Love at first bike

di La neve di aprile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 PROLOGO

 

Dicembre.
L'aria era fredda, frizzante nel buio della sera ormai inoltrata, e ravvivata dal groviglio di luminarie che il vento, mesi prima, aveva strapazzato in un unico un nodo impossibile di lucine dorate contro il nero fitto del cielo. Non avrebbe saputo dire se c'erano nuvole o meno, era tutto così uniforme oltre il vetro che neppure le importava in realtà: l'idea che al di là di una semplice finestra fosse tutto così lineare, metodico e banalmente ripetitivo quasi la faceva sospirare per il sollievo.
Il sospiro che sfuggì alle labbra sapientemente dipinto di rosso era, invece, dovuto ad altro.
Passare dal guardare la strada deserta e le macchine mal parcheggiate sul marciapiede al cercare, trovare e mettere a fuoco il riflesso di lui, ridente e con gli occhi accesi dopo la seconda birra era stato un attimo, l'errore fatale di una distrazione ricercata disperatamente dal momento in cui si era seduta alla tavolata gremita di gente, inventando un sorriso che non aveva voglia di sfoggiare.
Ci mise qualche attimo per ridere ad una battuta di Lara, l'istruttrice di spinning che sedeva al suo fianco, e si strinse nelle spalle con aria di scuse in risposta alla frecciatina che arrivò da parte di una signora dall'aspetto gentile che riconobbe come una delle fedelissime del Pilates. Maria, se non ricordava male, e lei non ricordava mai male. Dopo quattro mesi passati a sorridere sempre alle solite facce, più o meno anziane, più o meno sorridenti, più o meno felici, aveva imparato ad associare un nome ad ogni volto, senza mai prendersela quando qualcuno ancora si ostinava a scambiarla con Sara o una delle altre ragazze sedute dietro al bancone della reception.
Viola appoggiò la schiena contro la sedia, curvando le spalle lasciate praticamente scoperte dalle maniche leggerissime dell'abito color prugna in una linea di infelicità assoluta, sbirciando alla sua sinistra. Enrico stava ancora ridendo, e lei si soffermò ad osservare il sottile reticolo di rughe che si stringevano attorno agli occhi regalando alla sua espressione una profondità che altrimenti non gli sarebbe appartenuta. Era bello da far male, in quella maniera tutta sua che aveva di sporgere il busto in avanti, impaziente di accogliere la gioia o la tristezza, o qualsiasi altra cosa la vita gli avrebbe proposto.
« Carino il vestito, dove l'hai preso? » Sara interruppe misericordiosamente il filo dei suoi pensieri risparmiandole il dolore di un arenamento improvviso su una riva che si era ripromessa di non rivisitare più.
« Zara » rispose pronta, allungando una mano verso il bicchiere colmo di coca-cola « praticamente mi è costato metà dello stipendio, ma era una vita che cercavo qualcosa di questo colore. »
« Ti sta molto bene, in effetti » intervenne Paola, la responsabile della palestra, scoccandole un'occhiata che sembrava volerla indagare molto più a fondo, a scovare le origini della sua distrazione.
« Grazie! » chiosò invece Viola, distogliendo lo sguardo per sbirciare oltre la fila infinita di teste illuminate dai bagliori intermittenti di un festone di lucine dai colori inguardabili, guardando i camerieri correre su e giù, affrettarsi con una quantità impossibile di piatti per braccio, riempire l'aria del profumo invitante delle pizze appena sfornate. C'era quell'aria festosa tipica delle grandi rimpatriate, la stanza satura del brusio delle infinite conversazioni che s'intrecciavano tra loro senza che vi fosse nessuno a dirigerne le direzioni; e il grande albero di Natale ammassato nell'angolo più remoto della stanza era lo sfondo perfetto per una serata in compagnia mentre fuori il freddo era talmente intenso da mozzare il fiato in gola.
Rimuginarci sopra non aveva scopo, si rimproverò silenziosamente. Sapeva esattamente come sarebbe andata la serata, ed Enrico – a giudicare dall'occhiata colpevole che le aveva rifilato appena aveva varcato la soglia della pizzeria con un ritardo assolutamente indecente, tanto per essere sicura di arrivare dopo di lui che quanto a ritardi non scherzava affatto e farsi ammirare in perfetto, precario equilibrio su dodici centrimetri di tacco nero, lucido, indossati nella piena consapevolezza che sarebbero stati assolutamente fuori luogo – era dello stesso avviso. Era stato quello che era stato, niente di più e niente di meno, e in barba a tutte le richieste di parlare e chiarire, la verità era che non c'era nulla di cui parlare e ancor meno da chiarire.
La presenza di Giulia, biondissima e impeccabile come sempre, al suo fianco era l'ennesima riprova di quanto cristallina fosse in realtà la situazione: era andata a letto con un uomo impegnato, che si era ben guardato dallo svelarle un dettaglio tanto fondamentale, dimostrando come fosse possibile che in un corpo di trentenne si nascondesse la maturità emotiva di un quindicenne. Punto. Non c'era bisogno di chiarire nulla.
E allora perché quella fitta allo sterno la costringeva a lottare contro l'impulso di rannicchiarsi su se stessa, premere la fronte contro le ginocchia e piangere tutte le lacrime che ancora non aveva pianto? Perché solo ad incrociare il suo sguardo sentiva qualcosa sciogliersi dentro di sé, e il calore era così dolce che si sarebbe lasciata bruciare viva piuttosto che privarsene? Chiudere gli occhi non significava trovare la pace di un buio forzato, ma rivivere con metodica, precisa sofferenza ogni singolo istante che avevano condiviso assieme. I sorrisi separati solo da una scrivania e la brutta copia di un bancone, la consistenza ruvida delle sue carezze nell'incavo del collo, il rumore dei suoi respiri mentre dormiva, la gentilezza con cui le aveva scostato i capelli fradici di pioggia la fatidica sera in cui aveva attraversato ogni confine e infranto ogni regola per avventurarsi sull'insidiosissimo terreno di una felicità precaria al punto da implodere in se stessa, lasciandosi alle spalle un cimitero di speranze e possibilità infrante.
No, s'impose Viola con fermezza, non avrebbe permesso a se stessa di ripensarci, né tantomeno di sentirsi colpevole e triste. Raddrizzò la schiena e fulminò Enrico con un'occhiata di fuoco in cui sperò di riuscire a concentrare ogni singolo brandello di disprezzo le fosse rimasto in corpo. Fu una fortuna che, un attimo più tardi, un cameriere solerte attirasse la sua attenzione mettendole sotto il naso una margherita ancora fumante. Perché se avesse indugiato solo una frazione di secondo in più avrebbe avuto modo di vedere il volto di Enrico incupirsi di un dolore che non avrebbe tardato a riconoscere, perché identico a quello con cui lei stessa conviveva e faceva i conti da settimane.

 



 


Credo sia giusto dirvelo, non sono una persona costante negli aggiornamenti.
Tanto più che il tempo a mia disposizione da dedicare alla stesura di questa trama già delineata è quel che è; la pubblicazione di fatto è un tentativo di stimolo nei miei confronti per darmi una mossa e portare a casa il racconto.
Se nonostante queste tristi promesse deciderete di rimanere su questa barca, non posso fare a meno di augurarvi una buona lettura. E ringraziarvi di cuore.
Chiara

 

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


 


I

Quattro mesi prima

 

« Salve! » trillò Viola allegramente, alzando lo sguardo dal computer e precedendo di qualche attimo il saluto della signora che arrancava in cima alle scale con addosso una vecchia canottiera scolorita e degli orrendi pantaloncini corti sformati.
« Ciao stellina » ricambiò questa, allargando un sorriso sbilenco e facendosi aria con una mano nel tentativo di riprendere fiato prima di arrivare alla reception.
Faceva caldo per essere fine settembre, e dal grande lucernario spalancato sul soffitto piovevano raggi di sole che rimbalzavano sul pavimento bianco, raccogliendosi in una polla di luce quasi accecante sulle piastrelle ben pulite. Oltre il vetro opaco, il cielo era di un azzurro porcellana, senza una sola sbavatura di nubi, e parlava di un pomeriggio ozioso da trascorrere in riva al mare, non nel caldo umido soffocante che saliva impietoso dalla piscina al piano di sotto.
« Eccoci qui, anche quest'anno » fece la nuova arrivata, lasciando cadere pesantemente il borsone a terra per sporgersi non verso la ragazza seduta dietro la scrivania, ma verso il sottilissimo spiffero d'aria che il ventilatore soffiava via con un ronzio sofferente « Sicura di voler stare così vicina a quel coso? Sembra stia per esplodere, da un momento all'altro. »
« Guardi, piuttosto che patire il caldo correrò il rischio! » Viola si strinse nelle spalle, maledicendo per l'ennesima volta l'orribile polo verde acido che era costretta ad indossare.
Non solo il colore non le stava per niente bene, facendola sembrare molto più pallida di quanto già non fosse dopo un'estate trascorsa china sui libri, ma la qualità della maglia era talmente scarsa che aveva come l'impressione indossare plastica pura, e non il presunto cotone che aveva creduto fosse ad una prima occhiata.
« Non posso darti torto... » convenne la donna, premendo la fronte contro il palmo della mano grassoccia e poi tirando indietro l'infelice frangetta che da anni si ostinava a portare. Senza commentare, Viola sorrise e si concesse l'ennesimo sorso d'acqua. Era relativamente presto, con un po' di fortuna e la collaborazione del computer si sarebbe sbrigata con l'iscrizione in meno di dieci minuti, rubando un po' di tempo a quel che restava del suo turno per dare una letta agli appunti di Economia dello Sviluppo portandosi un po' avanti con il ripasso.
« Allora, se gentilmente mi compila questo modulo, io vedo di stampare la quota associativa e... »
« Sempre trenta euro? »
« Sempre trenta. Sempre corsi fitness? »
« Si, stellina. »

Le avessero dato cinque euro di premio per ogni cliente di cui ricordava, da un anno all'altro, non solo il nome ma anche i corsi frequentati, sarebbe stata ricca.
Aveva iniziato a lavorare in quella palestra un po' per caso e un po' per necessità, quando i suoi genitori le avevano detto di non potersi permettere di pagarle niente di più che le tasse universitarie e l'affitto del minuscolo monolocale dove si era trasferita dopo sei mesi da incubo in un appartamento sovraffollato da individui con un altissimo tassi di quella che lei era solita definire “stronzaggine acuta”. Dopo due settimane di isteria pura passate a tentare di capire dove le sue cose sparissero, chi facesse colazione con i suoi cereali e perché qualcosa di rosso era finito nell'unica lavatrice che avesse mai fatto tingendo di rosa tre quarti dei suoi indumenti, l'idea che la convivenza con altri studenti non era cosa per lei si era fatta strada tra le svariate ipotesi di omicidio e suicidio cui si dedicava con stacanovismo assoluto prima di andare a dormire, optando per l'una o l'altra a seconda del grado di disperazione con cui la giornata si concludeva.
Il monolocale lo aveva trovato per caso, spulciando tra gli infiniti annunci appesi un po' per tutta l'università nelle infinite ore in cui preferiva bighellonare in giro piuttosto che rientrare a casa, ed era stato amore a prima vita. L'affitto, invece, non era piaciuto a nessuno. Tantomeno ai suoi genitori che avevano sganciato la bomba nel bel mezzo del semestre, a contratto firmato e trasloco faticosamente ultimato. E dal momento che rinunciare non era un'opzione considerabile, sfogate rabbia e lacrime e ingurgitati innumerevoli barattoli di Nutella, si era rimboccata le maniche e aveva deciso di trovarsi un lavoro.

« Mensile, vero? » indagò per sicurezza, mentre la stampante sputava fuori due identiche copie della quota d'iscrizione di Diana Columbo.
« Si, stellina. E pago con il bancomat. »
« Ecco qua: iscrizione, mensile e tesserino. Per pagare con il bancomat deve scendere giù e se si ricordasse di portarmi su lo scontrino mi farebbe davvero un gran favore.. » si sbilanciò in un ampio sorriso, nella speranza di rabbonire la reazione della donna che, puntualmente, esplose prima ancora riuscisse a terminare la frase. Cosa che succedeva succedeva, del resto, ad ogni inizio mese da quattro anni.
« Ma non è possibile, ancora non avete un bancomat qua su? Quanti anni sono che va avanti questa storia? È indecente costringere le persone a salire su per pagare e poi le si facciano tornare giù senza il minimo di riguardo! »
Si strinse nelle spalle con aria fintamente desolata, guardando la donna barcollare via e fermarsi davanti all'ascensore senza smettere di inveire nei confronti della discutibile gestione della palestra, dove veniva per far fatica durante i corsi e non per pagare i corsi. Cercando di non farsi vedere prese di soppiatto il cellulare e digitò rapida un sms all'unica persona che sapeva avrebbe apprezzato la sottile ironia della situazione. Le porte dell'ascensore non si erano ancora chiuse che Claudia, una delle sue migliori amiche, già le aveva risposto con una sonora risata.
Era stata proprio Claudia a farle sapere che nella palestra frequentata dalla madre cercavano una ragazza da impiegare alla reception: aveva colto la palla al balzo e non aveva esitato quando si era trattato di farsi dare una piccola spintarella. Dopo settimane girate a vuoto consegnando curriculum nei luoghi più strani, sentendosi proporre i lavori più indecenti e più sottopagati dell'intera città, era disposta a qualsiasi cosa pure di trovare un impiego con orari ragionevoli, in un edificio non fatiscente e con uno stipendio che le permettesse di sopravvivere compensando quello che i suoi genitori non erano più in grado di assicurarle. Tutto sommato, indossare una polo verde acido per quattro ore al giorno, cinque giorni alla settimana e qualche week-end ogni tanto, era un compromesso più che ragionevole per tirare avanti dignitosamente. E in assoluta libertà.

« Come va? »
Paola comparve al suo fianco, chiudendosi alle spalle la porta che dava sul ballatoio, reduce dalla lezione di Pilates appena conclusa. Responsabile della palestra e di tutti i corsi, trent'anni appena compiuti, capelli corti biondissimi e occhi di brace, la giovane donna trasudava energia da tutti i pori e mai una sola volta l'aveva vista accusare la stanchezza.
« Caldo... » si lamentò Viola con un sospiro, soffiando via una ciocca di capelli scuri con uno sbuffo. Neanche a tenerli legati trovava sollievo, e come sempre verso le sei di sera l'aria tornava a farsi irrespirabile in maniera irragionevole.
« Non dirmelo, oggi si muore. Tanta gente? » chiese senza aspettare risposta, acciuffando il cellulare e avviandosi verso i divanetti sistemati in un angolo della grande stanza, subito fuori gli ingressi degli spogliatoi.
« E' tornata la Columbo. »
« Puntuale come una disgrazia. » la bionda alzò gli occhi al cielo e sospirò, immergendosi poi in una fitta telefonata con il suo ragazzo, secondo uno schema che si ripeteva immutata dal primo giorno in cui aveva iniziato a lavorare: finiva la lezione, chiedeva come andava, telefonava. Metodica, ad ogni lezione, ogni giorno. C'era stato un periodo in cui, cinica come solo una single potrebbe essere, si era spesso chiesta cosa diavolo avesse poi di così urgente da dire ad un ritmo di sessanta minuti al colpo. Si era addirittura inventata un pretesto per andare a sbirciare una lezione, in un pomeriggio invernale di calma piatta, nel tentativo di capire se tra un esercizio di pilates e l'altro accadesse qualcosa di sensazionale che meritasse di esser raccontato.
Senza commentare, senza più stupirsi, Viola si abbandonò contro lo schienale di plastica della sedia, premendo le mani sugli occhi chiusi. Faceva troppo caldo e l'esame imminente la prosciugava di ogni energia. L'ultimo, poi sarebbe stata in pari giusto in tempo per l'inizio del nuovo semestre.
Studentessa di Scienze Politiche, laureata senza infamia e senza lode alla triennale in Relazioni Internazionali, aveva scelto la magistrale in Cooperazione e Aiuti allo Sviluppo con la consapevolezza che nella migliore delle ipotesi sarebbe finita a lavorare in un banca e, nella peggiore, in un call-center. Ipotesi che cercava di scacciare con tutte le sue forze, terrorizzata com'era al pensiero di parlare al telefono anche con sua madre, sforzandosi di mantenere una buona media con cui poter sperare di aspirare ad una lode al termine del percorso e avere qualcosa cui aggrapparsi per costruire un futuro. Le piaceva però pensare di poter lavorare, un giorno, per aiutare le persone.
Fino ad allora avrebbe venduto abbonamenti e ingressi per lo spinning, assicurandosi che almeno gli iscritti all'Associazione Fitness San Giovanni ricevessero tutto il suo aiuto possibile nella lotta ai rotolini di grasso.

« Ciao » la salutò qualcuno che invece non aveva alcun bisogno di aiuto per combattere i chili di troppo, strappandola all'avvincente lettura di un libro scritto troppi anni prima per poter essere anche solo vagamente comprensibile.
Viola raddrizzò la schiena come se avesse preso la scossa, incrociando gli occhi scurissimi di un giovane sulla trentina. Capelli castani, maglietta di cotone grigia e jeans, le sorrideva gentilmente porgendole un tesserino giallo e blu che prese sforzandosi di tenere le dita ferme e, sopra ogni altra cosa, di non arrossire. Alle spalle del giovane fecero la comparsa altri quattro visi, similissimi tra loro nei modi e nell'espressione, intonando tutti lo stesso identico, svogliato, saluto.
« Oh, Enrico, stai di nuovo tentando di farti fare lo sconto? » lo canzonò uno, l'unico biondo, slargando un sorriso vagamente lascivo mentre le porgeva a sua volta il tesserino. Fingendo di non ascoltare, Viola segnò l'entrata e cancellò il nome di entrambi dall'elenco che occupava buona parte della scrivania in virtù del raccoglitore gigante dove era stato pinzato.
« No, Gian, sei tu quello che elemosina sconti. » s'intromise il terzo, tale Marco Benvenuti che sorrise e scrollò le spalle indifferente quando gli fece notare come gli mancassero solo due ingressi prima di terminare il blocchetto.
Enrico rise per qualcosa che Viola non aveva colto, e il cuore della ragazza perse un colpo.
Sapeva di essere arrossita senza motivo, sentiva le guance incandescenti e sapeva che se avesse sollevato lo sguardo dal quaderno delle prenotazioni la situazione sarebbe irrimediabilmente precipitata. Mentre scalava gli ingressi agli ultimi due, per un attimo, ebbe persino l'illusione di averla scampata.
« Senti, ma... »
Lo fece senza pensare, alzando il volto verso Enrico in un riflesso automatico.
E lo ritrovò vicino, un gomito appoggiato al bancone e il volto abbandonato nel palmo di una mano. Era abbronzato e negli occhi custodiva il brillio implicito di un sorriso mai completamente spento, sulle braccia il rilievo dei muscoli era segnato da una soffice peluria bionda, schiarita dal sole. Contrasse le dita in uno spasmo automatico, trattenendosi dall'allungarle in una carezza.
« Si? » indagò invece, vagamente stridula, stordita dalla vicinanza e dalla nuvola di profumo muschiato che l'avvolse consumando rapidamente tutto quel poco d'aria che le era rimasto in petto. Si sentiva esattamente come quell'unica volta in cui si era concesso il lusso di fumare una sigaretta, ad un capodanno di tanti anni prima. Dopo il primo tiro la testa le era diventata improvvisamente leggera, rispondendo al rapidissimo consumarsi d'ossigeno, e si era sentita come senza peso. Intontita, frastornata. Incantata.
« C'è mica posto per giovedì? »
No, non c'era posto. Lo sapeva, aveva già controllato nel primo pomeriggio quando un cliente aveva chiamato per chiedere la stessa cosa. Eppure girò le pagine senza fretta, scrutando le date come se le vedesse per la prima volta, e quando corrugò la fronte dispiaciuta confermando che no, posti proprio non ce ne erano, il suo dispiacere era sincero. Il giovedì, in fondo, era di turno.

**

« Sei scandalosa! » strepitò Giada, in preda alla convulsione per le troppe risate, scomparendo momentaneamente dallo schermo del computer.
« La webcam, è precipitata di nuovo. » sbuffò Viola, mentre rimpiccoliva la finestra di skype e apriva Facebook con un click annoiato in attesa che l'amica ricomparisse e prendesse posto del nero pesto comparso al posto del suo viso.
« E quindi quando lo rivedi? » si sentì chiedere da una voce cavernosa, tanto da distoglierla dalla nuova, orrenda foto profilo di una sua ex compagna di classe del liceo.
« ...Giada? » indagò prudentemente, allarmata dai rumori che gracchiavano dagli altoparlanti del computer « Tutto bene? »
Ci fu come uno strappo, un'imprecazione, poi il viso rotondo dell'altra ricomparve, tutto occhi azzurri e capelli biondi perennemente raccolti.
« Non cambiare discorso, Violetta. »
« E tu non chiamarmi Violetta. Comunque si, l'ho pensato davvero e non me ne pento. Dovresti vederlo, è così... »
« ...figo! » sospirò la bionda, sbattendo le ciglia con aria teatrale « Lo so, ogni lunedì è sempre la stessa storia. »
« Non credere che il fatto di essere a Roma ti garantisca di prendermi per il culo così impunemente! » s'indignò la mora, passando una mano tra i capelli e strattonando le dita rimaste puntualmente impigliate tra i nodi. « Dovrei tagliarli. » riprese, liberandosi finalmente dalla trappola mortale di ciocche troppo lunghe e troppo annodate.
« Dovresti, almeno un po' » convenne Giada, avvicinandosi allo schermo come cercasse di valutare da sé, attraverso la scarsa qualità della webcam, le condizione delle doppie punte dell'amica « Sono decisamente orrendi. »
« Tu dovresti proprio piantarla, sei troppo esuberante questa sera e sai benissimo come gli insulti a distanza non mi riescano! »
« Smettila, quando ti arrabbi diventi tutta rossa e non sei affatto carina. »
« GIADA! »
« VIOLA! »
Si guardarono, una a Trieste e l'altra nel cuore della capitale, fronteggiandosi in silenzio. Poi, scoppiarono a ridere.
Si erano conosciute quattro anni prima, il primo giorno della triennale, quando avevano condiviso un seggiolino sbilenco in un'aula troppo affollata, e ben presto aveva scoperto di condividere la stessa identica, atroce dipendenza dal caffè. Di caffè in caffè l'amicizia si era cementata da sé nel corso del tempo, e neppure la lacrime piante in aeroporto quando la bionda era partita per frequentare la magistrale in Scienze Diplomatiche a Roma erano bastate ad indebolire il loro rapporto.
« Dovresti parlarci però.. » si riprese Giada, sventolando le mani davanti al volto « Con il ciclista, dico. Parlaci, se ti piace così tanto. »
« Ma ci parlo! Quando deve comprare gli ingressi per lo spinning, gli chiedo se ha convenzioni valide con la palestra e quanti ne vuole comprare. » disse Viola, fingendo di non aver capito cosa l'amica stesse tentando di consigliarle.
« ...e poi ti stupisci pure di essere single! »
« Giada, siamo serie per un attimo. Ok, è divertente parlare di lui, fare finta che sia l'uomo a cui vorrei dare dei figli, pensare che davvero ci sia la possibilità che succede qualcosa. È un sacco divertente, sicuramente mi da qualcosa di bello su cui rimuginare quando non ne posso più di studiare, ma oltre questo c'è ben poco, te l'assicuro. Ho come il sospetto sia a malapena consapevole della mia esistenza, l'altro giorno mi ha chiamata Sara. Sara! Che tipo è la persona che meno mi somiglia sulla faccia della terra! »
« L'è un fià zocco.1 » commentò caustica Giada, inarcando le sopracciglia bionde. Dall'altra parte dello schermo, Viola affondò il viso tra le mani e sospirò, corrucciandosi in una smorfia impensierita.
« Però se a te piace.. »
« No, non lo so se mi piace. E' bello da vedere, questo si, e ha pure una bellissima voce, ma finisce qui. » decretò la mora con fermezza, stringendosi nelle spalle.
« Viola. »
« Non dirlo, per favore, lo so. »
« Viola, io devo perché ogni volta te ne dimentichi o fingi di non sapere e sappiamo benissimo cosa succede poi. »
La mora sporse il labbro inferiore e finse di piagnucolare un po', nel tentativo di impietosire l'amica e non farle dire che
« Tu t'innamori della voce, prima che della persona. »
Un tonfo sordo accompagnò la testa di Viola mentre precipitava sulla scrivania.
« E non fare queste scenate, lo dico per te! » proseguì Giada imperterrita.
« E tu non storpiare la grammatica italiana, non si mette due volte il soggetto in una frase. » brontolò, raddrizzando la schiena e guardando lo schermo; sporse il labbro inferiore in una pantomima di pianto, strappando alla bionda un sorriso. Rimasero in silenzio per un po', mentre fuori dalle finestra alle spalle dello schermo del computer di Viola la notte riluceva timidamente delle luci dei condomini e, più in là, si accendeva intermittente il faro.
« Quindi giovedì prossimo, insomma. » riprese, intonando il ritornello preferito delle loro ultime conversazioni da un paio di settimane.
« Sissignora! »
« Bon, allora vedo di recuperare il resto della truppa e ti veniamo a prendere noi con il benestare della signora Madre. Adesso devo proprio andare, il ripasso chiama e ho l'ansia già adesso. »
« No ansia, andrai bene! »
« Si, andrò al martirio e cercherò di uscirne con almeno un briciolo di dignità addosso. » una pausa, poi « Mi spiace che ti perdi il compleanno di Max, però! »
« E che ti devo dire, padrona Luiss non perdona ed è già un miracolo che riesca a scendere per la Barcolana guarda. »
« In effetti.. »
« Dai, ti lascio studiare.. un bacio pupiz, ci vediamo tra una settimana! »
Viola fece ciao con la mano un paio di volte, fino a quando Giada non interruppe la conversazione, e sospirò. Tra una minaccia e l'altra si era dimenticata di dirle che era vero, giovedì non c'erano posti liberi, ma che venerdì invece ne era rimasto uno. E quell'unico posto se lo era aggiudicato Enrico. Sorrise mentre il computer si spegneva e tirò sulla scrivania la pila di libri e appunti, preparandosi psicologicamente ad una eterna notte di ripasso.

**

« Ho una faccia che fa schifo » esordì la mattina dopo, sballottolata tra le impossibili curve che l'autobus affrontava senza rallentare e le troppe persone stipate al suo interno. Mia, al suo fianco, sollevo il viso contratto in un'espressione sofferente.
« Io ce l'avevo una faccia decente da mostrare al mondo, quando sono uscita, ma inutile dire che la lascerò tutta in questo 'bus. »
« Vorrà dire che saremo brutte assieme » Viola si strinse nelle spalle, strattonando la tracolla della borsa con un gesto automatico e premendo la fronte contro il vetro lercio della vettura. La città filava veloce, arrampicandosi lungo i profili tutt'altro che dolci che facevano da preludio al Carso subito dietro, lasciando intravedere sprazzi di mare scintillante tra i tetti delle case. Pensare a quanto sarebbe stato bello farsi accompagnare a lezione al mattino le venne spontaneo, e si ritrovò a sorridere al pensiero di una canzone di sottofondo e un bel viso abbronzato al suo fianco da baciare e a cui augurare una buona giornata.
« Ho sentito Giada ieri » prese a dire, nel tentativo di scacciare via ogni rossore inopportuno che già sentiva invaderle la faccia, mentre si aggrappava ad un sostegno metallico e l'autobus inchiodava spalancando le porte e riversava in strada una fiumana di gente. Tenendosi strette le borse che minacciavano di essere trascinate via dalla piccola folla, Viola e Mia tirarono un sospiro di sollievo quando – per il tempo di una fermata soltanto – poterono finalmente tornare a respirare.
« Ma va! Come sta? Dovevamo sentirci sabato ma tra una cosa e l'altra non abbiamo fatto in tempo.. »
« Oh, sta benone. Era particolarmente in forma ieri, una frecciatina dopo l'altra! » sbuffò, assecondando la seconda frenata e poi scendendo i tre gradini che la separavano dal marciapiede.
« Scommetto che ha avuto da ridire sul ciclista. » Mia sorrise, con aria furba, e la precedette di qualche passo verso la scalinata che si arrampicava fino al grande piazzale antistante l'edificio centrale dell'Università. Tutta presa a sistemare la sciarpa al collo, Viola ci mise qualche attimo a cogliere la battuta.
« Finirà che non vi racconto più niente, siete delle stronze di proporzioni epiche. Io vi confido questa cotta assolutamente imbarazzante confidando nella vostra comprensione e voi mi ripagate rinfacciandomela ad ogni occasione! » sbottò in ritardo, inseguendo la figura minuta di Mia che risaliva i gradini di buona lena. Il caschetto di capelli biondo platino brillava nel sole mattutino, come a voler contrastare l'abbigliamento totalmente nero che la ragazza indossava con disinvoltura nella bella giornata di fine settembre.
« Perché un conto è confessare, un conto è tartassare! » rise questa, voltandosi per regalarle un sorriso radioso. Viola sapeva, senza aver bisogno di vederli oltre la sfumatura scura degli occhiali da sole, che gli occhi della amica ridevano senza cattiverie, verdi e dolci come acini d'uva.
« Lavori stasera, comunque? »
« Stacco alle nove e mezza, perché? Non ditemi che avete organizzato un ennesimo aperitivo politico! »
« L'idea era quella, ma nessuno mi risponde. Dovresti venire una sera però, tutto quel cloro ti sta facendo diventare una vecchia babbiona. »
« Ne riparliamo dopo un caffè » chiosò Viola senza grazia, incupita.
Odiava gli aperitivi politici.
Odiava trovarsi costretta a stare in mezzo a persone ubriache di vino che gridavano ai quattro venti le loro prodezze del sabato sera, si mettevano in imbarazzo dimostrandosi di incapaci di restare in piedi e soprattutto si riempivano la bocca di insulti e bestemmie per le ragioni più stupide, dando conferma alla regola che voleva la futura classe politica del paese esattamente identica a quella che l'aveva preceduta. Intrisa di volgarità, arroganza e assoluta mancanza di buon senso e umiltà. Ma più di ogni altra cosa odiava gli assistenti che si univano a loro e non mancavano mai di condividere le esperienze di altissimo valore culturale che avevano modo di fare viaggiando per l'Europa a spese dell'ateneo – cioè a spese sue, con i soldi che regolarmente versava per la retta ogni sei mesi – e che la facevano pentire di non aver mai appoggiato l'uso della violenza, cosa che per coerenza le impediva di spaccare loro in testa bicchiere e brocca pur di farli tacere.
Stava ancora rimuginando, assorta nel tentativo di estrapolare una scusa che non avesse già utilizzato, quando il viso sorridente di una barista fece la sua comparsa, porgendole il primo caffè della mattinata. La ringraziò con un cenno e tornò al tavolo già occupato da Mia e da un ragazzo alto e magro, capelli raccolti in uno stretto codino e grandi occhi azzurri; prevenne entrambi, alzando una mano e imponendo il silenzio.
« Zitti voi, non voglio sapere perché dovrei venire questa sera! » esordì, rompendo la prima bustina di zucchero che guardò affondare nella schiuma spolverata di cacao.
« No, in realtà stavamo parlando del fatto che dovremmo prendere un regalo a Max » la corresse il ragazzo, allungando una a scompigliarle i capelli con affetto « Ma già che ci siamo in effetti potremmo effettivamente discutere le infinite ragione per cui stasera potresti farci onore con la tua presenza... »
« Prima tra tutte il piacere della nostra compagnia! » le fece notare Mia, lo sguardo verdissimo acceso da uno scintillio divertito e attento a seguire il pigro rimestare del cucchiaino di Viola che, colta in contropiede, sospirò.
« Se la mettete così, prometto di farci un pensierino.. » si arrese, concedendosi un morso di brioches.
« Un pensierino su cosa? » s'intromise una voce alle sue spalle, femminile « Sul fatto di parlare una volta tanto con il ciclista invece di ammorbare noi? »
Lucrezia abbracciò Viola, affondandole il mento tra i capelli, come a voler farsi perdonare per il commento infelice. Capelli ramati e occhi scuri sempre perfettamente truccati, da quando aveva messo piede nel bar si era già guadagnata le occhiate compiaciute di una decina di ragazzi ma, inconsapevole della sua bellezza, non vi aveva neppure fatto caso. Scostò una sedia, facendosi spazio, e raccolse in punta di dita una briciola che portò alle labbra un attimo più tardi.
« Non ti ci mettere anche tu, Lù »
« No invece, ha ragione! » le fece notare Mia « Sarebbe proprio il caso che tu trovi il coraggio di dirgli qualcosa, abbiamo davanti due interi semestri di lezione e non ho intenzione di sentirti blaterare di bici, abbonamenti e su quanto sia sempre bellissimo e abbronzato. No, Matteo? » concluse, rivolgendo un'occhiata eloquente al ragazzo che aveva seguito lo scambio con aria palesemente spaesata.
« Chiaro. Non ho idea di chi sia questo ciclista ma sono d'accordo. » convenne lui senza troppa convinzione, incrociando le braccia sul tavolo e guardando Viola come a volerla invitare ad approfondire il discorso. Questa mugolò sconfortata, imbronciandosi.
Sarebbe stata una lunga, lunga, lunghissima giornata. Ed era appena cominciata.



 


1 Letteralmente, "è un po' duro", di lenta comprensione.
Arieccoci! Visto che il terzo capitolo ormai può dirsi concluso, non vedo perché non aggiornare. 
Sono un po' di corsa - in realtà sto rubando la connessione al lavoro lol! -, quindi lascio un bacio grande alle mie due splendide lettrici e vi ricordo che, per aggiornamenti, basta un mi piace alla mia pagina facebook. Creata in un momento di megalomania appena ieri. Ok, vado a nascondermi, cieu <3

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Capitolo 3
*** Capitolo due ***



II

 
Erano le cinque del pomeriggio e il sole già stava tramontando.
Oltre lo spiraglio socchiuso del grande lucernario riusciva a intravedere il cielo, i filamenti di nubi trascinate dal vento sullo sfondo azzurrissimo del pomeriggio inoltrato, e i disegni caotici degli stormi di rondini agitati dall'incombere dell'autunno. Gli ultimi strascichi d'estate erano affogati negli acquazzoni che per due giorni avevano sciolto in fanghiglia le speranze dei più tenaci, scacciando il velo dell'afa tardiva della città che, assieme al sole, aveva accolto i primi refoli di un vento freddo e trasparente come vetro e i colori sgargianti di un incendio di foglie accesosi sugli alberi.
Nonostante l'umido della piscina dietro le porte chiuse che davano sul ballatoio, Viola riusciva già a sentire il pizzicore fresco dell'aria frizzante al di fuori mentre rinnovava l'abbonamento ad una signora dagli occhi gentili poco prima dell'inizio della lezione successiva.
« Senza convenzioni sono cinquantadue euro » le ricordò, alzando lo sguardo dallo schermo del computer mentre la stampante iniziava a ronzare, risucchiando nei suoi meccanismi due fogli. Ne porse uno alla signora, prendendo in cambio il tesserino e cancellando con un pallino nero il quadratino nero dove in obliquo stava scritto “ottobre”.
« A posto, fatto tutto. » sorrise nel restituirglielo e mentre la donna la ringraziava e si avviava verso lo spogliatoio alla sua destra gettò un'occhiata rapida al cellulare che aveva trillato, annunciando un nuovo messaggio. Lo raccolse, trascinando l'indice sullo schermo e aprendo la piccola busta dove Lucrezia aveva chiesto a che ora sarebbe dovuta passare a prenderla.
Ti scrivo quando arriva Sara, poi tu conta almeno mezz'ora.” digitò rapida, mentre una testa mora entrava nel suo campo visivo: Lara, l'istruttrice di spinning, le fece ciao con la mano.
« Ma tu non avevi una festa di compleanno, oggi? » le chiese, gli occhi chiari vagamente perplessi. Piccolina, trentacinque anni al massimo, era un grumo unico di muscoli e energia, impazienza e sorrisi miti.
« Si, ma devo aspettare che arrivi Sara per mollare la scrivania! »
« Ahhhhh, capisco! In ritardo? »
« Secondo te...? »
L'istruttrice rise, raccogliendo i capelli neri in una coda e scoprendo il collo dove un piccolo tatuaggio faceva capolino giusto dietro l'orecchia destra.
« Chi ho 'sta sera? » cambiò discorso, senza commentare, incrociando le braccia sul bancone.
« Mh, i soliti penso.. » fece Viola, vaga, allungandosi verso il quaderno ad anelli delle prenotazioni dove, tra tutti nomi ordinatamente segnati, uno in particolare le strappò un sospiro silenzioso.
Venerdì era arrivato prima di quanto immaginasse, il finale tanto atteso di una settimana dove il culmine d'emozione c'era stato il mercoledì sera quando il temporale l'aveva sorpresa lungo la via di casa e l'aveva inzuppata fino al midollo. Il solo pensiero di intravederlo, di incrociarlo per il tempo di un saluto mentre correva – in ritardo, già poteva immaginarlo – a cambiarsi promettendole di mostrarle il tesserino a fine lezione era una prospettiva che dava all'intera giornata una luce migliore. Si chiese se il vento gli avrebbe arrossato il volto, se l'avrebbe riconosciuta o se l'avrebbe scambiata per la sua collega come era accaduto due settimane prima.
« Guarda, l'unica aggiunta è uno dei nuovi dei lunedì » disse a Lara, alzando gli occhi dalle pagine sporche di scarabocchi ai margini « Tale Enrico. »
« Ahhhh, vero! Mi aveva scritto che sarebbe venuto, ma pensavo avesse sbagliato giorno come suo solito. »
« Perché, è uno che sbaglia giorno? » rise Viola, fingendo un disinteresse che non le apparteneva. L'idea di mettere assieme piccoli pezzetti di lui, componendo i contorni di una persona di cui non conosceva altro che il nome e qualche dato anagrafico, era un gioco troppo invitante per non partecipare, per non lasciarsi coinvolgere. A impedirglielo però fu Sara, la coetanea con cui divideva i turni e la scrivania, che tutta trafelata salutò entrambe lanciando la borsa a terra.
« Scusa, scusa, scusa, ti giuro che sono uscita di casa in tempo, ma è successo un casino che non puoi capire. » tentò di giustificarsi senza respirare tra una parola e l'altra. Il viso arrossato e gli occhi lucidi, bui di un nero fitto, suggerivano una corsa recente, l'affanno di qualcuno poco abituato agli scatti improvvisi. Si premette una mano sul petto, mentre con l'altra tirava giù la zip della giacca di pelle.
« Respira Sara, ti prego! » la pregò ridendo, infilando in una busta di plastica le ricevute stampate e i contanti incassati « Tanto c'è poca gente ancora, e quelli dello spinning te li becchi tutti tu! » le fece una linguaccia, sventolandole un saluto e arraffando la borsa posata su una sedia vuota. L'altra ragazza si lasciò cadere seduta, annuendo.
« E poi dici a me che sono fuori forma! » esclamò Viola ferma sulla soglia dello spogliatoio, alla volta di Lara che rise rumorosamente e scosse il capo un paio di volte.
« In effetti non so chi tra voi due sia presa peggio. » fu tutto ciò che sentì, prima che la porta si richiudesse docilmente.
 
Passò una mano sul vetro appannato dell'unico specchio del bagno, trovandosi a ricambiare l'occhiata perplessa di una ragazza con gli occhi cerchiati di nero. Incarnato pallido, una cascata di ciocche umide che si riversava oltre la linea morbida delle spalle poco poco incurvate da una postura sbagliata, Viola sapeva di non essere bellissima mentre da un piccolo beauty tirava fuori delle salviettine struccanti e se le passava del viso con gesti spicci, metodici, abituali. Era carina tutt'al più, rifletté appallottolando la pezza intrisa di struccante per lasciarla cadere nel cestino accanto al lavandino.
Mancava della dedizione di Lucrezia, sempre in ordine e sempre curatissima, e non aveva il senso dello stile di Mia che sapeva abbinare chiffon e borchie con una facilità che riconosceva in se stessa solo nell'atto di addentare un trancio di pizza bollente; né tantomeno poteva dire di condividere l'aria da cucciola di Giada o la ferma sicurezza che a Claudia permetteva di muoversi con disinvoltura in qualsiasi ambiente, divorando chiunque attraversasse la sua strada con incredibili occhi grigi da gatta. Al contrario delle sue amiche era timida, un po' goffa, e per niente eccezionale; tra rame, diverse sfumature di biondo e nero corvino i suoi capelli castani non attiravano l'attenzione, né erano d'aiuto gli occhi nocciola. Miopi per di più, constatò con una smorfia dopo aver dovuto raccogliere una lente a contatto dal bordo del lavandino.
Come per tutto nella sua vita, se voleva qualcosa doveva combattere fino all'ultimo per ottenerla. Anche se questo significava litigare con i suoi capelli nello spogliatoio di una palestra miracolosamente deserto, tra nubi di vapore che neppure la finestra spalancata in un angolo sapeva dissipare: affondò il pettine tra le ciocche, tirando con violenza fino a quando la maggior parte dei nodi non si arrese alla sua tenacia, poi – cuffiette e ipod alla mano – attaccò il phon e si preparò a morire di caldo.
Con gli anni era migliorata, se non altro, imparando a convivere con i capelli indomabili e occhiali dalle lenti mai sottili abbastanza, presto abbandonati in favore delle lenti a contatto che le avevano permesso di mostrarsi al mondo con occhi grandi, forse banali nel colore, circondati da folte ciglia scure. La libertà economica, poi, le aveva permesso di abbracciare un'alimentazione più sana e dire addio alla pancetta che era stata croce e tormento dei suoi anni al liceo, nonché di affrontare una lotta serrata con un guardaroba pazientemente rinnovato mese dopo mese, un capo alla volta, con quello che riusciva a risparmiare d'ogni stipendio.
Era stata brava, si concesse sorridendo al suo viso riflesso e circondato da capelli scuri che ricadevano sulla casacchina nera di tessuto leggerissimo, quasi trasparente, a sfiorare la curva acerba dei seni racchiusi nelle coppe scure del reggiseno.
Non era bella ma aveva imparato a vendersi bene, sfumando l'ombretto per dare profondità agli occhi e delineandone la forma con matite scure, soffocando le ciglia di mascara e dipingendo le labbra con un rossetto tenue. Che poi fosse troppo pigra per costringersi ad affrontare un calvario simile ogni mattina era un altro paio di maniche, lo aveva capito il giorno in cui Lucrezia le aveva confessato di svegliarsi alle sei del mattino per arrivare impeccabile a lezione alle nove, capelli arricciati e trucco mai sbavato, e lei l'aveva guardata come se le avesse appena confessato di aver ucciso madre, padre e cane senza subire conseguenze.
No, decisamente preferiva di gran lunga essere così come era: senza fronzoli e senza pretese, con qualche picco nelle giuste occasioni che faceva sempre piacere sfoggiare.
Si rialzò dalla panca di cui si era appropriata più alta di dodici centimetri esatti e mise alla prova il suo equilibrio con qualche passo misurato. Appurato che non sarebbe precipitata a terra rompendosi l'osso del collo, raccolse alla meno peggio i jeans e la polo verde acido appallottolati in un angolo, spingendoli a forza nel sacchetto di carta assieme a spazzola tonda e trucchi, e diede un'ultima controllata sbirciando lo specchio poco più in là: la casacchina cadeva morbida a celare quasi completamente gli shorts neri di cui si intravedevano solo gli orli, calze scure le fasciavano le gambe e scomparivano all'altezza della caviglia dentro un paio di stivaletti in pelle dal tacco sottile. Alta e slanciata dai tacchi vertiginosi persino per i suoi standard – era stata Mia a costringerla a comprarli, quando lei invece era uscita per comprare un paio di scarpe da indossare tutti i giorni – sembrava più magra di quanto non fosse; i capelli cadevano una volta tanto nel modo giusto e non si era impiastricciata troppo con il mascara. Poteva andare.
« Ta-dan! » si annunciò squillante, spalancando la porta dello spogliatoio che andò a sbattere contro la parete vicina. Tre teste si voltarono a guardarla, in un silenzio così assoluto e così infinito che quando Sara finalmente si accorse delle occhiate imploranti che Viola le stava lanciando e schiuse le labbra per dire qualcosa, questa era già avvampata di imbarazzo.
« Ehm... »
Desiderando ardentemente di poter sprofondare al centro della terra seduta stante, Viola rivolse un sorriso cortese e un cenno di saluto al padre di famiglia – abitué dello spinning del venerdì, che ora la fissava con gli occhi fuori dalle orbite dimenticando di avere una figlia di vent'anni a casa – tentando di recuperare la situazione.
« Stai molto bene » la rassicurò Lara con un sorriso, afferrando la borraccia e staccandosi dal bancone con un colpo di reni « Bella borsa! »
« Belle gambe! » commentò invece Erik, allenatore della squadra di pallanuoto, scoccandole un'occhiata di apprezzamento prima di scomparire giù per le scale che scendevano al piano vasca. E a giudicare da come Franco Adige, classe 1954, continuava a guardarla, il pensiero era più che condiviso. Ci pensò Lara a richiamarlo all'ordine, mandandolo a cambiarsi con una battuta pungente e avviandosi a sua volta verso la scale. Viola incrociò le braccia sul bancone, senza sapere se ridere o piangere, e ne riemerse solo quando ricordò di dover chiamare Lucrezia per farsi venire a prendere: si immerse nella borsa fino ai gomiti, frugando alla ricerca del cellulare che già stava squillando.
« Non dire niente, lo so, sono imperdonabile! » esordì parlando in fretta, senza lasciar tempo all'amica di poter dire qualsiasi cosa « Ma sono anche pronta, per cui quando vuoi passa pure a raccattarmi. »
Tacque per qualche istante, tornando ad allungare un braccio nella borsa alla ricerca del portafoglio, ascoltando Lucrezia recriminarle la distrazione.
« Si, si, lo so, scusami » riprese « Ok, ti aspetto qui, tranquilla. A poi, ciao, ti voglio bene. »
Chiuse la telefonata alzando gli occhi al cielo e dalla tasca delle monetine tirò fuori una collanina sottilissima, con un piccolo ciondolo d'argento a forma di paperella. La fece dondolare davanti al viso della ragazza seduta alla scrivania.
« Saretta, mi dai una mano un attimo? »
« Te la do io una mano, senza che lei si alzi. »
Viola non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere la persona a cui la voce apparteneva.L'aveva immaginata, sognata, rievocata senza mai stancarsene, ubriacandosi di fantasticherie innocenti al punto da esserne stordita, al punto da non sapere più dove la realtà cedesse il passo alla sua immaginazione. Ma la realtà si era rivelata molto più dolce, molto più densa, la realtà era miele scuro, viscoso, e affondarci le dita significava non liberarsene più, significava morire di quella troppa dolcezza e farlo con il sorriso sulle labbra.
A parlare era stato Enrico.
Era arrivato mentre lei finiva di prepararsi, o così supponeva mentre cercava di ignorare il calore improvviso che le si arrampicava dal collo al volto e si girava a fronteggiarlo ostentando una sicurezza inventata sul momento, fragilissima e tangibile solo nei limiti del sorriso che aveva sulle labbra dipinte. In quello suonò il telefono della reception, cui Sara rispose prontamente.
« Non ti secca? » fece invece Viola, aggrottando le sopracciglia e allungando la collanina verso di lui che, pantaloncini e maglietta, le aveva mozzato il fiato in gola senza concederle aria neppure per respirare.
« Ma ti pare? »
Vederlo sorridere fu una pugnalata imprevista quanto il brillio improvviso dei suoi occhi, saldi in quelli di lei. Scuri, bui, senza fine e senza fondo, ma sotto sotto buoni, screziati di luce e gentilezze improvvise.
« Ad una condizione, però. » fece Enrico prima che Viola potesse riprendersi e ribattere.
« Cioè? »
« Ti aiuto se mi dici dove te ne vai, così elegante. »
Viola inspirò bruscamente, stordita e stupita.
« Prego? » chiese invece, spalancando gli occhi in due pozze buie.
« Dove vai di bello? Dubito tu sia venuta così tirata qui per il piacere dei nostri occhi, no? »
Annuì debolmente, incantata, ma prima di poter dire effettivamente qualcosa lui la prevenne con una risata.
« Questa palestra è migliore di quel che pensavo se nel servizio è inclusa anche la bella vista! » le fece l'occhiolino, posandole una mano sulla spalla destra per invitarla a girarti « Dai, fatti mettere questa. »
Aveva dita gentili e ruvide esattamente come la voce. Viola chinò il capo e sollevò le braccia per raccogliere i capelli tra le mani, permettendogli di cingerle il collo con il sottilissimo filo d'argento e una carezza involontaria cui reagì con un brivido.
« E' il compleanno di un mio amico, » si sentì in dovere di spiegare, libera dal giogo insostenibile del suo sguardo, nuovamente capace di respirare « Cioè, vado alla festa di compleanno di un mio amico. »
« Amico fortunato, insomma » lo sentì biascicare, mentre strattonava impercettibilmente la collanina tagliandole il collo per una frazione di secondo, litigando con la piccolissima chiusura.
« È solo un amico » si ritrovò a specificare Viola con un sussurro impacciato quanto le dita di lui che, finalmente, alleggerirono la presa e indugiarono qualche attimo sulla nuca scoperta, nella carezza bollente con cui sistemarono la collana e sospinsero il ciondolo verso il petto della ragazza.
« Fortunato lo stesso a poter vantare un'amica bella come te. » fu il commento leggero che l'accolse quando si voltò e, in una improvvisa vampata di spavalderia, piroettò per lui con una grazia che non aveva saputo di possedere fino a quel momento.
« Posso andare, quindi? » sbatté le ciglia un paio di volte, ringraziando il cielo che Sara fosse troppo presa dalla cliente che la teneva impegnata al telefono per poterla vedere mentre, rossa come un pomodoro, si rendeva ridicola con un cliente. Ma Enrico rise, una risata così viva da farle quasi male e che cancellò ogni sua preoccupazione, e con un inchino la invitò ad accompagnarlo verso le scale.
« Può andare signorina, può andare. »
Senza farselo ripetere Viola infilò il chiodo alla svelta e si tirò dietro la borsa, avviandosi sicura nella scia di profumo che lui si era lasciato alle spalle nel precederla di qualche passo. Scesero i gradini in silenzio, uno accanto all'altra, lui pensieroso e lei troppo concentrata nel tentativo di non precipitare e morire di una morte orribile sotto i suoi occhi per poter notare qualsiasi altra cosa che non fosse l'ampiezza delle sue spalle o la nota muschiata che si irradiava maschile attorno alla sua figura.
Stava andando a sudare in quello che probabilmente era il corso più tosto dell'intera palestra, e agli occhi di lei era circonfuso dall'aura di perfezione tipica degli amori improvvisi e volatili, infantili, fuochi fatui dall'innegabile intensità.
Vide Lara guardarla stranita mentre deviava i suoi passi verso la saletta con le bici, e sventolò la mano in un saluto accompagnato da un sorriso nervoso, esagerato, fingendo fosse una cosa abituale e non un'improvvisata dell'ultimo minuto.
« Beh, buona pedalata! » augurò ad Enrico con una curva ben più mite disegnata sulle labbra.
« Non mi ricordo dove mi hai detto festeggiate » la sorprese lui, a tradimento, con un sorriso furbo.
« Perché non te l'ho detto » osservò Viola, stranita, con una prontezza che la lasciò persino più stupita della domanda di Enrico.
« In effetti hai ragione. Buona serata, Viola. » le sfilò accanto, così vicino che le parve di avvertire il calore irradiarsi dal suo corpo al proprio, e scomparve oltre la soglia della stanzetta. Prima che le porte si chiudessero e la musica esplodesse violenta dall'impianto stereo, però
« In Portizza! Sarò, saremo in Portizza! » lo rincorse con il pensiero e le parole. Lui però non diede segno di averla sentita e Viola sospirò piano, guardandolo prendere posto e aprire la bocca in una risata cancellata dalle note remixate di una canzone che non conosceva.
Era già seduta in macchina con Lucrezia, immersa in un resoconto dettagliato di quello che era appena successo, quando realizzò con un brivido che lui l'aveva chiamato per nome, per la prima volta.

 

**


Il lunedì mattina la sorprese con la guardia abbassata, distratta dai rimasugli di un weekend di fuoco e dalla preoccupazione dell'esame ormai imminente.
Con il capo chino sulla tazza ricolma di caffè fumante Viola guardò lo schermo del cellulare – erano le otto e venti, appena le otto e venti – e allungò una mano verso il barattolo dello zucchero ripensando alla serata di venerdì, agli strilli felici con Lucrezia mentre scendevano verso le rive e facevano a gara a chi alzava di più il tono di voce in preda ad un'euforia senza precedenti, ai sorrisi ben impressi nella sfila di fotografie che Claudia aveva scattato senza tregua e che lei, e lei soltanto, sapeva essere frutto della speranza segreta che lui l'avesse sentita e che avesse deciso di raggiungerla, un po' per caso, un po' per capriccio.
Fantasticherie innocenti, prive di significato, con cui aveva riempito i silenzi e smarrito brandelli di conversazione, scivolando in un universo parallelo tutto inventato, un'architettura di desideri costruita attorno ad un unico fulcro luminoso, centro di un sistema solare di pensieri e sogni ad occhi aperti che nasceva e moriva nelle sfumature morbide di occhi scuri e nel tocco ruvido di dita calde.
L'avevano presa in giro, certo.
Ma nel loro scherno era facile leggere l'affetto e la sottile preoccupazione di Mia, cupa negli occhi verdi, l'aveva spinta a rassicurarla che era tutta scena, che non ci stava poi pensando così tanto, che era solo divertente farlo diventare uno scherzo di cui ridere tutti assieme. Poi, un calice di prosecco dopo l'altro, la conversazione si era inoltrata in un labirinto di piccolezze sviscerate al dettaglio, risate e chiacchiere su tutto e niente, per sfociare poi nella colossale sbronza che aveva colto tutto il gruppo mentre si dirigevano barcollanti e a mezzanotte ormai passata verso il locale dove aveva consumato le suole – e ogni briciola di energia rimasta – a ballare sui ritmi vivaci di musiche balcaniche. Il sabato era già arrivato da qualche ora quando era crollata sul letto ed era scivolata in un meandro di sogni cullati dagli echi fiochi di una voce scura e densa, calda, in cui era rimasta invischiata fino a mezzogiorno inoltrato quando sua madre l'aveva chiamata.
La sera poi si erano ritrovati tutti a casa di Matteo che, non pago dell'aver festeggiato il giorno prima, aveva offerto loro una cena casalinga che avevano condiviso anche con Giada, riservando al computer il posto d'onore a capotavola. Poi erano di nuovo usciti, sia a Trieste che a Roma, e le ore erano scappate via veloci, consumando nell'inerzia e nella stanchezza una domenica uggiosa di ripasso faticato e stentato.
E ora il lunedì mattina reclamava la sua attenzione con violenza improvvisa, luminoso di un sole che invogliava passeggiate in bosco o in riva al mare piuttosto che un'ennesima giornata trascorsa sui libri nel tentativo di recuperare il tempo perso nel fine settimana.
Si accasciò sul tavolo, come svuotata, e nello sconforto generale si chiese come avesse potuto veramente, venerdì sera, credere possibile che lui accogliesse l'invito implicito nella sua rivelazione e si facesse davvero vivo. A che scopo? Per dirle cosa?
E anche se si fosse presentato, poi cosa sarebbe successo? Anche ammettendo dimostrasse un certo interesse – e l'istinto, un piccolo grumo di certezze che nei suoi ventitré anni di vita aveva pazientemente accumulato una batosta dopo l'altra le diceva che Enrico non era poi così tanto indifferente alla ragazzina che vedeva due volte a settimana in palestra, seduta dietro una scrivania con addosso una orribile polo verde acido, o almeno non lo era stato nel momento in cui l'aveva guardata veramente – non avrebbe potuto né dovuto aspettarsi nulla di diverso dalla storia di una notte. Non era così ingenua da convincersi che le sarebbe andato bene, che sarebbe bastato, perché si conosceva. Non era brava a conoscere e capire le persone, ma era infallibile quando si trattava di conoscere e capire e se stessa: sapeva, se lo sentiva nelle ossa, che andare a letto con lui avrebbe spalancato una voragine assoluta tra fantasia e realtà, e la prima avrebbe investito la seconda con una tempesta di se e ma tesi a sostenere un'impalcatura di convinzioni senza riscontro, campate per aria, che avrebbero messo radici dentro di lei. Si sarebbe fatta male, tanto male, e non voleva. Non ne valeva la pena, non per il brivido di una carezza o l'emozione di un sorriso.
Si fece coraggio e addolcì il caffè con due cucchiaini di zucchero: era lunedì, aveva tanto – troppo – da studiare e il pomeriggio lo avrebbe perso al lavoro.
Era lunedì, e in fondo poteva accantonare il pensiero di lui fino alle sei e mezza quando, un po' in ritardo rispetto al resto del gruppo, sarebbe comparso in cima alle scale assieme ai suoi amici e lei avrebbe avuto conferma del suo totale disinteresse di persona. Trangugiò un sorso insospettabilmente amaro e si alzò decisa: aveva da fare, non si sarebbe lasciata incastrare dal ricordo di due parole scambiate per caso e degli occhi di lui fissi nei suoi. Scacciò la fitta improvvisa di desiderio che la colse e si trascinò verso la libreria dove, ordinatamente impilati, quaderni e libri non aspettavano che lei.
Era quasi l'una e mezza quando cedette al brontolio insistente del suo stomaco e decise di averne avuto abbastanza per la mattinata. Chiuse i libri con un tonfo, li spinse in un angolo e in cambio prese il cellulare, scorrendo rapidamente la rubrica.
Tempo due squilli e Claudia rispose alla telefonata.
« Non ne posso più » esordì Viola, aprendo uno sportello di legno e sbirciando ai barattoli ordinatamente disposti all'interno del mobiletto « Studio dalle otto e mezza e continuo a non sapere un tubo, io ODIO questo esame di merda. »
« A me lo dici? È solo la terza volta che tento di darlo e manco questa volta mi presenterò perché più leggo le cose e più mi dimentico tutto quello che ho imparato. »
« Claudia, cosa abbiamo fatto di male nella vita? »
« Non lo so e non lo voglio sapere, preferisco non venire a conoscenza della terribile colpa di cui mi sono macchiata per subire un simile destino. Che fai ora? »
« Niente, sto inutilmente cercando qualcosa da mangiare ma in questa casa non è rimasto assolutamente nulla di commestibile » sibilò cupa, sbattendo l'antina in un moto di stizza e appoggiandosi al piano cucina « E il portafoglio piange, piange, piange. Se non mi danno oggi lo stipendio posso ufficialmente inaugurare la stagione del digiuno. »
« Vuoi passare da me? Non ho molto, ma penso che un piatto di pasta posso offrirtelo. Poi in caso puoi fermarti qui, così ripetiamo tutto il pomeriggio.. » le offrì Claudia.
« Sarebbe oro, davvero. Mi dai il tempo di indossare qualcosa di decente? »
« Non hai bisogno di farti bella, il tuo ciclista dovrebbe apprezzarti così come sei... »
L'ironia era così sottile, così impercettibile nel tono falsamente gentile, che per un attimo Viola sorride intenerita della premura dell'amica. Poi realizzò la battuta e, suo malgrado, arrossì furiosamente.
« Sei perfida... »
« ...come poche, lo so. Mi vuoi bene per questo, e io ti voglio bene perché sei una polla, e ti prometto che ti vorrò ancora più bene se adesso chiudi, muovi il tuo bel culetto e lo sposti qui al mio cospetto, che sto morendo di fame! »
« Sei una stronza » rise Viola « Cucina bene, non voglio morire avvelenata. Ciaaaaooo! »
Chiuse la telefonata senza aspettare repliche e, dopo aver lanciato il telefono nella borsa abbandonata vicino all'ingresso, lasciò cadere a terra la felpa sformata che aveva indossato fino a quel momento e i pantaloni del pigiama, in favore di un paio di pantaloni verde militare e una maglietta nera con le maniche a tre quarti che considerò dubbiosa, guardando al vento che soffiava fuori dalla finestra. Si sarebbe scaldata camminando, pensò indossandola in fretta, e in palestra non avrebbe certamente sofferto il freddo; che Claudia la prendesse pure in giro, aveva bisogno di sentirsi carina non per Enrico ma per se stessa, per scacciare via il grigiume insopportabile dello studio e dei troppi pensieri. Indossare la polo verde acido non avrebbe aiutato, decisamente.
Ad aiutare ci aveva pensato invece la passeggiata lungo i viali alberati incendiati da un autunno improvviso, comparso senza preavviso e senza annunciarsi: da un giorno all'altro il verde aveva ceduto il passo al giallo, al rosso e all'arancione, rivestendo i tronchi con un'ultimo lampo di colore prima che l'inverno li reclamasse spogli e scheletrici.
Le piaceva l'autunno, le piacevano i mucchi di foglie lungo i marciapiedi, il sapore friabile dell'aria quando all'imbrunire si faceva birichina e mordeva il naso, pizzicava gli occhi. Autunno era sinonimo di maglioni di lana e sciarpe tirate sul viso, castagne arroste e bicchieri di vino condivisi in compagnia, domeniche uggiose passate sotto le coperte in compagnia di un telefilm possibilmente straziante e le prime cioccolate calde a metà pomeriggio in qualche bar del centro.
Un passo dopo l'altro Viola si era riempita il petto di respiri sempre più ampi, di una serenità improvvisa che non avrebbe saputo spiegare in altro modo se non come il risultato della carezza sulla pelle di un sole appena appena tiepido oltre la cortina di foglie e delle canzoni canticchiate a mezza voce che le avevano fatto compagnia durante il tragitto fino all'appartamento di Claudia.
Era stato d'aiuto trovare l'amica accoccolata sul bancone della cucina, in compagnia di una sigaretta, sullo sfondo di una finestra chiusa oltre la quale una distesa di tetti di tegole rosse si stendeva docile fino al mare, e sorridere del piccolo piacere privato che era la sua compagnia.
Maglia color crema e pantaloni ruggine, si era fumata una sigaretta chiacchierando del più e del meno mentre Viola di prodigava a coccolare Felix, gatto di casa, e un pasticcio si scongelava nel calore del forno. Avevano pranzato ridendo delle ultime conquiste di Claudia e dei suoi letali occhi grigi, luminosi come argento e morbidi come nebbia, si erano lamentate dello studio e aveva piagnucolato un po' invidiando Giada e la sua carriera accademica ben avviata, senza ombre né incertezze, in una facoltà tra le migliori in Italia.
Poi si erano rimboccate le maniche, avevano legato i capelli e con il sostegno di una tazza di thé bollente avevano affrontato l'interminabile ripasso dei primi capitoli del programma, dedicato ad una metodologia già affrontata in altre discipline che faticavano comunque a mandare a memoria.
Le cinque e mezza erano arrivate prima di quanto immaginassero e con un'ombra di rammarico si erano salutate quando già il sole minacciava di tramontare oltre una coltre di nubi minacciosa, salita dal mare sulla scia di un vento poco poco più cattivo.
E adesso che sedeva nuovamente alla sua scrivania, presidiando gli ingressi agli spogliatoi della palestra, il nodo alla gola che aveva tramortito il buon umore di Viola di prima mattina se ne era andato, sostituito da una tranquillità tanto precaria quanto piacevole che le permetteva di sorridere senza fatica alle clienti che arrivavano per i corsi.
« Ciao Renata! » salutò l'ultima arrivata, con una confidenza che era solita permettersi con poche persone lì dentro. La donna, carnagione olivastra e impeccabile caschetto nero, ricambiò il saluto sfarfallando le dita in un gesto vezzoso.
« Ciao tesoro, come stai? » le chiese, fermandosi davanti al bancone e porgendo una guancia per pretendere un bacio. Viola gliene regalò uno con lo schiocco, schiudendo le labbra in un sorriso generoso.
« Bene, dai.. il pasticcio era prodigioso, ci hai salvato la giornata! »
« Mi fa piacere. Quando Claudia mi ha chiamata dicendomi che saresti passata a pranzo ho pensato che non potevo lasciarti nelle mani di quel disastro ambulante che è mia figlia. Probabilmente ti avrebbe propinato una pasta al burro scotta e insipida, conoscendola.. »
« Oppure avrei finito col cucinare io, come al solito, e i risultati non sarebbero stati migliori! » intervenne in favore dell'amica, sorridendo alla madre che annuì compita e si avviò verso lo spogliatoio arricciando il naso in una piccola smorfia.
Tale madre, tale figlia. Si appoggiò allo schienale sbiadito della sedia da ufficio, guardando con invidia alla versione più matura di Claudia che spariva oltre la porta dello spogliatoio nel suo elegantissimo completo nero, inseguita dal ticchettare dei tacchi alti sulle piastrelle immacolate.
Se all'inizio l'esuberanza e la tendenza a voler controllare un po' tutto l'aveva infastidita, nel corso degli anni aveva imparato a voler bene alla donna manager che aveva deciso di adottarla quando le era capitata per casa la prima volta, disperata dalle angherie dei coinquilini e fradicia della pioggia che l'aveva sorpresa a metà strada senza ombrello, tanto che ora faticava ad immaginare le sue giornate senza quella presenza a tratti ingombrante che aveva preteso di telefonare ai suoi genitori annunciando loro che avrebbe ospitato la figlia fin tanto che non avesse trovato un posto dove stare.
Sospirò silenziosamente, allungando una mano per ricevere il tesserino di Diana Columbo, fingendo di non sentire le sue lamentele sulle scale che era stata costretta ad affrontare a causa di un guasto all'ascensore. Ad un certo punto smise persino di ascoltarla, rapita dalle chiacchiere che sentiva farsi sempre più nitide passo dopo passo.
Voci maschili intente a confrontarsi sulle rispettive giornate di lavoro, a precedere una testa bionda e una mora, che non si interruppero se non davanti al bancone dietro al quale Viola sedeva nervosa e assolutamente imbambolata al tempo stesso, guardando Enrico aggrottare la fronte e annuire con aria pensosa.
« Bella rogna in effetti, mi sa che la telefonata a Milano non la eviti questa volta » commentò con aria seria, tirando fuori il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni per allungarle il tesserino. Il suo timido “ciao” passò del tutto inosservato, senza ricevere risposta, e non ci fu nessun “grazie” quando restituì la tessera gialla e blu.
« Una rottura di coglioni che non ti dico, se quel fascicolo non salta fuori sarà un casino » sbottò Gian con una smorfia, riavviando i capelli con una mano e facendo per andare verso lo spogliatoio.
« Ehm.. » la ragazza si schiarì la voce, a disagio come tutte le volte che le capitava di dover inseguire qualcuno anche solo per chiedere un nome « Il tesserino. »
Il biondo non batté ciglio, tornando sui suoi passi e lasciando la porta aperta per Enrico, che scomparve oltre la soglia senza una sola parola.
Cancellò entrambi i loro nomi dall'elenco, ignorando platealmente le continue lamentele della signora Columbo che aveva iniziato a raccontarle di quanto male le facesse le sciatica e trattenendosi dal farle notare che se erano venti gradini scarsi a ridurla in quello stato allora forse avrebbe fatto meglio a rimanersene a casa piuttosto che buttare via soldi ad ogni mese per dei corsi che, a sentirla parlare, non sortivano alcun effetto che non fosse irritare le ragazze alla reception e Paola, ormai esasperata dalla presenza della donna. Non era certa avrebbe capito il perché dei nervi improvvisamente a fior di pelle, né avrebbe colto l'amara delusione che con un pugno allo stomaco l'aveva riportata con i piedi definitivamente a terra: a Enrico non interessava, neppure per sbaglio. Non l'aveva neppure vista, essere addirittura guardataera qualcosa che trovava ragione d'esistere solo nelle sue infantili fantasticherie di ragazzina sognatrice.
Scostò la sedia dalla scrivania con un gesto brusco, scusandosi con un'allibita Diana che la vide correre via verso lo spogliatoio femminile e chiudersi in bagno. Non perché ne avesse bisogno, ma perché aveva come l'impressione che se fosse rimasta un solo istante di più a fissare la faccia grassoccia della signora Columbo si sarebbe messa ad urlare e non aveva una scusa valida da propinare neppure a se stessa per giustificare un comportamento simile.
Non era il suo ragazzo, non era un suo amante, non era neppure un suo amico.
Enrico era un giovane uomo che frequentava la palestra, un cliente che si era dimostrato particolarmente gentile – o inopportuno, a seconda dei punti di vista – e le aveva fatto battere il cuore più forte del solito. Niente di più, niente di meno. La bolla si era spezzata e ora gli occhi le bruciavano per il sapone che ci era finito dentro, a ripulirli dalla patina di sogni ad occhi aperti che l'aveva resa più cieca e ingenua di quanto non credesse; non aveva motivo per piangere, né per essere triste. Così inspirò a fondo, si sciacquò la bocca con un sorso d'acqua e torno fuori con un bel sorriso disegnato sulle labbra, a fare quello per cui era pagata. Accogliere i soci della palestra e rinnovare abbonamenti; non fantasticare senza motivo per farlo.
Sono così patetica che la mia mente si è inventata qualcosa che non c'era pur di sopperire alla mancanza di una qualsiasi forma di vita sociale, digitò rabbiosa su twitter. Pigiò il tasto “invia” con forza, guardando il messaggio comparire in cima alla timeline sul display del cellulare che lasciò poi cadere in un mucchio di scartoffie, tornando a dedicarsi ai clienti che si arrampicavano solerti lungo le scale. Sorrise, salutò, rise, scalò ingressi e rinnovò abbonamenti, così concentrata su quello che stava facendo che, dopo aver infilato le banconote dell'ultimo incasso in una busta di carta, sobbalzò vistosamente nello sollevare il viso e trovarsi a fissare Enrico pigramente appoggiato al bancone.
« Ti ho spaventata? » si sentì chiedere con gentilezza squisita, alla quale rispose con una scrollata di spalle nel tentativo di ignorare la sensazione di calore che le si allargava in petto.
Inopportuno.
 Inopportuna.
Inopportuni
entrambi.
« No, sono io che non ti ho sentito, scusa. » raddrizzò automaticamente la schiena e « Posso aiutarti? » gli chiese senza calore, sporgendosi già verso il libro delle prenotazioni.
Se doveva imparare a considerarlo con un cliente e niente di più, tanto valeva iniziare da subito, si disse con fermezza, riavviando i capelli dietro un'orecchia e tornando a guardarlo in attesa, la penna già in mano per segnare, correggere o aggiungere.
« In realtà no, volevo sapere come è andata venerdì » riprese lui, allungando una mano per rimetterle a posto la stessa ciocca, nuovamente scivolatale davanti agli occhi.
Oh.
Inopportuno.
Inopportuna.
Inopportuni
entrambi.
Viola non poté fare a meno di addolcirsi in un'espressione felice, socchiudendo gli occhi mentre le dita di lui si ritraevano lasciandole sulla pelle una scia incandescente di calore.
« È andata bene. Credo. »
« Come sarebbe a dire, “credo”? »
« Eh, non è che mi ricordi proprio tutto in realtà » confessò Viola facendosi piccola piccola sulla sedia e sorridendo piano mentre lui rideva.
Ricordava perfettamente il senso di aspettativa e il suo guardarsi attorno con impazienza, ricordava la necessità quasi fisica di controllare il viso di ogni uomo avesse incrociato il suo passo per controllare quanto scuri fossero i suoi occhi e quanto spettinati i capelli, l'attesa infinita con cui aveva affrontato la serata e poi il sapore agrodolce di una delusione improvvisa, stemperato dall'alcol, quando finalmente aveva realizzato che no, non l'avrebbe rivisto, e che meglio sarebbe stato accontentarsi di quel poco che c'era stato senza pretendere niente di più. Poi il resto si era tutto confuso, disciolto, nella gioia primitiva della notte mai giovane abbastanza che l'aveva vista ballare fino a non poterne più, fino a doversi arrendere e abbandonare le scarpe in un angolo della sala e ancora oltre, quando l'aurora aveva violato i confini del buio e imposto il dominio di un giorno appena sbocciato.
« Abbiamo fatto festa, insomma! » commentò lui, dandole l'impressione di un vago apprezzamento taciuto.
« Così pare.. Pare anche ci abbiano scacciati dalla Portizza, ad un certo punto, erano fin troppo stufi di noi » rise, constatando quanto facile fosse confessargli qualsiasi cosa, di come le parole arrivassero da sole e si mettessero in fila per comporre le frasi. Lei, che per antonomasia con le persone non sapeva parlarci, adesso stava parlando.
« Guarda, ti confesso che un salto ho provato a farlo, ma devo averti mancata di un po' perché stavano già chiudendo. »
Viola non trovò voce per ribattere, imporporandosi di un piacere improvviso che si arrampicò con dita di colore lungo i suoi zigomi. Tuttavia s'impose di sostenere il suo sguardo, concedendosi il piccolo lusso di affondare nelle volute scure, nocciola, che si stringevano attorno alle pupille nerissime e non fosse stata troppo impegnata a perdersi, avrebbe potuto vedersi riflessa nel nero con una precisione quasi dolorosa e leggervi i contorni del suo desiderio tutt'altro che celato.
Inopportuno.
Inopportuna.
Inopportuni
entrambi.
A salvarla fu l'esplosione di musica che sancì l'inizio della lezione, un piano più sotto.
« Sono in ritardo! » esclamò Enrico con faccia inorridita.
« Sei in ritardo » gli fece eco Viola, guardandolo correre via con una smorfia buffa sul volto. Seguì la linea ampia delle sue spalle fin quando le fu possibile e quando scomparve dietro lo spigolo dipinto di bianco della parete sospirò con aria trasognata, allungando una mano a recuperare il cellulare e pensando già a come raccontare quello che era appena successo alle sue amiche.

« ...e comunque quando se ne è andato mi ha detto solo “ciao”, niente di che, quindi non so mi sono inventata tutto o se invece qualcosa c'è stato. »
Viola alzò lo sguardo dalla mano destra, ben premuta contro la tavola, e sventolò il pennellino dello smalto che stava mettendosi con aria dubbiosa, indicando lo schermo del computer dove Giada la guardava con occhi imploranti, in attesa di consiglio.
« Hai un succhiotto sul collo? » chiese dopo un silenzio infinito, assottigliano gli occhi in due fessure scure e sporgendosi verso l'immagine della bionda che trasalì e in un gesto automatico nascose la macchia scarlatta sotto le dita di una mano.
« Come puoi credere di esserti immaginata tutto con una roba del genere addosso? Diamine, avete limonato duro tutta la sera in fondo! » riprese Viola senza mezzi termini, tornando a stendere lo smalto grigio sulle unghie. Storse le labbra in una smorfia, sbavandolo leggermente.
« Ho capito Viola, ma poi se è andato con un misero “ciao”, poi non mi ha neanche più guardata! »
« Per lo meno non si è limonato un'altra sotto il tuo naso, quello sarebbe stato estremamente rude da parte sua e in netto contrasto con il Galateo della Limonata Cortese. Ma non ho ancora capito perché stiamo parlando dell'ultima Jota, ancora! »
Giada si fece piccola piccola, rannicchiandosi sulla sedia.
« Perché sabato sera ce ne è un'altra e io vorrei tantissimo andarci.. » pigolò intimidita.
« MA PORCA MISERIA! » strillò Viola alzando gli al cielo e mordendo la lingua per non scomodare troppi santi in Paradiso « No Giada, non dicevo a te, scusami.. ho fatto il solito disastro, adesso devo rimetter tutto da capo. » si spiegò un istante più tardi, restituendo un po' di colore alle guance dell'amica improvvisamente impallidite. Sollevò persino una mano, mostrando l'unghia dell'anulare dove lo smalto non del tutto asciugato si era accartocciato in maniera impossibile.
« Comunque.. » riprese pazientemente, cercando l'acetone « Se ti preoccupa il fatto di rivederlo fossi in te andrei tranquilla, male che vade passate di nuovo tutta la sera a mangiarvi la faccia a vicenda e fin tanto che non ti fai coinvolgere sentimentalmente non hai di che preoccuparti. Hai ventitré anni, non quaranta, e non stai cercando marito in fondo. Puoi spassartela tutta la sera senza pensare ad un bel niente. »
« Non sono convinta, Vì.. »
« Perché come me anche tu sei stupidamente convinta che il grande amore prima o poi arriverà a salvarti da questo schifoso mondo di cinici, non per altro.. »
Sospirarono assieme, la bionda con lo sguardo perso in un punto non ben definito alle spalle della webcam e la mora nuovamente assorta nella delicata operazione di stesura dello smalto.
« ...diciamo però che nell'attesa è sacrosanto divertirsi un po', il grande amore indubbiamente apprezzerà l'esperienza accumulata. » riprese Viola dopo un po', strappando all'amica un mezzo sorriso mentre un pin! annunciava loro che Mia si era connessa. Non ebbero bisogno di dirsi nulla, bastò solo un cenno e lo spegnersi simultaneo delle due webcam che permise alla nuova arrivata di unirsi alla conversazione.
« Hola mi amor! » salutò Mia.
« Ancora spagnolo? » Giada sembrava sorpresa.
« Mi ha spostato l'appello a mercoledì, quell'arpia di una lettrice, quindi si: ancora spagnolo. Di che stavate parlando voi due, invece? »
« Mister Penna, once again » rise Viola, immaginando Giada arrossire e chiudendo lo smalto con le dita tese, nel tentativo di non combinare nuovi disastri.
« A dire il vero si parlava di spassarsela un po' in attesa del grande amore » puntualizzò questa, chiamata in causa.
« E a proposito di spassarsela, tu quando pensi di fare un giro sulla bicicletta del tuo ciclista inopportuno? »
Dire che non ci aveva mai pensato sarebbe stata una bugia troppo grande per poter essere propinata a chiunque, figurarsi a due delle sue migliori amiche, né indignarsi era un'opzione praticabile. Lui le piaceva, e lo spasmo al basso ventre che le mozzava il fiato in gola ogni volta che lo vedeva passare davanti alla reception era qualcosa che poteva giustificarsi solo con una violenta, innegabile attrazione fisica.
Le piaceva il suo viso, gli occhi circondati da sottili rughe d'espressione, la forma morbida delle labbra e il modo in cui si schiudevano per sorridere. Le piaceva il modo in cui si sporgeva in avanti con il busto, andando incontro a tutto ciò che la vita aveva da offrirgli, e la ferma decisione con cui toccava le cose, con cui aveva toccato lei per sistemarle la collanina. Le piaceva il modo assolutamente spontaneo che aveva di condividere con i suoi amici, come accoglieva le loro preoccupazioni e come si impegnava, si crucciava persino, nel tentativo di trovare una soluzione ai loro problemi. Di lui conosceva con esattezza la data di nascita – 24 marzo 1977 –, la consistenza ruvida dei polpastrelli sulla nuca, la luminosità dei sorrisi, la profondità dello sguardo scuro. Non lo vedeva che una, due volte al massimo a settimana. Non si erano parlati che due volte. E non aveva bisogno di altro per apprezzarne la pienezza con cui rideva e il calore che le riempiva il petto tutte volte che solo lo intravedeva. Come fosse il preludio di una felicità improvvisa, di una giornata di sole dopo tanta – troppa – pioggia.
Lui era la sua giornata di sole.
« Viola, ti abbiamo persa? Sei sconvolta? Dio, pagherei per poter vedere la tua faccia! » sospirò Mia, richiamandola alla realtà con una sferzata d'ironia pungente.
« No, brutta stronza, stavo solo cercando la maniera accurata di mandarti in un qualche bel posto. » si trovò costretta a replicare « Ma l'idea di un giro in bicicletta non è che sia poi così male.. » ammise subito dopo, con un sospiro, cedendo alla voglia che aveva di raccontare anche a loro il peso di quella rivelazione.
« Giada, stavi registrando? »
« Merda, no! Non ero pronta! »
« Che cosa volevate registrare, di grazia? »
« Hai detto che ti piace! » strillarono in coro Mia e Giada, con un entusiasmo tale da strapparle una risata, contagioso come il raffreddore a novembre.
Più tardi, rannicchiata sotto le coperte, nel silenzio del suo appartamento, Viola sorrise tra sé e sé.
Sembrava tutto più reale ora che l'aveva detto ad alta voce.
Era vero, lui le piaceva.
Enrico le piaceva.
Tanto.




 


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Capitolo 4
*** Capitolo tre ***



III


 
       « Può andare così? »
Giada si voltò con una piroetta, sporgendo le labbra in una pantomima di posa sexy.
Il vestito grigio scendeva morbido a fasciarle i fianchi, nascondendo in un velo di stoffa leggerissima il braccio sinistro e lasciando completamente scoperto il destro. Viola pensò che era bella, e che era bello averla di lì di nuovo, ma si limitò ad abbracciarla stretta e sospirare felice.
« Lo prendo come un si. » decretò la bionda quando si decise a lasciarla andare, pizzicandole una guancia in un gesto affettuoso « Tu piuttosto hai deciso cosa mettere? »
Viola scosse il capo, guardando con aria desolata alle ante spalancate dell'armadio e la pila di vestiti scartati che ingombrava buona parte del letto. Li aveva tirati fuori uno ad uno, senza provarli ma limitandosi ad appoggiarseli addosso, e con frustrazione crescente li aveva lasciati cadere a terra con la leggerezza di una bambina che dissemina sul pavimento di casa cartine di caramelle mangiucchiate in fretta. Avevano ancora un'ora e mezza al massimo per finire di prepararsi e uscire con la speranza di accumulare un ritardo che fosse solo accettabile, e non decisamente scandaloso. E si era ritrovata al punto da fissare il suo armadio, i suoi vestiti, come fossero i nemici di una vita, vincitori di una battaglia che andava concludendosi con la sua inesorabile sconfitta.
« Zero. Non ho niente da mettere. » dichiarò, accoccolandosi sul pavimento e raccogliendo il viso tra i palmi delle mani, sconsolata « Un armadio pieno di cose che non si possono vedere! »
« Scemina, ma smettila! » Giada si inginocchiò per abbracciarla rapidamente « Adesso diamo un occhio a questo cumulo di vestiti bistrattati e troviamo qualcosa di adeguato al tenore della serata. »
« Buona fortuna » brontolò Viola, raccogliendo la manica scarlatta di un abitino caduto sul pavimento e storcendo il naso « Perché mai ho comprato una cosa del genere? Perché nessuno mi ha impedito di farlo? È brutto. »
« No, non è vero. Rossetto rosso e le scarpe alte, ti sta una favola e ti ha permesso di passare diritto comparato tra le altre cose. »
La mora abbassò lo sguardo sull'abito, giochicchiando distrattamente con la lampo argentata che lo decorava sul davanti e valutandolo con occhi critico, soppesandone il valore alla luce della rivelazione e del ricordo.
« Si, è vero. » ammise alla fine, ammorbidendosi in un sorriso e sollevandosi in piedi per tornare verso l'armadio e restituire il vestito alla sua gruccia. Lo guardò dondolare morbidamente in mezzo ad un cimitero di grucce svuotate, riflettendo sul perché tutte le volte che le capitava di dover pensare a cosa indossare quella scena si ripetesse puntuale.
« Che ne dici di questo? » le chiese Giada, raccogliendo un tubino verde bosco.
« Formale. » storse il naso Viola, con una smorfia « Stiamo andando ad una festa dove la principale attrazione sono delle drag queen e mi proponi un tubino? No way. »
« Questo? » ritentò pescando dal mucchio un abito senza spalline nero, stretto sotto il seno e dalla gonna plissettata.
« Oh, è un amore quello lì » Viola arricciò il naso, deliziata, salvo poi aggiungere che « L'ho già messo all'ultima Jota però, quindi no. »
Giada alzò gli occhi al cielo con aria esasperata, riponendolo nel mucchio con delicatezza.
       Succedeva prima di qualsiasi serata mondana. Il panico, l'armadio improvvisamente inadeguato, le ore passate a tentare, combinare, scartare e riprovare senza trovar pace. E dopo i vestiti c'erano i capelli, e dopo i capelli c'era il trucco, e una volta scelte anche le scarpe e la borsa generalmente si era fatto così tardi che il più delle volte la mezzanotte era già passata. Ma era divertente, e la Jota era la loro festa da quando ci erano capitate la prima volta un po' per caso, intrufolandosi in un mondo di glitter, ciglia finte e uomini trasformatisi in donne bellissime, dai vestiti rubati ad un secolo sbagliato e i colori squillanti. Una giungla popolata da uccelli del paradiso, nascosta del buio di una piccola città di provincia: l'avevano amata, oltre ogni immaginazione, facendone un rituale rinnovato ad ogni occasione possibile, solo quando erano tutte e cinque assieme.
« Ok, lo so io cosa ti ci vuole. »
Giada riavviò i capelli con un gesto deciso, raccogliendoli sulla nuca e poi lasciandoli ricadere in una criniera biondissima, dai riflessi di miele, che si arricciava ad incorniciarle il volto pulito mentre tornava con passi rapidi verso il letto sommerso di vestiti e si metteva a frugare con foga.
Viola si sporse di lato, cercando di scoprire cosa l'amica stesse tramando, e quando questa si voltò verso di lei non poté fare a meno di illuminarsi in un sorriso.
« Si. Oh, si. »
 
       « Chi sono queste due straniere? » esclamò Mia quando le vide arrivare, correndo loro incontro a braccia spalancate. Le strinse in un abbracciato deciso e « Siete bel-lis-sime! » esclamò, la voce impastata di capelli, stoffe e sciarpe.
Lucrezia e Claudia si unirono all'abbraccio, e tutte assieme presero a saltellare in cerchio con gridolini estasiati ignorando le occhiate perplesse che le accarezzavano accompagnandosi ora a sorrisi ora a commenti sarcastici.
Fu Lucrezia la prima a staccarsi, strofinando con attenzione le dita sotto gli occhi come a voler arginare il trucco scuro che li cerchiava. Indossava un abito blu elettrico e un blazer nero come i tacchi indossati con disinvoltura, sandali tutti laccetti e piccole fibbie.
« Ciao tesori » baciò le nuove arrivate con calore, indugiando nell'abbracciare nuovamente Giada.
« Vi siete fatte aspettare, eh? Cucciole! » Claudia si fece avanti per seconda, scompigliandosi i capelli nerissimi e socchiudendo gli occhi in due schegge di luce, cangianti di nebbia e morbide di velluto. Tra tutte era quella che indossa i colori meno vivaci, e tra tutte era quella che si faceva più notare nelle pieghe morbide dell'abito color crema e l'ampia porzione di gambe lasciate scoperte tra l'orlo e gli stivali morbidi.
Come lei, anche Viola aveva indossato degli stivali neri da biker, abbinandoli al giallo canarino di un vestito dalla linea asimmettrica, stretto sotto al seno e dalla gonna morbida corta davanti e poco più lunga dietro. Chiodo sulle spalle, come Mia che aveva rinunciato al suo solito total black in favore di un abito rosso fuoco abbinato a delle zeppe altissime, e capelli raccolti in uno chignon che di disordinato aveva solo l'aspetto, frutto di una buona mezz'ora di tentativi.
« Intanto siamo arrivate, no? » le fece una linguaccia Giada.
« Mai come quella volta che Lù si è addormentata sul divano e noi ad aspettarla sotto la pioggia, eh.. » sogghignò Viola, prendendo a braccetto la rossa che non fece neanche lo sforzo d'indignarsi.
« Ho una certa età, è più che comprensibile » si difese freddamente, principessa altezzosa incoronata da ciocche di rame ben arricciate « Piuttosto ci beviamo una cosa, che dite? Grazie a dio è abbastanza presto, se andiamo adesso finisce che stiamo lì un'ora a girarci i pollici. »
« Hydro? » propose Giada.
« Hydro. » risposero le altre in coro.
       L'Hydro City, o più semplicemente Hydro, era un buco di locale comparso dal nulla con la fama di essere un gran posto. E in effetti, dimensioni a parte, si era sempre dimostrato all'altezza della sua fama: la fila di ragazzi e ragazzi in attesa ai due banconi, il continuo via vai di camerieri  carichi di vassoi ricolmi di bicchieri, l'odore dolciastro e il pavimento appiccicoso di cocktail rovesciati erano un classico del sabato sera triestino.
« Tre ordinano e due si siedono? » propose Lucrezia, adocchiando uno spiraglio della massa schiacciata contro il bancone e al tempo stesso un tavolino vuoto, circondato da cinque sgabellini bassi e scarsamente illuminato da una luce tremula che ricordava quella di una candela.
« Chi ha i tacchi si siede, dai » concesse Viola, afferrando Claudia mentre già stava avviandosi verso il tavolo e trascinandosela dietro nella calca.
« Che palle, solo perché non avevo voglia di mettere i tacchi non significa che abbia anche voglia di rischiare una doccia di alcol! » protestò questa, alzando gli occhi al cielo.
« Dai, non fare la fastidiosa.. » la punzecchiò Viola, irriverente « Se ci sei tu c'è una buona possibilità ci offrano qualcosa in fondo. »
« Stai anche dicendo che devo impegnarmi a far la carina? »
« Nessuno ti obbliga, ma il mio portafoglio gradirebbe assai. »
« Non ti pagano abbastanza in palestra da permetterti di comprare un drink? »
« No, decisamente non mi pagano abbastanza. Mi pagano pure in ritardo, detto tra noi, ottobre  è ben che iniziato e io la paga non l'ho vista neanche in cartolina! »
« Magari sei troppo impegnata a guardare altro per vedere i soldi. »
« Ah-ah-ah. Non sei divertente. »
« Si che lo sono, bugiardella.. »
« Non in queste circostante » Viola si fece largo tra due giovani ben più alti di lei, aggrappandosi al bancone e sporgendosi per attirare l'attenzione del barista. Questi le rivolse un cenno, indugiando qualche istante su Claudia che comparve al suo fianco dopo un attimo.
« Ciao, mi fai cinque pestati alla frutta? » ne approfittò quest'ultima, sfoderando un sorriso ammiccante e una disinvoltura invidiabile. Il ragazzo le fece l'occhiolino, allineando cinque bicchiere davanti a sé e versando sul fondo di ognuno un cucchiaio e mezzo di zucchero di canna.
« Sorridi un po' di più, Clà, poi vedi come ce li offre » sillabò Viola a denti stretti, senza perdere il sorriso e controllando il barista che aveva iniziato a pestare con buona lena la frutta fresca « O quanto meno non ci propina dei bibitoni annacquati. » considerò con leggerezza, sbirciando i succhi di frutta spacciati per alcolici che stavano sorseggiando un gruppo di ragazzi poco più in là.
« Violetta bella, se non la smetti il fanculo è assicurato. »
« Non essere volgare, non ti si addice. Guardo che vado a raccontare a tua madre quanto sboccata è la sua santa figliola, eh.. » la minacciò senza cattiveria, punzecchiandole un fianco con la punta delle dita. Claudia si scostò ridendo, in perfetto accordo con la terribile battuta che il barista aveva appena finito di declamare piazzandole davanti i cinque cocktail fatti e finiti.
« Quant'è? » chiesero in coro, mani alle pochette e sorrisi identici sulle labbra.
« Questi ve li offre la casa, buona serata ragazze! »
 
       « Te l'avevo detto, te l'avevo detto, te l'avevo detto! » canticchiò vivacemente Viola, senza suscitare che una vaga indifferenza in Claudia.
« Che cosa? » chiese Mia, alzando gli occhi verdissimi dall'orlo del bicchiere e abbandonando la cannuccia che stava mordicchiando.
« Che Matteo le avrebbe chiesto di uscire » intervenne Lucrezia, circonfusa dall'alone dorato di luce spanta sul tavolino dall'unica lampada appesa alla parete.
« Dopo anni che ti muore dietro, detto tra noi. » aggiunse Giada, lasciando ricadere il blackberry nella pochette e incrociando le braccia al petto « C'era stato un periodo in cui giravano scommesse su quando il misfatto sarebbe avvenuto. »
« CHE COSA?! » ruggì Claudia, svestendo l'alterigia in favore di uno sdegno feroce.
« Si, ma eravamo tra il primo e il secondo anno ancora. Poi quando si è visto che Matté non combinava nulla la cosa è morta da sé, non ti preoccupare. »
« Non è mai uscito al di fuori della nostra facoltà, non ti preoccupare. »
« Vero, il gruppo facebook funzionò poco. »
« GRUPPO FACEBOOK?! »
« Io avevo puntato su dicembre » rivelò Mia con aria birichina « Ti ricordi quella volta che dovevamo uscire per vedere le bancarelle e all'ultimo abbiamo tutti tirato bidone? »
« No. »
« Bugiarda! Beh, fatto sta che avevamo organizzato tutto nella speranza che trovasse il coraggio di invitarti a bere una cosa, ma tu hai avuto la brillante idea di confidargli tutti i tuoi problemi con… come si chiamava il tizio con cui ti vedevi? Alberto? »
« No, forse era Luca. O Marco. » intervenne Lucrezia, dubbiosa « Quella volta gli hai fatto passare ogni voglia di chiederti di uscire e abbiamo tutti perso. »
« Ma voi siete malate, avete scommesso su di me! »
« No, non su di te. Sulle palle che Matteo ha tirato fuori con anni di ritardo rispetto alla tabella di marcia. »
« TABELLA DI MARCIA?! »
Viola ridacchiò tra sé e sé, aspirando rumorosamente il fondo del bicchiere e ascoltando i battibecchi delle altre. Amava quel genere di normalità. Il piacere dello stare assieme senza bisogno d'altro, le chiacchiere e le risate, senza problemi e senza peso. Stare in silenzio e al tempo stesso essere partecipe di ogni parola, di ogni battuta, di ogni scoppio di risa come li avesse detti lei. Ne avevano passate tante, assieme. Dagli isterismi delle sessioni d'esame senza fine alle serate senza scopo, passando per le delusioni d'amore e i dolori inaspettati che la vita aveva propinato loro senza chiedere il permesso e senza preavviso; avevano cementato il loro affetto saltandosi alla gola per i motivi più sciocchi e scoppiando a piangere due ore più tardi implorando il reciproco perdono. Erano cresciute assieme, abbandonando le ombre dell'adolescenza che le aveva viste separate per sbocciare poi giovane donne l’una accanto all’altra. Pensare a quello che avevano avuto e a quello che ancora non era arrivato ma che le avrebbe trovate assieme, legate dai vincoli di una scelta infinitamente più forte del sangue, le scaldava il petto di una gioia improvvisa e le ricordava, nei momenti più bui, che loro erano e sarebbero sempre stato il posto cui appartenere. Erano la chiave che le permetteva di tradurre i suoi incubi in sogni. Anche quelli ad occhi aperti.
       Enrico.
       Sbatté le palpebre, chiedendosi se la sua fosse solo immaginazione, se il secondo cocktail – onestamente pagato – non le fosse salito alla testa più di quanto credesse. O se davvero era lui quello che aveva appena varcato la soglia del locale mettendo mano al portafoglio nella tasca posteriore dei jeans scuri. Che indossava un ampio maglione di lana dalle maniche tirate su sugli avambracci ancora ambrati d’estate sopra una camicia bianca e che stava ridendo al fianco di Gian e un altro dei ragazzi del loro gruppo di spinning del lunedì. Matteo, Mattia. Marco? Non ne era sicura, non aveva mai imparato a distinguerlo dai tre che venivano subito dietro ed erano immersi in una conversazione fitta fitta. Non aveva mai imparato a distinguere nessuno di loro, a dire il vero, perché erano qualcosa di subordinato alla presenza di Enrico. Presenze accessorie.
« ...non è vero, Viola? » la richiamò all'ordine Mia.
« Eh? »
« Appunto. L'abbiamo persa. » confermò di Lucrezia, chiudendo un discorso cui Viola non aveva prestato attenzione.
« Posso spiegare.. » iniziò a dire, occhieggiando ora le sue amiche e ora il gruppetto in attesa al bancone, in coda alla fila che sfociava in ressa vera e propria poco più avanti.
       Le spalle di Enrico, la linea ferma di muscoli e pelle ambrata che poteva solo immaginare celarsi sotto la linea morbida della lana, il collo scoperto e il vivo contrasto tra il colletto immacolato della camicia e l'attaccatura scura dei capelli scompigliati.
« Ma si può sapere che stai guardando? » le chiese Giada, scivolando nella cadenza sfacciata di un accento romano. Viola strinse le labbra, passando in rassegna uno ad uno i visi che la scrutavano con attenzione nel silenzio che aspettava solo di riempirsi delle sue parole. E poco più in là la voce di Enrico proruppe in una risata improvvisa, regalandole una fitta dolorosamente piacevole al cuore.
« Ok. » decise, sporgendosi in avanti sul tavolino ingombro di bicchieri, invitando le altre ad imitarla « Dovete giurarmi di non gridare e di non fare nulla che mi faccia pentire di quello che sto per dirvi. »
Le guardò annuire, una ad una, e si fece coraggio prendendo un profondo respiro.
« C'è Enrico » bisbigliò dopo un tempo che le parve infinito a quattro visi che la guardarono con la stessa identica, perplessa espressione. « Il ciclista. »
« Se ad ottobre uno è ancora così abbronzato, vuol dire che non si lava abbastanza. » fu il commento insospettabilmente caustico di Giada, pronunciato un istante prima che le altre tre si esibissero in uno strillo acuto che fece girare tre quarti dei presenti in loro direzione.
Viola alzò gli occhi al cielo e gemette sconsolata, sprofondando il viso tra le mani.
« Ma è proprio figo! » squittì Mia, deliziata.
« Si, è veramente figo. » convenne Lucrezia, sporgendo lateralmente sul seggiolino per guardare meglio non solo Enrico, ma anche il gruppetto che lo accompagnava « E i suoi amici non è che siano da meno.. »
« Ma il biondino? Cioè, perché non hai mai parlato del biondino, piuttosto che del ciclista? » fece Claudia con una sfumatura di indignazione nella voce.
« Claudia sei scandalosa. »
« Perché, cosa ho detto? »
« Matteo ti ha appena chiesto di uscire e tu sei già a caccia? »
« Stai insinuando che sto facendo la zoccola? »
« Oh, perché sei sempre così suscettibile? Sappiamo tutte del tuo amore per il bello, è inutile che adesso ritratti mesi e mesi e mesi di chiacchiere! »
« IL MIO AMORE PER IL BELLO?! »
« I bei vestiti, i bei tramonti, i bei ragazzi.. soprattutto i bei ragazzi. »
« Dateci un taglio tutte, vi avevo chiesto di non dar spettacolo e state strillando come un branco di galline isteriche! » sibilò Viola al culmine dell'imbarazzo, sprofondando la testa tra le braccia incrociate sul tavolo e desiderando di poter precipitare il più rapidamente possibile al centro della terra.
       Non ebbe il coraggio di sollevare il viso fino a quando lo strano, allarmante silenzio delle sue amiche non la insospettì. Mia raschiava i fondi del suo cocktail rumorosamente, gli occhi verdi spalancati e fissi nella stessa direzione dove con finto disinteresse guardava anche Lucrezia, attortolandosi una ciocca ramata tra le dita con fare volutamente ammiccante; Giada, al suo fianco, stava facendo finta di digitare un sms alla madre – un'accozzaglia di lettere e vocali prive di alcun significate che vennero puntualmente inviate per dare tono alla finta -. Claudia invece scrutava Viola con l'aria sorniona di un gatto che ha teso la sua trappola e aspetta solamente di veder cadere la propria preda nel tranello.
Non ebbe bisogno di alzare gli occhi e guardare alle spalle per sapere che Enrico era lì, dietro di lei.
       Ne avvertiva lo sguardo sulla pelle, caldo e scuro; una carezza cui non avrebbe mai voluto veramente sottrarsi se l’imbarazzo non le avesse spennellato le guance di un rosso così vistoso da risultare evidente persino nella penombra del locale.
« Ciao! » fece lui sfondando il muro di indugi e timidezza frettolosamente eretto da Viola, ancora incapace di guardarlo.
« Ciao » biascicò questa imbarazzatissima, costretta ad alzarsi in piedi e strattonare verso il basso l’orlo cortissimo del vestito giallo. D’un tratto l’idea di apparire così sgargiante non le sembrava più così tanto buona.
« Quindi non vivi in palestra! » la incoraggiò Enrico, ammiccando e schiudendo la bocca in un sorriso che la tramortì all’istante, mozzandole il fiato in gola.
« No, di tanto in tanto riusciamo a trascinarla fuori dal suo loculo al cloro. » esordì Claudia con aria ammiccante, guadagnandosi in cambio un’occhiata di fuoco che ignorò senza troppi scrupoli.  Enrico rise, Viola strusciò un piede a terra e finse di non sentire un tuffo al cuore quando lo vide tendere la mano ad ognuna delle sue amiche, presentandosi.
« Enrico, piacere di conoscervi ragazze. Viola non mi ha mai detto di avere delle amiche così belle. »
« Forse perché non avete mai parlato davvero. » esalò Giada prima che una gomitata nel fianco la zittisse bruscamente. Viola fece finta di niente e si strinse nelle spalle con aria innocente, premurandosi di non perdere il sorriso che sentiva incrostarsi in maniera permanente sulla faccia.
« Passa così poco tempo con noi » intervenne Lucrezia in sua difesa, quando venne il suo turno di stringere la mano al giovane « che non sarebbe sbagliato presumere si scordi di noi più di quanto non lasci credere. Lucrezia, tanto piacere. »
« Male, Viola, male! » rise lui con leggerezza, lasciando la mano della rossa e tornando a guardarla con un sorriso che lei sentì scivolare oltre gli strati di bieca nonchalance con cui cercava di affrontare la situazione. Era un sorriso che le sarebbe rimasto stampato dentro, accanto al ricordo preciso della prima volta in cui l’aveva chiamata per nome. Un sorriso che non avrebbe saputo, né mai voluto dimenticare.
« E va bene, lo ammetto, sono colpevole! » sbuffò teatrale, facendo scivolare lo sgabello sul pavimento appiccicaticcio « Quindi il prossimo lo offro io. »
« Yay per Viola! » esclamò Mia, alzando un braccio nel tintinnare gioioso di troppi braccialetti. Viola sospirò e guardò Enrico come a volergli dire che non era colpa sua ma si ritrovò, suo malgrado, ad arrossire davanti alla pienezza della sua risata.
« Dai, non fare quella faccia! » fraintese lui, posandole una mano sulla schiena nel condurla verso la ressa schiacciata attorno al bancone « Si vede che ti vogliono bene. »
       E tu cosa vuoi da me?Si ritrovò a pensare Viola, sentendosi bruciare dove le dita di Enrico premevano contro la stoffa gialla del suo abito. Accantonò il pensiero in fretta, con la sola certezza di non esser affatto sicura di voler conoscere la risposta, e imbastì un sorriso intimidito al gruppetto che li guardava avvicinarsi con occhi curiosi.
« Ma non puoi darle tregua almeno quando non è su in palestra? » chiese Gian ad Enrico, dando segno di averla riconosciuta subito e dedicandole un cenno di saluto. Viola ricambiò incerta, a disagio come tutte le volte che si trovava costretta ad affrontare una situazione inaspettata.
« Capisco che il giallo le doni più del verde acido, ma insomma… ne avrà anche le palle piene di noi! » intervenne uno dei ragazzi di cui non ricordava il nome, dopo averle rivolto un ampio sorriso gentile.
       Troppo tesa per poter cogliere il complimento, Viola azzardò una risatina nervosa e si fece piccola piccola, strusciando i piedi a terra negli ultimi passi. Non amava stare al centro dell’attenzione, non in quel modo. Certo, era divertente scambiare qualche battuta con loro quando a dividerli c’era il bancone della reception, era divertente fantasticare di conoscerli stando al fianco di Enrico proprio come stava succedendo. Ma, appunto, era la fantasia ad essere divertente. La realtà la terrorizzava e aveva la netta sensazione di avere il volto in fiamme per l’ennesima volta, cosa che non l’aiutava a togliersi di dosso la sensazione di disagio mitigata solamente dal calore dell’uomo che le stava alle spalle. E anche quello, alla lunga, stava iniziando ad agitarla più di quanto non volesse ammettere ma al tempo stesso non voleva privarsi del suo tocco deciso tra le scapole.
« Tranquilli, neppure se mi offre da bere riesce a raccimolare uno sconto per i prossimi ingressi…! » scandì incerta, guadagnandosi le risate dei ragazzi e uno sguardo di apprezzamento da parte di Enrico che le pizzicò la spalla giocosamente. Una scarica elettrica si dipanò attraverso la ragnatela delle sue terminazioni nervose, irradiando un brivido che si raccolse poi in una fitta improvvisa.
Quando era piccola Viola aveva chiesto alla sua maestra d’asilo se per case sapesse come si sentisse il sole, costretto a bruciare e consumarsi ogni giorno tutti i giorni, senza mai trovare pace. La donna l’aveva guardata perplessa e, carezzandole i capelli, aveva ammesso di non averne la ben che minima idea ma che, in fondo, tutto quel bel calduccio dorato non doveva essere poi così male. Ora Viola invece avrebbe voluto ricordarsene il nome, e non solo l’odore di plastilina e biscotti, per poterla rintracciare e dirle che sapeva come si sentiva il sole e che no, non era affatto piacevole quel bel calduccio: era un inferno di desiderio accecante, incandescente, che divorava ogni suo pensiero per affogarlo in una voglia irruenta, impulsiva.
 
       « Terra chiama Viola, Terra chiama Viola! »
La voce di Giada la strappò ai suoi pensieri mentre, scarpe in mano la prima e trucco sfatto la seconda, si arrampicavano una accanto all’altra lungo le stradine della città vecchia per arrivare a casa di Viola. Guardò l’amica di sbieco, gli occhi limpidi come cieli primaverili e i capelli raccolti in un nodo distratto. Senza pensarci tese la mano per sfilare l’elastico, liberandole sulle spalle una pioggia di ciocche color grano maturo.
« Devi smetterla di tormentare questi tuoi poveri capelli, ti stanno benissimo sciolti. »
« Ma sono scomodi! » sbuffò la bionda, prendendola a braccetto e posando la guancia contro la sua spalla. Viola le schioccò un bacio tra i capelli, chiudendo gli occhi.
« Tutto ciò che non è il mio letto è scomodo in questo momento. » sbadigliò assonnata, sotto lo sguardo divertito di una miriade di stelle. L’alba non era troppo lontana, ma nell’ora buia l’unica luce che scaldava i vicoli era quella dei lampioni appesi ai muri delle case vicine. Non fosse stato per il loro aspetto scarmigliato e i timbri neri sul dorso delle loro mani, sarebbero potute sembrare due fantasmi scappati ad un passato vivo nel ricordo delle pietre ruvide della città vecchia.
Viola guardò Giada e sbatté le palpebre sugli occhi lucidi di stanchezza e dei residui di una sbronza che l’avrebbe costretta a patire, l’indomani, il suo lascito di mal di testa.
« Comunque, giusto per chiudere questa inopportuna digressione su materassi ancora troppo lontani, non mi hai risposto. »
« Perché non ho neanche ascoltato la domanda, Giada. »
« Gran bel modo di fare, signorina. Ti ho chiesto se col ciclista è successo qualcosa quando siete spariti al bancone. »
Viola non poté fare a meno di arrossire. Non era successo niente, in realtà: passati i canonici trenta secondi di battute di cortesia si era limitata ad aspettare il suo turno e aveva declinato con un sorriso nervoso l’offerta di Enrico di aiutarla a portare i cocktail al tavolo. Non sono così presa male dai, aveva riso stentata, ma grazie lo stesso. Lui aveva inclinato il capo verso la spalla destra, valutando prima lei poi i troppi bicchieri colmi che teneva tra le mani, ma non aveva insistito. Scrollando le spalle aveva sorriso di nuovo e le aveva augurato di passare una bella serata; poi non lo aveva più visto e la notte era scivolata via in fretta.
« Ma cosa vuoi che sia successo, dai! » sospirò Viola, frugando nella borsa in cerca delle chiavi di casa « Hanno elemosinato un po’ di sconti in palestra ed è finita lì. »
« Sembrava stessi andando a fuoco quando sei tornata indietro » obiettò Giada, posandosi contro la parete più vicina per massaggiarsi la pianta di un piede scalzo «  Dio, queste scarpe mi hanno uccisa. »
« Team stivali tutta la vita! » esultò la mora, componendo la V della vittoria con le dita.
« Lascia stare, non mi è ancora chiaro per quale oscuro motivo ho voluto mettere i tacchi. »
« Perché ti stanno bene, come i capelli sciolti. »
« Non cambiare argomento di nuovo. »
Viola tacque, scoperta, per qualche attimo.
« Ma davvero non è successo nulla, che palle! »
« Ok, ok, scusa! Non serve agitarsi! »
« Ma io sono agitata quando si tratta di… » Viola sbuffò, tenendo il portone aperto e aspettando che l’amica sgusciasse nel freddo umido dell’atrio, incapace di mettere in voce il pensiero che sentiva martellarle il cranio assieme ai primi sintomi del mal di testa che l’avrebbe accolta al risveglio.
« Lo so, ti mette a disagio. Sia il fatto che lui ti piaccia, sia che questo ti metta ancora di più a disagio. Sei il disagio fatto persona, in effetti. »
« Per lo meno non ascolto gli One Direction. » cercò di difendersi Viola, arrampicandosi sulla prima di una lunga serie di rampe.
« Non è vero, prima ho vista che qualche loro canzone su Itunes ce l’hai. »
« Giada, ti voglio bene ma sei una stronza impicciona. Pensa piuttosto al tuo scortese Limonatore, grande assente della serata. »
« Chi sarebbe la stronza, scusa? »
« Chi sarebbe quella che cambia argomento, scusa? »
Si fermarono, contemporaneamente, con una mano premuta sul petto e il fiato corto alla quarta rampa.
« Sono una stronza a disagio, hai ragione. » singhiozzò Viola, a corto di respiri e parole per raccontarsi, la fronte aggrottata e gli occhi fissi in quelli chiarissimi di Giada « Non so come comportarmi in queste situazioni. Andrea è stato il mio primo e unico ragazzo, ci siamo messi assieme al terzo anno di liceo e mollati al primo di università; non so capire quando qualcuno è interessato a me. »
« E io mi perdo dietro un tizio a caso che mi ha limonata ad una festa e due ore dopo aveva già la lingua in gola ad un’altra. » concesse Giada con voce morbida d’affetta. Ripresero ad arrampicarsi lungo i gradini spogli, scivolando con la punta delle dita sulle vecchie pareti scrostate.
« Nel tuo caso lui è un completo deficiente e te l’abbiamo sempre detto. »
« E nel tuo invece non saprei proprio cosa dirti, come te non sono in grado di capire se un tizio ci prova o è solamente gentile. Però Viola… » la bionda fece una pausa, aggrappandosi al passamano mentre l’amica faceva scattare le mandate della serratura « Il modo in cui ti guarda non fa pensare ad una persona estremamente gentile. »
« Perché, come mi guarda? »
« Ti guarda come si guarda un cioccolatino che non si vede l’ora di scartare. »


 


Lo ammetto, sono troppo stanca per mettermi a rivedere eventuali errori di battitura.
Abbiate pietà, e perdonate anche l'immenso ritardo che ho accumulato già al terzo capitolo.
Un bacio grande.

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro ***



IV
 

Silenziosissimo, il corridoio era straordinariamente affollato: nella luce fredda di una mattinata grigia come il ferro, nugoli di studenti aspettavano più o meno coraggiosamente il loro turno per sfilare all’interno del piccolo studio annidiato accanto alle grandi porte chiuse dell’Aula magna.
Viola posò il plico di appunti sulle ginocchia, reclinando il capo fino a posare la nuca contro la parete spoglia alle sue spalle mentre Claudia continuava a consumare suole e pavimento andando avanti e indietro davanti a lei.
“Mi stai facendo venire la nausea” protestò fioca, gli occhi serrati e la fronte corrugata in un reticolo di rughe appena visibili, preoccupate.
“Tesoro, incolpa Cecchini e non me” la rimproverò Claudia caustica “è la sua materia di merda a farti salire il vomito.”
Viola tacque, soppesando silenziosamente il livello di nervosismo implicito nella voce della sua amica. La conosceva abbastanza da sapere che, quando faceva così, quando indossava la maschera della dura e si scagliava contro tutto e tutti senza distinzioni, era per non svelare come al di sotto della maschera ci fossero lacrime pronte a scorrere bollenti. Senza insistere, tornò ad abbassare lo sguardo sui suoi appunti e sospirò silenziosamente.
Era la prima volta che affrontavano l’esame ed era la prima volta che si trovavano nella condizione di dover mettere a confronto anni e anni di dicerie terribili con la loro personale esperienza.
Cristiano Cecchini, docente di Diritto internazionale dei diritti umani, vantava un curriculum notevole e non solo in ambito accademico: famoso per la sua totale e palesemente dichiarata noncuranza nei confronti dei suoi studenti, tristemente noto per le scenate che inframezzavano le sue lezioni come fossero banalissimi intercalari, conosciuto per la spietata freddezza delle sue interrogazioni al limite dell’impossibile, era da sempre considerato uno dei mostri – nel senso più letterale del termine – dell’università. Viola non aveva avuto modo di scoprirlo sulla propria pelle, aveva dovuto rinunciare a frequentare le lezioni a causa del lavoro, ma i resoconti delle sue amiche erano stati sufficienti a farle venire la pelle d’oca.
Niente a che vedere con quella che le increspava le braccia in un brivido quando incrociava Enrico per la palestra.
Non era capitato spesso, ultimamente, e quando era capitato non c’era mai stata occasione per lanciarsi oltre la consistenza appiccicosa di un’occhiata trascinata un po’ troppo a lungo, o una cortesia un po’ impostata nel rivolgersi la parola per cancellare una prenotazione o rinnovare l’abbonamento.
Aveva come l’impressione che lui si stesse trattenendo nella stessa misura in cui lei, disperatamente, cercasse di lasciarsi andare. Magari così sarebbe stato più facile trovarsi a metà strada. O magari, semplicemente stava facendo la figura della povera scema con un’infatuazione imbarazzante.
Eppure, non riusciva a scrollarsi di dosso le parole di Giada: ti guarda come si guarda un cioccolatino che non si vede l’ora di scartare.
Non erano parole buttate lì a caso, Enrico dava effettivamente l’impressione di non limitarsi a guardare il verde acido della polo che indossava, ma di volergliela effettivamente sfilare di dosso. Ogni tanto lo scopriva assorto a fissarla, mentre chiacchierava con i suoi amici aspettando Gian, sempre l’ultimo ad uscire dallo spogliatoio. Alzava gli occhi dalle ricevute che stava riordinando e si ritrovava i suoi occhi bui addosso, aggrappati al suo volto in una carezza disperata, accesi da una sfumatura che la lasciava senza fiato. E confusa, perché poi la volta dopo a malapena salutava, a malapena le rivolgeva la parola, a malapena dava segno di aver registrato la sua presenza.
Se era un gioco, si era lamentata con Giada, era uno di cui non conosceva le regole e palesemente non era neppure così tanto portata se continuava a fraintendere le mosse di Enrico.
Se era un gioco, le aveva fatto notare Giada, allora forse avrebbe dovuto pensare meno e divertirsi di più, senza tormentarsi sul significato che uno sguardo poteva avere: l’aveva guardata, e tanto avrebbe dovuto farsi bastare.
Con un sospiro, tornò a guardare gli appunti posati sulle gambe. Si sentiva addosso un senso di malessere che non sapeva spiegarsi, un velo d’angoscia che le rubava il fiato e che aveva sempre associato a tutta una serie di cose che non voleva fare. Rimettere a posto la stanza, le pulizie, scacciare i clienti ritardatari dalla sauna. L’esame.
Erano mesi che lo preparava, mesi di tortura, mesi passati seduta ad una scrivania con davanti dei libri più pesanti della Columbo quando era in vena di lamentele, mesi di appunti e mappe mentali con cui aveva rinnovato la tappezzeria di casa. Mesi di fatica, preoccupazioni, tensioni – e adesso stava per giocarsi più giorni di quanti potesse contare in una manciata di minuti, sulla base del giudizio di un professore che aveva letteralmente appena fatto scappare una ragazza in lacrime.
La guardò sfrecciare lungo il corridoio, inorridita quasi quanto Claudia che, dopo un istante di silenzio incredulo, esplose nella bestemmia più irripetibile che Viola avesse mai sentito pronunciare in vita sua. Non ebbe il tempo di commentare, però, perché dall’ufficio in fondo al corridoio risuonò una voce lugubre e vagamente annoiata, che chiamava il suo nome.
 
 
Viola si soffiò il naso, per l’ennesima volta, cercando di frenare l’impulso di scoppiare a piangere.
Senza guardare alla donna che le stava davanti, le porse il suo tesserino con il mese di novembre scalato e la ricevuta di pagamento.
“Dannato raffreddore!” mentì spudoratamente, sperando che l’ipotesi di una infreddatura potesse giustificare il naso e gli occhi arrossati.
“Povera stella!” cinguettò lei in tutta risposta, senza neppure guardarla, prima di scivolare verso lo spogliatoio femminile e svelare l’espressione preoccupata di Renata, in attesa.
Si sentì pizzicare gli occhi all’improvviso, e la voglia di scappare via e piagnucolare al telefono con sua madre la investì tutto d’un colpo.
“Oh, tesoro…” sospirò la donna.
“Ciao” pigolò Viola, ormai certa del tremore incontrollato delle proprie labbra e della propria voce.
“Non dire niente, Claudia mi ha raccontato tutto. Che individuo spregevole, sono davvero senza parole!”
“Purtroppo è lui ad avere il coltello dalla parte del manico…”
“Questo non lo autorizza ad umiliare le persone a cui dovrebbe insegnare qualcosa!”
Viola rise dell’indignazione della donna, concedendosi per qualche istante il lusso di lasciarsi scaldare dalle sue parole, rivivendo per la millesima volta quello che era decisamente schizzato in cima all’elenco delle cose più umilianti che le fossero mai capitate.
Non era partita benissimo, questo era vero. La prima domanda l’aveva trovata impreparata e l’agitazione che aveva addosso non le era stata d’aiuto quando si era trattato di rielaborare tutto quello che aveva studiato per mesi e riadattarlo in una risposta che non lasciasse intendere quanto poco avesse colto il punto dell’interrogativo. Quando poi finalmente era riuscita a mettere a fuoco la questione, lo sguardo del professore non lasciava dubbi su come il colloquio si sarebbe concluso. Ma si era barcamenata con grazia, aveva risposto puntuale, e questo se possibile lo aveva fatto infuriare ancora di più, così l’esame si era trasformato rapidamente in un’agonia. Non potendola obiettivamente bocciare, l’uomo aveva optato per l’umiliazione e aveva iniziato a divagare, interrogandola su trattati che non facevano parte del programma, approfittando del fatto che, per età, non aveva modo di conoscerli. Ma il vero capolavoro era stato quando, alla fine di un balletto che aveva condotto con cattiveria inaudita, aveva indossato gli occhiali da sole e le aveva sputato addosso un numero così basso che Viola era inorridita e aveva rifiutato d’impulso, alzandosi dalla sedia e scivolando fuori dallo studio a testa alta, prima che lui potesse cacciarla.
Le lacrime erano venute dopo, esplose letteralmente nel momento in cui aveva incrociato gli occhi grigi di Claudia, ed erano continuate per tutta l’ora successiva. Aveva pianto per rabbia, per frustrazione, per impotenza. Aveva pianto perché non era giusto, perché per quanto sapesse di non meritare un trenta era anche sicura di non meritare neppure quell’umiliazione. E aveva pianto per il peso di un fallimento che le era stato imposto per capriccio, certo, ma che sotto sotto sempre un fallimento restava.
“Ah, gira voce che se ne vada, l’anno prossimo. Male che vada, rifrequenterò e darò l’esame con il nuovo professore” sorrise senza allegria, stringendosi nelle spalle. Sapeva di non aver convinto Renata, ma la donna si limitò a serrare le labbra in una smorfia prima di sospirare. E gliene fu grata, perché per quanto bene le volesse, proprio non era nelle condizioni di continuare a parlare di quello che era successo. Voleva solo dimenticarlo, almeno per un po’.
“Vuoi fermarti a cena da noi, più tardi?”
“Grazie, ma voglio solo andare a casa e fare una doccia… la prossima volta, sicuramente.”
“Va bene tesoro. Ci vediamo domani!”
Viola sorrise, guardandola allontanarsi, e sbirciò l’orologio: ancora venti minuti e avrebbe potuto scappare via, rintanandosi sotto le coperte in compagnia della borsa dell’acqua calda e di un paio di calzettoni pesanti.
Stava già pregustando la pizza che avrebbe ordinato, da mangiare rigorosamente sul divano e davanti ad una puntata di qualcosa di estremamente lacrimevole o stucchevole – o meglio ancora, entrambi -, quando la porta dello spogliatoio maschile si aprì e lasciò uscire la combriccola dello spinning al gran completo.
Li seguì con la coda dell’occhio, invidiando per un momento le loro vite adulte, apparentemente prive di tutte quelle piccole complicazioni che sentiva pesarle sulle spalle. Cercava di non dare loro più peso di quanto meritassero, di ricordarsi che era solo la bruciante sconfitta a farla sentire così smarrita e inconcludente, di tenere a mente che non aveva proprio nulla di cui vergognarsi e che, al contrario, avrebbe dovuto esser fiera dei risultati che aveva raggiunto, della maturità che aveva conquistato.
Ma quanto avrebbe voluto, anche lei, essere nella condizione di frequentare una palestra nel tempo libero e non per lavoro! Quanto avrebbe voluto potersi permettere di avere del tempo libero per fare qualcosa che effettivamente le interessasse fare, senza nessun obbligo e nessuna costrizione! Aveva sempre avuto la tendenza ad autocommiserarsi un po’, quando sentiva di aver fallito qualcosa di grosso. E per l’impegno che ci aveva messo, era giunta alla conclusione che le era anche dovuto un po’ di sano conforto e che aveva tutti i diritti del mondo di lamentarsi e piagnucolare.
Incrociò lo sguardo di Enrico un istante prima che imboccasse le scale, ma non le riuscì di sorridergli. Al contrario, sentì di nuovo la tristezza gonfiarle il petto di un sospiro che tenne per sé, chinando il capo in una resa che la portò a fissare, per l’ennesima volta, gli incassi della giornata che ancora non aveva fatto quadrare.
 
 
Erano le nove e mezza passate, quando finalmente si lasciò alle spalle l’edificio ancora illuminato della piscina. Non era riuscita a far quadrare gli incassi e aveva dovuto andare a controllare quelli del turno precedente, per poi scoprire che era stata Paola, la responsabile, a prelevare i venti euro mancanti, senza degnarsi di avvisarla se non quanto, sentendosi uno straccio, l’aveva chiamata per informarla dei contanti scomparsi.
Erano le nove e mezza passate e pioveva così forte che aveva l’impressione di correre alla cieca lungo il marciapiede, verso la fermata dell’autobus. Nel buio della sera poteva ancora scorgerne le luci, ma sapeva di non avere più di una manciata di secondi prima che partisse, lasciandola lì ad aspettare per una mezz’ora abbondante o costringendola ad una camminata infinita attraverso la città.
Viola non ebbe il tempo neppure di gridare quando, ad un metro dalla fermata, vide le porte che si chiudevano. L’autobus si allontanò, nello scroscio assordante della pioggia, lasciandola ammutolita e senza forze. E prima che potesse scansarsi, la macchina che lo seguiva accelerò all’improvviso, investendola con un’ondata d’acqua gelida e sporca che le mozzò il fiato in gola. Completamente imbambolata, sconvolta, non ebbe neppure la prontezza di spirito di urlare qualcosa e si avviò mogia verso il riparo del gabbiotto malandato poco più in là, stringendosi addosso il cappotto completamente zuppo e guardando sconsolata alle ballerine – quella mattina di un bel rosa cipria – che per quanto carine potessero mai esser state, decisamente non erano adatte al nubifragio che cercava di affogare la città. Se non altro il raffreddore se lo sarebbe preso per davvero, questa volta.
Sconsolata, annichilita dalla piega spaventosa che la giornata aveva preso, si chiese perché la merda cercasse di inghiottire sempre le persone che meno le meritano. E tanto per esser sicura di trovare una risposta, inviò la stessa domanda alle sue amiche, digitando rabbiosamente un sms. Che le scivolò dalle dita umide, schizzando verso una pozzanghera poco distante.
Viola sentì di aver toccato il fondo, mentre si chinava per raccoglierlo e lo vedeva spegnersi con un pigolio di protesta. Non ne poteva più. Voleva andare a casa. Voleva la mamma. Voleva persino ascoltare i rimproveri burberi di suo padre e litigare con sua sorella per le cose più stupide. Ma sopra ogni altra cosa voleva togliersi di dosso i vestiti bagnati, e ripulirsi dalla tristezza di una giornata che non avrebbe dovuto essere così. Voleva rannicchiarsi sotto le coperte e piangere senza dover spiegare a nessuno del perché piangeva, ecco cosa voleva.
Sobbalzò quando la macchina le si fermo accanto, e l’autista si sporse verso di lei con un sorriso che le fece male.
 “Ti serve un passaggio?”
Enrico.
Sentì gli occhi pizzicarne e si morse le labbra, incapace di rispondergli. Lo guardò aggrottare la fronte, seguì il lampo di vaga preoccupazione che gli attraversò lo sguardo scuro e, prima di rendersene conto, gli chiese cosa ci facesse ancora lì.
“Ci siamo fermati a mangiare un boccone alla Bettola”, spiegò lui disinvolto, senza accennare a liberarla dal peso insistente del suo sguardo “nessuno di noi aveva una gran voglia di tornare a casa.”
“Io invece muoio dalla voglia di arrivarci…” si lasciò sfuggire Viola, lo sguardo basso e le mani strette attorno alla tracolla della borsa. Aveva come la netta sensazione che se lo avesse guardato per un altro po’, semplicemente si sarebbe rotta in un’infinità di pezzettini che nessuno avrebbe più saputo ricomporre. Avere l’esatta percezione della propria fragilità, se non altro, le aveva permesso di conoscere con precisione i propri limiti. Era una granata, pronta ad esplodere, i secondi che le rimanevano ticchettavano via assieme ai battiti del suo cuore.
“Dai, ti do un passaggio, sali… di autobus non ne arriveranno per un bel po’ e hai tutta l’aria di una che ha avuto una gran giornata di merda.”
Trattenne un singulto, sbattendo le ciglia come a voler arginare le lacrime che premevano per rotolarle lungo le guance. Si chiese se sarebbe stato capace di accorgersi che stava piangendo; con tutta l’acqua che aveva preso era probabile che la sua faccia fosse ormai ridotta ad una maschera di trucco sciolto.  
“Giuro, giuro che non ti chiederò mai uno sconto per questo!” insistette lui, quasi avesse intuito il suo sprofondare in una palude di tristezza e cercasse, con determinazione, di aiutarla a liberarsi dalle sabbie mobili. Suo malgrado, Viola rise. Fu una risata breve, però, presto soffocata dal singhiozzo che le risalì a tradimento la gola. Enrico, di nuovo, non diede segno di averci fatto caso, e spinse leggermente la portiera aperta verso di lei.
“Dai, Viola, andiamo. Non mi sento proprio di lasciarti qui così…”
Senza rendersene conto, lei si alzò dalla panchina umida e scivolò sul posto del passeggero. Richiuse la portiera con delicatezza, lasciando che il profumo sconosciuto della macchina e quello dell’uomo seduto a una manciata di centimetri di distanza l’avvolgessero in un bozzolo di calore. La pioggia ringhiò con più cattiveria, quasi il fatto che le fosse momentaneamente sfuggita l’avesse fatta inferocire. Sbirciò Enrico, che le chiese dove dovesse accompagnarla, e mentre gli bisbigliava il suo indirizzo con voce flebile si chiese se non stesse facendo qualcosa di estremamente stupido.
Non era una sprovveduta, non lo era mai stata, e sapeva che infilarsi nella macchina di un cliente, non solo suonava peggio di quel che realmente era, ma non era una grande idea e basta. C’era qualcosa, però, nella voce di lui – una nota di così tiepida preoccupazione – che le riusciva impossibile pensare che potesse davvero, intenzionalmente, farle del male. Che le sue intenzioni fossero meno che buone.
Poteva già sentire la voce acuta di Mia strillare in preda al panico, e immaginare lo sguardo allibito di Lucrezia. Giada probabilmente l’avrebbe abbracciata forte e fatto finta di niente, dando la colpa alla giornata orrenda, mentre Claudia… Claudia l’avrebbe schiaffeggiata. Senza dirle nulla, le avrebbe rivoltato il capo sul collo e tanto sarebbe bastato.
E avrebbe pure ragione, ammise Viola, rannicchiandosi sul sedile scuro di una Lancia Y straordinariamente simile a quella che aveva guidato il giorno in cui aveva preso la patente. Era una macchina sconosciuta, ordinata, senza pupazzetti sul cruscotto. Era la macchina di una persona che non conosceva, dove risuonava a basso volume un cd di Cremonini. Claudia avrebbe fatto più che bene, a schiaffeggiarla, ma proprio non riusciva ad identificare Enrico con una minaccia.
Il suo sguardo era buono, intriso di un’oscurità che non le faceva paura ma la invitava ad abbandonarsi ad un sogno ad occhi aperti, trapunto delle stelle del sorriso che gli curvava le labbra mentre commentava qualcosa sul mal tempo e sull’acqua che si schiantava a terra.
“Scusami, ti sto affogando la macchina” squittì in preda al panico, assordata dal picchiettare violento della pioggia sulla vettura, interrompendolo di punto in bianco.
“Ma per l’amor del cielo, preferiresti affogare tu, standotene li fuori tutta sola?” Enrico scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli ancora umidi. Incerta, Viola tentennò appena. Lui mise in moto, e una carezza d’aria calda abbandonò il riparo sicuro di un bocchettone per blandirle i piedi.
“Beh, grazie allora…” sussurrò, afflosciandosi nuovamente contro lo schienale e chiudendo gli occhi. La macchina si immise nel traffico, sostanzialmente inesistente, della sera. Era così stanca che, francamente, le sarebbe importato ben poco del morire sotto tutta quella pioggia. Le sarebbe importato poco persino se fosse stato lui ad ucciderla – doveva ricordarsi di dire a Claudia che uno schiaffo non era abbastanza per inculcarle in testa che in macchina con gli sconosciuti non si va. Soprattutto quando gli sconosciuti hanno occhi che sembrano volerti mangiare dentro.
Smise di guardarlo, e finse che lui facesse lo stesso, ignorando il peso del suo sguardo che di tanto in tanto tornava a frugarla come a volersi accertare che fosse ancora tutta intera. Posò la testa contro il finestrino, premendo la pelle contro il vetro freddo, e chiuse gli occhi.
Il tempo si trascinava lento, infinitamente lento, e man mano che i minuti scorrevano sfocati oltre la pioggia e i confini sicuri della macchina, Viola aveva l’impressione che il suo non riuscire a parlare con Enrico, così tranquillo accanto a lei, fosse l’ennesimo segno del suo totale fallimento.
Aveva sperato in un’occasione come quella, ci aveva fantasticato sopra, ricamando dettagli e particolari così realistici che crederli inventati non sembrava possibile, sin dal primo giorno in cui l’aveva visto comparire in cima alle scale in un pomeriggio di inizio settembre. Era approdato al bancone con un sorriso sfrontato, da solo, e aveva bisogno di tredici secondi per ricordarsi di essere in grado di parlare. Lo sapeva perché li aveva contati e li aveva visti crescere con un panico sempre crescente mentre lui aspettava, senza metterle fretta, limitandosi a ridere con gli occhi.
Solo qualche settimana prima si era ritrovata a sognare ad occhi aperti, pigiata in un autobus troppo pieno, su come sarebbe stato farsi accompagnare da lui. E adesso che ne aveva l’occasione, non riusciva a trovare nulla da dire. Le parole, che da sempre le erano state ostili e non avevano mai esitato a farsi complici della sua timidezza, l’avevano tradita definitivamente.
Strofinò rapidamente una mano sul volto, premendola poi sulle labbra in un tentativo estremo di arginare le crepe che avevano quasi completamente sbriciolato il suo auto-controllo. Mancava poco, realizzò, ancora qualche minuto di strada e avrebbe potuto rintanarsi in casa a celebrare la sconfitta totale che si era rivelata la giornata. Poteva farcela, poteva riuscire a trattenersi ancora per un po’, poteva…
“Ehi…”
Il nodo alla gola si fece più grande, e una lacrima rotolò oltre il precipizio della ciglia serrate, rovesciandosi sul palmo chiuso della sua mano.
No, non poteva.
Non se lui le parlava con una tale gentilezza, decisamente non poteva.
Non se lui la guardava così. Non se lui la guardava e basta.
Viola singhiozzò come una bambina, e nascose il viso tra le mani. Si chinò in avanti, premendo la fronte sulle ginocchia. Dopo un po’, sentì il ticchettio delicato della freccia inserita, e subito dopo la macchina rallentare, mentre accostava al marciapiede. Un istante più tardi, Enrico le stava posando una mano sulla nuca, accarezzandole i capelli bagnati con gentilezza.
Si raddrizzò di scatto, come avesse preso la scossa, e le parole esplosero come un fiume un piena.
“Vuoi sapere quanto di merda è stata la mia giornata? Perché lo è stata davvero tanto, davvero troppo, e sono stanca di dover far finta che non mi importi così tanto se ho buttato gli ultimi tre mesi della mia vita dietro ad un esame che non è andato male, è andato peggio, e che decisamente non avrebbe dovuto andare così. Ma del resto c’è poco da fare, quando un professore è uno stronzo lo è fino in fondo, ha deciso che non l’avrei passato e ha fatto in modo che andasse proprio così. E non contento, ha pure voluto farmi passare per la povera ignorante che non sono, chiedendomi di un trattato del cazzo che è stato firmato quarant’anni fa, troppo recente per essere incluso nel manuale e troppo vecchio perché io potessi conoscerlo, e lo sai cosa ha fatto quando gli ho detto che non lo sapevo? Mi ha guardata come se fossi un abominio, uno scherzo della natura, e se ne è uscito con questa frasetta del cazzo, ma lei dove vive?, come se fosse uno scandalo, come se fossi la classica ragazzetta idiota che non si informa, che non ha interesse per il mondo che la circonda. Dio, che nervoso. Che nervoso! E non gli puoi mica dire niente, alla fine, perché comunque l’esame lo devi ridare e lui è uno di quegli individui frustrati dalla vita, dal cosmo, dal karma che per rimediare alla pochezza delle loro vite se la prendono con quelli che non possono aprir bocca e contestare, gli stessi poveri stronzi che se lo sono sciroppato per un semestre intero ascoltandolo vaneggiare su Israele, i palestinesi e tutte le sue idee assolutamente fasciste, che – da bravo figlio ingrato di partigiano – ha abbracciato come fossero una religione perché da qualche parte nel mondo c’è un foglio dove sta scritto che le cose stanno così e quindi no, assolutamente pensare con la propria testa è fuori discussione, perché fare lo sforzo se qualcun altro o qualcos’altro possono decidere per te?”
Non lo guardò, mentre inspirava per riprendere fiato, lottando contro il tremore che dalla voce era scivolato nel corpo, irrigidendole i muscoli in uno spasmo di nervosismo doloroso. Sentiva però la sua mano ferma sulla nuca, i polpastrelli nascosti sotto le ciocche umide, premuti contro la pelle.
Rabbrividì, e per non pensare riprese a vomitare parole.
“Tre mesi buttati nel cesso per colpa di un arrogante pezzo di merda, indegno del lavoro che fa, e Dio! Solo al pensiero di doverci tornare, di doverlo affrontare di nuovo mi sento male, mi viene da vomitare, mi viene voglia di cambiare facoltà, perché lui è il grande Cristiano Cecchini, testa di cazzo certificata, che può decidere di non farti laureare se ne ha voglia e di laurearmi invece io ho voglia, perché non ne posso più di passare i miei pomeriggi a mollo nel cloro, con un caldo bestiale e una responsabile a cui pesa il culo a dirmi le cose e poco importa se per questo mi tocca restare dietro a quella maledetta scrivania per quasi un’ora più del dovuto a cercare di far quadrare qualcosa che sarebbe quadrato perfettamente se solo lei si fosse presa la briga di dirmelo? Tanto Viola c’è sempre, Viola sostituisce sempre tutti, Viola è la povera scema che si fa il mazzo e per cosa? Per uno stipendio da fame con cui arrivo a malapena alla fine del mese? Perché sicuramente non lo faccio per la gloria, e il giorno in cui potrò entrare lì dentro come una cliente e non come la tuttofare di turno non arriverà mai troppo presto, il giorno in cui le persone la smetteranno di cagarmi in testa solo perché possono permettersi di farlo e io non posso permettermi di rispondere… Dio, che gran giorno sarà quello!” le scappò una risata amara, soffocata da un singhiozzo, e lasciò trascorrere una manciata di istanti durante i quali si rese conto che la radio si era zittita, così come il tocco che fino ad un attimo prima avvertiva caldo sulla nuca. Represse un gemito, sentendosi infinitamente piccola e stupida, ma soprattutto incapace di fermarsi. Non volse il capo a cercarlo, non aveva voglia di affrontare un ennesimo fallimento. Tantomeno la consapevolezza che l’essersi comportata come una pazza isterica aveva definitivamente chiuso i giochi tra di loro, imponendo una battuta d’arresto così violenta che, nello shock, probabilmente non avrebbe avuto modo di accorgersi della sofferenza che sarebbe arrivata, puntualmente, a reclamare il conto delle sue fantasie.
“E io non volevo che fosse così, la nostra prima vera conversazione. Non volevo starmene nella tua macchina, sfatta come una tossica, in preda ad un delirio di autocommiserazione e ad una diarrea verbale che davvero, sono timida io, le mie cose sono mie e in quanto tali me le tengo per me, non è che me ne vado a spiattellarle in giro, ma a quanto pare basta una giornata di merda per trasformarmi nella protagonista di quel libro della Kinsella, quella che ha paura di volare e nel momento in cui si trova su un aereo in un tratto turbolento si ritrova a raccontare tutto quanto al tizio, strafigo per inciso, che le sta seduto vicino. A quanto pare non sono capace di trattenermi dallo sputtanarmi completamente neanche io e davvero non avrei voluto, perché non sono una creaturina senza spina dorsale che passa la vita a piangersi addosso, non lo sono proprio, né tantomeno avrei voluto che questo succedesse con te, e questo perché sei una di quelle persone che mi piacciono al punto da mettermi in soggezione e non avrei mai, mai, mai voluto ritrovarmi nella tua macchina in preda ad una crisi di nervi come una bimbetta isterica, a piagnucolare di quanto sembri far schifo la mia vita in questo momento quando non è così, mi piace la mia vita, mi piace lavorare in palestra ma soprattutto mi piaci tu e Dio, ma cosa ci faccio io nella tua macchina? Non ti conosco, non abbiamo mai parlato, per quel che ne so potresti essere uno psicopatico pronto a strangolarmi o qualcosa del genere, e non era così che volevo che andassero le cose, non era così che le avevo immagina---”
Non ebbe modo di concludere.
Si sentì strattonare con fermezza il volto, poi la pressione delle labbra di Enrico sulle sue eliminò il resto del mondo dalle sue percezioni con uno strappo brusco, improvviso, inaspettato. E un istante più tardi era tutto finito, così veloce che temette di esserselo immaginata, così veloce che neppure aveva avuto il tempo di chiudere gli occhi né di mettere a fuoco il volto dell’uomo che, da vicinissimo, si scostava appena.
Sulle labbra, però, conservava ancora l’eco del suo sapore, e le mani strette al suo volto come fosse una coppa da cui bere, e la sete che sentiva ardere in fondo alla gola, e la fame che vedeva accendergli gli occhi.
“Scusami” bisbigliò, senza sapere cosa dire, o cosa pensare, una reazione puramente istintiva che non avrebbe saputo in un alcun modo giustificare? Di che cosa doveva esser scusata, di preciso?
L’aveva baciata. Lui, l’aveva baciata.
Avrebbe potuto interromperla in qualsiasi altro modo. Avrebbe potuto parlarle, avrebbe potuto scompigliarle i capelli, avrebbe potuto… Si erano baciati. Esisteva davvero qualcosa che contasse davvero, al di fuori di quello? Viola non ne era sicura, così come non era sicura di cosa fare. Un lampo esplose nel cielo, violento e improvviso, illuminandoli entrambi mentre ancora si fissavano, vicinissimi. Il tuono si fece attendere, ma lo sentì a malapena. Nelle orecchie, il cuore le batteva così forte che temeva potesse esplodere da un momento all’altro.
Enrico, però, non le concesse altri margini d’interpretazione, né il tempo per poter aggiungere altro – soffocò un nuovo rigurgito di parole serrandole la bocca una seconda volta, questa volta senza delicatezza.
Viola smise di porsi domande, semplicemente. Una volta poteva essere un caso, la seconda era un desiderio – e lei amava esaudire i desideri, tanto più quando si accordavano ai suoi. Schiuse le labbra in risposta alla sua insistenza, accogliendo la sua lingua contro il palato, i denti, le labbra. Si fece baciare, in un modo che le fece pensare di non esser mai stata baciata davvero.
Quando poi Enrico mugolò qualcosa di incomprensibile, stringendole il labbro inferiore tra i denti e strappandole un singulto che aveva ben poco a che fare con il pianto frettolosamente arginato dalla sorpresa, lei sbatté le ciglia impastate di mascara sciolto e inspirò bruscamente.
“Resta con me” lo pregò, vittima del suo stesso desiderio, di un impulso così violento da toglierle il fiato. Si sentiva febbricitante, e lui era l’unica cosa che avrebbe potuto portarle un po’ di sollievo – non le importava di quello che sarebbe successo l’indomani, era tutto così distante e sfocato dalla brama che la consumava da risultare irrilevante. Ci avrebbe pensato poi, o forse non ci avrebbe pensato affatto. Non era importante, non quanto tornare a subire la pressione delle sue labbra, non quanto reclamare quella del suo corpo.
“Ti prego, resta con me.”
Enrico non rispose. Ma dopo un tempo che a Viola parve infinito, speso a scrutarla come se la vedesse per la prima volta, si slacciò la cintura e sfilò le chiavi dal quadro.
“Andiamo.”

 
 


 


Ve lo cuccate così come è, perché probabilmente meglio di così non riuscirei a fare. 
Niente, ho avuto nostalgia di questi due.

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