Pensieri, opere, parole, omissioni

di Leonhard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


E NON RISPARMIO NEMMENO ROSSANA! SALVE A TUTTI E BENVENUTI NELLA MIA PRIMA (E BREVE) FANFIC SU QUESTO TEMA. HO LETTO QUESTO FUMETTO QUANDO ERO RAGAZZO E STASERA, A LEZIONE (PERCHE’ IO VADO ALL’UNIVERSITA’ PER SCRIVERE FANFIC :P), HO DECISO DI INSERIRE I NOSTRI ETERNI INNAMORATI IN UNA SITUAZIONE UN PO’ PARTICOLARE. MI AUGURO CHE LA STORIA PIACCIA E SE AVETE DELLE OSSERVAZIONI E DELLE CRITICHE SENTITEVI LIBERI DI FARMELE (SENZA OVVIAMENTE ESAGERARE, PERO’ J). UNA BUONA LETTURA A TUTTI.
Leonhard
 
1.
 
 
 
Era sotto casa di Akito già da un po’, quando la luce dietro la finestra si spense. Guardò l’orologio (lo stesso che gli aveva prestato, tra l’altro) e si rese conto dell’ora. Spaziava, Sana Kurata, ma del resto era una cosa normale per lei distaccarsi dalla realtà per andare nel suo mondo privato, a correre beata nel gigantormico prato del suo infantile angolo di mente in cui tutto andava bene e tutti, specialmente lei, erano felici e contenti. Quel mondo era con lei a dodici anni, a quindici e quindi perché non poteva essere con lei anche a ventitre?
 
Forse perché all’università non è proprio etico mettersi a ballare e cantare sui banchi con il suo stupido microfono karaoke. Il suo progetto di incontrare persone infelici era miseramente andato in fumo quella volta che aveva incontrato un suo ammiratore, depresso perché avrebbe voluto passare una notte insieme alla sua eroina. Akito, ovviamente, l’aveva scoperto e lo aveva intimato di smettere di chiamare la sua ragazza…beh, a modo suo, tatuandogli sul volto ciò che gli aveva detto con un pugno da maestro karateka.
 
Se pensava intensamente al più grande rimpianto della sua vita, poteva sentire nuovamente la sua voce urlargli menzogne terribili, come “non ce la faccio più”, “con te non mi sento amata”, “passi sempre alle mani” e poi la chicca: il famigerato “non può funzionare tra noi”. Akito non aveva cambiato espressione, ma lei sapeva leggerlo e aveva visto il suo cuore, fragile e appena cicatrizzato di una ferita che non sarebbe mai guarita veramente, andare irrimediabilmente in mille pezzi. Un gelido “ok” e si era voltato.
 
Dal giorno dopo, lei aveva preso ad andare sotto casa sua e, quando si era trasferito per l’università, lei lo aveva seguito, si era segnata il nuovo indirizzo e continuava ad andare sotto la sua finestra. Si sedeva su una delle panchine del parco proprio davanti all’appartamento e non distoglieva lo sguardo da quella finestra.
 
Non era una stalker e nemmeno una maniaca o una molestatrice: era solo una giovane donna, allegra e solare, ma sola ed innamorata di una chimera, un ragazzo che, molto probabilmente, non ne voleva sapere più nulla di lei.
 
E aveva ragione.
 
Non lo meritava. Era scontroso, freddo e pacato a livelli insopportabili, ma con lui si era sentita amata. Quel cuore l’aveva fatto guarire lei. E lui l’aveva ricambiata salvandola e standole accanto un sacco di volte, indipendentemente da come lo trattasse lei.
 
Lo aveva chiamato il giorno dopo, con l’intenzione di invitarlo a mangiare il sushi e di non preoccuparsi del conto perché,per scusarsi, avrebbe offerto lei. Davanti al sushi non capiva più niente. Si ricordava una volta che, come gioco erotico, si era fatta trovare nuda e coperta nei punti “strategici” con pezzi di sushi: finì che lui si mangiò tutto e poi si addormentò soddisfatto per la mangiata.
 
Quella volta non ci furono risate, chiacchiere né tantomeno giochi erotici. La voce di Akito, gelida come non l’aveva mai sentita, le aveva ricordato cosa gli aveva urlato il giorno prima, chiedendole se cortesemente poteva smettere di contattarlo, dato che era una vera e propria seccatura per lui. Alla telefonata successiva non rispose lui, ma una pacata e professionale voce registrata che le diceva che il suo numero era stato messo tra gli indesiderati. L’ultima volta che l’aveva visto fu quando lo pedinò fino alla sua casa nuova. Da quel giorno era passato quasi un anno.
 
(Meno male che andiamo a due università diverse) pensò. (Se dovessimo condividere anche i banchi di scuola, non ce la farei). Si alzò lentamente: il freddo di novembre le aveva indebolito le gambe. si sistemò la borsetta sulla spalla e guardò un altro volta la finestra di Akito.
 
“Buonanotte, Akito. Ti amo più di me stessa. E scusami” disse. La stessa frase di congedo, una frase che non avrebbe mai ricevuto e a cui non avrebbe mai risposto. La ripeteva ogni sera, come un mantra, come se in qualche modo potesse lavare via ciò che era successo e lei potesse tornare tra quelle braccia elisi ma forti che tanto amava, un’improbabile formula magica che facesse tornare tutto a posto.
 
Stesso principiò del Bibidi Bobidi Bù. Solo che questa non funzionava.
 
O forse sì?
 
Boh…
 
 
 
Tsuyoshi la chiamò nel mezzo dello studio. Aveva sempre peccato di concentrazione, ma da quando aveva lasciato il mondo dello spettacolo aveva dovuto rimboccarsi le maniche ed iscriversi all’università. Studiare le era difficoltoso, ma in qualche modo riusciva ad avere dei voti abbastanza alti. Lanciò la matita in un attimo di frustrazione e rispose al telefono, sapendo che la chiacchierata le avrebbe cancellato quel poco che era riuscita a tenere in testa.
 
“Ciao Sana”. La voce dell’amico la fece stare bene, la proiettò nella ragazzina quindicenne di qualche anno e molta sofferenza fa.
 
“Tsuyoshi! Quanto tempo! Come stai?” chiese. La sua voce era gioiosa, era palesemente felice di sentirla.
 
“Tutto bene. Ascolta, io ed Aya volevamo andare a mangiare fuori: ci verresti?”. Lì per lì non pensò a ciò che quasi sicuramente sarebbe successo, né a chi ci sarebbe stato: accettò su due piedi, rendendosi conto della probabile presenza di Akito solo quando fu sulla porta, per andare al suo solito appuntamento con la finestra chiusa.
 
Avviandosi, prese di tasca l’i-Phone e guardò il suo profilo Facebook. Con le dita che tremavano, digitò Akito Hayama. Buffo, pensò, non so nemmeno se ha un profilo. Il cuore le fece un tuffo quando lo vide. La foto era lo stemma di un dojo e la copertina del diario un vassoio riccamente imbandito di sushi di vario genere, ma sapeva che il profilo era il suo.
 
“Ciao Akito” mormorò, sedendosi alla solita panchina.
 
“Ciao” rispose una voce gelida, dietro di lei. Sapeva di chi era, non c’era nemmeno bisogno di voltarsi. E non lo fece. Rimase immobile, mentre sentiva quello sgradevole formicolio passarle per tutto il corpo per andare ad arrossarle il volto. Non sentì muoversi dietro di lei, segno che nemmeno Akito si era mosso.
 
Seguì un silenzio atterrito, in cui percepì l’astio ed il gelo che il ragazzo le inviava. Dio, ti prego: fa che io mi svegli.
 
“Visiti il mio profilo Facebook…” disse. Gelo puro. “Vieni tutte le sere a sederti qua sotto…parli da sola come se io fossi accanto a te…credevo di essere stato chiaro qualche tempo fa”.
 
“Lo sei stato” rispose lei. Il suo corpo era elettrico, il calore sul volto quasi insopportabile e le mani stringevano convulsamente il cappotto. Le dava le spalle. Era seduto sulla panchina dietro di lei e le dava le spalle: non sentiva il suo sguardo addosso.
 
“Evidentemente non abbastanza”. Non c’era rabbia, odio o che altro nella sua voce. Per lui, probabilmente quella era solo una seccatura. Aveva superato la cosa. Lei no, lei non ce l’aveva fatta. “Ho pensato che tu avessi qualcosa da dirmi e allora sono sceso”.
 
“Non ti devo dire niente” rispose lei, di getto. “Ho già detto tutto quella volta”. (Che sto facendo?). “Non credo ci sia più nulla da aggiungere: mi hai detto che non mi volevi più, no?”. (Qualcuno mi fermi!).
 
“Infatti” replicò lui, freddo. “Allora posso sapere cosa devo dire alla polizia?”. A quella domanda, lei si girò. L’idea originale era di darli un ceffone (ma di quelli belli forti) e correre via, ma ogni intenzione svanì come cenere al vento. Akito si era fatto più alto e robusto, i capelli biondi si erano allungati e li teneva legati con un piccolo codino dietro la testa. Le labbra erano socchiuse e tra i denti fumava una sigaretta. Vestiva con un cappotto grigio ed una sciarpa nera, che svolazzava leggermente al vento freddo.
 
Gli occhi non erano cambiati: sempre profondi, ambrati, in quel momento duri e gelidi. Sana rimase senza fiato, mentre sentiva il suo corpo sciogliersi alla vista di quel giovane così bello, ma anche così minaccioso. Quella vista la fece sentire infinitamente triste ma allo stesso tempo anche in grado di toccare il cielo con un dito.
 
Demonio? Ma quale demonio? Forse da bambino, ma quello che lei aveva davanti era un angelo!
 
(Oh-mio-Dio) pensò, scandendo bene per far risuonare nella testa quanto fosse stata idiota tempo prima. Abbassò lo sguardo, vergognosa.
 
“Scusami, Akito” mormorò. “Non verrò più, non ti farò più la posta sotto casa”. Tremava. Per il freddo, la paura, l’umiliazione, la vergogna, il rimorso, per tutto. Lui tirò una boccata dalla sigaretta e la soffiò lentamente. Il fumo si confuse con la condensa del fiato, ma quell’atto solleticò qualcosa in lei. Lo voleva.
 
“Non hai risposto alla mia domanda” replicò lui, indifferente alle sue scuse. “Mi dovevi dire qualcosa? Perché onestamente non vedo altro motivo per cui venire qui tutte le sere a rischiare un malanno”. Lei scosse nuovamente la testa, ma questa volta di morse la lingua. Akito volse finalmente gli occhi e la guardò.
 
Sana aveva voglia di svenire. Era lì, davanti a lei, che la guardava: con un po’ di fantasia poteva dire che la stava guardando con la stessa espressione con cui l’aveva sempre guardata. Tentò di leggere quegli occhi, ma non ci riuscì: Akito la teneva fuori dalla sua mente, mentre lei doveva essere ovviamente un libro aperto per lui.
 
“Voglio…fare…karate” mormorò, senza rendersene nemmeno conto. Akito la guardò e tirò nuovamente dalla sigaretta.
 
“Sei libera di fare quello che vuoi” replicò. “Ti posso consigliare un buon dojo dalle parti dell’Università di Tokyo”. Lei rimase interdetta. Perché in realtà si era sentita, sapeva cosa aveva detto.
 
“…cosa…?” chiese. Lui la guardò con occhi gelidi. Steccò via la sigaretta, che venne trasportata in mezzo alla strada dal vento e si alzò.
 
“Che ti aspettavi, che ti avrei detto di venire da me?” chiese, gelido. “O che ti avrei invitato a salire? A giudicare dalla tua faccia, vorresti che tutto tornasse come prima, sbaglio? Spiacente, Kurata. Ne ho piene le tasche del tuo comportamento; non so se è cambiato, se sei più matura o cosa, ma onestamente non mi interessa nemmeno saperlo. Hai voluto tu questa situazione: hai solo quello che ti sei costruita”.
 
“Ma io…” tentò lei, in un pallido tentativo di spiegare, interrotto come se nulla fosse dal ragazzo.
 
“Ma tu cosa? Pensavi che bastasse invitarmi a mangiare il sushi per cancellare il fatto che secondo te non poteva funzionare tra noi? Come stai adesso, Kurata? Come te la passi senza di me?”. La oltrepassò e, senza dire una parola, rientrò in casa, chiudendo la porta dietro di sé. L’ultima cosa che Sana sentì fu lo scatto della chiave che chiudeva la casa di Akito, poi fu il suono del vento nelle orecchie e le frustate di freddo in faccia, mentre correva a casa, con il volto rigato dalle lacrime.
 
Almeno aveva retto bene e non aveva pianto davanti a lui.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2.
 
 
Il computer informò Akito che Akiteka59 aveva terminato il download. Il ragazzo chiuse il portatile e si rimise sui libri, ignorando la tentazione di vedersi subito il nuovo episodio di Bleach appena scaricato. Sbuffò sul pesante libro e, abbandonando la schiena contro la sedia, si accese una Wiston, concedendosi cinque minuti per pensare ai fatti suoi.
 
L’aveva chiamato Tsuyoshi, quel pomeriggio, per invitarlo ad una pizzata di ritrovo: lui, Fuka e Aya. Ma lui sapeva che ci sarebbe stata anche Sana. Forse non gliel’aveva detto apposta, o non l’aveva ancora chiamata, ma se la conosceva bene, se la sarebbe trovata davanti. Aveva dovuto accettare, anche se odiava le pizzate di gruppo; cosa avrebbero fatto, poi? Tutta la cena a parlare dei bei vecchi tempi andati, di cosa si studiava, se si lavorava; dato che era un po’ che non ci si vedeva, si sarebbero sprecati i “Ma ti trovo bene” oppure “Oh mamma mia se sei cresciuto!”.
 
E poi avrebbero sicuramente giocato a quel gioco stupido che si era inventato Tsuyoshi: "Pensieri, opere, parole, omissioni". Abbreviato, fa popo. un gioco veramente della popo. Ahahah...non aveva mai avuto uno spiccato senso dell'umorismo: neanche lui rideva...bah...
 
Tsuyoshi di cose cretine ne aveva fatte, ma molto probabilmente quel giochino era l’indiscusso campione di quella lunga sfilza. Lasciò andare un sospiro, mentre toglieva la cenere dalla punta della sigaretta. Posò la penna sopra il quaderno e cominciò a prepararsi la cena. Si avvicinò alla finestra e guardò attraverso una fessura tre le tende tirate.
 
Ed eccola lì, di nuovo sulla stessa panchina della sera precedente. Aveva lo sguardo basso e la bocca si muoveva. Sospirò: la sera prima l’aveva minacciata di chiamare la polizia e l’aveva scacciata. Se era nuovamente lì, voleva dire che non c’era nulla da fare. Contemplò l’ipotesi di chiamare la polizia, ma concluse che in fondo gli andava bene così: lo faceva sentire appagato l’idea che la ragazza che aveva troncato la sua relazione gli morisse dietro a quel modo.
 
Maligno? Demonio? Mah, forse. Ma lui era un demonio che era stato costretto ad andare avanti. Lui non avrebbe voluto, aveva fatto ciò che ogni fidanzato avrebbe fatto. A modo suo. E per questo si era ritrovato solo da un giorno all’altro.
 
Per lui non c’erano vie di mezzo: era parso chiaro a tutti quando lui era ricoverato all’ospedale con la mano sinistra utile come un macigno al collo in mare. Tutte quelle crisi mentre era ricoverato; aveva passato il primo mese prendendo ansiolitici e tranquillanti per paura che il suo cuore si fermasse ancora: quel periodo l’aveva passato fatto come un disgraziato. Alla fine aveva trovato la sua quadra; lui funzionava così, o tutto o niente.
 
Se non poteva avere Sana, l’avrebbe allontanata con tutte le sue forze.
 
Scosse la testa.
 
(Domani ho un esame) pensò all’improvviso. (Quindi…). Si  avvicinò ai fornelli ed accese sotto l’acqua per il riso. Prese una cotoletta di maiale e cominciò ad impanarla. Nel mentre si circondò di salse, condimenti e uova. Preso dalla curiosità spiò nuovamente dalla finestra. Sana non c’era, se n’era andata: quasi ci rimase male e non andava bene.
 
Come se la cotoletta c’entrasse qualcosa la gettò quasi con rabbia nella padella, affogandola con la salsa. Era sceso per ferirla, ma era finita che quell’incontro aveva fatto più effetto a lui che a lei. Decise di non pensarci: fece saltare la carne ed il riso e si fece un katsudon con i controfiocchi. Apparecchiò alla buona accanto ai libri e si sedette prese le bacchette in mano e guardò il piatto.
 
“Katsu!” esclamò, ma senza particolare convinzione. Portandosi un boccone tra le labbra, si rese conto di aver la testa piena di lei. Non fece nulla per impedirlo, e lasciò che i ricordi ed i pensieri di Sana lo accompagnassero per tutta la cena.
 
“…manca di sale” borbottò.
 
 
Sebbene quel katsudon fosse stato mangiato con lo spirito non proprio giusto, Akito sostenne l’esame e gli sembrò di farlo anche bene. Per festeggiare, decise che sarebbe andato a pranzare al sushi bar.
 
“Akito?” chiamò una voce familiare al rullo. Il ragazzo si ritrovò faccia a faccia con una sorpresa e gioviale Fuka. “Oh mio Dio, ciao!”.
 
“Oh” replicò lui. “Come stai?”. Lei sorrise e si spostò accanto a lui.
 
“Tutto bene. Tu? Che ci fai qui?”.
 
“Ho appena dato un esame e sono venuto qui”.
 
“Ma che coincidenza! A me era venuta voglia di sushi e qui è molto buono. Che università fai?”.
 
“La Todai…”. Fuka fischiò piano.
 
“Alla faccia!” commentò. “Beh, si sapeva che saresti arrivato in alto”.
 
Fu un pranzo tutto sommato piacevole. Fuka parlò tanto: gli disse che aveva lasciato gli studi e aveva cominciato a lavorare in una clinica per animali, che lei ed il suo ragazzo convivevano e non mancò di dispiacersi per la sua rottura con Sana (l’aveva saputo da Tsuyoshi). Ma almeno ebbe la decenza di toccare quell’argomento solo quella volta, cosa che diede al ragazzo un che di sollievo.
 
Già, Fuka era sempre stata una brava ragazza; con lei si era comportato male e poteva ringraziare se era rimasta sua amica. Quando Sana gli aveva dato il numero di quel ragazzo che poi sarebbe diventato il suo ragazzo, non era stato senza una punta di gelosia il pensiero di averla definitivamente perduta. Ma a quel tempo aveva Sana accanto: non aveva bisogno di altre donne.
 
“Quindi, tu ci sarai alla pizzata con Tsuyoshi?” chiese. “Siamo tutti del vecchio gruppo, quindi ti capirò se preferirai stare a casa”.
 
“E perché dovrei?” chiese lui, intrappolando un pezzo di salmone tra le bacchette. “Solo perché ci sarà Sana?”. Lei lo guardò preoccupata, facendo sparire il suo sorriso.
 
“Akito, io mi ricordo dell’ospedale, sai?” disse. “Se non la vedevi avevi crisi cardiache, che ti sono finite quando ti è venuta a trovare: tu hai bisogno di lei, allora come adesso”.
 
“Esattamente quello che non voglio sentirmi dire” replicò lui. “Se avessi bisogno di lei, avrei ancora le crisi e abitando da solo, sarei morto da un po’”. Non le poteva certo dire che aveva avuto paura che potesse succedere veramente.
 
“Comunque, cosa studi?” chiese, glissando improvvisamente il discorso. Brava Fuka, pensò il ragazzo.
 
“Medicina” replicò. “Ma vorrei prendermi una specialistica in fisioterapia”. E il discorso continuò, dopo la spiacevole parentesi di Sana. I due si salutarono sulla soglia del chiosco.
 
“Allora ci vediamo da Tsuyoshi sabato sera, ok?” chiese la ragazza.
 
“Mh…” rispose lui, pieno per il troppo sushi mangiato. Pochi passi e si volse. “Sai…sei rimasta una brava ragazza”. Dicendo queste parole, le labbra gli si raddrizzarono in quello che solo pochi eletti sapevano che era un sorriso. La ragazza gli sorrise.
 
“Anche tu, Aki” rispose. “E vedrai che tutto si metterà per il meglio”.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3.

Sana Kurata non aveva mai avuto particolari problemi nella scelta del vestito. E si chiese anche perché dovesse averne per una pizzata con i suoi amici del liceo. Eppure era ormai quasi un’ora che era in piedi davanti al letto a guardare due vestiti con occhio attento, studiandone la forma, i risvolti, le scollature ed i colori come se li vedesse per la prima volta. In realtà dormivano nel suo armadio da ormai un anno e, in una punta d’ansia, penso che non ci sarebbe più entrata.

Ripensò, non senza un colpo di risata, che qualche anno prima avrebbe attaccato con una delle sue stupide canzoncine per esprimere tutta la gravosa ed insostenibile drammaticità che (non) aveva quel fatto. Scavò da sotto il letto la sua vecchia tastiera a forma di pipistrello e pigiò il Do, ma si sentì una babbea e posò lo strumento subito dopo.

Sarà un altro effetto dell’essere diventati grandi.

Maturi.

Seri.

Una vocina dentro di sé le chiese se tutta quella foga non fosse per la presenza di un certo qualcuno alla tavolata.

Un’altra cosa indesiderata, molto probabilmente portata dal passaggio delle primavere.

Certo, non poteva essere per quello: Akito l’aveva lasciata e poi non c’era nessuna certezza che l’avrebbe trovato lì. Ma certo: lui non era mai stato per serate così. C’erano ben poche possibilità di trovarselo davanti.

Questi pensieri le disegnarono un sorriso gioioso sul volto. Sentendosi improvvisamente sicura, scelse un vestito rosso con le spalline sottili che le scendeva fino a metà delle gambe. Collant, rossetto e spilla che le tenesse lontano dagli occhi quello stupido ciuffo.

Perché per voltare pagina da una delusione amorosa che non vuole chiudersi, bisogna farsi abbordare! Proprio così!


Lei, Fuka e Aya sedevano dietro, Tsuyoshi davanti che faceva strada per la pizzeria, mentre Akito guidava, sotto le note di Down On The Farm, dei Guns ‘n Roses. Tutti chiacchieravano, tranne Akito, sempre di poche parole, e Sana che da quando si era trovata davanti al suo ex vestita in quel modo si faticava a capire dove finisse il vestito e dove cominciasse la faccia. Cercò di non pensarci e si concentrò sull’assolo di Slash per tutto il tragitto e decise che avrebbe parlato solo davanti ad una pizza.

“Allora, a me porta una pizza con funghi, provola, scamorza, tonno, cipolle, uova e maionese, grazie. Ah, e con un rinforzo di rucola”. Sana cercò di godersi le facce dei presenti, cameriere incluso, tutte con la stessa espressione mista tra il disgusto ed il sorpreso.

Gli amici ordinarono le loro pizze (molto più normali della ragazza) e Fuka ordinò anche per Akito, rimasto fuori a finire la sigaretta. Fu bizzarro come nella mente di Sana si affacciò la pizza preferita del ragazzo nello stesso istante in cui Fuka la riferì al cameriere; le comparve un sorrisetto: è proprio vero che certe cose sono come andare in bicicletta.

Akito comparve apparentemente dal nulla e si tolse la giacca, che svolazzò e distribuì microscopici fiocchi di ghiaccio su braccia e schiene degli amici. Tra le recriminazioni poco soddisfatte dei presenti, si sedette a capotavola, accanto a Tsuyoshi e Fuka.

“Il cameriere?” chiese distrattamente.

“Già fatto” segnalò la ragazza accanto a lui. “Ti ho preso una quattro stagioni con mozzarella di bufala al posto della normale”. Lui annuì, soddisfatto, e si chiuse nel suo silenzio, ascoltando Tsuyoshi con i suoi “Ma ti trovo bene” ed i suoi  “Oh mamma mia se sei cresciuta!”.

Nulla di inaspettato, insomma, e si concentrò sulla televisione davanti a loro, conscio del fatto che Sana lo stava osservando con la coda dell’occhio.

Era strano; l’ansia, l’affanno e l’imbarazzo di poco prima erano ridotti a poco più di un peso sullo stomaco. Era inaspettatamente bello essere in pizzeria a ridere e scherzare con gli amici ed anche se c’era Akito non era brutto, anzi: sembrava di essere tornati a tanti anni prima, quando loro due erano talmente innamorati l’uno dell’altra che perfino loro se n’erano accorti, ma ciò che mancava era quel pizzico di coraggio che nessun lungometraggio, né cintura da karateka poteva sostituire.

Forse anche in quel momento era così: quanti lungometraggi aveva fatto prima di ritirarsi? Ed Akito aveva preso anche qualche Dan per poter insegnare. Eppure non sapeva leggere attraverso  il muro di gelo che aveva eretto: era più freddo e resistente di tutti quelli che aveva alzato durante la sua vita.

Le pizze arrivarono calde e fumanti. Fu dura per Sana frenarsi dal rubare ad Akito la prima fetta di pizza, come faceva quando, tanto tempo prima, sedevano accanto. Abbassò lo sguardo sulla sua capricciosa e deglutì, intuendo che di quella pizza ne avrebbe mangiato forse la metà.

I discorsi alla tavola furono vari: la vita, il lavoro, cose così. Tsuyoshi aveva trovato lavoro come impiegato presso le poste, mentre Aya frequentava l'università di Lingue.

“La mia adorata Aya andrà poi a Torino, a studiare Italiano” annunciò il ragazzo, gonfio
d'orgoglio.

“Ah, il paese dell'arte e della letteratura” commentò Fuka. “Come sono invidiosa: io sono innamorata da sempre di Firenze”.

“Come si fa a non amare Firenze?” assentì Aya. “Andrò a studiare all'università torinese: ancora non ci credo di aver vinto la borsa di studio, non sto più nella pelle!”.

“E tu Sana?” chiese Tsuyoshi. “Cosa fai adesso nella vita?”. L'amica sorrise; notò che Akito aveva distolto l'attenzione dalla tv e la osservava con occhi gelidi ed annoiati.

“Io adesso vado all'università” rispose. “Studio psicologia”. Tsuyoshi rimase basito.

“E la carriera televisiva?” chiese.

“Ah, quella l'ho abbandonata tempo fa” rispose lei. Un sopracciglio di Akito s'inarcò e lei trovò l'avergli fatto cambiare espressione un ottimo risultato di cui vantasi per l'intera settimana con il suo riflesso all'interno dello specchio. “Ho avuto dei problemi a suo tempo e ho deciso di mettere la testa a posto e di prendermi un titolo di studi come si deve”.

“Peccato, però: a me piaceva guardarti nelle televisione” borbottò Fuka, sorseggiando la sua Pepsi. “Ho letto di Naotsumi su una rivista di gossip: adesso lui lavora alla Eagle Pictures ed è in sottoscrizione per il film Chains, che uscirà il prossimo anno”.

“Ma dai! Pensa che potevi esserci anche tu!” esclamò Aya, affannata. “Ho letto il libro: è il mio preferito, mi piace un sacco”.

“Anche io l'ho letto!” esclamò Sana tagliandosi la pizza e condendola con una forchettata extra di carciofini. “L'ha scritto un americano”.

“Non è americano” sbottò Akito. La ragazza si volse: stava masticando svogliatamente l'ultimo spicchio di pizza. La mozzarella di bufala gocciolava latte misto a sugo sul piatto. “L'ha scritto un italiano, che poi l'ha tradotto e pubblicato in Canada”.

“È avvincente, intrigante e con una conclusione pazzesca: solo il finale mi ha lasciato un po' insoddisfatta”.

“Beh, in Italia magari scopri chi è”.

“Ma figurati: a quest'ora sarà da qualche parte del mondo a godersi i soldi della sua opera”.

Sana non stava seguendo più la serata: continuò a mangiare distrattamente la sua pizza, mentre si domandava perché provasse sentimenti così strani solo per essere stata corretta in modo acido da Akito. Risentiva della sua voce stizzita, ma il pensiero che stava parlando con lei le provocava allo stesso tempo voglia di ridere e di piangere. Cercò un valido argomento di cui parlare, ma le venivano in mente solo argomenti banali, scontati, di cui difficilmente Akito avrebbe accettato di parlare.

La cena continuò tra chiacchiere e risate. Venne fuori che Akito era un maestro di karate e si pagava gli studi con un dojo che gli era stato affidato. Al momento aveva nove allievi.

“Davvero? E come sono, promettenti?” chiese Aya.

“Non sono male...” replicò.

A Sana scappò un colpo di risata: non era cambiato in quello. Il suo modo di rispondere l'aveva sempre fatta sorridere. Il ragazzo le indirizzò uno sguardo interrogativo, ma non aprì bocca. Lei nascose il sorriso dietro ad un boccone di pizza.

Tra chiacchiere, risate ed un brindisi proposto da Tsuyoshi, la cena arrivò al termine. Pagarono in conti separati ed uscirono: la neve si era fatta più leggera, ma non si era fermata. Sana si guardò intorno, notando Akito che si accendeva una sigaretta.

Quel gesto accese in lei una strana sensazione di languore: guardando le sue labbra stringere delicatamente il filtro arancione sentì di volerle accarezzare.

“Allora, qualcuno di voi ha fretta?” chiese Tsuyoshi. “Perché se no, possiamo andare a casa nostra”.

(Ecco ci siamo) sembrò pensare Akito. Era probabile che anche lui come Sana si aspettava quella svolta della serata: la ragazza, tuttavia, accettò di buon grado. Le piaceva quel gioco, trovava che sia imbarazzante quanto bastava per farsi quattro risate tutti insieme senza invadere il personale più del consentito.

S'incamminarono tutti verso la macchina. Sana cercò di evitare con lo sguardo il suo ex-ragazzo, mentre quella sorda voglia non accennava a diminuire.


SPAZIO AUTORE: salve a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di seguire questa storia. Scusate se ci ho messo troppo tempo a postare il nuovo capitolo, ma ho scoperto che gli esami universitari non sono proprio roba da prendere sottogamba. Perdonate l'attesa, ma è stato un periodo un po' strano e diciamo che non ho avuto molte occasioni di mettermi davanti al computer tranquillo per un paio d'ore. Che altro dire, adesso sono più tranquillo, quindi DOVREI ricominciare a postare regolarmente. A coloro che non si sono rassegnati all'interruzione della storia mando un ringraziamento per la pazienza dimostrata; spero che questa storia sia degna delle vostre aspettative. Ci leggiamo presto
Leonhard.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


4.

Parcheggiarono sotto casa di Tsuyoshi quasi subito. Akito spense As I Am dei Dream Theater proprio durante lo stacco di Mike Portnoy, cosa che gli procurò non poco fastidio.

L'interno era spazioso per essere un bilocale; al centro della sala c'era un tavolo, nell'angolo accanto alla finestra la cucina color ocra incassata nel muro e, contro il muro accanto, una credenza dello stesso colore. Aya invitò tutti a sedersi e fece comparire dal frigo bevande, succhi di frutta e qualche lattina di birra.

“Ma sei ancora convinto che quello sia un bel gioco?” stava chiedendo Akito. L'amico diede una scrollata di spalle.
“Dai, non fare così” disse, con voce accondiscendente. “L'ultima volta ti sei divertito anche tu”.

(L'ultima volta eravamo fidanzati) pensò Sana. (E non si è divertito: mi ha tenuto la mano di nascosto tutto il tempo). Il ragazzo sospirò stancamente.

“Almeno si può fumare?” chiese. L'amico per tutta risposta gli indicò il posacenere con un sorriso cordiale. Akito si sedette stancamente, lanciando con palpabile irritazione il pacchetto di sigarette accanto sul tavolo.

“Allora le regole le conoscete tutti, no?” disse, sedendosi al tavolo con un sorriso eccitato sul viso, impaziente di cominciare. Le regole; eh già, quel gioco stupido aveva anche le regole.

Pensieri opere parole omissioni era lo spazio di scelta che un giocatore dava ad un altro. L’interpellato sceglieva una di queste voci a cui sarebbe seguita una domanda o un comando a cui lui avrebbe dovuto attenersi. L’astensione costava un punto.

“Facciamo che arrivare a dieci stasera?” propose Fuka. “Avrei da studiare per un esame…”. Tsuyoshi acconsenti, visibilmente contrariato, poi cominciò.

“Ok, allora cominciamo” disse. Si volse e fece gli occhi dolci ad Aya. “Pensieri opere parole omissioni”. La ragazza arrossì leggermente nel sentirsi interpellata, ma scelse, con una vocetta intimidita parole. “Qual è il nostro libro preferito?”. Aya sospirò con occhi trasognati.

“Ma Chains, ovviamente” rispose, aggiudicandosi il primo punto della serata. Si volse poi verso Akito, chiedendo la filastrocca prima che il fidanzato attaccasse con deliziati commenti triti e ritriti sul libro.

“Opere” borbottò stancamente, accendendosi una sigaretta con aria scocciata.

“Ok: ti ordino di spegnere quella sigaretta e di non fumare più” disse la ragazza. Lui la guardò con tanto di occhi, accorgendosi di essere stato fregato e sentendo le risate trattenute di Fuka e Sana. Con un gesto stizzito schiacciò la sigaretta dentro il posacenere e sbuffò.

“Quindi tocca a me?” borbottò. Si guardò intorno; era difficile scegliere a chi porre la domanda, anche se lui avrebbe preferito non giocare. Aveva deciso di collaborare da quando, l’ultima volta che avevano giocato, lui non aveva fatto praticamente niente che gli venisse imposto di fare e la partita era durata ore solo per il gusto di fargli raggiungere il traguardo. Quella volta, bisognava fare trenta punti. “Tsuyoshi” chiamò poi. “Pensieri quella-roba-lì”.

“Pensieri” fu la risposta. Si stava divertendo da matti. Akito poteva quasi leggergli in faccia quello che avrebbe voluto sentirsi chiedere: naturalmente roba su quel benedetto libro, che era bello ma non l’aveva entusiasmato più di tanto.

“Hai mai fatto pensieri su altre ragazze al lavoro?” chiese, non senza un punta di malignità. La tavolata cadde nel silenzio, mentre Tsuyoshi rimaneva basito dalla domanda. La prima regola del gioco era l’assoluta onestà, pena un punto. Il ragazzo scosse la testa.

“No, io non ho occhi che per la mia Aya” rispose, cingendole le spalle con un braccio. Seppe dissimulare bene le fantasie che si era fatto un paio di volte sulla terza abbondante della sua collega. Akito gli piantò gli occhi addosso, dandogli la sgradevole sensazione di aver mangiato la foglia, ma non disse nulla e, con un cenno distratto, lo intimò di porre la sua domanda.

“Fuka” chiamò lui. La ragazza scelse parole. “Snocciolaci a memoria gli esami passati ed il punteggio” disse. Se avesse fatto una domanda del genere a Sana, indubbiamente sarebbe stato più divertente: Fuka recitò i suoi successi accademici come se li avesse studiati in precedenza, concludendo con la media del libretto, tra le più alte del suo corso. Tsuyoshi appariva contrariato.

“Sana” chiamò la ragazza, rivolgendo la sua attenzione sul lavoro. Lei scelse omissioni. “Avresti recitato ancora assieme a Naotzumi?”. Lei non poté evitare di avere un flash di quando la notizia che lei usciva con il giovane attore era di dominio pubblico, accompagnata da un intorpidimento alla caviglia che si era presa la bastonata dalla fan gelosa.

“Probabilmente si” disse, con un sorriso largo quanto finto. “Ma non in Chains”.

“Cosa?!!” esclamò Tsuyoshi. “Tu sei la Leila perfetta!”. Risero tutti. Ecco, quel gioco serviva a quello: a ritrovarsi tutti e cinque attorno ad un tavolo e, con qualche scusa, ricominciare a ridere tutti insieme per le scemenze che venivano fuori, come se non fosse mai successo nulla, come se tutti loro andassero ancora alle medie.

Quindi ora toccava a lei; sapeva perfettamente quale domanda fare a chi, ma dopo una fugace occhiata ad Akito, seduto dall’altra parte del tavolo, chiese ad Aya l’album più bello dei Evanescence.

“Ma Fallen, naturalmente” fu la risposta. Fuka la guardò sconvolta.

“The Open Door!” esclamò, come se l’amica avesse appena detto un incredibile strafalcione. Aya le restituì uno sguardo altrettanto provato.

“Stai scherzando spero…!” disse. “Trovami una canzone al pari con Bring Me To Life”.

“Lacrymosa” rispose all’istante l’amica. “La combinazione con la Requiem di Mozart è poetica!”. Akito sbuffò, poi prese la parola senza tante cerimonie.

“Kurata” chiamò. “Pensieri opere parole omissioni”.

Che?

Le due ragazze, dimentiche della loro discussione, lanciarono al ragazzo un’occhiata stupita, senza tuttavia ricevere attenzione: gli occhi gialli erano fermi su Sana, pacati e gelidi come sempre. Lei, dal canto suo, sentiva un miscuglio di emozioni che non era in grado di etichettare sotto un'unica parola.

Le rivolgeva la parola? Da quando? E da quando la chiamava per cognome? Aveva cominciato a giocare a quel gioco: cosa le avrebbe chiesto? Non trovò la forza di aprire la bocca: si prese quei cinque secondi per deglutire e scacciare la sgradevole sensazione della pizza che le tornava su, poi con voce tremante scelse parole.

“Perché vieni sotto casa mia tutte le sere, indipendentemente dal tempo e dall’ora?” fu la domanda. Boom. Affondata. Game over. Sentì su di lei gli sguardi incuriositi degli amici: sguardo sorpresi ed incuriositi, che senza emettere un fiato le urlavano una sola, singola parola, ma difficile, difficilissima anche solo a capirla.

Perché?

Cosa doveva rispondere a quel punto? La verità? Sì, il gioco glielo imponeva, ma era un gioco: perdere ad un gioco era una cosa normale, faceva parte del divertimento. Il fattaccio era che c’era anche qualcos’altro che le diceva di rispondere onestamente, una cosa di gran lunga più importante delle regole di un gioco inventato tra amici per passare in allegria una serata diversa dalle altre. Una cosa in cui perdere non era divertente come ad uno stupido gioco. Quindi cosa doveva rispondere? Prese un bel respiro e lanciò uno sguardo deciso, quasi sfrontato negli occhi del suo ex.

“Perché ti amo ancora” fu la risposta.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


5.

Al tavolo fu silenzio per pochi, eterni secondi; l’aria era pregna di domande e punti oscuri ed il calore che Sana sentiva al volto stava raggiungendo temperature quasi insostenibili. Si costrinse a guardare Akito negli occhi, che non avevano cambiato espressione, evidentemente convinto che le spettassero dei punti in meno. Quando tuttavia il silenzio cominciò a diventare sospettoso, aggrottò un sopracciglio.

Gesù! Aggrottare un sopracciglio: il massimo della reazione che una persona poteva aspettarsi.

Quel sopracciglio aggrottato poteva voler dire tutto o nulla. Gli occhi di Aya, Tsuyoshi e Fuka andavano da Akito a Sana, da Sana ad Akito, in attesa: ci mancavano solo i pop corn e poi era uno scenario perfetto. Senza dire una parola di più, Akito si alzò, prese la giacca e lasciò la stanza.

La ragazza rimase disorientata: certo, non si era aspettata abbracci, baci improvvisi o risposte con voce dolce (quelle poi…nemmeno da fidanzati), ma nemmeno che lasciasse la casa dell’amico. Tsuyoshi si alzò in fretta.

“Akito, dove vai?” chiese, ma il tonfo della porta d’ingresso rispose per lui. Aya batté un braccio di Sana.

“Vai!” esclamò. “Vagli dietro!”. Il suggerimento arrivò sordo, confuso, come se avesse attraversato il vociare di un mercato; la sua confessione, lo sguardo di Akito, la sua reazione, troppe cose in una volta. Sana si alzò perché il suo corpo lo fece.

Scese le scale del condominio quasi in caduta libera. Arrivata al pianerottolo si sporse pericolosamente oltre il corrimano e lo vide camminare verso la macchina: il passo era tranquillo, le mani in tasca e il fumo della sigaretta si mimetizzava con la condensa del fiato. Urlò il suo nome, ma lui non diede segno di averlo sentito. Si volse e fece le ultime rampe di scale saltandole. Scivolò sul marciapiede, ma si rialzò subito, ripromettendosi di lamentarsi per la botta dopo. Raggiunse rapidamente il ragazzo e lo prese per la manica.

“Akito, scusami!” esclamò. Il ragazzo si volse. “Non volevo dirlo, davvero!”. Lui non rispose: si limitò a fissarla con quegli occhi penetranti. “È solo che…io non….”.

“È vero?” chiese lui. La ragazza mise le mani avanti.

“No…cioè…non lo so…” rispose. Si prese la testa tra le mani. “Non lo so! Sono così confusa…”. Aprì gli occhi e guardò il ragazzo: le aveva voltato le spalle e se ne stava andando. Lo fermò di nuovo.

“Aspetta: fammi spiegare!” esclamò lei. Akito le ripeté la domanda, con voce ancora più glaciale. Sana non sapeva più che pesci pigliare e balbettò qualcosa di incoerente che non scalfì il ragazzo.

“Allora, Kurata” incalzò. “È vero o no?”.

“Si che è vero!” urlò infine. Il ragazzo non cambiò espressione.

“Sei ancora innamorata di me?” commentò. “Proprio tu che mi hai lasciato? Cos’è, non hai trovato nulla di meglio?”. Quelle parole la lasciarono sconvolta.

“Cosa?” mormorò. “Che stai dicendo?”. Non aveva un vero bisogno di chiederlo: ci arrivava da sola a quello che voleva dire. La rabbia, la vergogna, la paura, tutto questo insieme la fecero cedere. Chiuse gli occhi e si sentì leggera, tranquilla, come se non ci fosse più nulla che la potesse ferire.

Sola con sé stessa, non riuscì a non pensare alle parole di Akito, così crudeli ma così legittime, così dannatamente ragionevoli da farle ammettere che aveva ragione: davvero lo stava usando come rimpiazzo in attesa della prossima storia d’amore?

Presa dalla sua estasi mise quel sospetto che stava diventando troppo rapidamente una consapevolezza da parte. Andrà tutto bene, diceva il preside: per lei non potevano esserci parole più sacrosante in quel momento.

Quando tornò con la mente lucida, quando riprese il controllo del suo corpo, lo trovò nudo sotto delle coperte non sue. Un pallido sole invernale faceva capolino da una finestra non sua e irradiava, attraverso delle tende non sue, una stanza non sua. Tutto quello che seppe fare fu alzare la testa e guardarsi intorno con aria smarrita, mentre sentiva la testa riempirsi di punti interrogativi che, a conti fatti, potevano essere riassunti tutti sotto una sola, semplice domanda dalla risposta potenzialmente tragica.

Cosa è successo?

Riconobbe il vestito che indossava la sera della pizzata con Tsuyoshi e gli altri, anche se non era del tutto sicura di quanto tempo fosse passato. Una delle sue scarpe era sul comodino, l’altra al centro della stanza, le mutandine appese alla testata del letto, il reggiseno era impiccato alla maniglia della finestra, in precario equilibrio e, orrore, una camicia bianca buttata a cavallo di una sedia, disordinata come se ci fosse capitata per caso.

Riconobbe la camicia un attimo prima di voltarsi verso la porta, aperta su una cucina da cui proveniva un odore di caffè invitante anche per lei che lo odiava. Pregò che non fosse come sembrava finché non entrò nella camera Akito, vestito unicamente di un paio di boxer e di una canottiera; a quella vista, si mise a pregare di star sognando.

“Oh…” borbottò lui. Lo sguardo era fermo, la voce statica, ma almeno non era fredda. Sana si tirò il lenzuolo fin sotto il mento, facendosi piccola e sentendo la sua pelle nuda.

“Ok…credo di essermi persa…” mormorò. “Che cosa…”. Il ragazzo la anticipò sedendosi sul bordo del letto. Sana  ebbe un brivido solamente a guardare quel gesto.

“Mi sei saltata addosso e mi hai baciato” disse lui, addentando un toast e porgendone uno alla ragazza, che lo prese, senza degnarlo di uno sguardo. “Hai cominciato a parlare a raffica di cose strane, come il fatto che non eri in te, che per te sono come l’aria per respirare, che faresti qualsiasi cosa pur di stare con me”. S’interruppe. Sana, continuando imperterrita a pregare che non fosse come sembrava, lo invitò a continuare con voce tremante.

“Perché sono nuda?” chiese. Lui la guardava con sguardo penetrante.

“Perché stanotte mi hai dimostrato le tue parole” fu la risposta. Ecco fatto, poteva anche smettere di pregare. Davanti al suo sguardo attonito e perso, fece un sorriso identificabile solo da lei. da bambina l’avrebbe descritto come un sorriso vagamente “tsk”. “Pensieri opere parole omissioni, Kurata”.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


6.



I sentimenti contrastanti la stavano dividendo in due. Quel sorriso, ad esempio: aveva più voglia di cancellarlo con un ceffone o coprirlo con un bacio? In quel momento voleva scappare o accoccolarsi contro di lui? E quella leggera tensione, quel torpore, quel lieve indolenzimento che sentiva al basso ventre era fastidioso o piacevole?

Le era piaciuto o no?

Era stato un errore o una cosa che avrebbe rifatto cento volte?

Sana la Ragazzina si sarebbe sfogata con una canzone, ma in quel momento non aveva nessuna voglia di cantare, e anche se fosse stato, non avrebbe proprio saputo cosa dire. Tutta la confusione che aveva in testa la fece rimanere immobile, con uno sguardo ebete fisso sul ragazzo, che si grattava la testa, sorseggiando il suo caffè e guardando fuori dalla finestra. Sana aveva adorato quei momenti: quando lui si faceva il caffè e lo sorseggiava lentamente, gustandoselo in quel modo che gli apparteneva e guardando fuori dalla finestra con migliaia di pensieri dietro quegli occhi inespressivi.

In quel momento si scoprì ad ammirare quel corpo, reso tonico dal karate, e sentirlo suo.

Sentì che nulla era cambiato, che stavano ancora insieme, che si sarebbe seduto accanto a lei sul letto, allungandole una brioche alla marmellata e chiedendole, con un tono sconsolato abilmente coperto dal gelo della sua voce, a che ora avesse lezione. Sentì sé stessa ridere ed invitarlo a chiederle chiaramente quando si sarebbero rivisti di nuovo, premendogli un dito contro il naso.

Quando il ragazzo si volse verso di lei, si sentì in trappola, quasi in pericolo. Sentì l’urgenza di uscire da quell’appartamento. Fregandosene della sua nudità, si alzò e recuperò le mutande ed il reggiseno. Fece per voltarsi, ma si trovò davanti la figura di Akito.

Solo l’ombra le sembrò immensa. S’immobilizzò, quasi spaventata, mentre i suoi occhi color nocciola la passavano da parte a parte.

“Te ne vai?” chiese. Non cercò nemmeno di leggere tra le righe. Non lesse.

“Sì…” rispose. “Ho lezione stamattina”.

Il ragazzo finse di non sapere che giorno fosse e non aggiunse altro; si volse e si vestì anche lui. Sana, guardandolo, si ricordò che doveva scappare da lì e ricominciò a vestirsi in tutta fretta. Fu quando si avvicinò alla porta litigando con il copri spalle che intuì.

Era sempre stato il loro talento, il motivo per cui tutti dicevano, scherzando, che erano fatti per stare insieme. Lei era negata a mentire e lui era un maestro a smascherarla. Si sentì talmente in imbarazzo che prese la porta senza nemmeno voltarsi indietro.

Akito, rimasto solo, riuscì a tirare quel sospiro sconfortato che aveva represso per tutta la mattina. Rimasto solo, rinunciò ad annodarsi la cravatta, chiedendosi nel contempo perché diavolo se la stesse mettendo, ed andò in cucina.
E fu sempre rimasto solo che lanciò uno sguardo al tavolo, dove troneggiava una caraffa di succo di mela, una tazza di latte che ancora fumava ed un piatto con tre brioche alla marmellata di ciliegia. Riuscì ad ingurgitare a forza la colazione destinata a lei, ma i dolci non riuscì proprio a buttarli giù.

Lui odiava la marmellata di ciliegia.

Pensando, ripetendo, ribadendo a sé stesso quanto fosse imbecille, li gettò nell’immondizia, chiedendosi cosa mai poteva aspettarsi da una che l’aveva lasciato con l’unica colpa di averla difesa.

 
Sana entrò in casa e lanciò la borsa e le chiavi senza nemmeno guardare in che direzione. Si fiondò in bagno e si guardò allo specchio: era da almeno un isolato che se lo stava ripetendo e fu il momento di dirlo a voce alta.

“Sono andata a letto con Akito…” mormorò. Si lasciò sfuggire un imprecazione decisamente non da fumetto per ragazze: e adesso? La sconvolgeva di più il fatto che era andata a letto con il suo ex, ma si spaventò rendendosi conto che le era piaciuto e che l’avrebbe rifatto anche in quel momento. Si mise le mani nei capelli: perché era scappata?

Sentì il bisogno di dirlo a qualcuno e prese il cellulare, incapace di pensare a qualunque cosa che non fosse Akito. Si diede nuovamente della cretina quando dall’altra parte del telefonino rispose la voce calda ma giovanile di Naozumi.

“Pronto?” chiamò. “Sana, sei tu?”.

“Ehm…ciao Naozumi” salutò timidamente. I due si erano frequentati per un breve periodo, se si può usare una parola così adulta per due ragazzini di undici anni, prima che lei si riscoprisse innamorata di Akito. Erano rimasti in ottimi rapporti anche dopo il suo abbandono del mondo dello spettacolo: era stata l’ultima volta che si erano visti, se ben ricordava, che le aveva presentato la sua fidanzata, una bella moretta di origini messicane, la cui bellezza era riuscita a far spalancare gli occhi persino ad Akito.

“Ciao Sana” disse: poteva sentire la gioia nella voce. “Ma sai di star chiamando in Canada?”.

“Si, ma…” disse, ma lui la interruppe.

“Senti, tra due ore prendo l’aereo: la registrazione del film si sposta in Giappone per ragioni di ambientazioni o che so io. Se vuoi, stasera ci troviamo per una cena: porta anche Akito, mi farebbe piacere rivederlo”.

“Io e Akito ci siamo lasciati una decina di mesi fa…” disse. “Comunque va bene, ma ti devo parlare; in privato, se possibile. E mi devi giurare su quanto hai di più caro che non ti farai scappare nulla con nessuno”.

“Va bene, come vuoi” rispose lui. La gioia nella voce era stata rimpiazzata con la perplessità. Si salutarono ed il telefono tornò silenzioso.

“Aspetta…” mormorò. “Ho appena chiamato in Canada per confidare ad un mio vecchio spasimante che sono andata a letto con il mio ex”. Voleva dire, in poche parole, che il suo buon senso, la sua dignità ed il suo credito sul cellulare erano andati tutti insieme a farsi friggere.

Non poté che imprecare nuovamente, e questa volta non si prese nemmeno il disturbo di coprirsi la bocca.

 
Non aveva molta voglia di andare fuori a mangiare per la seconda cena di fila, ma prese la porta e si diresse all’aeroporto quasi senza pensarci. Si sentì assalire dalla malinconia quando vide Naozumi comparire da quella stessa porta da cui era comparso Akito con la mano nuovamente funzionante; subito dopo si colpì forte la testa, imponendo a sé stessa di smettere di pensarlo.

“Bel colpo…” salutò il ragazzo, con un sorriso di circostanza. “Ho mandato Sabina in albergo, ma non ho fatto in tempo a prenotare da nessuna parte…”. Sana scosse con noncuranza una mano e lo trascinò fuori dal terminal. Lo caricò senza tanti complimenti su un taxi e, salita anche lei, ordinò all’uomo alla guida di guidare fino alla pizzeria dietro casa sua.

“Allora, come vanno le riprese?” chiese, cercando di calmarsi davanti alla sua pizza: gli eventi di quella mattina le avevano chiuso lo stomaco, così si era accontentata di una misera funghi e prosciutto con rinforzo di mozzarella ed aggiunta di rucola, gamberetti e olive.

“Siamo a buon punto” rispose il ragazzo. Sapeva che non era di quello che voleva parlare, ma resse il gioco. “L’opera è veramente molto bella: io faccio Kain, l’inflessibile ispettore disciplinare armato di spada semitrasparente. È una figata fare quel personaggio”.

“Beh, diciamo che ti va abbastanza bene” commentò la ragazza. “Alla fine gli viene solo strappato un dito, no?”. Lui annuì.

“E tu? Che mi racconti?” chiese.

“Sono andata a letto con Akito” rispose lei. Ops. A Naozumi andò di traverso il boccone di pizza e, quando si fu calmato, Sana non seppe capire se fosse così rosso per la sorpresa o per il morso nel buco sbagliato.

“Ma non vi eravate lasciati?” chiese lui. Sana annuì.

“Sì, ma ieri sera siamo finiti a letto insieme” disse. “Non so com’è potuto succedere: improvvisamente mi sono sentita…ma non lo so nemmeno io come mi sono sentita!”.

“Ti ha costretto?” chiese lui. Lei si affrettò a negare.

“No, nella maniera più assoluta!” rispose. “Figurati: non mi ha toccato per tutta la sera, a malapena mi guardava, mi ha chiamata per cognome tutto il tempo…”. Calde lacrime fecero la loro comparsa, ma lei non se ne accorse subito.
“E poi…non credo che lui si aspettasse una cosa del genere…insomma, quando ha avuto la parvenza che io fossi ancora innamorata di lui se n’è andato…”.

“Ma tu lo ami ancora?” chiese il ragazzo. Sana si passò il tovagliolo sul viso: fortuna che non se era truccata.

“Non lo so, credo di si…” rispose.

Il campanello sulla porta d’ingresso, inspiegabilmente attirò la sua attenzione. Lo sentì come il suono più importante del mondo, un suono da cui dipendeva il destino dell’umanità, l’esistenza dell’universo o chissà che. Si volse verso la porta d’ingresso e la prima cosa che vide furono i capelli castani, poi gli occhi nocciola, aperti in uno sguardo perennemente inespressivo, infine quel colletto aperto che, mamma mia, la fece immediatamente viaggiare fino a quella mattina.

I loro occhi s’incontrarono e lei si dimenticò di essere con Naozumi finché lui non si volse ed uscì, lasciando spiazzato il cameriere che lo stava accompagnando ad un tavolo singolo. Aveva visto ed aveva frainteso.

Ovviamente.

“Vagli dietro!” esclamò Naozumi, guardandola con tanto di occhi, quasi a chiederle se doveva essere lui a dirle una cosa così ovvia. Lei, tuttavia, scosse la testa.

“No” rispose. “Non posso…”.

“Ma che stai dicendo?!”  esclamò lui. “Vai! Che fai ancora qui?”.

“Non posso seguirlo” ripeté lei. “Lo amo ancora: non lo posso fare”.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


7.
 
“Lo amo ancora, non lo posso fare?!!” fu il commentò di Naozumi. “È una battuta del copione più stupido che io abbia mai visto”.

“Benvenuto nella mia vita…” fu la funerea risposta. Guardò la sua pizza come se fosse un piatto di broccoli (*) e decise su due piedi che le era passata la fame. Il ragazzo davanti a lei sospirò e si premette la base del naso, chiudendo gli occhi ed invocando la pazienza.

“Che ne dici di raccontarmi quello che è successo?” borbottò infine. “Dall’inizio, possibilmente, e senza fare casino”. Venne accontentato. Sana si era riguardata nella mente la scena di quel giorno fino allo sfinimento e gliela raccontò come se fosse avvenuta il giorno prima.

“Insomma, l’hai mollato perché ti stava difendendo?” concluse lui. La ragazza sospirò.

“Non è che mi dava fastidio che mi difendesse” disse. “Anzi, mi piaceva: a quale donna non piace essere difesa. Ma era il suo modo di difendermi: era sempre pronto a menare le mani e questo non mi piaceva. Insomma, possibile che non riuscisse mai a parlare normalmente?”.

“Ma questo tipo…il ragazzo che voleva venire a letto con te…l’hai più sentito?” chiese.

“Ho disattivato il numero pochi giorni dopo” rispose. “Ma in quei giorni no, nessuno ha più chiamato”. Naozumi annuì, ma decise che, per il momento, di lasciar cadere il discorso.

“Ma se con lui stavi così male, perché ti sei di nuovo innamorata?” chiese. Lei scosse ancora la testa.

“Non stavo male con lui” replicò. “Il fatto è che ogni volta che uscivamo insieme io stavo nell’ansia che potesse attaccar briga con qualcuno. E poi non ho deciso io di innamorarmi nuovamente: è capitato”.

“Ah certo…” borbottò lui. “Ed è stato un caso anche il fatto che ci sei andata a letto?”.

“Senti Naozumi, non lo so, va bene?” esplose infine la ragazza. Alcune persone lanciarono occhiate incuriosite al loro tavolo, incuriosite da quella che ai loro occhi era la lite di una coppietta. Qualcuno riconobbe l’attore e, pochi minuti dopo correvano attraverso un piccolo parco per sfuggire alle fan impazzite, che ad una prima impressione avrebbero ucciso per una foto autografata con lui.

“Come diavolo fanno a sapere che io sono Kain?!?” sbottò, cercando di riprendere fiato. Sana si appoggiò al tronco accanto a lei, ignorando la gelida sensazione di umido che le arrossò il palmo della mano.

“Sapevi che esiste Internet?” replicò lei, ironica. “La gente, normalmente, ci scrive i pettegolezzi. A proposito, che scena dovete girare qui in Giappone?”.

“È stata montata l’ambientazione di villa Speranza” spiegò. “È la casa dell’eroe, dove lui e la Strega si rifugiano per scappare dai loro amici che vogliono…”.

“Sì, lo so” interruppe lei. “Ho letto quel libro. Sinceramente non capisco perché sono tutti fissati: è bello, ma non è nulla di speciale…”.

“Beh, onestamente nemmeno io ho capito perché è diventato così popolare” rispose. “Comunque non sono domande che mi faccio: a me va più che bene essere uno degli attori protagonisti”.

L’argomento principale divenne il film di Naozumi. Le raccontò tutto, dalla scenografia alla scelta degli attori, ai provini al primo ciak, e Sana scoprì che parlando del cinema e del teatro riusciva a non pensare a nulla se non a quello di cui stavano parlando. Non si accorse nemmeno di essere arrivata sotto casa.

“Beh, Naozumi” disse, in tono conclusivo. “Grazie della serata: mi ha fatto molto bene chiacchierare con te”. Lui
sorrise.

“Ma figurati: dobbiamo farlo più spesso” disse. “Anche se in una pizzeria diversa”.

“Perché?”.

“Non te ne sei accorta?” chiese lui, ridendo come un matto. “Siamo stati assaliti dalle fan e siamo scappati senza pagare”. L’ilarità della notizia colpì anche lei: rientrò in casa e chiuse la porta che aveva il mal di pancia a furia di ridere.

Quando si fu calmata, il suo corpo si mosse, come guidato da una forza sconosciuta. Andò alla finestra e guardò fuori.

Ed eccolo lì.

Era appoggiato contro il palo della luce davanti casa sua, imbacuccato in un pesante cappotto nero e con un cappello paraorecchie a proteggergli la testa dal gelo. Quasi a sentire lo sguardo su di lui, alzò gli occhi e la guardò, paralizzandola in quel modo che solo lui riusciva, fin da bambini.

Quasi non si rese conto di aprire la porta e fargli cenno di entrare, ma lui era già sulla soglia ed entrò senza farsi particolari problemi.

“Ciao…” mormorò timidamente.

“Sei uscita con quel tipo” rispose lui. Non era una domanda.

“Siamo andati a mangiare una pizza” disse lei.

“È stata una tua idea?” chiese. “O sua?”. Lei non rispose: di chi era stata l’idea? Boh, non se lo ricordava: quegli occhi le avevano cancellato dalla testa qualunque cosa che non riguardasse Akito.

“Che ti serve saperlo?” chiese. “Non devo certamente rendere conto a te di quello che faccio”.

“Se è per questo non dovevi certamente venire a letto con me la scorsa notte” replicò lui. “O te ne sei pentita?”.

“Certo che me ne sono pentita!” esclamò lei. “Se c’è una cosa che non sopporto di te è questa tua dannata aria da so-tutto-io”.

“E se c’è una cosa che non sopporto di te è la tua maledetta mania di parlare e agire prima di pensare!” ribatté lui.
Quella che seguì fu un cliché degno di una commedia romantica. Si guardarono in cagnesco per qualche secondo, poi si gettarono tra le braccia dell’altro, avvinghiati in un bacio appassionato e senza freni né inibizioni.

“Tu sei mia, capito?” ringhiò lui, preda della passione e del desiderio.

“Io sono tua…” ripeté lei, ansimando per l’improvviso caldo che sentiva in quella stanza.

Non servì a nulla spostarsi nella camera da letto e nemmeno togliersi i vestiti e l’intimo: faceva comunque troppo caldo in quella casa. L’unica cosa che lo fece sentire sollevato fu il fresco pulito delle coperte su cui fu sospinto dalla ragazza, che subito dopo si tolse il reggiseno quasi con foga. Si getto su di lui e tornò a regnare il caldo nella stanza, un caldo tuttavia che gli trasmetteva una piacevole sensazione di appartenenza.

Aveva provato quella stessa sensazione quando era tornato in Giappone dopo due anni passati in America. Era tornato a casa.

Si sentiva a casa.

Lo fecero per tutta la notte: tra abbracci, baci, carezze, morsi e gemiti, Akito si sentì a casa, ma non glielo disse. Non si dissero una parola, lasciarono parlare i fatti: ciò che sentivano non si poteva esprimere se non con il sesso. Ed il sesso era fatti, non parole.

Quando si accasciarono sulle coperte stropicciate e fredde di sudore ed umori, non si accorsero nemmeno che la neve stava annunciando ufficialmente l’inizio del giorno più corto dell’anno.



(*) per esempio, a me i broccoli non piacciono XP

NOTA DELL’AUTORE
Per cui eccoci qui. Questa è una storia abbastanza travagliata ma mi ha lasciato piacevolmente sorpreso che anche a distanza di mesi (forse anni? Boh, ho perso il conto) la seguite ancora in tanti e soprattutto la apprezzate in tanti. Ho ritagliato questo spazio per augurare a tutti voi, nel caso non riesca a pubblicare un altro capitolo in tempo, un felice Natale. Il felice anno nuovo, tuttavia, ve lo augurerò con il prossimo capitolo ;)
Che altro aggiungere. Ora che la storia sta virando verso la sua conclusione, non mi resta che sperare che voi apprezziate i prossimi capitoli come avete apprezzato quelli “vecchi”. Ancora un buon Natale a tutti quelli che leggeranno queste parole e tutte quelle contenute nel sito.
Leonhard

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


8.

Akito Hayama era sempre stato un bambino, un ragazzo, un uomo senza tante pretese né particolari abilità se non quelle che gli permettevano di vedere sempre l’alba del giorno dopo. Era nato quasi per caso e si era sentito per annoi la sorella che gli buttava sulle spalle la responsabilità della scomparsa della madre.

Lo avevano anche accoltellato! Eh si; un suo compagno lo aveva pugnalato ad un braccio accusandolo di non avergli dato il permesso di mettere il suo nome sulla lista dei migliori amici. Ragazzi, quel tipo non stava bene per nulla…aveva avuto quella che i medici avevano definito un’esperienza post-mortem, e poteva testimoniare che non c’era nessun tunnel dall’altra parte, almeno non per lui.

Per lui c’era una porta e sua madre che faceva attenzione a che nessuno di loro la oltrepassasse prima del giorno stabilito. Aveva anche visto sua mamma; non si ricordava molto bene il suo viso, ma se si sforzava il suono della sua voce gli riempiva ancora la testa, donandogli serenità e quiete.

Ebbene sì, signori: Akito Hayama era un ragazzo che aveva vissuto tanto, forse troppo, e chissà quante ne avrebbe raccontate ai nipoti, se quel giorno fosse mai arrivato. E per sua fortuna avrebbe potuto anche raccontare della sveglia della sua ex fidanzata con cui occasionalmente andava a letto e, credetemi, quest’ultima non è una cosa da poco.

Non ci aveva fatto molto caso la sera precedente, perso com’era nell’invitante profumo della pelle di Sana e nella concentrazione che stava mettendo nell’arrivare al letto per evitare di sollevarla tra le forti braccia, spingerla contro il muro e farla sua lì, che tra l’altro era una cosa che si era ripromesso di fare. La ricordava vagamente, come un sogno: una radiosveglia ordinaria, con l’ora segnata a cifre digitali bianche sopra uno sfondo con un’orchidea bianca e viola.

Giaceva beato nel letto non suo, godendosi nel dormiveglia il tepore del piumone e sentendosi in pace con il mondo intero. Alle otto in punto i Turisas squarciarono il silenzio con Stand Up and Fight (*) e strapparono Akito dal suo mondo di quiete per metterlo davanti al serio rischio di un infarto. Scattò a sedere all’istante, con il cuore che batteva talmente forte da poterlo sentire assieme a Tude Lehtonen, che in quel momento stava pestando alla batteria come se non avesse un domani. Volse uno sguardo assassino prima a quella che fino alla sera prima era una radiosveglia innocua e poco importante e poi a Sana, che si stava stirando placidamente.

“Buongiorno” disse, sovrastando l’apparecchio che diffondeva il suo chiassoso Folk Metal.

“Tu sei malata…” ringhiò lui in risposta.

“Ah è per la sveglia?” chiese, spegnendola e facendo tornare a regnare il silenzio. Akito sentiva ancora il delay della chitarra e pensò che in altre circostanze quel brano gli sarebbe anche piaciuto. “Mi da’ la carica di affrontare la giornata; non è la musica, sono le parole”.

“…molto malata…” replicò lui, sorvolando sul fatto che la sua esordiva con Hysteria  dei Muse(**). Si sdraiò nuovamente, aspettandosi che lei facesse altrettanto e rimase vagamente deluso quando la vide alzarsi dal letto.

“Accidenti, io stamattina ho lezione…” mormorò, gettandosi sulle spalle la vestaglia. La ragazza, senza aspettare un richiamo che tanto non sarebbe arrivato, uscì dalla camera da letto di corsa. Cosa avrebbe dato perché lui la abbracciasse e le sussurrasse all’orecchio di non andare, di rimanere con lui quella mattina e rimettersi a letto.

Aprì la tenda della cucina, facendo entrare la pallida luce del mattino, e tornò nella camera da letto. Lo vide rivestirsi ed ebbe un tuffo al cuore.

“Akito…cosa vuoi per colazione?” chiese. Lui le scoccò un’occhiata interrogativa.

“Sono un po’ lontano dall’università: mangerò qualcosa strada facendo” disse, pensando che quella era una ripicca bella e buona. Lesse la delusione nei suoi occhi e ne godette.

“Ah…” mormorò lei, abbassando lo sguardo. “Pensavo di far colazione insieme…”.

“Scusa, non hai lezione stamattina?” replicò lui, ritorcendo contro di lei la sua scusa per farsi abbracciare.

“Ne avremmo approfittato per parlare…” ritentò lei, ma Akito aveva la risposta anche per questo.

“Parlare di cosa?” chiese. “Di quello che facciamo? Di quello che siamo?”.

“Beh, considerando che è la seconda volta che siamo andati a letto insieme, direi che parlarne sia abbastanza normale” replicò. Lui fece una spalluccia.

“E perché?” chiese ancora. “Per te è così importante avere un’etichetta?”.

“Come scusa?”.

“Andiamo a letto insieme e stiamo bene nel farlo” analizzò il ragazzo, abbottonandosi i polsini della camicia. “E non ci facciamo molte domande quando capita: perché farcele una volta finito tutto? Io faccio quello che mi fa star bene”.

“E questo ti fa star bene?” chiese lei, con quella voce.

Già, quella voce.

L’unica cosa di Sana in grado di fargli veramente paura. Quella voce ferma, bassa, del tutto inespressiva, che gli ricordava la fuga in quel parco divertimenti che in quel momento gli sfuggiva il nome. La malattia della bambola; quanto tempo aveva dovuto far passare prima di accettare il fatto che, se quella malattia era reale, allora per il suo caso non esisteva più cura alcuna?

Decise di ignorare il lungo, sgradevole brivido gelido che quella voce gli regalò e si concentrò su sé stesso, su quello che sentiva.

“Non lo farei se mi facesse star male” mentì.

Non erano passati nemmeno dieci minuti dall’inizio della giornata ed aveva appena detto alla donna che amava che il loro essere scopamici gli stava bene. Quando sentì il “capisco” stentoreo di Sana capì qualcosa anche lui.

Non sarebbe più tornato indietro.

Il viso di Sana fu pervaso da un sorriso largo quanto falso, talmente falso che Akito si sentì infastidito nel vederlo: avrebbe preferito un ceffone a quella vista.

“Beh, del resto è meglio così no?” disse. “Tu non vuoi rimetterti con me ed anche tu probabilmente saresti lo stesso fidanzato ingestibile. Faremo quello che ci fa star bene e smetteremo quando ognuno di noi troverà la persona giusta”. Lui annuì, senza staccare gli occhi dal suo…chiamiamolo sorriso.

Uscendo dalla porta, ebbe la tentazione di baciarla, ma gesti come quello appartenevano ad un mondo passato, un mondo che gli aveva regalato una sofferenza che lui ancora temeva troppo. Sentiva il suo cuore sanguinare e la sua mente dirgli che era meglio che lo facesse; non era fatto per soffrire in quel modo. Tirò dritto e la salutò, ascoltando il suo saluto allegro.

Uscito che fu dal cancelletto della casa, si guardò intorno; l’aria era fredda e la condensa d’aria che usciva dalla sua bocca si raddensava in fugaci nuvolette che subito scomparivano. Pescò una sigaretta dal taschino e la accese: con la complicità del tabacco, quelle nuvolette erano meno timide e più prolungate, ma il sapore era diverso. Volse l’angolo e si appoggiò al muretto, fumandosi addosso per coprire l’odore di sesso ed il profumo di lei, così intriso nei suoi vestiti da provocargli una fitta di dolore ad ogni respiro.

Gettò il mozzicone quando puzzò di nicotina come voleva lui. Senza un apparente motivo e senza prendersi la briga di tentare di trovarne uno, si mise a correre verso casa.
 

Sana era appoggiata contro la porta. Ascoltò i suoi passi fuori dal vialetto finché non sentì il cancello chiudersi. Niente relazioni o legami, solo rapporti: una scopata ogni tanto e poi tante grazie ed arrivederci. Ma era veramente questo che voleva? Era caduta così in basso da accettare un simile compromesso? Ed anche quella proposta: non era assolutamente da Akito proporre soluzioni del genere. Si chiese per la prima volta se fosse mai stata una buona fidanzata. Incapace di non pensarci, perse qualche istante a ringraziare di non aver lezione e si rimise a letto.

Le lenzuola erano ormai fredde, ma c’era ancora la forma del suo corpo tra le pieghe del letto. Non seppe che fare, né a chi chiedere consiglio. Tutto quello che sapeva era che era diventata la scopamica del suo ex, una che va a letto con un ragazzo finché uno dei due non trova di meglio.

Non sapendo più cosa pensare, fece ciò che ogni ragazza come lei fa in situazioni del genere: affondò il volto nel cuscino e lavò via la sensazione dei baci sulle sue labbra con calde e salate lacrime, indecisa se vergognarsi o meno del piacere che ancora le dava quel piacevole caldo in mezzo alle gambe e dentro il suo ventre.
 


(* fidatevi: un’esperienza così è terribile…)
(**anche questa…)

 
NOTA DELL’AUTORE

È strano raccontare cose del genere, ho sempre la sensazione di non riuscire a render bene l’idea: fatemi sapere cosa ne pensate. E così, a tre o quattro uscite dalla fine, siamo arrivati ad un nuovo anno. Ci tenevo a farvi gli auguri ed a ringraziarvi per il supporto che mettete nelle recensioni che lasciate.

Spero di continuare a soddisfarvi con belle storie anche il prossimo anno (beh, magari evitando di far passare troppo tra un aggiornamento e l’altro). Ci leggiamo presto ed intanto auguro di nuovo a tutti voi un buon anno.

Leonhard

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


9.


Con Akito il sesso era sempre stato…beh, particolare. Come può essere il sesso con una persona dai modi un po’ bruschi ma convinta di star maneggiando fragile cristallo; come può essere il sesso con una persona che già da giovanissima sapeva cosa fosse e come funzionasse. Il demonio dei baci, lo chiamava alle elementari: un’età in cui l’idea di un bacio faceva morire dal ridere o provare disgusto per via della saliva.

Ma quale demonio, era dannatamente bravo ed il sesso prendeva quella punta di piccante proprio perché era proibito. Le coperte erano più calde, le braccia più forti, le posizioni più spinte e gli orgasmi più intensi: questo era il sesso proibito.

Sana ricordava quel trasporto di quando stavano insieme; quando riuscivano con qualche imbroglio con i genitori a dormire insieme, nel grande letto di lei. Il loro era un continuo gioco a cercarsi, dapprima inesperto poi sempre più intraprendente, più sfacciato.

La ripresa dei rapporti con il suo ex fece riprendere alla ragazza la pillola, in modo da poterlo fare anche in momenti e luoghi più disparati: una sveltina prima di andare all’università, magari in una piazzola dell’autostrada oppure nei bagni dei grandi ipermercati. Il sesso era fantastico e non capiva come aveva potuto in tutto quel tempo non pensare a come si sentiva tra le braccia calde di Akito.

Lui dal canto suo era caldo e passionale e sfrontato quanto bastava per farla impazzire. Non avrebbero confessato mai il vuoto che sentivano, che nessun rapporto in nessun luogo ed in nessun momento riusciva a far sparire.

Fino a quando ognuno non troverà la persona giusta.

Sana aveva tante volte scosso la testa ed altrettante volte si era chiesta come fosse possibile. Chi trova la persona giusta a dodici anni?

“Nessuno trova la persona giusta a dodici anni” rispose Naozumi, lapidario come suo solito. “Ma voi due state così bene insieme che siete l’errore più bello che mi sia mai capitato di vedere”. Sana scosse la testa: non aveva proprio nessuna voglia di scherzare.

“Io sento di aver trovato la persona giusta” ripeté ancora, dominando la leggera nausea che sentiva, leggera ma presente. “Sono due mesi che andiamo avanti così, Nao. Io non ce la faccio più, ho bisogno di sapere cosa vuole per me…per noi”. Termine improprio quello, se si considerava il fatto che tra di loro non c’era nessun noi. Naozumi le risparmiò la notizia, in un atto di clemenza.

“Guarda, se hai tutti questi problemi, parlagliene e vedi cosa succede” disse. Lei scrollò le spalle.

“Cosa vuoi che succeda?” commentò. “Mi lascerà andare ed io non voglio questo”.

“Secondo me ti stai facendo troppi problemi” commentò il ragazzo. “Senti te la butto lì; una delle nostre attrici ha reciso il contratto perché non le piaceva la parte. Ti piacerebbe tornare davanti alla cinepresa? Potrebbe essere un buon modo per distrarti”. Aveva cambiato discorso liquidando il precedente con poche parole. Sana stette al gioco solo per vedere se effettivamente riusciva a farle pensare ad altro.

“Ha reciso il contratto? Perché?” chiese. Il ragazzo fece una spalluccia e sorseggiò le ultime gocce della sua bibita, facendo gorgogliare la cannuccia sul fondo del bicchiere.

“Hai letto il libro no?” chiese lui. “Beh ha fatto storie per i vestiti scenici del personaggio di Tila”.

“Tutto qui?” commentò lei. “Ma è un personaggio che appare per pochissimo!”.

“Sì, ma lei è una famosa attrice, che ha lavorato con i migliori registi e non può certo mettersi addosso uno straccio come quello…sai come sono fatte…”. La gestualità della risposta, enfatizzata per dare un tono ridicolo alla persona in questione ebbe su Sana l’effetto sperato e scoppiò a ridere.

“Posso pensarci…” disse. Massì: perché non riprovarci? Anche ricoprire un ruolo secondario poteva andar bene per non pensare.
 

“Sai…voglio riprendere a recitare” disse soprappensiero. Erano stretti l’uno con l’altro nella penombra della sera con null’altro che la coperta a nascondere al mondo la loro nudità. Akito volse verso di lei uno sguardo fermo.
“Davvero?” commentò. “E dove reciterai?”.

“Naozumi mi ha detto che si è liberato un posto sul set di Chains” disse. il ragazzo aggrottò le sopracciglia.
“…quel tipo?” chiese. Sana sorrise al pensiero che per Akito era sempre stato ‘quel tipo’: difficilmente avrebbe mai usato altri termini per indicarlo. “Vi siete visti?”.

“Sì” annuì. “Abbiamo chiacchierato e mi ha fatto questa proposta. Con le mie esperienze non sarà un problema avere la parte, anche se è marginale”.

“Poi Tsuyoshi lo metti a cuccia tu, però…” commentò. Lei rise: già, l’amico sarebbe impazzito alla notizia.

“Ha detto anche che è un peccato che non reciti” disse. “Ti vedrebbe bene nei panni di Zoe”. Lui aggrottò nuovamente il sopracciglio.

“Zoe?” commentò. “Non è il preside del campus?”. Lei annuì. “Perché?”.

“Per via dell’alone di mistero che lo circonda” spiegò. “È un personaggio ambiguo…”. L’argomento aveva già perso interesse per lui ed il turgore che sentiva contro la natica la informò che aveva altro per la testa del personaggio di un famoso romanzo. Fece scivolare la mano sotto le coperte e lo afferrò.

“Ehi…” sussurrò con voluttà. “Guarda però che Tila non ha un compagno…e nemmeno Zoe ne ha una…”. Lui le baciò il collo, annusando a pieni polmoni l’odore dei suoi capelli e sfiorandole la pelle calda.

“Sono un amante delle coppie improbabili” fu la risposta. Subito dopo fu dentro di lei.

Ed infine arrivò mattina. Sana si svegliò con una sorta di pigrizia che la costrinse a letto. Akito si alzò e preparò la colazione, portandogliela a letto. Lei lo ringraziò, ma alzandosi si accorse di sentire una pesantezza allo stomaco. Il mese precedente aveva saltato il ciclo, ma il ginecologo l’aveva  rassicurata dicendole che era tra gli effetti collaterali della pillola e poteva capitare di saltare un mese. Il test di gravidanza negativo l’aveva rassicurata definitivamente.

“Tutto bene?” chiese Akito, notando la sua repulsione per il cibo. Lei annuì.

“Ho un po’ di nausea” rispose. “Sarà che mi devono arrivare: lo scorso mese l’ho saltato per via della pillola e mi sa che questa volta sarà piuttosto abbondante…”. Lui annuì, ancora mezzo intorpidito dal sonno, e sorseggiò il caffè, mentre Sana, con un moto di disgusto, si chiese come facesse a bere quella roba.
 

Il set era poco distante dalla sua facoltà. Naozumi la passò a prendere finite le lezioni e la presentò al regista. Sana si guardò intorno e trovò curiosa la nostalgia che sentì nell’istante in cui vide le cineprese. L’uomo, un cinquantenne rotondo e sorridente, le strinse la mano e le fece un breve colloquio; le chiese di recitare un paio di battute prese da vari film ed opere teatrali e le fece qualche domanda su Chains.

Alla firma del contratto le diede il copione, raccomandandosi di studiarlo entro la fine del mese, quando era prevista l’entrata in scena del personaggio di Tila, e di fare una visita medica per buona misura. Uscendo dalle riprese, si rese conto di non aver pensato a nulla e la cosa l’aveva fatta stare veramente bene.

La visita medica fu un semplice esame del sangue. Era una cosa puramente formale, un documento forfettario con cui certificava ufficialmente ciò che tutto vedevano e sapevano, e cioè che lei stava bene. Il dottore lesse brevemente i fogli sulla sua scrivania, prima di aprire bocca.

“Signorina, lei è incinta”.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


10.
 

Uscita dalla clinica guardò il cielo con occhi vagamente incuriositi, come se stesse guardando una cosa nuova, rara. Prese il telefono e lo scrutò per qualche secondo, cercando di pensare cosa volesse fare, chi volesse vedere. Lo rimise in tasca e si avviò nuovamente verso il set. Doveva cercare di non pensarci.

Nell’istante in cui Naozumi si volse verso di lei, sentì il bisogno di dissimulare. Sfoderò il suo solito sorriso smagliante, cercando di renderlo più vero possibile. Era difficile sorridere.

“Allora, che hanno detto? È tutto ok?” chiese il ragazzo. Lei gli indirizzò un cenno di assenso talmente esagerato da poter passare per sospetto; lui sospirò con un sorrisetto, probabilmente riconoscendo il lei la Sana che un tempo aveva amato. Chissà come avrebbe reagito al posto suo…

NO! Non doveva pensarci.

“Non ci voglio pensare” borbottò a denti stretti. Per tutta risposta sentì la vita dentro di lei scalciare, benché fosse troppo piccola per farlo.
 

Il teatro era un modo ottimo per non pensare alla realtà; rifugiarsi in un mondo fittizio fatto di tradimenti e di guerre e di Streghe, in un’efficace combinazione di futuro e passato la fecero piombare nel mondo del film, facendola innamorare nuovamente del teatro, dei personaggi e dell’opera stessa.

Ebbe modo di conoscere l’autore di Chains, un suo coetaneo europeo dai modi un po’ bruschi. Il carattere e l’atteggiamento le ricordarono Akito e, per un breve istante, al frutto del loro legame, prima di allontanare con rabbia quel pensiero. Si fece autografare un segnalibro, sghignazzando al pensiero della reazione che avrebbero avuto Tsuyoshi ed Aya quando gliel’avrebbe portato.

“Così tu sei Sana Kurata” disse, prendendo il foglietto per firmarlo. “Mi ricordo di te. Eri il fantasma ne La Villa nell’Acqua o sbaglio?”.

“No, non sbagli” disse lei.

“Beh, lascia che ti dica che eri un fantasma veramente inquietante” disse lui, disegnando la sua firma. Lei sorrise radiosa, allontanando il ricordo di Akito che le faceva far tardi al lavoro per farsi ripetere il benvenuto mimando Mako il fantasma per il solo gusto di farsi venire la pelle d’oca.

“Ho letto il tuo romanzo” disse lei, cercando di deviare il discorso. Lui la guardò scettico.

“Ovviamente, se reciti nel mio film…” osservò, con voce ferma e fredda. Lei fece un sorrisetto colpevole.

“La mia è una presenza fortuita” disse. “Mi ha proposto Naozumi di venire a recitare…”.

“Improvvisa nostalgia del set?” chiese il ragazzo, tendendole il segnalibro firmato. “O bisogno di scacciare certi pensieri?”. Sana sentiva che quel ragazzo la capiva; la capiva in modo acuto, preciso e pericoloso.

“Un po’ entrambi” rispose evasiva. Lui annuì.

“Sì, ti capisco” disse. “È per lo stesso motivo che io scrivo. Beh, io ho un film da discutere, ci vediamo sul set: sono sicuro che lavoreremo bene insieme”. Le tese la mano. La ragazza la prese e la scosse vigorosamente.

“Certamente. E continua a scrivere: i miei amici vanno pazzi per le tue opere!” disse. Lui sorrise e si volse verso il capotecnico, che stava sbracciando nella sua direzione con aria preoccupata. Sana abbassò lo sguardo sul segnalibro e rimase a studiare la firma affrettata ma elegante dello scrittore, continuando a pensare alla reazione dei suoi amici quasi disperatamente.

Le fu assegnata la parte. Anche se si sentiva arrugginita, si sorprese lei stessa dell’eccezionale capacità che aveva nel memorizzare le sue battute. Prese il pullman per casa sua continuando a leggere la sua parte, concentrandosi talmente da non accorgersi di essersi addormentata.
 

Tsuyoshi aveva gli occhi spalancati e boccheggiava davanti al ghirigoro nero del segnalibro che Sana stringeva tra le mani.

“Ebbene sì: è l’autografo originale. Me lo sono fatto fare oggi” disse, facendosi aria con la piccola strisciolina di carta.

“Devo uccidere qualcuno?” chiese l’amico, con la bava alla bocca e lo sguardo estatico fisso sulla mano della ragazza. “Ti serve qualche organo? Hai qualche affare da sbrigare dall’altra parte del mondo?”.

“Pensieri opere parole omissioni, caro mio” fu la risposta. Il cervello del ragazzo probabilmente aveva smesso di seguire un filo logico.

“Parole…opere…il romanzo…si…” borbottò, in stato confusionale. Sana deglutì, prima di parlare.

“Ho bisogno di parlare” disse.

“Ed io di un asciugamano…” ribatté lui. La ragazza sentì l’irritazione salirle.

“Tsuyoshi, sono incinta!” disse. Lo sguardo del ragazzo rimase fermo sul segnalibro per qualche secondo, poi si spostò su di lei. Era effettivamente la prima volta che la guardava in faccia da quando era entrata. Lo sguardo si fece sconvolto, probabilmente incapace di credere a ciò che aveva appena sentito uscire dalla bocca dell’amica.

“Cosa vuol dire?” mormorò.

“Vuol dire che aspetto un bambino” disse Sana. Il ragazzo scosse la testa, dimentico del segnalibro.

“Perché?” chiese.

“Come sarebbe perché?”.

“No, Cioé…come mai?”.

“Tsuyoshi…hai capito quello che ho detto?”.

“Sì…cioè…Akito lo sa?”. Sana scosse la testa.

“Che ti fa pensare che è di Akito?” chiese. L’amico sospirò e la guardò con rimprovero.

“Pensi che non l’abbiamo capito?” chiese. “Lo sappiamo che siete tornati insieme”.

“Noi non stiamo insieme” disse lei. Lo smarrimento tornò a manifestarsi negli occhi dell’amico.

“Aspetta…non è di Akito?” chiese. Lei sospirò ancora.

“No, è suo” ammise. Ormai ne aveva parlato e non serviva a nulla pentirsene. Il ragazzo scosse la testa.

“Ti sei cacciata in un bel casino…” commentò. Lei non seppe come rispondere; probabilmente avrebbe dovuto non dire nulla e continuare a godersi l’espressione famelica di Tsuyoshi al cospetto del segnalibro autografato. Ma aveva bisogno di parlare, probabilmente di prendere coscienza lei stessa che dentro il suo ventre si stava formando una vita.

Si passò istintivamente una mano sulla pancia; se la sentiva normale, forse un po’ rigida ma nulla che facesse pensare ad una gravidanza. Era una cosa che riportava la firma sua e di Akito, una cosa LORO; da quanto tempo non aveva una cosa che fosse LORO?

Sospirò: in quel momento non riuscì a decidere se quella fosse una cosa stupenda o terribile.

Leggermente delusa da come era andata quello sfogo, allungò il segnalibro all’amico, che lo prese senza più quell’aria estatica di pochi minuti prima. Guardò il piccolo pezzo di carta per qualche minuto, poi lo appoggiò al tavolino con un sospiro.

“Che vuoi fare, Sana?” chiese. Lei sapeva cosa voleva dire quella domanda, ma non era con lui che ne avrebbe parlato.

“Devo dirlo ad Akito” mormorò. “Hai ragione…”.
 

Quella sera programmarono una cena insieme. A casa di lei, doveva parlargli di loro due; avrebbe dovuto ricordarle che non c’era nessun noi tra loro, ma qualcosa nella voce lo costrinse a rispondere con uno stentoreo “Ok”. Arrivò a casa sua solo per trovarla addormentata sul tavolo, apparecchiato per due con una sottile candela a dividere i due bicchieri. Lì per lì temette un malore, poi guardò il volto disteso e, sorridendo tra sé e sé, la chiamò.

“Oh, ciao Akito” salutò, sorridendo e passandosi una mano sugli occhi, liberandoli dal torpore del sonno. Gli sembrarono leggermente rossi e gonfi, ma attribuì la colpa al sonno.

“Ciao…” salutò, togliendosi il giaccone. “Che si mangia?”. Aveva ordinato il sushi d’asporto, talmente tanto che fu tentato dal chiedere chi altro avesse invitato; quel menù voleva dire che doveva farsi perdonare qualcosa ma, come tutte le altre volte, aspettò la fine del pasto per porsi domande. Quella volta, tuttavia, fu anticipato.

“Akito, ho scoperto di essere incinta” disse. Il pezzo di sushi divenne improvvisamente pesante. Fu il tintinnio del piatto che lo avvertì che la sua mano non reggeva più le bacchette e che il boccone molto probabilmente si era sfatto per tutto il piatto. Lo stomaco gli si chiuse ed il corpo fu invaso da un formicolio tutt’altro che piacevole, mentre i loro occhi si guardavano, entrambi con la medesima espressione.

“Sana…” mormorò lui. La voce era pacata, quasi fredda, ma i suoi occhi non mentivano. “Dobbiamo avvertire tua madre…”.

“Ho voluto parlarne prima con te” disse la ragazza, mentre il suo volto aveva nuovamente smesso di comunicare al resto del mondo i suoi pensieri.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


11.

 
La camera d’ospedale odorava di alcol; fu il naso ad informarla che era tornata cosciente, che era tutto finito. Aprì lentamente gli occhi, lasciando che la pallida luce le ferisse gli occhi. Era accuratamente coperta fin al mento da un lenzuolo candido e da una coperta verde acido e sentiva un tepore assolutamente piacevole in contrasto con l’aria frizzante di metà marzo che c’era fuori da quella finestra.

Oltre il vetro vide distintamente le gemme alle estremità dei rami degli alberi aprirsi timidamente, come a saggiare l’aria, presentando una punta verde poco più grande dell’unghia del mignolo. Era un verde diverso: non sterile e finto e pallido come quella coperta, ma vivo ed energico, carico di aspettativa e di promesse di estati calde e piacevoli da cominciare a godersele già solo volgendo gli occhi su di lui.

Ignorando la tensione del tubo della flebo fissato al suo braccio, accarezzò la pancia. Era piccola e liscia, anche se leggermente morbida e rilassata. Non seppe dire se si sentiva sollevata nell’avere nuovamente la pancia piatta oppure se sentiva già la malinconia della pancia da gravidanza. La porta si aprì con un lieve cigolio ed entrò un dottore dal camice bianco. Chiuse la porta e si avvicinò al letto senza proferire parola. Infine parlò.

“La signorina Sana Kurata?” chiese, con cauta voce professionale.

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Akito non riusciva a pensare se non alla pancia ed al volto di Sana. Lo guardava con quegli occhi finti, quell’espressione ferma ed inespressiva, gli parlava con voce automatica, apatica. Con quella voce gli stava dicendo che era incinta e sapere che lei non si rendeva conto di parlare così e di guardarlo così non lo fece stare meglio.

Probabilmente lei era convinta di star manifestando tutta la sua ansia e la sua paura sia nella voce che nell’espressione e la sua sorpresa nel sentir parlare di ricaduta ne era la prova.

“Sei…incinta?” ripeté, distogliendo l’attenzione dalla malattia della bambola. Lei annuì.

“Sono andata dal medico per degli esami richiesti dal regista” disse. “E mi ha detto che sono incinta. Di quasi due mesi”.

“Ma…tu prendevi la pillola…” disse, ma Sana gli disse quello che pensò il secondo successivo.

“Akito, nessun contraccettivo garantisce protezione totale” disse. Il ragazzo cercò di mantenere un contegno e posò le bacchette; non aveva più fame e lo accettò, anche se non gli piaceva l’idea di tutto quel sushi nel cestino dell’immondizia. Sospirò ed abbassò la testa sul tavolo.

“Chi lo sa?” chiese.

“Mi sono sfogata con Tsuyoshi” rispose. “Avevo bisogno di parlare ed ho chiamato lui. Ma mi sono fatta promettere che manterrà il segreto”. Entrambi erano convinti di star pensando la stessa cosa; lui all’università di entrambi, al suo dojo, alla sua vita. Non era quella l’evoluzione del loro rapporto che aveva pensato quando aveva accettato di andare a letto con Sana. Sentì la voce di lei parlare; poté quasi andare oltre il tono distaccato e percepire nervosismo e paura.

“Non siamo costretti a tenerlo…” disse. Akito alzò lo sguardo su di lei. “Il dottore mi ha detto che posso abortire se non ce la sentiamo…”. Con questa le aveva sentite proprio tutte: lei parlava a lui, proprio a lui, di aborto. Anche se era il modo sbagliato per stare insieme, era comunque una vita innocente.

“Non esiste” disse. “È nostro e ce lo teniamo. E se mi proponi di nuovo una cosa del genere abortisci da sola”. Il viso della ragazza rimase invariato, ma gli occhi si inumidirono e lei si lanciò ad abbracciarlo.

“Avevo tanta paura che mi dicessi di ucciderlo…” sussurrò all’orecchio. Per qualche minuto non dissero nulla, impegnati a cercare calore e coraggio l’uno tra le braccia dell’altro. Akito si ostinava nel suo silenzio, così prese nuovamente lei la parola.

“Ho bisogno di te…” mormorò.

“Lo so…” fu la risposta.

“Non posso farcela da sola a portare avanti la gravidanza”.

“Già…”.

“Vieni a stare da me” disse. Questa volta il ragazzo non rispose; la strinse a sé più dolcemente, dandole la risposta che voleva. Stretta in quell’abbraccio, Sana si sentì di colpo molto meno sola e disegnò sul volto un sorriso che non apparve.

La serata finì pochi minuti dopo. Akito era tornato a casa sua, sconvolto dalle novità dell’ultima ora. Lui un padre? Ma scherziamo? Come faceva ad essere un padre se lui stesso non ne aveva avuto veramente uno? Che razza di padre avrebbe potuto essere? Secondo Sana sarebbe stato un buon padre ed anche lui con il passare del tempo si era fatto un’idea del rapporto che avrebbe voluto con suo figlio. Ma una cosa erano i progetti, un’altra era diventarlo veramente.

Tirò l’ennesimo sospiro della serata. Credeva veramente a quello che le aveva detto: non le avrebbe mai permesso di abortire e non l’avrebbe perdonata se avesse preso da sola quella decisione. Rimuginando sulla serata, tornò a casa e buttò distrattamente un cambio dentro una borsa: le aveva promesso di stare con lei e così avrebbe fatto. Se non per il bambino per lei, per la sua voce stentorea, per il suo volto inespressivo, per la sua psicotica convinzione di essere ancora la ragazza solare ed allegra nonostante la ricaduta della malattia della bambola.

Quella notte, nel letto della ragazza, non riuscì a chiudere occhio: rimase ad ascoltare il respiro regolare di Sana che quasi rimbombava nell’aria, forse rassicurata dalla sua presenza, oppure in preda a uno dei sintomi della malattia. Il suo pensiero era fisso sul suo ventre e si riscoprì invidioso di quella piccola nuova vita: lei se ne infischiava dei problemi esterni, poco gliene importava del fatto che quelli che sarebbero stati i suoi genitori andavano entrambi all’università ed avevano un sacco di progetti. Il fatto di essere un figlio indesiderato non sembrava sfiorarlo: lui continuava a crescere e a formarsi, in attesa del momento di uscire dal suo bozzolo buio e caldo e confortante.

La notte continuò il suo ciclo: la luna salì alta nel cielo e poi iniziò la sua lenta discesa ed Akito era sempre sveglio. Il cielo assunse un’impercettibile sfumatura più chiara che andava via via avanzando e lui era sempre vigile. Le stelle scomparvero una ad una e la luna si fece più chiara, cedendo la scena ad un’alba rossastra ed i suoi occhi erano sempre spalancati. Entrarono nella stanza le lunghe ombre dei pali della luce e dei fili e dei tetti delle case, disegnando deformate figure nere sulla parete bagnata dal bianco accecante del sole. Akito si sentì fortunato nell’avere finalmente qualcosa su cui rivolgere la propria attenzione e finalmente fece ciò che voleva fare dalla sera precedente.

“Pensieri opere parole omissioni” mormorò sottovoce. Si scoprì leggermente contrariato quando non giunse risposta. Stava forse diventando matto?

 
In un mese Akito fu protagonista delle rappresaglie di troppe persone e fautore di scelte difficili. L’università ed il dojo furono soggetti a drastici tagli di tempo e di orario ed il suo tempo libero si ridusse; Sana conduceva la gravidanza con cura ed attenzioni, ma non per questo lasciò perdere i suoi doveri: Il set e l’occasione di tornare sulla scena fornita da Naozumi fu l’unica cosa che non volle tagliare.

Il regista rimase spiazzato dall’espressione sterile con cui si presentò alle riprese, ma l’autore dell’opera ne rimase entusiasta, affermando che era proprio quella l’espressione che avrebbe dovuto avere Tila. La giovane fu così calata perfettamente nei panni della Strega dalla doppia personalità e quando il copione predisse la pazzia del personaggio ed il suo conseguente suicidio, Akito sentì un brivido freddo lungo la schiena ed i peli delle braccia rizzarsi. La fine della scena fu segnata da qualche applauso da dietro la cinepresa. Naozumi fu l’unico a cercare Akito con gli occhi ed a lanciargli un avviso che lui già sapeva. Aveva notato subito la malattia della bambola, ma ricordava bene che l’unico che poteva guarirla da quella..cosa…era quel ragazzo dallo sguardo di pietra.

Fortunatamente le riprese non le occuparono più di una settimana, ma quella sera, una volta a casa, annunciò il suo desiderio di riprendere a recitare.

“Lascerò l’università” disse, con la voce monofonica pregna di determinazione. “Tanto ho sempre fatto fatica a studiare”. La sua decisione preoccupò Akito, ma era la sua vita quindi si limitò ad interrogarla sulla sicurezza dietro quella decisione una sola volta.

Non parlarono più della gravidanza: la accettarono nella loro vita con un silenzio quasi indifferente: loro vivevano la loro vita e lui pregustava la sua, ma ognuno per i fatti propri.

Si era poi trattato di dirlo ai loro parenti. Rei Sagami era rimasto senza parole per una decina di minuti buoni, poi si era sbloccato e la prima cosa che aveva detto li aveva fatti mentalmente ringraziare che il bambino ancora non sentiva, mentre Misako era rimasta impietrita, ignorando l’onnipresente Takezo che aveva avuto il buon gusto di interrompere momentaneamente le sue suppliche riguardo al nuovo capitolo del suo ultimo libro. Infine scoppiò.

“E come lo chiamerete?” chiese, radiosa. Akito guardò l’estasi della donna e lo sbigottimento dell’assistente-ex fidanzato-manager-mantenuto, ma già sapeva che da lì a poco la madre l’avrebbe invitata ad andare a prendere una boccata d’aria solo per parlare con lui in privato. Aveva avuto a che fare con quella donna abbastanza da sapere che non esisteva una valida difesa perché non si poteva conoscere l’attacco.

I due, rimasti soli, si guardarono per un tempo che parve infinito. La donna apprezzò come sempre la profondità degli occhi nocciola, poi si accomodò con un sospiro contro lo schienale di quella stupidissima macchinina giocattolo con cui vagava per la casa.

“Hayama” disse. “Ti ho sempre considerato un ragazzo intelligente e so che farai ciò che è giusto per mia figlia”. Lui non rispose: con quella donna non serviva. “Accetto la situazione solo perché mi fido di te. Sia per la gravidanza che per il resto”.

Il resto. La malattia era il resto. Togliere il nome alla causa della sofferenza era la prima cosa da fare per negarne l’esistenza e poteva capitare, ogni tanto, che era anche ciò che apriva la strada verso la guarigione. Ottenuta la benedizione della madre di Sana, andarono dalla famiglia di lui. Il padre e la sorella presero la notizia relativamente bene, anche se non mancarono episodi di imbarazzante apprensione.

I due tornarono a casa con volti inespressivi, ma sollevati e in buona misura felici. Continuarono tuttavia a non parlare di gravidanza o di matrimonio: continuarono con il loro vivere alla giornata, solo che questa volta l’avrebbero fatto insieme.

 
E poi arrivò quel giorno.

Fu un giorno come tanti, che cominciò con la dolce voce di Amy Lee uscire dalla sveglia, mentre con i suoi Evanescence le svegliava dolcemente sul pianoforte di Your Star. Era stato Akito a farle cambiare la sveglia, minacciandola di lasciarla in preda alle voglie senza battere ciglio: aveva funzionato e l’intro galoppante di This Dying Soul per mano del velocissimo Mike Portnoy era stato sostituito fino a data da definirsi. Quella mattina Sana si svegliò con la nausea e si sentì restia ad alzarsi; tutto normale, pensò Akito, la gravidanza. Si alzò e si diresse in bagno, ancora intontito dal sonno e si sedette sulla tazza.

L’istante in cui arrivò il richiamo spaventato della ragazzo fu lo stesso in cui si rese conto di avere le gambe sporche di sangue.

L’urina smise di uscire e lui scattò in piedi. Senza nemmeno prendersi la briga di alzarsi le mutande, arrancò in camera e, una volta accanto al letto della ragazza, scostò le coperte con spaventata urgenza. Le lenzuola avevano una grossa chiazza di sangue che macchiava le coperte e che sembrava partire da sotto Sana. Lei arrancò all’indietro, in un istintivo tentativo di uscire dalla chiazza rossa. Akito chiamò l’ambulanza, mentre la sveglia ancora diffondeva quella canzone, dalle parole così azzeccate da lasciar pensare che fosse lì apposta.

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Il verdetto fu chiaro e non lasciò spazio a fraintendimenti o speranze di errore. Aborto spontaneo. Alquanto inusuale al quarto mese, ma ugualmente possibile. Aveva avuto bisogno di una trasfusione, le ovaie non avevano subito danni e lei era fuori pericolo, anche se si poteva sentire ovviamente un po’ spossata.

Per il bambino, però, non c’era stato nulla da fare.

Sana aveva spaziato finché non aveva sentito calde braccia avvolgerle il collo. Era sua madre; l’unica volta che l’aveva vista in lacrime era stato quando aveva scelto di restare con lei anziché andare con la sua vera madre, ma erano state lacrime di gioia. Quelle non lo erano. C’era anche il padre di Akito. La sua voce bassa e pacata era a tratti rotta, ma era palese che non sapeva cosa dire. Dopo qualche tentativo, preferì il silenzio.

La verità era che avvertivano la mancanza che sentiva anche Sana. Era morto un bambino mai nato, ma tutti in quella stanza l’avevano in qualche modo già visto: anche solo per un istante, tutti i presenti si erano sentiti mamme o nonni o anche zii, acquisiti o meno. Distinse un’ombra uscire dalla camera, ma non si prese la briga di voltarsi da quella parte: rimase a piangere sulle spalla della madre, chiedendole cosa fosse successo.

Akito era davanti al distributore automatico delle bevande, studiando la scelta in vetrina con occhi assenti. Era stato padre per quattro mesi di un bambino che non aveva mai visto; non esistevano foto né video, ma nemmeno radiografie, trasformazioni del corpo di Sana, nemmeno il test di gravidanza positivo. Era stato padre e non avrebbe mai potuto provarlo. Sentì una presenza accanto a lui e fu con malcelata meraviglia che riconobbe lo scrittore di quel benedetto Chains.

“Akito Hayama, giusto?” chiese, in un inglese con un che di italiano. Lui annuì. “Scusami, ma non ho mai avuto la costanza di studiare il giapponese”. Il ragazzo si limitò a guardarlo e, quando il ragazzo lo trattò con la stessa moneta, inarcò un sopracciglio.

“Posso fare qualcosa per te?” chiese, nella stessa lingua. Lui scosse la testa.

“No, nulla” rispose. “Ci sono le figure sulle bottigliette: dovrei riuscire a capirci qualcosa”. Si stava riferendo alle lattine del distributore. Akito si sentì improvvisamente inquieto.

“Secondo te è colpa mia?” chiese. L’italiano, che sembrava attendere solo quello, scosse la testa.

“Gli aborti spontanei sono una cosa che può capitare” rispose. “E non è necessariamente colpa di qualcuno se succede. Ma non per questo sono meno dolorosi, no? Sentirti innocente ti farebbe stare meglio?”.

“Ovviamente no!” rispose lui. Il discorso trasudava di glaciale logica e l’unica cosa illogica era la rabbia che sentiva montare.

“E allora che ti serve saperlo?” chiese lo scrittore. “È successo e non è colpa di nessuno. Sono cose che succedono semplicemente perché possono succedere e cercare il pelo nell’uovo certe volte vuol dire solo far male a sé stessi ed a coloro che ci circondano”.

“E cosa dovrei fare?” chiese Akito. “Se questa fosse un capitolo dei tuoi romanzi, cosa faresti?”.

“Non hai bisogno di me che ti dico cosa fare” fu la risposta. Sembrò decidersi ed inserì una moneta nella macchinetta. Con un sordo tonfo una confezione di latte al cacao cadde nel vassoio sottostante. Il ragazzo la prese in fretta, come se temesse un furto. “Dai voce ai tuoi pensieri: sai perfettamente cosa fare”.

E lo sapeva, eccome se lo sapeva. Tornato nella stanza di Sana la prese tra le sue braccia e la strinse, lasciandola singhiozzare contro di lui ed allontanando con occhi minacciosi chiunque cercasse di intervenire. Era morto un bambino, il loro bambino: il cordoglio di amici e parenti poteva aspettare un po’.

Sana fu dimessa dall’ospedale due giorni dopo e tornò alla vita di tutti i giorni. Era tornata quella di sempre: risate e battute erano molto tirate e finte, ma erano tornate. La malattia della bambola era stata nuovamente sconfitta, ma a che prezzo. Akito sapeva quello che doveva fare per guarirla e lo fece dopo appena un mese.

Il matrimonio fu semplice, con pochi intimi, caratterizzato dalla partita a Pensieri opere parole omissioni più lunga e numerosa che Tsuyoshi ricordava. Fu grazie a quel gioco che riuscirono ad estorcere allo scrittore di Chains il titolo dell’opera su cui stava lavorando ed Aya rese pubblico il suo entusiasmo con un gridolino.

Quella notte fu scandito da un sesso dolce e cauto, fatto di baci, carezze e parole sussurrate. Quella passione soffusa che trasmetteva una sensazione di casa e non solo di piacere, un miscuglio di sapori ed odori che li fece sentire veramente LORO per quella che sembrò la prima volta in tutta la loro vita.

Quando il sole sorse la mattina dopo Akito sventolò la fede nuziale di Sana in aria, presa chissà quando. Alle sue proteste reagì con un lieve sorriso ed afferrò la mano della ragazza, incastrando nuovamente il prezioso all’anulare.

“Pensieri opere parole omissioni, Kurata” disse. Lei sorrise.

“Era un gioco veramente stupido” osservò. “Hai fatto caso che abbreviato fa popo?”. Il ragazzo sospirò esasperato: anche lei non aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Ma questa volta, finalmente risero entrambi.

 
NOTA DELL’AUTORE: Ciao a tutti quanti. Siamo così giunti alla fine di questa storia; mi ha occupato più tempo di quello che pensavo ed è venuta fuori anche più lunga di quello che pensavo. Ho ricevuto tanti commenti e tante recensioni per questa storia e sinceramente non credo che basti ringraziarvi per l’attenzione e la pazienza con cui mi avete seguito.

Anche se non più su Rossana (almeno per ora), continuerò a regalarvi storie e posso promettervi il massimo delle mie capacità. Spero che continuerete a seguire le mie storie anche fuori da questo fandom e ringrazio ancora tutte le persone che hanno avuto anche solo la curiosità di aprire questa Fanfic. Ci leggiamo alla prossima storia.

Leonhard

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