basta che uno ci passi vicino e…”.
La compagna entrò in modalità “tono di voce con cui non puoi discutere” e disse: “Daedalus…”.
“Uh… sì?”, chiese girandosi.
“Vieni a dormire. Subito”.
“O-ok…”, farfugliò, sbrigandosi a salire sul letto e sistemarsi sotto le coperte.
Sunshine si accoccolò a lui: “Dai, mio stallone color avorio… ora dormi. Vedrai che domani lo troveremo e sarà tutto a posto”.
Il marito sospirò e fissò il soffitto per un istante: “Mhf… ok”.
E chiuse gli occhi.
 
Gli occhi, tuttavia, non rimasero chiusi a lungo.
Ne spalancò timidamente uno e vide che Sunshine ronfava pesantemente.
Diavolo, non si ricordava russasse in quel modo!
Quindi… con attenzione… estrema attenzione… cercò di divincolarsi dalla presa della giumenta.
Come capita solitamente, qualche volta sembrò svegliarsi… ma furono solo falsi allarmi.
La notte era calata e lui troppo nervoso per resistere fino al mattino.
Aprì lentamente la porta ed osservò i dintorni.
Tirava un’aria leggera ed erano stati stanziati al limitare tra la città e la campagna.
“Certo che”, disse sottovoce, “Non sono propriamente un esempio di furbizia… Potrebbe trovarsi ovunque… Bah, al diavolo!”, sbottò infine.
“Se non provo nemmeno a cercarlo, non lo troverò di sicuro. Male che vada mi farò l’ennesima notte insonne”.
Richiuse silenziosamente la porta e, con un colpo d’ali simile al battito di un cuore, spiccò il volo verso il cielo notturno.
 
            Volò. Salì di quota, fino ad inquadrare pienamente i tetti di Ponyville sotto di sé, appena illuminata da alcune luci soffuse.
In effetti, non era poi così grande, come cittadina.
Il problema è che era buio pesto: oltre a rendere difficili le ricerche, significava che Icarus sarebbe stato all’interno delle abitazioni e quindi impossibile da individuare.
Poteva essere a casa di Rainbow Dash? Forse. Ma, prima, conveniva almeno dare un’occhiata a terra.
Gonfiò le ali e planò silenziosamente a qualche decina di metri dal suolo, scrutando con attenzione il luogo.
Fece alcune virate e ripeté il processo, per essere sicuro che non vi fosse proprio nessuno.
E proprio quando stava per decidersi a riprendere quota, notò qualcosa volare verso terra, molto lontano da lui. Aguzzò lo sguardo e fu sicuro si trattasse di un pegaso.
Poteva essere chiunque ma decise comunque di seguirlo, tenendosi a debita distanza.
Il pedinato toccò quindi il suolo. Daedalus fece lo stesso, restando però parzialmente nascosto da un muro cittadino, per non farsi vedere.
Si sporse e…
Ma quella… quella era proprio una… una Cirrus High 4000!
Quel pegaso l’aveva portata fino a terra ed ora stava parlando con qualcuno. Lo stallone bianco, tuttavia, era collocato in un’angolazione da cui non riusciva a vedere bene. Il pegaso che aveva seguito era un giovane puledro dal pelo scuro e la criniera a spazzola, azzurro chiarissimo. Sul fianco riportava un marchio identico ad una nube temporalesca. Evidentemente, era stato lui a spingere la Cirrus fin lì.
Si sporse un po’ di più e… lo vide.
 
Icarus.
Suo figlio. Di fronte al pegaso dalle piume nere.
I due stavano parlando. Quando il padre lo riconobbe, sentì realmente un peso cadergli sullo stomaco. E… non capiva perché. Ma era lui… oltretutto con un portamento sorprendentemente corretto. Certo, le zampe ancora soffrivano di un problema ormai impossibile da risolvere… ma il suo sguardo… non era affatto com’era abituato a vederlo. Non era affatto come… all’Emerald Lake.
Drizzò un orecchio, per sentire meglio il loro discorso.
 
“…E così Dash mi ha chiesto di venirti a prendere”, gli disse Thunderlane.
“Uh… grazie?”, rispose l’altro, che lo stava incontrando per la prima volta.
Lo aveva già visto, in passato, attraverso il cannocchiale. Sapeva benissimo che era un pegaso davvero in zampa, che più di una volta aveva dato spettacolo in testa a testa con l’amica dalla chioma multicolore.
“Spero non ti sia di troppo disturbo”.
“Nà. Figurati. Per Dash, questo ed altro”.
“Mi fa… piacere sentirlo”.
Qualcosa poi, nell’espressione di Thunderlane, sembrò cambiare all’improvviso: il puledro si fermò e scrutò Icarus, con sguardo decisamente severo.
“Certo che…”, buttò lì, con fare un po’ arrogante, “Dash ha fatto quello che ha fatto… per uno come te?”.
Il pony grigio si bloccò a sua volta, impreparato ad un commento simile.
Anche Daedalus corrugò la fronte. Quel tizio… che stava cercando di dirgli?
“Come, scusa?”, gli domandò Icarus, titubante.
“Sì, insomma…”, commentò, osservandolo come se si trovasse su un piedistallo, “Ora che ti guardo… mi chiedo cosa le sia saltato in mente a quella puledra. Andamento traballante, fisico magro… nessuna possibilità di volare…”.
Lo stallone lesse una certa sofferenza nel volto del puledro e la rabbia iniziò a salirgli. Si preparò ad uscire allo scoperto, pronto a cantarne due a quello sbruffone. Come si permetteva di maltrattare così il suo povero…
Ma Icarus sfoderò uno sguardo degno di un leone e, allungando leggermente il collo verso l’interlocutore, rispose: “Beh?? Hai dei problemi??”.
Quella reazione lasciò il padre sbigottito. Quello… quello era davvero suo figlio? Lui non… non se lo ricordava affatto così. L’ultima volta che lo vide… sembrava… inerme. Incapace di reggere un confronto. Sapeva che fosse testardo ma…
Alla fine, decise di restare a guardare.
“Sì”, riprese Thunderlane, “Un asso del volo che sacrifica la propria passione per uno così… mi lascia alquanto perplesso…”.
“Pregiudizi, eh?”, commentò Icarus, senza scomporsi, “Chissà perché non ne sono sorpreso. È tutta la vita che affronto un mare di pregiudizi. Puoi dirmi quello che ti pare. Prendimi in giro per il mio fisico. Per il mio aspetto. Anche per il mio carattere, te ne darei ragione. Ma tieni fuori Dash da questa faccenda”.
“Cos’è? Hai paura che possa pensare male di lei e di quello che ha fatto?”.
“Te lo ripeto, Thunderlane”, ribadì, con tono minaccioso, “Non osare parlare di cose che non conosci e di cui non sai niente”.
“Non è solo quello, Icarus. Io credo che…”, continuò il pegaso nero, senza perdere il velo d’arroganza, “Insomma… Io non credo che tu… che tu meriti… una come Rainbow”.
“Come sarebbe a dire?...”.
“Icarus…”, gli spiegò, “Tu non sei propriamente un pony facile. Da quanto ne so… hai un caratteraccio. Hai evidenti problemi fisici. E non puoi volare. Mentre Rainbow non aveva nulla di tutto questo. Beh forse un po’ il carattere, lo ammetto. Ma, nonostante ciò… ha voluto… sacrificare tutto per uno come te. Ed io… mi sto domandando… se tu ti meriti davvero una puledra fantastica quanto lo è stato lei”.
Daedalus notò il figlio abbassare lo sguardo a terra, come se qualcosa lo stesse rodendo dall’interno, e fu di nuovo sul punto di balzare fuori.
Ma… il Campione di Equestria lo bruciò sul tempo.
“Sai, Thunder?”, gli disse, con estrema calma e pacatezza, “Anch’io all’inizio… mi ero chiesto la stessa cosa. Come… come può Dashie… apprezzare… uno come me?... Al punto di… sacrificare se stessa… per me?”.
Icarus sorrise e sia Thunder che Daedalus rimasero spiazzati da tale comportamento.
“Ma poi… nonostante i mille dubbi che ancora mi assillano… ho capito… che lei… che non so per quale motivo… ma lei…”.
Il pegaso grigio deglutì: “Per lei… io sono le sue ali. Non l’ho scelto io. Non l’ho voluto. Eppure… è così. Lei ha rinunciato alle proprie ali… per me. Ed ora… io sono quelle ali”.
Il sorriso si fece più dolce e lo sguardo acquisì una sicurezza ancor più profonda. Fissò Thunderlane dritto negli occhi: “Per cui… tu non potrai mai capire… cosa significhi… essere le ali… di qualcuno. Tu non potrai mai capire… E proprio perché sono le sue ali… io la sosterrò. Finché potrò… finché ci sarà il desiderio di rimanere assieme… io farò di tutto per farla volare, più in alto che posso. Farò di tutto per far sì che non si penta un solo istante della sua decisione. Non so se ci riuscirò… Ma io… io sono le sue ali, Thunderlane. Io volerò per lei. Solo per lei. Qualunque volta lei lo vorrà”.
 
Quello… era suo figlio.
Non riusciva a crederci. Rimase imbambolato ad osservare la scena.
E in quel momento… capì quello che Sunshine aveva sempre cercato di dirgli in passato.
Sei così preso con questa faccenda della cura da lasciar perdere tutto il resto!
Tuo figlio… è proprio tuo figlio! E come tale ha bisogno di un padre che gli stia vicino e che gli voglia bene!
E lui… dov’era stato, fino a quel momento? Cosa conosceva, ormai, di suo figlio? Non sapeva quasi più niente. Quasi non lo avrebbe riconosciuto. Ripensò all’Icarus debole e titubante di un tempo e… e ora…
Lui era…
 
Thunderlane chiuse gli occhi e sorrise a sua volta: “Mpf. Ora capisco davvero perché Rainbow abbia voluto proprio te…”.
“Scusa?”, gli chiese l’altro, non riuscendo più a capirne gli intenti.
“Ti chiedo scusa, Icarus. Non parlavo sul serio. È che io… sono fatto così. Volevo metterti alla prova… vedere di che pasta sei fatto…”.
Il pony grigio continuò ad osservarlo con sospetto, non essendo più sicuro di dove iniziasse la sua sincerità e dove finisse.
“…Ed ora mi sono reso conto…”, ammise, ponendogli una zampa sulla spalla, “Che sei… davvero forte, Icarus. Hai coraggio da vendere. E sei… Niente, non sono bravo a dire certe cose… Ma… sappi… che mi sembri davvero un pegaso come pochi ne appariranno mai su Equestria”.
“Guarda che se mi stai di nuovo prendendo in giro io…”.
“No”, lo interruppe, con volto sincero, “Sono serio. Se sei riuscito a reggere gli insulti di prima… se davvero credi in quello che hai detto... Beh… ti faccio i miei complimenti, Icarus. Sei davvero uno dei Campioni di Equestria”.
“Mh”, concluse l’altro, accettando questa volta la versione del pegaso dalla chioma azzurra, “Guardati le spalle però, d’ora in avanti… perché sappi che te la farò pagare”.
“…Ed hai un caratteraccio del tutto analogo a quella della tua puledra”.
“L-la mia…?”, balbettò imbarazzato.
“Su! Monta su sto trabiccolo, che ti porto da lei! Sai… tra l’altro, un giorno, dovremmo chiedere a Celestia di nominarvi entrambi Campioni di Equestria!”.
“Sì, come no… ti ho detto di non prendermi in giro. Un po’ va bene ma poi…”.
E il duo iniziò un lento volo verso il cielo.
 
            Daedalus, invece, era ancora sbigottito per quanto aveva appena sentito.
E si sentì davvero un pessimo padre.
Dopo tutto quel tempo… non solo aveva gettato via denaro ma… si era perso… suo figlio.
Mentre cresceva… lui era rimasto segregato a Steamdale, in un ufficio, sperando di fare la cosa giusta. E la cosa giusta, alla fine, era successa. Un pegaso blu, che di certo non era lui.
Già… un pegaso blu. Lo stesso pegaso a cui aveva chiesto di stare alla larga da Icarus.
Scosse la testa e capì quanto fosse stato uno stupido.
L’unica cosa bella che mai fosse capitata al figlio… e per poco lui li avrebbe quasi separati.
Davvero… davvero poteva essere così stupido??
Daedalus… lo stallone dal portamento fiero e abile pony d’affari… poteva realmente essere tanto stupido?...
Ma… forse una piccola cosa poteva ancora farla.
Sapeva dove abitava lei, lo aveva letto mille volte sui quotidiani, ultimamente… ed Icarus doveva per forza di cose volare lentamente, sopra il cirro.
Non poteva lasciar perdere la cosa… DOVEVA almeno sistemare quell’unica faccenda!
 
            Spalancò le ali e schizzò come una saetta in direzione di Cloudsdale, stando ben attento a non incrociare gli altri due lungo il tragitto.
In meno di dieci minuti fu sul posto: planò tra le varie abitazioni e rintracciò l’indirizzo di Dash.
Non sapeva cosa le avrebbe detto… o cosa avrebbe fatto. Sapeva solo che… che doveva parlare con lei… La puledra… che aveva sacrificato tutto per suo figlio.
            Giunse di fronte all’uscio della casa, con un leggero fiatone. Buttò uno sguardo nei dintorni: Icarus ci avrebbe messo molto più tempo per arrivare. Per allora, se ne sarebbe già andato. Non voleva… non sarebbe riuscito… a parlare con lui. Non ancora, perlomeno.
Bussò e attese con impazienza che qualcuno gli aprisse.
Dopo alcuni secondi e un giro di serratura, una puledra dalla chioma arcobaleno fece la sua comparsa, già intenta a comunicare qualcosa: “Oh, finalmente sei arrivato! Lo sapevo che Thunderlane era troppo lento pe…”.
Si bloccò, rendendosi conto che colui che le stava d’innanzi… non era Icarus… ma… bensì…
“D-Daedalus??”, sbottò, sgranando gli occhi.
“I-io… sì… io…”, farfugliò, sempre con un vago fiatone, “Buona… buonasera, Rainbow Dash”.
“A…ah... buonasera… Daedalus…”, rispose, vagamente intimorita dalla presenza di quel pegaso dalla postura autoritaria.
“Posso… posso entrare, giusto un attimo? Prometto… prometto che me ne andrò subito…”, le chiese, buttando un ultimo sguardo al cielo.
“Vuoi... vuoi entrare? O-ok…”.
“Grazie”, e si accomodò.
Quando Rainbow gli diede le spalle, lo vide subito: era tutto vero.
Dash… non aveva più le sue ali… e la cosa… lo fece sentire ancora peggio.
 
            Fu un incontro singolare e imbarazzato, quello che seguì.
Non era tanto per il disordine un po’ ovunque… quanto per la situazione in sé: quello che Daedalus non saprebbe se sarebbe riuscito a dire. Dash, invece, non sapeva che diamine ci facesse il padre di Icarus da lei… lo stesso stallone che l’aveva presa in disparte a Steamdale… lo stesso pegaso che, da come aveva percepito, pareva detestarla per tutti i problemi che aveva causato al figlio.
E quindi… perché era lì??
Il pony bianco rimase imbambolato in mezzo alla stanza e Rainbow cercò di rompere il ghiaccio in qualche modo.
“Uh… tutto bene?”, gli chiese, con volto vagamente preoccupato.
“Eh? Ah! Sì! Sì… va tutto… va tutto bene…”.
“Ok…”.
“Sì…”.
“E…”.
Daedalus capì che stava tentennando come fosse al primo giorno di scuola: “Ah… ecco io… volevo… volevo solo…”.
La puledra continuò a non capire e l’altro sembrò in palese difficoltà, quasi avesse ingoiato un cactus.
“Ecco… io…”.
Poi… più tempo passava li dentro… e più il groppo che gli impediva di parlare iniziò a sciogliersi. Fece mente locale… e riportò alla mente tutte le cose splendide che lei aveva fatto per Icarus. A quel punto… si sedette… raccolse il fiato… e si sentì in obbligo di confessarle ogni cosa.
Rimase a muso basso per tutto il tempo, raschiando nervosamente gli zoccoli anteriori tra loro, quasi non riuscisse a reggere lo sguardo di lei. Una cosa che non gli era quasi mai capitato in tutta la vita.
“I-io… io volevo dirti…”.
Deglutì.
“Mi… mi dispiace, Rainbow Dash…”.
“Ti… ti dispiace? Per cosa?...”, chiese stupita.
L’imbarazzo, nell’altro, era palpabile: “Mi dispiace… per… per non essermi accorto prima… di cosa tu… significassi… per Icarus…”.
“Ah… ma… veramente… Veramente non è il caso… di…”.
Quando Daedalus rialzò lo sguardo, il pony blu capì che non stava affatto scherzando: i suoi occhi erano lucidi e la voce aveva perso di energia.
“Mi dispiace, Dash… Dico… dico davvero. Stavo… stavo solo cercando… di essere… di essere un buon padre. Non avrei mai voluto… che… insomma…”.
L’altra capì che si stava realmente impegnando in uno sforzo emotivo e cercò di tranquillizzarlo: “Ma… ma no. Guarda che è tutto a posto…”.
“Rainbow!!”, sbottò di colpo, mettendosi su quattro zampe. Dash quasi fece un balzo all’indietro, dallo spavento.
La voce di Daedalus tremò appena: “Rainbow… Io ti chiedo scusa… Chiedo… chiedo scusa ad entrambi… E’ che… è che non credevo che… ci potesse essere… qualcuno come te… pronto a… fare tutto questo… per mio figlio. Non l’avrei mai immaginato… non avrei mai… potuto… se non vedendolo… con i miei stessi occhi…”.
I due si osservarono in silenzio e l’ex pegaso capì. Capì cosa stesse cercando di dirgli il padre… quel padre che, probabilmente, si era creato un muro per riuscire ad aiutare il figlio per come avrebbe potuto. Per tenersi lontano dal dolore provocato dalle maldicenze dei superficiali. Per continuare a fare quello che aveva sempre cercato di fare… aiutare Icarus… sobbarcandosi sulle spalle il peso di crescerlo… e di tentare in ogni modo di ottenere una famiglia felice. Per lui. Per Sunshine. Per il figlio.
Così… proprio come accadde altre volte, Dash si sentì stranamente calma e serena, nel pronunciare le parole seguenti. Gli sorrise addirittura.
“Daedalus…”.
L’altro la osservò, quasi sul punto di riversare un paio di lacrime.
La puledra manifestò un’espressione di profonda comprensione: “Io non credo ci sia niente… di cui… tu ti debba scusare. Hai cercato di fare il meglio per le persone a cui volevi bene. Hai cercato… di aiutare Icarus fino alla fine. Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo. Anche io… ho creduto alla cura. Ci abbiamo creduto un po’ tutti, penso. E alla fine…”.
Dash si bloccò per un istante e poi… dopo una breve pausa… gli sorrise più dolcemente che mai: “Sai, Daedalus?... Tuo figlio… Icarus… è un sole. Non è una semplice stella. Di pony come lui ne nascono pochissimi, credo”.
“Un… un sole?”.
“Sì… Perché… continuo a vederlo… Ovunque passi lui… ovunque ci sia Icarus di mezzo… la gente viene accecata dalla sua luce. C’è anche chi si ustiona. Perché brilla di un calore che investe ogni cosa. Io mi sono bruciata più di una volta, stando con lui. Stando accanto alla sua luce. Nonostante sia un’arrogante testa di legno… ha qualcosa dentro. Un sole… e c’è chi rifugge la luce, per paura di scottarsi. Quelli sono tutti coloro che lo hanno sempre allontananto… semplicemente perché… avevano paura di lui… o ne invidiavano la luminosità…”.
Quelle parole… fecero spalancare sempre di più la bocca al padre che, inavvertitamente… non si accorse del liquido che iniziò a rigargli le guance.
“E proprio come un sole… la sua luce può spaventare ma anche far nascere qualcosa, su un terreno che è pronto ad accoglierla. Icarus doveva solo… trovare l’occasione per brillare. E io credo che ora ci sia riuscito. Un pegaso… un corpo magro e un po’ acciaccato… ma con un sole immenso dentro. Questo è tuo figlio, Daedalus. Non dimenticarlo mai. Non ha bisogno di compassione. Non ha bisogno di essere difeso. Non necessita nulla se non un cielo in cui risplendere. Ed è quello che dovrebbero imparare tutti… Forse c’è qualcosa di splendente in ognuno di noi. Ed Icaurs… lui ne è la prova…”.
 
Lo stallone ebbe quasi un tremito alle zampe.
Questo è tuo figlio, Daedalus. Non dimenticarlo mai.
 
“Papà!”, esclamò una voce familiare.
Il pegaso bianco si girò…
Suo figlio… il Campione di Equestria… il cavalcatore di tempeste… il sole del cielo… era appena entrato in camera.
“I-Icarus…”, farfugliò, cercando di nascondere le lacrime, “M-ma… ma come hai fatto… a…”.
Vedere il padre fu l’ultima cosa che si sarebbe aspettato il puledro. Era completamente sbigottito e non sapeva letteralmente a cosa pensare.
“I-io… io ho le chiavi…”, fu l’unica cosa che riuscì ad esclamare, alzandole leggermente con una zampa.
Daedalus si rivolse verso Dash, vagamente adirato: “Lui… lui ha le chiavi?? E non me l’hai detto??”.
L’ex pegaso si gratto la chioma e arrossì dall’imbarazzo.
“P-papà?... Che cosa… che cosa ci fai qui… da… da Dashie?...”, balbettò il pony grigio.
Lo stallone riportò lo sguardo su di lui… E tutto ciò che riuscì a sentire dentro di sé… fu…
 
Una gioia immensa.
Per ciò che lui era diventato.
Per quanto stesse vivendo.
Per quanto quel pegaso cocciuto stesse dimostrando al mondo intero cosa significasse… affrontare la vita a muso duro… e… nonostante aver perso una battaglia... essere in un certo senso riuscito… a vincere la guerra.
 
“Icarus… io…”.
Icarus non riuscì a trattenere un debole sorriso.
 
E poi… accadde.
 
Daedalus scorse la luna dietro di lui, attraverso la finestra… e quella scena… lo riportò inspiegabilmente indietro di anni ed anni.
Il sorriso dell’attuale Icarus si sovrappose per un singolo istante a quello dell’Icarus appena nato, nella clinica.
 
Quando lo tenne di fronte a sé, tra le sue zampe, con il sole nella stessa posizione della luna attuale.
 
Sentì le piccole zampine sfiorargli il muso.
 
Udì la sua risata di cucciolo.
 
Si perse nei suoi profondi occhi viola.
 
Le ali spiegate.
 
Il corpo magro e leggerissimo.
 
…Dalle sfumature color cenere.
 
 
Mai avrei pensato
Di sentire qualcosa dentro
Come quando ho visto
Questo piccolo pegaso appena nato
 
 
Daedalus, nel presente, si avvinghiò ad Icarus e lo strinse a sé con forza.
L’altro sgranò gli occhi.
 
Mai avrei pensato
Di sentirmi così carico di vita
Come quando stetti accanto
 
A lui…
 
Lo stallone capì di stringere tra le zampe un bene prezioso.
Un pony unico e speciale, che più tra tutti gli aveva donato qualcosa di splendido, nella vita.
 
 
Mai stato
Così fiero
 
Altre lacrime gli uscirono dagli occhi.
“Ti voglio bene… Icarus…”.
 
Mai stato
Così felice
 
Per lui…
 
“Anche… io ti voglio bene… papà…”.
Per il più grande Campione in tutto il Creato…
 
 

 
Mio figlio.
 

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Capitolo 16
*** Capitolo Bonus - Calendula ***


Calendula

 

    Soltanto pochi minuti separavano l’ora di mezzogiorno dalla lezione della signorina Cheerilee, che le sembrava eterna quanto noiosa.

Geografia d’Equestria.

No, davvero, poteva esserci qualcosa di più tediante?

Scootaloo poggiò i gomiti al banco e affondò gli zoccoli nelle guance, non riuscendo a nascondere le palpebre calanti. Il quaderno con gli appunti riposava indiscreto sotto al suo muso e riportava schizzi, scarabocchi e una partita ad “affonda la nuvola” finita alquanto male.

Scrutò i compagni: una parte ascoltava assorta (o almeno… così sembrava) mentre i rimanenti parevano sul punto di un collasso mentale. La sua attenzione finì quindi su una delle ampie finestre, da cui intravide il cielo azzurro, degli alberi e un duo di uccellini saettare veloce.

Sospirò, conducendo l’attenzione ad un punto indefinito sul banco.

“Scootaloo?”, intervenne improvvisamente la maestra, riportandola alla realtà.

La puledrina scosse il capo, sgranò gli occhi e si intirizzì: “Oh! Ehm… sì??”.

Il pony rosa la stava fissando con viso ammonitore.

“Allora… cosa stavamo dicendo? Con cosa confina Appleloosa?...”.

L’altra atterrì. Si grattò la criniera e cercò di racimolare nervosamente qualche parola:  “A-ah… Appleloosa?... Apple… Appleloosa confina… con…”.

“…Con?”, le fece eco l’insegnante.

“…Con…”.

Il trillo della campanella giunse improvvisamente, accompagnato quasi subito dal rumore dei compagni che ripulivano i rispettivi banchi da libri, matite e quaderni.

Cheerilee intensificò l’espressione di rimprovero, cui rispose quello sorridente e imbarazzato della piccola.

Questa volta l’aveva scampata.

 

    Non appena fuori dalla scuola, circondata da una piccola marea di puledrini al trotto, Scootaloo si accertò che lo zaino fosse ben saldo sulla groppa, infilò il casco di protezione, prese il suo fido monopattino e…

“Ehy, Scoot!”, fece una vocina di bimba, all’improvviso.

Applebloom e SweetyBell l’avevano raggiunta immediatamente, con quest’ultima desiderosa di parlare: “Ehy! Dove vai così di fretta?!”.

Il pegaso arancione si fermò giusto prima di far ronzare le ali.

“…Fretta?”, chiese.

“Già!”, intervenne la puledra col fiocco, “Sei schizzata via come un fulmine!”.

“E per poco la signorina Cheerilee non ti faceva una lavata di capo!”.

“Eh… sì. Meno male che è suonata la campanella…”, rispose Scootaloo, senza prestar loro troppa attenzione.

L’unicorno aggrottò le sopracciglia: “Ehy, Scoot… che ti prende?”.

“Eh? In che senso?”.

“Sei ancora tra noi? Sembri assente…”.

“Ah… no, no… È che… devo andare…”.

“Andare dove?”, chiese Applebloom.

“Hai fretta di andare al lago??”, esultò il pony bianco con entusiasmo ed un enorme sorriso.

“Sìì!”, continuò l’amica dai crini rossi, “Non vedo l’ora!! Un intero pomeriggio al lago, tutti assieme!!”.

Il piccolo pegaso gettò lo sguardo verso il fondo dello sterrato, che conduceva al centro di Ponyville.

“Uh… sì”, rispose, “Devo… dobbiamo andare al lago…”.

“Sì ma”, la interruppe Sweetybell, “Ci vorranno ancora un’oretta o due prima dell’appuntamento… Non è che c’è tutta ‘sta fretta, eh…”.

“No, no!”, si affrettò a spiegare, “Lo so bene! È che… prima c’è… c’è una cosa che devo fare…”.

Le due amiche si osservarono con aria interrogativa, mentre Scootaloo sembrava non stare più nel pelo per l’impazienza.

“…Ooookay, allora…”, buttò lì Applebloom, “Se devi andare… vai…”.

Ma la puledra dagli occhi viola capì che non stava prestando loro le dovute attenzioni, così cercò di rimediare.

“Oh… io… scusate ragazze”, ammise con sincerità, grattandosi la fronte, “Sono solo… un po’… ecco… Non volevo che sembrasse vi stessi ignorando…”.

La amiche la ascoltarono, prima con perplessità, e poi mostrarono in un grande sorriso.

“Tranquilla Scoot!”, la rassicurò l’unicorno, strizzando gli occhi dalla gioia, “Se hai da fare, non c’è problema! Ci vediamo oggi al lago, in ogni caso!”.

Il pony arancione si sentì risollevato e fu contento di avere delle amiche così comprensive. Rimandò loro un tenero sorriso, appena accennato: “Grazie, ragazze…”.

“Bah, è che c’è da ringraziare??”, ammise Applebloom, compiendo un gesto a mezz’aria con lo zoccolo, “Anzi, vedi di portare qualcosa con cui giocare, oggi! È una bella giornata e non voglio perdermi un solo minuto!”.

L’altra sorrise ancora una volta, si girò verso la strada e… partì come un fulmine!

Le due rimasero ad osservarla mentre si allontanava sul proprio veicolo, sollevando una lingua di polvere dietro di sé.

Quando scomparve tra gli edifici lontani, non poterono fare a meno di scambiarsi qualche parere.

“Certo che…”, sussurrò Sweetybell, “Ultimamente è un po’… strana… O sbaglio?”.

“Beh… non più del solito…”.

“Sì ma… intendo… Di solito ci incontriamo come di consueto… però… ci sono delle volte che si assenta per un’intera giornata”.

Applebloom alzò le spalle e prese la strada di casa: “Mah, alla fine non è un problema. Ci vediamo praticamente tutti giorni”.

L’altra, che condivideva un tratto del percorso con lei, la seguì a ruota: “No, no, non è un problema. Mi chiedevo solo… come mai…”.

Il duo si fermò.

“Pensi che centri…”, buttò lì il pony giallo.

“Intendi… quel pegaso?”.

“Icarus”.

“In effetti”, aggiunse pensierosa, riprendendo a camminare, “Da quando è successo quello che è successo… Scootaloo sembra stargli attaccato ogni volta che può…”.

 

*** ***** ***

 

    E la giornata, effettivamente, era proprio bella.

La piccola Scootaloo sfrecciò sul terreno battuto, ignorando però gli ostacoli con cui era solita dilettarsi in evoluzioni da scavezzacollo. Sembrava avesse una certa fretta.

Il cielo era azzurro, con qualche nuvola appena. Gli alberi verdi e rigogliosi. Un odore vagamente speziato rimandava ad un’estate fin troppo precoce ma pur sempre in grado di regalare una potenziale, bellissima giornata.

Il pegaso giunse quindi nel centro di Ponyville dove, questa volta, fu realmente costretto a destreggiarsi in pratiche piuttosto azzardate, onde evitare passanti, carretti e bancarelle (era pur sempre l’ora di punta). Fu abilissima ma, a differenza delle altre volte, non sembrò bearsi delle proprie capacità: sembrava più intenzionata a percorrere quanta più strada poteva nel minor tempo possibile.

Dopo qualche minuto e un paio di svolte tra le tipiche casette della cittadina, giunse finalmente a destinazione.

    Un grosso albero, adibito a mo’ di casa, si ergeva non molto lontano da lei.

Si fermò e rimase qualche istante ad osservarlo in silenzio. Poggiò quindi il monopattino e agganciò la cintura del casco alle maniglie.

Si diede giusto una pettinata veloce con una zampa e poi… ebbe qualche fugace pensiero.

Quello, lo sapeva, era il luogo dove li avrebbe trovati.

Perché lo sapeva? Perché Rainbow Dash l’aveva detto a Fluttershy. E Flutterhy, trascinata da Rarity nel centro di bellezza, lo aveva detto all’unicorno bianco. E quando Rarity viene a sapere una cosa, poi si diffonde a mezza Equestria.

Non aveva mai fatto una cosa simile. Però… da quando… era successo quello che era successo… non era mai riuscita ad avere un attimo di calma sola con loro.

Il ricordo era ancora così vivido, nella sua mente…

 

Doveva essere una giornata come tante e invece venne portata da Twilight direttamente nella piazza di Canterlot, in mezzo a centinaia d’altri pony. Non sapeva cosa aspettarsi, ai tempi. E non le importava molto, visto che ancora soffriva per quello che era successo da pochissimo a… a Rainbow Dash. Non riusciva ad accettarlo. Non POTEVA accettarlo. Lei, il suo idolo, il suo modello, la sua campionessa… senza… senza più…

Ma poi… ci fu quel momento di silenzio assoluto, in cui tutti puntarono gli occhi al telo che ricopriva la balconata su cui era solita affacciarsi la regnante. Giunsero quindi due pegasi imperiali e, quando sollevarono il tutto…

 

Loro erano lì.

 

Rainbow ed Icarus.

 

E, in quell’istante, appena superata la sorpresa iniziale… provò rabbia. Non riusciva a sopportare quel pegaso… L’aveva giusto incontrato una volta ma tanto le era bastato. Chi era? Cosa aveva di speciale? Non poteva nemmeno volare… e… come se non bastasse… fu a causa sua se Rainbow perse a sua volta tale capacità.

 

Il discorso di Celestia, tuttavia…

Se lo ricordava ancora, testualmente, come se lo avesse inciso nella memoria: “Voi non siete solo due semplici pony. Dopo tutto quello che avete passato. Dopo tutto ciò che avete sacrificato e imparato l’uno dall’altra. Dopo aver cavalcato la tempesta. Dopo aver compiuto l’ultimo volo. Dopo aver compiuto tutte queste cose… Voi siete indubbiamente… i veri Campioni di Equestria”.

 

I… veri campioni di Equestria, aveva detto. E poi… aveva aggiunto una cosa…

 

“Io stessa… non so dove avrei trovato la forza per reagire come avete fatto voi due. I Campioni di Equestria.

I pegasi che dimostrarono al mondo intero… che si può volare anche senz’ali…”.

 

Quell’ultima frase… l’aveva lasciata letteralmente a bocca aperta, proprio come se un fulmine l’avesse folgorata.

 

Volare senz’ali…

 

Come poteva essere? Come può un pegaso volare… senza ali?

E, nel suo piccolo cuore, qualcosa la scosse improvvisamente. Si girò ed osservò i suoi fianchi, le sue piccole ali dalle piume arancioni.

 

Volare senz’ali…

 

    Tornò al presente.

Provò un leggero senso di vergogna misto a tristezza… poiché solo dopo si rese conto di cosa fosse REALMENTE accaduto tra Icarus e Dash. Solo dopo iniziò a capire il vero significato del gesto di Rainbow. Solo dopo sentì la gioia che la sua amica provava ogni volta che stava con quel pegaso dalla folta chioma viola. Solo dopo… iniziò lei stessa a frequentarlo… e non capiva come mai… si trovasse così bene con lui.

E ancora non gli aveva chiesto scusa per le cose orribili che gli aveva detto quel giorno… il giorno in cui si incontrarono dalla casetta sull’albero.

La rabbia fa dire cose che non vorremmo, il più delle volte.

    Ma non era tempo per assillarsi con simili pensieri.

Si avvicinò all’abitazione di Twilight e notò con curiosità un paio di batuffoli bianchi fluttuare a circa mezzo metro dal terreno: gli aveva già visti, in passato. Dovevano essere quelle nubi che Dash ed Icarus utilizzavano per spostarsi da Cloudsdale a Ponyville, spinti solitamente da Fluttershy, Thunderlane o altri pegasi.

Mise uno zoccolo davanti all’altro, fino ad arrivare vicinissima ai cirri incantati.

Non era la prima volta che osservava delle nuvole da vicino e Rainbow l’aveva portata più volte in mezzo ad esse, quando ancora poteva volare… ma nessuno sarebbe mai riuscito a condurla alle rarefatte altitudini dove i cumuli si assottigliano fino a divenire lingue fumose. Ed ora ne aveva due esemplari giusto davanti al muso. Erano stranissimi… sembravano composti di foschia, nonché pronti a disperdersi nel nulla da un momento all’altro.

Si guardò attorno, sincerandosi che non ci fosse nessuno, quindi si issò sulle zampe posteriori e diede un colpetto su uno dei cirri. Quest’ultimo rispose con un rumore simile ad una bolla d’aria che si agita dentro all’acqua e oscillò un paio di volte.

La porta dell’edificio si spalancò improvvisamente, facendole salire il cuore in gola.

 

    Fluttershy schizzò via come un fulmine, mentre una energica voce maschile provenne dall’interno: “HO DETTO CHE NON CI VENGO!!”, ruggì Icarus.

“Oh, tu ci vieni eccome!!”, ribatté Dash, sempre dall’interno.

Il pegaso giallo si fermò, fluttuando a mezz’aria, con gli zoccoli davanti al muso e visibilmente spaventato.

“C-che succede??”, domandò Scootaloo perplessa.

“Oh… ecco…”, farfugliò l’altra.

Qualcosa, nello studio dell’unicorno, cadde a terra e si ruppe. Questa volta fu la voce della puledra viola a intervenire: “Per Celestia!! Piantatela!!”.

“Sarebbe molto più semplice se questo pegaso cocciuto la smettesse di fare il pony impossibile!!”, intervenne Rainbow.

“Io non voglio fare niente! Sei tu che non la smetti di perseguitarmi con le tue idee malsane!”.

Un porta documenti volò attraverso l’uscio e mancò Scootaloo di circa mezzo metro: probabilmente era diretto a Dash.

“Ehy! Le mie cose!!”, urlò Twilight.

“La smetti di fare il cocciuto??”, ribadì il pegaso blu.

“E tu la smetti di mandarmi all’esasperazione??”.

“Ah! Sarei IO quella che ti manda all’esasperazione??”.

La puledrina si girò verso Fluttershy, constatando come si fosse prontamente riparata dietro un cespuglio.

“Ma si può sapere che sta succedendo?”, le chiese.

“È… era tutto iniziato quando… quando siamo andati a trovare Icarus, mentre era da Twilight. Volevamo uh… portarlo al lago con noi…”.

“Beh, certo!”, commentò, “È da una settimana che stiamo organizzando la cosa!”.

“Sì ma… uh… Dash ha detto che non bisognava dirlo ad Icarus… perché…”.

“…Perché?...”.

“Perché, secondo lei, non sarebbe mai venuto spontaneamente. E così bisognava dirglielo all’ultimo e convincerlo”.

Il pony arancione inclinò il capo e aggrottò un sopracciglio: “Lui… lui non sarebbe venuto?... E perché?”.

Fluttershy si sporse dal riparo, per esprimersi meglio: “Ecco perché… Perchè è un’arrogante testa di legno, così mi ha risposto Rainbow quando gliel’ho chiesto anche io…”.

“Ah…”.

Si udì dell’altro trambusto e, sopraffatta dalla curiosità, Scootaloo decise di avvicinarsi e controllare.

    Mise appena il musetto dentro e quello che vide la lasciò esterrefatta.

Twilight e Spike si erano riparati dietro ad una porta. Tutto lo studio era sottosopra: libri per terra, soprammobili gettati alla rinfusa, fogli e altri oggetti sparsi ovunque.

Rainbow si ergeva minacciosa al centro della stanza mentre Icarus si trovava in fondo ad essa, dietro una pesante scrivania. Faceva sbucare giusto il viso, incoronato da uno scolapasta a mo’ di elmetto.

“Ragazzi, vi prego”, li supplicò Sparkle, senza esporsi più di tanto, “Fatela finita…”.

“Allora dille di fare dietro front”, dichiarò il pegaso grigio, con occhi sottili.

“Esci subito di lì e muovi quei quarti posteriori!!”, gli intimò l’amica dalla chioma arcobaleno.

“No”, concluse lapidariamente l’altro.

“Icarus!! Te lo dirò una volta soltanto! Oggi si va al lago e vieni anche tu, poche storie!”.

“Ci vai tu al lago, io rimango qui a studiare la legge delle proporzioni multiple”.

“Non se ne parla! Vieni al lago. Punto!”.

“No”, ribadì con noncuranza.

“Oh, vuoi vedere che ci vieni??”.

“Obbligami”.

Dash sorrise malignamente: “Oh… non aspettavo altro!”, e scattò verso di lui.

Icarus si era fatto due conti: gli bastò dare un colpetto all’enorme pila di libri accanto e questi crollarono sulla compagna, che si vide seppellire da metri di papiri e scartoffie. Dopo aver attuato la propria difesa, gettò lo scolapasta, uscì dal riparo e trottò sconnessamente verso il bancone con gli alambicchi, creandosi una nuova copertura.

“Si chiama movimento a sbalzi”, la informò, “Ed è la procedura standard per muoversi di copertura in copertura, nella tattica militare”.

Il pony dagli occhi rossi emerse lentamente, come una furia vendicativa, con fogli che le cascavano dalla groppa: “Tu… razza di… di…”.

“Pony. Razza: pony. Dominio: Eukaryota. Famiglia: Equidae. Genere…”.

Scootaloo aveva le fauci spalancate e non sapeva più cosa pensare.

Rainbow perse il controllo e si lanciò nuovamente contro di lui.

Icarus si limitò ad afferrare a casaccio una delle ampolle lì presenti, pronto a sfasciargliela sulla testa.

“FERMO!!”, sbottò Twilight.

I due si bloccarono all’improvviso, a meno di mezzo metro l’uno dall’altra.

“NON. ROMPERE. QUELLA. COSA!”, sentenziò l’unicorno.

Il puledro non aveva la più pallida idea di cosa fosse quell’affare ma cercò di cogliere la palla al balzo.

“Sentito, Dashie?”, la istigò, pronto a disubbidire alla padrona di casa, “Pare che questa roba sia pericolosa. Ti conviene non avvicinarti oltre”.

L’amica inscenò un sorriso smagliante quanto falso e, a denti stretti, gli comunicò: “Se non metti subito giù quel coso ti faccio passare un brutto quarto d’ora…”.

L’altro affilò lo sguardo: “Cos’è? Una sfida?”.

“Mettilo giù…”.

“No. Prima allontanati…”.

“Icarus… mi sto innervosendo…”.

“Dashie… Sai che non me ne frega niente, vero?”.

Il terrore si fece strada negli occhi della puledra viola… Nella mente si visualizzava ormai l’ampolla in frantumi.

…E infatti…

    Si udì un rumore di vetri che si rompono, nell’esatto istante in cui Rainbow balzò addosso al puledro. Un lampo accecante occultò tutto quanto, per una frazione di secondo.

Scootaloo fu abbastanza rapida da ritrarre il muso, un secondo prima che il fattaccio si compisse.

Attese qualche istante, chiedendosi che diamine fosse successo, e poi buttò un occhio all’interno.

Sparkle fissava terrorizzata ciò che la circondava: tutto, dai libri alle mura, dalle finestre ai tappeti, era stato invertito di colori con gli oggetti limitrofi. Tutto quanto… inclusi gli occupanti.

Dash era arcobaleno dalla testa agli zoccoli, con coda e crini blu. Icarus era viola e la chioma grigio perlaceo. Twilight sembrava aver subito la minor variazione cromatica, essendo quasi tutta viola, ma ora aveva sul petto le strisce che portava solitamente sulla frangia. Spike, infine, era rimasto intonso. I draghi sono tipicamente refrattari alla magia.

Rainbow spalancò occhi e bocca, un po’ come faceva Rarity quando inorridiva per qualcosa (tipo una pozzanghera).

“M-M-MA… CHE DIAVOLO HAI FATTO, STUPIDO PEGASO COCCIUTO???”.

L’altro non si scompose più di tanto. Aprì lentamente gli occhi, per via del lampo del prima, e si specchiò casualmente in uno degli alambicchi.

“Oh, incantesimo di inversione cromatica”, commentò, carezzandosi lievemente i crine, “Non è poi così male…”.

“TU! TU!!...”, ripeté il pegaso multicolore.

Quando Icarus la vide non riuscì a trattenersi e scoppiò a riderle in faccia.

“Oddio, Dashie!! Dovresti vederti!! Sembri un arcobaleno su zoccoli!”.

“VIENI QUI!!”, lo minacciò. L’altro andò immediatamente alla ricerca di un altro oggetto da usare come arma impropria.

Le urla di Sparkle si udirono fino a Counterlot: “ADESSO BASTAAAA!!!”.

 

    Il duo venne istantaneamente teletrasportato all’esterno. La padrone di casa si mostrò sull’uscio, assolutamente furiosa: “Adesso mi ci vorrà almeno un’ora per lanciare il contro incantesimo su ogni centimetro della stanza!!”.

“E a me toccherà risistemare tutto…”, aggiunse Spike, sconsolato.

La puledra dal petto a strisce chiuse violentemente la porta.

Scootaloo era basita e Fluttershy una sorta di tutt’uno con il cespuglio.

“Stupida testa di legno!!”, riprese Dash, “Hai visto che hai combinato??”.

L’altro si mise a zampe conserte e chiuse gli occhi: “Colpa tua che sei rompiscatole”.

“Io… io ti...!”.

“Ehmmm”, intervenne debolmente la puledrina. I due si voltarono: non l’avevano ancora notata.

Dash cercò di calmarsi: “Oh… ehm… ciao, Scoot…”.

“Ehy, arancino!”, l’accolse Icarus con un sorriso.

“Ciao Dashie e… uh… ciao… Icarus…”, disse, abbassando appena lo sguardo.

“Che ci fai qui?”, domandò il pegaso viola.

“Sarà venuta per andare al lago con noi, testa di cavolo che non sei altro!”, rispose la puledra dalla chioma blu.

“Non… non vuoi venire al lago con noi?”, gli domandò titubante la piccola.

L’aria di superiorità di Icarus parve gradualmente smorzarsi, sostituita a poco a poco da una sorta di tenerezza profonda.

“No, non vuole venire…”, continuò Rainbow, “È tutto oggi che proviamo a convincerlo! Ed è tutto oggi che fa l’impossibile, che si inventa mille scuse, che…”.

“Ci sarà anche Scoot, al lago?”, domandò l’altro.

“Sì, perché?”, sbuffò l’ex pegaso.

“Allora vengo”, concluse, chiudendo di nuovo gli occhi e stringendo il pony arancione a sé.

 

    In quel preciso istante… Dash ebbe un tic ad un occhio e allungò le zampe verso di lui, seriamente intenzionata a torcergli il collo.

Poi… vide la piuma blu ciondolargli sul petto.

E si fermò.

La rabbia iniziò rapidamente a scemare, coadiuvata da una strana emozione che la puledra iniziò a percepire all’altezza del cuore.

Fece un lungo sospiro e sembrò calmarsi.

“Uff… Ok… Allora ci vieni?”, gli chiese.

“Sì. Se dico una cosa la faccio”.

“Va bene…”, concluse, “Però… hai combinato un bel pasticcio da Twilight. Ora mi tocca andare in giro che sembro un…”.

“Ora sei Rainbow di nome e di fatto”.

“E tu sembri un vecchio matusa, con quei crini grigi…”.

“Porta rispetto, sai?? Io ho combattuto alla guerra di P…”.

“Ponalamo… sì, sì… lo so. Mi hai già fatto la scenetta sullo zeppelin, ricordi?”.

“Certo che mi ricordo!”, si vantò, “Memoria eidetica!”.

Scootaloo non capì bene ma si mise a ridere.

“E stai tranquilla”, la rassicurò il compagno, “È solo un’inversione cromatica. È permanente solo sulla materia priva di materia cerebrale”.

“…Speriamo…”.

“Quindi rimarrai arcobaleno a vita…”, aggiunse Icarus, dopo una pausa d’effetto.

 

*** ***** ***

 

    Il nutrito assembramento di pony trotterellò vivacemente sulla strada sterrata. Incrociarono un cartello in legno leggermente logoro, che indicava la presenza di un laghetto, più avanti.

Pinkie era in testa, rimbalzando come una palla, mentre a chiudere la formazione vi era un carretto contenente tutto il necessario per Rarity. Applejack, con aria scocciata, lo stava trainando ormai da quasi mezz’ora e l’amica dai crini viola non si risparmiava sui commenti di incitamento (per lo più fastidiosi). Poco più avanti, alla velocità del rimorchio della stilista, Icarus si muoveva con passo  lento ma costante. Le Cutie Mark Crusaders non lo mollavano un attimo, specialmente ora che era passato a spiegare come aveva sconfitto il secondo drago della giornata.

A quanto pare gli era bastato attirare il lucertolone di palude in un’ingegnosa trappola da lui escogitata, che prevedeva onici come esca e un’ampolla di lacrime d’alicorno da gettargli addosso, per sconfiggerlo.

Spike si colpì più volte la fronte con la zampa, esternando il proprio disappunto.

Superato un piccolo promontorio, si udì un trillo di puledra da spaccare i timpani.

“Guardate!! Ecco il lago! Ecco il lago!!”, le avvertì Pinkie.

“Yay”.

Quando Icarus lo vide rimase piacevolmente sorpreso: per lui l’Everfree Forest era sinonimo di paludi, tanfo e urla di terrore. Quello invece era diverso: un lago limpido e scintillante, circondato da piante verdeggianti e uccelli variopinti. Tuttavia, quando scrutò meglio l’acqua, ebbe una sensazione che lo fece fermare per un istante, per poi riprendere a camminare.

C’erano anche altri pony, oltre a loro, già accampati sulle sponde.

Tutti accelerarono il passo, desiderosi di sistemarsi il prima possibile. Tutti tranne Icarus ed Applejack. Quest’ultima faticò non poco a trainare il carretto su per il promontorio. Quando fu quasi in cima, ansimante e sudata, venne ripresa dalla stilista bianca: “Suvvia, Applejack! Non vorrai mica farci aspettare tutto il giorno?”.

La puledra arancione, col fiato corto, alzò gli occhi verso di lei: “…Un’altra parola e mi sgancio le cinghie e poi ti vai a recuperare il tuo prezioso carico giù a valle…”.

“Oh, come sei permalosa…”.

    Il gruppo scelse un’ampia zona erbosa, con svariati alberi cui potersi riparare dal sole, non molto distanti dall’acqua del lago. Pinkie, giustamente, fu la più esuberante di tutte nel preparare il campo, aiutata dalle altre (Rarity fece grossomodo eccezione, riservandosi un’area solo per le proprie cose, incluso un ombrellone delle dimensioni di un gazebo).

Quando teli e vettovaglie furono pronti… il cibo venne immediatamente servito, con gioia di tutti i presenti (specialmente Rainbow Dash che notoriamente non si risparmiava sulle abbuffate).

Era quello che lei stessa definiva “Attacco Combinato dell’Armonia Culinaria”: i dolci di Pinkie, le crostate e il sidro di Applejack, le mini-tartine ipocaloriche di Rarity, le insalate di Fluttershy, la cucina molecolare di Twilight e, per finire, una scorta di merendine del discount che l’ex pegaso aveva portato. Sì, insomma: non pensava di contribuire granché ma conosceva  i danni che poteva fare in cucina. Quindi… perché rovinare il palato a tutti con qualcosa di casereccio ma immangiabile? Meglio il pacchetto maxi-formato di grassi idrogenati e barrette energetiche.

Fu più o meno a metà pranzo che le puledre (Spike incluso) si fermarono ad osservare interdetti Icarus e la sua compagna: era incredibile la quantità di cibo che stavano ingurgitando.

“Oh, cari, un po’ di contegno!”, commentò Rarity, sollevando magicamente una micropizzetta.

“Ah!”, esultò Applejack, “Lo dicevo io che tornare qui a Ponyville gli avrebbe fatto bene! Mangia, mangia, che devi metterti un po’ di ciccia addosso!”.

“E secondo me”, aggiunse Sparkle maliziosamente, “Stai prendendo tutte le brutte abitudini di Dash… Incluso il mangiare come un’Ursa affamata”.

La coppia si osservò per un istante, smettendo di masticare, poi Icarus chiuse gli occhi ed esclamò saccentemente: “Casomai è lei che sta prendendo un po’ di educazione dal sottoscritto”.

“Ehm, Icarus”, rispose l’amica blu, a mezze palpebre, “Hai della marmellata di mela che ti cola sul petto…”.

L’amico controllò e… aveva ragione. Non seppe come controbattere e si limitò ad osservarla con la canonica aria di sfida. L’altra sorrise soddisfatta e riprese a mangiare.



    Finito il pranzo, ognuno si dilettò in ciò che preferiva.

Applejack, come suo solito, si stravaccò contro un albero, col cappello sul muso, per farsi una pennichella.

Rarity si impomatò con strani prodotti e, attraverso del cartone rifrangente, si mise comodamente a prendere il sole.

Dash fece gruppo con Pinkie Pie per contrastare Twilight e Spike nel gioco di Ponopoly. La prima squadra venne ribattezzata “Rainbow Pie” e la seconda “Magic Violet” (nonostante Spike l’avesse esortata ad optare per “The Violet Knights”.

Fluttershy scomparve nella natura, attirata da chissà quali curiose flora e fauna locali.

Icarus, infine, si mise comodo ai piedi di un arbusto e tirò fuori tutta la propria oratoria, intrattenendo le puledrine con storie su bestie squamose. Le tre rimasero ad ascoltarlo per tutto il tempo, letteralmente a bocca aperta.

    In questo modo passò circa un’oretta, in cui lo scadere coincise con un lancio di dadi di Pinkie.

Un doppio quattro portò la pedina delle Rainbow Pie dritta a Viale dei Meleti (su cui, tra l’altro, erano state edificate tre casette).

“Sììì!!”, esultò la puledra rosa, “Adoro Viale dei Meleti!!”.

Dash, invece, si colpì la fronte con lo zoccolo: “Ehm… Pinkie? Significa che dobbiamo sganciare la grana alla cervellona…”.

“Eeesatto!”, li canzonò Twilight, sollevando con la levitazione le banconote dal gruzzolo delle due.

“Oh per Celestia!”, esclamò l’ex pegaso, stritolandosi le guance tra le zampe, “Non possiamo permettercelo!”.

“Beh gira qualche prop… oh!”, infierì l’unicorno, “Vero, non puoi… sono già tutte impegnate!”.

“Ahw, macheccavolo!”, sbottò l’amica blu, che comunque detestava perdere sostanzialmente a qualsiasi cosa, “Siamo in bancarotta!”.

“Già!”, rincarò Spike, strusciando le banconote, “E questo significa che avete perso”.

Pinkie iniziò a saltellare e canticchiare felicemente attorno ai tre, per nulla dispiaciuta: “Viale dei Meletiii! Viale dei Meletiii! Adoro Viale dei Meleti!”.

“Ehy, testa rosa”, la riprese la compagna di squadra, “Puoi anche fermarti. È finita. Abbiamo perso…”.

L’altra si bloccò: “Ah… È finita??”.

“Sì…”.

“Oh ma allora posso finalmente andare a fare il bagno!”.

Con quelle parole e senza il minimo preavviso, fece un balzello, poi un altro e si proiettò dritta dritta nel lago. La panciata che prese fu tale che lo schiocco risuonò fino all’altra sponda. Come se nulla fosse successo, riemerse, sputò un po’ d’acqua e poi invitò le altre ad unirsi: “Su!! Venite!! L’acqua oggi è più bagnata del solito!”.

Applejack venne destata dal baccano ed osservò la scena, sollevando appena la tesa del cappello. I suoi occhi verdi incrociarono quelli rossi dell’ex pegaso, che già le lanciava fulmini di sfida.

“Cos’è??”, buttò lì scherzosamente, dopo aver sputato il filo d’erba che stringeva tra le labbra, “Pensi di poterne fare una migliore della mia?”.

“Non lo penso. Lo so”, rispose.

“D’accordo, allora!”, concluse, togliendosi il copricapo.

La coppia prese la rincorsa e si buttò a bomba nel lago. Due colonne d’acqua si innalzarono, oscurando temporaneamente la zona in cui Rarity stava prendendo il sole, che per un istante ipotizzò un’eclissi solare. Prima ancora che potesse togliersi gli occhiali da sole e controllare, un fiotto d’acqua la investì in pieno, ammosciandole la messa in piega e il cappellino.

“AAAHHHH!”, starnazzò, “MA COME VI PERMETTETE!!”.

Applejack e Dash, dall’acqua, risero sotto i baffi.

“Ops!”, aggiunse la puledra dai crini dorati.

“Scusa Rarity!”, le diede corda l’altra, “La prossima volta, però, evita di metterti in zona schizzi!”.

“Oh!”, sbottò scocciata, togliendosi tutti i ghingheri che aveva addosso, “Vi faccio vedere io, vi faccio!”, e si lanciò a sua volta nel lago, seriamente intenzionata a menar le zampe.

“In effetti ci starebbe proprio”, aggiunse il draghetto, incamminandosi.

“Occhio, Spike”, l’ammonì Twilight, infilandosi una cuffietta da bagno, “Hai mangiato meno di due ore fa e rischi i crampi”.

L’altro si fermò e si grattò il capo con un dito: “Uuhhh… Fammi capire… E tu… e le altre… non rischiate i crampi?”.

Sparkle gli trotterellò d’innanzi, a muso alto: “Ma tu sei ancora piccolino e hai la digestione delicata”.

“Ehy!”, rispose seccato, “Parli con uno che mangia quarzi e minerali in genere… Digestione delicata a chi?”.

Di lì a poco anche Fluttershy riapparve dalle fronde degli alberi, con qualche foglia attaccata al ciuffo rosa.

“Oh, sì!”, sussurrò (nel pieno dell’entusiasmo che poteva dimostrare), “Chissà quante bestioline ci saranno sotto il pelo dell’acqua!”, e le raggiunse.

Icarus, intanto, rimase silenzioso ad osservare.

Sweetybell fece un balzello sul posto: “Sììì! Tuffiamoci anche noi!”.

“Puoi giurarci!”, aggiunse Applebloom.

“Tuffo a bomba!”, esultò Scootaloo.

Le Cutie Mark Crusaders galopparono con entusiasmo ma, quando il pegaso arancione si accorse che Icarus non si muoveva, si fermò e lo scrutò con perplessità.

“Tu… tu non vieni?”.

“Mhf. No”, rispose, fingendosi disinteressato.

La piccola controllò come tutte si fossero immerse e stessero lanciando schiamazzi divertiti, quindi riportò l’attenzione sul puledro grigio.

“Ah… e… Perché?”.

“Bah”, bofonchiò, cercando di apparire superiore, “Nuotare in un lago è… è così…”.

“Non ascoltarlo, Scootaloo!!”, urlò Rainbow, facendo conchetta attorno al muso, “Icarus ha soltanto un po’ di paura! Lascialo stare!”.

 

Ecco.

Di nuovo quella storia.

Gli sembrava di essere tornato indietro di mesi, quando Dash lo convinse a scendere a Ponyville, con lo stesso “ricatto”. Ma stavolta non ci sarebbe ricascato.

“Dimmi pure quello che ti pare!”, le urlò, “Tanto non ci vengo a fare il brodo con voi!”.

“Scoot!”, riprese l’ex pegaso, con aria di sfida, “Lascialo perdere! Ha cavalcato una tempesta ma, evidentemente, una pozzanghera un po’ grande è troppo anche per lui!”.

Icarus cercò di rimanere imperturbabile ma le orecchie ebbero un fremito, che lo tradì.

Scootaloo gli domandò con sincerità: “Davvero hai paura di fare il bagno nel lago?”.

“Ovvio che no!”, rispose seccato.

“E allora perché non vieni? Dai, siamo tutte lì!”, lo incitò.

L’altro incrociò di nuovo le zampe, imbronciandosi: “È che…”.

“Che…?”.

Paura lui? Ovvio che no! Ma come faceva a convincere la puledrina?

Dopo qualche istante di ripensamenti, non resistette oltre.

“Eeeevabene!”, concluse scocciato, “Vi… vi faccio vedere io come… come si nuota!”.

La piccola si accese di gioia e le altre gli lanciarono grida di consenso.

 

Il pegaso dai crini viola si alzò e si mosse, zoppicando verso la sponda. Più si avvicinava e più si ripeteva di aver acconsentito ad una scemenza. Quando fu a pochi centimetri dall’acqua… il suo sguardo fece trasparire una profonda preoccupazione. Le altre non lo notarono ma Rainbow… Rainbow capì subito che qualcosa non andava.

 

Tutto sommato… poteva sembrare una cosa stupida. Un pegaso che aveva cavalcato la tempesta… con la paura di nuotare? Non era tanto il nuoto in sé…

Tutto si riconduceva ad un episodio della sua infanzia, qualcosa avvenuto ormai anni addietro.

 

Icarus era ancora un puledrino. La malattia gli era già stata diagnosticata da tempo ma ancora non aveva iniziato a minargli pesantemente il fisico. I medici avevano consigliato il nuoto come attività integrativa alle cure: l’acqua lo avrebbe sostenuto, limitandogli la fatica, e il movimento avrebbe impedito a muscoli e ossa di indebolirsi troppo.

Un’attività molto utile insomma.

La madre, un giorno, decise quindi di portarlo a Baltimare, dove sapeva esserci un’ampia area portuale con spiagge annesse.

Dopo un lungo viaggi in treno, i due si recarono sulla sabbia. Icarus non era molto convinto… e le difficoltà della sua situazione già si facevano sentire: il reputarsi diverso… malato… spesso evitato dagli altri. Era passato dall’essere un puledrino normale ad un piccolo pegaso triste e taciturno.

Una volta d’innanzi alle onde, Sunshine condusse lentamente in acqua il figlio, dapprima titubante. Inizialmente tutto parve normale: la puledra lo accompagnava con attenzione, appena oltre il bagnasciuga, lasciando che l’acqua iniziasse a sostenerlo.

Il pony grigio non sembrò entusiasta ma si fidò di lei. Quando tuttavia avanzarono ulteriormente nell’acqua, Icarus sentì improvvisamente il terreno mancargli sotto gli zoccoli. Quella sensazione lo riportò immediatamente alla sua ultima disavventura: il giorno in cui si gettò dalle nuvole, durante le ore di educazione al volo, schiantandosi dolorosamente sulle nubi sottostante. Il giorno, insomma… in cui capì realmente… che non avrebbe mai potuto volare.

L’agitazione lo colse in un batter di ciglia: si agitò e Sunshine, impreparata, perse la presa. Non accadde nulla di drammatico ma Icarus visse l’episodio in modo bruttissimo: un’onda leggermente più grande lo colpì, facendogli fare un ruzzolone verso il bagnasciuga. Si rialzò, spaventato. Udì contemporaneamente delle risate lontane, in mezzo ai pony che affollavano la spiaggia. Non erano nemmeno rivolte a lui, probabilmente, ma la paranoia di chi si sente schernito da tutti… può facilmente prendere il sopravvento.

Il puledrino si allontanò, a muso basso. Sunshine fece di tutto per consolarlo e convincerlo a tornare in acqua ma fu inutile. Il piccolo si piantò in mezzo alla spiaggia per l’intero pomeriggio, fissando la sabbia davanti ai suoi zoccoli, con fronte un po’ corrugata e muso inespressivo.

Più avanti… avrebbe ripensato all’episodio… e si sarebbe sentito molto male per la madre. Per il suo sorriso gentile. Per il suo volerlo semplicemente aiutare. Per la reazione che ebbe, insomma. Ma certe cose, col senno di poi… sono sempre meno complicate da giudicare.

 

Tornò al presente, non appena Scootaloo si lanciò nel lago.

“Dai, Icarus!! Vieni anche tu!”, strillò, scuotendo i crini zuppi.

“Dai Casanova!”, intervenne Rainbow, che ignorava completamente precedenti dell’amico.

Il puledro sembrò meno convinto che mai… ma affrontare un passato doloroso era una cosa che faceva da tempo, ormai, e non si sarebbe tirato indietro nemmeno questa volta.

Allungò timidamente una zampa anteriore ma, quando sfiorò l’acqua, ebbe un ritorno mnemonico del ruzzolone nel mare e si ritrasse di scatto. Il tutto avvenne in modo così impulsivo da fargli perdere aderenza sulla sponda bagnata …ed Icarus scivolò in mezzo all’acqua.

 

La terribile sensazione di cadere, proprio come quella volta, si impadronì di lui. Iniziò ad agitare le zampe, percependo un dolore crescente provenire dalle fragili giunture. Il suo muso sbucò dalla superficie: era quasi nel panico e annaspava come un disperato.

Non ci capiva più nulla, vedeva solo gli spruzzi che lui stesso generava.

“C-calmati, Icarus!”. Era la voce di Dash.

“S-STO AFFOGANDO!!”, berciò il pegaso, più spaventato che altro.

“Calmati, non stai affogando!”, ribadì.

Il puledro sentì delle zampe afferrarlo per il collo e trascinarlo lontano dalle sponde.

“C-C-COSA FAI?? RIPORTAMI A TERRA!!”, continuò ad urlare, vedendo la terraferma sempre più distante.

“Calmati, Icarus!”.

“RIPORTAMI INDIETRO!! STO ANDANDO A FONDO!!”.

Rainbow lo strinse con forza a sé, obbligandolo a distendersi su di lei, schiena contro petto.

 

    La puledra dalla chioma arcobaleno lo aveva portato quasi al centro del lago. Lì era riuscita ad indurlo nella posizione del “morto”, con la schiena rivolta verso il fondo del lago, il muso verso il cielo e il suo collo contro il petto dell’amica.

Dash, dietro di lui, lo abbracciò, in modo che il capo le sfiorasse il mento, cercando di sostenerlo.

Quando percepì il calore del suo corpo, Icarus ebbe un altro ricordo… quello in cui la puledra lo aveva accompagnato per la prima volta in mezzo alla tempesta… l’esatto istante in cui premette il proprio corpo contro il suo, per evitare che cadesse dalla nuvola.

In quel momento, esattamente come allora, una progressiva sensazione di calma e sicurezza iniziò a pervaderlo. Smise di agitarsi, con il battito a mille e ancora estremamente provato.

“Sei… sei calmo, ora?”, gli sussurrò.

Il pony dalla chioma viola aveva lo sguardo fisso nel cielo.

Il rumore degli schizzi e degli spruzzi era cessato, lasciando semplicemente il silenzio e il moto dell’acqua a dominare la situazione.

“I-io…”, buttò lì, ancora col cuore in gola.

“Ti sei… agitato come un matto, Icarus”, aggiunse con lentezza.

Da quella angolazione non poteva far altro che vedere il cielo e sentire la voce e la presenza di Dash. Poi… in modo sempre più intenso… iniziò a percepire il fluido sostenerlo dal basso.

Non aveva mai provato una sensazione simile. A poco a poco… distese i muscoli e il dolore alle ossa si affievolì sempre di più, fino a scomparire.

Il respiro gli tornò regolare e altrettanto fece il battito.

Non dissero nulla per svariati minuti.

Allora capì…

Si rese conto che non era…niente male.

Galleggiare nell’acqua…

Niente male davvero…

E poi… l’imbarazzo di essere così vicino a lei lo travolse come un treno in corsa.

“Meno… meno male che la legge di Ponymede funziona…”, fu l’unica cosa che riuscì a dire, sperando che le sue guance non stessero virando al rosso.

“Va meglio, ora?”, gli chiese dolcemente.

“…Sì”, ammise tentennando, “È che… scusa, io… io in passato…”.

La presa di Rainbow si fece leggermente più forte: “Shh, non parlare. Tu parli sempre troppo”.

“G-già…”.

“Comunque…”, riprese la compagna con un sorriso, “Hai attirato un sacco di attenzione con la tua performance. E ora ci stanno osservando tutti…”.

L’imbarazzo di Icarus raggiunse i livelli critici.

 

*** ***** ***

 

    Il bagno durò almeno un’altra ora, in cui Icarus conquistò sempre più confidenza con l’elemento acquatico. In meno di dieci minuti passò dallo sgambettare come un cane ad una serie di movimenti più complessi e fluidi. Il suo fisico, ovviamente, gli impediva di lanciarsi in tecniche troppo complesse ma la sensazione di galleggiare, unita alla spinta ascensionale, gli donarono realmente la parvenza di fluttuare senza sforzo. Venne addirittura coinvolto dalle Cutie Mark Crusaders in una serie di giochi che si fanno tipicamente da cuccioli: trattenere il respiro, fare le boccacce sott’acqua, nonché le canoniche immersioni in profondità. Tutte cose che lui non aveva mai fatto e che gli regalarono una giornata divertente come non mai.

    A pomeriggio inoltrato decisero di uscire e si stravaccarono al sole per asciugarsi.

La sensazione del tepore sulla pelle indusse le puledre (drago compreso) ad appisolarsi sommessamente.

Anche gli altri visitatori del lago seguirono l’esempio, gettando l’intera zona nella pace quasi assoluta. Solamente qualche schiamazzo infantile e il canto degli uccelli riecheggiava appena, di tanto in tanto.

Fu in quell’istante che Scootaloo, combattendo per non farsi sopraffare dalla dolce sensazione di essere cullata dal sole, pensò fosse il momento giusto per parlare con Icarus. Non solo voleva scusarsi per quanto gli aveva detto non molto tempo prima (cosa che non era riuscita a fare per una sorta di improvvisa e inspiegabile timidezza nei suoi confronti) ma… lui era il pegaso che non poteva volare… nonché Campione di Equestria. Chi meglio di lui avrebbe potuto comprendere la situazione che lei stessa stava vivendo?

Alzò lentamente il muso, scrutando la zona, ma del puledro grigio non vi era traccia apparente e Dash dormiva pancia all’aria.

Aggrottò le sopracciglia. Dov’era finito?

 

    Assicurandosi di non fare rumore, scivolando tra i corpi assopiti delle amiche, iniziò a perlustrare il luogo. Nelle sue condizioni non poteva essere andato molto lontano. Notò quindi una folta zona d’erba piegata e decise di muoversi in quella direzione.

Si inoltrò appena nel sottobosco, finché udì un rumore provenire da un piccolo avvallamento erboso. Continuò ad avvicinarsi… Lo vide. E la situazione la lasciò perplessa quanto preoccupata.

    Icarus aveva una zampa sul petto e, con l’altra, cercava di reggersi contro un piccolo tronco legnoso. Il suo sguardo era vagamente sofferente e il respiro estremamente lungo e pesante.

Qualcosa non andava.

Scootaloo rimase interdetta, non sapendo se raggiungerlo o rimanere lì. Quando le zampe dell’amico tremarono, costringendolo a strizzare gli occhi dal dolore, agì d’impulso.

“Icarus!!”, sbottò, trottando verso di lui.

L’amico drizzò le orecchie e riaprì gli occhi, del tutto impreparato al suo arrivo.

“S-Scoot…?”.

“Icarus! Che ti succede?? Che hai??”.

“Non… non è niente”, mentì.

L’altra non mangiò la foglia ma non se la sentì di controbattere e, dopo una pausa, sussurrò: “S-stai bene?”.

“Sì sto bene…”, le comunicò, avvertendo un’altra fitta e cercando di dissimulare.

“A… a me… a me non sembra”, concluse, con volto preoccupato.

Icarus avrebbe potuto inventarsi una scusa qualunque… ma quella non era Velvet. Non era una puledrina vissuta lontana dalla vita sociale, rinchiusa per lungo tempo in un ospedale. Non l’avrebbe bevuta così facilmente. E di certo non era una stupida. Non si sentì di prenderla in giro.

“Icarus…?”, riprese la piccola, dopo qualche minuto di silenzio, “È… è a tua… malattia…?”.

Il pegaso dagli occhi viola fece un lungo respiro, serrò le palpebre e, quando le riaprì, le sorrise: “Sì. Sì, è la malattia”.

Il pony arancione non sapeva nulla di lui, se non che una strana malattia gli impediva di volare e muoversi liberamente. Si avvicinò lentamente, impreparata a quanto avrebbe potuto sentire.

“Ti fa… ti fa male?”.

Icarus sorrise di nuovo.

“Vieni. Facciamo due passi”.

 

    L’amico iniziò a zoppicare con fatica, senza però schiodarsi dal volto un’espressione di assoluta determinazione. Scootaloo lo seguì.

Sbucarono in un’ampia radura, da cui erano ben visibili le montagne lontane e un grosso assembramento di nubi vaporose che si andavano addensando attorno ad esse.

Il pegaso grigio si sedette, con un verso di sollievo. La puledrina, dopo una certa esitazione, fece altrettanto, accanto a lui.

Lo sguardo dell’amico si rivolse intensamente all’orizzonte, rimanendo totalmente imperscrutabile. Passarono altri minuti e l’impulsività di cucciola di Scootaloo ebbe la meglio.

“Ti… succede spesso?”.

“Una volta mi succedeva di meno”, rispose, prendendo ad osservarla con tenerezza, “Ora avviene un po’ più… frequentemente…”.

“Ma cos’è?”, domandò incuriosita.

“È… sono le ossa di caramello. Sono sempre più deboli. E… e i muscoli fanno fatica”.

Il pegaso dai crini rossi capì quanto fosse delicata la faccenda: “Ah… io non… non sei obbligato a dirmelo… Ogni tanto parlo un po’ troppo…”.

Icarus le sorrise più dolcemente di prima: “Parlare troppo lascialo fare a me. Me la cavo benissimo in quello”.

“Sì ma…”.

“Una volta non volevo spiegare a nessuno la mia condizione. Ma tante cose sono cambiate, da allora…”.

“È sempre stato così?”.

“Praticamente… Poi è andata peggiorando. Oggi… quelle forti emozioni, lo stress fisico di quando mi sono agitato come un cucciolo in mezzo all’acqua… Credo che il fisico abbia sopportato a fatica quella situazione”.

L’amica lo ascoltò con attenzione: “Avevi paura di nuotare?”.

“Sì”, ammise, “E ancora un po’ mi vergogno della figura che ho fatto…”.

“Oh beh… A me hai più che altro fatto prendere un grosso spavento…”, lo rassicurò.

“Lo so. Tu e le tue amiche siete diverse dai pony che ho quasi sempre incontrato. Non mi avreste mai giudicato per una cosa simile. Fermo restando che le fobie sono irrazionali”.

“E…”, farfugliò, indecisa se parlare o meno, “È quella la malattia che non ti fa volare?”.

“Già. Le ossa di caramello creano ali di caramello. E il caramello è fragile”.

Scootaloo ci pensò un attimo: “A me però il caramello piace”.

    Ci fu un altro momento di pausa.

“E… senti…”, tentennò la piccola.

“Dimmi”.

“Volevo… volevo scusarmi… per… per quello che ti ho detto…”.

“Dall’albero, intendi?”.

“…Sì”, rispose intristendosi, “Non… non è stata una bella cosa”.

“Non importa”.

“Importa eccome! Ho sbagliato!”.

“No”, la corresse, senza smettere di sorriderle, “Avresti sbagliato se non avessi cercato di porre rimedio. Cosa che hai appena fatto”.

“Ah… io…”.

“Quando siamo arrabbiati… quando la rabbia ci offusca… si dicono cose che non si pensano. Lo so fin troppo bene…”.

“Parli per esperienza? Tu non mi sembri uno che si arrabbia facilmente…”.

“Ah, questa è bella!”, sbottò ridendo, “Io certe volte sono più irascibile di Dashie!”.

“Impossibile!”, dichiarò con convinzione.

“Davvero! Una volta, poi, mi arrabbiavo quasi per ogni cosa! Solo che… mi tenevo tutto dentro… lasciando che mi consumasse”.

“Ora non più?”.

Icarus fece spallucce: “Beh… un po’ meno!...”.

“Ma per te…”, riprese l’altra, osservandosi i fianchi, “Cosa… significa non poter volare? Io… Cioè a me la cosa fa arrabbiare tantissimo”.

L’interlocutore ci pensò un attimo: “Mhh… Non è mai facile porre un giudizio su queste cose. Pegasi che non volano… come pesci che non nuotano”.

“Già…”.

“Però… Ci sono tanti modi per volare”.

“Intendi… quello che aveva detto Celestia? Volare senz’ali?”.

“Più o meno”.

“Ma com’è possibile??”, chiese con foga, issandosi sulle zampe, “Con la magia?? Con la mongolfiera di Twilight, forse??”.

Lo sguardo di Icarus si perse per un istante tra le nubi lontane. Il suo volto parve addolcirsi.

“Con… tante cose…”, ammise.

“Quali?”.

“Sai, piccola?”, affermò con tenerezza, avvicinandosi a lei, “Ho conosciuto molti pony particolari, fino ad oggi. Tutti avevano qualcosa di strano e curioso. E tutti erano considerati diversi e incompleti”.

Scootaloo lo ascoltò con attenzione.

“Ma la verità…”, continuò, fissandola negli occhi, “È che spesso non occorrono occhi per vedere… così come non sempre servono ali per volare…”.

La puledrina si incupì leggermente: “Io… io non capisco, Icarus…”.

Il pegaso grigio tornò pensieroso, cercando un metodo per farle capire cosa intendeva. Ebbe quindi un’illuminazione: allungò appena le zampe, afferrando un sasso tra gli zoccoli.

“Guarda là”, le disse, indicando una zona, “Cosa vedi?”.

“Uuhhh…. un… un cespuglio?”.

“Nient’altro?”.

“Uhh… no. Qualche fiore, forse?”.

“Forse… ma…”.

Dopo quella frase, lanciò il sasso, che finì proprio nel cespuglio: un tripudio di farfalle colorate emerse improvvisamente, spandendo mille colori nel cielo. Scootaloo rimase affascinata ad osservarle, mentre si allontanavano leggiadre nell’aria.

“Non lasciare mai che l’apparenza e il giudizio degli altri ti condizionino”, commentò, “Forse, oggi, ti sembrerà di non poter volare. Un domani, chissà… imparerai mille modi per farlo. Non sappiamo cosa ci serba il futuro…”.

 

    Scootaloo riportò l’attenzione sull’amico, che aveva ripreso a fissare l’orizzonte.

Stava… così bene con lui. Non solo sembrava la capisse… per il fatto di non poter volare… ma… c’era qualcosa, in lui, che lo rendeva piacevole… e a tratti anche molto strano.

Un pensiero le fece però abbassare lo sguardo.

Con un filo di voce, gli domandò: “Senti… Icarus… Questa… questa malattia…”.

I due si osservarono e il puledro intuì dal suo sguardo triste cosa stesse cercando di chiedergli.

La piccola notò un cambiamento nell’espressione dell’altro, che divenne improvvisamente rilassato.

 

Gli occhi di lui ruotarono verso il cielo.

Nulla parve trasparire dal suo volto.

 

“Le nubi si formano e svaniscono continuamente, in questo mondo”, dichiarò, con voce lenta e tranquilla, “E le nubi di tempesta sono le più imprevedibili di tutte. Possono comparire e tanto rapidamente andarsene. Ma sono nubi cariche, intense… piene di energia. Non puoi fare a meno di ignorare una tempesta. Per breve che sia… lascia sempre il segno. Ed è questa la cosa importante… soffiare il tuo vento più forte mai. Lanciare le tue saette per illuminare la notte… aprendo poi la strada ad un sole più caldo che mai”.

 

Scootaloo non comprese appieno quelle parole un po’ criptiche… ma il concetto le parve chiaro. Non seppe come reagire, quasi ammaliata da quel pegaso dai folti crini viola.

 

    “Ehy… Casanova…”, si intromise Dash dietro di loro, con voce pacata.

I due si voltarono.

“Dashieee!!”, esplose il pony arancione, alzandosi e trottando verso di lei.

“Ehy, soldo di cacio!”.

Gli occhi rossi e viola, poi, si incrociarono.

“Ciao… Dashie…”.

L’amica si avvicinò a lui, sedendosi fianco a fianco. Scootaloo si sentì felice e si sedette proprio in mezzo ai due.

“La smetti di riempirle la testa con i tuoi farneticamenti?”, lo schernì, avendo però compreso appieno ogni parola.

“È… è da molto che ascolti?...”.

L’altra non rispose e si limitò ad abbassare lo sguardo.

“Quindi voi due avete cavalcato una tempesta insieme??”, chiese la piccola.

“Puoi dirlo, Scoot! Dritti dritti in mezzo ad una tempesta!”, rispose Rainbow con entusiasmo.

“Però io ero più veloce”, si affrettò a puntualizzare l’altro.

“In verità non mi sono impegnata. Non volevo farti sfigurare durante il tuo primo volo”.

“Eri anche brava a simulare il fiatone, quindi?”.

Scootaloo continuò a girare ritmicamente il capo verso ognuno di loro, in base a chi stava parlando.

 

Era in mezzo ai due Campioni di Equestria.

Rainbow Dash, l’unico pegaso senza ali ad essere mai riuscito a creare ben due Sonic Rainboom.

E Icarus, l’unico pegaso con le ali di caramello ad aver cavalcato ben due tempeste.

 

Poteva essere vero, quindi?

Le parole di Icarus nascondevano un fondo di verità?

Quante cose erano riusciti a fare loro due… senza avere attualmente la capacità di volare.

E dunque… Anche lei, forse, sarebbe riuscita a compiere grandi cose?

 

I due continuavano a battibeccare ma lei nemmeno li sentiva. Si limitava ad osservarli… e a percepire come stesse bene con loro. E a come fosse bello aver finalmente trovato qualcuno come lei.

 

    Un boato improvviso le fece salire il cuore in gola. Le nubi lontane, dalle montagne, si erano inscurite e si stavano avvicinando. Icarus e Dash, tuttavia, non fecero nemmeno caso al tuono, quasi non l’avessero sentito. Si levò un venticello leggero e il frusciare delle foglie sugli alberi si intensificò. L’aria divenne carica di energia e il sole iniziò ad occultarsi dietro le coltri scure.

Soltanto in quel momento i due si resero conto che un temporale si stava avvicinando, percependo l’agitazione di Scootaloo.

“Ehy, tranquilla”, la rassicurò Dash, passandole una zampa sulla groppa.

“Non… non me lo aspettavo”, ammise.

Gli occhi del puledro fissarono quelli della compagna: “…Già. Io invece nemmeno ci faccio più caso, ai tuoni, ormai”.

L’amica sorrise: “Mi pare normale… per chi ha cavalcato la tempesta…”.

La calma della coppia si diffuse anche alla puledrina, che si accoccolò tra i due, usandoli come riparo dal vento.

 

Il trio stette a lungo, in silenzio, a rimirare l’orizzonte sempre più scuro.

Icarus adorava la sensazione che percepiva prima dell’arrivo di un temporale.

Passarono i minuti… e Scootaloo, in mezzo al tepore dei loro corpi, percepì il sonno tornarle agli occhi, che iniziarono a  chiudersi.

 

Dash parlò, senza tuttavia smettere di osservare le nubi.

“…Quel discorso di prima, Icarus…”.

“Intendi?...”.

“Hai… hai di nuovo avuto un… un attaco di dolore?”.

“…Sì”, rispose, anch’egli concentrato sul temporale in arrivo.

Rainbow sospirò: “Forse… avevi ragione tu. Non dovevi venire al lago”.

“Ridicolo. La verità è che quasi tutto ciò che potrei fare mi è potenzialmente dannoso”.

“È che… certe volte… quasi mi dimentico della tua condizione. È come se nemmeno ci facessi più caso, ormai…”.

Icarus si girò e le sorrise: “…È… davvero bello… sentirtelo dire…”.

“Ma ciò non toglie che potrei trascinarti in situazioni davvero pericolose. E non voglio che tu… che tu stia male, insomma…”.

“Sono stato male per moltissimi anni. Il dolore fisico che provo adesso è una manna se confrontato al dolore che sentivo dentro, una volta. Stando qui a Ponyville con voi… mi sembra di poter finalmente respirare a pieni polmoni”.

“Sì ma…”, riprese, con volto un po’ afflitto, “Davvero… se certe volte ti sembra che io stia esagerando con le mie idee… ti prego… dimmelo”.

“Esagerando?”, domandò retoricamente, “Chi è che ha avuto l’idea di portare un paraplegico in mezzo ad una tempesta? Chi ha avuto l’idea di fuggire dal centro di cura? Chi ha avuto l’idea di condurre un acquazzone all’Emerald Lake? Chi…”.

“Ok, ok”, rispose, con una debole risata, “Ho afferrato il concetto… Soltanto… quando ti sento fare certi discorsi sul tuo futuro… io…”.

Icarus le osservò la piuma bianca che portava al collo, lambita dal vento. Si strinse a lei, schiacciando appena Scootaloo tra i due: “Non esiste ‘io’. Esiste… ‘noi’, giusto?”.

Quella frase le aprì letteralmente il cuore: “…Giusto”.

 

    Qualcosa solleticò il fianco del pegaso grigio, che abbassò il viso per capire cosa fosse.

Scootlaoo si era appisolata, raggomitolata su se stessa come un gatto. Aveva infilato il musetto appena sotto la sua ala, riparandosi dall’aria.

Quando la vide, rialzò immediatamente il capo, imbarazzatissimo.

Rainbow non riuscì a trattenere una risata.

“Dovresti vedere la tua faccia…”.

“I-io…”.

“Io? Dov’è finito il ‘non esiste io’?”.

“Ma… ma… non so cosa… cioè…”, balbettò, rigido come uno stoccafisso.

La puledra chiuse gli occhi  e poggiò la fronte contro la sua guancia dalle sfumature color cenere.

“Parli troppo”.

L’imbarazzo andò via via scemando.

 

Tre pegasi lambiti dal vento.

 

Tre pegasi accomunati da qualcosa di speciale.

 

In un mondo dove le nubi nascono e si dissolvono ogni giorno.

 

Dove il vento di tempesta può soffiare più potente che mai.

 

Icarus tornò ad osservare le nuvole, ormai prossime a riversare l’acqua di cui erano composte.

Aveva un po’ paura.

Per il proprio futuro.

Per ciò che sarebbe potuto succedere.

E, nonostante tutto, vicino a loro due… trovò una calma e una serenità che mai avrebbe pensato di provare.

 

In un mondo dove le nubi nascono e si dissolvono ogni giorno.

 

In un mondo... dove il sole torna sempre a splendere, dopo un temporale.

 

*** ***** ***

 

    “Beh, mi vadano a male le conserve se questo non sarà davvero un toccasana!”, dichiarò Applejack, fissando il temporale in arrivo. Si trattenne il cappello, pronto a schizzare via sotto le raffiche di vento.

“Ma che dici?”, obbiettò Rarity.

“I meleti sono un po’ secchi. Casca proprio a fagiolo!”.

La giornata volgeva ormai al tramonto e il maltempo non fece altro che velocizzare le operazioni per sbaraccare.

I tuoni rimbombavano sempre più vicini ma le puledre sarebbero riuscite ad andarsene per tempo.

Icarus cercò di rendersi utile come poteva, pur agendo molto lentamente.

Non riusciva a schiodare gli occhi da Dash, intenta anch’ella a ritirare le vettovaglie.

Gli attimi passati insieme, fino ad un attimo fa… gli avevano lasciato un segno “dentro”.

    Una fugace macchia di colore attirò la sua attenzione, proprio mentre i cespugli venivano lambiti dall’aria. Si allontanò dal gruppo e cercò di capire cosa fosse.

Scoprì un piccolo cespuglio di fiori gialli. Li riconobbe subito: li aveva visti più volte nei libri di botanica che aveva letto in passato.

Erano delle calendule.

Non si trattava di fiori particolarmente belli o rari… Eppure, nella loro semplicità, gli erano sempre piaciuti. Si avvicinò alle piante, lasciando che l’istinto gli suggerisse cosa fare. Non aveva mai pensato che si sarebbe ridotto a… sì insomma… per lei.

Sperando che nessuno lo notasse, avvicinò il muso ai gambi e si preparò a reciderne uno.

Una vocina lo interruppe giusto un attimo prima.

“No, Icarus!”, intervenne Fluttershy.

“Eh?? Uh? Cosa??”, balbettò cercando di nascondere ulteriore imbarazzo.

“Cosa stai facendo?”. Il pegaso giallo fluttuò dolcemente accanto a lui, con l’enorme ciuffo rosa che oscillava nel vento.

“E-ecco… io… mi era… mi era caduto qualcosa qui… e….”.

“Non stavi cercando di strapparli, vero?”.

“…Eh? Stra… strapparli?”, domandò perplesso, “Ma… ma ovvio che no…”.

L’amica si avvicinò ai fiori: “Meno male… È così brutto quando qualcuno strappa dei fiori…”.

“Brutto?”.

“Sì”, rispose, guardandolo fisso negli occhi, “È una cosa… triste. Alcuni pony prendono i fiori e li strappano… per darli come dono o abbellire le loro case. Ma poi… questi muoiono lentamente… e buttati via…”.

Icarus non era nuovo a ragionamenti fuori dall’ordinario ma, in effetti… non aveva mai considerato i fiori sotto quel punto di vista. Forse anche perché non aveva mai avuto grandi occasioni per coglierne qualcuno, quindi non si era mai posto il problema.

“I fiori sono molti belli”, continuò l’amica, dopo un altro tuono lontano, “Ma sono fiori proprio perché stanno in un campo. Strapparli è come… come distruggere ciò che sono”.

“Ah…”.

“Forse… ti sembrerò stupida…”, buttò lì, con voce calante, nascondendosi dietro i crini.

“…Per niente…”, la rassicurò Icarus.

“Davvero?”.

“Davvero. Anzi… se c’è uno stupido, tra noi due…”, concluse il pegaso grigio, osservando i fiori.

“Senti!”, riprese, cingendole le spalle, “Mi faresti un favore?”.

“Ah…e-ecco… f-favore? Io?”.

“Sì. Andresti a… prendermi una cosa dal cestino delle posate?”.

“Dal… cestino?”.

“Sì… Mi faresti questo piacere?”.

“Ma certo”, rispose contenta.

L’amico la strinse a sé, abbracciandola e tentando nuovamente di allontanare l’imbarazzo.

“E… grazie…”, sussurrò, con un filo di voce.

“Ma… non ti ho ancora portato niente…”, commentò interdetta.

“…Per quello che hai detto…”.

 

*** ***** ***

 

    Quando la giornata volse al termine, ognuno fece ritorno alle proprie abitazioni.

Scootaloo abbracciò con felicità sia Rainbow Dash che Icarus, strappando la promessa a quest’ultimo che si sarebbero presto rivisti (anche perché voleva sapere altre cose sui draghi, sugli unicorni che vedono col cuore e sui pegasi che volano senz’ali).

Dato che erano tutti molti stanchi, risparmiarono a Fluttershy la responsabilità di spingere i cirri fino alla casa dell’ex pegaso. La coppia decise quindi di fermarsi da Twilight, giusto per quella notte di pioggia.

Rainbow, non appena le fu sistemato un giaciglio, si appisolò di sasso, stanca e serena.

Anche Icarus si infilò tra le coperte… aspettando però il momento propizio per agire, senza dare nell’occhio.

 

L’indomani, a mattina inoltrata, Dash fu inaspettatamente la prima a destarsi.

Il temporale era passato e il sole filtrava lucente dalle finestre.

Rimase tuttavia perplessa quando vide le coperte per Icarus completamente vuote.

Iniziò a girovagare per lo studio dell’unicorno, tra libri e curiosi soprammobili, finché notò alcune tracce di terra sul pavimento. Le seguì, chiedendosi cosa diavolo fosse successo.

 

Vide quindi Icarus, con muso e zampe anteriori poggiati sul tavolo di lavoro di Twilight. Il sole ne illuminava il manto viola. I suoi occhi erano chiusi e il torace si contraeva ritmicamente nel respiro del sonno.

Perché era lì?

Si avvicinò per svegliarlo ma poi si fermò ,notando qualcosa di particolare.

Osservò gli oggetti sul tavolo e si rese conto di cosa avesse fatto, quella notte. Un pony normale ci sarebbe riuscito in pochi minuti. Ma le sue zampe imperfette e il fisico afflitto dalla malattia lo avevano di sicuro ostacolato parecchio.

 

Un bicchiere leggermente sporco di terra.

Frammenti di terriccio un po’ ovunque.

 

E un vaso con un fiore, appena trapiantato.



Una calendula gialla.

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