¿Cuàntos dìas empleàis en cada mujer que amàis?

di Blackbird_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo giorno: Uno para enamorarlas. ***
Capitolo 3: *** Secondo giorno: Otro para conseguirlas. ***
Capitolo 4: *** Terzo giorno: otro para abandonarlas. ***
Capitolo 5: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


"¿Cuàntos dìas empleàis en cada mujer que amàis?"

"Uno para enamorarlas, Otro para conseguirlas, otro para abandonarlas, dos para sostituirlas y una hora para olvidarlas"*




Non avevo mai considerato l'idea di innamorarmi, figurarsi quella dell'innamorarmi per via di un colpo di fulmine. In realtà credo di non aver mai creduto nell'amore. Non so, sarà colpa dei tempi che corrono. L'amore non è mai stato un sentimento contemplato nella mia crescita, nella mia educazione. I miei genitori e i miei insegnanti non hanno mai considerato questo aspetto della vita, non me ne hanno mai nemmeno parlato. Per loro l'amore non esiste, esiste solamente il dovere di sposarsi per poter portare avanti il nome della famiglia. Se poi ci si sposa con qualcuno di ricco, proveniente da una famiglia importante, bè... anche meglio. Fortunatamente, però, trascorro la maggior parte del mio tempo in compagnia di Letitia. Sebbene sia una ragazza senza cultura e sebbene il suo compito sia solo quello di tenermi compagnia e di esaudire ogni mia richiesta, è davvero un'ottima amica. E' stata lei la prima a farmi avvicinare alle letture d'amore. Fiabe, leggende, storie di principi e di principesse. E' da lì che ho imparato cosa sia l'amore. Immaginazione e fantasia. Io, almeno l'ho sempre vista così. Letitia invece è una sognatrice, pensa che quelle storie siano vere e che un giorno, chissà quando, anche lei troverà il vero amore e vivranno per sempre felici e contenti. Bah, bazzecole.
E' da qualche giorno che non riesco a smettere di considerare, di riconsiderare, la mia prospettiva. Dopo nemmeno una settimana dal nostro incontro, perché continuo a pensare a lui? Sorrido al solo pensiero, dopo un attimo mi rattristo. Ripenso al suo strano comportamento; ripenso alla dolcezza infinita delle prime cose che mi diceva, alla freddezza delle parole di quando è andato via. Lo detesto per ciò che ha fatto, detesto me stessa per averglielo concesso. Vorrei averlo qui con me in ogni istante. Vorrei non averlo mai conosciuto. All'idea di quei suoi meravigliosi occhi penetranti non posso fare a meno di sospirare. Sospirare e sperare che torni qui da me, presto. Magari che mi salvi dalla mia triste realtà come fanno i principi con le principesse delle storie che leggo ogni sera. Forse sono semplicemente tanto, troppo confusa. Forse la realtà è che nemmeno io capisco ciò che voglio e ciò che non voglio. I miei pensieri sono offuscati e non riesco a pensare lucidamente.
E' questo essere innamorati? E' questo l'amore? Tutti quei libri non riescono a darmi una risposta, ed io sono qui a struggermi per averne una. Il tempo passa ma non mi da consiglio.
Celeste.



Era una domenica come tante. Ero ancora in stanza intenta ad indossare il mio abito quando mia madre entrò, senza troppi convenevoli. "E' arrivato Padre Filiberto, Celeste. Stiamo aspettando tutti te per iniziare la messa" disse, in tono pacato. Come ogni settimana il prete della contea raggiungeva il nostro palazzo per poter celebrare i rituali sacri nella nostra cappella privata. Eravamo troppo ricchi per poter raggiungere la Chiesetta del paese, a detta dei miei genitori. Ed io ero troppo ribelle per poter dar loro ascolto. "No, madre, oggi non credo verrò alla celebrazione" risposi, trattenendo il respiro. Letitia era intenta a stringermi il corsetto e, scioccata dalla mia affermazione, aveva stretto più del necessario. Il volto di mia madre non nascose affatto la sua improvvisa collera. "Spero tu stia farneticando, Celeste! Non si può saltare la messa, cosa dirà la gente, poi?". Stava cercando in tutti i modi di tornare alla sua iniziale pacatezza, ma senza alcun risultato. "Ma no, madre. Io intendevo dire che oggi vorrei andare alla chiesa di paese, se possibile. Avrei davvero una gran voglia di uscire" conclusi. La sua respirazione tornò lentamente regolare. Per lei era davvero una grande sofferenza dare una risposta ad una simile richiesta. Ma era domenica, stava per andare a messa: non poteva peccare di ira proprio quella mattinata. "Essia" replicò.  Diede uno schiaffo alle mani di Letitia, che ancora era occupata a stringere i nastri. "Dovete uscire, datti una mossa con quel vestito. E stringi di più". Le sorrisi debolmente, e lasciò la stanza.
Era una splendida giornata di marzo. Il sole era alto e timidamente riscaldava ed illuminava ogni angolo. Il mio umore, generalmente collegato al meteo, quella mattina era ottimo: ero terribilmente euforica ed allegra. Urlandomi contro Letitia mi raggiunse e mi porse la mia mantella rossa. Nonostante non ne sentissi la necessità, la indossai comunque. Se i miei genitori avessero saputo che ero andata a zonzo per il paese senza quella addosso probabilmente mi avrebbero rinchiusa in un monastero di clausura. La mia dama da compagnia mi prese sottobraccio e insieme ci dirigemmo verso l'agglomerato di umili casette a poca distanza dal palazzo. Letitia era una grande amica, aveva esattamente la mia età e vivevamo insieme praticamente da sempre. Lungo la strada non poté fare a meno di commentare divertita la reazione di poco prima di mia madre; anche io trovavo la cosa terribilmente spassosa, e ne parlammo per tutto il viaggio, ridendo.
Arrivammo in pochi minuti in paese. Le campane suonavano e uno sciamare di gente accorreva verso la grande porta di legno della chiesa. “Sai, Leti, ho una gran voglia di non entrare. La giornata è così bella che sembra quasi uno spreco rinchiudersi in un posto tanto tetro” ammisi, rabbuiandomi. “La messa, qui in paese, dura molto meno di quella nella vostra cappella. Usciremo in fretta e poi potremmo farci una bella passeggiata all’aria aperta, non temete” mi rispose la mia amica, stringendo il mio braccio. Mi convinse. Entrammo e ci sistemammo nelle panche vicino all’ingresso, lontane dall’altare. Appena il parroco ci vide dalla sacrestia, però, ci raggiunse e ci invitò a sederci nelle prime file, insieme alle persone più agiate. Prete guastafeste. Il suono di una campana annunciò l’inizio della celebrazione, tutti si alzarono in piedi ed iniziarono a recitare le solite preghiere in latino. Fingendo di ripetere anch’io quelle parole per me senza senso mi guardai intorno. La netta separazione di classe mi infastidiva. Le prime file erano unicamente occupate da persone perbene, di famiglia agiata. Erano tutti agghindati, ricoperti di stoffe pregiate dai colori sfavillanti. Assurdo pensare che io, lì in mezzo, fossi la figlia del signore di quella città e che fossi, quindi, la più ricca lì dentro. Il mio abbigliamento non ostentava affatto il livello sociale elevato nel quale mi trovavo a vivere. Tutti recitavano svogliatamente i testi sacri, come fossero obbligati a trovarsi lì. Nelle retrovie delle navate, invece, famiglie e famiglie contadine ripetevano le preghiere ad occhi chiusi, credendo infinitamente nelle parole da loro pronunciate. Giovani, anziani, uomini, donne, bambini. Erano tutti lì riuniti per santificare la loro unica giornata di riposo, per ringraziare di essere sopravvissuti ad un’altra settimana su questo mondo. Mordendomi il labbro inferiore me ne tornai a fissare il parroco, ascoltando le sue parole senza troppa attenzione.
All’udire le ultime note dell’ultimo canto fuggii velocemente da quel posto. Letitia conosceva molto bene il paese, e mi condusse in un immenso campo fiorito a pochi passi dalla chiesa. Era un vero splendore. Ci sedemmo entrambe sull’erba fresca. “Quanto sarebbe bello avere anche un bel libro da leggere, non credi?” domandai alla mia compagna. Quella arrossì e infilò le mani nella tasca del grembiule. “Bè, io ne ho portato uno con me. Lo sapete che non me ne separo mai” disse, mostrandomi il libro che aveva appena tirato fuori. Lancillotto e Ginevra. La copertina d’un blu splendente era parecchio rovinata, mostrando quanto Letitia lo amasse e lo leggesse ogni giorno. “Ormai lo sapete a memoria anche voi, Celeste. Ma se avete voglia di leggerlo fate pure”. Me lo porse. Avevo davvero una gran voglia di leggere qualcosa, ma non mi piaceva l’idea di toglierle il suo passatempo preferito. Ero titubante e lo notò. “Io pensavo di andare a raccogliere qualche fiore da portare in casa per decorare un po’ la vostra stanza, se voi siete d’accordo. Questo quindi per ora non mi serve” continuò, sorridente. Ringraziandola accettai la sua offerta e mi immersi nella lettura non appena si fu alzata per raccogliere le margherite del prato.
Amori proibiti, tradimenti, cavalieri, draghi e principesse. Quell’esemplare unico di letteratura cavalleresca attirò tutta la mia attenzione, sebbene già conoscessi gli intricati intrecci della trama. Mi concentrai sulle parole utilizzate, sull’esito che esse avevano nella mia mente, sulle emozioni che mi provocavano. Avrei trovato anch’io l’amore? Magari su un prato verde, con i fiori tutt’attorno? Sorrisi al mio stupido pensiero e continuai a leggere. L’amore non esiste, continuavo a ripetere fra me e me, mentre le parole che scorrevano sotto il mio sguardo affermavano l’esatto contrario.
“Un bel fiore in questo meraviglioso prato fiorito” pronunciò una voce d’uomo, giovane ma profonda. Alzai lo sguardo per vedere chi fosse stato a rivolgermi parola. Ero talmente concentrata nelle parole del libro da non essermi nemmeno minimamente accorta dell’arrivo di quello sconosciuto. Mi alzai in piedi per trovarmi al suo stesso livello, nonostante fosse notevolmente più alto di me. “Voi chi siete, di grazia?” replicai acidamente, mentre studiavo ogni suo dettaglio. Era un ragazzo di un’età indefinita, probabilmente intorno ai venticinque. Il suo viso chiaro, incupito da un leggero filo di barba, era incorniciato da una bizzarra acconciatura. L’unico dettaglio a renderlo luminoso era lo sguardo: due enormi occhi verdi mi fissavano con curiosità, mettendomi in soggezione. Aveva risposto alla mia domanda ma, incantata com’ero a fissarlo, avevo momentaneamente smesso di ascoltare. “Come?” “Don Juan Tenorio, mademoiselle” ripeté in un inchino. Il suo buffo accento francese mi fece ridere. “Con quale incantevole fiore ho invece io l’onore di parlare?” domandò, prendendomi una mano senza crearsi troppi problemi. Interdetta dall’eccessiva spavalderia del tipo, mi allontanai immediatamente da lui e, con un grido, chiamai Letitia. Evidentemente nemmeno lei si era accorta dell’arrivo di quel ragazzo, perché la sua espressione cambiò improvvisamente e in un attimo mi raggiunse. “E’ ora di andare a casa, Letitia” ordinai, indispettita. Non era mia intenzione trattarla in malo modo, ma quell’uomo mi agitava, anche solo con lo sguardo. “Certo, Celeste” rispose lei, raccogliendo il mio mantello da terra. La causa di tutto quel trambusto continuava a fissarmi divertito. “Celeste? Voi siete dunque Doña Celeste Ventas de Huelma, figlia di Don Hernando e di Doña Dulcinea?” domandò il disturbatore. “Esattamente. Non vi conviene, dunque, comportarvi in questo modo poco rispettoso. Potrebbero esserci gravi conseguenze, lo sa?” replicai. Quel tono superiore non mi si addiceva per nulla. Trovavo strane le mie stesse parole pochi istanti dopo averle pronunciate. In tutta risposta Don Juan fece un inchino, mostrandomi un gran sorriso beffardo. “Non era assolutamente mia intenzione mancarvi di rispetto, mia cara” pronunciò, smorzando quel sorriso. “Bene” conclusi. Indossai il mantello e, insieme a Letitia, mi allontanai velocemente da quell’uomo. Sentii il suo sguardo seguirci finché non svoltammo l’angolo.
“Mi dispiace, Celeste. Se avessi visto quell’uomo avvicinarsi vi avrei portato via prima che potesse disturbarvi” si scusò la mia compagna. Vidi i suoi occhi diventare improvvisamente lucidi. “Vi prego, non dite nulla a vostra madre” m’implorò. Le strinsi maggiormente la mano e le sorrisi. “Tranquilla, Leti, non ne farò parola con nessuno.” “Ma chi era?” domandò, tornando improvvisamente solare. “Un certo Don Juan Tenorio. Lo conosci?”. Fece di no con la testa. “Probabilmente non è di queste parti” disse. “Però aveva degli occhi stupendi, non trovate?” chiese, ridendo. Annuii, mio malgrado. Quell’uomo aveva davvero uno sguardo meravigliosamente ammaliante. Ed era la prima volta in vita mia che qualcuno mi facesse sentire in soggezione come pochi minuti prima.



 
*"Quanti giorni impieghi in ogni donna che ami?" "Uno per farla innamorare, uno per averla, un altro per abbandonarla, due per sostituirla e un'ora per dimenticarla"
[Don Juan Tenorio - José Zorrilla]



Angolo autrice:
Sono mesi che mi frulla in testa questa storia e finalmente sono riuscita a pubblicarla. L'ispirazione mi è stata data (come credo sia chiaro dalla nota) dall'opera teatrale di Zorrilla, Don Juan Tenorio.
Che dire, spero che questo prologo v'incuriosisca e che, soprattutto, vi piaccia.
Pubblicherò presto il primo capitolo ma per ora fatemi sapere cosa ne pensate!
Un bacione a tutti,
J.

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Capitolo 2
*** Primo giorno: Uno para enamorarlas. ***


Primo giorno: Uno para enamorarlas.





Il giorno seguente venni svegliata di buon’ora. La colazione in camera era abbondantissima come al solito e, non appena ebbi finito, mi vestii velocemente per poter scendere nel grande salone del palazzo. Come ogni giorno della settimana, Curcio, il mio insegnante, mi attendeva per la solita lezione. Il lunedì era la giornata di astrologia, la mia materia preferita.
Curcio era davvero appassionato all’insegnamento e alle materie che ogni giorno era impegnato ad espormi. Il suo classico intercalare, alla fine di ogni frase che diceva era “Non lo trovi anche tu bellissimo?”. Bello, bellissimo, meraviglioso, stupendo: tutte parole che ripeteva continuamente, mostrandomi quanto amasse il mestiere che faceva. A me faceva sorridere quel suo entusiasmo, quella sua gioia di vivere e di lavorare. Mi piaceva starlo ad ascoltare ed il suo metodo mi coinvolgeva al massimo. Continuavo a riempirlo di domande e curiosità e rispondermi lo rendeva entusiasta.
Dopo due lunghe ore di lezione a parlare della storia della Stella Polare decise di darmi una pausa per potermi riposare; nel frattempo lui avrebbe cercato fra i suoi libri la risposta ad una domanda che gli avevo posto che lo aveva incuriosito in modo particolare. Mi affacciai alla finestra, per prendere una boccata d’aria. La giornata era bellissima. In giardino Placido, il nostro giardiniere, era occupato a controllare i boccioli di rosa, uno ad uno. Quell’uomo svolgeva ogni giorno il proprio lavoro in maniera minuziosa, e i risultati erano evidenti agli occhi di tutti. Il nostro giardino era, per me, come un paradiso in terra. Fiori profumati ovunque, erba fresca sempre perfetta, farfalle colorate ed uccellini canterini. Il giardiniere notò la mia presenza e mi salutò con una mano. Gli sorrisi e ricambiai il saluto.
Da quella mia postazione riuscivo a scorgere anche la strada oltre il nostro giardino. Notai un ragazzotto che faceva su e giù di fronte alle nostre mura. Sembrava stesse cercando qualcosa, o aspettando qualcuno. Le fattezze mi erano sconosciute, ma, dopotutto, ero anche molto lontana per poterlo scorgere bene. Non gli diedi molta importanza: in fondo il palazzo era un continuo via vai di mercanti e di servitù.
“Allora, Celeste, ricominciamo?” mi chiese Curcio, impaziente di ricominciare. Distogliendo lo sguardo dalla strada annuii e mi posizionai nuovamente al mio posto.
Quando Curcio finalmente chiuse tutti i suoi libri capii che era finalmente arrivata l’ora di pranzo. Come al suo solito mi ringraziò per l’attenzione che avevo mostrato durante la lezione e confermò la sua presenza nel giorno seguente. Anton, il maggiordomo, lo accompagnò fino alla sua carrozza e, affacciata dalla finestra, lo seguii con lo sguardo finché non svanì del tutto dalla mia visuale. Senza prestarci troppa attenzione, lasciai cadere gli occhi nell’angolo della strada dove, poche ore prima, si trovava quello strano ragazzo. Ovviamente non c’era più. “Signorina Celeste, il pranzo è servito” annunciò Anton appena tornò nella stanza. Lasciai la finestra e lo seguii fino in stanza da pranzo.
I miei genitori erano già sistemati ai loro posti, entrambi seduti a capo della lunga tavolata, uno di fronte all’altro. Mi accolsero con un cenno del capo, che ricambiai. Appena mi sedetti iniziarono la loro preghiera di ringraziamento per il pranzo. Li seguii a ruota, pur controvoglia. Anton e altri due camerieri portarono immediatamente le portate in tavola e svanirono in cucina, in attesa che avessimo finito la prima portata.
“Cara, hai sentito le ultime notizie?” pronunciò mio padre, portandosi il tovagliolo alla bocca. “No, caro. Oggi non ho ancora visto le amiche del club, non ho avuto modo di informarmi. Cosa è successo?” chiese mia madre, senza alzare nemmeno lo sguardo. Io, dal canto mio, ero assolutamente disinteressata ai loro discorsi. Se anche avessi avuto un certo interesse sulla faccenda non avrei comunque potuto dire la mia, quindi semplicemente continuavo a mangiare senza prestare troppa attenzione alle loro chiacchiere. “Doña Hermosa di Chauchina è morta: mi hanno detto che si è gettata nel fiume. Fonti certe mi hanno informato che si sia suicidata perché aveva perduto la sua purezza con un forestiero, e tutto a pochi giorni dal suo matrimonio con Don Diego Hortega” continuò mio padre. Dal tono di voce sembrava davvero molto compiaciuto. “E’ davvero vergognoso. I giovani di oggi non sanno più dov’è il pudore. E’ sicuramente colpa dei genitori che non le hanno insegnato i valori della società in cui viviamo. Che vergogna, davvero. Immagino che quei due patiranno le pene dell’inferno, con tutto ciò che dirà loro la gente”. Mia madre sembrava veramente sconvolta dalla notizia. Probabilmente questa sarebbe stata la notizia del giorno, del giorno dopo e del mese intero. Mi venne quasi da ridere alla sua reazione, e mi nascosi dietro al tovagliolo per non essere vista. “Ringraziamo Dio per le nostre infinite doti da genitori che ci hanno permesso di educare in maniera impeccabile nostra figlia. Celeste non sarebbe mai in grado di fare una cosa simile. Ha ereditato tutto il mio buonsenso” continuavano a parlarne come se io non fossi lì. Dalle loro parole sembrava come se io fossi un animale ben ammaestrato a fare il suo dovere. “L’avevo detto io a Don Diego che avrebbe dovuto chiedere la mano a nostra figlia, e non alla figlia di Don Luis” commentò mio padre, infine. Ero sconvolta. Finii in pochi istanti di mangiare e, senza aspettare che Anton mi servisse la seconda portata, mi alzai e mi diressi verso la mia stanza, fingendo un malore improvviso.
Nella mia stanza Letitia, seduta su una sedia a cucire, mi aspettava. “Avete fatto presto, oggi” commentò alzandosi in piedi, mortificata. Le feci cenno di tornare a sedersi e mi sdraiai sul mio letto, guardando verso il soffitto. “Lo so. Parlavano di suicide, dote e matrimoni: mi hanno fatto venire la nausea. Detesto i loro stupidi discorsi. Poi mi mettono in mezzo. Non li sopporto!”. La mia amica si alzò e mi raggiunse, sedendosi a pochi centimetri da me. “Perché non andiamo a farci un giro? Così potrete sfogarsi un po’ e magari, col bel tempo che c’è, vi torna anche il buonumore” sentenziò, entusiasta.
Nonostante non fosse mia abitudine uscire di casa per due giorni di fila, accettai. In quattro e quattr’otto misi sottosopra l’intera servitù affinché organizzassero tutto nel migliore dei modi. Lasciai ad Anton un biglietto da recapitare ai miei genitori non appena si sarebbero risvegliati dal solo sonno della salute post pranzo in cui annunciavo loro le mie intenzioni, e feci chiamare Miguel, lo scudiere, per poter sellare El Dorado e Arco Iris in modo che fossero pronti il prima possibile. Indossai in un attimo la mia mantella e, insieme a Letitia, uscii in giardino dove rimasi per qualche minuto in attesa che tutto fosse sistemato. Un ragazzetto mai visto, probabilmente assistente di Miguel, ci raggiunse con i nostri due cavalli. El Dorado, riconoscendomi, iniziò a muovere velocemente le orecchie. Sembrava felice anche lui di poter uscire, finalmente. Il suo pelo nero era più luminoso del solito; ero entusiasta del suo meraviglioso aspetto. Gli accarezzai delicatamente il muso e salii in sella. La mia amica m’imitò e salì in groppa al suo cavallo pezzato. Ringraziai il ragazzo e, con un veloce colpo di briglie, partii al trotto.
Direzione: il boschetto a pochi minuti dal palazzo. Era una giornata talmente tanto calda che non potei rifiutare alla proposta di Letitia di andare lì, dove gli alberi avrebbero sicuramente oscurato il sole, concedendoci un po’ di frescura. Le grandi conifere emanavano un profumo di fresco, di buono, e il rumore del frusciare dei rami metteva di buon umore.
Letitia continuava a guardarsi intorno, furtiva, come se temesse l’arrivo di qualche bandito da un momento all’altro. Io, dal canto mio, lasciai che ogni pensiero e preoccupazione svanisse, respirando a pieni polmoni l’aria silvestre del bosco, ed inseguendo con lo sguardo gli scoiattoli che, di tanto in tanto, facevano la loro apparizione e svanivano in un istante.
“Volete fermarvi un po’ sulla radura?” domandò la mia amica, indicando un punto nascosto dietro agli alberi che la mia vista non riusciva a raggiungere. Annuii, cercando di non rovinare il momento catartico, e la seguii lungo il sentiero sconnesso. Lo scalpiccio degli zoccoli dei nostri cavalli era l’unico segnale della presenza umana in quel paradiso.
La radura, come al solito, era meravigliosa. Appena la scorsi scesi di cavallo con un rapido gesto e proseguii a piedi. Lasciai le briglie di El Dorado a Letita per permetterle di legarlo a qualche albero e corsi per il prato come una bambina.
Per quanto amassi la frescura dell’ombra degli alberi, il caldo sole era la mia fonte principale di gioia. Mi sdraiai sull’erba fresca, chiusi gli occhi e lasciai che i raggi solari raggiungessero il mio viso, provocando una piacevole sensazione di calore. Presi dei grossi respiri, per quanto il vestito strettissimo me lo permettesse. Sentii i passi leggeri della mia amica avvicinarsi a me. Con delicatezza, per evitare di disturbarmi, Letitia si sedette al mio fianco. Aprii leggermente un occhio per controllare cosa stesse facendo: aveva tirato fuori dalla tasca della sua mantella un libro, probabilmente lo stesso della mattina precedente. Con mia grande sorpresa, però, anziché divorarlo come al suo solito, non gli stava prestando la minima attenzione. Era occupata a guardarsi intorno, ancora e ancora. Era davvero un comportamento molto strano, da parte sua, essendo una ragazza assolutamente spensierata. Le diedi una botta con la mano. “Cosa c’è che non va?” domandai, aprendo entrambi gli occhi e mettendomi seduta. In tutta risposta scrollò le spalle, e si immerse nella lettura. La studiai per un periodo indefinito di tempo. Continuava a guardarsi intorno, seppur con la coda dell’occhio, per evitare di essere vista.
Stufa del suo silenzio finalmente mi alzai e raggiunsi il mio cavallo. Avevo appena iniziato a carezzagli il muso quando sentii un rumore indistinto provenire dal boschetto. Impaurita, tornai al centro della radura, dove la mia dama era ancora occupata a fingere di leggere. “Credo ci sia qualcuno, qui” le dissi, lasciando trapelare dal mio tono di voce un leggero spavento. “Chi volete che sia? Non viene mai nessuno in questa radura” cercò di tranquillizzarmi. “Preferirei tornare a casa, in ogni caso” insistetti. Con un sorrisetto malevolo si alzò per rispettare il mio ordine. Mi guardò negli occhi ed improvvisamente il suo sguardo venne catturato da qualcosa alle mie spalle. Mi voltai.
“Che bella sorpresa” “Don…” “Juan”. L’uomo scese da cavallo e consegnò le briglie ad un ragazzotto che si trovava al suo fianco, anche lui appena sceso da cavallo. Mi voltai verso Letitia ma non notai nessuna espressione sorpresa nel suo volto. Io, al contrario, ero assolutamente sconvolta. Mi si avvicinò velocemente e, esattamente come la mattina precedente, prese la mia mano . Questa volta, però, riuscì a poggiarci su le sue labbra.
“Che piacevole coincidenza” ironizzai a denti stretti. Era assolutamente ovvio che quella non fosse una coincidenza. Lanciai un’occhiataccia alla mia dama di compagnia che con un sorrisetto si allontanò da noi, raggiungendo lo scudiero di Don Juan. “Molto piacevole” mi sorrise quest’ultimo, riacquistando la mia attenzione. A causa della grande luce i suoi occhi apparivano più brillanti del solito. “Peccato che io e Letitia stessimo tornando a casa. Mi duole davvero, Don Juan. Davvero molto” mi portai una mano sul cuore per rendere la mia recitazione più enfatica. Con uno scatto cercai di allontanarmi dal disturbatore che, in tutta risposta, sbuffò contrariato.
“Che ragazza difficile, siete. Non voglio mica mangiarvi, sapete? Nessuno le ha mai insegnato le buone maniere?”. Mi fermai di scatto e mi voltai. Sembrava realmente offeso del mio comportamento schivo, ma al tempo stesso anche infastidito. “Mi state dando della maleducata?” domandai, ignorando totalmente il suo stato d’animo, qualunque esso fosse. Scrollò le spalle e si sedette sul prato.
Mi allontanai lentamente, continuando a mantenere lo sguardo ben fisso su di lui. Il cavaliere, dal canto suo, mi ignorò totalmente. Tirò fuori dalla tasca interna del mantello un piccolo libricino ed iniziò a sfogliare velocemente le pagine, alla ricerca dell’ultimo verso letto. Incuriosita al massimo da questo strano comportamento mi ritrovai desiderosa di avvicinarmi e dare un’occhiata a quel libro. Dall’intensità del suo sguardo su quei versi, doveva essere davvero una bella storia. La curiosità divenne più intensa del fastidio che quell’uomo mi trasmetteva. La sua sfrontatezza era seccante ma, dopotutto, sembrava un ragazzo per bene. Spinta da una forza misteriosa mi avvicinai e mi sedetti al suo fianco. Se solo i miei genitori lo avessero saputo… .
“Cosa leggete con tanta passione?” chiesi, cercando con gli occhi il suo sguardo. “Sempre che la mia domanda non vi risulti indiscreta” mi affrettai a sottolineare, sperando di non sembrargli una ragazzina capricciosa e curiosa. Alzò lo sguardo ed i suoi occhi mi paralizzarono, tanto erano belli. Sorrise leggermente, mostrandomi l’intestazione del libro. ‘Lancillotto e Ginevra’. Non poteva essere. Non avrei mai potuto pensare che un cavaliere come lui potesse leggere simili storie con tanto ardore. “Leggenda meravigliosa, come meraviglioso è l’amore dei due protagonisti” disse, interrompendo i miei pensieri. Annuii, sporgendomi leggermente per poter leggere quelle parole a me fin troppo familiari. Con un altro sorrisetto, Don Juan tornò a leggere.
Per molti minuti non ci furono interruzioni di nessun tipo. Dimenticai totalmente ogni cosa intorno a me. La radura, il canticchiare degli uccellini tutt’intorno, il ridacchiare di Letitia con lo scudiero, le campane che rintoccavano lontane: nulla riuscì a distrarmi da quelle parole. La vicinanza con quel cavaliere non mi turbava più. In realtà avevo già smesso di farci caso: ero come assuefatta di lui.
“Questa è la parte che preferisco” interruppe il silenzio, indicando alcune righe del libro. Le sue parole mi riportarono alla realtà, così lontana dalla fantasia della storia nella quale mi ero immersa. Mi accorsi di essere poggiata con la testa sulla sua spalla: quando era successo? Non me ne ero nemmeno resa conto. Stordita dai miei stessi comportamenti cercai di riprendermi, allontanandomi da lui. Credendo di apparire irrimediabilmente stupida, però, cercai di comportarmi in maniera disinvolta e mi avvicinai nuovamente, stavolta mantenendo una certa distanza di sicurezza, per poter leggere i versi che mi stava indicando.
Lessi d’un fiato e, sorpresa, mi voltai a guardarlo. Era sorprendente la coincidenza che entrambi adorassimo la stessa parte dello stesso libro. Mi sorrise senza dire una parola, intuendo cosa avessi da dire. “La nobiltà dell’amore di Lancillotto, talmente potente da non lasciargli sentire alcun dolore” recitò, con tono sognante. Annuii. “E Ginevra scopre il significato del vero amore” aggiunsi.
Ci guardammo per qualche istante, lasciando che il discorso svanisse nell’aria. Quegli occhi meravigliosi mi avevano paralizzata lì. Improvvisamente sentii come se non potessi più smettere di guardarli. Non riuscivo a lasciar cadere il mio sguardo, ero come legata al lui. Aspettai quindi che fosse lui a fare la prima mossa: dopo qualche attimo, distolse lo sguardo, riprendendo a leggere. Mi sembrava di aver percepito un retrogusto compiaciuto nel suo sorriso, ma non gli diedi peso.
Improvvisamente, animato da un pensiero a me sconosciuto, si alzò in piedi, rimettendo a posto il suo libro. “Ricardo, porta immediatamente qui il mio cavallo e quello di Celeste!” ordinò al suo servo, con tono severo. Quello, che era ancora occupato a parlare con Letitia, scattò in piedi e si affrettò a raggiungere i cavalli. Sembrava terrorizzato, come se l’esaudire il desiderio del suo padrone fosse una questione vitale.
“Mi concedete l’onore di una passeggiata nel bosco in sua compagnia?” mi chiese, prendendomi la mano. Senza nemmeno pensarci troppo su annuii.
Ricardo ci raggiunse in tutta velocità, seguito da Letitia, che mi fissava quasi angosciata. “Saremo di ritorno fra qualche manciata di minuti, Leti” la rassicurai. “Tu divertiti con Ricardo, poi al castello facciamo i conti” le sussurrai ad un orecchio. Mi diede una mano a montare su El Dorado e mi salutò con una mano.
Dopo il bagno di luce nella radura, ritornare all’oscurità del boschetto fu un’esperienza quasi traumatica. I miei occhi ci misero un po’ a metabolizzare il calo di visibilità. Tutto ciò sembrava non scalfire minimamente il cavaliere in mia compagnia che, al contrario di me, si muoveva tranquillamente fra le boscaglie. Notando la mia iniziale difficoltà nel stargli dietro si fermò, permettendomi di abituarmi del tutto a quella situazione. Non era solo il passaggio fra luce ed ombra a scombussolarmi, a dirla tutta. Per quanto fossi stata apparentemente tranquilla nell’accettare la proposta di Don Juan, trovarmi ora da sola con lui, lontana da tutto e da tutti, aveva lasciato nuovamente che la paura mi invadesse le membra.
“Non ho alcuna intenzione di uccidervi, o di violentarvi, o di farvi qualsiasi altra cosa, Celeste” mi tranquillizzò mentre trottavamo fianco a fianco. Erano i miei pensieri ad essere così trasparenti o era lui ad essere un ottimo lettore della mente?
“Non ho mai pensato questo” mentii spudoratamente “è semplicemente poco morale passeggiare con uno sconosciuto nel buio del bosco, tutto qui”. Le mie parole lo fecero ridere a crepapelle, tanto da arrivare alle lacrime. Dovette fermare il proprio cavallo per non perdere il controllo.
“La cosa vi diverte?” domandai, infastidita e quasi offesa da quella reazione esagerata. Non avevo avuto intenzione di essere presa così poco sul serio, nel pronunciare quelle parole.
“Decisamente sì, Celeste, decisamente sì” continuò a sghignazzare “in primo luogo io non sono uno sconosciuto. Voi sapete chi sono io e io so chi siete voi, ci siamo presentati ieri, ricordate?”. Non ebbi tempo di controbattere a questa inutile obiezione che continuò “secondo, la morale non mi ha mai interessato granché. E nemmeno a voi, dato che avete accettato così di buon grado di venire con me. Per non parlare poi di ieri: una ragazza del suo rango, se avesse avuto della morale, non sarebbe mai andata alla Messa del paese, mescolandosi con dei popolani, pur di non rimanere rinchiusa in casa”.
Colpita e affondata. Rimasi in silenzio ad incassare il colpo per un bel po’ di tempo, dopo aver ripreso a trottare lungo il sentiero affiancati. Nel suo volto una nota di soddisfazione nell’avermi zittita mi infastidiva terribilmente, senza un apparente motivo valido.
“Per quale motivo mi avete chiesto di passeggiare insieme?” domandai, infine. Fu l’unica domanda che mi venne in mente e che mi permise di non mantenere quel silenzio che lo rendeva così fiero di se stesso. Mi guardò sorridente e alzò le spalle. “Puro corteggiamento” ammise, divertito, come se quella fosse la risposta più ovvia del mondo. Mi sentii improvvisamente stupida ed inesperta. Ed al tempo stesso puramente soddisfatta ed onorata di tutte quelle intenzioni.
“Ma voi stesso avete appena detto che della morale non v’interessa nulla, che bisogno c’è di seguire i cliché della società?” proseguii, cercando di riprendermi. Arrestò il cavallo nuovamente ed io lo imitai. “Touchè, madamoiselle” sorrisi nell’ascoltare nuovamente quel suo buffo accento francese. “Questione di cavalleria mia cara, non di morale, né tantomeno di cliché” concluse, con un tono suadente.
Maggiore era il tempo che passavo in sua compagnia, maggiore era il grado di assuefazione che mi comportava la sua presenza. Per il resto del tempo trascorso insieme lasciai che mi parlasse tranquillamente senza stuzzicarlo o senza controbattere in modo acido. Il suo blando metodo di corteggiamento mi rendeva euforica, nonostante non lo dessi a vedere: era la prima volta in vita mia che mi relazionavo con un ragazzo che non facesse parte della mia servitù, nonché la prima volta che venivo stregata in modo tale da qualcuno. Quella sorta di attrazione psicofisica che provavo nei suoi confronti era appagata dalla consapevolezza che quel ‘sentimento’ fosse ricambiato, sempre se di sentimento si potesse parlare.
Sentire il rintocco delle campane provenire dal paese mi fece tornare alla realtà. Erano già le cinque, ed io dovevo tornare immediatamente a casa. Galoppammo fino al limite del bosco, dove ricominciava la radura. Nessuno dei due, però, ebbe il coraggio di varcare quella soglia, consapevoli che, una volta tornati alla luce, sarebbe terminato l’idillio di quel pomeriggio meraviglioso.
“Quando potrò rivedervi?” mi domandò, con un filo di voce. Con un’abile mossa di redini si avvicinò. “Non saprei, è difficile fare previsioni sugli accordi altalenanti concessimi dai miei genitori” replicai, insoddisfatta io stessa delle mie stesse parole. “Vi scriverò, allora, in attesa di potervi rivedere” tornò a sorridere. Mi incantai nuovamente sui suoi occhi, come avevo fatto all’incirca per tutto il tempo trascorso in sua compagnia. “Sarò lieta di rispondervi” gli sorrisi.
Senza lasciarmi tempo di fare alcunché allungò un braccio verso di me e mi prese il mento. “Alla faccia dei clichè” disse con tono beffardo, avvicinandomi a sé con vigore.
I brividi mi assalirono come se fossi appena stata morsa da un serpente dal veleno letale. Incapace di fare qualsiasi cosa lasciai che facesse ciò che più gli aggradava, non avendo la più pallida idea di come ci si comportasse in tali situazioni. Mi sentivo come un agnello che si sacrificava di sua spontanea volontà al proprio predatore.
Mi lasciai baciare senza opporre resistenza alcuna. Sentivo il cuore battere precipitosamente nel petto, entusiasta di provare una nuova esperienza esaltante come quella. Per una volta anche la mia mente si annebbiò totalmente, lasciando che l’istinto prevalesse sulla ragione.
Quando Don Juan mi lasciò, mi scoprii quasi abbracciata a lui, con le mani imprigionate fra i suoi capelli. Tornai composta ed arrossii. “Siete una sorpresa continua” si burlò di me, ridacchiando, e con una mossa veloce fece ripartire il cavallo verso il fitto del bosco.
Leggermente intontita tornai nella radura, con la mente ancora annebbiata e il cuore molto vicino al voler uscire dallo sterno. Non trovando la mia dama da compagnia in quel piccolo appezzamento erboso iniziai a chiamarla. Era tardissimo: il tempo in compagnia di lui era terribilmente volato in un soffio. Non ricevendo alcuna risposta da parte di Letitia iniziai a preoccuparmi: l’avevo lasciata sola in compagnia del servo di Don Juan Tenorio, poteva esserle accaduta qualunque cosa. Iniziai a sentirmi in colpa e il batticuore di poco prima si tramutò in una vera e propria tachicardia dovuta al terrore che le fosse successo qualcosa di terribile.
Continuai a chiamarla, quasi in lacrime, finché non sbucò da dietro un cespuglio, al limite fra la radura ed il boschetto. I suoi corti capelli corvini erano completamente fuori posto, scompigliati come se si fosse trovata nel bel mezzo di una bufera. Anche il suo abito era stropicciato, fuori posto, e sporco di terra. Nella mia mente passarono in rassegna svariati pensieri terribili: immaginai che il servo del mio cavaliere avesse tentato di farle qualcosa e lei, nel tentativo vano di fuggire, fosse inciampata a terra. Ma era quasi evidente che probabilmente non le era accaduto nulla di tutto ciò che temevo: il sorriso stampato sulle sue labbra dissipò una buona parte delle mie preoccupazioni.
“Dove eri finita? È mezz’ora che ti chiamo!” la rimproverai duramente, anche se dentro di me un enorme peso si era volatilizzato. La raggiunsi a passo di cavallo. “Ero solo andata a prendere un po’ di fresco e mi sono addormentata, perdonatemi” si scusò. Corse verso il proprio cavallo e montò su.
Quando si avvicinò nuovamente notai alcune macchie di sangue che le sporcavano il vestito. “Leti, stai sanguinando! Cosa ti è successo?” mi preoccupai, pervasa nuovamente dai sensi di colpa. Notando lei stessa quelle macchie alzò le spalle, come se nulla fosse. “Ricardo” si limitò a pronunciare, e fece partire Arco Iris alla volta del palazzo. Diedi un colpo di briglie a El Dorado e la raggiunsi in pochi istanti. “Cosa vuol dire “Ricardo”? Ti ha fatto del male? Sapevo che non avrei dovuto lasciarti sola con uno stupido servo invaso dai più bassi desideri! Scusami Leti, davvero”. Si limitò nuovamente a sorridere e a fare segno di no con la testa.
Continuai a farle domande su domande per tutto il resto del tragitto. Sembrava come se la preoccupazione per lei avesse totalmente cancellato dalla mia testa i bei momenti appena trascorsi.
“Celeste, davvero, non è accaduto nulla. O almeno… nulla di tragico come voi credete!” rispose infine, quando eravamp già quasi a casa. Le scongiurai di essere meno criptica e, in tutta risposta, alzò gli occhi al cielo, come se fossi una povera sciocca alla quale vada spiegato sempre tutto chiaramente.
“E’ successo, Celeste, è successo. Non come succede nei libri, come raccontano i poeti, ma è successo” ammise sospirando, liberata di un enorme peso che non riusciva più a tenere dentro, data la mia insistenza.
Rimasi letteralmente senza parole. Io credevo di aver superato ogni limite della decenza nell’aver contraccambiato il bacio di uno sconosciuto –perché sì, per quanto le teorie di Don Juan fossero allettanti, per me era pur sempre uno sconosciuto- e lei… lei aveva lasciato succedere l’indicibile.
“Ma Leti… sei pazza? Ti ha presa con la forza? Ti ha costretta?” domandai balbettando. Immaginare una tale violenza nei confronti della mia amica mi fece rabbrividire. Anche solo il pensiero dell’indicibile mi metteva in soggezione. Non era di certo un argomento di conversazione usuale, né era una situazione che mi era mai balzata per la mente.
“Perché dite così? Ricardo è un bravo ragazzo, credo di essere innamorata di lui!” replicò senza esitazioni.
“Innamorata? Vi conoscete a malapena da due ore, come fai a pensare di essere innamorata di lui” tornai a rimproverarla come fossi la sua mamma. “Da questa mattina, in realtà” mi corresse, facendo spallucce. Si comportava come se fosse tutto assolutamente ovvio.
Le sue parole mi permisero di collegare ogni avvenimento di quella giornata senza troppa difficoltà. Avrei dovuto capire tutto molto prima. Avrei dovuto immaginare che quella fosse tutta una sua architettura per poter rivedere il suo ‘amato’. Il modo in cui parlavano sulla radura, poco prima, avrebbe dovuto lasciarmi intendere tutto questo molto prima.
“Mi hai chiesto di passeggiare con te questo pomeriggio solo per poterlo rivedere?” la accusai, sconvolta da questo suo insolito comportamento arrivista.
Scosse la testa, decisa, con un’espressione più che dispiaciuta. “E’ stato Don Juan Tenorio, il suo padrone, ad organizzare tutto questo. Io ho solo eseguito ciò che mi era stato richiesto, senza doppi fini. L’ho fatto per voi, Celeste: credevo che quell’uomo vi piacesse; vi avrei portata qui in ogni caso, anche se non ci fosse stato nessun Ricardo a fare da interlocutore” cercò di spiegarmi nel miglior modo possibile.
“Anche se mi piacesse Don Juan non lascerei mai che una cosa simile accada al nostro secondo incontro. Né tantomeno credo di essere innamorata di lui dopo solo due volte che lo vedo e che ci parlo. Tu ti sei donata a quel servo pur conoscendolo da un giorno a malapena. Che fine ha fatto l’amore dei libri che tanto cercavi? Dov’è finita la Letitia che attende che un principe la venga a salvare?”.
“Celeste, io sono una semplice dama di compagnia, nessun principe verrà mai a salvarmi. Voi siete la ragazza nobile, di buona famiglia, che può aspirare ad un marito facoltoso, ricco e appassionato, non io. Ricardo è la cosa più vicina ad un principe che io possa permettermi e, sì, credo di amarlo. E credo che anche lui mi ami. Non sono così sciocca da andare col primo che passa, non ho mai avuto il pensiero di perdere il mio onore con un uomo qualsiasi. È stato un colpo di fulmine per entrambi, esattamente come quello di Lancillotto e Ginevra. Non avete mai criticato la loro storia d’amore, perché ora vi ostinate a rimproverare la mia?”
La sua argomentazione impeccabile mi lasciò nuovamente senza parole. Per quanto le volessi bene, non potei fare a meno di provare una nota di disgusto per ciò che aveva fatto, per come si era comportata. La storia di Lancillotto e Ginevra era una favola, era fantasia. La realtà era ben diversa.
“Ti sei cacciata in un bel guaio. Non voglio essere messa in mezzo se qualcuno ti dovesse chiedere come tu ti sia ridotta così” puntualizzai.
Varcammo l’enorme portone in legno che limitava il palazzo dal ‘mondo di fuori’ e ci dirigemmo verso la scuderia. Miguel ci raggiunse di corsa, domandandoci come fossero andate le nostre ore di libertà. Non che gli interessasse davvero, è chiaro. Squadrò da capo a piedi Letitia che con un sorrisetto innocente si dileguò da ogni suo sguardo e si precipitò all’interno del castello.
Esterrefatta dal suo comportamento rimasi nella stalla per un po’, dando una mano allo scudiero a togliere la sella e strigliare il mio amato El Dorado. I suoi occhi color nocciola mi fissavano severi. “Ho forse esagerato?” gli chiesi non appena fui certa che Miguel non mi sentisse. Mi avrebbe presa per pazza se solo mi avesse sentito parlare col mio cavallo. Il purosangue continuava a fissarmi; ero certa che quello sguardo fosse il suo modo per rispondermi, per rimproverarmi per la mia reazione esagerata. “Dovrei scusarmi con lei. Dopotutto anch’io ho combinato un bel pasticcio con Don Juan…” continuai. Le sue orecchie si mossero velocemente indietro e in avanti, mentre con la zampa anteriore batteva a terra, producendo un gran baccano. Gli carezzai il muso, ringraziandolo, e corsi verso le stanze.
Corsi lungo il corridoio e trovai Letitia intenta a discutere con Anton. La stava rimproverando, ed ero certa che il motivo fosse il suo aspetto ambiguo e poco consono. Il viso di lei era mortificato ed era chiaro che non riuscisse a dare una giustificazione all’accaduto. Li raggiunsi a grandi passi.
“Leti, ti senti un po’ meglio? Cosa ci fai ancora in piedi, ti avevo detto di andare a riposare” le dissi non appena fui a pochi passi dai due. Lei mi guardò dubbiosa, ma ad un mio cenno non disse nulla. “Cosa succede qui?” chiesi ad Anton, che nel frattempo si era semi inchinato al mio arrivo. “Letitia non vuole raccontarmi come è accaduto tutto questo” disse rigido, indicandola da capo a piedi. Il suo sguardo severo quasi terrorizzò anche me, e non osai immaginare cosa sarebbe potuto accadere alla mia povera amica se non fossi arrivata al momento giusto. “Leti, so che ti vergogni, ma devi dirlo ad Anton” quasi la rimproverai. Dopodiché mi rivolsi nuovamente al maggiordomo “E’ caduta da cavallo mentre facevamo una gara di corsa. Credo sia imbarazzata ad ammetterlo: dopotutto riuscire a cadere dalla groppa di Arco Iris è davvero un affare difficile! E le corse non sono una prerogativa di noi donne, ma per questo dovreste prendervela con me: è stata mia l’idea” inventai di sana pianta, cercando di essere il più convincente possibile.
Notando che il cipiglio severo di Anton iniziava a cambiar forma mi tranquillizzai. Aveva creduto alla mia bugia senza problemi. “Vai a riposare, ci vediamo dopo cena nella mia stanza” ordinai alla mia dama di compagnia che, con uno sguardo riconoscente e quasi commosso, obbedì immediatamente, dileguandosi dietro l’angolo.
Evitai qualsiasi genere di discussione con Anton e anch’io mi chiusi nella mia stanza. Rimasi a fissare il soffitto finché non venni chiamata per la cena, circa un paio d’ore più tardi.
Come di routine i miei genitori erano già posizionati e non appena mi sedetti a tavola ricominciarono con le loro solite preghiere. Stavolta non li seguii, mi limitai a fissare il piatto vuoto di fronte a me, cercando di non farmi notare. Una volta giunte le portate iniziarono con la loro solita conversazione senza senso. Come sempre era come se non notassero nemmeno minimamente la mia presenza. Se fossi stata da tutt’altra parte probabilmente a loro non sarebbe cambiato nulla. Presumibilmente non si sarebbero nemmeno accorti della mia assenza. Non mi chiesero nulla riguardo la mia passeggiata. Sembrava che le ulteriori notizie riguardo al suicidio di quella povera ragazza fosse molto più interessante della giornata della loro unica figlia. Durante la giornata, durante quelle che mi erano parse ore interminabili ma fugaci, avevano avuto modo di informarsi ulteriormente riguardo l’accaduto, ed ora non potevano fare a meno di scambiarsi informazioni.
Li lasciai fare. Non m’importava granché delle loro attenzioni, né tantomeno del loro argomento di conversazione. Fissare senza toccare ciò che avevo nel piatto appariva molto più interessante. Sentivo ancora le labbra calde di Don Juan sulle mie, tanto che il terrore di mangiare qualsiasi cosa che potesse togliermi quella piacevolissima sensazione di dosso mi pervase. Lasciai le posate al loro posto, tanto nessuno si sarebbe accorto che non avevo toccato cibo.
“Celeste” mi chiamò mio padre. Sussultai. Ero talmente assorta nei miei pensieri –e in quegli occhi verdi che avevo stampato nella memoria- che mi spaventò. Mugolai interdetta quando tornai alla realtà, e mi voltai verso mio padre che mi fissava con in mano il suo bicchiere di vino. “Ho parlato con Don Diego Hortega questo pomeriggio” mi informò. Annuii, come se la cosa mi interessasse. Io avevo parlato con Don Juan Tenorio, e allora? “E’ disperato dalla morte della sua promessa sposa, ma mi ha chiesto di te. Mi ha chiesto la tua mano”. Mia madre fece un urlettino compiaciuto ed iniziò a battere le mani soddisfatta.
“Si consola facilmente” asserii, atona. “Spero che voi gli abbiate detto di no, padre” lo supplicai.
Fece di no con la testa, proprio come temevo. “Don Diego è un uomo molto facoltoso, è stato davvero un onore per me ricevere una tale richiesta” sostenne, sornione. Era orgogliosissimo di ciò che era accaduto.
“A me non interessa che sia un uomo facoltoso, non voglio sposarmi con un uomo solo perché la sua vera promessa sposa si è suicidata poco prima delle nozze!” urlai, furiosa.
Entrambi mi sgridarono per i miei toni accesi. Non era mia abitudine comportarmi in quel modo con loro.
“Non è una tua scelta, Celeste. Tuo padre gli ha concesso la tua mano e la sua parola. Dopodomani, durante il funerale della ragazza vi conoscerete e ne parlerete insieme” mi rimproverò mia madre, dura come al suo solito.
“Ma io…” “Non è una tua scelta. Smettila di lamentarti”.


Angolo autrice:
Finalmente eccoci entrati nel vivo della storia! Come avrete notato ho deciso di pubblicare un capitolo a settimana, quindi ogni mercoledì. Spero di riuscire a mantenere il ritmo.
Ma veniamo a noi: cosa ne pensate? Non siate timidi, scrivetemi qualsiasi cosa. Anche un 'mi fa schifo' è ben accetto, purchè mi diate pareri a riguardo.
Un bacione a tutti,
J.

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Capitolo 3
*** Secondo giorno: Otro para conseguirlas. ***


Secondo giorno: Otro para conseguirlas.


Dopo una notte quasi insonne, trascorsa a pensare a Don Juan e a maledire i miei genitori e la loro dannata decisione di concedere la mia mano a Don Diego, quando Letita mi svegliò avevo la testa dolorante e un fastidiosissimo senso di nausea. Mi tirai su con difficoltà, riuscendo a malapena ad aprire gli occhi.
“Celeste, è arrivata una lettera per voi” mi sussurrò la mia dama da compagnia all’orecchio non appena appurò che io fossi sveglia. Con fatica le porsi la mano, nella quale lasciò una busta di carta intatta. Intatta? Aprii gli occhi di scatto per fissarla. Mia madre era sempre stata solita leggere le lettere che ricevevo –non che ne ricevessi molte-. Letitia ridacchiò alla mia reazione teatrale. “E’ da parte di Don Juan Tenorio, me l’ha consegnata poco fa Ricardo. Si è dovuto arrampicare dal muro di cinta sul retro per non farsi scoprire” mi spiegò, avvicinandosi al mio mobile da toeletta e riempiendo il lavabo con l’acqua calda che teneva in una tinozza. “Grazie per ieri” sospirò, tornando ai piedi del letto. Ancora incapace di pronunciare una frase di senso compiuto mi limitai a sorriderle.
“Cosa vi è accaduto ieri?” mi domandò curiosa, fissandomi mentre aprivo con desiderio la lettera. Alzai le spalle. “Nulla di eccessivo” replicai, lanciandole una chiara frecciatina maliziosa, “mi ha detto di piacergli. E mi ha baciata”.
La sua faccia sorpresa ed entusiasta al tempo stesso mi fece ridere. Ma non aggiunsi altro. Tirai fuori il foglio dalla busta. Emanava un profumo di buono, di carta e di muschio. Odore di boscaglia, lo stesso che dal giorno prima attribuivo al mio cavaliere misterioso. Rimasi ad annusare quell’essenza meravigliosa per un po’, finché non presi coraggio e non iniziai a leggere ciò che vi era scritto.
Doña Celeste del alma mìa,
Luz de donde el sol la toma,
Hermosìsima paloma
Privada de libertad;
Si os dignàis por estas letras
Pasar vuestros lindos ojos,
No los tornéis con enojo
Sin concluir; acabad.”(*)
Sentii un tuffo al cuore. Nella mia mente era la sua voce a leggere quelle parole, e potevo chiaramente sentirne ogni sfumatura. Alzai lo sguardo verso Letitia che ancora mi fissava curiosa. Voleva sicuramente sapere cosa ci fosse scritto. Le sorrisi debolmente e tornai a quei versi così poetici.
Celeste, alma de mi alma,
Perpetuo imàn de mi vida,
Si por el mundo suspiras
 De libertad con afàn,
Acuérdate que al pie mismo
De esos muros que te guardan,
Para salvarte te aguardan
Los brazos de tu Don Juan.
” (**)
Sorridevo estasiata, come colta da un improvviso attacco di pazzia. Mi portai una mano sul petto per contenere il cuore palpitante che minacciava di uscire dal mio corpo.
“Vi sentite bene?” chiese Letita preoccupata dalle mie gesta inconsuete. Annuii, tranquillizzandola un poco. “Credo di stare bene. Ma in realtà non so come sto. È una sensazione così strana” confessai, sospirando. La mia amica mi sorrise e prese la lettera per riporla all’interno del libro del ciclo arturiano che tenevo riposto sul mobile vicino al letto. “Se non è essere innamorati questo, non so cos’è” pronunciò soddisfatta, canzonandomi per la mia eccessiva freddezza del giorno prima.
“Non sono innamorata di lui, Leti. L’amore non esiste!” le ripetei per l’ennesima volta. Anche se, dopotutto, sensazioni simili non ne avevo mai provato. Erano sentimenti del tutto nuovi, lontani dalla mia solita credenza di ‘amore’. Non avrei mai creduto che potessero verificarsi tali reazioni esagerate solo a leggere una lettera, solo a sentire una voce nella propria testa, solo a ricordare dei bei momenti passati insieme.
Tornata alla realtà mi preparai velocemente, mangiai poco o niente, e mi precipitai a lezione.
Per la prima volta in vita mia ero in ritardo e venni sgridata per questo da Curcio. Occupò gran parte del tempo della lezione a farmi una paternale riguardo all’importanza della puntualità. Stando alle sue parole, essa era una delle caratteristiche fondamentali per un’ottima dama di corte, per un’ottima moglie e madre. Sbuffai ad ogni sua parola. Per la prima volta in vita mia lo trovai noioso. Caspita, quante cose erano cambiate in un misero giorno! Non riuscivo a dargli le attenzioni dovute: la mia mente continuava a vagare fra le nuvole che si rincorrevano fuori dalla finestra. M’infastidiva anche solo il suono delle parole matrimonio e buona moglie, e probabilmente il mio insegnante se ne accorse. Forse per farmi un dispetto, forse perché messo al corrente del mio prossimo fidanzamento ufficiale, Curcio terminò il suo discorsetto riguardo il mio ritardo e cominciò ad insegnarmi le regole di corteggiamento e il rituale sacro del matrimonio. Nulla di più logorante per il mio precario equilibrio psico-fisico.
Fingendo interessamento per la tecnica del fazzoletto lasciai cadere lo sguardo verso la finestra. Notai Letitia passeggiare nella zona più ombrosa del giardino, voltandosi di tanto in tanto, probabilmente per non essere vista. Si stava incontrando di nuovo con Ricardo? Ero quasi invidiosa della sua libertà di comportarsi a proprio piacimento in questioni simili. Lei poteva innamorarsi di chiunque volesse, senza essere costretta dai propri genitori a sposare un uomo che non aveva mai visto in vita sua.
Non appena Curcio ebbe terminato la sua barbosissima lezione me ne tornai di corsa in camera mia. Presi il libro dove era custodita la lettera di Don Juan e la tirai fuori velocemente. Rilessi quei versi fino a che non li imparai quasi a memoria, trovandone diverse sfumature di tonalità ogni volta. Poi, l’illuminazione. Nessuno avrebbe davvero potuto salvarmi dal mio destino già scritto, ma di certo lui sarebbe riuscito ad aiutarmi a fuggire da tutto ciò. Se non fisicamente, almeno col pensiero. Scrissi velocemente due righe, niente versi, niente poeticità. Sono una disperata richiesta di vederci al più presto.
Quando terminai rimasi in attesa che qualcuno venisse a chiamarmi per il pranzo. Quando finalmente arrivò Anton a comunicarmi di scendere, scattai come un grillo e lo seguii velocemente. Lungo il corridoio incrociammo Letitia che si recava velocemente verso la mia stanza per finire di sistemarla. La bloccai, intimando il maggiordomo di annunciare ai miei genitori il mio arrivo. Quello non se lo fece ripetere due volte e si dileguò a grandi passi.
“Leti, ho bisogno di te” le dissi, non appena fui certa che nessuno ci stesse ascoltando. Mi guardò con sguardo incuriosito: non mi ero mai comportata in modo così losco in vita mia, ed era una sorpresa anche per lei. Tirai fuori dal corpetto la lettera sigillata che avevo appena terminato di scrivere e gliela consegnai. “Sei l’unica persona a sapere come riuscire a recapitarla a Don Juan Tenorio” sostenni, con tono deciso. In realtà ero terribilmente in imbarazzo per tutto ciò che avevo fatto, tanto che sentii le mie gote farsi calde, ma la mia amica era probabilmente l’ultima persona in grado di giudicarmi per una questione simile. L’enorme sorriso nato sul suo volto mi lasciava intuire, anzi, che fosse assolutamente entusiasta della ‘storia d’amore’ che era riuscita a mettere su. Perché sì, dopotutto un minimo di merito per tutta quella situazione era anche suo.
“Consideratelo fatto” mi rispose raggiante, prese la lettera e partì, non alla volta della stanza, ma del giardino. “Grazie” le urlai dietro, senza sapere se mi avesse sentita o meno, e mi diressi verso la sala da pranzo, dove tutti mi aspettavano.
Fortunatamente l’argomento di conversazione dei miei genitori non fu il mio prossimo matrimonio –anche se sapevo benissimo che mia madre non vedeva l’ora di iniziare i preparativi e di rendermi partecipe di tutte le sue decisioni- ma il funerale dell’indomani. Sembravano non essere d’accordo sul fatto che si celebrasse in chiesa: una suicida non era più figlia di Dio, non avrebbe dovuto nemmeno entrare in un luogo consacrato. I miei sembravano compiaciuti della menzogna che i poveri genitori della ragazza, pur di darle una dignitosa sepoltura, avevano annunciato. Secondo la loro fantasiosa versione dei fatti la ragazza non si sarebbe buttata di sua spontanea volontà nel fiume, ma uno sconosciuto l’avrebbe spinta nelle acque gelide cogliendola di sorpresa. Tutti in paese erano a conoscenza della reale versione dei fatti, tutti non facevano che parlarne male, ma nessuno osava contestare apertamente la scelta della celebrazione religiosa. Parlarne nei club e rimanere ‘anonimi’ era sicuramente più divertente.
Era inoltre chiaro, dopo gli studi che i medici avevano fatto sul corpo della sfortunata, che essa fosse incinta. Un enorme disonore, soprattutto alla vigilia del matrimonio. Ma i genitori, pur di non lasciar cadere la famiglia nel puro disonore, le avevano fatto costruire una tomba bianca, come se fosse una vergine. Mia madre sembrava piuttosto agguerrita nella discussione contro questa decisione così abominevole. Non si poteva trattare una sgualdrinella qualsiasi come una delle creature più pure della terra.
Io, dal canto mio, ero terribilmente disgustata da tutte queste decisioni prese dalla famiglia Hermosa de Chauchina. Non m’importava dove avessero programmato il funerale, di che colore della bara: quelli non erano altro che dettagli irrilevanti. Ciò che più mi schifava, m’infastidiva, era il modo in cui la famiglia desse di gran lunga molta più importanza alle dicerie delle persone rispetto al dolore per la morte della loro unica figlia.
Rimasi con loro a parlare della questione per un bel po’. Non interagii granché: mi limitai, piuttosto, ad annuire ad ogni cosa che sostenessero. Mostrarmi così contrariata da tutta quella stupida situazione non avrebbe fatto altro che farli arrabbiare. Quando finalmente si alzarono per andare a riposare nella loro stanza li salutai cordialmente e corsi verso la mia camera.
Arrivai ansimante di fronte al portoncino. Forse era per colpa delle rampe di scale percorse di corsa, oppure era semplicemente perché speravo di trovare una risposta alla mia lettera adagiata sul letto. Entrai decisa ma non trovai nulla che potesse dissimulare un messaggio da parte di Don Juan. Delusa mi buttai sul letto.
Il mio dormiveglia venne interrotto da Letitia che entrò in camera raggiante. Quando notò che ero quasi addormentata si scusò con me. “Ho una bella notizia che sicuramente vi farà svegliare benissimo!” esclamò contentissima. Proprio come avevo fatto io prima con lei, tirò fuori dal corpetto una busta color pergamena tutta spiegazzata. Sorrisi, immaginando di cosa si trattasse. “Pensavo non volesse più rispondermi” ammisi, portandomi una mano al cuore. Ero rincuorata dal fatto che finalmente avessi ricevuto una risposta anche se, effettivamente, era passato davvero poco tempo da quando avevo fatto consegnare il mio messaggio.
Sentire sotto ai polpastrelli i segni sul sigillo mi elettrizzava. La cera rossa era marchiata con le sue iniziali: era davvero sua, nessuno sbaglio, nessun impostore. Chiusi gli occhi e trattenni il respiro mentre con una mossa decisa aprii definitivamente la busta.
Nessun verso ad attendermi, solo uno schietto messaggio di poche righe.
“Sono qui per liberarti”
Mi morsi il labbro. Un uragano di sensazioni contrastanti si fece largo fra i miei pensieri in un attimo. Cosa voleva dire quel messaggio?
“Don Juan mi ha consegnato di persona questa lettera, per essere certo che arrivasse immediatamente a destinazione” interruppe i miei pensieri Letita. Tornai a guardarla, distogliendo lo sguardo da quelle lettere scarlatte. “Lui è qui?” domandai, quasi balbettando. Al solo pensiero sentii il fiato mancarmi. La mia amica annuì, senza troppi scrupoli. “Probabilmente è ancora di sotto, non è molto che…” non le diedi nemmeno il tempo di terminare la frase. In uno slancio improvviso d’affetto la abbracciai talmente forte da farle perdere il respiro. Lei non chiese nulla, né protestò per la mia mancata attenzione a ciò che avesse da dirmi.
Senza darle nemmeno il tempo di riprendere il discorso mi precipitai fuori dalla stanza, diretta verso il luogo d’ombra del giardino dove avevo visto Letitia avviarsi quella stessa mattina. Il messaggio ambiguo che avevo ricevuto aveva improvvisamente acquistato senso.
Corsi lungo il giardino cercando di non farmi vedere da anima viva. Nello spazio al retro del castello non ci avrebbe visto nessuno e fremevo all’idea di poter rivedere il mio cavaliere. L’idea di incontrarci di nascosto all’interno delle mura del mio palazzo, consapevoli di poter essere scoperti da un momento all’altro, rendeva l’ottica di stare in sua compagnia ancora più eccitante.
Mi fermai sotto l’arco di rose bianche. In cuor mio sapevo che fosse quello il luogo dell’ ‘appuntamento’, sebbene nessuno dei due ne avesse mai fatto parola. Lui non c’era. Iniziai a guardarmi intorno, sperando con tutte le mie forze di non aver frainteso la sua lettera. Finalmente lo scorsi mentre scendeva dalle mura aggrappato alle piante rampicanti che costeggiavano l’intera cinta muraria.
Si sistemò gli abiti e si voltò a guardarmi. I suoi occhi luminosi e il suo sorriso smagliante erano ancor più belli di quanto ricordassi. Gli corsi incontro e lo abbracciai. Sorridente si liberò della mia presa e baciò delicatamente il dorso della mia mano. “Mia cara Celeste. È passato tanto tempo, eppure sembra ieri” disse con tono suadente. Ridacchiai, arrossendo leggermente. “E’ stato ieri” gli sorrisi e, senza preoccuparmi troppo di quello che avrebbe potuto pensare di me, gli diedi un bacio, che ricambiò con ardore.
“Mi siete mancato da morire” ammisi una volta che ci fummo staccati l’uno dall’altra. Presi la sua mano e lo condussi sotto l’arco di rose. Si tolse il mantello e lo lasciò cadere a terra e, insieme, ci sedemmo su di esso.
Senza dire nulla mi diede un bacio delicato, seguito da mille altri. “Non vedevo l’ora di poterti rivedere, Celeste” disse infine, carezzandomi il volto con una dolcezza infinita.
Lo lasciai fare, continuando a fissarlo e a sorridergli. L’indomani sarei diventata la fidanzata ufficiale di Don Diego, non avrei più potuto rivederlo. Preparandomi al peggio, cercavo di immagazzinare il più possibile l’immagine di Don Jan Tenorio, in modo che potesse restare sempre vivo nei miei ricordi.
“Leggo della tristezza nei tuoi occhi” disse con un filo di voce, fissandomi negli occhi come non aveva mai fatto. “Da domani tutto questo non potrà più esistere: dovrò diventare la sposa di un altro uomo. La sola idea di essere lontana da voi mi distrugge” confessai, con tono rassegnato. Con un sorrisetto beffardo mi prese il volto e lo portò a sé, dandomi un altro bacio. “Sì. Domani però” pronunciò infine, senza abbandonare quell’aria spudorata che tanto lo contraddistingueva. Mi allontanai leggermente dalla sua presa, infastidita da queste sue parole. “Domani, certo, ma son comunque promessa a Hortega” puntualizzai. Non sembrava accorgersi della gravità della situazione, né tantomeno del mio dolore. Non avrei più potuto rivederlo né sentilo. Il fuoco dentro di me aizzato dalle sue parole e dai suoi comportamenti si sarebbe presto spento, soffocato dalla noia e dalla freddezza di un matrimonio non voluto.“Sì. Domani però. Oggi non è domani. Se domani vi sposate, oggi è un altro giorno”. Annuii poco convinta, distogliendo l’attenzione dal suo volto magnetico e cominciando a torturarmi le mani dall’agitazione.
“Questo posto è meraviglioso” sostenne, rompendo il silenzio che si era venuto a creare. Mi guardai intorno, come se quella fosse la prima volta che guardavo il mio stesso giardino. L’arco sopra di noi era stracolmo di piccole rose bianche appena sbocciate. L’erba tutt’attorno era cresciuta verde e rigogliosa, lasciando spazio qua e là a qualche ciuffo di Nontiscordardime dall’azzurro vivace. Mossi leggermente la testa, e sorrisi ad uno stupido pensiero infantile che tutta quella situazione mi aveva appena portato alla mente.
“Sarebbe bellissimo sapere il motivo di questo ancor più meraviglioso sorriso, Celeste” pronunciò stringendomi le mani e riacquistando tutta la mia situazione. “E’ una storia sciocca” premisi. Sorrise, lasciandomi intendere che avrebbe comunque ascoltato ogni cosa che avessi da raccontargli. “Quand’ero una bambina sognavo di celebrare il mio matrimonio proprio sotto questo arco fiorito” narrai. Si mise a ridere, divertito dalla mia confessione. “Ero piccola ed ingenua, non c’è nulla da ridere” lo rimproverai, fingendomi offesa.
Tornò improvvisamente serio, tanto che quasi mi spaventò. Mi strinse maggiormente le mani e si morse il labbro.
“Questa mattina ho parlato con i tuoi genitori”. Lo guardai, strabuzzando gli occhi, incredula di ciò che avesse appena detto. Tutto mi sarei aspettato, ma mai una cosa del genere. Aprii la bocca per controbattere ma non riuscii a pronunciare alcun suono. “Ho chiesto loro la vostra mano”. Ero stupefatta, ed iniziai a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Mi rabbuiai un attimo dopo, immaginando la scena e la probabile risposta dei miei genitori.
“Non avranno accettato di certo. Non vi conoscono, mentre adorano Don Diego. Proprio ora che sono riusciti a convincerlo a sposarmi, non avranno di certo rinunciato al prestigio del suo nome per cedermi ad uno sconosciuto qualsiasi come voi” furono le uniche, fredde parole che finalmente riuscirono ad uscire dalla mia bocca.
Il suo volto si sformò in un enorme sorriso che lo addolcì terribilmente. Guardandomi pieno d’amore scosse la testa. “Ti sbagli, mia cara. Domani, dopo il funerale di quella povera ragazza, potremmo ufficializzare il nostro fidanzamento… presto sarai mia sposa!”.
Queste ultime quattro parole iniziarono ad echeggiarmi nella testa, prepotenti e dolcissime al tempo stesso. Sarei diventata sua sposa? Quasi piangendo dalla gioia mi gettai fra le sue braccia, baciandolo e ringraziandolo senza fine. “Con queste parole mi avete reso la ragazza più felice della terra” dissi emozionata, con un sorriso enorme e una gioia indescrivibile in corpo. Non potevo credere che i miei genitori avessero davvero deciso di lasciarmi sposare un uomo che era andato da loro a dichiarare tutto il suo amore per me e non quel damerino dalla buona famiglia.
Sorridendo mi strinse maggiormente a sé, sciogliendomi i capelli color dell’oro con una mossa veloce. Li lasciò ricadere dolcemente sulle spalle e sulla schiena, carezzandoli. Nonostante mi sembrasse una mossa del tutto inconsueta non protestai, troppo eccitata com’ero all’idea di diventare sua moglie. Ero come accecata dalla gioia.
Fece scivolare dolcemente le mani lungo tutta la linea del mio corpo, seguendo con le dita le curve dei fianchi. Rabbrividii al contatto delle sue labbra calde con l’incavo del mio collo, che si ripeté innumerevoli volte in pochi istanti. Con le braccia lo cinsi intorno alla testa, tentando con molta poca voglia di farlo smettere. La verità era che avrei voluto non finisse mai. Tornò nuovamente col viso all’altezza del mio volto e riprese a baciarmi sulle labbra, insistentemente. Ogni contatto era sempre più lungo e più passionale. Intrecciai le dita fra i suoi capelli sbarazzini, mentre lo lasciavo fare e, anzi, lo incitavo tacitamente a continuare.
Improvvisamente, con un movimento quasi impercettibile, mi diede una spinta. Le sue mani, poggiate sulla schiena, mi accompagnarono lentamente verso terra, evitando che mi facessi male. Nonostante fossimo stesi sul mantello, potevo chiaramente sentire ogni singolo stelo d’erba che si stagliava sotto al mio corpo. Ero sdraiata, immobile, davanti al mio cavaliere che, con un sorriso soddisfatto, mi seguì a ruota, adagiandosi delicatamente su di me. Sentivo chiaramente il suo battito cardiaco accelerato, e mi chiesi stupidamente se anche lui riuscisse a sentire il mio cuore impazzito. Socchiusi gli occhi, togliendomi dalla testa ogni genere di pensiero. Ora era lui il mio unico pensiero.
Le mani capricciose continuavano a percorrere ogni centimetro libero del mio corpo. Quando improvvisamente lo sentii superare la stoffa del vestito e arrivare veracemente alle cosce mi bloccai.
Distruggendo completamente il momento idilliaco lo feci mettere nuovamente sedere, e mi alzai a mia volta. Lo guardavo sconvolta, mentre dai suoi occhi traspariva delusione e frustrazione.
“Non credo di riuscire ad arrivare a tanto” mi scusai, portandomi una mano al cuore. Il respiro accelerato rendeva la mia voce affannosa e poco convincente. “Cosa c’è che non va? Credevo fossi meno conforme alle regole di questo posto, Celeste” mi ammonì. Avrei giurato di aver sentito una vena amara in quelle sue parole. “E’ così, infatti. Ma non potete chiedermi una cosa simile, è del mio onore che stiamo parlando” replicai, decisa.
Sporgendosi leggermente di lato, allungò una mano e colse una delle rose bianche del roseto. Me la porse, carezzando i petali vellutati ed invitandomi a fare lo stesso. “E’ davvero un peccato che io l’abbia tolta dalla sua dimora, non credi? Eppure ti vedo mentre la lambisci avidamente” cominciò. Annuii quasi impercettibilmente, mentre con le dita disegnavo le linee di quei candidi petali. Mi lasciò fare per qualche istante, dopodiché si sporse nuovamente per riporla al suo posto. La incastrò facilmente fra gli steli intrecciati, mascherando abilmente l’inganno. “Ora è tornata una rosa come tutte le altre, agli occhi di tutti. Solo io e te conosciamo la verità” continuò a spiegarmi. Arricciai il naso, intuendo il motivo di quella metafora. “Ma così un solo filo di vento la potrà far cadere, mostrando a tutti la verità. O, se ciò non accadesse, comunque sarebbe la prima ad appassire e a marcire” gli illustrai. Sorrise, accogliendo di buon grado la sfida che gli avevo appena lanciato. “Ma se noi continuiamo a venir qui, a curarla più delle altre, probabilmente nessuno se ne potrà accorgere” mi zittì. Mi morsi il labro, incapace di rispondere a modo alla sua bislacca teoria.
“Andiamo, Celeste. Credevo mi amassi” mi accusò avvicinandosi sempre di più, lasciando quasi che i nostri visi si sfiorassero. I suoi occhi magnetici erano più convincenti di qualsiasi accusa o metafora che potesse tirar fuori, e questo probabilmente lo sapeva molto bene. “E’ così, infatti. Io vi amo con tutta me stessa” risposi debolmente, sminuita dai suoi dubbi improvvisi. Non poteva dubitare del mio amore, non doveva.
“Se davvero è così, dovresti fidarti di me, lasciarti andare. Dimostrami che l’amore che provi per me non sono solo parole” mi supplicò, ipnotizzandomi con gli occhi.
Abbassai lo sguardo, sconfitta. Sospirai, certa che quello che stessi per dire mi avrebbe cambiata totalmente. Non ero pronta ma avrei dato qualunque cosa pur di dargli delle dimostrazioni concrete di quanto fossi fedelmente ed incondizionatamente devota a lui e a nessun altro. Qualunque cosa, anche il mio stesso onore.
“A tutto acconsento, perché voglio che voi sappiate quanto è sincero il mio amore” dissi, alzando lo sguardo e fissandolo negli occhi, decisa. Improvvisamente la sua espressione infastidita si trasformò in un’espressione di vittoria.
“Mi ami davvero, quindi. Anima e corpo?” domandò, stuzzicandomi. Se quella fosse una tecnica per mettermi alla prova non potevo saperlo, ma ormai la mia decisione era stata presa. Ero irremovibile, ormai. Qualunque cosa, per il mio futuro marito, per l’uomo che amavo più di chiunque altro e che sarebbe stato al mio fianco per il resto della mia vita. Prese le mie mani con dolcezza, stringendole debolmente, in attesa di una risposta. Annuii nuovamente, con decisione. “Sono vostra, mio cavaliere. Il mio cuore e la mia anima vi appartengono” risposi. Accompagnai lentamente le sue mani fino ai miei fianchi. “E d’ora in poi anche il mio corpo” conclusi.
Soddisfatto al massimo delle mie parole affondò nuovamente il volto sull’incavo del collo e di nuovo ci adagiammo all’unisono sul suo mantello. La sua presa salì dai fianchi fino al petto, dove s’arrestò. Si allontanò, interdetto, tornando nuovamente a sedere. “Odio questo maledetto vestito” brontolò, insoddisfatto. Ridacchiai divertita, poggiai fugacemente le mie labbra sulle sue, mi alzai a mia volta e mi girai, alzando i capelli e mostrandogli la chiusura del corpetto. Lo sentii sorridere alle mie spalle. Con le sue mani calde iniziò a solleticarmi il collo e le spalle, dopodiché si dedicò totalmente ai nastri che tenevano chiuso il bustino. Io stessa fremevo dalla voglia di poter togliermi di dosso quell’affare. Stette qualche istante così a trafficare ed improvvisamente mi sentii libera. Sentii la stoffa scivolarmi giù come appesantita. Mi voltai, sorridendo, e notai che il mio cavaliere teneva in mano il suo pugnale. Lo guardai con fare interrogativo ed alzò le spalle, come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Detesto metterci troppo” si giustificò, e con un’altra abile mossa squarciò anche la gonna, liberandomi completamente. Tornai nuovamente con tutto il corpo di fronte a lui, mentre lo osservavo riadagiare la sua arma nel fodero. Ero nuda come un verme, ed improvvisamente mi vergognai di me stessa. Arrossii, prendendo ciò che restava del mio splendido abito e cercando di coprire le mie vergogne alla meno peggio.
La mia goffaggine lo divertì parecchio. “Sei meravigliosa, non hai nulla di che vergognarti” mi sussurrò ad un orecchio, mentre mi scopriva nuovamente. “E’ una lotta ad armi impari” pensai, senza rendermi conto di aver lasciato che la mia voce flebile pronunciasse i miei pensieri. Quando mi guardò divertito per questa mia confessione mi limitai a portare le mani sulla bocca, sperando che non avesse preso le mie parole come dimostrazione di un animo impudente e senza vergogne.
Senza pronunciare parola iniziò a spogliarsi a sua volta. “Ora siamo pari, vestiti solo del nostro amore” annunciò soddisfatto. Rimasi a fissarlo stupefatta. Mentre i miei occhi calcavano il suo corpo, in cuor mio sapevo che non saremmo mai stati come tutti gli altri. Ogni coppia del mondo dava come unico scopo all’indicibile solo quello di far figli. Nonostante non ne avessi mai sentito parlare esplicitamente di tali argomenti, ero certa che fosse uso e costume del mio paese apprestarsi a procreare completamente vestiti. Durante le mie considerazioni più ardite avevo immaginato l’uomo impadronirsi della propria donna alzandole la gonna, farlo velocemente, senza scomporla troppo. Ma noi eravamo diversi. Eravamo la dimostrazione che il nostro amore fosse diverso. I nostri occhi avevano bisogno di essere appagati tanto quanto il resto dei sensi, e glielo stavamo permettendo.
Cogliendomi di sorpresa, riprese a baciarmi intensamente, facendomi nuovamente distendermi a terra. Continuavo a stringerlo a me, desiderosa di sentire la sua pelle calda e morbida a contatto con la mia.
Dopo qualche istante con entrambe le mani mi bloccò le braccia spalancate, a mo’ di crocifisso. La sua presa salda mi impediva qualsiasi movimento con la parte superiore del corpo. “Io, Juan Tenorio, prendo te, qui, in sposa. Prometto di amarti e di onorarti sempre”. Si abbassò per baciarmi le labbra, per poi ridiscendere lentamente verso il collo e il petto, lasciando scaturire piacevoli brividi nel mio corpo. Quando mi ebbe torturato abbastanza, tornò alla sua posizione. “Tu, Celeste, vuoi prendermi in sposo, qui, ora?” domandò, guardandomi fisso negli occhi. Smaniava, sembrava non riuscisse più a trattenere il desiderio, ma comunque riusciva a comportarsi e a parlare in maniera impeccabile, con quel tono dolcissimo. Sorrisi. “Lo voglio”.
Improvvisamente un dolore lancinante mi annebbiò la vista ed i sensi. Lo sentivo muoversi a ritmo sospinto, procurandomi un male straziante. Ancora incapace di muovermi sotto la sua presa, mugolai, cercando di lasciargli intendere le mie terribili sensazioni. Credendo erroneamente che la mia fosse una dimostrazione di piacere, intensificò le sue azioni.
Restai immobile, in silenzio, lasciandolo libero di farmi tutto ciò che più gli aggradasse. Per mia fortuna il forte dolore stava lentamente scemando. Quando diventò quasi sopportabile, riuscii ad aprire gli occhi. Il suo volto aveva perso ogni traccia di dolcezza: era ora rude, violento, incattivito. Mi spaventai, abituata com’ero ad attribuire quel genere di espressioni solo al Demonio stesso. I suoi occhi di smeraldo non sfioravano nemmeno il mio volto, erano anzi concentrati nel verificare quanti posti ancora non avesse portato le mani che prima mi stuzzicavano ma che ora quasi mi torturavano. L’ombra che il leggero filo di barba lasciava sul suo viso sembrava improvvisamente più scura del solito, rabbuiandolo totalmente. Feci per socchiudere gli occhi: non potevo sopportare una simile visione dell’uomo che più amavo sulla terra. Nel farlo, però, il mio sguardo cadde alle sue spalle, all’arco di rose bianche che si stagliava sopra di noi. Non ci avrei mai creduto, ma il mio sogno di bambina si era realizzato: ero diventata la sposa di un uomo proprio lì. Tutte quelle rose che ci guardavano curiose erano le uniche testimoni di quella nostra unione.
Dopo qualche minuto, finalmente, liberò le braccia. I miei movimenti erano ancora limitati dalla sua presenza su di me, ma, perlomeno, avevo riacquistato la possibilità di toccarlo. Gli cinsi le spalle con le braccia, costringendolo ad abbassarsi per riuscire a baciarlo. Non sembrava importargli dei miei gesti d’affetto, impegnato com’era. Ogni metodo che usassi per attirare la sua attenzione era futile.
Quando finalmente il dolore fu svanito del tutto, tramutandosi in una sensazione più che piacevole, decisi di fare di testa mia. Con le gambe gli cinsi i fianchi, iniziando a seguire ogni suo movimento. Per mia immensa gioia la sua espressione dura cambiò immediatamente: pareva ora quasi divertito da il mio comportamento, appagato e soddisfatto. Ed era orgoglio quella scintilla nei suoi occhi. Sembrava davvero che l’avessi reso felice. “Sapevo che eri una ragazza speciale” mi sussurrò ad un orecchio, mentre ero occupata ad affondare le dita nella pelle delle spalle e a baciarlo ovunque fosse possibile. Quelle parole mi resero terribilmente orgogliosa di me stessa, per la prima volta da quanto avevo preso quella decisione. Non mi vergognavo più della mia decisione, mi preoccupavo più di soddisfare in ogni modo il mio amato, felice.
Ero quasi ubriaca di tutto quel piacere quando, con un mugolio, si staccò dalla mia presa, sdraiandosi al mio fianco. Sorridendo raccolsi le stoffe del mio vestito distrutto e con quelle cercai di farne una coperta per entrambi. Mi fissava, vigile, non muovendo un muscolo. Portai il mio viso a pochi millimetri dal suo, lo baciai dolcemente e rimasi a guardarlo. Rimanemmo così a studiarci per qualche minuto, finché non presi coraggio. “Grazie per avermi liberata” gli sussurrai. Non rispose, ma alzò gli occhi al cielo e sorrise.
Ma anche il momento più bello ha una fine. Inaspettatamente si tirò in piedi in uno scatto. Raccolse i propri abiti e cominciò a rivestirsi. Mi limitai a guardarlo. “Dovete proprio andare?” chiesi, mentre allacciava alla cintura il fodero del pugnale. “Devo, ho molto da sbrigare. Ma domani sarà il nostro grande giorno: ci rivedremo e finalmente potremmo dimostrare a tutto il mondo quant’è grande il nostro amore. Quindi non disperare, mia amata. Poche ore e saremo di nuovo insieme” mi rassicurò. Mi alzai in piedi, per abbracciarlo e salutarlo nel migliore dei modi possibili. Nel farlo, notai una macchia di sangue sul mantello dove eravamo adagiati pochi attimi prima. Mi portai le mani alla bocca, dispiaciuta. “Non devi preoccuparti, questa è la prova che voi siete mia” mi tranquillizzò, raccogliendo il drappo da terra e piegandolo alla meno peggio.
“Allora, a domani” lo salutai. Il tempo passato insieme era inspiegabilmente volato e non riuscivo a convincermi nel volerlo lasciar andare via. “A domani mia cara Celeste” mi salutò, affondando violentemente per un’ultima volta le sue labbra sulle mie.
“A domani” ripetei, guardandolo sparire oltre il muro di cinta.





(*): Doña Celeste dell'anima mia,/ Fonte di luce solare,/ Bella colomba/ Privata ​​della libertà;/ Se degnassi per questo testo/ Passare i vostri begli occhi,/ Non voltateli con rabbia/ senza concluderlo; Finisci.

(**): Celeste, anima della mia anima,/ fuoco perpetuo della mia vita/ se per il mondo desideri/ la libertà con entusiasmo,/ ricordati che al piede stesso/ di queste mura che ti guardano,/ per salvarti ti aspettano/ le braccia del tuo Don Juan.


 



Angolo autrice:
Bene, diciamo che questo capitolo è un po'... boh. E' stato difficilissimo scriverlo, lo ammetto. Non sono mai stata abituata a spingermi oltre ma la storia stessa me l'ha imposto. Don Juan voleva così, e così è stato :)
Spero vi sia piaciuto. Vorrei tanto sapere i vostri pareri a riguardo, mi piacerebbe sapere cosa c'è che non va o cosa andrebbe cambiato perchè mi piacerebbe imparare ad essere un po' più spigliata nella scrittura. Credo di essermi trattenuta parecchio, essendo stata la mia prima volta!
Fatemi sapere! A mercoledì prossimo, con un nuovo capitolo :)
Un bacione a tutti,
J.

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Capitolo 4
*** Terzo giorno: otro para abandonarlas. ***


Terzo giorno: otro para abandonarlas.


Generalmente detestavo gli eventi mondani e, ormai, questo funerale era diventato un evento importante a tutti gli effetti. Proprio come avevo previsto erano tre giorni che non si parlava d’altro in paese e a corte. Quella mattina, però, cercai di tenere il mio cinismo da parte. Ero troppo emozionata all’idea della proposta di matrimonio e nessun funerale avrebbe mai potuto rovinarmi l’umore. Nemmeno mia madre e i suoi insopportabili modi di darmi continuamente degli ordini mi impedì di mantenere il sorriso stampato sul mio volto. Pochissime ore e nessuno avrebbe più parlato di quella povera sventurata: presto sarebbe stato il mio matrimonio la notizia sulla bocca di tutti.
Lasciai che Letitia stringesse il corpetto fino a farmi mancare il fiato, proprio come le era stato ordinato. La mia unica speranza era quella di vederlo cadere ai miei piedi, strappato dalla lama affilata del mio cavaliere. Mi rimproverai mentalmente per i miei pensieri volgari, ringraziando il cielo per non essere circondata da persone in grado di leggere la mente.
Quando finalmente ebbe finito, ci spostammo entrambe davanti all’enorme specchio posto al lato del mobile della toeletta. Il vestito era meraviglioso: completamente nero, come la tradizione imponeva, ma al tempo stesso sfarzoso, pomposo. Le cuciture con filo d’oro gli donavano un tono elegante e lussuoso, nonché quell’aria luminosa che la stoffa scura gli toglieva. Era perfetto per la doppia occasione a cui sarebbe servito.
“E’ davvero un peccato che Don Juan non vi possa vedere così” sostenne Letitia sospirando, stringendomi le spalle per infondermi forza. Non le avevo raccontato nulla di tutto ciò che era successo il pomeriggio precedente, né tantomeno ciò che ci eravamo detti. Secondo la versione che conosceva, ci eravamo parlati, mi aveva confessato nuovamente il suo amore ma si era generosamente fatto da parte pur di lasciarmi vivere una vita felice, seppur lontana da lui. Nonostante le volessi un gran bene e avessi piena fiducia di lei, non ero riuscita a dirle tutta la realtà. La verità era che mi vergognavo di una sua opinione, considerando che solo il giorno prima ero stata in grado di criticarla per aver fatto la medesima cosa con lo scudiero di Don Juan. Avevo anche paura di spiegarle le motivazioni per averlo fatto: non avrei mai e poi mai ammesso di essere innamorata di lui e di aver fatto tutto quanto solo per il suo amore. L’unica cosa che mi consolava era che tutta quella farsa sarebbe durata davvero poco. Dopo il matrimonio e la nostra prima notte di nozze avrei potuto ammetterle di aver fatto l’indicibile insieme a mio marito, e non mi sarei dovuta preoccupare delle sue opinioni a riguardo.
“Leti, per favore, non parlarmi più di lui” dissi portandomi una mano al cuore in maniera teatrale. Annuì silenziosa, dispiaciuta.
Quando finalmente tutto fu pronto scesi in giardino per una solitaria passeggiata prima di partire alla volta del paese. Nonostante fosse molto presto le temperature erano già notevolmente alte. Lasciando che i miei piedi decidessero per me dove andare, mi ritrovai ben presto nella zona all’ombra del castello, proprio dove il pomeriggio precedente mi ero incontrata con Don Juan. Sorrisi lievemente, convinta che fosse stato il cuore a suggerirmi quella via. Mi avvicinai all’arco di rose, dove i fiori avevano appena riaperto i loro petali ai primi accenni della calura giornaliera. Ne notai a terra uno. Lo raccolsi. Aveva lo stelo spezzato. Senza grande difficoltà realizzai che quello, con molta probabilità, era il fiore che mi era stato porto il giorno prima. Pensando di onorare e riportare alla mente bei ricordi al mio amato cavaliere decisi di non riposare la rosa al suo posto, ma di utilizzarla per adornare i capelli. La incastrai senza troppa difficoltà nell’acconciatura alta che Letitia mi aveva fatto.
Finita la mia passeggiata raggiunsi i miei genitori. Mia madre fulminò con lo sguardo la rosa fra i miei capelli ma non si lamentò della mia scelta ardita. Mi consegnò un velo nero, ordinandomi di indossarlo sul capo. Obbedii senza protestare. Sebbene non ne avessi fatto alcuna parola con loro, non dovendolo sapere, ero comunque terribilmente grata ad entrambi per aver concesso a Don Juan Tenorio di sposarmi al posto di Don Diego Hortega.
Anton entrò in camera annunciandosi con dei leggeri colpi alla porta, e ci informò dell’arrivo della carrozza. Quando uscivamo tutti e tre eravamo solito farlo in grande stile, nonostante accadesse molto di rado. Il cocchiere iniziò a condurci verso la chiesa di paese, percorrendo il tragitto più popolato ma anche il più lungo. Tutti dovevano vederci. Lungo gli spaziosi viali alberati lasciai che la mia mente vagasse il più lontano possibile da quel trabiccolo, immaginando il mio futuro roseo. Il bosco che costeggiava il sentiero si diradò velocemente, lasciando spazio alle casupole del paese. Tutti si voltavano per guardarci, alcuni si inchinavano al nostro passaggio. Mio padre e mia madre erano orgogliosissimi di tutte quelle attenzioni, e sorridenti salutavano le persone lungo le strade. Tutti ci amavano e ci rispettavano, da quelle parti, come fossimo la famiglia reale e i miei genitori non potevano far altro che gonfiarsi di tutte quelle attenzioni così amate. Io, dal canto mio, continuavo a guardare oltre la linea dell’orizzonte, perdendomi fra i miei pensieri più nascosti.
Con l’arrestarsi della carrozza, tornai alla realtà. Dopo pochi istanti d’attesa, trascorsi in silenzio, il cocchiere spalancò la porta e diede una mano a scendere da lì a tutti e tre. Il sole mi accecò. Mi guardai intorno disorientata, vedendo attorno a me solo decine di persone sorridenti che ci salutavano. Tutti gli uomini si tolsero il cappello, mentre le donne chinavano la testa in segno di rispetto. Tutti quei sorrisi stonavano col contesto della situazione. Ogni attenzione era velocemente catapultata su di noi, lasciando che la disgrazia della povera ragazza morta venisse ignorata. Mia madre mi prese sottobraccio ed insieme salimmo la gradinata della chiesa, fino al portone d’ingresso.
Il parroco del paese parlottava sottovoce con Padre Filiberto proprio al fianco della piccola colonna sulla quale era sistemato il fonte battesimale. Io e mia madre, seguite da mio padre, ci avvicinammo per bagnarci le dita e fare il gesto della croce. Sbuffai silenziosamente, già annoiata da tutti quegli inutili convenevoli, ma comunque attirai l’attenzione dei due preti che mi incenerirono con lo sguardo. “Doña Dulcinea, benvenuta” pronunciarono in coro i due, teatralmente. Uno dopo l’altro baciarono la mano di mia madre che li fissava soddisfatta. “Nella stanza al lato della sagrestia si stanno svolgendo gli ultimi preparativi per la celebrazione. Accomodatevi pure nelle panche preparate appositamente per vossignoria. Sono in fondo, proprio al lato del cero pasquale” il parroco ci indicò il luogo dove dovevamo accomodarci e, senza proferire parola, seguimmo le sue direzioni e raggiungemmo le nostre postazioni.
Dopo qualche minuto d’attesa, che trascorsi guardando la gente che lentamente occupava i propri posti e sperando nell’arrivo di Don Juan, la campanella suonò e tutti si alzarono in piedi. Malvolentieri fui costretta ad abbandonare le mie ricerche fra la folla e a dedicare tutta la mia attenzione sui due preti che, vestiti appositamente per la celebrazione, avanzavano lentamente cospargendo le navate di incenso. Dietro di loro quattro uomini corpulenti con un lungo cappuccio che copriva loro il volto, probabilmente dei contadini, trasportavano sulle proprie spalle una cassa di legno di faggio, aperta. Alle loro spalle un ragazzetto trascinava faticosamente il coperchio della cassa. A concludere la misera processione un uomo e una donna in lacrime. Capii immediatamente che quelli fossero i genitori della ragazza. L’uomo si sistemò nella panca in prima fila, mentre la donna, urlando in modo straziante dal dolore, seguiva passo passo i quattro contadini che trasportavano il corpo della figlia. Si gettò letteralmente su di esso non appena la cassa fu poggiata a terra.
Involontariamente il mio sguardo cadde sulla ragazza. Il pallore e gli evidenti segni della morte non avevano intaccato la bellezza semplice della poverina. Gli occhi leggermente gonfi e le labbra violacee erano gli unici aspetti che rovinavano il suo volto. I boccoli castani raggiungevano eleganti le mani incrociate, appoggiate delicatamente sul ventre leggermente rigonfio. Indossava un abito bianco di stoffa pregiata, adornato con del pizzo. Era una creatura così pura, così innocente. Al solo pensiero del suo tragico ed insensato gesto mi si riempirono gli occhi di lacrime. Perché mai una fanciulla così bella, così giovane, avrebbe mai dovuto compiere un’azione simile? Il suo onore perduto e la sua presunta gravidanza non avrebbero mai compensato la perdita di una vita.
“Celeste, contieniti” mi rimproverò mia madre notando i miei occhi lucidi. Cercai di chiedere scusa ma nessun suono uscì dalla mia bocca. In ogni caso obbedii, cercando di non provocare la sua ira.
Passato qualche minuto in cui tutti si apprestarono a fissare, compatire e parlar male alle spalle della povera madre, i due sacerdoti diedero il via alla celebrazione del funerale.
Distolsi lo sguardo dalla ragazza, dalla cassa di legno chiaro e dalla donna che, ancora piangendo, venne trascinata dal marito verso il loro posto a sedere. Cercai di pensare ad altro, di pensare a qualcosa di bello. Non fu affatto facile trattenere tutte le emozioni negative che affioravano dai miei pensieri, ma mi costrinsi a fare ciò che fosse più giusto per la mia immagine. La mia mente si soffermò sulla figura di Don Juan e finalmente riuscii a raggiungere equilibrio, seppur precario. Non ascoltai nemmeno una parola di tutta la messa, occupata com’ero nel cercare di mantenere quello stato mentale così ambito.
Tornai alla realtà solo quando la campana suonò nuovamente. La donna, che in quell’ora appena trascorsa era riuscire a fermare i fiumi di lacrime, si gettò nuovamente sulla cassa contenente sua figlia. Si fece il segno della croce e con un’espressione addolorata accarezzò dolcemente il volto pallido della figlia. L’uomo la seguì, diede un bacio sulla fronte della ragazza e fece un cenno veloce al ragazzetto del coperchio. Questi si avvicinò lentamente e lasciò cadere con molta poca grazia il pezzo di legno sull’apertura della cassa. Padre Filiberto si avvicinò e cosparse di fumo profumato la bara, mentre i quattro contadini la richiudevano velocemente con dei chiodi. Appena la benedizione finale fu conclusa, i quattro trasportarono sulle spalle il corpo della ragazza, sparendo aldilà del portone.
Lentamente tutti lasciarono i loro posti per seguire il corteo funebre. Io e i miei genitori fummo gli ultimi a lasciare la chiesa. Raggiungemmo a passo lento il chiostro della chiesa. Al centro era posiziona la cassa, mentre tutt’attorno, nelle zone d’ombra dello spiazzo, erano sistemati numerosi tavoli colmi di cibo e di bevande. Era chiaro che la famiglia della morta non aveva badato a spese pur di frenare le malelingue della gente del paese, sperando che tutti iniziassero a parlare positivamente dell’accaduto.
Mio padre e mia madre iniziarono il loro giro di socializzazione, mentre io rimasi vicino all’entrata per poter guardare la gente presente. M’infastidiva notare come tutti avessero già dimenticato il motivo per cui si trovassero lì, impegnandosi unicamente sulla vita di società e sul cibo presente. Probabilmente molti dei presenti non avevano mai visto tutto quel ben di Dio in una sola volta.
Il mio cuore sobbalzò non appena vidi il mio amato Don Juan, e le mie labbra si piegarono in un sorriso felice. Sorriso che svanì non appena notai che fosse occupato a parlare e a ridere con una giovane dama dai lunghi capelli corvini. Non troppo alta, con la pelle colorita dal sole e piccoli occhi maliziosi, sembrava fosse seriamente intenzionata a divorarlo con lo sguardo, mentre lui sembrava compiacersi di tali attenzioni. Scacciai i brutti pensieri scuotendo la testa, ipotizzando che si trattasse di qualche sua parente o una vecchia conoscenza. Li seguii con lo sguardo e li vidi avvicinarsi al tavolo dove erano disposti i bicchieri di vino. Presi fiato e decisi di raggiungerli. Di raggiungerlo, a dire il vero, e di cacciare quella strana ragazza.
“Doña Celeste, finalmente ci incontriamo” mi bloccò al centro della piazza un cavaliere. Sospirai, dovendo rinunciare momentaneamente alla mia missione. Il ragazzo che mi bloccava il passaggio aveva presumibilmente qualche manciata di anni più di me, ma era abbastanza chiaro dai suoi lineamenti giovani che non superasse i ventisei anni. I suoi occhi scuri mi fissavano luminosi, e per un istante pensai mi stessero sorridendo. Nonostante fosse di una bellezza ordinaria, aveva un non so cosa che m’incuriosiva e mi attirava al tempo stesso. “Sarebbe molto cortese da parte vostra dirmi il vostro nome, non credete?” dissi lanciandogli una frecciatina, mentre con lo sguardo controllavo che Don Juan si trovasse ancora dove lo avevo visto poco fa. Sebbene il ragazzo di fronte a me non fosse particolarmente altro, le sue spalle mi impedivano di vedere oltre e, sbuffando, tornai a dedicargli tutta la mia attenzione. Probabilmente non si accorse delle mie occhiate furtive verso i tavoli e, con un inchino, prese la mia mano e la baciò. “Perdonatemi, mia cara. Il mio eccessivo entusiasmo mi ha reso un completo maleducato” tornò ritto e mi guardò dritto negli occhi. Sorrise lievemente. “Sono Don Diego Hortega” si annunciò infine.
Strabuzzai gli occhi, incredula di tale rivelazione. Dal modo in cui i miei genitori erano entusiasti di lui e da come me ne avevano parlato nei giorni precedenti, la mia mente aveva creato un’immagine di lui completamente errata. Lo pensavo vecchio, burbero, pieno di rughe ma anche di soldi e di medaglie all’onore. Su queste non avevo affatto sbagliato: la divisa dell’esercito spagnolo che indossava era zeppa di spille e medaglie che mostravano la sua forza e valorosità in battaglia.
Improvvisamente mi sentii in colpa nei suoi confronti. Per un attimo misi da parte la mia felicità e il mio entusiasmo nello sposare l’uomo che amavo e iniziai a pensare a quanto fosse costretto a soffrire questo cavaliere, anche per colpa mia. La sua promessa sposa era morta pochi giorni prima del loro matrimonio ed io mi ero rifiutata di sposarlo, sostituendolo con un altro.
“Mi dispiace davvero tanto” dissi, portandomi le mani alla bocca. I sensi di colpa erano completamente padroni del mio corpo e della mia mente. “Oh, non vi preoccupate, mia cara. Passerà” disse tranquillo, carezzandomi lievemente un braccio. Sorrideva, ma capii che quello non fosse altro che un gesto di circostanza. “Avrete sofferto davvero molto. Il destino è davvero crudele” continuai, con sincerità. Scosse la testa e strinse entrambi le mie mani fra le sue. “Sono sicuro che da adesso in poi tutto andrà per il meglio” pronunciò profetico.
“Ve lo meritate davvero, troverete…” il mio discorso venne interrotto da un’improvvisa folata di vento che fece svolazzare il velo che portavo davanti al volto. La rosa bianca che indossavo a mo’ di decorazione per la  mia acconciatura volò via. La seguii con lo sguardo, mentre volava fra la folla. Cadde improvvisamente ai piedi di un uomo che la raccolse prontamente. Rimasi piacevolmente sorpresa nel notare che quell’uomo fosse Don Juan Tenorio. Non avevo notato il suo spostamento, occupata com’ero a dispiacermi per Don Diego. Lo guardai mentre portava il fiore vicino al volto, per sentirne l’odore. Alzò gli occhi e finalmente i nostri sguardi si incrociarono per la prima volta da quando era arrivato. Sorrise maliziosamente e si avvicinò a grandi passi verso di me, lasciando lì la ragazza con cui ancora si stava intrattenendo. Con uno scatto lasciai la presa del povero Don Diego che non ne capì il motivo finché il mio amato non ci raggiunse. “Doña Celeste, questa dev’essere vostra” disse porgendomi quella rosa che entrambi conoscevamo così bene. “Vi ringrazio di cuore” gli dissi, sorridendo. Venni percorsa da un’infinità di brividi appena sfiorai le sue mani e cercai disperatamente il suo sguardo che, però, non si posò mai su di me.
“Don Diego” pronunciò con un inchino “è sempre un piacere per me incontrarvi”. La sua espressione ricca di scherno tornò a riempirmi di sensi di colpa. Non aveva nessun motivo per infastidire il povero Don Diego, non dopo avergli già rubato la possibile futura moglie. L’espressione di Hortega si era infatti irrigidita. Il suo sorriso dolce era scomparso, lasciando spazio ad una smorfia di disgusto. Nessuno dei tre parlò per qualche istante, lasciando calare un silenzio decisamente imbarazzante. “Vi lascio nuovamente soli” disse infine Don Juan, seccato dalla mancata risposta del suo rivale, dileguandosi fra la folla.
Rimasi delusa dalla sua reazione. Mi aspettavo che, una volta incontrati, mi avrebbe presa con sé per dichiarare finalmente a tutti il nostro matrimonio. Ma nulla di tutto ciò accadde. Se ne tornò, anzi, dalla ragazza dai capelli neri. Sembravano davvero in confidenza e il solo vederli insieme m’infastidiva a morte. Chi era quella, e cosa voleva dal mio futuro marito?
Improvvisamente Don Diego strinse nuovamente le mie mani, distogliendomi dai miei pensieri. “E’ arrivato il momento, non credete?” mi domandò. Era arrivato il momento dei saluti. Mi aveva fatto davvero molto piacere incontrare quell’uomo, conoscerlo e scambiarci quattro parole. Sembrava un tipo sincero, buono, sentimentale. Speravo davvero con tutto il cuore che trovasse una donna degna del suo amore, capace di amarlo e di onorarlo per tutto il resto della sua vita, evitandogli ulteriori sofferenze. Annuii, stringendogli le mani.
“Attenzione prego!” urlò, acquistando l’attenzione di tutti i presenti. Mi si gelò il sangue: cosa aveva intenzione di fare? Cercai con lo sguardo Don Juan che, ad un angolo del chiostro, sembrava davvero molto divertito da tutta quella improvvisa situazione e,soprattutto, dal mio grande stupore. “Sono orgoglioso di annunciarvi che presto la qui presente Doña Celeste Vuentas de Huelma diventerà mia moglie. I preparativi sono già iniziati ed ovviamente siete tutti invitati”.
“COSA?” urlai. Nessuno mi sentii, a causa del boato delle grida di gioia provenienti da tutti. Nemmeno Don Diego mi sentì, ma anzi si voltò nuovamente verso di me con un sorriso raggiante. “Da adesso in poi tutto andrà meglio” ripeté. “Grazie a te” sussurrò, e chinandosi di poco mi schioccò un bacio sulla guancia che causò un ulteriore boato di entusiasmo. Lo fissavo con gli occhi strabuzzati, incapace di parlare o di chiedere spiegazioni di ogni sorta. Altalenavo lo sguardo fra di lui e Don Juan che, all’ombra di tutti, se la rideva di gusto.
Ognuno dimenticò la cassa con la morta al centro del chiostro ed iniziò ad accalcarsi per avvicinarsi e farci le congratulazioni ed i migliori auguri. I miei genitori ci avevano raggiunto e si erano posizionati alle nostre spalle, a voler supervisionare che tutti venissero anche solo a stringerci la mano. I loro sorrisi soddisfatti erano la prova lampante che quello fosse davvero tutto ciò che avevano sognato.
Ricevetti ogni persona con un sorriso stirato, ancora scioccata per la notizia, mentre Don Diego, invece, sembrava davvero felice dell’accaduto.
“Le migliori congratulazioni, miei signori” disse divertito Don Juan non appena venne il suo turno. Lo incenerii con lo sguardo, sperando che cogliesse tutta la mia rabbia. Hortega lo ringraziò come se niente fosse, senza lasciare che l’espressione di disgusto apparisse nuovamente sul suo volto. Dopo Tenorio fu la giovane donna dai capelli corvini a congratularsi con noi. Era davvero molto bella. Dopo l’inchino che ci porse corse dritta fra le braccia di quello che, fino a poco prima, credevo il mio futuro marito.
E invece ora ogni mia certezza era crollata. Ciò che fino a poco tempo prima immaginavo fosse il mio futuro, si era improvvisamente sgretolato davanti ai miei occhi. Credevo di sognare, ma ogni persona che si presentava di fronte a noi era un gradino in più lungo la scala della dura realtà. Non avrei sposato un uomo che amavo, ma piuttosto uno per cui provavo una forte compassione e null’altro. Un uomo che avevo detestato fin dal primo momento, ma che in quell’istante non faceva altro che trattarmi in una maniera che non meritavo. Mi teneva stretta per mano, si voltava di tanto in tanto per sorridermi. Non avrei mai pensato alla mia festa di fidanzamento in questo modo. Era tutto completamente diverso da come me l’ero immaginato.
Quando finalmente la penosa processione di ipocriti che ci auguravano il migliore delle cose si concluse, mi allontanai dal mio ‘nuovo’ futuro marito. Mi faceva strano anche considerarlo tale. Finsi di essere improvvisamente assetata e mi diressi a gran passi verso la fonte dell’acqua. Proprio a pochi passi da lì, Don Juan e la dama erano occupati a chiacchierare.
“Cosa significa tutto questo?” gli domandai, furente, a denti stretti. Con una scusa insulsa fece allontanare la ragazza e cominciò a fissarmi. In quegli occhi meravigliosi non vedevo più quella luce di cui mi ero innamorata. “Cosa intendi, mia cara?” chiese, quasi ridendo. La situazione non era divertente eppure non poteva fare a meno di sorridere sotto ai baffi. “Eravate voi l’uomo che dovevo sposare. Voi. Non Hortega” cercai di controllare il tono di voce, ma era evidente che fossi furiosa. Alzò le spalle, indifferente. “Non dovresti mai fidarti delle parole di uno sconosciuto, sai?”. Lo guardai sconvolta. “Tutto ciò che mi avete detto era una bugia?” urlai, con la voce smorzata da un singhiozzo. Non volevo, ma probabilmente molto presto sarei scoppiata a piangere. Sentivo gli occhi gonfiarsi e la vista appannarsi. “Esattamente. Ogni singola parola. È stato molto difficile fare in modo che ti fidassi di me, sei stata davvero un osso duro, Celeste” quello sguardo cattivo, simile a quello del demonio, tornò ad incupirgli il volto. Rimasi senza parole. Non riuscivo a replicare, non riuscivo a muovermi. L’unica cosa che in quel momento avrei voluto fare era morire. L’amore che provavo per lui era basato sulla menzogna. Quello, e nient’altro.
“Bè, mia cara, ancora tanti auguri per il matrimonio” disse infine, prendendomi il mento e costringendomi a guardarlo negli occhi. Mi fece avvicinare a sé, tanto che i nostri volti per poco non si sfiorarono.
“E ricordati che tu sei cosa mia, chiunque sia l’uomo che sposerai”. Mi lasciò e si allontanò a grandi passi, lasciandomi inerme vicino alla fonte dell’acqua.
Ricordarlo? E come avrei potuto dimenticare una cosa simile?
La mia anima e il mio corpo appartenevano a lui e a nessun altro.
Sarebbe per sempre stato così, chiunque fosse mio marito.
Il mio vero marito era lui. Io ero cosa sua.

 



Angolo autrice:
Ecco qui, di nuovo, puntuale come la morte, il nuovo capitolo :)
Finalmente ha fatto la propria comparsa il fantomatico Don Diego Hortega... e Don Juan Tenorio ha mostrato il suo vero aspetto.
Cosa ne pensate? Fatemi sapere :)
J.

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Capitolo 5
*** Epilogo. ***


Epilogo.



Ero affaccendatissima a sistemare le mie cose quando trovai il mio diario all’interno di un cassetto nascosto del mio scrittoio. Rileggerne qualche pagina era sicuramente un ottimo modo per distrarmi, quindi decisi di sfogliarlo, alla ricerca di qualche pensiero passato.
Sogni di una giovane donna, grandi aspirazioni. Tutto mi faceva sorridere amaramente. Giunsi d’un fiato all’ultima pagina. Era scritta velocemente, con una calligrafia quasi irriconoscibile. Ricordai di averla stesa di notte, alla luce di una fioca candela. Pur sapendo di farmi del male, decisi di leggere quelle parole.


Non avevo mai considerato l'idea di innamorarmi, figurarsi quella dell'innamorarmi per via di un colpo di fulmine. In realtà credo di non aver mai creduto nell'amore. Non so, sarà colpa dei tempi che corrono. L'amore non è mai stato un sentimento contemplato nella mia crescita, nella mia educazione. I miei genitori e i miei insegnanti non hanno mai considerato questo aspetto della vita, non me ne hanno mai nemmeno parlato. Per loro l'amore non esiste, esiste solamente il dovere di sposarsi per poter portare avanti il nome della famiglia. Se poi ci si sposa con qualcuno di ricco, proveniente da una famiglia importante, bè... anche meglio. Fortunatamente, però, trascorro la maggior parte del mio tempo in compagnia di Letitia. Sebbene sia una ragazza senza cultura e sebbene il suo compito sia solo quello di tenermi compagnia e di esaudire ogni mia richiesta, è davvero un'ottima amica. E' stata lei la prima a farmi avvicinare alle letture d'amore. Fiabe, leggende, storie di principi e di principesse. E' da lì che ho imparato cosa sia l'amore. Immaginazione e fantasia. Io, almeno l'ho sempre vista così. Letitia invece è una sognatrice, pensa che quelle storie siano vere e che un giorno, chissà quando, anche lei troverà il vero amore e vivranno per sempre felici e contenti. Bah, bazzecole.
E' da qualche giorno che non riesco a smettere di considerare, di riconsiderare, la mia prospettiva. Dopo nemmeno una settimana dal nostro incontro, perché continuo a pensare a lui? Sorrido al solo pensiero, dopo un attimo mi rattristo. Ripenso al suo strano comportamento; ripenso alla dolcezza infinita delle prime cose che mi diceva, alla freddezza delle parole di quando è andato via. Lo detesto per ciò che ha fatto, detesto me stessa per averglielo concesso. Vorrei averlo qui con me in ogni istante. Vorrei non averlo mai conosciuto. All'idea di quei suoi meravigliosi occhi penetranti non posso fare a meno di sospirare. Sospirare e sperare che torni qui da me, presto. Magari che mi salvi dalla mia triste realtà come fanno i principi con le principesse delle storie che leggo ogni sera. Forse sono semplicemente tanto, troppo confusa. Forse la realtà è che nemmeno io capisco ciò che voglio e ciò che non voglio. I miei pensieri sono offuscati e non riesco a pensare lucidamente.
E' questo essere innamorati? E' questo l'amore? Tutti quei libri non riescono a darmi una risposta, ed io sono qui a struggermi per averne una. Il tempo passa ma non mi da consiglio.
Celeste.

Sentii gli occhi gonfiarsi di lacrime, ma riuscii a trattenermi. Ormai ero diventata bravissima nel trattenere le mie emozioni.
Quell’ultima pagina di diario era stata scritta da quasi due mesi, ma quasi nulla era cambiato.
Senza nemmeno pensarci troppo mi sedetti di fronte allo scrittoio, aprii la boccetta di inchiostro che tenevo sempre a portata di mano e inzuppai la punta della penna. Ero decisa a dare un taglio a tutte le sofferenze che tenevo dentro: per la prima volta dopo mesi ero intenzionata a sfogarmi.


Due mesi sono trascorsi dall’ultimo giorno che scrissi qui. Una settimana allora era passata dal primo incontro con Don Juan Tenorio, oggi ne sono passate tante. Talmente tante da sembrarmi un’eternità. La mia confusione persiste nella mia mente.
Vorrei averlo qui, vorrei che gli ultimi due mesi trascorsi fossero stati solo un brutto sogno. Vorrei potermi svegliare e scoprire di essere ancora la sua promessa sposa. Ma so benissimo che questo mai potrà accadere, e vorrei tanto non averlo mai conosciuto, non aver mai conosciuto ciò che tutti chiamano amore. Credo e temo di essere arrivata alla spiacevole conclusione di essere innamorata di lui. Di lui, a cui la mia anima e il mio corpo appartengono inesorabilmente. Sono stata così sciocca a fidarmi di lui, eppure non posso far altro che ricordare con nostalgia ogni momento passato insieme.
Chissà cosa sta facendo in questo momento, chissà se pensa a me ogni tanto. Io non faccio altro che pensare a lui, nonostante tutto il tempo passato. Le immagini nella mia testa non sono affatto svanite. Vedendo Letitia incontrarsi con Ricardo alle mura del castello mi tranquillizzo un poco, sapendo che se lo scudiero è rimasto in questa zona, probabilmente anche lui è ancora qui intorno. In cuor mio covo ancora la speranza che, un giorno o l’altro, scavalchi nuovamente il muro di cinta e mi porti via con sé. Proprio come Lancillotto fa con Ginevra. Invidio profondamente la mia amica che il suo principe, in fondo, lo ha trovato.
Solo a mente fredda capisco che un principe vero l’ho trovato anch’io. Don Diego è un uomo buono, sincero, affabile e generoso. Ha davvero un cuore puro e pieno d’amore. Viene a trovarmi ogni giorno e da me non pretende nulla, se non la mia felicità. Tenta continuamente di vedermi sorridere, con una battuta, con un dono, con una proposta ad uscire dalle mura. Mi sento ancora terribilmente in colpa per tutti i torti che gli ho fatto e che continuo a tenergli nascosto. Mi sento in colpa per non provare nulla per lui, se non un sincero e profondo affetto. Ma affetto non è amore. Non sarò mai la moglie perfetta che si merita e mi odio profondamente per questo.
È buffo. Continuo ad essere legata, ad amare, un uomo che mi ha disonorata ed abbandonata, che mi ha sfruttata, trattata come un animale, ingannata. E l’unico uomo che dimostra un sincero amore nei miei confronti, che non ha alcun doppio fine, lo respingo come fosse carne avariata. Cos’ho che non va?


“Celeste, questo lo poggio qui” disse Letitia, distogliendomi dai miei pensieri. Annuii e mi voltai a guardarla. Teneva in mano il mio vestito da sposa e lo stava adagiando delicatamente sul mio letto. Mi sorrise ma, vedendomi impegnata in altro, non si avvicinò e non aggiunse altro. Si allontanò, anzi, a grandi passi.
 
 
Domani è il grande giorno. Domani diventerò Doña Celeste Hortega, moglie di Don Diego Hortega. Temo questo giorno più di qualunque altro. La verità verrà a galla e chissà come reagirà mio marito. Domani stesso, dopo le nozze festeggiate qui in paese, una carrozza ci accompagnerà fino alla sua tenuta, lontana da casa mia, dai miei genitori, dalla mia servitù. Lontana da El Dorado, lontana dal boschetto che circonda il mio palazzo, lontana dal mio giardino fiorito, lontana dall’arco di rose bianche…
Forse la lontananza mi farà bene. O forse no. L’unica cosa che so è che da domani inizierà ufficialmente la mia recita da brava mogliettina. Magari col tempo imparerò ad esserlo davvero.
Spero di poter divenire davvero una buona moglie per Don Diego anche se, in cuor mio, so benissimo di non poter mai essere la sua donna. Io sono la sposa di un altro, e nulla cambierà le cose.
Celeste.



Angolo autrice:
Ok, magari questo non è il finale che molti di voi si aspettavano ma... è così che funziona e così che funzionava, purtroppo.
Spero vi piaccia in ogni caso questo epilogo, io ci ho davvero messo tutto il cuore.
Ah, è work in progress uno spin off su questa storia... sei anni dopo tutto quello che ho scritto qui. Spero di riuscire a pubblicarlo presto e che leggerete anche quello con piacere :)
Grazie a tutti quelli che hanno messo la storia fra le preferite, fra le ricordate e fra le seguite; grazie a chi ha recensito e, soprattutto, un GRAZIE abnorme a ladyvampiretta e a DolceVenereDiRimmel che mi hanno supportato dall'inizio alla fine della storia... Probabilmente tutto ciò non sarebbe mai esistito senza voi due :)


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