Capitolo 2 Fuori Strada
Tornata a casa gettai per terra la tracolla e mi diressi in cucina. Aprii il frigo e stappai una lattina di coca cola azionando la segreteria telefonica.
In quel momento il mio sguardo indugiò su una foto, la nostra foto. Era presente un uomo sulla trentina con occhi magnetici color nocciola dai riflessi ambrati. Lui era alto e snello, della barba regolare accarezzava le sue guance. I capelli castani, erano portati all'indietro con un'eleganza d'altri tempi e cingeva con un braccio una giovane donna, altrettanto bella. Capelli di un biondo dorato accarezzavano le spalle di lei; il suo viso ben levigato era perfetto e avrebbe fatto invidia persino ad una dea. I suoi occhi di un arancio fiamma, spiccavano più del suo sorriso. Era impeccabile.
Avevo solo pochi anni ed Ellionor, la nuova compagna di mia padre Richard, mi stringeva fra le sue braccia mentre lui stringeva entrambe calorosamente.
Adoravo quella foto. Eravamo felici, impressi da una macchina fotografica che aveva catturato quel momento di felicità. Ma qualcosa stonava. Ed ero io.
Sono per metà immortale e metà mortale. I miei geni sono diversi, non sono del tutto un vampiro. Sono un incrocio fra due nature diverse: una parte vulnerabile e fragile, umana, e una parte predatrice, attenta, assettata di sangue caratteristica predominante dei vampiri.
Io non avevo il privilegio della vita eterna dei Purosangue, invecchiavo. Loro nutrendosi di sangue rallentavano l'invecchiamento, quasi annullandolo.
Era tutto così strano... ero cresciuta esclusivamente fra i boschi di Cedar Falls, una cittadina remota e tranquilla degli Stati Uniti, dove gli esseri umani non erano a conoscenza dell'esistenza di esseri sovrannaturali – così come amavano definirci anziché esseri evoluti – che si mischiavano fra la gente, vivendo a loro passo.
Un senso di vuoto mi colpii lo stomaco. Ero la nascosta... fra i nascosti...
«Ci sono... due messaggi. Bip.», mi informò la voce femminile elettronica della segreteria.
Mi buttai sul divano e accesi la tv facendo un po' di zapping.
«Sono Richard, questa sera farò tardi. Non aspettarmi», bip.
Partì il secondo messaggio:
«Certo che hai proprio un debole per le dimenticanze», era la voce di Ector.
La coca cola mi andò di traverso uscendomi del naso. Me ne ero completamente dimenticata dannazione!
Corsi in bagno chiudendomi la porta alle spalle. Mi spogliai e lasciai cadere i vestiti sul pavimento entrando in doccia.
Il getto d'acqua calda mi ammorbidì la tensione.
Mi guardai la pelle, ebbi l'impulso di strapparla via. La mia natura diversa... era straziante.
I pensieri si mischiavano tra loro come un turbine incessante.
Uscii dalla doccia e mi ritrovai di fronte al grande specchio antico, dalla cornice dorata. Quella che vedevo riflessa era il riflesso di una giovane donna; la carnagione chiara, i lunghi capelli corvini bagnati le attorniavano il viso, gli occhi dorati erano lucidi come se stesse per piangere. Era meravigliosa. Una bellezza inquietante, orribile ai miei occhi.
La classificazione è chiara, o sei bianco o sei nero; bianchi gli umani, neri gli esseri come loro. I vampiri, i licantropi...
Mentre io, io... mi classificavo come grigio insignificante, che stonava sia con il nero che con il bianco.
Con la mano cancellai via lo strato di vapore dallo specchio e cancellai così anche la mia immagine.
Indossai dei jeans e una maglia nera. E me tornai in camera.
«Sherrie, dove credi di andare?», a quella domanda inghiottii ogni mia emozione negativa pur di non farla trapelare.
«Andiamo!» pregai «Sarò qui prima di mezzanotte» promisi.
Ashlee sbuffò e produsse un brontolio felino di disapprovazione incrociando le braccia al petto.
«No», disse secca. «Ho degli ordini ben precisi, Sheryl.»
Roteai gli occhi «Andiamo Ash, ti prego!», dissi esasperata. Ero in forte ritardo.
«Niente da fare», continuò.
La fissai sebbene si sforzasse di evitare il mio sguardo e cercasse di rimanere autoritaria. Gli occhi blu guardavano altrove; erano intensi. I capelli lunghi e lucidi come seta nera le accarezzavano il fondo schiena. Ash aveva qualche anno in più di me, era una vampira. Lei era orfana, eravamo cresciute insieme. Eravamo come due sorelle. Certo, caratterialmente lei era molto più estroversa di me e con i ragazzi ci sapeva fare parecchio.
Sbattei le palpebre più volte, guardandola dolcemente. Gli angoli della sua bocca si curvarono all'insù e scosse la testa sospirando esasperata e divertita allo stesso tempo.
«E va bene», mugugnò vinta.
«Grazie! Grazie, Grazie! Sei la migliore amica del mondo!», le dissi mentre mi affrettavo ad uscire dalla finestra della mia camera.
«Non farmi trovare nei casini, okay?»
Atterrai sulla ghiaia e mi misi a correre a più non posso. Ero in ritardo, la luce del tramonto stava sparendo all'orizzonte tingendo il cielo di rosso.
Il cuore mi galoppava in petto, ma non dovevo fermarmi.
Raggiunsi Preston in dieci minuti e senza fiato. La radura in cui avevo appuntamento aveva iniziato a svuotarsi di gente... gente... licantropi.
Come ogni tre anni, era stata allestita una recinzione spinosa dove all'interno i membri del branco, grugnivano e urlavano sfidandosi con lotte violente per ottenere un grado maggiore e sottomettere il proprio avversario.
Riconobbi Seth, amico fidato di Ector. Era a petto nudo e sporco di fango, i pettorali spiccavano sulla carnagione scura. Probabilmente aveva già lottato.
I suoi occhi color nocciola incontrarono i miei e di colpo liquido gli amici con il quale stava sostenendo una conversazione – probabilmente licantropi come lui.
«Sherrie! Ma tu non dovresti essere qui...», mi guardò e incrociò le braccia al petto impettendosi.
«Ciao Seth», dissi cercando distogliere lo sguardo dalla sua enorme massa corporea «Sto cercando Ector, mi aveva detto di venire qui.»
«Oh...», mormorò passandosi una mano fra i capelli castani «Troppo tardi l'ho visto andar via più o meno dieci minuti fa, dopo l'incontro»
«Non mi aveva detto che avrebbe lottato!», mi rabbuiai.
Seth allargò le mani in segno di resa.
Perfetto... davvero perfetto. «Dov'è andato?»
«Credo al Dawn, con mia sorella Lilian»
Al Dawn. Con Lilian. La lupacchiotta più puttana dell'intera contea.
Girai i tacchi e me ne tornai a casa.
Oh, Ector! Sei davvero uno stupido stronzo.
La settimana fu abbastanza piatta. Andavo spesso nella grande villa nel cuore della foresta, per apprendere qualche nuova nozione degna di una studentessa universitaria. Le lezioni aiutavano a distrarmi e a pensare il meno possibile a Ector con la sua Lilian–tutta–curve.
Per mia fortuna, non dovevo sigillare i miei pensieri con gli altri vampiri poiché non tutti avevano il dono della telepatia. Ma restavo comunque ben attenta a non utilizzare involontariamente il mio dono; toccando semplicemente una persona riuscivo a creare una connessione fra due o più menti, collegandola alla mia. In questo modo ero in grado di trasmettere miei ricordi, e pensieri. A volte non riuscivo a controllare il mio potere, non dovevo fare nulla solo pensare e un semplice tocco avrebbe creato la connessione.
Sollevando lo sguardo dal libro di anatomia, mi persi con lo sguardo al di là delle vetrate scrutando il bosco all'orizzonte.
Un pensiero aveva iniziato a darmi il tormento da un po' di giorni. Volevo scappare da quella monotonia che era la mia vita.
Mezz'ora più tardi mi trovato al confine fra il bosco e la città di Cedar Falls.
Attenta a non attirare l'attenzione osservavo nascosta dietro un albero la vita di città degli umani.
Le auto sfrecciavano sulla strada... una donna camminava con buste della spesa e sembra essere affaticata... dei bambini correvano su un marciapiede ridendo...
Uno sorriso nacque sulle mie labbra. La vita... quella vera.
D'un tratto mi sentii soffocare. Conoscevo perfettamente quella sensazione fastidiosa che avrebbe continuato a stringermi la gola e lo stomaco come la peggiore delle morse.
Le pupille mi si dilatarono, inghiottendo l'iride. Avevo sete di sangue. Tutta quell'allegria e quei suoni piacevoli delle risate svanirono e nella mia testa rimbombarono le immagini dei battiti della giugulare di quei bambini e di quella donna.
Corsi via.
I miei movimenti creavano attorno a me un velo invisibile di foglie secche d’autunno, erano bellissime fra le sfumature verdastre e quelle marroni.
Il terreno era bagnato. Probabilmente durante la notte aveva piovuto. Ero stremata, ma questo non era un problema poiché i miei passi veloci, erano come una carezza per il suolo.
Mi fermai di scatto, fra la nebbia mattutina, vidi la sagoma di qualcosa che si muoveva. A giudicare dalle dimensioni era abbastanza grande, più alto di me. Strizzai gli occhi.
Era un cervo.
Studiai i suoi movimenti. La sete mi stava divorando.
Scattai all’attacco, ma mi arrestai subito non appena vidi che era con il suo cucciolo.
“Che strazio essere mezzosangue,” pensai.
E così il mio spuntino scappò via.
Non riuscivo a dominare i miei sentimenti. Avrei desiderato essere un umana per non strappare vita a degli animali indifesi, ma desideravo anche essere un vampiro per non avere scrupoli, in fondo sono una cacciatrice, sono a capo della catena alimentare...
Sbuffai. Dovevo realmente smetterla di crearmi tutti quei problemi, ma delle volte era davvero difficile.
Con passo lento mi inoltrai fra gli alberi, la ghiaia scricchiolava sotto i miei piedi, notai che fra la coltre di nubi filtrava qualche raggio di sole creando un stano effetto nella foresta.
Volevo scaldarmi con il suo calore, mi spostai e cercai un posto dove poterlo osservare liberamente, dove i rami non erano di intralcio a quella spettacolare visione.
Finalmente trovai una parte spoglia, mi appoggiai su di un tronco e lo osservai: era stupendo.
Alzai gli occhi osservando ogni sfaccettatura di quella luce bianca, che tendeva a creare fasci di luce colorati; con la mano, cercai di toccarne uno, invano.
I vampiri alla luce del sole non bruciavano, venivano indeboliti e questo li rendeva più vulnerabili in caso di uno scontro improvviso. Tuttavia, ognuno poteva svolgere la propria routine in tutta tranquillità dopo essersi nutrito di sangue fresco. Gli umani facevano colazione con uova e bacon, e noi cacciavamo e ci nutrivamo di animali, o di alcuni umani. Ognuno ha i proprio gusti!
Non so per quanto tempo rimasi seduta su quel tronco, avevo atteso che il sole sparisse.
Sentii dei passi avvicinarsi.
Feci finta di non essermi accorta di lui, che si accostò "silenziosamente" dietro di me e mi cinse le spalle stringendomi a lui.
«Guarda che sapevo che eri qui» dissi senza troppo entusiasmo, e ancora arrabbiata.
Lo sentii sbuffare e mi sciolsi un po' sorridendo, poi mi lasciai andare fra le sue grandi braccia. Era così caldo e protettivo. Mi sentivo al sicuro. La rabbia e il dispiacere svanirono.
Restammo in quella posizione, in silenzio. Per fortuna Ector parlò e fu un sollievo.
«Senti Sherrie…»; improvvisamente il tronco sul quale eravamo romanticamente seduti scricchiolo e si spezzo.
Caddi, ma per fortuna i miei super riflessi mi fecero evitare la botta. Ector era cresciuto così tanto che era riuscito a rompere il tronco su cui eravamo seduti, lasciando scivolare involontariamente anche me dalle sue braccia.
Borbottò per la botta.
Risi compiaciuta «Ehi Ector. Questo è per essere andato con Lilian e per essere sparito per una settimana.»
«Ohi... che botta!», rispose con voce spezzata dal dolore.
«Vuoi che chiami mio padre per farti dare un occhiata?».
«No, no sto bene!», farfugliò. « E non ho bisogno dell'aiuto di nessuna sanguisuga», aggiunse. Sanguisuga? Ma certo Sanguisuga. Il nomignolo odioso con il quale ci definiva.
Feci una smorfia, io non ero un vampiro a tutti gli effetti, ma lo erano i miei genitori. Dovevo avere un volto orribile perché lui si accorse subito del mio disagio e mi chiese scusa circa un miliardo di volte e poi continuò con la sua solita parlantina.
«Non mi servono dottori, sto benissimo».
«Vedo», commentai dandogli una pacca sulla spalla.
Trattenne un gemito di dolore e mi incenerì con lo sguardo «Sei assurda!», scatto in piedi scuotendo la testa «Ti va di venire con me?», quella proposta mi incuriosì.
«Dove di bello?», domandai.
«Be', di andare a Preston. Sto lavorando ad un progetto e vorrei il tuo parere!».
Ci pensai un po'.
«Va bene».
Scappò via e rimasi a guardarmi attorno.
«Ector?», mi guardai attorno. Era sparito.
Senti qualcosa muoversi fra i cespugli, si era trasformato nel bellissimo lupo bianco di sempre.
Per essere un licantropo era velocissimo e molto agile. Mi sentivo impacciata quando correvamo insieme. Sfrecciavamo fra gli alberi.
Raggiungemmo la città di Preston in poco tempo.
Aspettai che si rivestisse e tornasse da me per poi entrare nel suo laboratorio segreto, il suo garage.
Entrammo all'interno dalla porta arrugginita sul retro.
«Seguimi, ti faccio vedere la mia ultima creazione», mi fece strada.
Mi guardai attorno, il garage era buio e in subbuglio. Le pareti erano grigie, macchiate e rovinate. Le finestre prive di vetro erano tutte sbarrate con tavole di legno permettendo ad alcuni fasci di luce di penetrare all'interno.
Una semplice lampadina appesa al soffitto illuminava freddamente quel grande ambiente che ospitava polvere e decine di scatoloni abbandonati.
Il tanfo di benzina era insopportabile.
«E’ il posto più incasinato che abbia mai visto negli ultimi dieci anni», commentai sarcastica.
Si fermò d'un tratto al centro del tetro garage, per accennarmi un breve sorriso di scuse. «Lo so, non ho mai il tempo necessario per riordinare un po. Ti piacciono le auto non è vero? Ellionor mi ha permesso di farla rimanere qui. Dovevo metterla a nuovo. Ora è pronta devo portargliela questa sera...», e riprese a camminare nel garage, serpeggiando fra gli scatoloni.
Lo seguii e mi trascinò con quella che potrebbe essere definita pura euforia davanti a un telone, sotto cui, si trovava la sua creazione.
Tolse il telo scoprendo così la sua creazione. Dinnanzi ai miei occhi apparve una macchina color grigio metallizzato dai vetri oscurati.
«Fico»; a Ector questo bastava, non perse per niente il suo entusiasmo.
«È una Mercedes Benz SL »; mi disse. «Ho cambiato alcune cose, l'ho riverniciata e ho messo un nuovo motore. Sono contento che ti piaccia», mi scrutò e sorrise «Dai, andiamo a provare questo gioiellino!» continuò guardandomi in faccia e diede un colpetto all'auto, come per indicarla.
Anche se non avessi voluto, ci pensai su.
«Sherrie… non ti ho chiesto per favore », disse spazientito.
Ero sinceramente contenta, sbalordita. Libertà!
«Ector dimentichi che io non so guidare, non ho la patente.»
Era già salito in macchina e si era messo al posto del passeggero sorridendomi. Il suo sorriso era tutt'altro che rassicurante.
Sbuffai e decisi di prendere le chiavi che aveva lasciato sul cruscotto e salii a bordo.
Gli interni erano meravigliosi. Erano presenti solo due sedili in pelle, era presente anche uno stereo con lettore cd e un navigatore. Accarezzai il volante e sospirai.
«Dovresti inserire la chiave per farla partire!», il suo tono sarcastico delle volte mi dava ai nervi.
Gli diedi un pugno sulla spalla e mi accigliai «Fin qui ci arrivo» Inserii la chiave e misi in moto. La macchina si accese ed ebbe un sussulto, spegnendosi nuovamente. «Scusa», dissi sincera.
«Okay! Calma. Allora rigira la chiave, riaccendi lentamente la macchina e premi la frizione».
«Ector…».
«Si?»
«Quale sarebbe la frizione?», domandai.
Mi spiego più o meno le cose essenziali, frizione, freno e il dosare la velocità. Poi il cambio delle marce.
«Okay, sono pronta!», dissi infine.
Lo sentii borbottare qualcosa e gli lanciai un'occhiataccia. Girai la chiave lentamente, premetti la frizione e misi la prima marcia, rilasciai lentamente la frizione e diedi gas. Finalmente avevo mosso quella macchina.
« Allacciati le cinture, si parte»
«Oh be'…» rideva osservando i miei appena venti chilometri orari.
Bene ero così ridicola? Okay Ector.
Misi la terza ed eccellerai.
«Prova a ridere adesso Ector», mormorai.
«Dovresti…» Rallentare? Ma certo.
Poi successe tutto in fretta.
Persi il controllo della macchina mentre continuavamo a sfrecciare nella foresta. Riuscii a scansare gli alberi che ci venivano incontro, o meglio eravamo noi ad andargli in contro.
Sentii il vuoto sotto di noi.
Uscimmo fuori strada e finimmo con un salto, di non so quanti metri in una radura. Sembrava che il mondo si fosse appena fermato. Stavamo bene. Ector aveva sbattuto la testa non so quante volte ma ora ce l'aveva rovesciata all'indietro mentre rideva fragorosamente.
«Tu sei tutta matta!» aggiunse ironico. «Non dirmi che hai avuto paura!>.
«No–no» ero ancora aggrappata al manubrio con le mani e gli occhi sgranati. Tossii.
L’airbag era fastidioso, mentre un fumo denso fuoriusciva dal motore.
Si accarezzò la mascella con fare pensoso. «Gli ammortizzatori non sono molto resistenti... e con il motore vedrò di rimediare», osservò.
«Ector…io non mi preoccuperei del motore in questo momento», gli dissi guardando di fronte a noi.
Nella radura era presente una ragazza, con lunghe e snelle gambe, il ventre piatto e i capelli di un biondo così chiaro tendente al platino. Avrebbe fatto invidia a qualunque modella. Era davanti a noi, probabilmente era lì in quel momento per cacciare. Gretchen come una pantera, si scagliò direttamente su di Ector.
Non l'avevo mai vista così furiosa, sembrava che gli occhi verdi le stessero per schizzare fuori dalle orbite. Per un momento pensai che ci volesse attaccare. Ector però era tranquillo e vedendola arrivare gli spuntò un grande sorriso, era compiaciuto, gli piaceva discutere con Gretchen, era la sorella di mio padre.
«Ehi succhiasangue!», disse allegro.
«Ti rendi conto di quello che hai fatto, lupo?!», Sbraitò Gretchen. Lo stava letteralmente fulminando con gli occhi.
“Se gli sguardi potessero uccidere…” pensai.
«Oh ti preoccupi per la macchina? Guarda che, anche se ne compri una nuova, i soldi ti bastano per comprare lo smalto», rispose lui con fare ironico.
«Tu hai messo in pericolo Sherrie! Come ti permetti di scherzare su una cosa del genere?» La sua voce, sempre melodiosa e con sottile accento italiano, adesso sembrava uno stridio fastidioso.
«Gretchen, io sto bene. Mi…», non mi lasciarono terminare la frase.
«Scusa Gretchen, ma non hai niente di meglio da fare? Come, non so, guardarti allo specchio, e litigare su chi è la più bella tra te e la vampira riflessa?».
Gretchen lo guardò minacciosa, ringhiando in modo ferino.
«Andiamo! Lo sai che quando fai quella faccia, le rughe attorno agli occhi si vedono di più? Fossi in te mi preoccuperei, non vorrai mica rovinare quel bel faccino. Vero?», e sorrise ancora. I suoi occhi d'argento, ricoperti da alcuni ciuffi corvini, ammiccavano più luminosi che mai.
«Ector, ti prego basta. Gretchen, è tutto okay…», mi intromisi ma fui subito fermata.
«Zitta!», urlarono all'unisono.
«Sono anni anni che ti sopporto, bavoso! Non ti conviene farmi perdere la pazienza!»
«Altrimenti che fai? Mi pugnali con un pettine?», la fronteggiò.
Gretchen emise un sibilo e mostro i denti. Ector, noncurante, le fece cenno di farsi avanti, dopo quel gesto provocatorio, Gretchen, lo attaccò e finirono a terra.
Li fermai subito, Gretchen stava per morderlo.
«Basta! Siete impazziti?», urlai.
Si voltarono a guardarmi scattando in piedi. Gretchen mi fece un sorriso e si avvicino lentamente, il suo viso si era addolcito.
«Stai bene Sherrie? Non sei costretta a fare tutto quello che il lupo ti dice».
«Non si chiama “lupo”, si chiama Ector, okay? E poi non mi ha costretta a fare niente! E’ stata una mia idea» Mentii, ma cos’altro potevo fare? Non volevo che il mio migliore amico finisse nei guai per un mio errore.
Lei guardandomi si rivolse a Ector, «Portala a casa… Ector»; pronunciò il suo nome in tono sarcastico, non si sarebbe arresa. Poi si voltò e andò via. Non era mai stata campionessa di tatto che io sapessi.
Tutto era talmente stupido, cosa avrebbe potuto fare un piccolo volo di qualche metro con una macchina ad una come me? Io non avevo nemmeno un graffio, ma di certo non era lo stesso per la Mercedes, ormai ridotta ad un cumulo di macerie. I vetri erano “esplosi” come cristallo e si erano dispersi nell’aria per via del violento atterraggio d’emergenza contro il suolo, magari qualche cerchione appartenente ad una o più delle quattro ruote roteava allegramente ancora nella fitta foresta.
Mi sembrava davvero eccessiva quella reazione. La macchina era molto costosa, ma i problemi economici erano gli ultimi dei nostri pensieri. L’unico modo per mettere fine alla mia esistenza sarebbe stato strapparmi il cuore o trafiggermi il cervello in qualche modo. Essendo un mezzo vampiro, di certo ero molto più resistente di un comune mortale.
Strinsi la grande e calda mano di Ector e ci avviammo verso casa. Per una volta tutti i miei pensieri, tutte le mie preoccupazioni ebbero il via libera e gli trasmisi tutte le sensazioni che mi passassero per la testa in quel momento grazie al mio dono. Rabbia, tristezza, ma soprattutto la mia voglia di evadere, di scappare da tutto e tutti.
Ector mi scrutò con i suoi grandi occhi di ghiaccio ricoperti da alcuni ciuffi scuri, incurvando le sue labbra carnose scoprendo una fila di denti bianchissimi e perfetti.
Sparimmo fra gli alberi.
Nonostante non parlassi, lui riusciva perfettamente a leggermi nella testa grazie alla mia capacità di poter trasmettere ogni cosa, limitandosi a rispondere con cenni o con ghigni soffocati.
Con una smorfia sfilai velocemente la mia mano dalla sua.
«Complimenti per la macchina, molto come dire… resistente», dissi con tono acido avviandomi ad ampie falcate superando Ector di qualche metro.
«Be', ovviamente non era a prova di succhiasangue non patentata scatenata alla guida» disse sghignazzando.
Raccolsi una pigna dal terreno, ancora umido, e gliela lanciai in piena fronte. Essendo a corto di parole, o meglio ne avevo così tante da dirgliene che non avevo la più pallida idea da dove potessi iniziare, decisi di passare all’azione facendo così la mia uscita trionfale da quel discorso imbarazzante.
«Aggiungo aggressiva!» disse ridendo, non avevo voglia di saltargli addosso e fargli rimangiare tutto quello che aveva detto, nonostante avessi una gran sete di sangue, cercai di tranquillizzarmi.
Spesso il mio umore cambiava a dismisura. Più la sete ardeva la mia gola più perdevo il controllo.
Mi sedetti su un masso stringendo le gambe contro il petto. Ad ogni mio respiro, i polmoni si riempivano di fiamme che salivano fin sopra alla mia gola. Ector si avvicinò e con delicatezza, la delicatezza di chi ama, sfiorò con le sue mani grandi, calde e vellutate il mio viso giocando con un mio ciuffo ribelle.
«Sei bellissima anche con il broncio», sfoderò il suo sorriso bianchissimo e perfetto.
«Lo so, a differenza di te lo sono sempre», ricambiai il suo sorriso così dolce e rassicurante, e con le dita percorsi i lineamenti del suo viso. «Ti è mai capitato di pensare, che questo posto, questa vita… non fosse appropriata per te?».
Mi guardò. Il suo viso tralasciava un filo di perplessità, nonostante provasse in tutti i modi di nasconderlo.
«A volte», mormorò.
«Quante volte?», domandai.
«A volte…>, insistette.
«Ector…» sospirai seccata e lui scattò in piedi.
«La nostra natura è diversa dalla vostra, questo lo sai».
A differenza dei vampiri, che una volta trasformati cessavamo l’invecchiamento o i purosangue che raggiunta la maturazione smettevano di crescere un po' come gli ibridi, i licantropi continuavano la crescita e l'invecchiamento. Ector, era ormai ventunenne. Un giorno lui sarebbe morto mentre io sarei rimasta in questo mondo sola, senza di lui per molti altri anni, forse secoli.
«Si», risposi.
«Tu cresci ancora, non resterai noiosamente immortale», mi fece notare.
«Lo so».
«E allora qual è il problema?», domandò straziato.
«Sono io il problema, Ector» Deglutii e lo guardai dritto negli occhi. «Vorrei provare la normalità per una volta. Tutto questo è così monotono. Vorrei essere libera di uscire, non essere schiava della mia sete...»
Il suo volto era indurito, i tendini dei polsi erano contratti. Stringeva i pugni, osservandomi con i suoi occhi grandi e profondi.
«I tuoi occhi…», disse alludendo alla mia sete. Con essa le pupille mi si dilatavano come un buco nero. Ormai mi conosceva.
«Sto bene.» dissi.
«Non me ne avevi mai parlato, prima...», tornò al discorso.
«Lo so. Però è come se ci fosse un vuoto dentro me. Sono in gabbia. Vedo il mondo intorno a me cambiare. Ma io non posso entrarci. Vorrei fuggire, uscire da questa prigione per vedere il sole illuminare una città, non un bosco…»
«Credevo che fossi felice. Non ti manca niente. Hai i tuoi genitori e tutti gli altri succhiasangue», disse rabbioso.
«Sì, ma vorrei conoscere e parlare con qualcuno che non abbia il mio stesso sangue. Hmm… battutaccia. Qualcuno che non appartenga alla mia famiglia, insomma. Vorrei degli amici, magari umani...»
«Be', per quanto sia minimo e banale, hai me. Non ti basta?», sorrise debolmente aspettando una mia risposta.
Esitai e abbassai lo sguardo. Lui era sempre con me e sapeva soddisfare ogni mio capriccio, ma per quanto il pensiero facesse male, non mi bastava.
Ero indecisa se rispondergli, sapevo che sarei stata crudele in entrambi i casi.
«Okay, ho capito.» Manteneva il suo sorriso, ma riuscivo a vedere il dolore specchiarsi nei suoi occhi.
«No, Ector. Ti prego, non arrabbiarti. È solo che io sono diversa da tutti voi. Tanto da sentirmi sola. Vorrei semplicemente qualche novità. Una svolta a questa immortale monotonia.»
«Siamo, e sei, così per natura, non si può cambiare niente. Mettersi contro la tua razza significa suicidarsi. Basta pensare alla reazione spropositata di Gretchen. Ma sono curioso, cosa vorresti fare?»
Abbassai lo sguardo, «Ho un’idea, ma non so se riuscirò mai a realizzarla… No, lascia stare»; mi fermai e sorrisi innocentemente.
Avrei tanto desiderato di poter frequentare un liceo pubblico, riuscivo perfettamente a sigillare la mia mente a mio padre per evitare che andasse su di giri e mi proibisse persino di uscire di casa, ma non sapevo se Ector ne fosse ugualmente capace.
La sua risata mi riportò alla realtà. Mi accorsi che, probabilmente, aveva frainteso le mie parole e il mio comportamento, perché sorrise malizioso.
«No, non credo che siano le stesse idee, sai?», tagliai corto, più acida di quanto volessi.
Camminammo in silenzio per qualche metro, poi parlò.
«Be', meglio così»; azzardò un sorriso. «Non è il caso di far arrabbiare i tuoi amici succhiasangue più di tanto.»; rise della sua battuta.
Mi unii alla sua ilarità, «Non puoi proprio provare a rimanere buono per qualche secondo?»
«No, ho paura di no» e continuammo a ridere per un po'.
Credevo di essere uscita dal discorso, ma poi, questa volta davvero serio, disse: «Non ti fidi di me? E’ per questo che non mi vuoi parlare delle tue idee?»
Risi, tentando di salvarmi da quella situazione complicata.
«Ector, non fare il paranoico. Ho i miei buoni motivi. E’ difficile parlare di qualcosa di cui non sono sicura. Ma non ti preoccupare, i miei piani ti comprendono.»
«Certo! Non riuscirai a liberarti tanto facilmente di me» lo guardai, sorrideva fiero, non sembrava aver dato molto peso alle mie parole.
Allora tirai un sospiro di sollievo e annuii. Si avvicinò al mio fianco e, con un sorriso, prese ancora la mia piccola mano nella sua.
Quando eravamo insieme, sprigionavamo come della magia... lui mi aveva scelto, aveva scelto di essere legato a me, aveva scelto di essere il mio Custode. Il mio lupo guardiano.
Ricordavo ancora il suo giuramento davanti all'intero branco... eravamo solo dei bambini all'epoca, legati da quel legame indissolubile che solo i lupi potevano provare, il Breathless.
Proseguimmo mano nella mano fino alla soglia di casa, quando mi accorsi che c’era qualcuno all'interno...
«Sono loro», disse Ector.
«Ehm…Secondo te lo sanno? Dovrei avere paura?»
«Non lo so. Ma Richard lo verrà a sapere molto presto. Comunque non possiamo stare tutto il giorno qui.»
Sussurrai un “okay” e, dopo esserci lanciati uno sguardo d’intesa, spalancai la porta.
Dentro casa tutto era tranquillo ed in ordine come sempre. Nell’aria si avvertiva la tensione, come una corda di violino che stesse per spezzarsi.
Guardai Ector, avrei voluto tanto scappare, ma lui posò una mano sulla mia schiena invitandomi ad avanzare.
Presi fiato a pieni polmoni.
Avanzai, percorrendo il corridoio di casa, osservando ancora una volta la nostra foto di famiglia. Ector dietro di me mi seguiva, pronto a sostenermi.
Sospirai intravedendo Ellionor, seduta sul divano nell’ampio soggiorno di fronte al camino.
Attraversai la soglia dell’arcata che delineava il corridoio, e fui di fronte a lei. Il suo viso pallido era indurito. Il suo sguardo fisso osservava le fiamme scoppiettare. Rivolsi il mio altrove, sulla parete attrezzata in legno.
Dalla finestra, coperta dalla graziosa tenda color arancio, entrò Gretchen che ci squadrò accompagnata da Richard, ansioso.
«È tutto okay!», Ector parlò per primo alle mie spalle, tuttavia non riuscivo a fissare lei per più di qualche secondo. «È stato solo un'incidente.», continuò.
Un ringhio cupo nacque dal petto di Richard e quello di Ellionor gli fece eco.
Trovai il coraggio di guardarla. Stringeva fra le mani uno dei tanti cuscini deformandolo completamente. Tremava, cercava di controllare la sua rabbia, per quanto le fosse difficile. «Andiamo, non te la prendere! La succhiasangue ci ha già rivolto le sue paranoie!», riprese Ector.
«Tu. Ci stavi per far scoprire tutti, stupido bavoso!», sibilò Gretchen. «Ho dovuto sbarazzarmi della macchina, prima che qualche passante se ne accorgesse e chiamasse la polizia».
«Mi dispiace…» mormorai con sguardo basso. «Mi sono messa io alla guida, volevo provare qualcosa di nuovo» Sentii le mani di Ector stringermi a sé.
«Non potete nasconderla», pronunciò sarcasticamente. Il suo sguardo argenteo era ricco di rabbia.
Gretchen rispose: «Ci farai uccidere tutti!», la sua voce più aspra che mai iniziava ad infastidirmi.
«Gretchen. Basta!», le ringhiò contro mio padre.
«I Purosangue arriveranno qui prima o poi, e tu Ector, tu sta pur certo che verrai ridotto esattamente come noi, se non peggio», continuò Gretchen mostrando i canini in un sorriso beffardo. «Bada al tuo branco, lupo. A Sherrie ci pensiamo noi. Siamo noi i suoi guardiani».
La rabbia iniziava a pervadermi come fiamme. Soffocai un ringhio, che si sciolse in un lamento felino.
Ector rise con gusto a quelle parole.
Il ringhio feroce di Ellionor mi scosse, e tutto successe in pochi attimi. Mi ritrovai a terra, per una spinta partita da Ector.
Richard balzò contro di lui sbattendolo con violenza contro la libreria, affianco al camino. Gretchen rise compiaciuta mentre Ethan, appena arrivato, provò ad allontanare Richard prima che potesse succedere l’imprevedibile.
«Questo–non–è–un–gioco!» gli urlò contro, stringendo i denti e mostrando i suoi canini. «Cosa credevi di fare? Mettere in pericolo Sherrie è uguale a farla uscire allo scoperto! L'avresti fatta ammazzare! Se le accade qualcosa, io ti ammazzo con le mie mani!» ringhiò felino. Tremavo di fronte alla sua reazione, non l’avevo mai visto così violento.
Se voleva essere una minaccia intimidatoria, era fatta davvero bene.
«Richard calmati adesso, basta» Ethan, dietro di lui riuscì a tirarlo via e a bloccarlo.
Io ero paralizzata da quella scena. Si comportavano come se io non ci fossi.
«Lasciami stare!» disse con tono acido.
«Ho protetto Sheryl, per ben dieci anni. L’ho protetta con tutto me stesso Richard». I suoi occhi limpidi, ora erano velati da uno strato lucido. Era stato ferito nell'animo. «E se c’è una cosa che non ho mai fatto, è stata quella di non lasciarla mai sola. E tu lo sai bene questo», masticò le ultime parole, come se le stesse assaporando per poi sputargliele contro.
«Tu sei qui, soltanto per quella roba mistica che lega voi lupi a ciò che amate» Lo accusò Gretchen, avvicinandosi. Ormai era distante solo pochi passi da noi «una volta che ti passerà, lascerai Sheryl. Ci lascerai tutti».
La rabbia esplose nell'aria, la sentivo. E poi Ector...
I suoi vestiti, i suoi jeans, la sua felpa si disintegrarono, il suo corpo ormai posseduto dalla rabbia lasciò spazio alla bestia che era in lui. Si era trasformato, ora c’era il lupo dal mantello bianco con sfumature grigiastre ed occhi di ghiaccio dalle enormi dimensioni. Ector ringhiava e con un balzo le fu addosso.
Avendo a disposizione poco tempo per riflette per ciò che stava per accadere, mi lasciai dominare dagli istinti. Mi misi davanti a Gretchen, chiudendo gli occhi.
Percepii il movimento innaturale dell’aria, un vento che non poteva scatenarsi certamente in casa.
Con un braccio mio padre mi nascose la testa sul suo ampio petto, con l’altro scaraventò via il mio amico licantropo con gran forza, facendolo sbattere contro il muro, provocando delle crepe.
Sentii un lamento. Ector…
«Resta lontano da lei!» La voce di Richard non tralasciava alcuna emozione.
Aprii gli occhi fra le sue braccia e l’osservai: era illeggibile il suo sguardo.
Una lacrima, scese silenziosa sul mio viso guardando Ector ridotto così. Sì alzò lentamente, traballando uggiolando. Non aveva cercato di aggredirmi, mi ero messa io in mezzo per far cessare tutto ciò!
«Ector...» mormorai. Mentre le lacrime sgorgavano silenziose con più foga, il mio migliore amico attraversò la porta della nostra casa correndo fino a scomparire.
Stanca, confusa, sorpresa da tutto ciò che non mi sarei mai aspettata di vedere, mi spinsi via dal forte e familiare abbraccio di Richard materializzandomi nella mia stanza chiudendo la porta alle spalle con forza.
In lontananza tutto ciò che si udii fu un ululato intriso di tristezza e dolore.
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