Deception

di Jooles
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stramonium ***
Capitolo 2: *** Snake ***
Capitolo 3: *** Mirror ***
Capitolo 4: *** Wolf ***



Capitolo 1
*** Stramonium ***












 

 
 

Capitolo 1
Stramonium

 

 

Esme Nichols chiuse con prepotenza la porta dietro di  sé, come se sbatterla in quella maniera brutale potesse creare un maggior divario tra lei e la cosa da cui voleva prendere immediatamente le distanze. Tre bruschi colpi alla porta la fecero sobbalzare, dimentica per un secondo che fosse proprio quella lastra di legno a proteggerla.
«Apri immediatamente!» Ma Esme non avrebbe aperto e la porta, sua complice, non avrebbe ceduto ai colpi. Vi rimase appoggiata fin quando il respiro per aver corso su per le scale non si fece di nuovo abbastanza regolare, e la persona da cui si era voluta nascondere non abbandonò il suo intento di sfondare la soglia, scendendo le scale mugugnando imprechi sottovoce.
Strascicò i passi fino alla finestra di fronte a lei, constatando come potesse essere strana l’opposizione tra il mondo di cui faceva parte, quello delimitato dalle mura della casa, e quello che invece era dipinto all’interno della cornice della vetrata. La stanza si affacciava sul giardino, dove ormai l’ortica e la carota selvatica si erano aggrovigliate alle radici di ogni alberello da frutto che tentasse di crescere. I pali della recinzione erano ormai pressoché invisibili al di sotto della folta edera che vi era cresciuta a spirale. Una pesante vanga giaceva abbandonata vicino una buca scavata quella stessa mattina, forse per dare l’inutile speranza a un altro giovane arbusto di poter crescere in quel fazzoletto di terreno tutto fuorché fertile.
Ma Esme non si curava mai di dar troppa importanza a ciò che la recinzione delimitava, bensì, alzando lo sguardo, lo poneva sull’infinito che le si stendeva dinanzi. Il verde scuro e pieno di vita del bosco percorreva chilometri e chilometri, sembrava continuasse persino al di là della linea dell’orizzonte. Ogni tanto, aguzzando la vista, scorgeva qualche puntino nero che si sollevava dalle chiome delle querce, dei castagni o dei faggi, spiccando il volo per atterrare su qualche altra fronda.
Esme constatò che quella fosse la più bella giornata primaverile dall’inizio della stagione, una giornata a dir poco perfetta. Si decise che se avesse dovuto trovare un giorno alla fine, probabilmente avrebbe optato per quello stesso. Nascondendo quel pensiero in un sicuro antro della mente, afferrò un cestino di paglia malconcio abbandonato dal giorno prima ai piedi del suo letto di paglia; lo aprì, assicurandosi che il contenuto giacesse ancora sul suo fondo e, aperta la finestra, si calò giù per una scaletta che rimaneva sempre appoggiata lì. Sicura che lo zio si fosse addormentato sulla poltrona (ne poteva udire il russare in lontananza), discese con calma attenta a non cadere, reggendo saldamente in una mano la cesta e con l’altra più duramente i pioli della scaletta. Con un saltino chiuse la distanza da terra e, lisciatasi la gonnella, prese a correre fin quando non varcò la soglia del fitto bosco.
 
Non le fu per nulla difficile trovare il sentiero che ormai seguiva tutte le volte che fuggiva di casa. Ricordava fin troppo bene inoltre come fosse solita percorrere, molto tempo addietro, quando ancora era in vita, insieme alla madre quella direzione. La foltezza del bosco che si dilagava per ettari e più, proprio nel suo mezzo veniva spezzata da una radura, al centro della quale si stagliava fiero e imponente un antico olmo.
Esme rimembrò come nelle assolate giornate d’estate sua madre fosse solita condurla lì, per ripararsi dalla calura cocente all’ombra del vecchio albero. Ogni volta le raccontava una fiaba differente.
                                                                                            
«Oggi leggeremo Cappuccetto Rosso, che ne dici bimba mia?» le sorrise.
La piccola Esme annuì fortemente; qualunque racconto le sarebbe andato bene. La cosa che le premeva era di udire la voce cullante della madre che leggeva, una mano reggendo il libro in questione, l’altra occupata a pettinarle i capelli con le dita sottili ed eleganti.
Era una donna bellissima e nel mondo di principi e principesse che a sette anni le bambine come Esme si creavano, si era promessa che da grande sarebbe diventata una regina proprio come sua madre; i grandi occhi scuri da cerbiatta e il piccolo visino, contornato da una folta chioma di capelli biondi e ondulati; le gote sempre arrossate dalla gioia quando il suo sguardo si posava sulla sua piccola creatura, il sorriso bianco contornato da labbra naturalmente già rosse.
«Cosa ci insegna questo racconto, Esme?» le chiese la giovane madre, dopo aver finito di leggere.
Esme ci pensò su, non volendo deluderla.
«Che non bisogna andare da soli nel bosco?» azzardò, sentendosi improvvisamente allarmata per il fatto che loro fossero sole in quel momento all’interno di un infinita distesa di alberi.
La madre le sorrise, intenerita.
«Che non bisogna fidarsi del lupo cattivo.» Esme l’osservò, credendo che fosse davvero molto saggia.
 
Capuccetto Rosso era stata l’ultima favola che la madre le avesse raccontato.
Ora si trovava lì, in quella stessa radura, di fronte a sé il grande olmo. In dieci anni nulla era veramente cambiato, a parte forse qualche cespuglio che non ricordava di aver notato l’ultima volta; inoltre, un modesto masso poco più distante ora era ricoperto da uno spesso velo di muschio. Esme si nascose sotto le fronde che ormai toccavano terra, poggiò il suo cestino e si distese. Osservò per quello che le parve un tempo infinito gli spazi vuoti tra i rami e le foglie; il leggero venticello primaverile le smuoveva, creando bizzarri giochetti di luce che a tratti le accecavano i scuri occhi.
Dopo aver chiuso gli occhi, Esme non ricordò cosa fosse accaduto; di certo si trovava nella medesima posizione che per ultimo le sovveniva, distesa poggiando la schiena sulla soffice erba, le mani dietro la nuca e le gambe accavallate. Scoprì di aver sonnecchiato per un bel po’, dato che ricordava perfettamente di essere uscita alquanto presto di casa quella mattina, forse intorno alle sette, e sapeva benissimo che in quel momento doveva essere intorno a mezzogiorno, dato che il sole non produceva alcuna ombra stagliandosi sugli oggetti che la circondavano, il che voleva dire che si trovava perpendicolare al suolo terrestre.
Tutto merito dei libri che lo zio le aveva proibito di leggere, ma che lei aveva fatto lo stesso.
Si sollevò dal tepore in cui si era cullata fino a quel momento, uscendo allo scoperto dal nascondiglio fatto di rami e fogliame, prendendo il cestino con sé.
Allontanatasi con qualche passo dall’enorme fusto, Esme prese ad ammirare apprensiva la cesta che teneva tra le dita, lasciandolo cadere violentemente al suolo e nascondendosi il volto rattristito tra le mani, prendendo a singhiozzare violentemente.
«Non saranno affari miei, ma mi duole vedere una giovane che piange.»
Esme si era assicurata prima di inoltrarsi nel bosco che nessuno la seguisse. Inoltre, non appena si era risvegliata dal pisolino schiacciato sotto l’olmo, aveva fatto attenzione a cosa si trovava intorno a lei, se qualcuno l’avesse raggiunta, se lo zio fosse venuta a cercarla. Alquanto improbabile, non si sarebbe scomodato per trovarla, sapendo fin troppo bene che se non voleva morire di fame, sete o freddo, sarebbe presto o tardi dovuta rientrare a casa. Non che avesse intenzione di tornare quel giorno.
Eppure, nonostante tante accortezze, qualcuno era riuscita a scovarla. Ma la voce appena udita non riusciva ad essere accostata a nessuna delle persone da lei conosciute. Preoccupata e spaventata, si voltò lentamente per evitare malintesi.
Come aveva potuto già comprendere dalla voce, la figura che le si stagliava davanti non era riconducibile a nessuna delle persone che aveva neanche mai incontrato di sfuggita.
La voce profonda e matura che aveva udito poco prima non sarebbe mai potuta essere accostata alla persona che la possedeva: un giovane ragazzo dai capelli castani corti, con una frangia ribelle leggermente più lunga e ondulata; una pelle molto chiara e a vedersi delicata, era resa viva nel volto dal leggero tocco rosato delle guance; labbra carnose, come coralli. I lineamenti del volto erano duri, eppure tutte quelle caratteristiche gli conferivano un’aria regale, aristocratica, a incominciare dal portamento: stava ritto come una statua nel suo fisico perfetto, almeno così si poteva dire anche da sotto i vestiti che indossava, le mani trattenute tra loro dietro la schiena, il viso alto e fiero che scrutava Esme curioso.
Già, scrutava: Esme non poté rimanere indifferente di fronte a quello sguardo. I suoi grandi occhi, contornati da lunghe ciglia, erano del grigio più puro che la ragazza avesse mai visto: un grigio scuro, immenso, sia nella perdizione che provocava nella mente di Esme, sia nei sentimenti che sembrava emanare.
Catturata da quella creatura, Esme si avvicinò, asciugando al contempo i residui delle lacrime che avevano smesso di sgorgare dalla vista del ragazzo.
«Chi sei?» gli chiese timidamente.
Il giovane parve contemplare per un po’ la domanda, come se la trovasse difficile.
«Ho capito ora quale fosse la notizia che ti premeva ottenere: tu mi volevi domandare forse ‘come ti chiami?’, allora avrei soddisfatto la tua curiosità. Domandandomi invece ‘chi sei?’, la mia risposta sarebbe ‘sono io’. Ma questo non risponderebbe affatto alla tua curiosità, dico male?» le sorrise affabile.
Esme si ritrovò confusa e spiazzata dal suo acume e, non volendo apparire nuovamente idiota di fronte al giovane, esaudì la sua richiesta, chiedendo –
«Come ti chiami?»
Questa volta il ragazzo sorrise, mostrando dei denti come perle.
«Mi chiamo Lev.»
Esme comprese che dovesse trattarsi di un giovane molto pragmatico: non avrebbe detto altro se non gli fosse stato domandato. Così Esme pensò ad una raffica di domande da porgli, le quali si accatastarono nella mente una sopra l’altra, riuscendo solamente a far fuoriuscire dalla bocca –
«Quanti anni hai?»
Lev sembrò per un attimo rabbuiarsi a quella richiesta ed Esme si maledisse mentalmente per aver provocato sentimenti negativi nel cuore del giovane.
Dopo aver pensato accuratamente alla risposta da dare, Lev le confessò di avere diciannove anni.
Esme stava per domandargli come mai si trovasse in quel luogo, quando finalmente un barlume di curiosità attraversò gli occhi del ragazzo.
«Vorrei sapere lo stesso sul tuo conto» le domandò.
«Mi chiamo Esme, ho diciassette anni» rispose. Detto ciò rimase in silenzio, conscia che qualunque cosa avesse detto non avrebbe destato l’interesse del giovane, il quale sembrava rispondere solamente a domande a lui poste. Tutto il contrario di una persona loquace.
Improvvisamente però la stupì, domandando con sincera curiosità cosa vi fosse all’interno del cestino che Esme aveva lasciato cadere poco prima.
«Niente, non c'è niente» rispose prontamente, una vena di nervosismo che Lev non mancò di captare.
Esme raccolse la cesta e la ricoprì per bene con il panno che era sbalzato alla caduta, nascondendo un bagliore dorato che in un attimo aveva investito il volto del giovane. Probabilmente il riflesso del sole a qualcosa che si trovava lì dentro. Si accorse di come Lev non avesse creduto al “niente”, ma sembrò non dargli alla fine molto peso.
Esme prese allora coraggio e gli porse la fatidica domanda.
«Per quale motivo ti trovi in questo bosco?» chiese, scegliendo accuratamente le parole per far sì che il giovane potesse rispondere adeguatamente.
«Mi trovo qui perché è l’ultimo posto in cui sono stato» rispose, con una semplicità talmente snervante che Esme non capì se la stesse prendendo in giro o se veramente intendeva ciò che aveva appena detto.
«E tu? Volevi sentirti un po’ Krasnaya Shapochka [1], entrando nel bosco con in mano un cestino? Hai raccolto dei fiori?»
Esme non capì cosa avesse voluto dire.
«Temo di non aver capito» affermò, sperando che le desse qualche delucidazione.
«Ah, perdonami. Ti ho chiamata Cappuccetto Rosso, in fondo ti manca solo una mantellina rossa per somigliarle» disse, indicando con un cenno del capo la mantella grigia che Esme indossava.
Interdetta, Esme si pose subito un ulteriore domanda.
«In che lingua hai parlato?»
«In russo. Perdonami ancora, proprio non riesco a evitare qualche fuoriuscita nella mia lingua madre alcune volte» sembrò scusarsi sinceramente.
Esme prese ad osservarlo ancora più attentamente. Di certo, se da subito non aveva potuto ricollegare quegli eterei lineamenti alla comune gente Irlandese, si era però dovuta ricredere quando pensava di essersi trovata di fronte un ragazzo che venisse da qualche altro mondo. Eppure non aveva mai fatto la conoscenza di una persona così bella.
Nonostante Esme fosse stata forzatamente cresciuta contro il volere dello zio, che ne aveva ereditato le veci, il più lontana possibile dai fervori della città e dunque da tutto ciò che avrebbe potuto renderla colta e che le avrebbe potuto dare un’educazione, poteva capire benissimo quanto il concetto di bellezza di fronte a quel ragazzo raggiungesse il suo apice. Era lei dunque una colta, se trovava il significato puro di bellezza in quel giovane? [2]
Dovette ridestarsi da quei pensieri quando si accorse che Lev improvvisamente stava avvicinandosi sempre più a lei, guardando famelico il cestino che teneva in mano. Esme lo nascose dietro la schiena, intimandolo di non avvicinarsi.
«O cosa? Griderai? Come se qui potesse sentirti qualcuno» la schernì.
Esme iniziò a trovare irritante il fatto di sentirsi perennemente stupida di fronte a lui sin dal primo momento in cui le aveva parlato.
«Abiti qui in zona?» gli chiese.
Lev piegò lievemente la testa di lato, come ad osservarla meglio per non perdersi alcun particolare del suo volto.
«In realtà abitavo in città, d’estate venivo nella mia villa tra i boschi insieme alla mia famiglia. Ora non ho idea se loro ci vengano ancora.»
«Non vivi più con i tuoi?» domandò incuriosita.
«No.» Nel dirlo il suo sguardo si incupì ed Esme provò un forte dispiacere per aver prodotto scompiglio dentro di lui.
Se fino a quel momento Esme aveva creduto di essere sola, abbandonata da qualunque persona della sua età nel raggio dei chilometri che la foresta copriva, ora si era acceso in lei un barlume di speranza. Quel giovane così affascinante di certo non aveva lasciato in lei solamente un’influenza a sfondo romantico. Le dava l’idea di un ribelle, uno che a diciannove anni vagava da solo per la foresta dicendo di non abitare più con la famiglia. Qualcosa si stava svegliando in lei, quel briciolo di avventura che sembrava le fosse stato rimosso, ma che invece attendeva solamente di essere scosso.
Pensò che se il giorno seguente fosse voluta uscire in tranquillità per rincontrare Lev senza destare le ire funeste dello zio, sarebbe dovuta rientrare immediatamente per preparargli il pranzo. Così, tristemente, informò il giovane che sarebbe dovuta andare, con la promessa che sarebbe tornata l’indomani.
«Ti aspetterò qui, alla stessa ora. Prima non potrò apparire» la informò, ed Esme pensò che parlasse in maniera perlomeno un tantino buffa secondo i costumi della sua epoca.
Esme lo salutò con un cenno della mano, intraprendendo il sentiero che la inoltrava nel fitto verde del bosco. Al limitare dei confini della radura, quando ormai si trovava sotto l’ombra dei primi alberi, si voltò per salutare un’ultima volta il ragazzo.
Ma di lui già non vi era più traccia.
 
Fece attenzione a non farsi vedere dallo zio. Si nascose dietro la palizzata che delimitava il giardino, l’edera ormai talmente fitta che sarebbe stato impossibile scorgerla. Dalla sua posizione poté constatare che lo zio era intento a tracannare una bottiglia di vino di fronte alla finestra della cucina. Attese il momento in cui si sarebbe voltato, per correre al lato ovest della casetta di legno e arrampicarsi su per la scaletta. La finestra poteva facilmente essere aperta anche da fuori, così Esme le diede una lieve spinta e quella si spalancò. Una volta dentro si spogliò della mantella e riposizionò il cesto sotto il letto, ai suoi piedi. Si guardò allo specchio per poter individuare alcuna traccia che avrebbe tradito il fatto che fosse uscita di casa di nascosto. Un rametto secco si era impigliato tra i capelli. Ma a parte quello, era la solita di sempre.
Girò la chiave e aprì la porta, scendendo le scale. Si diresse in cucina, dove trovò lo zio.
«Dove cazzo sei stata? Ho bussato all’infinito sulla porta, che stavi combinando là dentro, eh?» le domandò, lo sguardo che iniziava a perdersi per le scie dell’alcol.
«Ho dormito, zio» rispose Esme, abbassando gli occhi al pavimento e dirigendosi verso i fornelli.
«Scansafatiche dei miei stivali! E mia sorella dovrebbe essermi grato se gli ho tirato su ‘a figlia! Ingrata che non sei altro, che ti do pure un tetto sopra quella testa di coccio! Eh ma, ce lo avevo detto io di non fare figli e lei, va lì, si innamora di un belloccio e poi lui scappa, il vigliacco, quella stronza muore e a me la marmocchia.»[3]
Poi afferrò la ragazza per un braccio, scrollandola violentemente.
«E sbrigati a cucinare ‘sto pranzo merdoso, che c’ho fame!» Poi tornò a sedersi al tavolo, fissando la ragazza che iniziò a tirare fuori gli avanzi della sera prima. Li scaldò e li versò in un piatto, curandosi di riempire per bene quello dello zio, un po’ meno invece il suo.
Mangiarono in silenzio, come di consueto; dopo aver lavato i piatti e messo in ordine la cucina, Esme venne cacciata con un doloroso calcio al coccige nella sua stanza.
«E domani mattina ti voglio sveglia presto, che mi devi fare le buche per le piante nel giardino! Io che c’ho la schiena a pezzi devo lavorare mentre quella fetente dorme! Te potessi ammazzare, vedi te!»
Indifferente a quella minaccia che si andava solamente sommando alla lunga lista ricevuta in quegli ultimi dieci anni, Esme intraprese la volta delle scale.
Per tutto il giorno rimase in camera sua, guardando fuori dalla finestra il fitto bosco, cercando di immaginare dove si trovasse Lev.
Giunta presto la sera e coricatasi a letto, ripensò per tutta la notte al giovane incontrato, senza avere la forza di addormentarsi.















 
Note 

[1] “Cappuccetto Rosso” in russo.
[2] Concetto ripreso dalla prefazione de “Il ritratto di Dorian Gray”, di Oscar Wilde, precisamente: “Coloro che trovano bei significati nelle cose belle sono colti. Per essi c’è speranza.”
[3] La parlata dello zio è volutamente un po’ sgrammaticata e con alcune calate provinciali, per evidenziare la sua ignoranza.

Trovo un po' difficile spiegare gli elementi di questa storia senza fare qualche mega spoiler. Ci provo.
Per prima cosa è bene sapere che i titoli dei capitoli non saranno messi lì a caso: hanno tutti a che fare con il tema dell'inganno e, capitolo per capitolo, vi spiegherò il perché. Lo "stramonium" o anche pianta del Diavolo, è una pianta dai fiori bellissimi, ma velenosa (ma ora non vi è dato sapere il motivo di questa scelta, muuahahahaha! u.u)

Qesta storia ha partecipato al contest "Cappuccetto Rosso" di Gely_9_5, ottenendo il primo posto *-*; il risultato è fresco fresco, perciò sono ancora emozionata! Soprattutto perché è stata la prima volta che ho scritto qualcosa di diverso dal fandom di Naruto.
Spero dunque che sia di vostro gradimento e di poter sentire l'opinione di qualcuno. :)

A presto con i prossimi capitoli,

Jooles

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Capitolo 2
*** Snake ***


















Capitolo 2
Snake

 

Esme si svegliò molto presto quella mattina, volendo far subito fronte agli impegni che lo zio le aveva imposto il giorno precedente per poter evadere quanto prima possibile e raggiungere l’oggetto dei sui pensieri della notte trascorsa. Lev aveva promesso che l’avrebbe aspettata non prima di mezzogiorno, per cui dalle sei e mezza aveva ben cinque ore e mezza per poter vangare il terreno e scavare profonde buche per i preziosi alberi da frutta dello zio, il quale li avrebbe sicuramente lasciati morire qualche settimana dopo perché troppo ubriaco, o troppo stanco, o troppo pigro, o semplicemente troppo menefreghista per curarsene.
Preparò una ricca colazione con uova, spinaci e due fette di pane ciascuno spalmate di burro. Mangiò la sua in una furia e lasciò invece quella dello zio in una padella con il coperchio, per evitare che si freddasse troppo velocemente.
Indossati gli abiti da lavoro sporchi di terra, Esme si recò nel retro della casa, afferrando una vanga, una paletta più piccola e un rastrello. Tornò sul fronte del giardino e, osservando preoccupata il cielo nuvoloso, piantò con fermezza l’attrezzo in terra, iniziando a innalzare zolle di terra.
Per le dieci e mezza aveva finito tutto il lavoro, sotto lo sguardo limitatamente compiaciuto dello zio, il quale l’aveva osservata per tutto il tempo, masticando dapprima lentamente la sua colazione, senza chiederle se avesse bisogno di aiuto. Non che a Esme importasse, anzi: la presenza dell’uomo l’avrebbe solamente innervosita, dato che si sarebbe lamentato per qualsiasi cosa solamente per il gusto di tormentarla.
Riposti tutti gli attrezzi e spolverato il porticato da residui di terriccio, Esme corse alla volta delle scale, entrando in bagno e spogliandosi più in fretta che poté. Si infilò sotto la doccia, non preoccupandosi minimamente se l’acqua scorresse calda o fredda.
Rientrata in camera sua cercò nell’armadio l’abito più carino che teneva: ne scelse uno bianco con dei motivi floreali molto piccoli e fitti di color rosa pallido, accorgendosi solo una volta indossato che presentava una scucitura sull’orlo di dietro. Lanciò maledizioni al vento, realizzando di non avere tempo per rammendarlo. Pensò però che indossata la mantellina grigia non si sarebbe notato. Più serena a quella prospettiva, si recò alla porta, girando la chiave; poi raggiunse la finestra, aprendola. Nel girarsi per iniziare a scendere le scalette, Esme posò lo sguardo sul cestino che sottostava ai piedi del letto: in quel giorno non le sarebbe servito, e forse non le sarebbe servito mai più.
Toccata terra con i piedi, si assicurò che lo zio non fosse nei paraggi e, inarcando la schiena e piegando le ginocchia per abbassarsi, corse velocemente fuori dal perimetro delimitato dalla staccionata. Una volta all’ombra dei primi alberi, si sentì salva.
 
Marciò a passo spedito per tutto il tragitto che ormai conosceva a memoria, arrivando nel posto prestabilito alle undici e quaranta. Questa volta non si nascose sotto i rami del grande albero al centro della radura, bensì si sedette sul masso poco più avanti, attenta a scegliere un angolo in cui il muschio fosse ancora abbastanza rado, per evitare di strusciarvi sopra e macchiarsi il vestito dell’occasione di verde. Continuò a mirare impazientemente l’orologio fino a mezzogiorno spaccato, non guardandosi intorno ma solo di fronte a sé per evitare di mostrarsi troppo impaziente nel caso in cui Lev fosse giunto in ritardo.
Qualche secondo più tardi una voce da dietro le spalle la fece sussultare proprio mentre stava alzando nuovamente il polso per controllare l’ora.
«Impossibile che io sia in ritardo» la calda voce di Lev la investì, compensando la mancanza del sole di quel giorno.
Esme guardò ancora l’orologio, facendo finta che fino ad allora non si fosse preoccupata di guardarlo.
«Ah, non vi avevo fatto caso. Diabolicamente puntuale» disse, sorridendo al giovane.
Esme notò che, contrariamente a lei, non si era preoccupato di cambiarsi gli abiti del giorno precedente. Eppure la sua aria non era malconcia o sporca. Era tremendamente perfetto.
Solo in quell’istante Esme notò un bizzarro particolare.
«Come fai a indossare quella giacca così pesante con questo caldo?» chiese, sinceramente curiosa.
Lev abbassò lo sguardo per osservarsi gli abiti e allargò leggermente le mani infilate nelle tasche del giubbotto, mostrando un qualcosa all’altezza del suo fianco che non sfuggì a Esme.
«Hai una macchia, mi sembra, lì…» e indicò il fianco destro del ragazzo. Fece per avvicinarsi e poterlo toccare, per mostrargli il punto in cui aveva visto il difetto.
Lev si tirò indietro, spaventato, impedendole di avvicinarsi ulteriormente. Si accorse però di come quel suo gesto avesse fatto preoccupare Esme, perciò sfoderò un sorriso imbarazzato.
«Ecco, vedi… sta mattina mi sono versato il caffè addosso facendo colazione» spiegò. Esme parve capire e si diede della stupida per aver creato un ulteriore divario tra loro. Evidentemente non amava essere sfiorato, poteva capirlo benissimo, d’altronde erano due perfetti sconosciuti.
Lev la guardò per poi spalancare gli occhi, tradendo una certa apprensione.
«Come mai oggi non hai il tuo cestino, Krasnaya Shapochka?» le domandò.
Esme rimase allibita da quella domanda improvvisa e fuori luogo.
«Oggi non mi serviva, così l’ho lasciato a casa.»
Lo sguardo di Lev si addolcì, avvicinandosi di pochi centimetri verso di lei. Poi si passò una mano tra i capelli, abbassando gli occhi in segno di imbarazzo, infine li strofinò in segno di chiara stanchezza.
«Devi perdonarmi per questo mio comportamento impaziente di oggi; sono solamente molto stanco e non vorrei averti offesa o ferita con questo mio tono sconveniente.»
Esme si maledisse nuovamente, cosa che di fronte a lui sembrava capitare spesso ultimamente, per averlo fatto spazientire. Gli disse che non doveva scusarsi di niente e che anzi, lo capiva benissimo.
Quel tono fece brillare negli occhi color della tempesta di Lev un moto di curiosità verso la giovane.
«Non ho potuto tralasciare di notare una vena melodrammatica nel tuo tono mentre dicevi di comprendermi benissimo: se hai qualche problema, puoi confidarti» disse suadente.
Lev la invitò a sedersi sul prato appena al di sotto dell’olmo; attese che Esme si sedesse, per poi scegliere un posto a qualche metro di distanza da lei: molto probabilmente Esme pensò che non volesse essere toccato accidentalmente. Il ragazzo, preso comodamente posto e lisciatosi la giacca, la invitò con un lieve cenno del capo a parlare.
«Non so se sia una cosa giusta, ma vedi, tu sei l’unico ragazzo della mia età, più o meno, che incontro da anni» disse Esme, tentando di scusarsi anticipatamente per lo sfogo tempestoso che avrebbe previsto da un momento all’altro.
Lev sembrarono non interessargli le scuse poiché quel suo sguardo dai colori così limpidi eppure profondi esortò la ragazza a continuare. Inoltre l’inarcamento delle sue sopracciglia in segno di concentrazione fece capire ad Esme che non l’avrebbe interrotta con commenti o supposizioni fin quando non avesse finito il suo racconto.
E si sentì libera di potersi sfogare per la prima volta.
«Mia madre morì dieci anni fa» iniziò, come un fiume in piena, evitando di guardare il ragazzo direttamente negli occhi, per timore che le parole le sarebbero venute a mancare da un momento all’altro.
«Un brutto incidente, mi aveva detto mio zio, suo fratello. Stava girando per i boschi e si perse. Questo è quello che mi raccontò. Pochi anni più tardi scoprii che scivolò per un percorso sdrucciolevole, batté la testa e il fiume che scorre all’interno del bosco se la portò via. In fin dei conti sì, si era persa, ma nessuno mi aveva detto che fosse morta.» Fece una breve interruzione, alzando gli occhi verso l’alto per evitare di iniziare a lacrimare.
«Mio padre non l’ho mai conosciuto. Mio zio mi disse una volta, mentre era ubriaco e in vena di confessioni, che mio padre si spaventò all’idea di una gravidanza di mia madre e, dato che erano tutti e due molto giovani, l’abbandonò. Non ho mai sofferto l’assenza di un padre, devo dire.»
«In ogni caso, ora mi ritrovo a vivere con mio zio. È un uomo molto…». Si bloccò. Lev non la guardava più negli occhi, questi ora erano rivolti, fintamente interessati, a due ciuffi d’erba sottostanti, che stuzzicava come se fossero la cosa più promettente che avesse visto fino a quel momento. Poi si stropicciò gli occhi con la mano che non era intenta a strapazzare quei filini verdi, provocando un sonoro tonfo nel cuore di Esme. Che avesse detto qualcosa che non andava?
Tentò di allungare una mano verso la spalla del giovane, per consolarlo di qualcosa che neppure sapeva cosa fosse. La risposta di Lev fu spiazzante: si allontanò di scatto e iroso, spaventato nello sguardo all’idea che qualcuno lo avrebbe sfiorato.
«Non ti avvicinare!» gridò in preda alla disperazione, le iridi che si muovevano come impazzite nelle orbite, la sclera[1] rovinata da piccole venature rossastre.
Lev percepì la preoccupazione di Esme, così si ridestò in men che non si dica, lisciandosi minuziosamente il giubbotto e stringendoselo attorno ai fianchi, coprendo i vestiti che si intravedevano al di sotto. Sfoderò un sorriso falsamente ingenuo, poi prese a parlare con voce mesta, così in contraddizione con l’urlo isterico di poco prima.
«Anche io venivo maltrattato, diciamo, dalla mia famiglia. È per questo che sono scappato e ora vivo da solo. E mi sento davvero troppo solo, Esme. Per questo ti ho domandato di incontrarmi nuovamente qui.»
Esme rimase colpita di fronte quella confessione e il fatto che lui si fosse accorto, nonostante non glielo avesse ancora detto, che veniva maltrattata dallo zio, passò in secondo piano. Il giovane così indipendente che aveva conosciuto poco più di ventiquattro ore prima era stato sostituito da un suo clone, vulnerabile e solo. Proprio come lei. Prima che però potesse scusarsi per essersi avvicinata a lui, per poter mostrare la sua comprensione Lev le allungò una mano. Esme capì che non doveva afferrarla, semplicemente intendere quel gesto in qualche modo. Le parole del giovane che seguirono cancellarono ogni dubbio circa quel cenno.
«Ti chiedo di seguirmi, di venire a farmi compagnia nel mio mondo.» Il suo volto si avvicinò a quello della giovane ragazza, fermandosi a pochi centimetri dal suo naso. Nonostante la vicinanza Esme non riusciva a percepire il suo respiro, ma si concentrò sullo sguardo ipnotico che le veniva rivolto.
E capì, allora, che lo avrebbe seguito in capo al mondo; nonostante le sue piccole stranezze e i suoi comportamenti ambigui, quel ragazzo meritava comprensione, così come Esme sentiva di meritarsi quella del giovane.
Finalmente la ragazza sentiva per la prima volta in vita sua che una piccola grande svolta era già nata dall’incontro, il giorno precedente, con Lev. L’aver conosciuto accidentalmente –o per qualche scherzo ben accetto di un destino birichino?- il ragazzo, aveva segnato un enorme cambiamento. Se due giorni prima Esme aveva creduto che la sua vita sarebbe dovuta finire, e anche in fretta, per evitare di continuare a far fronte a soprusi e violenze immeritate, ora invece intravedeva in lontananza un tunnel di speranza che si avvicinava a gran velocità.
E lei lo avrebbe imboccato, quel tunnel.
Il suo pensiero venne scosso brutalmente da un’esclamazione burbera del giovane, il quale si alzò in una furia lisciandosi e abbottonandosi la giacca, tenendo il gomito alzato e piegato in modo che potesse vedere l’orologio legato al polso sinistro.
«È tardissimo!» annunciò più a se stesso che alla persona che aveva di fronte. A grandi passi iniziò ad allontanarsi verso la foltezza degli alberi, senza rivolgere alcuna parola di spiegazione alla ragazza.
Esme fece per alzarsi di corsa, intenzionata a seguirlo. Seduta per terra non riuscì a vedere di quanto si fosse allontanato il ragazzo, a causa del rigoglioso fogliame che le oscurava a tratti la visuale. Improvvisamente però percepì la voce suadente di Lev così vicina, come se le stesse sussurrando all’orecchio.
«Domani, a mezzogiorno. Porta il tuo cestino.»
Esme, sconvolta e spaventata dall’udire una voce così chiara quando sapeva benissimo che Lev ormai si trovava a molti passi di distanza da lei, si alzò più in fretta che poté, intenzionata a urlargli dietro di attenderla e di non andarsene così in fretta.
Quando scostò i rami per uscire allo scoperto, di Lev non rimaneva nemmeno l’ombra.
 
Esme iniziò a correre a perdifiato per il sentiero. Era l’una in punto quando Lev era scomparso all’interno della foresta, così improvvisamente tanto quanto era comparso, precisamente un’ora prima. Era decisa a trovarlo, sicuramente stava camminando sullo stesso percorso che avrebbe condotto lei a casa. Eppure, solcando con i suoi passi l’intero tracciato, di Lev non scorse nemmeno una minima traccia.
Pensò dunque che avesse imboccato qualche altro sentiero a lei sconosciuto. D’altronde, se aveva la capacità di presentarsi all’improvviso al suo capezzale per poi sparire in altrettanto modo, doveva conoscere bene quel luogo e sicuramente usufruiva di tutti i suoi segreti.
Così, un po’ perché le era iniziato a mancare il fiato, un po’ anche perché ormai si disse che non lo avrebbe trovato, Esme iniziò a rallentare il passo.
 
Se l’era presa comoda nel percorrere il tragitto di ritorno verso la sua casa, tanto che quando vide gli alberi diradarsi e a pochi metri di distanza finalmente, o forse no, la casa, erano già le due e mezza.
Tentò di evitare il benché minimo rumore, non riuscendo a intravedere lo zio da nessuna delle finestre. Quindi pensò che avrebbe dovuto sbrigarsi, per evitare di vederselo spuntare inaspettatamente dietro l’angolo. E sapeva già in principio che si sarebbe rivelato un incontro per lei fatale.
Superò alla velocità di un razzo il giardino, per quanto la posizione piegata sulle gambe per tentare di non farsi vedere le potesse permettere. Raggiunse la parete di legno della casa e vi si spiaccicò di schiena, attendendo che il respiro le tornasse regolare. Poi si affacciò all’angolo per scoprire se lo zio si trovasse da quella parte della casa e, vedendo che di lui non vi era traccia, corse in quella direzione. Si parò dinanzi alla scaletta che saliva fino alla finestra della sua camera ed era già al quarto gradino, quando una presa ferrata alla caviglia le impedì di andare oltre. Il sangue le salì al cervello talmente velocemente che le fece scoppiare un atroce mal di testa; iniziò a divincolarsi dalla presa in maniera forsennata, quasi ne dipendesse la sua vita. Si voltò verso l’assalitore e si spaventò vedendo negli occhi dello zio uno sguardo omicida.
«Lasciami!» gridò Esme, sapendo comunque che stava sprecando fiato.
«Scendi, razza di ingrata! Ti ammazzo, hai capito? Ti faccio a pezzi, bastardina!» lo zio saldò ancora di più la presa sull’esile caviglia della nipote, allungando l’altra mano che fino ad allora era rimasta libera e attorcigliandola intorno all’altra per fare più forza.
La violenza della sua cattiveria riuscì a strattonare Esme che cadde sul terreno ai piedi dell’uomo, inutili i tentativi di resistenza. Un po’ stordita dall’urto con il suolo, un po’ per la paura, le sue gambe non accennarono a reagire: giaceva a terra con sguardo disperato, conscia della sua sorte.
L’uomo, principalmente perché non si aspettava una simile resa, rimase per circa dieci secondi a fissare quella maledetta ingrata ai suoi piedi. Poi, come ridestato da un lampo scagliato dall’alto, comprese che doveva fare qualcosa. La prima mossa che gli venne in mente fu di tirarle un calcio allo stomaco.
«Verme! Che ti credi, che io ti cresco e tu non fai un cazzo dalla mattina alla sera? Dove sei stata, eh? Tu mi devi che cucinare il pranzo e la cena, io che muoio di fame mentre tu te la spassi in giro! Dimmi dove sei stata, lurida cagna!» e quelle parole costituirono come un impulso a scagliare anche fisicamente la sua rabbia su quel corpo riverso a terra. Si inginocchiò rendendogli più facile l’atto di battere pugni e schiaffi sul corpo minuto della nipote, incurante del fatto che ormai il labbro della giovane fosse spaccato in due o tre punti per le botte subite.
Ciò che lo costrinse a fermarsi fu il fatto che Esme sembrava stare per perdere i sensi da un momento all’altro.
«Fila in camera» disse in un sussurro,  guardandosi le mani macchiate di piccole chiazze di sangue. Se le strofinò sul grembo dei pantaloni come a pulirsi da quel peccato e si allontanò, sputando a terra.
Rimasta quasi senza fiato e stordita irrimediabilmente, Esme si lasciò cullare per una buona decina di minuti dal venticello che si era appena innalzato. In seguito, tenendosi la testa tra le mani per paura che potesse esplodere da un momento all’altro, tese le gambe per alzarsi, arrancando faticosamente per i pioli della scaletta.
Aperta la finestra e lasciandosi cadere a peso morto dentro la stanza, assaggiò con il corpo il pavimento come se fosse un morbido materasso di piume d’oca. Il suo sguardo vagò per la stanza che in quegli ultimi anni aveva odiato con tutta se stessa, per poi fermarsi alla vista di un cestino di paglia intrecciata, giacente ai piedi del letto.
Lev aveva visto giusto: domani sarebbe stato il giorno perfetto per inoltrarsi nella foresta con quel cestino.
 
 

[1] Parte bianca dell’occhio.

















Note

Eccomi con un aggiornamento alquanto veloce/velocetto (?) visto che le visite non scorrevano. Spero che questa volta qualcuno noti la storia e che mi faccia sapere cosa ne pensa; il giudizio della giudicia è stato molto importante e ben articolato, ma vorrei sentire altre bocche (o mani, in questo caso, che lasciano una recensione): secondo voi ci sono errori, ci sono pezzi che non vi convincono ecc... (non mordo, tranquilli ^^).

Il titolo del capitolo "Snake" ha un collegamento all'inganno, e ora vi spiego il perché (ricordate che il succo principale della storia è l'"inganno", ma non posso dirvi il perché altrimenti vi rovinerebbe tutto, no?): si rifà al mito cristiano di Adamo ed Eva, secondo cui il serpente ingannò la donna facendole mangiare la mela. E da lì sappiamo tutti cosa è accaduto dopo.

Bene, mancano solo altri due capitoli alla fine, non disperate u.u.
Baci,

Jooles

 

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Capitolo 3
*** Mirror ***


















Capitolo 3
Mirror

 

«Non preoccuparti piccola mia, non sarà sempre così, vedrai.» Una donna dal sorriso fatto di perle le parlava candidamente, infondendo sicurezza in ogni parola che le sue labbra emettevano.
«Non devi mai arrenderti, mai» ora la sua espressione era più dura, le sopracciglia inarcate nervosamente verso l’interno, piccole rughe di espressione a dividerle. Forse in quegli ultimi giorni la donna aveva percepito una falla nel cuore della ragazza, l’inizio di un sentimento di arrendevolezza che dopo gli avvenimenti di quel pomeriggio aveva fatto ancora più presa sulle sue convinzioni.
Perché sì, Esme era stanca di ciò che le era rimasto della vita dopo la sua morte.
«Perché sei morta?»
La donna si mostrò ancora più preoccupata.                                  
«Esme, devi promettermi che qualsiasi cosa accada, tu non smetterai di sperare. C’è sempre una soluzione per chi persevera nella speranza» disse.
Non sarebbe stata sua madre se non avesse intuito quello che Esme già da un po’ pensava di fare. Per di più in quegli ultimi giorni, durante i quali aveva trovato un valido alleato che, seppur inconsciamente, l’aveva supportata nella sua decisione.
Lui non sapeva per quale motivo fosse entrata nel bosco per la prima volta, eppure con le sue parole l’aveva esortata a compiere quel gesto.
Esme si voltò, vide la madre che si allontanava, i lunghi capelli che ondulavano al ritmo dei suoi passi.
«Mi dispiace mamma, ti ho delusa.»
«Non la deluderai se andrai con lei.» Una voce calda, profondamente suadente.
«Perché mi dici questo, Lev? Dovrei ascoltare ciò che dice mia madre, non le parole di uno sconosciuto» disse confusa.
Incastrò il suo sguardo in quello del ragazzo, rimanendovi incollata mentre gli si avvicinava. Lev sfoderò un ghigno arcigno, incitandola ad avvicinarsi. Doveva approfittarne, non le avrebbe concesso un’altra occasione per potersi trovare così vicino alla sua persona.
Lev continuava ad esortarla a raggiungerlo, il braccio teso, piegando la mano in avanti e indietro, come se fosse lui a trascinarla tramite un filo invisibile.
«Vuoi raggiungere tua madre?» le domandò, le labbra rivolte all’insù da un solo lato, lo sguardo più acceso che mai.
Esme annuì con la testa.
«Cosa aspetti? Ti prometto che noi continueremo a vederci comunque» gli occhi cambiavano nel frattempo colore, il caldo e rassicurante grigio lasciava spazio ad un serpentino ocra.
«Lo prometti?» Esme percepì qualcosa lambirle il collo, come se qualcuno le avesse fatto indossare una pesante collana senza averglielo detto. Si tastò il collo, toccando una spessa e ruvida corda, di cui Lev tratteneva un’estremità.
Le pupille dilatate del ragazzo gioirono quando improvvisamente egli strattonò quel lembo di cordone e vide il terrore farsi largo nel volto di Esme. Il cappio che si faceva sempre più stretto attorno al suo giovane collo, Esme che silenziosamente iniziava a perdere i sensi. Mentre lentamente soffocava, poté udire le parole del ragazzo.
«Non preoccuparti, potremo continuare a vederci.»
 
La finestra sbatté rumorosamente addosso al suo cornicione. Esme si piegò a sedere sul letto, spaventata da quell’improvviso fragore. Scostò le coperte, notando che fossero umide. Quando si alzò sulle gambe per avvicinarsi alla finestra e poterla chiudere, notò che un velo di sudore le ricopriva la fronte, le braccia, il collo. Si portò meccanicamente le mani alla gola, come se ricordasse qualcosa di cui avrebbe dovuto preoccuparsi; una spiacevole sensazione le si fermò nella trachea, riuscendo a stento a deglutire il groppo di saliva, che le sembrava pesante come un mattone. Ricordava di aver sognato qualcosa, probabilmente un’immagine spaventosa, un incubo, a giudicare da quella continua sensazione di nervosismo e ansia, il sudore di chi aveva lottato nel sonno contro un qualche fantasma.
Sigillò la finestra e, con la speranza che la luce del giorno si sarebbe fatta viva presto per cacciare quel buio che la soffocava, tentò di riaddormentarsi.
 

≈¤≈


Le undici e trenta, precise. Più precise persino della precisione con cui Lev appariva dal nulla, perfettamente puntuale allo scoccare di mezzogiorno. L’albero sotto il quale giaceva Esme aveva iniziato a invecchiare, solo ora che lo osservava degnamente lo poteva notare: lo spessore del tronco si era fatto notevole, i suoi nodi ne segnavano l’età avanzata, come le rughe sul volto di un anziano. Inoltre, numerosi erano i ramoscelli che si spezzavano per la loro debolezza, accasciandosi gracili sull’ombra che il fogliame creava. Il sole riusciva così a filtrare attraverso quegli esili stecchini, giocando a creare bagliori color dell’oro quando i suoi raggi colpivano quel qualcosa dentro il cesto che Esme si era preoccupata di portare con sé, quel giorno.
Non le importava se non lo avrebbe rivisto, le bastava il fatto che fosse stato proprio lui a darle la forza per compiere quel gesto. Dopo essersi svegliata durante la notte, aveva ripensato a cosa le avesse fatto provare quella strana sensazione di ansia e preoccupazione, a cosa era dovuto il fatto che grondasse di sudore, nemmeno fosse metà del mese di agosto.
E dopo pochi minuti la verità l’aveva investita come un’onda gelida dell’oceano: il fatto che avesse avuto un incubo non le doveva poi essere così estraneo, d’altronde la sua propria vita era un incubo sin dalle fondamenta. Un’esistenza misera e marcia, resa tale da forze che non sarebbe mai riuscita a domare.
Ma il fatto che il ragazzo di cui si era fidata fosse l’oggetto del suo incubo, questo sì che le provocava dentro un moto di terrore.
Proprio per quel motivo quel giorno era decisa a non incontrarlo. Aveva profanato il suo angolo di paradiso con la sua presenza, lei, lei sola poteva stare in quella radura. Lei e sua madre, che avrebbe voluto presto rivedere.
Sarebbe dovuto accadere tutto prima di mezzogiorno, la fatidica ora: lui non sarebbe rimasto con lei, non avrebbe assistito.
Si inginocchiò, la testa leggermente piegata a fissarsi le cosce, le mani tremanti poggiate su di esse.
«Cosa stai facendo?», una voce allarmata le rimbombò dentro il cervello, come a volerlo sfondare.
Esme sgranò gli occhi, voltandosi intorno furtiva, provando a capire da dove provenisse il suono di quella voce. Non notando anima viva, riprese la sua posizione meditabonda.
«Non farti questo, piccola mia. Hai tutta la vita davanti.»
Avrebbe riconosciuto quella voce anche in mezzo ad un boato composto da tante altre.
«Perché ti fai sentire ora che ho più bisogno della mia forza? Non puoi dirmi questo mamma…».
“Credi sia questa la soluzione?”
Esme pensò che vi fossero molte altre soluzioni tra le quali avrebbe potuto scegliere continuare a lottare, forse, fuggire anche era stato contemplato. Eppure, stanca dell’enorme fatica in cui era vissuta fino a quel momento, aveva voglia di qualcosa di molto facile da ottenere.
Uccidersi sarebbe stata la via più breve.
Doveva sbrigarsi o Lev sarebbe comparso da un momento all’altro e sarebbe stato costretto ad assistere a quel suo spettacolo, più simile ad una calata del sipario.
«Lotta Esme, devi lottare! Lascia stare le parole adulatrici di quel ragazzo, quel demonio!» Esme non aveva mai sentito, per quanto ricordasse, sua madre inveire contro qualcuno, non in quel modo.
Si lanciò dunque in un pianto disperato. Percepiva un vorticoso mulinello generato da due principali sensazioni, dentro sé: dare ascolto ad uno sconosciuto e lasciare quel mondo per sempre; far fede alle parole di sua madre e lottare, nonostante fosse stanca e quasi senza forze, meno ancora di speranza. Eppure un briciolo ancora perseverava.
E se quel briciolo fosse bastato? Se in un futuro, non molto lontano, le si fosse presentata l’occasione per allontanarsi dalla sua casa che non aveva mai sentito veramente sua, da una persona che non aveva mai nutrito il più minimo accenno di amore nei suoi confronti? Per un attimo arrivò addirittura a sperare che presto lo zio sarebbe morto e che l’avrebbe lasciata finalmente da sola, nella pace dei sensi e dell’anima.
E senza rendersene conto, scoccò mezzogiorno. Lo capì non perché avesse controllato l’orologio, ma dalla voce che udì.
«È dura immagino, quando arriva il momento.»
Esme si premurò di asciugare per bene le lacrime. Era lo stesso dei giorni precedenti: stessi pantaloni e stesso giaccone, stessa pettinatura, nemmeno un filo di barba cresciuto; notò che non si era nemmeno preoccupato di cambiare il maglione macchiato.
Giocò alla finta tonta.
«Quando arriva cosa?»
Lev le scoccò un’occhiata intimidatoria, o almeno così le parve: non era durata più di un attimo, che si impose di nuovo il solito angelico faccino.
«Credi che non abbia compreso cosa si annida lì dentro?» e indicò il suo petto, all’altezza del cuore.
«Siamo più uguali di quanto tu creda. Ti sto dando una possibilità, anzi, ti sto dando la forza per ottenere quella possibilità! Non fare come me, prendila al volo! Ci sono io qui. E poi chi lo sa, potremmo anche rivederci.»
Esme congelò sul posto. L’ultima frase le aveva riportato alla mente un simile discorso in precedenza già udito.
«Potremo continuare a vederci».
Un’illuminazione la colpì.
«No! Non ti permetterò di ucciderti!», trasudava preoccupazione dal suo corpo. Era intimorita dalla colpa di aver trascinato anche lui sul suo stesso baratro, ma notò che mentre lei si disperava per il fatto di averlo convinto, seppur inconsapevolmente, a seguire la sua stessa sorte, Lev tratteneva lo stomaco, in preda ad un’eruzione di ilarità.
Quando ebbe ripreso fiato dalle risate riprese a parlare.
«Ah, sei così dolce, Esme. Non lo capisci che non sono più vivo? Tu nemmeno, lo sei! Ti sembra vita questa? Avanti. Pensavo fossi molto più coraggiosa» ora Esme iniziava a riconoscere una certa somiglianza tra il ragazzo dagli occhi ridotti a fessure come quelle di una serpe che aveva visto nel suo incubo, e il giovane che stanziava di fronte a lei.
Non poteva sopportare di morire con la consapevolezza di aver trascinato un innocente con lei.
«Non voglio più farlo» disse risoluta. Sperò che le avrebbe creduto, che se ne sarebbe andato.
Le mani del ragazzo iniziarono a tremare, come se volesse reprimere uno scatto d’ira che impulsivamente avrebbe eruttato di lì a poco.
«Il rifiuto non è contemplato» sussurrò, seppur abbastanza forte affinché Esme potesse sentirlo.
Così, la ragazza tentò la sua ultima carta: la disperazione.
«Perché? Mi spieghi perché lo fai? Perché insisti così tanto che io mi suicidi?»
«PER NON RIMANERE SOLO!» Quell’improvviso cambio di tono fece sobbalzare Esme, che inconsciamente fece un passo indietro, come se fosse sicura che sarebbe stata attaccata da un momento all’altro.
«Ma non ha senso!» sbottò disperata. «Possiamo farcela se ci sosteniamo a vicen-»
«Cazzo, ma allora proprio non vuoi capire!» La collera che abitava quel corpo sembrava non appartenergli, non poteva essere del giovane dolce e pacato che aveva incontrato pochi giorni prima. Doveva essere opera di qualche demonio che si portava dentro, qualche fantasma che da giovane lo aveva fatto soffrire, ma che si manifestava in tutta la sua potenza solo ora, adesso che aveva trovato qualcuno simile a lui.
Fece due passi scattanti in avanti, la mano tesa e aperta verso di lei, come se volesse afferrarla per il collo e poi scuoterla. Si fermò però a pochi centimetri dal suo corpo.
«Prendi la corda!» le ordinò.
Esme gli rivolse uno sguardo interdetto. Come poteva saperlo?
«Come fai a saperlo?»
Lev provocò uno sbuffo di stizza.
«Andiamo Esme. Siamo più simili di quanto tu creda. Prendi la corda che hai nel cesto e facciamola finita.»
L’espressione minacciosa che gli si era dipinta sul volto solo in sembianze angelico la ferì, perché pensava che avrebbe potuto fidarsi di quel giovane.
D’un tratto, chi sa per quale bizzarro motivo, Esme ripensò all’ultimo racconto che le aveva letto sua madre: Cappuccetto Rosso.
«Cosa ci insegna questo racconto, Esme?»
«Che non si deve entrare da soli nella foresta?»
«Che non bisogna fidarsi del lupo cattivo.»
«Non bisogna fidarsi del lupo cattivo» ripeté sottovoce. Nel frattempo aveva aperto il cestino, afferrando la corda che teneva dentro, osservando il suo riflesso che si specchiava sul gancio dorato fissato a una delle due estremità del cordone. Si alzò poi molto lentamente, girandosi verso colui a cui dava le spalle in maniera altrettanto calma.
«Brava, ora attacca il gancio a un ramo e crea un cappio, forza» la esortò impaziente.
Ma Esme non aveva intenzione di ubbidire.
Afferrò saldamente il gancio e lo lanciò velocemente e con cattiveria addosso a Lev, mirando alla sua testa. Poi si voltò rapida verso la foresta, iniziando a correre a perdifiato. Era sicura di averlo colpito, eppure non udì i lamenti di dolore che Lev avrebbe dovuto innalzare dopo esser stato ferito con un oggetto solido sul capo. Non volle voltarsi, avrebbe perso terreno prezioso che li divideva, perché sapeva fin troppo bene che lui la stava inseguendo.
Esme credeva di avere un discreto vantaggio territoriale, per il fatto che conosceva abbastanza bene quei boschi. Eppure si ricordò solo dopo che anche Lev doveva essere esperto, se abitava lì come in precedenza le aveva detto.
«Fermati!» ordinò il suo inseguitore, la voce che fece eco nella vastità della foresta, dandole l’illusione che fosse circondata da tanti Lev.
Continuò per il sentiero che le si presentava davanti, scansando in preda al panico i rami che le intralciavano la corsa; il suo respiro affannato faceva da eco a quello del giovane e si disse che se poteva udirlo doveva essere molto vicino. Aumentò la velocità, per quanto le gambe ancora le concedessero, schivando all’ultimo momento un piccolo cespuglietto, non curandosi dei graffi che le procurò un ramo spinato a contatto con la sua caviglia nuda. La sua mente era troppo preoccupata a schivare quello che stava a terra per preoccuparsi di ciò che invece la circondava.
E fu per quello che accadde.
Gli occhi cercavano di tenere il passo con il terreno che scorreva rapido sotto i suoi piedi e nemmeno si rese conto dello spesso ramo che penzolava a pochi metri da lei. In effetti non si rese conto nemmeno del dolore che conseguì dopo avervi sbattuto con violenza la testa, l’urto talmente potente a causa dello slancio e la foga disperata con cui correva che rotolò a velocità inaudita giù per il sentiero selvaggio e non battuto. Un tuffo ruppe l’immobilità della foresta e il corpo della ragazza venne trascinato tra i mulinelli d’acqua che il fiumiciattolo creava.
L’unica creatura apparentemente vivente nell’eterno riposo della foresta, il fiume, avrebbe trasportato per sempre con sé il suo corpo inerme.
Immobile come una statua, Lev osservò dall’alto della sua posizione la ragazza che spariva tra le curve del sentiero d’acqua. Attese. Da quanto ricordava non ci sarebbe voluto molto. Si mise comodo.
 

≈¤≈


«Mi sento strana» disse inquieta la ragazza. Si vedeva che aveva una gran paura, ma era comprensibile. Ricordava di averla avuta anche lui, all’inizio. Si alzò. Aveva fatto bene a sedersi e a stare rilassato, aveva dovuto attendere per un’oretta prima di vederla apparire.
La ragazza si tastò la fronte, aveva un tremendo mal di testa. Percepì qualcosa di umido vicino all’attaccatura dei capelli e, quando abbassò le dita per capire di cosa si trattava, rabbrividì.
«Hai battuto la testa» le disse il ragazzo.
Esme cerò di cancellare le tracce di sangue che le ricoprivano le dita.
«Devo essere svenuta, allora» constatò, sollevata del fatto che fosse ancora lì, ma spaventata dal giovane con cui era in compagnia.
Lev sorrise; in fondo anche lui all’inizio aveva avuto quella stessa ingenuità.
«No, non lo sei» le disse.
«Beh no, ora mi sono ripresa» Esme rimase interdetta di fronte alla meschinità del ragazzo, il quale anche di fronte ad una situazione del genere aveva voglia di scherzare, o fare il superiore, o qualunque cosa credesse di poter riuscire a fare.
«Non ti riprenderai» l’avvertì.
Ne aveva avuto abbastanza dei suoi discorsi insensati, dei suoi sproloqui per farla sempre sembrare stupida nei suoi confronti, come una gara a chi fosse più istruito.
Lev le tese una mano ed Esme ricordò che già una volta aveva ripetuto quel semplice gesto, ed era stato per invitarla ad alzarsi, o a sedersi i ricordi le apparivano confusi e distorti, convenendo infine che fosse dovuto al mal di testa e alla botta presa.
«Afferra la mia mano» le ordinò.
Esme fissò le sua dita eleganti e fini, talmente tese che si ripiegavano leggermente all’indietro. Questa volta glielo avrebbe lasciato fare, lo sapeva, era proprio lui ad ordinarglielo, non poteva rifiutare e di certo la troppa curiosità non le avrebbe permesso di farlo.
Senza esitare si avvicinò con foga, quasi scivolando sul fogliame umido, e spinse la sua mano protendendola in avanti a toccare quella del ragazzo. Ma non si toccarono.
Esme pensò che forse il colpo subito alla testa fosse il colpevole di quella visione, sicuramente aveva la vista distorta dal dolore e quindi aveva mancato la presa con la mano del giovane. Eppure aveva percepito qualcosa, non solido, ma umido e gelido.
«Non puoi toccarmi.»
Che ci avesse ripensato? Esme iniziò davvero a innervosirsi poiché a quel punto era palese che si stava prendendo gioco di lei.
Si slanciò verso di lui, il braccio teso e le dita aperte, tenendo rigida la mano, decisa a schiaffeggiare quel volto falsamente angelico.
Stessa sensazione, stesso gelo. Non lo toccò, né lo ferì: lo oltrepassò.
Represse a stento un gridolino di spavento mentre Lev sorrideva beffardo, osservando come secondo dopo secondo sul volto di Esme si dipingeva un’espressione sbigottita. Stava iniziando a capire.
«No… non può essere vero!» si portò le mani alla bocca, come a non voler fare uscire quella parola che avrebbe reso tutto più vero.
Lev annuì lentamente, mentre Esme sgranava gli occhi, si portava le mani ai capelli stringendoli, quasi li volesse strappare per convincersi, attraverso il dolore, che non fosse finita, non in quel modo.
Doveva convincersi che non era morta davvero.
«Tu… tu lo sei sempre stato!» Il ragazzo non trovò necessario confermare quello che aveva appena detto.
«Perché hai voluto che morissi? Che razza di persona sei?» gridò disperata.
«Ora finalmente non sono più solo» e Lev sorrise, per la prima volta nella sua vita avrebbe avuto la compagnia di qualcuno che lo avrebbe capito. Le avrebbe raccontato tutta la sua storia e sarebbero diventati amici.
Sarebbero diventati buoni amici, sarebbero rimasti giovani per l’eternità.
Per la prima volta dopo ventisei anni dalla fine della sua vita, vivere nella morte per Lev non sembrava più così terribile.
















Note

Eccoci al penultimo capitolo. Ve lo aspettavate? Il prossimo sarà di spiegazione: verrà raccontata tutta la storia di Lev e di come è morto.
Spero che vi sia piaciuta questa storia e che il finale non sia stato troppo scontato. Gradirei davvero tanto una vostra opinione questa volta, fatemi sapere come vi è sembrato il capitolo, è importante per me. :)
Ora che è stato svelato il tema dell'inganno, posso rivelarvi i significati dei titoli attribuiti ai capitoli.
Innanzitutto, Lev ha ingannano Esme sin dall'inizio in quanto voleva che si suicidasse per stare con lui, fargli compagnia nel mondo dei morti. La seduceva con parole fini e discorsi eloquenti.
Come avevamo già detto nel primo capitolo, lo Stramonium è una pianta molto bella ma velenosa: l'ho voluta paragonare a Lev in quanto anche lui è un ragazzo molto bello, ma dagli intenti loschi. Mirror (ovvero "specchio") è ingannevole in quanto l'immagine che si riflette a volte non è come sembra.
L'ultimo capitolo sarà intitolato "Wolf", indovinate perché? ^^

Alla prossima settimana con l'ultimo capitolo. :)

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Capitolo 4
*** Wolf ***




Capitolo 4
Wolf

 




 

Ventisei anni prima
 

«È davvero bella, tesoro.»
Il signor Nicolaj Sokolòv cinse con un braccio il sottile fianco della moglie, sorridendo al suo indirizzo, mentre la signora Vera Sokolòv guardava raggiante la villa al limitare del bosco che avevano appena acquistato.
«Credi che ci ambienteremo, qui?» domandò con un velo di preoccupazione la signora.
In signor Nicolaj si voltò a guardarla.
«Stai tranquilla, cara. Siamo venuti qui in Irlanda proprio perché nessuno ci conosce. Vedrai che staremo bene, Dan soprattutto. Il dottore ha detto che un po’ di aria pulita avrebbe fatto bene alla sua salute mentale.»
Gli era stata venduta davvero per poco, tanto che la signora Vera si preoccupava che non ci fossero importanti ristrutturazioni da fare, poiché a dir suo non aveva voglia di passare attraverso lavoratori che le infestavano la dimora, polvere da pulire ad ogni angolo e rumori di trapani, martelli e qualsiasi cosa le turbasse la pace interiore. E non solo la sua.
Il motivo principale per cui avevano deciso di trasferirsi dalla frenetica vita di città in un luogo più etereo e tranquillo quale la foresta era il loro primogenito.
 
Dan era sempre stato l’orgoglio della famiglia: bello e fresco nei suoi ventiquattro anni appena compiuti, una bellezza fuori dal comune tipica della stirpe dei Sokolòv. La signora Vera si vantava di come i suoi due figli avessero ripreso i suoi occhi grigio cenere e i suoi lineamenti fini, mentre il signor Nicolaj era fiero di sbandierare a chiunque glielo domandasse circa il sottile ingegno dei due fratelli, “Degni della famiglia dei Solokòv”, era solito concludere qualunque elogio con quella frase.
I Sokolòv si portavano dietro secoli di storia, in quanto già dalle origini erano stati una delle famiglie più ricche e influenti dell’esteso paese e le leggende narravano di un vecchio barbone, il burbero Ivanov Sokolòv, che attorno al 1700 aveva avuto l’ardire di recarsi nelle Americhe, facendo ritorno decenni più tardi con un’immensa fortuna. Da lì, la loro stirpe conseguì meriti uno dietro l’altro, membri importanti che fecero la loro piccola o media parte nella storia vennero forgiati da quella famiglia; non un solo membro non era diventato importante per qualcosa, seppur nel suo piccolo.
I Sokolòv erano i migliori nel lavoro, che si trattasse di primi ministri o muratori, i migliori a scuola e con i più alti meriti nelle università, coloro che in società venivano sempre trattati con un occhio di riguardo e venerazione.
Eppure, maggiore è la fama, maggiore è l’impatto che consegue alla sua distruzione.
 
Era iniziato tutto nel giorno della laurea di Dan, appena nove mesi prima.
Era uscito ovviamente con il massimo dei voti. Di lì a pochi giorni si sarebbe organizzata una sfarzosa festa nella villa padronale, alla quale sarebbero stati invitati tutti i membri della famiglia in aggiunta a personalità di rilievo. Il signor Sokolòv riteneva che quella potesse essere un’opportunità importante per far finalmente entrare in contatto il suo adorato figlio con il mondo del futuro e dei grandi.
Così, mentre il dì successivo la signora Sokolòv a pranzo discuteva con il marito circa le migliori porcellane da esibire, Dan parlava eccitato al fratello.
«… e poi papà mi ha detto che ci sarà il signor Hughes, quel simpatico viceministro degli Affari Esteri inglesi. Ti immagini se mi portasse con sé a Londra? Ovviamente metterò una buona parola anche per te» disse energico, sfregando amorevolmente una mano sui capelli del fratello.
Lev osservava con stupore il suo maggiore, pensando che tra non molto sarebbe potuto diventare come lui, ottenere il rispetto dei genitori e della società.
«Mi intimorisce la prospettiva di questa festa, fratello» e Lev notò come la sua espressione si fosse incupita.
«Di cosa ti angosci? Sei brillante, Dan, non devi temere alcun pomposo maresciallo con i baffoni, e tantomeno nessuna di quelle vecchie megere con i decolté strizzati fino alla giugulare. Ti noteranno tutti.» E, dannazione pensò, che sarebbe davvero stato così.
Dan gli sorrise, ringraziandolo con lo sguardo.
«Dan, Lev, vi ho fatto stirare i vestiti da cerimonia da Svetlana, quelli nuovi!» trillò allegra la madre: aveva spedito inviti con largo anticipo, dato che la festa avrebbe avuto luogo solamente due settimane dopo, eppure aveva già fatto preparare con cura maniacale ciò che avrebbero indossato la sera del gran dì di festa.
«Padre, posso far venire Fedor, quel mio amico di corso?”» domandò Dan, poggiando sul tavolo la forchetta con cui aveva appena terminato di mangiare.
«Fedor Stavrogin?» e di norma suo padre non avrebbe mai risposto ad una domanda con un’altra domanda, ma se si trattava di indagare su chi avrebbe compromesso la riuscita della festa se non fosse stato del rango che si conveniva, allora poteva anche concedersi quel piccolo strappo alla regola.
«Sì» rispose Dan, i muscoli facciali lasciavano intendere che avesse serrato con forza la mascella, infastidito dalla superficialità del padre.
«La sua famiglia non è quella che qualche anno fa ci invitò nella loro casa estiva in Francia?» si intromise la signora Vera.
«Sì, ricordo di come il signor Stavrogin avesse un’invidiabile collezione di tabacchi provenienti da ogni angolo della Terra» rimembrò il signor Nicolaj.
«Beh, sono una famiglia alquanto rispettabile, se è per questo, oltretutto Fedor è uno dei pochi insieme a Dan che si è laureato con il massimo. Quel ragazzo è davvero in gamba, almeno riesce a stare al passo con Dan, e con la sua parlantina diverrebbe un abile avvocato» iniziò Vera.
Dan, che odiava quando i genitori lo innalzavano su un piedistallo, specialmente di fronte al fratello, si alzò dalla sedia, spingendola indietro con un po’ troppa violenza. Scusandosi che avrebbe dovuto terminare di corrispondere a delle lettere per l’università si ritirò in camera sua. Lev lo seguì non appena ebbe finito di mangiare.
Bussò alla porta prima di aprirla. Quando entrò vide che Dan fosse davvero impegnato a scrivere una lettera.
«A chi scrivi?» domandò curioso Lev.
«A Fedor, lo invito alla serata di mercoledì prossimo» rispose Dan noncurante, troppo intento a scegliere le parole adeguate per riempire il foglio.
Lev diede uno sguardo alla stanza: i numerosi volumi che prima riempivano gli scaffali erano stati in buona parte posizionati accuratamente in delle scatole.
«Sicuro di volertene andare?» domandò Lev, sperando che il fratello potesse cambiare idea in quei cinque secondi che richiedevano per formulare la risposta.
Dan guardò affettuosamente il fratellino.
«Sbrigati a sceglierti una buona università, così quando ti laureerai e io sarò ormai ai vertici dell’ambasciata potrò mettere una buona parola su di te» e sorridendo gli scompigliò i capelli.
Lev sbuffò, ormai rassegnato al fatto che avrebbe dovuto vivere per cinque anni, almeno, solo in quell’enorme casa. Lo rattristava il pensiero di rimanere senza il fratello; i genitori non avevano occhi che per Dan, perciò gli si profilava davanti l’aspettativa di una vita universitaria all’ombra delle glorie del fratello. Già immaginava sua madre che lo pressava affinché ottenesse buoni voti come quelli di Dan, o il padre che lo puniva con lo sguardo ogni qualvolta entrasse in una camera dove c’era lui, solo perché non era Dan.
Ormai era assodato: Lev passava in secondo piano quando c’era Dan. Non che avesse meno per cui essere lodato, anzi. Solamente i genitori erano ormai talmente abituati a crogiolarsi negli elogi per i figlio maggiore che non erano altrettanto abituati a fare lo stesso con Lev.
 
Nei giorni che avevano preceduto la grande soirée, Dan aveva trascorso la totalità del suo tempo libero insieme all’amico Fedor, ora che entrambi non dovevano trattenersi con lo studio. In alcune occasioni non era nemmeno rientrato a casa per dormire, rassicurando la madre, quando rientrata nell’ora della colazione con i vestiti della sera prima e i capelli scompigliati, che i signori Stavrogin erano stati così gentili da ospitarlo. Vera, contenta che il figlio trascorresse del tempo con un ragazzo tanto educato e colto, faceva sparire l’espressione di malcontento che aveva messo su non appena aveva visto il ragazzo varcare la soglia della sala dove venivano consumati i pasti.
Solamente Lev era a conoscenza del fatto che i genitori di Fedor non si trovassero a casa in quel periodo perché erano andati a portar sostegno alla madre morente della signora Stavrogin. Lev credeva che i due amici approfittassero della mancanza dei grandi per poter fare ciò che volevano a casa, come ad esempio invitare amici, indire festini e dormire con qualche ragazza dell’università.
In fondo avrebbe avuto ventiquattro anni ancora per poco, o almeno ancora per poco se li sarebbe goduti, dato che non più di un mese più tardi sarebbe partito per chissà dove a costruirsi un futuro.
E poi Dan in quel periodo aveva un’aria così serena e allegra che nessuno avrebbe potuto contraddirlo per qualche piccola scappatella di poco conto.
 
Il mercoledì di festa villa Sokolòv era stata arredata dei più sfarzosi lucernari per mettere in risalto ogni angolo del giardino curato e per fare in modo che questi creassero dei meravigliosi giochi di luce con i zampilli della fontana che si trovava a qualche metro dall’ingresso.
Il vialone era occupato dalle bellissime e costosissime auto degli invitati, dalle quali erano scesi illustri signori con madame, tutti in abito da cerimonia.
La signora Sokolòv era all’ingresso a dare il benvenuto come solo la padrona di casa poteva fare, ordinando conseguentemente alle collaboratrici domestiche di prendere i cappotti degli invitati per conservarli per la durata della festa nell’apposito appendiabiti.
Sull’enorme e ampia scalinata che si estendeva a partire dal centro del salone d’ingresso era stato fatto scivolare un lussuoso tappeto rosso, i due corrimani d’avorio lucidati fino a risplendere alla luce del lampadario d’ambra.
Il signor Sokolòv intratteneva i signori nella grande sala da biliardo, dove era consentito fumare e parlare di politica in lontananza dalle donne, le quali invece erano state accolte nella sala da tè. Dan era apparso per la prima ora della serata, ritirandosi di seguito in biblioteca con Fedor, altri due ragazzi, il viceministro Hughes e un suo amico.
«Lev, vieni anche tu» gli aveva detto il fratello, afferrandolo per il gomito e trascinandoselo dietro ovunque andasse.
Per quello che a Lev parve un tempo infinito aveva ascoltato i discorsi incomprensibili di quei quattro circa il futuro dei giovani, rimanendo orgoglioso quando il fratello rispondeva a un’argomentazione del vecchio politico in maniera adeguata, facendo una sublime figura.
Il signor Hughes stava iniziando ad intrattenere una conversazione con Fedor circa la collezione di tabacchi del padre, sulla quale appariva molto interessato, quando Dan si avvicinò all’amico, strizzandogli leggermente il braccio per ottenere la sua attenzione. Fedor si voltò a guardarlo e Dan si rivolse al vecchio signore.
«Mi scusi, viceministro, io e Fedor avremmo una faccenda da sbrigare, saremo da lei tra non molto. Intanto, se vuole raggiungere mio padre nella sala accanto c’è un ottimo Whisky invecchiato» e il signor Hughes si trovò molto contento di accettare.
«Questi inglesi, papà ha dovuto far pervenire del Whisky apposta per Hughes, era certo che non avrebbe gradito la nostra Russkij Standart [1]» convenne Dan.
Poi si rivolse a Lev. «Raggiungi i signori nell’altra sala, fratellino, devo far vedere a Fedor un progetto a cui stavo lavorando. Vi raggiungeremo tra poco» e avendo detto ciò si dileguò, trascinandosi dietro l’amico.
Lev vagabondò per tutte le sale intrattenendo fugaci discorsi con ognuno dei presenti; i signori si complimentavano di come fosse arguta la sua parlata e acuto il suo ingegno, le signore ammiravano un «giovanotto tanto bello» che avrebbero volentieri presentato alle loro figlie.
Giunta ormai quasi la mezzanotte, la signora Vera si avvicinò al figlio minore, che con aria cospiratrice gli chiese –
«Vai a cercare tuo fratello, tra poco è l’ora del brindisi.» Lev guardò la madre allontanarsi, preoccupata di scoprire dove si trovasse l’altro suo figlio.
Lev iniziò a setacciare ogni angolo del pianterreno della dimora, allungandosi persino in giardino. Ma poi un’idea gli balenò in mente: se Dan avesse voluto non essere disturbato si sarebbe recato di sicuro in camera sua, al primo piano, dove non era consentito l’accesso in occasione di feste come quella.
Intraprese così la volta delle scale, salendole due a due. Svoltò a sinistra non appena fu in cima e camminò fino in fondo al corridoio, per poi svoltare a destra, trovandosi di fronte l’enorme vetrata che affacciava sulla parte posteriore del giardino, mentre a sinistra la porta della stanza del fratello. Bussò un paio di volte, ma non udì alcuna risposta; provò a chiamare il nome dei due ragazzi, ma era come se nella stanza non ci fosse nessuno.
Così Lev aprì la porta un po’ titubante, affacciandosi col naso per poi lentamente introdursi nella stanza. Era completamente buia, le luci erano tutte spente e avrebbe detto che fosse vuota se non fosse stato per dei gemiti attutiti che provenivano da lì dentro.
«Dan?» chiamò Lev. Dopo che ebbe detto quel nome, i rumori cessarono improvvisamente, poi si udì un tonfo, come di qualcosa che cadeva. O qualcuno.
Lev, spaventato, accese immediatamente la luce e trovò il fratello.
Dan era disteso sul letto, completamente nudo; guardò Lev con terrore.
Fedor era in ginocchio per terra, si massaggiava il gomito per averlo strusciato sulla moquette dopo essere inciampato; avendo udito dei rumori si era precipitato giù dal letto, tentando di rivestirsi come poteva al buio.
«Ma cosa…». Lev iniziò a capire.
«Lev… non stavamo facendo niente, noi…» tentò di scusarsi Dan. Quella fu la prima volta che Lev vide suo fratello completamente preso dal panico, quando solitamente tratteneva l’ansia anche nei momenti peggiori.
Quando poi il maggiore dei due fratelli alzò lo sguardo oltre la soglia della porta, il panico tramutò in terrore.
«Madre…» sussurrò, mentre gli occhi iniziarono a riempirsi di lacrime.
Fedor si rivestì di fretta per poi correre fuori dalla stanza, ma fu trattenuto per un braccio dalla signora Sokolòv.
«Non credere che terrò la bocca cucita con i tuoi. Tu, hai rovinato mio figlio» sibilò Vera, negli occhi una scintilla omicida.
«Madre, non è stata colpa sua!» tentò di difenderlo Dan.
«Zitto!» lo ammonì e Dan non poté che ubbidire.
«Annuncerò che la festa è finita, inventerò che ti sei sentito male.» Vera guardò il minore dei suoi figli, facendogli cenno di uscire dalla stanza.
«Chiama tuo padre» gli disse mentre ormai le rivolgeva le spalle.
E Lev comprese allora quanto grave fosse la situazione e che per il suo adorato fratello si sarebbe messa proprio male.
 

**

 
Gli eventi di quella fatidica sera avevano cambiato per sempre il destino dei Sokolòv. Il signor Nicolaj aveva dapprima segregato in casa il figlio, impedendogli in alcun modo di potersi incontrare con Fedor, i cui genitori erano stati avvertiti dell’accaduto e la sua sorte non era stata certo migliore di quella che di lì a poco sarebbe toccata a Dan.
Nessuno seppe mai che fine fece il povero ragazzo dei Stavrogin; solamente molti anni più tardi arrivò la notizia sulle testate dei giornali di un uomo suicidatosi spiccando un volo dal decimo piano dell’ospedale psichiatrico in cui a suo tempo era stato rinchiuso. L’ospedale, dopo lo scandalo, dovette chiudere, indagato per negligenza nei confronti dei pazienti. La morte dello sciagurato Fedor Stavrogin era servita per lo meno a far chiudere i battenti a quel luogo macabro e malsano.
Il signor Nicolaj e la signora Vera, dal loro canto, non volevano ricorrere a misure tanto drastiche. Non negavano certo che in principio si fossero rivolti anche loro ad uno psichiatra, deducendo che l’orientamento del figlio fosse una malattia che necessitava immediatamente di profonde cure. Avendo però dato un’occhiata all’ambiente dove loro figlio avrebbe dovuto alloggiare assieme a Fedor, i signori Sokolòv riesumarono quel briciolo di umanità che si annidava nei meandri dei loro cuori, preferendo adottare una più radicale ma meno dolorosa soluzione per la loro reputazione: fingere di aver ottenuto un fortunato lavoro all’estero.
Solo tre settimane più tardi, la famiglia lasciò la lussuosa villa di Pietrogrado [2] per trasferirsi quanto più lontano gli fosse possibile.
Optarono per un tranquillissimo villaggio nella contea di Galway in Irlanda, chiamato Cong, ove si trovavano lontani parenti del famoso zio d’America Ivanov. Appena fuori del villaggio, vicino ai boschi, avevano subito adocchiato una villa che si avvicinava molto nello stile a quella che avevano lasciato in patria.
Marito e moglie fingevano che nulla fosse accaduto anzi, peggio ancora, ignoravano completamente anche Dan; se lui tentava di instaurare un dialogo quelli fingevano che non ci fosse nessuno; se Dan tentava di attirare l’attenzione in qualunque modo, rompendo un vaso, urlando, scrivendo sui muri, la signora Vera si armava di scopa e paletta e ripuliva i cocci, si chiudeva in camera per attutire le grida, pregava il marito di ridipingere i muri.
Di lì a poche settimane, Dan era come morto. Si stancò presto di cercare di attirare attenzioni, nemmeno parlava più con il fratello.
Lev d’altra parte era caduto nello stato confusionale più assoluto. Se da una parte infatti voleva tentare di aiutare il fratello a uscire dalla terribile situazione in cui ormai vivevano, dall’altra si sentiva per la prima volta preso in considerazione dai genitori, i quali lo lodavano per qualunque suo guadagno ottenuto, anche del più futile.
Questo provocò inconsapevolmente in Lev una profonda indifferenza nei confronti del fratello, il quale si chiuse sempre più in se stesso, arrivando a rimanere nella sua camera senza mangiare per giorni e giorni.
 
Un giorno la signora Vera domandò al suo nuovo figlio prediletto se poteva recarsi nei boschi per racimolare della legna: l’inverno era alle porte e avrebbero necessitato di un po’ di calore.
Lev accettò di buon grado e salì in camera sua per tirar fuori dall’armadio un giubbotto leggermente più pesante. Non era ancora piena stagione invernale, ma faceva comunque freddo.
Quando uscì dalla stanza armato di giacca, non poté fare a meno di buttare uno sguardo dall’altra parte del corridoio, dove poteva benissimo vedere la porta della camera di Dan chiusa, come al solito.
Un briciolo di pietà lo assalì, così si diresse verso quel punto e bussò ripetutamente.
«Dan, esci.» Sentì un rumore provenire da dentro, ma nessuna risposta. Evidentemente il fratello non voleva parlargli.
«Mi accompagni a cercare della legna?»
Sentì dei passi farsi più vicini, la riga di luce sotto la porta era spezzata da due ombre, segno che proprio lì dietro ci fosse qualcuno.
Lev alzò il pugno per bussare ancora, quando la porta si aprì. Il volto scarno e malnutrito di Dan lo squadrò dall’alto al basso, la pelle pura e liscia nascosta dietro uno spesso strato di barba, la luce degli occhi ormai spenta come l’estate che era molto lontana.
Sembrò incerto su ciò che volesse dire, poi trovò la forza di pronunciare alcune parole.
«Arrivo subito.»
Rientrò chiudendosi la porta alle spalle, per poi uscire ancora con una giacca pesante addosso.
Quando ebbero sceso le scale e raggiunto il portone d’ingresso, Lev alò la voce per far sentire alla madre che sarebbero usciti. Il plurale nel soggetto destò la curiosità della signora, che si affacciò dalla cucina per guardare la novità; quando vide Dan si limitò ad un cenno di assenso della testa.
 
Camminarono lentamente, attraversando un sentiero che sembrava essere stato battuto in precedenza. Videro un ruscello che si mantenne sempre alla loro destra mentre camminavano, finché alla fine questo si allontanò dal sentiero che stavano percorrendo. Dopo più di dieci minuti buoni di camminata, si aprì di fronte a loro uno spiazzo.
La radura pareva perfettamente concentrica, quasi nel suo centro esatto si ergeva un bellissimo olmo dal fogliame ormai rado per il freddo che in quei giorni si apprestava a incombere sempre più pungente.
Lev si avvicinò all’albero, raccogliendo alcuni grossi rami spezzati che giacevano ai suoi piedi.
«Mi dai una mano?» domandò gentilmente al fratello, tentando di instaurare un dialogo.
Dan non rispose e si limitò semplicemente a raccogliere i legni.
Lev lo osservava con la coda dell’occhio, piangendo nel cuore alla vista del fratello che lentamente, come un cane bastonato, si piegava a fatica per issarsi sulle ormai esili braccia quei ramoscelli che gli parevano fardelli, tanto era spossato dalla depressione in cui era caduto.
Prima che si mettesse a piangere sul serio, Lev gli si avvicinò, offrendosi di caricarsi lui la legna. In tutta risposta però ottenne una brusca spinta.
«Ce la faccio da solo, traditore» berciò Dan.
Lev non comprese minimamente a cosa si riferisse.
«Guarda che si ti riferisci a quel fatto, non sono mica stato io a chiamare mamma! E poi tu eri lì, hai visto quello che è successo. Deve essere venuta su per cercarti, è stata una stupida coincidenza!» tentò di difendersi, offeso che suo fratello potesse solamente azzardarsi a pensare che lo avesse venduto in quel modo.
«Non mi riferisco a quello» disse il maggiore.
Lev in tutta risposta lo degnò di sguardo inquisitore e Dan accettò di rispondere.
«Da quando è successo tutto questo fai lo stesso gioco di mamma e papà. Mi ignori, come se fossi feccia della peggior specie e so anche il perché.»
Fece cadere la legna che teneva tra le braccia, avvicinandosi al fratello con fare minaccioso, gli occhi ridotti a due fessure, un dito puntato contro di lui.
«Da quando mamma e papà mi hanno ripudiato sei tu al centro delle attenzioni.»
Lev non poté credere che lo avesse detto.
In tutta la sua vita non gli era mai importato niente di come si comportassero i genitori nei suoi confronti. Non gli facevano mancare niente e questo gli bastava, tanto più perché quello che non gli potevano dare lo otteneva dal fratello, che riteneva un modello da idolatrare. Aveva sempre guardato Dan come una divinità, lui il suo suddito privilegiato.
Amore, fiducia, complicità.
Dan era per Lev la miscela perfetta di queste componenti.
Un brivido provocato dall’ira lo scosse; non poteva permettere che Dan pensasse questo di lui.
«Non me ne faccio niente delle lodi di mà e pà se tu mi odi.»
Dan scosse la testa, come a voler far uscire quelle parole che si erano insinuate nel cervello.
«Bugiardo, sei un’opportunista come tutti!» La furia che si era annidata nelle ultime settimane nel cuore di Dan sembrò voler esplodere proprio in quel momento e Lev provò la vera paura per la prima volta.
Con uno scatto fulmineo Dan passò una mano sotto il giubbotto, tirandone fuori un qualcosa di lungo e appuntito.
Lev sgranò gli occhi mentre le sue gambe si incollarono al terreno.
Poi la confusione dei sensi.
Dolore, disperazione, rabbia, paura. E un liquido caldo che gli impregnava il maglione.
Abbassò lo sguardo, alzando al contempo le mani che previamente aveva portato al fianco e vide un liquido scuro impregnargliele.
Dan ritrasse il coltello che ancora fendeva le carni del fratello, spaventato lo fece cadere. Fece un passo indietro, poi un altro ancora. Alla fine si voltò di scatto e iniziò a correre, a fuggire lontano.
Lev intanto si accasciava a terra, spingendosi le dita dentro la ferita per creare una sorta di tappo all’emorragia che ormai non si sarebbe estinta. Voleva urlare, pregare il fratello di non lasciarlo lì da solo; lo avrebbe perdonato per averlo pugnalato, se solo fosse rimasto con lui. Ma tutto questo non glielo poté dire perché il dolore ormai gli impediva di fare qualsiasi cosa.
Sarebbe morto in quel luogo, da solo.
Lev era sempre stato solo: abbandonato fin dal principio dai genitori che avevano puntato sempre tutto sul loro primogenito. L’unico suo sostegno era stato Dan; il loro amore reciproco era stato indissolubile. Ma quel brusco tradimento lo aveva fatto sentire più abbandonato che mai.
Infatti il Dan che aveva commesso quell’estremo e folle gesto non era il Dan che conosceva; quello era morto qualche mese prima, in quell’orribile sera dove tutto era iniziato.
Ormai caduto a terra, Lev si osservò il polso, scorgendo l’ora sull’orologio.
Mezzogiorno in punto.
In quell’ora moriva il giovane Lev Sokolòv, afflitto da ciò che lo spaventava di più: la solitudine.
In quell’ora precisa e in quello stesso punto dove era avvenuto il tragico epilogo, per l’eternità a venire, quel giovane sarebbe riapparso sotto una forma inumana, fantasma, per cercare un’anima che avrebbe accettato di fargli compagnia.




 

[1] Miglior marca di vodka russa
[2] In quegli anni San Pietroburgo era chiamata così




















Note
Ci ho messo davvero troppo a pubblicare quest'ultimo capitolo e non so nemmeno il perché, dato che era già bello scritto.
Che cosa ne pensate del finale? Ve lo aspettavate? Vi ha colpito? Non vi è piaciuto? Fatemelo sapere, questo era il mio primo tentativo con un'originale. :)
Ah, dimenticavo, il motivo della scelta del titolo del capitolo: il lupo, divenuto simbolo dell’inganno dalla funzione che ha avuto in diverse favole e racconti (basti pensare, oltre a “Cappuccetto Rosso”, anche a “I tre porcellini”, “Il lupo e l’agnello”, “Il lupo e i sette capretti”, “Pierino e il lupo”, oltre che in diverse favole di Esopo, ecc…).

E niente, spero lascerete un piccolo commentino. *-*

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