Almost me, Almost you, Almost blue

di Macaron
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Almost blue, Almost doing things we used to do ***
Capitolo 2: *** Maybe you're the same as me, we see things they'll never see ***
Capitolo 3: *** Aluminum, tastes like fear Adrenaline, it pulls us near ***
Capitolo 4: *** Fireworks and hurricanes, I’m not here ***
Capitolo 5: *** Dreaming about the day when I can see you there ***



Capitolo 1
*** Almost blue, Almost doing things we used to do ***


Disclaimer: Sherlock e John, e guardando le ultime foto uscite del setlock questa non è affatto una bella notizia,  appartengono a Doyle e al dinamico duo della BBC che ci sta facendo aspettare una vita per la terza stagione, ma che amo sempre. In questo caso la storia è liberamente ispirata ad Almost Blue di Lucarelli, le idiozie invece sono tutta opera mia. Non ci guadagno nulla, anzi se volete per accompagnare la lettura posso offrire una fetta di banana bread con noci macadamia e cioccolato tritato. Il resto è tutto in fondo al capitolo, che mezza pagina di spiegazioni iniziali mi sembrava eccessiva.

 

 

 

 

 

 

 

Almost blue 
Almost doing things we used to do 
There's a girl here and she's almost you 
Almost 
All the things that your eyes once promised 
I see in hers too 

 


Prima di pronunciare la prima a di almost blue c’è un’esitazione. Un respiro, un momento di buio. E poi almost blue con una a così chiusa e modulata da sembrare un’altra vocale, da sembrare quasi una o. Esitazione, respiro, almost blue, due respiri, almost blue. Nella versione di Costello questa esitazione non c’è, penso sia questo il motivo per cui non l’ascolto mai. Almost blue di Costello è una canzone che si lascia sentire, almost blue di Chet Baker è una canzone che si deve ascoltare. La si deve ascoltare per cogliere quello che c’è dietro a quella pausa, a quell’esitazione, a quel respiro. Dietro a quel silenzio c’è un mondo intero, un mondo che non può essere visto semplicemente con gli occhi aperti. E io vivo per quei momenti, per quelli che possono essere visti ad occhi chiusi, quelli che vanno ascoltati. Forse perché ad occhi chiusi ci sono sempre stato ed ho dovuto imparare a vedere in un altro modo. Ed è ridicolo perché la mia mente gli occhi chiusi non li ha per niente, la mia mente è nata per osservare. La mia mente va a tremila all’ora, macina informazioni come se fossero respiri, non rallenta, non si ferma mai. Se fossi nato con gli occhi aperti sarei stato un investigatore piaceva dire a mio fratello, quando ancora gli permettevo di dire qualcosa sulla mia vita. A me non sarebbe nemmeno piaciuto essere un investigatore, da bambino sognavo di essere un pirata. I pirati guidano delle navi con un occhio bendato raccontano le storie, e pensavo che un occhio bendato e due occhi chiusi fossero un po’ la stessa cosa e che forse sarei potuto essere anche io il capitano di una nave. Con gli occhi chiusi. Con gli occhi chiusi.

 La mia mente non accetta questa cecità, semplicemente la bypassa e cerca di ottenere altrove le informazioni. Così ascolto, così mi nutro di dati, d’informazioni per tenere a bada la mia mente e per spezzare il silenzio. Uso uno scanner per ascoltare, lo so usare alla perfezione. Ruoto le manopole e mi allaccio alle frequenze radio, a quelle dei cellulari, ai taxy che passano vicino a Baker Street, alle radio della polizia soprattutto. Le radio della polizia sono quelle che preferisco ascoltare. Mi lascio cadere sul divano, giro svogliatamente le manopole dello scanner e ascolto. Pattuglie, centrali di zona, Scotland Yard. Agenti che strillano ordini, commissari che si perdono nei dettagli, traffico, informazioni. La mia mente le assorbe e quando sembra calmarsi, quando sembra quasi dormire mi permetto di ascoltare solamente i suoni, le voci, i colori. La tua strana radio la chiama la mia padrona di casa che di tecnologia non capisce nulla e aggiunge che dovrei uscire, che dovrei vedere qualche amico invece di rimanere immobile per ore ad ascoltare con la mia strana radio, e io sbuffo, ma solo un pochino. Non mi da davvero fastidio, è una delle poche cose che non mi da davvero fastidio.

Io non ho persone con cui uscire e nemmeno le vorrei. Le persone, gli amici sono noiosi e io non li capisco. E odio non capire le cose. Parlano con termini che non posso capire e poi inciampano nelle parole, nel loro imbarazzo e allora provano a correggere il tiro, provano a parlare di qualcosa che pensano che io possa capire e non ci riescono e la loro bocca si secca, le parole gli muoiono in gola e si crogiolano nel silenzio. Sempre. Fanno tutti così, sono così scontati, così prevedibili con i loro cervellini che sembrano andare a rallentatore. Noiosi. Non li sopporto. Non sopporto la noia.

Non è nemmeno che io non capisca i loro discorsi, è solo che per me le parole hanno significati diversi. I colori per esempio non sono colori, non sono qualcosa di visivo come le persone cercano di farmi intendere, sono dei suoni, sono delle forme, sono delle consistenze. I colori hanno una voce e questo mi permette di riconoscerli, questo mi permette di capire. Questo mi permette di far lavorare la mia mente a tremila all’ora e non impazzire. Ci sono dei colori che evocano delle cose, non delle immagini ma degli oggetti fisici. Il lilla per esempio con tutte quelle l è il colore degli elefanti, dei letti, del latte. E’ il colore della lentezza, della morbidezza. Se il lilla fosse qualcosa da toccare sarebbe un lenzuolo appena stirato disposto con cura sul letto. Non è un colore che conosco, io nel letto non ci dormo mai. Non dormo in generale ma mai sul letto, sul letto mi sento lilla, mi sento immobile. Il giallo è il colore di qualcosa di acuto, di qualcosa che ti schizza tra le mani come un limone, come uno strillo1. Il giallo è il colore dello yogurt quando lo mangi, anche se vorresti qualcos’altro. Ci sono dei colori che sono degli odori. Il rosso è il rumore del camino e l’odore del legno umido quando hai provato ad accendere il fuoco e non ci sei riuscito. La mia padrona di casa direbbe che il rosso è il colore dell’amore, dei sentimenti ma io i sentimenti non riesco a capirli, non riesco a vederli e non ci sono degli odori per i sentimenti, o dei colori. Però se ci fosse un colore per i sentimenti non sarebbe il rosso.

Il verde invece è un colore raschiante, per la sua r. Il verde non è un colore che mi piace. Il verde è il colore dei ramarri, dei rami, il verde è il colore di qualcosa che ti rosica dall’interno. Dal verde non puoi scappare. Una voce con delle sfumature verdi è una voce che mi fa sbuffare ma non solo un pochino e mi fa cambiare la frequenza dello scanner o rimettere Chet Baker sul piatto del giradischi. Chet Baker ha una voce blu. I colori con la b sono dei colori che mi piacciono, sono dei colori belli. Anche il biondo è un bel colore, anche se non come il blu e non serve stare a spiegare il perché, basta il suono della parola. Il blu è il colore dei bassi, della musicalità. Il blu sarebbe il colore del velluto, di qualcosa che è bello toccare e al tempo stesso ti fa venire un po’i brividi. Se avessi un amico, se avessi un amico ma non di quelli che parla la mia padrona di casa con cui uscire ma un amico con cui rimanere sdraiato sul divano ad ascoltare lo scanner e poi magari anche uscire ma solo per risolvere enigmi, se avessi un amico del genere avrebbe una voce blu e i capelli biondi.

O Forse addirittura i capelli blu. E la pelle trasparente di quelle in cui puoi passare dentro la mano.

Un amico con la voce verde non potrebbe essere mio amico, avrei paura che mi potesse strisciare dentro la pelle.

Ma probabilmente nessun amico potrebbe essere mio amico. Forse è già tanto avere Chet Baker. E lo scanner. E Londra di notte, quando non sono l’unico ad occhi chiusi. Quando posso sdraiarmi sul divano e perdermi nelle voci. Magari un giorno potrei anche ritrovarmi. Magari.

 

 

 

 

 

 

 

 

La saletta della New Scotland Yard che hanno dedicato alla loro conferenza è umida. Ovvio a Londra piove sempre e l’umidità è di casa ma qui siamo in quella che dovrebbe essere la sede della polizia e insomma potrebbero anche riuscire ad impedire alla pioggia di passare attraverso i muri, pensa John mentre sale le scale strascicando un poco la gamba. E’ di cattivo umore, John Watson, mentre varca la porta della saletta per le conferenze, “Quella in fondo al corridoio, non quella centrale mi raccomando. Non vorrei che ti trovassi a parlare di omicidi a un gruppo di reclute con la bocca ancora sporca di latte! ” come gli ha ripetuto mille volte Mary, perché piove, Scotland Yard è umida e l’umidità gli fa aumentare il dolore alla spalla, causato da una vecchia ferita e una vecchia pallottola. E’ di cattivo umore perché tempo dieci, quindici minuti dovrà parlare a una sala, piccola ma pur sempre una sala, piena di funzionari di polizia per convincerli ad aprire un’indagine su un presunto serial killer che a quanto pare è in circolazione a Londra da mesi, anzi anni, e che tutti loro hanno stupidamente tralasciato perché non sono stati capaci di vedere i collegamenti. Nemmeno lui li ha visti, ma il suo istinto unito a tutte quelle manfrine psicologiche di cui parla sempre Mary gli dicono che ci sono. Solo che sentirli quei collegamenti è una cosa, farli vedere è un’altra e John non è bravo in quello. Non sa parlare alle persone in pubblico, le persone non gli piacciono in generale. E’ gentile, è una persona gentile, controllata almeno all’apparenza, è uno di quelli che aiuta le signore ad attraversare la strada ma le persone non gli piacciono mai davvero. E sicuramente non gli piace parlare in pubblico rischiando d’inciampare nelle parole e di fare la figura dello scemo. Ma questo caso, questo killer, vale rischiare un po’ di umiliazione, quindi John Watson è di cattivo umore ma non per questo non farà il suo dovere. Anche se in giorni come questo, in cui piove e la spalla gli fa male e non ci sono davvero casi su cui indagare ma persone da convincere, vorrebbe essere ancora un medico militare in servizio in Afghanistan e non quello che è scappato dopo essere stato ferito e ha cambiato radicalmente la sua vita perché se deve avere a che fare con persone morte allora è meglio che non siano persone con cui ha diviso le giornate.

“ John? John sono qui! Sei pronto?” Mary, come al solito. Mary ha la voce dolce e ferma, non da psichiatra criminale, non da strizzacervelli, e se a John piacessero le persone lei gli piacerebbe.

Mary gli sorride e fa finta di non essere tesa mentre lo guarda, fa finta di non vedere la sua zoppia psicosomatica ma solo l’ispettore di polizia dannatamente in gamba che crede che lui sia.

“ Sono pronto. Ho tutte le diapositive nel portatile, tranquilla.”. Gentile, controllato, il genere d’ispettore di polizia che dovrebbe essere. Il genere di ispettore di polizia a cui assegnano questi casi.

“ Allora si va in scena.”

 

 

 

 

 

“ Caso Milverton. Charles, gennaio 2008. Villa a Fulham, 29 anni, commesso part time, viveva da solo con la donna di servizio che però abbandonava l’edificio durante la notte. Caso Trevor, luglio 2008, 27 anni studente fuorisede residente in un appartamento a Soho. Il caso di Tim Canterbury2, marzo 2009, impiegato part time in una banca, 29 anni e un appartamento in condivisione a Marylebone. Irene Adler, maggio 2010, 31 anni, studentessa fuorisede che divideva un appartamento con un’amica vicino a Nothing Hill. Uccisa brutalmente pure lei.” John parla, non s’incespica con le parole e intanto lancia brevi occhiate a Mary che proietta sullo schermo diapositive di scene del crimine. Va tutto bene. Non ha fatto cazzate.

“ Ispettore ma questi casi cosa c’entrano gli uni con gli altri? Non ha senso, sono già tutti archiviati.” Una voce dal pubblico. Sgradevole. John sbuffa ma si sforza di sorridere come fa un ispettore di polizia rassicurante.

“ Sono tutti casi archiviati in cui però il colpevole non è stato scoperto.” In cui non avete scoperto il colpevole, perché a quanto pare in polizia può anche succedere così mentre quando ero nell’esercito e sbagliavo la gente moriva, ma questo John Watson non lo dice. “ E qualcosa in comune ce l’hanno. Primo: le vittime sono tutte studenti o lavoratori part time, nessuno di davvero inserito nel mondo del lavoro londinese. Secondo: non si tratta di semplici omicidi ma di brutali omicidi, le vittime non sono state freddate con un colpo in testa, le vittime sono state massacrate, la loro pelle è stata incisa, è stata martoriata ma mai per fini passionali, mai per motivazioni sessuali. Terzo: le vittime sono sempre nude. “

Dalla sala si alza un mormorio. Qualcuno sembra d’accordo, qualcuno sembra ancora esitare.

John scende rapidamente dal palco e si avvicina a Mary che appoggiata in fondo alla sala vicino al computer è intenta a parlare con un sovraintendente.

“ Io ritengo che ci sia un altro motivo per riaprire queste indagini. Impedire che si verifichi di nuovo tutto questo.”

Respira. Schiaccia rapidamente un tasto sul pc.

Sullo schermo della sala si proiettano le foto dei cadaveri. Corpi martoriati. Donne nude con il busto coperto di lividi. Sangue. E i visi soprattutto. I visi sono irriconoscibili. La pelle è stata asportata, lacerata e quello che è rimasto è una maschera di sangue.

Il mormorio smette.

Mary gli stringe brevemente il polso. “ Mi sa che abbiamo la nostra indagine.” E John vorrebbe sorriderle ma non ce la fa.

 

 

 

 

 

 

Quando non ascolto Londra con lo scanner suono. Non il pianoforte che hanno provato a farmi amare senza risultati nella costosissima scuola per ragazzi non vedenti che mi ha obbligato mio fratello a frequentare, non il pianoforte ma il violino. Penso che il motivo per cui è sempre stato il violino e mai il pianoforte sia la differente fisicità di questi strumenti. Il pianoforte è pesante, il pianoforte devi toccarlo, accarezzarlo, appoggiarci il tuo corpo. Il violino è meno fisico, il violino non devi toccarlo, non necessita di tutto questo contatto. E a me toccare ed essere toccato non è mai piaciuto. E’ un’invasione dello spazio personale che non ha semplicemente senso, che si accompagna a convenevoli, a frasi di circostanza, a voci affettate. Così non è il pianoforte ed è il violino. L’appoggio alla spalla, mi rivolgo alla finestra, non perché debba vedere qualcosa ma perché non voglio che chi entra possa vedere me, suono e cerco di ascoltarmi, cerco.

Mrs. Hudson la mia padrona di casa si unisce spesso a me in quei momenti. Potrei definirla l’unica persona che condivide la mia vita se le permettessi davvero di condividere qualcosa di più di qualche frase, ma non è così. Non sono fatto per queste cose. I sentimenti, le persone. Non sono il mio campo. Lei però è la cosa che si avvicina di più a un rapporto umano ed è per questo che sbuffo un po’ di meno di quanto vorrei quando mi parla, quando entra nell’appartamento con qualche biscotto, due tazze di tè e dopo avermi ascoltato suonare per qualche minuto inizia a parlare. Mrs. Hudson parla moltissimo, ma la sua voce non mi dispiace. Non è una voce blu, le voci blu sono così rare, ma è una voce piacevole, calda, lilla, una voce dolce anche quando mi sgrida. E mi sgrida molto e questa è una cosa che mi piace. Non farcisce le nostre conversazioni, spesso a senso unico, di frasi gentili ed educate ma mi rimprovera. Si arrabbia per come ho lasciato l’appartamento, mi rimprovera di non uscire abbastanza quando almeno un giro ogni tanto potrei andarlo a fare, mi aggiorna sulle telefonate di mio fratello a cui non ho risposto. Mi dice che il mio fragile cuoricino non si spezzerà se mai deciderò di donarlo a qualcuno, e so che lo pensa davvero. Lo pensa così tanto che non ho mai il coraggio di dirle che quel cuore di cui parla io forse nemmeno ce l’ho, quindi figuriamoci condividerlo con qualcuno. E’ la cosa più vicina a una madre che abbia mai avuto. E’ la cosa più distante a un membro della famiglia Holmes che abbia mai avuto vicino.

Quando le sue parole diventano troppe, quando mi toccano, quando arrivano a invadere il mio spazio appoggio il violino sul tavolo, mi sdraio sul divano e accendo lo scanner alzando il volume quel tanto da risultare fastidioso ma non maleducato. E a quel punto è lei che sbuffa, raccoglie le tazze di tè abbandonate per l’appartamento ed esce borbottando qualcosa di simile a “ Non sono la tua governante Sherlock, sono la tua padrona di casa. Dovrai deciderti a lavare qualcosa prima o poi!”. Io so che non è arrabbiata davvero, ma anche se lo fosse so che non cambierebbe niente.

Quando le sue parole diventano troppe, come stasera, mi sdraio sul divano e lascio che lo scanner si agganci a qualche telefonata, a qualche conversazione su skype. Non alle chat, mai. Lo scanner riesce ugualmente a captarle ma ripete i testi digitati in maniera asettica e m’impedisce di sentire le parole, di ascoltare il silenzio e di dedurre. E io ho bisogno di dedurre, ho bisogno di capire per impedire alla mia testa di scoppiare.

 

 

 

“ Ciao mamma! Tutto bene! Ci hanno appena attivato la connessione qui nell’appartamento! Come? Cosa? Mamma devi alzare il volume. Alzare il volume. Altrimenti è ovvio che non mi senti. Te l’ho spiegato dieci volte come si usa skype prima di partire per l’erasmus. Oh cazzo, hai riattaccato.”

Convenevoli familiari. Noiosi. Secondo me la madre sapeva benissimo alzare il volume ma trovava anche lei la figlia troppo noiosa. Cambio frequenza.

 

“ Sì… sì amore…piegati di più verso la webcam…”

Sesso in cam su skype. Probabilmente sarebbe divertente se potessi vederlo. E fossi dotato solo di un neurone. Cambio frequenza.

 

“ Io adoro Glee, ma non avevo mai conosciuto un ragazzo a cui piacesse. Non un gay intendo. No, scusa.” Esitazione, silenzio. “ Non che volessi dire… insomma… che sei gay. Non che sia un problema comunque. No aspetta.” Inciampa nelle parole, esita, espira rumorosamente. “ Puoi fermarti solo alla frase su Glee?”

La voce che capto non sta dicendo nulla di particolare ma c’è una sorta di timidezza che mi colpisce. La voce della donna, donna? Sarebbe meglio dire ragazza probabilmente sui venti- ventidue anni dovrebbe avere più o meno la mia età, è adulta, riconoscibile a suo modo, nessuna inflessione dialettale, scandisce bene le parole e al tempo stesso riesce a incespicarci così facilmente. E’ curioso, non molto comune. Rimango in ascolto, non c’è nulla di più interessante.

“ Tranquilla, Molly. Ho capito cosa intendevi.” La voce dell’altro capo del computer è maschile ma non te ne accorgeresti quasi se non ci prestassi attenzione. E’ una voce giovane, di qualcuno che sta sorridendo, e parla in modo affettato, strascicando un po’ le lettere, eppure è una voce che non dice quasi nulla. Non ci sono emozioni in quella voce, non c’è nulla e al tempo stesso non ho mai sentito un suono così strisciante, così verde. Rimango in ascolto. Vorrei quasi spegnere ma rimango in ascolto.

“ Mi piace che tu non abbia mai incontrato qualcuno come me. “ Sempre la stessa voce di prima. La voce verde.

“ In realtà non ci siamo ancora incontrati… e non so nemmeno se vorresti incontrarmi insomma.” Di nuovo la ragazza. Deglutisce. E’ ansiosa. Emozionata. Probabilmente in questo momento hanno accesa una qualche web cam e si sta toccando continuamente i capelli. E’ timida, non riesce a far combaciare i suoi pensieri con le sue parole.

“ Magari potremmo incontrarci sul serio.” La voce verde non ha esitazioni che non siano voluti. Quando le parole inciampano non inciampano sul serio, è tutto scritto. E’ un copione. Non dovrei stupirmi, ho ascoltato abbastanza telefonate tra amanti da sapere quanto nelle relazioni ci sia di già scritto ma qualcosa in quella voce verde fa quasi paura.

“ Incontrarci? Dici… non è un po’ presto? Cioè è praticamente una delle prime volte che parliamo… non dico che non mi piacerebbe…”

“ Molly, tranquilla.” Sta sorridendo, lo capisco da come si modificano le parole. Sta sorridendo e la sua voce non sta dicendo nulla. “ Non è mica un’offerta compromettente. Ho il video con il dietro le quinte delle ultime puntate di Glee, potremmo vederlo insieme.” Una pausa. Pausa non silenzio. E’ diverso. Non per la maggior parte della gente, per me. Ovviamente. “ A casa tua se preferisci, così ti senti più tranquilla, più a tuo agio.”

“ Non saprei, Rich, non saprei. ” Lei è incerta ma tutto nelle sue parole sorride. La voce sorride. E’ emozionata, sorpresa. Probabilmente è anche arrossita. Probabilmente dovrebbe farmi tenerezza. Non lo fa.

“ E poi devi farmi conoscere il tuo gatto, ricordi?”

Cambio frequenza. Conosco già la risposta.

Un cellulare. Di solito queste non sono le frequenze dei cellulari.

 

“ Mary? Cazzo c’è la segreteria. Com’è che hai due cellulari e non ne senti mai uno? Niente volevo solo avvisarti che mi hanno assegnato due agenti. Quello della scientifica è già tanto se riesce a non inciampare nei suoi stessi piedi. L’altro mi sembra più sveglio, vediamo. Sto andando su una scena del crimine, di nuovo un ragazzo, giovane, di nuovo nudo. Vediamo.”

Sbuffa. Rimane in silenzio. Io rimango ad ascoltare e sul momento non riesco nemmeno a capire perché. Poi realizzo, è la sua voce non quello che sta dicendo. E’ la voce più blu che abbia mai sentito. Anche mentre sbuffa e borbotta frasi infastidite a un cellulare a me sembra di non aver mai ascoltato nessun suono così bello, nemmeno i concerti per violino.

“ Ti mando un sms con l’indirizzo se vuoi raggiungerci. Noi stiamo andando con una volante, quindi con questo tempo è molto probabile che arriveremo quando il cadavere sarà già in decomposizione.” Sbuffa di nuovo, ride, ha una bella risata. Uomo, non fumatore perché le voci dei fumatori si riconoscono subito, sui trent’anni, massimo trentacinque. Ci sono molti silenzi, molte pause nelle sue parole. Sono bellissimi, sono interessanti. Non so ancora cosa dicono ma dicono sicuramente qualcosa.

“ Insomma ci vediamo lì. Speriamo di combinare qualcosa. “ Ride di nuovo e non è felice.

Non ho mai sentito una voce così blu.

“ Ciao.”

Ciao.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Solito pippone ma che stavolta ha senso, giuro: Penso che Almost Blue di Lucarelli rientri tranquillamente nei miei libri preferiti pur non avendo un accidente in comune con quello che generalmente leggo e amo, e fin qui ci sta pure uno “sticazzi” lo so. Però è anche perfetto per Sherlock e John. Quando l’ho riletto recentemente ho trovato delle affinità fortissime tra i personaggi e anche nello sviluppo della storia quindi ho deciso di trasportarli dentro il libro =) Se non avete letto Almost Blue probabilmente tutto risulta più interessante perché della storia sapete meno però mi piace pensare che magari possa essere divertente vedere comunque i collegamenti e che insomma non faccia troppa pena [ fa troppa pena? Argh! Ho doppia ansia da prestazione perché qui c’è in mezzo un altro autore che amo oltre a Doyle].

Per la scelta dei personaggi forse sarebbe stato più ovvio invertirli ma Sherlock in polizia non riesco proprio a vederlo, senza contare che ritengo che John un pochino d’istinto ce l’abbia porello, e mi piaceva da pazzi l’idea di un personaggio così fortemente caratterizzato dalla sua capacità di osservazione che si ritrova privo della vista. E insomma vediamo cosa ne viene fuori. Spero di mantenere più possibile l’IC considerando che vista la storia qualche scivolone potrebbe esserci -_- Cerco di mediare insomma -_- Per gli altri personaggi magari aggiungo qualche nota alla fine di tutta la storia giusto per evitare di raccontare tutto.

L'idea è di scrivere tipo quattro o cinque capitoli, i primi due sono già nati, di cui i primi due sono un pochino più introduttivi per il rapporto e più funzionali per la storia. Io non so scrivere cose più lunghe, aiuto. E cose che non siano un concentrato di pucciosità. Ma ci si prova. Perché Almost Blue è davvero una figata e Lucarelli secondo me la sera si riguarda Uno studio in Rosa mentre scrive. Ci si prova insomma.

 

 

 

1 Non so se devo dire quando m’ispiro al libro visto che ovviamente m’ispiro al libro ma queste citazioni dei colori in parte sono riprese proprio da Lucarelli. In particolare quella sugli strilli. La maggior parte delle immagini però sono opera mia. Facciamo che ho fatto questa premessa e che basta per il capitolo?

2 Ho fatto un mix per i casi prendendo dal Canone e da personaggi interpretati da Martin, come appunto Tim Canterbury di The Office.

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Capitolo 2
*** Maybe you're the same as me, we see things they'll never see ***


Solo una piccola premessa di carattere tecnico: Personalmente sono innamorata della scelta stilistica di Lucarelli di alternare terza e prima persona e personaggi ed ho cercato di mantenerla. Solo che da questo capitolo iniziano ad esserci due prime persone, e per Lucarelli è più facile perché scrive capitoli brevissimi e quando cambia il capitolo cambia la persona. Se lo facevo pure io veniva una porcheria. Quindi quando a parlare in prima persona non è Sherlock ho cambiato stile di formattazione.

 

 

 

 

 

“ Caffè. ” Il sorriso di Mary è dolce mentre gli passa il bicchiere di Starbucks e gli offre un posto sotto l’ombrello e John non riesce a fare a meno di ricambiare.

Il caffè è troppo zuccherato, e lui non mette lo zucchero nel caffè e si conoscono da anni ormai ed è assurdo che lei non riesca a ricordarselo, ma è caldo e il posto sotto l’ombrello è una piccola oasi di pace dopo un’ora spesa su una scena del crimine ad osservare il cadavere di un ragazzino.

“ Ho fatto un giro veloce ma c’erano troppa gente, tutti quelli della scientifica. Non si riusciva a cavare un ragno dal buco così ho pensato di aspettare che avessi finito.”

John annuisce. Ha fatto bene del resto, Mary non è il tipo da scene del crimine, è una psichiatra criminale, lei i cattivi non vuole prenderli, lei vuole capirli e per assurdo questo è più facile farlo seduti al tavolo di un caffè con una pila di plichi e qualche fotografia. Per lui è diverso, a lui non frega nulla di capirli i cattivi, i criminali. John vuole prenderli. John vuole, anzi vorrebbe, alzarsi una mattina e scoprire che in tutta Londra non ci sono più scene del crimine.

Soprattutto se le scene del crimine sono come questa. La casa, il monolocale anzi, era un macello. Ci si domanda come una stanza così piccola possa contenere un tale quantitativo di roba. Un cucinino ingombro di piatti e tazze sporche, biancheria lasciata ad asciugare nella lavatrice, riviste ovunque. Le uniche cose trattate con cura sembravano essere quelle elettroniche, come testimoniava il macbook sul tavolino, praticamente perfetto. Macbook, già un computer con ancora attaccate le cuffie e il microfono perché la vittima probabilmente era abbastanza avvezza a videochiamate e cose simili. Cose di cui John, che a malapena riesce a scrivere al pc con due dita, sa poco e niente ma di cui spera si occuperanno gli informatici dello Yard. Magari il killer le trovava in chat le sue vittime, magari no. La vittima era stata trovata nuda, con il corpo martoriato da incisioni, tagli. Tutto faceva pensare a un delitto passionale, a uno scatto d’ira, a qualcosa di violento e viscerale ma tutto questo strideva così tanto con la premeditazione, con una vera mancanza di collegamenti tra le vittime. La vittima comunque, Richard Brook, non doveva avere più di ventiquattro anni ed era stata trovata dalla padrona di casa dopo cinque giorni dalla morte. La signora si era allarmata, così diceva ma John riteneva che in realtà si fosse soprattutto infastidita, per la mancanza del pagamento dell’affitto e si era recata nell’appartamento dove aveva trovato la vittima. Mentre gironzolava per la stanza alla ricerca di qualcosa che potesse risvegliare un qualche istinto che doveva possedere, almeno a quello che gli diceva Mary, a John era venuto in mente che se fosse stato lui la vittima probabilmente sarebbe stato trovato il suo cadavere dopo un numero di giorni simili. Nessuno si sarebbe stupito di una mancanza di risposte alle sue telefonate, del resto chi poteva farlo? Sua sorella con cui non parlava? Mary che magari era impegnata in qualche caso? I suoi sottoposti?, e l’avrebbero attribuita al suo carattere non sempre amichevole. Sarebbe così facile cancellarmi? Si chiedeva mentre girava per la scena del crimine.

Sarebbe così facile cancellarmi? Si chiedeva mentre sorseggiava il caffè che Mary gli aveva appena offerto.

“ Ispettore?” Una voce. Fastidio.

“ Lestrade, dimmi.”

“ La scientifica ha trovato delle impronte.”

“ E questo direi che era ovvio, è una casa.” Alza gli occhi al cielo mentre Mary gli molla un pizzicotto. Non proprio la frase che direbbe un rassicurante ispettore di Scotland Yard.

“ Intendo dire che sono state trovate delle impronte che non appartengono alla vittima. Vicino al cadavere.”

“ Forse abbiamo un caso.” Mary gli sorride.

“ Non è il caso che ci manca Mary, è la soluzione.”

 

 

 

 

 

 

 

La prima volta che le ho sentite ero solo un bambino. Le ho sentite dopo quello che è successo a scuola. Le campane intendo. Forse le avevo sempre avute nella testa ma quella è stata la prima volta che le ho sentite davvero. C’era confusione, c’era così tanto rumore che sembrava che la stanza sarebbe tipo scoppiata e io sono sgattaiolato in bagno con le mani ancora sporche. Mi sono sciacquato il viso, mi sono lanciato dell’acqua anche sui capelli come se l’acqua potesse cambiare qualcosa ma quando mi sono guardato allo specchio ero sempre io. E le campane continuavano a suonare anche se c’era così tanto rumore. E’ stato allora che ho sentito la pelle tirare per la prima volta come se avessi dentro un qualche animale, qualcosa che strisciava, qualcosa che scavava dentro. Mi sembrava di avere sottopelle un centinaia di scarafaggi. Mi sembrava che strisciassero dentro, che cercassero di staccarmi la pelle, come tanti piccoli scarafaggi o come dei serpenti. Scarafaggi, serpenti e campane. Mia madre ha detto che era impossibile, che nessuna persona ha degli scarafaggi sottopelle ma io sapevo che non era vero perché c’era quella cosa del verme solitario quindi poteva succedere anche questo. Ma forse non importava. Forse non importava che potesse succedere, che fosse vero, perché era successo perché era vero.

 Da allora le campane non hanno più smesso di suonare e la pelle non ha più smesso di tirare. Per questo la mia casa è buia, e per questo ascolto sempre la musica con delle grandi cuffie anche quando sono al telefono, anche quando parlo su skype con qualcuno. E poi quando sento le campane così forti da coprire la musica e la pelle che tira così tanto da aver paura di vederla spezzarsi mi rigenero. I serpenti possono cambiare la loro pelle ciclicamente, io devo farlo per smettere di farla tirare. Per zittire le campane. Mi rigenero, mi rincarno, cambio pelle. E le campane non smettono ma si fanno meno rumorose e la mia nuova pelle, almeno all’inizio, non tira, è morbida e mi aderisce addosso come se fosse stata pensata per me. Come se fossi stato pensato per lei.

Ma non dura mai. Non riesco a scappare dalle campane. Non riesco a scappare da me stesso. Non si esce vivi da noi stessi.

Oggi le campane suonano così tanto che non riesco più nemmeno a sentire se il mio cuore batte, se sto ancora respirando. E quello che è sotto la mia carne striscia così tanto come si sembra d’impazzire.

 

 

 

 

Aluminum, tastes like fear 
Adrenaline, it pulls us near 

I'll take you over 
It tastes like fear, there 
I'll take you over 

Look up, what do you see? 
All of you and all of me 
Fluorescent and starry 
Some of them, they surprise
 1

 

John Watson si sta rigirando tra mani i fascicoli di tutti i casi, che fino al giorno prima erano archiviati, mentre sorseggia una tazza di tè bancha. E’ una porcheria. Sarah la sua ultima ragazza, una dottoressa com’era stato anche lui in passato o almeno come aveva provato ad essere, gli ha fatto un discorso noiosissimo sugli effetti benefici del tè verde sull’apparato circolatorio e insomma “Tu di queste cose ne capisci John, dovresti iniziare a berlo, magari ti rilassa.”, tralasciando di fargli notare che il suddetto tè verde se viene lasciato troppi minuti in infusione diventa una porcheria.Davvero una porcheria.

Mentre sfoglia le fotografie delle scene del crimine il suo sguardo si sofferma su un appunto, su una calligrafia familiare.

Perché la maggior parte delle incisioni sono sul viso? Cosa significa, John?

C’è una domanda che non è stata posta ed è perché la maggior parte delle incisioni sono sui lati esterni del viso. Non è un particolare che si nota subito, le vittime sono una maschera di sangue, ma il coltello ha indugiato per un tempo maggiore ai lati del viso e John non riesce ancora a capire perché ma sente che un perché dev’esserci. Solo che lui non lo vede. Non è mai stato così bravo a vedere le cose, a cogliere i particolari. Ha un buon istinto, è tenace, non molla, è ancora un soldato ma anche quando sente qualcosa non riesce davvero a vederlo e questo lo riempie di frustrazione. Deve riuscire a vedere. Fanculo.

I suoi occhi vagano di nuovo sulle fotografie e la sua mente richiama per qualche attimo l’immagine di Mary. Mary. C’è stato un periodo in cui gli sarebbe piaciuto innamorarsi di Mary. C’è stato un periodo in cui è stato vicino ad innamorarsi di Mary. Dopo l’esercito, dopo aver smesso di  provare essere un dottore e aver deciso di diventare un poliziotto. Mary è una donna di cui è facile innamorarsi. E’ bella senza essere bellissima. E’ intelligente, sveglia. E’ premurosa. E’ il tipo di donna che se incontri fuori dal lavoro non te la immagineresti mai ad avere a che fare con dei cadaveri e con dei serial killer ma magari a fare la mamma. C’è stato un periodo in cui gli sarebbe piaciuto innamorarsi di Mary e mettere al mondo un paio di bambini biondissimi come entrambi e con gli occhi buoni come la madre, ma non è mai successo. Non è che le cose siano andate male tra loro, è che non sono mai andate davvero bene. John non ha mai sentito qualcosa di più di una certa tenerezza, di un sentimento quasi imposto. Non c’è mai stato un innamoramento, c’è sempre stato un desiderio d’innamorarsi di lei che sarebbe stata la scelta più semplice, più scontata forse ma anche rassicurante. Perché Mary è il tipo di donna che ti aspetta fuori da una scena del crimine con un bicchiere di caffè zuccherato bollente e che ti dice che è sicura che ce la farai, che riuscirai ad acciuffare questo killer, che è sicura del tuo istinto. Perché Mary vede la persona che vorresti essere, che forse vorrebbe che fossi ma il problema è che a John sembra che lei non abbia mai visto chi è lui davvero. Che non l’abbia mai visto. Il problema è che forse John vorrebbe qualcuno che appoggia sul tavolo il caffè e che lo segue sulle scene del crimine e che vede anche quello che lui non coglie.

Il suo telefono squilla.

“ Ispettore, sono Greg. Non mi sembrava il caso di aspettare domani, la disturbo? ”

Almeno è educato. Vorrebbe quasi che lo disturbasse, si sentirebbe meno triste.

“ Tranquillo, Greg. Dimmi tutto.”

“ Abbiamo trovato a chi appartengono le impronte. E insomma non ci crederà, le ho mandato adesso la mail con la scansione.”

“ Perfetto, adesso controllo. Grazie Greg.”

“ Non si preoccupi, aspetto in linea.”

Silenzio. Rumore di dita che battono freneticamente sulla tastiera.

“ Cosa? Come cazzo è possibile?”

 

 

 

 

 

Quando ho delle brutte giornate, delle giornate in cui nemmeno Almost Blue mi offre un sollievo, sincronizzo lo scanner sulle frequenze dei cellulari. Perché è facile. I cellulari sono facili, le conversazioni al cellulare sono facili. E quando ho delle brutte giornate non mi dispiacciono le cose facili. Mi piace riuscire a dedurre la vita sentimentale di una coppia da un paio di frasi, da un silenzio troppo prolungato, da un’esitazione nella voce mentre lui pronuncia il nome del dentista che in realtà è una copertura per andare a trovare la babysitter della figlia. E’ facile e di solito le cose facili tendono ad annoiarmi, ma ci sono giornate in cui nemmeno io ho voglia d’indovinelli.

 

“ Amore? Sono in ritardo, passo un attimo a fare un saluto a Diana e poi ci vediamo a casa ok?” Sbagliato. Diana in realtà è probabilmente un Dominic o qualcosa del genere e sicuramente quello che hanno intenzione di fare non comprende salti. Noioso. Troppo prevedibile anche per una pessima giornata.

 

“ Mamma, sì sì ho già fatto i compiti, tranquilla. Adesso torno subito a casa.”

“ Io passo a fare la…” esitazione. “ Spesa e poi ci vediamo dopo. Inizia ad apparecchiare.”

Sbagliato e sbagliato. La ragazza non ha evidentemente fatto i compiti e la madre non sta davvero andando a fare la spesa. Quando le bugie sono da entrambe le parti è un po’ più divertente.

 

“ Mary, sono io, John. Hai ricevuto la mia mail? Sì sono assolutamente d’accordo con te non ha il minimo senso.”

La voce blu. Non una voce blu qualsiasi. La mia voce blu. Ciao.

 La voce dall’altro capo del telefono non riesco ad avvertirla, la linea è disturbata.

“ Ma scusa la spiegazione non dovresti darmela tu? Sei tu la psicologa” Ride e la risata è amara, forzata con un piccolo sbuffo finale. “ Io posso solo dirti quello che sappiamo. Ed è che ci sono dei ragazzi, e delle ragazze, giovani che vengono uccise da qualcuno che probabilmente le incontra su skype o qualcosa del genere. E che nell’appartamento dell’ultima vittima, Richard Brook, sono state trovate le impronte digitali di Victor Trevor che sorpresa sorpresa è la vittima precedente e questo non ha il minimo senso. Cosa succede, c’è qualcosa che non vedo?”

Probabile, voce blu. Di solito non vedete la maggior parte delle cose. Chissà se mi manderesti a fanculo se te lo dicessi. Chissà.

“ No che non siamo su una puntata di Walking dead. “ Ride di nuovo ma qualcosa nel tono della sua voce cambia, s’irrigidisce. E’ arrabbiato eppure la sua voce ha sempre una certa rotondità, è quello che la rende blu. “ Senti l’ho capito che tu questo tizio, questo zombie lo vuoi capire ma a me non frega un cazzo di capirlo. Io voglio prenderlo prima che uccida un’altra persona, prima di scoprire che non so si è reincarnato nel corpo di una nuova vittima. Prima di trovare le impronte di Richard Brook nella casa di una ragazzetta nuda e martoriata.”

Cosa mi sta sfuggendo? Reincarnazione. Reincarnazione. Richard Brook. Richard. Richard. Ragazze. Skype. Reincarnazione. Serpenti. Viscido. Richard. Rich. Serpente. Cosa mi sta sfuggendo? Richard. Rich. Verde.

Dovrei girare la manopola dello scanner. Dovrei semplicemente cambiare frequenza. Non dovrei intervenire. Io non intervengo mai. Io risolvo casi nella mia testa, non intervengo. Non sono mai state le “vittime” il motivo per cui deduco le persone, per cui risolvo gli indovinelli, è sempre stato il gioco. Io non intervengo. Dovrei semplicemente cambiare frequenza.

 

 

 

 

“ Pronto? Chi parla? Cosa significa che lei ha sentito la voce del nostro serial killer? E’ un giornalista? Non abbiamo ancora rilasciato alcuna informazione ai giornalisti, non dovrebbe nemmeno esserci un caso, cazzo! Cosa vuol dire che è cieco e ha sentito la voce nello scanner? Chi le ha dato il mio numero? Chi le ha fornito il mio nome? E poi cosa cazzo è una voce verde? Pronto? Pronto? Fanculo!” 3

 

 

 

 

 

 

“Ok provate a spiegarmelo di nuovo.” John sospira e cerca di concentrarsi sulla tazza di caffè che stringe tra le mani perché davvero quello che gli stanno dicendo le due persone davanti a lui non ha senso.

“ Sulle precedenti scene del crimine a quanto pare sono state trovate delle tracce appartenenti ad altre vittime sempre di omicidi irrisolti, ispettore.” Questa parte, quella più sensata nonostante faccia praticamente riferimento a degli zombie è Lestrade a dirgliela.

“ Fino a qui ci sono. Ora visto che evidentemente le vittime degli omicidi precedenti non possono essere uscite dalla tomba solo per farci un bizzarro scherzo abbiamo a che fare con un serial killer che si trasforma nel corpo che prende. Dottoressa Morstan?” Non sa perché non l’ha chiamata semplicemente Mary, forse perché oggi sembra una ragazzina con la sua giacchetta leggera e chiamarla per cognome la fa sembrare più seria.

“ Non è una cosa così rara. Il fatto che l’assassino s’identifichi con la vittima, intendo. Il fatto che invece il killer si identifichi con la vittima al punto di diventare la vittima  e che poi abbandoni l’identità per prenderne una nuova è molto più interessante. E no non fare quella faccia ho davvero detto interessante e non mi scuserò. “

“ Quindi se analizziamo di nuovo la prima scena del crimine, e non voglio pensare come si possa farlo a distanza di anni ormai, potremmo trovare delle tracce del nostro killer, giusto? Tracce che probabilmente ci sono sempre state ma non abbiamo visto mentre lui continuava a reincarnarsi e uccidere. Grandioso, tutta Scotland Yard farà una bellissima figura!”

“ E poi c’è la telefonata che hai ricevuto…”

“ Mary se ricominci con questo discorso me ne vado. Non ha senso.”

“ Ispettore, l’ascolti. La signorina ha ragione, è qualcosa. Mentre cerchiamo di avere qualcos’altro.” Lestrade, di nuovo. Quasi quasi lo fa cacciare dal caso.

“ Dicevo, John, che c’è questo tizio che a quanto pare ha ascoltato una di quelle conversazioni del nostro killer e che poi ha captato anche una delle nostre conversazioni e ti ha trovato. E sa riconoscere il nostro killer. Potrebbe esserci utile!” Mary è euforica.

“ Ma non ha senso, maledizione! Chi ci dice che non sia semplicemente un mitomane?” Non ne caveranno un ragno dal buco, lui già lo sa.

“ Un mitomane ti avrebbe lasciato un nome e un numero, si sarebbe fatto notare. Questo tizio ha riattaccato. E poi nessuno ha ancora parlato del caso, se avessimo a che fare con qualcuno che vuole semplicemente farsi notare la notizia si sarebbe già letta almeno in rete. John è qualcosa. I rilievi della scientifica saranno un parto, ci vorranno giorni e intanto il nostro killer uccide un’altra persona. E’ qualcosa.”

“ Non è qualcosa è una follia.” E’ qualcosa e lui lo sa, solo che non sa cosa farci con quel qualcosa. “ E comunque non lo troveremo mai.”

“ La signorina ed io abbiamo, con le informazioni che ci ha dato ispettore, diffuso una sorta d’identikit, una richiesta di aiuto e ci ha risposto una signora anziana. Penso sia la madre. Ha parlato di questo giovane” Lestrade, sfoglia i suoi appunti. “ Di questo ragazzo cieco che ascolta sempre le radio con lo scanner e poi si è dilungata sui suoi dolori all’anca e sul fatto che lui la tratta come se fosse la sua donna delle pulizie, ma insomma abbiamo un nome e un indirizzo.”

“ Un indirizzo di quella che forse è la madre di un mitomane e che non è nemmeno sicura sia stato lui a chiamarci? Ma vi ascoltate? E poi perché in due giorni riuscite a trovare uno sconosciuto che mi parla al telefono giusto cinque minuti e quando vi chiedo un dato su un omicidio passo i mesi ad aspettare?”

“ John…” Mary gli stringe il braccio.

“ E va bene, andiamo a conoscere questo cieco. Lestrade nome e indirizzo?”

“ Il nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Solito pippone e blabla:

Giuro che nel prossimo capitolo s’incontrano eh. Mi fa strano scrivere, come dicevo a qualcuna Ciao Nat!, di John e Sherlock separati, non sono capace. Però si perdeva tutta la tensione, o pseudo tensione, del giallo a inserire prima l’incontro. Insomma non andava avanti la storia e ho voluto invece seguire più o meno lo sviluppo del libro.

Nella mia testa sono cinque capitoli, e insomma dal prossimo dovrebbe esserci la parte più divertente.

Grazie davvero a chi ha recensito e l’ha messa nelle seguite e ci ha passato del tempo. Offro dei cupcakes ciocco-pistacchio a tutti e del tè bancha come quello che John non sa prepararsi =)

 

1 E-bow letter, REM. L’alluminio ha il sapore della paura, e dell’adrenalina. Non so ancora perché ma trovo che questa frase sia sempre bellissima.

2 E’ vero. Il tè verde e in particolar modo il Bancha ha dei tempi d’infusione brevissimi. Tra i 30 e 60 secondi. Però sopporta più infusioni, ed è uno dei pochi tè verdi che tollera le temperature alte anche se l’acqua ovviamente non dev’essere bollente. E’ un tè meraviglioso, delicatissimo e con una sfumatura quasi di miele. Se si superano quei tempi d’infusione diventa amarissimo e perde tutti i suoi benefici. E con questo ho finito il mio angolo del tè.

3 Questa parte è praticamente presa pari pari dal libro. Non riuscivo a venirne fuori altrimenti -_-

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Capitolo 3
*** Aluminum, tastes like fear Adrenaline, it pulls us near ***


Lei, Molly, è gentile e sorride tanto. Sorride ed è in imbarazzo e continua a ripetere che di solito la casa è più in ordine e che non è abituata ad invitare gente. Non è abituata a invitare gente che non conosce. Le dico quello che vuole sentirsi dire, le dico che noi non siamo due che non si conoscono, siamo due che si sono trovati e Molly arrossisce e sorride ancora e poi c’è tutta quella parte in cui devo accarezzare Toby che poi sarebbe il suo gatto. Mi piace il suo gatto perché miagola moltissimo e i suoi rumori aiutano a zittire le mie campane. Sono ancora lì ma per qualche minuto mi sembra di sentirle meno.

Molly è gentile ed è in imbarazzo ed arrossisce molto. Vive da sola con Toby e studia per diventare un qualche tipo di medico e guarda Glee e Grey’s anatomy e probabilmente ha una penna con dei cuoricini disegnati e davvero nulla di quello che dice mi potrebbe interessare nemmeno tra un milione di anni ma ascoltarla fa parte del mio ruolo. Ascoltarla è quello che farebbe Richard Brook, il tizio che Molly ha conosciuto in chat ed ha invitato a casa sua anche se lei non è abituata ad invitare gente. Il miagolio del gatto non sta davvero aiutando con le campane, era solo un’illusione momentanea. Devo sempre interpretare un ruolo, aiuta con le campane, aiuta quando sento mille scarafaggi che mi strisciano sottopelle, aiuta quando devo farmi aprire la porta di casa da qualcuno. Rende tutto più facile per me e lo rende più facile anche per loro. Non voglio che sia difficile per loro. Non è un requisito. Non è parte del piano. Non è parte del procedimento. Non è mai stato per il fare del male. Non è mai stato per il renderlo difficile a qualcuno. Sono le campane, gli scarafaggi e la pelle che tira. Non è una scelta, è l’unica opzione.

Molly continua a parlare e adesso non arrossisce più perché ho in mano il dvd di Glee da dieci minuti e non gliel’ho ancora passato, e non le ho ancora parlato, e se fosse una ragazza più sveglia in questo momento inizierebbe ad avere paura. Ma Molly non è una ragazza più sveglia, Molly è una ragazzina insicura che si commenta da sola i post sul blog1 e quando non le rispondo e non mi muovo per dieci minuti non pensa alle campane che sto cercando d’ignorare, pensa di non piacermi. Le persone sono così facili. Così prevedibili. Non ci arrivano mai a capire quando è ora di urlare.

Continuo a fissarla e non parlo e Molly continua a dire idiozie sul divano pieno di peli di gatto e sul fatto che ha appena messo su il bollitore e penso che quando tutto questo sarà finito dovrò spegnere il bollitore oppure potrebbe fischiare e richiamare l’attenzione. Molly parla e io penso che sentire il fischio di un bollitore è meno fastidioso di sentire le campane. Dovrei fare tutto questo se sentissi solo un fischio? Le campane rimbombano. I fischi sono acuti. Non puoi scappare dalle campane. Io però continuo a cercare di scappare lo stesso anche adesso, anche quando il rumore è così forte che ho paura che la casa possa crollare, che la stanza possa crollare, che la mia testa possa crollare.

Molly non capisce. Probabilmente è più in gamba di quanto pensassi. Molly inizia a tamburellare freneticamente con i piedi e a stringere i pugni. Molly non capisce e inizia ad avere paura di quel ragazzo che ha invitato a casa a vedere Glee, proprio lei che non invita mai nessuno. Molly ha paura, le campane suonano in maniera quasi forsennata, e la mia faccia, dio la mia faccia, sembra essere sul punto di accartocciarsi su se stessa e io capisco che non è più tempo di essere Rich Brook. Molly ha paura e io non ho più tempo e non ho più alternative così succede quello che deve succedere. E poi Molly non sente più niente. E poi non sento più niente.

 

 

 

 

 

 

 

Arrivano nel primo pomeriggio, in tre e rimangono per un tempo vergognosamente lungo sulla soglia del 221 con Mrs. Hudson. Lei, la mia padrona di casa, è in imbarazzo. Non troppo, ha solo quella leggera soggezione data dai gradi, dalle giacche eleganti che stanno probabilmente indossando le persone che sono attese nel mio appartamento. Attese senza che io le abbia invitate. Io a quegli appelli non ho risposto. Non avevo motivi, non avrei nemmeno dovuto fare quella telefonata. E’ stato un errore, una debolezza. Non avrei dovuto. Quindi non ho risposto agli appelli. Non ho niente da dire a quelle persone, tutto quello che gli serve ce l’hanno. Non penso l’abbiano ascoltato ma io i dati li ho forniti. Non ho niente da dire a quelle persone. Non ho niente da dire a lui. Quindi non ho risposto agli appelli.

Sfortunatamente la mia padrona di casa ha di recente imparato ad usare internet e non si perde mai un telegiornale, oltre a quelle ridicole televendite che la fanno ridere a una voce davvero troppo alta, e all’appello ha risposto lei per me. Mi sono arrabbiato ovviamente, ho sbraitato qualche frase sgradevole a cui lei non ha minimamente dato peso e a cui ha risposto semplicemente offrendomi una tazza di tè. Mi sono arrabbiato anche se non abbastanza. Se l’avesse fatto qualcun altro, se l’avesse fatto mio fratello per esempio, non avrei reagito in questo modo, non sarei stato così controllato ma ho un debole per Mrs. Hudson e non riesco davvero a rimanere arrabbiato con lei. E in ogni caso non me lo permetterebbe.

Così adesso ci sono tre sconosciuti che stanno salendo le scale per il mio appartamento senza che io li abbia invitati pronti a farmi un sacco di domande di cui non capiranno le risposte. Lui le capirebbe? Probabilmente no, è solo una sensazione. Ridicolo. E a chiedermi descrizioni che ovviamente non posso dare. E’ ridicolo. E’ uno spreco di tempo. Non avrei nemmeno dovuto chiamare. Non dovrei aprire la porta. Ma Mrs. Hudson ha la chiave, maledizione. Dovrei sdraiarmi sul divano, mettere il broncio e aspettare che se ne vadano.

Mi sdraio sul divano metto il broncio e aspetto che se ne vadano.

E poi entrano e sento la sua voce.

“ Mr. Holmes? La sua padrona di casa ci ha fatto entrare…”

 La voce blu. La mia voce blu. Ciao.

 

 

 

 

 

 

Non era la reazione che si aspettava. Non che si aspettasse chissà quale reazione a dirla tutta ma sicuramente non si aspettava di trovare il suo testimone, ma testimone era il termine corretto?, sdraiato sul divano in vestaglia impegnato a tenergli il broncio. Non era sicuramente la reazione che John Watson si aspettava. Quella sera, uscito da quella situazione surreale, avrebbe fatto una lunga telefonata a Mary per lamentarsi della situazione in cui l’avevano cacciato.

La padrona di casa, a quanto pare non era la madre, l’aveva avvertito sul carattere abbastanza complicato del suo affittuario e su come l’idea di contattarli fosse stata unicamente sua ma insomma il broncio era una reazione quantomeno eccessiva per chiunque sopra i dieci anni d’età.

“ Mr. Holmes? La sua padrona di casa ci ha fatto entrare, spero di non averla disturbata. Sono L’ispettore John Watson e loro sono Lestrade e Dimmok e sono davanti a lei e loro sono alla mia destra e…”

“ Ed è consapevole che questo non mi dice assolutamente niente perché sono cieco vero?” Perfetto. Il modo migliore d’iniziare. John è seriamente tentato di prendere la porta e andarsene.

“ Inoltre so benissimo dove siete posizionati nella stanza. Lei è davanti al divano, a fianco del tavolino mentre i suoi sottoposti sono uno alla sua destra, mentre l’altro è spostato verso la cucina, tre passi indietro rispetto a voi direi. Quindi abbiamo perso tempo inutilmente. Glielo dico unicamente per quando mi farà notare che non abbiamo tempo perché ci sono delle vite in ballo, mentre invece non abbiamo tempo perché lo perdiamo a scambiarci informazioni inutili.”

Greg tossì, Dimmok ridacchiò e John alzo gli occhi al cielo. Respira, John, respira.  Magari ne esce qualcosa di buono. Magari riesci a non ucciderlo.

“ Mr. Holmes…”

“ Sherlock, per favore. Mr. Holmes è mio fratello e a mio fratello non voglio nemmeno pensare.”

“ Sherlock, allora siamo qui perché c’è questo tizio che ammazza le persone, giovani, e a quanto pare lo fa per reincarnarsi in loro ma tu probabilmente queste cose le sai già perché mi hai chiamato.”

“ E tu non hai ascoltato.”

E’ esasperante, è la persona più esasperante che abbia mai conosciuto e gli sta parlando da poco più di cinque minuti.

“ E io non ti ho ascoltato, ok. Non ti ho ascoltato perché sono uno stupido superficiale e tu invece a quanto pare sei intelligentissimo, sei tipo un genio e io sarò sempre l’imbecille che ha permesso a un pazzo di ammazzare un’altra persona perché non ti ha ascoltato. Ma rimane il fatto che tu hai chiamato, e questo vuol dire qualcosa. Tipo che puoi rimanere senza correggermi per due minuti e farmi finire il discorso.”

E Sherlock sorprendentemente si zittisce davvero. Smette di fissare, oddio fissare probabilmente non si può dire con i non vedenti, il divano e si gira verso di lui e rimane in silenzio ad ascoltarlo e John si accorge che è la prima volta da quando è entrato in quella stanza che si trova a guardarlo. E’ un ragazzino. Non può avere più di ventiquattro, venticinque anni e improvvisamente la sua voce baritonale stona tantissimo con quel viso quasi da bambino, con quel corpo magro coperto dalla vestaglia blu. E’ un ragazzino con una testa piena di riccioli scuri disordinati, gli occhi semichiusi e la pelle nivea e se John non avesse ancora una gran voglia di ucciderlo lo troverebbe bellissimo. Bellissimo e fragile. Però questi sono pensieri su cui non può indugiare perché il ragazzino è miracolosamente in silenzio e lui deve sfruttare quel silenzio per riuscire a finire il discorso.

“ Dicevo. C’è questo pazzo che ammazza i giovani e poi si reincarna e noi stiamo cercando di trovarlo e al momento ci sono un sacco di persone al lavoro ma tu hai detto di aver sentito la sua voce al telefono e la tua padrona di casa dice che è possibile perché tu ascolti sempre tutto con lo scanner. E così abbiamo pensato che magari puoi provare ad aiutarci, anche se io sono il coglione che non ti ha ascoltato, e puoi utilizzare ancora quello scanner per trovare di nuovo quella voce e magari noi possiamo prenderlo prima che sia troppo tardi e direi che è tutto. “

Si muove nervosamente per la stanza.

“ Afghanistan o Iraq? La ferita, intendo.”

“ Come scusa? Hai ascoltato una parola di quello che ho detto?”

“ Ho ascoltato. A differenza tua. E ti ho fatto una domanda. Afghanistan o Iraq?”

Ok tutto questo è decisamente surreale, se prima era tentato di uscire dall’appartamento adesso inizia a pensare che lanciarsi dalla finestra sia una soluzione ugualmente accettabile.

“ Afghanistan, ma come diavolo hai fatto a saperlo?”

“ Quando sei entrato ho sentito il tintinnio delle piastrine di riconoscimento. Non si sono scontrati contro i bottoni della camicia, che so che indossi perché hai rigirato i polsini mentre parlavi, quindi vuol dire che non le tieni in evidenza. Segno evidente d’imbarazzo per qualcosa. Quindi in guerra non è andata molto bene. Inoltre mentre mi esponevi sommariamente il caso hai iniziato a camminare per la stanza e hai zoppicato diverse volte, le due cose probabilmente coincidono quindi. Ferita di guerra. Quindi: Afghanistan o Iraq? Tra l’altro non hai chiesto una sedia per tutto il tempo in cui sei rimasto qui quindi mi sembra giusto dirti che probabilmente la tua zoppia non è tanto colpa della ferita quanto di un disturbo psicosomatico.” Sherlock ha parlato senza esitazioni, senza pause, come se lo stesse leggendo, come se lo stesse guardando.

“ Questo, questa cosa è stata fantastica.”

“ Lo pensi davvero?”

“ Certo, straordinario. Decisamente straordinario.”

“ Non è quello che di solito la gente mi dice.”

“ E cosa ti dicono?”

“ Nulla, di solito non mi prendo nemmeno la briga di leggerli. Noioso.”2

Scoppiano a ridere, così senza motivo e John improvvisamente non sente più male alla gamba, non si sente nemmeno più in colpa per non aver capito quella telefonata, non si sente più stanco e infastidito dal sarcasmo di Sherlock. Ha solo voglia di ridere, almeno per qualche momento.

“ Ti aiuto.”

“ Eh?”

“ Il tizio che si reincarna. L’Iguana, come lo avete iniziato a chiamare, ti aiuto.”

 

 

 

 

 

La scientifica non ha ovviamente trovato nulla a casa Milverton, ma a distanza di più di due anni John non si aspettava certo di meglio. Non sanno cosa cercare e devono cercare in un appartamento che è rimasto sfitto per due anni, va bene, ma che è stato regolarmente pulito, che è stato sistemato dalla famiglia. Non si aspettava certo niente di meglio. In compenso quando si è recato dalla famiglia John Watson si è trovato davanti a un appartamento che è quasi diventato un santuario della vittima. Sono gentili i Milverton, sono una coppia di una certa età che ha avuto un solo figlio quando non erano più giovanissimi e che se lo sono visti strappare senza una qualche spiegazione e insomma non dovrebbero essere gentili, dovrebbero essere incazzati a morte e sbattergli la porta in faccia. Ma sono gentili e la signora gli offre un caffè e acconsente senza problemi a fargli prelevare il pc del figlio e qualche album di fotografie, qualche quaderno di appunti. “ Mi raccomando Dottore, non li rovini. Non so perché le servano, avevano già controllato tutto due anni fa. Non li rovini mi raccomando, sono tutto quello che abbiamo.” Il pc e i quaderni gli servono perché due anni fa non sapevano cosa cercare, e forse non lo sanno nemmeno adesso ma John spera di trovarlo lo stesso.

Le indagini, sempre che si possano chiamare così, del ragazzo cieco non hanno ancora portato a nulla e quindi quel pc e quegli album di fotografie sono tutto quello che hanno per provare a tracciare un profilo del loro serial killer. Dei quaderni, un pc e una voce verde persa nell’etere, fantastico. Lo troveranno sicuramente. E come dimenticare un testimone ostile che probabilmente ha deciso di non collaborare in alcun modo solo perché si diverte a fargli fare la figura dell’idiota. Fantastico. E intanto è stata ritrovata una nuova vittima, Molly Hooper. Ventiquattro anni, studentessa, con un gatto. Uccisa da Richard Brook, ovviamente. Una brava ragazza stando a quello che dicono i familiari, una ragazza carina e normale, stando a quello che dicono le fotografie sulle mensole. John ha fatto un salto quasi di sfuggita sulla scena del crimine e dopo pochi minuti gli è sembrato che tutto quel sangue gridasse il suo nome, che fosse solamente colpa sua, che se se ne fosse accorto prima, se avesse guardato meglio non ci sarebbe stata nessuna vittima. E questo è il motivo per cui al momento si trova allo Yard con una pila di stampate del pc, degli album di foto e dei quaderni della prima vittima dell’Iguana, perché almeno quelle prove non gridano il suo nome. Perché almeno in quel caso non è colpa sua, perché magari la prossima volta potrà essere merito suo. Sempre se riesce a trovare qualcosa.

Mary e Lestrade sono passati verso le 22 ed entrambi hanno detto un sacco di frasi piene d’interesse a proposito del fatto che sarebbe dovuto andare a casa a dormire un po’ o almeno a cercare di riposare gli occhi e che insomma quei documenti erano lì da due anni, cosa potevano fare poche ore in più? John ha sorriso educatamente ed è rimasto in centrale con i suoi documenti. Non che il suo appartamento sia molto meglio, è solo più piccolo, meno luminoso e le poltrone sono più comode e quindi molto più a rischio di colpo di sonno. Così è rimasto in centrale ed ha continuato a vagliare documenti mentre il tempo si è sembrato dilatare all’infinito. Non ha scoperto molte cose, insomma adesso ha sicuramente le idee più chiare sulle casate di Game of Thrones e davvero non aveva idea di come una persona potesse scrivere così tante mail riguardo la maternità e la paternità di un certo Jon Snow3, ma a parte questo non ha scoperto molte cose. Charles non era sicuramente il ragazzo migliore del mondo, ci sono un sacco di mail da cui sembra rientrare nel classico stereotipo di bulletto di quartiere sempre pronto a ricattare qualche conoscente, a sfottere le persone più deboli. Non il ragazzo migliore del mondo, sicuramente, ma comunque un ragazzo. Comunque non una cosa giusta quello che gli è successo.

Non ci sono molte foto nei suoi album di fotografie ma dalla cartella del download il tecnico informatico dello Yard ne ha trovate alcune risalenti a poche settimane prima della morte di Milverton. Una in particolar modo colpisce John qualche minuto prima di decidere di andarsene a dormire e arrendersi. C’è questo ragazzo con gli occhi scuri e i capelli un po’ incasinati come se fosse appena sceso dal letto. Non deve avere più di trent’anni e sembrerebbe un tipo normalissimo se non fosse che nelle foto che lo ritraggono ha la pelle del viso e dell’interno delle braccia arrossate e potrebbe benissimo essere dovuto a un eritema solare ma John prima di occuparsi di cadavere ha cercato di occuparsi di persone vive e le riconosce le dermatiti, li riconosce gli eritemi. Gli arrossamenti e i graffi sulla pelle dello sconosciuto sembrano essere dovuti a graffi, a qualcuno che si è grattato e John non è bravo a vedere le cose ma un po’ d’istinto ce l’ha e non riesce a non pensare a qualcuno che non è a suo agio nella sua pelle, che cerca di grattarsela via. Il riferimento alle foto è una mail: jmoriarty@gmail.com e insomma probabilmente non è nulla ma magari è qualcosa. Magari è la volta buona che trova finalmente qualcosa.

Compone freneticamente il numero di Lestrade.

 

 

 

 

 

 

Da: m_morstan@gmail.com

A: john.watson@gmail.com

Oggetto: Documentazione James Moriarty e qualche appunto

 

John,

Come d’accordo t’invio le mie considerazioni su James Moriarty in base ai dati che ha raccolto Lestrade mentre tu eri impegnato a poltrire =)

Hai tutti i documenti in allegato ma aggiungo giusto qualche appunto.

E’ schedato e questa è una buona cosa no?

E’ schedato perché è stato coinvolto nella morte di un ragazzino di dodici anni. Non l’hanno condannato. Non è finito nemmeno al riformatorio, come puoi vedere, penso ci fosse dietro una famiglia con parecchi soldi ma quello puoi saperlo meglio di me provando a contattare gli agenti incaricati del caso ai tempi. E’ stato fatto passare per un incidente, e forse lo era, ma in allegato hai le dichiarazioni degli psichiatri che l’hanno visitato dopo quella visita e non sono molto rassicuranti.

Parlano di un bambino di quattordici anni incline all’autolesionismo, si fanno riferimenti a ferite sui polpastrelli e sul viso assolutamente auto inflitte, che alterna momenti di assoluta tranquillità a scatti di rabbia quasi violenti. Gli psichiatri consigliano il ricovero, la famiglia sceglie la terapia da casa.

Mi sono fatta mandare gli appunti dal collega che si è occupato di James Moriarty dai 14 anni ai 18 quasi settimanalmente e ha evidenziato il continuo aumento del fenomeno autolesionistico associato a ipocondria. Il ragazzo lamentava infatti dolori fortissimi alle orecchie e dermatiti che però non venivano mai confermate dai medici, da qui l’idea del collega di ipocondria. Ora noi sappiamo che non si trattava d’ipocondria ma di un iniziale bisogno di reincarnarsi. Non era dermatite, sentiva la sua pelle tirare e nessuno se ne accorgeva. So già che puoi immaginarti quanto sono nervosa ed irritata per la situazione, John. E’ vergognoso, soprattutto perché il collega in questione è un luminare ma ogni tanto sembra che le lauree le diano con i punti.

Dopo i diciott’anni la terapia d’interrompe e l’unico altro riferimento al nostro James è di quattro anni dopo.

A ventidue anni c’è un incendio in un ospedale della provincia londinese in cui era ricoverato James Moriarty, per la solita dermatite, non viene ritrovato il corpo ma viene dichiarata la morte.

E nel gennaio 2008 invece James è probabilmente a cercare di fare amicizia con Charles Milverton. Lascio a te le deduzioni, a me sembra che siamo punto a capo. Anzi peggio perché adesso il nostro assassino ha un nome ma questo nome non esiste più.

E non ha volto perché lo ruba alle sue vittime.

Temo che la nostra speranza sia davvero il tuo ragazzo non vedente.

E spero che serva a qualcosa, o spero di non aver trovato qualcosa a riguardo, del resto sono solo una strizzacervelli come ti piace ricordarmi.

Io so che lo puoi trovare comunque, John.

Un bacio,

Mary

 

Quindi una discreta serie di ragazzi morti e un serial killer che si reincarna e che non esiste, che è stato dichiarato morto. E tutte le loro speranze appese a uno scanner. Fantastico. Grandioso. Improvvisamente John non ha più voglia di cartelle, di documenti, non ha nemmeno più voglia di scene del crimine, ha solo voglia e bisogno di uscire per Londra e non pensare a niente. Almeno per qualche ora.

 

 

 

 

 

Stasera lo riconosco ancora prima che parli. La sua voce, la sua voce blu, la riconoscerei ovunque ma non è nemmeno necessario, mi basta sentire i suoi passi sull’uscio per sapere che è lui. Fuori sta piovendo e non ha l’ombrello e sentire la velocità con cui le gocce di pioggia toccano il suolo dev’essere rimasto in giro almeno per un’ora. Perché è rimasto sotto la pioggia per un’ora senza ombrello? La sua zoppia è particolarmente pronunciata, trascina la gamba più dell’altra volta, deve fargli male. Perché è rimasto a camminare sotto la pioggia per un’ora se la gamba gli fa particolarmente male? Perché la zoppia è aumentata? Perché è qui? Siamo rimasti d’accordo con il suo vice, quel Lestrade che sembra uno dei pochi con un neurone ancora funzionante seppur a intermittenza, che li avrei contattati io se avessi sentito la voce. Mi hanno fornito di tutta la loro attrezzatura e adesso il mio scanner è un baraccone gigantesco che permetterà agli Yarders di localizzare una voce che non ho nemmeno più ritrovato. In ogni caso io non ho chiamato Lestrade, non ho chiamato nessuno quindi lui non dovrebbe essere qui. Non ho nulla da dirgli, non ho le risposte che cerca. Perché è qui?

Piace a Mrs. Hudson, l’ho capito subito. E’ più gentile con lui e non è davvero perché è un ispettore di polizia, penso sia per come non si è fatto mettere i piedi in testa la scorsa volta, per come non mi ha trattato da invalido. Sono il genere di cose che fanno colpo su Mrs. Hudson. Sono il genere di cose che forse fanno colpo anche su di me. Anche lui è gentile e si sofferma sulla porta a scambiare qualche parola con lei. Non è tenuto a farlo, potrebbe semplicemente esibire il suo tesserino e salire nel mio appartamento ma invece rimane a chiacchierare. Penso sia una cosa gentile, penso che sia il genere di cose che la gente fa quando vuole comportarsi gentilmente.

Dopo qualche minuto comunque i convenevoli s’interrompono, lo sento appoggiare il suo giaccone, imbottito e pesante, sull’attaccapanni e salire le scale. Non bussa, non vorrei che lo facesse, ma entra direttamente e poi lui è qui.

“ Ciao. “ Sta sorridendo, come se potessi vederlo, come se potessi capirlo da qualcosa di più del modo in cui strascica le vocali quando sorride. “ So che non dovrei essere qui ma ero in giro e pioveva e non ne potevo più di scene del crimine dove non riesco a vedere quello che dovrei vedere e così sono passato. A vedere quello che combini. Non che non mi fidi. “ C’è un incertezza nella sua voce, non l’ho mai sentita così blu, non l’ho mai sentita così fragile, nemmeno quando al telefono con quella donna parlava di una nuova vittima. “ E’ che non sapevo bene dove andare.” Lo dice così, come se fosse la cosa più naturale del mondo quando per me che con i sentimenti ho lo stesso rapporto che le persone normali hanno tipo con un lemure, è qualcosa di assurdo. In questo momento, mentre dice quella frase, la voce di John Watson cambia colore e non è più blu, è trasparente, come se potessi passarci attraverso, come se potessi vederci dentro.

“ E’ che tu sei tipo la nostra ultima speranza.” Lo dice e sbuffa un pochino. Forse lui potrebbe essere tipo la mia ultima speranza di essere ancora un essere umano, ma io questo non lo dico perché queste sono cose che non si dicono, perché queste sono cose che soprattutto io non dico. Però lo penso, e non so se mi piace. Non so come mi fa sentire pensarlo.

 

 

 

 

Sono rimasti senza parlare per un buon quarto d’ora. Non che siano davvero in silenzio visto il rumore dello scanner. John si è seduto per terra ai piedi del divano e Sherlock è sdraiato sul divano con gli occhi socchiusi e stavolta non indossa la vestaglia blu ma una rosso scuro e gira freneticamente la rotella dell’apparecchio e quando avverte qualcosa che sembra interessarlo si mordicchia le labbra, come se stesse pensando più intensamente.

Non si sono praticamente parlati ma Sherlock non l’ha nemmeno accolto con qualche frase acida e questa è già una conquista, questo è già inaspettato.

“ Gli piace, lo sa vero?” Gli ha detto la padrona di casa mentre gli passava un asciugamano. “ Per quanto gli possa piacere qualcuno, ovvio. Lui è un po’ come un gattino selvatico, non è facile avvicinarlo e soffia e tutto il resto ma lei gli piace, lei ci sa fare con lui.” Non pensa di saperci fare davvero con lui, insomma ci ha parlato giusto due volte e la prima si è ritrovato con un telefono attaccato in faccia che non è proprio una conquista, e Sherlock è praticamente la persona più difficile che abbia mai incontrato, ma gli ha fatto piacere.

“ Ma come fai a capire tutto quello che dicono se cambi frequenza così in fretta?”

 Sherlock si gira verso di lui e arricci il naso come se fosse perplesso. O come se avesse appena fatto la domanda più stupida del mondo. Più probabilmente la seconda.

“ Non mi concentro su quello che dicono, anche se ovviamente potrei, ascolto solo le voci. Cerco solo la voce.”

“ Ma scusa come fai a riconoscere una voce che hai sentito solo una volta distrattamente? Che caratteristiche ha? E’ alta, bassa, con la R moscia e cose del genere?”

“ E’ verde.”

“ Verde?” Gliel’aveva già detto ma nemmeno allora l’aveva capito, come al solito.

“ Verde. Per me i colori e i suoni si sovrappongono spesso, non ho lo stesso modo vostro d’intenderli. Una voce verde è una voce strisciante, una voce raschiante, di qualcosa che ti rosica all’interno.”

“ Verde.” John annuisce, come se lui potesse vederlo. “ E tutte le voci hanno un colore?”

“ Sì.”

“ E la mia voce che colore ha?”

“ E’ blu”. E’ la voce più blu che abbia mai sentito, vorrebbe dirgli Sherlock. E’ una voce così blu che la riconoscerei anche nel mezzo di uno scoppio, anche senza sentirti finire una parola.

“ Mi piace. Mi piace il blu. Penso sia una bella cosa.” Non sa perché ma lo pensa davvero.

Rimangono in silenzio ad ascoltare lo scanner.

 

“ Ciao tesoro…”. Cambio di frequenza.

“ Buongiorno, volevo proporle un’offerta telefonica che le farà risparmiare…” Cambio di frequenza.

“ Nick? Ti sto aspettando da dieci minuti, fra poco inizia il film!” Cambio di frequenza.

 

“ Così è questo quello che fai tutto il tempo? Ascolti lo scanner?”

“ Ascolto lo scanner.” Dio abbia pietà delle persone che non gli piacciono se questo è il suo atteggiamento con quelli che gli piacciono.

“ E basta? “

“ Cosa dovrei fare?”

“ Non so, hai visto l’ultimo episodio di Doctor who? Oh, cazzo. ” Non ci ha pensato, non ci ha davvero pensato al fatto che fosse cieco, non è un’informazione che la sua mente riesce davvero ad associare a Sherlock. Non è un’informazione che la sua mente riesce ad associare a qualcuno che vede così tante cose.

Sherlock s’irrigidisce e poi sorride. “ No. Non l’ho visto. Doctor who è stupido, soprattutto da quando è Moffat il capo sceneggiatore. Prima era solo una pappardella strappalacrime e sentimentale, adesso ci sono anche i viaggi nel tempo ed è anche stupido.”

John sorride. Forse è vero che lui fa parte delle persone che gli piacciono davvero. “ Doctor who non è stupido! Doctor who è bellissimo! Comunque a parte quello, cosa fai? “

“ Cosa fanno le persone normali?”

“ Non so… escono? Hanno amici, fidanzate…”

“ Le fidanzate non sono propriamente il mio campo.”

Oh. A quanto pare non riescono a fare un dialogo senza che lui faccia almeno un paio di gaffes per ogni frase che pronuncia. Geniale.

“ Oh. Hai un fidanzato quindi? Cosa che va bene comunque, non c’è niente di male” Sta arrossendo e gli sembra che Sherlock possa vederlo.

“ Lo so che va bene. No non ho un fidanzato. Diciamo che le persone non sono propriamente il mio campo.”

C’è una sorta di fragilità in questa frase, c’è un ragazzino che rimane in casa ad ascoltare la città con lo scanner e che forse gli ricorda davvero un gattino selvatico. A John verrebbe quasi voglia di abbracciarlo se non fosse troppo inappropriato e se non rischiasse di trovarsi con la testa contro il tavolino.

“ Suono il violino. Quando non ascolto lo scanner, e non ascolto Chet Baker, suono il violino. E deduco, deduco le vite delle persone dalle frasi che dicono, dal loro modo di scandire le parole.”

“ Mi piacerebbe sentirti suonare una volta. Magari quando avremo preso questo serial killer.”

Avremo. Dice avremo come se fossero una squadra e Sherlock sorride appena.

“ Magari.”

John chiude gli occhi, si appoggia di più al divano e le sue dita guizzano veloci sul collo del piede di Sherlock e rimangono semplicemente lì, ad accarezzarlo. Come se fossero nate per fare quello. Rimangono in silenzio ad ascoltare lo scanner.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Solito pippone e blabla: Lo sapevo che appena li facevo incontrare mi si bloccava la storia -_- Però mi sono divertita un sacco a scrivere questa parte, e spero che Lucarelli mi perdoni per il diabete [che comunque c’è anche in Almost Blue è solo un po’ meno evidente]. Una piccola nota su Sherlock, c’è una maggior fragilità nel personaggio rispetto alla sua versione della BBC lo so ma per me ci sono un paio di motivi per questo, il primo è l’età perché lo Sherlock di questa FF ha circa 24-25 anni quindi è più piccolino, il secondo è comunque l’handicap che insomma indubbiamente influisce nella formazione del carattere della persona. E a parte questo spero di non aver buttato via il personaggio =)

Jim ricorda anche a me un po’ il Master di Doctor who, secondo me Russel T Davies ha letto Lucarelli.

Grazie per le recensioni, grazie per seguirla =)

 

 

1 Molly ha davvero un blog, dove lei e Jim parlano di Glee e lui è coccolosissimo, e si commentava davvero i primi post. Uno l’ha anche fatto commentare a Toby ed era da abbracciare.

2 Citazione da A study in pink con una piccola modifica finale che secondo me ci stava meglio nella storia.

3 Le cronache del ghiaccio e del fuoco o nella versione del HBO Game of Thrones. Da lettrice ho cercato di non spoilerare ma di mettere solo qualche riflessione casuale.

 

 

 

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Capitolo 4
*** Fireworks and hurricanes, I’m not here ***


 

Non è stato volontario. Carl Powers, intendo. Non era nei piani. Non c’erano nemmeno piani, ero solo un bambino che sentiva le campane e a cui nessuno dava ascolto quando si lamentava. Non è stato volontario. Non mi piaceva ma non mi piaceva nessuno. Erano tutti così stupidi, nessuno era palesemente alla mia altezza. Nessuno era in grado di capirmi. Carl Powers era tutto quello che io non ero. Popolare, superficiale, una stella dello sport, un idiota. Non mi piaceva ma non è stato volontario. Non l’ho programmato. Mi provocava, perché era umiliato dalla mia intelligenza e dalla sua totale mancanza della stessa. Io ero più intelligente, ero un genio matematico come mi definivano le insegnanti, non ero popolare e sentivo le campane anche se non sapevo cosa fossero davvero e la pelle iniziava a prudermi sui polpastrelli delle dita. Non è stato volontario, ero solo così arrabbiato. E lui era lì ed era così stupido ed è caduto. Non l’ho davvero spinto, è caduto. O forse l’ho spinto ma comunque è caduto. E’ stato allora che le campane hanno iniziato a suonare così forte che ho creduto d’impazzire. E’ caduto, non l’ho spinto. E’ caduto, ha battuto la testa e nessuno se n’è accorto perché eravamo in tanti e c’era confusione e io in ogni caso non sentivo nulla sentivo solo le campane. Sentivo le campane, la pelle tirare e non riuscivo a distogliere lo sguardo dal sangue che s’espandeva nella piscina. Non avevo mai visto nulla di più bello di quel sangue e del viso di Carl Powers. Sembrava non sentisse nulla. Non le campane, non la pelle tirare. Non è stato volontario, l’ho solamente spinto. E’ caduto.1 Da allora le campane non hanno mai smesso di suonare. Carl Powers non è stato volontario, se lo meritava. Se lo meritava ma non lo volevo davvero morto, ero solo un bambino. Un bambino non può volere qualcuno morto. Io volevo solo che la mia testa rimanesse in silenzio, volevo che tutto smettesse di fare rumore. Avrei ucciso per quello, anche se avevo solo quattordici anni. Carl Powers non è stato volontario, anche se se lo meritava. Nemmeno gli altri sono stati volontari, sono stati necessari. Non se lo meritavano, non c’erano alternative. Non ci sono mai alternative alle campane, alla pelle che tira. Non ci sono alternative e forse non me le merito.

Da bambino ero un genio. Poi ho sentito le campane e la pelle tirare e ho smesso di essere ogni cosa. E ho cercato di essere qualcos’altro.

 

 

 

 

 

 

Dopo quella prima sera John ritorna altre volte. La mia padrona di casa ormai lo chiama per nome e non lo tratta più con quella sorta di riverenza che di solito s’impone con i funzionari pubblici e con le persone importanti. Adesso quando va ad aprirgli alla porta lo apostrofa con frasi scherzose e si lamenta perché non si pulisce bene le scarpe e insozza tutto l’ingresso. C’è una sorta di familiarità in tutto questo, come se lui fosse uno di casa e non un ispettore di polizia che deve solo portare a termine un’indagine, che m’infastidisce. E’ troppo e non è il caso. Non voglio che lui mi sia familiare, non voglio che sia di casa. Non voglio che la mia padrona di casa conosca il suo tè preferito, darjeeling raccolto autunnale e lo beve sempre senza zucchero, non voglio che lui sia di casa, non voglio che si senta come se fosse a casa sua perché da casa sua può andarsene e non tornare più e non voglio che questo possa dispiacermi. Tutta quella cosa di avere un cuore, di affezionarsi alle persone, tutta quella cosa dei sentimenti è una fregatura. Non serve a nulla, rallenta il mio cervello e non serve a nulla. Avere un cuore non mi fa sentire meglio, mi fa sentire più esposto e in questo non c’è nessun miglioramento, non c’è nessun vantaggio.

John ritorna altre volte dopo quella prima sera. Si siede sul pavimento, o più raramente sul divano e la sua schiena sfiora le mie dita dei piedi e quel contatto è così familiare che mi fa male.

Non parliamo mai tanto, ascoltiamo lo scanner e ogni tanto John prova a imbastire qualche surreale conversazione in cui di solito le parole s’impigliano. Fa stupide domande su fidanzate e fidanzati, e quando dice fidanzati c’è una maggiore incertezza nella voce come se stesse arrossendo, e parla d’inutili serie tv con alieni senza nome e personaggi che assomigliano a delle patate. Io di solito rispondo con qualche frase scontrosa e caustica e poi mi perdo così tanto ad ascoltare la sua voce che devo concentrarmi per ricominciare a cercare la voce verde tra le varie chiamate dei cellulari.

Zoppica meno da quando è arrivato la prima volta. Continua a trascinare leggermente la gamba ma zoppica meno. Potrebbe essere merito mio, probabilmente non lo è.

Oggi comunque non è particolarmente loquace e per qualche motivo ignoto, com’è possibile che ci sia qualcosa che non capisco?, mi sento in dovere di riempirlo io quel silenzio.

“ C’è un odore diverso oggi.” Non la miglior frase per iniziare una conversazione, lo so, ma io non parlo mai con nessuno. Non è il mio campo. Posso dedurre cos’ha fatto nell’ultima settimana solo dal modo in cui pronuncia un paio di frasi ma conversare, non è una cosa da me. Non funziono in queste cose.

“ Mh?”

“ C’è un odore che non riconosco oggi, detesto ripetermi John tieni il passo.”

“ Che odore?”

“ Sento l’odore di fumo, ma quello c’è praticamente sempre.”

John ride piano. “ Non sono io che fumo, sono i colleghi e la giacca l’assorbe sempre. Mary fuma parecchio.”

“ Mary?”

“Mary, sì… La Dottoressa Morstan, la psichiatra criminale che segue questo caso.”

Mary non è evidentemente solo la Dottoressa Morstan, la psichiatra criminale che segue questo caso. La voce di John è praticamente trasparente e c’è stata una pausa dopo il suo nome, come se stesse cercando di catalogarla come qualcosa di diverso da un’ex fidanzata, da una storia, come se avesse cercato nella sua mente qualcos’altro. Non è finita male ma è finita, comunque. C’era una nota di malinconia nella sua voce, è così facile leggerlo. E’ così facile leggerlo che dovrebbe annoiarmi, e invece non succede e questo è quasi destabilizzante.

“ E poi? Che altri odori senti?”

“ Cucina coreana. Riso spadellato, odori di cibo. Si sentono meno del solito però, e oggi sei passato prima quindi probabilmente non sei andato a casa a cambiarti. Da questo si deduce che abiti probabilmente vicino a un ristorante coreano e che l’odore è più debole perché si è perso durante la giornata fuori.”

“ Fantastico. Che altro?”

Complimenti. Generalmente noiosi. Da John mi fanno piacere. Almeno un po’.

“ Darjeeling, l’odore del tè non rimane addosso ma oggi si sente particolarmente. Te lo sei rovesciato sulla camicia.”

“ Questo non vale, mi hai sentito borbottare quando mi sono scottato!” Ride di gusto.

“ Ho prestato attenzione, anche questo è un modo di dedurre.” Metto il broncio, giusto un pochino.

“ Poi c’è il tuo odore, e quello è normale. E oggi c’è un odore che non riesco bene ad identificare. Olio? Grasso?”

“ La pistola, ho la pistola dietro…”

“ Giusto, la pistola. Non sei passato da casa quindi hai ancora la pistola.”

“ Comunque se non fosse terribilmente imbarazzante lo troverei straordinario.”

Sorrido mentre continuo a girare la manopola dello scanner.

 

“ Allora ci vediamo stasera alle 22?”

“ Sì sì va bene. Dimmi di nuovo l’indirizzo…”

 

M’immobilizzo. Voce strisciante, una voce che non dice nulla, una voce che conosco. La voce verde. Arriccio il naso e mi metto istantaneamente a sedere, anche John si blocca e rimane in silenzio.

 

“ Istituto para universitario Roland-Kerr2, è praticamente deserto ormai ci si organizzano sempre feste e rave. E’ figo! ”

“Istituto para universitario Roland-Kerr, perfetto ci vediamo lì”

 

Non ho bisogno che parli, so già che John mi sta fissando e so già cosa sta per chiedermi. Annuisco brevemente. E’ lui ed è quello il posto dove sarà stasera.

John compone brevemente un numero sul cellulare, Lestrade non Mary perché il numero di Mary è tra le chiamate automatiche quindi richiederebbe una singola pressione di un dito su un tasto, e aspetta.

“ Greg? Sono John, senti l’abbiamo trovato. No no non l’abbiamo fisicamente trovato. Abbiamo una pista. Stasera sarà all’ Istituto para universitario Roland-Kerr, dovrebbe esserci una specie di festa. Sì anche secondo me trovarlo sarà praticamente impossibile, ma ci proviamo no? Chiama Dimmok ci vediamo direttamente lì alle 21.30. A dopo!”

Si alza in piedi di scatto e raccoglie la sua giacca. Non trascina nemmeno la gamba. Adrenalina quindi, è l’adrenalina che lo cura. Non io, peccato. Non dovrebbe dispiacermi. Mi dispiace, invece.

“ Non ti vesti?”

“ Mh?”

“ Non vado a un rave da… ok non sono mai andato a un rave, e sicuramente non ho le tue capacità deduttive quindi mi sbaglierò,  ma penso che una persona in pigiama potrebbe essere notata.” Mi sta prendendo in giro, non mi da particolarmente fastidio.

“ Vengo con te?”

“ Dobbiamo trovare un serial killer tra tipo qualche centinaio di persone e tu sei l’unico che sa riconoscere la sua voce…” Esita. Non è sicuro che voglia venire. Probabilmente non mi sono mostrato troppo desideroso di collaborare in quest’incontri.

“ Vengo con te.” Sorrido e anche se non dice nulla so che sta sorridendo anche lui.

 

 

 

 

 

 

Trovare Lestrade e Dimmok è così semplice che potrebbero anche smettere di salutare e fare cenni con la mano mentre John si avvicina trascinandosi praticamente dietro Sherlock. La parola festa, rave, serata universitaria in un istituto universitario praticamente disabitato dev’essergli sfuggita perché sono indubbiamente le persone più riconoscibili davanti all’ingresso. John sbuffa. Sono così vicini e al tempo stesso non gli è mai sembrato di essere più lontani dal prenderlo.

Si aspettava posto diverso a dirla tutta. Probabilmente nemmeno il ragazzo al telefono con l’Iguana era tra gli organizzatori della festa perché la musica non è propriamente da rave, anche se è molto distante da quella che ha sentito negli ultimi giorni a casa di Sherlock, e il numero di ragazzi accartocciati in qualche angolo a vomitare è abbastanza ridotto. E sì lui è quasi sicuramente la persona più vecchia di tutto l’evento ma non così tanto da sembrare il padre di qualche partecipante, non così tanto da sentirsi ridicolo. Come se poi ne avesse davvero il tempo.

Non hanno un piano, non hanno un piano migliore di quello che consiste nel girare per l’edificio ascoltando la gente parlare sperando che nonostante la musica Sherlock riesca a riconoscere la sua voce verde e che a quel punto la suddetta voce verde abbia una qualche freccia luminosa sulla testa in modo da permettere anche a loro di localizzarla. Non hanno indubbiamente un piano, eppure non sono mai stati così vicini a prenderlo.

“ Prendi la mia mano.” Sorride a Sherlock mentre lo dice, sa che non può vederlo ma sa anche che in quel momento lo sa comunque, perché in quel momento gli sembra ancora di più un ragazzino. In quel momento non c’è la sua voce baritonale così da adulto, o le sue mille deduzioni, c’è un ragazzo che si trova in un posto sconosciuto e dove non ha punti di riferimento.

“ Stiamo andando da Lestrade e Dimmok”

“ Lo so, John. Ho sentito le loro voci, sono cieco non sordo.”

Fa un po’ lo spavaldo ma i suoi passi sono incerti. Gli stringe la mano.

 

 

“ Ispettore cosa facciamo?”

“ Greg, aspettiamo. Ci guardiamo in giro magari cercando di non sembrare proprio dei pesci fuor d’acqua e aspettiamo di sentire la voce. O di trovare qualcuno ammazzato. Magari è meglio la prima. Vai a prenderti qualcosa da bere, passa il tempo.”

“ Che senso ha, Greg? E’ un ragazzino, è un ragazzino che gioca al poliziotto. Non lo troveremo mai.” La voce di Dimmok è malapena percettibile per John mentre si allontanano ma questo non toglie che ascoltarla gli faccia prudere le mani. Non gli tirerà un pugno, perché insomma se gli tirasse un pugno e tutto questo si trasformasse in una rissa potrebbe essere la peggior operazione di sempre, però le mani gli prudono lo stesso.

“ Cieco, non sordo, Dimmok. Non sordo. ” Sherlock. A quanto pare John non è l’unico ad averlo sentito. “ E anche da cieco ci sono molte più possibilità che riesca a trovarlo io il tuo serial killer. Anzi stando agli appunti che ti hanno fatto i tuoi superiori negli ultimi casi, in cui le tue prestazioni sono state a dir loro “imbarazzanti”, viene da sperare che tu non te lo trovi davanti perché saresti capace d’inciampare nei tuoi stessi piedi mentre cerchi di mettergli le manette.”

“ Ma che cazzo…?”

“ Non sono sordo, te lo ho detto. John, andiamo. Cerchiamo di trovare questa voce verde.”

A quanto pare quando sei con Sherlock Holmes non è nemmeno necessario prendere a pugni qualcuno.

 

 

“That there
That’s not me
I go where I please
I walk through walls
I float down the Liffey
I’m not here”3

 

“ E’ bello”

Sherlock ha gli occhi chiusi e sta ascoltando la musica, rapito.

“ Cosa?”

“ La canzone. Non è Chet Baker, non è Bach ma è bella. E’ bella la musica fuori dalla mia stanza.” E mentre lo dice c’è una vulnerabilità che John non gli riconosce e che gli spezza quasi il cuore. In quel momento John vorrebbe che non fossero su un caso, vorrebbe che non fossero alla ricerca di un serial killer. In quel momento John vorrebbe che fossero semplicemente usciti ad ascoltare della musica. Vorrebbe sedersi a un tavolo con Sherlock e offrirgli un bicchiere di vino rosso e chiedergli di dedurre tutte le persone accanto a loro solo per il modo in cui pronunciano la lettera v all’interno delle parole. In quel momento John vorrebbe che Chet Baker e Bach fossero ancora vivi e vorrebbe portarlo ad ascoltarli e dirgli che sono loro ad essere fortunati per la sua presenza tra il pubblico. In quel momento John vorrebbe non essere un ispettore di polizia e non vorrebbe che Sherlock fosse un testimone. Ma se non lo fossero probabilmente non sarebbero nemmeno lì. Sherlock non sarebbe uscito con lui, l’avrebbe trovato ridicolo e noioso e sentimentale e quindi va bene così. Va bene qualsiasi cosa che gli arrivi da lui, non sa ancora perché ma lo sente, lo sente con quell’istinto per cui tutti gli hanno sempre fatto i complimenti.

“ Magari potremmo rifarlo una volta, non so con un bicchiere di vino e qualcosa d’italiano da mangiare, magari anche Chet Baker ha un suono diverso fuori dalla tua stanza.” Non sa perché l’ha detto. O meglio sa perché l’ha detto, l’ha detto perché lo sentiva, non sa perché si è permesso di lasciarselo sfuggire.

“ La digestione mi rallenta, John.” Ed eccola scomparsa quella fragilità, eccolo di nuovo con tutte le sue barriere. Il momento è passato.

“ Magari potresti mangiare solo tu.” Gli stringe un po’ di più la mano. Forse il momento non è passato davvero.

Vorrebbe dire qualcosa di particolarmente brillante in quel momento, John, ma Sherlock lo interrompe aumentando la pressione sulla sua mano.

Un gruppo di ragazzi passano davanti a loro chiacchierando.

“ E’ lui, mi è appena passato davanti.”

“ Lui chi? La voce verde?”

“ Sì. Ci è appena passato davanti.”

“ Ma qual è?”

“ E io come faccio a saperlo? Io riconosco la sua voce, non l’ho mai visto. Non ho mai visto nulla.” Sbuffa infastidito mentre John gli lascia andare la mano e fa un cenno a Lestrade e Dimmok.

Davanti a loro ci sono quattro o cinque ragazzi in gruppo di cui due con un’evidente irritazione alla pelle. Devono provare, o la va o la spacca.

“ Scusa? Possiamo farti un paio di domande?”

“ Chi siete? Cazzo volete?”

 

John non lo vede perché in quel momento è concentrato a cercare d’interrogare un sospetto ma Sherlock scuote il capo. Non è lui, non è quella la sua voce. Non è lui. L’hanno perso. E John ha smesso di tenergli la mano.

 

 

Mi sta fissando. Mi sta fissando e i suoi occhi sono sbarrati e di solito la gente non mi fissa non così tanto e io non capisco. Era insieme ad altri tizi prima, quando gli sono passato davanti borbottando qualcosa, e poi è rimasto indietro per fissarmi. Mi fissa e non dice niente e nessuno mi ha mai fissato così. Non è come Molly, non è come mi fissava Carl Powers o Victor o chiunque altro abbia mai incontrato. Lui mi fissa e mi vede. Vede che la mia pelle sta andando in pezzi. Vede che si sta staccando e mi sento nudo come mai prima e le campane iniziano a suonare così forte che ho paura che tutti possano sentirle. Perché mi sta fissando? Perché mi fissa senza dire niente? Perché mi stai fissando? Come fai a vedermi? Come fai a vedere tutti gli scarafaggi che mi stanno scavando dentro? Cosa vuoi? Cosa vuoi da me? Perché continui a fissarmi? Perché non hai paura degli scarafaggi che stai vedendo? Come faccio a non averne paura anche io? Come fai? Come faccio? Perché mi stai fissando?

 

“ Sherlock? Non era lui ma ormai dobbiamo comunque portarlo alla centrale. E’ successo un po’ un casino, andiamo.”

 

Perché mi stai fissando?

 

 

 

 

L’hanno perso. Hanno fatto le domande alla persona sbagliata. Hanno preso la persona sbagliata ed hanno perso quella giusta. Lui ha perso la persona giusta, lui non ha ascoltato, lui non ha saputo vedere per l’ennesima volta. John Watson sbuffa rumorosamente mentre si appoggia sulla sedia. Sherlock è tornato a casa da pochi minuti e anche se non si sono detti nulla di particolare lui è riuscito a percepire comunque una sorta di delusione, una frase non detta. “ Com’è possibile? Te l’avevo trovato e tu te lo sei lasciato scappare? Com’è possibile che tu sia così cieco?”. Non gliel’ha detto in realtà, e forse il fatto che non abbia nemmeno avuto voglia di trattarlo male è anche peggio. Quello e il fatto che adesso dovrà probabilmente giustificare il suo errore con tutti quelli che ne sono a conoscenza, con tutti quelli che sono a conoscenza del caso del serial killer. E se fino a qualche ora prima tutte queste persone si potevano contare sulle dita delle mani adesso quel numero è esploso. Adesso c’è un serial killer e la notizia è pubblica e lui adesso è l’ispettore che se l’è lasciato sfuggire. Fantastico, grandioso. Ottima serata.

Mary è stata carina con lui, come sempre perché Mary è sempre carina e questo inizia a dargli sui nervi, ha detto che sarebbe potuto succedere a chiunque, ha detto che è stato un errore normale. Mary l’ha abbracciato e gli ha detto che sarebbe potuto succedere a chiunque e lui ha sentito Sherlock sospirare appoggiato alla parete dietro di loro. La verità è che John non vuole commettere gli errori che farebbe chiunque e non vuole sentirsi dire che va bene così. La verità è che John non vuole accontentarsi di essere mediocre e al tempo stesso non vuole qualcuno accanto che gli dia una pacca sulla spalla e gli dica che non importa che sicuramente ce la farà, anche solo per tenerlo buono. La verità è che John vorrebbe accanto qualcuno che lo insultasse, che gli dicesse che è stato un idiota a non vedere, che l’obbligasse ad essere migliore di quello che è e che al tempo stesso lo accetti nella sua imperfezione e quel qualcuno non è Mary, quel qualcuno non potrà mai essere Mary.

 

 

“ Agente! Agente! Sono qui per portare a casa quel ragazzo… mi hanno chiamato dalla centrale.”

Dimmok si avvicina al tassista accostato di fronte all’ingresso di Scotland Yard. “ Il ragazzo? Ah Sherlock Holmes, certo. Lo vado a chiamare sarà ancora dentro.”

“ Grazie mille, troppo gentile.” Il tassista gli sorride. “ Non è che può darmi l’indirizzo già che c’è? Così inizio a inserirlo sul navigatore, e poi non faccio perdere tempo al ragazzo. A nessuno piace rimanere fuori da una centrale di polizia.”

“ Beh tanto non è che sappia nemmeno dove si trova, visto che è cieco.” Dimmok ridacchia e un po’ arrossisce. “ 221 di Baker street. Lo vado a chiamare, aspetti qui.”

 

“ Ispettore, dov’è Sherlock Holmes?” Dimmok si affaccia alla porta del suo ufficio e John per un attimo smette di maledirsi per tutti i suoi errori.

“ Holmes? E’ già andato a casa. E’ venuta a prenderlo la sua padrona di casa quasi mezzora fa.”

“ Davvero? Perché qui fuori c’è un taxi che lo sta aspettando, ha chiesto proprio di lui, il suo indirizzo e tutto. Si saranno sbagliati. Bah. Vado ad avvisare il tassista allora, tanto non se la prenderà sicuro, è un tizio così gentile.”

“ Un taxi? Sherlock?” John si alza in piedi di scatto. Lui non ha chiamato un taxi per Sherlock. Lui non ha detto di chiamare un taxi per Sherlock. Nessuno ha chiamato un taxi per Sherlock.

“ Bah è andato via senza aspettare.”

Dio, ti prego non farmi sbagliare anche stavolta. Non con lui.

“ Lestrade? Una macchina presto, dobbiamo andare a Baker street.”

Non con lui, ti prego.

 

 

 

Non ci ho nemmeno provato con Chet Baker quando sono rientrato a casa. Mrs. Hudson mi ha consigliato di farmi una doccia e poi andare subito a letto e tutto il resto ma io non dormo, non dormo normalmente quindi figuriamoci dopo una serata come questa. Siamo saliti nel mio appartamento e dopo qualche parola lei è scesa a farsi un tè, senza farsi mancare una predica su quanto sia pericoloso per me infiltrarmi in un’operazione di polizia, e io mi sono dedicato al violino. Al violino e ai miei pensieri. Li ho lasciati fluire entrambi e non mi è sembrato di sentire più niente.

Ho pensato. A John, alla sua voce blu, ai Radiohead in un edificio di Londra, a Londra fuori dal mio appartamento in Baker street, alla voce verde, alla voce di John quando mi ha detto che se l’era fatto sfuggire, alla delusione nella sua voce. Non gli ho detto nulla. Non penso si aspettasse nulla di diverso da me. Non poteva davvero aspettarsi qualcosa di diverso. Quando mai in questi giorni insieme gli ho mai dato l’idea di essere il tipo di persona che gli da una pacca sulla spalla e gli dice che è stato bravo lo stesso e che va bene comunque? Per quelle bugie ha già Mary. Non è stato bravo lo stesso e sì se l’è fatto sfuggire, ha sbagliato. E sicuramente non va bene comunque, sicuramente la prossima persona che morirà non penserà che vada bene comunque. Però adesso mentre ripenso alla delusione nella sua voce, alla rabbia che ha provato verso se stesso, non riesco a non pensare che qualche bugia in più vorrei essere capace di dirla. Non tante, non con tutta quella fregatura della pacca sulla spalla e di un abbraccio consolatorio, solo qualcosa.

Un rumore al piano di sotto mi risveglia dai miei pensieri. Porcellana che va in frantumi, un gemito, un suono liquido che non riesco a identificare. Non è tè, non è tè che cade. Cos’è? Non capisco. Passi nell’appartamento di Mrs. Hudson, palesemente non della mia padrona di casa. Maschili. Non John. John lo riconoscerei anche immerso in una sonata di Bach, anche nel mio Mind Palace. Cosa succede? Cosa sta succedendo?

Appoggio il violino sul tavolo e mi appresto a scendere le scale e non dovrei avere paura perché non ci sono motivi per avere paura, ma nei miei passi riconosco un’incertezza che non mi appartiene. Scendo piano i diciassette gradini fino all’appartamento della mia padrona di casa e quando finalmente entro nella sua cucina i miei piedi si scontrano con una consistenza viscosa che non riconosco. Mi chino esitando, non sono capace di orientarmi nell’appartamento di Mrs. Hudson, non ci vengo mai è lei che sale sempre da me eppure riesco a sentire chiaramente che c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo.

Nell’altra stanza percepisco ancora dei passi e vorrei muovermi, vorrei andare a vedere cosa succede, anche se è ridicolo usare questo termine, ma non riesco sono paralizzato.

La porta dell’appartamento si apre sbattendo. Voci, persone che corrono. La sua voce, i suoi passi. Nell’altra stanza i rumori si affievoliscono, i passi si allontanano. Chi è? Da dov’è uscito?

“ Sherlock? Sherlock?” La mia voce blu. John.

Non dico nulla rimango rannicchiato in silenzio. Mi troverà lui, non c’è bisogno che parli. Mi sfioro i piedi con le dita, bagnati. Non di tè, di qualcosa di viscoso. Non ho bisogno di fare domande. Non ho bisogno di urlare, sarebbe così poco da me. Non ho bisogno di chiedere dove sia Mrs. Hudson.

“ Sherlock?” Sempre John.

“ Ispettore venga in cucina!” Lestrade, la sua voce ha una nota di sgomento. Non ho bisogno di chiedere dove sia Mrs. Hudson.

“ Oh cazzo!” John. E poi. “ Sherlock!”

Non dico niente. Non chiedo niente. Non ho bisogno di chiedere. Rimango rannicchiato il silenzio e aspetto che John mi trovi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Solito pippone e blabla: Intanto grazie a chi legge, a chi l’ha messa tra le seguite, a chi la recensisce e insomma a voi =) Giusto perché sono sempre in vena di cibo vi meritereste quantomeno una charlotte al tiramisù, che è sempre comfort. Piccola parentesi sui profumi. In Almost Blue l’olfatto è un senso fortemente presente, così tanto che ci sono diversi odori che si rincorrono per tutto il libro. Ora la sottoscritta non sente alcun tipo di odore, niente di tragico eh mai sentiti quindi non ne sento la mancanza tranne in pasticceria, quindi parlare di profumi e odori non lo so proprio fare, però un riferimento ci tenevo a lasciarlo quindi ho improvvisato. Io con gli odori faccio la stessa cosa che fa Sherlock con i colori, li associo a immagini che non c’entrano nulla. Forse per questo amo tanto Almost blue =)

Uff il finale è stata una mazzata da scrivere. Nel libro è una morte che ci sta, ma è meno sofferta perché il personaggio è meno simpatico.

Il prossimo capitolo, che esiste almeno in parte!, è l’ultimo e un po’ mi mancheranno.

 

 

 

1 Tutto questo monologo di Jim è volutamente senza senso, volevo cercare di rendere l’idea della confusione di una persona che sente le campane.

2 Il posto dove il tassista porta Sherlock in A study in pink. Non avevo tutte queste brillanti idee di luoghi grossi e isolati dove fare un rave a Londra quindi mi sono dovuta arrangiare.

3 How to disappear completely, Radiohead. Mi sembrava azzeccata sia per Sherlock che per Jim. Anche il titolo viene dalla canzone.

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Capitolo 5
*** Dreaming about the day when I can see you there ***


 

“ Come sta?”

“ Come sta, Mary? Sta come ad uno a cui hanno ammazzato quella che era praticamente sua madre. Sta come uno che hanno provato ad ammazzare e che adesso ha dovuto lasciare tutte le sue cose per rinchiudersi in un monolocale di cui non riconosce l’odore.”

“ John…” Mano su mano, contatto.

“ Come sta? Non mangia. Non dorme. Ascolta musica triste. Direi che ha il cuore spezzato ma è Sherlock, come puoi sapere quello che sta davvero provando?”1

“ John…”

“ E poi che ne posso sapere io di come sta? Non sei tu la strizzacervelli?”

Mary sorride e continua a tenergli stretta la mano. Una ragazza normale a quel punto l’avrebbe già mandato a quel paese, ma Mary è una psicologa, Mary sa come trattare con le persone quindi sospira e gli continua a sorridere. Mary gli continua a sorridere e John non riesce a non pensare che Sherlock lo manderebbe a quel paese, che Sherlock non lo tratterebbe come un paziente.

“ John, non è stata colpa nostra. Non puoi davvero pensare che sia stata colpa nostra. Nessuno poteva sapere che l’Iguana lo stesse cercando, che l’avesse notato. Sherlock non rientra minimamente nel target delle sue vittime, non hanno avuto contatti prima d’ora. Non è stata colpa nostra.”

“ No infatti, non è stata colpa vostra. E’ stata colpa mia. “ John sposta la mano da quella di Mary. Non ha bisogno di sentirsi trattare, non ha bisogno di sentirsi un paziente. “ Sono stato io. Io l’ho portato fuori da Baker street. Io l’ho ossessionato perché cercasse quella voce verde. Io gli ho parlato di ascoltare concerti e mangiare cose che non gli piacciono. Io non l’ho protetto. Non è stata colpa vostra. E’ stata colpa mia.”

“ John…”

“ Non è colpa tua, Mary.” John le sorride perché davvero non è colpa sua di niente. Non è nemmeno merito suo di niente. “ Vado a dare il cambio a Lestrade, è in casa con Sherlock da ieri e penso che inizi a non poterne più di Chet Baker.”

Mary lo abbraccia forte. “ Non è colpa tua, John. Sei un poliziotto bravo, sei un bravo ragazzo. Sei bravo.”

E allora perché non sono riuscito a proteggerlo?, vorrebbe chiederle John mentre si allontana.

 

 

 

 

 

Probabilmente le cinque di pomeriggio non sono l’ora migliore per girare tutta Londra in metropolitana. Probabilmente le cinque del pomeriggio non sono l’ora migliore per girare per tutta Londra con una borsa di oggetti trafugati da una scena del crimine e con dei sacchetti di cibo take away, si dice John mentre entra nel monolocale in provincia dove hanno sistemato Sherlock e lancia svogliatamente la giacca su una sedia. Lestrade si è mostrato straordinariamente bendisposto a cedergli il posto, a dimostrazione del fatto che al momento il loro testimone non dev’essere al massimo della simpatia. Al massimo della simpatia per Sherlock, che forse è anche peggio.

Mentre entra nell’appartamentino John lo percorre rapidamente con lo sguardo. E’ spoglio, poco familiare, così diverso da dove viveva Sherlock a Baker street, una casa che sapeva di confusione ma anche di famiglia, di genio. L’appartamento dove l’hanno sistemato, anche se dire rinchiuso sarebbe più corretto, è freddo, non odora di casa, non odora di una mamma che passa a lasciarti i biscotti sul comodino.

Le persiane sono abbassate, e Sherlock è seduto ai piedi del letto praticamente immobile. Non si volta nemmeno mentre John entra e questo non preannuncia nulla di buono.

“ Ciao. Sono passato a dare il cambio a Lestrade…”

Nessuna risposta. Nessun cenno del capo. John è quasi tentato di avvicinarsi per controllare se Sherlock è ancora vivo.

“ Ti vedo bene, insomma considerando quello che è successo… L’appartamento non è troppo male vero?”

Nulla. Nessuna risposta di nuovo. Un altro buco nell’acqua.

“ Sono passato da casa tua prima di venire qui. Quelli della scientifica stanno facendo un casino assurdo, è tutto sottosopra…” John s’interrompe. Bravo John raccontagli di come gli stanno demolendo casa, è sicuramente il modo migliore per fargli passare il cattivo umore. Grandioso, vai così. “ Rimetteranno tutto a posto, stai tranquillo. Non sono riuscito a prendere molte cose, giusto un cambio. Anderson continuava a borbottare che si tratta di prove…”

“ Come se fosse capace di leggerle queste prove…” Sherlock alza appena il sopracciglio. Astio. Rispetto al nulla di prima è già qualcosa.

“ Sono passato anche a prendere qualcosa da mangiare, da un cinese vicino a Baker street. Ti piace il cinese, vero? Mi ricordavo di aver visto qualche pacchetto in giro per l’appartamento.”

“ Coreani.”

“ Come scusa?” Perché ha sempre la capacità di farlo sentire un idiota? E perché in quel momento non gli dispiace così tanto? Meglio sicuramente sentirsi trattare da idiota che sentirsi ignorato.

“ Non sono davvero cinesi quelli da cui hai preso da mangiare, nessun cinese userebbe un quantitativo così cospicuo di spezie e soprattutto di cumino. “

John si siede a sua volta ai piedi del letto.

“ E comunque non ho fame.”

“ E comunque mangerai qualcosa. Lestrade mi ha detto che non hai toccato cibo da quando ti hanno portato qui e non t’azzardare nemmeno ad iniziare con quel delirio che la digestione ti rallenta perché con me non attacca.”

Sherlock sbuffa e John si gira a guardarlo. Ha gli occhi chiusi, i capelli tutti spettinati che gli incorniciano il viso e la testa appena appoggiata al letto. Non l’ha mai visto così fragile, non l’ha mai visto così ragazzino.

“ La moglie lo tradisce, sai?”

“ Mh?”

“ La moglie di Lestrade lo tradisce, John. Tieni il passo. Lo si capisce da come gli parla al telefono e lui ovviamente non se ne accorge, non io massimo per un poliziotto eh”

“ Se sei preoccupato che non possa proteggerti nel modo giusto, Lestrade è un ottimo…” Inizia John.

“ Non ho bisogno di qualcuno che mi protegga. Non ho bisogno che tu venga a salvarmi. Non ho bisogno che tu ti faccia mezza Londra sulla tube, e sì ho capito che sei stato sulla tube e che eri seduto vicino a una donna con un bambino piccolo, a cui anzi hai probabilmente lasciato il posto a sedere perché tu fai così, perché è quello che sei, solo per portarmi un cambio di vestiti o per assicurarti che mangi. Non sono un bambino, non ho bisogno che tu mi protegga. Non mi devi salvare, non sono una delle tue scene del crimine e tutto questo tuo comportarti da eroe romantico e…” Sherlock agita la mano davanti a sé come per scacciare qualcosa di sgradito. “… e sentimentale è davvero fuori luogo e inutile. Non ce n’è bisogno, non ne sentivo proprio la mancanza.”

Colpito. Colpito e affondato. Non si aspettava nulla di meno da Sherlock. Non poteva aspettarsi che gliela rendesse facile. Non poteva aspettarsi che gli dicesse che va tutto bene, che non importa se è in un gigantesco casino per colpa sua e che anzi “ che bello che tu sia passato a trovarmi, non vedevo l’ora di passare un po’ di tempo con te!”. Questa sarebbe una cosa da persone normali e Sherlock è tutt’altra cosa, è tutto tranne che normale. E’ irritante, è geniale, è arrogante, è Mister Ultima Parola, è fantastico ma sicuramente è tutto tranne che normale. E’ tutto tranne che normale e anche se in quel momento essere colpito sul vivo, essere colpito sulle sue mancanze, lo ferisce non riesce a dispiacersene davvero. Non lo vorrebbe diverso, non lo vorrebbe diverso nemmeno per un momento.

Sospira.

“ Prima ti ho detto che sono riuscito a portarti solo un cambio, però una cosa ad Anderson sono riuscita a rubarla…” e mentre lo dice non riesce a fare a meno di sorridere. “ Ti ho portato il tuo violino. Ho pensato che ti avrebbe potuto far sentire un pochino di più a casa.”

“ Non è il momento di suonare il violino, John.”

“ Non è il momento? E cosa vorresti fare allora?”

“ Voglio stare solo e in silenzio.”

“ E allora stacci solo e in silenzio.”

 

 

 

 

 

 

Mary Morstan era una ragazza normale. Era carina, non bella, non la classica bellona delle pubblicità, semplicemente carina. Non aveva il senso dell’umorismo di Woody Allen ma non gli assomigliava nemmeno fisicamente2 . Non era mai stata la prima della classe ma era diventata una brava psichiatra criminale. Era in gamba, non un supergenio ma in gamba. Era una brava ragazza con il suo carattere, con i suoi difetti, ma senza particolari eccessi. Si poteva dire che la sua forza, che il suo talento maggiore risiedesse proprio nella normalità. Non era una ragazza che faceva paura, era il genere di ragazza che piaceva ai genitori dei suoi fidanzati, era il genere di ragazza a cui era facile voler bene. Non era una ragazza per cui ti prendevi un colpo di fulmine, non era una ragazza con cui finivi a litigare perché era arrogante o supponente o qualcos’altro, era una ragazza normale.

A Mary piacevano le persone, anche quelle meno simpatiche. Da bambina sognava di fare l’infermiera per poter aiutare i pazienti e poi crescendo aveva compreso che le sarebbe piaciuto ancora di più capirle quelle persone e aveva deciso di dedicarsi alla psichiatria. Com’era finita a fare la psichiatra criminale non l’aveva ancora capito, ma era brava a farlo, funzionava bene in quello. A Mary piacevano le persone, le piaceva cercare di capirle, anche quando erano meno simpatiche, anche quando non avevano voglia di essere capite. A Mary piacevano le persone, anche quelle che non volevano essere capite, e anche per questo le piaceva John Watson. Mary non era mai stata davvero innamorata di John Watson. Si erano piaciuti, si erano divertiti insieme e aveva provato un naturale istinto di protezione nei suoi confronti, ma non era mai stata innamorata. Mary era una ragazza in gamba, era una ragazza con un buono spirito di autoconservazione e non si sarebbe mai permessa d’innamorarsi di qualcuno così emotivamente poco disponibile. Non si sarebbe mai permessa di avere di nuovo il cuore spezzato, non dopo che il suo primo grande amore, Alec Hardy3 nche lui ispettore, era morto lasciandola sola a rimettere a posto i pezzi. Non si sarebbe mai permessa di avere di nuovo il cuore spezzato e così non si era innamorata di John Watson. Le piaceva pensare che si sarebbero amati davvero in un’altra vita, che si sarebbero trovati al primo sguardo e avrebbero sentito che tutto era difficile e incasinato e perfetto e giusto, terribilmente giusto, ma sapeva che in questa non era possibile. Mary Morstan aveva avuto un grande amore e sapeva che non poteva aspettarsi che John si accontentasse di qualcosa di meno, di qualcosa di meno perfetto, di qualcosa di meno giusto. Mary Morstan era una ragazza normale e sapeva che in questo non c’era nulla di sbagliato, sapeva che questa normalità non era una mancanza ma sapeva anche che era non era abbastanza per John e sapeva che lei non si sarebbe mai potuta innamorare di qualcuno per cui non era abbastanza.

Mary Morstan era una brava ragazza, era una ragazza normale a cui piacevano le persone, a cui piaceva capire le persone anche quando non volevano essere capite.

Mary Morstan era una brava ragazza con un plico di appunti sui suoi pazienti da risistemare che l’aspettavano in casa, ed era questo quello a cui pensava mentre saliva in macchina senza guardarsi troppo in giro.

“ La dottoressa Morstan?” Una voce alle sue spalle. Una voce alle sue spalle e un coltello vicino alla sua gola. “ Jim Moriarty. Ciao.”

 

 

 

 

 

 

Siamo rimasti seduti in silenzio per un tempo davvero indefinibile. O almeno un tempo indefinibile per qualcun altro, in realtà siamo rimasti seduti in silenzio per quasi un’ora. John ha spiluccato distrattamente il pollo al curry e cardamomo, seriamente chi ordinerebbe il pollo al curry a un ristorante cinese?, ha mandato un paio di sms o più probabilmente ha consultato i risultati dell’Arsenal stando ai suoi mugugni di disapprovazione e all’odioso inno che è fuoriuscito dal suo cellulare, e poi è rimasto in silenzio. Non sono abituato ad un silenzio del genere, questo monolocale è così appartato che non si percepisce alcun rumore. Niente Baker street, niente taxi che suonano il clacson in continuazione, niente scanner, niente conversazioni, niente Londra. Solamente il silenzio e il mio respiro. Il mio respiro perché quello di John è talmente debole che ho quasi paura che si sia alzato e se ne sia andato senza che me ne accorgessi. Ho quasi paura che si sia offeso per il mio sarcasmo, per la mia mancanza di sensibilità, per le mie frasi sgradevoli e se ne sia andato davvero. Definitivamente.

“ Sono qui.” La voce di John vicino a me. La sua voce blu, sempre blu, sempre blu anche quando è arrabbiata e forse vorrebbe essere qualcos’altro. Non ho detto niente. Perché sente il bisogno di confermarmi la sua presenza? Non gli ho chiesto niente. Non gli ho detto niente.

“ Non ti ho chiesto niente.“

Lo sento sorridere mentre si sposta piano verso di me, le nostre ginocchia si sfiorano quasi.

“ Non ce n’era bisogno, hai arricciato un po’ il naso come se fossi perplesso. Come se stessi cercando qualcosa. Ho pensato che stessi cercando me, me o il pollo al curry ma visto che non mangi era più facile che stessi cercando me, così ecco sono qui.”

Ha ragione lo stavo cercando. Lo stavo cercando e non me n’ero nemmeno accorto, perché io non cerco le persone, perché io non ho bisogno di persone, e lui che si è fatto sfuggire un serial killer da sotto il naso se n’è accorto.

“ Tu di solito non vedi mai niente.“

Dice “ Di solito non si tratta di te.” E sorride ancora e la sua voce assume una sfumatura che non conosco. Non sono sicuro che mi piaccia. Non sono sicuro che non mi piaccia.

Dice “ Di solito non vedo mai niente ma di solito non si tratta di te. E di solito nessuno mi vede mai, ma di nuovo di solito non si tratta di te.”

E poi me lo sento così vicino che ho paura di non riuscire nemmeno a respirare.

 

 

 

 

 

 

 

 

“ Come faccio a sapere che sei tu?” ripete in continuazione e a me viene da ridere e rido. Se non sapessi che sono io, le dico, non saresti una brava strizzacervelli e forse non lo sei sul serio. Le dico questo e rido e lei trema e quasi piange. Rido forte mentre scaccio le campane dalla mia testa e lei quasi piange perché non è coraggiosa. Non è un poliziotto con la pistola e i coglioni giganti è solo una dottoressa. Non è nulla. E’ un incidente di percorso come quella vecchia. E’ parte del piano. E’ un mezzo per arrivare a destinazione. Non è nulla. Le persone muoiono. E’ quello che succede alle persone e a me viene solo da ridere a pensarci. Lei non è nulla.

“ Allora Dottoressa, ho bisogno di un favore adesso.” Le dico e la mia voce è calda e le si attacca addosso e lei stavolta piange davvero. “ Adesso ho bisogno che tu faccia una telefonata, che tu chiami il tuo capo, un tuo collega, tua madre, tua zia e mi dica dov’è che avete nascosto Sherlock Holmes, chiaro?”. Le dico così e lei annuisce. Non è coraggiosa, non è coraggiosa per nulla. Non fa nemmeno un’obiezione all’idea di tradire tutti i suoi colleghi, di tradire quel ragazzo. E’ troppo spaventata. E’ ridicola, e insignificante. Qualcuno nella mia testa ride ancora più forte di come sto facendo io.

“ Non tremare” Le dico e lei annuisce e cerca di controllare la sua voce mentre parla al telefono con una ragazza, una collega penso, e ripete due volte l’indirizzo e io già alla prima l’ho memorizzato alla perfezione. E’ spaventata. Non è coraggiosa, è solo una donna spaventata con un coltello alla gola ma non trema e potrei anche dire che è stata brava. E’ stata brava, sei stata brava le dico e lei piange ancora.

“ Sei stata brava, dottoressa.”

Perché lo fai?” mi chiede piano mentre tira su con il naso e prova ad asciugarsi le lacrime senza riuscirci. “ Perché lo fai?” mi chiede e in quel momento mi sembra meno una ragazza stupida e inutile, in quel momento mi dispiace quasi per lei. In quel momento mi dispiace quasi per lei ma non abbastanza da dimenticarmi delle campane.

“ Perché devo, dottoressa. Perché non ho alternative” le dico, e rido. E poi il coltello le si conficca nella gola.

 

 

 

 

 

John ha undici anni quando si scambia il primo bacio con una coetanea. Sono seduti sulle altalene vicino a casa e lei è rossa, con tanti riccioli disordinati, e piccolina ed è la migliore amica di sua sorella, Harry. John ha undici anni quando si scambia il primo bacio con una ragazzina di cui adesso non riesce nemmeno il colore degli occhi. John ha undici anni quando si scambia il primo bacio con una ragazzina sulle altalene vicino a casa e lei è carina e il bacio è umido e strano e non troppo sgradevole e dopo lei arrossisce e non ha il coraggio di guardarlo e per un attimo John si sente quasi innamorato.

John ha diciassette anni quando perde la verginità sul letto della casa al mare della sua ragazza. In realtà Claire non è proprio la sua ragazza e mentre perde la verginità su un letto con le doghe sfondate non si sente particolarmente innamorato ma solamente molto eccitato. Claire non è proprio la sua ragazza ma a John non importa nemmeno perché è bella, è la classica bella ragazza con il seno grande e gli occhi chiari e mette sempre vestiti scollati e quindi anche se John non è tanto innamorato di lei non importa, non importa davvero. Claire ha la vita sottile, le gambe lunghe e il seno prosperoso e mentre la spoglia John si ritrova a pensare a come lei corrisponda a tutti i cliché moderni di bella ragazza, a come non sia niente di più e niente di meno. Se fosse nata quaranta o cinquant’anni prima Claire probabilmente avrebbe i capelli un po’ cotonati, la vita meno sottile e il seno meno prosperoso per adeguarsi agli standard del momento. John ha diciassette anni quando perde la verginità e mentre si alza dal letto quando hanno finito quella che vede è solo una bella ragazza, una bella ragazza e basta.

Il corpo di Sherlock è così magro sotto di lui che quando lo accarezza ha quasi paura che possa spezzarsi, rompersi in mille pezzi. John lo spoglia piano nella penombra dello squallido monolocale che sembra scomparire dalla sua vista, e sorride un pochino sentendolo tremare sotto le sue mani. Sherlock ha ancora i capelli un pochino umidi, dev’essersi fatto una doccia prima e lui come al solito non deve averlo notato, e i suoi occhi sono del colore più bello e indefinito che abbia mai visto. Sherlock è magro e spigoloso, è tutto quello che le altre ragazze e donne che ha visto nudo non sono, è tutto quello che le altre persone non sono. Sherlock è magro e pallido e il suo corpo è pieno di piccoli nei e John si sente un po’ stupido e romantico a immaginarli come tante costellazioni. John si sente un po’ stupido all’idea di fare quest’osservazione ad alta voce e sentir Sherlock sbuffare e definirlo sentimentale e non riesce a non sorridere e perdere qualche battito. Il corpo di Sherlock è magro, spigoloso e John non riesce a fare a meno di pensare alla prima volta che ha visto una ragazza nuda, non riesce a non pensare al corpo della prima ragazza che ha toccato e a come gli sembrasse bello e comune, e così poco giusto. Il corpo di Claire era un corpo pensato per piacere, il corpo di Sherlock è magro, e spigoloso, e baciarlo lo fa tremare così tanto che ha paura di svenire, ed è anche bellissimo ed è vero e John è felice.4

 

 

 

 

 

 

“ Buongiorno Sally, sono la dottoressa Morstan. Sì sì tutto a posto. Avrei bisogno dell’indirizzo dell’appartamento di Sherlock Holmes. No non quello di Baker Street, quello lo conosco già ovviamente. Sì quello dove l’avete sistemato. 187 di Gower Street?5 Sì perfetto, grazie mille. No non si disturbi vado con la mia macchina.”

 

 

 

"Ti rende così vulnerabile. Ti squarcia il petto, ti apre il cuore, e così qualcuno può entrarti dentro e rovinarti. Ti costruisci le tue difese. Ti fai la tua bella corazza, per anni, perchè nulla possa farti del male, e poi un idiota, uguale a tutti gli altri idioti del mondo, entra nella tua vita... E tu gli dai un pezzo di te, senza che lui te lo chieda. Lui fa qualcosa di stupido, tipo baciarti o sorriderti, e così la tua vita non ti appartiene più. L'amore ti rapisce. Ti entra dentro. Ti dilania lasciandoti a piangere al buio. E così una semplice frase come 'forse dovremmo solo essere amici' o 'come mi capisci' si trasforma in una scheggia che ti squarcia il cuore." (...) Fa male. Non solo nell' immaginazione. Non solo nel pensiero. E' un dolore dell'anima, del corpo, un dolore che ti penetra nel profondo e ti lacera. Niente dovrebbe poter fare tanto danno. Soprattutto l'amore." Rose Walker sull’amore, di Neil Gaiman.

 

 

Il corpo di John è morbido e caldo e asciutto e le sue mani sono sicure mentre mi spoglia ed è tutto quello che non sono io. Il corpo di John è morbido e caldo e il contrasto con il pavimento gelido è quasi inebriante. La pelle di John è calda, così calda che sembra scottare sotto le mie dita, e non si è fatto la barba da due giorni probabilmente per colpa mia, probabilmente perché era troppo impegnato ad evitare che venissi ammazzato. Il viso di John è pieno di tante rughe e quando le sfioro sorride e da vicino io non riesco nemmeno a decifrarne l’odore e io queste cose di solito le capisco e non so se mi piace non capirle, non so nemmeno se non mi piace. So che mi sento fragile e insicuro e nella mia vita sono stato tante cose ma non sicuramente quelle. Io sono un genio, sono quello che vede le cose anche quando non può, sono quello che capisce. Sono arrogante, sono imperturbabile, mio fratello direbbe che sono un ragazzino supponente ma insicuro e fragile non lo sono mai stato. Non così. Non come mi sento adesso mentre John mi spoglia e mentre sento il suo respiro bollente sul mio viso, mentre sento le sue dita che giocano con i miei capezzoli e non ho bisogno di sentirlo parlare per sapere che sta sorridendo e che sto sorridendo anche io. Sto sorridendo anche se mi sento fragile e imperfetto e non so come funzionino queste cose, non so come funzionino i sentimenti, non so come funzionino tutte queste cose fatte di pelle e di contatto. Io capisco la chimica, capisco le reazioni matematiche, capisco come le note si legano tra di loro ma i sentimenti e la pelle e il contatto non sono il mio campo. Io non so davvero come andare avanti, John. Questo non è il mio campo, penso. Questo non è il mio campo gli dico e nella mia voce c’è una sfumatura, c’è un colore che non riconosco. Dove sono? Dove mi stai portando? “ Non è questione di campo, Sherlock.” Dice e me lo sento ridermi addosso e tremare un pochino. “ Non è davvero questione di campo, Sherlock. Siamo noi due.” Dice e sento che sta arrossendo mentre mi parla sul collo e non so se sia vero, non so se sia davvero così facile ma mi piace sentirglielo dire.

Il corpo di John è morbido e caldo e trasparente e avvolgente e mentre mi gira mi sembra che lui sia dappertutto. Il corpo di John è morbido e caldo e anche se non parla a me sembra di avere le orecchie piene della sua voce blu, sembra che mi stia raccontando qualsiasi cosa. John mi accarezza le labbra con le dita e dice “Succhia.” e sento i suoi polpastrelli sotto la mia lingua e me lo sento addosso, mi sembra che sia dappertutto. Mi sembra che il mio mondo sia racchiuso in quel contatto e non ha senso, non ha senso perché io non penso queste cose, perché io non sono sentimentale, perché io non penso queste cose. Mi sembra che il mio mondo sia racchiuso in quel contatto e non ha senso e invece ha senso, ha senso davvero. E poi John scivola piano dentro di me e io non riesco a sentire nient’altro che i gemiti e gli ansimi di John che si confondono con i miei. Poi John scivola piano dentro di me e il mio mondo è racchiuso in quel contatto, e il mio mondo diventa blu. John geme e bacia piano il mio orecchio e mi ripete che sono perfetto e il mio mondo diventa blu. John geme e l’unica cosa che riesco a sentire è la sua voce, la mia voce blu. Ciao.

 

 

 

 

“ Dottoressa Morstan? Dottoressa Morstan si sente bene? Cazzo, Dimmok è tutto pieno di sangue qui! E’ un fottuto lago di sangue!”

 

 

 

Perché mi stai fissando?

 

 

 

John è rimasto seduto su quello stesso pavimento, quello del freddo e squallido monolocale, con la testa di Sherlock appoggiata sulle sue ginocchia semplicemente ad ascoltarlo respirare e ad accarezzare i riccioli che gli ricadono scompostamente sulla fronte. Nessuno dei due ha parlato, come se avessero entrambi paura di spezzare non solo il momento ma anche loro stessi con le parole, ma a John sembra di non aver mai vissuto un momento così intimo con nessuno.

Sherlock ha gli occhi chiusi, le gote ancora arrossate e il suono del suo respiro è così bello che pensa gli possa spezzare il cuore. Rimarrebbe per delle ore intere ad accarezzarlo senza dire nulla, godendosi solamente la cruda bellezza del momento, ma visto che alla fin fine è un uomo pratico e non un qualche poeta moderno fa un respiro e si decide a parlare. Non li spezzeranno le parole, non possono spezzarli quando sono state quello che li ha uniti.

“ Sai, pensavo che forse potresti voler sapere come sono fatto. Giusto per sapere, eh. Non è che debba interessarti per forza.” Forse le parole non possono spezzarli ma sicuramente possono creare dei momenti molto imbarazzanti. “ Insomma, sono biondo, asciutto, altezza media.”

“ No.”

“ No?”

“ Un po’ sotto la media, e comunque no non voglio saperlo.”

“ Come diavolo fai a sapere che sono meno alto della media inglese?” Come diavolo fa a fargli venire voglia di prenderlo a pugni e baciarlo ogni volta che apre bocca?

 “ Eri sopra di me nemmeno mezz’ora fa, so quanto sei alto, tieni il passo John. L’ho sentito.”

Sherlock esita. “ E comunque no non voglio sapere come sei fatto.”

John si rabbuia e smette improvvisamente d’accarezzarlo.

“ John, le cose per me non funzionano come per te. Per me le parole non hanno lo stesso significato, le immagini non hanno lo stesso significato.” Sbuffa allontanando con la mano tutte le immagini che non può vedere. “ Per me le persone non sono bionde con gli occhi blu o more con gli occhi verdi, o grasse o con un neo. Per me quelle parole non hanno significato, non sono nulla. Non descrivermi come sei, non aspettarti che io veda qualcosa che non posso vedere. Non ha senso.”

John ricomincia ad accarezzarlo dolcemente e senza dire nulla. Rimane semplicemente in attesa.

“ Non aspettarti queste cose, non funzionano per me, non hanno mai funzionato. Io ho il mio modo di vedere le cose, io so come sei. Io ti vedo.”

“ Mi vedi?”

“ Ti ho sempre visto.” E John pensa che sia vero, vero come poche cose al mondo.

“ E come sono?”

“ Tu hai i capelli biondi, hai la pelle trasparente e la voce blu. E odori di darjeeling lasciato troppo tempo in infusione e di adrenalina. E io non vedo il fatto che sei più basso della media, o che non sei asciutto come vorresti, vedo il fatto che le tue ginocchia non sono ruvide e la mia testa si riesce a incastrare bene in quella nicchia.”

“ La pelle trasparente e la voce blu. Mi piace.” John lo ripete un paio di volte e ride. Si sente bene, bene e basta. “ Spostati dai.” Sherlock si siede al suo fianco.

“ Scendo a prendere qualcosa da mangiare.”

“ C’è già da mangiare, l’hai portato prima. Il pollo al curry.”

“ E tu non l’hai toccato nemmeno con un dito quindi scendo a prenderti qualcos’altro.” Ride ancora. “ Mi chiedo come tu abbia fatto a sopravvivere fino adesso.”

Sherlock sbuffa. “Era facile in realtà quando non c’erano agenti di polizia che rivelavano il mio indirizzo a dei serial killer. Dovresti licenziarlo John.”

“ Non posso licenziarlo.”

“ Perché? E’ un idiota.” Sherlock è cristallino nelle sue affermazioni, come sempre.

“ Sherlock, tutti per te sono degli idioti. Anche io.”

Sherlock arriccia il naso contrariato. “ E quando mai l’avrei detto?”

John ride più forte.

“ Non lo sei per la maggior parte del tempo. Facendo un rapido calcolo direi che sei idiota per cinque o sei ore al giorno. E’ un ottimo risultato.”

Ride anche lui e per qualche minuto rimangono così  come due ragazzini.

E’ Sherlock a parlare, finalmemente. “ Mince pie. Vorrei delle mince pie.”

“ Sherlock dove trovo delle mince pie in questa stagione?”

“ Sei riuscito a trovare un cieco, dovresti riuscire a trovare delle tortine.”

“ In realtà ti hanno trovato Lestrade e Mary io manco volevo cercarti.”

“ Perché tu non ti accorgi di niente John. Tu guardi ma non osservi.” Lo dice con una voce così seria che John è quasi tentato di abbracciarlo forte.

“ Ma c’è qualcuno che ti prende sul serio quando te ne esci con queste cazzate? Tutta questa pappardella del grande genio funziona davvero? Ok un’alternativa alle mince pie? Nel caso tutto lo Yard fosse troppo impegnato per mettersi a cercarle, sai com’è.”

“ Banoffee pie6 e del tè. Non una di quelle pacchianate in bustina che mi ha lasciato Lestrade, del vero tè. Earl Grey possibilmente. “

“ Non arriverai ai trent’anni se mangi questa roba, lo sai vero?” Sbuffa e inizia a vestirsi. “ Sarà una lunga perlustrazione, a dopo Mr. Spock.”

 

 

 

 

Capisco che non è John ancora prima che metta piede nell’appartamento. E’ l’odore a dirmelo. Odore di lavanderia, di vestiti appena ritirati dalla lavanderia, invece dell’odore del grasso e della pistola. Capisco che non è John ancora prima che metta piede nell’appartamento e i suoi passi me lo confermano. John ha il passo deciso anche quando zoppica, John non esita mentre appoggia il piede per terra. I passi che sento li ho già sentiti anche se a distanza ma li riconosco, perché io riconosco le cose, perché io ricordo tutto quello che conta, perché questo è quello che sono.

Dovrei stupirmi? Dopo che un agente di Scotland Yard ha fatto uccidere la mia padrona di casa dovrei davvero stupirmi di ritrovarmelo qui? Non mi stupisco e mi soffermo invece a pensare che John dovrà davvero licenziarlo Dimmok se mi ritroveranno morto in un lago di sangue. C’è un limite all’essere idioti.

Dovrei scappare? Dovrei avere paura? Non sono fatto in questo modo. Il fatto che mi sia abbandonato a dei sentimenti per qualche ora, con John solo con e per John, non mi rende una donnicciola in pericolo, non mi rende più spaventato.

Rimango immobile e aspetto di sentire la sua voce.

Dice:“ Jim Moriarty. Ciao.” Dice:“ Ma tu lo sai già vero?” e la sua voce è verde, ed è ruvida e viscida al tempo stesso.

 

Lui mi sta aspettando. So che mi sta aspettando come io ho sempre aspettato lui. Perché lui è l’unico che riesce a vedere gli animali che mi strisciano sottopelle. Lui è l’unico che lo sa. Lui non è come Carl Powers, non è come Victor, non è come tutti gli altri. Lui non è facile. Non è noioso. Non è un idiota. Lui non scappa, non scappa come ha fatto sua madre, lui mi aspetta perché ci siamo sempre aspettati.

Dico:“ Jim Moriarty. Ciao.”  E lui rimane immobile arricciando appena il naso. Dico: “Ma tu lo sai già vero?” E so che è così.

 

 

“ Tu l’hai sempre saputo Sherlock, perché tu mi vedi.” Dice così e mi viene quasi da ridere, dice così e io non ho paura, non ho paura e sono solo curioso di sapere cosa succederà. “ Tu mi vedi Sherlock.” Dice e io penso a John che non vede niente e che vede me e per un attimo, per un attimo solo ho paura.

“ Tu non hai paura di me.” E strascica per un tempo interminabile la r della parola paura.

“ Ovvio che non ho paura di te, non sono un idiota.” Non è del tutto falso. Non ho paura di lui, non ho paura di come possa finire ma c’è una parte di me che ha paura.  “ Ovvio che non ho paura di te, non sono un idiota e tu sei pazzo.”

 

Molly aveva paura. Victor Trevor aveva paura mentre sgranava gli occhi e guardando il coltello che avevo in mano continuava a ripetere il mio nome, come in una preghiera. Irene che nelle foto che mi mandava sembrava così bella e seducente e sicuro aveva paura e la voce che le tremava. La dottoressa aveva così tanta paura da farmi pensare all’inutilità del coltello. Sherlock non ha paura. Sherlock non ha paura di me e mi vede e anche se continuo a sentire le campane sembra che questo possa distrarmi per qualche minuto. Fino al prossimo rimbombo.

“ Come fai a vedermi? Come fai a vedermi sottopelle?”

 

Continua a chiedermelo. Continua a ripetere quella frase. Continua a pormi quella domanda “ Come fai a vedermi sottopelle?”. E’ quasi una cantilena, è quasi come se stesse andando a tempo di musica. E’ un metronomo, è come se ci fosse un metronomo nella stanza. E’ come se ci fosse un metronomo nella tua stanza.

“ Perché io sono come te, ed è per questo che mi hai cercato. Perché io non sono come tutti quei ragazzini stupidi che hai ucciso, perché io posso vederti e sono come te.” Non sono sicuro sia la frase giusta, dev’essere la frase giusta. Qui non si tratta di sentimenti, non si tratta di contatto, qui si tratta di leggere le persone e io questo lo so fare. Dev’essere la frase giusta.

 

Lui è come me. L’ho sempre saputo. Lo sapevo quella notte in quell’edificio semi abbandonato quando mi è passato davanti e mi ha guardato e mi sono sentito nudo anche se avevo una maschera cucita sulla pelle. Lui la sente la mia necessità, sente che non ho alternative. Mi sembra che la pelle faccia meno male, mi sembra che il mio corpo non si ribelli più alla sua stessa natura. Mi sento più leggero. Lui non è come tutti gli altri, non è un idiota. Lui mi vede. Mi sento più leggero, se solo le campane smettessero di suonare. Smettete. Smettetela.

“ Tu sei come me.” Ripeto. E poi glielo chiedo perché devo saperlo, perché dev’essere così. “ Tu le senti le campane? Le senti anche tu vero?”

 

Le campane. Così sono le campane quelle che sente. Doveva essere per forza qualcosa di musicale, si capiva dal modo in cui ondeggiava e non riusciva a stare fermo mentre parlava. Tempo scandito. Metronomo. Campane. Musica ad alto volume anche se stai parlando a qualcuno su skype. Cuffie. Probabilmente anche adesso porta delle cuffie. Rumore per scacciare le campane. Le campane dell’inferno? Un infanzia con qualche trauma religioso? Probabile. Poco interessante. Inutile ai fini di rimanere vivo. John l’avrà capito? John sapeva delle campane? Non me lo ricordo. Non me ne ha mai parlato quando leggeva i fascicoli, ne avrà parlato con quell’inutile psichiatra. L’inutile psichiatra: un pensiero fastidioso. Il pensiero di John in questo momento: inutile e poco produttivo, impossibile da scacciare.

“ No, non le sento le campane.” Sento il suo respiro più vicino. “ Non sento le campane. Devono darti fastidio, devono darti molto fastidio, devono farti male.” Empatia, partecipazione. Mia madre mi diceva che dovevo essere più empatico, Mrs. Hudson non me l’ha mai detto. Questa cosa dei sentimenti è evidentemente una fregatura.  “ Ma io non le sento, sai perché? Perché io sono come te, ma tu non sei come me.”

 

Non le sente. Non sente le campane. Come fa a non sentire le campane quando tutta la stanza sta tremando? Come fa a non sentirle lui che è come me? Stanno rimbombando nella mia testa. Stanno per far cadere il palazzo. Nessuno sente mai le campane ma lui non è tutti gli altri. Lui mi vede. Lui vede i ragni che mi camminano sottopelle. Lui mi vede. Deve sentire le campane. Deve sentire le campane. Perché non senti le campane? “ Io sono come te ma tu non sei come me.” Io sono come te ma tu non sei come me. Non sei come me. Non sono come lui. Lui non sente le campane e io voglio solo che smettano. Voglio solo che le campane smettano. Non sono come lui. Devo essere come lui. Devo essere come te.

Mi avvicino, gli sono davanti. Sono così vicino da poterlo sfiorare con il mio respiro.

“ Io non sono come te.” Ripeto e lui sorride. Ho capito. Ha capito.

“ Voglio essere come te. Voglio essere come te.”

Adesso lui ride ma non riesco a sentirlo perché le campane sono troppo forti. Cosa mi sono perso? Non mi sono perso nulla, lo so. Ho capito.

“ Voglio essere come te. Voglio essere te.” Dico.

E poi tiro fuori un coltellino.

Voglio essere come te. Voglio essere te.

 

Dice: “ Voglio essere come te.”

Dice:  “Voglio essere te.”

 

John Watson capisce ancora prima di entrare nell’appartamento che c’è qualcosa di strano. La porta non è stata chiusa a doppia mandata e lui chiude sempre a doppia mandata. Non ha chiuso lui la porta. Non ha chiuso lui la porta pensa mentre la spalanca e contemporaneamente tira fuori la pistola. Ti prego fai che non sia troppo tardi. E poi l’urlo. E poi un urlo che John non dimenticherà mai. Un urlo  che è più di un suono, che è più di un immagine, che è più di un colore. Un urlo così non lo dimenticherà mai perché fa a pezzi ogni cosa, perché gli riempie le orecchie e lo fa quasi svenire. Dio, quell’urlo.

 

E poi quell’urlo, un urlo così verde da fare a pezzi ogni cosa. E poi il suono di un colpo di una pistola. E il sangue che schizza ovunque, e so che sta schizzando ovunque semplicemente lo so, e poi John.

E poi John che mi chiama. E poi John che urla “Sherlock!” e la sua pistola che fa fuoco. E poi John che mi chiama e mi corre vicino, mi cade quasi addosso e trema un po’ e ripete il mio nome come se fosse una preghiera e tutto si riduce a quello. A John che chiama il mio e alla sua voce blu che spazza via tutto quello che c’è stato prima. John.

 

 

 

 

 

 

Mi sono sempre piaciuti i vestiti eleganti. Anche quando mi travestivo, anche quando ero obbligato a fingermi un hipster avevo sempre una gran cura per i vestiti. Bei vestiti, begli oggetti, belle cose.

Dove sono adesso non posso indossare vestiti eleganti. Indosso una tuta durante il giorno e un pigiama durante la notte. E’ morbido e informe. Non è elegante, non è un tessuto costoso, non mi piace sentirlo sulla pelle. Kate, la ragazza che si occupa di me per la maggior parte del tempo, ha detto che il grigio della tuta mi dona, che è un colore che sta bene con i miei colori. Così ho scoperto che indosso una tuta grigia.

Dove sono adesso non posso indossare vestiti eleganti ma non penso m’importi più perché tanto non riesco più a vederli. Non vedo i colori, non vedo il taglio della stoffa, non vedo come mi dona. Non vedo più nulla.

Kate dice che mi comporto bene e il suo tono della voce è affabile. Non avevo mai fatto caso alle voci, non pensavo che potessero davvero significare qualcosa, non riuscivo davvero a sentirle con tutto quel rumore nella mia testa. Kate è gentile non come tutte le altre infermiere, loro sono sgradevoli, loro sembrano essersi dimenticate dei loro doveri unicamente perché ho sterminato una decina di persone come se una persona cieca non meritasse assistenza solo perché “cattiva”. Sono tutte così stupide e al tempo stesso sono tutte così necessarie, è frustrante. Kate è gentile e ha attaccato al lettore mp3 dei bigliettini di materiali e dimensioni diverse in modo da permettermi più facilmente di premere i tasti. Ho chiesto al mio avvocato di fare domanda per un giradischi perché i giradischi sono più semplici da usare, anche ad occhi chiusi, i giradischi li riesci a sentire sotto i polpastrelli. Se avessi un giradischi sarei indipendente e potrei sentire la mia musica, sempre jazz e blues e sempre Almost Blue come lui, senza dover chiedere in continuazione alle infermiere. Sarebbe più semplice. Mi piace la musica. Mi piace la musica adesso che posso sentirla davvero. Forse mi sarebbe piaciuta anche prima.

Ci sono giorni in cui la testa mi fa così male che nemmeno la musica riesce ad aiutare. Sono giorni in cui, nonostante le medicine e nonostante i due interventi che i medici hanno ritenuto necessari dopo la lesione che mi sono procurato con il coltellino, mi sembra che i nervi vogliano esplodere. Sono giorni in cui dalle tempie d’irradia un dolore che sembra coprire tutti gli altri suoni. Sono giorni terribili, sono giorni in cui il dolore quasi rimbomba nella mia testa e in cui faccio di nuovo fatica a pensare, faccio di nuovo fatica a mettere in fila i miei pensieri. Ma nemmeno in quei giorni sento le campane. Quelle non le sento più.

 

 

 

 

 

 

Il 221B di Baker street è più ordinato da qualche mese a questa parte. Tenere gli oggetti ordinati aiuta le persone non vedenti, permette loro di essere indipendenti e autonome direbbero i medici. In ogni caso io continuo a lasciare le mie cose ovunque, quella dell’ordine è un’idea di John. Ripete ovvietà come “Se non mettessi lo shampo nel frigorifero poi non saresti obbligato a chiamarmi quando vai a lavarti i capelli.” E non ha senso perché lo chiamerei comunque perché è più comodo che sia lui a passarmi le cose, rispetto al fatto che sia io a prenderle. Comunque adesso il 221B di Baker street è un appartamento con una qualche sembianza d’ordine. E con un frigorifero con dentro del cibo, cibo vero. Cibo che io non mangio ovviamente, perché John non è bravo a cucinare e perché in ogni caso io non mangio, non mangio pasti sani preparati in una cucina che non sapevo nemmeno di avere e non mangio in generale. Qualcosa mangio ovviamente, take away thailandese, qualche cucchiaiata di risotto quando John insiste così tanto da farmi sperare di diventare anche sordo, e toast e marmellata con il mio earl grey molto zuccherato la mattina prima di uscire. La colazione è l’unico pasto della giornata. John si siede sul tavolo di fronte a me, non penso ci sia nemmeno bisogno di spiegare come faccio a saperlo, apre il giornale e inizia a leggermi le notizie e io dico cose come “Noioso. Banale. Da dilettanti.” E John ride, ride e mi scompiglia i capelli ancora umidi per la doccia e dice che per me è tutto noioso perché sono un genio e capisco le cose prima degli altri ma che loro persone comuni trovano interessanti i fatti di cronaca. Come se John fosse davvero comune.

Vado sulle scene del crimine adesso, e suono il violino. Non che mi piaccia davvero suonare per qualcuno ma Mrs. Hudson diceva sempre che non dovevo sprecare il mio talento per la musica e inizio a pensare di essere più sentimentale del previsto. John dice che in realtà mi piace perché quando suono posso dimostrare quanto sono bravo, posso mettermi in mostra e io adoro queste cose. Quando lo dice sbuffo e rispondo che è un idiota e John non se ne va mai e questo mi piace.

Vado sulle scene del crimine e assisto agli interrogatori. E’ stata un’idea di Lestrade a quanto pare. Ha detto qualcosa come “ Ma visto che è così bravo a leggere le persone non potrebbe esserci d’aiuto sui casi?” Penso che abbia visto troppe puntate di Lie to me7 ma alla fine si è rivelata una buona idea. Loro interrogano le persone, mi leggono i dati e io come al solito vedo quello che loro non notano. E’ interessante. Dimmok sembra ogni volta più provato e nessuno si offende particolarmente per essere trattato come un idiota, cosa che comunque di solito è, io mi limito ad affermarlo. Ogni tanto collaboro anche con John e allora cerco di limitare gli insulti e lui cerca di vedere qualcosa di più dell’ovvio e presta particolare attenzione al fatto che io non venga ucciso. Ogni tanto collaboro anche con John ma di solito preferisco le volte in cui non succede, in cui ognuno si dedica ai suoi casi. Quelle volte rimango ad aspettare John sveglio e quando torna all’appartamento si siede ai piedi del divano, mette il vinile di Almost Blue, e inizia a raccontarmi la sua giornata e io deduco le persone per lui. Non è sempre interessante, la maggior parte dei casi di cui si occupa Scotland Yard sono giusto da 5 o 6, ma John ripete un sacco di volte “Fantastico!” ed è piacevole. Poi mentre il disco finisce e Londra inizia a spegnersi John dimentica i casi e parla, parla e basta. Racconta di noiose telefonate con la sorella, racconta di quando era nell’esercito, racconta di quando andrà in pensione e della villa nel Sussex che gli piacerebbe prendere per noi, per invecchiare insieme e io mi trattengo dallo sbottare qualcosa tipo “Sentimentale!”. Quelle volte John parla e io mi perdo ad ascoltarlo, come quella prima notte sempre con Almost Blue in sottofondo. Quelle volte John parla e io mi perdo ad ascoltarlo e i suoi capelli sono biondi, la sua pelle è trasparente e la sua voce è blu. Quelle volte John parla e io mi perdo ad ascoltarlo e la sua voce è la voce più blu che io abbia mai sentito e questo è abbastanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Solito pippone e blabla: Finita! *sospirone* Riuscire a mantenere IC i personaggi quando devi unire due mondi diversi non è che sia proprio una passeggiata e per come la vedo mantenere davvero IC Sherlock quando lo si associa a situazioni amorose è praticamente impossibile, aggiungiamoci l’età inferiore e la cecità, quindi un pochetto l’ho sicuramente perso per strada ma ho cercato di fare il possibile =) Jim invece è molto più ispirato al personaggio del libro perché aveva una caratterizzazione così bella che non mi andava di sprecarla, diciamo che ho giocato più con le situazioni della serie. Lo spiegone nel suo brano finale spero non appesantisca la situazione ma temevo che non si capisse assolutamente quello che era successo forse perché io non capisco mai le cose -_-

Grazie a chi l’ha letta, seguita, recensita, a chi mi ha aiutato quando ero lì che borbottavo cose come “Non ci sarà mai la scena del confronto finale, la odio! Adesso faccio un finale aperto e sticavoli!” e a chi ha trusteggiato nel giallo [Ciao Nat! ] e a chi ha parlato con il timer della cucina perchè era troppo presa con la lettura della storia [Ciao Cri, la citazione di Gaiman è anche merito della tua AU perchè mi è venuta in mente lì] =) Ormai vi meritereste tutto un afternoon tea con anche le alzatine country, e se passaste dalle mie parti prometto di fornirvelo =) .

Hu nel brano finale di Jim all’inizio volevo inserire Sebastian al posto di una fanciulla a caso  come infermiere, omaggio alle MorMor, ma Lucarelli che per un certo periodo sfornava un libro al giorno ha scritto una sorta di seguito di Almost Blue che è davvero ingestibile come crossover/au perché andrebbe rivoltato come un calzino [ma è bellissimo e malinconico] e in quel seguito c’è un killer che è praticamente un cecchino e io mi sono così affezionata a questi personaggi che mi piace pensare che magari quando sarò ad aspettare altri millemila anni per la quarta stagione di Sherlock un tentativo si potrebbe fare. Mi sono voluta lasciare la porta aperta diciamo =)

A sto giro per concludere in bellezza ci sono pure un miliardo di note, avevo la logorrea.

 

 

1 Questo dialogo è praticamente ripreso dal libro, anche la parte del non mangiare, non dormire e ascoltare musica. Quando l’ho incrociato mi è sembrata una coincidenza troppo bella.

2 Il discorso sul talento della normalità e la frase su Woody Allen vengono da Alta fedeltà di Hornby.

3 Alec Hardy è il personaggio interpretato da David Tennant in Broadchurch, che va assolutamente vista perché sono otto puntate di pure emozioni, e insomma diciamo che Mary come talento ha sicuramente quello di avere buongusto in fatto di maschietti.

4 “Invece Flora era bellissima ed era vera, e Graziano era felice.” Cito a memoria ma quel paragrafo è ispirato a quella frase di Ti prendo e ti porto via di Ammaniti.

5 Sarebbe l’indirizzo di Speedys. Ho pochissima fantasia sulle strade londinesi.

6 Ho la bizzarra convinzione che a Sherlock piacciano le mince pie,forse perché quelle che mangia nella 2x01 ci assomigliano parecchio. Invece la banoffee pie è una torta fatta di panna, mou e banane e Benedict in un video l’ha definita il suo dolce preferito. Volendo evitare i tè troppo corposi l’earl grey è azzeccato ad abbinarsi alle torte di crema e frutta. Se non faccio l’angolo della cucina non mi diverto.

7 Lie to me è una serie tv in cui il protagonista è un esperto di comunicazione non verbale che riesce a capire se la gente mente, giusto per riassumere.

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