Three Stones

di Frytty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Time ***
Capitolo 3: *** I'm not sure I can make it ***
Capitolo 4: *** It's Gonna be Alright ***
Capitolo 5: *** Help ***
Capitolo 6: *** I Miss You so Bad ***
Capitolo 7: *** Talk ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Buon sabato pomeriggio a tutti!

Come promesso, un pelo prima della pubblicazione dell'Epilogo di C'era una stella che danzava, e sotto quella sono nata, ecco la mia nuova, ennesima, fatica sul meraviglioso ragazzo che è Robert Pattinson ^.^

Che dire di questa Ff? Affronta un tema piuttosto delicato, come si denota nella trama e spero di riuscire a trasmettere a voi tutto quello che questa Ff sta trasmettendo a me, mentre la scrivo, perciò spero ne valga la pena.

Vi ricordo il gruppo su Facebook: You thought you know me, attraverso il quale verrete a conoscenza di personaggi, spoiler, date di pubblicazione dei nuovi capitoli e molto altro (è un gruppo Privato, perciò occorre richiedermi il permesso, ma tranquille, accetto tutti, nessuno escluso *.* basterà che mi inviate il vostro nome su Facebook et voilà! Vi inserirò in men che non si dica).

Il mio profilo autore, sempre su Facebook: Frytty Efp

E, se potesse interessarvi, il mio profilo su Twitter: Frytty

Detto questo, cosa dirvi? Mi farebbe piacere che commentaste, esprimendovi su questo Prologo che, mi rendo conto, non è molto, ma, allo stesso tempo, è molto importante e da' avvio alla storia :)

Ringrazio sin da ora quanti si appresteranno a seguirmi in questa nuova, piccola avventura *.*

 

P.S Per il primo capitolo non dovrete attendere a lungo; probabilmente, pubblicherò martedì :)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.0- Prologue

 

Quando entro nell’ascensore e schiaccio il numero quattro illuminato, seguito a ruota da un infermiere, che preme il numero del piano appena sopra il mio, e da una dottoressa che mi sorride incoraggiante, che preme uno degli ultimi pulsanti, quelli che conducono ai piani ai quali sono riservati gli uffici, lo faccio con la consapevolezza che tutto quello che mi diranno mi distruggerà, che qualsiasi cosa i dottori mi comunicheranno mi frammenterà il cuore e mi lacererà l’anima. 

Non sono mai stata una persona molto coraggiosa; ho sempre avuto paura dei medici, degli ospedali, dei camici verdi che mi costringono a trattenere il respiro, delle barelle che vengono trasportate lungo i corridoi con i pazienti addormentati e ignari, delle flebo e degli aghi che ti pungono la pelle, eppure, negli ultimi mesi, avevo creduto che, quando avrei messo piede in ospedale, sarebbe stato per festeggiare la nascita di una nuova vita e, in parte, riuscivo a rinfrancarmi, riuscivo a convincermi che niente sarebbe potuto andare storto, che, in quel momento, non avrei potuto avere paura, perché Solephine avrebbe avuto bisogno di me, della mia mano stretta intorno alla sua, delle mie parole di incoraggiamento, del mio profumo che la circondava.

Non potevo sapere che avrei fatto bene ad essere spaventato; non sapevo che, quando il telefono era squillato ed io avevo letto il nome di mia madre, la mia vita non sarebbe stata più la stessa. D’altronde, come potevo?

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Capitolo 2
*** Time ***


Buonasera a tutte!

Per questo aggiornamento, purtroppo, non posso prendermi il tempo e la calma che vorrei, perché sono un po' di fretta, ma sono anche una persona di parola e, poiché vi avevo promesso che avrei aggiornato con il primo capitolo martedì, eccomi :)

Risponderò a tutte le recensioni, promesso, ma, per questa volta, ho preferito dare precedenza al capitolo e sono sicura che sarete d'accordo con me.

Cosa dire? Nel primo capitolo avrete già diverse risposte, perciò, non posso anticiparvi davvero nulla ;)

Ci tengo, invece, a ringraziare le persone che hanno commentato il Prologo e la Ff appena conclusa, C'era una stella che danzava, e sotto quella sono nata, tutte coloro che hanno letto e che hanno già aggiunto la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare: GRAZIE! Non so davvero in che altro modo esprimervi la mia riconoscenza *.* la fiducia che riponete in me è un grande stimolo, davvero <3

Vi auguro una buonissima continuazione di settimana e, ovviamente, una...

 

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

How to save a life-The Fray

 

 

1. Time

 

 

 

< Robert… > Quando esco dall’ascensore, mia madre mi viene incontro e riesco a leggere sul suo volto la preoccupazione e l’orrore, così come riesco ad inquadrare i suoi occhi stanchi e lucidi di lacrime che sta cercando di trattenere.

< Lei dov’è? > Chiedo con un filo di voce, l’impressione che potrei svenire da un momento all’altro, proprio lì, nel caos di infermieri e medici che mi sfiorano appena per raggiungere un paziente o per richiedere l’intervento di un’assistente.

< E’ ancora in sala operatoria; l’intervento potrebbe durare più del previsto… > Mormora, come se non potessi sentirla, come se potesse evitarmi altro dolore.

Guardo oltre la sua figura e noto mio padre e le mie sorelle seduti sui seggiolini di plastica del corridoio, che osservano confusi il via vai concitato del personale di servizio e hanno l’aria di chi vorrebbe essere ovunque, tranne che seduto lì, in attesa; e poi noto Sofia, lo sguardo perso, un bicchiere di the fumante in mano, dal quale sembra non avere intenzione di bere e i capelli scarmigliati, lei, che si rifiuta anche solo di fare colazione in vestaglia, e penso che è sola, che non ha un marito disposto a poggiarle una mano sulla spalla a mo’ di conforto, che deve sentirsi persa, sapendo che sua figlia è in pericolo di vita e che adesso, ora come ora, a dispetto della situazione drammatica, ha solo me e allora vado da lei, lanciando uno sguardo di scuse a mia madre.

Quando mi siedo accanto a lei, neanche se ne accorge, così interessata alle luci intermittenti del distributore automatico di fronte a noi, a qualche metro di distanza. Non alza gli occhi su di me, non da’ segni di essersi accorta della mia presenza ed io per un po’ faccio come lei: osservo le luci del distributore automatico, ignorando i colori dei camici dei medici e il chiacchiericcio generale che alberga presso il banco informazioni; per un po’, mi isolo da ciò che mi circonda e chiudo gli occhi, non completamente in me. Quando li riapro, probabilmente sono diventato evanescente, un essere senza forma, né consistenza, perché non provo alcuna emozione, quasi mi stessi osservando dall’alto, quasi la mia anima si fosse divisa dalla mia parte corporea, e adesso mi stesse osservando dal soffitto. Sono in un’altra dimensione e potrebbero fare di me ciò che vogliono, perché io glielo permetterei.

Poi avverto un calore estraneo sul braccio e allora abbasso lo sguardo, accorgendomi che si tratta di una mano, una mano e un calore amici, una mano che conosco fin troppo bene, con le rughe in rilievo e gli anelli d’oro dai quali non si separa mai.

< Andrà tutto bene. > Mormoro, ma la voce non è la mia e non so da dove proviene, anche se Sofia mi osserva con le lacrime agli occhi e il volto struccato che la fa sembrare fragile e indifesa come una bambina.

Annuisce e chiude gli occhi e poi annuisce ancora, mentre le lacrime le solcano dolcemente le guance, stringendomi il cuore e lo stomaco. Vorrei vomitare, o forse no, forse è solo la paura, forse è solo il terrore.

E pensare che non volevo che prendesse la macchina, non volevo che guidasse. Mi ero offerto di mandarle una macchina per raggiungermi, perché se lei si metteva al volante, io avrei trascorso il quarto d’ora peggiore della mia vita, preoccupandomi che potesse succederle qualcosa, qualsiasi cosa; ma lei non aveva voluto darmi retta, aveva insistito e poi ho voglia di guidare, aveva detto, anche se era all’ottavo mese di gravidanza, anche se non poteva allacciarsi la cintura di sicurezza, anche se il traffico era un inferno, considerato l’orario. E allora io avevo sospirato e le avevo detto di fare attenzione, di essere prudente e la sua risata allegra, quella di chi pensa che l’interlocutore stia dicendo solo un mucchio di stupidaggini, mi risuona nelle orecchie anche adesso, anche ora che stringo sua madre tra le braccia e cerco di convincermi anch’io che andrà tutto bene, perché Solephine è forte, perché ha sempre lottato per le cose alle quali teneva e lei alla vita ci tiene, vuole viverla e ce la farà.

L’uomo che l’ha travolta con il suo camion è al pronto soccorso e non ha riportato gravi ferite, solo un leggero trauma cranico e qualche contusione, invece lei è in sala operatoria e forse non ce la farà, perché, nonostante la speranza sia l’ultima a morire, nonostante i medici si siano ripromessi di fare il possibile, l’imprevedibile è dietro l’angolo e loro non possono fare miracoli, lo so.

Una ragazza dai capelli lunghi, castani con qualche riflesso rosso, occupa la mia visuale per qualche minuto. E' davanti al distributore di bibite, inserisce le monete e preme qualche pulsante. Il tonfo della lattina di aranciata arrivata a destinazione, mi spaventa e mi fa sussultare, mentre la ragazza piega appena le ginocchia, aprendo lo sportello di plastica trasparente per recuperarla. La apre subito, con dimestichezza, come se non facesse altro tutto il giorno, e beve un sorso, allontanandosi di qualche passo verso l'uscita d'emergenza. Non so perché la osservo; forse perché è troppo giovane per essere in un ospedale, forse perché non so cosa le è successo e sto cercando di immaginarlo. Prima di riuscire ad alimentare le mie fantasie, però, lei scompare, così come è apparsa.

Mi manca l'aria qui, ma non posso andare via, non posso abbandonare i miei genitori e Sofia, non se si tratta di Solephine.

I secondi, i minuti, le ore, trascorrono lentamente, quasi come se si divertissero a vederci soffrire, quasi come se godessero della nostra attesa straziante. E' trascorsa un'ora e mezza dall'ultima comunicazione dell'infermiera e ancora nessun dottore è uscito dalla sala operatoria alla fine del corridoio, la stessa sala con le porte di metallo, fredde e asettiche. Non è mai un buon segno quando passa così tanto tempo, no? E' quello che fanno sempre capire nei film, quando improvvisamente i familiari cominciano a piangere e il protagonista sembra sospeso in una bolla di sapone, distante da tutti.

Trascorre un'altra mezz'ora nell'apatia più totale, nel silenzio più agghiacciante, fin quando un vagito forte, simile ad uno strillo, spezza l'intera sala, tornando a farmi alzare lo sguardo per incontrare gli occhi confusi di mia madre. Non siamo nel reparto maternità.

Dopo qualche istante, il camice verde bottiglia di un dottore, ci sventola davanti ed io, senza neanche rendermene conto, sono già in piedi, dietro lui, e lo chiamo, sperando che si volti.

< Dottore! Dottore! > Insisto, seguendolo.

< Non posso dire niente, mi dispiace. > Commenta rapido, fermandomi con una mano.

< Sono ore che aspettiamo, dottore, la prego. > Sembra cambiare improvvisamente idea dopo le mie parole, così si ferma, osservandomi.

Ricambio l'occhiata, aspettando che sia lui ad intraprendere il discorso.

< Abbiamo fatto tutto il possibile, signor Pattinson, mi creda. E' entrata in coma e non sappiamo se e come potrà risvegliarsi. > Una stilettata al cuore avrebbe fatto meno male. Sento gli occhi riempirsi di lacrime.

< E il bambino...? > Riesco a stento a pronunciare quel nome.

< Abbiamo dovuto operare chirurgicamente con un taglio cesareo, ma il bambino sta bene, è in salute e presto potrà vederlo. > Accenna un sorriso, ma sembra capire che non era quella la notizia che aspettavo.

Dovrò crescere un bambino da solo, è questo quello che il suo sguardo, implicitamente, sta esprimendo; dovrò convivere con il dolore di non avere più mia moglie accanto; dovrò arrendermi a vederla in un letto d'ospedale per sempre, fino a quando non avrò il coraggio di sospendere le cure.

Abbasso lo sguardo sul pavimento bianco, mentre il dottore mi stringe una spalla con forza, cercando di trasmettermi il coraggio che non ho, prima di allontanarsi.

Torno indietro come un orfano sperduto, come un bambino che non può ancora capire che i suoi genitori lo hanno abbandonato e crede che qualsiasi donna sia sua madre, che qualsiasi uomo sia suo padre e continua a chiamarli senza sosta, anche se loro non si voltano. Sono io quel bambino abbandonato, adesso.

Mi accascio sulla sedia, prendendomi il volto tra le mani, il desiderio di strappare i capelli alla radice, di urlare tutta la mia disperazione, mentre sento gli occhi di tutti su di me, concentrati, in attesa di risposte, ma io non ho parole, non ho voglia di parlare, non ho voglia di piangere davanti a loro, davanti all'infermiera che avanza con un fagottino bianco tra le braccia, sorridente, mentre il mio mondo crolla senza che io possa fare altro che osservare il suo lento avanzare, il suo sorriso felice.

Non alzo lo sguardo quando si posiziona di fronte a me, intravedo soltanto le sue pantofole bianche e la sua gonna chiara.

< Signor Pattinson, questo è il suo bambino ed è uno splendido maschietto. > La sua voce appena stridula mi infastidisce, la sua felicità mi infastidisce, come se non sapesse che questo bambino dovrebbe conoscere prima la sua mamma, ma non può e si deve accontentare del viso deluso e rassegnato di suo padre.

Ripenso alla volontà di Solephine di non conoscere il sesso del bambino fino al giorno del parto, perché così sarebbe stata una sorpresa e lei adorava le sorprese; ripenso ai giocattoli che abbiamo accumulato nella stanza che avevamo fatto dipingere di giallo, perché è un colore neutro ed è adatto ad un maschietto, così come ad una femminuccia; ripenso alla carrozzina che ci hanno regalato i miei genitori non appena saputa la notizia della gravidanza e ripenso al suo volersi esercitare con un bambolotto per imparare a mettere bene i pannolini.

Piango e non so se di gioia o di dolore, fin quando non interviene mia madre, che afferra con delicatezza il fagottino tra le braccia e il suo viso si illumina di gioia e amore, avanzando con cautela verso di me, prendendo posto sulla sedia accanto.

< E' bellissimo, Robert. > Mormora e quando ho il coraggio di abbassare gli occhi e guardare il viso del mio primogenito, le lacrime premono ancora di più per uscire: ha i miei occhi azzurri, i pochi capelli che riescono ad intravedersi sono biondi, mentre le labbra sono della madre, sono sue, rosse, piene, perfette.

Ho paura di accarezzarlo, così come di prenderlo in braccio, ma mia madre non vuole sentire ragioni e mi incita a farlo, depositandomelo delicatamente tra le braccia, mentre mio padre, le mie sorelle e Sofia si avvicinano, commuovendosi.

< Avevate già deciso per un nome? > La voce dell'infermiera mi riscuote appena e il suo sorriso, adesso, non mi sembra più così fastidioso.

< Noi... eravamo ancora indecisi... non sapevamo sarebbe stato un maschietto, perciò... > Tentenno, impotente.

< Non c'è fretta, non si preoccupi. Torno a prenderlo fra qualche minuto, d'accordo? > Sorride ancora, prima di allontanarsi senza attendere una risposta.

< Dovresti chiamarlo James, a Sole piaceva molto, vero? > Commenta mia sorella, cercando un appoggio negli occhi di Sofia.

< Sì, è vero, le piaceva molto. > Afferma in risposta, osservandomi.

Io, di rimando, osservo lui, il mio bambino, che con i suoi grandi occhi azzurri sembra interrogarmi, mentre le manine e i piedini si agitano incontrollati, liberandolo dalla costrizione della coperta, rivelando una tutina bianca dai bordi blu.

Gli sorrido, permettendogli di stringere il mio dito, facendomi riconoscere. Vorrei che Solephine potesse vederlo, vorrei che fosse lei a stringerlo tra le braccia, adesso.

< Mi spiace separarvi, ma devo riportarlo al nido, sa', per i controlli. > L'infermiera tende le braccia. < Quale nome vuole che inserisca sulla targhetta? > Continua, sistemando la coperta.

< James. > Rispondo sicuro.

< Sua moglie è stata appena sistemata in sala intensiva; se vuole vederla, segua il corridoio e poi giri a destra; chieda di Rupert. > Anche lei mi stringe un braccio con forza, prima di dirigersi verso gli ascensori.

< Robert... > Mia madre mi scuote ed io solo in quel momento realizzo di essere rimasto a fissare il pavimento per dieci minuti abbondanti.

< Sicuro di stare bene? > Continua, sedendosi accanto a me.

< Sì, sto bene, sto bene. > No, non sto bene affatto, mamma. < Dovreste andare a casa, sai? Sono ore che siete qui e sarete stanchi... > Continuo, cercando di sorriderle.

< E tu cosa farai? > Mi domanda.

< Voglio vederla e poi andrò a casa. > Rispondo, stropicciandomi il viso.

< Per qualsiasi cosa chiamaci. > Mi accarezza il viso e mi bacia una guancia. 

Solo Sofia resta con me, in attesa di vedere sua figlia.

 

Rupert mi aiuta a vestirmi dello stesso camice verde bottiglia che indossa anche lui, a coprirmi le scarpe e ad indossare una cuffia per i capelli. Ho il cuore che batte a mille, come se stessi per vederla per la prima volta, come se potessi non riconoscere il suo volto.

< Solo pochi minuti, d'accordo? > Mi raccomanda, prima di lasciarmi entrare.

Solephine è lì, di fronte a me, vestita di un camice di carta bianco, gli occhi chiusi, i capelli sparsi sul cuscino e ancora impiastricciati di sangue. Ha dei lividi sul viso, qualche taglio sul braccio e le mani fredde. Sembra stare bene, non assomiglia alle vittima di un incidente, non ha ferite gravi.

Allora perché non si sveglia? Perché non apre gli occhi?

Il pancione è scomparso, ma lei è bella come sempre.

C'è uno sgabello vicino al letto; mi ci siedo, sfiorandole la mano, il polso, cercando di trasmetterle il calore che non ha.

Non ha un respiratore collegato, respira da sola, ma ha altri tubi collegati al braccio e il bip dell'elettro-cardiogramma mi fa compagnia. I battiti sono regolari. Ha anche una flebo collegata al braccio sinistro e una sacca di sangue.

< Sole, sono qui. > Le mormoro, sperando che possa sentirmi, accarezzandole la fronte e i capelli.

Le stringo la mano e non posso impedire a qualche lacrima di rigarmi le guance; le caccio indietro, perché, se può sentirmi, non voglio che senta la mia voce incerta e interrotta dai singhiozzi o dalle lacrime.

< E' un maschietto, sai? L'infermiera ha già affisso la targhetta con il suo nome, sul lettino; ho deciso per James, il nome che ti piaceva tanto, ricordi? > Lo so che non può rispondermi, ma io le parlo lo stesso.

< Vorrei che ci fossi anche tu a prendere queste decisioni, Solephine. Mi manchi come se fossero trascorsi anni e non ore. Devi svegliarti, non puoi lasciarmi da solo, Sole, non puoi. > Tiro su col naso e cerco di non piangere.

< Ti ricordi... ricordi che dicevi che... che volevi che avesse i miei occhi? Saresti contenta, sono azzurri come i miei e grandi come i tuoi... > Altre due lacrime seguono il percorso delle precedenti.

Ha il trucco sbavato ed è immobile, come una statua di marmo.

< Devo andare. Tua madre vuole salutarti, ma torno presto, d'accordo? > Mi alzo e le accarezzo di nuovo i capelli.

< Ti amo. > Le bacio le labbra con delicatezza, come se potessi romperla e la abbandono a malincuore, voltandomi indietro prima di varcare la porta che mi riporterà nel corridoio deserto dell'ospedale, dove solo Sofia mi aspetta.

Ringrazio Rupert con un cenno e mi libero della vestaglia, della cuffia e dei copri-scarpa, cedendo il posto a Sofia.

Voglio tornare a casa.

Voglio addormentarmi e scoprire, domani mattina, che è stato solo un incubo, che Solephine è ancora nella sua parte di letto che dorme, che non si sveglierà fin quando non sarò io a farlo, abbracciandola e accarezzandole il pancione.

Voglio chiudere gli occhi e non essere costretto a riaprirli, ritrovandomi da solo, annientato, i cocci di una vita da rimettere insieme.

Vorrei aver insistito di più per mandarle quella macchina e per non farla guidare.

 

La casa è vuota, nessuna luce accesa, nessuna tavola apparecchiata per la cena; solo la boccia di pesci rossi in un angolo e il senso di vuoto che mi pervade. Non riesco neanche ad essere felice del fatto che da domani dovrò occuparmi di James, che potrò portarlo a casa, perché non era così che l'avevo immaginato.

Lascio le chiavi nello svuotatasche all'ingresso, avvicinandomi alla boccia di vetro dei pesci per dar loro il mangime. Li invidio, in questo momento: hanno una memoria non superiore ai tre minuti, perciò, fra tre minuti, non ricorderanno di trovarsi in una boccia, di essere un gruppo, di avermi mai visto dar loro da mangiare. Vorrei dimenticare tutto anch'io, subito, perché tre minuti sono troppi.

Opto per una doccia e, anche se il letto è troppo grande per una persona sola, mi ci stendo ugualmente, assicurandomi che il cellulare rimanga acceso sul comodino, in caso di emergenza, poi spengo l'abat-jour e chiudo gli occhi.

So già che non dormirò, so già che non farò altro che fissare il soffitto e attendere che faccia giorno, so già che i raggi del sole mi feriranno gli occhi, perché ho dimenticato di chiudere le tende, perché era lei che se ne ricordava, era lei che lo faceva sempre, prima di andare a dormire.

Osservo il cellulare sul comodino; cosa spero? Che squilli, che sia l'ospedale, che sia Rupert che mi comunica che mia moglie ha riaperto gli occhi?

E' troppo presto, devi darle del tempo. 

E' quello che mi suggerisce la mia coscienza; potrebbe svegliarsi anche domani, o fra un mese, nessuno può dirlo, ma stanotte no, stanotte è troppo presto, anche se a me sembrerà comunque troppo tardi.

Chiudo di nuovo gli occhi, ma non riesco ad abbandonarmi, non riesco a sentirmi al sicuro senza di lei.

Mi manca.

E' troppo presto, devi darti del tempo.

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Capitolo 3
*** I'm not sure I can make it ***


Buon salve a tutte!

Scusate il misunderstanding di venerdì, ma pensavo davvero di riuscire ad aggiornare; poi, al solito, mi sono lasciata risucchiare dagli eventi della vita vera e ho dovuto dire addio alla pubblicazione -.-"

Comunque, eccomi qui :) Sono indietro con un mucchio di cose, in quest'ultimo periodo, specialmente se penso alle serie TV, avrò, come minimo, venti puntate da recuperare tra tutte le serie che seguo, ma spero di non rimanere indietro con la Ff, perché vorrei portare avanti il progetto del pubblico un capitolo, ma ho già pronto quello successivo, in modo da non trovarmi sempre all'ultimo secondo a fare le cose. Vero è che l'ispirazione, purtroppo, non sempre c'è e che gli impegni universitari sono sempre in agguato, anche se questo è il mio ultimo anno, perciò, dato che i corsi stanno finendo, avrò solo molto da studiare e scartoffie da preparare per la futura tesi; comunque, spero di riuscire a far tutto, anche perché questa Ff non è semplicissima da scrivere e i sentimenti, si sa, spesso rimangono intrappolati nella gola e sulle dita e non vogliono uscire e, visto che devo attingere a molti di essi per la storia di Rob e Solephine, ho bisogno di essere nel mood giusto.

In ogni caso, la mia pagina Facebook, che ricordo essere You thought you know me, è sempre lì per chiunque volesse conoscere in tempo reale aggiornamenti, status delle mie Ff, work in progress e chi più ne ha più ne metta. Ricordo che il gruppo è privato e che per accedervi, dovete inviarmi una richiesta tramite messaggio privato direttamente su Facebook (trovate il mio profilo nella mia pagina autore, in alto), in modo tale che possa accettare la vostra amicizia e poi inserirvi nel gruppo :)

Tornando al capitolo, che dirvi? Qui conoscerete un po' meglio la relazione tra Rob e Candice e leggerete un primo ricordo di Robert sul loro primo incontro. Proprio per quanto riguarda i ricordi, volevo portarvi a conoscenza del perché ho deciso per la terza persona e non per la prima come per il resto della storia: innanzitutto, perché così posso immedesimarmi in ogni personaggio coinvolto; e poi perché posso raccontarvi di tutti quei dettagli che a me sembrano assolutamente necessari per rendere il ricordo più vivido, lasciandovi immergere in quell'atmosfera. Mi sembrava giusto che lo sapeste, altrimenti avreste potuto reputarmi una mezza pazzoide :P

Detto ciò, ringrazio, come sempre, tutte le persone che si sono fermate a commentare lo scorso capitolo, o semplicemente a leggerlo, e tutti coloro che hanno inserito la Ff tra le preferite, seguite, da ricordare: GRAZIE <3

 

Vi auguro una buona continuazione di settimana e una...

 

 

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mad World-Gary Jules

 

 

 

 

2. I'm not sure I can make it

 

 

 

 

 

 

Quando il telefono squilla, annunciandomi l'arrivo di una chiamata, apro gli occhi di scatto; in realtà, non ho dormito affatto: sono scivolato in un dormiveglia vigile, come se, da un momento all'altro, mi aspettassi la visita di un ladro, desideroso di fare scorta di tutti gli aggeggi tecnologici sparsi per casa. Solephine, da brava giornalista che si rispetti, era riuscita a ricavare uno spazio per sé e per il suo lavoro in salotto, di fronte all'enorme parete di vetro da cui si poteva godere la vista spettacolare dei grattacieli di New York. Aveva trascinato dal suo vecchio appartamento il computer portatile e la stampante e poi, senza badare a spese, aveva pensato di arricchire il suo armamentario con uno scanner, un fax, una macchina fotografica professionale e un computer fisso. In realtà, quest'ultimo lo usavamo entrambi, ma se io, per la maggior parte del tempo, non facevo altro che curiosare su Youtube e visitare siti di vendita di libri on-line, alla ricerca di qualche nuovo titolo interessante, lei non faceva altro che controllare la posta elettronica, scrivere, tenersi continuamente aggiornata sulle ultime news e lavorare.

Dò un'occhiata allo schermo del cellulare, rendendomi conto che sono già le sette e un quarto di una giornata grigia e umida, preludio autunnale, sorridendo appena alla vista del nome di Tom.

< Ehi. > Rispondo senza entusiasmo, scostando le coperte per alzarmi.

< Rob! Sono in aeroporto, mi sono precipitato a New York appena ricevuta la notizia. Mi ha telefonato tua madre, ieri mattina e credevo di essere finalmente diventato zio, invece... > Lascia la frase in sospeso, ma non c'è bisogno che la continui, perché so cosa vorrebbe dirmi e so che le parole, adesso, non sono quello di cui ho bisogno.

< In effetti, lo sei, di un bellissimo bambino. Ho pensato di chiamarlo James, sai, a Sole piaceva molto, così... > Mi stropiccio gli occhi e i capelli, lo stomaco che si chiude in una morsa piacevole al solo nominare mio figlio, il bambino che mi sta aspettando, che, anche se solo nella mia immaginazione,  non vede l'ora di ammirare la sua stanza, di ricevere i regali, di essere coccolato da tutti e, mentre attendo la risposta di Tom, mi volto ad osservare l'altra metà del letto, intatta e fredda, vuota.

< Sì, Lizzie mi ha mandato un messaggio mentre ero in partenza. Senti, so che probabilmente non è il momento migliore per te e so che non vuoi altri problemi, ma... > Lo interrompo, completando la frase per lui.

< Non dovresti neanche chiedermelo, Tom. Casa nostra è anche casa tua. > Infilo i piedi nelle pantofole, rabbrividendo per lo sbalzo di temperatura improvviso: devo aver dimenticato di regolare il condizionatore, un'altra delle cose a cui pensava lei. 

< Ok, d'accordo allora. Sarò da te tra mezz'ora. > Mi informa, mentre il rumore dei clacson sovrasta già la sua voce.

< Perfetto. A più tardi. > Riaggancio e raggiungo il bagno, aprendo il rubinetto della doccia, posizionandolo sulla striscia rossa, mentre mi sciacquo il viso, osservandomi allo specchio, stanco e vuoto.

Non avevamo fatto altro che progettare la nostra vita insieme, io e Solephine, persino durante il nostro primo appuntamento. Lei era in vacanza in Inghilterra, a Londra, ed io, per puro caso, proprio in quei giorni dovevo promuovere uno dei miei ultimi lavori. Fu allora che constatai che era proprio vero che l'amore, meno lo si cercava, e più ce lo si trovava davanti agli occhi. Non avevo voluto più saperne di storie serie, e le avventure di una notte non facevano per me, così mi accontentavo del mio lavoro e degli amici, senza nessuna aspettativa, fin quando mia sorella Lizzie, al party che era seguito dopo la visione del film in anteprima, non mi aveva presentato questa splendida ragazza dai capelli scuri e gli occhi verdi, qualche lentiggine appena accennata sul naso e sulle gote e un fisico minuto e proporzionato. Credevo di sognare, di aver atteso per così tanto tempo qualcuna che fosse in grado di farmi battere davvero il cuore, che avevo addirittura cominciato ad immaginarmela; invece, era davvero lì, davanti a me, un sorriso aperto e sincero e la mano tesa in segno di saluto.

 

< Robert, lei è Solephine; Sole, lui è Robert, mio fratello, la stella più luminosa di Hollywood. > Lizzie si prende gioco di lui con facilità, senza offenderlo, facendo sorridere la cerchia di amici che li circonda, Solephine compresa.

< Wow, non credevo di poter incontrare delle vere star, qui. > Solephine tese la mano, sorridente, mano che Robert strinse con qualche secondo di ritardo, troppo impegnato a studiare i suoi capelli spettinati dal vento leggero, gli occhi verdi messi in risalto da un filo di matita nera, il vestito elegante e leggero che la faceva assomigliare ad una fata dei boschi.

< E io non credevo di incontrare una giornalista giovane come lei. > Le rispose lui, cortese, offrendole un flute di champagne, indicando il pass che le penzolava dalla piccola borsa che la sua coinquilina aveva insistito nel prestarle, altrimenti, dove l'avrebbe messo il cellulare? e un assorbente d'emergenza? e il biglietto da visita di qualcuno di importante? e le chiavi? e la tessera dell'autobus?

< Oh, beh, quella... in realtà, sono in vacanza qui con un'amica e ne ho approfittato. > Rispose impacciata, giocherellando con un anello d'argento che portava all'anulare della mano destra.

< Lavora per un giornale importante? > Robert sorseggiò il suo champagne, infilando una mano in tasca con non-chalance, gli occhi stretti per colpa del vento.

< Dovresti darmi del tu, sai? Ho la tua stessa età e darmi del "lei" mi fa sentire... vecchia. > Rise, contagiandolo. < Comunque, sto ancora cercando un posto che mi soddisfi presso un giornale che abbia una certa influenza, perciò mi accontento di lavorare come giornalista free-lance nella sezione "Moda e Spettacolo" di un piccolo quotidiano di quartiere, niente di eclatante... > Continuò, guardandosi attorno.

< Lo è. Interessante, intendo. Come hai trovato il film? > Non sapeva neanche perché gliel'aveva chiesto. Forse, soltanto perché aveva bisogno di trovare un argomento di cui discutere, forse perché era il solito paranoico e non voleva altro che rassicurazioni, forse perché il suo parere gli interessava davvero.

< Ben strutturato, scenografia eccellente, musiche superbe, recitazione splendida... > Si fermò di colpo, come se avesse capito solo allora cosa, in realtà, Robert aveva voluto chiederle. < Vuoi sapere cosa ne penso della tua parte, vero? > Continuò, assottigliando lo sguardo, indicandolo.

Robert arrossì. Arrossì come non gli capitava più da anni, ormai.

< Io... cioè, se... insomma... mi piacerebbe sapere cosa... > Ma lei lo interruppe.

< Dovresti sottovalutarti di meno, sai? Hai talento, una bellissima famiglia che ti sostiene, dei fan che ti adorano e che mostrano interesse per qualsiasi tuo progetto, anche non commerciale e hai la straordinaria capacità di immedesimarti in qualsiasi personaggio. Un attore non potrebbe chiedere di meglio. > Osservò con praticità e intelligenza, lasciandolo di stucco.

Rimasero qualche istante in silenzio, circondati dal chiacchiericcio degli invitati e dalla musica gradevole.

< Erano dei complimenti, se non te ne fossi accorto. > Sorrise, cercando il suo sguardo.

< Sì, sì, lo so... ti ringrazio, è solo che... non mi era mai successo prima. > Aggrottò le sopracciglia, confuso.

< Cosa? Che qualcuno ti adulasse così spudoratamente? > Rise.

< Che lo facesse una giornalista. > Chiarì, sorridendo.

Solephine agitò la mano, come a voler scacciare una mosca fastidiosa, sorseggiando dal bicchiere che ancora reggeva in mano.

 

Da quella sera, il passo che ci aveva portati a cenare insieme una, due, tre volte e poi a voler approfondire la nostra conoscenza, fu breve, brevissimo.

Volevo sapere tutto di lei, conoscerla in tutti i modi in cui un essere umano può conoscere un suo simile.

Quando il getto d'acqua calda mi scivola sulla testa e sul viso, rilassandomi improvvisamente, anche i ricordi scivolano via, risucchiati dal sifone, dal gorgogliare dell'acqua nei tubi.

Perché era dovuto accadere a noi? Perché proprio quando eravamo così felici?

 

Accolgo Tom in casa già vestito di tutto punto, due caffè ad attenderci sul bancone della cucina.

Lo abbraccio fraternamente e nella sua stretta riconosco molto di più di semplice affetto, molto di più di un semplice e scontato saluto. E' qui per sostenermi, per farmi forza, come solo un buon amico potrebbe e saprebbe fare e neanche ho la forza di meravigliarmi quando gli occhi mi si inumidiscono di lacrime trattenute.

< Ho preparato del caffè. > Annuncio, tirando su col naso, raggiungendo le tazze sul bancone, porgendogli la sua.

Lui si libera della giacca ancora leggera e mi raggiunge, ringraziandomi, cominciando a sorseggiare il liquido amaro. Io ho solo la forza di ingoiarne un sorso, poi non faccio altro che reggere la tazza in mano, lasciando che il suo calore si trasferisca alle mie mani.

< Quando potrai portare il bambino a casa? > Mi domanda a bassa voce, incerto su come affrontare l'argomento.

< Oggi stesso. Volevano solo accertarsi che stesse definitivamente bene. > Rispondo laconico, fissando il legno del tavolo con indifferenza, senza in realtà vederlo davvero.

< Lizzie mi ha inviato una sua foto. > Lo osservo armeggiare con i jeans per estrarre il cellulare, premere qualche tasto e mostrarmi, dopo qualche istante, una foto sfocata che ritrae me con in braccio James. La mia espressione confusa e smarrita, per un istante, mi fa sorridere.

< Solephine sarebbe felicissima. > Sorride anche lui, di tenerezza e non lo biasimo affatto per questa frase, perché ne sono convinto anch'io. Era così elettrizzata all'idea di diventare mamma, che, durante tutta la durata della gravidanza, avevo sempre pensato che proprio la sua impazienza l'avrebbe portata a partorire in anticipo. Mi aveva quasi costretto a partecipare ad un corso pre-parto che le avevano consigliato alcune sue colleghe, aveva comprato ogni libro esistente sull'argomento bambini, registrava ogni singolo episodio di qualsivoglia programma televisivo riguardante i neonati e si era documentata su Internet circa le varie poppate, le possibili malattie, i farmaci da utilizzare e a poco era valsa la mia constatazione sul fatto che queste informazioni avrebbe potuto richiederle in ospedale, al momento della nascita.

Come potevo immaginare che non ne avrebbe avuto modo?

< Già. > Mi limito a rispondere all'affermazione di Tom.

 

In ospedale sono già accorsi i miei genitori e Sofia, quasi avessero paura di non poter vedere più James, dopo che avevo comunicato loro che sarei ritornato l'indomani.

Il reparto Maternità ha un'atmosfera diversa, rispetto a quello di Chirurgia d'urgenza. Nelle stanze riesco a scorgere neo-mamme pronte ad allattare il proprio bambino, padri sorridenti e fratellini e sorelline esaltati alla vista del nuovo arrivato in famiglia. Sorridono tutti.

Mia madre abbraccia Tom con gratitudine, a me non riesce a rivolgere uno sguardo asciutto, così abbassa lo sguardo e mi stringe la mano per qualche istante a mo' di sostegno.  Sofia sorride appena; è un sorriso che non raggiunge gli occhi, ma c'è e mi rincuora. La invito ad accompagnarmi al banco informazioni e lei non se lo fa ripetere due volte, mi segue, aggrappandosi al mio braccio.

< Salve, sono qui per mio figlio, James Pattinson; sa dirmi dov'è? > L'infermiera mi scruta con attenzione, sorridendo. Sono sicuro che sappia esattamente chi sono, ma, nonostante la sua occhiata ammirata, non fa cenno di essersene accorta. Digita velocemente qualcosa al computer, poi solleva la cornetta del telefono al suo fianco e scambia qualche parola concitata.

< Lo stanno preparando; guardi, se vuole, può vederlo da lì. > Mi indica la vetrata di una stanza rettangolare ed io e Sophia, ringraziandola, ci avviciniamo, curiosi.

I neonati che si agitano o dormono nelle loro culle, sono almeno una decina e riconosco subito la culla vuota su cui campeggia il cartellino riportante il nome James.

Sposto lo sguardo al di là delle culle e dei neonati che sembrano osservarci curiosi e noto un'infermiera dai capelli rossi alle prese con la vestizione dell'unico neonato che non si trova nella sua culla: mio figlio.

Ogni tanto si agita e sembra voglia impedire all'infermiera di infilargli un minuscolo cappellino di lana, ma, per il resto, sembra abbastanza tranquillo ed io lo osservo affascinato, come se fosse l'ottava meraviglia del mondo. Forse lo è davvero, per me.

La porta si apre e l'infermiera-lo sguardo amorevole e un sorriso dolce sul viso-sembra riconoscermi.

< Lei è il padre di James, vero? > Mi si avvicina ed io non faccio altro che annuire e spostare lo sguardo sul fagottino tra le sue braccia.

< E' in perfetta salute e le somiglia molto. > Continua. < Vuole prenderlo in braccio? > Mi domanda.

< Ehm... in realtà... non sono sicuro di riuscire a non farlo cadere... > Balbetto, poi, però, Sofia prende in mano la situazione, sottraendo il fagottino azzurro dalle braccia dell'infermiera.

< Oh, ma certo che ne sei in grado, Robert! E' solo questione di abitudine. > Mi fa cenno di imitare la posizione delle sue braccia ed io eseguo, anche se mi sento uno stupido, anche se, solo la sera prima, sembrava non avessi avuto difficoltà alcuna.

Tempo qualche istante, e James è tra le mie braccia, che mi studia curioso, portandosi le mani alla bocca.

< Ehi... > Gli sorrido e allungo un dito, carezzandogli appena la porzione di pelle lasciata scoperta dalla tutina di pile che indossa.

E' così piccolo, che ho paura di poterlo rompere e mi sento così impacciato con lui in braccio, che temo di non riuscire ad arrivare alla macchina sano e salvo, ma l'infermiera sembra soddisfatta e sorride felice, mentre mi porge un foglio con tutte le indicazione sulla nutrizione e sulle marche di latte da prendere in considerazione per l'acquisto.

< Non credo di riuscire a camminare e, contemporaneamente, tenerlo in braccio. > Borbotto, mentre ritorniamo sui nostri passi, in direzione della mia famiglia e di Tom.

< Stai andando benissimo, non devi preoccuparti. > Mi incoraggia Sofia.

< Sei già andata da... da Sole? > Le domando preoccupato. Probabilmente non può sentirci, probabilmente non serve a niente sederle vicino e parlarle, ma non voglio rimanga troppo tempo da sola.

< Per qualche minuto, prima che arrivassi. I medici dicono che è stazionaria e che l'unica cosa che possiamo fare è aspettare. > Sospira, lo sguardo perso nel vuoto.

< Posso chiederti di badare a James, mentre sono da lei? > Le porgo il bambino con attenzione, prima di dirigermi verso l'ascensore del piano.

< Dove scappi? > Tom mi raggiunge proprio mentre l'ascensore annuncia il suo arrivo con un debole plin.

< Voglio andare da Solephine. > Rispondo atono.

< Vengo con te. > Quasi mi anticipa, risoluto. Sto per ribattere che posso farlo benissimo da solo, ma lui mi anticipa. < So che vuoi stare da solo con lei, ma voglio accompagnarti lo stesso. E' la mia migliore amica e voglio che sappia che sono qui. >

Ha ragione, è giusto, non posso avere l'esclusiva. Tom le vuole bene ed è normale che voglia vederla, parlarle.

Annuisco, precedendolo all'interno dell'ascensore.

Questa volta, mi mantengo in disparte e lascio che sia Tom ad indossare il camice verde, la mascherina e il copri-scarpe e a sederle accanto. Io osservo tutto dalla vetrata, anche se non mi basta e vorrei stringerle la mano, accarezzarle i capelli e dirle che l'amo.

Tom non le parla; la osserva paziente, come se aspettasse di vederla aprire gli occhi da un momento all'altro. Non la sfiora neanche; osserva i fili e i tubi collegati alle varie macchine e, forse, ha paura di farle male, anche con una semplice carezza. Quando l'infermiere gli annuncia che i cinque minuti sono scaduti, Tom si alza, la guarda ancora qualche istante, poi le accarezza la fronte, scostandole qualche capello fastidioso.

Quando mi raggiunge ha gli occhi lucidi, anche se lo maschera piuttosto bene, e tira su col naso.

< E' strano vederla lì. E' come se non ci fosse. > Mormora, mentre riprendiamo l'ascensore per tornare al nono piano.

< Si sistemerà tutto. James ha bisogno anche di lei. > Rispondo.

 

Tom mi ha aiutato ad assicurare il seggiolino da auto prima di andare in ospedale, così il viaggio verso casa è tranquillo. James sembra essersi addormentato ed io, nonostante tutto, mi sento sollevato.

< Sai, ho sentito Kristen... prima di arrivare qui, intendo. Voleva sapere se Sole avesse già partorito, se stavi bene e le ho raccontato dell'incidente. > Comincia Tom, in mano la borsa del bambino e le chiavi di casa.

< Mm. > Mugugno, impegnato a non svegliare James e a fare attenzione alle scale.

< Ecco... voleva che ti chiedessi se ti andava di vederla, sai, per un aiuto... > Tituba sull'ultima parola e a me non viene voglia di urlare, soltanto perché so di avere un neonato tra le braccia.

< Vederla? Non credo proprio, no. > Mi faccio da parte, affinché Tom possa aprire la porta di casa, dopodiché, lo seguo nell'ingresso.

< Tra voi è acqua passata, no? Insomma, ti ha fatto del male, ti ha tradito, ma questo non vuol dire che non potreste essere amici. > Cerca di farmi ragionare, ma sulla questione Kristen sono categorico: non ho nessuna intenzione di avere a che fare con lei. Aiuto? Non ho bisogno d'aiuto, sono in grado di cavarmela benissimo anche da solo.

< Non ho nessuna voglia di approfondire questo discorso, Tom. > La stanza di James è calda e la sua culla è pronta. Ve lo adagio con attenzione, svestendolo del cappellino e della coperta con cui mia madre mi ha suggerito di avvolgerlo. Mi rendo conto di aver trattenuto il fiato durante tutta l'operazione, soltanto quando, tornando a respirare, mi sembra di essere appena emerso da una lezione di apnea. Posiziono accanto a lui il walkie-talkie che mi consentirà di sentirlo una volta sveglio, e porto con me la sua copia gemella, socchiudendo la porta.

< Sai che è pentita per ciò che ha fatto. > Continua quello che, fino a due minuti fa, avrei definito migliore amico. 

< A dir la verità, no, non lo so. L'unica cosa che so è che non sono riuscito più a fidarmi di una donna per mesi, dopo il suo tradimento. Anche con Solephine è stato difficile, specialmente per via del vostro rapporto. > Sottolineo, in bilico sulla linea che mi sono imposto di non oltrepassare per non andare su tutte le furie.

Solephine aveva conosciuto Tom qualche mese prima di me, in occasione di un'intervista su uno dei suoi ultimi progetti cinematografici e, quando avevamo cominciato a frequentarci, nonostante mi avesse assicurato che tra loro non c'era altro che una buona amicizia, io avevo faticato non poco per non essere ossessivamente geloso di lei. La maggior parte delle volte, quando riceveva una telefonata ed io assumevo il mio classico sguardo da furioso indifferente come lo definiva lei, mi mostrava lo schermo del suo cellulare perché verificassi chi, effettivamente, fosse. A volte rifiutavo, le dicevo che non avevo intenzione di invadere la sua privacy e che non era costretta a rendermi conto di tutte le sue azioni o telefonate, ma lei insisteva e allora io venivo a conoscenza che non era altro che una sua collega di lavoro che voleva incontrarla durante la pausa pranzo il giorno successivo. Non potevo fare a meno di sentirmi in colpa, in quei momenti, ma lei mi capiva e, piano piano, avevo smesso di preoccuparmi, di essere geloso di lei o del suo rapporto con Tom e con i colleghi di lavoro, dimenticandomi di Kristen e di tutto quello che avevo dovuto subire dopo la nostra separazione.

< Siamo sempre stati solo amici, lo sai bene. > Obietta.

< Lo so, non era un'accusa, volevo solo rammentarti quanto sia stata dura, per me, riacquistare fiducia negli altri, in un altro rapporto. > Mi servo un bicchiere d'acqua dal rubinetto e sorseggio lentamente, calmandomi.

< Anche per lei è stato difficile. I giornali non hanno fatto altro che sputarle addosso veleno e fango e tutte le sue relazioni successive sono naufragate per colpa di sospetti infondati. Tu sei sposato, hai un bambino... non pensi che debba sentirsi sola? > Se la sua tattica è commuovermi, non credo di riuscire ad abboccare, non questa volta. L'unica cosa per cui potrei mai commuovermi, adesso, in questo istante, sarebbe ricevere una telefonata dall'ospedale e sentirmi dire che Sole è sveglia, che sta bene e che vuole vedermi, che vuole conoscere James e vuole tornare al più presto a casa.

Scoppierei a piangere come un bambino, ne sono sicuro e non proverei neanche vergogna.

< Pensaci. > E' l'ultima parola di Tom prima di dirigersi verso il bagno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 4
*** It's Gonna be Alright ***


Buonasera!

Finalmente sono libera (soltanto per una settimana, però :/) dall'incombenza di libri da studiare e riassunti da fare, perciò credo che, vista la ruota fortunata, mi avventurerò per buona parte (corsi universitari permettendo) nei meandri di questa Ff, cercando di recuperare tutti i miei ritardi, ahimè.

Comunque, bando alle ciance, vi parlo del capitolo; innanzitutto, vi dico che è presente il secondo flash-back della coppia e che, come ho già detto a qualcuna di voi nelle recensioni, ce ne sarà uno in ogni capitolo (non escludo possano essere anche due, dipende dal capitolo) e che spero possano aiutarvi a comprendere meglio i protagonisti della Ff, Solephine e Robert e il loro rapporto; poi che non mi sono affatto documentata sulla professione di Jack, ho soltanto preso come modello di riferimento, il figlio di un collega di mia madre che fa un lavoro simile ed è costretto a viaggiare in giro per il mondo, spesso senza cellulare, rete telefonica e via dicendo, mezzo isolato da tutti, insomma, quindi, se voi siete più informate di me e notate incongruenze, basterà segnalarmelo e riparerò al danno :); entra in gioco Kristen, anche se ancora non è ben definito il suo ruolo e sono curiosa di conoscere le vostre supposizioni al riguardo; fattore temporale da tenere presente: sono trascorse già due settimane dalla nascita di James e, quindi, dal coma di Solephine.

Detto ciò, come sempre, ringrazio tutte coloro che hanno recensito, letto, inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare: GRAZIE *.* Siete davvero importanti per me, non mi stancherò mai di ripetervelo.

Qualche settimana fa, la gentilissima Thecarnival ha realizzato un trailer per questa Ff, sotto mia richiesta e il risultato è questo qui: Three Stones Trailer. Non è bellissimo? *.* Un grazie doveroso, quindi, anche a lei.

Ok, ho finito di ciarlare, vi lascio al capitolo :)

 

Buon Fine Settimana e, come sempre...

 

 

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Special Needs-Placebo

 

 

 

 

 

3. It's Gonna be Alright 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prendersi cura di un neonato è maledettamente difficile. Non credevo avrei speso tutte queste energie, soltanto per capire come cambiargli un pannolino e, al tempo stesso, cercare di farlo smettere di piangere.

< Abbiamo quasi fatto, d'accordo? > In realtà, lo sto dicendo più a me stesso, che al bambino, che continua a dimenarsi senza sosta.

Sistemo le linguette adesive e lo sollevo per controllare la mia opera. Sembra perfetto, o perlomeno, qualcosa che ci si avvicina molto.

Gli sistemo la tutina azzurra e lo adagio lentamente nella culla,facendo partire il carillon, un regalo dei miei genitori e di Tom.

Lo osservo socchiudere gli occhi e poi riaprirli, prima di chiuderli definitivamente, i muscoli del suo corpicino rilassarsi in automatico e il respiro farsi più pesante e regolare.

Sorrido, sistemandogli con dolcezza i capelli biondi sulla fronte.

Quasi non ci credo che sia mio figlio, lo stesso che un giorno mi chiamerà papà, a cui insegnerò ad andare in bicicletta e a regalare fiori alle ragazze.

Riavvio il carillon e mi allontano, socchiudendo la porta.

Non riesco a dormire e, da una settimana a questa parte, non sembra essere una novità. Non faccio altro che vagare in casa come un automa, preparare il latte per James, cambiargli il pannolino, farlo addormentare, tentare di coinvolgerlo in qualcosa che non siano i giochi suicidi di Tom e rimanere in forze, mangiando qualcosa.

La mattina presto, quando mia madre arriva con la spesa, esco e guido fino all'ospedale. Saluto Rupert, indosso il camice verde ed entro nel reparto di terapia intensiva. Solephine è ancora lì, immobile, le macchine che registrano i battiti del suo cuore che mi fanno compagnia con i loro bip, e le sue mani fredde.

I suoi colleghi le hanno portato dei palloncini colorati, ma non mi hanno permesso di legarli alla testiera del suo letto, così li ho portati a casa e li ho sistemati nella stanza di James, accanto alla finestra.

Cerco di parlarle di qualcosa di bello, qualcosa che coinvolga anche James, ma, durante gli ultimi minuti, quando so che, da un momento all'altro, Rupert mi richiamerà, avvertendomi che il mio tempo con lei è scaduto, cedo e non faccio altro che ripeterle che mi manca, mi manca il suo disordine sulla scrivania, mi mancano le bozze dei suoi articoli disseminate per casa, mi manca il suo profumo, mi manca fare la doccia con lei, la mattina, preparare insieme la colazione, farle il solletico solo per vederla saltare come una rana, lasciarmi accarezzare i capelli. Mi manca il suo amore, la tenerezza e il calore che le leggevo negli occhi quando parlava di me.

E' in quel momento che le lacrime mi scorrono sulle guance, senza darmi neanche la possibilità di fermarle o di ribellarmi alla loro discesa.

Mi siedo sul divano, unico arredamento che sembra conciliarmi uno stato di dormi-veglia sufficiente per rilassarmi, e mi stropiccio il viso, sbadigliando.

Ho sonno, ma non riesco a dormire. Sembra assurdo.

Afferro il telecomando dal tavolino di vetro di fronte a me e accendo la televisione, cominciando ad evitare i soliti canali di pubblicità e shopping televisivo, cercando qualcosa di interessante; impresa vana e che fallisce quando mi rendo conto che non trasmettono niente di più impegnativo di un documentario sugli orango.

Sbuffo, spegnendo l'aggeggio e afferrando il plaid per coprirmi, quando l'occhio mi cade sull'iPhone che ho abbandonato poco prima sul bracciolo della poltrona.

Lo afferro, illuminandone lo schermo. Cerco la rubrica e, tra i nomi che la affollano, il suo. Probabilmente non dovrei; probabilmente dovrei lasciar vegetare questo cellulare fino a domani mattina sul quel bracciolo; probabilmente dovrei tentare di dormire, prima che James si svegli; probabilmente dovrei smettere di pensare.

Al diavolo! Penso, sfiorando il numero di cellulare comparsomi, attendendo l'avvio della chiamata.

< Sì? Chi è? > Mi risponde al secondo squillo, la voce assonnata.

< Ehm... c-ciao... > Ma cosa diamine mi è saltato in testa? Sono le tre del mattino!

< Robert?!? > Sembra sorpresa.

< Sì, sì, sono io. Scusa l'ora, sicuramente stavi dormendo e ti ho disturbata... > Tento di giustificarmi, cercando di non alzare troppo la voce.

< No! No... cioè, sì, stavo dormendo, ma non importa, hai fatto bene a chiamarmi. Ho saputo da Tom che... beh, di quello che è successo a Solephine... mi dispiace moltissimo, Rob... > Sembra completamente sveglia, adesso.

Dovrei porre fine a questa telefonata; attaccare e basta, fingere di non aver mai chiamato e non so di preciso cosa mi impedisca di farlo, fatto sta' che rimango in silenzio, con il cellulare contro l'orecchio, ad ascoltare il suo respiro regolare.

< Sì... grazie... > Riesco a rispondere alla fine.

< Come stai? > Mi chiede, la voce comprensiva e triste.

Rido, cercando di smorzare la tensione, ma il risultato è qualcosa che inquieta persino me.

< Uno schifo. > Trattengo le lacrime, inquadrando la boccia dei pesci poco distante.

La sento sospirare dall'altro capo del telefono e tirare su col naso, quasi come se stesse sforzandosi anche lei di non cedere alle lacrime.

< Vuoi parlarne? > Sono mesi che non ci parliamo, eppure è al telefono con me, a cercare di rassicurarmi.

< Di cosa dovrei parlare? Del fatto che mi sento una completa nullità, che vorrei che Sole fosse qui, a prendersi cura di James con me, come avevamo progettato di fare, che vorrei essere al suo posto, in quel dannato letto d'ospedale, perché James ha più bisogno di lei che di me? Dovrei parlare di questo? > Sono arrabbiato e frustato anche, ma, per qualche strana ragione, la mia voce nasconde solo tristezza e delusione. Dentro mi sento ribollire come un vulcano; fuori, sono solo la stessa persona triste e stanca di qualche minuto fa.

< Sì, beh, di quello che provi. > Risponde e quasi me la figuro alzare le spalle, nel suo modo un po' goffo e infantile, che sa di innocenza.

< Vorrei che fosse solo un incubo, ecco quello che provo. > Sospiro, stendendomi sul divano, osservando il soffitto.

< Vorrei poterti essere d'aiuto. Sai, ne ho parlato con Tom, prima che partisse e... non so, mi è sembrata una buona idea. Voglio dire, se tu vuoi, se te la senti di affidare il bambino a qualcuno che non siano i tuoi genitori o la madre di Solephine... > Non ho bisogno d'aiuto. Ho Tom, i miei genitori, i colleghi di Sole, i nostri amici, Sofia... non ho bisogno di lei.

< Kristen, vorrei che fosse chiaro che la mia telefonata non vuol dire ti perdono. Non ti ho chiamata per discutere vecchie faccende, né tanto meno per chiedere aiuto. Ho pensato che era stato carino da parte tua chiedere informazioni a Tom e mi sarebbe sembrato scortese non ricambiare con una telefonata. Ho scelto l'ora meno indicata, probabilmente, ma... insomma, non vorrei che tu fraintenda questo mio gesto... > Lo dico a bassa voce, come se potesse fare meno male, ma è la verità. Non l'ho chiamata per seppellire l'ascia di guerra, né per ricevere aiuto, né per essere compatito, né per discutere. Sono giorni che non faccio altro che sentire le stesse voci, vedere gli stessi volti, ricevere continui mi dispiace, e avevo voglia di una voce diversa, di parole diverse.

< No, no, certo... non intendevo dire certo che... insomma, lo so. > Risponde precipitosamente e tira su col naso. Forse sono stato troppo duro, forse non avrei dovuto farle presente la brusca fine della nostra relazione.

< Grazie dell'offerta, comunque. E' molto gentile da parte tua. > Continuo, sorridendo appena al buio.

< Sì, già... figurati. > Probabilmente è arrossita e si starà maledicendo per non avere niente di meglio da dire.

< Allora... buonanotte e scusa ancora del disturbo. > Il momento di debolezza è svanito, ora posso anche porre fine a questa conversazione e fingere che non sia mai esistita.

< Buonanotte, Rob. > Mormora.

Abbandono il cellulare sul tavolino di fronte a me e provo a chiudere gli occhi, nella vana speranza di riuscire a prendere sonno.

 

Solephine si voltò nel letto, sbuffando al soffitto. Possibile che, con tutta la stanchezza che aveva accumulato quel giorno, tra riunioni, articoli da redarre e bozze da correggere, non riuscisse a prendere sonno?

Lanciò un'occhiata alla sveglia sul comodino, che segnava le due in punto.

Sbuffò nuovamente, girandosi su un fianco, scontrandosi con il profilo addormentato di Robert: i capelli che gli ricadevano dolcemente sulla fronte, facendolo assomigliare ad un bambino, le labbra appena imbronciate, come se stesse sognando qualcosa di poco piacevole, una mano sotto il cuscino e l'altra abbandonata sulla sua parte di letto, poco distante dalla sua spalla.

Sorrise appena e si fermò a studiarlo con attenzione. I suoi occhi, ormai abituati al buio della camera, riuscivano a carpire ogni più piccolo dettaglio.

Avrebbe dovuto svegliarlo?

Voleva un po' di compagnia, ma, al tempo stesso, le dispiaceva rubarlo ad un sonno così pacifico e tranquillo.

Avrebbe potuto alzarsi e andare a prepararsi la sua solita camomilla, come faceva sempre quando non riusciva a dormire, ma non aveva voglia di scontrarsi con il freddo della casa.

Gli si avvicinò con attenzione, fino a condividere il suo stesso cuscino, sfiorandogli un fianco con la mano, come per abbracciarlo.

Lui parve non rendersene neanche conto, perché continuò a mantenere gli occhi chiusi e la sua solita espressione imbronciata.

Chiuse gli occhi anche lei, avvicinandosi alle sue labbra, sfiorandole con le proprie in un contatto delicato, ma deciso.

Robert socchiuse gli occhi, cercando di inquadrare ciò che lo circondava, rendendosi conto di essere stato svegliato da colei, della quale, in quel momento, riusciva ad intravedere solo gli occhi scintillanti, persino nell'oscurità semi-totale.

Sorrise, richiudendo gli occhi, stendendo un braccio per circondarle la vita e trarla a sé, immergendo il viso tra i suoi capelli profumati.

< Non riesci a dormire? > Le domandò in un sussurro, accarezzandole la schiena.

Lei scosse appena la testa, abbracciandolo a sua volta.

< Troppi pensieri? > Continuò, sospirando di stanchezza e di uno sbadiglio a malapena trattenuto.

Solephine fece spallucce.

< Un folletto ti ha rubato la lingua, per caso? > Scherzò, scostandola appena da sé per osservarla.

Per tutta risposta, Sole la cacciò fuori in una linguaccia, dimostrandogli che ne era ancora provvista, gli occhi velati di sfida.

< Ehi! Birbante che non sei altro! > Le pizzicò un fianco, facendola contorcere per via del solletico che quel semplice gesto le aveva causato.

< No! Il solletico no, non vale! > Quasi urlò, cercando di distogliere le mani di lui dai suoi fianchi sensibili.

< Te lo sei cercata. > Rise lui, capovolgendo le coperte e assediandola, bloccandole i polsi sul cuscino, sostando a cavalcioni su di lei, osservandola ridere e poi sbuffare per far tornare al loro posto due ciuffi di capelli finitili davanti agli occhi.

< Ti arrendi? > Le chiese, non riuscendo a trattenere un sorriso.

Solephine scosse energicamente la testa, mordendosi un labbro, nella speranza di non ridere.

Robert le si avvicinò provocatoriamente, insinuandosi tra le sue gambe schiuse, solleticandole la pelle con il respiro leggermente affannato.

Lo osservò con attenzione in ogni movimento, dubitando della sua resistenza.

Robert raggiunse il suo viso, occhieggiando alle sue labbra piene, pronte ad essere baciate, guardandola poi negli occhi per un istante, prima di baciarle semplicemente un angolo della bocca.

< Ti arrendi, ora? > Le domandò nuovamente.

Pur di non dargliela vinta, scosse ancora la testa, nonostante la voglia di sfiorarlo, di stringere i suoi capelli tra le dita e di baciarlo fino a quando le labbra non le avrebbero fatto male.

Robert continuò il suo percorso lungo il mento, fino a raggiungere la pelle più morbida e sensibile del collo, baciandole la gola e spostandosi verso le clavicole, avvertendo piccoli brividi scuoterla.

< Credi che dovrei prendere sul serio il consiglio di mia madre di andare da un dottore? > Mormorò, accarezzandogli i capelli, osservandolo serio, mordendosi le labbra.

Robert, ancora su di lei, incrociò il suo sguardo e sospirò, chiudendo appena gli occhi, come per concentrarsi meglio.

< Tua madre esagera, come sempre. > Sorrise, baciandole una guancia.

< E se dovesse peggiorare? > Chiese, spaventata.

< Non si muore di insonnia, Sole, e poi è un periodo stressante per te, questo, con tutta quella storia della promozione e della mole di articoli che devi consegnare... ti è già successo, no, di non riuscire a dormire? > Le fece presente, cercando di tranquillizzarla.

< Sì, è vero, mi è già successo, ma è comunque frustrante e contro-producente per il lavoro. > Rispose, sbuffando.

Robert le baciò le labbra a lungo, avido del suo sapore e del suo profumo.

< Vuoi che ti legga qualcosa? > La prese in giro, separandosi da lei e sistemandosi su un fianco. < Bianceneve e i Sette Nani, Cappuccetto Rosso, Pinocchio... hai da scegliere. > Continuò.

< Smettila di prendermi in giro! > Gli tempestò di pugni un braccio, ridendo.

< D'accordo, d'accordo, mi arrendo. > Alzò le mani in segno di resa definitiva, permettendole di accoccolarsi contro di lui.

Le accarezzò i capelli profumati, morbidi e setosi, osservandola chiudere gli occhi e sospirare rilassata.

< Ti amo. > Le mormorò, stringendola a sé.

< Ti amo anch'io. > Sussurrò lei in risposta, sollevando appena il viso e socchiudendo gli occhi, per baciargli il mento, leggera e fugace come una farfalla.

 

Mi sveglio di soprassalto, respirando a fatica, con il pianto di James nelle orecchie. Mi guardo intorno, stropicciandomi il viso, rendendomi conto che è già mattino.

< Ci penso io. > La voce di Tom mi riporta a voltare nuovamente la testa per inquadrarlo mentre entra nella camera del bambino.

Le urla si chetano e Tom ritorna in salotto, James in braccio con le mani in bocca e lo sguardo sveglio e attento.

< Buongiorno! > Tom mi osserva, ma io non riesco a muovermi, non riesco neanche a pronunciare una sillaba.

Mi è appena tornata in mente la telefonata di quella notte a Kristen.

< Rob? Che succede? Sembra tu abbia appena visto un fantasma. > Mi si siede accanto, sistemandosi James tra le braccia.

< Tutto bene, devo... devo essermi svegliato troppo in fretta, tutto qui, mi sono spaventato... > Mento, cercando di sorridere.

James allunga le braccia corte verso di me, lamentandosi e Tom lo asseconda, sollevandolo per tenderlo a me.

< Buongiorno, amore, dormito bene? > Gli bacio una guancia con delicatezza e gli sistemo i capelli biondi, alzandomi in piedi e portandolo con me in cucina, addossato contro la mia spalla.

Cerco di preparargli il latte con una mano sola, cercando di non farmi distrarre dai miei pensieri, quando il telefono di casa suona.

< Tom, rispondi tu? > Alzo appena la voce, affinché mi senta.

< Sì, capo. > Mi risponde, mentre lo immagino tendersi verso l'aggeggio e poi studiare il numero sul display, come faccio sempre io.

La suoneria si interrompe e, qualche istante dopo, i passi di Tom mi raggiungono. Mi volto e lui è lì, che mi tende il telefono.

E' Jack, mi mima con le labbra.

Jack. 

Il fratello di Solephine.

Gli tendo James, anche se lui non sembra contento di separarsi da me e gorgoglia qualcosa di indistinto, niente che una mia carezza non riesca a sistemare, mentre spengo il latte e lascio che se ne occupi Tom, spostandomi verso l'ingresso per rispondere.

< Pronto? >

< Robert, sono Jack. Dio! Vorrei dirti tante di quelle cose... ho appena avuto la notizia da mia madre e mi dispiace, mi dispiace per non esserci stato per tutto questo tempo e... santo cielo! Non riesco a credere che lei... che sia... > E' sul punto di piangere e anch'io.

Jackson, Jack per gli amici, è il fratello adottivo di Solephine. Sofia e suo marito Evan, l'avevano adottato quando lui aveva soltanto tre anni e Solephine pochi mesi. Avevano visitato un orfanotrofio della zona in cui abitavano, per caso, in occasione di una cerimonia di beneficenza a cui erano stati invitati e l'avevano scorto in mezzo agli altri bambini, solo e intimorito e avevano capito che non l'avrebbero lasciato lì, spaventato e triste.

Erano riusciti a superare i numerosi controlli e a firmare il modulo di adozione da lì a quattro mesi e Jack era entrato a far parte, a tutti gli effetti, della famiglia.

Sole lo adorava e, anche se quando era venuta a conoscenza del fatto che non fosse suo fratello di sangue, si era rifiutata di rivolgergli la parola per una settimana, arrabbiata che non glie l'avesse mai rivelato, gli voleva bene e ne aveva sempre parlato con affetto, stima e orgoglio, quella che, solitamente, hanno i fratelli minori nei confronti di quelli maggiori.

Non lo biasimo per non averci raggiunto prima. Jack lavora come ingegnere nucleare presso una famosa azienda australiana ed è costretto ad allontanarsi per molti periodi da New York-luogo in cui ha sede una succursale dell'azienda per cui lavora-e fare tappa in Medio Oriente o dovunque sia richiesto, presso le centrali che reclamano assistenza.

Durante i periodi di lontananza, sua moglie Nuria e la piccola Phoebe, nata da poco più di dieci mesi, si trasferiscono da i genitori di lei, in Oregon, perciò non ho bisogno di giustificazioni da parte loro, so che vorrebbero essere qui, accanto a Sole e a Sofia.

< Non potevi saperlo, Jack, non è colpa tua. > Rispondo, tirando su col naso.

< Prendo un aereo tra venti minuti. Nuria e Phoebe sono già in viaggio per raggiungervi. > Il suo tono risoluto mi tranquillizza.

< Vi aspettiamo, allora. > Sorrido appena.

< Si sveglierà, Robert, ne sono sicuro. Andrà tutto bene. > Continua.

Già.

Continuano a ripeterlo tutti.

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 5
*** Help ***


Salve a tutte! <3

Come state? Lo so, lo so, devo chiedervi perdono per la lunga assenza, ma la colpa maggiore ce l'ha l'ispirazione che, purtroppo, mi aveva abbandonata su una pagina bianca, ancora da cominciare. Se sono ispirata riesco a scrivere anche tre capitoli in una settimana, ma quando l'ispirazione manca... le due righe che scrivo non mi vanno neanche bene e finisco per scrivere e cancellare, scrivere e cancellare come un'ossessa, fin quando non mi innervosisco, perciò, perdonate l'immenso ritardo ç.ç

Parlando del capitolo: cosa posso dirvi? Beh, posso dirvi, innanzitutto, che è da proprio da questo quarto capitolo che inizia la vera vicenda, o meglio, la seconda parte di essa. Sì, insomma, è come se la Ff fosse costituita da due filoni distinti: uno che riguarda Solephine e Robert, e un altro che riguarda soltanto Robert. Magari non era stato molto chiaro fino ad ora, proprio perché si è sempre raccontato di Robert quasi in funzione di Solephine o di James ed ecco il perché vi dicevo che da questo capitolo comincia a srotolarsi la seconda matassa, quella che riguarda solo e soltanto Rob. Oddio, spero di essermi spiegata in maniera sufficientemente chiara :)

Cos'altro aggiungere? Ma certo! Ringrazio tutte coloro che hanno avuto la pazienza di commentare lo scorso capitolo, (GRAZIE infinite *.*), e anche tutte quelle che hanno inserito la Ff tra le preferite/seguite/da commentare, non ho parole, davvero: GRAZIE di cuore *.*

Spero di non tardare così tanto per il prossimo aggiornamento, ma, in tal caso, per ogni evenienza/annuncio, è a vostra disposizione il gruppo su Facebook dedicato alle mie Ff, You thought you know me; qui pubblico spoiler, aggiornamenti sulla scrittura, eventuali ritardi e foto dei protagonisti delle mie Ff, perciò, se volete unirvi alle già splendide undici persone che ne fanno parte, vi ricordo che dovete inviarmi un messaggio privato (qui, su EFP o su Facebook-e per quest'ultimo trovate il link ai miei due profili nella pagina scrittore) ed io vi aggiungerò al gruppo, riservandovi un caloroso benvenuto :) (tutto ciò perché il gruppo è privato, perciò non è possibile visualizzarlo tra i gruppi di Facebook esistenti).

Per questo aggiornamento è tutto, direi, perciò non mi resta che augurarvi una buona continuazione di settimana e, come sempre, una...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Three Stones Trailer by TheCarnival

 

 

 

 

 

 

The Price of Love-White Lies

 

 

 

 

4. Help

 

 

 

 

 

< Sicura di sentirti bene? > Robert fissò Solephine con un misto di preoccupazione e impotenza, corrugando le sopracciglia.

Lei annuì, cercando di sorridere. Forse, dopotutto, non era stata una grande idea farle attraversare il Canale della Manica in traghetto, con quel tempaccio; voleva che il suo compleanno fosse speciale e, per una newyorkese d'eccellenza come lei, abituata ai grattacieli, alle strade trafficate e alle mille luci, cosa c'era di meglio di una visita all'isola di Wight per ammirare le bellezze della natura e fuggire dal caos londinese, così simile a quello di New York?

Avrebbe dovuto dar retta ai consigli dei suoi genitori; rimanere in casa, festeggiare con la deliziosa torta alla crema di sua madre, la preferita di Sole, e trascorrere il resto della serata a guardare vecchi film nella sua stanza di adolescente, accoccolati sul letto singolo che a malapena riusciva a fornir loro abbastanza spazio per stendersi.

< Credo di non avere più lo stomaco, ma direi che sto bene, sì. > Rispose con non-chalance, massaggiandosi il punto interessato, coperto dal cappotto invernale.

< Mi dispiace! Saremmo dovuti rimanere a casa! > La strinse a sé, circondandole la vita con un braccio, cercando, al contempo, di ripararla dal vento freddo.

< Non è una tragedia, Robert! E' stata colpa mia, dovevo portarmi dietro le pillole contro il mal di mare. > Fece spallucce, tirando su col naso e accoccolandosi meglio contro di lui.

< E' il tuo compleanno e hai appena vomitato l'anima su quel traghetto... una bella serata davvero... > Borbottò sarcastico, accelerando il passo per raggiungere più in fretta la piccola abitazione poco distante, affittata per l'occasione.

< Non essere così melodrammatico, è bellissimo qui, sembra di essere in paradiso e l'odore del mare... > Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni, come per sottolineare il concetto.

Robert la osservò divertito e disperato, le mani nascoste nelle tasche dei jeans scuri e le guance rosse per il vento freddo.

Sorrise appena, afferrandole un braccio e trascinandola, senza farle male, verso il piccolo cancello di ferro che delimitava la proprietà della vecchia signora Steinford, l'adorabile vecchina che gli aveva gentilmente permesso di usufruire della sua seconda casa per qualche giorno.

< Che meraviglia! > Non gli diede neanche il tempo di cercare la chiave, che era partita, come un uragano, alla volta della casa, spiando l'interno dalle finestre frustate dal vento e dalla sabbia.

Assomigliava ad una bambina, tanta era la sua gioia; il piccolo incidente sul traghetto, completamente dimenticato.

< E' tutta per noi? > Saltellò sul posto, gli occhi splendenti, i capelli disordinati dal vento marino.

Lui annuì, girando la chiave nella serratura, permettendole di accomodarsi per prima nell'ingresso, dal pavimento in legno azzurro appena scolorito dal tempo e dalla sabbia, gli arredi semplici e bianchi e pochi quadri di paesaggi alle pareti.

Solephine si liberò del cappotto e della sciarpa, sistemandoli sull'attaccapanni dietro la porta, poi cominciò a curiosare in giro, tra le vecchie foto incorniciate, le suppellettili, le pentole di rame splendenti appese in cucina, i cuscini a fiori sistemati con cura sulla poltrona del salotto e sull'enorme divano color panna, i curiosi souvenir sistemati sulla mensola del caminetto, gli orologi a cucù disseminati in ogni angolo disponibile e due minuscoli gattini che sembravano essere spuntati fuori dal nulla, che si strofinarono contro le sue gambe in cerca di coccole o, forse, di cibo.

< Abbiamo del latte? > Chiese, alzando appena la voce per raggiungere Robert, impegnato nella ricerca di qualcosa di commestibile in dispensa.

< Suppongo di sì, perché? > La interrogò di rimando, dirigendosi verso il frigo.

< Credo che qualcuno, qui, abbia fame. > Fece il suo ingresso nella stanza con i due cuccioli tra le braccia, che miagolavano appena.

< Dove li hai trovati? > Sbarrò gli occhi, estraendo il cartone del latte e rovistando in cerca di una ciotola adatta.

Solephine fece spallucce, accarezzando il soffice pelo grigio dei gattini.

< Loro hanno trovato me, direi. > Rispose, depositandoli a terra, aiutando Robert nella ricerca.

Convennero, dopo qualche minuto, che una vecchia tazza sbeccata, di forma ovale, senza manico, potesse fare al caso loro e la riempirono di latte fino all'orlo.

I cuccioli, affamati, ne fiutarono subito l'odore e vi si lanciarono, instabili, all'assalto.

< La signora Steinford non mi ha parlato di gatti. Strano. > Osservò lui, corrugando le sopracciglia.

< Forse ha dimenticato qualche finestra aperta e sono entrati. > Ipotizzò Sole, osservandoli bere avidamente.

< Forse si sono solo intrufolati dalla porta, quando l'abbiamo aperta. > Li osservò anche lui, intenerito.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, puntando lo sguardo su quello che li circondava, tranne che sull'altro.

< Allora... qual è il programma? > Solephine ruppe il silenzio per prima.

< Programma? Non ne ho stilato uno, a dir la verità. Preferisco che sia tu a scegliere. > Fece spallucce, sorridendo divertito.

< Ma come? Io credevo che fosse già tutto organizzato! > Sbuffò fintamente infastidita dalla cosa, incrociando le braccia sul petto, come una bambina arrabbiata.

< Non sono affatto bravo a stilare programmi, lo sai; finisce sempre che qualcosa va storta... > Cercò di spiegarsi, arrossendo appena.

Sole chinò il capo, sorridendo, nel tentativo di non farsi scoprire: adorava prenderlo in giro e farlo arrossire. Forse era scorretto da parte sua, ma era una di quelle cose a cui non sapeva rinunciare, un po' come non sapeva rinunciare alla sua smoderata passione per i libri, le serie tv, i film in bianco e nero, le passeggiate in bicicletta e la cioccolata fondente.

< E' il tuo compleanno... > Continuò lui, allungando una mano verso di lei. 

< E' giusto che sia tu a scegliere. > Terminò.

Sole gli si avvicinò, accettando la sua mano tesa, sorridente e maliziosa.

< Però devi farti perdonare. > Sussurrò vicino alla sua bocca, prima di baciarlo senza dargli neanche il tempo di rispondere.

Si inebriò del suo sapore dolce e del suo profumo deciso, tanto quanto bastava per decidere che non ne avrebbe mai avuto abbastanza.

< So essere molto generoso. > Osservò lui, socchiudendo gli occhi, accarezzandole la schiena.

Finirono a fare l'amore sul divano, mentre fuori pioveva e gli unici rumori erano il fuoco nel caminetto che crepitava e i loro sospiri che si confondevano.

Robert non aveva avuto neanche il tempo di consegnarle la sua "torta" di compleanno: un muffin al cioccolato, con ripieno di crema e copertura alla panna e fragole, il suo preferito.

 

Quando Nuria suona il campanello ed io, come un automa, vado ad aprirle con James in braccio, non so cosa veda, non so cosa legga nei miei occhi, ma i suoi diventano subito lucidi e deve stringersi Phoebe più forte al petto per resistere alla tentazione di piangere.

Ho visto Phoebe solo una volta, in ospedale, appena nata. Solephine ed io avevamo raggiunto Jack per fargli compagnia durante il travaglio della moglie, invece, una volta lì, ci siamo ritrovati di fronte a dei neo-genitori sorridenti e felici.

E' cresciuta molto da allora: ha i capelli biondi più lunghi, gli occhi azzurri più chiari e riesce quasi a camminare da sola. Assomiglia sempre di più alla mamma.

< Rob... mi dispiace così tanto! > Sono le prime parole che pronuncia, dopo aver sistemato Phoebe sul divano ed essersi liberata delle borse che le ingombravano le spalle, posandole a terra, accanto alla porta.

Mi abbraccia e una lacrima le rotola giù, lungo la guancia; riesco appena a vederla, prima che lei nasconda il viso nella mia camicia e tiri su col naso.

< Lo so. Grazie. > Mormoro come un robot. Non faccio che dire altro da giorni. Forse, è l'unica frase che sarò in grado di pronunciare; dimenticherò tutte le altre parole e saprò solo dire lo so e grazie.

< Sofia mi ha telefonata, due giorni fa e... siamo stati irreperibili per qualche giorno, sai, per via del cattivo tempo, sono saltate tutte le linee elettriche e i cavi telefonici... se solo avessi saputo... > Singhiozza, mentre James, ancorato alla mia spalla, comincia a frignare, come per dare man forte.

Nuria sembra rendersi conto della sua presenza soltanto in quel momento. Si separa da me, si asciuga gli occhi con le dita e tenta di sorridere, accarezzando la testa di mio figlio e i suoi radi capelli biondi. Lo sistemo in una posizione più confortevole, per lui e anche per lei, perché voglio che lo conosca, che si conoscano, e il sorriso di Nuria aumenta.

< Che bell'ometto che sei, eh? > Piega appena le ginocchia per essere alla sua altezza, pizzicandogli dolcemente un fianco.

James sembra gradire la sua espressione ed il suo viso dolce, perché smette di piangere e agita le mani nella sua direzione.

< Vuoi tenerlo in braccio? > Le chiedo con un sorriso.

Lei annuisce e tende le mani per afferrarlo.

< E' bellissimo, Robert e ti assomiglia moltissimo. > Afferma dopo qualche istante, cullandolo.

< Già. Vorrei soltanto che Sole fosse qui... > Sospiro, cercando appoggio contro la poltrona dietro di me, ingoiando le lacrime e la tristezza, ignorando il peso al petto che si fa sempre più presente e pesante.

< Ce la farà, ne sono sicura. Si sveglierà. Lei vi adora, non vi abbandonerebbe mai così, non la Solephine che conosco io. > Si morde le labbra per non piangere, ma io non ci riesco: gli occhi mi si inumidiscono contro la mia volontà e, se non fosse per un urletto eccitato di Phoebe, mi starei sciogliendo in lacrime.

Ci voltiamo entrambi verso di lei, completamente presa dalle boccacce di Tom, alle quali ride senza ritegno, cercando di imitarlo.

Tom adora i bambini. Dovrebbe davvero sistemarsi, come continua a ripetere sua madre e mettere su famiglia. Sarebbe un ottimo padre.

< Scusateci, non volevamo interrompervi. > Ci sorride, sollevando Phoebe in braccio, avvicinandosi a Nuria per salutarla.

< Nessun disturbo. > Risponde lei al mio posto, lanciandomi un'occhiata che mi fa venir voglia di rimettermi a piangere.

< Questa principessa è cresciuta tantissimo dall'ultima volta che l'ho vista e ti assomiglia sempre di più! > Esclama, sistemando i capelli alla piccola, che reagisce divincolandosi e mettendo il broncio.

< E comincia ad essere permalosa... > Tom le fa il solletico, strappandole un sorriso e un abbraccio.

< Dove vi sistemerete? > Le domanda poi, incuriosito, lanciando un'occhiata alle borse.

< A casa di Sofia. E' sola e ha tante stanze libere... > Risponde, tendendomi nuovamente James.

Mentre la mamma è impegnata a cercare qualcosa nella borsa, noto lo sguardo curioso di Phoebe, che osserva James con insistenza per qualche secondo, e poi sposta lo sguardo sul mio viso, come se cercasse qualche somiglianza. E' impossibile, me ne rendo conto; in fondo, è solo una bambina e magari crede che quello che reggo tra le braccia sia un bambolotto, un giocattolo, ma mi fa uno strano effetto. Non l'ho neanche salutata, troppo impegnato a piangermi addosso; eppure, è mia nipote.

Le sorrido, avvicinandomi, agitando la manina di James nella sua direzione, a mo' di saluto.

Lei mi guarda stupita, poi ricambia il sorriso e il segno di saluto, arrossendo.

< Sai chi è quel bambino? > Le mormora Tom.

Fa segno di no con la testa.

< E' il tuo nuovo cuginetto e si chiama James. > La istruisce.

< Bibu? > Domanda, facendomi ridere.

< Sì, è un bimbo come te, ma più piccolo. > Tom le bacia una guancia paffuta e lei arrossisce ancora, nascondendosi contro la sua maglia.

E' di una tenerezza incredibile e, per certi versi, mi ricorda Solephine. Anche lei arrossiva ai miei complimenti e alle mie dimostrazioni d'affetto, all'inizio.

 

Jack vuole subito andare in ospedale, neanche il tempo di posare le valigie a casa di Sofia e salutare sua moglie e Phoebe. Solephine ha atteso fin troppo, sono queste le sue parole ed io vorrei chiedergli cosa? Cosa ha atteso? Aspettava che arrivassi tu per svegliarsi?, ma non ci riesco. Non voglio giudicare nessuno, non voglio ferire nessuno, eppure, a volte sono così arrabbiato, che avrei voglia di urlare, di prendere a schiaffi qualcuno, solo per il gusto di sentirmi, anche se per pochi istanti, bene, potente; non servirebbe a svegliare Sole, lo so, ma forse servirebbe a far star meglio me.

Non sopporto neanche le urla di James, o i suoi pianti. Devo contare fino a dieci prima di prenderlo in braccio, ripetendomi che è solo un neonato, non può capire ed io non voglio influenzarlo con il mio malumore, o con la mia rabbia. Tom mi da' una mano con piacere; cambiare i pannolini non gli da' fastidio, neanche scaldare il latte o cullarlo per farlo addormentare. Mia madre mi ha consigliato di rivolgermi ad una bambinaia, qualcuno di esperto, che si potesse prendere cura di James nel modo giusto, che se ne occupasse per tutto il giorno, almeno, fin quando la situazione di Solephine non si sblocca, ma non voglio essere un genitore assente e non voglio che un'estranea si occupi di mio figlio, solo perché mia moglie è in coma ed io sto da schifo. James mi aiuta ad andare avanti, ad alzarmi la mattina, a vestirmi, a cercare di rendermi presentabile per affrontare un'altra giornata. Pensare a lui mi tranquillizza e mi rende felice.

L'ospedale è quello di sempre, la confusione, al solito, tanta. Rupert mi saluta con gentilezza, come di consueto ed io gli presento Jack. Lo aiuta a vestirsi del camice, dei copri-scarpe e della cuffia e lo accompagna in sala intensiva, accanto al letto di Solephine. Poi, si allontana con discrezione.

Osservo la scena dal vetro esterno, inerme. Da qualche tempo, è diventato più difficile, per me, guardare. Entrare qui, in ospedale, fingere che l'odore del disinfettante non mi dia fastidio, condividere l'ascensore con medici e infermieri che mi sorridono cortesi e poi abbassano lo sguardo, indossare il camice, avvertire il fruscio dei copri-scarpe sul pavimento della sala intensiva, lo scricchiolio della sedia, prima di sedermici; osservare il volto pallido di Solephine e sentire la sua pelle gelida a contatto con la mia, il bip della macchinetta accanto a me che mi rimbomba nella testa come un timer, le lacrime che non riesco a frenare e il bacio che lei non può ricambiare.

E' maledettamente difficile; eppure, mi ci trascino ogni giorno, sperando che qualcosa cambi, che Rupert mi dica che si è svegliata, che non c'è bisogno che indossi il camice, perché l'hanno trasferita in una comune stanza, che posso portarle dei fiori, che potrà vedere anche James.

Non so cosa sperare, ma qualsiasi cosa sarebbe sufficiente.

Mi abbandono su una delle sedie di plastica lì davanti, stropicciandomi il viso e i capelli. Nessuno commenta il mio aspetto, ma so di essere uno zombie vagante, specialmente quando mia madre e le mie sorelle mi osservano con la classica occhiata da mio Dio, non sopravviverà un altro giorno in questo stato. Non m'importa; finire sui giornali con gli stessi vestiti di tre giorni fa, con la barba sfatta, con le occhiaie; non m'importa.

E' in quel momento, quando penso che dieci minuti sono un'eternità per chi aspetta, che il mio cellulare comincia a vibrare. Lo estraggo dalla tasca della giacca e, nonostante la cosa non mi sorprenda, mi ritrovo comunque a tremare appena.

E' solo preoccupata per te, nessun secondo fine.

Continuo a ripetermelo, mentre rispondo, incerto.

< Ciao, ti disturbo? > Mi domanda titubante.

< Sono in ospedale, ma no, non mi disturbi... > Rispondo, schiarendomi la voce.

< Cielo, scusami! Avrei dovuto immaginarlo. Posso richiamare, se per te è... > La interrompo, prima che possa concludere la frase.

< No, davvero. Ho soltanto accompagnato Jack, il fratello di Solephine, a farle visita. Lo sto aspettando, per cui... > In fondo, è la verità.

< Oh, d'accordo. Nessuna novità? > La sua voce assume una sfumatura grave e triste, che vorrei strapparle via. Sembrano tutti così preoccupati, così in pena, ma in fondo, non ne sanno niente, no? Non sanno cosa voglia dire, come ci si senta, quanto faccia male.

< Nessuna. Volevi dirmi qualcosa? > Forse sono un po' brusco, irrispettoso, ma non posso farci niente. Non ho voglia di parlare con nessuno.

< Ehm... no... volevo... volevo solo sapere come stavi, tutto qui. > Mormora.

< Sì, beh, non meglio di ieri, o dell'altro ieri, o di due settimane fa. > Sbotto.

< Tom pensa che ti farebbe bene ricevere la visita di qualche amico... sai, per allentare lo stress. So che è difficile e che fa male, davvero, ma non per questo devi affrontare tutto da solo, Robert. Se solo ci permettessi di aiutarti, noi potremmo... > La interrompo, ancora.

< Voi potreste cosa? Farmi dimenticare? Portarmi a bere una birra e far finta che vada tutto bene? No, non credo che sia questo il mezzo migliore, Kristen, mi dispiace. E poi, non sono solo: ho Tom, la mia famiglia, la famiglia di Solephine, le sue colleghe accanto. Non sono solo. > Tremo e me ne rendo conto soltanto quando osservo la mano libera dal cellulare, che si aggrappa con forza al bordo della sedia, le nocche bianche per la pressione esercitata.

< Non rifiuteresti le chiamate, se fosse così. > Replica, dura.

D'accordo, ha ragione, ho evitato di rispondere al telefono per qualche giorno, ma volevo essere lasciato in pace; cosa c'è di sbagliato in questo?

< Di cosa hai paura, Robert? Che gli altri ti compatiscano per quello che è successo a Solephine? Che ti vedano come qualcosa di rotto, da sistemare? Cosa? > Continua.

Mi paralizzo, come se qualcuno avesse acceso la luce in una stanza inizialmente buia.

< Non voglio essere trattato come una vittima e non voglio tutte queste attenzioni su di me. > Borbotto. E' la prima volta che lo ammetto ad alta voce, ma è la verità, sin dal primo giorno, sin dall'incidente.

< D'accordo, hai ragione, è comprensibile, ma noi non vogliamo trattarti come una vittima, né dedicarti più attenzioni di quelle che hai già. Vogliamo solo poter fare qualcosa per te, tutto qui. Gli amici servono a questo. > Sulle ultime frasi il suo tono di voce si addolcisce ed io mi ritrovo a sospirare, sconfitto. E' quello che mi ha sempre ripetuto anche Tom, eppure ho continuato ad ignorarlo, ho continuato ad ignorare tutti quelli che, in un modo o nell'altro, stessero cercando di avviare una conversazione con me su Solephine, sull'incidente, persino su James stesso, come se ne avessi già abbastanza; o, forse, ne ho già abbastanza, ma parlarne con qualcuno potrebbe farmi stare meglio. Non posso continuare a fingere che tenermi tutto dentro mi faccia stare bene. 

< Sì, forse hai ragione, forse sto allontanando tutti con il mio atteggiamento scostante, è solo che... > Questa volta è lei ad interrompermi.

< Pensi che nessuno possa comprenderti fino in fondo, lo so. > La vedo quasi sorridere.

< Già. > Ammetto.

< Il dolore non è una lotta di resistenza, Robert. Devi lasciarti andare e sarà più semplice. > Continua.

< Sai che mi sembra di stare parlando con una psicologa, vero? > Sorrido anch'io.

< Non un ruolo che mi si addice, giusto? > Ride. < Però sono seria, è davvero così, anche se non parlo per esperienza diretta. > Aggiunge, tornando seria.

< Sì, dev'essere così... > Sospiro.

< Sei umano, non puoi fare tutto da solo, anche se vorresti. > Già, vorrei: occuparmi di James da solo, fare la spesa, riuscire a badare alla casa, venire in ospedale a trovare Sole, tranquillizzare tutti sulla vicenda, riprendere la mia vita di sempre. Vorrei e a volte credo di farcela, credo di riuscire a rimettermi in piedi con le mie sole forze, ad affrontare tutto questo; poi, percepisco la mia fragilità, i miei limiti e mi sento debole, spiazzato, come se mi stesse tutto franando addosso e in quei momenti vorrei solo rintanarmi in un angolo buio e piangere, vergognarmi perché non ho il coraggio di affrontare le situazioni difficili a testa alta.

< Lo so, anche se non riesco ad accettarlo completamente. > Lo schienale della sedia è fresco quando mi ci appoggio, sospirando e osservando le luci al neon sul soffitto.

< In un modo o nell'altro, andrà tutto bene. Sei circondato da persone che ti amano e che ti sostengono e non potrebbe andare diversamente. > Sorrido con lei che, anche se lontana, riesce a trasmettermi un briciolo di fiducia e speranza che credevo di aver perso nel momento in cui mi lasciavo assalire dai dubbi.

< Grazie, è... è davvero importante per me sapere che non mi lascerete solo. > Lo dico poco e, quando lo faccio, spesso non riesco ad esprimere i miei veri sentimenti al riguardo, ma è la verità.

< Mi permetterai di venire a farti visita, allora? > Mi chiede speranzosa.

< Quando vuoi. > Rispondo divertito.

< Bene! E' già un bel passo avanti, no? In realtà, nonostante i tuoi divieti, ho già prenotato un biglietto per il volo di venerdì mattina; l'avevo concordato con Tom qualche giorno fa, e avevo paura di dirtelo per via della tua ostinazione e testardaggine, ma adesso mi sento un po' in colpa, perché non ho preso in considerazione i tuoi impegni e forse è un po' inaspettato per te, perciò, se vuoi che rimandi la partenza, basta una parola e sarà fatto. > Continua tutta d'un fiato, come se potessi interromperla.

< Non ho impegni al momento, tranne per quanto riguarda James: venerdì pomeriggio ha un appuntamento con il pediatra, ma posso lasciare la macchina a Tom e può raggiungerti lui in aeroporto, se per te non è un problema. > Forse non sono ancora pronto per vederla, forse dovrei dirle di rimandare la partenza, annullare la prenotazione del biglietto e dirle che la richiamerò io quando sarò in grado di gestire la sua visita, ma so che questo non farebbe altro che rimandare l'inevitabile. 

Quando la nostra relazione è terminata e poi ancora di più quando ho incontrato Solephine e ho capito che sarebbe stata l'unica donna della mia vita, ero convinto che non l'avrei mai più vista, che, se anche, per un caso fortuito, l'avessi intravista in strada, avrei soltanto girato la testa, guardato da un'altra parte; negli ultimi tre anni la mia convinzione su questa teoria è aumentata, perché non l'avevo più sentita, né avevamo avuto occasione di incontrarci, neanche durante eventi in comune. Ora mi rendo semplicemente conto che ho avuto paura di lei, paura dei sentimenti che avrebbe potuto scatenarmi la sua vista, paura che sarebbe ritornato tutto a galla e che avrei dato di matto, che mi sarei sentito nuovamente ferito e arrabbiato e deluso, che le avrei urlato contro e poi me ne sarei pentito; insomma, paura di me stesso.

Tom ha ragione: cosa ho da temere? Sono sposato, ho un figlio, sono felice, nonostante la situazione attuale e la storia con lei è acqua passata, non ho più motivo di essere arrabbiato per ciò che è successo tra noi. E la verità è che è così, non sono più arrabbiato, non provo più quel senso di vuoto all'altezza dello stomaco ogni volta che ci penso, ogni volta che qualcuno, seppure per caso, pronuncia il suo nome.

< Sì, per me va bene, nessun problema. A venerdì, allora. > Mi saluta.

< A venerdì. > Confermo, chiudendo la comunicazione, ancora perso nelle mie elucubrazioni.

 

Quando rientro a casa, dopo aver accompagnato Jack da Sofia, James dorme e Tom sta guardando una partita di tennis in tv: non è un fanatico dello sport, per cui intuisco che non trasmettano niente di meglio.

< Ha telefonato Kristen poco fa. > Mi saluta, mentre io mi libero della giacca e lascio cadere le chiavi nello svuota-tasche all'ingresso.

< Ha chiamato anche me. > Rispondo, controllando velocemente la posta.

< Hai accettato che venga a trovarti. > Afferma. Sento il suo sguardo su di me, ma non ho nessuna intenzione di ricambiare l'occhiata.

< Sì, ho riflettuto sul fatto che non c'è niente di male nell'accettare l'aiuto di un'amica. > Mi dirigo verso la cucina, seguito a ruota da lui.

< E cos'è che ti ha fatto cambiare idea così repentinamente? > Lo osservo: sorride furbo, come se sapesse qualcosa che io ignoro.

< Beh, tu sei qui, no? Voglio dire, mi stai aiutando con James e ho semplicemente pensato che potrebbe essere d'aiuto anche lei. > Faccio spallucce.

< Non hai fatto altro che ripetermi che non avevi voglia di vederla, che non avevi bisogno d'aiuto, che lei sarebbe stata l'ultima persona al quale l'avresti domandato, in ogni caso, e adesso hai cambiato idea? > Continua.

< Oh, ma insomma! Che ti prende! Mi hai consigliato tu, fin dall'inizio, di darle una seconda possibilità, di permetterle di scusarsi e mi hai riempito la testa con i tuoi è pentita, non avrebbe voluto che la vostra storia finisse in modo così brusco, non sai quello che ha dovuto passare, ed ora mi rimproveri perché ho cambiato idea? > Sbotto, facendogli il verso e aprendo il frigorifero per estrarre una lattina di Coca-Cola.

< Sì, beh, credo ancora a quello che ho detto, che dovresti darle una seconda possibilità, come amica, ovviamente, però poi ho pensato a James e all'effetto che potrebbe fare su di lui una presenza femminile che non fa parte della famiglia. Insomma, non ha mai conosciuto Solephine, non l'ha neanche mai vista... se si affezionasse a Kristen, considerandola sua madre? > Prende posto su uno degli sgabelli accanto alla penisola, giocherellando nervosamente con le mani.

< Non dovrò certo ospitarla qui e, in più, ci occupiamo noi di lui, no? Se ho accettato la sua visita non è certo perché possa sostituire Solephine; e poi suppongo che non abbia intenzione di fermarsi a lungo. > Le paure di Tom sono fondate, avevo cominciato a pensarci anch'io, ma, in fondo, è solo una visita di cortesia, la sua; potrà protrarsi una settimana, ma dubito che voglia soggiornare qui più a lungo: ha sempre odiato New York e il suo frastuono.

E poi, in ogni caso, cosa avrei da temere?

 


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Capitolo 6
*** I Miss You so Bad ***


Salve, ragazze!

Ovviamente, devo cominciare, anche questo volta, l'aggiornamento seguente con delle scuse enormi quanto una casa per il ritardo. Pensavo di riuscire a scrivere e ad aggiornare più in fretta adesso che sono in vacanza dallo studio (ahimé, ancora pochi giorni e poi devo ritornare sui libri -.-"), invece, al solito, non è andata proprio come speravo e ho tardato nuovamente. Sono davvero dispiaciuta dell'immenso ritardo e spero, in qualche assurdo modo, di farmi perdonare con questo capitolo (non lanciatemi i pomodori, vi prego, semmai gelati, o acqua gelida, visto il caldo -.-").

Parlando proprio del capitolo: non c'è molto da dirvi, se non che siamo ormai giunti al fatidico arrivo di Kristen in casa Pattinson. Lo so, lo so, non ne siete entusiaste (o meglio, non so se tra qualcuna di voi ci sia qualche sostenitrice dei Robsten, perché, in tal caso, anche se la trama di questa Ff lo esplica chiaramente, ma io ci tengo a ribadirlo, questa non è una Ff Robsten; se, invece, siete simpatizzanti dei Robsten e non disdegnate Robert con altre fanciulle, beh, sappiate che, in ogni caso, Robert e Kristen non finiranno per sposarsi e avere tredici bambini; se non siete Robsten e preferite qualsiasi altra donna a Kristen, accanto al bell'attore inglese, ecco, state leggendo la Ff giusta, anche se la Stewart era anch'essa necessaria, purtroppo); dicevo, non ne siete entusiaste, ma, come ho ribadito anche nella risposta ad una recensione, Kristen è in questa Ff un po' lo Smeagle de Il Signore degli Anelli, nel senso che, nel bene o nel male, ha ancora una parte da recitare, quindi, dovrete provare a sopportarla ancora un po' e se proprio non ce la fate, vi autorizzo a saltare a piè pari questo e i prossimi capitoli, senza problemi. Non mi offendo mica :) Se vorrete rimanere, posso solo confortarvi affermando nuovamente che Kristen e Robert non si fidanzeranno/sposeranno/faranno dei figli insieme/si daranno al sesso sfrenato di coppia :D Se può esservi di conforto, non so :)

Ok, a parte questi sproloqui inutili che non so quanto possano essere utili, aggiungo soltanto che il flashback che ho inserito circa a metà del capitolo, è, finora, uno dei miei preferiti in assoluto *.* Lo so, sono di parte, ma credo che esprima la vera essenza della coppia Robert/Solephine, a mio modestissimo avviso <3

Concludo, ringraziando, ancora una volta, le persone che hanno commentato lo scorso capitolo, che hanno letto, inserito tra le preferite/seguite/da ricordare questa Ff: GRAZIE A TUTTE! <3

Non mi resta che augurarvi una splendida settimana e, ovviamente, una...

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Three Stones Trailer by TheCarnival

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Run-Leona Lewis

 

 

 

 

 

 

 

 


5. I Miss You so Bad

 

 

 

 

 

E' un'ora che James piange; un'ora e dieci minuti, per essere precisi, e sembra avere tutta l'intenzione di continuare a farlo.

< Cosa succede, piccolino, eh? Stai facendo disperare tutti, sai? > Lo cullo, continuando a camminare da un lato all'altro del salotto, reggendolo contro la mia spalla. In realtà, ho mentito, il tutti non esiste, siamo soltanto io e lui, qui, a goderci il silenzio della casa, ma non credo che conti come bugia aver detto una mezza-verità ad un neonato, giusto? In fondo, non ne conosce la differenza e probabilmente neanche riesce a capirmi, quando parlo.

Cerco di mantenere la calma, come mi hanno insegnato le decine di libri che ho letto sui neonati insieme a Solephine, anche se è difficile quando sei sicuro che, da un momento all'altro, ti esploderà un timpano.

Un'ora fa era in compagnia di Tom e di mio padre e sembrava divertirsi o, almeno, è quello che sono riuscito ad interpretare tra i suoi urletti eccitati e i suoi sorrisi; poi, quando Tom era dovuto uscire alla volta dell'aeroporto per accompagnare Kristen qui, e mio padre è stato richiamato da mia sorella, ha cominciato a piangere. Ho provato a coinvolgerlo negli stessi giochi che sembravano divertirlo tanto un momento prima, ma senza nessun risultato; ho pensato che avesse fame, ma non c'è stato verso di convincerlo a bere il latte; gli ho cambiato il pannolino, nonostante non fosse sporco, convinto che gli desse fastidio, che l'avessi messo male, ma ha continuato ad agitarsi e a piangere senza freni.

Non sono neanche riuscito a prepararlo per andare dal pediatra, tanto che ho dovuto rimandare l'appuntamento.

Poi, come un fulmine a ciel sereno, penso che Sole saprebbe cosa fare, perché una mamma sa sempre cosa fare, mentre io sono un incapace; sono solo, in tutti i sensi, non importa l'aiuto che ricevo dai miei genitori, da Jack, da Tom o da Sophia; sono solo, e lo rimarrò fin quando Solephine rimarrà in ospedale, in quella stanza asettica e fredda.

Sapevo che non sarebbe stato facile, sapevo a cosa saremmo andati incontro con la nascita di un neonato, ma non sapevo che avrei dovuto farmi carico di tutto, non sapevo che mia moglie sarebbe rimasta coinvolta in un incidente, che avrebbe rischiato la vita e sarebbe finita in coma.

Non ho idea neanche di come abbia fatto a resistere fino ad ora, a non esplodere, perché è così che mi sento: una bomba ad orologeria, pronta a scoppiare e a mandare tutto all'aria.

All'improvviso mi sento debole, mi formicolano le mani e ho la sensazione di cadere. Mi accascio sul divano, preoccupandomi che James non si faccia male, mentre lo sistemo accanto a me, disteso, le mani che tremano.

Respiro affannosamente e il cuore sembra voglia schizzarmi dal petto; mi tremano le mani, mi gira la testa e avverto caldo e freddo insieme, come se avessi la febbre.

Sono più fragile di quello che pensavo, più debole di quello che gli altri credono e, nonostante ce la metta tutta, non riesco a prendermi cura di mio figlio nella maniera che vorrei, non riesco a farlo smettere di piangere, a fargli il bagnetto senza farlo innervosire, a farlo addormentare raccontandogli una fiaba.

Non ci riesco, perché la mia mente è altrove, perché non sono sufficientemente concentrato, perché non faccio altro che pensare e ripensare a quel maledetto giorno dell'incidente, a quanto vorrei aver insistito perché Solephine non guidasse, a quanto vorrei essermi liberato prima da quella noiosa riunione per andarla a prendere personalmente, a quanto vorrei che fosse qui, che vedesse James crescere, così come lo vedo io ogni giorno arricciare il naso in maniera diversa, o corrugare le sopracciglia, cercando di imitare Tom, o sorridere senza apparente motivo.

La testa tra le mani, cerco di ritornare a respirare in maniera normale, stropicciandomi i capelli e ritrovando il controllo. Mi volto verso James, che mi osserva placido dalla sua posizione supina, agitando i piedini in aria e gorgogliando. Non mi sono neanche accorto che ha smesso di piangere. Gli sorrido e allungo una mano verso di lui per carezzargli la pancia e asciugargli gli ultimi residui di lacrime dalle guance.

Il rumore della chiave nella serratura mi distrae e, per un attimo, un solo, magnifico e impossibile attimo, immagino la figura di Solephine aggirarsi nell'ingresso, spogliarsi del cappotto, sistemarsi i capelli allo specchio sistemato accanto allo svuota-tasche e accendere la luce in cucina, credendo che io non sia ancora tornato a casa. Ho gli occhi aperti, ma è come se stessi sognando, come se la mia mente mi stesse giocando uno scherzo di pessimo gusto.

Le voci mi disorientano, permettendomi di ritornare alla realtà. La risata che riesco a sentire non è quella di Solephine, così come il rumore delle borse posate maldestramente a terra, perché Solephine non fa mai rumore, è silenziosa come un gatto e discreta come un'estranea. E' entrata nella mia vita all'improvviso, ma con cautela; mi ha aiutato a raccogliere i resti del mio cuore dall'angolo più buio della mia anima e ha cercato di ricomporli senza presunzione, delicatamente, cambiandomi, ma stando attenta a non spostare nulla. A Sofia piace ricordare che, quando è nata, non ha neanche pianto, e non perché non riuscisse a respirare, ma semplicemente perché non ne aveva sentito il bisogno, se non quando l'ostetrica l'aveva scossa appena, credendo qualche complicazione e allora lei aveva urlato e pianto, facendola sorridere.

E' sempre stata così, ha sempre preferito farsi amare in silenzio.

Sollevo James in braccio, adagiandolo contro la mia spalla e mi alzo, camminando in direzione delle voci di Tom e Kristen.

Nessuno dei due si accorge subito di me, intenti come sono a rovistare in un borsone di Kristen alla ricerca di chissà cosa.

E' lei ad alzare per prima lo sguardo, reggendo in mano un pacco regalo con un enorme fiocco azzurro in cima.

< Robert! Tom mi ha detto che eri dal pediatra... > Riassume la posizione eretta e nasconde la scatola dietro la schiena, anche se probabilmente sa che l'ho già vista.

< Non sono riuscito a calmare James; ha pianto ininterrottamente fino ad un istante fa, così sono stato costretto a disdire l'appuntamento. > Rispondo, sorridendo appena. Quasi avesse riconosciuto il suo nome, mio figlio scalcia, forse desideroso di conoscere il possessore della voce che ha sentito, tanto che a stento riesco a calmarlo il necessario per voltarlo nella direzione giusta.

Kristen lo osserva meravigliata, come se non avesse visto niente di più bello in vita sua.

< E'... bellissimo! Ed è già così cresciuto! Tom mi ha fatto vedere la foto che tua sorella gli ha mandato appena nato e adesso... insomma, è quasi un ometto. > Mi si avvicina, sorridendo dolce, tendendo la mano per accarezzare quella infinitamente più piccola di James, ma lui sembra attratto dai suoi capelli lunghi, che quasi lo sfiorano, così è ad essi che indirizza la mano, afferrandoli e strattonandoli debolmente.

Sorrido divertito, cercando di fargli lasciare la presa, anche se Kristen non sembra infastidita dalla situazione.

< Posso prenderlo in braccio? > Mi chiede con aspettativa ed io annuisco, lasciando che lo afferri con attenzione.

< Ma ciao! Lo sai che sei bellissimo? > Gli accarezza i capelli, facendolo sorridere e strattonare con sempre più insistenza la ciocca di capelli dalla quale sembra non volersi proprio separare.

Nel frattempo, il pacco regalo è finito tra le mani di Tom, che non tenta neanche di nasconderlo.

Kristen nota il mio sguardo curioso e se ne riappropria, porgendomelo con un sorriso.

< E' per James. O meglio, è per entrambi. Spero possa tornarti utile. > Commenta.

Disfo il fiocco con attenzione, anche se alla carta, decorata da minuscoli palloncini colorati, non riservo la stessa cura; quasi la appallottolo nel tentativo di scoprire il regalo il più in fretta possibile.

E' un album di fotografie.

Semplice, con la copertina leggermente in rilievo e il disegno di un neonato che regge in mano un sonaglio colorato, al centro. Le pagine sono color sabbia e sono tutte dedicate ad un evento particolare: il mio primo compleanno, il mio primo Natale, la mia prima passeggiata. 

< Grazie, è... voglio dire, nessuno aveva ancora pensato di regalarmi un album di foto e, se non contiamo quelle che gli hanno scattato Tom e le mie sorelle, James ne ha davvero pochissime degne di figurare in un album, perciò... grazie. > La vedo arrossire, James ancora in braccio che sembra sul punto di addormentarsi e Tom che ci guarda come se fornissimo uno spettacolo raro.

< Figurati. Ho solo pensato che, conoscendo Tom e le tue sorelle, sarebbe già stato pieno fino all'inverosimile di giocattoli e accessori. > Risponde, camminando fino al divano, prendendo posto con accortezza, accertandosi che James non si faccia male.

Non avrei mai pensato che sarebbe potuta essere così a suo agio con un bambino in braccio. Solo qualche anno fa, dopotutto, non lo era, ma suppongo che, da allora, siano cambiate molte cose.

< Non ti dispiace dividere la stanza con Tom, vero? > Le chiedo in imbarazzo, mentre Tom trascina via le sue valigie.

Scuote la testa e mi sorride.

< Bene! Ehm... se hai bisogno del bagno è la seconda porta a destra, la camera di James è quella accanto e le due stanze da letto sono a sinistra. > Le spiego, sentendomi un idiota.

Non sembra molto interessata a quello che sto dicendo, presa com'è dall'accarezzare la schiena a James, sussurrandogli qualcosa che non riesco a sentire.

Quello che Tom mi ha detto solo qualche giorno fa, mi si riaffaccia alla mente: voglio davvero che Kristen prenda il posto di Solephine? Voglio davvero permetterle di prendersi cura di James? E se Sole dovesse svegliarsi tra due, tre anni e James non la riconoscesse come sua madre, così abituato alla presenza di Kristen? Non dovrà stare con noi per sempre, certo, ma i primi mesi sono importanti per un neonato, sono quelli in cui impara a riconoscere i genitori attraverso l'odore, il suono della voce ed io non voglio confonderlo, non voglio che pensi che Kristen sia sua madre.

Mi avvicino, tendendo le mani per farmi riconsegnare James e quello che noto sono i suoi occhi verdi contrariati.

< Si sta addormentando, credo. > Suona quasi come un rimprovero la sua voce. Non vuole svegliarlo e neanch'io, ma non voglio neanche che continui a tenerlo in braccio.

< Devo cambiarlo e poi per lui è quasi ora di pranzo. > Spiego, cercando di non essere prepotente.

< Posso farlo io, li so cambiare i pannolini, sai? > Mi osserva divertita, alzandosi nuovamente in piedi, costringendomi a spostarmi.

< No, non ce n'è bisogno, Kristen, posso farlo io. > La seguo nel corridoio e poi in direzione della stanza di James.

< Sono qui per aiutarti, Robert, o no? Non voglio mangiarlo, sta' tranquillo. > Mi prende in giro, sistemando James sul fasciatoio, individuando, senza neanche darmi la possibilità di indicarle il posto di ogni oggetto, un pannolino pulito, le salviette e il borotalco.

Lui non protesta, mezzo addormentato, si lascia pulire e coccolare, seguendo i movimenti di Kristen con attenzione.

Non appena finisce di sistemargli la tutina, lo prendo in braccio prima che possa farlo lei.

< Posso occuparmene io, Robert. Dovresti rilassarti, d'accordo? > Mi segue in cucina.

< Sono il padre, Kristen, e poi ci sono abituato, ormai. Tu dovresti riposarti, sei appena arrivata. > Riscaldo il latte, mentre lei mi rivolge l'ennesima occhiata di rimprovero e rassegnazione.

Tuttavia, mi ascolta e mi lascia in balia del biberon per andare a farsi una doccia e disfare le valigie.

Non sono più così sicuro di volerla qui, con James.

Quando Tom mi raggiunge, qualche istante più tardi, mi osserva divertito e saccente.

< Cosa? > Sbuffo, lanciandogli un'occhiata esasperata.

< Non ho detto niente! > Alza le mani, evidenziando il concetto.

< No, ma lo stai pensando. > Reggo il biberon di James, mentre lui beve avido.

< Stavo solo riflettendo sul fatto che non sembri molto contento che sia qui. > Risponde, scrutandomi con attenzione.

< Beh, non l'ho propriamente invitata; si è offerta lei di venirci a trovare. > Rispondo, cercando di non far trasparire i miei reali pensieri a riguardo.

< Hai accettato, però. Avresti potuto dirle qualsiasi cosa, inventarti qualsiasi tipo di scusa, invece le hai dato il tuo benestare. > Fa spallucce, il che mi lascia intendere che, secondo lui, è soprattutto colpa mia.

Sospiro.

< L'ho vista con James, prima e ho pensato a quello che mi hai detto qualche giorno fa, al fatto che potrebbe sostituire Sole e non perché io lo voglia, ma perché James potrebbe affezionarsi a lei; in fondo, è la prima persona di sesso femminile che si fermerà da noi per qualche tempo. Non voglio confonderlo e non voglio che pensi che Kristen sia la sua vera mamma. Sole ha solo bisogno di tempo, si sveglierà e vorrà conoscerlo e non voglio che si abitui all'odore di qualcun'altra. > Esterno i miei pensieri, incapace di fermarli e di fermarmi.

< Dovresti parlarne con lei. E' qui per aiutarti e dovresti suggerirle tu come farlo meglio, di cosa hai davvero bisogno e di cosa no. Lei, ora come ora, può soltanto improvvisare. > Afferma pratico, dirigendosi verso il frigorifero per concedersi una lattina di birra.

Annuisco in silenzio, abbassando lo sguardo su mio figlio, che mi osserva con curiosità.

Gli sorrido, accarezzandogli il profilo del naso con un dito, facendogli chiudere gli occhi per la sorpresa ed agitare le manine nella mia direzione.

 

Robert posò il mento sulla spalla di Solephine, intenta a battere velocemente i tasti della tastiera del computer per riuscire a terminare l'articolo che le era stato richiesto due giorni prima, entro le ventuno, orario in cui il quotidiano per cui lavorava chiudeva i battenti per organizzarsi in vista della stampa.

Ci aveva lavorato tutto il giorno, consapevole che le sarebbero occorse, come minimo, quattro ore per mettere la parola fine al foglio; peccato che si erano rivelate essere molte di più. Non aveva tenuto conto del fatto che Robert sarebbe rimasto a casa con lei, avendo terminato, pochi giorni prima, le riprese del suo ultimo film. Aveva tentato di distrarla dal suo lavoro in ogni modo possibile, provocandola con il suo gironzolarle davanti senza maglietta, fingendo indifferenza e, alla fine, suo malgrado, era stata costretta a cedere alla tentazione e a fare l'amore con lui.

Quando si era decisa ad abbandonare il confortante tepore delle lenzuola, Robert l'aveva seguita e l'aveva fatta accomodare sulle sue gambe, stringendola a sé e osservandola ammirato.

Aveva partecipato ad una mostra, quel lunedì e avrebbe dovuto renderne conto ai lettori, in quanto l'artista non aveva ancora raggiunto la maggiore età, che già era stato acclamato come il nuovo Picasso. Non era stata affatto entusiasta dell'incarico; sperava che Vince, il direttore, lo affidasse a George, più ferrato di lei in materia artistica, invece, George aveva ricevuto il compito di redarre una recensione sul nuovo film in uscita quella settimana con protagonista Tom Cruise e a lei era toccata la mostra più noiosa del secolo.

< La mostra non ti è piaciuta affatto. > Osservò Robert, leggendo le ultime righe.

< Non che ne capisca molto di pittura, ma ho fatto le dovute ricerche e, a quanto pare, non sono neanche l'unica a pensare che questo ragazzino sia stato decisamente sopravvalutato. > Rispose lei, dando un'ultima occhiata ai suoi appunti.

< E poi, non riesco ad apprezzare i quadri astratti; ho sempre l'impressione che soffochino qualcosa. Preferisco un paesaggio, un volto, qualcosa che riesca ad emozionarmi, insomma. > Continuò, firmando l'articolo e inviandolo direttamente alla redazione, senza rileggerlo in cerca di eventuali errori: una sua cattiva abitudine, come la definiva sempre Vince che, nonostante ciò, non aveva avuto mai nulla da ribadire sulla qualità dei suoi scritti.

Robert le baciò una spalla, strofinando il naso contro i suoi capelli profumati, facendola sorridere.

< Stavo pensando che sarebbe il momento adatto per avere un bambino. > Mormorò. In realtà, da quando aveva sposato Solephine, gli era sempre sembrato il momento adatto, anche se non l'aveva espresso in nessun modo, se non nei suoi pensieri. Conosceva il desiderio di Sole di diventare, prima o poi, una mamma e lui si sentiva abbastanza pronto per prendere in considerazione l'idea, perciò, perché no?

< Hai parlato con mia madre. > E non era una domanda la sua, ma un'affermazione, perché, proprio qualche giorno prima, aveva telefonato a casa di sua madre in un ritaglio di tempo libero e lei le aveva ripetuto la domanda che le rivolgeva sempre, ogni singola settimana, da quando erano convolati a nozze: "Allora, quando vi decidete a farmi diventare nonna?". Solephine le aveva spiegato, come sempre, che era un periodo piuttosto impegnativo quello, soprattutto per Robert e che non vedeva come una gravidanza sarebbe potuta essere d'aiuto e allora sua madre aveva sospirato sconfitta, tornando a parlarle del più e del meno.

< No! Insomma, l'insistenza di tua madre a riguardo non c'entra assolutamente nulla. Abbiamo deciso di costruire una famiglia insieme, no? Beh, mi sembra giunto il momento di allargarla, tutto qui. > Rispose con enfasi.

Solephine alzò gli occhi al cielo.

< Ma davvero? > Lo apostrofò divertita.

Lui annuì, sorridendole sereno.

< E suppongo che sia per questo motivo che non stai facendo altro che provocarmi da stamattina. > Gli agganciò le braccia al collo, sfiorandogli le labbra con un bacio.

< Non faccio l'amore con te soltanto perché desidero un bambino, Sole. > Fu lui, questa volta, a baciarle le labbra e ad accarezzarle, lieve e delicato, la coscia nuda con il dorso di un dito.

< Vuoi dimostrare la tua teoria circa il fatto che sia una ninfomane, allora? > Rise, scompigliandogli i capelli.

< E' la verità: non riesci a resistermi. > La baciò ancora, delineando il profilo dei suoi slip con la punta dell'indice.

Solephine gli accarezzò le spalle, solleticandogli, poi, i capelli più corti della nuca.

< E' scorretto corrompermi, sai? > Gli fece presente quando si separarono, fintamente arrabbiata.

Robert le sistemò i capelli dietro le orecchie con attenzione, abbracciandola.

< Mi sei mancata a Toronto, sai? > Le confessò dopo qualche istante, accarezzandole la schiena.

< Vince mi ha negato quel maledetto permesso e George ha deciso di ammalarsi proprio quando avevo progettato di venire a farti visita, approfittando dello slittamento della rubrica di due settimane. > Borbottò contrariata.

Aveva pianificato tutto per poterlo raggiungere sul set e, ancora una volta, niente era andato per il verso giusto. Due mesi senza vederlo, senza poterlo sfiorare, costretta ad accontentarsi della sua voce a telefono e dei rari incontri su Skype. Una tortura.

< Mi sei mancato anche tu, non immagini quanto. > Aggiunse, chiudendo gli occhi e stringendolo a sé un po' di più.

< Un bambino ti aiuterebbe a sentire di meno la mia mancanza. > Dichiarò lui sorridente.

Solephine si allontanò appena dalle sue braccia, quel tanto per osservargli il viso.

< Lo credo bene! Con tutto il da fare che avrei, ti dimenticherei totalmente. > Rispose divertita.

< Ecco, vedi? Una distrazione è proprio quello che ti serve. > Le strinse i fianchi con entrambe le mani, avvicinandosi al suo viso.

< Non c'è bisogno che tu mi convinca che avere un bambino sarebbe la cosa giusta; lo voglio anch'io, ma forse è troppo presto: hai molti progetti da portare a termine, eventi ai quali partecipare... non saresti con me nei primi mesi ed io voglio che tu sia presente al primo incontro con l'ostetrica, alla prima ecografia, al lievitare sensibile della mia pancia e alle mie richieste assurde nel cuore della notte. > Rise insieme a lui sull'ultima frase, avvicinandoglisi per permettere alle loro fronti di combaciare perfettamente.

< Ci sarò sempre, te lo prometto e se questo vorrà dire rinunciare a qualche progetto, a qualche manifestazione cinematografica o a qualche premier, lo farò; rimarrò con te. Sei tu la cosa più importante, adesso. > Sussurrò in risposta, cercando di tranquillizzarla.

< Le frasi che fanno capitolare ogni donna-Parte Seconda. > Scherzò, baciandolo brevemente.

< E la Parte Prima quale sarebbe? > Le domandò divertito.

< Oh, beh, sai, quel discorsetto strappalacrime che mi hai fatto quando mi hai chiesto di sposarti. > Lo prese in giro. In realtà, aveva pianto eccome, quella sera; non l'aveva mai fatto per qualcosa di così bello.

Senza alcun preavviso, Robert la sollevò in braccio, alzandosi dalla sedia, caricandosela poi sulle spalle come un sacco di patate, facendola ridere e scalciare.

< Mi dispiace, ma questa volta l'hai detta davvero grossa, non posso lasciarti impunita. > Avanzò verso la camera da letto, fingendosi arrabbiato e offeso, adagiandola sul materasso e sovrastandola, bloccandole i polsi sulla testa con entrambe le mani, anche se lei non si stava affatto ribellando, anzi, aveva accolto i suoi baci irruenti con un sorriso, circondandogli la vita con le gambe per averlo più vicino.

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Capitolo 7
*** Talk ***


Salve a tutti e buon sabato!

Mi tocca iniziare anche quest'aggiornamento con delle scuse, perché sono assente dall'universo EFP in qualità da autrice da quasi un mese e posso solo dare la colpa a me stessa, perché prima avevo zero ispirazione per scrivere, quando invece durante il periodo trascorso a studiare, ne avevo fin troppa, poi, piuttosto che riposarmi in queste ultime settimane di settembre, ho fatto più di prima, poi ci si sono messi di mezzo appuntamenti che avevo già preso in precedenza e che non potevo rimandare, e che mi hanno impossibilitata a scrivere e poi, diciamo la verità, anche un po' di pigrizia, che spesso e volentieri non mi ha fatto aprire il file della storia. Insomma, un bel mix, non vi pare?

Comunque, mi scuso con tutti coloro che hanno atteso (o forse no) l'aggiornamento per tutto questo tempo e mi scuso soprattutto con le deliziose personcine che commentano sempre e con affetto mi sostengono. Credo che sia a loro che devo le mie più profonde scuse per averle fatte attendere così a lungo, se non contiamo qualche piccolissimo spoiler nel gruppo su Facebook, che ricordo essere You thought you know me; vi ricordo, inoltre, che il gruppo è privato, perciò per accedervi dovrete inviarmi una richiesta che, non temete, accetterò volentieri :)

Dopo essermi, per l'ennesima volta, prodigata nelle scuse, dopo aver fatto pubblicità non richiesta, credo di poter spendere due paroline sul capitolo che vi apprestate a leggere. Dunque, voglio ritornare brevemente sulla questione Kristen, principalmente perché più di qualcuna nelle recensioni si è dimostrata felice del fatto che tra lei e Robert non sarebbe successo nulla. E' vero che ho precedentemente assicurato che tra lei e Robert non sarebbe successo nulla, ma vero è che questa frase potrebbe essere equivoca, ovvero, potrebbe voler dire non succederà davvero nulla-nulla, oppure non succederà nulla, nel senso di non rilevante; ecco, la mia frase, nello specifico, faceva riferimento a questa seconda interpretazione: qualcosa succederà, ma, qualsiasi cosa sia, di qualsivoglia natura, non comprometterà assolutamente il matrimonio di Robert, né il suo rapporto (se ancora ci sarà) con Solephine. Quindi, in sostanza, rincuoratevi, ma non troppo :D

La seconda e ultima parolina che voglio spendere su questo capitolo, è che l'Hyatt Regency Palais, che nomino nel flashback, è davvero un albergo a cinque stelle, situato a Nizza, più precisamente, direttamente sulla spiaggia. Non ho idea, però, se le stanze siano come quella che ho sommariamente descritto io, se ci sia un cocktail di benvenuto o meno, se la hall sia davvero come l'ho presentata; insomma, l'hotel esiste, ma tutto il resto è frutto della mia inventiva/immaginazione. Ci tenevo a precisarlo :)

Detto questo, ringrazio ancora una volta le splendide persone che hanno commentato lo scorso capitolo, quelle che hanno letto, che hanno aggiunto la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare *.* UN GRAZIE IMMENSO! <3 Non so davvero cos'altro dirvi per dimostrarvi la mia riconoscenza, davvero *.*

Ora, visto che ho scritto anche troppo, vi lascio al capitolo, con la promesse che per il prossimo non trascorrerà un mese, lo giuro! :)

 

Buon week-end e buon inizio di settimana a tutti e, ovviamente...

 

 

 

 

... Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Three Stones Trailer by TheCarnival

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6. Talk

 

 

Vengo svegliato dal suono del campanello. Getto un'occhiata alla sveglia sul comodino: le nove. E' tardi, almeno per me, abituato ad essere svegliato dalle urla di James già alle sei del mattino, senza contare le altre, numerose, sveglie notturne, sempre ad opera sua.

Forse ci ha pensato Tom, mi dico, alzandomi e rendendomi presentabile quel minimo per aprire al primo visitatore della giornata.

Qualcuno, però, mi ha preceduto: Kristen. 

E' già attiva, perfettamente a suo agio, nonostante sia qui da neanche una settimana, e accoglie Sofia come se fosse sua madre, facendola accomodare in cucina e aiutandola con le borse della spesa.

< Buongiorno. > Borbotto a mezza voce, sedendomi su uno degli sgabelli che circondano la penisola al centro della stanza, spaventandole, impegnate come sono nei convenevoli di rito.

< Robert. Buongiorno a te. > Mi saluta Sofia, sorridendomi.

< Caffè? > E', invece, il saluto di Kristen, che spinge verso di me una tazza piena del liquido nero.

< James? > Domando, apparentemente tranquillo.

< Tom lo sta vestendo. > Risponde lei, sorridendo ad entrambi.

Bevo un sorso di caffè; è zuccherato esattamente come piace a me e, all'improvviso, ho voglia di vomitare, di alzarmi dallo sgabello e di correre in bagno. Kristen era stata la mia ragazza, tempo addietro, certo, ma prima di allora, non era mai riuscita a zuccherare il mio caffè in maniera perfetta, tanto che io continuavo a prenderla in giro, affermando che non poteva davvero essere così innamorata di me, come diceva, se non riusciva a ricordare neanche con quanti cucchiaini di zucchero bevessi il caffè.

Solephine aveva indovinato fin da subito, fin dalla prima mattina che avevamo diviso, dopo esserci entrambi addormentati guardando un film noioso alla tv e lei, gentile ed ospitale, mi aveva svegliato con l'odore di ciambelle e caffè allo zenzero, esattamente due cucchiaini di zucchero al suo interno.

Mi aveva sorpreso e lei era arrossita quando gliel'avevo confessato.

Il vuoto allo stomaco che provo in questo momento, quando mi rendo conto che Kristen ha preso possesso della mia casa troppo in fretta e con troppa disinvoltura, non può essere paragonato minimamente a quello che ho provato, sapendo che Solephine aveva avuto un incidente e rischiava la vita.

< Lei chi è? > La domanda di Sofia mi distrae dai miei pensieri.

La osservo: l'espressione gentile di poco prima, scomparsa, così come il sorriso pieno e sereno.

< Un'amica e una collega. > Cerco di non balbettare, di non peggiorare la situazione.

< Ed è qui per...? > Si acciglia, mi scruta come se le stessi nascondendo qualcosa.

< Voleva aiutarmi... voleva aiutarmi con James, ha continuato ad insistere sul fatto che se avessi avuto accanto degli amici, sarei riuscito a condurre una vita quanto più normale possibile, che non potevo fare tutto da solo, che non potevo permettere che l'incidente di Sole avesse ripercussioni anche sul piccolo... > Perché è successo tutto così in fretta, cosa è cambiato davvero?

< Anche noi siamo qui per aiutarti, Robert. > La sua espressione si trasforma ancora, diventando nuovamente dolce e comprensiva, lo posso capire dal suo tono di voce, mentre poggia una mano sulla mia, impegnata a reggere la tazza di caffè tra le mani, costringendomi a sollevare lo sguardo per incontrare i suoi occhi.

< E comunque, non mi pare che James abbia avuto qualche ripercussione; non fino ad ora, comunque. Si è abituato ad avere due papà intorno. > Sorride, riferendosi a Tom e lo faccio anch'io. Forse dovrei cominciare a preoccuparmi del fatto che potrebbe chiamare papà Tom, piuttosto che me, considerato che è lui che vede costantemente, ogni ora, da quando si sveglia, fino a quando va a dormire la sera.

< Avrei dovuto avvisarti di Kristen, mi dispiace. > Borbotto a mezza voce, arrossendo per il senso di colpa.

< Non devi giustificarti con me, Robert e neanche con Sole, se è questo che temi, e non devi sentirti in colpa. Abbiamo tutti dei momenti di debolezza, no? E, per la cronaca, ti stai comportando benissimo, con tutti, specialmente con James. Sole aveva ragione quando diceva che saresti stato un padre perfetto. > Mi scompiglia i capelli con fare materno, cominciando a sistemare la spesa nella credenza.

Rimango attonito per qualche istante, immagazzinando le sue parole: Kristen era davvero stata soltanto una debolezza? E, in tal caso, avevo così bisogno di lei, da non interrogarmi neanche sul perché avessi improvvisamente accettato la sua presenza, soltanto perché era riuscita ad indovinare i miei fantasmi e a farmi rendere conto che avevo bisogno d'aiuto, ma che non avrei voluto chiederlo? Avevo accettato solo perché non volevo essere rimproverato, o perché avevo davvero voglia di cambiare atteggiamento nei confronti degli altri, di chi mi sta vicino?

Solephine sarebbe davvero fiera di me, se mi vedesse? Di come mi sto comportando con James? Forse, quella di Sofia è solo una banale rassicurazione, solo un modo come un altro per non farmi abbattere, per tenere alto il mio morale.

< Robert, lo terresti tu, mentre gli preparo il latte? > Kristen attende la mia risposta, ma io non mi accorgo di lei, troppo concentrato sui miei pensieri. E' James a riportarmi alla realtà, cominciando a piangere, le mani protese verso di me per farsi prendere in braccio.

Scuoto la testa, risvegliandomi dalle mie elucubrazioni, accogliendolo contro il mio petto e cullandolo, sperando che si calmi in fretta.

Kristen mi sorride e si avvicina ai fornelli, Sofia che ancora si affaccenda intorno alla dispensa, nel tentativo di farci entrare tutto quello che ha comprato.

Quando riesce, non senza sforzo, a chiudere le ante di ogni singolo ripiano che ha riempito, e ci lascia soli frettolosamente con la scusa di un impegno dimenticato, sospiro, accarezzando i capelli di James, ma non so se è un sospiro di sollievo, o di semplice constatazione.

< Ecco, è pronto. > Kristen mi tende il biberon adeguatamente riscaldato ed io la ringrazio, afferrandolo.

Mentre James già succhia avido, la osservo sedermisi di fronte, poggiare il mento sul palmo della mano e osservare la scena con un sorriso.

< Cosa c'è? > Le domando, corrugando le sopracciglia, in imbarazzo.

Fa spallucce e scuote la testa.

< James è fortunato ad avere un padre come te. > Risponde alla fine.

Arrossisco e abbasso lo sguardo, in palese difficoltà. Non sono mai stato un tipo da complimenti ed elogi.

< Tom mi ha aiutato moltissimo e anche tu stai facendo tanto; non sono mai solo, ecco perché vi sembra che sia così bravo. > La mia non è falsa modestia, è semplice verità. Sono sempre circondato da persone più esperte di me, che sanno sempre cosa fare e che mi danno continuamente consigli. Agli occhi esterni posso risultare un padre perfetto, ma la verità è che ricevo quasi sempre un aiuto al momento giusto, dalle persone giuste.

< Sciocchezze! Cambiamo i pannolini, riscaldiamo il latte e giochiamo con lui quando sei via, ma sei tu la persona che gli dà davvero quello di cui ha bisogno: affetto, amore, protezione. Rimani ore in camera sua a guardarlo dormire, ti ho visto, sai? Tom non l'hai mai fatto e nemmeno io. Diamo per scontato che se avrà fame o avrà bisogno di essere cambiato, piangerà; tu, invece, no, sei lì anche quando potresti dormire, recuperare le ore di sonno perse o potresti essere a divertirti chissà dove, sicuro della nostra presenza. Insomma, quello che sto cercando di dirti, è che James non avverte la mancanza di Solephine, perché tu svolgi il lavoro di entrambi, perché ti sente sempre vicino e sente vicino anche lei, perché ce l'hai negli occhi la sua immagine, il suo viso, è come guardare in uno specchio e vederci riflesso qualcosa che va al di là della tua immagine. > Continua, lasciandomi sorpreso.

< Non fate altro che ripeterlo, tutti. Cosa dovrebbe voler dire? Che James dovrà abituarsi all'assenza della madre? Che lei non tornerà più? > Ho di nuovo le lacrime agli occhi e questa volta non mi interessa che mi veda così, così come sono, fragile e a pezzi e arrabbiato e solo. 

Le sue parole mi fanno stringere lo stomaco per quanto sono belle e dense di fiducia e coraggio, ma credo di conoscerne il sottinteso.

< So quanto fa male e quanto è doloroso, Robert, ma... > La interrompo, furioso, cercando, tuttavia, di non spaventare James, limitandomi a grugnire a denti stretti.

< No, no che non lo sai, Kristen. Nessuno di voi sa cosa significhi. > Stringo il biberon così forte, che le dita diventano bianche, fanno male.

Lei, colpita dalle mie parole, o forse sorpresa dal tono con il quale le ho pronunciate, abbassa lo sguardo sul legno del tavolo, torturandosi le mani. Non voglio metterla in imbarazzo, non voglio prendermela con lei, ma anche la mia è la verità: Tom, Jack, sua moglie, i miei genitori sono qui per aiutarmi, è vero, ma non sanno cosa vuol dire crescere un bambino senza nessuno accanto, trovandoti all'improvviso a dover imparare tutto quello che tua moglie aveva appreso durante i nove mesi di gravidanza, mentre tu ti limitavi a farle compagnia durante il corso pre-parto, o nella lettura di un nuovo saggio, ma cedevi al sonno quando voleva guardare l'ennesimo programma sulla nutrizione dei neonati alle undici di sera, o continuavi a rimandare sull'appuntamento per scegliere il mobilio della cameretta o continuavi a sostenere che stava esagerando con tutte quelle informazioni, che non c'era bisogno e lei ti rispondeva che fare la mamma è una cosa seria, devi imparare a farla, non nasci con un gene predisposto.

Hanno tutti la loro famiglia, qualcuno da cui tornare, qualcuno di cui occuparsi, invece tu sai di essere solo con tuo figlio e sai che non imparerai mai così tanto in così poco tempo, perché lui ogni giorno ha bisogno di nuove attenzioni, ha nuove esigenze e quando credi di padroneggiare almeno la sua messa a letto, con il carillon, le luci soffuse e la lampada colorata che disegna figure di dinosauri e castelli sul muro, lui ha già cambiato idea, ha già deciso di essere stufo del carillon, delle luci e delle figure stilizzate sul muro e tu devi avanzare di un altro gradino in cerca di qualcosa che lo faccia stare bene, anche se non sei sicuro più di niente.

< Mi dispiace... i-io non avrei dovuto... è solo che non riesco a farmi capire, non riesco a farmi ascoltare, sono tutti troppo presi ad essere dispiaciuti per me, per Solephine e per James e non fanno altro che ricordarmi che devo cavarmela da solo, che sarà difficile, che dovrei valutare un aiuto psicologico... mi sento oppresso dalle voci di queste persone che non sanno niente di me, o di James, o del mio dolore. > Sospiro, poggiando il biberon vuoto sul tavolo, sollevando James per adagiarlo contro la mia spalla, in attesa del suo solito ruttino post-pappa.

< No, hai ragione, hai tutto il diritto di sentirti così, è normale. Io, in ogni caso, spero che Solephine si svegli e che James abbia anche una mamma da abbracciare e a cui sorridere, davvero e quello che ho detto prima... beh, era solo un complimento diretto a te, perché sei davvero bravo con lui... > Fa di nuovo spallucce e arrossisce, mentre continua a torturarsi le mani ed io come faccio a non sentirmi un completo idiota? Ho esagerato, come al solito e ho letto nelle sue parole quello che, in realtà, ho letto in quelle di tutti gli altri. Sono solo sbottato, la valvola ha ceduto e sono esploso, ma questo non giustifica l'averla aggredita.

< Immagino avrei dovuto semplicemente dire grazie. > Abbasso lo sguardo, da perfetto vigliacco quale sono.

< Va bene così, hai fatto bene a sfogarti e non ne hai avuto modo in quest'ultimo periodo, con tutte le cose da fare, perciò... è ok. > Sorride ed io le sorrido di rimando, perché non saprei cos'altro fare, perché, nonostante tutto, è qui, pronta a giustificarmi, a tendermi la mano e a farmi forza.

Ho conosciuto Solephine qualche tempo dopo la nostra separazione, quando ormai mi ero rassegnato all'idea di innamorarmi di un'altra donna, di costruirmi una famiglia, di stabilizzarmi, ma avrei voluto parlarle di lei, di quello che aveva rappresentato per me, di come mi faceva stare male l'idea di rimanere da solo, di come avevo deciso di concederle un'altra possibilità, nonostante il suo tradimento, di come mi ero illuso che tra noi avrebbe davvero funzionato.

Non so perché penso questo proprio adesso, ad anni di distanza da tutto ciò; credo sia perché ho imparato a conoscere tutto di Solephine, dalla sua marca di vestiti preferita, alla posizione in cui le riusciva più facile addormentarsi, ma io non avevo mai ricambiato, non mi ero mai sbilanciato molto, specialmente sul mio passato, e non perché non mi fidassi di lei, o non l'amassi abbastanza da volere che conoscesse tutto, forse semplicemente perché non ero sufficientemente pronto. Aveva intuito che venivo da una relazione complicata, che ero ferito e avevo bisogno di tempo, che non volevo impegnarmi e che sarei stato sospettoso nei suoi confronti, almeno all'inizio, ma non le avevo raccontato la storia nei particolari, e lei non aveva fatto domande, aveva rispettato i miei spazi e mi aveva concesso il tempo di cui avevo bisogno.

Adesso che mi sento abbastanza pronto ad affrontare i demoni del mio passato con Kristen, lei non c'è; il demone, ironia della sorte, mi sta sorridendo e mi sta aiutando a rialzarmi.

< Non avevamo una quasi-discussione da... beh, da anni. > Sospira, come se avesse concluso un lavoro piuttosto faticoso e soltanto adesso stesse cominciando a rilassarsi.

< In realtà, non ci siamo parlati affatto per anni. > Preciso con un mezzo sorriso.

< Già, ed è strano dividere la stessa casa, adesso, anche se, beh, la situazione è cambiata e tu sei sposato e hai un bambino e c'è Tom, ma... insomma, sai cosa voglio dire, no? > Si porta indietro i capelli con una mano, il tipico gesto di quando è nervosa o in imbarazzo, quello per cui riviste e tabloid hanno fantastico su, domandandosi chi l'avesse trasmesso a chi.

Sole tremava quando era nervosa. Non mi riferisco ad un tremore di paura o di ansia, semplicemente non riusciva a stare ferma e cominciava con il far tremare una gamba, sempre più veloce, e poi l'altra e poi tamburellava un piede a terra, alzando gli occhi al cielo, poi si mordeva le labbra come se avesse voluto strapparsele e poi decideva che non sarebbe riuscita a starsene seduta per altri dieci minuti, così si alzava e cominciava a camminare nervosamente su è giù per l'intera stanza, con una mano al fianco e l'altra tra i capelli, come se stesse valutando l'ipotesi di legarli.

La sua agitazione mi faceva sempre sorridere.

Registro con un secondo di ritardo l'aver utilizzato un verbo al passato.

< Sì, hai ragione, è strano, ma non così imbarazzante come temevo. > Ammetto, continuando a carezzare la schiena di James. Il suo corpicino caldo contro il mio mi dà sollievo e mi fa sentire meno solo.

< In realtà, non pensavo che mi avresti mai chiamata. > Continua con fare casuale, come se stessimo parlando del tempo.

< Non pensavo l'avrei fatto. E' stata una cosa... impulsiva, ecco. > Rispondo, pensandoci un po' su.

< Impulsiva? Nel senso che ti sei pentito di averlo fatto? > Mi domanda con un sorriso di scherno.

Sorrido anch'io e scuoto la testa.

< No, nel senso che non ci ho riflettuto. > Spiego. < Come se le mie mani avessero agito da sole, non controllate da alcun impulso. > Continuo.

Ride, come trovasse la cosa molto divertente, o come se mi considerasse un pazzo da internare.

< Sì, beh, è un bel modo di giustificare le proprie azioni quello di dare la colpa al proprio corpo. > Ogni tanto le esce un suono a metà tra uno sbuffo e una pernacchia, come se volesse rimettersi a ridere, ma poi, improvvisamente, cambiasse idea.

< Mi hai anche detto che non era una telefonata riconciliatoria, però non mi sembra che ci stiamo facendo la guerra. > Afferma, quasi fosse ovvio che, comunque, tutto quello che ho detto o fatto, o tutte le giustificazioni che abbia provato a dare alle mie azioni, non contassero molto.

< Non era un avvertimento, Kristen. Cioè, sì, lo era, perché non volevo ti illudessi, ma non significava certo che avrei tenuto il muso o mi sarei comportato come una statua di sale. > James si muove, cercando una posizione più comoda per addormentarsi, ora che ha segnalato il suo perfetto inizio di digestione.

< Certo, rimani pur sempre un gentleman inglese. > Ancora una volta, si passa una mano tra i capelli, umettandosi le labbra con la lingua.

 

Solephine aprì la portiera del taxi sul quale lei e Robert erano saliti mezz'ora prima diretti ad uno degli alberghi più chic di Nizza, l'Hyatt Regency Palais, che affacciava direttamente sulla meravigliosa spiaggia francese, già pullulante di turisti e bagnanti.

Robert la precedette all'interno della struttura e, mentre si occupava dei bagagli e delle chiavi, lei si guardò intorno: studiò l'architettura classica ed elegante della hall, le poltrone di pelle morbida nelle quali erano assorti probabili magnati in vacanza, gli altoparlanti invisibili che diffondevano una melodia rilassante nell'intero ambiente, i lampadari di cristallo a goccia che, nonostante fossero spenti, con la loro rifrangenza sembravano illuminare più del sole stesso, l'andirivieni dello staff che, puntualmente, le sorrideva cordiale, anche se non l'avevano mai vista, i turisti sorridenti che le passavano accanto dopo aver varcato le porte del moderno ascensore color oro e che profumavano di salsedine e sole, l'intenso profumo delle brioche e del caffè ancora caldo che proveniva dalla sala ristorante dove, probabilmente, qualcuno stava ancora consumando la colazione; non era abituata al lusso, non lo era mai stata: i suoi genitori, per le vacanze estive, preferivano noleggiare un camper e spostarsi da una zona all'altra del Paese, cercando di visitare il più possibile. Dormivano nei sacchi a pelo, accanto alle zone attrezzate per il campeggio e Sole ricordava ancora di come le piacesse contare le stelle con Jack e suo padre.

Sì, insomma, sarebbe stata una vera follia disdegnare un albergo a cinque stelle, in cui bastava che tu schioccassi le dita per avere un cameriere al tuo servizio, però, di primo acchito, le sembrava sempre un'esagerazione. Poi, una volta che avevi soggiornato lì per qualche giorno, non notavi tutte queste grandi differenze con un albergo a tre stelle: stessa colazione, stessa pulizia, stessi servizi. Soltanto, forse, qualche privilegio in più, come la piscina riscaldata e prenotabile a tuo uso personale, una macchina VIP pronta a scortarti in qualunque posto, a qualsiasi ora, cena in camera con cameriere privato e Wi-fi gratuito; tutti servizi di cui avrebbe potuto tranquillamente fare a meno.

< Suite 704. > Robert le sventolò davanti agli occhi le chiavi della loro stanza.

< Ma come? Tutto questo lusso, e poi utilizzano ancora le vecchie chiavi di metallo? > Scherzò, afferrandole e studiandole.

< Hanno avuto problemi con i sistemi di identificazione delle tessere e hanno preferito fare ritorno al vecchio sistema. > Le sorrise, afferrando le valigie e incamminandosi verso l'ascensore.

Uno dei portieri gli si era avvicinato per convincerlo che le valigie le avrebbe portate lui, utilizzando l'ascensore di servizio, così loro avrebbero potuto godere del cocktail di benvenuto senza impicci, ma Robert aveva fermamente rifiutato, ringraziandolo.

Solephine sorrise nell'osservare l'espressione incredula del portiere, correndo appena per raggiungere Robert.

< Sono le nostre valigie, possiamo portarle noi, no? > Le chiese, quasi sentisse il dovere di giustificarsi per quel rifiuto.

< E' il loro mestiere, cercava solo di essere gentile. Non lo licenzieranno per questo, vero? > Il plin dell'ascensore li avvisò del suo arrivo.

< No, non credo. > La rassicurò, riflettendoci.

Il settimo piano era silenzioso, lontano anni luce dall'atmosfera della hall, eppure ugualmente accogliente.

Fu Solephine ad aprire la porta, spalancandola per permettere a Robert di trasportarvi le valigie senza impedimenti di sorta. Nel salottino luminoso, arredato con eleganza studiata, li attendevano due flute di champagne e una ciotola di fragole.

Sole ne rubò una prima di dirigersi verso la camera da letto, dove le porta-finestre erano state lasciate aperte, a favore di una profumatissima brezza marina e di un sole tiepido.

Poco distante, su un palchetto di legno rialzato era sistemata una spaziosissima vasca bianca, colma d'acqua, sulla cui superficie galleggiavano quelle che assomigliavano moltissimo a bacche profumate, color ambra. Testò la temperatura dell'acqua, sfiorandone la superficie: era tiepida.

Robert la raggiunse alle spalle, abbracciandole la vita, immergendo il viso tra i suoi capelli profumati. Solephine, di rimando, chiuse gli occhi, portando un braccio all'indietro per carezzargli i capelli setosi.

< Abbiamo tempo per un bagno? > Le mormorò, baciandole una spalla.

< L'intervista è alle undici. > Rispose lei, voltandosi appena per incontrare le sue labbra.

Effettivamente, riemersa dal piacevole bagno caldo con Robert, avrebbe dovuto cercare di non dimenticarsi che non era lì per un week-end rilassante, che non poteva oziare in accappatoio nella suite o guardare la TV per tutto il giorno, o fare l'amore con Robert fin quando le sue membra non avrebbero richiesto riposo; era lì, in via ufficiosa, per intervistare un attore francese emergente che sembrava essere assediato dai media, soprattutto per via della sua recente nomination al Festival di Cannes. Il New York Times, ovviamente, pretendeva l'esclusiva e, per averla, l'unica possibilità era fare i bagagli in fretta e furia e volare a Nizza dove stava girando il suo ultimo film. Fortuna che Robert non ci aveva pensato su due volte, aveva afferrato il passaporto, le aveva sorriso e le aveva semplicemente detto che l'avrebbe accompagnata.

< Ok, devo andare, adesso. > Sole si divincolò con dolcezza dall'abbraccio di Robert che, tuttavia, le circondò la vita proprio mentre lei stava tentando di mettersi in piedi, tirandola nuovamente verso di sé, facendola ridere divertita.

< Non arriverò mai all'intervista di questo passo... > Ponderò, sovrastandolo e mordendogli una guancia per gioco.

< Infatti, non ti lascerò andar via. > Sussurrò lui, coprendo entrambi con il lenzuolo bianco fin sopra la testa, come se fossero in una tenda da campeggio.

< Perché non intervisti me? > Continuò, pizzicandole un fianco.

< Sì. Certo. E cosa dovrei chiederti? > Mise la testa fuori dalla tenda-lenzuolo, si sporse verso il comodino e afferrò i fogli con le domande che si era preparata appositamente per l'intervista. Le stava ripassando, per non sembrare una perfetta imbranata alla prime armi di fronte al giovane attore, prima che Robert pretendesse la sua dose di attenzioni.

< Come gestisce la pressione improvvisa dei media? > Ritornò sotto il lenzuolo, assumendo la sua aria più professionale, seduta sui polpacci accanto a Robert, disteso, che le solleticava un ginocchio con l'indice, sorridendo assorto.

< Cerco di non pensarci. > Rispose, socchiudendo appena gli occhi, come per concentrarsi.

< Uno dei desideri che vorrebbe realizzare nel prossimo futuro? > Continuò lei, sbirciando i fogli.

< Uhm... domanda impegnativa... > Soppesò, scrutandola.

< Ho solo rielaborato quello che mi hanno detto in redazione. > Gli fece una linguaccia, piegando i fogli e poggiandoli accanto a lei.

< Allora devo obbligatoriamente rispondere. > Le afferrò una mano, giocherellando con le sue dita.

Solephine annuì, attenta al gioco d'incastri che stavano eseguendo.

< Diciamo che mi piacerebbe comprare una casa in campagna, avere un cane o due, una moglie bellissima che mi ama e due, tre marmocchi che si rincorrono nel giardino. > Sorrise, slegando la mano dalla sua e afferrandole, invece, la vita, trascinandola su di sé, scostandole i capelli dal viso.

< Una moglie ce l'hai già, o te ne sei dimenticato? > Alzò gli occhi al cielo, pizzicandogli il naso con due dita.

< Allora dobbiamo provvedere al resto. > Mormorò, baciandole il collo e poi una spalla.

Che avesse avuto il sentore di qualcosa? No, impossibile.

Non l'aveva detto a nessuno, neanche a sua madre. Solo a Jack, un paio di mattine prima e che, oltretutto, l'aveva anche sgridata, perché sarebbe dovuto essere Robert il primo, non lui. Tuttavia, sapeva che avrebbe mantenuto il segreto, almeno fin quando lei non avesse deciso di renderlo pubblico. 

Era stupido e da paranoica, ma ogni volta che apriva la bocca per pronunciare quelle due parole, si bloccava, automaticamente, come se avesse un meccanismo dentro di lei pronto a scattare in situazioni critiche. 

Doveva farlo. Non poteva rimandare ancora, sarebbe stato da idioti.

Arrossì sotto lo sguardo di Robert e abbassò lo sguardo, lasciando che i capelli la nascondessero.

< Cosa c'è? > Le chiese, sistemandosi meglio sulla porzione di cuscino che il lenzuolo-tenda era riuscito ad inglobare.

< Devo dirti una cosa... > Prese tempo, anche se adesso non avrebbe più potuto tirarsi indietro.

Robert si accigliò, cercando di scoprirle il viso e di guardarle gli occhi, anche se non ce ne fu bisogno, perché fu lei stessa a sollevare lo sguardo, le guance ancora rosse d'imbarazzo.

Robert non poté fare a meno di notare quanto amasse quel lato di Solephine: sapeva essere forte, una vera roccia quando c'era bisogno di lei, non mollava mai la presa; ma sapeva essere anche splendidamente timida quando qualcosa la riguardava da vicino, splendidamente fragile quando doveva ammettere le sue debolezze o i suoi pensieri di troppo.

< E' così difficile? > La abbracciò, carezzandole la schiena, ma lei si divincolò dalle sue braccia, sollevò il lenzuolo, scoprendo entrambi, e impresse il viso nel cuscino, lo stesso di Robert.

< Sono incinta. > Ammise, la voce ovattata dalla stoffa.

< Cosa? > Domandò lui. Alle sue orecchie, la sua frase era risultata qualcosa come shono iginta, il che non aveva alcun senso.

< Devi proprio farmelo ripetere? > Sollevò appena la testa, i capelli scomposti davanti agli occhi e il viso color rosso pomodoro.

< Non ho davvero capito. > Fece spallucce. < Ma se non vuoi ripeterlo, puoi scriverlo, o puoi mandarmi un sms. > Continuò, passandole una penna e il plico di fogli di domande da porre al neo attore francese.

Sole sospirò, ma impugnò la penna e scrisse senza guardare; poi gli passò il tutto.

Lo studiò per qualche minuto, cercò di capire la sua reazione, di leggere una qualche sorta di emozione nei lineamenti del suo volto, ma Robert sembrava una statua, di ghiaccio, impassibile.

< Robert? > Lo chiamò alla fine, pungolandogli un braccio con il dito indice, sperando di rianimarlo.

Nulla. Non successe assolutamente nulla.

< Robert? Dì qualcosa! > Sbottò esasperata.

L'interessato si voltò verso di lei, quasi la rapì con gli occhi, come se volesse mangiarla, come se volesse imprimere nella sua mente ogni più piccolo particolare di quel viso, dalle lentiggini agli occhi azzurri, dai capelli di media lunghezza al naso piccolo e proporzionato, dalle guance ancora rosse alle labbra morbide, appena carnose; e poi fece una di quelle cose che, Solephine ci era abituata, da Robert non ti aspetti, nel senso che, un minuto prima, sembra ci siano tutte le premesse per una reazione esagerata, devastante, l'istante dopo, si è tutto trasformato in qualcos'altro: sorrise, uno di quei sorrisi aperti, sinceri, che gli facevano illuminare anche gli occhi, che ti stordivano e davanti ai quali non potevi far altro che ricambiare.

Successe esattamente così, la travolse, prima con il sorriso, poi in senso fisico, rischiando di far cadere entrambi dal letto.

< Da quanto lo sai? > Le domandò ridendo come un bambino.

< Da un paio di giorni, più o meno. > Gli accarezzò i capelli, stringendosi a lui.

< E non volevi dirmelo? Chi altro lo sa? > Non era un rimprovero, anzi. Voleva avvisare chiunque il più in fretta possibile, il fuso orario aveva poca importanza.

< Nessuno, soltanto Jack. L'avevo appena scoperto e non sono riuscita a trattenermi... > Si affrettò a spiegare, aspettandosi un rimprovero che non venne, perché Robert allungò una mano sul comodino, afferrò l'iPhone e, ancora su di lei, cercò nella rubrica il numero di chi sapeva dover avvisare per primi, i suoi genitori.

< Dobbiamo rimediare allora. > Era già pronto ad avviare la chiamata, quando Solephine gli sfilò il cellulare dalla mano con dolcezza, abbandonandolo sul cuscino.

< Possono aspettare. > Mormorò, ribaltando le posizioni, solleticandogli le labbra con il respiro.

< Non ti ho ancora detto che è meraviglioso, Sole, è la notizia più bella che tu potessi darmi. > Sussurrò in risposta, distratto dalle sue carezze innocenti.

< E la seconda è che devo davvero fare quell'intervista, perché non voglio essere licenziata. > Lo baciò a mo' di saluto, lasciandolo lì, perplesso e divertito.

< Crudele. > Le tirò dietro un cuscino, che lei schivò, facendogli una linguaccia e scomparendo in bagno.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 



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