BloodHunters - I figli della luna

di Keywords
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Grigio ***
Capitolo 3: *** Fuori Strada ***
Capitolo 4: *** La Rivelazione ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Città dell'Ade, flashback,

diciassette anni prima

 

 

I respiri affannosi di Richard rimbombavano fra le fredde mura in pietra dei sotterranei della città dell'Ade. Il petto gli si muoveva rapidamente, il volto era sudicio di sudore e polvere...

Con gli occhi color oro sgranati cercava di mettere a fuoco qualsiasi cosa che potesse fornirgli un'uscita fra quelli stretti corridoi immersi nelle tenebre della notte. Qualsiasi cosa che potesse dargli la salvezza.

«Richard... tutto questo è una follia»

Il ragazzo voltò la testa di scatto verso la donna al suo fianco. Riusciva perfettamente a sentire il suo cuore battere all'impazzata attraverso la stretta delle loro mani. Gli occhi castani di lei erano lucidi, stremati. Al suo petto stringeva una coperta.

No... non potevano fermarsi proprio ora. Mancava poco e avrebbero detto addio per sempre a quell'assurdo regno.

Nell'umido labirinto sotterraneo, altri passi avanzavano sempre più rapidi. Urla di comandi facevano eco, le spade e le armi sferragliavano fra i soldati pronti a raggiungerli in una perfetta e intonante marcia di morte.

«Non fermarti!», le disse Richard senza fiato. Quella folle corsa contro il tempo riprese.

Entrambi si gettarono in una strada a destra, la proseguirono malgrado fosse claustrofobica e l'odore di muffa penetrava le loro narici. La piccola strada si estendeva in una discesa scivolosa per diversi metri. Richard aiutò la donna a scendere ed insieme ripresero ad avanzare con i polmoni e la milza che iniziavano a bruciare. Sapevano per certo che una strada più difficoltosa non avrebbe di certo fermato quell'armata. Ma senz'altro poteva essere un buon modo per guadagnare del tempo.

Improvvisamente Richard si fermò. La strada era terminata e si divideva in un bivio altrettanto buio.

Cercò di deglutire. La sua gola era secca. La lingua gli pulsava.

«Lasciami qui. Mettiti in salvo», la voce della donna era pacata, stanca. Rassegnata. I capelli castani erano scompigliati, non più ordinati in uno chignon; il viso di lei, come lui, sudato. Il vestito color porpora era ormai ridotto a brandelli. Il ragazzo riusciva a sentire tutti i suoi pensieri, tutte le sue preoccupazioni... erano come un grosso macigno sul petto.

Richard scosse la testa contrariato abbandonandosi ad un sorriso nervoso. «Carmen! Io... non posso!» la donna le rivolse lo sguardo. I suoi sentimenti erano palpabili. Ogni qualvolta che lui le parlava, i suoi occhi si emozionavano e caricavano di luce. «Mettendo in salvo te, metto salvo anche me stesso...»

Carmen gli rivolse un ampio sorriso che lampeggiò nell'oscurità. Le avrebbe gettato le braccia attorno al collo se avesse potuto. Ma non c'era tempo per il sentimentalismo ora. Più tardi, magari...

Richard diede un'occhiata agli ampi corridoi che si estendevano ai suoi lati. Indicò quello alla sua sinistra, gli sembrava di aver visto uno spiraglio di luce. «Seguimi! Ci siamo quasi» tenendo stretta la mano della sua compagna, si catapultò nuovamente nella fuga. Riusciva quasi ad intravedere l'ampio spazio dove era possibile attraversare la città e lasciarla attraverso un portale magico.

Due soldati apparvero in un vicolo parallelo al loro. Richard tirò dal braccio la donna nascondendola nell'ombra, al sicuro, ai piedi di un muro crollato per metà.

Con le spalle contro il muro, Richard si affacciò.

«Non possiamo proseguire. Aspettami qui»

«Richard!» chiamò lei, ma il ragazzo si era già dileguato.

Richard avanzò con passo incalzante verso di loro. I pugni serrati e impolverati. Lo sguardo determinato di chi sa come agire.

Percepiva perfettamente l'energia oscura scorrere nelle sue vene, talmente potente da non essere più contenuta. Tese le orecchie della sua mente, si spinse oltre mettendosi in contatto con i pensieri di quei soldati. Erano così lontani...

Si concentrò ed entrò in contatto.

Odio questo lavoro. Voglio tornare fuori, all'aria fresca.

Richard aggrottò la fronte. No... non era questo ciò che voleva sapere. Doveva concentrarsi ancora, doveva scoprire quali fossero le loro intenzioni.

«Chi va là?», un altro soldato si stava facendo avanti sbucando fuori da una strada subordinata. Richard sentiva il freddo fucile puntato dietro la sua testa. «Fer...», ma il soldato non riuscì a terminare la parola che Richard con un ringhio fu su di lui; i canini affondati nel suo collo intendo a staccargli via la testa...

Il vampiro lasciò cadere in ginocchio il corpo esanime del soldato. Il corpo senza testa spruzzava via sangue dal collo, ancora scosso da fremiti.

La testa rotolò via fino alle altre due guardie posizionate più avanti.

Carmen, spaventata, ancora nascosta nell'ombra, udii diversi rumori che durarono diversi istanti. Dei grugniti, alcuni ringhi felini, un muro crollare ed infine... silenzio.

Quando Richard le si materializzò di fronte, sussultò. Il vampiro le tenne coperta la bocca con una mano, fino a quando la gola di lei non iniziò a bruciare a causa delle urla.

«Shhh! Sono io», rassicurò lasciandola libera.

Si udirono alcuni spari e urla.

«Ethan!» urlò lei cercando di guardare attraverso l'oscurità.

Richard avrebbe voluto tornare indietro ad aiutare il suo amico dai lunghi capelli neri e dalla carnagione scura. Lui era l'unico ad essere dalla sua parte.

Ethan era l'unico ad essere suo amico.

Grazie per i corpi, sono un ottimo diversivo! La voce del secondo vampiro rimbombò nella sua testa. Richard abbozzò un sorriso... Ethan ne sapeva una più del diavolo! Era certo che stesse usando quei cadaveri animandoli con la telecinesi per confonderli.

Scosse la testa «Andiamo!» ruggì.

Con passi pesanti intrapresero il corridoio principale. Sul pavimento erano presenti chiazze di sangue ancora caldo. Era qui che Richard aveva ucciso le guardie.

Il pavimento iniziò ad illuminarsi come una rete fitta di luce e collegamenti che ricordavano tanto un microchip. Richard sorrise, ricordava quel posto. Questo voleva dire che avevano raggiunto finalmente il portale. La loro libertà...

L'oscurità era finita.

Carmen finalmente poté guardare Richard dopo tanta cecità. Il volto di lui era macchiato di sangue su di un lato. La camicia inzuppata di sangue così come i pantaloni neri. Gli stivali producevano uno strano rumore appiccicoso. I suoi bellissimi capelli neri erano scompigliati e sudati; alcuni ciuffi scendevano ribelli sulla sua fronte madida di sudore. Nonostante le condizioni, i suoi occhi gialli risplendevano rassicuranti come sempre.

«Il portale! È laggiù!», indicò lui entusiasta.

La strada terminò a strapiombo. Sotto di loro – a circa cinquanta metri – era presente un ampia arena. La luce azzurra ad intermittenza pulsava come un cuore.

Sebbene fossero sottoterra, erano nel pieno centro del regno.

Il portale era come un cerchio ovale, ma sospeso in aria. Le sue linee arricciate ai bordi erano luminose, di un intenso blu–elettrico. Ogni linea di energia era incisa con simboli antichi alchemici altrettanto luminosi. Oltre ad essi, i punti cardinali – sud, nord, est, ovest... – erano segnati da dischi rotanti neri fluttuanti agli estremi del portale, in una seconda linea bianca attorno a quella blu.

Al suo interno quella strana stregoneria sembrava un danno buco nero.

Richard si era aspetto che il portale producesse un qualunque rumore... ma gli unici suoni che riuscii ad udire furono solo le gocce d'acqua dell'ampio sotterraneo toccare terra.

Il vampiro fu il primo ad avanzare. Scese uno dei primi scalini della grande scalinata rocciosa e rivolse alla sua compagna un sorriso di trionfo. Gli occhi gli brillavano di luce.

Si... ce l'avevano finalmente fatta.

«Come fai ad essere sicuro che finiremo in posto simile a questo?» domandò lei una volta di fronte al portale.

Richard tergiversò. «Esistono diversi mondi paralleli al nostro. Città dell'Ade, regno e mondo di ogni vampiro come me. Il mondo degli Inferi, sede di ogni demone, angelo caduto e creatura dannata, e...», si fermò udendo in lontananza nuovi spari e le guardie avanzare più assettate di sangue che mai. «Ti riporto a casa», irruppe frettoloso.

Richard allungò una mano nel bel mezzo del portale. L'aria era carica di elettricità. Era pronto per andarsene via di lì. Era pronto per iniziare una nuova vita con la donna che amava, lontano dalle dure leggi del Consiglio e degli Anziani.

D'un tratto il portale lo respinse con forza, restringendosi.

Prima che la sua mano venisse risucchiata via, Richard la ritrasse.

«Non... capisco», mormorò fissando il portale ormai chiuso. Voltandosi scoprì che la sua donna osservava un qualcosa che la turbava dritto di fronte a sé. I caldi ed espressivi occhi castani erano terrorizzati.

Voltandosi cautamente, Richard non poté fare a meno di restare senza parole. Le guardie corazzate avevano circondato l'intera area e continuavano a disporsi a decine decine lungo le scale con i fucili puntati contro i due giovani che si affrettarono a raggiungersi e a stringersi in un solido abbraccio.

Senza proferire parola Richard, lanciò un'ultima occhiata alla sua donna. Avrebbe tanto desiderato risucchiare via tutta quel terrore dai suoi occhi. Le abbozzò un debole sorriso. Era finita per davvero. Carmen si immerse in quegli occhi color oro, alla ricerca di un ancora di salvezza... Richard non avrebbe mai più dimenticato quel stanco sguardo; un misto di rassegnazione, malinconia amore e pace...

Lo stesso sguardo di chi sa di essere condannato ad una dura sentenza. Quella della morte...

«Prenditi cura della bambina...», la voce di lei era bassa, rassegnata. Consapevole di quello che stava per accadere... gli occhi velati di uno spesso strato lucido.

Il mondo sembrò non avere più cielo, né terra. I colpi di fucile partirono con un rumore assordante che disorientò Richard. Con sguardo vendicatore voltò il viso impressionando nella sua mente la fredda espressione delle guardie e strinse con forza fra le braccia la sua donna. L'avrebbe protetta fino all'ultimo istante.

I proiettili in argento perforarono i tessuti dei loro abiti, penetrarono ardenti nelle loro carni con una tale forza che gli separò da quell'eterno e apparentemente, indissolubile abbraccio.

La ragazza cadde di schiena ad occhi aperti. Dal centro esatto del petto il sangue sgorgava dai vari fori. Respirava a fatica, emettendo gorgoglii.

Un attimo più tardi, Richard sbatté una guancia contro il freddo e duro pavimento in pietra. Attorno al suo corpo, si espanse in fretta una pozza di liquido scuro.

Mise a fuoco Carmen, lei lo stava guardando con sguardo implorante. Frastornato, allungò una mano verso quella di lei racimolando le ultime forze rimaste. Erano così terribilmente distanti...

Man mano il peso nella mente del vampiro, quel contatto di pensieri, andava via via scemando.

Con un ultimo respiro, il cuore di Carmen cessò di battere. Una lacrima rigò il viso della ragazza, mentre gli occhi catturarono per un ultima volta quel viso tanto amato e quegli occhi ambrati di sempre. La mano di lui cercò di raggiungerla, ma cadde pesantemente a metà strada.

Richard rimase immobile, privo di vita.

«Lex omnium par est. La legge è uguale per tutti, Richard.» dalla scalinata scese con charme un alto vampiro pallido dai lunghi capelli neri. I suoi occhi erano inghiottiti dalle pupille dilatate. Tipico segnale di un vampiro assettato di sangue.

Era Salazar. Richard riconobbe subito la sua voce profonda. Un tempo aveva creduto il vampiro suo amico, avevano vissuto insieme per diverso tempo, condiviso insieme donne, sangue... potere. Un amico che aveva creduto fidato.

Richard non era seriamente morto. La sua anima era imprigionata nel corpo ormai immobile. Riusciva ancora ad udire suoni... a sentire diversi odori. Era imprigionato in una cella fatta di carne e tessuti.

Salazar si inginocchiò di fronte al vampiro gli sollevò il viso e gli strinse la mascella in una solida presa. «Credevi davvero che non mi sarei del vostro stupido piano? Di quello che cercate di nascondere?» fissò gli occhi esanimi di Richard «Sei uno sciocco. Solo pochi secoli di vita... all'aspetto poco meno che un ventenne...», si alzò lasciando sbattere per terra la testa ciondolante di Richard. Avrebbe tanto voluto urlare, piangere per la sua imperdonabile perdita, scatenare la bestia che era in lui. Ma non poteva fare nulla di tutto ciò.

Poteva unicamente registrare quegli attimi, senza agire. Costretto nello oblio.

«Dimmi dov'è, e forse sarò clemente.» Salazar si mise in ascolto. Cercò di frugare nella mente del vampiro un qualsiasi indizio che potesse condurlo al compimento della sua missione. «Gli Anziani sono al tuo cospetto» ma nulla, la mente di Richard era come oscurata, taciturna.

«Parla, Richard.», la voce autoritaria di un terzo vampiro rimbombò fra le mura vuote.

Padre...

«Procedi», ordinò un altro.

Salazar non se lo fece ripetere due volte.«In qualità di Guardiano della Città dell'Ade, Richard Nox, vampiro di sangue blu appartenente alla stirpe dei Royals, ti esilio del mio regno e ti condanno per centinaia e centinaia di anni a vagare nell'oblio, affinché sia fatta la volontà degli Anziani...»

Il soffitto iniziò a tremare, così come il pavimento. Salazar si fermò guardandosi attorno.

«Che diavolo sta succedendo?», sbraitò.

«Non ne ho idea, signore.» Rispose una guardia.

Gli Anziani allarmati indietreggiarono, mentre il soffitto iniziò a crollare.

Salazar sussultò, e urlò ordini cercando di mantenere in postazione i suoi uomini. Un enorme crepa si fece largo e lo divise dal vampiro accasciato al suolo.

Ethan si materializzò accanto al suo amico. Gli occhi ardenti, i capelli scuri fluttuanti attorno al viso. Con un braccio teneva stretto gelosamente un neonato strillante avvolto in una coperta, ben attento a proteggerlo. Con la mente spingeva il suo potere nelle viscere della terra, scuotendola, provocando così un enorme terremoto che riempì di polvere e macerie i sotterranei. Ethan si avviò e iniziò a toccare i simboli alchemici ai bordi del portale. Sapeva perfettamente la combinazione per riattivarlo, merito di ore di studio su alcuni volumi proibiti.

Il portale si aprì e si allargò provocando un forte vento.

«Non temere amico, ti porto fuori da qui» con l'altro braccio sollevò il corpo inanimato del nobile e giovane vampiro.

Salazar avanzò, ma Ethan lo respinse via con un turbine di vento. Il famelico vampiro ringhiò scoprendo i canini.

«Non avrai scampo Richard!», rise con occhi iniettati di sangue «Vi cercherò, non mi darò pace. Fino a quando non vi ucciderò entrambi!»

Con un ultimo sforzo Ethan attraversò il portale, ben attento a non abbandonare entrambe le prese.

 

 

I raggi del sole penetranti fra le foglie verdi dei cipressi creavano uno spettacolo di luci ed ombre mozzafiato. Gli uccellini cinguettavano nell'afoso e denso caldo estivo di agosto. Richard se ne stava in piedi ad osservare la radura, con le mani nascoste nelle tasche di un comodo pantalone scuro e la camicia stropicciata.

Una piccola figura davanti a sé si muoveva, intenta a cercare di sollevare un tronco morto dall'erba. Richard pazientemente attese. Successivamente roteò gli occhi e disse: «Sicura di non aver bisogno di una mano?»

La piccola figura si mosse dietro a quel tronco. Richard riuscì solo ad intravedere un espressione corrucciata e delle guance rosse e paffute dietro a quell'albero e si trattenne dal sorridere.

«Chissà perché sapevo di trovarti qui...»

Richard piroettò su se stesso. «Vedi alternative?»

Ethan sospirò rumorosamente «Non essere così pessimista»

«Non so come comportarmi Ethan» si fermò a riflettere «E se ci stessero dando la caccia? Vogliono uccidermi. Vogliono ucciderla...», il suo sguardo si posò sulla bambina dietro il tronco. «C'eri anche tu con me quel giorno.»

Il vampiro fece spallucce. «Il portale ci ha portati qui. I miei studi non mi hanno fatto scoprire nulla di nuovo riguardo le probabilità di approdare nuovamente in questa piccola città. Tu hai scoperto qualcosa, dottor Nox?» scherzò.

Erano passati tre anni dalla loro fuga dalla città dei vampiri. Richard, grazie alle sue conoscenze della medicina, astrologia e scienza aveva trovato lavoro come neurologo nell'ospedale di Seattle, mentre Ethan era prossimo ad insegnare archeologia ed occultismo in una università.

Molti erano i vampiri presenti nel mondo degli umani, talmente tanti da lasciare Richard incredulo. Era questo il suo timore più grande ora, per questo viveva fuori dalla città di Seattle, risiedendo in un bosco. Non si sarebbe mai perdonato di perdere anche sua figlia.

«Il suo DNA è davvero affascinante. È ben lontano dalla somiglianza con il mio e allo stesso tempo non ha molto a che fare con quello umano. Inoltre, confrontando le ultime analisi con quelle fatte tre mesi fa sono emerse delle incongruenze» scosse la testa «Il suo DNA muta in continuazione e non nello sviluppo fisico. Ma al suo interno.»

«Dio... Credi che potrebbe nuocerle?», domandò Ethan dopo alcuni secondi.

«Ancora non lo so per certo. Sto cercando di creare una neurotossina che dovrebbe essere in grado di stabilizzarla, anche se temporaneamente. Dovrebbe sottoporsi a diversi cicli per averne la certezza...»

La risata melodica della bambina proruppe in quel discorso spezzando ogni tensione. Voltandosi, Richard rimase senza parole. La sua piccola aveva sollevato il gigantesco l'albero da terra con entrambe le esili braccia e rideva di cuore con gli occhi socchiusi.

«Però... è davvero forte!», commentò Ethan.

Ed entrambi risero a quella constatazione.

 

 

PROLOGO

 

Il mio nome è Sheryl. Per dirla tutta, Sheryl Morgan Nox. Ed ho diciassette anni.

Agli occhi di tutti sarei potuta apparire come una normalissima studentessa del liceo, ma conoscendomi capireste che la mia età, il mio invecchiare, sono il fattore meno strano ed importante della mia esistenza...

Avevo solo sette anni quando incontrai Ector Douglas per la prima volta.

Non ero come le altre bambine della mia età, questo lo sapevo bene. Mio padre me l'aveva sempre detto che ero una bambina speciale, diversa dalle altre. E questo non per dirmi un qualcosa di carino.

Io ero davvero diversa.

Ironia della sorte, i miei ricordi partivano da quel gelido autunno, prima di quell'incontro non c'era nessuna immagine, nessun suono, nessun colore che riaffiorava dai meandri della mia mente. Solo flashback indistinti, come quando non ricordi il nome di un oggetto e sfidi te stessa a scavare nella tua testa. Corrughi la fronte, strizzi gli occhi per ricordare, sei quasi lì per pronunciare la parola... ti senti così vicina, ma poi tutto svanisce e ti ritrovi distante chilometri dal ricordo.

Blackout. Amavo definire così la mia amnesia durata sette anni, o qualunque cosa fosse.

Quel giorno, era un giorno piovoso come gli altri. La pioggia picchiettava sordamente dalle ampie vetrate creando un sottofondo unico, i lampi creavano giochi di luce nel bosco ad intermittenza e dentro la nostra dimora – la nostra casa – la luce calava di tensione dai lampadari in cristallo appesi al soffitto.

Sembrava lo scenario perfetto per l'alluvione del secolo.

Smisi subito di preoccuparmi del tempo, dopotutto all'epoca ero solo una bambina. Seduta sul pavimento in marmo nero, avvolta dal silenzio – rotto solo dallo scoppiettare del fuoco a legna del camino e dalla pioggia – ripresi a pettinare con cura la mia nuova bambola, i capelli lisci e sintetici erano di un biondo sbiadito e innaturale. Guardai i suoi occhi dalle ciglia sintetiche azzurri ed esanimi, le labbra plastificate incurvate in un sorriso eterno. Quando involontariamente posai lo sguardo sul suo collo roseo, fui colpita dal desiderio irrefrenabile di affondarvi dentro i canini.

Conoscevo fin troppo bene quella sensazione. I denti dolevano dalla voglia di mordere, i sensi diventavano più acuti, i respiri affannosi, la lingua era esitante di assaporare del dolce liquido rossastro... il sangue.

«Papà?» chiamai timidamente «Ho... fame», mi mancò il fiato. Era come se un grosso macigno mi stesse comprimendo il torace. Mi voltai per accertarmi che mi avesse ascoltato. Richard era seduto sul divano in pelle scura vicino al camino. Era immerso in un album di vecchie fotografie che mi aveva mostrato infinite volte. Ogni volta che guardava la mamma era come se lui fosse in un altro mondo. Le sue dita snelle e chiare sfogliarono una nuova pagina di quell'album, e la sua espressione si ammorbidì. Le sopracciglia si rilassarono ed un lieve sorriso comparve sulle sue labbra contornate da una lieve barba scura. I suoi capelli erano sistemati in un elegante acconciatura all'indietro, mentre alcuni ciuffi ribelli ricadevano sulla sua fronte perfetta priva di rughe.

Voglio... sangue” pensai fra me e me.

«Non adesso, non è il momento...», mi mormorò distrattamente. Il suo petto ampio si muoveva lentamente cullato dai respiri mentre si sistemava con risvolti le maniche della camicia bianca. Compiendo questo gesto non abbandonò la sua postura aristocratica.

Sospirai distogliendo da lui lo sguardo. Lo stomaco continuava a brontolarmi senza sosta.

Non resistevo più, avevo bisogno di nutrirmi...

Richard mi aveva da sempre raccomandato di non avventurarmi mai da sola nel bosco. Ma se fossi rimasta nei dintorni, questo non avrebbe di certo significato avventurarmi, giusto?

Mi alzai da terra sistemandomi il vestito azzurro ormai sgualcito.

Come un abile felino, mi mossi silenziosamente. Mi sarei solo procurata del cibo e sarei tornata a casa. Erano questi i miei piani.

Guardai la porta alle mie spalle e dopo lanciai un'occhiata a mio padre; era ancora immerso fra i suoi ricordi. Mi sentivo adulta, non avevo bisogno di nessuno per cacciare, avrei dimostrato che ero in grado di poter far da sola.

Con un'ultima occhiata, uscii fuori di casa furtivamente imbattendomi con il bosco che circondava l'intera dimora. Le fronde innevate dei giganteschi arbusti si muovevano accompagnate dal vento. Nell'aria, i profumi mi inondarono le narici fino a riempirmi i polmoni risvegliando sensazioni che dovevo tacere. I miei occhi ardevano, mentre distinguevo ogni odore della foresta: la felce, la terra umida e cruda, i tronchi, il muschio, la fresca fragranza dei pini e degli animali.

Una sensazione mi pervase, era diversa. Mi sentivo osservata.

Richard. Poteva avermi scoperta?

Mi voltai di scatto con il cuore in gola verso la casa roteando lo sguardo dal maestoso cancello a battenti, al viale, agli alberi, alle ampie vetrate... ma non vidi nessuno.

Il vento s'intensificò e mi scompigliò i capelli con violenza, tanto da costringermi a chiudere gli occhi e a voltarmi nuovamente verso il bosco.

Lo osservai attentamente. Ero intimorita, gli alberi erano giganteschi, il suo cuore sembrava così oscuro...

Respirai prendendo coraggio e procedetti impavida.

 

 

La notte scese a padroneggiare il cielo scacciando via il sole in pochi minuti.

La foresta era proprio come me l'ero immaginata: un buco nero. Buia e inquietante.

C'erano suoni al quale ancora non ero abituata come il canto delle cicale e il gracchiare inquietante dei corvi.

Dopo diversi minuti di tragitto, infreddolita, mi sedetti per terra sul fogliame secco d'autunno velato da un sottile strato di ghiaccio.

Aveva smesso di piovere da diverso tempo e mi sentivo così stupida per essermi allontanata. Il bosco era un labirinto, avevo vagato e vagato ma ogni strada sembrava la stessa. Ogni albero si assomigliava ad un altro.

Mi ero persa e non c'era nient'altro che sapessi fare che aspettare.

Mi guardai attorno. Mi sentivo dispersa ed impaurita senza la presenza costante di mio padre Richard. Con le gambe strette al petto, ad ogni minimo e più innocuo rumore sussultavo.

Tutto mi sembrava così amplificato e nitido, avrei volevo tapparmi le orecchie per non sentire più nulla; ma non ci riuscivo. I miei cinque sensi erano troppo sviluppati.

Non ero riuscita a cacciare da sola, non ero riuscita a trovare del sangue e non ero stata in grado di saziare e dare una fine a quei brontolii insopportabili dello stomaco.

La pioggia, sordamente, riprese a picchiettare sul terreno. Una goccia mi sfiorò gentile una guancia, un'altra cadde sulle mie labbra, un altra su i piccoli pugni che stringevo attorno alle ginocchia snelle.

Ero sempre più terrorizzata di essere sola nel bosco.

«Papà!», chiamai la prima volta «Papà! Dove sei, ho paura!» la voce echeggiò fra le mura del bosco, le ombre spettrali degli alberi mi fecero da eco. Non vi fu nient'altro.

Mi sollevai da terra stringendomi. Le mie intenzioni erano di rimettermi in cammino e di ritrovare casa. Che altra scelta avevo?

«Ehi ragazzi, finalmente ho trovato del vero cibo» Qualcuno con un balzo uscì allo scoperto.

Rimasi immobile. Bloccata. Senza fiato.

«Non prendermi in giro, Phil»

«E chi ti sta prendendo in giro!», sbraitò. Indossava un paio di jeans sudici di terra e sangue e una T–shirt sbiadita. I capelli corti e castani mettevano in risalto il viso cereo e stanco. «Ciao», mi disse ridendo divertito. Intravidi i canini gialli e appuntiti come lame. I suoi occhi erano grandi, si. Ma erano inghiottiti dalle pupille dilatate.

Ne apparvero altri tre come lui.

Di istinto indietreggiai e il primo, Phil, produsse un lamento felino per esprimere la sua disapprovazione.

«No... non fare così», minacciò leccandosi le labbra e muovendo la testa a scatti nell'osservarmi. Gli altri tre vampiri risero isterici e in un modo inquietante.

Potevo solo immaginare a quale sorte stessi andando incontro. Mi limitai a fissarli con occhi traboccanti di paura.

«Che cosa c'è?» mi domandò uno dei tre vampiri socchiudendo gli occhi in due fessure oscure.

Le parole mi si bloccavano in gola. «V–voglio tornare a casa...» ciò che dissi diede sfogo a nuove risa.

«Sentito Phil? Vuole tornare a casa...» Mi ricordava le movenze di un corvo mentre osservava la propria preda. «Hai un cuore davvero veloce», sussurrò sarcastico.

Riuscivo a sentirlo anch'io mentre mi rimbombava nella piccola cassa toracica.

D'un tratto, come se fosse un leone, un lieve ringhio di impazienza nacque nel petto di Phil. I suoi occhi famelici mi guardarono con voracità. Un attimo dopo si lanciò all'attacco verso di me.

Ma qualcosa lo bloccò a pochi passi dall'afferrarmi.

I vampiri furono colpiti da raffiche di pietre che gli infastidì oltre che deconcentrarli da me.

«Voi! Andatevene via di qui!» urlò una voce dagli alberi.

Alzai lo sguardo verso gli alberi alla mia sinistra e vidi qualcosa muoversi fra il fogliame, ma non seppi bene cosa...

«Prendilo e fallo a pezzi!» disse Phil infastidito. Successivamente si voltò dandomi le spalle guardandosi attorno.

«Presto!», fui afferrata improvvisamente per mano e trascinata via di lì. Non sapevo chi fosse, né dove stessimo andando. Mi sforzavo solo di muovere quelle dannate gambe e di correre il più velocemente possibile via, lontano da quei vampiri bramosi di sangue.

«Uccideteli entrambi!», udimmo entrambi quelle parole.

Inciampavo fra la vegetazione, cadevo, lo rallentavo. Ma niente, non mi lasciava. Quella stretta era una delle più solide che mi fosse stata mai data.

«Non fermarti! Corri e basta!», mi urlò voltando il viso verso di me. In quel istante vidi i suoi occhi. Non ne avevo mai visti di così luminosi e freddi allo stesso tempo. Erano argentei, racchiusi da folte ciglia scure.

Subito dopo fummo divisi.

Phil mi afferrò con forza da un braccio e mi spinse con veemenza per terra, fra la terra e la polvere. Nello stesso istante in cui provai a rialzarmi, mi afferrò e mi sbattè contro un tronco d'albero.

«Basta giocare ora», mi sussurrò.

«Lasciami stare!», urlai scalciando.

«Lasciala! Lurido succhiasangue!»

«Uccidete quel dannato moccioso!», ordinò.

«No!» ruggii. Con il pollice e le unghie incrostate di terra Phil mi accarezzò la carotide.

Con le lacrime che ormai mi dilaniavano le guance osservai il bambino dagli occhi argentei che avevo di fronte circondato dagli altri due vampiri. Gli allungai un braccio, cercando di aiutarlo.

I suoi occhi, duri e severi, si infransero nei miei.

Qualcosa in quel momento cambiò. Non era il vento, non era la paura e il panico. Avvertii una strana energia elevarsi nell'aria con carica. Il bambino dagli occhi argentei iniziò buttare fuori aria dalle narici con rabbia stringendo i pugni. Inarcò la schiena in un modo disumano.

Quello che successe successivamente mi lasciò letteralmente senza parole.

Il viso tondo e latteo si trasformò allungandosi sempre più. Dalle sue mani spuntarono fuori artigli affilati.

Poco dopo quell'orribile visione fu sovrapposta dalla figura di un bellissimo lupo bianco con sfumature grigiastre dagli occhi di ghiaccio. Rivolse il viso al cielo ed ululò. Dopo, arricciò il muso ringhiando e schioccando la lingua di fronte ai due vampiri.

Fra gli alberi si espansero ululati aggressivi ma confortanti alle mie orecchie. Maestosi lupi uscirono allo scoperto correndo con foga fra gli alberi.

Erano forse venuti in nostro soccorso?

Il candido lupo si sferrò insieme al branco ringhiando contro i vampiri. Phil, che mi aveva aggredita, fu allontanato da me.

«Dannati licantropi!», gridò fra i denti sporchi di sangue dimenandosi dal dolore mentre lembi di carne venivano staccati a morsi dal suo corpo dai lupi.

A quell'orribile visione scappai e mi rannicchiai dietro ad un tronco. In quell'istante capii perché mio padre mi volesse sempre al suo fianco. Il mondo, lontano da casa, era davvero pericoloso come mi aveva sempre detto.

Fui catturata da un nuovo odore, era mischiato alla felce e ai pini. Era fresco e mi travolse.

Sollevai lo sguardo. Attraverso gli alberi e riuscii ad intravedere il bambino–lupo che mi aveva salvato. Era a diversi metri da me, muoveva il muso nero e dilatava le narici mentre mi scrutava con quei suoi enormi occhi di ghiaccio.

Avrei voluto essere invisibile, in modo tale che la smettesse di osservarmi. Sperai che non mi attaccasse.

Il lupo bianco cominciò a muoversi lento e sinuoso fra i tronchi. Sentivo le sue zampe calpestare le foglie con lievi tocchi.

Si avvicinò a me cauto, annusandomi.

Rimasi immobile deglutendo. Chiusi gli occhi con forza per non assistere a quello che stava per succedere. Mi avrebbe mangiata come gli altri, ne ero certa...

Avvertii qualcosa di caldo e ruvido sfregare le mie guance. La sua lingua stava lavando via le mie lacrime.

Riaprii gli occhi intimidita.

Mi feci coraggio e presi la tua testa pelosa fra le mani. Mi beai di quel calore che pulsava sotto i polpastrelli. La sua pelliccia bianca era morbida e soffice, così come l'avevo immaginata.

Il lupo sfuggì di colpo dalla mia presa, forse contrariato di quella vicinanza; ma continuavo a specchiarmi nei suoi occhi luminosi e limpidi.

Con cautela cercai di avvicinarmi, non avevo più paura. Ero conscia che non mi avrebbe fatto del male. Protesi un braccio per toccarlo nuovamente, ma lui ringhiò.

Il lupo rimase rigido proteso verso le zampe anteriori, come se volesse balzarmi addosso.

«Ti ringrazio per avermi salvata», speravo che potesse capire il mio linguaggio anche in quella forma.

Mosse le orecchie appuntite e roteò la testa di lato. Quando il lupo indugiò verso di me, allungai una mano per accarezzarlo facendo scorrere le dita fra le folte guance, catturando ciuffi bianchi fra le dita.

Quel lupo, in uno strano modo, scaturì in me un senso di protezione e fiducia. Mi rannicchiai contro di lui abbracciandolo posando la guancia sul suo torace. Era caldo.

E il dolce pulsare del suo cuore fu il solo in grado di tranquillizzarmi.

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Capitolo 2
*** Grigio ***


CAPITOLO 1 Grigio”

Oggi.

 

Le mie notti, fin da bambina, erano state tormentate dalla ricorrenza di strani incubi.

In quell'assurdo sogno tutto appariva così nitido, nonostante l'incessante pioggia che battendo sul terreno creava schizzi di fango ad ogni colpo. Il bosco era immerso in una bolla di nebbia e oscurità. La luna era una perla cremisi in cielo.

Sebbene fosse irreale, l'aria era fredda, il gelo mi bloccava le articolazioni e correre mi sembrava sempre più difficile.

Devo farcela, non devo mollare! Continuavo a ripetermi.

Ero allo stremo.

Correvo, fuggivo senza tregua. Le fiamme avanzavano sempre più, le fronde degli alberi vibravano di luce come torce. Ma oltre questo, qualcuno mi stava seguendo.

Mi fermai di colpo. La radura era terminata ed il sentiero finiva a strapiombo sul mare in tempesta, oscuro come petrolio. Intanto il fuoco avanzava sempre più.

Sporgendomi, il terreno sotto ai piedi si sbriciolò come burro. Era troppo alto per poter tentare di tuffarmi e le onde mi avrebbero di sicuro inghiottita.

Qualcosa si mosse con agilità fra le ombre. Fu rapido, riuscii a catturare solo una figura sfuggente e poco umana.

Mi voltai verso il bosco fiammante. Le ceneri venivano trascinate via dal vento, il fumo si elevava in cielo... e urla. Urla umane di dolore erano un coro di morte che si intensificava sempre più.

Quella cosa con un balzo uscì allo scoperto.

Era alto più di tre metri. Ringhiava, dimenava la testa inferocito. Dalla sua bocca colava giù della bava. I suoi occhi erano luminosi come ghiaccio.

Della gente correva in mia direzione in cerca di salvezza, con i visi corrosi dalle fiamme e gli abiti carbonizzati si gettavano dal dirupo.

Un attimo più tardi il fuoco inghiotti entrambi.

Ci fu solo buio.

 

 

Mi svegliai di soprassalto alle prime luci dell’alba. L’aria che mi entrava nei polmoni sembrava non bastasse per riprendermi dall’ennesimo incubo.

Nella fioca luce mattutina scrutai la camera in cerca di possibili minacce: i libri sulla scrivania erano in fila, così come li avevo abbandonati la sera precedente. La libreria era in ordine, gli abiti del giorno prima ripiegati sulla sedia...

Fissando dritto di fronte a me saltò subito all'occhio qualcosa che non andava.

Mi disfai dei piumoni e mi catapultai giù dal letto. La finestra era spalancata, le tende sventolavano mosse dalla leggera brezza mattutina.

«Non era mia intenzione spaventarti...»

Sussultai presa alla sprovvista e mi voltai cercando di riadattare gli occhi a quell'oscurità. Una figura avanzò dal denso buio. Era alta, aveva possenti spalle. La sua energia si sprigionava per tutta la stanza.

Il viso emerse e gli occhi argentei furono illuminati dalla luce del mattino.

«Ector?», domandai incredula «Che ci fai qui a quest'ora...» Dio... ma che ore erano?

Ector avanzò ancora lasciandosi l'oscurità alle spalle. Rivolgendogli lo sguardo, notai che indossava solamente dei semplici pantaloni neri. Il petto ampio e latteo era in contrasto. I pettorali erano curve perfette. Le vene degli avambracci erano gonfie e ben visibili.

Arrossii e distolsi lo sguardo.

«Vattene!» borbottai lanciandogli un cuscino.

«Carina ed ospitale come sempre», rimbeccò.

«Non hai risposto alla mia domanda»

«E tu non sei affatto carina con me», ripeté e sbuffò «Ero solo di passaggio, okay?»

«Okay!» Feci spallucce. Avrei tanto voluto porgergli una marea di domande, il suo sguardo era così pensieroso e sfuggente. Mi limitai ad un semplice: «Eri con il branco? Le tue unghie... sono incrostate di terra», osservai le sue mani le nocche erano arrossate, le unghie mangiucchiate sporche.

Ector si guardò le mani in modo sfuggente. «Si. Abbiamo riconquistato gran parte del territorio ad est. Ma queste sono cose che tu non puoi capire...» mi liquidò con un sorrisino beffardo stampato in faccia.

Maschilista.

«So perfettamente a cosa stai pensando e sai non mi serve affatto essere uno di voi, un succhiasangue, per arrivarci. Tu pensi che io sia un egocentrico maschilista.»

Solo un pochino Ector... «No, affatto...»

«Mi stai mentendo. Riesco a fiutarlo», strinse le braccia al petto e si accigliò.

Già... avevo dimenticato il suo sesto senso.

Roteai gli occhi e mi voltai. «Ector ma non hai niente di meglio da fare, che ne so, tipo rincorrerti la coda?» distrattamente lo sguardo si posò sulla sveglia appoggiata sul comodino. Le lancette segnavano le sei del mattino.

Sgranai gli occhi. Ero in ritardo, ed essere in ritardo significava essere nei guai.

«Sai, penso che di prima mattina tu sia davvero insop...» lo interruppi.

«Verde o bianco?», chiesi frettolosa rovistando rapidamente nell'armadio.

«Cosa?», sospirò guardandomi impacciata con due maglie diverse «Il maglione bianco» rispose infine. Che fantasia...

Scossi la testa contrariata. «No... il bianco è troppo candido e angelico poiché un angelo dannato come me possa indossarlo! Vada per il verde. Adesso devi andartene» afferrai Ector per un braccio e lo accompagnai alla finestra «A più tardi!» gli dissi una volta che fu fuori.

«Aspetta un attimo! Questa sera... ci sarai vero?» i suoi occhi mi scrutarono attentamente in attesa di risposta. Le folte ciglia rendevano quello sguardo più penetrante che mai al di là dei ciuffi corvini ribelli che gli ricadevano sugli occhi.

«Ci proverò», gli dissi prima di richiudere la finestra.

Mi affrettai a vestirmi con un unica parola in ripetizione: dannazione! Quante volte mi ero ripromessa di non promettergli nulla che non potessi mantenere?

Quando rivolsi lo sguardo nuovamente al di là delle vetrate, al fitto bosco, di Ector non vi era già più alcuna traccia.

Scossi la testa.

La giornata si pronunciava difficile.

 

 

Con passo incalzante camminavo nel bosco. Il sentiero che mi era stato tracciato era semplice; perdersi non mi sarebbe stato possibile se lo avessi seguito.

Gli alberi erano inondati di colori varianti dal verde, al giallo, al rosso, all'arancio... Le foglie vibravano accarezzate da una debole brezza e il dolce cinguettare degli uccellini mi accompagnava lungo il tragitto quasi soffocando il rumore ripetitivo degli stivali sulla ghiaia.

Adoravo questo periodo dell'anno. L'autunno a Cedar Falls era un qualcosa di meraviglioso.

Dal giorno di quella terribile aggressione però ero in costante allerta. I muscoli tesi, pronti a scattare in qualsiasi momento contro ad un possibile attacco.

Solo con Ector al mio fianco, tutta quella tensione, tutto quel timore, ogni cosa, anche la più inutile preoccupazione... tutto svaniva via come per magia.

Conoscevo Ector da quando era solo un ragazzino di dieci anni. Avevamo dormito insieme una marea di volte, letto fumetti insieme, giocato ai videogame, guardato film horror per tutta la notte o semplicemente parlato del più e del meno stesi l'uno accanto all'altro sul mio letto fissando il soffitto porgendoci delle domande sul futuro e su come sarebbe andata.

Ricordavo ancora quando mi disse che voleva fare l'astronauta... e ricordavo ancora la sensazione che avevo provato in quel momento. Vuoto. Mi sentii come un sacco vuoto. Che cosa avrebbe mai potuto fare Sheryl da grande se non era mai uscita fuori da quel bosco? Quali idee avrei mai potuto avere per fare progetti?

Mi fermai.

Di fronte a me si espandeva per centinaia e centinai di metri quadri un'antica dimora. Le pietre scure che avvolgevano le mura erano consumate dal tempo, del scivoloso muschio si arrampicava su per esse agli angoli. L'edera in curve perfette attorniava le ampie vetrate e le finestre al piano superiore.

Nell'ampio viale era parcheggiato un fuoristrada nero. Una Land Rover con vetri oscurati... Anche se in lontananza, riuscivo perfettamente a sentire lo scoppiettio del motore. Quell'auto era lì da poco.

Presi un respiro profondo e procedetti. Quella stessa mattina avevo un appuntamento al quale non potevo sottrarmi.

Superai il cancello a battenti nero e procedetti verso la porta principale. Non ci fu bisogno di toccarla per aprirla; l'impianto di sorveglianza ad alta tecnologia lo fece per me riconoscendo il mio viso nel database.

Entrai. Il soffitto composto da lastre di vetro rendeva l'intero ambiente luminoso, immerso nella luce.

Il tondo l'atrio della casa apparve come sempre spoglio, dispersivo e vuoto. I passi rimbombavano fra le mura vuote. Il costoso marmo scuro luccicava, tanto da potermici specchiare.

Una scala a chiocciola dalle rifiniture eleganti – la balaustra in oro, i gradini in marmo tappezzati... – conduceva al piano superiore.

«Troppa luce, non è vero?» era la voce di Ellionor.

Scrollai le spalle. «Non è poi così male»

«È la stessa cosa che continua a ripetere tuo padre», una vampira dai lunghi e mossi capelli color miele si materializzò alla mia destra, poggiandosi all'arco che separava l'ingresso dal salone. «Lui ti sta aspettando» i suoi occhi color fiamma lampeggiarono esitanti.

«Lo so. Ed è meglio che lo raggiunga al più presto», mi guardai attorno «Ma dove sono tutti gli altri?», la dimora non era mai stata così vuota.

«Sono in città. A Seattle. È stata indetta una riunione all'ultimo minuto.»

«È successo qualcosa di grave?», domandai.

«Hanno trovato diversi cadaveri martoriati e vogliono fare chiarezza sulla situazione. Ti prego solo di non allontanarti, tuo padre è così preoccupato...»

«Come sempre», mormorai fra me e me.

«Sherrie...» rimproverò Ellionor con tono duro.

«Starò lontana dai guai», promisi.

Mio padre Richard mi attendeva nel suo studio. Con il tempo, a causa dei numerosi macchinari aveva traslocato il laboratorio giù nei sotterranei della dimora.

Non appena aprì la porta del laboratorio la luce dei neon mi investii, tanto che dovetti proteggermi gli occhi. Mi ci volle un po' per abituarmi alla luminosità.

Lo ritrovai seduto alla scrivania, con le mani intrecciate intento a studiare dei referti: i miei. Indossava un abito su misura grigio. I capelli scuri ordinati all'indietro in un acconciatura, il viso cereo perfettamente rado. Aveva un'aria decisamente stanca, come chi non chiude occhio da giorni.

Sul mio viso si sarebbe potuto leggere un velo di preoccupazione. Dovevo cancellarlo subito altrimenti mio padre se ne sarebbe accorto, perché lui aveva la capacità di leggere nel pensiero. Aveva il dono della telepatia. Poteva arrivare anche nelle viscere della mente, ed era anche in grado di cancellarti i pensieri se solo l'avesse ritenuto necessario.

Sarebbe potuto sembrare un potere affascinante, ma aveva un piccolo inconveniente. Privacy? Zero!

È per questo che in sua presenza ero perennemente costretta a fingere, o per lo meno, a sigillare i miei pensieri. Era frustrante non potersi confidare... non poter riflettere senza che qualcuno fosse sintonizzato con tutto ciò che ti passava per la testa.

Quasi tutti quelli come noi avevano un dono, una capacità innata che veniva sviluppata con il tempo. A mio modo, anch'io. Avevamo innumerevoli nomi con il quale amavano chiamarci: figli di Lilith – la nostra regina, la nostra divinità – o il più commerciale “vampiri”.

Comunque, se mio padre era in grado di leggere nel pensiero, io potevo parlare e trasferire miei ricordi nella mente di altre persone e, a mia volta, rivivere quelli degli altri.

Senza che Richard dicesse nulla, mi sedetti sul lettino in acciaio e lo guardai avvicinarsi a me per controllarmi le pupille con una lucina fastidiosa integrata in una penna.

«Come ti senti?» domandò.

Mi lasciai irradiare dalla luce. «Come sempre... credo»

«Nervosa per il ricevimento?» già vero, il ricevimento che ci sarebbe stato alla dimora...

«Ancora non riesco a crederci che mi lascerai andare in città con Ashlee per fare shopping»

«Già, nemmeno io!» Richard mi strinse un laccio emostatico attorno al braccio, controllò la consistenza della vena ed osservai l'ago entrarmi nella pelle, lentamente la boccetta iniziò a tingersi di rosso. Il sangue, era così denso e così scuro. Il suo profumo fruttato e metallico scatenò in me la sete.

Corrugò la fronte. «Dovresti nutrirti, lo sai vero?»

«Vedrò di cacciare qualcosa più tardi. Ero in ritardo...»

«Il lavoro può aspettare.»

«Si, ma tu non hai un lavoro come gli altri. Sei il primario del Seattle General Hospital! Non un medico qualunque!», gli diedi un pugno amichevole sulla spalla e Richard sorrise.

«E tu non sei una paziente qualunque. Sei mia figlia, adesso come la mettiamo?»

«Io non sono malata», gli feci notare.

Richard mi fissò e rimase a bocca aperta; le parole bloccate in gola. Avrebbe tanto voluto controbattere, dirmi che mi sbagliavo. Ma non era presente nessuna malattia strana in me, lo sapevamo. Eppure... qualcosa di insolito e anomalo albergava in me.

Non avevamo trovato alcuna spiegazione riguardante tutto ciò che mi accadeva. Il mio DNA cambiava in continuazione, non era mai lo stesso. Questo non interferiva con il mio carattere o il mio aspetto fisico. Era come se il mio DNA si rigenerasse. Come un codice o una password.

«Hai avuto effetti collaterali? Mal di testa, nausea? Il farmaco in qualche modo è stato invasivo? Allucinazioni, scarsa salivazione...» ad un certo punto iniziò ad elencarmi così tanti effetti collaterali che feci fatica a seguirlo e lo interruppi.

«No. Papà sono passate solo quarantotto ore da quando l'ho assunto!»

Fece un respiro profondo. «Hai ragione, scusami. Per qualsiasi cosa non esitare a contattarmi.»

«Lo farò di sicuro. Stai andando anche tu a quell'incontro?» lo guardai mentre richiudeva la sua ventiquattrore; l'occhiata che mi lanciò mi fece accapponare la pelle. Era l'occhiata–che–non–richiedeva–altre–domande.

«Tornerò presto», promise. «Nel salone c'è una sorpresa per te», mi baciò la fronte di sfuggita.

«Una sor...» mi bloccai, accorgendomi di essere rimasta improvvisamente sola nel laboratorio.

Richard era sparito di colpo lasciandosi dietro soltanto il suo buon odore.

 

 

Andai nell'ampio salone. La moquette grigio scuro spiccava in contrasto con le mura bianche circondate da ampie vetrate.

Tutto era in perfetto ordine.

I divani in pelle nera erano perfettamente lisci, privi di qualsiasi passaggio. Un vaso di rose bianche era adagiato su un comodino al loro fianco e la loro fragranza profumava l'interno ambiente.

Mi avvicinai ad un nuovo oggetto, più recente dell'ampio televisione ad alta definizione.

Un pianoforte... sorrisi fra me e me.

Rimasi incantata. Richard lo aveva comprato appositamente per me. Nessuno era in grado di suonarlo, era un onore per me suonare sinfonie per loro; era un degli unici momenti in cui non mi sentivo inutile, sapevo fare qualcosa che loro non erano in grado di fare.

Sfiorai i tasti d'avorio. Suonare... suonare era l'unico modo in cui riuscissi ad esprimere i miei veri sentimenti. Tristezza, dolore, oppressione, impotenza...

La musica mi alleggeriva di questo fardello...

Le particelle d’aria si mossero dietro di me come un vento lieve e improvviso, una cosa a dir poco innaturale.

«Ciao» Qualcuno mi richiamò alla realtà.

Voltandomi mi ritrovai davanti Ethan. Il mio maestro, era lui ad istruirmi dal momento che non frequentavo una scuola pubblica.

Della corta barba ricopriva il suo viso d'avorio come del morbido pelo. I lunghi capelli scuri non ricadevano come sempre sulle spalle, ma erano legati in un codino. La mascella squadrata era contratta. I suoi occhi castani felici di vedermi.

«Non mi aspettavo di trovarti qui. Pensavo che fossi alla riunione con gli altri» L'occhio come sempre mi cadde sulla sua vera caratteristica. La cicatrice sul collo. La carne era stata torturata da morsi, qualcuno si era divertito martoriarlo.

Ethan era un vampiro Infetto, questo implicava che si era trasformato a causa di un morso, mentre mio padre era un nobile Purosangue, nato dall'unione di due vampiri di sangue blu. La sua famiglia era di rilievo nella nostra comunità. Si poteva definire come una famiglia reale.

Non avevo mai conosciuto l'altra facciata della famiglia Nox, da quello che mi era stato sempre detto avevano esiliato mio padre accusandolo di altro tradimento. Inoltre ripudiavano i mezzosangue, quelli come me.

«Le riunioni sono noiose, non fanno per me», borbottò e si voltò procedendo verso le scale.

Seguii Ethan nella libreria al piano di sopra; era immensa ed arredata in modo sobrio. Le pareti erano ricoperte da centinaia di libri di ogni genere. Demonologia, arti dell'occulto, alchimia e molti altri a cui non sapevo dare un nome. I più antichi avevano copertine in cuoio e pagine ingiallite talmente fragili da frangersi come cristallo al più intenso tocco.

«Sai, ho notato il modo in cui tutte le volte mi guardi il collo»

«Scusami. Non volevo metterti a disagio»

«Non scusarti.», mi sorrise. «Non ce n'è bisogno. Dovresti assecondare la tua curiosità» si lasciò cadere su una poltrona. «Avanti. Spara, chiedi pure»

«C'eri anche tu con mio padre durante quella notte...»

Il volto di Ethan divenne una maschera cupa. Lo sguardo impenetrabile. «Si. Ero umano prima, ed ero amico di tua madre...», i ricordi lo portarono lontano «Io fui trasformato, ma per lei fu troppo tardi... non avevamo abbastanza tempo.»

Mi sedetti sulla poltrona al suo fianco e guardai Ethan.

«Tutti noi apparteniamo ad una categoria, proprio come gli umani si suddividono per colore e nazionalità. La più importante e nobile di cui fa parte tuo padre è la “famiglia Royals”. In questa categoria ci sono i vampiri nobili di sangue blu. Sono loro che, attraverso il Consiglio, aboliscono e creano le nuove leggi sul nostro mondo. La seconda categoria sono gli Infetti; io ne faccio parte come ben sai...» chinò leggermente la testa per farmi vedere con maggior chiarezza il suo collo devastato dai morsi.

«Io sono Un Infetto. Fortunatamente Richard mi ha accolto non facendo alcuna distinzione fra le nostre due razze, mettendomi in allerta su quelli che potevano essere all'epoca i miei pericoli. Molti vampiri potenti, maggiormente i creatori, utilizzano i loro schiavi, gli Infetti, come guardie; altri come merce di scambio per ogni attività o puro piacere al quale raramente si preoccupano di fornirgli cibo. Questo ci rende aggressivi e più propensi a lottare. I più fortunati con il tempo diventano degli assassini senza scrupoli per pura sopravvivenza... insomma, siamo l'ultimo scalino della piramide» si fermò per riprendere fiato, nei suoi guizzò uno strano scintillio, sembrava impaurito ma anche in collera.

«La terza categoria è la più spietata, la meno incline al perdono. Sono i Purosangue; anche loro sono vampiri nobili dal sangue blu, ma sono stati addestrati dagli Anziani per far rispettare le leggi del Consiglio. Sai bene che molti di noi hanno dei poteri particolari, be' tutti loro sono scelti per questo, hanno poteri che non so nemmeno come definire. Ai miei occhi sono peggio dei peggiori degli Infetti, sono coscienti delle loro azioni e uccidono con smania... assassini, calcolatori senza alcuno scrupolo, attenti ad ogni dettaglio pur di assecondare il proprio potere. Una vera e propria organizzazione di grandi potenze, a mio parere. Multinazionali, grandi società, dietro ci sono loro. Diversi umani sono solo delle pedine nelle loro mani dal momento che il Consiglio ha preferito mantenere la nostra razza nascosta dagli umani, tuttavia alcuni di loro sanno della nostra esistenza ed hanno l'obbligo di non parlarne in cambio di... favori.» arricciò le labbra carnose in un sorriso beffardo.

D'un tratto si alzò, sentivo l'adrenalina pompargli nelle vene.

Dovevo indagare, la curiosità si impossesso di me.

«Ti sei imbattuto con dei Purosangue, vero? Che cosa ti hanno fatto?» chiesi.

Mi diede le spalle per guardare fuori dalla finestra, ero convinta che i suoi occhi erano proiettati nel passato, un passato remoto, ma forse anche di secoli.

«Sei perspicace, ragazzina!» sorrise flebilmente e continuò «Mi braccarono come se fossi un'animale! Avevo finalmente aperto quel dannato portale...» strinse i pugni «Ero stato trasformato nella Città dell'Ade, la città dei Purosangue. Per giorni ho cercato di difendermi, ma ogni volta che riuscivano a scovarmi erano sempre di più e sempre più forti. Scoprì di avere un dono, la telecinesi, ma non poteva nulla contro la loro forza; erano addestrati per uccidere quelli come me; ma io non mi ero mai nutrito, mantenevo un basso profilo. Dovevo trovare tua madre, portala fuori da quella dannata città!

Era un notte d'estate, un'estate torrida; il caldo era come una pellicola, ti stringeva come in una morsa, ed è per questo che ero in spiaggia per cercare un po' di sollievo ho sempre amato il mare, mi ricorda la mia infanzia di quando ero ancora umano. Qualcuno stava arrivando a prendermi li fiutai. I loro poteri si insinuavano in quel luogo come una nebbia. Non avevo scampo, la spiaggia era vasta e desolata. Cosa avrei potuto scagliarli contro? La sabbia di certo non gli avrebbe fermati o danneggiati.»

Ero inebetita, non avevo mai sentito quella storia, forse era solo un altro modo per proteggermi.

«Cosa hai fatto? Sono riusciti a prenderti?» ricordavo la descrizione sanguinaria che mi aveva fatto dei Purosangue e non ero più molto convinta di voler ascoltare il seguito della storia.

Ethan mi guardò negli occhi, quel nocciola mi risucchiò. Voleva scorgere sul mio viso la paura, così avrebbe potuto continuare quel racconto spaventoso.

Lo esortai con un cenno della mano.

«Non hai paura delle storie dell'orrore Sheryl?» Stava cercando si cambiare discorso.

«Continua.» Lo incitai.

«Mi catturarono, mi torturarono con ogni utensile di loro conoscenza. Persi tanto di quel sangue che ero convinto che avrei potuto sterminare una città intera pur di nutrirmi...» mi osservava con attenzione, ma il mio viso fu impenetrabile.

«Ti risparmio i particolari. Mi portarono dal Consiglio, dovevano decidere cosa farne di me. Di solito quelli come me hanno solo un destino nel regno: la morte. Ma qualcuno, dall'alto di quella grande sala urlò di fermare la seduta. Qualcuno mi voleva vivo. Era tuo padre, all'epoca era solo un ventenne. Sentivo il potere di qualcuno che mi entrava nella mente. Non avevo mai visto e provato nulla del genere.»

Cercai di immaginare mio padre, un giovane ragazzo...

«Gridò a tutti di bloccare l'esecuzione, perché ero diverso, in buona parte ero innocente. Il suo potere mi investì ancora una volta. Disse a tutti che non mi nutrivo da settimane, che non avevo fatto del male a nessuno nel Regno. Capii che quel formicolio che avvertivo nella mente era il suo potere, lui leggeva nel pensiero, poteva scovare nella mia mente ogni più piccolo segreto.

Tuo padre è sempre stato molto compassionevole, ma nessuno gli credette. Fu in quel momento che un vampiro, sicuramente qualcuno di molto antico e potente, si avvicinò a me aiutato da un giovane. Era un vampiro cieco. Le sue mani si appoggiarono sulle mie spalle, mentre il suo viso si avvicinava al mio collo. Ero terrorizzato, ricordavo il dolore dei morsi che mi avevano trasformato e non avevo nessuna intenzione di soffrire quel dolore atroce. Ma lui si limitò ad annusarmi. Sembrava che si inebriasse del mio profumo, poi si voltò verso i suoi simili e si limitò a dire “È innocente, non si nutre da esattamente ventuno giorni e mi chiedo come ci riesca!”.

Dopo questo, Richard mi disse che tua madre era con lui e che stava bene. Mi ero intrufolato nella città per lei. Lei era mia amica, l'avevo vista fuggire via con lui risucchiata da un sottospecie di buco nero. Era scomparsa da giorni. Ci misi mesi e mesi prima di decifrare quello che alla fine si rivelò essere un portale...», Ethan continuò il suo racconto, ma la mia mente vagò altrove...

Mi resi conto di non saperne nulla della mia specie, tanto meno dei due mondi del quale facevo parte, quello degli umani e quello dei vampiri. Che dire di mia madre... non sapevo nulla neppure di lei, solo una foto e un ciondolo che avevo al collo fin dalla nascita... l'oggetto più importante che possedessi.

Di istinto lo strinsi.

La mia vita era come un limbo, non mi era concesso frequentare gli esseri umani e dall'altra parte non potevo conoscere altri vampiri al di fuori di quelli della dimora.

Non avevo vie d'uscita.

Ero rinchiusa in una prigione lussuosa.

 

***

 

«La settimana scorsa cinque ragazzi nel bel mezzo del parco della città sono stati aggrediti e in seguito e sono morti a causa delle ferite mortali riportate» parlò una vampira bruna e scura di carnagione. Indossava un completo blu notte e i capelli erano legati. Il rossetto scuro spiccava. Aveva un' aria autoritaria e professionale, tipico di chi sa come agire. Era il commissario Raminez.

Columbia Center, Seattle. Era qui, all'ultimo piano dell'immenso grattacielo – che sembrava sfidare le leggi della natura – che era stata indetta la riunione.

«Quattro notti fa ad un rave party cinquanta ragazzi sono stati martoriati con una furia incontrollata e la cosa spaventosa e che molti resti non sono stati ancora ritrovati. E ancora, poco più a nord lo stesso, altri cadaveri. Dei bambini questa volta.

Come credete che mi sia sentita a dover spiegare ai genitori che ai loro bambini erano state strappate via braccia, gambe e cosa peggiore, che non ci fosse alcuna traccia del colpevole?»

Ci fu silenzio.

«Sicuramente questo Infetto deve aver sviluppato un dono molto notevole...», commentò Adam sfidando tutti con i suoi occhi grandi turchesi. Sebbene fosse un giovane ragazzo, era ormai un vampiro centenario.

Voci si scatenarono.

«E chi ti dice che sia uno di noi?» ruggì un vampiro barbuto dagli occhi scuri e dall'aria pericolosa incrociando lo sguardo dell'elegante ragazzo in abito bianco che aveva di fronte.

Aleksander a quella domanda abbozzò un sorriso divertito ed intrecciò le mani lungo il ventre.

«Cosa ti diverte, Nephilim?»

Il ragazzo si ricompose e posò i gomiti sull'enorme tavolo che radunava ogni vampiro ed essere importante della città. I suoi occhi rubini squadrarono tutti, ma indugiarono in un modo intenso su un vampiro dagli occhi ambrati. Richard Nox... era questo il suo nome. L'Angelo leggeva ogni suo pensiero, ogni suo più oscuro ricordo e le sue sensazioni si riversarono nel Nephilim come un fiume in piena. Ecco chi aveva quello che stavano cercando tutti.

Richard gemette e si prese la testa fra le mani. Aleksander allontanò il suo potere, smettendola di leggergli nel pensiero.

«Riflettevo», disse in tono pacato «A quanto pare la rivalità fra la stessa specie è un supplizio che durerà fino alla fine del tempi. Una cosa è certa. Gli umani non sono pronti a noi, per quanto loro simili... la nostra specie è una evoluzione. Un salto pregiato di qualità. Se tutto questo non sarà fermato al più presto, se queste uccisioni continueranno, ci toccherà uscire allo scoperto e intervenire. Ma le nostre identità andranno in fumo e nel mondo si riverserà il caos...»

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Capitolo 3
*** Fuori Strada ***


Capitolo 2 Fuori Strada

 

 

 

Tornata a casa gettai per terra la tracolla e mi diressi in cucina. Aprii il frigo e stappai una lattina di coca cola azionando la segreteria telefonica.

In quel momento il mio sguardo indugiò su una foto, la nostra foto. Era presente un uomo sulla trentina con occhi magnetici color nocciola dai riflessi ambrati. Lui era alto e snello, della barba regolare accarezzava le sue guance. I capelli castani, erano portati all'indietro con un'eleganza d'altri tempi e cingeva con un braccio una giovane donna, altrettanto bella. Capelli di un biondo dorato accarezzavano le spalle di lei; il suo viso ben levigato era perfetto e avrebbe fatto invidia persino ad una dea. I suoi occhi di un arancio fiamma, spiccavano più del suo sorriso. Era impeccabile.

Avevo solo pochi anni ed Ellionor, la nuova compagna di mia padre Richard, mi stringeva fra le sue braccia mentre lui stringeva entrambe calorosamente.

Adoravo quella foto. Eravamo felici, impressi da una macchina fotografica che aveva catturato quel momento di felicità. Ma qualcosa stonava. Ed ero io.

Sono per metà immortale e metà mortale. I miei geni sono diversi, non sono del tutto un vampiro. Sono un incrocio fra due nature diverse: una parte vulnerabile e fragile, umana, e una parte predatrice, attenta, assettata di sangue caratteristica predominante dei vampiri.

Io non avevo il privilegio della vita eterna dei Purosangue, invecchiavo. Loro nutrendosi di sangue rallentavano l'invecchiamento, quasi annullandolo.

Era tutto così strano... ero cresciuta esclusivamente fra i boschi di Cedar Falls, una cittadina remota e tranquilla degli Stati Uniti, dove gli esseri umani non erano a conoscenza dell'esistenza di esseri sovrannaturali – così come amavano definirci anziché esseri evoluti – che si mischiavano fra la gente, vivendo a loro passo.

Un senso di vuoto mi colpii lo stomaco. Ero la nascosta... fra i nascosti...

«Ci sono... due messaggi. Bip.», mi informò la voce femminile elettronica della segreteria.

Mi buttai sul divano e accesi la tv facendo un po' di zapping.

«Sono Richard, questa sera farò tardi. Non aspettarmi», bip.

Partì il secondo messaggio:

«Certo che hai proprio un debole per le dimenticanze», era la voce di Ector.

La coca cola mi andò di traverso uscendomi del naso. Me ne ero completamente dimenticata dannazione!

Corsi in bagno chiudendomi la porta alle spalle. Mi spogliai e lasciai cadere i vestiti sul pavimento entrando in doccia.

Il getto d'acqua calda mi ammorbidì la tensione.

Mi guardai la pelle, ebbi l'impulso di strapparla via. La mia natura diversa... era straziante.

I pensieri si mischiavano tra loro come un turbine incessante.

Uscii dalla doccia e mi ritrovai di fronte al grande specchio antico, dalla cornice dorata. Quella che vedevo riflessa era il riflesso di una giovane donna; la carnagione chiara, i lunghi capelli corvini bagnati le attorniavano il viso, gli occhi dorati erano lucidi come se stesse per piangere. Era meravigliosa. Una bellezza inquietante, orribile ai miei occhi.

La classificazione è chiara, o sei bianco o sei nero; bianchi gli umani, neri gli esseri come loro. I vampiri, i licantropi...

Mentre io, io... mi classificavo come grigio insignificante, che stonava sia con il nero che con il bianco.

Con la mano cancellai via lo strato di vapore dallo specchio e cancellai così anche la mia immagine.

Indossai dei jeans e una maglia nera. E me tornai in camera.

«Sherrie, dove credi di andare?», a quella domanda inghiottii ogni mia emozione negativa pur di non farla trapelare.

«Andiamo!» pregai «Sarò qui prima di mezzanotte» promisi.

Ashlee sbuffò e produsse un brontolio felino di disapprovazione incrociando le braccia al petto.

«No», disse secca. «Ho degli ordini ben precisi, Sheryl.»

Roteai gli occhi «Andiamo Ash, ti prego!», dissi esasperata. Ero in forte ritardo.

«Niente da fare», continuò.

La fissai sebbene si sforzasse di evitare il mio sguardo e cercasse di rimanere autoritaria. Gli occhi blu guardavano altrove; erano intensi. I capelli lunghi e lucidi come seta nera le accarezzavano il fondo schiena. Ash aveva qualche anno in più di me, era una vampira. Lei era orfana, eravamo cresciute insieme. Eravamo come due sorelle. Certo, caratterialmente lei era molto più estroversa di me e con i ragazzi ci sapeva fare parecchio.

Sbattei le palpebre più volte, guardandola dolcemente. Gli angoli della sua bocca si curvarono all'insù e scosse la testa sospirando esasperata e divertita allo stesso tempo.

«E va bene», mugugnò vinta.

«Grazie! Grazie, Grazie! Sei la migliore amica del mondo!», le dissi mentre mi affrettavo ad uscire dalla finestra della mia camera.

«Non farmi trovare nei casini, okay?»

Atterrai sulla ghiaia e mi misi a correre a più non posso. Ero in ritardo, la luce del tramonto stava sparendo all'orizzonte tingendo il cielo di rosso.

Il cuore mi galoppava in petto, ma non dovevo fermarmi.

Raggiunsi Preston in dieci minuti e senza fiato. La radura in cui avevo appuntamento aveva iniziato a svuotarsi di gente... gente... licantropi.

Come ogni tre anni, era stata allestita una recinzione spinosa dove all'interno i membri del branco, grugnivano e urlavano sfidandosi con lotte violente per ottenere un grado maggiore e sottomettere il proprio avversario.

Riconobbi Seth, amico fidato di Ector. Era a petto nudo e sporco di fango, i pettorali spiccavano sulla carnagione scura. Probabilmente aveva già lottato.

I suoi occhi color nocciola incontrarono i miei e di colpo liquido gli amici con il quale stava sostenendo una conversazione – probabilmente licantropi come lui.

«Sherrie! Ma tu non dovresti essere qui...», mi guardò e incrociò le braccia al petto impettendosi.

«Ciao Seth», dissi cercando distogliere lo sguardo dalla sua enorme massa corporea «Sto cercando Ector, mi aveva detto di venire qui.»

«Oh...», mormorò passandosi una mano fra i capelli castani «Troppo tardi l'ho visto andar via più o meno dieci minuti fa, dopo l'incontro»

«Non mi aveva detto che avrebbe lottato!», mi rabbuiai.

Seth allargò le mani in segno di resa.

Perfetto... davvero perfetto. «Dov'è andato?»

«Credo al Dawn, con mia sorella Lilian»

Al Dawn. Con Lilian. La lupacchiotta più puttana dell'intera contea.

Girai i tacchi e me ne tornai a casa.

Oh, Ector! Sei davvero uno stupido stronzo.

 

 

La settimana fu abbastanza piatta. Andavo spesso nella grande villa nel cuore della foresta, per apprendere qualche nuova nozione degna di una studentessa universitaria. Le lezioni aiutavano a distrarmi e a pensare il meno possibile a Ector con la sua Lilian–tutta–curve.

Per mia fortuna, non dovevo sigillare i miei pensieri con gli altri vampiri poiché non tutti avevano il dono della telepatia. Ma restavo comunque ben attenta a non utilizzare involontariamente il mio dono; toccando semplicemente una persona riuscivo a creare una connessione fra due o più menti, collegandola alla mia. In questo modo ero in grado di trasmettere miei ricordi, e pensieri. A volte non riuscivo a controllare il mio potere, non dovevo fare nulla solo pensare e un semplice tocco avrebbe creato la connessione.

Sollevando lo sguardo dal libro di anatomia, mi persi con lo sguardo al di là delle vetrate scrutando il bosco all'orizzonte.

Un pensiero aveva iniziato a darmi il tormento da un po' di giorni. Volevo scappare da quella monotonia che era la mia vita.

Mezz'ora più tardi mi trovato al confine fra il bosco e la città di Cedar Falls.

Attenta a non attirare l'attenzione osservavo nascosta dietro un albero la vita di città degli umani.

Le auto sfrecciavano sulla strada... una donna camminava con buste della spesa e sembra essere affaticata... dei bambini correvano su un marciapiede ridendo...

Uno sorriso nacque sulle mie labbra. La vita... quella vera.

D'un tratto mi sentii soffocare. Conoscevo perfettamente quella sensazione fastidiosa che avrebbe continuato a stringermi la gola e lo stomaco come la peggiore delle morse.

Le pupille mi si dilatarono, inghiottendo l'iride. Avevo sete di sangue. Tutta quell'allegria e quei suoni piacevoli delle risate svanirono e nella mia testa rimbombarono le immagini dei battiti della giugulare di quei bambini e di quella donna.

Corsi via.

I miei movimenti creavano attorno a me un velo invisibile di foglie secche d’autunno, erano bellissime fra le sfumature verdastre e quelle marroni.

Il terreno era bagnato. Probabilmente durante la notte aveva piovuto. Ero stremata, ma questo non era un problema poiché i miei passi veloci, erano come una carezza per il suolo.

Mi fermai di scatto, fra la nebbia mattutina, vidi la sagoma di qualcosa che si muoveva. A giudicare dalle dimensioni era abbastanza grande, più alto di me. Strizzai gli occhi.

Era un cervo.

Studiai i suoi movimenti. La sete mi stava divorando.

Scattai all’attacco, ma mi arrestai subito non appena vidi che era con il suo cucciolo.

Che strazio essere mezzosangue,” pensai.

E così il mio spuntino scappò via.

Non riuscivo a dominare i miei sentimenti. Avrei desiderato essere un umana per non strappare vita a degli animali indifesi, ma desideravo anche essere un vampiro per non avere scrupoli, in fondo sono una cacciatrice, sono a capo della catena alimentare...

Sbuffai. Dovevo realmente smetterla di crearmi tutti quei problemi, ma delle volte era davvero difficile.

Con passo lento mi inoltrai fra gli alberi, la ghiaia scricchiolava sotto i miei piedi, notai che fra la coltre di nubi filtrava qualche raggio di sole creando un stano effetto nella foresta.

Volevo scaldarmi con il suo calore, mi spostai e cercai un posto dove poterlo osservare liberamente, dove i rami non erano di intralcio a quella spettacolare visione.

Finalmente trovai una parte spoglia, mi appoggiai su di un tronco e lo osservai: era stupendo.

Alzai gli occhi osservando ogni sfaccettatura di quella luce bianca, che tendeva a creare fasci di luce colorati; con la mano, cercai di toccarne uno, invano.

I vampiri alla luce del sole non bruciavano, venivano indeboliti e questo li rendeva più vulnerabili in caso di uno scontro improvviso. Tuttavia, ognuno poteva svolgere la propria routine in tutta tranquillità dopo essersi nutrito di sangue fresco. Gli umani facevano colazione con uova e bacon, e noi cacciavamo e ci nutrivamo di animali, o di alcuni umani. Ognuno ha i proprio gusti!

Non so per quanto tempo rimasi seduta su quel tronco, avevo atteso che il sole sparisse.

Sentii dei passi avvicinarsi.

Feci finta di non essermi accorta di lui, che si accostò "silenziosamente" dietro di me e mi cinse le spalle stringendomi a lui.

«Guarda che sapevo che eri qui» dissi senza troppo entusiasmo, e ancora arrabbiata.

Lo sentii sbuffare e mi sciolsi un po' sorridendo, poi mi lasciai andare fra le sue grandi braccia. Era così caldo e protettivo. Mi sentivo al sicuro. La rabbia e il dispiacere svanirono.

Restammo in quella posizione, in silenzio. Per fortuna Ector parlò e fu un sollievo.

«Senti Sherrie…»; improvvisamente il tronco sul quale eravamo romanticamente seduti scricchiolo e si spezzo.

Caddi, ma per fortuna i miei super riflessi mi fecero evitare la botta. Ector era cresciuto così tanto che era riuscito a rompere il tronco su cui eravamo seduti, lasciando scivolare involontariamente anche me dalle sue braccia.

Borbottò per la botta.

Risi compiaciuta «Ehi Ector. Questo è per essere andato con Lilian e per essere sparito per una settimana.»

«Ohi... che botta!», rispose con voce spezzata dal dolore.

«Vuoi che chiami mio padre per farti dare un occhiata?».

«No, no sto bene!», farfugliò. « E non ho bisogno dell'aiuto di nessuna sanguisuga», aggiunse. Sanguisuga? Ma certo Sanguisuga. Il nomignolo odioso con il quale ci definiva.

Feci una smorfia, io non ero un vampiro a tutti gli effetti, ma lo erano i miei genitori. Dovevo avere un volto orribile perché lui si accorse subito del mio disagio e mi chiese scusa circa un miliardo di volte e poi continuò con la sua solita parlantina.

«Non mi servono dottori, sto benissimo».

«Vedo», commentai dandogli una pacca sulla spalla.

Trattenne un gemito di dolore e mi incenerì con lo sguardo «Sei assurda!», scatto in piedi scuotendo la testa «Ti va di venire con me?», quella proposta mi incuriosì.

«Dove di bello?», domandai.

«Be', di andare a Preston. Sto lavorando ad un progetto e vorrei il tuo parere!».

Ci pensai un po'.

«Va bene».

Scappò via e rimasi a guardarmi attorno.

«Ector?», mi guardai attorno. Era sparito.

Senti qualcosa muoversi fra i cespugli, si era trasformato nel bellissimo lupo bianco di sempre.

Per essere un licantropo era velocissimo e molto agile. Mi sentivo impacciata quando correvamo insieme. Sfrecciavamo fra gli alberi.

Raggiungemmo la città di Preston in poco tempo.

Aspettai che si rivestisse e tornasse da me per poi entrare nel suo laboratorio segreto, il suo garage.

Entrammo all'interno dalla porta arrugginita sul retro.

«Seguimi, ti faccio vedere la mia ultima creazione», mi fece strada.

Mi guardai attorno, il garage era buio e in subbuglio. Le pareti erano grigie, macchiate e rovinate. Le finestre prive di vetro erano tutte sbarrate con tavole di legno permettendo ad alcuni fasci di luce di penetrare all'interno.

Una semplice lampadina appesa al soffitto illuminava freddamente quel grande ambiente che ospitava polvere e decine di scatoloni abbandonati.

Il tanfo di benzina era insopportabile.

«E’ il posto più incasinato che abbia mai visto negli ultimi dieci anni», commentai sarcastica.

Si fermò d'un tratto al centro del tetro garage, per accennarmi un breve sorriso di scuse. «Lo so, non ho mai il tempo necessario per riordinare un po. Ti piacciono le auto non è vero? Ellionor mi ha permesso di farla rimanere qui. Dovevo metterla a nuovo. Ora è pronta devo portargliela questa sera...», e riprese a camminare nel garage, serpeggiando fra gli scatoloni.

Lo seguii e mi trascinò con quella che potrebbe essere definita pura euforia davanti a un telone, sotto cui, si trovava la sua creazione.

Tolse il telo scoprendo così la sua creazione. Dinnanzi ai miei occhi apparve una macchina color grigio metallizzato dai vetri oscurati.

«Fico»; a Ector questo bastava, non perse per niente il suo entusiasmo.

«È una Mercedes Benz SL »; mi disse. «Ho cambiato alcune cose, l'ho riverniciata e ho messo un nuovo motore. Sono contento che ti piaccia», mi scrutò e sorrise «Dai, andiamo a provare questo gioiellino!» continuò guardandomi in faccia e diede un colpetto all'auto, come per indicarla.

Anche se non avessi voluto, ci pensai su.

«Sherrie… non ti ho chiesto per favore », disse spazientito.

Ero sinceramente contenta, sbalordita. Libertà!

«Ector dimentichi che io non so guidare, non ho la patente.»

Era già salito in macchina e si era messo al posto del passeggero sorridendomi. Il suo sorriso era tutt'altro che rassicurante.

Sbuffai e decisi di prendere le chiavi che aveva lasciato sul cruscotto e salii a bordo.

Gli interni erano meravigliosi. Erano presenti solo due sedili in pelle, era presente anche uno stereo con lettore cd e un navigatore. Accarezzai il volante e sospirai.

«Dovresti inserire la chiave per farla partire!», il suo tono sarcastico delle volte mi dava ai nervi.

Gli diedi un pugno sulla spalla e mi accigliai «Fin qui ci arrivo» Inserii la chiave e misi in moto. La macchina si accese ed ebbe un sussulto, spegnendosi nuovamente. «Scusa», dissi sincera.

«Okay! Calma. Allora rigira la chiave, riaccendi lentamente la macchina e premi la frizione».

«Ector…».
«Si?»
«Quale sarebbe la frizione?», domandai.

Mi spiego più o meno le cose essenziali, frizione, freno e il dosare la velocità. Poi il cambio delle marce.

«Okay, sono pronta!», dissi infine.

Lo sentii borbottare qualcosa e gli lanciai un'occhiataccia. Girai la chiave lentamente, premetti la frizione e misi la prima marcia, rilasciai lentamente la frizione e diedi gas. Finalmente avevo mosso quella macchina.

« Allacciati le cinture, si parte»

«Oh be'…» rideva osservando i miei appena venti chilometri orari.

Bene ero così ridicola? Okay Ector.

Misi la terza ed eccellerai.

«Prova a ridere adesso Ector», mormorai.

«Dovresti…» Rallentare? Ma certo.

Poi successe tutto in fretta.

Persi il controllo della macchina mentre continuavamo a sfrecciare nella foresta. Riuscii a scansare gli alberi che ci venivano incontro, o meglio eravamo noi ad andargli in contro.

Sentii il vuoto sotto di noi.

Uscimmo fuori strada e finimmo con un salto, di non so quanti metri in una radura. Sembrava che il mondo si fosse appena fermato. Stavamo bene. Ector aveva sbattuto la testa non so quante volte ma ora ce l'aveva rovesciata all'indietro mentre rideva fragorosamente.

«Tu sei tutta matta!» aggiunse ironico. «Non dirmi che hai avuto paura!>.

«No–no» ero ancora aggrappata al manubrio con le mani e gli occhi sgranati. Tossii.

L’airbag era fastidioso, mentre un fumo denso fuoriusciva dal motore.

Si accarezzò la mascella con fare pensoso. «Gli ammortizzatori non sono molto resistenti... e con il motore vedrò di rimediare», osservò.

«Ector…io non mi preoccuperei del motore in questo momento», gli dissi guardando di fronte a noi.

Nella radura era presente una ragazza, con lunghe e snelle gambe, il ventre piatto e i capelli di un biondo così chiaro tendente al platino. Avrebbe fatto invidia a qualunque modella. Era davanti a noi, probabilmente era lì in quel momento per cacciare. Gretchen come una pantera, si scagliò direttamente su di Ector.

Non l'avevo mai vista così furiosa, sembrava che gli occhi verdi le stessero per schizzare fuori dalle orbite. Per un momento pensai che ci volesse attaccare. Ector però era tranquillo e vedendola arrivare gli spuntò un grande sorriso, era compiaciuto, gli piaceva discutere con Gretchen, era la sorella di mio padre.

«Ehi succhiasangue!», disse allegro.

«Ti rendi conto di quello che hai fatto, lupo?!», Sbraitò Gretchen. Lo stava letteralmente fulminando con gli occhi.

Se gli sguardi potessero uccidere…” pensai.

«Oh ti preoccupi per la macchina? Guarda che, anche se ne compri una nuova, i soldi ti bastano per comprare lo smalto», rispose lui con fare ironico.

«Tu hai messo in pericolo Sherrie! Come ti permetti di scherzare su una cosa del genere?» La sua voce, sempre melodiosa e con sottile accento italiano, adesso sembrava uno stridio fastidioso.

«Gretchen, io sto bene. Mi…», non mi lasciarono terminare la frase.

«Scusa Gretchen, ma non hai niente di meglio da fare? Come, non so, guardarti allo specchio, e litigare su chi è la più bella tra te e la vampira riflessa?».

Gretchen lo guardò minacciosa, ringhiando in modo ferino.

«Andiamo! Lo sai che quando fai quella faccia, le rughe attorno agli occhi si vedono di più? Fossi in te mi preoccuperei, non vorrai mica rovinare quel bel faccino. Vero?», e sorrise ancora. I suoi occhi d'argento, ricoperti da alcuni ciuffi corvini, ammiccavano più luminosi che mai.

«Ector, ti prego basta. Gretchen, è tutto okay…», mi intromisi ma fui subito fermata.

«Zitta!», urlarono all'unisono.

«Sono anni anni che ti sopporto, bavoso! Non ti conviene farmi perdere la pazienza!»

«Altrimenti che fai? Mi pugnali con un pettine?», la fronteggiò.

Gretchen emise un sibilo e mostro i denti. Ector, noncurante, le fece cenno di farsi avanti, dopo quel gesto provocatorio, Gretchen, lo attaccò e finirono a terra.

Li fermai subito, Gretchen stava per morderlo.

«Basta! Siete impazziti?», urlai.

Si voltarono a guardarmi scattando in piedi. Gretchen mi fece un sorriso e si avvicino lentamente, il suo viso si era addolcito.

«Stai bene Sherrie? Non sei costretta a fare tutto quello che il lupo ti dice».

«Non si chiama “lupo”, si chiama Ector, okay? E poi non mi ha costretta a fare niente! E’ stata una mia idea» Mentii, ma cos’altro potevo fare? Non volevo che il mio migliore amico finisse nei guai per un mio errore.

Lei guardandomi si rivolse a Ector, «Portala a casa… Ector»; pronunciò il suo nome in tono sarcastico, non si sarebbe arresa. Poi si voltò e andò via. Non era mai stata campionessa di tatto che io sapessi.

Tutto era talmente stupido, cosa avrebbe potuto fare un piccolo volo di qualche metro con una macchina ad una come me? Io non avevo nemmeno un graffio, ma di certo non era lo stesso per la Mercedes, ormai ridotta ad un cumulo di macerie. I vetri erano “esplosi” come cristallo e si erano dispersi nell’aria per via del violento atterraggio d’emergenza contro il suolo, magari qualche cerchione appartenente ad una o più delle quattro ruote roteava allegramente ancora nella fitta foresta.

Mi sembrava davvero eccessiva quella reazione. La macchina era molto costosa, ma i problemi economici erano gli ultimi dei nostri pensieri. L’unico modo per mettere fine alla mia esistenza sarebbe stato strapparmi il cuore o trafiggermi il cervello in qualche modo. Essendo un mezzo vampiro, di certo ero molto più resistente di un comune mortale.

Strinsi la grande e calda mano di Ector e ci avviammo verso casa. Per una volta tutti i miei pensieri, tutte le mie preoccupazioni ebbero il via libera e gli trasmisi tutte le sensazioni che mi passassero per la testa in quel momento grazie al mio dono. Rabbia, tristezza, ma soprattutto la mia voglia di evadere, di scappare da tutto e tutti.

Ector mi scrutò con i suoi grandi occhi di ghiaccio ricoperti da alcuni ciuffi scuri, incurvando le sue labbra carnose scoprendo una fila di denti bianchissimi e perfetti.

Sparimmo fra gli alberi.

Nonostante non parlassi, lui riusciva perfettamente a leggermi nella testa grazie alla mia capacità di poter trasmettere ogni cosa, limitandosi a rispondere con cenni o con ghigni soffocati.

Con una smorfia sfilai velocemente la mia mano dalla sua.

«Complimenti per la macchina, molto come dire… resistente», dissi con tono acido avviandomi ad ampie falcate superando Ector di qualche metro.

«Be', ovviamente non era a prova di succhiasangue non patentata scatenata alla guida» disse sghignazzando.

Raccolsi una pigna dal terreno, ancora umido, e gliela lanciai in piena fronte. Essendo a corto di parole, o meglio ne avevo così tante da dirgliene che non avevo la più pallida idea da dove potessi iniziare, decisi di passare all’azione facendo così la mia uscita trionfale da quel discorso imbarazzante.

«Aggiungo aggressiva!» disse ridendo, non avevo voglia di saltargli addosso e fargli rimangiare tutto quello che aveva detto, nonostante avessi una gran sete di sangue, cercai di tranquillizzarmi.

Spesso il mio umore cambiava a dismisura. Più la sete ardeva la mia gola più perdevo il controllo.

Mi sedetti su un masso stringendo le gambe contro il petto. Ad ogni mio respiro, i polmoni si riempivano di fiamme che salivano fin sopra alla mia gola. Ector si avvicinò e con delicatezza, la delicatezza di chi ama, sfiorò con le sue mani grandi, calde e vellutate il mio viso giocando con un mio ciuffo ribelle.

«Sei bellissima anche con il broncio», sfoderò il suo sorriso bianchissimo e perfetto.

«Lo so, a differenza di te lo sono sempre», ricambiai il suo sorriso così dolce e rassicurante, e con le dita percorsi i lineamenti del suo viso. «Ti è mai capitato di pensare, che questo posto, questa vita… non fosse appropriata per te?».

Mi guardò. Il suo viso tralasciava un filo di perplessità, nonostante provasse in tutti i modi di nasconderlo.

«A volte», mormorò.

«Quante volte?», domandai.

«A volte…>, insistette.

«Ector…» sospirai seccata e lui scattò in piedi.

«La nostra natura è diversa dalla vostra, questo lo sai».

A differenza dei vampiri, che una volta trasformati cessavamo l’invecchiamento o i purosangue che raggiunta la maturazione smettevano di crescere un po' come gli ibridi, i licantropi continuavano la crescita e l'invecchiamento. Ector, era ormai ventunenne. Un giorno lui sarebbe morto mentre io sarei rimasta in questo mondo sola, senza di lui per molti altri anni, forse secoli.

«Si», risposi.

«Tu cresci ancora, non resterai noiosamente immortale», mi fece notare.

«Lo so».

«E allora qual è il problema?», domandò straziato.

«Sono io il problema, Ector» Deglutii e lo guardai dritto negli occhi. «Vorrei provare la normalità per una volta. Tutto questo è così monotono. Vorrei essere libera di uscire, non essere schiava della mia sete...»

Il suo volto era indurito, i tendini dei polsi erano contratti. Stringeva i pugni, osservandomi con i suoi occhi grandi e profondi.

«I tuoi occhi…», disse alludendo alla mia sete. Con essa le pupille mi si dilatavano come un buco nero. Ormai mi conosceva.

«Sto bene.» dissi.

«Non me ne avevi mai parlato, prima...», tornò al discorso.

«Lo so. Però è come se ci fosse un vuoto dentro me. Sono in gabbia. Vedo il mondo intorno a me cambiare. Ma io non posso entrarci. Vorrei fuggire, uscire da questa prigione per vedere il sole illuminare una città, non un bosco…»

«Credevo che fossi felice. Non ti manca niente. Hai i tuoi genitori e tutti gli altri succhiasangue», disse rabbioso.

«Sì, ma vorrei conoscere e parlare con qualcuno che non abbia il mio stesso sangue. Hmm… battutaccia. Qualcuno che non appartenga alla mia famiglia, insomma. Vorrei degli amici, magari umani...»

«Be', per quanto sia minimo e banale, hai me. Non ti basta?», sorrise debolmente aspettando una mia risposta.

Esitai e abbassai lo sguardo. Lui era sempre con me e sapeva soddisfare ogni mio capriccio, ma per quanto il pensiero facesse male, non mi bastava.

Ero indecisa se rispondergli, sapevo che sarei stata crudele in entrambi i casi.

«Okay, ho capito.» Manteneva il suo sorriso, ma riuscivo a vedere il dolore specchiarsi nei suoi occhi.

«No, Ector. Ti prego, non arrabbiarti. È solo che io sono diversa da tutti voi. Tanto da sentirmi sola. Vorrei semplicemente qualche novità. Una svolta a questa immortale monotonia.»

«Siamo, e sei, così per natura, non si può cambiare niente. Mettersi contro la tua razza significa suicidarsi. Basta pensare alla reazione spropositata di Gretchen. Ma sono curioso, cosa vorresti fare?»

Abbassai lo sguardo, «Ho un’idea, ma non so se riuscirò mai a realizzarla… No, lascia stare»; mi fermai e sorrisi innocentemente.

Avrei tanto desiderato di poter frequentare un liceo pubblico, riuscivo perfettamente a sigillare la mia mente a mio padre per evitare che andasse su di giri e mi proibisse persino di uscire di casa, ma non sapevo se Ector ne fosse ugualmente capace.

La sua risata mi riportò alla realtà. Mi accorsi che, probabilmente, aveva frainteso le mie parole e il mio comportamento, perché sorrise malizioso.

«No, non credo che siano le stesse idee, sai?», tagliai corto, più acida di quanto volessi.

Camminammo in silenzio per qualche metro, poi parlò.

«Be', meglio così»; azzardò un sorriso. «Non è il caso di far arrabbiare i tuoi amici succhiasangue più di tanto.»; rise della sua battuta.

Mi unii alla sua ilarità, «Non puoi proprio provare a rimanere buono per qualche secondo?»

«No, ho paura di no» e continuammo a ridere per un po'.

Credevo di essere uscita dal discorso, ma poi, questa volta davvero serio, disse: «Non ti fidi di me? E’ per questo che non mi vuoi parlare delle tue idee?»

Risi, tentando di salvarmi da quella situazione complicata.

«Ector, non fare il paranoico. Ho i miei buoni motivi. E’ difficile parlare di qualcosa di cui non sono sicura. Ma non ti preoccupare, i miei piani ti comprendono.»

«Certo! Non riuscirai a liberarti tanto facilmente di me» lo guardai, sorrideva fiero, non sembrava aver dato molto peso alle mie parole.

Allora tirai un sospiro di sollievo e annuii. Si avvicinò al mio fianco e, con un sorriso, prese ancora la mia piccola mano nella sua.

Quando eravamo insieme, sprigionavamo come della magia... lui mi aveva scelto, aveva scelto di essere legato a me, aveva scelto di essere il mio Custode. Il mio lupo guardiano.

Ricordavo ancora il suo giuramento davanti all'intero branco... eravamo solo dei bambini all'epoca, legati da quel legame indissolubile che solo i lupi potevano provare, il Breathless.

Proseguimmo mano nella mano fino alla soglia di casa, quando mi accorsi che c’era qualcuno all'interno...

«Sono loro», disse Ector.

«Ehm…Secondo te lo sanno? Dovrei avere paura?»

«Non lo so. Ma Richard lo verrà a sapere molto presto. Comunque non possiamo stare tutto il giorno qui.»

Sussurrai un “okay” e, dopo esserci lanciati uno sguardo d’intesa, spalancai la porta.

Dentro casa tutto era tranquillo ed in ordine come sempre. Nell’aria si avvertiva la tensione, come una corda di violino che stesse per spezzarsi.

Guardai Ector, avrei voluto tanto scappare, ma lui posò una mano sulla mia schiena invitandomi ad avanzare.

Presi fiato a pieni polmoni.

Avanzai, percorrendo il corridoio di casa, osservando ancora una volta la nostra foto di famiglia. Ector dietro di me mi seguiva, pronto a sostenermi.

Sospirai intravedendo Ellionor, seduta sul divano nell’ampio soggiorno di fronte al camino.

Attraversai la soglia dell’arcata che delineava il corridoio, e fui di fronte a lei. Il suo viso pallido era indurito. Il suo sguardo fisso osservava le fiamme scoppiettare. Rivolsi il mio altrove, sulla parete attrezzata in legno.

Dalla finestra, coperta dalla graziosa tenda color arancio, entrò Gretchen che ci squadrò accompagnata da Richard, ansioso.

«È tutto okay!», Ector parlò per primo alle mie spalle, tuttavia non riuscivo a fissare lei per più di qualche secondo. «È stato solo un'incidente.», continuò.

Un ringhio cupo nacque dal petto di Richard e quello di Ellionor gli fece eco.

Trovai il coraggio di guardarla. Stringeva fra le mani uno dei tanti cuscini deformandolo completamente. Tremava, cercava di controllare la sua rabbia, per quanto le fosse difficile. «Andiamo, non te la prendere! La succhiasangue ci ha già rivolto le sue paranoie!», riprese Ector.

«Tu. Ci stavi per far scoprire tutti, stupido bavoso!», sibilò Gretchen. «Ho dovuto sbarazzarmi della macchina, prima che qualche passante se ne accorgesse e chiamasse la polizia».

«Mi dispiace…» mormorai con sguardo basso. «Mi sono messa io alla guida, volevo provare qualcosa di nuovo» Sentii le mani di Ector stringermi a sé.

«Non potete nasconderla», pronunciò sarcasticamente. Il suo sguardo argenteo era ricco di rabbia.

Gretchen rispose: «Ci farai uccidere tutti!», la sua voce più aspra che mai iniziava ad infastidirmi.

«Gretchen. Basta!», le ringhiò contro mio padre.

«I Purosangue arriveranno qui prima o poi, e tu Ector, tu sta pur certo che verrai ridotto esattamente come noi, se non peggio», continuò Gretchen mostrando i canini in un sorriso beffardo. «Bada al tuo branco, lupo. A Sherrie ci pensiamo noi. Siamo noi i suoi guardiani».

La rabbia iniziava a pervadermi come fiamme. Soffocai un ringhio, che si sciolse in un lamento felino.

Ector rise con gusto a quelle parole.

Il ringhio feroce di Ellionor mi scosse, e tutto successe in pochi attimi. Mi ritrovai a terra, per una spinta partita da Ector.

Richard balzò contro di lui sbattendolo con violenza contro la libreria, affianco al camino. Gretchen rise compiaciuta mentre Ethan, appena arrivato, provò ad allontanare Richard prima che potesse succedere l’imprevedibile.

«Questo–non–è–un–gioco!» gli urlò contro, stringendo i denti e mostrando i suoi canini. «Cosa credevi di fare? Mettere in pericolo Sherrie è uguale a farla uscire allo scoperto! L'avresti fatta ammazzare! Se le accade qualcosa, io ti ammazzo con le mie mani!» ringhiò felino. Tremavo di fronte alla sua reazione, non l’avevo mai visto così violento.

Se voleva essere una minaccia intimidatoria, era fatta davvero bene.

«Richard calmati adesso, basta» Ethan, dietro di lui riuscì a tirarlo via e a bloccarlo.

Io ero paralizzata da quella scena. Si comportavano come se io non ci fossi.

«Lasciami stare!» disse con tono acido.

«Ho protetto Sheryl, per ben dieci anni. L’ho protetta con tutto me stesso Richard». I suoi occhi limpidi, ora erano velati da uno strato lucido. Era stato ferito nell'animo. «E se c’è una cosa che non ho mai fatto, è stata quella di non lasciarla mai sola. E tu lo sai bene questo», masticò le ultime parole, come se le stesse assaporando per poi sputargliele contro.

«Tu sei qui, soltanto per quella roba mistica che lega voi lupi a ciò che amate» Lo accusò Gretchen, avvicinandosi. Ormai era distante solo pochi passi da noi «una volta che ti passerà, lascerai Sheryl. Ci lascerai tutti».

La rabbia esplose nell'aria, la sentivo. E poi Ector...

I suoi vestiti, i suoi jeans, la sua felpa si disintegrarono, il suo corpo ormai posseduto dalla rabbia lasciò spazio alla bestia che era in lui. Si era trasformato, ora c’era il lupo dal mantello bianco con sfumature grigiastre ed occhi di ghiaccio dalle enormi dimensioni. Ector ringhiava e con un balzo le fu addosso.

Avendo a disposizione poco tempo per riflette per ciò che stava per accadere, mi lasciai dominare dagli istinti. Mi misi davanti a Gretchen, chiudendo gli occhi.

Percepii il movimento innaturale dell’aria, un vento che non poteva scatenarsi certamente in casa.

Con un braccio mio padre mi nascose la testa sul suo ampio petto, con l’altro scaraventò via il mio amico licantropo con gran forza, facendolo sbattere contro il muro, provocando delle crepe.

Sentii un lamento. Ector…

«Resta lontano da lei!» La voce di Richard non tralasciava alcuna emozione.

Aprii gli occhi fra le sue braccia e l’osservai: era illeggibile il suo sguardo.

Una lacrima, scese silenziosa sul mio viso guardando Ector ridotto così. Sì alzò lentamente, traballando uggiolando. Non aveva cercato di aggredirmi, mi ero messa io in mezzo per far cessare tutto ciò!

«Ector...» mormorai. Mentre le lacrime sgorgavano silenziose con più foga, il mio migliore amico attraversò la porta della nostra casa correndo fino a scomparire.

Stanca, confusa, sorpresa da tutto ciò che non mi sarei mai aspettata di vedere, mi spinsi via dal forte e familiare abbraccio di Richard materializzandomi nella mia stanza chiudendo la porta alle spalle con forza.

In lontananza tutto ciò che si udii fu un ululato intriso di tristezza e dolore.

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Capitolo 4
*** La Rivelazione ***


Capitolo 3 La Rivelazione

 

I successivi giorni trascorsero lenti senza la costante presenza di Ector al quale ero abituata da anni ormai.

Mi buttai a capofitto nella lettura e nello studio con Ethan, ma non servì a molto. Non appena la mia mente tornava libera, i pensieri si focalizzavano su quell'assurda lite avvenuta giorni prima.

Ector non rispondeva alle mie chiamate, ignorava le mie e–mail.

Lui era sparito. E le mie notti erano tormentate da incubi al quale non riuscivo a dare un volto e un nome.

Inoltre andare a Preston mi era stato proibito. Ero tenuta sott'occhio da tutti.

Snervante...

Ector nemmeno quel giorno si era fatto vivo. Quella crepa provocata dalla forza sovrumana di Richard sembrava viva, sembrava uno squarcio, pulsava. Con le dita ne seguii il contorno nero con tratti irregolari fin dove era possibile. Le crepe salivano, intrecciandosi fino al soffitto.

Tornai a letto, pronta ancora una volta a fare i conti con i miei sogni.

 

Passo dopo passo scendevo verso una scalinata rocciosa, non conoscevo la mia destinazione, ma qualcosa mi diceva che dovevo continuare, che dovevo andare a fondo.

Delle fiaccole appese al muro illuminavano il sotterraneo proiettando al mio fianco sagome nere: la mia ombra. Il gelo mi penetrava nelle ossa.

Le fiaccole si spensero. Era buio, ma continuai ad avanzare.

Con la mano tastai la parete in roccia , era umida e viscida. Ero decisa e coraggiosa, non era da me. Scesi gli scalini freddi a piedi nudi rischiando più volte di scivolare.

Un bagliore forte e luminoso, lontano da me, catturò la mia attenzione. Forse avevo trovato l’uscita di quel posto.

Corsi verso la luce. L’umidità sembrava imprigionarmi, rendendo i miei movimenti più goffi. A metà strada dalla luce, un ringhio cupo mi fece sobbalzare costringendomi a guardare dietro le mie spalle.

Sbattei con forza contro qualcuno, alzai il mio viso per capire chi fosse: lo sguardo di Ector era impenetrabile. E le fiamme... le fiamme lo stavano divorando.

 

Riaprii gli occhi sudata, il respiro era irregolare, il cuore mi scoppiava. Un altro incubo non aveva dato pace alla mia notte. L’ennesima.

Fuori pioveva, le gocce picchiettavano sul vetro della mia finestra provocando un rumore leggero, sordo. Ero esausta. La testa mi rimbombava.

Mi misi seduta sul letto passandomi una mano fra i capelli.

«Ector…?» pronunciai a mezza voce, guardando la mia stanza illuminata solo dai raggi della luna, una luce bluastra e fievole che penetrava all’interno.

Lui non c’era.

Mi presi fra le mani il viso cercando di placare quel senso di vuoto. Mi accorsi di indossare ancora i jeans ed il maglione, ma poco m’importava.

 

 

Il mattino seguente non tardò ad arrivare. Mi svegliai più stanca della notte trascorsa.

Una volta vestita mi trascinai fuori dalla stanza; avevo intenzione di raggiungere Preston ad ogni costo. Se Ector non voleva venire da me, sarei andata io da lui.

Una volta nel corridoio, non potetti fare a meno di udire la conversazione in casa fra Richard ed Ellionor.

«Ancora morti, morti e morti!» urlò rabbuiato Richard «Credi che mi faccia sentire bene tenerla rinchiusa qui?»

«Capisco che tu voglia tutelarla, sa così poco del nostro mondo»

«Non sa niente sarebbe un termine più appropriato... tu non capisci. Lei è la chiave...»

«No. È solo una ragazza, Richard», commentò Ellionor «È come tutte le adolescenti ha bisogno di divertirsi. Non potrai tenerla nascosta ancora per molto aspettando che qualcosa di spiacevole avvenga»

«No, lei non è una ragazza...»

«E allora che cosa sono?», uscii allo scoperto.

I loro sguardi si incrociarono, per poi voltarsi verso me come due luci che mi irradiavano al centro di un palco.

Ormai ero lì, non potevo scappare, dovevo affrontare la situazione.

Richard sollevò lo sguardo e rimase senza parole. La mascella contratta e le mani che stringevano la testiera del divano blu. Ellionor sospirò allontanandosi.

«Non ho alcuna intenzione di discuterne ancora», mormorò Richard affrettandosi ad uscire.

«Papà!», lo chiamai. Corsi verso la porta principale ma quando l'aprii la sua Land Rover stava già sfrecciando via nel viale.

«Dannazione!» Richiusi la porta con forza e mi allontanai afferrando la tracolla e indossando la giacca in pelle.

«Dove stai andando? Non puoi seguirlo», mi ricordò Ellionor.

«No. Infatti vado a Preston»

Ovviamente Ellionor mi accompagnò per paura che potessi cacciarmi nuovamente nei guai.

Insieme ci catapultammo a gran velocità fra i fiocchi di neve che sfioravano il nostro viso, immergendoci nella fitta foresta. La neve veniva catturata dai rami degli alberi che si intrecciavano fra loro. Nell’aria si udiva il dolce e rasserenante sgorgare d’acqua del fiume.

Dopo diverse centinaia di metri apparve la sfavillante dimora. Non entrammo, ci dirigemmo sul retro, proseguendo con l'ascensore che ci avrebbe condotto nel garage nel sottosuolo.

Io ed Ellionor per tutto il tempo non spiccicammo parola. Che cosa aveva in mente?

Gli sportelli dell'ascensore si aprirono silenziosamente. Di fronte a me, una distesa di diverse centinaia di metri quadri fu illuminata da neon con rilevatore di movimento.

I nostri passi rimbombavano sul lucido marmo nero. Le pareti bianche e spoglie invece, facevano sembrare il garage uno spazio infinito.

Al centro dell'enorme stanza, erano parcheggiate una Lamborghini grigia e un Audi R8 bianca perfettamente luccicanti.

«E queste da dove sbucano fuori?», domandai trattenendo un sorrisino.

«Una partitina a Poker, la scorsa notte...»

La scrutai. Sapevamo entrambe che stava mentendo. Magari aveva vinto un auto... ma due sembra essere esagerato. Di certo la seconda l'aveva tenuta come souvenir dopo aver dissanguato il reale proprietario o magari l'aveva rubata. O chissà... l'aveva ottenuta con delle aste per collezionisti. Che io sapessi, avevano un falsario che continuamente falsificava loro dei documenti.

Oltre alle auto sfavillanti, era presente un quadro sul quale erano appese diverse chiavi.

«Ho riscaldato il motore, adesso siamo pronte», mi sorrise come se tutto fosse normale. In effetti per lei lo era.

Mi avvicinai, e fissai l'Audi che sembrava essere nuova di zecca: su di essa, non erano presenti bruciature, era ancora impeccabile. «Ma come hai fatto?», domandai.

«Ti ha mai detto nessuno che fai troppe domande?» Ellionor aprì lo sportello del veicolo e si mise al posto di guida stringendo il volante fra le mani e dando gas facendo ringhiare la piccola: era come una gattina che attendeva di essere coccolata.

Salii a bordo un po' titubante ma eccitata allo stesso tempo.

Uscimmo dal garage con uno stridio di ruote assordante.

L'auto iniziò a prendere velocità, nonostante la ghiaia. L'auto era confortevole e silenziosa malgrado stessimo saltellando a contatto con il sentiero dissestato.

«Quasi non rimpiango la Mercedes», borbottò Ellionor.

Dopo interminabili minuti fummo fuori dalla foresta e ci ritrovammo su una strada principale. Una vera strada.

Rimasi incredula, finalmente eravamo fuori da quel mondo verde. Perfino l’aria sembrava diversa. Abbassai il finestrino e mi beai di quel vento lasciando che mi cullasse i capelli.

Osservai ogni persona, chi usciva di casa, chi entrava, bambini che giocavano.

«A che pensi?», chiese.

Sospirai. Dovevo realmente dirgli che cosa mi passava per la testa? «Vorrei tanto poter frequentare una scuola pubblica...», risposi e subito dopo mi morsi la lingua per averlo fatto.

Svoltammo a destra. Il cartello segnalava Preston.

Girai la testa verso il finestrino guardando la strada. Ci allontanavamo sempre più della foresta. I tergicristalli iniziarono a muoversi; i fiocchi ora lasciavano spazio a gocce di pioggia.

La strada continuava dritta, e ai suoi lati la boscaglia si propagava per chissà quanti ettari. Poi, percorremmo diverse curve, e svoltammo nuovamente verso il bosco alla nostra destra percorrendolo per diversi minuti. Dopo finalmente, apparve la casa della famiglia Douglas.

Scrutai Ellionor, per un lungo istante la guardò, fin quando non si accorse che la osservavo. Riportò gli occhi al di là del muro di alberi c’era una casa in legno, le sue finestre erano piccole e i bordi tinti di nero. Era casa di Ector.

«Lascia perdere quello che ho detto prima, okay?», dissi e smontai dall'auto.

Superato l'atrio in legno iniziai a bussare energicamente alla porta principale.

«Ector! Sono io... apri per favore?» quasi urlavo. «Ector!» bussai con più prepotenza, ripensando a quello che era successo, ricordai a me stessa che era un tipo difficile e molto permaloso.

Sentii qualcuno avvicinarsi.

La porta si aprì dopo alcuni minuti.

«Vieni via con me…» mi bloccai restando a bocca aperta.

«Che ci fai qui?», sulla soglia apparve un uomo di circa quarant'anni, con larghe spalle, capelli neri ondulati corti e scompigliati. Aveva barba sparsa su entrambe le guance chiare. I suoi occhi erano simili a quelli Ector, ma non era lui per quanto padre figlio si assomigliassero in modo molto impressionante.

William Douglas aveva messo al mondo la sua copia: Ector. Ma erano due caratteri differenti.

Indugiai con lo sguardo sulla sua camicia a quadri rossi, e un po' meno sulla canottiera sporca che portava al di sotto. In una mano, Will reggeva saldamente una lattina di birra.

Sembrò impacciato, non era preparato al mio arrivo e ancor di più a quella di una vampira alle mie spalle. Anche lui era un licantropo, e prima di Bryan – il nuovo capobranco attuale – c'era stato lui al comando dieci anni prima. Ma aveva iniziato a perdere le staffe da quando sua moglie Karen, un umana, lo aveva lasciato andandosene via di casa, portando con sé soltanto Emily, sorella di Ector. Da allora lui si era lasciato andare, dandosi spesso all'alcol. Da ciò che sapevo, suo figlio stava cercando di riprendersi il ruolo di Alpha nel branco, poiché i Douglas erano stati da sempre al comando.

Ellionor mi raggiunse stringendo le braccia al petto.

«Ellionor» Will accennò un saluto con la testa.

«Will» Ellionor sorrise di rimando.

William aggrottò le sopracciglia. «Sono anni che non ci vediamo… Ellionor» disse.

«Scusa, non avverto il passare del tempo», commentò sarcasticamente seria.

Liberò la porta principale dalle sue larghe spalle. «Brant, prepara il caffè. Abbiamo ospiti.»

Come sempre casa di Ector era calda, rustica e piccola...

Mi sembrava così buffo che dei licantropi abitassero in un posto così stretto. Svoltai nella sua stanza mentre gli altri erano impegnati in conversazione. Era perfettamente in ordine, cosa strana da uno disordinato come lui. Tuttavia... lui non c’era. Anche il suo odore, era ormai debole, intento ad esaurirsi.

Lasciai la camera e raggiunsi Ellionor nella piccola cucina. Qui era presente un ragazzo, molto più piccolo di me. Era Brant, il fratello minore di Ector. Era alto e snello, con capelli marroni che gli accarezzavano il collo e fronte. I suoi occhi erano più scuri, quasi di un verde petrolio. Lo avevo visto soltanto un paio di volte, stava cercando di entrare nel branco e per fare questo doveva lottare per far si che potesse farne parte.

«Ciao», disse mostrandomi un timido sorriso impacciato.

«Ciao Brant», mormorai.

«Mi dispiace non avere del sangue fresco, in frigorifero» commentò secco Will, rivolgendosi più a Ellionor che a me.

«Non dispiacerti, rimedierò più tardi», lasciò intendere sorridendo con le labbra ricoperte da del rossetto scuro, ma senza mostrare i canini.

Will scosse la testa, quasi disgustato. «E così volete Ector? Non so dove sia. È stato impegnato con il branco, non dorme qui da giorni.»

«Non è mai stato via per così tanto tempo senza neppure avvisare» disse Brant versando in alcune tazze di porcellana bianche del caffè.

«Non è affar mio», rispose Will.

«Niente caffè. Grazie Brant», smise di respirare.

La conversazione fu rapida e fredda.

«Dove posso trovare Ector?» domandai dopo un po'.

«Non ne ho idea. È da giorni che non sue notizie. Potrebbe essere da Bryan», rispose.

«È stato un piacere, Will», disse Ellionor di punto in bianco.

«Come sempre, Ellionor», sorrise con fare beffardo e alzò la tazza fumante di caffè portandosela alle labbra.

Brant ci accompagnò alla porta.

«Brant, tu sai dove si è cacciato tuo fratello?» gli domandai in disparte.

«Dio... no, e vorrei tanto saperlo anch'io!»

 

 

Sbattei le palpebre più volte sotto la pioggia. Conoscevo casa di Bryan solo di sfuggita. Era una semplice casa in legno con tetto spiovente ricoperto di foglie secche che si erano ammassate lì con l'arrivo dell'inverno.

Avanzai incerta. Ellionor era rimasta in macchina.

«Sheryl!»

Mi voltai e sorrisi, era Seth. Indossava solo dei jeans strappati e degli stivali neri, era a petto nudo nonostante fossimo sotto zero come gradi. I suoi capelli castani un po' lunghi e scompigliati da chissà quale corsa. Della barba corta e fine gli accarezzava guance e mento, i suoi occhi nocciola da lupo erano i più caldi e solari che avessi mai visto.

«Ciao Seth! Sto cercando Ector»

Chinò la testa su di un lato, un gesto poco umano. «Lo stiamo cercando anche noi, a dire il vero» il suo entusiasmo si affievolì poco a poco. Mi guardava da lupo.

«C’è qualcosa di strano nelle vicinanze, non vorremmo si fosse messo nei guai» continuò.

«Seth! Seth!» qualcuno all’interno lo reclamava.

«Oh. Scusami, devo andare»; mi rivolse un sorriso.

«Ho bisogno di parlargli» supplicai.

Ci guardammo per un lungo tempo, senza che nessuno dei due distogliesse lo sguardo.

«Glielo dirò» promise.

«Seth» Lilian, sua sorella maggiore ci raggiunse. La sua carnagione tendente all'avorio metteva in risalto i suoi capelli di un marrone–rossiccio ed i suoi occhi gialli.

«Devo andare» mi rispose Seth. Lo scrutai ed andai oltre Lilian oltrepassando la soglia della porta per fermare Seth.

«Ector non è qui, sei sorda?» rispose aspra fronteggiandomi.

«Raffredda i bollenti spiriti, micetta»

In quel momento avrei tanto voluto che si facesse da parte, o avrebbe rischiato di tornarsene dentro con l'osso del collo spezzato. Lei era gelosa di me e di Ector. Perché fra me e lui si era creato lo stesso legame mistico che legava profondamente il lupo Alpha alla sua Lupa. Il Breathless.

Ma io non ero un licantropo, ero un vampiro. E a Lilian questo non andava giù. Avrebbe tanto desiderato di poter essere al mio posto, sia per una questione di potere che per vendetta nei miei confronti.

La guardai torva. Dopo mi voltai – non curante – e tornai nell'abitacolo.

Ci inabissammo nella fitta foresta dove i rami dei giganteschi alberi si insinuavano fra loro intrecciandosi, proiettando ombre sul terreno. Eravamo al crepuscolo.

Poco più tardi facemmo ritorno alla dimora. Il cielo era ormai ridotto ad una macchia scura.

L'odore della felce, della terra e dei pini tornò inebriante.

Una volta spento il motore dell'auto, il silenzio piombò più denso che mai. Il viale, solitamente sgombro, era movimentato.

I fanali dell'auto illuminavano i volti cerei di tre uomini.

«Non sapevo che avremmo avuto degli ospiti», mormorai fissando i loro occhi magnetici.

«Nemmeno io», sussurrò Ellionor e smontammo dall'auto. «Raggiungila, me ne occupo io», mi disse.

Gretchen era appoggiata ad un muretto braccia intrecciate, indossava un abito lungo nero che le lasciava scoperta una coscia, ma sembrava non curarsene. Scrutava quei tre uomini con i suoi grandi occhi verdi. Percepivo la sua tensione.

Un guizzo di luce balenò nei suoi occhi quando ci notò.

«Era ora!», disse pigramente. «Dove vi eravate cacciate?»

«Storia lunga», mormorai «Ma che sta succedendo qui?»

«Non ne ho la più pallida idea, altrimenti credi che sarebbero rimasti qui ad aspettare?», sospirò «Sono qui per Richard. Sono dei walk–in*»

«Walk–in?», domandai.

«Sono chiamati walk–in coloro che viaggiano attraverso i portali», spiegò.

«Credevo che solo la città dell'Ade avesse portali»

Gretchen mi guardò «No. Siamo collegati a una rete infinita di portali che ci collegano a mondi diversi e anche paralleli al nostro»

Il cuore mi salì in gola «E che cosa vogliono questi walk–in da Richard?»

La bionda fece spallucce «Non ne ho idea»

«Ma lui dov'è adesso?»

«È solo fuori città per qualche giorno», il suo sguardo calcolatore era ancora puntato su quei tre.

«Vancouver?», chiesi fissandoli anch'io.

«No. E non ha voluto dirmi dove. Si è giustificato con un “tornerò presto”»

«Come al suo solito», mormorammo all'unisono.

«Posso chiederti una cosa?» Gretchen si limitò ad un cenno con la testa «Che cosa sta succedendo a Cedar Falls? Perché se uno psicopatico si aggira nei miei boschi credo proprio che mi riguardi. Ector è sparito da giorni, nessuno sa dove sia finito, ed io inizio a seriamente a preoccuparmi» Mi strinsi nella giacca, a differenza della vampira al mio fianco. La temperatura nel bosco era calata di colpo.

Arricciò le labbra in un sorriso lasciando intravedere i canini «Sta lontana dai guai, Sherrie» e si staccò dal muro – lasciandomi con mille domande per la testa – seguendo Ellionor e gli altri vampiri dentro casa.

Rivolsi lo sguardo al cielo. La luna era piena e illuminava l'intera radura.

Ector... dove sei finito?

Lasciar perdere? Neanche per sogno!

Mi lasciai andare in un sospiro e dopo entrai nella dimora.

«Non ci avete detto ancora perché siete qui», mormorò Gretchen «E che cosa volete da mio fratello Richard»

Ero l'ultima ad essere entrata. Di fronte avevo tre uomini davvero strani indossavano dei completi neri ed una camicia dello stesso colore. Il loro odore invece... era davvero insolito per me. Erano sicuramente di città, un misto di smog menta e sangue.

«Scusate l'intrusione... signorina?», parlò l'uomo dai lunghi capelli biondo cenere legati.

«Il mio nome non ha alcuna importanza per voi», Gretchen si voltò fissandoli con sufficienza.

Immaginai il vampiro biondo sorridere. «Immagino neanche il mio»

«Dacci un taglio, Garret» Osservai il terzo uomo. I suo capelli castano chiaro erano scompigliati e umidi di pioggia. Le sue spalle non erano ampie e muscolose come quelle di Garrett, ma in compenso era alto e atletico. Scorsi dietro al suo collo uno strano segno... sembrava un marchio. Uno strano pugnale...

Una strana aura di energia fluttuava attorno a quei tre.

L'uomo voltò la testa verso di me e mi accorsi che era davvero molto più giovane di quanto credessi. I suoi occhi erano davvero insoliti. Aveva un'iride di colore diverso. Eterocromia: un fenomeno che vedevo per la prima volta. L'occhio sinistro era di un caldo e luminoso color nocciola. Quello destro di un insolito blu notte mai visto prima. Una vistosa cicatrice solcava diagonalmente la sua fronte ricadendo lungo la guancia.

«Lo squarcio ultradimensionale è aperto», disse spazientito «Dov'è la chiave?» La chiave... ancora quel dannato termine che non riuscivo a decodificare. Avevo sentito mio padre ripeterlo più volte ma ancora non mi era stata data nessuna spiegazione al riguardo. Che chiave ero? Una di quella che apriva porte non di certo. C'era qualcosa sotto, ed era mio compito visto che c'ero dentro fino al collo. Indietreggiai e questo catturò l'attenzione di tutti. Perfetto... davvero perfetto.

«Chissà perché me la immaginavo più alta», commentò.

«Sherrie! Scappa! Scappa!», urlò Ellionor gettandosi con Gretchen all'attacco. Confusa e con i battiti del cuore a mille, mi catapultai fuori la dimora iniziando a correre senza sosta. Gli alberi mi sfrecciavano accanto nel buio pesto. Incespicavo sul terreno, i rami degli alberi mi intralciavano la strada, eppure non mi fermai nemmeno per un'istante quando i polmoni iniziarono a bruciarmi.

Chiusi gli occhi, cercando di resistere. Quando gli riaprì mi ritrovai al confine con la città. Gli umani, c'erano tanti umani che camminavano, troppi tanto da scatenare in me la sete. Tutto mi roteava attorno mandandomi in tilt. Le loro voci, tutto quel trambusto...

Una macchina inchiodò e sussultai ritraendomi.

«Levati dalla strada!» ululò il tizio alla guida. Gli rivolsi lo sguardo accucciandomi un po' in allerta. I canini erano ormai pronti ad affondare nella sua giugulare, soffiai come un gatto e il tizio inorridito smontò dall'auto lasciando la portiera aperta dandosi alla fuga.

«Signorina, si sente bene?», una donna mi sfiorò il braccio ed io mi ritrassi con occhi spalancati.

Quando altre mani iniziarono a tastarmi, corsi via nella foresta a velocità sovrumana.

Di colpo fui afferrata da un braccio che mi fu ritorto dietro la schiena e il dolore mi costrinse a cadere in ginocchio sul fogliame.

«Lasciami andare!», mi dimenai.

«Mi basterebbe fare un po' più pressione per spezzartelo», disse. Era il ragazzo di prima, quello con il marchio e l'eterocromia.

«Chi diavolo sei! Che cosa volete da me!»

«Smettila di urlare! Attirerai della gente!», fece più pressione e dopo mi lasciò cadere per terra. Strinsi delle foglie nei pugni, avevo il sapore amaro della terra in bocca. La guancia premuta contro il suolo... «Io sono so che cosa significhi questa chiave per voi... io non so che cosa sono!»

«Non spetta e me dirti cosa o cosa non sei. Sei tu la figlia di Richard, non è vero?»

Annuii e mi rimisi in piedi levando via la polvere dai jeans. «Si, sono io»

«Almeno qualcosa la sai», mormorò roteò gli occhi.

«Che cosa avete fatto a Gretchen e ad Ellionor...»

«Assolutamente nulla. Le donne... continuano a balzarci addosso!», si scompigliò i capelli umidi di pioggia.

Non mi fidavo. Non mi fidavo per niente.

Tastai il terreno di aghi di pino e fogliame fino a quando non trovai un tronco appuntito e mi lanciai all'attacco contro quello sconosciuto pregando affinché centrassi a pieno il suo cuore.

Negli occhi di quel ragazzo, balenò qualcosa... fu divertimento, credo.

«Adesso ti riconosco, Hunter» intonò sarcastico quasi stesse assaporando il momento. Protese un braccio verso la mia direzione; in un primo momento pensai che mi stesse offrendo la sua mano, ma non fu così. Attese che la distanza fra noi si colmasse.

Strinsi con forza quel tronco quasi fosse un pugnale e fui pronta ad attaccarlo con forza. Fu allora che dalla sua mano una strana sfera di fiamme blu e rosse si materializzò colpendomi in pieno stomaco atterrandomi.

Caddi nuovamente e, dolorante, cercai di rimettermi in piedi. Dovevo scappare.

«Non ci provare», minacciò riducendo gli occhi a due fessure. «Stammi bene a sentire ora. Non abbiamo più tempo. Il mio portale si sta chiudendo. Il mondo presto subirà cambiamenti devastanti. L'umanità sta per entrare in una nuova era. Gli antichi lo avevano predetto... la fine è vicina e se c'è qualcuno in grado di impedire tutto questo sei tu. Le terre degli Inferi approderanno qui con l'allineamento dei pianeti, la battaglia epica più attesa di tutti i tempi avrà inizio e le conseguenze saranno di gran lunga maggiori a qualsiasi altra aspettativa... persino della peggiore»

«Ma cosa diavolo stai dicendo...», la mia voce fu solo un sussurro. «Non so nemmeno difendermi da un estraneo!»

Sorrise. «Non ci giurerei!»

Socchiusi gli occhi. «Chi diavolo sei.. che cosa diavolo siete!»

«Non ho tempo per le spiegazioni.», disse annoiato e mi inchiodò con i suoi diversi «È importante. Devi riferire a tuo padre che lo spazio ultradimensionale è stato forzato e che non reggerà ancora per molto così come ci eravamo aspettati», si voltò.

Accadde un qualcosa che non seppi spiegarmi. Fu come se una scossa colpisse il mio sistema nervoso. Nella mia mente si riversarono come in un fiume in piena immagini, profumi e suoni che non avevo mai visto e sentito prima come un turbine incessante. Un flash. I capelli castani del ragazzo che avevo di fronte erano mossi da una strana brezza. I ciuffi bagnati e ribelli erano appiccicati sulla sua fronte. Aveva il viso macchiato di sudore, sangue e terreno. Indossava una strana divisa scura e corazzata, un mantello li ricadeva lungo la schiena.

Sulle sue labbra era disegnato un sorriso di sfida mentre nel cielo infuocato si muovevano strani esseri che non seppi distinguere. In quel ricordo sentivo i miei respiri affannati, mentre con gli occhi arrossati dal fuoco e dalla cenere cercavo qualcuno... qualcosa... un oggetto che non riuscii a distinguere. Cadendo in ginocchio ansimante, ritornai alla realtà.

«Jay», la voce mi uscì di fuori di colpo. Quel nome non aveva alcun senso, nessun collegamento...

«È bello rivederti» Il ragazzo con il marchio voltò il viso verso di me. E, sarei pronta a giurare, lo vidi sorridere prima che svanisse nel nulla lasciandomi sola nella radura.

 

 

«Sheryl! Dimmi che stai bene!» Ashlee mi strinse. Successivamente mi scrutò. Avevo gli abiti sporchi di terra ed erba, il viso graffiato...

«Sto bene», le dissi. Mi sfiorò i graffi e vidi le sue pupille dilatarsi; la scacciai via. «Sto bene, davvero è solo un graffio», mi allontanai per non metterla in difficoltà con la sua sete di sangue.

«Richard, non risponde al telefono» mormorò Gretchen.

«Lasciagli un messaggio, lo sentirà appena ne avrà modo» disse Ellionor.

Ethan irruppe in casa con passo pesante guardandosi attorno inferocito. La lunga giacca nera si muoveva ad ogni singolo passo.

«Sono già andati via Ethan», entrò anche un giovane vampiro dagli occhi turchesi, era Adam. Il manipolatore. «Non avverto altra energia, a parte le nostra»

Ethan mi strinse le braccia «Che cosa ti hanno fatto?» I suoi occhi castani traboccavano di preoccupazione.

«Nulla!», riferì.

Ethan mi lasciò bruscamente. «Adam! Controllala. Hanno soggiogato la sua mente», Ethan si allontanò.

«No, sto davvero bene» fermai Adam prima che mi inghiottisse con i suoi occhi turchesi. «Non sono soggetta a nessun tipo di... non so incantesimo? Che cosa folle! Sto bene. Punto. Volevamo semplicemente parlare con Richard, non mi hanno fatto niente» a parte spaventarmi a morte.

«Sanno che cos'è», farfugliò Gretchen. Ethan sollevò lo sguardo e sospirò rumorosamente.

«Oh, certo! A quanto pare lo sanno tutti tranne me!» commentai sarcastica.

«Non va affatto bene», rispose Ethan. «Invocherò una barriera per proteggere la zona in attesa del ritorno di Richard. Non invitate nessun altro ad entrare in casa o la barriera perderà forza. Se dovete nutrirvi, fatelo quanto prima» si dileguò al piano di sopra rapidamente, sicuramente per cercare qualcosa nella biblioteca.

«Ashlee», chiamai.

«Si?», la vampira si fece avanti.

Sospirai e mi massaggiai le tempie ripensando a quanto era successo. Chi erano quei tre uomini, che cosa volevano da me? Chi era Jay e per quale motivo la mia mente mi aveva trasmesso un ricordo di lui? E se mi avesse soggiogato con quei suoi strani poteri? Ero la chiave. La chiave si, ma di cosa? Di certo non una che apre porte. Iniziavo a non capirci più niente.

«Ho bisogno di... nutrirmi», deglutii. Riaprì gli occhi e guardai la mia immagine riflessa allo specchio a muro dell'elegante salone. Chi diavolo sei? Già, chi diavolo ero io. Perché tutti quanti mi stavano cercando?

Nel frattempo Ashlee aveva scoperto il suo collo. La sua giugulare pulsava sotto quel soffice strato di pelle chiara. Gliela accarezzai con il pollice. Successivamente l'unico suono che si udii in tutta la dimora, fu quello dei miei canini affondare nelle sue carni.

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