The phantoms of your mind

di Rosheen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disgrazia ***
Capitolo 2: *** Presente ***
Capitolo 3: *** Velluto ***
Capitolo 4: *** Penombra ***



Capitolo 1
*** Disgrazia ***




DISGRAZIA

 
 
 
 
 
Lo schiocco di una Materializzazione riempì il salotto vuoto di casa Black.
Per un po’ l’eco dell’incantesimo fu l’unico rumore udibile, poi un debole lamento e dei singhiozzi fuoriuscirono dalle labbra della creatura vestita di stracci raggomitolata sul tappeto. Stava accasciato a terra, le braccia ossute a circondarsi il corpo smagrito e sudicio; teneva il viso ben nascosto fra le ginocchia, non voleva che nessuno lo sentisse piangere.
Ma prima o poi avrebbe dovuto affrontare i padroni, lo sapeva bene. 
«Kreacher!» Era la signora Walburga che lo stava chiamando. Doveva essersi accorta del suo ritorno.
L’elfo si coprì le enormi orecchie ad ala di pipistrello con le mani e serrò gli occhi, prendendo a dondolarsi. Il desiderio di raccontarle tutto, di rivelare quanto era appena accaduto era troppo forte, lo sentiva premere contro il petto, riverberare in tutte le ossa, ribollire nel sangue.
Ma non poteva farlo.
Padron Regulus gli aveva ordinato di non dire niente. Niente.
«Kreacher! Dove sei?» La voce della padrona si stava facendo insistente.
Kreacher si costrinse ad alzarsi in piedi, assecondando quel filo invisibile che lo attirava verso il suo dovere. Quell’altro filo, quello che gli urlava di voltarsi, di tornare indietro dal suo padrone, aveva imparato a ignorarlo già da tempo. E a nulla era valso il desiderio di aiutarlo: era rimasto a guardare mentre si avvicinava alle acque scure del lago, e quando le mani fredde degli Inferi erano emerse per trascinarlo con loro verso il fondo era stato costretto a vederlo morire. Senza poter fare nulla…
Si asciugò il grosso naso carnoso con lo straccio legato in vita, posò una mano sulla maniglia e aprì cauto la porta. «Sono qui, padrona.»
"Non raccontargli niente, Kreacher" aveva detto.
E lui non lo avrebbe fatto.

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Capitolo 2
*** Presente ***




PRESENTE

 
 
 
 
 
Lo odiava.
Non avrebbe dovuto, lui faceva parte della famiglia, ma non poteva farne a meno. Lo aveva capito sin da subito, Kreacher, che quel ragazzo non avrebbe fatto altro che creare dei guai e degli inutili dispiaceri alla sua povera padrona.
Per anni dopo la morte della signora Walburga, Kreacher aveva vissuto da solo nella fredda e vuota casa Black. Non poteva andarsene, il suo legame verso la famiglia gli imponeva di rimanere; né, peraltro, ne aveva l’intenzione.
Aveva servito bene i suoi padroni, tutti, dal primo all’ultimo e per loro continuava a provare una devozione che aveva del maniacale, anche per un elfo domestico. Be’, per tutti tranne lui. Quando se n’era andato, vent’anni prima, per Kreacher era stato il giorno più bello della sua vita.
La padrona Walburga non l’aveva presa bene: aveva bruciato il nome del traditore del suo sangue, cancellandolo per sempre dall’albero di famiglia. Ma, anche così, le tracce della sua esistenza continuavano ad aleggiare per la casa, impresse in quelle foto di donne Babbane semivestite e nella bandiera dei Grifondoro attaccata alla parete della sua vecchia stanza.
Kreacher stava proprio tentando per l’ennesima volta di staccarla dal muro quando sentì un rumore provenire dal piano di sotto. Ladri, feccia in casa della mia padrona!
Aveva immediatamente abbandonato il suo lavoro ed era sceso quatto quatto per le scale, seguendo il suono dei passi che si aggiravano per il corridoio che dava sull’ingresso. Poi il frastuono di qualcosa che cade e un urlo agghiacciante, da far spaccare i timpani e inacidire il sangue. «Sozzura! Feccia! Sottoprodotti di sudiciume e abiezione! Come osate lordare la casa dei miei padri…?» La voce della signora Black si era interrotta per una frazione di secondo, per poi riprendere più forte e gelida di prima. «Tuuuuu! Traditore del tuo sangue, abominio, vergogna della mia carne!»
Una seconda voce si era sovrapposta alla sua: «Taci, orrida vecchia strega!»
Gli urli della padrona erano cessati, ma non l’odio che si era risvegliato in Kreacher. Quando aveva girato l’angolo, lo aveva visto: lercio, smunto, con due occhi grigi come il mare in burrasca che lo scrutavano ripugnati e i capelli lunghi e neri quanto il suo nome.
Sirius Black.
Il suo padrone era tornato e Kreacher sapeva che da quel momento in poi la sua vita sarebbe cambiata drasticamente.

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Capitolo 3
*** Velluto ***




VELLUTO

 
 
 
 
 
Kreacher era combattuto.
In piedi di fronte al letto a baldacchino osservava le tende tirate, conscio di colui che dormiva dall’altra parte.
Certo, quando aveva preso la decisione di uccidere il suo vecchio padrone, Sirius Black, non si era immaginato che sarebbe finito a lavorare nelle cucine di Hogwarts.
Aveva invece sperato con tutto se stesso di venire lasciato in eredità alla signorina Bella, erede di diritto di Sirius in linea di successione.
Lei sì che era una vera Black! La signorina incarnava tutti i valori tradizionali della famiglia, come l’amore per le Arti Oscure e la repulsione per tutta quella feccia di Babbani, Maghinò e Mezzosangue che tanto abbondavano in quei tempi bui.
E invece era stato lasciato a quel sudicio ragazzo, quell’Harry Potter.
Camminando in punta di piedi per non farsi sentire, l’elfo si avvicinò alla testata del letto. Allungò una mano e le sue dita incontrarono lo spesso velluto delle tende.
Una volta amava quel tessuto. Era lo stesso del drappo che nascondeva il ritratto della padrona Walburga. Solo che quello era vecchio, sudicio e pullulante di tarme; questo era pulito, caldo e di un intenso color sangue. Proprio come il rosso dello stemma dei Grifondoro. Proprio come il rosso della bandiera appesa alla parete della vecchia stanza di padron Sirius, quella che per anni aveva tentato di rimuovere senza successo, ottenendo solo dita scorticate e un crescente senso di frustrazione.
Tirò la tenda del letto.
Lui era lì. Dormiva profondamente, i tratti del viso vagamente distesi, rilassati.
Avrebbe voluto ucciderlo. Sì, lo voleva morto e non tentava minimamente di nasconderlo. Ma per quanto morbosamente lo desiderasse, non poteva farlo. Adesso era lui il suo padrone, era a lui che doveva obbedienza.
Ma non gli avrebbe mai donato la propria devozione. Questo mai.
Il giovane Weasley, nel letto a fianco, russò rumorosamente e mugolò qualcosa nel sonno. Per Kreacher era giunto il momento di andarsene.
Distese il drappo di velluto, sistemandolo come l’aveva trovato e schioccò le dita, Smaterializzandosi lontano dalla stanza e dal suo padrone.

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Capitolo 4
*** Penombra ***




PENOMBRA

 
 
 
 
 
Un elfo domestico ha un unico imperativo morale: obbedire al proprio mago.
Loro sono i padroni di tutte le razze, i detentori supremi della magia e del potere: è a loro che tutti devono sottomettersi.
Anche gli elfi domestici possono usare la magia, ma non per questo devono dimenticarsi del loro codice, del loro unico scopo nella vita, ovvero servire il proprio padrone.
E Kreacher aveva vissuto seguendo questo dogma alla lettera.
Per anni aveva servito la famiglia Black passando di mano in mano, di padre in figlio, fino ad arrivare al suo attuale proprietario.
Harry Potter non era un Black, ma era il suo mago e lo aveva trattato con gentilezza. Dal giorno in cui il giovane assieme ai suoi amici aveva tentato di irrompere nel Ministero della Magia, Kreacher non aveva più avuto sue notizie. Sapeva che era ancora vivo, se fosse stato altrimenti lo avrebbe sentito, lo avrebbe percepito; solo non sapeva dove fosse.
Fino a quel momento.
Le voci corrono leste e questa era giunta rapidamente anche alle sue orecchie pelose: Harry Potter era tornato. Ora si trovava a Hogwarts ed era riuscito a liberarla dal giogo del preside, Severus Piton, e dei fratelli Mangiamorte, i Carrow.
Kreacher stava pulendo i piatti sporchi della cena quando arrivò anche un’altra notizia: Voldemort stava attaccando Hogwarts. Il fragore dei vetri che andavano in frantumi, lo sconquasso delle pietre che si spaccavano e cadevano a terra e le urla dei maghi intenti a combattere giungeva soffocato alle orecchie dei piccoli elfi domestici.
La maggior parte di loro stava tentando di ignorarli, continuando a svolgere le proprie mansioni, ma c’era anche chi, come Kreacher, si era soffermato ad ascoltarli.
Perché anche in loro, in tutti loro, era in corso una battaglia interiore: combattere o no?
I maghi non avevano ordinato loro di farlo, non avevano detto proprio niente. Il loro compito rimaneva quello di sempre: continuare a lavorare.
Ma per quanto la loro natura gli impedisse di reagire, non potevano continuare a ignorare la loro coscienza. Kreacher questo lo aveva capito bene, così come si era reso conto di cosa andava fatto. Doveva solo trovare il coraggio di farlo.
«I maghi stanno combattendo» sussurrò, rivolto più a se stesso che a qualcuno in particolare.
Di fianco a lui, Winky pigolò: «Noi dobbiamo stare qui. Non ci hanno detto di muoverci.»
Era vero. Ma il suo padrone era là fuori e forse stava rischiando la vita. Il medaglione di padron Regulus era freddo a contatto con la pelle. Kreacher lo prese in mano, rigirandoselo fra le dita. E poi ricordò: quella notte in cui il suo padrone era morto e il perché era morto. Ricordò la rabbia, l’odio che provava verso il mago responsabile della sua dipartita, sentimenti che aveva covato negli anni come un morbo. Ed era giunta l’ora di scatenarlo.
Non gli servì un istante di più per decidere.
L’elfo fece cadere a terra il piatto che stava asciugando, mandandolo in frantumi e balzò sul lungo tavolo di legno della cucina. Attorno a lui si stava radunando una piccola folla. «Di sopra è in corso una battaglia. Ci sono i nostri maghi che combattono contro il Signore Oscuro e noi stiamo qui a pulire i piatti! Dobbiamo andare da loro.»
Un brusio di protesta aleggiò fra i piccoli elfi. Una vocina più coraggiosa delle altre gridò: «Non possiamo andare, non ce lo hanno ordinato.»
«Se muoiono, non ci ordineranno più niente. Là fuori c’è il mio padrone, il giovane Harry Potter, che affronta Lord Voldemort. Egli ha già ucciso il mio buon padron Regulus, non gli lascerò fare lo stesso con padron Harry!» Il brusio aumentò, stavolta in una cacofonia di voci che avevano la parola “guerra” sulle labbra. C’era una mannaia vicino al suo piede: Kreacher la raccolse e la alzò sopra la testa. «Lottate! Lottate! Combattete per il mio padrone, difensore degli elfi domestici! Combattete il Signore Oscuro, nel nome del prode Regulus! Lottate!»
E quando anche altre voci si unirono alla sua e altre lame si levarono in aria, baluginando alle lingue dei fuochi che andavano spegnendosi nei camini, un sorriso si distese sulle labbra di Kreacher: finalmente lo aveva fatto. C’erano voluti molti anni e ancor più forza di volontà, ma alla fine era riuscito ad uscire nella luce.
Il verme che strisciava nell’oscurità era morto da tempo e aveva conquistato un piccolo angolo di penombra.
Un passo alla volta, si disse.
Un passo alla volta.

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