Epiphany

di Jade MacGrath
(/viewuser.php?uid=2723)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***



Capitolo 1
*** prologo ***


New Page

Lampi di immagini continuavano a passare davanti ai suoi occhi.

L’Heavy Raider cylon … Lee che le urlava di tornare indietro. Ma non poteva. Doveva andare avanti. Doveva capire. Non aveva più paura di quello che avrebbe potuto comportare quella sua ricerca, non più. Leoben si era preso cura di quell’aspetto. Leoben, al tempo stesso per lei guida e aguzzino, che con le sue verità e le sue bugie l’aveva condotta fin lì.

Poi il Raider era scomparso, ma lei aveva continuato ad andare avanti. Nel cuore della tempesta.

“Va tutto bene, Lee. Non ho più paura. Lasciami andare. Mi stanno aspettando…”

Ricordava di averlo detto, ma non sapeva più chi aveva visto, chi la stesse aspettando dall’altra parte. Non sapeva nemmeno se erano persone reali o solo uno scherzo della sua immaginazione. La testa le faceva male, l’aveva battuta piuttosto forte quando aveva perso il controllo del Viper. Poteva essere un trauma cranico. Ma sentiva la voce di Leoben nella sua testa, che le ripeteva di avere fede, che sarebbe finito tutto molto presto. Che il suo destino la stava aspettando.

Ricordava di aver perso il controllo, di aver fatto scivolare una mano sulla leva di espulsione dall’abitacolo, ma non ricordava di averlo fatto. Ricordava, però, il Viper che aveva iniziato a esploderle intorno, e Lee che, disperato, urlava il suo nome.

Apollo non capiva come tutto potesse andare bene, perché lei non avesse paura, o dove volesse andare. L’unica cosa che sapeva certa era che Kara Thrace, Starbuck, la sua amica, la sua amante, la migliore pilota del Galactica, stesse consapevolmente e volontariamente volando dritta nelle braccia di Ade. E che lui non aveva nessun potere per impedirglielo. Poteva solo guardare il suo Viper esplodere nella tempesta, portandola con lui nell’oltretomba.

Le urla di Lee le risuonavano ancora nelle orecchie. Vedeva e rivedeva davanti a lei la caccia e l’esplosione del suo aereo. Non era in stato di incoscienza, ma non era nemmeno vigile. Sentiva però dolore alla testa, e alle altre parti del corpo che erano state urtate violentemente o erano entrate in contatto con le scintille dell’apparecchiatura e i primi stadi dell’esplosione. Sentiva dolore, quindi era viva. Il suo Viper le era esploso intorno e non si era eiettata, quindi era morta. Niente aveva senso per lei, niente…

Quello che riusciva a vedere era tutto sfocato. Vedeva delle presenze intorno a lei, piccole, esili sagome grigie, e anche se sentiva che avrebbe dovuto sentirsi spaventata da quelli che erano chiaramente alieni, non provava paura. Uno di loro la guardò negli occhi, mormorando parole che Kara non comprese. Stranamente però sentì risuonare qualche secondo più tardi la stessa voce dell’alieno nella sua testa, nella sua lingua.

Kara si rilassò, e perse di nuovo conoscenza.

Thor, Comandante Supremo della flotta Asgard le aveva appena detto: “Non temere. Ti riporteremo a casa.”

*** New Page

Nota esplicativa per chi di Battlestar Galactica non sa niente...

In pratica un giorno di quasi tre anni fa una razza di cyborg creata dagli umani delle Dodici Colonie e scomparsa dopo una guerra sanguinosa contro gli ex padroni fa ritorno a casa dopo 40 anni. E in una giornata rade al suolo a suon di bombe nucleari tutti e dodici i pianeti, grazie anche al dottor Gaius Baltar, che sedotto da una di queste macchine (in seguito nota come Caprica Six, quando finirà catturata dagli umani), rivela i codici dei sistemi di difesa. Da allora in poi gli umani superstiti fuggono alla volta della mitica Tredicesima Colonia, che sarebbe la Terra, ma esiste? Non esiste? Mah. La presidente delle colonie Laura Roslin (un tempo sottosegretario all'istruzione) ne è convinta, l'ammiraglio Adama no, ma i superstiti devono pur credere in qualcosa. La mappa che Roslin segue è contenuta nei Rotoli Sacri scritti da un oracolo che avrebbe descritto a millenni di distanza il viaggio della Tredicesima tribù dal pianeta d'origine dei Coloniali (Kobol) alla Terra . La donna non è che sia il massimo dell'attendibilità, visto che si è identificata col leader morente (è malata di cancro) della profezia e si fa di chamalla (un'erba allucinogena che usano gli oracoli che pare sia anche una cura) in continuazione, ma è e rimane la Lady d'acciaio della Flotta. Dopo casini vari, il ritrovamento di Kobol e la scoperta della direzione da seguire, Baltar, che è sopravvissuto e che nessuno sa responsabile dell'attacco nucleare, guadagna così tanto favore tra la folla che viene eletto presidente al posto di Laura Roslin, che aveva anche tentato di truccare l'elezione ma che era stata fermata da Adama. Baltar decide di colonizzare un pianeta abitabile e remoto scoperto per caso, e tutto va bene per un anno fino a quando i Cylon li beccano e occupano il pianeta tipo dominazione nazista in Francia, ovvero con un governo collaborazionista e una resistenza sotterranea. Le navi alla fine ritornano, la popolazione è salvata e Roslin ritorna in carica come presidente. Baltar, salvato dai cylon, finisce processato appena ritorna dalla sua gente ma alla fine è assolto.

Kara, la mia protagonista, è un pilota da combattimento con un casino di problemi a livello personale e non, che si porta dietro il fardello di aver ucciso per negligenza il fidanzato Zak, un pilota di cui lei era l'istruttrice che aveva promosso anche se non era il caso. Zak è il fratello di Lee, e figlio della sua figura di riferimento, l'ammiraglio Adama. Lee e Kara hanno la relazione amore/odio/amicizia più complessa mai vista, e quando dopo una notte insieme sembra che si stiano per chiarire, la mattina seguente Lee scopre che Kara ha sposato il suo ragazzo del momento, Sam Anders, e per ripicca o quel che è lui si accasa con la sua ragazza, Dualla. Durante l'occupazione Kara è prigioniera di un solo cylon, Leoben, totalmente ossessionato da lei che non le fa del male fisicamente ma le incasina la testa più di quello che già era prima, oltre a ripeterle da mane a sera che ha un destino già scritto da compiere. Una volta liberata ha praticamente in fronte un cartello che dice 'sono affetta da disordine da stress post traumatico' ma nessuno le dà una mano. Dopo un duro scontro con Adama si rimette apparentemente in sesto, ma alla fine ha un crollo nervoso e inizia a soffrire di allucinazioni, tra cui Leoben e la madre che la pestava da bambina. Una volta riuscita a chiudere quella parte rimasta in sospeso della sua vita, vola dentro la tempesta e in pratica si suicida di fronte a Lee... salvo poi riapparire giorni più tardi sana e salva sempre a Leee annunciando di sapere dov'e la Terra. Così almeno finisce la serie regolare, io parto dalla sua 'morte' (Maelstrom, è l'episodio) e da lì vado di AU e Crossover.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I ***


HTML>New Page

Quando Kara riaprì gli occhi, realizzò subito che non era più nel posto dove si era trovata all’inizio. E non si trovava nemmeno sul Galactica, che per lei era più casa del suo pianeta natale, Caprica. Pur non essendoci mai stata però, le era familiare. Forse le infermerie si assomigliavamo tutte da un capo all’altro dell’universo, chissà... Facendo finta di essere ancora priva di sensi, guardò di soppiatto i medici e i pazienti che passavano di fronte al suo letto. Tutti indossavano una divisa militare, e già questo fece aumentare i battiti del cuore di Kara. Poi sentì queste persone parlare, e realizzò che non capiva una sola parola di quel che stavano dicendo.

“Perfetto, proprio perfetto…” mormorò, portando le mani a coprire il viso. Stava guardando l’ago a farfalla sulla sua mano che la collegava ad una flebo, domandandosi se fosse il caso di strapparsela di dosso, quando una dottoressa vide che era sveglia e si avvicinò al suo letto.

“Buongiorno” disse la dottoressa Lam “Finalmente ha ripreso conoscenza. Può dirmi il suo nome?”

Che gli Dei mi fulmino, pensò Kara, se ho compreso una sola parola. La donna stava aspettando senza dubbio una risposta, così Kara decise di darle l’unica che nelle sue condizioni poteva dare.

“Capitano Kara Thrace, Flotta Coloniale, 462753.”

La dottoressa aggrottò le sopraciglia e la fissò per un attimo con un’aria smarrita. Anche lei non doveva aver capito niente di quello che aveva appena detto. Tentò di rivolgerle altre domande, ma Kara continuava sempre a rispondere con il suo nome, grado e numero di matricola. Poi, mentre cercava un modo di farsi capire, sentì dal corridoio due uomini parlare. Le loro parole non avevano senso… tranne una. Terra. Quella parola ebbe l’effetto di una scossa elettrica sulla ragazza. Kara si strappò di dosso la cannula della flebo, spintonò la dottoressa e tentò di uscire dall’infermeria, ma i soldati di guardia l’afferrarono appena fuori e le impedirono di andarsene. Kara urlava e si divincolava, e con la coda dell’occhio vide i due uomini allontanarsi. Non voleva che se ne andassero… e strillò l’unica parola che sperava gli avrebbe fatti tornare indietro.

“TERRA!”

 

Il dottor Daniel Jackson e il generale Jack O’Neil si guardarono con aria confusa. Avevano appena sentito una donna strillare la parola ‘Atlantus’, che nella lingua degli Antichi identificava il pianeta Terra.

Guardandosi intorno, videro che poteva provenire solo dall’infermeria e decisero di provare a vedere che fosse successo. Quando arrivarono, trovarono un soldato intento a sorreggere la ragazza bionda che Thor aveva lasciato nelle loro mani, chiaramente e pesantemente sedata.

“Mi sono perso qualcosa?” domandò O’Neil, osservando il soldato e degli infermieri rimetterla a letto, e metterle costrizioni leggere a polsi e caviglie.

“Generale… non so cosa sia successo. Si era appena svegliata e sembrava calma, poi ad un tratto ha iniziato a dare di matto.”

“Ha urlato la parola Atlantus” disse Daniel. “Terra in lingua Antica. Jack, che ha detto Thor di lei?”

“L’hanno salvata prima che il suo aereo esplodesse. Un velivolo da guerra mai visto prima, molto simile ai nostri caccia. Anche la sua tuta da volo e l’elmetto sono in materiali sconosciuti. E la zona dove è stata trovata non ha pianeti abitati da specie tanto evolute. La nostra Jane Doe è un bel mistero.”

“Senza contare il fatto che conosce la lingua degli Antichi.”

“No” interruppe il medico. “Da quello che so e che ho sentito, la lingua che la ragazza parla non è niente di simile.”

“Forse si è evoluta in modo autonomo, ma devo parlare con lei per essere certo. Forse parlandole in Antico potremo capirci.”

“Vedremo.”

 

Quando il sedativo smise l’effetto e Kara si risvegliò, non fu per niente felice di vedersi legata al letto. Daniel, seduto accanto a lei, si alzò in piedi.

“Sono…”

“Ehi! Liberami all’istante!” strillava Kara divincolandosi. “Levami queste cinghie!”

Daniel non era certo dell’inflessione, ma era certo di aver riconosciuto alcune parole. Il contesto poi, era inequivocabile. Si schiarì la voce e tentò di nuovo di presentarsi.

“Sono Daniel Jackson. Come ti chiami?”

Kara smise di agitarsi improvvisamente come aveva iniziato. Quell’uomo conosceva e parlava la lingua delle Scritture Sacre! Una lingua che sfortunatamente loro conoscevano solo in quell’ambito e che per il resto era morta, appannaggio esclusivo di Laura Roslin e di pochi studiosi quando Caprica e le Colonie erano nel pieno del loro splendore, figurarsi adesso.

Daniel ripeté il suo nome e la sua domanda, e Kara concentrandosi riuscì a riconoscere il verbo ‘chiamare’, e quello che doveva essere il nome dell’uomo. Daniel.

Jackson stava per ripetersi per la terza volta, quando Kara lo interruppe.

“Capitano Kara Thrace. Flotta Coloniale. 462753.”

“Kara? Il tuo nome è Kara? Tu” e indicò con la mano la ragazza “sei Kara?”

“Mi chiamo Kara Thrace” ripeté Kara, abbastanza frustrata dal non riuscire a farsi capire, ma sollevata di essere almeno riuscita a far sapere come si chiamava. Sul grado, sulla Flotta Coloniale e sulla minaccia dei cylon ci avrebbe lavorato in seguito.

“Terra?”

Daniel fece un ampio gesto “Qui. Atlantus. Terra.”

Kara lo fissò confusa, e Daniel decise di farle vedere una riproduzione del sistema solare. Se ne andò via così in fretta che Kara non fece in tempo a urlargli di liberarla, ammesso e non concesso che fosse riuscita a spiegarsi.

Tornò subito con una mappa stellare della galassia e una del sistema solare, ma prima che iniziasse a parlare Kara voleva essere liberata. Quindi appena lo vide lo chiamò per nome (sperando di averci azzeccato) e sollevò i polsi per quanto concesso dai lacci.

“Oh, sì, certo” mormorò, passando poi alla lingua Antica “starai calma?”

Kara fece cenno di sì con la testa e prese un’aria angelica. Non aveva intenzione di fargli niente, ma era sempre meglio avere le mani libere per ogni evenienza. Daniel l’aiutò a mettersi seduta, e le mise davanti la mappa del sistema solare, indicandole la Terra e ripetendole il nome del pianeta in Antico e in inglese, e aspettando che lei facesse altrettanto. Kara però guardava il pianeta azzurro, incredula di essere realmente lì. Dopo tutti gli anni in fuga, New Caprica, la morte di migliaia di fuggiaschi, lei era lì. Ora bisognava che ci arrivasse il resto della Flotta.

“Terra. Atlantus” ripeté indicando il pianeta dove si trovavano.

Daniel annuì e le mise davanti la mappa della Via Lattea, indicandole il punto del Braccio Locale dove si trovava il Sistema Solare.

“Da dove vieni? Dov’è il tuo pianeta?”

Pianeta. Doveva averle chiesto da dove veniva, forse sperava che lo sapesse indicare sulla mappa, ma primo, Kara non aveva idea dopo tanto fuggire di dove si trovassero Kobol e le Dodici Colonie, e secondo, non sapeva se doveva dirlo. Non sapeva se poteva fidarsi dei terrestri, che dovevano essere alleati di quella specie di omini grigi che aveva intravisto prima di risvegliarsi lì. Una specie che intratteneva rapporti del genere doveva essere molto potente… e se non stava attenta poteva rivelarsi molto pericolosa per la sua gente.

Così Kara fece un’altra faccina innocente e fece cenno di no con la testa con un sorriso dispiaciuto.

Daniel sembrò crederle, e Kara se la rise sotto i baffi. Non sembrava addestrato a condurre interrogatori, anzi, non sembrava addestrato per niente. Che ci faceva un civile in una struttura militare? E soprattutto perché la stava interrogando lui?

Ebbe la sua risposta quando un uomo dai capelli brizzolati e un’uniforme militare blu si avvicinò al suo letto. Le fece un sorriso e indicando sé stesso disse “Generale Jack O’Neil”.

“Capitano Kara Thrace” ripeté Kara sbuffando e ripetendo il gesto. Era sveglia da appena mezz’ora, e già non ne poteva più.

“Felice di conoscerla, capitano” disse Jack, guadagnandosi un’occhiata sorpresa da Daniel.

Capitano?”

“È quello che ha detto prima del nome.”

“Tu la capisci?”

Avrà a che fare col fatto che per ben due volte la mia testa è finita in uno dei succhiatesta degli Antichi… ma non so parlare la lingua. Solo capirla.”

“Ma non parla proprio quella lingua.”

“Forse nel bagaglio di conoscenza erano compresi anche i dialetti, Daniel …”

“Già… beh, meglio di niente” disse lo studioso facendo cenno a Jack di sedersi. “Capitano”disse poi rivolgendosi a Kara, che continuava a fissare Jack con aria sospettosa “cosa le è successo?”

Alla seconda volta che Daniel le ripeté la domanda, Kara afferrò che voleva sapere cosa le fosse capitato. Da dove cominciare? E quanto poteva dire? Decise di limitarsi a quanto riguardava lei, già farsi capire su quello sarebbe stata dura e non voleva ritrovarsi con un esaurimento nervoso in mano a gente estranea.

“Io stavo volando… sono finita in una tempesta di un gigante gassoso. La pressione ha fatto esplodere il mio aereo. Sono svenuta e mi sono risvegliata qui.”

Jack disse velocemente a Daniel quel che aveva detto Kara, e a Kara non sfuggì il sopracciglio alzato del militare mentre ripeteva le sue parole. Visto che sembrava capirla meglio del civile, si diresse direttamente a lui.

“Ho detto la verità.”

“Dice che è sincera. Daniel, spiegale che non è una questione di fiducia ma di posizione.”

Daniel gli scoccò un’occhiataccia “Non ho una conoscenza così approfondita della lingua!”

“Buffo, su Abydos ci avrai messo si e no cinque secondi per farti capire da Sha’re… Scusa” mormorò poi il generale, per aver menzionato senza volere il nome della defunta moglie di Daniel.

Daniel scosse la testa come a dire che non importava, e cercò di spiegarsi con Kara. Riuscì a farlo, ma fu Kara a non capire dove volesse andare a parare.

“Siamo in fuga. La mia gente è in fuga da anni, siamo alla ricerca della Tredicesima Tribù di Kobol, che ha colonizzato il pianeta Terra millenni fa.”

“Questo è molto interessante” disse O’Neil, facendole segno di continuare.

“I cylon sono sulle nostre tracce, sono un pericolo enorme, dovete aiutarci!”

“Cylon?”

“Cylon” ripeté Kara, con un lampo d’odio negli occhi nel pensare ai suoi nemici. Solo allora le venne in mente che per cercare il suo sentiero per l’illuminazione aveva lasciato la flotta senza il loro miglior pilota da combattimento. E il senso di colpa iniziò a farsi sentire. Aveva abbandonato il Galactica, l’Ammiraglio, Lee, Sam… per cosa? Ora era sola circondata da gente che la capiva a malapena, probabilmente prigioniera. Certo, era sulla Terra, ma…

Un momento. Era sulla Terra. Aveva trovato la Tredicesima Colonia. Se riusciva a conquistare la loro fiducia avrebbe potuto aiutarli a trovare la via, forse perfino incontrarli a metà strada.

Mentre era intenta in questi ragionamenti, Kara non si accorse che i due uomini seduti accanto a lei stavano discutendo dell’ultima cosa che Kara aveva menzionato. I Cylon. E prima ancora, Kobol.

Quando la sua attenzione tornò su di loro, li trovò ancora intenti a discutere. Cercò di ascoltare il più possibile, cercando di fissare il suono delle parole, ma per lei continuavano a non avere senso. Eccetto Kobol, che era menzionato più volte. Kara sorrise, dicendosi che era un buon segno. I suoi ‘cugini’ricordavano il pianeta d’origine. In realtà, la conversazione verteva su un altro argomento.

“Kobol è stato abbandonato da millenni. Dopo che gli Antichi sono ascesi la popolazione è scomparsa nel nulla, forse è ascesa anche lei. Non ci sono segni che farebbero pensare ad un esodo.”

“Direi che un segno ce l’abbiamo qui davanti.”

“Le iscrizioni trovate parlavano di Kobol come di un pianeta dove gli Antichi erano venerati come dei. La cosa interessante è che alcuni di quei nomi ritornano anche nella mitologia greca.”

“Kara ritiene che siamo discendenti di quella tribù che è emigrata qui da Kobol. Direi che la sua storia ha bisogno di qualche correzione.”

“Lingua prima, spiegazioni poi. Anzi, prima falla dimettere dalla Lam, e poi iniziamo. Kara potrebbe darci molte informazioni preziose. Forse perfino sugli Antichi.”

“E soprattutto dirci di più su questi Cylon. Come se non avessimo già abbastanza gatte da pelare” disse O’Neil alzandosi. Fece un cenno di saluto a Kara, salutò Daniel, e uscì dall’infermeria.

Kara osservò O’Neil uscire, poi Daniel reclamò la sua attenzione. Cercò di spiegarle che sarebbe stata in osservazione ancora un paio di giorni e che poi avrebbe avuto altri alloggi. Kara comprese che aveva ragione: a casa sua, altri alloggi significava cella. Poteva avere un letto, un tavolo, una sedia, perfino un quadro alla parete, ma i due marines alla porta non lasciavano dubbi. Si sfilò la giacca che le avevano dato e osservò attentamente i simboli sulle maniche. Una volta ci avrebbe visto il simbolo della Flotta Coloniale e del Galactica, ora al loro posto c’era una sigla, SGC. Sfiorò con le dita il disegno, e poi si rimise addosso la giacca, sedendosi sul letto.

Se facevano come loro, quella chiacchierata in infermeria era solo l’inizio. Il vero interrogatorio sarebbe iniziato adesso, preceduto forse prima da un minimo di apprendimento della lingua.

Doveva stare calma.

 

Incredibilmente, fu ancora Daniel Jackson a venire da lei. Entrò nella sua stanza talmente carico di carte e libri che Kara lo fissò divertita cercare di non far cadere niente mentre si avvicinava al tavolo. Le chiese come stava, o almeno è quello che Kara pensò di aver capito, e poi prese la sedia e si sedette di fronte a lei, con in mano un libro, un blocco per gli appunti e una matita.

Era iniziata la prima lezione di lingua inglese di Kara.

Iniziando dalle basi, Daniel vide con piacere che usavano lo stesso alfabeto, ma con diversi suoni. Come già aveva visto e sentito, molte parole della lingua del capitano Thrace derivavano o erano prese dalla lingua Antica. Altre, scoprì, si potevano ricondurre alla Lineare B, antica versione della lingua greca di cui si conoscevano scrittura e pronuncia. Ma la cosa che gli diede una scossa d’adrenalina nel corpo fu quando Kara riconobbe da un suo libro e pronunciò una parola nella Lineare A, da sempre il mistero più grande di tutti gli archeologi.

Forse anche la loro storia necessitava di qualche correzione, pensò lo studioso.

 

Kara dopo la prima ora si era ormai rassegnata. Ma questo non voleva dire per niente che non trovasse frustrante indicare una figura e dire il suo nome, scriverlo e ripetere poi la parola che Daniel le dava in traduzione. Era come tornare indietro alle scuole elementari, e checché si dicesse in giro sulla sua maturità, non aveva più sette anni da un pezzo. Poi, alle volte, lo vedeva prendere dei libri enormi – dizionari, li aveva chiamati – e le mostrava alcune parole che lui pronunciava allo stesso modo suo ma erano scritte in modo diverso, e viceversa. Ogni volta che capitava, sembrava sempre più soddisfatto. Il suo entusiasmo la divertiva, sembrava un bambino in un negozio di giocattoli a cui la madre aveva detto che poteva avere quel che voleva. Beh, era pur sempre un passo in avanti, e se lui si divertiva così, chi era lei per giudicare? Le stava mostrando una riproduzione di un linguaggio che Kara sapeva essere una lingua perfino più antica delle scritture, che come quella aveva ancora qualche parola in uso corrente anche se scritta in un altro modo, quando vide sotto di essa una sua derivazione che aveva visto incisa in una lapide nel museo coloniale di Delphi da bambina. Le era rimasto impresso perché la guida del museo aveva detto ad una classe stranamente attenta e completamente rapita, che veniva dal Tempio di Athena su Kobol, ed era una reliquia unica e senza prezzo del loro pianeta di origine. La parola significava ‘casa’, ma anche ‘rifugio’ e ‘santuario’. Dava l’idea di un posto sicuro al riparo da ogni male, un posto lontano da quella madre che le insegnava a essere forte e coraggiosa picchiandola con un bastone e spezzandole le dita chiudendogliele dentro la porta.

La stessa donna morta di cancro che aveva perdonato (anche se solo in un’allucinazione), perdonando sé stessa nel processo, superando così la sua inconscia paura dell’ignoto e della morte… e finendo poi lì.

L’aveva indicata e aveva detto i tre significati della parola raffigurata. Aggrottò la fronte e prese un’espressione confusa quando Daniel la fissò come se gli avesse appena rivelato una verità universale, cosa assolutamente assurda visto che si parlava di lei. Kara Thrace era nota per essere un totale casino in ogni campo, non per dispensare pensieri profondi. Quello era il campo di Lee.

Daniel aveva iniziato a parlarle a raffica, ovviamente dimenticandosi che non capiva niente, ma dopo un po’ non era nemmeno certa si rivolgesse a lei. Prese il taccuino e il libro, e sparì di corsa.

Ricordandosi evidentemente di lei, ritornò indietro e le disse che doveva controllare una cosa, ma che sarebbe tornato subito, e poi sparì di nuovo.

Kara alzò un sopracciglio. Che personaggio singolare. Il paragone con Baltar le venne spontaneo e totalmente involontario, e finora Daniel lo aveva battuto su tutta la linea. Sembrava realmente interessato a lei, alla sua condizione e a volerla capire. Baltar avrebbe pensato solo a come usarla per vantarsi poi di essere stato l’unico in grado di svolgere quell’incarico. Tornando alla sua fuga, chissà se si sarebbe degnato di dirle che diavolo avesse mai detto di tanto incredibile.

L’entusiasmo di Daniel si scontrò subito con le facce perplesse di O’Neil e Carter, ma non si fermò. Spiegò loro cosa fosse la Lineare B (“è un sistema di scrittura utilizzato dalla lingua micenea, forma arcaica della lingua greca, i cui resti sono stati trovati dall'archeologo britannico Arthur Evans nel 1900 a Creta, Pilo, Micene e Tebe”) e cercando di non sembrare troppo eccitato, spiegò che la Lineare A era un sistema di scrittura non ancora decifrata ad esso precedente, utilizzata nell'isola di Creta nel II millennio a.C.

“È una scoperta sensazionale… voglio dire, gli archeologi e i linguisti specializzati nell’area del Vicino Oriente antico hanno tentato di far luce su quel mistero per decenni. E ora possiamo! Certo, nessuno sarebbe andato a ipotizzare che fosse una lingua aliena, ma…”

“Daniel!” interruppe Jack. “Calmati un attimo, per favore! Kara ha decifrato una parola, giusto?”

“Sì. Santuario.”

“Bene, buon per lei. Ma chi ti dice che possa decifrarne anche altre?”

“Ci sono ottime probabilità che…”

“Anch’io conosco qualche parola in inglese antico, dalla letteratura, ma da lì a dire che conosco quella lingua…” azzardò il colonnello Carter.

Daniel si sedette al suo posto “Certo che siete due guastafeste.”

“No, Daniel, solo realisti” disse Jack.

“Sappiamo come diventi quando ti infervori su un argomento” aggiunse Carter sorridendo.

“Ad ogni modo, è la soluzione di un mistero archeologico. Concorderete almeno su questo.”

“Niente da dire” disse Sam.

“Quando il capitano Thrace sarà in grado di spiegarsi meglio, potrai saziare la tua curiosità. Fino a quel momento, calma e continua con le lezioni.”

Daniel annuì.

“Come desiderate” disse nella lingua di Kara prima di alzarsi e andarsene.

Non vide le arie confuse che Sam e Jack avevano in faccia, ma il sorriso che aveva in faccia dava l’idea che lo sapesse comunque.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** II ***


Con il tempo le lezioni iniziarono a diventare meno frustranti per Kara, che finalmente riusciva a spiegarsi anche se in un inglese ancora un po’ zoppicante. Non era riuscita a identificare altri simboli come quello del museo, e Daniel ne sembrava leggermente deluso. Aveva chiesto spiegazioni, ma Daniel non sapeva come spiegarglielo senza che fraintendesse quel che voleva dire.

“La tua lingua… quella parte della tua lingua… è un linguaggio molto antico e indecifrabile di questo pianeta.”

“Ve l’ho detto, siete nostri discendenti…”

“Se lo fossimo dovremmo sapere cosa quella lingua significa, non ti pare?”

Kara non sapeva come rispondere a questo senza passare per una fanatica religiosa.

“Le mie scritture sono chiare al riguardo.”

“Ma magari non eravate gli unici umani sul pianeta. Le tue scritture dicono che il pianeta era deserto quando la Tredicesima Tribù è arrivata?”

“Non mettere in dubbio la mia fede, Daniel. I Rotoli Sacri mi hanno condotta qui.”

“Ecco, parliamo dei Rotoli Sacri. Tu menzioni Kobol come punto di origine della tua gente.”

“E della tua” aggiunse Kara.

“Kara, io ti posso provare oltre il ragionevole dubbio che quando la tua gente è arrivata su questo pianeta, sulla Terra c’erano altri umani.”

“Niente che tu possa dire mi potrà far cambiare idea.”

“Bene, vorrà dire che allora farò qualcosa.”

Kara gli diede un sorriso di sfida che era il suo marchio di fabbrica, e gli disse di provare a farlo, se credeva di riuscirci.

Daniel uscì dalla stanza di Kara, e dopo aver ottenuto l’autorizzazione da Jack iniziò a preparare la missione su P3X147.

Kobol.

 

Quando il giorno stabilito per la missione venne a prenderla nella sua stanza, Kara era sinceramente confusa. Le era stata data un’uniforme e un giubbotto militare, e a parte la mancanza (comprensibile) di armi non differiva da quella di Daniel, o dell’uomo e della donna che Daniel chiamava Generale Jack O’Neil e Colonnello Samantha Carter.

“Dove andiamo?” domandò Kara a Daniel nella sua lingua. Tra tutte le lezioni e le conversazioni che avevano avuto, si fidava più di lui che di tutti gli altri, anche se non le avevano dato motivi per non fidarsi.

Daniel stava per rispondere, ma Jack fu più veloce. E le disse di parlare una lingua che fosse comprensibile a tutti, visto che la sapeva.

Kara gli scoccò un’occhiata feroce, ma obbedì.

“Dove andiamo, Generale O’Neil?”

“P3X147. Ma tu lo chiami Kobol.”

“Kobol? Daniel mi aveva detto che avrebbe smontato le mie tesi, non che le avrebbe confermate…” commentò ironicamente la ragazza.

“Il come ci andremo sarà sufficiente da solo a smontare la tua tesi” disse Jack, facendo segno a Kara di seguirlo e ringraziando il cielo che gli sguardi non potevano uccidere. Corridoio dopo corridoio, Kara si domandava dove stesse portando lei e gli altri, e una volta a destinazione rimase attonita a guardare quell’enorme anello di metallo al centro dell’hangar.

Si era voltata con aria interrogativa verso Daniel, ma lui le aveva fatto cenno di guardare l’anello con la testa senza dire una parola. All’improvviso l’anello più interno, con dei simboli incisi sopra, iniziò a girare fino a che un simbolo si posizionò esattamente sotto uno dei blocchi, che si illuminò. Man mano che l’azione si ripeteva, Kara sentì delle vibrazioni a terra piuttosto forti provenire dall’anello e guardò le persone accanto a lei, totalmente rilassate, in attesa di qualcosa.

Quando il settimo simbolo andò a posto, Kara fece un passo indietro e sentì il cuore minacciare di saltarle fuori dal petto.

Una gigantesca ondata di energia si era convogliata all’interno dell’anello, esplodendo davanti e dietro di esso e assestandosi poi entro i suoi limiti. Sembrava uno specchio d’acqua, eccetto per la luce che irradiava.

Daniel, Jack e Sam fissarono Kara fissare a bocca aperta lo Stargate attivato, e sorrisero scambiandosi un’occhiata. La prima volta era così per tutti.

Una volta riuscita a distogliere lo sguardo, fissò Daniel e con la mano tremante indicò lo Stargate.

“E questo… in nome degli Dei di Kobol, che diavolo è questo?”

“Questa è la prima prova di quanto dico, Kara. Noi lo chiamiamo Stargate. È un portale che unisce molti mondi in tutta la galassia, attraverso tunnel spaziotemporali chiamati wormhole. Non l’abbiamo costruito noi, ma un popolo che noi chiamiamo Antichi.”

“E che cosa centra con me?”

“Kobol ha uno Stargate, Kara. Significa che è stato colonizzato dagli Antichi, come la Terra.”

“Balle. Non vi credo.”

“Cambierai idea” disse Jack passandole avanti e scomparendo davanti ai suoi occhi dentro il campo di energia.

Kara non capiva dove Jack fosse finito, e a dirla tutta quell’oggetto enorme non le trasmetteva nessuna fiducia. Era un salto nel buio, come quando era volata nella tempesta e, solo gli Dei sapevano come, si era svegliata lì. Quei ricordi confusi di omini grigi e della teca di vetro da cui li guardava continuavano a non avere né senso né una spiegazione.

Si riscosse dai suoi pensieri quando Daniel le mise una mano sulla spalla e le disse che dovevano andare. Sam non era più con loro, doveva aver già passato il portale. Daniel accompagnò Kara fino allo Stargate, tanto vicina da poter toccare le increspature dell’orizzonte degli eventi.

“Stai cercando di spaventarmi?”

“No. Sto solo cercando di farti vedere la nostra versione della storia.”

Kara sfiorò la superficie, che al suo tocco si increspò come uno specchio d’acqua. Il timore di prima era scomparso, ora lo stava fissando affascinata. Come era capitato con la tempesta. Ma che le prendeva ultimamente? Dopo una vita a fuggire da quello che non conosceva e non capiva, ora ne era incredibilmente attratta. D’un tratto non aveva più importanza la meta, quel che avrebbero dovuto fare una volta lì. Il viaggio era l’unica cosa importante ora. Prima che la cogliesse un ripensamento, Kara fece un passo in avanti ed entrò nello Stargate. Quello che successe subito dopo non sapeva come definirlo, ma una volta dall’altro lato si trovò bocconi a terra in preda alla nausea più forte della sua vita.

“Kara, tutto bene?” chiese Carter, avvicinandosi. Kara si sedette a terra appoggiando la testa sulle ginocchia, e le disse di chiederglielo di nuovo entro mezzora. Aveva bevuto fino a perdere conoscenza, volato con ogni condizione atmosferica, e fatto acrobazie in cielo e nello spazio che a detta di testimoni facevano star male chi la stava a guardare, e ne era sempre uscita ragionevolmente bene. E ora un viaggio di neanche due secondi attraverso quell’affare la riduceva così?

“Non credo mi piaccia questo Stargate…”sussurrò.

“La prima volta è traumatica per tutti” disse Carter, inginocchiandosi accanto a lei “Fa dei respiri profondi, passa in fretta.”

Quando si rialzò, tese una mano alla ragazza. Kara la prese e si rimise in piedi. Daniel, arrivato appena dopo di lei, era sceso dai gradini della piattaforma dove si trovava lo Stargate e stava parlando con Jack. Kara si guardò intorno: la sala, decorata con affreschi a prima vista molto antichi, non le diceva niente. Poi vide una cosa che le serrò lo stomaco.

Uno degli affreschi era una raffigurazione della capitale, o almeno lo era stato molto tempo fa. Lo sapeva per certo, perché la parte salvatasi raffigurava il teatro dell’opera, com’era raffigurato nelle Scritture.

Senza sapere come, si ritrovò a correre all’esterno della camera, con Carter, O’Neil e Jackson all’inseguimento che le urlavano di fermarsi. No, non poteva farlo. Doveva vedere con i suoi occhi se davvero era Kobol. Se davvero quello che aveva sempre dato per certo non era vero, o almeno non del tutto.

La luce del sole quasi l’abbagliò una volta fuori, ma una volta aperti gli occhi quel che vide non dava alito a dubbi. Da dove si trovava vedeva le Colonne di Hera, da dove Athena si era gettata per disperazione dopo la partenza delle dodici tribù. La foresta che lei e Lee assieme alla Roslin e ai suoi sostenitori avevano percorso fino alla tomba della dea Athena.

Sentì arrivare alle spalle i suoi compagni di viaggio, ma non osava voltarsi. Daniel fu quello che le venne vicino e iniziò a parlarle.

“Kobol è stata una scoperta recente… anzi, una sorpresa, perché il suo indirizzo è stato cancellato da tutti i database Antichi eccetto uno, l’avamposto che hanno lasciato sulla Terra in un continente ghiacciato chiamato Antartide. Quando siamo venuti qui abbiamo trovato segni di una civilizzazione molto avanzata, compatibile con altri insediamenti degli Antichi che abbiamo scoperto …”

“Che ne avete fatto dei morti?” sussurrò Kara pensando a quanti erano morti durante la loro spedizione.

“Sono stati seppelliti. Ti… Ti ci porterò, dopo.”

Kara annuì con la testa, e Daniel riprese a raccontare. “Come dicevo abbiamo trovato segni di una civiltà, e segni di una recente spedizione di quella che ora sappiamo essere la tua gente. E delle macchine antropomorfe molto avanzate.”

“Cylon.”

“Una volta seppelliti i morti, abbiamo iniziato una campagna di scavi archeologici per scoprire cosa fosse successo alla città e agli insediamenti intorno ad essa. Tu cosa puoi dirci, Kara?”

Kara avrebbe tanto voluto dirgli di andarsene all’inferno. Aveva appena scoperto che la base della sua religione, del suo popolo, non era quella che tutti credevano un dogma inviolabile. Che non erano stati creati dagli dei, ma da altri esseri umani…

“Millenni orsono, Kobol era una terra desolata e senza vita” iniziò a recitare Kara, come la sacerdotessa del tempio di Artemide aveva fatto durante le lezioni di religione quand’era bambina. “Una terra che gli Dei decisero di benedire con la vita umana. La loro benevolenza trasformò Kobol in un mondo verdeggiante e ricco di vita. Gli Dei furono così soddisfatti del loro operato che decisero di eleggere Kobol a loro dimora, vegliando sui loro figli e guidandoli lungo la loro vita. Ma un dio invidioso della loro armonia iniziò a seminare discordia tra gli dei e gli umani, tra le Tredici Tribù e tra le divinità stesse. Fu così che la Tredicesima Tribù, guidata da una visione, decise di lasciare la sua terra natale alla ricerca di una nuova casa e di un nuovo destino. La meta designata dalla visione era un pianeta verde di foreste e azzurro d’oceano, chiamato Terra. Le tribù rimaste cercarono di ritornare all’armonia precedente, ma il paradiso che era Kobol in principio era ormai perduto per sempre. Le divinità iniziarono ad abbandonare il pianeta una ad una, e i loro figli decisero di seguire l’esempio della Tredicesima Tribù. Dodici carri dei cieli vennero approntati, nonostante le suppliche della dea Athena, protettrice di Caprica. Niente fermò l’esodo delle Dodici Tribù di Kobol fino alle loro nuove patrie, le Dodici Colonie. Il cuore spezzato dal dolore, Athena salì su un’alta rupe per guardare l’esodo della sua tribù, e sopraffatta, si tolse la vita.”

Kara ricordava di aver pianto per la dea, da bambina. Pur essendo stata consacrata ad Artemide e Afrodite il giorno della presentazione al tempio, aveva sempre considerato Athena molto affascinante. Una vera eroina tragica. Pregava sempre le due dee protettrici, ma c’erano volte, momenti particolari, un cui chiudeva gli occhi e chiedeva alla dea della sapienza di guidarla. Lo aveva fatto quando aveva deciso di lasciare la casa di sua madre da ragazzina. Quando aveva pianto nella sua stanza d’ospedale dopo che il dottore le aveva detto di scordarsi di diventare una giocatrice di Piramide professionista. Quando al funerale aveva capito che non era davvero innamorata di Zak, quanto di suo fratello maggiore. Quando dopo la notte con Lee aveva capito che non poteva portarlo giù con lei, ed era tornata da Sam. Quando aveva visto quella luce abbagliante nella tempesta e per un attimo le era sembrato di cogliere il volto della dea, come lo aveva sempre immaginato…

Ma niente era vero. Athena, Afrodite e Artemide non esistevano. Aveva pregato per anni la benevolenza di tre fantasmi.

Daniel stava per dirle qualcosa, quando una voce di donna interruppe il silenzio, facendo voltare Kara verso la direzione da dove proveniva.

Era una ragazza di poco più giovane di lei, con lunghi capelli mossi e arruffati nonostante fossero legati in una coda, vestita con un paio di pantaloni pieni di tasche, una canotta e una camicia che dovevano aver visto giorni migliori. La ragazza continuava a urlare saluti nella loro direzione, muovendosi agilmente nella foresta da dove proveniva fino ad arrivare di fronte a loro.

“Ma guarda chi si vede!” esclamò felice abbracciando Daniel. Daniel, un po’ imbarazzato, le diede un paio di pacche sulla spalla, e sospirò sollevato quando la ragazza lo lasciò andare.

“Sono io che ho perso la cognizione del tempo, o è un viaggio non in programma?”

“La seconda che ha detto, dottoressa Crenshaw.”

“Colonnello, ci conosciamo da due anni ormai. River va più che bene. O’Neil, sempre un piacere vederla. E chi abbiamo qui… una recluta? Primo viaggio attraverso lo Stargate?”

“No e sì. River, ti presento Kara Thrace” disse Daniel. “Kara, lei è la dottoressa River Cranshaw, l’archeologa che dirige il campo di scavo di cui ti ho parlato.”

River tese subito una mano a Kara con un gran sorriso “Piacere! Non si vede tanta gente nuova da queste parti, pertanto sono molto felice di conoscerti, Kara!”

Kara non fece il minimo gesto di ricambiare il saluto, e questo smorzò l’entusiasmo di River… per cinque secondi.

“Daniel, devi assolutamente venire a vedere lo scavo. Ho trovato delle cose molto interessanti!”

Jack disse che andava bene, e che quindi sarebbero andati tutti. Sam, Daniel e River procedevano in testa, parlando di materie scientifiche. Kara li seguiva a distanza, assieme a Jack, il quale aveva dichiarato per il suo gesto che le discussioni di quei tre gli davano sempre il mal di testa.

Kara aveva appena annuito a quel che aveva detto, aveva la testa altrove. Dopo vari minuti di silenzio però, Jack non riuscì a tacere oltre.

“Kara, capisco che sia stato uno shock per te.”

“Davvero, signore? Non credo possa.”

“Forse no, ma so come ci si sente quando si scopre che la realtà è un po’ diversa da quello che si credeva.”

“L’eufemismo del secolo.”

“Non significa che la tua religione sia falsa. Non sappiamo niente di cosa o chi adorassero gli Antichi.”

“Non è questo. Non solo, almeno.”

“Allora cos’è?”

“Daniel dice che parte della mia lingua parlata deriva dalla lingua di questi Antichi. Questo Stargate, costruito dagli Antichi, collega la Terra a Kobol. Eppure è la prima volta che li sento nominare.”

“Neanche noi li nominiamo da tanto. All’inizio pensavamo che gli Stargate fossero opera di un’altra razza. Poi abbiamo iniziato a mettere insieme i pezzi del puzzle, anche se non certo grazie al loro aiuto.”

“Perché?”

“Gli Antichi studiavano uno stato dell’esistenza chiamato ascensione, in cui si esiste in forma di pura energia. Molti di loro sopravvivono in questo stato, ma hanno regole molto severe riguardo l’interferenza con le razze non ascese. In pratica stanno a guardare.”

“Come delle vere divinità.”

“In certi pianeti una volta ascesi sono stati scambiati per dei. Forse è quello che è successo qui. Adoravate, non so…”

“Afrodite” suggerì Kara senza guardarlo negli occhi.

“Afrodite… Adoravate Afrodite, avete visto un’Antica ascendere, e bam!, avete pensato che lei fosse Afrodite.”

Kara lo fissò con aria perplessa “Sta forse cercando di consolarmi, generale?”

Jack la fissò un momento, ponderando la risposta, ma fu sollevato dal non doverlo fare quando River annunciò che erano arrivati al campo. Anche Kara si sentì sollevata. Quella conversazione stava prendendo una piega che non le piaceva.

Il gruppo di studiosi accolse la visita imprevista con molto entusiasmo. Come River aveva detto, non si vedeva molta gente nuova, e la cosa meritava di essere festeggiata. Kara però non trovava niente da essere allegra, e scusandosi si allontanò dal gruppo per stare da sola.

River la osservò allontanarsi, e fermò Daniel che stava per seguirla.

“Lasciala stare. Deve digerire quanto ha scoperto. E poi cosa vuoi che capiti?”

“Ne sei sicura?”

“Sì, Daniel, va tranquillo.”

Daniel sembrò crederle, e tornò dagli altri. River fissò Kara sparire nella foresta e sorrise enigmatica.

Lei starà attenta che non le succeda niente.”

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** III ***


Kara era ritornata fino allo Stargate, desiderosa di guardare di nuovo la pittura parietale della camera. Tracciò con le dita la sagoma del teatro dell’opera, e di quel che rimaneva del Tempio e del Foro. Seguendo i resti, vide che sulle colline che sovrastavano la città c’era un altro insediamento. Una città bellissima, che le ricordava Caprica City… no, ancora più bella. Stava contemplando l’affresco, quando un rumore la fece voltare di scatto. Non c’era nessuno, ma per un secondo le era sembrato che ci fosse un’altra persona nella stanza con lei, anzi, accanto a lei. Quella strana sensazione passò in secondo piano quando Kara vide l’altro affresco sulla parete opposta. Anche se era altrettanto rovinato, mostrava chiaramente la distruzione della Città degli Dei. Mostrava anche…

Kara dovette guardarle da vicino per crederci. Certo, sapeva che per giungere fino alle Colonie i suoi antenati si dovevano essere serviti di navi spaziali, ma non aveva mai visto niente di simile. Se l’artista era stato fedele alla cosa reale, si trattava di navi enormi e dall’aspetto molto avanzato. Anche la più moderna Battlestar sarebbe sparita al confronto.

Se le Dodici Tribù erano partite con navi così avanzate, perché c’erano voluti secoli prima di riappropriarsi della tecnologia necessaria?

E che cosa aveva provocato la distruzione?

Kara di nuovo si voltò di scatto. Di nuovo la sensazione di essere osservata da molto vicino. Ma continuava a essere sola.

“Andiamo, Kara… i fantasmi non esistono.”

E le anime dei morti su Kobol non sono perse per sempre, checché se ne dica in giro, pensò per rincuorarsi. Ma finì col pensare a Crashdown, Socinus, Elosha e a tutti gli altri. Al momento in cui la flotta si era riunita e tutti insieme erano andati alla Tomba di Athena, dove avevano trovato la mappa olografica che li avrebbe condotti alla Terra. E in effetti, anche se aveva subito rimosso quei pensieri blasfemi dalla testa, si era domandata come fosse possibile che ci fosse una mappa olografica per la Terra se la Tredicesima tribù aveva lasciato Kobol duemila anni prima delle altre tribù. E soprattutto perché fosse dalla prospettiva terrestre. Come se qualcuno fosse tornato e l’avesse creata, ma era impossibile…

O no?

Sentì qualcuno ridere piano alle sue spalle. Stavolta ne aveva la certezza, c’era qualcuno!

“Ti sei divertito abbastanza! Fatti vedere!”

Dall’oscurità emerse una ragazza dai capelli lunghi e scuri, vestita in jeans e maglietta. Una degli archeologi, di sicuro.

“Scusami, è solo che li fissavi ad un modo… gli affreschi, intendo” disse indicando la parete accanto a Kara. “Credevo di essere l’unica.”

“A quanto pare no. Spero però che con te non ti arrivino alle spalle a tradimento.”

“Scusa, non volevo. Una brutta abitudine dura a morire. Io sono Althea. Tu sei Kara, giusto?”

“Le notizie viaggiano veloci.”

“Siamo in venti qui, direi proprio di sì” disse Althea avvicinandosi a Kara e agli affreschi. “Affascinanti vero?”

“L’altra parete di sicuro. Questa non so come leggerla.”

“La parete di destra rappresenta Kobol come paradiso, dove gli Antichi e gli umani vivevano in completa armonia. L’altra rappresenta la caduta di quel mondo perfetto e l’esodo dei sopravvissuti.”

“Avete teorie sull’accaduto?”

“Dimmelo tu” disse Althea fissandola attentamente con i suoi occhi verdi. “Mi sembrava fossi intenta a riflettere proprio su questo.”

“Forse loro… forse questi Antichi un giorno hanno deciso che non volevano più giocare a essere divinità e hanno distrutto la civiltà che avevano creato.”

“Forse c’erano altre ragioni, dietro quel gesto. E se volevano realmente spazzare via quella civiltà, perché hanno permesso che quelle dodici navi partissero?”

“Svista.”

“O speranza. Forse speravano che qualsiasi orribile gesto i loro simili avessero compiuto, loro avrebbero fatto in modo di non ripeterlo.”

“Di che diavolo parli?”

Althea sembrò tentennare “Ecco… abbiamo trovato dei resti umani. Credo che in una certa fase della loro storia, gli abitanti di Kobol abbiano praticato il sacrificio umano rituale per ottenere il favore degli dei.”

“Non ci crederò mai.”

“Vivere è più facile se si tengono gli occhi chiusi.”

Kara lanciò un’occhiata piuttosto dura alla ragazza “E tu che ne sai, eh? È la tua vita che è stata appena sconvolta?”

“No. Ma so quel che dico. Ignorare quello che vedi funziona fino a un certo punto. Oltrepassalo, e non ti sarà più possibile far tornare le cose come prima.”

La voce di Althea era diventata così triste che Kara si domandò per un istante che cosa intendesse davvero. Stava per chiederglielo, quando la ragazza si ricompose e ricominciò a parlare degli affreschi.

Le espose anche una sua teoria un po’ folle su come queste pitture fossero in realtà opera di un Antico.

“Insomma, non mi credono molto, ma ha un suo senso… sappiamo che i superstiti sono fuggiti su navi lantiane, e che gli Antichi o sono morti o ascesi. Ma se uno o più di loro sono rimasti a testimoniare l’evento di persona, forse hanno anche voluto documentare la cosa, usando poi lo Stargate per raggiungere la Terra dove gli altri Antichi si erano rifugiati dopo l’evacuazione di Atlantis. Spiegherebbe la presenza della mappa olografica nella Tomba di Athena, no?”

“Navi lantiane? Atlantis? Ma di che parli?”

“Partiamo dall’inizio. Atlantis è la città degli Antichi, e un tempo si trovava sulla Terra. In lingua antica il pianeta si chiama Atlantus. Atlantus, Atlantis. Poi gli Antichi partirono lasciando sulla Terra un avamposto, e trovarono una nuova dimora su un pianeta quasi totalmente ricoperto d’acqua. Lantea. Non tutti però lasciarono quella che consideravano la loro galassia natia, e rimasero nei pianeti che avevano eletto a loro patrie, a proteggere le popolazioni che si erano insediate sotto di loro. I contatti venivano mantenuti, e così gli Antichi rimasero uniti nonostante le distanze enormi tra le due galassie. Così vennero anche a sapere della minaccia dei Wraith, forse l’unica forza in grado di sconfiggere la razza Antica. Impossibilitati ad aiutarli più di quanto già fatto, gli Antichi rimasti ascesero o raggiunsero la Terra, dove i profughi di Atlantis erano giunti dopo aver inabissato la loro città su Lantea.”

Althea scrollò le spalle “O almeno è quanto penso io. Forse però dovrei limitarmi a studiare gli affreschi, è molto più semplice...”

La ragazza sorrise a Kara, ma lei continuava a fissarla in modo strano.

“C’è qualcosa che non va?”

“Sai molte cose su Kobol. E sugli Antichi.”

“Sono un’archeologa e un membro del progetto Stargate, è il mio lavoro.”

Kara però aveva la netta sensazione che ci fosse dell’altro. Prima che potesse parlare, Althea – di nuovo – la anticipò, dicendole che era meglio che facesse ritorno al campo.

“Non vieni?”

“No, sono di turno qui. Gli affreschi potrebbero dirmi ancora molte cose. Quando si smette di parlare e si inizia ad ascoltare, non c’è limite alle cose che si possono apprendere.”

Kara le lanciò un’occhiata che voleva dire ‘Come ti pare’, e salutata l’archeologa fece ritorno al campo. Subito si trovò davanti River. Kara dovette fare del suo meglio per non stralunare gli occhi di fronte alla studiosa.

“Meno male, stavo per mandare qualcuno a cercarti! Visto cose interessanti mentre eri in giro?”

“Ho parlato con un’archeologa… mi ha mostrato gli affreschi nella camera dello Stargate.”

“Chi? Ti ha detto il nome?”

“Althea.”

River annuì “Sì, Althea è forse la persona più qualificata qui su Kobol a parlare di quegli affreschi e degli Antichi che vivevano qui. Strano che ti abbia parlato. Non parla con chiunque.”

“Striscia alle spalle di chiunque, però.”

“Brutta abitudine, ma dopo un po’ ci si abitua. È stata lei a trovare la Tomba di Athena, sai?”

“E la mappa per la Terra.”

“Già. La mappa. Una bella sorpresa. Forse puoi dirci anche tu qualcosa” disse passando all’improvviso alla lingua di Kara. Kara la fissò stupita, e River le spiegò che aveva trovato il testo che lei chiamava Rotoli Sacri di Pythia durante le esplorazioni del territorio.

“Sono un genio e un’autodidatta, combinazione pericolosa quando alla sera non si ha niente da fare a parte tentare di decifrare una lingua sconosciuta.”

“Forse puoi aiutare Daniel. Abbiamo ancora qualche piccola difficoltà.”

“Sta scaricando i miei appunti in questo preciso istante. Appena ha fatto, andremo alla tomba.”

 

Andare alla tomba per Kara fu come camminare nei ricordi. La scoperta che Adama non aveva la minima idea di dove fosse la Terra. La delusione che aveva provato, e che l’aveva spinta più delle parole di Laura Roslin alla sua defezione durante il volo di prova del Raider cylon entrato in loro possesso. Il ritorno in quella terra radioattiva e distrutta che una volta era Caprica. Il ritrovamento della Freccia di Apollo dal museo di Delphi. Il bacio di Lee al suo ritorno.

Lee…

Non riusciva nemmeno a immaginare cosa stesse passando. Sicuramente credeva che fosse saltata in aria con il Viper. Di sicuro, le avevano reso gli onori militari. L’ammiraglio probabilmente aveva fatto un discorso sul suo coraggio e sul suo personalissimo codice di condotta. Magari c’erano state anche lacrime. E sicuramente un sacco di sbronze in sua memoria. Chissà come se la stava passando Sam. Se fosse riuscita a rivederlo, gli avrebbe chiesto perdono per avergli sconvolto la vita per colpa della sua paura di amare Lee. Dove l’aveva portata? Per salvare l’uno, aveva sacrificato l’altro, incastrandolo in un matrimonio che non doveva essere celebrato in primo luogo…

“Kara?”

“Eh?” disse la ragazza riscuotendosi dai suoi pensieri. Daniel evidentemente si aspettava una risposta, quindi doveva averle chiesto qualcosa…

“Ti ho appena chiesto come siete arrivati su Kobol, tu e la tua gente.”

“È stata una catena di circostanze. Abbiamo scoperto Kobol mentre cercavamo fonti di sostentamento per la flotta. Dopo che un nostro Raptor è stato abbattuto dai Cylon, che ci avevano teso una trappola, Laura Roslin, la Presidente della Flotta, mi ha convinto a non andare per la missione di salvataggio concordata. Mi ha detto di ritornare su Caprica per ritrovare un oggetto che nelle scritture era indicato come il primo indizio per trovare la Terra.”

“Una freccia d’oro?” chiese River, che camminava di fronte a loro.

“Noi la chiamiamo Freccia di Apollo. Messa in posizione, attiva una mappa olografica.”

“Sì, è quanto mi ha detto” disse River, non sentita dagli altri. Ad alta voce disse che la tomba si era conservata in modo superbo, ma che era un attimo sconcertata dalle dodici tombe vuote. Kara si fermò di colpo.

“Vuote? Ma non è possibile, nella Tomba sono sepolti i dodici capostipiti delle Tribù di Kobol!”

“Spiacente, Kara. Tutte vuote. Non hanno mai ospitato nessuno, e fidati, ne sono certa.”

Un altro colpo alle certezze del suo passato. Kara non aveva più la forza di protestare oltre. D’un tratto provò il moto improvviso di correre allo Stargate, passarlo, tornare sulla Terra e non uscire dalla sua stanza alla base per il resto dei suoi giorni.

La tomba era esattamente come la ricordava, con le tombe e le statue a raffigurazione delle Dodici Tribù. Daniel l’aveva guardata incredulo quando lei gli aveva detto i loro nomi: Aerelon, Aquaria, Canceron, Caprica, Gemenon, Leonis, Libris, Picon, Sagittaron, Scorpia, Tauron, Virgon. Elaborazioni dei nomi delle costellazioni zodiacali visibili dalla Terra. Era uno dei pochi punti su cui erano pienamente concordi quando si veniva ai Rotoli Sacri, l’unico che non sarebbe mai stato contraddetto. River tirò fuori dal suo zaino la Freccia di Apollo, avvolta in un panno di stoffa, e la mise in mano a Kara.

“Direi che l’onore spetta di nuovo a te.”

Kara strinse le mani intorno all’oggetto, e camminò verso la statua che rappresentava Sagittario, l’arciere. Appoggiò la freccia tra le mani della statua, e come la volta precedente questo fece chiudere la porta d’ingresso della tomba, facendo sobbalzare chi non lo sapeva. E dopo un momento di totale oscurità, Kara si ritrovò sullo stesso prato di due anni prima a guardare nel cielo le dodici costellazioni che avevano sempre identificato le Colonie.

Daniel era senza parole. Aveva già visto tecnologia Antica in azione, ma quella mappa era straordinariamente realistica e molto ben eseguita.

Kara con il braccio indicò una nebulosa “Noi la chiamiamo Nebula Ionia. È l’unico corpo celeste che abbiamo riconosciuto. Stiamo… Stanno viaggiando in quella direzione.”

“Per noi quella è NGC 6523. Cinquantamila anni luce di distanza dalla Terra” disse Carter, staccando solo allora gli occhi dalla nebulosa e fissando Kara.

“Non sono una distanza impossibile… rimane il fatto che con la tecnologia hyperdrive che ci hai descritto, Kara, non saranno qui ancora per un po’. Almeno un paio d’anni, forse di più.”

“Un paio d’anni, forse di più” ripeté Kara, cercando di non pensare al peggio. Ma anche se non includeva i Cylon nell’equazione, sapeva come le risorse della Flotta erano strettamente razionate. Aveva provato sulla sua pelle il rischio di morire di fame perché le macchine per la preparazione degli alimenti avevano prodotto cibo contaminato. Il tylium, che alimentava i motori delle navi, era sempre più difficile da reperire man mano che si andava avanti. Bastava anche solo un altro guasto ai serbatoi dell’acqua, o ai sistemi di depurazione, e nessuno sarebbe mai arrivato a destinazione…

Improvvisamente sentì di nuovo quella strana presenza, come nella camera dello Stargate poco prima. Si guardò intorno, ma nessuno sembrava aver percepito niente. Kara scosse la testa, dandosi della stupida. Dopo l’incontro con Althea, ora ogni rumore strano la faceva innervosire.

Usciti dalla tomba, la squadra decise di ritornare sulla Terra. Daniel ringraziò River per gli input che gli aveva dato sulla lingua di Kara, e le assicurò che appena possibile sarebbe venuto a darle una mano. River sorrise serena, e li salutò con la mano mentre varcavano a uno ad uno il portale.

Chiuso il wormhole, sospirò e mise le mani sui fianchi con un’aria seccata.

“Non avevamo deciso che te ne saresti stata buona in disparte, accidenti a te?”

L’avrebbero presa per matta, ma avrebbe di nuovo avuto un’altra bella discussione con quello spirito che nessun’altro a parte lei vedeva, e che a quanto pareva dopo quattromila anni aveva scordato il significato del verbo ‘attendere’.

 

Una volta tornati all’ SGC, Kara fece quello che si era ripromessa di fare, ovvero si rannicchiò in un angolo della sua stanza in completa negazione. Ma quella condizione non durò molto, sostituita da un sentimento di impotenza che le serrava lo stomaco e la faceva sentire inutile. Due, tre anni, forse di più. Per una flotta in quelle condizioni, praticamente una vita. Aveva cercato di convincere Carter e O’Neil che dovevano aiutarli a trovare la strada, e che non potevano lasciar fare al caso o agli Asgard (così aveva capito si chiamavano gli alieni che l’avevano salvata), ma nessuno dei due aveva capito lo stato di bisogno in cui si trovava la Flotta Coloniale. O’Neil l’aveva zittita definitivamente usando l’argomento Cylon contro di lei, dicendole che se era vero che inseguivano la flotta, quel segnale se captato da loro li avrebbe condotti diritti alla Terra. E tra Replicanti e quel che rimaneva dei cosiddetti Signori del Sistema, non si potevano permettere un’altra minaccia incombente.

La cosa che più la faceva arrabbiare era che, sentito chi erano questi nemici, dava loro ragione. I Cylon non ti rendevano schiavo all’interno del tuo corpo, e non ti infilavano le dita nel cervello per sondare la tua mente e usare poi le loro scoperte per distruggere la galassia. No, i cylon volevano solo loro, e a parte testate nucleari e navi non schermate non avevano altre forme di offesa. Non avevano detto che non avrebbero offerto aiuto quando sarebbe arrivato il momento, ma avevano messo in chiaro con Kara che anche loro avevano nemici che desideravano solo annientarli.

Arrendendosi all’evidenza e a quella che aveva tutta l’aria di una leggera depressione, Kara lasciò che Carter si occupasse di aiutarla a inserirsi nella nuova società. Questo significava trovare un lavoro e magari un posto dove stare. La lingua ora le permetteva di farlo, cosa che non era pensabile nove mesi prima. Carter le spiegò che sarebbe stata in prova per un mese, per vedere come se la cavava, ma che se c’erano problemi poteva tornare alla base in qualunque momento. Kara, una volta messo piede fuori il complesso di Cheyenne Mountain, iniziò a pensare che magari le cose non sarebbero andate male. Era viva, era sulla Terra. E un futuro sereno e luminoso forse non era così da sopravvalutare.

Tale stato d’animo durò esattamente il tragitto da Cheyenne Mountain all’appartamento che una volta era stato del gigante di colore di nome Teal’c, che aveva intravisto alcune volte mentre era all’SGC. Anche lui non era della Terra, e da quanto aveva capito da Sam, il suo tentativo di vivere fuori non era andato granché bene. Di sicuro il marchio che aveva in fronte non aiutava. E a proposito di marchi, aveva deciso che prima possibile si sarebbe liberata del tatuaggio che aveva sulla spalla e prima ancora del cerchio alato che aveva sull’avambraccio. Se la spiegazione sul primo era stata abbastanza semplice, anche perché non aveva un significato vero e proprio, Sam l’aveva fissata stupita quando aveva spiegato che quel tatuaggio era, in un certo senso, la sua vera nuziale.

“Mio marito porta l’altra metà. L’idea era quella di avere qualcosa che simboleggiava la nostra unione… quando ci abbracciavamo il disegno si completava.”

“E che è capitato ad Anders, Kara?” chiese Sam senza staccare gli occhi dalla strada.

“Io, Sam. Gli sono capitata io. Ma immagino che sposare qualcuno per tutte le ragioni sbagliate non sia esattamente la ricetta della felicità. Dista ancora molto?”

“No, non molto” rispose il colonnello, che decise di ignorare il cambio di discorso di Kara. Il capitano non aveva avuto problemi a parlare di quanto successo fin da quando i Cylon avevano distrutto il suo pianeta, di fornire quante più informazioni possibili sui suoi nemici e qualche dato sulla flotta militare e civile che avevano permesso di stimare quell’ipotetica data di arrivo. Ma appena si accennava a lei come persona, si arrivava ad un muro invalicabile. La dottoressa Lam aveva parlato di varie fratture risalenti all’infanzia e compatibili con una situazione di abuso domestico, e di un ginocchio che aveva subito la cosiddetta ‘triade infausta’, ovvero la rottura dei legamenti collaterale tibiale e crociato anteriore e la lesione del menisco mediale. Lam aveva ipotizzato che Kara una volta fosse una dedita a qualche disciplina sportiva a livello agonistico. Un paio di volte Sam aveva dovuto volgere lo sguardo altrove perché si era ritrovata a fissarle le dita delle mani, che Kara muoveva e fletteva quando era nervosa e che lei sapeva spezzate di netto sotto la seconda falange. Ancora una volta si domandò che cosa celasse Kara nel suo passato, e se mai si sarebbe fidata a parlarne.

L’arrivo all’appartamento interruppe le sue riflessioni, e parcheggiata la macchina aiutò Kara con i suoi pochi bagagli e la accompagnò fino alla porta della sua nuova casa. Sam le sorrise incoraggiante, e Kara aprì la porta dell’appartamento. Era spartano, ma in un certo senso le ricordava l’appartamento di Delphi. E decise di considerare quel ricordo una cosa buona, almeno per il momento. Sam aveva iniziato a spiegarle le regole di quell’esperimento, come contattarli se c’erano problemi, e un minimo di punti di riferimento per iniziare a girare nei dintorni. Kara la ascoltava distrattamente, intenta a guardare fuori dalla finestra. Case. Alberi. Gente che andava e veniva. Bambini. Un mondo in pace, che non sapeva niente della guerra.

Sam se ne andò qualche minuto più tardi, dopo essersi assicurata che Kara stesse bene.

Sam ancora non aveva la minima idea di quanto buona fosse la faccia da poker di Kara.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** IV ***


 

Il mattino seguente, Kara si era avventurata da sola fino alla cartoleria all’angolo e aveva comprato un calendario. Era ritornata a casa senza guardarsi intorno, a passo veloce e testa bassa, e appena dentro in casa lo aveva appeso al posto di un quadro. Con una penna fece una croce sulla casella che indicava quel giorno, e poi si sedette sul divano a guardarla.

Cinque croci più tardi, Kara non era ancora uscita dall’appartamento per più di quindici minuti. Se lo fece, fu solo merito di Lynn.

Non che all’inizio fosse felice di essere disturbata da quell’assurda attività contemplativa. Anzi, quando sentì bussare alla porta, prese un coltello dal ceppo della cucina e lo nascose dietro la schiena mentre andava ad aprire. La ragazza la guardò sorpresa, e domandò dove fosse Teal’c.

“Teal’c non abita più qui, sono la nuova inquilina.”

“Oh, che peccato… Teal’c era molto gentile. E molto bravo con i tubi. Io sono un disastro invece. Va bene, allora dovrò chiamare l’idraulico e mantenere uno dei suoi figli al college…” disse con una smorfia.

Kara non sapeva cosa l’avesse posseduta, ma posò in silenzio il coltello e le disse che poteva dare un’occhiata. Non poteva essere più complicato della manutenzione di un Viper. Lynn la guardò come se fosse la sua salvatrice, e dopo essersi accorta di non essersi presentata, lo fece subito.

“Sono Lynn Travers, piacere.”

“Kara Thrace.”

“Kara… che bel nome. È greco vero?”

“Sì… credo di sì…” disse Kara, facendosi un appunto di domandarlo a Daniel alla prossima visita di controllo. Se suscitava la curiosità della gente, meglio non risultare sorprese del proprio nome.

“Bene. Hai da fare adesso? Ti andrebbe di venire subito da me?”

Kara scrollò le spalle, e seguì Lynn dentro la porta accanto. L’appartamento di Lynn era l’esatto opposto del suo, anche se non ci voleva molto. C’erano fiori, tende colorate, fotografie, tappeti, figurine magnetiche attaccate al frigo. E una pozza d’acqua sotto il lavello in cucina.

Kara lavorò una ventina di minuti sotto gli occhi di una Lynn piuttosto inquieta al pensiero dell’idraulico, e quando vide che Kara era riuscita a risolvere il problema fece un gran sorriso.

“Sei la mia salvatrice, grazie!”

Kara scrollò di nuovo le spalle e disse che non era niente di difficile.

“Per te, forse! Cosa posso fare per ringraziarti?”

La conversazione stava andando su un terreno che Kara non poteva e non voleva testare. Dicendo che aveva da fare, si rialzò in piedi decisa a uscire, ma Lynn fu più veloce e la incastrò con un caffè, dicendole che tutti avevano tempo per una tazza di caffè.

Così decise che avrebbe bevuto la tazza di caffè velocemente, avrebbe parlato lo stretto necessario, e per il futuro non sarebbe più uscita di casa.

 

Una volta pronto il caffè, Lynn ne riempì due tazze e raggiunse Kara presso la finestra.

“Sai, non riesco a piazzare il tuo accento. Da dove vieni?”

“Canada” mentì Kara, secondo la sua copertura.

“Non ci sono mai stata. Dev’essere un bel paese!”

Kara ne aveva visto alcune foto, e annuì.

“Senti, non voglio impicciarmi, ma… non ti ho mai visto in giro. Sei arrivata da poco?”

Kara annuì di nuovo. Fece per prendere un’altra sorsata di caffè, ma il liquido era ancora troppo caldo. Accidenti!

“Anch’io. Stavo a Los Angeles, prima. Poi un bel giorno trovo mio marito a letto con la mia migliore amica, e prima che me ne renda conto ho fatto i bagagli e sono all’aeroporto. Ha avuto il coraggio di venire qui, sai? Stavo per abboccare, quando il suo cellulare ha suonato e ho sentito la voce di quella dall’altra parte…”

Lynn era diventata rossa a quel punto, e fissava per terra. Fissò poi Kara, e indicò il quadro vicino alla porta di entrata.

“Diciamo che quel quadro copre qualcosa che non saprei come spiegare.”

Kara stava già pensando a delle macchie di sangue, ma quando vide l’intonaco scrostato e la forma sferica del danno decise che Lynn era andata sul classico.

“Cosa hai tirato?”

Lynn con lo sguardo indicò le sfere di marmo nel centrotavola.

“Facevo lancio del peso alle superiori…” mormorò imbarazzata “e sono più forte di quel che sembro.”

Poi trattenne a fatica una risatina “Ma vedessi come è corso via dopo…”

Kara fissava ancora le sfere di marmo rosa, e ne prese una in mano per saggiarne il peso. Tornò a fissare Lynn, e d’un tratto decise che forse poteva restare, se riusciva a condurre una conversazione a monosillabi.

Scoprì che Lynn aveva lasciato la Marina e il grado di tenente per sposarsi, ma che si era arruolata in primo luogo per pagarsi gli studi di architettura.

“Ho scoperto troppo tardi che quel lavoro non era più un mezzo per un fine da parecchio. Mi manca volare. Non mi mancano certi miei colleghi, ma è una cosa normale, suppongo. Tu cosa fai?”

Secondo la copertura, Kara doveva dire di essere senza lavoro ma di essere alla ricerca, e così disse.

Lynn le lanciò un’occhiata, poi disse la cosa che minacciò di strozzarla con il caffè.

“E tu in che corpo hai servito?”

Kara doveva averla fissata con aria strana, perché Lynn si affrettò a dire che se non voleva offenderla se si era sbagliata, solo che qualcosa su come si muoveva le aveva fatto pensare che fosse un’ex militare anche lei.

Ecco qualcosa che la copertura non prevedeva. In base a quel che sapeva scartò la Marina, anche perché Lynn avrebbe potuto smentirla, e decise di dire Aeronautica. Era anche la cosa che più si avvicinava alla verità, dopotutto.

“Ma guarda i casi del destino, due ex piloti vicine di casa. Sì, lo so, ti starai chiedendo come faccio a essere tanto imbranata con dei tubi idraulici, ma tant’è. Saprei rimontare un motore a occhi chiusi, ma quando si tratta dell’impianto idraulico o cavolate del genere mi si annebbia il cervello… Senti, stasera vedo degli amici della Marina, e per noi vale la regola del più siamo e meglio stiamo. Ti andrebbe di…?”

Kara decise che si era decisamente esposta troppo. Finì in un colpo solo il suo caffè, e interruppe Lynn dicendo che ora davvero doveva andare. Tornò a casa sua, e passò la giornata sul divano a fissare la croce appena fatta, la numero sei.

 

Aveva appena tracciato la numero sette il giorno dopo, che Lynn bussò di nuovo alla sua porta. Kara questa volta era ad un passo dal non posare il coltello.

Lynn era venuta a scusarsi per il casino della sera prima, quando i suoi amici di quando era arruolata erano venuti a trovarla. Si vedevano talmente poco che ogni volta facevano anche per le volte che non si erano visti, e questo di norma implicava cibo, birra, e musica, in enormi quantità.

Kara non disse niente, ma la sua faccia era piuttosto chiara. Dormiva poco già normalmente, ma quella notte l’aveva passata sveglia a sentire loro. Aveva dormicchiato poco e male appena il rumore era sparito, ed era di pessimo umore.

Lynn aveva mormorato delle scuse con aria molto contrita, e Kara aveva deciso di non strozzarla. Per il momento.

Onde evitare però di trovarsela di fronte all’improvviso, Kara decise che uscire era decisamente il male minore. E a dirla tutta, moriva dalla voglia di andare a correre.

 

Le croci otto, nove e dieci furono segnate appena prima di uscire per la sua corsa mattutina, che aveva il pregio di a, tenerla in allenamento e b, di farle vedere i dintorni. E c, quello di non farle pensare troppo al Galactica, ma non lo avrebbe mai ammesso. Era ritornata anche alla cartoleria dove aveva preso il calendario, e aveva preso un blocco da disegno, colori, e dei carboncini.

 

La croce numero undici fu appunto segnata con uno dei carboncini, quasi completamente finito. Kara aveva passato la giornata a fare schizzi. Quel che ricordava degli Asgard. La tempesta. Varie vedute di Kobol. Lee, l’Ammiraglio, Laura Roslin, Kat, Helo assieme a Sharon e Hera, Sam. Perfino Tigh, con la sua benda da pirata. Li aveva appesi tutti nella sua camera da letto, e guardarli la faceva sentire meno sola.

 

La croce numero dodici la segnò Lynn.

Kara era impegnata nella sua corsa quel giorno, quando aveva visto Lynn al parco, praticare quella che sembrava un’arte marziale. Si era fermata a guardarla, e Lynn aveva percepito di essere osservata quasi subito. Aveva salutato Kara con la mano, e Kara aveva ricambiato. Tornando a casa insieme, aveva deciso di dare a Lynn un’altra possibilità, ed erano finite a bere qualcosa da Kara. Se Lynn aveva notato quanto spoglio e poco accogliente fosse il suo appartamento, non disse niente. Accettato il bicchiere d’acqua, le aveva chiesto come andavano le cose, e Kara non aveva mentito quando le aveva detto che stava ancora cercando di capire che fare.

“Non avevo previsto di trovarmi qui da sola e senza i miei amici.”

“Neanch’io, eppure eccoci qua. Ti manca l’Aeronautica?”

“Ogni singolo giorno. Ma non posso tornare indietro.”

“Perché? Ti hanno congedato con disonore?”

Kara ripensò con un piccolo sorriso a Tigh, prima della guerra. Voleva deferirla alla Corte Marziale, il bastardo. Con gli anni e la parentesi di New Caprica erano arrivati ad una sorta di terreno comune e a qualcosa di simile alla fiducia, ma chissà che sarebbe successo quando sarebbero arrivati e avrebbero scoperto che era viva. Tra due, tre anni, o forse di più.

“No… ma ho avuto fortuna. Una volta ho picchiato un superiore stronzo. Voleva deferirmi alla corte marziale, ma il suo diretto superiore l’ha convinto a desistere.”

“Una volta ho detto al mio superiore che era un bastardo misantropo, e non paga di due settimane in galera gli ho dato anche del misogino. Così ho fatto un mese tondo.”

“Ne valeva la pena?”

“Eccome!” rise Lynn, felice di aver strappato una risata anche alla sua misteriosa vicina. Lo sguardo di Lynn si posò poi sul calendario di Kara, e le domandò perché stesse segnando i giorni.

“Alla fine del mese potrei andare via. Non so per certo se resterò qui o dovrò andare da qualche altra parte.”

Lynn la guardò strano e Kara trattenne il respiro, dandosi dell’idiota. Fortunatamente Lynn prese un’espressione felice e interpretò l’incertezza di Kara come dovuta a una probabile offerta di lavoro. Kara tirò il respiro e decise di attenersi a questo.

“Allora anneriamo un’altra casella” disse prendendo la penna e facendo una croce sulla casella del giorno “e speriamo bene. Stare senza fare niente è letale, almeno per me.”

“E tu, mai pensato di tornare?”

“Sì, ma ormai è una storia chiusa.”

“Perché? Ti hanno congedato con disonore?”

Lynn sorrise e bagnò la punta di due dita nel bicchiere e ci schizzò Kara “No.. ma il mio superiore non voleva che mi congedassi. Sono volate parole grosse… e me ne sono andata sbattendo la porta. Non ho il coraggio di presentarmi di nuovo da lui a chiedere un lavoro.”

Avevano chiacchierato ancora un altro po’, Lynn di quando era imbarcata su una portaerei e Kara del tempo passato sul Galactica prima dell’attacco, con le dovute modifiche. Dietro insistenza di Lynn, questa volta aveva capitolato e aveva acconsentito a venire a cena con quei suoi amici, ancora in città. Non lo avrebbe mai ammesso, ma stava iniziando a sentire la solitudine.

 

La croce numero tredici Kara la segnò tornando a casa dalla cena, alle quattro del mattino, e abbastanza sobria, almeno per i suoi standard.

Gli amici di Lynn erano un paio di marines, due piloti e un avvocato della Marina che l’aveva aiutata durante un’accusa di negligenza che si era rivelata falsa. Dopo le chiacchiere di presentazione, Kara fece la scoperta della regola del gruppo, ovvero ‘Non parlare della Marina e della situazione attuale’, che Lynn decise di applicare quella sera anche a lei e all’Aeronautica. Kara aveva cercato di non divertirsi troppo, ma aveva fallito miseramente. Quella serata le ricordava tanto quelle che lei, Lee, Zak e Helo (con la ragazza di turno) passavano insieme prima della guerra, quando erano tutti nello stesso posto. L’avvocato per assurdo le ricordava proprio Lee. Anche lui sembrava aver ingoiato un manico di scopa. Fortunatamente, dopo la terza birra, iniziò a scongelarsi. Josh, uno dei piloti, aveva portato la moglie con sé. Portava le foto di suo figlio nel portafogli e le mostrava a tutti pieno di orgoglio, come sicuramente avrebbe fatto anche Helo in condizioni normali. Prima che riuscisse a fermarsi, menzionò proprio i suoi due amici. Quando chiesero che razza di nome fosse Helo, Kara disse senza pensare che era il suo nome in codice. L’argomento venne chiuso subito per via della regola di Lynn, ma non prima di un giro dei rispettivi nomi in codice dei piloti. Lynn era Amazon da quando era uscita da quel mese di prigione, Josh era Icarus per una certa mania di spingere l’aereo ai limiti, e l’altra pilota, Amy, era Thatch, diminutivo del suo cognome Thatcher (ma anche, come disse Josh prima di beccarsi un pugno sul braccio, un omaggio alla sua madre spirituale Margaret Thatcher, con cui condivideva il carattere amabile). Quando Kara disse il suo, tutti la fissarono incerti su come reagire.

“…sì, lo so a cosa state pensando. Ho visto la catena di negozi. Ma in verità ho preso il nome Starbuck dopo una permanenza in cella.”

“Accusa?” chiese l’avvocato, di cui Kara non ricordava più il nome.

“Non importa, Simon… Visto che Kara è amica di Lynn, è scontato che anche lei si sia fatta delle belle permanenze in galera quando era arruolata. Quindi, nessuna sorpresa!”

“Ehi!” disse Lynn piccata. Non ci sono stata così tanto!”

“Questo perché ti ho tirata fuori io, Travers.”

“Sissignore, capitano Hayes, signore. Ma non sono più in Marina, Simon, quindi non mi puoi più rinfacciare niente…”

La conversazione era diventata quasi subito un battibecco tra i due, e Kara e gli altri si erano divertiti a fare da spettatori, tra commenti e passaggi di noccioline.

Segnata la croce, andò nella sua stanza. Lì il sorriso le svanì dal viso. I disegni che aveva appeso come conforto, ora sembravano fissarla con un’aria di silenzioso giudizio.

Kara scrollò le spalle, e se ne andò a dormire. Nessuno nella galassia poteva farla sentire in colpa per essere viva ed essersi divertita per una sera. Nemmeno loro.

 

Kara continuava a segnare i giorni, ma ne era molto meno ossessionata. Aveva accettato l’aiuto di Lynn per scoprire i dintorni della cittadina, dove andare a fare acquisti, e chi evitare nel palazzo perché era un rompiballe. La sua abilità in certi lavori manuali le era anche valsa la riconoscenza di un altro paio di ragazze dello stesso piano, con cui stava cautamente testando il terreno.

Contro ogni previsione, questo esperimento stava andando bene. Una vita normale… e chi l’aveva mai avuta? Kara no di certo. Dopo che sua madre aveva cacciato suo padre, la sua vita era stata un testamento di dolore inflittole proprio da quella donna. Poi aveva dovuto rinunciare ai suoi sogni di gloria sportiva, riciclandosi come ufficiale nella Flotta Coloniale. Poi la guerra aveva levato alla sua vita quel minimo di normalità che ancora aveva, o che credeva di avere.

Avrebbe dovuto essere contenta di avere un’occasione di ricominciare da capo. Un’altra, dopo il fallimento della colonia di New Caprica. Anche lì aveva lasciato la Flotta, e aveva vissuto da civile per un anno. Ma questa volta c’era qualcosa di diverso. Forse stavolta poteva funzionare…

 

Per la croce numero diciotto, Kara aveva finalmente capito cosa non funzionava. Si era data della stupida perché era così semplice, che avrebbe dovuto pensarci subito. Afferrò la borsa, scrisse un biglietto di scuse per Lynn perché sarebbe mancata alla loro cena, e corse via.

 

Quando O’Neil vide nientemeno che Kara Thrace venirgli incontro verso lo stagno dove stava pescando, sulle prime decise di stare allucinando. Ma visto che l’allucinazione gli era arrivata a trenta centimetri di distanza e continuava a fissarlo, decise che doveva essere reale.

“Voglio sapere come hai fatto a trovare casa mia?”

Kara tirò fuori dalla tasca dei jeans il biglietto con gli indirizzi della SG-1 che Sam le aveva lasciato l’ultima volta che si erano viste.

“Ah” disse, facendosi un appunto mentale di scambiare due paroline con Sam.

“Va tutto benissimo” disse Kara, fissandolo negli occhi.

“Bene, felice di sentirlo. Ma potevi dirmelo per telefono.”

“No, dovevo farlo di persona. Va troppo bene.”

“Ok” disse Jack con aria confusa “Ora mi sono perso.”

“Ho amici, una casa, una vita, forse un lavoro… va tutto benissimo. E sono a tanto così dal volermi affogare in quello stagno!”

Jack le fece cenno di sedersi sull’altra sedia del pontile, e le offrì una birra che Kara dimezzò sotto il suo sguardo stupito in un sorso solo.

Fece un respiro profondo, e poi si voltò verso Jack “Generale O’Neil…”

“Basta O’Neil. O Jack.”

“Jack… pensavo di farcela. Davvero. Fino a stamattina ne ero sicura… poi ho realizzato che c’era una cosa che mancava, che era mancata fin dall’inizio.”

“E che cos’è, questa cosa?”

“La vita militare.”

Jack la guardò con un sopracciglio alzato “Ti manca la vita militare?”

“Da quando ho compiuto diciotto anni, sono sempre stata in un modo o nell’altro invischiata con la Flotta Coloniale. Giocavo per la loro squadra di Piramide, poi ho fatto l’addestramento, sono stata un’istruttrice di volo, sono stata in servizio attivo su un paio di navi, e a conti fatti il Galactica era più casa per me del mio appartamento.”

“E la morale della favola è…”

“Non so concepire me stessa senza un’uniforme. Tutti sul Galactica combattevano per vendicare quel che hanno perso. Io lo facevo perché non sapevo fare nient’altro. E ho paura sia l’unica cosa che sarò mai in grado di fare.”

“Mi stai dicendo che vuoi arruolarti?”

“Se è possibile… sì, signore.”

“Personalmente, se quello che hai detto di te è tutto vero, sarei felice di prenderti a bordo. Ma sei un militare in una forza armata straniera…”

“Capisco” disse Kara, dandosi della stupida. Ovvio che non poteva… ma cosa era andata a pensare?

“Molli subito? Mi deludi, sai.”

Ora era Kara a essersi persa.

“Ha appena detto che…”

“Al momento vedo più pro che contro. Sei un pilota di esperienza, hai volato in guerra e hai servito su una nave da guerra spaziale, non hai avuto una crisi quando Thor si è fatto materializzare in tua presenza per sentire come andava… e ti manca lo Stargate. Non negare.”

Kara non lo fece. Pensava a quell’anello di metallo più volte di quante avrebbe ammesso anche con sé stessa. O'Neil ripeteva a destra e a manca che solo i pazzi, dopo aver provato il volo, non volevano provare lo Stargate... Kara lo aveva oltrepassato una volta soltanto, ma era stato abbastanza per capire che O'Neil aveva pienamente ragione.

“E soprattutto" continuò il generale "vuoi essere in posizione di poter aiutare la tua gente quando arriverà. Da civile potresti fare ben poco. E riguardo il conflitto di interessi… quando il Galactica arriverà, affronteremo il problema.”

Jack le disse anche che non le garantiva niente, e che prima la sua candidatura sarebbe dovuta essere vagliata da molte persone, Sicurezza Planetaria in testa.

 

Furono dieci giorni di accese discussioni in quella sede, all’SGC e alla Casa Bianca, che Kara passò nel suo appartamento a fissare di nuovo con apprensione il calendario. Stavolta però non era sola. Aveva detto a Lynn che ritentava la sorte nel mondo militare, e la ragazza si era dimostrata incoraggiante, al punto di sedere con lei sul divano in silenzio a guardare un calendario completamente ricoperto di segni.

“Non mi accetteranno. Mi sto illudendo. Il generale sbaglia, ci sono più contro che pro, non il contrario.”

“Non essere così negativa, Kara… se hanno guardato oltre la lista di insubordinazioni che mi hai raccontato una volta, possono farlo una seconda.”

“Cos’era, una battuta?”

Il telefono squillò in quel momento, e Kara lo afferrò prima che potesse avere dei ripensamenti.

“Sì?”

Dall’altro capo del telefono era Jack, che la informò che la sua candidatura era stata accettata, ma ‘con riserva’.

“Significa che, salvo altri problemi, tutto si deciderà quando i Coloniali arriveranno. Per il momento… benvenuta a bordo.”

“Sissignore, grazie signore.”

“Si presenti domani mattina alle 0800 a Cheyenne Mountain per sbrigare le ulteriori formalità, soldato.”

“Agli ordini. A domani signore” disse Kara chiudendo la telefonata. Lynn stava sorridendo, e quando Kara fece segno di sì con la testa fece un’esclamazione di gioia e l’abbracciò congratulandosi con lei.

“Bene, la parte difficile è andata! Bentornata in Aeronautica, Capitano Thrace!”

Kara ricambiò l’abbraccio, ma smise di sorridere. Sì, ce l’aveva fatta.

Ma aveva la netta impressione che la parte difficile fosse solo all’inizio.

 

 

 

***

 

Bene bene bene... con questo capitolo posso dire che l'introduzione è finita. Ehm... Sì, lo so, quattro capitoli per arrivare all'inizio vero e proprio, ma mi servivano tutti. Che ne dite, devo continuare o darmi all'ippica? le recensioni servono anche a questo...

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** V ***


New Page

 

 

Due anni più tardi

 

 

“Attivazione Stargate!” disse il Capo Harriman dalla sua postazione al comando Stargate. Il generale Landry, alle sue spalle, gli chiese se si trattava di amici o nemici.

“Ricevo un codice di identificazione. È l’SG-4.”

“Aprite l’iride!” ordinò il generale, e la squadra fece la sua comparsa dallo Stargate.

“Maggiore! Allora, com’è andata? Avete incontrato gli Ori?”

“No, signore” rispose il maggiore Kara Thrace, facendo passare avanti il membro ferito della sua squadra. “È andato tutto benissimo fino a quando Jameson qui ha pensato bene di offendere la figlia del capovillaggio.”

“Non è colpa mia se sgualdrina e danzatrice nella sua lingua sono praticamente uguali” aveva fatto per giustificarsi il giovane tenente, ma chiudendo subito la bocca appena Landry e Thrace lo fulminarono con lo sguardo.

“Appena Jameson sarà fuori dall’infermeria, vi aspetto per il briefing post missione.”

“Sissignore” disse Kara, e congedata la squadra si diresse verso il suo alloggio. Quasi subito iniziò a massaggiarsi le tempie per cercare di alleviare il mal di testa che le stava arrivando a tutta forza.

Era a metà strada, quando sentì Daniel chiamarla.

“Kara! Bentornata! Com’è andata su P5X-092?”

“Uno spasso fino a quando non ho dovuto scambiare le nostre medicine e il C-4 che avevamo per la vita di Jameson. La tua giornata?”

“Tranquilla. La squadra oggi era a riposo, quindi mi sono dedicato alle mie ricerche.”

“Buon per te. L’unica cosa a cui mi voglio dedicare ora è un letto, fino a quando Landry non mi convocherà per l’incontro post missione. Ho un mal di testa che mi sta uccidendo.”

“Sì, anche Cameron… ovvio, scusa. Non ti trattengo allora. Porta pazienza, andrà via prima o poi.”

Kara fece una smorfia e salutò Daniel, poi arrivò alla sua stanza, e si buttò sul letto. Fatto poi un respiro profondo, prese dal comodino la boccetta di aspirine e ne mandò giù due con un bicchier d’acqua. Rimettendole a posto, fissò le foto che teneva sul comodino. Fotografie che testimoniavano la svolta imprevista presa dalla sua vita in quei tre anni passati sulla Terra. Alcune con Lynn, che aveva convinto a tornare nel mondo militare e che ora serviva all’SGC. Una con Daniel, che appena aveva realizzato quanto fosse veloce ad apprendere lingue antiche aveva iniziato a farle studiare un idioma dietro l’altro nei momenti di calma.

Ne aveva addirittura una col colonnello McNamara. E pensare che lo odiava, all’inizio. Le aveva reso l’addestramento l’inferno in terra. Poi una volta su suolo nemico, le cose erano cambiate. Ora nutriva per quell’uomo un rispetto e una riconoscenza che rivaleggiavano solo con quello che provava per l’ammiraglio Adama, prima che le desse del cancro che andava rimosso e la disconoscesse da figlia adottiva. Sapeva perché Adama le aveva detto quelle parole, ma non cambiava il fatto che le avevano fatto un male d’inferno, soprattutto perché da quel momento in poi il loro rapporto non era più tornato quello di prima. McNamara le aveva ripetuto fino alla nausea che lei poteva essere di più di quello che era o credeva di essere, e l’aveva sfidata a provargli che aveva torto. Kara alla fine aveva ripagato la fiducia accordatale limando qualche spigolo del suo carattere e diventando uno dei cinque piloti migliori del suo corso. Ma le cose erano differenti, ora. Kara lo aveva sentito guardandosi allo specchio appena indossata l’uniforme dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti. Appariva diversa, e si sentiva diversa. Aveva una seconda possibilità, e questa volta avrebbe fatto del suo meglio. I suoi demoni dormivano, e le sue paure erano state ridimensionate. Per la prima volta si sentiva in controllo della sua vita.

Dopo l’anno di addestramento aveva passato sei mesi in Iraq a combattere per il paese che le aveva dato asilo, ed aveva fatto ritorno al comando Stargate con una cicatrice sul lato destro del collo e il grado di maggiore. In tre mesi era passata da componente di una squadra SG periferica al comando della SG-4, e finora nessuno si era lamentato.

Kara si raggomitolò sul letto in posizione fetale, cercando di non lamentarsi. Il mal di testa stava aumentando a livelli esponenziali, e poteva voler dire solo una cosa.

 

Cameron Mitchell bussò piano alla porta di Kara, che fu tentata di mandarlo al diavolo appena percepita la sua presenza al di là della porta.

“Cristo, Cameron, mai sentito parlare di aspirine e antidolorifici?” sibilò Kara, che rimpiangeva di stare troppo male per poter urlare.

Cameron si sedette sulla sedia vicino alla porta, poggiando la testa contro il muro e sfregandosi le tempie.

‘Parlare fa peggio.’

‘Esci. Dalla. Mia. Testa. Mitchell.’

‘Volentieri, Thrace… ah, non posso perché quel maledetto ci ha legati ed è sparito prima che potessimo costringerlo a disfare il link!’

‘Non urlare, mi scoppia la testa… e il mal di testa non è nemmeno mio!’

‘Preparati, perché starai così anche domani. Quando mi prende così forte non c’è aspirina che tenga. Scusa.’

Senza aprire gli occhi, Kara cercò a testoni il cuscino e glielo lanciò contro. Pensò poi alla vendetta perfetta che si sarebbe presa per quella tortura, che se non aveva contato male sarebbe capitata all’inizio della settimana prossima.

‘Ehi, questo non è carino. Ti ho chiesto scusa.’

‘Non me ne faccio un accidente, al momento. Mal di testa, crampi e dolori alla schiena. Solo allora saremo pari, Cam.’

Kara sorrise alla leggera ondata di panico che sentì provenire da Cameron.

‘Benvenuto nel mio mondo. E ora va via, ti prego… ho speranze di stare meglio solo se stai a debita distanza, e devo vedere Landry.’

‘E anche questo tipo di conversazione sta facendo male. Mettiti una borsa di ghiaccio in testa, qualcosa fa.’

Kara fece il segno ok con la mano, e poi si rigirò nel letto mettendosi un braccio sugli occhi. Cameron le inviò la sua simpatia, e Kara per tutta risposta gli indicò la porta.

Erano due settimane che condividevano pensieri ed emozioni, e Kara non ne poteva più. Era iniziato tutto come una missione di routine della SG-1, che avrebbe agito con l’appena costituita SG-4. Poi Vala – ovviamente – era stata notata da qualcuno dei suoi vecchi ‘amici’, che aveva pensato bene di fargliela pagare per essere stato mollato nei casini dopo un colpo andato male. Aveva però confuso il veleno che intendeva somministrarle con una droga nuziale, e poi il caso aveva fatto il resto, facendo bere il vino drogato non a Vala bensì a Kara e Cameron. Con i due leader fuori combattimento, le due SG inviperite erano andate a caccia del responsabile che però aveva pensato bene di sparire nel nulla. Passati i primi giorni in cui combattevano il legame con tutte le loro forze e stavano ad un passo dall’impazzire, si erano arresi all’evidenza che più combattevano, più peggiorava. Con l’accettazione le cose erano leggermente migliorate, ma non cambiava il fatto che ora né Cameron né Kara potevano avere segreti, e questo innervosiva Kara all’infinito. Il fatto che avesse superato i suoi problemi non voleva dire che era pronta a condividerli con qualcuno che conosceva appena. Ma aveva percepito che anche Cameron aveva i suoi. Una volta aveva sentito una sua riflessione relativa a qualcosa di terribile capitato durante una missione in guerra per cui si sentiva responsabile. E una volta che venne menzionata l’Antartide, oltre a sentire un fiero disgusto del continente, aveva visto chiaramente nella sua testa un’immagine di Mitchell ferito gravemente tra le lamiere del suo aereo da combattimento. Avrebbe voluto chiedere qualche spiegazione, ma avrebbe significato aprirsi… ed era una cosa che mai avrebbe fatto volontariamente. Certe volte però sentiva lo sguardo di Cameron su di sé quando pensava di non essere visto, e si domandava cosa lui avesse involontariamente percepito da lei.

Per quando Landry convocò lei e la squadra, il mal di testa era tornato a livelli normali e riuscì a gestire l’incontro senza troppi scatti di nervi. Dopodiché, si fece dare un passaggio e se ne andò a casa. Se voleva dormire, doveva mettere quanta più distanza possibile tra lei e Cameron.

Dopo che era tornata dalla guerra, Lynn l’aveva più o meno costretta a cambiare aspetto alla casa. Kara l’aveva fatto controvoglia, anche se aveva capito che Lynn lo stava facendo con le migliori intenzioni e voleva solo distrarla dai brutti ricordi che albergavano nella sua testa. Avevano comprato mobili che avevano poi montato insieme, dipinto le pareti, cercato coperte, tende, cuscini e ogni altra cosa possibile che rientrasse sotto la dicitura ‘decorazione da interno’.

L’unica cosa su cui non l’aveva spuntata era stato incorniciare la rappresentazione su tela della mandala che aveva dipinto sul muro della sua casa di Caprica, uguale al simbolo che aveva trovato sull’avamposto lasciato dalla tredicesima Colonia, e alla tempesta dentro cui era volata. L’aveva appesa in soggiorno, come ricordo costante della sua illuminazione, di quanta strada aveva fatto per arrivare dov’era, e di dove la sua strada aveva iniziato a divergere da quella della sua gente. La Flotta Coloniale non era ancora in vista, e Kara stava sentendo la speranza di rivedere la sua gente svanire a poco a poco ogni giorno. Carter le aveva detto che la sua stima del tempo era approssimativa e poteva essere stata troppo ottimista, ma Kara non poteva fare a meno di pensare che quella troppo ottimista, forse, era lei. Comunque, neanche i Cylon si erano mostrati, e tutto considerato era meglio così. Con la minaccia degli Ori nella Via Lattea, e quelle rappresentate da Wraith e Replicanti nella Galassia di Pegaso, sinceramente non riusciva a pensare ad un altro nemico da affrontare. Magari gli Ori sarebbero stati felici di spazzare via dall’universo un’altra razza infedele, ma non osava sperare in tanta fortuna.

Come non osava sperare di essere inclusa nella missione Atlantis, prima o poi. Ma appena aveva realizzato che Atlantis era la vera e unica Città degli Dei di cui si parlava nelle sue Scritture, aveva sentito che doveva andare a vederla, anche solo una volta. Sapeva che gli Antichi non erano divinità, ma aveva iniziato a vederli come antenati e condivideva con Daniel una grande curiosità nei loro riguardi. Tentare non costava niente, ma come aveva previsto Landry, O’Neil e McNamara le avevano detto di no. Non aveva abbastanza esperienza, era appena ritornata in servizio dopo un’esperienza traumatica, McNamara le aveva urlato che non l’aveva addestrata perché andasse a fare la balia a una spedizione scientifica in un’altra galassia, eccetera. Rimaneva però il fatto che lei per qualche caso fortuito possedeva il gene degli Antichi, e questo la rendeva d’ufficio eleggibile. E se non fosse stata convinta anni prima dalla missione su Kobol, quella sarebbe stata la prova definitiva e inconfutabile che quanto dicevano i suoi nuovi amici era la verità.

 

Il mattino dopo il mal di testa la colpì come una mazzata alla nuca nel secondo in cui entrò nell’ascensore, e urlò telepaticamente a Cameron quanto lo stesse odiando in quel momento.

‘Ehi, bionda, tu almeno hai dormito stanotte!’

‘Mi pare il minimo, Mitchell. Il minimo!’

Continuarono a bisticciare fino a quando Kara non fu nel suo ufficio, attirandosi occhiate perplesse lungo tutto il percorso da parte di chi non sapeva cosa le fosse successo e fosse stupito dal suo comportamento. Kara mandò giù un’altra aspirina, e pregò che a Cam passasse in fretta.

Chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi, e fece qualche respiro profondo. Non era molto per la meditazione, ma aveva scoperto che qualche tecnica di base era ottima per limitare il contatto. Altrimenti non ci sarebbe stato verso di finire i rapporti post-missione che l’attendevano. Guardò il suo portatile, e inviò un ringraziamento ai suoi dei per quel piccolo agglomerato di tecnologia che le aveva semplificato il lavoro. Per colpa dei cylon computer tanto avanzati erano solo un ricordo nelle Colonie. E ringraziò gli dei anche per FreeCell, con cui perdeva più tempo di quanto fosse disposta ad ammettere.

A metà del secondo rapporto, Kara dovette chiudere il portatile e posare la testa sulla sua superficie fredda. Il mal di testa stava crescendo di nuovo d’intensità a ogni secondo, cosa che significava che Cameron stava venendo da lei. Ma era un sadico o cosa?

“No, non sono un sadico” disse il colonnello entrando. “Ho una notizia che ti farà felice.”

“Hai trovato una medicina che funziona?”

“No. Ho trovato il bastardo.”

Questo fece sollevare la testa di Kara e stringere i suoi pugni con aria bellicosa.

Cam annuì “Abbiamo pensato la stessa cosa. Partiamo tra mezz’ora, ti aggreghi all’SG-1. È un problema?”

“Il mio problema sarà riuscire a non ammazzare quel figlio di puttana se non riusciremo a fargli sputare un antidoto” disse Kara alzandosi. Sopportando il dolore che si stavano infliggendo, i due soldati si prepararono a passare lo Stargate con la squadra di Mitchell. Kara guardò l’indirizzo del pianeta, e notò che era territorio della Lucian Alliance.

“Sarà saggio? Non siamo esattamente benvoluti, soprattutto dopo com’è andata lo scontro contro le navi madre Ori al Supergate.”

“Non è necessario che lo sappiano. Andiamo, lo mettiamo alle strette, prendiamo l’antidoto, e ce la filiamo” disse Carter. Kara e Cameron la fissarono con la stessa occhiata dubbiosa e pensarono che di norma quello che prevedevano e quel che succedeva, raramente coincidevano.

Quando Kara poi afferrò per il collo Thalian e lo sbatté contro un muro per farlo parlare, dopo avergli sferrato uno dei suoi famosi ganci destri, fu lieta che per una volta il piano coincidesse con gli eventi.

“Mi dispiace!”

“Un po’ meno dispiacere e un po’ più aiuto, che ne dici?” ringhiò Cameron a fianco di Kara.

Thalian fissò implorante Daniel, Carter, Vala e Teal’c, ma nessuno sembrava interessato a interferire con l’operato dei due soldati.

Alla fine disse loro che li avrebbe aiutati, e Kara lo lasciò andare, tornando a passarsi una mano sulla fronte. Il ladro tirò fuori dalla tasca due pendenti verdi identici, e glieli fece vedere.

“Sono catalizzatori. Dovete portarli sempre… alla fine faranno svanire la connessione.”

“Quando? Dopo un giorno, una settimana…”

“Questo dipende.”

“Dipende da cosa?” sibilò Kara, facendo indietreggiare l’uomo.

“Da quanto il legame è forte! Non si può stabilire a priori l’intensità, è soggettiva!”

‘Sto seriamente provando il desiderio di ammazzarlo.’

‘Per quanto ti capisca… meglio di no. Abbiamo questi affari… vediamo come va.’

‘E se è una fregatura?’

‘Gli diamo la caccia e lo ammazziamo.’

‘Per me va benissimo.’

“D’accordo” disse Kara dopo il colloquio telepatico con Mitchell “Abbiamo deciso di crederti. Ma se solo tenti di fregarci, giuro sugli Dei di Kobol…”

“e sul mio Dio…” aggiunse Cam.

“… che ti faremo rimpiangere il giorno in cui hai tentato di avvelenare Vala. Non che non ti comprendiamo su questa cosa, comunque.”

“Ehi!” esclamò Vala, mentre Daniel la fermava dall’intascarsi qualcosa di piccolo e prezioso. “Non è molto carino da parte tua, Kara.”

“È maggiore Thrace per te, e francamente da quello che ho letto sui tuoi precedenti…”

“Ah, vedo che avete già conosciuto i molti talenti della signora Mal Doran…”

Thalian si trovò di nuovo contro una parete ad essere squadrato in cagnesco da Kara e Cameron, ma questa volta a loro si era aggiunta anche Vala.

“Chi diavolo ti ha detto di parlare?”

“Hai qualche desiderio di morte?

“Mi hai dato della signora? Non mi sono mai sentita tanto offesa in vita mia!”

Thalian deglutì nervosamente. Alla fine Carter si avvicinò e disse ai tre che era ora di andare. Un’altra minaccia di morte da parte di Kara più tardi, il gruppo ritornò allo Stargate pronto a far ritorno sulla Terra.

Thalian li guardò svanire da lontano, con odio negli occhi. Non si capacitava ancora di come fosse riuscito a sbagliare ampolla, ma meno male si era accorto dell’errore prima di uccidere sua moglie. Tuttavia, l’essere stato messo alle strette a quel modo dall’SG-1 gli bruciava. Parecchio. Ma avrebbe riferito tutto ai suoi capi… e li avrebbe informati che la lista nera si sarebbe allungata di un nome, precisamente quello del maggiore Thrace e della sua squadra SG. Essere stato scovato nel suo nascondiglio e colpito in pieno viso da una donna era un’umiliazione che Kara avrebbe pagato cara, ed era una promessa che Thalian fece ai suoi dei.

 

Ci vollero altri tre giorni, prima che a connessione iniziasse a scemare. Kara ne era oltremodo lieta. Ultimamente stava sognando il Galactica e la guerra, e l’ultima cosa che voleva era che Mitchell le facesse domande a cui non voleva rispondere. Ma alla fine Cameron semplicemente non ce la fece più a contenere la sua curiosità, e di ritorno da una missione trascinò Kara in un ufficio vuoto. Certo, aveva letto il rapporto su come Kara era arrivata sulla Terra, ma un conto era immaginare. Un altro, vedere i suoi ricordi. E  c’erano cose che non riusciva a piazzare… Kara parlava di una tendopoli, durante il periodo che definiva ‘di New Caprica’, eppure sapeva che aveva vissuto in un appartamento dove non le mancava niente, con un uomo e una bimba. Descriveva l’ammiraglio Adama come un padre adottivo per lei, eppure l’aveva ripudiata nel momento più difficile della sua vita dicendole che per lui lei non era niente. I cylon erano nemici, eppure un suo amico era sposato ad una di loro e avevano addirittura un figlio, una deliziosa bambina di nome Hera.

Cam voleva delle risposte, ma più andava avanti a parlare più si rendeva conto che Kara si sarebbe arrampicata sugli specchi piuttosto che colmare le lacune. Allora decise di giocare onestamente, e le disse che per ogni spiegazione che avrebbe ricevuto, lei avrebbe potuto chiederne una a lui. Vagamente tranquillizzata, Kara smise di cercare di andarsene abbattendo la porta e si voltò verso Cameron, che le raccontò della battaglia d’Antartide contro le truppe di Anubis e di come fosse quasi morto. Kara raccontò di quando era rimasta ferita e quasi senza ossigeno in una luna deserta, e di come era riuscita a salvarsi. Arrivata al momento in cui Adama era venuto a trovarla in infermeria, Cam chiese spiegazioni riguardo al modo duro in cui l’aveva trattata in quell’altra occasione.

Prima che Kara parlasse, Cam vide dei flash nella sua testa: di nuovo l’appartamento con quell’uomo e la bambina, Kara ed un uomo più anziano senza un occhio seduti ad un tavolo a bere, ed infine Kara davanti allo specchio, con uno sguardo quasi allucinato, che tagliava i lunghi capelli biondi con un coltello.

Sospirando pesantemente, Kara disse che era un insieme di fattori.

“Quello l’ho capito e visto. Quali?”

“Quando siamo fuggiti da New Caprica… io non ero nella resistenza, come ho detto. Ero una dei prigionieri liberati.”

Cam ripensò all’appartamento monocromatico, alla bambina, e Kara annuì. Il ricordo successivo fu quello in cui Kara uccideva Leoben con le bacchette di metallo e poi riprendeva a cenare, come niente fosse. Gli fece vedere anche che per quante volte lo eliminasse, lui ritornava sempre, e tutto ricominciava da capo.

“Quel Cylon mi ha fatto credere che la bambina, Kacey, fosse mia. Su Caprica…quando cercavo la Freccia di Apollo… loro mi avevano catturata. Avevano tentato di sottopormi a degli esperimenti. Ancora adesso non so se Leoben mi ha mentito del tutto sulla faccenda, mischia sempre bugie e verità quando parla…”

Cameron non riusciva a immaginare come fosse riuscita a sopravvivere ad una tortura psicologica di quel genere, soprattutto considerando che nessuno l’aveva aiutata ad uscire dal disordine da stress post traumatico che chiaramente aveva. Kara replicò che avevano altro a cui pensare che a tenerle la mano, ma il colonnello non era d’accordo.

“Avrebbero dovuto. Avrebbero dovuto capire che qualcosa non andava.”

“Se non fossi finita al limite della mia sanità mentale, non sarei qui. E non penso che tu abbia una storia equivalente da raccontare.”

“Potrei raccontarti la storia della mia interminabile fisioterapia. Anche quella è stata una discreta tortura.”

Kara gli fece un sorriso tirato, e adocchiò la porta.

“Abbiamo finito?”

‘Kara, di cosa hai paura?’

“Non ho paura, Cam. È solo che, come tutti, non voglio parlare di certe cose. E ora che abbiamo appagato le rispettive curiosità, posso sperare di non tornare sull’argomento mai più?”

“Ho letto il tuo fascicolo.”

Kara si irrigidì di colpo, sapendo benissimo cosa significava.

“So cosa è successo in Iraq.”

‘Basta così, Cam. Perché mi stai facendo questo?’

‘Perché stai facendo la stessa cosa che hai fatto dopo New Caprica. Sei in negazione.’

‘McNamara mi ha portato a calci dal terapista della base appena tornata, era la condizione perché potessi venire qui. Lui ha detto che potevo tornare al lavoro. Non è niente come New Caprica… e che ne vuoi sapere tu di New Caprica, eh? C’eri forse?’

‘Ho i tuoi ricordi, tu che dici?’

E prima che Kara potesse protestare, Cam le fece vedere chiaramente che intendeva. La tenda che divideva con Sam, suo marito. Le difficoltà dell’insediamento. Le riserve che erano ad un passo dall’essere definitivamente esaurite. I Cylon che apparvero nel cielo un anno più tardi, e la flotta che se ne andò senza di loro. Leoben.

Kara poteva andarsene, ma non lo fece. E per vendicarsi usò i ricordi dell’Antartide e dell’Afganistan contro Cameron, che sapeva essere i ricordi più dolorosi. Come aveva previsto, Cameron smise, e anche lei fece lo stesso.

“Una manciata di ricordi e un fascicolo non bastano a conoscermi, Mitchell. Chiaro?”

Kara quasi lo travolse quando corse fuori, e non smise fino a quando non si trovò fuori dalla base in sella alla sua moto. Era stata forse il primo acquisto che aveva fatto appena aveva iniziato a ricevere lo stipendio, ed era un surrogato ideale quando voleva andare veloce e non poteva volare. Sentì la presenza di Cameron nella sua testa per un secondo ancora – dispiacere, scuse – e poi la sua testa fu di nuovo sua. Spinse l’acceleratore al massimo, e sparì dalla vista.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VI ***


New Page

 

 

Gabriel McNamara era considerato da molti un gran bastardo. Un ottimo soldato e un comandante anche migliore, ma soprattutto un gran bastardo con cui in pochi volevano avere a che fare, soprattutto la sua ex moglie. Quindi era rimasto piuttosto sorpreso che O’Neil avesse pensato a lui per addestrare una ragazza piovuta letteralmente dal cielo mesi prima.

Kara era una contraddizione vivente: aveva ottimi motivi per portare a termine l’addestramento, eppure non riusciva a fare a meno di essere insubordinata e ad avere sempre un atteggiamento di sfida nei suoi riguardi. Aveva molto potenziale, ma non lo usava.

E d’un tratto capì perché il generale O’Neil, col suo solito senso dell’umorismo, avesse pensato proprio a lui: Kara era uguale a Gabriel all’inizio della sua carriera. Non sarebbe arrivato da nessuna parte se il suo inflessibile mentore non l’avesse sempre spronato a fare di più, così si rimboccò le maniche, e fece del suo peggio. Alla fine era riuscito a conquistare la sua fiducia e il suo rispetto, e questo aveva semplificato le cose quando le aveva chiesto che intendeva fare dopo. L’addestramento doveva servirle per tornare all’SGC, e magari servire sulla Daedalus o l’Odyssey in attesa che la sua gente arrivasse. Ma se aveva imparato a conoscere Kara, quella soluzione non le sarebbe bastata. Le disse che sarebbe andato in guerra, e sentire che Kara aveva intenzione di seguirlo non lo sorprese. Aveva ancora intenzione di tornare al comando Stargate, ma non voleva che nessuno le rinfacciasse di aver avuto un trattamento diverso per via della sua condizione.

Fu quello il momento in cui la fiducia e il rispetto che Kara provava per il colonnello iniziarono a essere corrisposti sul serio, sentimenti che dopo l’esperienza su suolo iracheno e quanto successo al ritorno in patria erano solo cresciuti. A Kara serviva un’ancora per non impazzire, e lui le aveva permesso di considerarlo tale.

Sentì il motore della moto di Kara avvicinarsi a casa sua fin dall’inizio della strada sterrata che portava alla casa. Spenta la moto, la vide levarsi il casco e venirgli incontro sotto il portico dove si stava bevendo una birra.

“Ha da fare?”

“A quanto pare, ora sì. Tanti saluti alla mia serata tranquilla e solitaria.”

“Signore, vive in un bosco a cinque chilometri dal più vicino centro abitato” disse Kara raggiungendolo. “Tutte le sue serate sono tranquille e solitarie.”

“Non sei qui per dissertare sulla asocialità. Allora?”

Kara si appoggiò alla ringhiera della veranda, lasciando perdere ogni formalità “Sai che è successo a me e Cameron Mitchell?”

“Vagamente” rispose il colonnello, il che significava che sapeva tutto fin nei dettagli.

“Mi sta mandando al manicomio.”

“Avere qualcuno che ti parla nella testa, Kara, o non poterti nascondere?”

Kara abbassò la testa e sorrise. Colpita e affondata.

“La seconda che hai detto. Ci ho messo parecchio a venire a capo di tutto quello che mi è successo… ammesso ci sia riuscita… e ora uno qualsiasi entra nella mia testa e si permette pure di dirmi cosa fare? Non penso proprio.”

“Ha visto New Caprica?”

“Già” sospirò Kara. In Iraq non c’era molto da fare o dire quando erano a riposo, e Kara aveva raccontato qualche storia di guerra, della sua guerra. Era stato allora che aveva capito che il colonnello McNamara era uno spirito simile a lei, e perché la spingesse sempre ai limiti. Sapeva dove poteva arrivare, perché anni prima lui era al suo posto. Le aveva raccontato delle campagne a cui aveva partecipato, e Kara aveva ricambiato con la seconda guerra contro i cylon. Era finita col raccontare più di quanto volesse, ma parlare con lui nella penombra della tenda le era sembrato quasi come confessare al sacerdote i propri peccati. Un sacerdote molto particolare, che avrebbe ascoltato in silenzio mandando giù occasionalmente un sorso di caffè generosamente corretto al whisky e che non avrebbe assegnato penitenze al termine dei suoi lunghi monologhi.

Gabriel offrì a Kara una birra, che accettò con gratitudine, e si sedette sulla panchina affianco alla porta di casa. Il colonnello la imitò, e per un po’ rimasero in silenzio. Poi Gabriel scoppiò a ridere.

“Si può sapere che hai?”

“Cos’ho? Kara… sei legata telepaticamente ad un’altra persona! Adoro il mio nuovo lavoro, certe assurdità non mi sarebbero mai capitate prima.”

“Sono felice che le mie disavventure ti divertano.”

“Andiamo… un po’ assurda questa situazione la devi trovare per forza.”

Kara sospirò, e fece un piccolo sorriso “Solo un po’. Per il resto è una grandissima seccatura.”

“Anche il colonnello Mitchell la penserà allo stesso modo.”

“Lui l’ha presa molto meglio di me.”

“È anche vero che lui è molto meno incasinato di te.”

“Perché negare? È vero. Mi sono rimessa in sesto professionalmente, e questo grazie a te. Ma come persona… è un altro discorso.”

“Senti, io c’ero quando sei arrivata. Hai fatto molta strada da allora, in entrambi i campi.”

“O’Neil se ne è andato. Anche Hammond. Sono tornata e i miei punti di riferimento erano spariti nel nulla, senza che nessuno avesse sentito il bisogno di dirmelo.”

Poi con lo sguardo perso nel vuoto, aggiunse “Tutti vanno via, in un modo o nell’altro.”

Pensava a suo padre, che l’aveva lasciata con Socrata. Zak, che era morto. Lee, che non l’aveva voluta. Sam, allontanato a forza, ma che non l’aveva mai compresa…

Gabriel la fece voltare verso di lui e la fissò dritto negli occhi “Io non vado da nessuna parte.”

Kara ricordava bene quando era stata la prima volta che McNamara le aveva detto quelle parole. Sulle prime non gli aveva creduto davvero. Sbagliava. E il colonnello non aveva idea di quanto Kara fosse grata di questo. Gabriel McNamara aveva guardato dritto dentro di lei e non era scappato. Nel bene o nel male, se ne rendeva conto sempre di più, non l’avrebbe mai abbandonata. Per quanto cercasse di celare la cosa sotto il suo essere un burbero, scontroso e insopportabile colonnello dell’Aeronautica.

L’atmosfera stava diventando troppo sentimentale per entrambi, e Kara con una risata gli chiese se per caso non stesse guardando troppe repliche di Gilmore Girls, per sparare frasi del genere.

Per tutta risposta McNamara le diede uno scappellotto in testa e si alzò, entrando in casa. Kara ridacchiò un altro po’, fino a quando Gabriel non le urlò di entrare in casa all’istante.

“Certo signore, subito signore!” esclamò Kara, alzandosi ed entrando.

Passarono la serata tra una partita di Triade (che Kara insegnava a chiunque la stesse a sentire) e una di scacchi, e come molte altre volte Kara finì a dormire sul suo divano. Come sempre, Kara passò il tempo mentre aspettava che il colonnello si svegliasse, il mattino dopo, guardando le fotografie della sua ‘vita precedente’, come lui si riferiva al suo passato.

C’erano sempre sua moglie e sua figlia, talvolta suo fratello David. Il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle David aveva accompagnato Charlotte e Claire a fare un giro turistico della città perché lui non aveva potuto liberarsi per via del lavoro. Il piano era che li avrebbe raggiunti al ristorante, ma una volta lì non aveva trovato nessuno ad attenderlo. Poco dopo aveva sentito dell’aereo dirottato che si era schiantato contro il palazzo dove si trovava la sua famiglia.

Kara sapeva da quel che aveva studiato che i palazzi erano crollati, e che il conto delle vittime ammontava a seimila morti, compresi David, Charlotte e Claire. L’unica cosa con cui riusciva a compararla erano gli attentati terroristici compiuti da Tom Zarek in nome di Sagittaron e dell’oppressione della sua patria, ma neanche in quel caso aveva mai visto un tale odio rivolto contro i membri della propria razza. Per crederci aveva dovuto vederlo con i propri occhi e provarlo sulla propria pelle in Iraq.

Riscuotendosi dai suoi pensieri, guardò l’orologio a muro e decise di preparare il caffè. Gabriel era l’unica persona sul pianeta, da quel che sapeva, che prendeva il caffè forte quanto lei. Landry una volta aveva scherzato su questo e le aveva detto che la sua dose era una confezione per tazza.

Naturalmente non era vero, ma non era nemmeno così assurdo come poteva sembrare…

“Gesù, ma sai cosa significa dormire?”

Voltata di spalle, Kara sorrise. Versò due tazze, e ne porse una al colonnello.

“Sul Galactica eravamo sempre sul chi vive, si dormiva poco e male. Alla fine mi sono abituata.”

“Togli il nome della nave e mettici ‘durante la guerra del Golfo’, e hai la mia scusa. Devi andare alla base?”

“No… il colonnello Carter e Vala Mal Doran hanno detto che ho bisogno di integrarmi con la cultura terrestre e con i rituali di amicizia femminili.”

“Shopping e pettegolezzi?”

“Già… sicuro che non devi andare a pescare o hai bisogno di me per qualcos’altro? Perché se è così, mi libero…”

“Bel tentativo Kara. Divertiti con le ragazze, ok?”

Kara gli scoccò un’occhiataccia, e Gabriel sorrise divertito. Se c’era una cosa che aveva capito terrorizzava Kara, era l’avere amicizie femminili che andassero oltre il lavoro. Ma non le avrebbe fatto male provarci. Samantha Carter era la persona migliore con cui essere amici, e Vala Mal Doran… beh, era Vala Mal Doran. La sua sola presenza aveva aggiunto una tonnellata di pepe alla vita dell’intera base, un po’ anche nella vita privata di Kara Thrace non avrebbe fatto male.

 

Alla fine, Kara aveva dovuto ricredersi: avere delle altre amiche oltre a Lynn (fuori mondo con l’SG-7) era bello. E vivere tra la sua stanza alla base e l’appartamento che l’Aeronautica le aveva dato le aveva assicurato un certo risparmio di quattrini che, sotto la spinta overentusiastica di Vala, si erano tramutati in acquisti e in una visita dal parrucchiere, cosa di cui, sosteneva sempre Vala, Kara avesse un bisogno disperato. La donna aveva sempre guardato il suo aspetto scuotendo la testa, e Kara non aveva mai capito se doveva sentirsi offesa o sollevata.

Assieme a Samantha e Vala fece ritorno alla base con addosso i nuovi acquisti, e la scia di soldati che avevano sbattuto la faccia contro porte e muri era solo direttamente proporzionale ai loro sorrisi soddisfatti.

“Dovremmo indossare abiti civili molto più spesso” commentò con tono casuale Vala. “Tu di sicuro, con quelle gambe!” aggiunse poi guardando Kara e la gonna che era riuscita a farle mettere.

“Mi piace essere sempre pronta a tutto. Combinata così servirei a poco…”

“È importante staccare ogni tanto, distrarsi” disse Samantha.

“Non è che non apprezzi il tempo libero, è che non so cosa farci. Non ne ho quasi mai avuto negli ultimi quattro anni.”

Vala la prese sottobraccio, e le assicurò che ci avrebbe pensato lei a quello. Kara sorrise rispondendo che non sapeva se essere felice o preoccupata, poi si bloccò di colpo rimanendo a bocca aperta.

“Porca miseria!”

“Kara, che succede?”

Kara sollevò un braccio e indicò davanti a sé. Con la stessa espressione in faccia, Cameron stava fissando Kara, totalmente sorpreso dal suo nuovo aspetto. Era così abituato a Kara come soldato e pilota, che vederla come donna era stato un piccolo shock. Piacevole, ma sempre uno shock.  Kara aveva sentito nella sua testa i suoi pensieri sconnessi riguardo il suo aspetto, il taglio di capelli, la minigonna che indossava. La trovava uno schianto. Kara non era esattamente pronta a perdonare l’interrogatorio del giorno prima, ma sentire quei pensieri alleggerirono un poco la sua situazione ai suoi occhi.

“Cameron, tutto bene?”

“S-Sì, Sam, tutto bene… cavolo… sì, va tutto benissimo” disse il colonnello Mitchell senza staccare gli occhi da Kara, che ora sorrideva compiaciuta.

“Beh, grazie dei commenti, Cam. Non ne posso ripetere neanche uno, ma grazie comunque.”

Vala e Sam lo fissarono con aria divertita, e Cameron pensò bene di battere in ritirata. Le risate di quelle tre lo raggiunsero quasi subito, e gli fecero alzare gli occhi al cielo maledicendo quella dannata connessione telepatica.

 

Non paga, Kara decise che poteva divertirsi a spese di Mitchell un altro po’, e prese due birre andò a cercarlo nella sua stanza.

“Cristo, Kara, abbi pietà!” urlò dall’altro lato della porta chiusa. Kara rise, e urlò di rimando che portava due birre in segno di pace.

“Non ti ho perdonato per l’interrogatorio di ieri, che sia chiaro, ma non significa che non possiamo berci una birra. Soprattutto dopo aver sentito che pensi della mia gonna. E mia della scollatura. E…”

Cameron aprì la porta in fretta e furia, e la trascinò dentro prima che andasse oltre.

“Smettila!”

“Perché? Non ho fatto niente” disse Kara con una faccia angelica. “O vuoi dire che non posso vestirmi da donna, se mi va?”

“Non ho detto questo… Kara, per favore, mi dispiace per ieri sera, davvero. Ti dispiace piantarla di torturarmi, ora?”

Kara si fece una bella risata, e gli porse la birra.

“Prometto di comportarmi bene” disse sollevando la mano sinistra.

“L’altra mano” la corresse Cameron, e Kara, piccata rispose che lo sapeva e stava solo scherzando.

‘Sì, come no. Ti leggo nella testa, l’hai scordato?’

‘Accidenti!’

“Per quanto ti stiano bene questi vestiti, magari vuoi rivedere il tacco per la prossima missione.”

“Non saprei… potrei sempre aver bisogno di un’arma di difesa.”

Cam cercò con tutte le forze di evitare di pensare al centimetro di pizzo che emergeva dalla scollatura. Chi l’avrebbe mai detto, Kara Thrace era una donna…

“Ehi!”

“Scusa, non volevo, ma il massimo che si è mai visto di te sono le braccia… e ora passi a questo…”

“Bene, allora guardami perché non mi ci vedrai più. È l’ultima volta che do retta a Vala su qualcosa.”

Kara si era voltata per uscire, e prima che potesse fermarsi Cam l’aveva afferrata per la mano, chiedendole di restare, se voleva.

Kara rispose che aveva da fare e che le scarpe la stavano uccidendo, e così se ne tornò nella sua stanza. Se Cameron avrebbe ripensato ai suoi vestiti ancora per un po’, lei si sarebbe tenuta occupata con l’ondata di sentimenti che aveva percepito quando Cameron l’aveva fermata.

Questa storia doveva finire al più presto, altrimenti il non potersi nascondere sarebbe stato l’ultimo dei suoi problemi. Quando si era arruolata si era ripromessa che non sarebbe ritornata ad essere la Kara Thrace del passato, quell’ammasso di problemi irrisolti e autodistruzione che viveva di eccessi, fossero alcol, gioco d’azzardo o sesso. Poteva essere meglio di così, come McNamara le aveva ripetuto fino alla nausea. Ora che finalmente aveva rimesso in sesto la sua vita, che per la prima volta da quando era bambina era felice della persona che era, non avrebbe commesso l’errore che aveva già fatto con Lee Adama. Cameron le piaceva? Sì. Bisognava essere cieche per non apprezzare quegli occhi azzurro ghiaccio e il suo sorriso, per non parlare del resto. Ma l’ultima volta che aveva perso la testa per un collega e superiore, aveva quasi distrutto il suo matrimonio e quello di Lee, e alla fine lui era rimasto con sua moglie. Urlare il proprio amore al cielo stellato è inutile, se gli dei non ascoltano. Certo, non era il loro caso, Cameron era single e per quanto riguardava lei era come se lo fosse ( l’anno di vedovanza di Sam era finito da un pezzo e di sicuro Jean Barolay era stata più che felice di consolarlo, durante e dopo)…

Basta così, si ripeté con decisione. E andò alla ricerca di Teal’c. Una sessione di combattimento contro di lui era sempre illuminante. Tosta, ma illuminante.

 

Cameron aveva dovuto sedersi, perché la testa aveva iniziato a girargli. Kara era nervosa, e questo si traduceva in pensieri sconnessi e flash che non poteva afferrare. Ma perché era nervosa? Cameron non capiva… poi ebbe una visione di come Kara lo aveva sempre visto nei tre mesi in cui era stata all’SGC. Kara era più contorta di un quadro di Escher quando si veniva ai sentimenti, e non faceva eccezione neanche in questo caso: sentiva curiosità, attrazione, paura, confusione, frustrazione.

Ora quello confuso era lui. Aveva tentato di parlarle telepaticamente, ma si era sentito urlare nella testa piuttosto chiaramente di andare al diavolo, visto che per colpa di quella distrazione Teal’c l’aveva appena messa al tappeto.

Aveva deciso quindi di parlarle appena finita la sessione d’allenamento, ma Kara era letteralmente scappata. Doveva essersi resa conto che quella riflessione non era stata privata come aveva pensato.

Metterla alle strette si era già rivelato controproducente, quindi decise di aspettare qualche giorno. Kara però lo evitava, e stava fuori mondo il più possibile. Tutti si erano più o meno accorti di quanto quella situazione assurda stesse ormai presentando il conto a quei due, ma se alla fine Cam e Kara riuscirono a parlarsi a quattr’occhi fu perché Vala, esasperata, li chiuse dentro un ripostiglio delle scope con l’inganno. Di venerdì pomeriggio. Nel weekend in cui entrambi erano liberi e con programmi che avevano annunciato a destra e a manca nei giorni precedenti.

“Quando esco, ammazzerò Vala con le mie mani” borbottò Kara rinunciando a farsi sentire a suon di urla e pugni contro la porta.

“Eccome se l’ammazzeremo” disse Cameron, facendole vedere la scorta di acqua e cracker stipata in un angolo “questa è premeditazione!”

“Andiamo, qualcuno dovrà pur passare di qui.”

“Nel weekend c’è solo il personale essenziale. Rassegniamoci, staremo qui parecchio.”

‘Perfetto, proprio perfetto… Lynn mi ucciderà!’

‘Gia… dovevi andare a Los Angeles, vero?”

“Lynn voleva farmi conoscere la sua famiglia e farmi vedere i dintorni. Avevo già accampato tutte le scuse possibili, e stavolta che le avevo detto di sì…”

‘Beh, non è il concerto che mi perderò io!’

‘Oh, sì, il concerto… mi pare di aver sentito qualcosa al riguardo… per ogni secondo dell’ultima settimana…’

‘Che spiritosa.’

‘Faccio del mio meglio.’

Dopodiché caddero in un silenzio imbarazzato, in cui cercarono di non pensare a niente. Seduti sul pavimento con la schiena contro l’unico muro libero, fissarono la porta, le scope, gli scaffali, il pavimento… tutto, pur di non pensare alla loro situazione.

Alla fine Cameron si schiarì la voce e Kara sentì un’ondata di panico.

“Tranquilla, non ho intenzione di parlare.”

“Bene.”

“A pensarci bene… scusa, perché non dovrei? Non ho altro da fare! Con ogni probabilità saremo bloccati qui fino a domani, o di più se ci va peggio. Parlare è l’unica cosa che possiamo fare.”

“D’accordo, parliamo. Che ne pensi del tempo di oggi? Pioverà?”

“Ma se non c’è neanche una nuvola in vista!”

“Allora sarà bello. Peccato non lo vedremo… La macchina, va bene?”

“Kara…”

“Cosa? Sto facendo conversazione. Non è quello che volevi?”

Kara sapeva benissimo di cosa Cameron voleva parlare, e Cameron sapeva altrettanto bene che Kara non voleva nemmeno andare vicino all’argomento.

“Kara, smettiamola. Tu sai cosa ho penso di te, e io so cosa pensi di me. Direi che è di questo che dobbiamo parlare, non del tempo o della mia Mustang d’epoca, per quanto sia la gioia della mia vita…”

“La mia moto è meglio.”

“Se vuoi schiantarti e morire a duecentoventi chilometri all’ora, di sicuro.”

“Il generale O’Neil e McNamara dicono che sono una drogata di velocità. E lo Stargate è la cosa che va più veloce di tutte. Non riesco nemmeno a immaginare come farei se Landry mi dicesse che non potrei più attraversarlo.”

“Pfff…. Nessun lavoro potrebbe essere all’altezza. E non credere che non abbia capito la tua tattica per cambiare discorso.”

“Caspita” mormorò sarcastica Kara “Hai scoperto il mio astutissimo piano!”

“Che vuoi che ti dica? Sono sveglio.”

‘Meglio che non ti dica cosa sei davvero.’

‘Carina come sempre, eh?’

Kara gli rivolse un sorrisetto, e Cameron ricambiò.

“Kara…” iniziò, deciso a incominciare quel famoso discorso, ma la ragazza lo interruppe.

“Non voglio complicazioni, Cam. Non le ho mai volute, in effetti, e questo è il grande problema, perché ho sempre finito con l’averne e col provocarne agli altri. Non voglio incasinare la tua vita come ho già fatto con Sam e Lee, quindi possiamo per favore fare finta che tu non abbia mai sentito quel delirio sconnesso nella mia testa e andare avanti?”

Nel dirlo si sentì fiera di sé stessa. Non era sembrata una pazza come quella volta in cui era quasi finita a letto con Lee sul Galactica o come quando terrorizzata all’idea di stare con lui aveva trascinato Sam sbronzo e mezzo addormentato davanti a un prete per sposarlo su New Caprica. Forse c’era speranza per lei.

“Ho diritto di replica? Sì? Bene. Allora, punto primo: non sono Lee Adama, perché se lo fossi col cavolo che saresti uscita indenne dal mio alloggio, quella famosa volta. E punto secondo, non sono nemmeno Sam Anders, perché se mi avessi tradito per tutto l’anno e mezzo del nostro matrimonio con ogni probabilità ti avrei ammazzato, non perdonato. Punto terzo: hai detto quello che volevi, ora posso dirti come la vedo io?”

“Tanto lo farai lo stesso, quindi…”

“Esatto. Kara, tu sei probabilmente la persona più incasinata e contorta che abbia mai conosciuto. Sei insopportabile senza tre tazze di caffè in circolo al mattino, hai sempre piani folli in testa, perfino gli agenti della stradale hanno paura quando ti vedono arrivare in moto, e devi ripeterti ogni volta che incroci Woolsey che dargli una testata non è una soluzione. Sei sopravvissuta alla guerra contro i Cylon, ti sei reinventata una vita qui da zero, e forse sono l’unico qui a parte O’Neil e McNamara che sa quanto realmente sia stata dura per te.”

Guardò Kara, che fissava intensamente il pavimento, e sospirando continuò “Certo, lo so che questa storia della telepatia probabilmente ha sfalsato le nostre percezioni, ma diciamola tutta… sei l’unica qui dentro a conoscermi davvero. L’unica. Che ti pare di questo?”

“Dico che hai ragione. La telepatia ha sfalsato le nostre percezioni.”

Cameron sentì in desiderio improvviso di battere la testa contro il muro.

“So molte cose di te, ma non ti conosco. Nessuno arriva a conoscersi in così breve tempo.”

“Allora che ne dici di iniziare a conoscersi alla vecchia maniera? Quando usciamo di qui, andiamo a prenderci una birra. Non c’è niente di complicato nel bere una birra allo stesso tavolo. Forse nel dividere le noccioline, ma possiamo sempre non farlo.”

“Inizia col dividere i cracker, sto iniziando ad avere fame.”

“Come desidera la signora” disse Cameron passandole un paio di confezioni. “Oppure…”

“Oppure possiamo saltare la birra e avere la conversazione qui e adesso?”

“Grandi menti all’unisono” la prese in giro Cam, e Kara gli diede una gomitata. Poi Cam notò qualcosa vicino alla scorta di viveri che Vala aveva lasciato, e si allungò per prenderla.

Vodka. Con un biglietto con su scritto ‘in caso vi annoiaste…’.

“Vala è morta. Decisamente morta.”

“Beh, almeno è stata previdente” disse Kara facendo segno di passare la bottiglia. “Vodka… due anni sulla Terra e non l’ho mai bevuta. Cos’è?”

“È una bevanda alcolica russa. Molto forte. Magari vuoi…”

Cameron non fece in tempo a finire la frase che Kara aveva già aperto la bottiglia e ne stava già bevendo un gran sorso.

“…andarci piano.”

Quando smise fece una smorfia  “Miei Dei…”

“Ti avevo detto di andarci piano” disse Cameron bevendone un piccolo sorso anche lui. Ad ogni passaggio di bottiglia, si doveva raccontare qualche aneddoto. Kara per una volta lasciò perdere le storie di guerra, e raccontò a Cam di tutte le cavolate che aveva fatto quando giocava a Piramide e quando era entrata all’Accademia della Flotta Coloniale. Cameron per contro l’aveva riempita di storielle sulla sua formidabile nonna e sulla sua adolescenza. Entrambi alla fine erano sbronzi e col le lacrime agli occhi dal ridere, e per Kara quella era stata la serata migliore da quando era tornata dalla guerra.

“Credo di essere sbronza.”

“Credi?”

“Ok, lo sono. È roba forte questa vodka…”

“Un quarto di bottiglia a testa, ci siamo bevuti. Direi che è normale.”

“Ho un’ultima storia”annunciò Kara, e Cameron rise, guardandola incredulo.

“Un’altra? Dio, se è dell’Accademia, non so come diavolo hai fatto a diplomarti!”

“Ero la migliore pilota e avevo un talento naturale per il volo. Questo mi ha fatto diplomare. Allora… è simile a quella tua storia del professor Armstrong.”

“Hai rimontato la macchina di un tuo istruttore in classe?”

“No…” disse Kara con un lampo malizioso negli occhi e un sorrisetto maligno “Il suo aereo. Nel cortile dell’Accademia. Con scritto sulla fiancata il soprannome che gli studenti gli avevano dato in vernice rosa.”

“Tu sei totalmente pazza!”

“Non l’ho fatto da sola, ovviamente…c’eravamo io, Helo, altri quattro ragazzi e nientemeno che Lee Adama in persona. Il cocco dell’istruttore di volo, l’esempio da seguire… una scusa come un’altra per contrariare suo padre, immagino. E non ci hanno mai beccati! Dei, quanto abbiamo riso quella volta…”

Kara ripensò a quei momenti felici, che sembravano appartenere ad un’altra vita. Stava iniziando a capire perché McNamara si riferiva a ‘vita precedente’ quando parlava del suo passato. A volte era così lontano da sembrare appartenere a qualcun altro. Fu quella distrazione che le impedì di reagire in tempo, quando Cameron le sollevò il mento tra il pollice e l’indice e le diede un bacio.

Kara si ritrasse sorpresa, e anche Cameron aveva la stessa espressione negli occhi.

“Oddio. Kara, non so che mi è preso, io…”

“Va bene, Cam. Abbiamo bevuto, tutto qui. Non è successo niente.”

Cam però non ne era del tutto sicuro. Aveva reagito d’istinto, perché in quel momento aveva finalmente visto Kara come non l’aveva mai vista, rilassata e felice anche solo per un attimo. Non aveva potuto trattenersi. Ora probabilmente l’aveva spaventata a morte.

E ovviamente lo sguardo con cui Kara lo guardò gli ricordò che aveva sentito tutto. Dannazione.

Per questo quando sentirono delle voci nel corridoio balzarono in piedi come dei fulmini e iniziarono a battere sulla porta come dei forsennati. Dovevano assolutamente uscire da lì.

 

Dopo la sua liberazione, e decidendo che mettersi in strada era una pessima idea, Kara andò diretta nella sua stanza. O meglio, corse come se avesse il diavolo alle calcagna e ci si chiuse dentro.

Non era successo. Punto. L’aveva baciata solo perché era ubriaco, tutta colpa di Vala e delle sue idee geniali.

Quei pensieri che aveva sentito dopo dovevano essere chiaramente colpa della vodka, perché non voleva nemmeno pensare a cosa potevano significare se non fosse così.

‘Kara?’

‘Va via.’

‘Kara?’

‘Non la pianterai fino a quando ti starò a sentire, vero?’

‘Sei intelligente, allora. I nostri piani per il weekend sono saltati, e siamo troppo sbronzi stasera. Ma domani non hai scuse, e quella birra ci attende.’

‘Cameron…’

‘Una sera, Kara. Non chiedo altro.’

E Kara, pur sentendo che se ne sarebbe pentita, gli disse di sì.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VII ***


New Page

 

Appena entrati al pub Kara e Cam furono accolti da una folla enorme, raccoltasi lì per seguire il basket, sport che a Kara ricordava per certi versi Piramide.

Cameron si voltò con aria dolente, e le disse che si era dimenticato che c’era la semifinale del campionato nazionale. Kara invece non era per niente dispiaciuta: questo annullava ogni possibilità di silenzio imbarazzante tra loro.

Presero posto ad un tavolo, e si sedettero vicini per riuscire a sentirsi senza urlare, ma era una cosa abbastanza difficile. Alla fine, decisero di seguire la partita e di lasciar perdere qualsiasi conversazione volessero avere. Cameron seguiva il basket, e Kara ne aveva sentito tanto discutere durante l’addestramento e in Iraq che ormai si sentiva un’esperta. Tra pinte di birra ed esclamazioni di vario genere, passarono lì tutta la serata. Alla fine non avevano parlato di niente ma si erano divertiti, quindi non era stata una serata persa.

Era troppo tardi per tornare alla base, quindi Kara offrì a Cameron ospitalità e il suo divano.

Cameron aveva sentito descrivere dal capitano Travers la casa di Kara, ma non ci aveva mai messo piede. Come tutti, finì ad osservare da vicino la mandala colorata che troneggiava sopra il divano. A differenza del resto però, non chiese spiegazioni. Lui sapeva già cosa significava e cosa aveva significato per Kara.

“E così è questa, la famosa mandala. Senti ancora l’impulso di disegnarla?”

“Questa rappresentazione è l’ultima che ho fatto, l’ho disegnata nella prima settimana in cui sono venuta a stare in questo appartamento. Nient’altro da allora. Neanche sogni.”

“Se il fine era di portarti sulla Terra, è servita allo scopo.”

“Chi l’avrebbe mai pensato… quando ero bambina la disegnavo perché mi piaceva il motivo. Non aveva nessun significato. Poi un bel giorno appare in un tempio lasciato in un avamposto dalla Tredicesima tribù, e io non ho più pace.”

Kara ripensò per un istante al Galactica, ma Cameron si accorse che scacciò all’istante il pensiero. Continuava a perorare la causa della sua gente, ma aveva iniziato a considerare la gente all’SGC come una nuova famiglia. Sapeva che le cose sarebbero potute andare peggio con loro, ma era felice e riconoscente della fiducia accordatale.

Kara sbadigliò, e annunciò che se ne sarebbe andata a dormire. Da un armadio fece comparire un cuscino e una coperta per Cameron, e dopo essersi augurati la buonanotte si ritirarono entrambi, chi in un letto e chi su un divano non proprio comodo.

 

3:25 AM. Kara sospirò e si mise le mani sulla faccia. Non riusciva a riaddormentarsi. Tutto era andato benissimo fino a quando non aveva sognato di P9Z-445, il suo primo e finora unico incontro con gli Ori. Durante la visita le avevano detto che un Priore era venuto a visitare quel mondo portando il suo libro sacro, il Libro delle Origini. La popolazione aveva assistito a delle guarigioni miracolose, ma era restia ad abbracciare la nuova religione. Kara, che sapeva che gli Ori non erano veri dei, aveva spiegato loro la verità, e al ritorno del Priore aveva affrontato al loro fianco il nemico. La Odyssey aveva tirato fuori lei e la sua squadra senza preavviso alcuno, ma le proteste di Kara si erano chetate subito quando aveva visto il pianeta avvolto da una bolla d’energia dissolversi in roccia e polvere. Avevano fatto quello che potevano, ma Kara continuava ad avere quella visione di distruzione davanti agli occhi. Un intero pianeta annientato nell’arco di un battito di ciglia, e solo perché non voleva convertirsi ad una nuova religione.

Sorridendo amaramente, pensò che se si fosse trovata di fronte un cylon, si sarebbe commossa. L’avrebbe annientato, certo, ma prima si sarebbe commossa. Le cose erano molto più semplici due anni prima.

3:30. Qui non si andava da nessuna parte, decise, così aprì il cassetto del comodino e prese i sonniferi che Lam le aveva prescritto appena tornata alla base. Uscì dalla sua camera in punta di piedi per prendere un bicchiere d’acqua senza svegliare Cameron, ed era certa di esserci riuscita, ma la voce di Cameron la fece sobbalzare proprio mentre stava per bere un sorso dal bicchiere, che finì per infrangersi a terra.

“Scusa, non volevo” disse alzandosi e accendendo la luce. Kara guardò lui e poi i cocci bagnati a terra con un’aria leggermente scocciata, e si chinò a raccogliere i frammenti più grandi.

“Non dormi neanche tu, eh?”

“Se ti ho tenuto sveglio io, mi dispiace. È che…”

“No, pensieri miei, tu non centri. Kara, lascia, faccio io” aggiunse poi indicando i suoi piedi scalzi. “Potresti tagliarti.”

Kara quasi rise, dicendo che aveva visto di peggio, e si rialzò per gettare i cocci raccolti nel bidone. Prima che Cameron potesse avvertirla, posò il piede su un frammento che non aveva visto.

Kara esclamò un paio di espressioni che avrebbero fatto arrossire un camionista, e gettati i pezzi di vetro zoppicò fino al banco della cucina per appoggiarsi e stare in equilibrio.

“Non vorrei dire te l’avevo detto, ma…”

“Piantala di fare il grillo parlante e renditi utile!”

“Sissignora. Tieni questo” disse allungandole qualche tovagliolo di carta con cui tamponare il sangue, e poi raccolse con attenzione tutti i pezzi rimasti.

“Tutto a posto, ora. Diamo un’occhiata al piede?”

“È solo un taglietto, sto benissimo…” iniziò Kara tentando di rimettere il piede a terra e cambiando subito idea. Cam scosse la testa e si avvicinò a lei per sorreggerla, accompagnandola fino al divano.

“Kit di pronto soccorso?”

“Bagno, sotto il lavandino.”

Cam tornò subito con in mano bende, varie garze, cerotti e disinfettante, e Kara lo guardò come se fosse impazzito.

“Ho un taglio di neanche un centimetro, non ho subito un’amputazione!”

“Come sempre dice mia nonna, ‘meglio prudenti, che dolenti’” disse Cam sedendosi e prendendo in mano il piede della ragazza per guardare la ferita.

“Me la dovrai presentare, un giorno o l’altro. Sembra un pozzo di saggezza popolare.”

“Lo è. E fa anche la migliore torta di mele della città.”

Kara sorrise, poi fece una piccola smorfia di dolore quando Cameron iniziò a disinfettare il taglio.

“Anche mia nonna paterna aveva molte perle di saggezza da sciorinare. È lei che mi ha insegnato a dipingere. Mia madre era sempre in giro per basi militari e non voleva seccature, così sono sempre stata con lei, mio padre, e zia Aglaia per i primi sette anni della mia vita. Poi un bel giorno è tornata e mi ha portato via. Non li ho più rivisti. Mia nonna e mio padre sono morti qualche anno dopo in un incidente. Non voleva andassi ai funerali, ma ci sono andata lo stesso. Mi ha rotto un braccio per questo.”

“Ti ha rotto un braccio per essere andata al funerale di tuo padre e tua nonna?” esclamò incredulo Cameron.

“Ha fatto anche di peggio” mormorò Kara. “Anche lei era convinta avessi un destino, e voleva essere certa che avessi abbastanza forza per affrontarlo.”

“Forza? Strano modo di renderti forte.”

“Sai cosa la mandava realmente fuori di testa? Che non avessi mai smesso di dipingere, leggere letteratura antica  o di andare al Tempio. Ovvero le cose che facevo con mio padre e mia nonna. Rischiavo di più a fare queste cose che a non mettere in ordine la mia stanza… ignoro cos'avrebbe fatto se avesse saputo che mi vedevo di nascosto con Aglaia...”

Mentre parlava, Cam aveva finito la medicazione al piede. Fermata la benda con un pezzo di cerotto, sorrise tra sé e sé.

“Cosa?”

“Niente… è questo che ci voleva per farti aprire, allora? Un taglio al piede?”

“Non lo so perché ti ho detto queste cose.”

“E io non metterò in discussione la mia buona stella. Ce la fai a tornare in camera?”

“Un po’ d’aiuto mi farebbe comodo.”

“Benissimo allora” disse Cameron alzandosi e mettendo un braccio intorno alle spalle di Kara. Lentamente arrivarono fino al letto della ragazza, e Cam la aiutò a sedersi. Andò poi in cucina a prenderle un altro bicchiere d’acqua, che le mise sul comodino. Guardò la sveglia.

4:20 AM.

Cameron aggrottò le sopracciglia e guardò Kara “Vale ancora dire buonanotte, a questo punto?”

Kara scrollò le spalle “E chi lo sa? Sono un’aliena, dopotutto.”

“Beh... chi se ne frega. Buonanotte” disse dandole una pacca sulla spalla e facendo per uscire.

‘Resta.’

Cam rimase di sale a fissare la porta aperta. Andiamo, aveva capito male…

‘No, hai capito giusto.’

Cameron fece un respiro profondo, e si voltò verso Kara, ancora seduta sul letto.

“Te lo ricordi che era di questo che avremmo dovuto parlare stasera al pub, vero?”

“Sì, me lo ricordo” disse lei, alzandosi e tentando di andargli incontro. Cameron mosse qualche passo e l’afferrò per aiutarla, fissandola poi dritto negli occhi.

“Parlare. Non… altro.”

“Abbiamo parlato.”

“Non di questo.”

“Cam… ti leggo nella testa.”

“E io nella tua.”

“Allora sai cosa sto pensando.”

“So anche che non la ritenevi una buona idea. Che fine ha fatto il tuo non volere complicazioni?”

Kara lo zittì con un bacio improvviso. Cameron fu colto di sorpresa, ma rispose al bacio. C’erano molte cose spiacevoli al mondo, ma baciare Kara non era decisamente una di queste.

‘Stanotte ho capito una cosa.’

‘Cosa?’

Kara si staccò da lui e gli sorrise.

“Che potresti valere la pena di avere delle complicazioni.”

Cameron inarcò un sopracciglio “Potrei?”

“Il verdetto non è ancora stato emesso” disse Kara con aria fintamente seria. Cam, con la stessa serietà, le disse che allora avrebbe dovuto fare del suo meglio per cambiare il tempo verbale di quell’affermazione.

“Ci puoi sempre provare…”

Cameron ricambiò il sogghigno, poi disse che no, non potevano fare niente.

“E perché, in nome di Artemide?” domandò Kara, per un attimo confusa.

“Beh… il tuo piede. Non sia mai che mi approfitti di una signora ferita.”

 “Cam, mi ripeterò, ma è un taglio, non un’amputazione. Credo di farcela benissimo.”

“Credi di farcela anche ad arrivare al letto? Perché del resto non mi preoccupo.”

Kara sorrise e gli mise le braccia intorno al collo, dandogli un lento e lungo bacio.

“E fai bene” sussurrò tentatrice. “Molto, molto bene.”

 

***

 

La mattina seguente, Kara si svegliò di ottimo umore. Cameron non era più a letto, e prima di domandarsi dove fosse sentì dei rumori provenire dalla cucina. Prese dal pavimento la maglietta di Cameron, e infilata questa e un paio di calzettoni (meglio non sfidare la sorte) uscì dalla camera.

“Buongiorno, splendore” la salutò Cameron, mentre versava delle uova strapazzate da una padella su due piatti, dove già c’era del pane tostato, e accanto due tazze di caffè fumante.

“Forse puoi aiutarmi” disse Kara appoggiandosi allo stipite della porta. “Ho fatto questo stranissimo sogno in cui finita a letto con un pilota dell’Aeronautica, ma a quanto pare ho sbagliato uomo al pub e mi sono portata a casa un cuoco…”

“Mia madre mi ha messo una padella in mano a dieci anni. Qualcosa che aveva a che fare col fatto di scioccare le mie future ragazze producendo cibo cotto commestibile.”

“Questo è da vedere” disse avvicinandosi e prendendo una forchettata di uova che infilò in bocca. Mandò giù il boccone con la tazza di caffè che Cam le mise in mano, e una volta in grado di parlare gli disse che erano ottime.

“Sei il primo che mi prepara la colazione, lo sai? Sono ancora incredula.”

“La cavalleria è così sottovalutata da dove vieni?”

“Beh, forse sarei dovuta restare almeno una volta fino alla mattina seguente e vedere che succedeva. E dopo l’olocausto nucleare vivere in una nave da guerra con le scorte di viveri tirate all’osso e sotto minaccia di essere spazzati via dal cielo ad ogni momento non è un grande incentivo per questo genere di cose.”

Kara prese il suo caffè e ne mandò giù una gran sorsata. Nel frattempo gli chiese telepaticamente quando iniziava il suo turno alla base, ma Cameron continuò a mangiare senza risponderle. Glielo chiese di nuovo, ma continuava a ignorarla.

“Ehi, ti decidi a darmi una risposta?” domandò seccata quando ebbe finalmente la bocca libera

“Su cosa?”

Kara gli lanciò un’occhiataccia “Sai benissimo su cosa!”

“No… perché non mi hai chiesto niente.”

Kara stava per replicare, quando le venne un’idea e disse a Cameron di provare a leggere i suoi pensieri. Provarono varie volte, ma sempre senza nessun risultato. Il link si era spezzato.

Kara ne era felice, e anche Cameron, ma entrambi non riuscivano a non trovare ironico il tempismo della cosa.

“Cioè… era quello che dovevamo fare fin dall’inizio? Dormire una notte insieme?”

“Cam, c’ero anch’io. Dormire non è proprio quel che abbiamo fatto…”

“Comunque sia, non cambia le cose. È bello avere la propria testa per sé, finalmente.”

“Già” annuì Kara.

“Mi manca” aggiunse improvvisamente Cameron, dopo un attimo di silenzio.

“Anche a me. È così strano...”

“Beh, rassegniamoci. Non tornerà. D’ora in avanti si continua con il caro vecchio sistema.”

“Allora immagino che questi non servano più” disse prendendo in mano il ciondolo verde che portava al collo. “Se hanno mai funzionato.”

“Anche tu dubbiosa?”

“Quel Thalian non mi piace.”

“Guarda il lato positivo, con ogni probabilità non lo vedremo mai più. Ora che ne dici se finiamo di mangiare e tu poi mi ridai la maglietta?”

Kara rise, e tornò a dedicarsi alle uova. Pazzesco. Aveva ancora nella sua testa la lista infinita di motivi per cui lei e Cameron stavano sbagliando ad andare avanti con quella storia, e sapeva che erano tutti motivi fondati. Ma era anche vero che aveva passato gli ultimi due anni della sua vita a cercare di migliorare sé stessa. Quello poteva essere il migliore dei banchi di prova. Non aveva mai avuto una relazione stabile e profonda con nessuno, nemmeno con il suo defunto fidanzato Zak, ma Cameron era diverso.

Sapeva cucinare delle ottime uova strapazzate, per dirne una. Era sopravvissuto a quel labirinto contorto che era la sua mente (Cam una volta sull’argomento aveva nominato dei quadri di un certo Escher ma Kara non aveva capito il nesso), cosa che si poteva dire in pratica di nessuno a parte l’ammiraglio Adama, McNamara e O’Neil. E soprattutto portava cicatrici di guerra simili alle sue, anche se era molto bravo a nasconderle.

Decidendo di applicare il ‘caro vecchio sistema’, come lo chiamava Cameron, i due piloti iniziarono a uscire insieme con molta discrezione. C’erano regole severe sui rapporti interpersonali tra colleghi alla base, e poi bastava guardare il generale O’Neil e il colonnello Carter. L’esempio perfetto di come rispettare le regole… senza farsi beccare. Kara aveva scoperto che i due avevano una relazione da anni solo perché, per puro caso, aveva sentito un frammento di conversazione telefonica tra Sam e Jack, quando Sam era convinta di non essere ascoltata. Lo aveva detto alla donna, e lei le aveva fatto giurare varie volte di mantenere il segreto. Ora che il generale stava alla Sicurezza Planetaria e non più al Comando Stargate le cose erano in parte cambiate, ma nessuno dei due si sentiva ancora pronto ad affrontare il resto del mondo… anche se il resto del mondo, le disse Kara, aveva già da un pezzo capito e approvato.

Poi Daniel si beccò la mononucleosi prima della suo ennesimo tentativo di partire per Atlantis, e questo scombussolò le cose per tutti. Il desiderio più grande del dottor Jackson, e che tutti conoscevano, era quello di recarsi nella città perduta degli Antichi per dedicarsi ai suoi studi. Sarebbe stato il compimento di tutte le sue ricerche. Eppure, ogni volta, capitava qualcosa. La prima volta la Prometheus era stata dirottata da Vala. La seconda volta, quando avrebbe potuto avere un passaggio dalla Daedalus, era capitata di nuovo Vala. E ora, mentre schiumava di rabbia nel suo letto nell’infermeria della base, poteva incolpare solo il caso. Nessuno però gli credeva, e Vala aveva fatto del suo meglio per far credere a tutti che fosse lei la causa, ma rimaneva il fatto che Daniel Jackson, per l’ennesima volta, perdeva il suo passaggio per la galassia di Pegaso.

Dato il tempo a Walter di pagare le scommesse sullo sfortunatissimo dottore, Landry gli disse di cercare un sostituto da mandare ad Atlantis. Oltre che per un viaggio di piacere, Daniel voleva andare lì per fare ricerche su Merlino e sugli Alterani, come si chiamavano gli Antichi appena arrivati nella Via Lattea. Per capire cosa aspettarsi dagli Ori, oltre a quello che avevano già potuto vedere al Supergate.

Walter gli presentò una lista di candidati, ma Landry non si sentiva di mandare nessuno di loro. Importante per la base, troppo testa d’uovo per partire, non aveva il gene, non abbastanza qualificato, non avrebbe mai preso ordini da una donna, non sopportava McKay… sembrava che nessuno potesse sostituire Daniel.

Poi gli venne in mente qualcuno che avrebbe fatto carte false per andare ad Atlantis, che aveva il gene, non era poi così fondamentale per la base, era qualificato a sufficienza per incontrare gli standard della dottoressa Weir, avrebbe accettato di prendere ordini da lei e soprattutto non aveva mai incontrato McKay. E grazie a Daniel aveva già una buona conoscenza del mondo Antico.

Rimaneva da vedere se Kara fosse ancora interessata a partire per la Città degli Dei, come ancora definiva Atlantis. Aveva la netta impressione che ora, finalmente, avesse un motivo valido per restare sulla Terra… anche se voleva dire infrangere il regolamento. Avrebbe potuto trasferirla d’ufficio e nessuno avrebbe avuto da ridire, invece la chiamò nel suo ufficio e le disse che se era d'accordo intendeva mandarla ad Atlantis al posto di Daniel. Landry osservò la sua reazione: conteneva a malapena l’entusiasmo di partire.

Forse aveva sopravvalutato Cameron Mitchell?

 

Una volta fuori dall’ufficio di Landry, Kara sentì una morsa allo stomaco. Sapeva perfettamente cos’era: senso di colpa. Voleva andare ad Atlantis da quando aveva saputo della sua esistenza, ma non aveva mai immaginato che il momento in cui sarebbe potuta partire sarebbe stato anche il momento in cui aveva una ragione per restare.

Prima di cambiare idea, andò a parlare subito con Cameron nel loro nascondiglio, quel ripostiglio dove tutto era cominciato. Come aveva immaginato, Cam non era entusiasta di vederla partire.

“Beh, non è che vado lì in pianta stabile. Secondo i piani di Daniel, dovrei stare là qualche mese a studiare il database, magari dare una mano… anche i Wraith non sono da sottovalutare. E nemmeno i Replicanti che vivono su Asura.”

“Sì, ma perché tu?”

“Lingua Antica, scritta e parlata. E gene degli Antichi, cinque su cinque. Da quanto ne so, solo il generale O’Neil e il comandante militare di Atlantis, John Sheppard, ce l’hanno così forte. Avrei libero accesso a tutta la città, senza dover dipendere dai membri della spedizione per muovermi all’interno di Atlantis. E prima finisco, prima ritorno…”

Cameron sospirò “Tu sei già là con la testa, mi domando perché perdo tempo.”

Kara però gli mise le mani sulle spalle, e gli fece incontrare il suo sguardo. “Cam, non ho intenzione di andare a vivere in un’altra galassia dopo tutto quello che ho dovuto fare per arrivare qui, te lo assicuro. Non ho motivi per rimanere lì… ma al contrario ho molti motivi per ritornare. E ritornerò presto.”

Aveva preso in mano il pendente di Cameron, che ancora portava al collo, e subito nella sua testa apparvero dal niente lampi di immagini, suoni confusi, e un’ondata di sentimenti ed emozioni non suoi la attraversò. Kara era rimasta a bocca aperta. L’ultima volta che aveva sentito qualcosa di simile era quando il loro legame telepatico era ancora integro…

“Kara, che succede?”

“Cameron, prendi in mano il mio pendente.”

“Perché?”

“Fallo e basta.”

Cameron obbedì, e come lei venne travolto da quell’ondata di suoni, immagini e sensazioni che era innegabilmente e inconfondibilmente Kara, come quando erano legati.

Si erano guardati con aria confusa, e poi erano scoppiati a ridere. Forse i due pendenti non avevano interrotto la connessione, ma in quel momento Kara e Cameron riuscivano a pensare ad un uso anche migliore per quei due strani oggetti. Non volevano sapere cosa fossero o perché avessero immagazzinato quei frammenti della loro personalità, ma se era un modo per evitare di sentirsi lontani durante la missione di Kara nella città degli Antichi, non avrebbero messo in dubbio la loro fortuna. Ognuno tenne il suo fino al giorno della partenza, e prima di essere trasportata a bordo della Daedalus Kara e Cameron se li scambiarono in privato, anche se il motivo ufficiale per quell’ultimo incontro era parlare dell’SG-4.

Cam sciolse il loro abbraccio per guardarla negli occhi ancora una volta.

“Guarda che hai promesso di tornare.”

“Dei di Kobol” disse Kara alzando gli occhi al cielo “sei estenuante! Ci vediamo fra quattro mesi, mica quattro anni… ad ogni modo, tieni d’occhio sul serio i miei pargoli dell’SG-4, d’accordo? Quel maggiore Everett che hanno messo come mio sostituto non mi piace granché.”

“Allora resta.”

“Ah ah, bel tentativo. Beh, è ora, e da quanto ne so Hermiod è molto puntuale con i teletrasporti. A presto, Cam” disse Kara salutandolo con un ultimo abbraccio e un bacio, e qualche secondo più tardi un raggio di luce bianca l’avvolse completamente e la fece sparire. Cameron si trovò a fissare il vuoto nel suo ufficio.

“Fa buon viaggio” mormorò piano, e dopo aver lasciato passare qualche istante, andò alla ricerca di Sam per andare a tormentare ancora un po’ Daniel dall’altro lato della parete di vetro.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** VIII ***


New Page

 

Kara si materializzò sul ponte di comando della USS Daedalus, e venne subito salutata dal colonnello Caldwell, che l’accolse a bordo e le mostrò i suoi alloggi.

“Se avessimo un ZPM andremmo più veloci, ma serve di più ad Atlantis.”

“Non salgo su una nave spaziale da quasi tre anni ormai, signore, ed è il mio primo viaggio su una nave di classe Daedalus. Ho intenzione di godermi la permanenza a bordo. E poi il dottor Jackson mi ha dato una cassa di libri da leggere prima di arrivare nella Galassia di Pegaso, mi ci vorranno tutte e tre le settimane di viaggio…”

“Perché l’hanno scelta come sostituto, maggiore? Mi perdoni, ma non capisco.”

“Per la mia religione, Atlantis è una sorta di città sacra. E quando il generale mi ha chiesto se volevo partire, ho colto la palla al balzo. Lei che c’è già stato… cosa posso aspettarmi, signore?”

“Probabilmente chiede alla persona sbagliata, maggiore. Non sono un romantico, e neanche particolarmente bravo con le descrizioni. Le posso dire però che è qualcosa di incredibile… basti solo pensare che è rimasta intatta sotto l’oceano per diecimila anni. E spero le piaccia la vista dell’oceano, perché non si vede altro per miglia e miglia.”

Kara fece una leggera smorfia. Oceano a perdita d’occhio. Ogni volta che aveva visto l’oceano, ma anche un semplice torrente di montagna, era sempre finita col pensare a Leoben. Con lei aveva sempre usato metafore di fiumi e correnti per tentare di farle vedere le cose a modo suo, e in tempi più recenti anche convertirla alla sua religione monoteista. Era anche la ragione per cui le volte che McNamara la invitava a pescare con lui, o accampava scuse o si portava un blocco da disegno e faceva schizzi dei dintorni. Tutto pur di non aver direttamente a che fare col corso d’acqua.

“Non la entusiasma, eh? Beh, nemmeno me. Preferisco vedere qualcosa all’orizzonte, non domandarmi dove finisca l’acqua e inizi il cielo. Bene, siamo arrivati” disse una volta di fronte alle porte del suo alloggio. Kara ringraziò il colonnello, e una volta dentro si buttò sul letto. Le casse di libri e i suoi bagagli erano già lì, messe in una pila ordinata accanto alla porta.

Un piccolo sobbalzo le fece capire che erano entrati in iperspazio.

Quattro mesi prima di tornare sulla Terra, a partire da quell’istante.

Kara strinse il pendente di Cameron, e per un istante fu come se fosse nella stanza con lei.

Distese le labbra in un sorriso, e chiuse gli occhi.

 

Kara non era mai stata una studentessa modello. Anzi, aveva odiato fieramente ogni secondo passato a scuola. Se si era diplomata era stato per far felice sua zia Aglaia e per dimostrare a sua madre che aveva un cervello che funzionava, nonostante ben tre traumi cranici.

Per essere una che aveva fatto una grande fatica ad appassionarsi alla storia delle colonie e ad altre materie umanistiche, trovava i libri che Daniel le aveva dato su Atlantis e gli Antichi affascinanti. Le aveva perfino scaricato tutto quello che aveva trovato su Kobol nell’avamposto in Antartide più i rapporti di River Crenshaw, dicendole che se voleva poteva farsi un giro nel database per saperne di più sul suo insediamento.

Dopo aver fatto le sue ricerche su Merlino e gli Ori, ovviamente.

Il viaggio era stato relativamente breve, secondo i suoi standard. Tutti su quella nave però mostravano segni di noia, dopo tre settimane di viaggio. Forse perché non erano mai stati su una nave anni. Avrebbe voluto vederli allora.

Il momento in cui la Daedalus era entrata nell’atmosfera del pianeta, Kara aveva lasciato la sala comune ed era corsa sul ponte. Rimanendo immobile alle spalle di Caldwell, aveva visto la nave avvicinarsi alla città perduta di Atlantis, che usciva dalla foschia mattutina come un castello delle favole.

Caldwell con un sogghigno si voltò e le disse che stavolta li avrebbero odiati. Erano le sette del mattino spaccate.

“Daedalus, qui Weir.”

“Dottoressa, qui Caldwell, buongiorno.”

“Mattiniero, oserei dire, colonnello.”

A Kara non sfuggì il sarcasmo nella voce della donna.

“Non si preoccupi, ho le scorte di caffè con me.”

“Questo è sempre bello da sentire, soprattutto sapendo quanto ne sparisce per via di McKay. Il dottor Jackson è lì con lei?”

“Il dottor Jackson è ammalato. Al suo posto hanno inviato una sostituta, il maggiore Kara Thrace.”

“Buongiorno, dottoressa” disse Kara. “Sarà un piacere lavorare con lei.”

“Ci vedremo fra pochi minuti, maggiore Thrace. Riunirò i responsabili di settore, così potremo fare le presentazioni ufficiali. Ammesso che riesca a svegliarli. Weir, chiudo.”

“Non so perché ma suonava come una minaccia” mormorò Kara, facendo ridere il colonnello.

“Non si preoccupi, maggiore, non mordono. Forse McKay, ma basta rabbonirlo con un paio di barrette energetiche, nel caso il caffè non basti.”

“Mi parli un po’ di questi ‘responsabili di settore’, signore. Di sicuro lei li conosce più di me.”

“Rodney McKay è il capo degli scienziati, il suo secondo è il dottor Radek Zelenka. Coglierà da sola le differenze tra i due appena messo piede in città. Carson Beckett è il responsabile dell’infermeria e capo dei medici. Ottimo chirurgo e ottima persona. Il comandante militare è il colonnello John Sheppard… buon soldato, per carità, ma non con l’esperienza necessaria a mandare avanti una base del genere. Weir però voleva lui a tutti i costi.”

Il tono che aveva usato fece capire a Kara che Caldwell non era estremamente felice del colonnello, per qualche ragione. Si fece un appunto mentale di scoprirla.

 

Decidendo di non far aspettare oltre la dottoressa Weir, Caldwell teletrasportò Kara e i suoi bagagli nella sala dello Stargate, mentre la Deadalus iniziava le manovre d’atterraggio.

Kara si guardò intorno con curiosità per qualche istante, poi rivolse la sua attenzione alla donna dai capelli scuri e la maglia rossa che stava scendendo le scale di fronte a lei.

“Sono la dottoressa Elizabeth Weir. Da parte di tutta la spedizione, benvenuta ad Atlantis, maggiore Thrace.”

Kara ringraziò la dottoressa e le due donne scambiarono una stretta di mano.

“Kara Thrace. È un piacere conoscerla, dottoressa. All’SGC si parla molto bene di lei.”

“Landry non mi aveva avvisato di questa sostituzione” disse la donna facendo segno a Kara di salire con lei le scale, e di seguirla fino al suo ufficio. “Il dottor Jackson dev’essere grave.”

“E contagioso, soprattutto. Ma ha avuto il tempo di spiegarmi il mio lavoro qui, e ho studiato alcuni testi durante il viaggio. E quello che non ho appreso in quel modo, l’ho appreso mediante la tecnologia mnemnonica dei Galaran. È assurdo avere le conoscenze di Daniel Jackson sugli Antichi in testa, ma i tempi di preparazione per la missione erano stretti, per cui...”

“Ho sentito di quella tecnologia. Un acquisto recente del comando Stargate da parte di nuovi alleati alieni.”

“Sì. E molto utile.”

“Indubbiamente. Tornando a noi…per ogni cosa, non esiti a chiedere. Sarò felice di aiutarla.”

“Bene, lo farò.”

Prima di entrare nell’ufficio dove gli altri la stavano aspettando, Kara si prese un momento per osservare dall’alto la sala Stargate e lo Stargate di Atlantis. Il sole aveva finalmente dissipato la foschia e stava filtrando dalle finestre colorate, tingendo i muri e il pavimento. Stava pensando quanto fosse bello quello che vedeva, quando una voce piuttosto scocciata la raggiunse.

“Se la signora vuole farci l’onore, qui aspettiamo solo lei!”

Kara alzò gli occhi al cielo ed entrò nell’ufficio di Weir, dove tre uomini erano in piedi accanto alla sua scrivania.

“Mi lasci indovinare” disse Kara puntando un dito contro l’uomo che aveva parlato “Dottor Rodney McKay.”

“Oh” disse Rodney, compiaciuto di sé stesso per essere stato riconosciuto “Vedo che la mia fama mi ha preceduto...”

“No, solo la sua… personalità.”

“Oh, grazie… “ iniziò Rodney, che non aveva percepito l’ironia, mentre alle sue spalle un uomo alto e magro, con capelli neri e occhi verdi inviò a Kara un sorriso ed un’occhiata divertita. L’altro uomo accanto a lui, coi capelli neri e gli occhi blu si limitò a scuotere piano la testa mentre alzava gli occhi al cielo, e la dottoressa Weir stava facendo del suo meglio per non ridere.

Alla fine Rodney comprese di essere stato preso in giro, e rimase offeso e in silenzio per il resto dell’incontro. Weir le presentò l’uomo con gli occhi verdi come il colonnello John Sheppard (quando le sorrise nello stringerle la mano Rodney borbottò solo ‘A cuccia, Kirk’, che fece stralunare gli occhi a John, ma Kara non comprese perché), e quello con gli occhi blu come il dottor Carson Beckett (che parlava con un accento curioso che l’uomo stesso aveva definito ‘scozzese’).

“Piacere di conoscervi tutti quanti, mi chiamo Kara Thrace e se tutto va bene mi leverò dalle scatole tra tre mesi. Qualcuno di voi può, per favore, indicarmi il mio alloggio?”

“Posso farlo io” si offrì John, ma prima Beckett disse a Kara che avrebbe dovuto farle un esame del sangue.

“Se è per il gene, l’esame mi è stato fatto prima di partire.”

“Non solo, mia cara, vogliamo essere certi della tua salute. Ci sono malanni piuttosto spiacevoli da contrarre, in questa galassia…”

E sia John che Rodney con una smorfia ripensarono alla variante dell’influenza che girava nella galassia, che li aveva confinati in infermeria per la bellezza di tre settimane. In effetti, erano stati dimessi da appena cinque giorni.

“…voglio essere sicuro tu sia sana come un pesce, prima di mandarti eventualmente oltre lo Stargate. Ma riguardo il gene… puoi dirmi i risultati dell’esame?”

“Sicuro. Cinque su cinque.”

E nel giro di un decimo di secondo, tutti gli sguardi furono puntati su di lei.

“Cinque su cinque?” ripeté John.

“Ma guarda” disse McKay, di nuovo di buon umore “Non siamo più così speciali, eh?”

John lo ignorò “È una condizione piuttosto rara.”

“Non lo dica a me, signore, le facce quando lo hanno scoperto parlavano da sole. Soprattutto perché…” e lì Kara si fermò, non sicura se doveva dirlo. La dottoressa Weir e Sheppard però le chiesero di finire la frase, e Kara sospirando ubbidì.

“Perché… ecco, io non vengo dalla Terra” disse Kara, e prima che qualcuno potesse dire qualcosa, decise di fare un riassunto conciso degli ultimi cinque anni. “Il mio pianeta si chiama Caprica, faceva parte di una federazione di dodici nota come le Dodici Colonie di Kobol, ma dopo un attacco nucleare da parte di una razza biomeccanica, i Cylon, che mi dispiace dire abbiamo creato noi, abbiamo dovuto andarcene. Non paghi di averci ridotto a malapena quarantamila anime, stanno ancora dando la caccia al resto della mia gente, che sta cercando di raggiungere il pianeta Terra seguendo delle tracce di nostri antenati che l’avevano raggiunta in tempi più antichi. Sul come sono arrivata qui…Gli Asgard mi hanno trovato e salvato durante un’avaria del mio aereo da combattimento, e questo circa tre anni fa. Da allora servo nell’Aeronautica e sono distaccata al comando Stargate.”

Tutti continuavano a fissarla in silenzio.

“Beh…” disse Beckett, alla fine. “La versione lunga dev’essere oltremodo affascinante da ascoltare.”

“È quello che ha detto anche il generale O’Neil .”

“Maggiore, lei ha menzionato Kobol… ho capito giusto?”

“Sì. Oltre che a fare ricerche su Merlino e gli Ori, la seconda ragione per cui sono qui è fare ricerche sul punto d’origine della mia gente ei suoi legami con gli Antichi.”

“Mi sono imbattuta in quel nome cercando i nomi di due pianeti…”

“Castiana e Sahal, immagino. Continuerò io quella parte della ricerca.”

“Benissimo. Appena ha finito in infermeria, il colonnello Sheppard le mostrerà il suo alloggio. Per il momento abbiamo finito, potete tutti andare.”

 

Kara era uscita con Carson, ma il medico era stato chiamato a controllare le scorte di medicinali appena arrivate con la Daedalus. Chiese quindi a John di accompagnare la ragazza in infermeria.

“Nessun problema. Vai tranquillo, dottore, ci penso io al maggiore Thrace.”

Iniziarono a camminare insieme, e John le fece molte domande su come fosse entrata in Aeronautica. Kara fece del suo meglio per rispondere, e non negò che il motivo principale fosse poter viaggiare con lo Stargate.

“Io ero un pilota, quando servivo nella Flotta Coloniale. Non ho mai pensato di fare altro nella mia vita che volare aerei da combattimento. Poi finisco sulla Terra, e scopro che c’è qualcosa di perfino meglio. Aggiunga il fatto che non resistevo a vivere da civile, e ha una perfetta combinazione di eventi.”

“Io servivo in Antartide, nella base di McMurdo. Un bel giorno mi viene ordinato di scortare il generale O’Neil in una base di ricerca segreta. Nel giro di un paio d’ore ho scoperto del gene degli Antichi, dello Stargate e di Atlantis, e dovevo dire subito se volevo partecipare alla missione o no.”

“Cavolo, signore.”

“Esattamente… senti, tecnicamente non servi nemmeno qui. Che ne dici se lasciamo perdere il lei e ci diamo del tu?”

“D’accordo… John.”

“Benissimo… Kara. L’infermeria è lì” disse indicando con la mano una porta scorrevole. “Chiedi della dottoressa Keller e dì che ti mando io.”

“Ah sì? Devo dirle anche dell’altro?” disse Kara con tono cospiratorio.

“Sì… che le sono grato di avermi sopportato per tre settimane mentre ce l’avevo col mondo per via dell’influenza che gira da queste parti.”

“Non mancherò.”

John le sorrise, e le fece un cenno di saluto mentre si allontanava. Kara lo guardò andarsene, e decise che il colonnello le piaceva. Non sapeva perché, ma fin dal primo momento che aveva incrociato il suo sguardo aveva sentito qualcosa, oltre ad aver notato quel paio di occhi verdi uguali ai suoi. Forse aveva a che fare con il fatto che entrambi possedevano questo gene, ed entrambi ne avevano una variante piuttosto forte, chi lo sapeva… Ma oltre a questo, se voleva davvero essere sincera, aveva sentito qualcosa anche appena messo piede su Atlantis.

Un sentimento di appartenenza a quel luogo, di essere la benvenuta… e non aveva a che fare con la dottoressa Weir e la sua accoglienza, perché era capitato negli istanti prima di incontrarla.

Scacciò per il momento quei pensieri, entrò in infermeria e chiede della dottoressa Keller, spiegandole chi era e da dove arrivava. La dottoressa era molto giovane ma con un’aria simpatica, e prelevò subito i campioni di sangue di cui aveva bisogno dal braccio di Kara, chiedendo notizie dei colleghi che lavoravano al Comando Stargate.

Una volta finito, andò a cercare John e finì nella sala mensa. Lo trovò seduto ad un tavolo col dottor McKay, un gigante dalla pelle scura e lunghi dreadlocks, e una ragazza minuta, anche lei dalla carnagione scura. Sembravano divertirsi parecchio… John e gli altri due, almeno. Rodney non sembrava entusiasta della conversazione.

John la vide arrivare, e le fece cenno di venire vicino. “Kara, vieni, ti voglio presentare la mia squadra. Rodney già lo conosci, mentre loro sono Ronon Dex e Teyla Emmagan. Sono nativi della galassia.”

Ronon fece un cenno con la testa verso Kara, mentre Teyla sorrise e le diede anche lei il benvenuto.

“John ci ha detto che sei qui per studiare il database degli Antichi.”

“Quello… e poi non potevo perdere l’occasione di vedere la città degli dei. Appena ho saputo di Atlantis, ho sentito che…”

“Scusi un attimo, maggiore” disse Rodney, alzando la mano “Città degli dei? Non ho mai sentito nessuno riferirsi così alla città.”

“Per la mia religione, Atlantis è sacra, il luogo da dove sono venuti gli Dei di Kobol.”

“Ma gli Antichi non…”

“Grande Afrodite… Sì, dottor McKay, lo so già che gli Antichi non sono dei. Questo non significa che ho smesso di credere che esistano gli dei di Kobol. Ho solo smesso di adorare dei falsi idoli.”

Rodney rimase zitto solo il tempo necessario a processare che aveva nominato il nome di una dea greca.

“Afrodite? Afrodite è una dei tuoi dei di Kobol?”

“Dottor McKay, la scioccherò, ma l’intero pantheon greco è modellato sui miei dei di Kobol. Ora però vorrei davvero tanto vedere i miei alloggi… ma se sei impegnato, Sheppard, posso chiedere a qualcun altro.”

“Per niente. Vieni, ti faccio strada.”

Rodney li osservò sparire insieme “Ecco il Capitano Kirk in azione. Non se ne salva una…”

“Andiamo, Rodney, voleva solo essere cortese” disse Teyla.

“E poi era un ordine di Weir” continuò Ronon.

“Sarà” disse lo scienziato ritornando al suo pasto. “Ma con Sheppard, non si può mai sapere.”

 

Osservando Kara, e parlando con lei, John si accorse di sentire qualcosa nei suoi riguardi. Non era attrazione… non nel senso comune del termine, almeno. Ci metteva molto a fidarsi delle persone, anche di più ad ammettere di avere bisogno di qualcuno nella sua vita, eppure aveva sentito un’innata e immediata fiducia in quella ragazza dagli occhi verdi. Le chiese se il gene fosse diffuso tra la sua gente, e Kara rispose che fino al suo arrivo sulla Terra, ignorava perfino di averlo.

“La mia gente viene da questo pianeta protetto dagli Antichi… e ne ho sentito parlare per la prima volta solo due anni fa. Se ci sono altri col gene, chi può dirlo… già è una condizione rara in un pianeta di sei miliardi di persone, figurati in una flotta di quarantamila individui.”

“Quanti eravate, prima dell’attacco nucleare?”

“Venti miliardi.”

John si fermò di botto, e fissò Kara con aria sconvolta. Kara sorrise amaramente.

“Venti miliardi, spazzati via in un giorno. E tutto questo perché sessant’anni fa, qualcuno ha pensato di voler rendere le cose più facili. Nessuno ricorda più il suo nome… non cambia il fatto che continuiamo a maledirlo in eterno.”

“Mio Dio… sai, ci sono scienziati sulla Terra che stanno facendo studi sull’intelligenza artificiale. Ma visto quello che abbiamo dovuto passare con i Replicanti, e quello che avete passato voi con i cylon, dubito che gli verrà mai concesso di arrivare da qualche parte” disse Sheppard, riprendendo a camminare.

“Arrivo a capire che non si voglia allarmare la popolazione… ma prima o poi, la gente verrà a sapere che non è sola nella galassia.”

“Sarà un giorno interessante a cui assistere, di sicuro.”

“Manca ancora tanto?”

“No, ci siamo quasi… anzi, è questa porta” disse John passando la mano sopra il sensore. La porta si aprì silenziosamente, e Kara vide che all’interno c’erano già i suoi bagagli. John si offrì anche di aiutarla a disfarli e Kara accettò con un sorriso. Non capiva cosa fosse quella strana sensazione che provava quando era con lui, ma se passavano del tempo insieme magari avrebbe capito che cos’era.

 

La prima cosa che Kara tirò fuori fu il poster che Cameron le aveva regalato appena prima di partire.

Escher, guarda caso. Una riproduzione del suo quadro con le scale che procedevano in sensi che non avevano niente di logico.

Sheppard lo appese dove lui aveva il suo poster di Johnny Cash, e non poté fare a meno di chiedere che cosa significasse.

“Un regalo del mio ragazzo. Dice che rispecchia molto chiaramente quello che ho in testa.”

“E ci stai ancora insieme?”

“A che pro prendersela? Ha ragione. Mi ha sempre definita ‘contorta come un quadro di Escher’, almeno ora so perché.”

Kara giocherellò un attimo con la pietra verde che portava al collo, e sorrise. John immaginò che probabilmente stava pensando al suo ragazzo. Guardò dentro la cassa, e iniziò a tirare fuori un sacco di libri, che Kara mise parte sulla scrivania e parte nello scaffale che era nella sua stanza, sicuramente in previsione del suo arrivo. Quando gli venne in mano Guerra e Pace, a John venne da ridere. Oltre che a essere probabilmente l’unico libro che non era lì per lavoro, era anche lo stesso romanzo che stava leggendo lui.

“Nel caso abbia tempo libero. Troppo ottimista?”

“Beh, ci sono dei momenti di calma… sì, decisamente troppo ottimista.”

I due scambiarono una risata, e mentre John finiva coi libri, Kara iniziò con il resto dei suoi effetti personali.

“Com’è la situazione, là fuori?”

“Non ti bastano quei fanatici religiosi che hai nella Via Lattea?”

“Beh, non sono nella Via Lattea al momento. Che mi dici di questi Wraith?”

“Che visto il tuo lavoro qui, a meno che non facciano un attacco alla città… ed è impossibile perché credono di averci distrutto… non ci avrai a che fare. E ringrazia i tuoi dei di questo.”

“John… ho avuto a che fare con gli Ori, e sono sopravvissuta al mio mandato in Iraq. Credo di poter reggere.”

“Non lo metto in dubbio, ma devi tenere presente che qui, nella galassia di Pegaso, non siamo esattamente in cima alla catena alimentare. Alcuni scienziati e soldati di questa spedizione lo hanno sperimentato in prima persona. Qualcuno è sopravvissuto, ma la maggior parte no. Non è un bel modo di andarsene” disse John, ripensando a Sumner. Lo aveva ucciso come atto di pietà, ma non avrebbe mai dimenticato come quel Wraith avesse rubato anni di vita ed energia vitale da un uomo giovane, trasformandolo in un vecchio inerme. Era il suo incubo. Come se non ne avesse già abbastanza.

Kara si era voltata a guardarlo, quando aveva smesso di parlare. Stava guardando la copertina di un libro, ma poteva vedere chiaramente che in realtà pensava ad altro Conosceva quello sguardo nei suoi occhi, perché lo aveva visto monte volte nei suoi, allo specchio. In quelli di Lee, di Cam, e in generale di tutti quelli che avevano una guerra da combattere, e che avrebbero combattuto fino alla fine.

“Beh, a parte combattere… che si fa da queste parti per divertirsi?” chiese Kara, cambiando discorso. John smise la sua aria pensierosa, e ritornò a sorridere.

“Scherzi a McKay.”

“Annotato. Che altro?”

“Io gioco a golf. C’è un club di scacchi… ma se vuoi un consiglio, Kara, non sfidare mai Zelenka mettendo qualcosa in palio. È un uomo gentile, ma se ha da guadagnarci, quando è dall’altro lato della scacchiera si trasforma. Facciamo qualche torneo di poker, ogni tanto abbiamo delle proiezioni di film, facciamo sessioni di combattimento in palestra… non molto esaltante, mi spiace.”

“E perché? È quello che facevo all’SGC. Mi sembrerà di stare a casa… eccetto per la vista” disse indicando le torri di Atlantis che vedeva dalla sua finestra, e l’oceano illuminato dal sole. “Decisamente più stimolante di un muro di cemento.”

John stava per risponderle, quando ricevette una comunicazione via radio da McKay.

“McKay, parla pure.”

“Lascia in pace la bionda e vieni in laboratorio. Ho qualcosa da far vedere a te e Weir.”

“Rodney, la sto solo aiutando con le sue cose. Da quanto ne so, sulla Terra è considerata una cosa gentile da fare con gli ospiti.”

“Sì, certo… Kirk. Muoversi, su, clop-clop. Il mattino ha l’oro in bocca, eccetera eccetera. McKay, chiudo.”

John alzò gli occhi al cielo, e poi spiegò a Kara che McKay si era convinto che lui volesse provarci con lei.

“Ed è vero? Perché il mio ragazzo avrebbe da ridire.”

“Tranquilla, no” disse John. “È solo geloso. Secondo McKay tutte le forme di vita femminili umane e non mi trovano più interessante di lui.”

Kara gli lanciò un’occhiata dall’alto in basso. “Capisco le umane… ma che vuoi dire con ‘non umane’?”

John sorrise “Atlantis.”

“Atlantis?”

“Non mi chiedere come o perché… ma la città è viva, a modo suo. Te ne renderai conto da sola. E ora vado, prima che McKay inizi a farsi idee sbagliate.”

“Credo di aver capito che vuoi dire.”

“Su McKay?”

“No. Su Atlantis. Avevo sentito qualcosa di strano appena arrivata, prima di incontrare Weir… non sapevo che fosse, ma se ora mi dici che la città è un essere senziente, per quando assurdo possa sembrare…”

John si sedette sul letto di Kara, e le fece segno di fare altrettanto.

“Che hai provato?”

“E McKay?”

“Aspetterà. Che hai sentito?”

“È stata una bella sensazione. Come se qualcuno o qualcosa volesse darmi il benvenuto. O...”

“O il bentornato a casa?” le chiese Sheppard, in un certo senso felice e sollevato che Kara non lo stesse prendendo per matto.

“È come se tutto quello che ho fatto, fosse stato solo per arrivare fin qui. Andiamo, c’è un limite anche a quanto una cosa può essere strana.”

“Non qui ad Atlantis, fidati.”

“Se è Atlantis ad avermi fatto sentire questo, allora con ogni probabilità è responsabile anche di…” disse Kara, riflettendo ad alta voce. Accortasi della cosa, spiegò a Sheppard quell’assurda sensazione di familiarità che aveva da subito sentito nei suoi riguardi.

“Ok, ora la cosa sta diventando davvero da episodio di ‘Ai confini della realtà’.”

“Non mi dire.”

“E invece sì. Anch’io. A quanto pare, vuole che diventiamo amici. Pensi centri il fatto che abbiamo un gene tanto forte?”

“Le tue teorie son valide quanto le mie.”

“Beh, poteva evitare di disturbarsi, ti avrei trovata simpatica a prescindere.”

“Meglio che vai, o McKay inizierà sul serio a pensar male.”

“In tal caso, spero tu non tenga troppo alla tua reputazione. Sai, con la mia fama…”

John le strizzò l’occhio e la salutò con la mano mentre usciva. Kara ricambiò, e si lasciò cadere sul letto. Girò lo sguardo verso la finestra (che a guardar bene non era una finestra ma una porta di vetro che dava su un balcone), e guardò la sua nuova casa per i prossimi mesi.

Strinse la pietra verde, e sentì nella sua testa la presenza di Cameron, la sua personalità, e i sentimenti che provava per lei. Avrebbe voluto che potesse vedere anche lui quella meraviglia… e chi poteva dirlo, magari un giorno l’avrebbero vista insieme.

Finì di mettere a posto le sue cose, e cambiò l’uniforme del Comando Stargate che indossava con quella grigia e nera che usavano i soldati della spedizione. Non avendo nessuna voglia di mettersi subito al lavoro (era arrivata si e no da due ore, porca miseria!), decise di andare a farsi un giro da sola per la città. Non aveva intenzione di andare troppo lontano, ma solo farsi un’idea di quella che sarebbe stata la sua casa per qualche mese.

E senza sapere come, si trovò nella sala che ospitava la sedia di controllo. Weir, Sheppard e McKay erano lì, e stavano discutendo, quindi Kara immaginò che qualsiasi cosa McKay volesse prima, avesse a che fare con la sedia. Weir la notò sulla soglia, e le chiese se poteva fare qualcosa per lei.

Kara decise di mentire, e chiese dove fosse l’accesso olografico del database.

“Glielo mostrerò tra un attimo, maggiore. Appena finito qui.”

“Certo… le dispiace se resto? Non ho mai visto la sedia dal vero, solo rappresentazioni. Davvero controlla tutti gli armamenti della città e i sistemi di sopravvivenza?”

“E molte altre cose superflue” disse McKay “che però non ci darebbero noie se avessimo un altro zpm…”

Sheppard e Weir, assieme a tutti gli scienziati presenti, alzarono gli occhi al cielo.

“Kara… che ne dici di provarla?” propose d’un tratto il colonnello.

“John, non so se è una grande idea…”

“Ah, siete già ai nomi di battesimo” commentò Rodney. “Non gliene sfugge una…” commentò sottovoce poi, scuotendo la testa.

Weir lo ignorò, e disse che si poteva fare un tentativo. “John e il generale O’Neil hanno un talento naturale con la sedia, e hanno entrambi un gene forte come il suo, maggiore. Vale la pena di vedere se è lo stesso anche con lei.”

Kara scrollò le spalle, dicendosi che tanto non le sarebbe successo niente, e si sedette. Subito la sedia si attivò e Kara si trovò reclinata all’indietro. Non osava muovere un muscolo, e deglutì nervosamente.

“Tutto normale, finora?” chiese appena riuscì a decontrarre la mascella.

“Maggiore, pensi a dove ci troviamo nella galassia” disse McKay avvicinandosi.

“McKay, non ho la più pallida idea di dove ci troviamo nella galassia!”

“Ok, allora pensi a dove si trova adesso. Lantea. Atlantis. Una delle due.”

Kara fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, pensando ad Atlantis, e subito apparve una mappa olografica della galassia sopra le loro teste, con un punto blu pulsante in uno dei bracci esterni.

“Kara” disse John “apri gli occhi e guarda in alto.”

“Sono perfettamente a mio agio con gli occhi chiusi, grazie comunque.”

“Aprili e guarda in alto, non te ne pentirai.”

Kara sospirò e obbedì. Rimase a bocca aperta quando vide la mappa della galassia, e domandò incredula se fosse stata davvero lei a fare quello.

“Cioè a dare istruzione ad Atlantis di produrre una mappa e di segnare la nostra esatta posizione?” disse Weir. “Sì, maggiore, è stata lei. Anche lei opera naturalmente con la tecnologia Antica, è notevole.”

Kara continuava a fissare la mappa. Senza pensare, si chiese se nel database ci fosse anche una mappa della Via Lattea con le posizioni di Kobol, le Colonie e della Terra, e la mappa cambiò all’istante, evidenziando due pianeti tutto considerato vicini. La Terra e Kobol.

Atlantis non conosceva le Colonie… come poteva? Erano successive al suo abbandono, e nessuno avrebbe potuto inserirle nel database. Sentì quasi una leggera ondata di dispiacere da parte di Atlantis nel non poter eseguire la sua richiesta. Kara allora decise di cercare alcuni corpi celesti che sapeva visibili da tutte e dodici le colonie, e identificati questi chiese (e ancora non riusciva a credere di stare realmente facendo una cosa del genere) ad Atlantis se riusciva ad identificare un sistema di dodici pianeti nelle loro vicinanze astronomiche. Soddisfazione. Kara sorrise. Atlantis aveva identificato le Colonie, e stava salvando la loro posizione nel suo database stellare, con i nomi che Kara le aveva suggerito.

Riaprendo gli occhi, Kara osservò per la prima volta le Colonie, Kobol, e la Terra in un’unica mappa. Sembrava incredibile che ci fossero voluti anni per arrivare anche solo vicini alla Tredicesima colonia. Non era poi così lontana. Un’improvvisa ondata di nostalgia minacciò di serrarle la gola, ma la ricacciò indietro.

Kara alzò il braccio e indicò i dodici pianeti “Quelle sono le Dodici Colonie di Kobol. Io vengo da lì. È la prima volta in quattro anni che le rivedo...”

Prima di cedere all’emozione, Kara interruppe il contatto con la città e ritornò in posizione seduta, mentre sopra di lei la mappa svaniva nell’aria. Dopo un altro respiro profondo, Kara chiese a Weir dove fosse il database degli Antichi, e la dottoressa la accompagnò fuori. Poteva sentire gli occhi di John su di lei, ma non si voltò indietro.

“Tutto bene, maggiore Thrace?”

“Sì. Benissimo. Mi spiace di aver usato la sedia per un motivo puramente personale, ma volevo vedere fino a che punto si estendeva il database stellare…”

“Nessun danno. E poi la sedia è sensibile ai pensieri, se si lascia vagare un attimo la mente, reagisce di conseguenza.”

“Ottimo, lo terrò a mente.”

Elizabeth entrò in un’altra stanza circolare, con un podio e una pedana, e disse a Kara che quello era il database. Le fece vedere come funzionava, e poi la lasciò al suo lavoro.

“È meglio che lo sappia, maggiore, l’interfaccia olografica è un po’ pedante, e consuma molta energia. Le consiglio di imparare a usare le altre interfacce che si trovano nella città il prima possibile.”

Kara annuì, ed Elizabeth la lasciò al suo lavoro. Kara invece si sedette sulla pedana, e posò la testa sulle ginocchia. Non riusciva a scacciare dalla testa l’immagine di quei dodici pianeti sopra la sua testa. Erano sempre stati nella sua testa, ma non ci aveva mai pensato davvero. Caprica, il pianeta capitale, era la sua patria, e non l’avrebbe rivista mai più. Ovviamente, lo aveva sempre saputo, ma il vederlo su quella mappa lo aveva reso in qualche modo definitivo e ineluttabile.

Prima che se ne rendesse conto, si trovò gli occhi pieni di lacrime. Si diede dell’idiota, e si ordinò di smetterla subito, ma con scarsi risultati.

E l’imbarazzo che provò quando sentì la mano di John sulla spalla e lui vide le lacrime sul suo viso, era qualcosa che mai aveva provato in vita sua.

“Ho pensato di venire a vedere se stavi bene. Avevi un’aria strana quando ti sei alzata dalla sedia.”

“McKay l’avrà presa come prova inconfutabile della nostra nascente relazione.”

“Chi se ne frega di McKay. Allora, stai bene?”

Kara si asciugò gli occhi “Una favola. Ho solo avuto un attimo di depressione a rivedere il mio pianeta natale, tutto qui. Ci sono tornata solo una volta, dopo l’attacco, ed è ridotto ad un sasso radioattivo. Non so le altre colonie, ma non possono essere tanto diverse.”

Poi guardò le luci, e notò che erano molto meno brillanti di com’erano quando era entrata con Weir.

“Avete problemi con i generatori e lo zpm, per caso?”

“No, tutto in ordine. Perché?”

“Le luci. Sono basse. Prima non lo erano.”

“Quando sei entrata, dici?”

“Sì. Che strano…” disse Kara, poi un’idea folle le balenò in testa.

“John… Atlantis non si manifesta solo attraverso la sedia. Giusto?”

John scosse la testa. “L’ultima volta in cui io mi sono sentito depresso, ha fatto la stessa cosa con le luci, e mi ha schermato dai rilevatori di segni vitali della città. Ha interferito anche col segnale radio. Volevo stare solo… e mi ha dato una mano. Le devi aver fatto una buona impressione se fa questi giochetti con te da subito. Potrei quasi essere geloso!”

Kara si fece una piccola risata, e si alzò in piedi “Non temere, non ho intenzione di rubarti la ragazza. E ora sarà il caso che mi metta al lavoro… non ne avevo l’intenzione, ma visto che sono qui tanto vale iniziare.”

“Ci vediamo a pranzo?”

“Va bene” disse Kara salendo sul podio. La consolle si illuminò, e l’ologramma di una donna dai capelli scuri e vestita di bianco si materializzò al centro della pedana.

“Salve” disse, e spiegò come poter fare la propria richiesta.

Kara si concentrò, e iniziò il suo lavoro.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** IX ***


New Page

 

Dopo un mese e mezzo, Kara non era più vicina a scoprire novità sugli Ori o sull’arma di Merlino di quanto fosse all’inizio della sua ricerca. Ed era frustrante da morire, come il non essere riuscita a trovare Castiana e Sahal, dove l’arma di Merlino probabilmente era nascosta, nonostante tutte le pronunce che lei e Weir erano riuscite a inventarsi.

Se Carson non le avesse dato l’ok per viaggiare con lo Stargate, con ogni probabilità sarebbe impazzita. Almeno con un P-90 in mano sapeva cosa fare. Fare ricerche era il pane di Jackson, non il suo... l’unico lato positivo era che aveva scoperto un sacco di cose interessanti su Kobol. Era stato uno dei primi avamposti ad essere colonizzati, ed era stata la scienza Antica a renderlo abitabile visto che in principio era solo una landa sterile e desolata, come diceva anche la sua religione. Aveva avuto la sua versione di Atlantis, anche se più in piccolo, e fino alla nascita degli insediamenti umani era stata l’unico segno di civiltà nel pianeta. Attraverso lo Stargate si tenevano contatti con la Terra e gli altri insediamenti, cosa che non era cambiata quando gli altri Antichi avevano deciso di andarsene nella galassia di Pegaso. Durante la guerra con i Wraith, Kobol aveva inviato scienziati, navi e soldati, e aveva dato asilo agli Antichi che non avevano voluto cercare rifugio sulla Terra. Aveva visto anche alcune delle ultime immagini degli Antichi che vivevano su Kobol. Hedda e Athia, due scienziate. Marin, una guaritrice. Orin, comandante delle forze armate. Un’immagine però l’aveva molto sorpresa, quella su una studiosa di storia che da Atlantis era andata a vivere su Kobol durante l’assedio dei Wraith alla città.

Pythia.

L’autrice dei Rotoli Sacri. Colei che aveva trascritto il viaggio della Tredicesima Tribù da Kobol alla Terra. Tutti ritenevano Pythia un oracolo che era vissuto nelle Colonie ai tempi della loro scoperta e colonizzazione, ma a quanto pare non lo era. Il suo file diceva anche che era affetta da una malattia degenerativa del sistema nervoso. Contando l’aspettativa di vita degli Antichi e le loro tecnologie mediche, doveva comunque aver vissuto a lungo. E poteva benissimo essere ascesa, prima, dopo o durante l’esodo, portando in seguito nelle Colonie il resoconto romanzato del suo viaggio… Nessuno, a parte Pythia in persona, poteva rispondere a quella domanda. E con ogni probabilità, non l’avrebbe mai fatto, accidenti agli Antichi e alla loro regola di non interferenza.

I rapporti che doveva fare al comando Stargate erano la parte che più odiava del lavoro. Dire a Landry ogni settimana che non era arrivata a capo di niente. Aveva la conoscenza, sapeva di fare le domande giuste… ma non arrivava lo stesso da nessuna parte. L’unica era aspettare Jackson, e sperare che lui sbloccasse la situazione. Era stato anche l’ordine di Landry, dopo aver visto l’aria stressata di Kara all’ultima comunicazione attraverso lo Stargate. Kara si sarebbe ammazzata piuttosto che apparire debole, ma ormai conosceva quella ragazza e sapeva che quando aveva una faccia del genere la crisi nervosa era alle porte. Sollevata da quell’incarico, Kara si trovò a dover scegliere se tornarsene sulla Terra, o restare lì fino a quando Jackson non si fosse ripreso e fosse venuto con la Odyssey assieme alla SG-1.

Decise di rimanere. E di affogare il senso di inadeguatezza che stava provando passando lo Stargate e andando in giro per la galassia. Weir era stata così gentile da inserirla in una delle squadre SGA, come lì definivano i team che andavano in esplorazione, ma le missioni migliori erano quelle in cui si accodava alla prima squadra, quella di John, McKay, Teyla e Ronon.

Il rapporto con Sheppard era diventato ancora più stretto. Kara non riusciva a credere a quanto realmente fossero simili, a partire dagli occhi, della stessa identica sfumatura di verde, un colore piuttosto raro da dove veniva Kara (che non lo aveva mai visto a parte che negli occhi dei membri della sua famiglia paterna). Entrambi erano piloti molto abili e molto indisciplinati, entrambi erano considerati teste calde, entrambi possedevano un personale codice di condotta che li aveva portati a disubbidire a ordini di superiori perché non li ritenevano ‘giusti’. Sheppard era finito in corte marziale una volta, ma anche se era stato assolto gli era rimasta una nota di demerito permanente nel fascicolo. Kara era stata una frequentatrice assidua della galera quando serviva nella Flotta Coloniale, e aveva una lista di richiami grossa quanto un romanzo di Tolstoj. John adorava la velocità, e Kara gli aveva raccontato delle multe che aveva collezionato sulla Terra, oltre a avergli mostrato una foto della sua moto. Kara si era sposata per le ragioni sbagliate, e anche lui. John aveva divorziato… e Kara dopo due anni si considerava  libera allo stesso modo. Tutti e due adoravano il gelato alla crema, e odiavano qualsiasi cosa potesse essere considerata cibo sano.

Ed entrambi amavano Atlantis. John di più, ovviamente, per via della sua maggiore permanenza nella città, ma anche Kara col tempo aveva iniziato a scorgere le piccole cose. Rumori, luci, l’acqua alla temperatura perfetta quando faceva la doccia al mattino… lei si prendeva cura di loro, come loro si prendevano cura di lei, riparando i suoi componenti e tenendola al sicuro dai suoi nemici.

Ovviamente non parlavano con nessuno di questo loro modo di vedere la città. Nessuno avrebbe capito esattamente cosa sentivano, o più semplicemente li avrebbero presi per matti. Rodney poi era sempre pronto a prenderli in giro ogni qualvolta non riuscivano a compiere qualche azione che necessitava un’interazione con la città. Non gli pareva vero di poter sfottere i due col gene più potente, lui che aveva dovuto ottenerlo con una terapia genica.

Alla sera poi, ogni singola volta, Rodney si trovava ad affrontare una doccia gelida e le porte rifiutavano di lasciarlo entrare o uscire, ma continuava a incolpare il caso e il sistema idraulico vecchio di diecimila anni. John e Kara in quei casi facevano del loro meglio per non scoppiare a ridere in sua presenza, e mandavano un silenzioso ringraziamento alla loro alleata.

Poi un giorno Carson andò trafelato da Elizabeth stringendo un foglio con i risultati delle analisi genetiche di Kara. Dopo aver appurato che aveva già il gene, Carson aveva deciso di farle un’analisi genetica comunque per vedere se c’erano differenze nell’evoluzione tra i Coloniali e i terrestri. Non era un’analisi prioritaria, e quindi si era preso tutto il suo tempo per eseguirla, senza contare le varie emergenze mediche che aveva dovuto affrontare con Sheppard, il quale ormai aveva un letto con letteralmente il suo nome sopra in infermeria, e la stessa Kara, sua degna compare. Quando i risultati erano arrivati dal laboratorio, non era per niente sorpreso. Erano perfettamente nella norma: Kara Thrace era umana al cento per cento, con tutti i pro e i contro della cosa.

Quello che gli fece sgranare gli occhi e spalancare la bocca, capitò per un errore di un suo collaboratore, che battendo un’errata combinazione di tasti soprappensiero avviò un confronto dell’esame genetico di Kara contro il database della spedizione, invece di archiviarlo.

Cercò di interrompere il raffronto, ma quando stava per riuscirci il programma si fermò da solo: aveva trovato un riscontro.

Subito andò a informare Beckett dell’errore, e rassicurato il giovane ricercatore il medico andò a vedere che cosa fosse successo. Quando guardò lo schermo del computer, non voleva crederci. Stampò una copia, e corse da Weir.

Elizabeth lesse il foglio con un sopracciglio alzato, e alla fine lo guardò in faccia. Era più incredula di lui.

“Ma com’è possibile?”

“Infatti. Non dovrebbe essere possibile! Rifarò gli esami a entrambi, ovviamente, ma se il risultato non cambia…”

“Ce ne occuperemo in quel caso.”

Elizabeth sperava in un errore. Altrimenti, non aveva idea di cosa fare. Come diavolo avrebbe fatto a spiegare al maggiore Thrace e al colonnello Sheppard che in base alle loro analisi genetiche, loro due erano parenti?

Ad ogni modo, né il maggiore né il colonnello si trovavano ad Atlantis in quel momento. John era fuori con la sua squadra, e Kara aveva sostituito Lorne, malato, a capo della sua. Entrambi avevano il ritorno previsto da lì a tre giorni, tempo sufficiente a far rientrare l’allarme… o per far preparare a Carson un discorso su come quella condizione fosse umanamente possibile.

 

Ma Kara, il terzo giorno, non tornò. Sheppard ritornò puntuale, con delle storie interessanti sul nuovo insediamento umano che avevano scoperto, ma quando chiese di Kara, che sarebbe dovuta rientrare un paio d’ore prima di lui, nessuno gli riuscì a dire niente.

Prima che McKay se la filasse, disse a Weir che avrebbero fatto un controllo sul pianeta dove Kara sarebbe dovuta essere, e riattraversarono lo stargate. Quello che videro non era per niente confortante: i Wraith avevano distrutto il villaggio e catturato tutta la popolazione. Se riuscirono a scoprire che Kara e la sua squadra erano ancora vivi e prigionieri nella nave alveare, fu solo perché sotto delle macerie trovarono un superstite che per caso aveva assistito alla loro cattura. Nonostante i soccorsi, l’uomo non sopravvisse fino ad arrivare al Jumper, e dopo aver seppellito la salma contattarono Atlantis con le novità. Subito misero in allerta i loro alleati, e nel giro di un paio d’ore l’ambasciatore Gareth Valorum di Varenia e Ladon Radim dei Genii vennero a parlare con Weir. I due, che tempo addietro avevano proprio firmato ad Atlantis un patto di non aggressione, acconsentirono a utilizzare la loro rete di informatori per cercare di scoprire il fato della squadra, ma era comunque un’operazione che avrebbe richiesto molto tempo.

Non avevano tenuto conto però di una cosa: quanto realmente Kara prendesse male l’essere imprigionata in una cella in mano ad una razza nemica. Se lo era ripromesso in quel letto nell’ospedale militare di Colorado Springs, appena ritornata negli Stati Uniti: nessuno, mai più, l’avrebbe tenuta prigioniera contro la sua volontà. Non importava se Cylon, umano, o in quel caso, Wraith. Sarebbe fuggita, in un modo o nell’altro.

La prima volta riuscì a fuggire con alcuni membri del team, e a provocare alcuni piccoli sabotaggi al generatore di energia prima di essere catturata. I due soldati che erano con lei erano stati uccisi, ma lei era stata risparmiata. Se l’era cavata con varie botte e contusioni, ma non era niente che non potesse gestire.

La seconda volta, uccise il suo carceriere. Quando la ripresero, quello che sembrava il capo l’afferrò per la gola e la spinse contro un muro della nave. Mise l’altra mano sopra il cuore di Kara, e iniziò a nutrirsi di lei. Kara non riusciva a respirare, era paralizzata dal dolore più intenso che avesse mai provato nella sua vita. Poteva sentire l’energia lasciare il suo corpo e andare ad alimentare il Wraith, sempre più soddisfatto delle urla di dolore e del terrore crescente che Kara provava. Quando la lasciò andare Kara cadde sul pavimento come un sacco vuoto. Il Wraith le disse che le aveva levato solo un paio di anni, poi disse alle guardie di portarla nell’ ‘altra’ cella, per farle vedere che sarebbe successo se ci avesse provato di nuovo.

Kara si sentì trascinare via per le braccia. Non aveva la forza di opporsi, vedeva tutto appannato. Due anni di vita… andati così. Due anni…

Venne scaraventata dentro una cella che non era quella di prima, e poi le guardie se ne andarono. Con fatica Kara si girò sulla schiena e chiuse gli occhi, respirando ancora affannosamente. Doveva recuperare in fretta. Doveva…

Dopo un po’ di tempo, smise di vedere tutto sfocato. E si accorse di non essere da sola. Sulle prime pensò ad un’allucinazione, perché quello che vedeva non aveva senso.

Poi sentì quella voce, e il suo cuore mancò un colpo.

“Ci incontriamo di nuovo, Kara Thrace.”

Seduto a terra all’altro capo della cella, pesto e sanguinante, c’era Leoben.

 

Le spie Genii, sempre efficienti, comunicarono a Ladon Radim che una nave Wraith aveva subito vari sabotaggi dall’interno nell’ultimo mese, e che era scesa varie volte su un pianeta per le riparazioni. Non era niente di preciso, e non era sicuro di voler comunicare la cosa ad Atlantis, ma se il maggiore Thrace gli era stata descritta esattamente c’era una possibilità che quegli atti di sabotaggio potessero essere stati opera sua.

Weir e Sheppard, scoprì, condividevano la sua opinione. Richiesero subito le coordinate di quel pianeta in modo da poter inviare la Daedalus con una missione di soccorso, e fu un’informazione che Ladon fu lieto di produrre.

Elizabeth non provò nemmeno ad impedire a John di partecipare alla missione. Nel mese passato a cercare Kara, aveva scoperto quell’assurdo legame di parentela tra di loro. Carson aveva confermato il risultato del primo esame, e questo aveva solo spinto Sheppard a cercare Kara con più foga. Quando si era trattato di spedire quei videomessaggi alle famiglie, lui non aveva mandato niente. A chi avrebbe dovuto mandarlo? I suoi amici erano morti a Kabul. Sua madre era morta che era adolescente. Durante la Corte Marziale, suo padre, militare di carriera, lo aveva in pratica disconosciuto da figlio. La sua ex moglie era fuori discussione.

Certo, aveva la sua nuova vita, i suoi nuovi amici, ma non poteva fare a meno di invidiarli, alle volte, per quello che avevano sulla Terra. O almeno era così fino a quando non aveva letto quel pezzo di carta che Carson gli aveva dato al cospetto di Elizabeth. Non aveva ascoltato nessuna delle teorie di Carson su come lui e Kara potessero essere imparentati. Quello che gli importava era trovare Kara, e dirglielo. Tutto il resto poteva aspettare.

 

Kara intanto, nel suo angolo della cella, stava facendo i conti con la sua parte di fatti incredibili.

Leoben, aveva scoperto, non era da solo. Assieme a lui c’erano anche Boomer, e una Numero Sei che chiamava Sarah. E tutti portavano i segni di una feroce tortura, soprattutto Sarah. Leoben spiegò che era impazzita a causa di tutto quello che i Wraith le avevano fatto. C’era voluto un po’ per decifrare i deliri sconnessi della donna, ma alla fine Kara capì che come O’Neil la sua testa era finita in uno di quegli affari degli Antichi, scaricando la loro intera conoscenza nel suo cervello, e sopravvivendo per raccontarlo. I Wraith l’avevano capito, ed era quello che volevano tirarle fuori dalla testa, in un modo o nell’altro.

Leoben veniva usato come cavia per qualche esperimento medico, e aveva contratto un virus che stava corrodendo i suoi organi interni, e si stava propagando anche sulla pelle. Su Boomer invece sperimentavano quante volte potevano nutrirsi da lei, prima di ucciderla.

Era surreale, ma si sentiva spiacente per loro. Nessuno, nemmeno i cylon, meritavano di essere torturati a quel modo dai Wraith.

Fu per questo che, quando John venne a liberare lei e gli altri, non disse niente e li portò ad Atlantis. Non aveva idea di cosa avrebbe fatto di loro, ma almeno non sarebbero stati in mano a quelli. Non lo faceva per Leoben, che una volta l’aveva tenuta segregata alla stessa maniera, o per Sarah, sepolta sotto strati di psicosi. Guardava Boomer, e vedeva Sharon, la sua Sharon. La madre di Hera e la moglie di Helo. Athena. La guardava, e sentiva nostalgia, come quando aveva visto le Dodici Colonie in quella rappresentazione olografica. E qualcosa di simile alla pietà per il suo nemico.

Starbuck non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Ma Kara non era Starbuck. Non più.

 

***

 

Kara non capiva perché John non l’avesse lasciata un secondo da quando era ritornata ad Atlantis. Fin da quando era stata ricoverata in infermeria con gli altri – e con i cylon – John le era sempre rimasto accanto. Erano amici, d’accordo, ma non a questo punto. C’era qualcosa che le sfuggiva, e appena si sentì meglio andò da Weir. Elizabeth la fece sedere, e le spiegò dell’esame genetico.

Kara pensò che non avrebbe potuto sentirsi più paralizzata nemmeno se le avessero iniettato qualcosa in quel momento.

“Io e John siamo… cosa?!”

“Avete un grado di parentela ovviamente lontano, ma resta il fatto che c’è… e considerata la storia della tua gente, il fatto che ve ne siete andati da Kobol duemila anni dopo la tribù che è venuta sulla Terra, è una cosa incredibile. Beckett ti spiegherà nei dettagli, ma credo che ora sia il caso di parlare con John. È stato molto preoccupato per te.”

“Posso capirlo…” mormorò Kara, ricordando i discorsi che avevano fatto sulle cose che avevano in comune, che si applicavano anche alla loro sfortuna con i rapporti famigliari. Weir l’aveva lasciata andare poco dopo, e Kara era subito andata alla ricerca di John. Prima la famiglia, ai Cylon avrebbe pensato poi. Non erano comunque in condizione di nuocere a nessuno, in quel momento.

 

John era al balcone in cui di solito si incontrava con Weir e guardava l’oceano. Kara lo raggiunse e si appoggiò alla balaustra.

“Ehi.”

“Ehi.”

“Weir mi ha detto delle analisi genetiche.”

John si voltò a guardarla “Cosa ne pensi?”

“Che per quanto folle possa suonare, ha un suo senso. Non era Atlantis, eravamo noi. O se lo era…”

“…aveva già capito.”

“Esattamente.”

“Ma questo dove ci lascia, ora? Siamo parenti, d’accordo, ma… che genere di parenti?”

“Cugini, direi. Almeno credo. Carson che dice?”

“Carson ne sa quanto noi…”

“Sì, ma è un genetista, è il suo lavoro, se non lo sa lui…”

“Cugini mi sta bene. Non ho mai avuto una cugina.”

“Beh, neanch’io ho mai avuto un cugino. Sarà interessante.”

“Lo sai che significa che posso mettere bocca in tutto quello che fai e non potrai nemmeno impedirmelo?”

“Vale anche per me, John, quindi sta attento!”

Kara si voltò e si mise a guardare l’oceano con suo cugino, cercando di mettere ordine nella sua testa. Inutile… ogni volta che le capitava qualcosa di importante, finiva sempre per ripensare a quella tempesta. Da quando l’aveva passata aveva trovato una nuova famiglia, amici, un luogo a cui finalmente sentiva di appartenere… e l’unico consanguineo rimastole nella galassia.

Ma Kara non riusciva più a tacere. Le sarebbe piaciuto prolungare quel momento, ma doveva dire loro dei tre cylon.

John conosceva solo i Replicanti, quindi non capiva come avesse fatto a non accorgersi della differenza, visto che anche i Cylon erano macchine. E non capiva perché Kara li avesse portati lì… non dopo tutto quello che aveva raccontato di loro.

“Non lo so. Ma una di loro ha infilato la testa per sbaglio in uno di quei succhiatesta degli Antichi, come li definisce O’Neil… non solo ha retto la forza, ma da quanto ho capito aveva perfino iniziato a usare le nuove informazioni prima che venissero catturati. Nessuno conosce la portata di quel database… neanche O’Neil, e lui lo ha avuto in testa due volte.”

“È quasi morto, quelle due volte.”

“Ma Sarah no. Probabilmente proprio perché è una Cylon. Forse, se riusciamo a farla stare meglio, potremo scoprire molte altre cose sugli Antichi. E poi… e poi non augurerei quel genere di tortura a nessuno, John” disse Kara, tirando in basso il collo della sua maglietta e facendogli vedere la medicazione che nascondeva la ferita che le aveva inferto il Wraith quando si era nutrito da lei.

John guardò la medicazione, e poi guardò Kara “Non immagino nemmeno cosa devi avere sentito.”

“Meglio così. È un incubo che non mi sento di voler condividere” disse rimettendo a posto la maglietta. Riportò la conversazione sui Wraith, e i due andarono subito da Elizabeth. Anche la donna si dimostrò molto confusa dalle azioni di Kara, ma comprese il suo interesse sul modello Numero Sei.

“Ci sono settori e apparecchiature qui che vanno oltre la nostra immaginazione. Se lei ha la conoscenza degli Antichi, può esserci molto utile.”

“Sempre che si riesca a curarla” disse Kara. “Durante la prigionia diceva solo cose senza senso. Aveva i suoi momenti di lucidità, ma poca cosa. Leoben si occupava di lei.”

“Che puoi dirci di Leoben?”

Kara abbassò lo sguardo. Per un istante la cella dov’era stata rinchiusa in Iraq e l’appartamento di New Caprica si sovrapposero nella sua testa, ma si concentrò sul secondo pensiero e iniziò, per l’ennesima volta, a parlare di quel cylon.

“Leoben… che dire di Leoben... È molto intelligente. Un bugiardo e un manipolatore, il migliore che abbiate mai visto. Ma non mente e basta, sarebbe troppo semplice. Mischia bugie e verità. E la sua reale agenda non si capisce mai, fino a quando non è troppo tardi. La prima volta che l’ho incontrato mi ha fatto credere di aver nascosto una bomba nucleare in una nave della flotta. Mentiva. La sua agenda, in quel caso, ero io. Voleva entrarmi nella testa, farmi vedere le cose a modo suo. Quando hanno invaso New Caprica mi è venuto a cercare. Per quattro mesi sono stata sua prigioniera, e li ha passati a cercare di convincermi che mi amava, che la sua religione era l’unica religione. L’ho ucciso sei volte, è sempre ritornato, e non mi ha mai fatto del male… nel senso fisico del termine. Alla sesta sono riuscita a scappare, grazie ad un blitz della resistenza.”

Weir annuì con la testa, soppesando le informazioni che aveva appena ricevuto. Chiese anche della donna che Kara chiamava Boomer, e il maggiore la identificò come un Modello Otto.

“Sharon era un pilota. Una recluta che aveva appena ricevuto le ali. Non sapeva di essere una cylon, era un’agente dormiente. Quando è stata attivata, ha piantato due pallottole nel petto dell’Ammiraglio. Un membro dell’equipaggio l’ha ammazzata poco dopo. Qualche tempo più tardi, ho incontrato un’altra Sharon. L’aveva trovata il mio amico Karl quando era dato per disperso su Caprica, e pensando fosse la ‘nostra’ Sharon l’ha riportata indietro con lui. A quell’epoca Sharon era incinta…”

“Scusa, fammi capire bene” interruppe Sheppard. “Mi stai dicendo che queste macchine, questi cylon… possono riprodursi come gli esseri umani? Ma come diavolo è possibile?”

“Non come gli esseri umani, John. Con gli esseri umani. Secondo loro… la cosa che serve è l’amore. Hanno compiuto altri esperimenti di ibridazione, ma hanno sempre fallito. C’erano fattorie, su Caprica… sperimentavano sulle donne umane sopravvissute.”

Elizabeth non riusciva a credere alle proprie orecchie. Conosceva suo malgrado i Replicanti, ma i Cylon sembravano anche loro molto pericolosi. Forse proprio perché si sforzavano così tanto di assomigliare agli umani.

“Sharon ha avuto una bambina” continuò Kara “che la Presidente Roslin ha nascosto facendo credere a tutti che fosse morta. È stata rapita dai cylon, ma i suoi genitori se la sono ripresa. Hera aveva poco più di un anno l’ultima volta che l’ho vista.”

“E non conosci Sarah.”

“Mai sentita nominare.”

“L’SGC se non sbaglio ha un dossier su tutto quello che i cylon hanno fatto, più i risultati delle autopsie sui cadaveri trovati su Kobol. Me li farò mandare. Credi che non siano soli?”

“Non mi spiego come siano riusciti a saltare fin qui. Le Basestar cylon hanno motori iperluce molto avanzati, ma non da saltare in un’altra galassia. E se c’è una basestar, non credo sia sopravvissuta ad un attacco Wraith. Anche lei è un organismo vivente, in un certo modo.”

“Non ho intenzione di costringerti, ma sei l’unica che sa come affrontarli...”

“Lo capisco, dottoressa Weir.”

“Se in qualsiasi momento pensi di non riuscirci, dimmelo subito” disse John. “Questo è un consiglio e un ordine, capito?”

“Capito.”

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** X ***


New Page

 

Tre giorni più tardi, Beckett dichiarò i tre ospiti pronti per essere dimessi. O almeno Leoben e Boomer, che vennero trasferiti nel settore dov’era la prigione della città. Sarah era totalmente un altro paio di maniche. Era stata resa dipendente dall’enzima dei Wraith, che secondo il chirurgo era in parte responsabile anche del suo stato confusionale. Al momento era legata ad un letto, che urlava frasi sconnesse in lingua Coloniale e insulti in lingua Antica, e tentava di liberarsi. Sedarla era fuori questione, perché l’organismo doveva liberarsi della droga, ma gli dispiaceva non essere in grado di aiutarla di più. Quando aveva riguadagnato la lucidità per qualche minuto, era riuscito a scoprire che voleva essere chiamata dottoressa, perché era una scienziata. Per il resto, avrebbero dovuto basarsi su quanto Leoben e Boomer avrebbero detto. Non sentendosi pronta ad affrontare Leoben, Kara iniziò dalla donna una volta nota come tenente Sharon Valerii.

Appena la vide entrare, Boomer si alzò in piedi e si avvicinò al campo di forza.

“Boomer.”

“Starbuck.”

“Nessuno mi chiama più così. Il mio nuovo nome in codice è Nike, ora.”

“Dea della vittoria. Farai bella coppia con Athena. E come sta mia sorella?”

“Vorrei saperlo anch’io. La flotta non è qui. E non è nemmeno arrivata alla Terra.”

“E allora come…?”

“Non sono sempre stata considerata speciale, da voi tostapane? Beh, lo sono. Ho volato in mezzo ad una tempesta spaziale, e mi sono ritrovata sulla Terra senza neanche un graffio. Una dannata miracolata.”

“Quindi nessuno è arrivato sulla Terra o nelle sue vicinanze. Solo noi, e te.”

“Chiamare vicinanze della Terra questo posto non è una cosa che farei. Questo punto però non mi è chiaro. Voi potete essere arrivati solo con una Basestar. Che fine ha fatto?”

Boomer prese uno sguardo gelido, ma che Kara scoprì non rivolto a lei.

“Spero abbiano sofferto il triplo di quello che abbiamo passato noi, quei maledetti…”

“Sharon, che vuoi dire?”

“Eravamo una delle quattro Basestar che sono saltate in orbita, quella volta sul pianeta dell’Occhio di Giove. Quando però si è trattato di saltare via, prima che la supernova ci colpisse, i nostri motori hanno avuto un malfunzionamento. Sarah era il capo degli scienziati cylon, la nave era in suo comando… ha dato ordine di passare dai normali iperluce ai motori che aveva appena modificato. Le radiazioni ci avevano tagliato fuori dalla flotta, non sapevamo dove saltare. Ma abbiamo pensato che qualunque posto era meglio di quello…”

“E siete saltati nel mezzo del nulla.”

“Una parte di noi voleva esplorare la zona, ma altri volevano solo ricalcolare il salto e tentare di tornare indietro. Sarah ha deciso di autorità, e siamo partiti in esplorazione.”

“E avete incontrato i Wraith.”

“Non subito. Prima c’è stato un ammutinamento a bordo. Gli scienziati dalla parte di Sarah, lei stessa, me e Leoben siamo stati abbandonati in un pianeta. Cercando riparo, abbiamo trovato quello che poi Sarah ci ha detto essere un avamposto di una razza che chiamava Alterani.”

“Noi li chiamiamo Antichi.”

“Noi? Interessante. Ad ogni modo, appena entrati, qualcosa emerge dal muro e le cattura la testa. Alla fine… non so come possibile, ma sapeva tutto del posto. È stata lei a dirci di scappare appena viste entrare in atmosfera le navi Wraith. Lei ci ha detto chi erano i Wraith. L’avamposto aveva delle armi che lei dio solo sa come sapeva come usare. Il suo errore è stato apostrofarli in una lingua che non avevo mai sentito quando ci hanno preso. Questo li ha spinti a cercare di estrarre le sue nuove conoscenze dalla testa.”

“Neanch’io so cosa le è successo” mentì Kara. “Ma il dottor Beckett sta cercando di stabilizzarla. L’hanno resa dipendente da un loro enzima, i medici stanno cercando di farlo uscire dal suo sistema.”

“Perché tanto disturbo?”

“Perché quella conoscenza fa gola anche a noi, ecco perché. Ed è nell’interesse di tutti che Sarah ritorni sana di mente.”

Boomer si voltò dandole le spalle, scuotendo la testa piano.

“Sai, non avrei mai pensato di fare tutta questa strada per finire di nuovo in una cella” disse, voltandosi di nuovo “con un abitante delle colonie a interrogarmi. Ma se devo scegliere tra gli umani, e i Wraith… meglio gli umani.”

“Non esserne troppo sicura, hanno avuto dei trascorsi con delle macchine anche loro, e non sono molto felici del fatto che vi ho portato qui.”

“Non eri obbligata a portarci via. Suppongo di doverti ringraziare.”

“Vedremo. Non ti posso assicurare niente, Boomer.”

“Come ho detto, meglio voi che i Wraith.”

E fu anche l’ultima cosa che Boomer le disse, prima di tornare a sedersi e ignorarla.

Kara uscì subito dalla cella, e una volta fuori fece un paio di respiri profondi.

Ora toccava a Leoben.

 

Il Leoben che Kara incontrò però era solo un’ombra di quello che aveva conosciuto. La tortura e la malattia avevano trasformato il profeta in un martire che, le disse, pregava solo per la sua morte.

“Se non fosse un peccato agli occhi di Dio, porrei fine da solo alle mie sofferenze. Certi giorni, sono atroci. Ma se è una prova che Dio mi ha mandato, devo saperla affrontare.”

Kara si mise comoda sulla sua sedia dall’altro lato del campo di forza. Con qualche eccezione, sembrava il loro primo incontro. Eccetto per il secchio d’acqua in cui infilargli la testa. Dopo aver provato quella tortura, dubitava l’avrebbe mai più inferta a qualcun altro.

“Dio. Parli ancora di Dio. Vedo che certe cose non cambiano mai, eh, Leoben?”

“La mia fede è parte della mia anima.”

“Non ho ancora deciso se voi tostapane abbiate davvero un’anima.”

“Hai pregato per la mia. Lo so, l’ho visto. Grazie. Non te l’ho mai detto.”

“Sì, invece. Me lo hai detto appena mi hai incontrato su New Caprica.”

Come dimenticare quel momento? Aveva appena giurato ai suoi amici, fissando il cielo e i Raider cylon che sfrecciavano sopra di loro, che avrebbero combattuto i cylon finché avrebbero potuto, ovvero fino alla morte. Era tornata alla sua tenda per prendersi cura di suo marito, che una polmonite stava per uccidere perché non c’erano più i dannati antibiotici, e lo aveva trovato fuori dalla sua tenda.

Tutti erano nel panico, nessuno faceva caso a loro. Leoben l’aveva ringraziata per le preghiere per la sua anima, Kara l’aveva mandato a farsi fottere. Leoben aveva chiesto se poteva fare qualcosa per Sam, che stava delirando nella tenda con la febbre altissima. Kara aveva domandato che voleva in cambio, e il cylon le aveva risposto che sapeva benissimo cosa voleva in cambio. Le aveva detto che il suo destino non avrebbe riguardato la sua gente, ma solo lei, che doveva capirlo il prima possibile. Kara non lo ascoltava. Leoben aveva gli antibiotici per Anders, e voleva lei in cambio. Kara quel giorno si sentì come se stesse vendendo l’anima al demonio, ma per la vita di Sam ne valeva la pena. Lo aveva fatto soffrire con i suoi continui tradimenti, ma con quel gesto avrebbe rimesso le cose in pari…

Tre giorni dopo Leoben era ritornato con le medicine. Kara le aveva portate a Jean, dicendole di prendersi cura di Sam, e poi aveva camminato con Leoben verso l’appena costruito centro di detenzione, dove avrebbe passato i prossimi quattro mesi della sua vita come sua prigioniera, al limite della sanità mentale.

Leoben scosse la testa, dicendo che non ricordava quel momento.

“Questo virus ha corroso i miei centri di memoria. Alle volte ricordo tutto, altre dimentico. Non sono nemmeno certo che ricorderò questo nostro incontro.”

“Che ci facevi su un vascello scientifico? E prima ancora… i cylon hanno vascelli scientifici?”

“Anche noi abbiamo sete di conoscenza che non può essere spenta dalla fede religiosa. Dopo che tu mi hai ucciso per la sesta e ultima volta, è stata la nave di Sarah a raccogliere il mio download. Sono rimasto lì da allora.”

“Chi è Sarah, esattamente?”

“Sarah è una scienziata cylon. Gli FTL delle Basestar sono opera sua. Ma uno scienziato cylon copre più o meno tutti i campi… lei ha scelto di dedicarsi all’ingegneria e all’astrofisica, ma è molto brava anche nelle materie biologiche. O forse dovrei dire era.”

“Se sarà possibile, la rimetteremo in piedi.”

“La sua conoscenza deve interessarvi molto. Questo posto assomiglia per certi versi a quell’avamposto dove siamo stati abbandonati… immagino che se riusciate a estrarre quelle informazioni, possiate ottenere enormi vantaggi.”

“Non abbiamo interesse a farle del male.”

“Quello che Roslin mi aveva detto, prima di buttarmi fuori a morire nello spazio.”

“Non eri neanche lontanamente dello stesso valore di Sarah.”

“Le garantirà di sopravvivere?”

“Con ogni probabilità, sì. Da Kobol sono stati rinvenuti cadaveri di Centurion e cylon… hanno già soddisfatto le loro curiosità sulla vostra fisiologia. Con ogni probabilità stanno anche studiando armi contro di voi.”

“Kobol. Non avrei mai pensato di sentire di nuovo quel nome. I terrestri lo hanno trovato?”

“Hanno trovato molto più di quello che cercavano. E non dirò altro sull’argomento.”

“Allora ritornerò al precedente. Se la loro curiosità è placata come dici, almeno non saremo sezionati come animali. Questo implica che io e Sharon saremo tenuti qui in eterno?”

“Andiamo, Leoben… sai benissimo che devo riferire ogni parola ai miei superiori, e loro decideranno. Il mio nuovo addestramento, stranamente, si è rivelato migliore del vecchio.”

“Te lo avevo detto che il tuo destino non coincideva con quello della Flotta. Sono felice tu lo abbia capito.”

“Il mio destino me lo costruisco io.”

“Non questa volta. Sei chiamata a fare grandi cose, Kara Thrace. E io giocherò la mia parte in tutto questo fino in fondo, come tutti gli altri. Non opporti alla corrente, Kara. Lascia che ti porti dove realmente sei destinata ad arrivare.”

“La tua ‘corrente’, Leoben, mi ha portato qui” disse Kara alzandosi e facendo per uscire. “E nessuna forza nell’universo mi porterà via.”

“Mi piacerebbe sapere dov’è, ‘qui’.”

“Continua a chiedertelo” disse Kara chiudendo la porta alle sue spalle

 

Alla fine, quando raggiunse Sheppard e il resto della sua squadra, fu più che grata quando l’uomo le mise in mano una Guinness gelata.

“Un pensiero del generale O’Neil per tutto il contingente militare, che non poteva arrivare in un momento migliore” disse John, facendo tintinnare il collo della sua bottiglia con quella di Kara. La donna si sedette tra lui e Teyla, e mandò giù una bella sorsata.

“Com’è andata?”

“Uno spasso… Boomer ci ritiene il male minore, e Leoben ha ricominciato a parlare del mio supposto ‘destino’” disse Kara facendo il gesto di fare virgolette in aria. “Sarah?”

“Ha smesso di urlare. Grazie a Dio” disse Rodney. “Stava diventando insopportabile. Per non parlare, o così dice Weir, del suo vocabolario di insulti in Antico. Li facevo una razza più superiore.”

“Sta soffrendo le pene dell’inferno, Rodney” disse Teyla. “Tu per primo sai come sono le crisi di astinenza da quella droga.”

“Ma non urlavo così tanto e non ero nemmeno lontanamente tanto sgradevole!”

Gli sguardi eloquenti di tutti i presenti però gli fecero capire il contrario. McKay tornò subito a dedicarsi alla sua birra per darsi un contegno.

“Non sembrano come i Replicanti” commentò Ronon.

“Sono sempre macchine” disse John.

“Io non ho mai conosciuto di persona i Replicanti, ma da quel che ho visto… ci sono differenze” disse Kara, attirando l’attenzione di tutti su di sé.

“I Replicanti sono formati da naniti, giusto? Robot di dimensioni infinitesimali che si sono aggregati fino a costruire forme di vita complesse, che si sono modellate poi su modello degli Antichi, anche se non hanno nessun desiderio di assomigliare o essere come noi. L’arma disgregante di Carter basta a distruggerli. I cylon…”

“Conosco i rapporti sull’autopsia, li ho letti sulla Terra. Ho anche visto anche i filmati” disse McKay.

“Un mio amico è sposato con una di loro, ne ho combattuti e uccisi una discreta parte e sono stata loro prigioniera un paio di volte, McKay. Credo di sapere qualche dettaglio in più di te.”  

“Beh, la loro fisiologia l’abbiamo studiata a fondo, e permettimi di dire una cosa, Kara, all’Area 51 avevamo molti ma molti più mezzi di voi nella vostra… flotta.”

“Non hai tutti i torti. Avanti, parla.”

Finalmente al centro dell’attenzione, Rodney snocciolò alla velocità della luce tutto quello che avevano scoperto sui cylon e i Centurion. Molte cose Kara le sapeva già ma non interruppe mai McKay mentre era intento a dimostrare di essere il massimo esperto pure su quello, cosa che non importava visto che ormai conosceva il dottore e sapeva quanto in fondo fosse davvero geniale.

“… e poi i tessuti che reagiscono sono ad una speciale gamma di radiazioni e solo se bruciati rivelano la componente sintetica… non sono per niente come i Replicanti. La loro fisiologia è molto avanzata, e gli organi interni… studiarli, e studiare la clonazione in laboratorio sia degli organi che dei tessuti potrebbe portare avanti la tecnologia dei trapianti di decenni!”

“Non avevo mai considerato questa opzione” disse Kara.

“Ovviamente, sei un soldato, tu li ammazzi.”

“Sai com’è, hanno raso al suolo con le atomiche il mio pianeta...”

“Perché vi hanno attaccati?” chiese Ronon. “Che avete fatto?”

“Questo è il punto, Ronon. Niente. Dopo l’armistizio alla fine della Prima Guerra, se ne sono andati e nessuno li ha più visti per quarant’anni. Abbiamo scoperto che due anni prima dell’attacco avevano iniziato a infiltrare le colonie attraverso la rete dei narcotrafficanti, questo vuol dire che c’è stata una lunga pianificazione dietro. I Cylon non avevano forma umana all’inizio, assomigliavano parecchio a dei tostapane, per questo nessuno si è accorto di niente. Il Galactica il giorno dell’attacco doveva essere messa in pensione e diventare un museo, invece si è trovata ad essere l’unica nave da guerra rimasta a combattere la guerra e difendere i superstiti.”

“Gesù… mi stai dicendo che la salvezza di quarantamila persone è affidata da quasi cinque anni ad una vecchia carretta?” esclamò incredulo McKay.

“La vecchia carretta” rispose Kara, incorciando le braccia al petto e fulminandolo con lo sguardo in un improvviso moto di orgoglio “non ha neanche un computer messo in rete. È questo che l’ha salvata. I cylon avevano infiltrato i sistemi delle altre navi più moderne e li avevano spenti, rendendole indifese agli attacchi. In un giorno, ci hanno praticamente sterminati, McKay, ma la vecchia carretta non solo è sopravvissuta, ma è una dannata spina nel loro dannato fianco fin dall’inizio del conflitto!”

Rodney alzò le mani in alto in segno di resa “Ok, ok, ritira gli artigli, ho capito!”

“Secondo i calcoli di Carter sarebbero dovuti arrivare quest’anno. Quest’anno però sta finendo” disse Kara, bevendo un sorso della sua birra.

“Arriveranno, Kara” disse Ronon. “Ne hanno passate troppe per non avere successo.”

“È quanto spero, ma la pazienza non è una delle mie virtù. E la volete sapere la cosa assurda? Guardo quei tre… e sento una nostalgia folle della mia gente. Ma immagino parlare di come procede il campionato di Piramide o sapere l'ennesima cavolata fatta da HotDog sia fuori discussione.

“Un giorno o l’altro dovrai spiegarmi cos’è questo sport.”

“Vedi, John… tu stai al football universitario come io sto a Piramide. È un incrocio tra football e basket, ed era… è lo sport nazionale delle Colonie. Il mio ex marito è un campione di quello sport. Stavo per entrare nel circuito professionista anni fa, però mi sono fottuta il ginocchio destro… fortunatamente te ne basta uno in salute per volare, e visto che avevo già vinto una borsa di studio per l’Accademia della Flotta Coloniale mi sono detta ‘perché no?’”

“ E per fottuta intendi…”

“Il medico che mi ha visitato dopo l’incontro ha detto che perfino un melone lanciato a terra dal quindicesimo piano di un palazzo sarebbe stato più integro del mio ginocchio.”

“Ah.”

“Vi state divertendo, qui?” disse Weir avvicinandosi al tavolo. Prese una delle birre dal tavolo, la aprì e ne bevve un sorso, senza sedersi.

“Stavo giusto per invitarti, Elizabeth.”

“Sì, come no” disse Weir, alzando un sopracciglio rivolta a John. “Se Caldwell non mi avesse gentilmente diretto qui... Di che stavate parlando?”

“Kara ci stava spiegando come si gioca a Piramide.”

“Ah… a proposito, Kara… credo tu mi debba la rivincita.”

“Sicura, Elizabeth? Col tuo ginocchio…”

“Ma senti chi parla.”

“Guarda che è pericoloso darmi corda sullo sport.”

“Credo sia pericoloso darti corda sempre e comunque.”

“Ok” disse John, guardando le due donne perplesso. “Mi sono perso qualcosa?”

Per tutta risposta Elizabeth sorrise, disse che aveva da fare, e se ne andò via bevendo la sua birra.

John tentò di far parlare Kara, ma d’improvviso Kara sentì l’impulso di commentare il bel tempo che si vedeva dalla finestra. Aveva promesso di tenere i workout con Elizabeth segreti, e così avrebbe fatto. Una sera l’aveva trovata che usciva dall’infermeria con una boccetta piena di antidolorifici per il mal di schiena e il torcicollo che ormai aveva in pianta stabile, e le aveva detto che, forse, poteva staccare la spina per un po’ e venire a correre con lei per rilassarsi. Elizabeth per poco non le aveva riso in faccia, ma alla fine Kara l’aveva convinta e si era adeguata ai suoi livelli da principiante. Ed Elizabeth aveva capito che se una sera a settimana staccava la spina e correva mezzora con Kara (lontano da sguardi indiscreti… dopotutto era pur sempre il capo), Atlantis non sarebbe sprofondata.

 

***

 

Sarah spalancò gli occhi, svegliandosi di colpo. Non capiva ancora bene dove fosse, ma una cosa la sapeva, non era nella nave di quei maledetti alieni. Questo era bene… ma l’essere legata al letto no. Approfittando di quel momento di pensiero coerente, che sapeva sarebbe durato poco, cercò di lasciar perdere la comunicazione e osservare il più possibile quello che la circondava. E si sorprese di trovare molte cose familiari. L’architettura, alcune macchine mediche che vedeva, perfino il suono delle porte quando si aprivano e chiudevano. Un nome si materializzò nella sua testa, strappandole un sorriso.

Atlantis.

Quella era Atlantis.

Città roccaforte degli Antichi, nave spaziale, unico punto della Galassia di Pegaso da cui fosse possibile raggiungere la Terra. Sprofondata nell’oceano per sopravvivere all’assedio posto dai Wraith. Evacuata, se non sbagliava, diecimila anni prima.

Le informazioni si accavallavano nella sua testa, ma avevano un loro ordine. E poi le preferiva alla confusione che i Wraith le avevano messo dentro, cercando di farle rivelare il suo segreto. Ma lei sapeva chi erano, sapeva quel che avevano fatto. Gli Antichi stessi glielo avevano rivelato attraverso le loro conoscenze.

Guardò il medico che si era occupato di lei in quei giorni. Aveva capelli neri e occhi blu, parlava una lingua che capiva solo in parte, ma aveva un sorriso e modi rassicuranti. Era bello essere nelle mani di un uomo di scienza che non l’avrebbe torturata.

Carson si avvicinò a Sarah, e vedendola calma e sveglia le sorrise e approfittò del momento per parlarle.

“Ti senti meglio?”

Sarah voleva rispondere, ma come al solito dovette concentrarsi per riuscire a far coincidere quel che voleva il suo cervello con quello che la sua bocca doveva fare.

“M-Meglio. Stan… Stanca.”

Carson le scostò i capelli dalla fronte, spiegandole che era l’astinenza dalla droga Wraith.

“Il recupero sarà lento, ma una volta che sarà completamente uscita dal sangue potremo cercare di farti stare meglio. Solo che non sappiamo come il tuo corpo reagisce a questa droga. Insomma, tu sei…”

“Macch… Macchina?”

“Stavo per dire aliena. O Cylon. Tesoro, la tua fisiologia è troppo complessa per definirti semplicemente macchina. I Replicanti sono macchine. Voi siete l’anello mancante tra noi e loro.”

“Re-Replicanti. Asura. Armi contro i Wr-Wraith. Nemici c-che non possono ferire.”

“Era vero fino a poco fa. Ora possono ferirci eccome.”

Sarah chiuse gli occhi e sospirò per lo sforzo di mantenere la concentrazione.

“Ques-Questa è Atlantis, vero?”

“Sì, siamo ad Atlantis.”

Sarah sentì il controllo venirle meno, e cercò di concentrarsi di più ma inutilmente. Rispondere a Carson e spiegare come faceva a sapere, era veramente troppo. Il controllo le stava scivolando di mano, non riusciva più a dire quel che voleva dire. Lanciò uno sguardo dispiaciuto a Carson, e ritornò nel suo personale inferno.

Carson notò subito la differenza. Sarah iniziò a muoversi irrequieta contro le restrizioni, e la sua voce ritornò sicura e senza incertezze.

“Atlantis è piena di fantasmi, loro credono che non li veda, ma so che ci sono…  sanno quello che hanno fatto, e quello che dovevano fare e non hanno fatto…”

“Sì, Sarah” disse il dottor Beckett preparandole un’iniezione di sedativo.

“La testa mi uccide” si lamentò. “Antichi, ordine. Wraith, confusione. Luce, ombra… Cadrai dall’oscurità, debole e sconfitto, nell’oscurità…”

Il medico iniettò la medicina nella flebo che le entrava nel braccio.

“Questo ti terrà calma.”

“Loro volevano farmi parlare, ma io non ho detto niente” disse sorridendo orgogliosa.

“Sei stata molto brava.”

“La velocità subluce di una classe Aurora è di 0.9 la velocità della luce. Il tylium è inadeguato, bisogna trovare una nuova fonte di energia, la basestar non può reggere la potenza dei nuovi iperluce, bisogna fare delle modifiche… un modulo punto zero sarebbe la scelta migliore, ma la difficoltà a reperirli dovrebbe farci orientare verso generatori alimentati a naquadria, dopo aver arricchito il minerale artificialmente… il professore prende sempre il caffè nel suo studio, Jack, glielo porto io, non ti preoccupare…”

Sarah chiuse gli occhi, e ritornò nell’incoscienza. Carson la fissò per qualche istante, poi andò ad aggiornare la sua cartella. Si era appena seduto, che sopraggiunse Elizabeth.

“Allora, Carson, come procede?”

“È a tratti lucida, poi inizia a straparlare… il minimo comune denominatore in queste crisi è che fa sempre riferimento agli Antichi e alla tecnologia, della sua razza e loro. I Wraith credevano che drogandola l’avrebbero resa più malleabile…”

“…mentre avrebbero dovuto smettere di somministrarle l’enzima per un po’ e stare a guardare.”

“Forse l’hanno fatto ma era ancora troppo presto per vedere degli effetti, chi lo sa.  Ad ogni modo, è come se le conoscenze degli Antichi stessero cercando di prendere il sopravvento… forse inconsciamente ci si appoggia per non perdersi del tutto.“

“Di cosa parla?”

“Ha detto che i subluce delle navi da guerra di classe Aurora vanno a quasi la velocità della luce. Che i motori della sua nave andavano modificati, che la fonte di energia era inadeguata. Parlava di modificare i generatori al naquadria per renderli più potenti e sostituire uno zpm.”

“Puoi portar via la scienziata dalla scienza…”

“Ma non puoi portar via la scienza dalla scienziata. Con il tuo permesso ora voglio andare a visitare l’uomo, Leoben. Quel virus è qualcosa che non ho mai visto prima per aggressività e resistenza. Vorrei studiarlo.”

“Sta attento, Leoben è un gran manipolatore. Kara mi ha detto molte cose di lui, e nessuna piacevole.”

“In questo momento non può fare del male a nessuno. Sta morendo, per questo non posso fare niente, ma credo che in fondo, sotto la sua natura ascetica, voglia farla pagare ai Wraith almeno quanto noi. E per riuscirci, deve lasciarmi fare il mio lavoro.”

 

 

***

 

Piccola nota... 'Cadrai dall’oscurità, debole e sconfitto, nell’oscurità' vorrebbe essere una traduzione alla buona di 'From the darkness you must fall, failed and weak, to darkness all'. Kara cita il verso in 'Final Cut', nella seconda stagione di BSG.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XI ***


Carson aveva ragione. Leoben non vedeva il perché di fare giochetti. Forse perché, come disse al dottore, quando si sta per morire tutto diventa chiaro. Vedeva quello che aveva fatto, e capiva che il suo percorso era alla fine. Ma che aveva dell’altro ancora da fare, prima di dire addio.

Kara però rifiutò di incontrarlo di nuovo, anche solo per pochi minuti. Sorvegliava via le telecamere gli interrogatori, arrivando perfino a suggerire alle volte le domande ai soldati dentro con lui attraverso la radio, ma non sarebbe mai più entrata nella sua cella. Boomer invece si era chiusa in un ostinato mutismo. Sembrava che dopo aver fatto rapporto sulla sua situazione, non avesse altro da dire. Alle volte chiedeva di Sarah, ma niente di più.

Sarah era l’unica che con il tempo iniziò sul serio a migliorare. Passati gli effetti della droga, Weir aveva dato l’ordine di incarcerare anche lei, ma aveva dovuto cambiare idea subito perché Sarah aveva avuto una crisi di panico minuti dopo essere entrata. Vista la sua precaria sanità mentale, Carson suggerì di tenerla sotto sorveglianza con un bracciale elettronico, e di affidarla alla sua tutela. La cosa aveva sorpreso molti alla base, ma non Elizabeth. Carson aveva una gran carica di empatia dentro di sé, era per questo che era un ottimo dottore. Sarah era totalmente indifesa, e visto che i suoi amici non potevano proteggerla, l’avrebbe fatto lui.

Kara lo avvertì di non avvicinarsi troppo, ma qualcosa nei suoi occhi le fece capire che era tardi. Era lo stesso sguardo che aveva Helo su Caprica, quando aveva trovato lui e Sharon, e lui le aveva detto che Sharon era incinta. Aveva urlato di rabbia e frustrazione perché non poteva capire come il suo migliore amico potesse essere così idiota da stare con una Cylon sapendo perfettamente chi o cosa lei fosse, e Helo l’aveva guardata a quel modo. Lui non vedova la Cylon, vedeva la persona. Vedeva la donna. L’essere umano. Pensò che l’ultima cosa che mancava a quel punto, era Carson e Sarah diventassero gli Helo e Sharon locali. Atlantis non era il Galactica, ma molti scienziati, McKay in testa, non vedevano la differenza tra lei e un Replicante. O un tostapane, come avevano sentito Kara chiamare i cylon più di una volta.

Kara fu certa di aver perso il dottore, quando quasi venne alle mani con McKay dopo aver sentito lo scienziato chiamare Sarah ‘tostapane’ assieme ad un gruppetto di scienziati. Zelenka se n’era andato scuotendo la testa, e mormorando qualcosa in ceco di cui l’unica parola che Carson comprese era ‘idiota’. Il dottore era appena reduce da una videoconferenza con l’SGC che annunciava l’imminente arrivo della Odyssey, in cui aveva dovuto riferire delle condizioni della sua paziente. Non esattamente dell’umore migliore per sentire quel genere di commenti. Ringraziando il cielo il maggiore Lorne era nelle vicinanze e aveva evitato che ci fossero conseguenze.

Sarah stava migliorando ogni giorno, ma per quanto riguardava la sua mente era un discorso diverso. I cylon avevano un concetto di emozioni come poteva averlo un bambino. Sarah aveva vissuto sei anni con gli umani delle Colonie, quindi con ogni probabilità aveva iniziato a capire quanto i sentimenti potevano essere complessi. Poi era ritornata dalla sua gente, e infine era stata imprigionata e torturata dai Wraith. E quest’ultima cosa era grave abbastanza per non riprendersi più.

Sarah però voleva ritornare quella che era. Ricordava tutto quello che era stata, quello che aveva appreso dagli Antichi e dai suoi amici di Caprica. Aveva imparato da loro cosa voleva dire essere umana, e questo glielo doveva. Il bracciale di sorveglianza lo capiva, e non era nemmeno una scocciatura. Il problema erano gli altri. Doveva essere questo quello che aveva provato Boomer sul Galactica, nonché ragione principale della sua decisione di starsene da sola nella sua cella.

Ma a differenza di Boomer, lei sapeva che le sue conoscenze potevano chiarire molte cose ai nuovi abitanti della città sui vari laboratori e sulla città stessa. Questa, oltre a sapere di essere molto ma molto più intelligente dell’insopportabile umano che chiamavano McKay, era la sua motivazione a impegnarsi nelle sedute di terapia con Carson e la dottoressa Heighmeyer.

E arrivò il giorno dell’arrivo della Odyssey.

 

“Non sembra eccitato” commentò Vala osservando Daniel che dormiva con la testa sul tavolo in sala mensa.

“Fidati” disse Cameron “È eccitato come un bambino la sera di Natale.”

“Credevo avessimo deciso di limitare i riferimenti culturali che non posso capire…”

“È così eccitato che è stato in piedi tutta la notte.”

“No, è solo perché è preoccupato da morire per l’esito della missione…”

E avrebbe voluto aggiungere che anche lui non aveva una gran cera. Non c’era voluto un genio in quei quattro mesi per capire che il colonnello e il maggiore non l’avevano raccontata giusta. Mitchell, almeno. Appena aveva saputo che Kara poteva tornare prima dalla missione, gli era tornato il buonumore. Poi aveva saputo che il maggiore Thrace aveva deciso di restare. Vala non avrebbe usato la parola ‘deluso’, ma era quella che più ci si avvicinava. Quei ciondoli servivano fino ad un certo punto, la cosa reale era mille volte meglio.

E, a quanto pareva, preferiva vivere in una galassia a milioni di anni luce da lui.

Ormai però non aveva più importanza. Avrebbe rivisto Kara entro pochi minuti, e avrebbe capito come stavano le cose tra loro. Erano ancora in tempo a troncare, dopotutto non c’era più niente di vincolante tra loro.

Con un pezzo di tovagliolo, si allungò per tormentare l’orecchio del compagno addormentato.

“Sveglia, raggio di sole. È ora di vedere che ti ha portato Babbo Natale…”

Daniel si svegliò di colpo, un attimo disorientato.

“Che c’è?”

“Buongiorno!” disse Cameron. “Siamo appena usciti dall’iperspazio. Immagino tu non ti voglia perdere l’atterraggio…”

Mentre Jackson controllava l’ora, la voce del colonnello Emerson annunciò l’entrata nell’atmosfera del pianeta. Daniel fissò sconvolto Cameron e Vala.

“Perché non me l’avete detto?!”

E corse via come un fulmine diretto sul punte di comando.

Vala sputò nella sua mani i semi del frutto che stava mangiando.

“Ok. È un po’ eccitato.”

 

“Eccitata, maggiore?” domandò la dottoressa Weir a Kara, che dal balcone osservava il cielo.

“Un po’. Dispiaciuta, anche. Non vorrei andarmene. Ma a quanto pare la mia squadra è sul punto di ammutinarsi… se non ci sono io a farli rigare dritto, pare combinino di tutto!”

Eliabeth sorrise.

“John sentirà la tua mancanza. E anche noi. Ti eri inserita bene.”

“Questo posto mi piace molto. Mi spiace non poter restare a darvi una mano coi Wraith” disse sfiorando sul petto l’area dove le era rimasta la cicatrice “Ma credo che John salderà il mio debito per me. Ehi, guardi, la Odyssey!” disse poi, indicando con il braccio una nave in lontananza che si stava avvicinando velocemente.

 

“Odyssey, siete autorizzati all’atterraggio” comunicò il responsabile nella torre di controllo di Atlantis.

“Grazie, iniziamo le procedure” rispose il colonnello Emerson, dando ordine al pilota di correggere la rotta e di iniziare a ridurre la velocità. In quel momento, Jackson arrivò correndo e si mise al fianco di Carter, seguito poi da Vala e Cameron.

“Eccoti, lo stavi per perdere” disse la donna.

 “Scherzi? Non l’avrei perso per niente al mondo! Quante volte ho provato a venire qui?”

“Due volte di queste non ci sei riuscito per colpa mia” disse Vala. Come dimenticare il loro primo incontro sulla Prometheus, e quando erano finiti legati da quei braccialetti goaul’d, costretti ad una vicinanza forzata fino a quando il legame non si era affievolito? Entrambi erano ricordi che Vala conservava con affetto… Daniel, un po’ meno.

“Odyssey, qui Weir. Volevo essere la prima a darvi il benvenuto ad Atlantis.”

“Grazie, dottoressa. Stiamo dando un’occhiata alla sua bella città intanto che ci avviciniamo.”

“Sentitevi liberi di prendervi un momento, ma il Comando Stargate vuole che la missione inizi appena finito di scaricare i nostri rifornimenti. Weir, chiudo.”

Jackson fece una smorfia. Finalmente era arrivato ad Atlantis, ma la sua missione non era quella che aveva previsto. Subito avrebbe fatto una chiacchierata con Kara, perché non capiva come mai non fosse riuscita a venire a capo di niente sull’arma e di tutto su Kobol. Poi, dopo il briefing, avrebbe visto questa famosa Sarah. C’era una possibilità che venisse trasferita al Comando Stargate, ma tutto dipendeva dalle valutazioni del dottor Beckett, di Weir, di Carter e sue.

“Daniel, che c’è?”

“Niente, Sam… è solo che speravo che la mia prima visita non fosse in circostanze così poco piacevoli.”

“È solo un’altra missione, Jackson.”

“Con il fato della galassia in pericolo.”

“Andiamo in continuazione in missioni del genere.”

“Vala ha ragione. Se non abbiamo successo, e gli Ori fanno passare altre navi dal supergate…”

“Come ha detto la signora, prendiamoci un momento.”

Seguendo il consiglio di Mitchell, i quattro fissarono in silenzio la meravigliosa città a cui si stavano velocemente avvicinando.

“Benissimo, momento finito. Andiamo a salvare la galassia!”

 

Kara batteva le dita sulla ringhiera, nervosissima. La Odyssey era appena atterrata ad Atlantis, e i rifornimenti stavano venendo immagazzinati in quel preciso momento. In contemporanea, John e Weir stavano discutendo con l’SG-1 il da farsi con quella pazza idea di usare uno stargate della galassia di Pegaso per tenere occupato il Supergate. Non era una scienziata, ma non ci sarebbe stato un problema di dimensioni tra i due anelli?

Ad ogni modo, appena finito il briefing, non ci sarebbe stato modo per lei di sfuggire a Daniel e Cameron. Due conversazioni che moriva dalla voglia di avere.

Sentì le porte della sala conferenze aprirsi, e le voci di John e Cam. Cameron stava facendo i complimenti a John per la città, e John come al solito aveva fatto una battuta delle sue, oltre a dargli consigli (e un limone) per vedersela con McKay, in prestito, a quanto pareva, all’SG-1. 

Cam parlò brevemente con Daniel, e poi la vide sul balcone. Bene, il momento era arrivato. Cam guardò Kara appoggiata coi gomiti alla ringhiera, con addosso la divisa della spedizione, e mentre andava da lei ripassò il discorso che si era preparato in due mesi e mezzo, ovvero da quando Kara aveva rifiutato di tornare sulla Terra. Non c’era niente di scritto, di definitivo tra loro. Avevano dormito insieme quante volte? Quattro? Cinque? Conoscevano dettagli inimmaginabili l’uno dell’altra, ma l’immagine generale continuava a sfuggire. Infatti era convinto che, visto che non era stata in grado di concludere niente, sarebbe tornata subito sulla Terra a quello che sapeva fare, alla sua squadra che solo lei pareva in grado di tenere in riga. Invece Kara aveva trovato motivi per restare, che Landry però non aveva voluto digli. Sapeva della cattura e della prigionia sulla nave Wraith, ma anche quello per lui sarebbe stato un motivo per tornare e non per rimanere.  

 

Kara lo osservò avvicinarsi, fino a quando non le fu accanto sul balcone. Il cuore le batteva all’impazzata. Dei, e ora?

“Kara.”

“Cam.”

Si guardarono un attimo, e poi tornarono a fissare il pavimento e l’oceano.

“Come va sulla Terra?”

“Bene. Atlantis?”

“Tutto a posto.”

“Bene.”

“Bene.”

Ok, si disse Kara, ora o mai più.

“Mi sei mancato.”

“Mi sei mancata” disse Cameron nello stesso momento, e tutti e due sorrisero divertiti della cosa. Cam scosse la testa, e strinse forte Kara tra le braccia. Kara nascose la faccia contro il suo collo, e ricambiò la stretta. Rimasero così parecchi minuti, completamente inconsapevoli di tutto quello che li circondava o che stava per succedere.

“Mi sei mancata” sussurrò Cameron, lasciandola andare.

Kara sorrise “Come, niente rimproveri per la stronza che ha preferito una città al suo ragazzo?”

“Non ti preoccupare, a quello ci arriveremo. Al momento però sono solo felice di guardarti. Ho sentito che ho rischiato di non poterlo più fare.”

Kara abbassò lo sguardo “Hai sentito della mia avventura coi Wraith, allora.”

“Tu sei geneticamente incapace di non ficcarti nei casini, vero Kara?”

Kara pensò un attimo a John, e rise “Sì, è una tara di famiglia. E a proposito di famiglia…”

John scelse proprio quel momento per raggiungerli. Cam si allontanò da Kara per non destare sospetti, ma l’unica cosa che vide sulla faccia di Sheppard fu un’espressione divertita.

“Allora, è lui?”

“È lui” disse Kara annuendo.

“Fate capire anche a me?”

Kara si avvicinò a John “Weir mi ha detto che ‘quella cosa’ all’SGC la sa solo Landry. Direi però che è il caso di dirla anche a lui, che ne dici?”

“Dirmi cosa?”

John annuì e disse che era d’accordo.

“Bene… Cam, ti voglio presentare John.”

“Kara, ci siamo conosciuti prima, in sala conferenze.”

“No, lì hai conosciuto il colonnello Sheppard. Questo è John… mio cugino e unico mio parente rimasto nella galassia.”

Cameron prese un’aria incredula e sbatté gli occhi un paio di volte.

“Certo che ne sono successe di cose dall’ultima volta che ci siamo visti… Scusa, questa me la devi spiegare. Cugini?”

“Non lo sa nemmeno Beckett come possa essere possibile, eppure eccoci qua” disse John.

“Caspita… dev’essere stato uno shock. E da quanto lo sapete?”

“Da quando mi hanno salvato dalla nave Wraith. Era nel rapporto inviato all’SGC, ma a quanto pare Landry ha preferito che fosse una sorpresa.”

“E che sorpresa.”

“Eh già. Mi spiace di non poterti dare una mano, ma il programma delle esplorazioni è fatto e sarò fuori mondo durante la missione.”

“Goditela, considerato che sarà l’ultima tua avventura in questa galassia. Ho intenzione di riportare di peso il tuo posteriore sulla Terra, maggiore, ti piaccia o no.”

“Cos’è, minacci mia cugina?”

“Dio me ne scampi, l’ira funesta di Kara è qualcosa di leggendario!”

John annuì con aria di sapere che voleva dire, e Kara gli tirò una gomitata. Poi tutti e tre si fecero una risata, e ognuno ritornò al suo lavoro.

Kara, per l’occasione, avrebbe avuto una squadra totalmente diversa. I soldati della sua squadra erano stati requisiti dalla Odyssey, e per la prima volta avrebbe comandato un team scientifico.

Si fece una risata. Era quello che McNamara le aveva addotto come ragione per non andare nella galassia di Pegaso. Fare la balia a degli scienziati, come diceva lui, gli sembrava uno spreco del talento della ragazza.

Il team comprendeva il dottor Zelenka, il dottor Graydon, il tenente Cadman e l’appena arrivata dottoressa Crenshaw, che aveva terminato la missione su Kobol. River appena aveva visto Kara si era data ad una delle sue calorose cerimonie di accoglienza, neanche fosse Kara l’ultima arrivata. Trovava interessante che l’ultima missione di Kara coincidesse con la sua prima. Kara guardò il suo team (un ingegnere, un fisico, un marine, e un’archeologa) con un sopracciglio alzato, ma diede comunque ordine dopo il briefing di andare a prepararsi. Sarebbe stata un’esperienza interessante.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=137950