Loved You First

di beatricecuddle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - 1 - ***
Capitolo 2: *** - 2 - ***
Capitolo 3: *** - 3 - ***
Capitolo 4: *** - 4 - ***
Capitolo 5: *** - 5 - ***
Capitolo 6: *** - 6 - ***
Capitolo 7: *** - 7 - ***



Capitolo 1
*** - 1 - ***


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«Ringraziando per la cortese attenzione porgo i miei più distinti saluti.

Hope Hudson.»


Poggiai la penna con un sospiro e rosicchiai anche l’ultima pellicina superstite ai margini del mio pollice.
Piegai con cura la lettera e la inserii in una busta candida, affrancai e scarabocchiai sul retro:

“London Royal Academy of Music
Marylebone Road, NW1 5HT
Londra – UK”

“Se mi prenderanno sarà per la mia voce – pensai – non certo per la mia calligrafia...”
Pioveva... Beh, ovvio che piovesse... Insomma, ero a Londra, non in qualche sperduto isolotto esotico... Amavo la mia città. Amavo la pioggia sottile e silenziosa, il freddo che ti pizzicava il naso e ti costringeva a sorridere, le lunghe file di casette ordinate con le porte colorate che contrastavano con il grigiore del clima inglese... Il grigio non era mai stato un problema per me, la mia vita la coloravo io con la musica.
Senza ombrello e spettinata feci per uscire di casa e imbucare la mia lettera di presentazione alla Royal Academy. Non sarei entrata, sarei andata a studiare legge e poi avrei lavorato per papà, ma avevo deciso di tentare comunque. Sapete, no, quelle cose del tipo “prendi in mano la tua vita, carpe diem, cogli l’attimo” che appena sentite ti danno una carica incredibile poi, arrivata al momento di fare ti senti una completa idiota.
Più che idiota, accettavo serenamente il mio futuro di avvocato ed ero sicura che tutti all’audizione avrebbero riso dietro alla mia vocina da bimba... Ma era la mia, era la parte di me che amavo di più... Pazienza, l’avrei custodita solo per me e per i miei figli. Se mai ne avessi avuti.
«Che dici Joey, vieni con me? – chiesi dolcemente alla mia cagnolina che mi guardava con aria sonnacchiosa dal divano – Certo che no, pigrona... Ma niente bis di carne stasera!»
Un sonoro “bau!” e uno zampettare concitato mi fece sorridere, le infilai il guinzaglio, presi un ombrello e mi avviai verso l’ufficio postale di Southampton Road con una leggerezza inaudita addosso.

- - -

«Hope, è arrivata una lettera per te! » urlò mamma dal giardino, sventolando una busta bianca.
Il cuore mi balzò in gola, avevo riconosciuto il sigillo della Royal Academy.
“Gentile signorina Hudson, colpiti dalla sua lettera di presentazione la invitiamo a presentarsi all’audizione per essere ammessa al prossimo anno accademico, la quale si svolgerà Martedì 5 Luglio presso le aule della nostra scuola.”
« Firmato, la Direzione.» lessi con un filo di voce.
Impossibile...
«Cos’era, tesoro?»
«Niente, mamma, una tipa che ho conosciuto l’estate scorsa a Southampton in vacanza con la quale ho mantenuto i contatti..»
« Oh! – fece lei stupita – Non sapevo che la gente scrivesse ancora lettere... »
«Eh si – balbettai – Jenna è una un po’... Particolare e poi è, ehm, in un... In un collegio, quindi non può usare Internet! »
«Un collegio, giusto...»
Persa nei suoi pensieri si rimise i guantoni da giardinaggio e tornò ad occuparsi delle peonie con Joey che le scodinzolava attorno felice.
Mi misi distrattamente al pianoforte e iniziai a strimpellare due o tre accordi. Un mi minore, un la maggiore, era una canzone di Birdy che adoravo. I don't know where I am / I don't know this place / Don’t recognize anybody / Just the same old empty face / See these people, they’re lying / And I don’t know / Who to believe anymore...
Bene, sarei andata al provino e avrei cantata la prima canzone che mi scaturiva dalle dita. Tanto non sarei passata... “Saranno sicuramente stati colpiti dalla mia faccia piena di lentiggini, occhi verdi e capelli rosso scuro e dalla mia calligrafia sbilenca e avranno pensato che sono una di quelle hipster alternative che ascoltano Bon Iver e postano le loro foto in pantaloni ascellari e magliettina di pizzo su Instagram... Figuriamoci!” pensai. Avevo addosso una felpa di almeno tre taglie in più della mia sopra un paio di pantaloncini da basket, capi entrambi rubati dal guardaroba di mio fratello. A pensarci, raramente mi mettevo addosso vestiti che fossero miei, a parte qualche jeans e le scarpe, se escludiamo quelle che ormai la mia migliore amica non avrebbe più rivisto. Mamma diceva sempre che con il lavoro di papà avrei potuto permettermi di comprarmi qualcosa di un filino più femminile ma ero intransigente sul fatto che le felpe di Joshuah fossero ciò che di più comodo esisteva.

- - -

Ero tranquilla. Me ne stavo accoccolata in un divanetto nella hall antistante l’Aula Magna della Royal in attesa dell’audizione. Mi guardavo in giro divertita, osservando tutti i potenziali alunni intenti a fare gorgheggi, respirazioni varie, preghiere, segni della croce. Sorrisi tra me stessa, tutti questi fanatici stavano morendo e io ero lì, stravaccata, con addosso un maglioncino bianco, lungo e abbondante, leggings e sneakers, struccata e coi capelli raccolti in una coda spettinata... Avrebbero dovuto cacciarmi solo per la mia tenuta.
«Hope Hudson!»
Mi alzai di scatto e saltellai verso la porta del salone, da cui uscì una ragazza infiocchettata e piangente. Trattenendo le risate, entrai e la vista mi tolse il respiro. Stucchi dorati, affreschi alle pareti e un grande, bellissimo pianoforte lucido al centro.
«Ahem, salve!» feci accennando un sorriso alla giuria, la quale guardava con diffidenza il buco sulla mia All Star di destra.
«Bene, signorina... – fece un uomo sui quaranta cercando il mio cognome sulla scheda di presentazione – Hudson, si, allora, lei vuole entrare qui perché...?»
«Beh, perché mi piace cantare, e suonare il piano, certo, e perché non sono una infiocchettata, insomma, io penso che qui non ci entrerò neanche, ecco, però boh, mi andava di provare.»
Se prima erano rimasti colpiti dalle mia scarpe, ora erano decisamente convinti che fossi una pazza.
Senza che mi dicessero nulla mi andai a sedere al piano. «Posso?»
Mi fecero un cenno di assenso e dopo qualche secondo di pausa le mie dita iniziarono a muoversi sul pianoforte.

She's given boys what they want / Tries to act so nonchalant / Afraid they'll see that she's lost her direction / She never stays the same for long / Assuming that she'll get it wrong / Perfect only in her imperfection / She's not a drama queen / She doesn't want to feel this way / Only 17 but tired.

«Bene, bene, può andare!» alzai gli occhi dai tasti a metà brano e ridacchiai. Ad X Factor interrompevano sempre quelli scarsi prima della conclusione.
Il primo a prendere la parola fu l’uomo che mi aveva chiesto perché fossi lì. «Hai mai studiato, Hope?»
«Canto no, ma sono diplomata in pianoforte.»
«Sei grezza, e dolce allo stesso momento, mi piaci. Hai una vocina da curare, ma può venirne fuori della bella roba.»
«Per me – continuò una bionda seduta accanto a lui, la cui voce riconobbi essere quella che mi aveva chiamata – sei fenomenale. Hai una delicatezza disarmante e nonostante, credimi, tu abbia tanto bisogno di lavorare sulla tecnica, hai un talento incredibile.»
A quel punto, la mia bocca disegnava una grandissima O e io non riuscivo a credere alle mie orecchie. Venne il turno del terzo professore. «A me non sei piaciuta. Troppi errori, suoni bene il piano, ma col canto non ci siamo... Se proprio vuoi entrare cambia categoria.»
«Beh ma io in realtà non volevo...»
«Le faremo sapere signorina Hudson – mi interruppe il primo – Tenga sotto controllo il sito web, verranno esposte le graduatorie. Può andare.»
Dimenticandomi completamente di salutare o ringraziare, mi avviai verso il portone.
«Louis Tomlinson!» tuonò la donna alle mie spalle.
Poi sentii qualcosa di duro sbattermi contro la tempia. Rovinosamente caddi e la testa mi girò in maniera vorticosa. «Oh Dio, scusami, la chitarra, io, insomma, stai bene vero?»
«Piano, piano, piano con queste domande!» biascicai alzando lo sguardo. Il viso preoccupato di un ragazzo sui 19 fu la prima cosa che vidi, seguito da una chitarra che giaceva lì accanto. «Te lo giuro, non volevo sbatterti la chitarra addosso, stavo chiudendo la porta e mi sono distratto e...»
«Va bene, va bene, ok, calmati, ho solo bisogno di un po’ di ghiaccio... Buona fortuna.» mugugnai, e uscii dal salone innervosita e dolorante, sapendo di aver appena fatto la figura del secolo. La sfiga e gli idioti impediti mi stavano attaccati come cozze su uno scoglio. Confortante! Massaggiandomi la tempia, camminai verso casa, dimenticandomi per il momento di aver ricevuto tutti quei complimenti dalla giuria della Royal.

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Capitolo 2
*** - 2 - ***


Gentilissima signorina Hudson,

le comunichiamo in maniera definitiva che abbiamo accettato la sua candidatura per il corrente anno scolastico alla nostra Accademia. Le lezioni avranno inizio il primo di settembre, a questo proposito la invitiamo a presentarsi presso la segreteria con almeno una settimana di anticipo in modo da poter prendere possesso della stanza a lei destinata all’interno del campus.

Rileggevo quelle parole senza sosta, le facevo scorrere sotto i miei occhi in maniera quasi meccanica, nella luce fioca e artificiale della metropolitana in cui ero seduta. Non avevo detto nulla ai miei. Avevo lasciato sul tavolo della cucina in bella vista la stampa della graduatoria che il sito aveva pubblicato un mese prima, con il mio nome evidenziato in giallo sotto la colonna “ammessi”. Da grande codarda non avevo voluto affrontarli ma nel momento esatto in cui avevo scoperto di essere entrata avevo scoperto di desiderare con tutta me stessa di frequentare quella scuola. Ce l’avevo fatta. Io, che non avevo mai studiato canto se non quando dovevo fare i solfeggi cantati, che tra l’altro odiavo. Io... Proprio io. Non avrebbero capito. Glie l’avrei detto più avanti, non sapevo come o quando, non volevo nemmeno pensarci. Mi avrebbero uccisa. Mi veniva da ridere, non si sarebbero smentiti neanche questa volta, loro e le loro manie di controllo...
Era una scelta mia, partita come un gioco, certo, ma aver scoperto che in realtà era tutto ciò che volevo mi aveva infuso una forza che nemmeno io sapevo di avere.
Scesi alla mia fermata trascinandomi dietro due enormi valigie stracolme e lo zaino, uscii in superficie e venni investita dall’aria frizzante e dal caos della mia Londra. Dopo aver fatto pochi metri a piedi ed essermi resa conto che le mie gambine erano troppo gracili per arrivare intatta alla Royal mi sbracciai per chiamare un taxi. Dopo che tre o quattro autisti mi ebbero ignorata riuscii a gettarmi dentro un’automobile rubando il posto ad una signora non più tanto giovane e apparentemente molto di fretta. Scacciai i sensi di colpa e comunicai la destinazione all’autista. Un quarto d’ora e c’eravamo; osservai attonita la magnificenza di quell’edificio e per la prima volta sentii un brivido di emozione e l’ansia che mi prendeva la gola. Sarebbe stata la mia università. Avrei passato lì dentro cinque anni della mia vita a non fare altro che cantare e suonare. Nient’altro, dalla mattina alla sera. Sentii crescere dentro di me una motivazione e una voglia di farcela che fino ad allora non avevo mai provato.
Mi infilai nell’ascensore e poi nella sala d’attesa della segreteria e mi buttai letteralmente a peso morto su una delle sedie di plastica, stremata. Non c’era nessuno oltre al ragazzo prima di me. Si chiamava «Louis Tomlinson» sentii dire dalla segretaria, e avrebbe alloggiato «nella stanza numero 12, blocco B, quello vicino al dipartimento di chitarra». Poco dopo toccava a me , entrai e mi feci consegnare le chiavi. Blocco 2, camera 15. Uscii di nuovo dalla segreteria e mi resi conto che non avevo la più pallida idea di dove fosse questo famigerato dipartimento di chitarra. Louis Tomlinson mi dava le spalle, si grattava la nuca e osservava attentamente un cartellone appeso al muro. Mi avvicinai, erano gli orari degli autobus. Inutile dire che non ci capii nulla, così tentai di chiedergli un aiuto. «Ehm, scusa, non è che sai come arrivare al dipartimento di chitarra?». Si girò verso di me, aveva una faccia familiare, occhioni azzurri e un bel sorriso. «Certo, guarda – mi spiegò indicando una colonna evidenziata in verde sul foglio – devi prendere questo bus qui e in poco tempo ci sei. La fermata è qui sotto.» «Grazie!» esclamai estraendo il telefono per annotarmi tutto il necessario. Sparì senza che me ne accorgessi. “Grazie per avermi chiesto se avevo bisogno di una mano con le valigie” sussurrai tra me e me, scesi di nuovo e aspettai pazientemente il bus. Pioveva. Mi bagnai il maglioncino, i jeans e le scarpe, ma poco importava, ero un’alunna della Royal Academy! In realtà, stando alle facce che avevo visto all’audizione, le altre avrebbero sicuramente indossato stivaletti da pioggia Burberry e trench, con ombrellino abbinato. Io avevo le converse ai piedi ed ero piuttosto umidiccia. Umidiccia e stramba.

La mia stanza era luminosa, con un grande letto da una piazza e mezza, un piumone azzurro dello stesso colore del cuscino. C’era una grande finestra che dava su un grazioso parchetto costellato di betulle, un grande specchio, un armadio spazioso. Unica pecca, avrei dovuto condividere le docce con le altre quattro ragazze del mio piano. Sperai, poco convinta, che non fossero troppo oche, ma dei risolini dalla camera accanto mi fecero alzare gli occhi al cielo. Istintivamente presi le cuffie e iniziai a sistemare i vestiti nell’armadio. Appena ebbi finito mi distesi sul letto e chiusi gli occhi per un attimo. Non avevo la più pallida idea di come sarei sopravvissuta: non sapevo se e dove ci fosse una mensa, quando fosse aperta, gli orari delle lezioni e dove si svolgessero... Sbuffando mi alzai e aprii la cartellina che mi avevano dato in segreteria, c’era una piantina della scuola: le mie aule erano evidenziate in colori diversi in base alle materie e quindi per le lezioni ero a posto, mi sarebbe bastato riprendere il bus. Un brontolio proveniente dal mio stomaco mi fece istintivamente guardare lo schermo del telefono per verificare che ore fossero, anche se, stando a quanto diceva il mio pancino, era decisamente ora di pranzo. Un messaggio, Joshua. Lui era l’unico a sapere... «Come sta la mia sorellina? Non fare troppo la strampalata, mi raccomando. Coraggio! J.»
Mi si inumidirono gli occhi, io e Josh avevamo un rapporto meraviglioso e avrei sentito terribilmente la mancanza sua e del suo sostegno. Guardai sconsolata l’anta dell’armadio, rimasta aperta. “Appena scoprirà quanti vestiti gli mancano vorrà uccidermi...” pensai.
Altro brontolio, presi la borsa e mi misi un paio di calzini asciutti, il resto si era asciugato. Spensi la luce, uscii e mi girai di spalle per chiudere la serratura. “Oh, fantastico, mancavano solo i ragazzini che corrono per i corridoi” pensai, scuotendo la testa. Un nanosecondo e venni travolta da qualcosa, o meglio, qualcuno. Massaggiandomi il polso che avevo istintivamente appoggiato per terra per evitare di sbattere il muso urlai: «Giuro che se mi sono fatta male al polso e non posso più suonare io... » mi bloccai un attimo, colta da un dejà vu. Davanti a me, con un’aria molto colpevole, c’era Louis Tomlinson, la bocca aperta in una grande O e gli occhi spalancati; lo stesso Louis Tomlinson che mi aveva sbattuto la chitarra in testa all’audizione, ecco perché la sua faccia mi era così familiare! «Ancora tu?! Vuoi uccidermi? No, dimmelo, così decidiamo una cosa indolore, che dici?!»

Bea's corner

Ciao ragazze belle! Allora, intanto ringrazio le temerarie che mi seguono ** apprezzo tantissimo. Poi, se potete, pubblicizzate un pochino? Mi farebbe tanto piacere dato che sono nuova qui.

Ricambio e leggo volentieri anche le vostre ;)

xx

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Capitolo 3
*** - 3 - ***


«Oh mio Dio, ti prego, scusami!» mi implorò lui senza muovere un muscolo. «Potresti aiutarmi, che so, dandomi una mano ad alzarmi?!» sbottai. «Certo, si, hai ragione! Sei tutta intera?» chiese timidamente. Mi fermai ad osservarlo prima di rispondergli. Aveva grandi occhi verde acqua, la pelle leggermente abbronzata e un sorriso sincero. Era seriamente dispiaciuto, per cui mi calmai un po’, ritraendo imbarazzata la mia mano che era rimasta nella sua. «Si, credo...» feci sistemandomi il maglione e recuperando la borsa. «Come ti chiami?» «Hope.» risposi semplicemente. «Louis», sorrise porgendomi di nuovo la mano. Non la presi, ma sorrisi. Imbarazzato, la rimise in tasca. «So chi sei» ridacchiai, più rilassata.
Una voce maschile giunse dalla fine del corridoio:«Tommo, ti vuoi muovere?!» e poco dopo apparve un altro ragazzo, ricciolino, alto come Louis, solo più carino e con degli occhi verdi da togliere il fiato. «Oh, hai compagnia, vedo!» esclamò con aria furba. «Si – fece Louis – ho quasi ucciso questa bella ragazza per la seconda volta. Hazza, lei è Hope.» 
«Harold Styles, piacere... Ma tu puoi chiamarmi Harry, se vuoi.»  mi strinse la mano visibilmente stupito dal discorso della mia potenziale morte ma non fece domande, piuttosto mi chiese dove stavo andando e, sentito che cercavo la mensa, mi offrirono di andare con loro. Ero incantata dagli occhi di Harold e accettai forse con un po’ troppa disponibilità. Louis si attaccò al telefono e, nel tragitto verso il refettorio, ebbi l’occasione di parlare con l’altro. «Allora – mi chiese – che corso frequenti?» 
«Devo iniziare il primo anno di canto – dissi orgogliosa – però suono anche il piano, era l’alternativa.» 
«Canto anche io – sorrise – ma sono al secondo. Magari ci vedremo a lezione.» disse facendomi l’occhiolino. Il cuore mi accelerò e arrossii violentemente. Harry doveva essere piuttosto popolare perché erano molte le ragazze che lo guardavano, quasi più di quelle che fissavano me e le mie bellissime sneakers bucate col sopracciglio alzato. Abbassai il viso, era difficile resistere così a lungo a quegli occhi puntati addosso, che sembrava mi spogliassero con lo sguardo fino ad arrivare alle mutande da due sterline comprate da Primark in offerta nel pacco da dieci. Ebbi istintivamente la voglia di farmi piccola e nascondermi dietro a Harry che continuava a parlarmi dell’insegnante di canto che aveva tenuto lezione a Leona Lewis prima di X-Factor. Presi un enorme piatto di pasta fumante, decidendo di fregarmene di tutte quelle sciacquette tristi che mangiavano tristissime terrine di insalata scondita. Mangiai seduta accanto ad Harry, era simpatico, molto aperto, aveva sempre la battuta pronta e si passava la mano nei capelli in maniera molto sexy. Louis invece era più taciturno, sorrideva molto spesso ma non parlava molto. L’avevo sorpreso un paio di volte a guardarmi le guance... La gente fissava la tonnellata di lentiggini che avevo in faccia in continuazione, ero abituata. Sorridevo. 
Finito il pranzo, ci alzammo tutti insieme e Harry dovette andarsene. «Ciao Hope, è stato un piacere!» disse facendomi l’occhiolino e facendomi una carezza veloce. «Ciao Harold, piacere mio!». Tra le risate, mi rispose: «Puoi chiamarmi Hazza, o Harry se vuoi! Nessuno mi chiama così!» «Ma a me Harold piace di più – feci scuotendo le spalle – tu sei vuoi puoi chiamarmi Isabella, è il mio secondo nome...»  Mi racchiuse il naso tra il pollice e l’indice, come si fa coi bambini. «Ciao Isabella!»

Louis mi accompagnò di nuovo al blocco, scambiammo qualche parola sulla nostre vite: suonava la chitarra da quando era piccolo e anche lui era lì per cantare, aveva un anno più di me ma era al primo corso perché non era riuscito ad entrare l’anno prima. «Ci tenevi tanto, eh?» chiesi. «Si, non penso potrei stare altrove...» rispose, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e mi fece una tenerezza incredibile.  «Comunque – fece all’improvviso – Harry è gay, se ti interessa saperlo.»
Raggelai. «E cosa ti fa pensare che mi importi?!» «Oh, andiamo Hope, era limpido!».
Irritata, aprii violentemente la porta della mia stanza e prima di chiuderlo fuori sbottai: «Non mi conosci neanche, come ti permetti? Non ho bisogno di gente che si faccia gli affari miei, per me Harold potrebbe anche essere attratto dai babbuini, non mi interessa, e di certo non sono affari tuoi, chiaro?!» 

“Ma guarda te che sfacciato...” pensai scuotendo la testa. Va bene, lo ammetto, ero attratta da Harold, ma ciò non lo autorizzava a prendersi tutta questa confidenza e men che meno a ridermi dietro. 

 
La mattina dopo mi svegliai con le occhiaie. Non avevo dormito più di un’ora complessivamente pensando alla prima lezione, al battibecco con Louis che, mi ero pentita di aver innescato, ad Harold, ai miei che non si erano ancora fatti sentire... Alle sette mi tirai su dal letto e mi trascinai davanti all’armadio, decisa a vestirmi in maniera decente almeno quel giorno. Tirai fuori una maglia bianca semplice, un jeans e un bel golfino con una fantasia floreale. Guardando con aria di sfida l’unica matita nera che avevo infilato in borsa giusto per non andare in giro sempre struccata, provai a passarmela sulla palpebra superiore, ottenendo una riga tremolante che tentai di sfumare in modo che non sembrasse una cornicetta a zig-zag, ottenendo un risultato forse peggiore. Ne misi un po’ anche nella parte inferiore e senza guardarmi più allo specchio infilai nello zaino un quadernone, l’astuccio, una mela, una sciarpa, l’ombrello e delle caramelle per la gola, sperando mi bastassero, mi sciacquai i denti e uscii sul pianerottolo avendo cura di controllare se qualcuno stava per corrermi addosso. Via libera. Mi fermai in mensa e mi persi con lo sguardo nella tazza di latte al cioccolato, girandovi dentro il cucchiaio con aria smarrita... Per essere il mio primo giorno al college, la vitalità lasciava alquanto a desiderare. «Isabella!» 
Alzai gli occhi verso la voce che mi aveva chiamata.
«Ciao, Harold.»  sorrisi, sentendo di arrossire. La frase di Louis sull’omosessualità di Harold mi risuonava in testa creandomi un leggero imbarazzo nel parlargli. «Stai bene?» gli chiesi. «Non ho dormito molto stanotte – fece con aria furbetta – ma sono abituato, e tu?» «Oh – abbassai lo sguardo – io invece ho riposato bene...» mentii. 
Ridacchiò e inzuppò un biscotto nel latte, guardandomi fissa. Ecco, lo sapevo, adesso non riuscivo a non immaginarmi Harold a letto con qualcuno a pochi muri dalla mia stanza. La sua voce mi scivolava addosso, sfocata, sentivo ma non ascoltavo, come in quei film dove la protagonista ha quegli enormi flashback e si estranea dalla realtà. Mi capitava spesso, quindi riuscivo a controllarlo, fortunatamente. Harold insisté per accompagnarmi a lezione, accettai, dato che non avevo la più pallida idea di dove andare. In pullman c’erano un sacco di facce sconosciute, mi tormentavo i capelli e osservavo: c’era una ragazza orientale che si sistemava il trucco, chi dormiva, chi studiava, chi ascoltava musica. E poi c’era Louis, seduto accanto a me ed Harold che giocava con il telefono. Non gli avevo nemmeno chiesto scusa... Spostai lo guardo fuori dal finestrino e lo lasciai scorrere sui profili degli edifici della Londra esterna alla City. «Ehi, Isabella, svegliati, siamo arrivati!» 
Sussultai, Harold mi stava accarezzando i capelli e sorrideva. Mi ero addormentata senza nemmeno accorgermene. Accennai anche io un sorriso imbarazzato, mi stropicciai il viso e lo guardai stranita. Rideva. «Sei un disastro, Hope – disse, passandomi un dito sotto gli occhi – ti sei sbavata tutta la matita. Ecco, così va meglio, scendi, su!» 
In tutto questo, ero stata zitta. Gay, come no! No, Harold Styles non era gay.

 

Louis POV.


Le aveva tolto la matita da sotto gli occhi, l’aveva accarezzata, avevano fatto colazione assieme. Hazza non faceva mai colazione con qualcuno che non fossi io o i suoi amici, o meglio, quelli con cui passava la notte.  Hazza era... Era lui. Era gay, la persona più gay che conoscessi, così gay da essere terribilmente carismatico anche per me che ero etero e non avevo dubbi su questo. Ma non riuscivo a capire perché avesse questi atteggiamenti con Hope. Lo vidi intento a cercare qualcosa in tasca, gli presi il braccio e gli chiesi «Che ti succede, Hazza?». 
Lui mi guardò con un’aria quasi di scherno e rise, mi diede un pizzicotto sulla guancia e rispose «Ciao Tommo, buona giornata!». Poi mi fece l’occhiolino e diede una leggera pacca sul sedere al biondino che gli stava davanti, che gli sorrise, complice.
Scossi il capo, Harry doveva mettere la testa a posto una volta per tutte o avrebbe combinato ben poco nella sua vita. La voce magnifica che aveva non gli sarebbe mai bastata perché era un’emerita testa di cazzo. Molto semplicemente.
Mi sedetti in aula canto, c’erano altre ragazze che non avevo mai visto ed un solo altro maschio. Il rumore di qualcuno che urtava delle sedie mi fece voltare di scatto. Hope era entrata, quasi inciampando nella sciarpa. Istintivamente mi alzai e la aiutai a sbrigarsela, facendola sedere accanto a me: «Io sarò imbranato, ma anche tu, baby, non scherzi!». 
Alzò la testa e mi sorrise. Era davvero carina, aveva un sorriso armonioso e quei bellissimi occhi verde scuro.
 «Si, mi sa che hai ragione...»
Parlava ridendo, mi metteva di buonumore...

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Capitolo 4
*** - 4 - ***


- 4 -

Louis POV.

Una donna bionda sulla cinquantina entrò in aula in maniera teatrale mettendosi al centro del cerchio che formavano le nostre seggiole. «Buongiorno a tutti! Mi chiamo Annabel Jaspers, e vi do il mio benvenuto alla Royal Academy of Dramatic Arts. Siete in una delle scuola più prestigiose al mondo e per questo motivo vi sarà richiesto un impegno elevato e, soprattutto, costante. Siete dei privilegiati, non lo dimenticate... Passerò subito a spiegarvi il perché di questo corso che è un po’ speciale, per così dire, infatti è nato dall’esigenza di recuperare alcune lacune in campo tecnico che abbiamo riscontrato in voi ai provini. Ecco perché...»
«Louis!» sentii sussurrare dalla mia destra. Mi girai verso Hope. «Scusa per ieri... Sono stata davvero scortese, non intendevo...» «Tranquilla, Hope, non me la sono presa – sorrisi – in effetti potevo starmene zit...»
«Voi due! – tuonò miss Jaspers – in piedi.»
Terrorizzato, guardai Hope, mi alzai timidamente. «I vostri nomi?»
«Louis Tomlinson.» «Hope Isabella Hudson.»
«Il signor Tomlinson e la signorina Hudson saranno così gentili da farmi compagnia nel pomeriggio per riordinare i miei spartiti.» fece, con una voce falsamente mielosa, indicando tre pile di fogli accatastati sopra uno scaffale.
Guardai Hope, era a un attimo dallo scoppiare a ridere e si mordeva, alternandoli, una pellicina sul pollice e il labbro per trattenersi. «...e che serva di lezione per gli altri. Siete i più indietro, qui dentro, non abbiamo nessuno scrupolo a rispedirvi fuori e prendere qualcuno di più interessato.»
La tensione impregnava l’aria, l’intera aula era terrorizzata, io mi scambiai uno sguardo complice con Hope e mi sedetti. Per il resto della lezione non volò una mosca, se non quando ci fecero fare dei vocalizzi e delle scale per allenare la precisione. Al suono della campanella Hope corse fuori e scoppiò a ridere: «E che serva di lezione per gli altri!» ripeté con voce stridula, drizzando la schiena e facendo finta di camminare sui tacchi per fare il verso all’insegnante. Mi unii alla presa in giro, e insieme ci avviammo verso la lezione di storia della musica. Seduti vicini anche questa volta, ebbi l’occasione di osservarla mentre, china sul quaderno, prendeva appunti: era concentrata e per questo le si era formata una deliziosa fossetta sulla guancia; c’era una ciocca di capelli che le ricadeva continuamente davanti agli occhi ed ogni volta si fermava per spostarsela, finché finì per raccogliere direttamente tutta la chioma. Notai che dietro il collo, esattamente sotto all’attaccatura dei capelli aveva un tatuaggio con scritto “shameless”. «Senza vergogna, eh?»
Mi guardò stranita. «Il tatuaggio.» spiegai. «Oh, quello – sorrise con un’aria vagamente furbetta – ne ho anche altri, ti piace?» «Molto. Come mai proprio quella parola?» «Io sono così – rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo, ma senza abbandonare quell’aria da falsa innocente di cui rimanevo sempre più stupito – sono stramba ed è questo che mi contraddistingue.» «Giusto.» dissi semplicemente. Alla fine dell’ora tornammo in mensa per mangiare qualcosa, e nel tragitto incontrammo Harry. «Guardate qui – fece passandoci due volantini – c’è una festa questa sera, qua vicino, per le matricole. Venite?»
«Puoi dirlo, bro!» esclamai, entusiasta, battendogli il cinque, poi guardai Hope. Sembrava un po’ a disagio, in ogni caso sorrise ed accettò l’invito.

Hope POV.

Festa. Festa, alcool, ragazze con le tette di fuori, gente che si bacia ad ogni angolo... Scossi la testa, pensierosa. «A cosa pensi?» chiese Harold, facendomi sussultare. «Oh, niente! Solo al fatto che io e Louis ci siamo beccati una punizione e dovremo passare qui il pomeriggio.» «Ohohoh – fece lui – allora la scritta là sotto non è una bugia!». Mi passai una mano sul tatuaggio con aria interrogativa. «L’ho notato il primo giorno» fece lui come per rispondere alla mia ipotetica domanda. «Non ha esattamente il significato di trasgressiva – replicai, leggermente in imbarazzo – però in effetti l’interpretazione è libera...»
Harold mi fece l’occhiolino e si morse il labbro inferiore, e il mio cuore fece una capriola. Avrei scommesso tutto ciò che avevo , la mia faccia doveva essere paonazza. Se a tutti sembrava che il mio tatuaggio gridasse “portami a letto” le opzioni erano due: o desideravano che fosse così, o non avevano proprio capito nulla di me, tuttavia il mio pensiero corse libero per un attimo e immaginai come avrei potuto sfruttare la prima delle due possibilità a mio vantaggio. Mentre mi voltavo, sorridendo, per distaccare i nostri sguardi, riuscii a intravedere Louis che alzava gli occhi al cielo in segno di esasperazione. Avrei voluto andare da lui e sbattergli in faccia il fatto che Harold non era assolutamente gay, ma mi trattenni sfoderando il mio sorriso migliore. Forse piacevo ad Harry e non avevo nessunissima intenzione di smettere di crogiolarmi in questa dolcissima sorpresa.
Dopo pranzo mi avviai insieme a Louis verso l’aula di canto e ci sedemmo l’uno accanto all’altra ad ammucchiare inutili scartoffie. «Oh, che c’è?» chiesi, avendo notato che mi guardava in maniera insistente. «Pff, lascia stare – rispose lui lanciando per terra il contenuto di un faldone che avevo appena riordinato – non capisco Harry.» «Quale sarebbe il problema?» « È gay e ci sta provando spudoratamente con te.» «Cos’è sei geloso? – ribattei stizzita – Sei gay anche tu?»
Mi guardò con una faccia che sembrava dire: “Ti pare che sia gay?!” «Oh, Louis, che cazzo ne so, ti lamenti perché Harry ci prova come se fossi geloso!» «Non sono geloso – scosse la testa – solo non capisco.»
Si alzò e prese una chitarra, iniziando a strimpellare. «Lo conosci Ed Sheeran?» «Certo – sorrisi – lo adoro.»

la canzone è questa

Cos we're just under the upper hand/ And go mad for a couple of grams/ And she don't want to go outside tonight/ And in a pipe she flies to the Motherland/ Or sells love to another man/ It's too cold outside/ For angels to fly.

Aveva davvero una bellissima voce. Non troppo grave, ma allo stesso tempo calda, avvolgente, e gli brillavano gli occhi. «Sei bravo – sorrisi, accarezzando distrattamente le corde – mi piace questa canzone.» «Non penso di essere così dotato se sono nel corso degli scarsi con te!»
Gli tirai una sberla sulla mano: «Non permetterti!» «Dai, sennò cosa mi fai?» mi schernì afferrandomi il polso. I nostri visi erano più vicini di quanto volessi. Rise debolmente e mi lasciò. Con la testa indicò il pianoforte e si stravaccò sulla sedia. «Dai, fammi sentire di cosa sei capace, pianista delle mie palle...»
Gli sferrai un pugno sul bicipite e mi sedetti. Suonai e cantai la stessa sua canzone e quando finii lo guardai trionfante.

la canzone è questa

«Si, non male...» rise.
«Non male?! – esclamai – Ti ho stracciato!» «Come no! Muoviti e finiamo qui, che non ho nessuna intenzione di marcire in questa stanza.»
Gli pestai un piede volutamente nel sedermi vicino a lui, incassai il fascicolo che mi sbatté in testa di rimando e, in silenzio, proseguimmo con il nostro lavoro.

AUTHOR'S CORNER

Ciaaaao a tutte voi belle creaturine che mi seguite!
Eccoci con un altro capitolo, spero ovviamente che vi piaccia e vi chiederei di pubblicizzarlo un po' dato che sono nuova qui ^^"
Se poi volete leggere un FF davvero particolare di una mia carissima amica, sempre su queste 5 adorabili carotine, andate qui : http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1686554&i=1
Bene, finito, grazie, cià :3
B.

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Capitolo 5
*** - 5 - ***


- 5 -

Hope POV.
 
Mi maledissi per aver accettato di andare a quella festa. Tutte le mia insicurezze, stranezze, e la certezza quasi matematica che Harold – non – sono – gay – ma – ti – sveglio – accarezzandoti – e – ti – lancio – le – occhiatine – da – sesso – Styles ci avrebbe provato con me stavano prendendo il sopravvento. Lasciai perdere la scelta dei vestiti e indossando solo l’intimo mi buttai a peso morto sul letto con la testa tra le mani. Ero qui da pochi giorni e mi sentivo un pesce fuor d’acqua come era successo poche volte nella mia vita. Nella mia testa si scontravano due burrasche, una che mi diceva che non avrei dovuto cambiare, piegarmi alle aspettative della Londra adolescente che frequentava la Royal Academy, un’altra che smussava un po’ gli estremi della prima, perché magari ammorbidirmi un po’, lasciarmi andare, divertirmi, non sarebbe stato un male. Mi alzai e mi guardai allo specchio. Ero carina. Avevo grandi occhi verdi scuro, morbidi capelli rosso fuoco, li raccolsi con le braccia e osservai il mio corpo. La pelle era ben tesa sui muscoli, la pancia tonica, il seno non eccessivamente piccolo, proporzionato... Avevo tre tatuaggi oltre a quello sotto alla nuca: due rondinelle ai lati del ventre che spuntavano dagli slip, una frase sul lato esterno del polpaccio sinistro che diceva: “Sometimes we put up walls, not to keep people  out but to see who cares enough to knock them down.” e  un’altra scritta sotto il seno destro: “There is always Hope.” Andavo particolarmente fiera di quest’ultima perché avevo potuto giocare con il mio nome per imprimermi addosso una delle massime in cui più credevo. Ero sempre stata convinta che i tatuaggi fossero molto sexy e dovevo ammettere che erano le parti di me alle quali ero affezionata maggiormente. In realtà ero affezionata a qualsiasi cosa che mi permettesse di raccontare di me stessa... Perché allora avrei dovuto lasciare che questo posto mi cambiasse?
Eppure la prospettiva mi attirava estremamente: cedere alla spensieratezza, al divertimento, alle avances di quelli che ci provavano con me mi sembrava tutto tranne che sconveniente; tuttavia avevo sempre avuto una coscienza molto preponderante e, anche in questo caso, c’era qualcosa che mi tratteneva.
Ripensai al mio percorso, seppur breve, qui a scuola: tutto era cambiato così velocemente, tutto per una mia decisione. Scegliendo di andarmene da casa e di disattendere le aspettative di mia madre e mio padre avevo preso letteralmente in mano la mia vita e iniziato a inseguire il mio sogno. Questa consapevolezza mi riempiva di orgoglio e mi faceva sentire invincibile, e fu da questo momento che, senza dirmi nulla, presi la decisione di essere un po’ meno la Hope impacciata e un po’ di più la Hope che sfruttava il suo essere carina e leggermente imbranata per svelare solo dopo di essere “shameless”... O almeno, ci avrei provato.
Purtroppo poco del mio guardaroba rispondeva a questa nuova me, quindi cercai di tirar su qualcosa di adatto e trovai una camicetta trasparente, con due grandi tasche sul davanti, più lunga dietro, che di solito indossavo abbinata ad una canotta colorata... Non questa volta. Misi un reggiseno colorato che si sarebbe intravisto, così come i tatuaggi, poi un paio di shorts. Con mio grande sdegno e stupore allo stesso momento, li tirai verso l’alto, rimboccando la camicia all’interno, facendoli diventare a vita alta. Mi arresi solo per il fatto che, nonostante li odiassi, mi stavano bene. Lasciai i capelli sciolti e mi imposi di non rinunciare alle converse.
Prima di uscire non mi guardai nemmeno più allo specchio perché la trasparenza della camicia mi creava non poco imbarazzo. Digitai un sms e lo inviai a Louis, per sapere dove fosse, dato che come al solito non avevo la minima idea di dove si svolgesse questa festa. Promemoria: la nuova Hope, possibilmente, non avrebbe più dovuto aver bisogno di indicazioni stradali. La risposta arrivò poco dopo e scesi, facendo a piedi non più di due isolati, per poi ritrovarmi in quella che doveva essere la palestra dell’Università. Mi sembrava di essere tornata al liceo ai balli di fine anno...
Poco a poco mi accorsi degli sguardi che mi si posavano addosso. I primi mi diedero i brividi ma poi cercai di superare la cosa, e cominciai a godermeli. Istintivamente drizzai la schiena, in una posizione più eretta e fiera e cercai Louis con gli occhi.
«Ehi, bellezza tu chi se.. Isabella! » mi girai, sentendo un braccio che mi avvolgeva la vita, e trovai un Harold visibilmente alticcio ma sorpreso di vedermi. «Accidenti, Hope – fece guardandomi intensamente dall’alto in basso – non ti avevo nemmeno riconosciuta! Sei... Sei uno schianto stasera!»
Ringraziai il buio della sala, sentivo di essere viola, e cercai di sorridere con un’espressione maliziosa. Sarà stato per l’alcol in corpo, forse ero risultata davvero sexy,  non avrei saputo dirlo, ma Harold non staccò il bracco dal mio fianco e mi porse un bicchiere pieno di un liquido dall’odore fetido e dal colore trasparente. «Bevi un po’ di questo, andiamo a ballare?»
Sorrisi ancora senza dire niente, feci un respiro profondo, trattenni il respiro e buttai giù, tutto d’un colpo, sentendo la gola andare in fiamme.
 
 
Louis POV.
 

Me ne stavo appoggiato a una colonna della palestra a parlare con qualche amico, mentre cercavo Hope con gli occhi. A pochi metri da me c’era Harry che parlava con una ragazza, cingendola per la vita. Aveva lunghi capelli scuri e due gambe da favola, con un tatuaggio sul polpaccio sinistro. Lui doveva averle fatto un complimento perché la ragazza piegò la testa di lato, civettando,  per un attimo. Il mio cuore saltò un battito: Hope.
 Aguzzai la vista, Hope bevve a lungo da un enorme bicchiere di carta rossa, poi lo restituì ad Harry, che la prese per i fianchi e iniziò a ballare, sperando che lei lo seguisse.
Qualche passo e cambiarono le posizioni, ora Harry mi dava le spalle e potevo vedere Hope chiaramente. Indossava una camicia bianca trasparente dentro a degli hot pants di jeans, qualche lembo però scappava fuori mentre ballava, le sue converse sgualcite, bianche, ma la cosa che più mi mandava il cervello in corto circuito era il fatto che sotto a quella camicia non ci fosse altro che un reggiseno rosso scuro. A bocca aperta, incredulo, dimenticai per un attimo anche il fatto che il mio amico, chiaramente, puntava a portarsela a casa. La guardai muoversi sinuosamente, non senza qualche mossa impacciata che mi confermò che, effettivamente, era lei e non qualche dea sconosciuta che aveva rapito la timidissima Hope che avevo conosciuto. Eppure c’era qualcosa in lei che mi faceva venire voglia di andare lì e strapparla dalle braccia di Harry.
Harry... Enigmatico, incomprensibileHarry. Gay, Harry. Forse non più, a questo punto...
 Nel giro di qualche secondo, lui le sussurrò qualcosa all’orecchio, le strinse la mano e si incamminò
 verso l’uscita. Scattai per seguirli, ma nella ressa riuscii solo a vedere Hope che apriva la porta e si girava un attimo indietro. I nostri sguardi si incrociarono per un attimo, poi sparì. 

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Capitolo 6
*** - 6 - ***


- 6 -
 
Erano entrambi ubriachi. Harry, nella confusione dell’alcol e delle sue pulsioni sessuali, ricordava solo lontanamente di aver scoperto di essere omosessuale molto tempo addietro e in quel momento era completamente inebriato dalla bellezza di Hope, dai suoi capelli sciolti e dal profumo da bambina del suo collo; lei, d’altro canto, aveva deciso di non porsi nessun freno. La gradazione pericolosamente alta di quel che aveva bevuto aveva rinforzato in lei quello spirito selvaggio che era rimasto assopito a lungo, facendola sentire terribilmente bella e desiderata.
Incredibile l’effetto che possa fare un sorso di troppo...
Camminavano ridendo e trascinandosi l’uno con l’altro fino a che il portone del blocco B si chiuse alle loro spalle.
Hope rideva, di quella risata limpida e pura di chi è senza malizie, perché in fondo era sempre lei, ed Harry sorrideva zitto facendosi portare per mano fino alla sua stanza.
Ammutoliti entrambi di colpo, passarono qualche istante l’uno di fronte all’altro, un po’ barcollanti. Hope iniziò a sbottonarsi la camicia, ridacchiando ancora, con gli occhi chiusi, poi inciampò nei suoi piedi ed andò a finire tra le braccia dell’altro, che la raccolse prontamente.
Era il loro primo bacio. Esperto, Harry allontanava le labbra ogni volta che lei si avvicinava troppo.
«Harold... Vuoi aspettare domani mattina per baciarmi?»rise lei appoggiando la fronte al suo mento, prendendo l’iniziativa e mordendogli il collo.
La punta dell’iceberg, Harry la sollevò circondandosi la vita con le sue gambe e si buttarono a peso morto sul letto, poi il bacio arrivò. Lento, preciso, lunghissimo. Hope non faceva altro che abbandonarsi a risatine isteriche, e così fece anche quando lui staccò le labbra sulle sue per continuare sul collo e giù, fino al tatuaggio sotto il seno. Harry, improvvisamente lucido, si fermò. «È vero... – biascicò – Hope, sempre Hope» e prese a baciare quella scritta nera come a volersela imprimere addosso «Si, sei dappertutto, sempre, nella mia testa...»
Hope raggelò per un attimo.
«Harold tu non eri... »
Un bacio la zittì ancora una volta.
Decise di non decidere più fino al mattino seguente.
Le mani di Harry vagavano per il suo corpo, indisturbate, si mossero abilmente all’interno dei suoi shorts che in poco tempo finirono sul pavimento insieme al resto dei vestiti.
Hope continuò a tenere gli occhi chiusi e ad afferrare i capelli di Harry, che baciava ogni angolo libero della sua pelle che trovava. I loro sguardi non si incrociarono quasi mai, se non per qualche istante. Si fissarono: gli occhi di lui erano confusi, quasi velati dal desiderio e dall’alcol, ma a Hope sembravano bellissimi lo stesso. Si morse il labbro inferiore con aria provocante e fece scorrere le sue mani fino ai pantaloni di Harry, ridendo. Poi chiuse gli occhi e si lasciò andare completamente a lui.
 
Hope POV.
 
Non capivo più nulla, ero talmente ubriaca che mi veniva da ridere qualsiasi cosa facessi... O forse era colpa di Harry che stava mordendo la pelle accanto al tatuaggio delle rondini sul mio ventre. Eravamo entrambi nudi, nascosti sotto il lenzuolo candido del mio letto,  quasi troppo piccolo per starci in due. Non ero vergine, ma nulla di ciò che avevo fatto in precedenza era paragonabile a questo, al fatto che Harry mi stesse facendo patire le pene dell’inferno, lasciandosi VOLERE fino allo sfinimento. Ogni volta che sembrava sul punto di entrare si riallontanava, ed io, arrabbiata, mi avvicinavo ancora di più. Finalmente si decise, inarcai la schiena con un gemito e lo sentii.
Gli puntai gli occhi negli occhi e ci fissammo per quasi tutto il tempo, finché lui non appoggiò la fronte alla mia, sussurrando il mio nome. Le spinte aumentarono di velocità, piantai le unghie nella sua schiena e mi aggrappai a lui più forte. Poco dopo mi fece girare di schiena, con un impeto che da sobria mi avrebbe spaventata mi afferrò i capelli e mi tirò a sé, mordendo e posando baci leggeri e umidi proprio sulla scritta che avevo sotto la nuca.
Dopo aver raggiunto entrambi l’apice, la mia testa pulsava e girava, un piacere diffuso si impadronì del mio corpo grazie ai ferormoni che giravano nell’aria e mi addormentai con Harold che mai cingeva da dietro e mi baciava delicatamente alla base dei capelli, sempre dove c’era scritto shameless. Stavo iniziando a pensare che fosse una sorta di feticista dei tatuaggi, in ogni caso era proprio così che mi sentivo, senza vergogna, libera. Ed era una percezione indescrivibile ed estremamente soddisfacente.
 
Harry POV.
 
Il mal di testa martellante che avevo tentato di ignorare mi costrinse a svegliarmi. Ore 5.10 a.m. Hope dormiva ancora, coi pugni stretti al viso, raggomitolata di fronte a me, i lunghi capelli spettinati e sparsi sul cuscino e i tratti del viso rilassati.
Mi passai le mani tra i capelli, poi mi stesi a pancia in su. La stanza sapeva di sesso e io mi sentivo la coscienza sporca.
Ripensai a quando avevo capito di essere gay, dopo aver baciato per sbaglio un mio compagno di classe al gioco della bottiglia.. Festicciole da prima liceo. Noah mi aveva sempre attirato, speravo continuamente che accettasse di venire a casa mia a fare palestra così avrei potuto vederlo senza maglia, per poi fare la doccia insieme e prenderci in giro perché eravamo entrambi ancora troppo poco muscolosi o pelosi.
Avrei ricordato quel bacio per sempre, così come la faccia di Noah quando mi disse che non saremmo potuti più essere amici.
Dopo di lui avevo iniziato a frequentare qualche locale gay, tutte storielle da una notte, niente più, la maggior parte delle volte ero ubriaco, ma non potevo farci nulla... Il sesso con gli uomini era tutta un’altra storia. Non disdegnavo se qualche ragazza si univa a noi, occasionalmente, era piacevole, le ragazze hanno un bel corpo, profumano, hanno la pelle setosa, ma io avevo bisogno di virilità, di forza, energia... Ma non potevo negare che con Hope mi fosse piaciuto, forse anche troppo.
Ero rimasto sorpreso maggiormente del fatto che, nonostante l’avessi conosciuta come timida, dolcissima e riservata si fosse rivelata una sottospecie di dea del sesso. Ma ciò che mi aveva fatto andare DAVVERO via di testa era la sua risata così limpida e pura, infantile, quasi, ma era il peggior afrodisiaco possibile, mi faceva venire voglia di sbatterla su un letto ogni volta che stavo con lei. Quasi una reazione inversa, avrei dovuto provare tenerezza, ma il mio amico ai piani bassi non era dello stesso avviso. E, cosa da non dimenticare, i suoi tatuaggi erano tra le cose più eccitanti che avessi mai visto...
Lo stomaco fece una capovolta dal dolore lancinante del mio mal di testa... Forse era meglio andarsene.
Recuperai i miei vestiti e uscii silenziosamente dalla camera, con solo la camicia e i pantaloni addosso (non ero riuscito a trovare i miei boxer) sperando di non incontrare nessuno. A testa bassa tornai in camera, ma Louis, col quale ebbi uno scontro frontale, mi impedì di arrivare incolume. «Avete fatto sesso?»
Non risposi.
«Quindi?» incalzò lui.
«Si, Lou, e ora vorrei dormire se non ti dispiace.»
La mascella contratta e il pugno stretto, mi chiese con aria di sfida: «E ti è piaciuto?»
«Per favore, Tommo, puoi evitare...» prima che riuscissi a concludere la frase, lui mi stava già tempestando di nuovo. «Quindi ora sei etero? O bisex? Chi ti scopi, la prossima volta, un trans? Così, tanto per provarle tutte.»
Le sue parole taglienti, mescolate al mio mal di testa, furono la goccia che fece traboccare il vaso. «Mi scopo chi mi pare, Louis. E se vuoi proprio saperlo, si, mi è piaciuto. E se eri così interessato potevi alzare il culo prima!»
«Non dire balle, Hazza, se ti fosse piaciuto saresti rimasto lì, invece guardati, te ne vai con la coda tra le gambe – sussurrò sprezzante – ma non ti fai schifo?»
Con una spinta spostai Louis dalla porta della mia stanza. «Vaffanculo, Louis...».




Author's corner.
Ciàà bellezze! dato che, per farla breve, la mia storiella non se la fila nessuno (ç.ç) ho deciso di cambiare rating, da rosso a arancione, per fare meno l'effetto 50sfumaturedigrigio e magari guadagnere qulche lettrice... Che desperate che sono :D
Insomma, se poi voi potete, pubblicizzate un po' che così son felice e posto più spesso ^^"

xx Bea

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Capitolo 7
*** - 7 - ***


- 7 -
 
Aprii gli occhi con la sensazione che mi stessero prendendo la testa a martellate.
La luce filtrava dalla finestra, avevo dimenticato di chiudere la serranda, un debole sole si rifletteva sulle lenzuola bianche del mio letto. Guardai alla mia destra. Vuoto, come immaginavo.
Il martellare continuava, provai a chiudere gli occhi ma nulla, finché mi accorsi che in realtà il rumore che sentivo era quello di qualcuno che bussava alla porta.
Feci per alzarmi e mi accorsi che, punto primo, ero nuda, punto secondo, c’erano vestiti sparsi dappertutto. «Porca put... Arrivo!» urlai.
Ero terribilmente indolenzita e temevo che le giunture doloranti delle gambe non mi avrebbero retto. Sorrisi senza rendermene conto, mi infilai una felpa e i pantaloncini di mio fratello e nascosi per lo meno la mia biancheria sotto le coperte alla meno peggio.
Aprii la porta stropicciandomi gli occhi e mi trovai mio fratello davanti. «OH MIO DIO, Josh!» esclamai saltandogli addosso. «Ciao pulce... Che accoglienza!»
Lo feci entrare: «Non far caso ai vestiti – tentai di balbettare imbarazzata – non sono mai stata ordinata...»
Evitai di voler vedere la sua espressione, ci sedemmo sul letto e lui mi guardò ridacchiando. «Allora, come procede qui?»
«Ehm, beh... – continuai a balbettare – non saprei da dove cominciare...»
«Mah – fece lui divertito – potresti partire da questi...». Tolse  le mani da dietro la schiena e mi sventolò in faccia i boxer neri di Harry.
«Cazzo! Non sono miei quelli!» «Ci speravo, in effetti...»
Mi misi a ridere per la battuta e glie li strappai di mano, buttandoli a lato del materasso. «E potresti continuare con questi – disse, alzandosi un attimo e riesumando la mia biancheria da sotto il lenzuolo – sono tuoi, questi, vero? Anche se non sapevo indossassi i perizoma, immagino sia solo per le occasioni speciali...» «Joshua Matthew Hudson, ridammi le mie cazzo di mutande e smettila di sfottere o saranno le ultime parole che dirai!» urlai colpendolo ripetutamente con un cuscino.
«Cos’è, Hope, ti vergogni del tuo fratell.. Ahia! No! Le palle no, stronza!»
Mi prese in braccio, mi sollevò per poi sbattermi di nuovo sul materasso, io, in preda a una crisi di risate, non riuscii a fare nulla per divincolarmi.
Ansimanti, ci fermammo coricati ai due margini opposti del letto. Facevamo così anche a casa. Josh si fece improvvisamente serio. «Hope, stai facendo la brava vero?»
«Si... Cioè, ho solo pensato che dovrei sciogliermi un po’...»
«Certo. Una si rilassa un attimo e per star più sciolta va a letto col compagno di corso... Eri sobria?»
«No – tossii – no, non proprio.»
«Gesù, Hope – disse lui scoppiando in una fragorosa risata – avrei voluto esserci!»
«Ehi! – gli tirai un pugno sulla pancia – ero una ballerina piuttosto sensua... Lascia perdere.» «Com’è lui?» «Gay – risposi semplicemente – almeno così dicono.»
«Ok, non credo di voler saper altro...» sussurrò.
Sorrisi e chiusi gli occhi, rilassandomi sul letto. «Mamma e papà stanno bene?»
«Vuoi davvero saperlo?»
Non risposi.
«La mamma aveva un sorriso enorme quando ha letto il tuo biglietto... Credo di non aver mai visto tanto orgoglio nei suoi occhi. Papà... Beh, non ha detto nulla. Credo si senta deluso o tradito o qualcosa di simile... Non parla quasi più ed è sempre molto, molto irritabile.»
«Che stupida che sono...»
«Gli passerà...»
«E tu cosa ne pensi?»
«Penso che qui sia una giungla, Hope, e tu sei un fiore, ho paura per te... Non voglio che tu tradisca te stessa. Ma è il tuo sogno, e sono certa che quando canti ti senti a casa e in pace con te stessa, ed è questo che conta». Sorrisi, Josh era sempre così bravo a dire le cose...
«Però mi devi promettere che non ti lascerai compromettere.. Hai qualcosa che gli altri non hanno, Hope, sei vera, sei strambe, sei semplice... Sei tu. Non lasciare che te lo portino via.»
«Giuro – risposi dolcemente – grazie Josh...»
«E sei pregata di presentarmi i tuoi tromba mici, devo verificare...»
Qualcuno bussò alla porta. «Isabella? Sei sveglia?»
«Isabella?! Ma che caz...» fece mio fratello con aria interrogativa.
«Oh, eccone uno!» esclamai sarcastica per poi andare alla porta. «Ciao Harold...»
«Ho dimenticato i miei...» disse imbarazzato.
«Certo, certo...»
Mi spostai dall’entrata e gli feci spazio. Entrò nell’anticamera e io lo seguii. La scena che mi si presentò davanti, beh, fui sicura che l’avrei ricordata a vita.
Mio fratello era steso sul mio letto, di fianco, una mano a sostenere la testa, e teneva i boxer di Harry appesi a un dito. «Cercavi questi?»
«Joshua, TI PREGO...» sussurrai senza riuscire a credere ai miei occhi.
Harry prese al volo il lancio, mi gettò un’occhiata tra l’indignato e l’incredulo, poi disse con un tono di voce estremamente basso: «Ne parliamo, ok? Scusa per stamattina...»
Riuscii solo ad annuire. Mi pizzicò la guancia, delicatamente, poi guardò di nuovo Josh, con l’aria un po’ schifata, se devo essere sincera, e se ne andò.
Avevo la tentazione di corrergli dietro e gridargli che era mio fratello, che mi dispiaceva che avesse fatto il cretino e che non avrei scordato quella notte molto facilmente.
Invece appoggiai la schiena al muro e scivolai seduta verso il pavimento.
 
- - -
 
«Louis!» urlai nel bel mezzo del corridoio, cercando di corrergli dietro per fermarlo. Si voltò verso di me, con un’espressione che non gli avevo mai visto in viso, sempre così dolce. «Non ti ho visto alla festa ieri...»
«Io si, invece.»
«Potevi venirmi a salutare!»
Lui mi guardò con una faccia del tipo:“Non puoi aver fatto un’affermazione del genere!” e rispose semplicemente che mi aveva visto molto impegnata ed era con alcuni amici.
Molto imbarazzata, tacqui e giocherellai con una pellicina attorno al mio pollice. «Va tutto bene, Lou?» chiesi, con gli occhi bassi. «Certo.» la sua voce si era leggermente addolcita, ritrovai il suo sguardo ma il sorriso era palesemente falso.
Louis Tomlinson era decisamente la persona più enigmatica che avessi mai conosciuto... Forse più di me.
«Buongiorno signora McBride.» sussurrai entrando nella mia aula di canto.
«Ciao, Hope! – rispose entusiasta lei – come stai oggi?»
«Molto bene, grazie, è venuto a trovarmi mio fratello questa mattina...»
Annuì e venne a sedersi sulla sua cattedra, di fronte a me. Era una bellissima donna sulla quarantina, con lunghi capelli scuri raccolti in uno chignon dall’aria severa, la quale però spariva se paragonata al suo sguardo sveglio e materno. Era una delle più stimate cantanti di musical in circolazione, avendo calcato più volte palchi come quello di Broadway. «Sei molto legata alla tua famiglia?»
«A Joshua in particolare – risposi – è la persona più importante della mia vita. Con i miei è diverso, ci vogliamo bene ma loro hanno molte aspettative su di me, quindi a volte è un po’ difficile essere... Beh, essere Hope.»
«E chi è Hope?»
Improvvisamente mi mancò l’aria. Annaspai tentando di respirare. «Beh... Sono stramba...»
«Ahahah, non ti ho chiesto come sei, ma CHI sei... Vedi, Hope, contrariamente a quanto potresti pensare, io non sono qui a insegnarti a cantare... Voglio prima di tutto aiutarti a capire chi sei. La musica, il canto, l’interpretazione sono secondari, parte tutto da qui.» e mi puntò un dito sul petto.
Una scarica di brividi mi pervase da capo a piedi. Sorrisi con un nodo alla gola.
«Partiamo da una canzone, vuoi? Sai suonare il pianoforte, mi hanno detto...» «Certo!» risposi prendendo lo spartito che mi porgeva.
Mi misi al piano e a prima vista iniziai a suonare l’accompagnamento. Sorrisi ancora una volta, leggendo anche il testo. Colpita nel segno.
 

http://www.youtube.com/watch?v=Jd9zYKLepCw

So when I make big mistake/ When I fall flat on my face/ I know I'll be alright / Should my tender heart be broken/ I will cry those teardrops knowin'/ I will be just fine/ 'Cause nothin' changes who I am.
[...]
Sometimes I'm clueless and I'm clumsy/ But I've got friends who love me/ And they know just where I stand/ It's all a part of me/ And that's who I am/ I'm a saint and I'm a sinner/ I'm a loser, I'm a winner/ I am steady and unstable/ I am young but I'm able.

E allora quando compio un grande errore/ Quando cado con la faccia a terra/ So che starò bene/ Se il mio cuore dovrà essere spezzato/ Piangerò quelle lacrime/Sapendo che starò bene/ Perché niente cambierà chi sono.
[...]
A volte sono enigmatica e goffa/ Ma ho amici che mi amano/ E sanno qual è il mio posto/ E fa tutto parte di me/ E questo è ciò che sono/ Sono una santa e una peccatrice/ Sono una perdente, sono una vincente/ Sono stabile e instabile/ Sono giovane ma capace.


 

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