1095

di Medea00
(/viewuser.php?uid=80398)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




 Il futuro è come il paradiso: tutti lo esaltano, ma nessuno ci vuole andare adesso.
J.M. Baldwin




Non ricordavo niente.
Ero sbronzo e non ricordavo assolutamente niente.
“Kurt!”
All'improvviso, Mercedes mi affiancò brandendo un Cosmopolitan ormai praticamente finito: il suo alito odorava fastidiosamente di alcool e quel sorriso non l’abbandonava da ore.
“Kurt, Kurt, non è bellissimo?”
Ero troppo ubriaco per intuire a cosa si stesse riferendo, così, come nei migliori film polizieschi da noleggiare in videocassetta quando non si ha niente da fare, cominciai a scartare tutte le varie opzioni per ricavarne una mia astuta deduzione. Dunque, il locale non era bellissimo. Era un misero disco pub in cui ci aveva trascinato Tina, solo perché lei voleva vedere quel ballerino figo che si esibiva sempre dalle due di notte in poi e noi non avevamo avuto il coraggio di abbandonarla. Le pareti, per quanta gente c’era, sembravano dotate di sudore proprio e la musica ormai era diventata un fischio assordante che si ripeteva monotono nelle mie orecchie; sapevo bene che quel ronzio sarebbe terminato soltanto un paio di giorni dopo, con tanta pazienza e aspirina.
Mi guardai intorno per cercare di capire se ci fosse qualche ragazzo definibile bellissimo, ma le luci psichedeliche e la mandria di persone intorno mi convinsero a lasciar perdere. Era praticamente impossibile che Mercedes avesse adocchiato qualcuno che fosse percepibile a più di mezzo centimetro di distanza: era ubriaca quanto - se non di più- di me.
La risposta al mio irrisolvibile teorema raggiunse la soluzione nel momento in cui la sentii aggiungere: “Finalmente potrò farmi valere per quello che sono!”
Ecco di cosa si trattava.
“Sì, è fantastico”, mormorai poco convinto, più per cortesia che per vero interesse, perché in realtà stavo morendo dall’invidia. Mercedes aveva ottenuto ben tre battute nel musical di fine anno della Nyada, e io nemmeno una. Sicuramente quello sarebbe stato il suo trampolino di lancio per diventare prima attrice nella compagnia dell’accademia; io avevo lavorato tanto per farmi valere e mettermi in mostra, ma avevo capito di aver sbagliato tutto solo quando Madame Tibidaux si era presentata a lezione con le sue maledette lettere in busta filigranata e ne aveva data una a Mercedes, ignorandomi disinvolta.
Non avevo fatto colpo sugli insegnanti. Non avevo ottenuto un ruolo degno di nota, in quella stupida recita finale, anzi: ero un elfo. Uno di quegli elfetti che saltellavano e ridevano come cretini che avevano appena ingerito un badile di elio. Zero battute, tante risate e comportamenti ridicoli; insomma, il mio personalissimo anticristo.
“Dai Kurt, non te la prendere”
Leggendo la sconfitta sul mio viso, la mia migliore amica cercò di consolarmi.
“Quest’anno è andata così, capitano a tutti dei compleanni no.”
Ah, già. In tutto questo, mi ero scordato di dire che era il giorno del mio compleanno. Tanti auguri a me. Bel modo di iniziare i venti anni, davvero.
“Sono sicura che arriverà il tuo momento.”
“Certo, Mercedes.” Mormorai inespressivo, con i miei occhi che osservavano placidamente il bicchiere di vetro scheggiato: “Magari quando mi sarò diplomato alla Nyada arriverà il momento di sloggiare. Vorrei soltanto avere un briciolo di considerazione.”
Stetti bene attento a non farmi sentire dalle stelline dell’accademia, quali Rachel Berry e il suo bel fustone di Brody insieme alla loro allegra compagnia del fantabosco. Mi sembravano soltanto un gruppo di fighetti di legno con una bella voce e tanta fortuna dalla loro parte.
“L’avrai, ne sono sicura.”
Nemmeno Mercedes sopportava più di tanto quelle persone; era un po’ come essere al liceo, con la sezione dei popolari sempre amati dai professori e, dall’altra... noi.
Gli “ammessi per puro caso”. Le comparse.
Beh, almeno Mercedes aveva spiccato con il suo ultimo assolo di Aretha Franklyn che le aveva garantito tre battute. Io invece avrei passato i restanti cinque mesi dell’anno scolastico a ripetere la mia importantissima, nonché difficilissima, battuta: “Questo è a dir poco inconsueto, ah ah ah.”
Inconsueto. Perché non mi davano direttamente una corda così mi appendevo per il collo da solo?
Forse preferivano prendersi lentamente gioco di me, in un perverso meccanismo di tortura e umiliazione cocente.
“Con Finn come va?”
Giusto, altro argomento particolarmente simpatico. Il ragazzo per cui avevo una cotta a dir poco stellare era diventato un mio quasi-fratello non di sangue. Stellare, nel vero senso della parola: quando lo guardavo vedevo le stelle. Sarà perché dovevo sempre alzare la testa fino al cielo per guardarlo, tanto era alto. Ma comunque. Finn era il figlio di Carol, la nuova fidanzata di papà. Non ero ancora sicuro se mi piacesse o no questa cosa: li avevo presentati al liceo, un po’ per gioco, perché erano entrambi vedovi e amanti del denim scolorito. Come potevo immaginare che si sarebbero presi sul serio? In salute e in malattia, per giunta. E adesso mi ritrovavo a dover affrontare una cotta gigantesca per il mio fratellastro che, ovviamente, era etero. Mentre io ero un ventenne gay, single da una vita, matricola e con una importantissima battuta sull’inconsueto. Di inconsueto ci sarebbe stato solo il pugno che avrei dato in piena faccia a quella saputella di Rachel Berry.
Quanto la odiavo.
“Come sempre”, risposi cortesemente dopo qualche secondo, perché era tornato a Lima da mio padre e Carole, e io, con un briciolo di fortuna, non l’avrei rivisto mai più.
Proprio per quel motivo, ora mi ritrovavo nel bel mezzo di un pulcioso disco pub di periferia, del tutto intenzionato a bermi perfino il cervello: dicevano sempre che l’alcool aiuta a dimenticare, e io avevo proprio bisogno di dimenticare quell’assurdo periodo della mia vita.
Ma erano le tre e mezza, ormai, la mattina dopo ci sarebbero state le prove per lo spettacolo, e un personaggio fondamentale come me non poteva certo far tardi. Sarebbero stati in grado di togliermi anche quella misera battuta che avevo.
“Andiamo ‘Cedes”, l’afferrai per un braccio, trascinandola a stento fuori dalla calca. “Adesso chiamiamo un taxi.”
Ma, ovviamente, quella serata non poteva certo concludersi nel migliore dei modi. Le strade di Manhattan erano piene di persone affollate sui marciapiedi in cerca di un passaggio, mentre cercavano di ripararsi dalla pioggia e imprecavano contro questi temporali che non piacevano mai a nessuno.
“Dov’è Tina?!” Sbottai in un momento di lucidità quasi totale, ma bastò voltarsi un attimo per trovarla al riparo sotto l’insegna di un locale chiuso, intenta a sbaciucchiarsi profondamente il suo adorato Mike Chang.
Benissimo. Una persona in meno per cui cercare un passaggio.
“Mercedes, tu aspettami qui. Io cerco un taxi.”
“Ma Kurt, sei ubriaco!”
Sicuramente sono più lucido di te, pensai, ma le volevo troppo bene per risponderle male, e di certo non potevo riversarle addosso la mia stupida invidia senza un vero motivo: io e Mercedes eravamo amici sin dai tempi del liceo, ci eravamo sempre supportati a vicenda, uniti anche nelle difficoltà. E sì, forse, almeno un pochino, mi sentii un po’ uno stronzo per aver pensato soltanto male cose di lei, ma che diavolo, non avevo certo abbandonato la mia famiglia e i miei pochi amici del Glee Club per andare alla Nyada e interpretare uno stupido elfo dalla risatina isterica.
Mentre attraversavo a grandi passi il viale, una macchina dalle dimensioni di un piccolo camion mi passò proprio a mezzo metro, schizzandomi completamente da capo a piedi di acqua grigiastra. Perchè, giustamente, non era ancora successo, e non sia mai che Kurt Hummel non si becchi tutte le sfighe del mondo in una volta sola.
“Taxi, taxi!”
Un’auto gialla mi sfrecciò proprio accanto, ignorandomi del tutto per far accomodare due graziose signorine in tacchi a spillo e minigonna, arrivate da meno di mezzo minuto. Certo, era comodo vincere così. Peccato che io, anche se avessi voluto spogliarmi –e, per quanto ero sbronzo, avrei benissimo potuto farlo-, non avrei certo vantato un corpo tale da far fermare un taxi in corsa. Purtroppo i miei allenamenti alla Nyada erano soltanto all’inizio, e al Glee Club avevo fatto ben poco. Avevo le maniglie dell’amore, le guance paffutelle, i capelli da chierichetto e, in quel momento, anche dei vestiti completamente zuppi. E no, nessun effetto camicia bagnata, semmai, era più un effetto pulcino zuppo da testa a piedi.
Digrignai i denti, imprecando contro nemmeno io sapevo cosa e fermandomi proprio sul ciglio del lungo viale.
Odiavo tutti.
Odiavo il mega furgone, odiavo la Nyada, odiavo Finn e odiavo tutta la mia vita.
Perché diavolo l’alcool non mi aveva fatto star meglio?! Mi sentivo uno straccio. Volevo soltanto andare a casa, mettermi dei panni asciutti e guardarmi Orgoglio e Pregiudizio piangendo per un signor Darcy che non avrei mai incontrato. E poco importava se non avessi trovato il taxi per Mercedes, se la sarebbe cavata da sola. Esattamente come facevo io da circa venti anni.
“Basta”, urlai contro me stesso. Se il taxi non si fosse fermato, lo avrei fermato io con la forza.
Fu per quel motivo che decisi di attraversare.
Fu per quel motivo che, proprio nel bel mezzo della strada, mi fermai.
Mi immaginavo che una macchina inchiodasse all’ultimo momento come erano solite fare nella maggior parte dei film americani.
Ma la macchina non inchiodò. Il drink che avevo in mano mi scivolò dalle dita.
Infine, il buio.
Come quello di un cambio di scena, tra un sipario e l’altro.
 
 
 
“Kurt, Kurt sei sveglio? Si sta risvegliando, grazie al cielo!”
Che ore sono.
“Le dodici e mezza, Kurt.”
Dove siamo.
“Sei... sei in ospedale, ma ti prego, non dare di matto.”
Che ore sono.
Quando riaprii gli occhi, davanti a me si presentò uno scenario piuttosto... inconsueto.
Le mie mani erano adagiate su delle lenzuola bianche e fresche, accanto a una flebo penzolante, riempita di un liquido trasparente e strano, e intorno a me le immagini impiegarono parecchi minuti prima di assumere la giusta luminosità, passando da un bianco pallido, a un nero bruciato, e poi, finalmente, dei colori che mi sembrarono molto più normali.
Mi trovavo in un lettino d’ospedale.
“Kurt, come ti senti?”
Mi girava la testa. Ma quel ronzio da post-discoteca era misteriosamente assente.
“Che ore sono?”
“... Le dodici e mezza. L’hai già chiesto tre volte.”
“E’ colpa dell’anestesia”, spiegò Carole. Oh, Carole. Mi voltai verso la compagna di mio padre e per poco non persi di nuovo conoscenza: sembrava invecchiata. No, era invecchiata. Non la vedevo da un paio di mesi, eppure, le sue rughe di espressione erano più accentuate, i capelli brizzolati, le mani rugose attorcigliate a quelle di mio padre che, invece, sembrava soltanto più stanco del normale.
E papà aveva un nuovo cappellino con scritto “Nyada” sopra.
“Papà? Carole? Che ci fate qui?”
Si lanciarono un’occhiata eloquente, che però non riuscii bene a capire. Mi faceva troppo male la testa, cavolo, che cosa c’era in quel maledetto drink?
“Siamo...”
“Non ricordi niente, Kurt?” Intervenne Carole, con un’espressione piuttosto preoccupata, mascherata da una più fredda e professionale. E il fatto che mi stesse trattando come un paziente, piuttosto che come un figlioccio, non era affatto rassicurante.
“No”, ammisi, dopo aver tentato e ritentato di riuscire a connettere parte della mia memoria. Ma fu del tutto inutile: non ricordavo niente. Assolutamente niente.
Un momento prima ero a cercare un taxi per me e Mercedes... e poi, cos’era successo?
“Non sai quanto sono felice di vederti sano e salvo”, ammise mio padre, trattenendo a stento un sospiro. Il mio cuore si sciolse come avvolto da una coperta calda e mi sporsi per abbracciarlo, ma i dolori me lo impedirono.
“Rilassati”, mi rassicurò, accarezzandomi dolcemente la fronte, “Pensa a riposare.”
“Dovremmo avvertire Finn”, suggerì cortesemente Carole, e al solo sentire il suo nome le mie guance avvamparono immediatamente e mi sentii un vero e proprio stupido.
“Sì, chiama anche Brody e Rachel. Mi hanno scaricato il cellulare a forza di tutte quelle telefonate.”
Chi?
“Hai detto... Brody e Rachel?”
Quei Brody e Rachel?!
“Ma certo Kurt, pensavi che non si fossero preoccupati? Ci hai fatto prendere un bel colpo ieri sera.”
Ma a chi? Ma quando? Ma soprattutto, gli sembrava il momento di fare scherzi del genere, prendere in giro il suo povero figlio su un lettino di ospedale?! A volte l’insensibilità di mio padre era a dir poco disarmante.
“... Papà, davvero, non mi fa ridere. Lo sai quanto la mia vita in questo momento sia una merda, lo sai quanto ci sono rimasto male perché Mercedes ha ottenuto tre battute e io soltanto una, e tu cosa fai? Mi tiri fuori quei due che vorrei tanto legare insieme come palloncini da animazione e stritolarli? Sei incredibile, sul serio.”
E mio padre, in risposta, spalancò gli occhi in un tono molto sorpreso.
“E’ meglio chiamare il dottor Henricksen.”
“Burt” sibilò lei, visibilmente allarmata: “Ha preso una brutta botta. Potrebbe essere più grave di quanto sembri.”
“Ma di cosa state parlando?”
Perché continuavano a trattarmi come un bambino? Perché facevano finta di ignorarmi? E perché, soprattutto, la testa sembrava scoppiarmi come una bomba a pressione?
“Che ore sono?” Domandai.
“... Le dodici e mezza, Kurt.”
Mio padre mi guardò come quella volta in cui mi disse di aver perso la mamma. E poi, sopraffatto dalla stanchezza, mi riaddormentai.
 
 
 
L’impatto con il secondo risveglio fu molto più sensato.
Capii subito di trovarmi in ospedale, e di aver subito un brutto incidente: il mio corpo era indolenzito da capo a piedi, ma appariva funzionante. Avevo un braccio gessato fino al polso, e la flebo che penzolava da un lato della brandina conteneva della morfina ad alto dosaggio.
Il fatto di ritrovarmi da solo, senza Papà o Carole a tartassarmi di domande con il loro fare ansioso, mi permise di concludere un paio di ragionamenti e cercare di fare due più due. Mi trovavo in ospedale. Dovevo aver subito un incidente, dunque. Non mi ricordavo cosa fosse successo, ma non ci volle molto ad intuirlo: un momento prima ero a cercare un taxi, un momento dopo ero sotto il taxi. Non faceva una piega. La consapevolezza di essere vivo e quasi del tutto integro, fu l’unica ancora di salvezza che non mi fece svenire di nuovo: poteva andarmi molto peggio. Per una volta tanto, Kurt Hummel era stato fortunato.
Quello che non tornava, però, era tutto il resto: come ci ero arrivato in quell’ospedale? Mi ci aveva portato Mercedes? O Tina? Dov’erano ora? E perché Papà e Carole si trovavano lì? Anche se avessero preso il primo aereo, contando le ore di volo era impossibile che fossero arrivati subito. A meno che non avessi dormito più di quanto pensassi.
Mi chiesi che ore fossero.
Cercai qualche orologio appeso al muro, o uno appoggiato sul comodino, ma completamente rassegnato fui costretto a chiamare un’infermiera. Quest’ultima si presentò quasi subito, con un grazioso camice bianco e i capelli biondi raccolti in una coda.
“Signor Hummel. E’ sveglio!”
Pronunciò il mio nome come se fosse quello di un Dio. Che strana politica di relazione con i pazienti.
“Sì, adesso sono sveglio.”
“Vado subito a chiamare i suoi genitori. Erano qui fino a un momento fa, ma poi li ho mandati a casa perché-“
“Non c’è bisogno”, mi affrettai a dire, “Volevo solo sapere... beh, quanto ho dormito, cosa è successo...”
Sul volto della ragazza scomparve tutta quella sorta di trattenuta euforia, per lasciar spazio a un’espressione più cupa e tesa.
“Le faccio subito parlare con il dottore.” Balbettò, visibilmente tesa. Ero tentato di dirle che se un ragazzo in ospedale le faceva tutto quell’effetto, allora aveva chiaramente sbagliato lavoro.
“Intanto, le lascio la sua borsa con tutti gli effetti personali rinvenuti dopo l’incidente.”
Oh, allora era stato un vero e proprio incidente. Chissà se il mio corpo era volato a metri di distanza, proprio come nei film?
La signorina mi porse una borsa a tracolla interamente fatta di cuoio, facendola scivolare maldestramente sul mio grembo e affrettandosi subito a raccoglierla.
“Oh, mi-mi dispiace signor Hummel!”
Forse tutto quel comportamento strano non era a causa mia; forse, lei era strana di suo. Esistono le persone strane, no?
“No-non mi era mai successo, è che sono così tesa...” abbassò gli occhi scuri cercando di contenere il rossore sempre più intenso delle sue guance. Io la guardai confuso, assolutamente allibito.
“E’ la prima volta che parlo con un VIP, perciò...”
E sì, in quel preciso momento mi guardai intorno per capire se mi fossi dimenticato di qualcuno presente nella stanza. Ma no, c’ero solo io. E allora ero io il VIP? E in quale emisfero di questo mondo, di grazia?
Non feci in tempo a chiederle spiegazioni, che la vidi sgattaiolare in corsia con fare indaffarato e la cartella stretta tra le dita. Spostai la borsa dal mio grembo e, così facendo, sollevai accidentalmente un pezzo del mio pigiama di seta.
Mi paralizzai di colpo.
Che cosa erano quegli addominali? Quando avevo fatto gli addominali? Dove erano finite le mie ciccette adolescenziali, la mia pancia liscia e morbida, le mie maniglie dell’amore? Adesso di fronte a me c’era un corpo da adulto; tonico, ben formato, con i muscoli al punto giusto, le gambe lunghe e soprattutto, un torace che non poteva essere mio. Per caso mi avevano operato per un trapianto di corpi?!
Passandomi una mano sulla testa, urtai la borsa accasciata da un lato del letto, e lì sorse un altro enorme problema. La tastai e rivoltai in tutte le direzioni possibili, e le mie sopracciglia si inarcarono sempre più cinicamente: quella non era mia. In effetti, ero assolutamente certo di non aver visto niente di simile prima di allora.
Era completamente di cuoio, con una tracolla in microfibra rinforzata con del cotone elasticizzato, e una zip color amaranto che si apriva tramite una chiusura del tutto particolare. Non riuscivo nemmeno ad aprirla, era una cosa mai vista prima, e non riuscivo assolutamente a crederci che quell’infermiera mi avesse dato la tracolla di qualcun altro. Ma forse era proprio la mia. Oppure, in quell’ospedale c’era un altro Kurt H. che si divertiva a firmare le borse.
Un momento: perché mai su quella borsa c’era l’etichetta “Kurt H.”?
“Signor Hummel, sono felice di vederla più lucido.”
Il dottor Henricksen era un uomo sulla cinquantina, dall’aria compita e la voce calda e rassicurante. Aveva l’aria di conoscermi da tempo, si muoveva e mi parlava con confidenza; pensai che fosse soltanto l’ennesima politica di relazione con i pazienti, tipo un giuramento di Ippocrate alla massima potenza.
“Le gira la testa?” Mi chiese, squadrandomi con i suoi occhi scuri mentre con una pila osservava ogni riflesso della mia pupilla.
“Un po’. Ma più che altro mi sento indolenzito.”
“E’ l’effetto dell’anestesia e dell’operazione. Le passerà tra qualche ora.”
“Operazione?”
Cavoli, allora era proprio vero che bere fa dimenticare. Il dottore si soffermò di scatto, con la pila che era in procinto di essere sistemata nell’apposito taschino del camice. Rivolse un’occhiata all’infermiera, e lei, impercettibilmente, fece un minuscolo gesto della testa, come per annuire a qualcosa. Non prometteva nulla di buono.
“Adesso mi deve ascoltare, signor Hummel. Non è facile spiegarle con chiarezza.”
Respira Kurt. Com’erano i corsi di respirazione che facevano alla Nyada? Diaframma fuori e diaframma dentro. Piano e accuratamente.
Attesi tutto il tempo necessario, ma all’ennesima esitazione del dottore, contrassi le labbra in una smorfia e sbottai: “Mi può spiegare che sta succedendo? Le prometto che non comincerò a urlare correndo mezzo nudo per tutto l’ospedale. So gestire bene le situazioni difficili.”
Ero abbastanza stufo di quella solfa. Volevo tornare a casa, chiamare Mercedes e spararci qualche telefilm. In fondo, a parte il braccio ingessato e il mal di testa temporaneo, stavo piuttosto bene. Facevano meglio a dimettermi subito e risparmiare un lettino per qualcun altro.
“... Qual è l’ultima cosa che si ricorda, signor Hummel?”
Ma che domande erano?
“Ricordo tutto fino a un attimo prima dell’incidente. Devo ammettere che avevo un po’ bevuto... anche se non mi era mai successo di perdere così tanto la memoria. Comunque stavo cercando un taxi per me e Mercedes, eravamo a un pub di Manhattan, pioveva a dirotto e-“
“Signor Hummel, questo non corrisponde alla dichiarazione che mi hanno dato i suoi genitori.”
Come sarebbe a dire?
“Mio padre e Carole non c’erano”, replicai con fermezza, e anche una punta di scetticismo. “Ero a un pub. Con la mia amica Mercedes. La può chiamare, se vuole. Anzi, lasci che prenda il mio telefono, sono sicuro che ci saranno un’ottantina di chiamate perse.”
Ma il dottore indugiò ancora una volta. Era come profondamente a disagio per qualcosa che non riuscivo nemmeno lontanamente a capire. Ma le cose erano due: o mi stava prendendo in giro, o ero stupido io. Era uno scherzo forse? Adesso sarebbe spuntata una telecamera con scritto “Sei su scherzi a parte”?
“Signor Hummel... suo padre mi ha detto chiaramente che vi trovavate a casa sua a festeggiare il suo compleanno, quando lei è inciampato ed è caduto per le scale a chiocciola.”
Scale a chiocciola? Ma quali scale? Nel mio appartamentino? Era già tanto che ci fosse una porta!
“Ha capito proprio male. Io non ho delle scale.”
“Era una festa con tutti i suoi amici”, mi ignorò il dottore, “Lo può confermare ognuno di loro. E’ caduto dalle scale e ha sbattuto forte la testa, oltre che aver riscontrato dei danni intercostali e una frattura al braccio.”
... Ma era una battuta forse? Se possibile, tutta quella messa in scena a dir poco ridicola mi fece innervosire ancora di più.
“Ma vi siete messi d’accordo tutti quanti?” Sbottai parlando trai denti, con le mani strette a pugno – per quanto riuscissi a stringerle – “Devo ridere per caso? Mi dispiace, alla Nyada non mi hanno ancora insegnato un corso di ‘risata per scherzi da idioti’. Magari lo farò al terzo anno.”
Va bene, forse ero stato un po’ troppo brusco. Lo capii dal modo con cui il dottore abbassò lo sguardo, come controllando qualcosa nella sua cartella; in fondo sapevo bene che dietro tutto quello c’era lo zampino di mio padre che non smetteva mai di inventarsi scherzi sempre più cretini.
“Signor Hummel, adesso le farò qualche domanda, e la prego di rispondere anche se le sembrano molto ovvie.”
“Certo”, sentenziai, “Nessun problema.”
Saranno le classiche domande di routine che fanno a qualsiasi paziente prima che venga dimesso. Finalmente, pensai, me ne potrò andare a casa.
“Può dirmi come si chiama?”
“Kurt Hummel”, risposi senza nessuna ombra di dubbio.
“Ed è nato nel?”
“1993.”
“Perfetto.” Lo vidi annotare qualcosa sulla cartella, prima di rialzare lo sguardo e fissarmi severo: “Ricorda dove si trovava ieri sera, più o meno verso mezzanotte?”
“Ero al pub con Mercedes.” Gli occhi del dottore, per un momento, si fecero più intensi. “C’era anche Tina, ma lei era troppo impegnata a pomiciare con Mike Chang. Pioveva a dirotto, non esistevano taxi e ne ho preso contro uno. Fine della storia.”
Insomma, non mi sembrava niente di così complicato, no? Ci saranno decine di incidenti del genere al giorno!
“Signor Hummel, lei ieri sera era a casa sua. Stava festeggiando il suo compleanno con i suoi genitori e
alcuni amici intimi. E’ scivolato ed è caduto da una rampa di scale.”
Sembrava sicurissimo.
“Dottore, non è possibile, mi sta confondendo con qualcun altro.” Gesticolai la mano libera di fronte agli occhi, come per fargli cenno di risvegliarsi, perché quello confuso mi sembrava lui, e tanto.
“Ieri ho festeggiato il mio compleanno con Mercedes e Tina. Non ce l’ho nemmeno le scale nel mio appartamento. Abito nel 225 di West Side.”
“Come dice?” Lo vidi scorrere la cartella con un dito, soffermandosi grosso modo a metà. “Qui dice che abita al numero 129 Greenwich Village.”
Sì. Certo. Ovviamente uno studente al primo anno della Nyada abitava nel quartiere più ricco di New York.
“Ci dev’essere un omonimo in questo ospedale”, dissi allora con voce piuttosto contenuta, “Ho anche trovato la sua borsa, l’hanno scambiata con la mia.”
Magari il ragazzo della borsa si chiamava Kurt Hudson. O Kurt Hammer. Kurt Hogan. Kurt Ho-un-cognome-che-inizia-per-acca-ma-che-non-è-assolutamente-Hummel.
Gli mostrai la sconosciuta borsa in cuoio, e in quel momento l’infermiera che era rimasta silenziosa fino ad allora scosse la testa piuttosto intimorita: “Mi scusi signore, ma quella è proprio la sua borsa. Ieri sera ero io di turno al pronto soccorso, mi sono occupata io dei suoi effetti personali.”
“Oh mio Dio non ci posso credere, mio padre ha coinvolto anche lei in questa sceneggiata?”
“Signor Hummel.” La voce severa del dottore mi fece ammutolire. Era impostata ma, allo stesso tempo, nascondeva una certa punta di dolcezza che mi fece sentire subito più vulnerabile.
“Le farò un’ultima domanda”, aggiunse infine. “Mi sa dire in che anno siamo?”
In che anno?
“Nel 2012”, risposi.
E in quel momento mi guardarono come se avessi appena detto che alle elezioni aveva vinto Mitt Romney.
“Signor Hummel, questo è il 28 maggio del 2015.”









***

Angolo di Fra


Salve, sono Fra! Forse vi ricorderete di me per fanfiction quali "Come un HEADSHOT al cuore", "Blame it on Blaine", e adesso state leggendo questa frase con la voce di Troy McClure!

Detto questo. Vi presento la mia nuova long-fic, KLAINE (ci tengo a specificarlo vista la trama futura...) e signore e signori NON HA RATING VERDE! Ma questo non vuol dire che ci sarà lo smut spaccacervella. Quello mai. Ci ho pensato molto su cosa pubblicare e quando pubblicare, e alla fine con l'aiuto della mia amica SeleneLightwood (fate un salto nella sua pagina!) abbiamo deciso oggi, perchè è il Glee day (e perchè sappiamo tutti cosa succederà questa sera), ma anche perchè ultimamente il fandom mi sembra molto teso. Speriamo di allentare un po' la tensione con qualche lettura tranquilla :)

Comunque, due piccole precisazioni:
a) Non so quando aggiornerò. Ho pronti alcuni capitoli ma non vorrei rimanere a corto tra un mesetto. Comunque di tanto in tanto controllate la pagina dove vi terrò aggiornati!
b) Questa storia si ispira (un po' liberamente) al libro "Ti ricordi di me?" Di Sophie Kinsella. Quindi sì, tutti gli elementi in comune sono VOLUTI. E con questo tengo a precisare che non mi appartiene Glee, non mi appartiene il libro della Kinsella e Dio mi salvi, non mi appartiene tutto quello che ha inventato Ryan Murphy.

Insomma, fatemi sapere se questo primo capitolo vi ha convinto, e in caso contrario siete libere di infamarmi. In ogni caso, GRAZIE a chi ha letto altre mie storie e ha voluto leggere anche questa.

Fra

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 




    Il tempo va diversamente a seconda della persona. Io potrei dirvi con chi va al passo, con ci va al trotto, con chi va al galoppo, e con chi sta fermo.
W. Shakespeare





Pensate a quante volte al giorno fate appello alla vostra memoria.
Pensate a tutte le cose che vi sembrano una vera e propria routine: il caffè al mattino, il percorso da casa al lavoro o all’università, il tipo di profumo che comprate quando è terminato. I vostri vestiti preferiti, quelli che sapete che non indosserete mai e quelli che avete comprato solo per sfizio, che usate per le grandi occasioni.
E poi, ancora, pensate al vostro pin del bancomat. Alla vostra password di facebook, o al numero di telefono di vostro padre, l’indirizzo del vostro veterinario.
E adesso cancellate tutto.
Immaginate di non sapere più niente; di non riconoscere il ragazzo che vedete allo specchio. Di non sapere che tipo di caffè preferite. Sappiate che è quello che è successo a me.
Io mi chiamo Kurt Hummel. O almeno, così credevo: avevo dimenticato del tutto gli ultimi tre anni della mia vita.
 
 
“Come sarebbe a dire 2015?”
Duemilaquindici? Non era possibile. Che numero era? Mai sentito. Esisteva veramente?
“Non è divertente. Dove sono le telecamere?”
Ma nonostante tutti i miei sforzi di trovare quel maledetto scherzo minimamente buffo o falso, più quelle due persone mi fissavano malinconiche, quasi pateticamente, e più il mio cuore cominciava a mandare chiari segnali al mio cervello, da interpretare in una sola, unica, inevitabile maniera. Io avevo avuto un incidente, qualche ora prima; tale incidente, a quanto pareva, non era affatto quello che ricordavo io: il dottore aveva parlato di una festa a casa mia, con tanto di genitori e amici assortiti, e di queste fantomatiche scale a chiocciola che ero sicuro di non aver mai avuto in vita mia. E poi quelle domande sempre più strane, la borsa, papà e Carole presenti al mio risveglio, una cosa quasi impossibile contando che solo per prendere un aereo ci volevano dalle cinque alle sei ore. E poi l’infermiera che mi guardava come se fossi un semidio, e poi ancora...
Duemilaquindici.
Avevo avuto un incidente: avevo sbattuto la testa e mi ero scordato tutto, fino al momento dell’altro incidente, quello del taxi. Quello di tre anni prima.
Come istinto quasi naturale, frugai dentro quella borsa che continuavano a ritenere di mia proprietà alla ricerca di un calendario tascabile, o un’agenda.
“Che cos’è questo?” Sbottai indicando all’infermiera e al dottore, che inclinarono la testa da un lato, una sottospecie di spada laser.
“E’... è il suo cellulare”, rispose la signorina, “E’... l’ultimo modello. L’Iphone 10.”
Dieci?
Dio mio.
Prima che potessi scaraventarlo a terra il mio sguardò captò un altro oggetto, stavolta, piuttosto familiare: era una moleskine. Aveva la copertina rigida, i tratti leggermente consumati dall’usura e dei foglietti scritti a mano che penzolavano dai lati, fuoriuscendo dall’elastico. Sembrava così... piena.
Non poteva essere la mia, non facevo mai niente, io.
Ma poi, appena aprii la prima pagina, quasi senza nemmeno farci caso, lessi a chiare lettere la tipica introduzione che recitava esattamente queste parole:
In caso di smarrimento, prego restituire a:
Kurt Hummel
129 Greenwich Village


Di nuovo quell’indirizzo.
“Signor Hummel.” La voce profonda e pacata del dottore, paradossalmente mi fece trasalire tanto da sobbalzare sul lettino, con il braccio sinistro che lanciò una fitta lancinante e l’altra mano ancora intenta a stringere quell’agenda sconosciuta.
“Deve mantenere la calma. Andrà tutto bene.”
“... Ah sì?” Chissà come mai, in quel momento, non ci credevo per niente.
“La perdita temporanea della memoria è chiaramente un effetto collaterale della caduta”, spiegò l’uomo scandendo bene tutte le parole, come se volesse darmi il tempo di metabolizzarle prima di svenire, o piangere, o avere una qualsiasi altra reazione da psicopatico. Invece restai molto calmo. Respirai a pieni polmoni, mentre un mal di testa sempre più acuto si accompagnava velocemente al dolore provocato dal braccio, fasciato da una sottospecie di cera blu. Dall’aspetto sembrava avere una consistenza rigida e resistente ma, allo stesso tempo leggera, piuttosto comoda.
“Che cos’è questo?”
“E’ il suo gesso”, intervenne dolcemente l’infermiera. “Le abbiamo fatto l’operazione per sistemare il braccio. Aveva numerose fratture. E’ andato tutto perfettamente, ma dovrà tenerlo per un paio di settimane.”
Non aveva per niente l’aria di un gesso; sembrava più che altro che qualche bambino si fosse divertito a fasciarmi con del pongo. Ma poi il dottore e l’infermiera si scambiarono un’altra occhiata preoccupata e allora capii: doveva essere una nuova tecnologia. Un nuovo modo per effettuare le medicazioni per fratture, perché ah giusto, eravamo nel futuro, e nel futuro la medicina aveva fatto progressi.
Eravamo nel duemilaquindici.
L’infermiera mi prese delicatamente le mani, stringendole forte, come se volesse dirmi qualcosa, chi, come, perchè. L’agenda che tenevo tra le dita scivolò sulle lenzuola e nella caduta si aprì maldestramente su una pagina a caso. Era piena di numeri di telefono, frasi evidenziate e scarabocchi; a parte quello lessi la data riportata in alto: 5 Marzo 2015.
Stavo per vomitare.
“Signor Hummel, la sua famiglia sta arrivando, non si faccia prendere dal panico” intervenne l’infermiera: “Andrà tutto bene.”
Come poteva andar bene? Come potevo credere a tutto quello che mi stava succedendo? Io non ricordavo. Era quello il problema: per me ero ancora il Kurt Hummel al primo anno di NYADA stracotto di Finn Hudson e che aveva passato una brutta serata con gli amici.
Tutto il resto, tutto quell’insieme di oggetti sconosciuti, rappresentava una vita che non mi apparteneva.
Era mai possibile svegliarsi di colpo tre anni nel futuro, con la sola eccezione di trovarsi nel presente?
 
“Kurt.”
Mi resi conto soltanto diverse ore dopo della presenza di mio padre, così come di quella di Carole intenta a sistemare dolcemente un lembo delle lenzuola. Quando erano arrivati? Ero stato talmente immerso nei miei pensieri da perdere la cognizione del tempo.
... Va bene, quella era stata una pessima scelta di parole.
Non dovevo comportarmi in quel modo: stare a fissare il vuoto piangendo o urlando non serviva a nulla, dovevo reagire. Bene, avevo perso la memoria, ma dopotutto erano passati solo tre anni dal mio ultimo ricordo. E poi tra qualche giorno sarebbe tornata, e tutto sarebbe tornato alla normalità, no? Sì, dovevo reagire.
“Kurt, il dottore ci ha spiegato tutto. Come stai?”
“Come se avessi fatto un viaggio nel tempo.”
“Oh, Kurt...” Mormorò Carole sull’orlo del pianto, abbracciandomi e tenendomi stretto a lei. Tutte quelle attenzioni e quelle moine rendevano il tutto ancora più triste di quanto fosse: insomma, non ero in fin di vita! Forse.
“Oh Kurt, che disastro, ma davvero non ti ricordi assolutamente nulla degli ultimi tre anni?”
Carole e Burt mi fissarono in apprensione per qualche secondo, come sperando che improvvisamente la memoria tornasse al suo posto e io tornassi a essere il ragazzo che conoscevano. Con loro grande dispiacere, l’unica risposta che mi sentii in grado di dare fu chiedere loro, esattamente, cosa dovessi ricordare.
“Non ti ricordi niente”, dedusse allora mio padre, sempre più incredulo. “Niente di niente?”
Oh Dio. Quante cose mi ero perso in quegli ultimi tre anni?
“Non ti ricordi nemmeno del Natale dell’anno scorso? Quello con gli zii!”
“O dello spettacolo dei Jersey Boys”, intervenne Carole, “Non ti ricordi del tuo debutto a Broadway?”
Mi paralizzai tutto d’un tratto.
“Che hai detto scusa?”
“Non è il caso di farci prendere dal panico”, suggerì con una professionalità e una calma che, sicuramente, non erano proprie nè a me nè a mio padre. Infatti, mentre lei iniziava una lunga lista di motivi per cui mi sarebbe molto probabilmente tornata la memoria, io e lui ci stavamo fissando quasi in apnea, leggendoci nel pensiero come avevamo sempre fatto; ci stavamo chiedendo come fosse successo, quanto grave fosse la situazione. Mi fissava con i suoi grandi occhi chiari e mi stava dicendo: “Kurt, ragazzo. Cosa possiamo fare?”
Giusto. Cosa fare? Dal momento che avevo perso la memoria, la cosa migliore sarebbe stata ricevere un aggiornamento lampo sul mio recente stile di vita. Insomma, non poteva essere cambiato così tanto in soli tre anni, no?
“Sei diventato più maturo”, constatò Carole. E quello potevo accettarlo: erano passati tre anni, ero maggiorenne, sicuramente ero maturato, potevo capirlo.
“E sei una delle più grandi promesse di Broadway.”
Ecco, quello invece proprio no.
 “... Non state scherzando, vero?”
Il sorriso che illuminò lo sguardo e il volto di mio padre bastò a farmi tacere. Non stava scherzando. Io a Broadway!
“Ma che fine ha fatto il Kurt Hummel ignorato da tutti che riceve una battuta a spettacolo, se fortunato? Ci ho messo giorni per imparare la difficilissima frase: questo è a dir poco inconsueto, ah ah ah.”
E dicevo sul serio: non era affatto semplice riuscire a ridere senza risultare falsi o esagerati.
“Com’è successo? Voglio dire, quando...?”
“Hai iniziato sostituendo un attore che interpretava uno dei ragazzi nel musical Jersey Boys.” Vidi mio padre nascondere a stento gli occhi lucidi, ripensando a quei momenti. Provai anche io, spremetti le meningi cercando di ricordare qualcosa, ma in cambio ricevetti soltanto un leggero mal di testa.
“Sei stato bravissimo.” Commentò Carole, “E’ successo un anno fa, poco dopo il diploma alla Nyada.”
“Diploma? I-io sono diplomato?”
“E con lode. La preside in persona ha presenziato il tuo saggio finale.”
Più parlavano del mio debutto, delle foto che mi avrebbero fatto vedere una volta tornati a casa, della cerimonia del diploma, più mi sentivo incredibilmente euforico e senza parole. Non capitava tutti i giorni di svegliarsi e scoprire che tutti i propri sogni si erano avverati: sorretto da una piacevole sensazione di completezza e felicità, pensai che se il futuro era così, potevo decisamente abituarmici.
“In pratica...” Fui costretto a prendere dei lunghi, profondi respiri, prima di continuare: “Mi state dicendo che ho ventitré anni, che sono diplomato a pieni voti e che sono un attore di Broadway?”
“Non solo”, ghignò compiaciuto mio padre, “Hai anche aperto una linea di vestiti tutta tua grazie all’aiuto della direttrice di Vogue.”
Oh beh, certamente. Chi non è amico della direttrice di Vogue? Stavo per avere un infarto.
“Kurt, rilassati, è tutto vero.” Papà era quasi divertito dalle mie reazioni esagerate, mentre Carole restava più all’erta monitorando ogni mia singola espressione; come potevo, d’altronde, fingermi calmo e composto di fronte a rivelazioni di quella portata? Come facevo a crederci? Dio solo sapeva cosa mi stava tentando dal pizzicarmi un braccio, solo per verificare che fossi sveglio.
“Immagino che sia una grande botta per te, detto così a freddo. Ma è tutto vero”, Ripetè mio padre, “E te lo sei guadagnato da solo. In questi tre anni ti sei dato da fare come un pazzo.”
“Anche troppo”, la voce di Carole assunse un tono vagamente materno, “Non facevamo altro che ripeterti che lavori troppo. Quando non sei alle prove sei da Vogue, e viceversa. Stavi quasi per darci buca nel giorno del tuo compleanno, se non fosse stato per Finn che si è preso la licenza solo per trascinarti a casa con la forza!”
Oh, giusto: Finn.
“E... Finn dov’è ora?” Mi sentii un vero idiota ad arrossire senza ritegno di fronte all’idea del mio quasi-fratello-etero-per-cui-avevo-una-cotta-pazzesca, ma fu ancora peggio quando mi accorsi di essere stato scoperto da Carole e papà. In realtà, invece di un tesissimo momento serio e imbarazzante, assistetti a una serie di risate che sembravano non finire.
“Oh Kurt, sei sempre uno spasso quando lo fai.”
“... Fare cosa?”
Possibile che, oltre alla memoria, avessi perso anche qualche parte di intelletto?
“Ma sì dai, quando reciti la parte del fratellastro innamorato di Finn.”
Ma veramente non era una parte.
“Quindi.. Finn è nell’esercito?”
“Da più di due anni ormai. Ci è andato poco dopo che tu ti sei iscritto alla Nyada.”
Quindi, tecnicamente parlando, ci sarebbe andato tra qualche mese; ma no, non potevo ragionare al passato, era il 2015 ormai. Quelle erano cose successe tempo addietro. Io ero cresciuto, cambiato, lo potevo capire benissimo anche da solo. Avrei voluto tanto sapere quando mi fosse passata la cotta per Finn. Com’era successo; le parole che ci eravamo detti. Oppure, forse, non avevamo detto proprio niente: quel sentimento era scemato lentamente, lasciando spazio a un sincero legame fraterno. Riuscivo benissimo a immaginarmi una situazione del genere, ma sembrava tutto ancora molto lontano dalla mia portata Chissà se avevo avuto qualche ragazzo, durante quei tre anni; certamente non era una cosa che potevo chiedere a mio padre. Quindi, semplicemente, cercai di cambiare argomento. E sbagliai.
“Per caso ho subito qualche intervento di chirurgia plastica?”
“Perchè lo chiedi?” Domandò Carole, confusa almeno quanto suo marito.
“Ma mi avete visto? Questo corpo non può essere mio. Mi sembra di essere finito in Quel pazzo Venerdì.”
Avessi avuto una telecamera, avrei potuto riprendere esattamente il momento in cui le loro facce serie si trasformarono in qualcosa di semplicemente esilarante. Stavano letteralmente piangendo dal ridere. E a quel punto pensai non solo a quanto fossi idiota, ma anche a quanto loro fossero insensibili.
“Scusate se non ricordo niente dei miei ultimi tre anni.” Sbottai, gelido, incrociando il braccio libero sull’altro. “Non è così semplice capire una vita che non è mia.”
Quanto meno, quella sfuriata ottenne l’effetto desiderato; mi chiesero scusa, certo, ma c’era ancora una parte di loro che nascondeva un sorriso divertito. Ma si poteva sapere cosa avessero da ridere tanto?
 “Se ti sentisse tuo marito in questo momento, probabilmente morirebbe sul colp-”
Ed eccolo. Il momento in cui sentii nettamente la mia anima lasciare il suo piccolo e inutile involucro mortale. Perchè, perchè no. E papà aveva provato a fermarsi in tempo, ma ormai la frase era bella che uscita fuori. E io, povero, piccolo ragazzo ingenuo che si era ritrovato con un mondo sconosciuto e spaventoso davanti, non potei fare altro che fissare mio padre ancora e ancora, come sperando che ridesse, che mi desse una pacca sulla schiena, che mi raccontasse per l’ennesima volta quanto fossi credulone a quegli scherzi.
Carole aveva trattenuto il fiato per più di un minuto ormai, continuando a guardare suo marito con uno sguardo pietrificato, le sue mani abbellite da un sottile strato di smalto rosa adesso stringevano la ringhiera del letto come se rischiasse di cadere.
Il tempo passò. E ancora nessuno diceva nulla. Provai a dire qualcosa io: iniziai piano, esitante, con un tono a metà tra il leggiadro e lo spettrale; chiesi a mio padre se potesse gentilmente ripetere quanto detto prima. Chiesi se potesse parlare piano; avevo bisogno di molta concentrazione, non poteva sfuggirmi nessuna parola.
“Kurt, mi dispiace, non l’ho fatto apposta, non ho pensato che-“
“Che non ricordo assolutamente niente?” Lo interruppi, “Che ai miei occhi sono ancora un ragazzo di venti anni al primo anno di accademia, che giusto ieri festeggiava il peggior compleanno della sua vita e decideva i nomi da dare ai suoi futuri gatti per vivere una perfetta vita in solitudine?”
“Kurt, stammi a sentire.”
“Uno si chiamerà Platone. Un altro Cheope. Un altro Gatto, così non mi sbaglio.”
“Devi calmarti.”
“Sono calmo. Sono calmissimo.”
A giudicare da come lui e Carole si scambiarono un’occhiata tesa, dedussi di non averli convinti del tutto.
“Kurt.” Mio padre mi guardò dritto negli occhi. “Non so bene come dirtelo, quindi te lo dirò velocemente così hai tutto il tempo per... beh, incassare il colpo.”
Magari avrebbe dovuto pensarci prima di gettare la bomba. Adesso era più un raccogliere i pezzi dopo l’esplosione.
“Va bene.”
Forse era così che si sentivano quegli equilibristi, giusto un attimo prima di saltare: ero conscio del fatto di camminare in bilico su un filo di nylon, sottile e invisibile. Un solo passo falso, e sarei piombato nel vuoto. Ma la mia mente era già un baratro oscuro dal quale volevo fuggire, cercando di aggrapparmi a quelle piccole consapevolezze che, lo sapevo, non sarebbero potute cambiare in soli tre miseri anni. Come il fatto di essere single; o di non essere particolarmente carismatico; o di avere la sensualità di un pinguino. Tutte cose che mi avrebbero garantito la castità fino ai trentacinque, trentasei anni.
 “Sei sposato da un anno e tre mesi.” Papà parlò come se dovesse porgermi delle scuse. E poi, un attimo dopo, aggiunse: “Kurt, non serve a niente nasconderti sotto al cuscino, Kurt!”
Niente da fare. Restai sotto a quel cuscino per le seguenti due ore e durante quel tempo non parlai più.
 
 
Non potevo essere sposato. Non io.
Ci doveva essere stato qualche errore a livello biologico, tipo uno scambio di persona. Era successo a Lindsay Lohan, perchè non a me? E lei era molto più fuori di testa. Magari la botta in testa aveva azionato un meccanismo spazio-temporale che mi aveva trasferito nel corpo di un seducente modello di ventitrè anni, ricco e con una carriera di broadway alle porte.
Ero quasi riuscito a convinvermi di quella teoria; così tanto, da scendere giù dal letto quando nessuno era nei paraggi, e dirigermi il più velocemente possibile nel piccolo bagno della camera. Papà e Carole erano andati a prendersi un caffè dopo avermi parlato ininterrottamente per due ore, stremati dal mio piccolo sciopero con il mondo; mi avevano riempito la testa di nozioni, nomi, cose che non riuscivo minimamente a ricollegare.
Chiusi la porta del bagno a chiave; volevo stare un po’ da solo, lontano da infermiere, medici e parenti che lasciavano notizie come se fossero granate a grappolo. Mi concessi diversi secondi di quiete, fatti solo di respiri e pensieri profondi, per poi fare un passo in avanti ed entrare nel campo visivo dello specchio.
Davanti a me si presentò un ragazzo; aveva delle somiglianze, con il Kurt che credevo di essere, ma altre cose, molte cose, sembravano diverse e molto sconvolgenti.
I capelli erano più corti alla base, il mio immancabile ciuffo era tirato all’insù con un sottile filo di meche bionda che sfuggeva dall’acconciatura. Il volto, poi, era più longilineo e, allo stesso tempo, marcato. Intorno alle labbra si intravedeva uno strato di barba incolta, cosa del tutto inaudita; passando al resto del corpo, le spalle erano più toniche, il fisico molto più snello, sembravo dimagrito di venti chili. I fianchi, che nella mia memoria erano sempre stati tondeggianti e piuttosto sporgenti, adesso erano perfettamente proporzionati a delle gambe lunghe e allenate.
Ma nonostante quei grossi, enormi cambiamenti, qualcosa era rimasto: i miei occhi cangianti, che adesso erano color azzurro chiaro, leggermente arrossati; le mie labbra rosee, incurvate in una smorfia di stupore e incredulità. Per un attimo, mi illusi che anche la mia voce fosse cambiata, magari, abbassandosi e raggiungendo tonalità più comuni, ma sapevo bene che fosse impossibile.
Quindi, dovevo affrontare la realtà e trarre le apposite considerazioni: io mi chiamavo Kurt Hummel. Avevo perso la memoria; non ricordavo niente dei miei ultimi tre anni di vita. Ero, apparentemente, un attore di Broadway. Uno stilista. E a quanto pareva ero anche sposato con un ragazzo.
Non è che mi avevano infilato qualche roba strana nel bicchiere, la sera prima?
Oppure un giorno avevo incontrato la fata turchina e mi aveva regalato qualche strano incantesimo. E dal momento che sembrava tutto davvero troppo bello per essere vero, dedussi che almeno un elemento della mia vita dovesse andare storto: era chiaro, si trattava del mio matrimonio. Come potevo essere sposato? E con chi? Un primo pensiero andò a Finn, ma lo scacciai subito e anche con un certo imbarazzo. Non ero più cotto di Finn. Anche se continuavo a provare una sorta di ansia ogni volta che pensavo a lui, adesso era più per l’idea di “Oh mio Dio ero cotto del mio fratellastro e forse un poco lo sono ancora ma ehi, sono sposato.”
Assurdo. Ero sposato.
Cercai di immaginarmi qualcuno: immaginai le caratteristiche che cercherei in un mio eventuale marito, ma in realtà non avevo la più pallida idea di cosa, anzi, chi dovessi aspettarmi. E se fosse basso? E se fosse brutto? Oh, era sicuramente brutto. Non ero mai stato il tipo da alfa gay, io, quindi quanto meno avevo attirato un ragazzino smilzo e impacciato con cui condividevo la stessa passione per i runner da tavola fatti all’uncinetto. Magari mi ero sposato sotto ricatto: magari facevo parte di un’associazione segreta che mi aveva minacciato: o ti sposi o vai in Canada. Non sapevo nemmeno perchè il Canada, mi aveva sempre dato l’idea di un posto freddo e pericoloso.
La voce di Carole interruppe il mio piccolo monologo interiore; bussò delicatamente alla porta, chiedendomi se andasse tutto bene e se avessi bisogno di qualcosa. Era il suo modo gentile per dirmi di smetterla di fare il bambino e uscire da quel maledetto bagno.
Con un po’ di coraggio e pazienza, feci quanto richiesto. Adesso che ero venuto a patti con il mio aspetto esteriore, dovevo soltanto cercare di assimilare quello interiore; quanto potevo essere cambiato, durante tutto quel tempo? Ma andava tutto bene: dovevo solo fare le cose con calma. Con calma, e senza mosse azzardate che mi avrebbero mandato nel panico.
“Kurt, non voglio allarmarti, ma lui... tuo marito, è qui.”
“Cosa?”
No. Mei-dei. Mei-dei. Autocombustione in corso!
“Non sono riuscita a fermarlo, ho cercato di spiegargli la situazione, ma lui è...”
“In che senso è qui?”
Attivazione dei processi di distruzione di massa. A partire dal mio cuore.
“Kurt.” Mio padre aprì la porta con fare affrettato: “Kurt, ecco, dunque...”
“Kurt!”
La persona che entrò nella stanza, anticipando l’entrata di mio padre, mi lasciò completamente e inavvertitamente senza fiato. Anche lui, comunque, sembrò assumere un’espressione piuttosto simile; esitò, come se fosse più sotto shock di me, e in quel breve lasso di tempo ebbi modo di osservarlo in modo marginale, rimandendo sempre più perplesso e allibito. Dai suoi occhi trapelava un bagliore di gioventù che adesso sembrava illuminarlo del tutto, attraverso un radioso sorriso.
Mi raggiunse con pochi passi avvolgendomi in un abbraccio che, differentemente dal comportamento di prima, non aveva nessuna esitazione.
“Kurt, oh Dio, stai bene.”
Aveva una voce bassa, calda, decisamente particolare.
“Sono dovuto scappare a teatro per un’emergenza dell’ultimo minuto, appena mi ha chiamato tuo padre sono corso il prima possibile... oh Kurt, ero così spaventato.”
Senza nemmeno darmi il tempo di replicare, allentò quell’abbraccio, ma solo per chinarsi verso di me e darmi un dolce e languido bacio.
Bacio al quale non ero affatto preparato.
Le sue labbra premettero contro le mie con una sicurezza disarmante, come se lo facessero da una vita; come se conoscessero la mia bocca come se l’avessero baciata da anni e anni e sì, forse era così, forse lui era davvero mio marito e stavamo insieme da un anno-e-non-ricordavo-quanti-mesi, ma per me era tutto nuovo. Per me quello era stato il mio primo bacio.
“... Kurt? Tutto bene?”
Ed era stato molto strano.
“Io... ti ringrazio per... per l’affetto”, balbettai, conscio di stare implodendo dall’imbarazzo, “Ma io... io non so chi sei.”
“Come sarebbe a dire? Kurt, guarda che se è uno scherzo non fa ridere. Lo sai che hai un senso dell’umorismo molto strano.”
Ma non era vero!
Mio padre intervenne repentino, appoggiando una mano sulla spalla del suo... genero? Oh Dio, quello era il suo genero.
“Adam, dice la verità.”
Adam.
“Posso parlarti un secondo? Dovresti vedere il dottor Henricsen.”
E così il suo nome era Adam. Un ragazzo biondo, all’apparenza più grande di me, con l’accento inglese: molto logicamente, vista la mia fissa per la regina e per Dowton Abbey, mi ero sposato un inglese.
Molto logicamente riuscii a raggiungere il lettino, prima di subire un mancamento.
 








Angolo di Fra


Ops. Kadam.
Ma tranquilli, la ff è principalmente Klaine-centrica.
... Non vi ho tranquillizzati?

Vi ricordo che mi volete bene.
PS: un granze GRAZIE a Carly per l'immagine e a Rachele per essere stata una beta impeccabile :) e un immenso grazie a voi!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 


 
  La verità è figlia del tempo: tra non molto essa apparirà.
I. Kant




Il resto della giornata trascorse in modo confuso e offuscato.
Mi limitai a eseguire tutto ciò che mi veniva richiesto: cambiarmi d’abito, preparare la borsa, firmare il foglio delle dimissioni del ricovero e accettare il fatto che sarei andato nella casa mia e di... di mio marito. Lui, papà e Carole ne avevano parlato a lungo, consigliati dal dottore: il piano B sarebbe stato tornare a Lima con i miei e trascorrere la convalescenza lì. Ma Adam aveva parlato di alcuni impegni, e anche il dottore aveva suggerito che fosse molto meglio reinserirmi il prima possibile nel mio habitat, in modo da avere più possibilità di recuperare la memoria.
Non avevo parlato con lui; non più del dovuto, almeno. E nessuno, a quanto pareva, sentiva il reale bisogno di parlare con me. In realtà mi sentivo un po’ come una cavia da laboratorio, una di quelle scimmiette che fumano sigari e tolgono le pulci ai loro scienziati. Nessuno mi aveva chiesto un misero parere, nessuno mi aveva inserito nella conversazione; erano tutti “Kurt fa questo” “Kurt fa quello”, ma perchè diavolo non chiedevano proprio a Kurt cosa volesse fare? Perchè mi trattavano come un infermo, piuttosto che come una persona cosciente? Come se perdendo parte della memoria non fossi più in grado di intendere e volere. Ridicolo.
“Kurt? Tutto bene? Hai bisogno di qualcosa? Ce la fai a vestirti da solo?”
Adam bussò un paio di volte alla porta, entrando con garbo e sfoggiando un sorriso che voleva essere rassicurante. Io nel frattempo avevo appena chiuso la zip del borsone con dentro i vestiti di ricambio, che mi aveva portato lui; mi girava la testa all’idea che quell’uomo avesse frugato nel mio cassetto dell’intimo.
“No. Tutto bene. Mi cambio in un lampo ed esco.”
“Perfetto. Io sono qui fuori se... se hai bisogno insomma.”
E di cosa avrei mai potuto aver bisogno? Oppure, secondo lui, non ero più in grado di infilarmi una maglietta e un paio di pantaloni? Ho un gesso, non una dichiarazione di incapacità naturale. Quasi per ripicca, mi vestii più in fretta che potei ed uscii indossando un’espressione neutra, incolore, da cui non traspariva nessun tipo di sentimento: non volevo mostrarmi seccato per la situazione, non volevo mostrarmi seccato perchè adesso sarei andato in una casa sconosciuta, con un uomo sconosciuto. Dopotutto, anche se non lo ricordavo, e per quanto incredibile potesse sembrarmi, quella era la mia vita. Non avrei fatto imbarazzanti scenate da telefilm in cui il protagonista scoppia a piangere in un angolo e il presunto marito l’abbraccia, dicendo che tutto sarebbe andato bene: lo sapevo benissimo da solo, senza bisogno di lui. Senza bisogno di nessuno, in realtà.
“Sono pronto”, annunciai, aggiustandomi la tracolla del borsone sulla spalla e salutando papà e Carole con un abbraccio.
“Noi rimarremo in albergo per un paio di giorni. Nel caso tu avessi voglia di parlare, o vederci.”
“Chiamaci quando vuoi, tesoro.”
E con quelle due ultime frasi, mi lasciarono da solo con Adam. Con i miei occhi che continuavano a fissare il pavimento, pur di non guardare lui; con la mia testa che non sapeva più da che parte andare.
“Andiamo. Il taxi dovrebbe essere arrivato.”
Con un gesto piuttosto cavalleresco, mi tolse di mano il borsone relativamente pesante e se lo mise in spalla, porgendomi l’altra mano libera con un’espressione colma di affetto. E forse fu perchè mi sentivo completamente disorientato, forse fu per quelle piccole e piacevoli attenzioni che mi rivolgeva di continuo, fatto sta che l’afferrai senza nemmeno pensarci, e con le dita intrecciate ci dirigemmo fuori dall’ospedale.
L’ultima visita, giusto un attimo prima di uscire dalla porta, fu quella del dottor Henricksen.
“Kurt, ho parlato a sufficienza con tuo marito e i tuoi familiari, ma vorrei dire a te personalmente due ultime parole.”
“Certo”, annuii. “Qualsiasi cosa che mi aiuti a ricordare…”
“In realtà, non puoi fare molto. Il lavoro più lungo dovranno farlo le persone accanto a te, attraverso foto, luoghi, intere ricostruzioni di ricordi. Ci vorrà molta pazienza. Ti sembrerà strano all’inizio, ma devi fidarti.”
Mi fidavo. Di mio padre e Carole mi fidavo ciecamente. Ma potevo fidarmi di quel ragazzo?
“Il recupero della memoria è un processo molto fragile e complicato”, continuò il dottore, “Purtroppo, non esiste una regola precisa per risolvere queste situazioni. Il consiglio che ti posso dare è non agitarti. Più sarai stressato, e meno avrai possibilità di riacquistare la memoria perduta. ”
“Ma quante possibilità ho, dottore? Seriamente, riuscirò mai a ricordare tutto?”
Ci fu una leggera pausa, durante la quale il dottore sembrò cercare le parole giuste da dire, e sentii la mano di Adam stringermi con un po’ più forza. 
“Francamente, non lo so. Non si può sapere con certezza.”
“... Oh.”
“Certamente, se comincerà ad avere dei flashback, vuol dire che è sulla giusta strada. Però, riacquistare la memoria completamente può derivare da un processo lungo e paziente, oppure da un momento di illuminazione improvvisa.”
“Che... che intende dire?”
“Succede molto più spesso di quanto crede”, commentò lui, con tono pacato: “A volte ci vogliono anni e anni di terapia, se così possiamo chiamarla. Altre volte, invece, basta un elemento chiave, un vaghissimo ricordo, e ritornerà in mente tutto il bagaglio di memoria perduto.”
Un elemento chiave. Un vaghissimo ricordo, diceva lui. Sembrava semplice a parole, ma nella realtà dei fatti cosa voleva dire? Come potevo sapere se esistesse quel fantomatico elemento chiave? Io non ero mai stato molto paziente; non avrei sopportato anni e anni di amnesia e di tentativi vani. In quel momento, decisi che avrei cercato l’elemento chiave. Doveva esistere, e io dovevo trovarlo.
Nel frattempo, constatai che New York era rimasta esattamente New York.
Era sempre stata una città in continuo cambiamento e non c’era da stupirsi se al posto di un bar adesso c’era una gelateria, o un karaoke al posto di una discoteca. I newyorkesi erano coinvolti nelle loro indaffaratissime vite come tutte le altre volte: non aspettavano il verde del semaforo per attraversare la strada, si toglievano i tacchi in cambio di un paio di ballerine per correre più velocemente a lavoro, si fermavano a malapena per scusarsi con la persona a cui avevano urtato la spalla. Io stavo osservando tutto quello dal finestrino del mio taxi giallo, come se fosse una piccola campana di vetro: osservavo il mondo, e sorridevo perchè almeno quello era esattamente come lo ricordavo.
“Senti, lo so che adesso sarà un po’ complicato...”
La voce timida di Adam mi riportò alla realtà; era seduto accanto a me, cercava di incrociare il mio sguardo. Abbassò gli occhi verso la mia mano, accarezzandone con dolcezza il dorso. Sapevo bene che quel contatto volesse essere affettuoso e dolce, ma in realtà provai l’istinto irrefrenabile di ritrarre la mano.
“Il dottore ha detto che devo aiutarti a recuperare la memoria un poco alla volta. Ce la faremo, Kurt. Ci sono io insieme a te.”
E allora capii che, se per me era tutto sconvolgente e strano, per lui doveva essere straziante: suo marito, quindi l’uomo che amava, non si ricordava affatto di lui. Se era traumatizzato non lo dava a vedere: mi sorrideva di continuo, rivolgendomi parole dolci, senza mai proiettare l’attenzione su di sé. Ci teneva davvero a me: quella fu la prima cosa che imparai ad apprezzare in lui.
Dovevo avere un po’ più di fiducia in me stesso: quello era l’uomo che avevo scelto. Se l’avevo sposato, era stato sicuramente dopo un’analisi attenta e coscienziosa; potevo fidarmi di Adam. O meglio, potevo fidarmi del mio giudizio su di lui. Era giunto il momento di parlare.
“Posso farti qualche domanda?”
“Ma certo”, rispose, a metà tra l’interdetto e il lusingato. “Quello che vuoi.”
Bene. E ora che avevo la sua piena approvazione mi sentivo completamente spaesato. Che cavolo avrei dovuto chiedergli? Avevo così tante domande che, paradossalmente, non sapevo nemmeno da dove cominciare. Mi sembravano tutte indiscrete, offensive, da stupido oppure semplicemente fuori luogo. Ma Adam continuava a fissarmi intensamente e io non riuscivo più a sostenere il suo sguardo, e dovevo fare qualcosa. Dovevo dire qualcosa. La prima cosa che mi passava per la testa!
“Il tuo è un biondo naturale?”
... Beh. Come dire. Dopo quello il resto era in discesa no? Insomma, la qualità delle domande poteva solo migliorare.
“Sì”, mi sorrise lui, anche se si vedeva lontano un miglio che fosse un po’ allibito. “Non hai... è la tua unica preoccupazione Kurt?”
“No, no, certo che no.” Idiota. “Quanti anni hai?”
Dopo una breve pausa strinse un po’ di più la mia mano nella sua e disse: “Ventinove.”
Caspita. Sei anni di differenza.
“E... come ho...” Come ho fatto a sposarmi a ventidue anni? Ma forse era meglio riformulare la domanda: “Come ci siamo conosciuti?”
“Alla Nyada. Tu eri uno dei ragazzi di punta della scuola. Ci conoscevamo da un po’, ma nessuno dei due si era mai fatto avanti. Poi un giorno sei venuto da me e mi hai esplicitamente chiesto di uscire.”
Io? Io, Kurt Hummel, che chiede un appuntamento a un altro ragazzo, più grande di sei anni?
“Ero sbronzo per caso?”
Adam, un po’ incredulo, scoppiò di nuovo a ridere. “Eri sobrio al massimo. Abbiamo iniziato con calma, una relazione senza pretese. Dopo tre mesi mi hai chiesto di sposarti.”
Cosa? Cosa cosa cosa?!
“Siamo... ci siamo sposati dopo soli tre mesi?”
Al diavolo tutti i miei precedenti discorsi sul fidarmi di me stesso e del mio giudizio: ero chiaramente un cretino.
“Beh... è successo un po’ all’improvviso, è vero”, ammise lui, con una punta di incertezza, “Ma non lo avremmo mai fatto se non fossimo stati entrambi assolutamente certi.”
“Ma... insomma, voglio dire, come...” Come mai ci siamo sposati così presto? Ero ancora così giovane, e la mia vita così lunga. Fossi stata una ragazza, avrei pensato che mi avesse messo incinta, e così eravamo stati costretti a un matrimonio riparatore. No, c’era qualcosa che non quadrava. Ma non potevo certo chiedere ad Adam “ehi, dì un po’, per caso ci siamo sposati sotto ricatto o minaccia?”
“Adam...” lo guardai. I suoi occhi chiari tremarono per un secondo, come ansiosi di sentire la prossima domanda. “Io... noi. Siamo felici?”
“Ma certo.”
Il suo tono era fermo e convinto; tuttavia, aveva risposto dopo un paio di secondi di puro silenzio.
“Vedrai. Una volta arrivato a casa ti sembrerà tutto più reale.”
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che il tassista accostò a un lato della strada, annunciando la destinazione e l’importo da pagare. Senza pensarci due volte, aprii di scatto la portiera, lasciando in sospeso il discorso con Adam, le valigie, tutto il resto.
Adesso ero troppo impegnato ad ammirare quella sottospecie di megavilla che mi ritrovavo davanti.

Forse villa non era il termine adatto. Una villa aveva un arredamento di antiquariato, in legno e quadri antichi; quella casa, invece, era moderna dal divano in pelle nera e bianca fino al tavolino in vetro con sopra centinaia di quotidiani di tutti i tipi. Per un attimo mi domandai dove fossero finiti tutti i miei Vogue, ma non era quello il problema principale, adesso.
“Beh? Che ne pensi?”
Adam sfoggiò un sorriso sornione indicandomi le fattezze della casa e piantando i piedi contro il pavimento di marmo laccato.
“E’... è casa nostra?”
“Tecnicamente sì. Anche se in pratica tutto l’arredamento l’hai scelto tu.”
Chissà come mai non faticavo a crederci; oltre al fatto che mi piacesse da impazzire, era perfetto. Quindi sì, decisamente doveva essere stata opera mia.
“Ma... come... com’è possibile? Quanto l’abbiamo pagata?”
Adam a quel punto esitò per un momento, mentre sistemava il cappotto sull’attaccapanni di design che, a occhio e croce, valeva quanto due rate della Nyada.
“Diciamo che i soldi non sono un nostro problema, Kurt.”
“Ah sì?”
“... Diciamo che i soldi non sono un MIO problema.”
“Oh. Ecco.”
Quindi, oltre che gentile, altruista e intelligente, era pure ricco sfondato. Forse cominciavo a capire perchè lo avevo sposato.
“Ma ehi, non ci pensare adesso.” Si avvicinò lentamente, accarezzandomi le braccia come se volesse scaldarmi: “Adesso tu devi pensare a rilassarti e... beh, a familiarizzare con la casa. Fai pure un giro, magari ti torna in mente qualcosa.”
“Posso andare dove mi pare?”
“Ma certo”, ridacchiò lui, “Kurt, questa è casa tua.”
Ma nonostante cercassi in tutti i modi di crederci, mentre mi facevo largo tra sculture di arte contemporanea, mensole in poliuretano e dischi in vinile di vecchi musical, in realtà mi sentivo come un elefante in una cristalliera. Quel posto era perfetto: pulito fino al centimetro – chiaramente c’era lo zampino di una donna di servizio – e, allo stesso tempo, mi lasciava un amaro senso di disagio: era troppo perfetto. Nella mia vita non ero mai stato molto disordinato, ma lì non c’era uno spillo in giro. Nè vecchie paia di scarpe, nè riviste ancora aperte e cerchiate in vari punti. Dov’erano finite tutte le mie cose?
Mi guardai intorno sempre più confuso, e poi la vidi: la fantomatica scala a chiocciola. Che tu sia maledetta. Fu come vedere un drago a tre teste.
“Non ti agitare Kurt.” Adam mi colse di sorpresa, avvicinandosi da dietro e accarezzandomi un fianco. “Va tutto bene. Non devi salire le scale per forza, c’è soltanto una mansarda con vecchi scatoloni.”
“Uhm, ok. Meglio così.” In quel momento, decisi che non avrei mai e poi mai messo piede su quelle maledette scale.
Sempre più trepidante, finii velocemente il piccolo tour – avevo una vasca idromassaggio! – e con il cuore che mi batteva a mille aprii l’ultima porta rimasta.
C’era un grande letto matrimoniale, con le lenzuola di seta, un paio di cassettiere color panna appoggiate su un lato e, dall’altro, un grande armadio che arrivava fino al soffitto. Quella era la mia camera. La nostra camera, mi corressi mentalmente, e al solo pensiero di dover condividere quel letto con un altro uomo mi tremarono le gambe. Dopo avrei chiesto ad Adam di poter dormire nella camera degli ospiti, sperando che non fosse un problema, ma adesso, osservavo quelle quattro mura di un colore neutro, e non c’erano dubbi che fosse la mia camera: l’armadio era pieno di abiti – per la maggior parte mai visti, ma comunque impeccabili – e c’erano delle foto mie e di Adam sul comodino; ma parte un piccolo quadro dall’aspetto anonimo, una scrivania dotata di lampada e un paio di libri non ancora aperti, non c’era assolutamente niente.
Non c’era il mio poster di Wicked. Non c’era la telecamera con cui mi ero registrato mentre ballavo Single Ladies; non c’erano i cuscini che avevo comprato al mercato delle pulci insieme a mio padre, quando i miei erano finiti nel cassonetto per via di una tintura alla camomilla sin troppo resistente.
In quella camera non c’ero io.
Forse avevo buttato via tutti quegli oggetti durante il trasloco; forse avevo detto a me stesso che ero troppo grande per quelle cose, e che dovevo voltare pagina. Un Kurt sposato e più maturo, pronto per una vita insieme a suo marito.
No, non era possibile che avessi buttato il poster di Wicked.
“Adam... dov’è finita tutta la mia roba?”
“Quale roba?” Fece capolino con la testa, indaffarato con un grosso quaderno e una penna.
“La mia... che stai facendo?”
Come colto sul fatto, nascose subito il quaderno dietro la schiena, scuotendo la testa e serrando le labbra in un mezzo sorriso: “Non posso dirtelo. Non ancora, almeno, devo prima finirlo.”
“E’... è per me?”
“Aspetta fino a domani!”
“... Domani. Va bene.”
Al diavolo domani, avevo perso la memoria e mi sentivo un ospite in casa mia, pretendevo di sapere cosa stesse facendo.
“Porta pazienza”, Adam mi fece un occhiolino ammiccante. “Vedrai, ti piacerà.”
Sembrava una cosa naturale per lui; quei giochi di sguardi, quel tono affettuoso, facevano parte della nostra routine, del nostro modo di comportarci. E lui mi stava preparando una sorpresa, e io non sapevo bene se definirmi più contento o perplesso. Ad ogni modo, era ormai sera inoltrata quando riuscii finalmente a raccogliere le idee e ambientarmi un minimo in quella grande casa. Avevo imparato che veniva una domestica ogni mattina, passava in rassegna ogni angolo eccezion fatta per il bagno: le mie creme e i miei prodotti non si toccavano. E fui molto felice di saperlo.
La televisione – uno schermo ancorato al muro, in 3D e con una definizione che faceva letteralmente paura – era piena di programmi di tutti i tipi, da quelli più familiari, tipo reality show o documentari, a cose di cui non riuscivo assolutamente a capire il senso, ma che evidentemente andavano di moda.
Scoprii di avere un computer. Sempre che si potesse definire tale: era una specie di tavoletta fatta di ologrammi che gestivo con il solo uso delle mani; una specie di Ipad all’avanguardia, senza l’ingombro dei programmi che si bloccano o dei siti che vanno a rilento. Ero curioso di riscoprire le mie abitudini, quali siti frequentavo, quale fosse il mio sfondo del desktop, ma fui fermato quasi subito da una scritta lampeggiante di colore giallo: richiesta password.
Bene. Non avevo la più pallida idea di quale fosse la mia password.
Di solito, per le mail o le cose importanti, usavo BurtHummel. La provai, ma non fui fortunato. Allora KurtHummel, magari? Niente. Adam... qual era il suo cognome? AdamCheneso? Chiaramente no.
Che palle. Per poco non lanciai quella tavoletta fuori dalla finestra.
“Kurt? Qualche problema?”
“Non so la mia password”, ammisi ad Adam, intento a tagliare le verdure per la cena. “Non so quale sia. La sto provando da cinque minuti, ma nessuna è adatta.”
“Ah... è un problema. Nemmeno io so quale sia.”
A quel commento, voltai la testa verso di lui, decisamente sorpreso: “Sul serio?”
“Certo. Non ho mai avuto bisogno di saperla.”
Ma non eravamo sposati? Non era mio marito? Non avremmo dovuto sapere qualsiasi cosa l’uno dell’altro? Ma no, forse non funzionava così. Dopotutto che ne potevo sapere io? Da che ricordassi, la relazione più lunga mai vissuta era stata con la mia lacca per capelli.
“Non ci pensare adesso”, suggerì lui, “Domani lo portiamo da un tecnico e troveremo una soluzione.”
“No, lasciamo stare. Mi verrà in mente, prima o poi.”
A giudicare dal suo silenzio teso capii che non ne fosse molto sicuro, ma d’altronde, non lo ero nemmeno io.
“Stavo pensando che potremmo fare un salto in accademia. Sai, erano tutti in pensiero per te, e forse sarebbe meglio se tu gli spiegassi la situazione di persona.”
“Alla Nyada?”
Cominciai a rovistare tra la pila di dvd che stavano sulla mensola, sopra alla televisione.
“Sì, ci fanno usare una stanza per le prove del musical, visto che il teatro in cui andrà in scena è in costruzione. E’ quasi finito comunque, credo che la prossima settimana potremo andare a vederlo.”
“Ma... ma io non... non so nemmeno come arrivarci, da questo quartiere. Che linea di metro devo prendere? O forse è più comodo un autobus?” Cominciai a mangiarmi le parole; avevo preso troppi dvd, e adesso si era creata una pila traballante che rischiava di cadere da un momento all’altro. Adam, vedendomi in difficoltà, fece per prenderli appoggiandoli sul tavolino di vetro e parlandomi a pochi centimetri di distanza: “Ti guiderò io.” Sussurrò lui, sorridendo, “E poi useremo la tua macchina.”
Macchina?
“Ho anche una macchina?”
“Direi proprio di sì. Te l’ho regalata per il diploma.”
Per il diploma alla Nyada, aggiunsi mentalmente. Perchè mi ero diplomato, e mio marito non mi aveva regalato una cravatta, un orologio o un cappellino; mi aveva comprato una macchina.
“Ecco”, scoppiò a ridere lui, indicando chissà quale parte del mio viso, “Hai fatto la stessa faccia di quando te l’ho detto per la prima volta. Su su, ti abituerai all’idea.”
“Ma la guiderai tu, vero?”
“Certo, Kurt. Non vorrai mica guidare con quel braccio.”
Non riuscii a trattenere un sospiro di sollievo: non per il braccio, ma perchè non guidavo una macchina da anni e non avevo nessuna voglia di tornare di nuovo in ospedale. Forse avrei dovuto dare retta a mio padre, quando mi consigliava di usarla ogni tanto per non perderci la mano, ma a New York ero sempre vissuto con i mezzi pubblici, quindi tecnicamente –escludendo i tre anni di vuoto- erano quasi cinque mesi che non guidavo.
Adam mi fissò dritto negli occhi e parlò con il tono più rincuorante possibile: “Ricorderai tutto, vedrai.”
Lo speravo. Fino ad allora, però, avrei dovuto cavarmela sperando di non commettere passi falsi.


Quella notte non riuscii a dormire.
Fatta eccezione per uno snervante ticchettio dovuto all’orologio da parete, su tutta la casa regnava un silenzio quasi tombale. Di certo non aiutava controllare l’orologio una trentina di volte al minuto, nella speranza che il tempo passasse più in fretta; ma la verità era che quello era il mio primo momento di calma dopo delle giornate terribili, il primo momento in cui potei veramente riflettere su tutto. Stavo quasi per accendere lo stereo e mettere il volume al massimo, così da non poter sentire i miei stessi pensieri, ma poi mi ricordai di Adam, che dormiva a pochi metri di distanza.
Non si era molto offeso quando gli avevo detto che sarei andato a dormire nella camera degli ospiti, ma di certo non era contento: doveva essere difficile stare lontano dal proprio marito, trattarlo come un conoscente. Per un breve momento, mi sentii in colpa: mi chiesi che rapporto avessi avuto con lui. Mi chiesi quante cose avevamo condiviso, quante cose gli avevo confidato.
Non potevo continuare così; era chiaro che non avrei chiuso occhio, quindi tanto valeva fare qualcosa di utile.
Con il solo aiuto della luce del cellulare - non volevo rischiare di svegliare Adam – cominciai a osservare di nuovo la casa, ma questa volta feci attenzione a ogni singolo particolare. Avevo questa vana speranza che un oggetto, una foto, magari un odore, mi avrebbe fatto tornare la memoria, proprio come diceva il dottore. E così continuavo a parlare con la mia casa dicendo: “Sei tu l’elemento chiave? Oppure tu?” ma chiaramente non cambiò niente, se non che mi sentii ancora una volta un vero idiota. Ma era ancora presto per perdere le speranze: avevo ancora tanti posti da vedere, e tante persone da incontrare.
Sotto quella prospettiva, l’idea di andare alla Nyada sembrava molto più promettente.




Con mio grande sollievo la scuola non era cambiata affatto. Certo, era ridicolo pensare che sarebbe cambiato un intero edificio in soli tre anni, ma quel piccolo timore non era scomparso fino a quando attraversai la piccola scalinata d’ingresso, entrando così in quel mondo di attori, ballerini e cantanti.
C’erano dei ragazzi che stavano facendo riscaldamento, come d’obbligo, mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni; la bacheca era sempre piena di volantini e annunci per affitti e coinquilini, professori si aggiravano con le mani in tasca o la sigaretta spenta alla bocca.
“Allora?” Mi chiese Adam, sfiorandomi una spalla, “Come ti senti?”
“Bene.” Era la verità. Anche se ai miei occhi ero ancora una matricola in quel posto, non mi sentivo così spaventato come credevo. Era sempre la Nyada, era sempre il suo solito via-vai.
“Credo che gli altri siano nell’aula tre”, lo sentii dire da dietro le mie spalle. In realtà non lo ascoltai con molta attenzione: mi stavo aggirando per la hall, dove c’erano giovani ragazzi speranzosi di entrare nell’accademia, parenti di studenti e, oh, avevano cambiato il bancone della portineria.
“Dici che abbiamo tempo di fare un giro, prima di vedere gli altri? ... Adam?”
Chiamai il suo nome dopo qualche secondo di silenzio, e quando mi voltai per poco non mi diedi uno schiaffo in fronte: Adam non c’era. Dove diavolo era finito? Stupido, stupido Kurt. Dovevo smetterla di andare per conto mio, e adesso come lo ritrovavo in mezzo a tutta quella gente?
Aula tre, ricordai all’improvviso. Meno male che la memoria a breve termine era ancora buona.
Aula tre... e dove si trovava questa aula tre?
Era imbarazzante; io in teoria ero diplomato in quell’accademia, ma in pratica avevo cominciato la Nyada da poco e conoscevo a malapena le due aule che frequentavo e la caffetteria. Forse era al primo piano? Ma dopo aver salito le scale, con grande rammarico notai che fossero tutte aule di danza. Va bene, niente panico: decisi che mi sarei spacciato per una matricola, avrei fermato uno studente qualsiasi e avrei chiesto indicazioni. Speravo soltanto di non incrociare qualcuno che avrei dovuto, in teoria, conoscere.
“Scusami?”
Avevo quasi raggiunto il piano terra quando parlai per fermare qualcuno.
“Potresti aiutarmi? Sono nuovo qui...“
Si voltò, e per poco non gli scivolò l’oggetto che teneva tra le mani. Era un ragazzo. Aveva i capelli neri, tenuti a bada da tantissimo gel; i suoi occhi chiari, quasi nocciola, mi fissarono per un breve momento, prima di spalancarsi di colpo come increduli. Le sue mani dalla carnagione olivastra, strette intorno all’orologio, si abbassarono quasi subito, abbandonandosi inermi lungo i fianchi stretti e coperti da dei jeans scuri. Con lo sguardo passai oltre la polo bianca e aderente, andando a finire sul suo viso dai lineamenti forti e dolci, le labbra carnose e serrate in un’espressione indecifrabile.
Il mondo si fermò per un istante. Come se stesse per succedere qualcosa di bello, qualcosa di grande.
O qualcosa di molto stupido.
“Kurt ma che cavolo stai dicendo?”
“... Eh?”
“Quale eh?”
“Io?”
“Tu cosa?”
“E che ne so.”
“Sapessi io!”
Dopo un secondo di immobilità generale, aggiunsi: “Ti giuro che non sono ubriaco.”
Bene. Perfetto. Davvero perfetto. Chiaramente dovevo incontrare una delle poche persone che mi conosceva e di cui non ricordavo assolutamente nulla. Non importava, avrei continuato con la mia farsa: avrei finto di sapere perfettamente chi fosse quel ragazzo e tutto sarebbe andato per il verso giusto. Ero un attore dopotutto. Dovevo solo fare finta di niente e...
“Kurt, ma non dovevi essere in ospedale? Quando ti hanno dimesso? Come stai?”
“Certo. L’ospedale. Perchè ho avuto un incidente. A casa mia. Con le scale a chiocciola. Sì beh sto bene adesso. Benissimo.”
“E il braccio?”
“Ah sì il braccio. Il braccio sta bene. Manda i suoi saluti.”
Silenzio.
Fai finta di niente Kurt. Non è successo niente.
“E poi volevo dire che non sono... nuovo nuovo. Cioè, sì, sono nuovo, anche se sono vecchio. Sono vecchio però mi sento come nuovo. Sono un nuovo vecchio. Un... un diversamente giovane. E io so chi sei. Certo. Lo so benissimo. E quindi faresti meglio a dirmi dov’è l’aula tre... perchè sì. Perchè sono vecchio... nell’anima.”
ANCORA PIU’ silenzio.
“Bene. Dov’è l’aula tre?”
“Kurt, eccoti, ti avevo perso!”
Adam comparve come all’improvviso. O forse io ero stato troppo concentrato su quel ragazzo per accorgermi della sua presenza; mi prese per mano, salutando lo sconosciuto con un cenno, e poi mi trascinò via da lui dicendo che gli altri mi stavano già aspettando.
Non riuscii a desistere dalla sua presa.
Ma non riuscii nemmeno a trattenermi dal voltarmi indietro per guardare quel ragazzo, solo per scoprire che mi stava fissando di rimando.
 







***

Angolo di Fra


In realtà non ho molto da dire. Spero che la storia continui a piacervi, nonostante tutto :)
Un grazie di cuore a chi la sta seguendo e recensendo, un grazie speciale a Rachele.
Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 



Invece di "Cos'è il tempo?" potremmo chiederci "Chi è il tempo?"
M. Heidegger

 
 



 
Si potrebbe pensare che se uno è bravo a recitare, lo è sempre. Il talento è un dono naturale; non cambia col tempo, nè si deteriora.
Per questo, quando raggiunsi quella fantomatica aula tre, mi sentivo piuttosto tranquillo. Insomma, se ero riuscito veramente a debuttare a Broadway – e in quel momento mi rifiutavo di dubitarne – allora non avevo niente di cui preoccuparmi, no? Significava soltanto che, finalmente, le mie capacità erano state riconosciute. Ho sempre saputo di essere un bravo cantante e un discreto performer. Certo, i tre anni di accademia mi avranno aiutato, ma non potevo essere migliorato così tanto, no?
O meglio: non potevo, io, Kurt con la memoria di tre anni prima, essere così scarso.
“Kurt, aspetta un attimo.”
Adam mi fermò giusto un momento prima di entrare, afferrandomi per entrambe le spalle e concedendosi poi un momento di pausa, fatto da silenzi e respiri regolari. Non riuscivo a capire cosa volesse dirmi. Continuava a guardarmi e subito dopo sviare lo sguardo, passarsi una mano trai capelli, poi esitare; mi sentivo a disagio per lui. Era come se, in quel momento, avessi realizzato veramente che quell’uomo fosse mio marito, e di quanto mi stessi comportando da insensibile con lui.
“E’ da ieri che non riusciamo a parlare come si deve, anzi, da prima dell’incidente.”
“Abbiamo parlato in taxi”, provai a dire.
“Sì ma... Va bene.” Emise un piccolo sospiro. “Cerca solo di... di non stancarti troppo.”
“Okay”, annuii. Era tutto sin troppo bizzarro per me, e ancora non riuscivo a capacitarmene; in realtà, ero molto curioso di capire come avessi fatto a cambiare così tanto in così poco tempo. Adam sembrò rincuorato dalle mie parole, mi rivolse un sorriso più convinto, prima di lasciarmi andare e fare un cenno alla porta dell’aula tre.
“Sei pronto?”
“Certo”, mentii.
“Mi raccomando: non esitare, nemmeno per un secondo. Non vorrei allarmarti ma la situazione, lì dentro, è un po’... movimentata.”
Aggrottai le sopracciglia: erano soltanto delle prove per un musical, no? Quanto poteva essere movimentata? Forse Adam era un po’ troppo drastico.
“Tu entra, saluta tutti e dì subito come stanno le cose. So che è difficile, ma se non fai così...”
“Non ti preoccupare”, lo interruppi. “So gestire un gruppo di attori e cantanti.”
Ero stato tre anni in un Glee Club, ormai pensavo di essere preparato per quel genere di cose. Ragazzi urlanti, performances al limite del ridicolo... insomma, avevo visto di tutto, ormai. Non mi preoccupava una stanza enorme, con pavimento di legno consumato e pieno di schegge; non mi preoccupava un gruppo di persone – una ventina, forse un po’ di più – che mi puntarono immediatamente gli occhi addosso. Non mi preoccupava nemmeno l’immediato trambusto che si creò nel momento esatto in cui tentai di aprir bocca.
Piuttosto, mi preoccupava quella ragazza alta un metro e una vigorsol in orizzontale, che stava marciando verso di me stringendo i pugni in quella posa così fastidiosamente teatrale; sì, mi preoccupava Rachel Berry.
“Kurt Elizabeth Hummel, si può sapere dove ti eri cacciato?! E’ un’ora che ti aspettiamo qui per iniziare le prove!”
“Rachel”, cercò di chiamarla Adam, ma invano. Fu fulminato con uno sguardo e, subito dopo, un ragazzo si fece avanti e gli mise una mano sulla spalla, facendo di no con la testa. E chi era quella specie di Ken in versione latino-americana? No, dovevo rimanere concentrato. Quella era Rachel Berry, la mia peggior nemica; ma, da quanto avevo intuito... recitavamo insieme?
“Rachel, devo dirti una cosa.”
“Anche io.” Fece lei, e in tutta risposta mi spinse verso il centro della stanza di fronte a due perfetti sconosciuti: la ragazza aveva i capelli rossi –probabilmente tinti-, e il ragazzo aveva il classico look da attore incompreso, total black con degli occhiali dalla forma ovale.
“Su Kurt, andiamo! Siamo a pagina ventidue.”
Pagina? Ma quale pagina?
Il finto Ken scoppiò in una risatina e rivolse un’occhiata eloquente ad Adam: “L’hai proprio stordito ieri sera, eh?”
“Non è così, fermatevi tutti”, esclamò lui, sorvolando su quell’allusione che mi fece rabbrividire: “Brody, dì alla tua ragazza di aspettare un attimo.”
Come, cosa? Ma chi, Rachel? Rachel e Clark Kent? Rachel Berry e Megafusto?!
Il mondo era proprio cambiato. E una cosa era certa: non ero per niente al suo passo.
“Coraggio!” Un ragazzo dai lineamenti asiatici, che fino ad allora se n’era stato in disparte, arrotolò un copione e lo appoggiò alla mia spalla: “Kurt, non abbiamo tempo.”
“Ma-“
“Azione!”
Azione? Come azione? E che dovevo fare?
Oh Dio. Mi trovavo nel bel mezzo delle prove di uno spettacolo di cui non sapevo nulla.
“... Kurt? Lo sappiamo che ti sei rotto il braccio e ci dispiace”, aggiunse quel ragazzo, “Ma adesso per favore riprenditi, datti una mossa e dì la battuta.”
Quanta comprensione tutta insieme.
“Non posso.”
Fu molto difficile ammettere quelle parole; il mio orgoglio ne rimase molto ferito, e per questo mi aspettavo un minimo di comprensione, o quanto meno di perplessità. Invece fu come aria.
“Oh andiamo, non è il caso di stare a sentire le tue polemiche! Dai Kurt, andiamo.”
“Aspetta Wes! Aspetta!”
Una ragazza sbucò letteralmente dal nulla: senza nemmeno fiatare, con il suo look dark e pieno di pizzi mi avvolse il fianco con un centimetro puntato proprio lì. Lì sotto. Oh Dio. Ero finito in una sorta di rito satanico a mie spese, per caso?
“Perfetto. Sei perfetto Kurt.”
Erano le parole più ambigue che avessi mai sentito in vita mia.
“Emily”, intervenne quel Wes, “Potresti farlo dopo?”
“F-fare cosa?” Annaspai, “I-io non voglio assolutamente, cioè io sono, io non credo di... OK tutto questo è molto imbarazzante.”
“Kurt, lasciala stare”, intervenne Megafusto con un cenno della mano, “E’ Emily, lo sai com’è fatta.”
Veramente no.
“Sarai pieno di foglie Kurt”, la sentii dire da sotto la sua massa di capelli neri come la pece, “Vedrai, mi darò da fare con te.”
“P-prego?”
“E avrai un sacco di colori e vedrai che riuscirò a farti spuntare anche un bel paio di corna.”
Delle CHE?
“Ma anche no!”
“Basta ragazzi, io ho degli impegni!” Squittì Rachel puntando i piedi a terra, ed ecco che paradossalmente il suo atteggiamento viziato e da primadonna fu una vera e propria manna dal cielo. Grazie a Dio almeno quello non era cambiato. Adesso dovevo soltanto capire tutto il resto.
“Oh, Blaine.”Wes guardò da qualche parte alle mie spalle: “Finalmente sei arrivato. Chiudi la porta che stiamo per cominciare.”
Mi voltai appena, scoprendo così che il ragazzo in questione era quello che avevo accidentalmente incontrato per le scale; era appoggiato all’uscio e mi fissava incuriosito. Aveva degli occhi grandi ed espressivi, di un colore molto particolare: mi metteva in soggezione. Come se non fossi già abbastanza in ansia di mio.
“Kurt.” La voce fredda e calcolatrice di Wes mi fece trasalire, riportandomi alla realtà. “Ma dov’è il tuo copione?”
Già. Ottima domanda.
“... Copione?”
“Sì Kurt. Sai, quello con delle pagine, su cui ci sono delle parole. Quell’oggetto strano con cui facciamo le prove, hai presente?”
Si metteva pure a fare il sarcastico, lui.
“Non ho idea di dove sia, ma forse l’hanno ingoiato quelle fauci che ti ritrovi come den-“
“Benissimo, Wes che ne dici di ascoltare quello che ha da dire il nostro Kurt?” Adam si mise in mezzo con un sorriso che era più falso delle extension di Rachel Berry. Ma non ci fu niente da fare.
“Magari dopo, adesso voglio vedere un po’ di teatro. Azione!”
“U-un momento!” Ma chi erano quei tizi? E cos’era quello spettacolo? E perchè tutti mi stavano fissando come se dovessi dare la benedizione papale? E va bene, basta.
“A-zio-ne.”
Al diavolo.
“Ehm... essere... o non essere.”
Bene. Nessuno mi interruppe. Dopotutto volevano una battuta, no? E una battuta avrei detto.
“Questo è... è il problema. O la soluzione...?”
Peccato che non mi ricordassi nemmeno quella.
“Il dilemma. Questo è il dilemma del... conseguente... di cotale avvicinamento... da destra.”
Silenzio.
Wes mi fissò. E poi appoggiò il copione su una sedia.
“Kurt, mi stai facendo una supercazzola?”
“No! Forse un po’. Non troppo. Ad ogni modo adesso che ho la vostra completa attenzione...”, dissi piano, moderando ogni parola e guardando tutti negli occhi. A parte Rachel non c’era nessuno che avesse un volto vagamente familiare. Mi stava venendo un groppo allo stomaco.
“Io... io so che voi siete la mia compagnia teatrale... e noi siamo qui per recitare, giusto? Un musical, intendo... beh il punto è che io vorrei davvero dire le battute... ma non ci riesco.”
Fortunatamente nessuno osò contraddirmi in modo stupido o scherzoso. Invece, il ragazzo alla porta, Blaine, fece un passo in avanti, la sua espressione si era di colpo rabbuiata, i suoi occhi velati dalla preoccupazione.
“Kurt, che stai dicendo?”
“La verità.” Non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce, così uscì come un debole sussurro. “Perchè la verità è che... non ricordo niente. Ho sbattuto la testa, e ho perso la memoria degli ultimi tre anni.”
Sapevo bene quanto potesse suonare assurdo o incredibile. Perfino io, sentendo una cosa del genere, avrei avuto i miei dubbi; eppure, tutti quanti mi fissarono. La ragazza di prima inclinò la testa da un lato; il dittatore deglutì a vuoto. E quel Blaine, lui assunse un’espressione del tutto indecifrabile, che mi fece sentire in pericolo, come vulnerabile, mi spinse a stringermi nelle mie spalle e cercare il volto di Rachel Berry, la persona che più assomigliava ad un amico. Anche lei era sconvolta.
“... Dici sul serio?”
“Purtroppo sì.”
“Kurt, se questo è uno dei tuoi scherzi-“
“Non lo è”, affermò Adam. “Ho cercato di dirvelo. E’ tutto vero, ragazzi.”
Dopo quella frase, non ero più l’unica persona confusa in quella stanza.
 
 
 
Tre anni. Tre anni... equivalevano a millenovantacinque giorni.
Millenovantacinque giorni completamente cancellati dalla memoria. Vista da quella prospettiva, però, sembrava meno spaventoso: non erano dieci milioni, e nemmeno cento mila. Erano soltanto millenovantacinque. Un migliaio di giorni persi. Contando quanto il tempo passasse in fretta, e quanto i giorni si susseguissero senza nessun avvenimento rilevante, alla fine quanto potevo essermi perso? Duecento, trecento avvenimenti importanti?
Potevo farcela. Potevo recuperare. Dovevo soltanto portare pazienza, seguire i consigli del dottor Henricsen e farmi aiutare dai miei amici.
A proposito: che fine avevano fatto Mercedes e Tina? Avevo mandato un messaggio multiplo a entrambe un paio d’ore prima, ma senza ottenere nessuna risposta. Eppure avevo bisogno di loro più che mai: volevo mettermi un bel pigiama, divorare quintali di pizza e farmi confortare dall’ottimismo di Mercedes e dalle polemiche vittimiste di Tina – la sua vita era sempre peggiore: per esempio, se io bucavo una ruota, lei ne bucava dieci-.
Mi ero guardato intorno molte volte, alla Nyada, e poi ero convinto che le avrei trovate a quelle fantomatiche prove; invece, quando chiesi di loro a Adam, Wes e gli altri, si strinsero nelle spalle, dicendo che non ne avessero la più pallida idea. Rachel sviò prontamente la domanda mettendomi il copione in mano e iniziando a spiegarmi tutta l’organizzazione del musical. Non ebbi il tempo nè di cercarle, nè di approfondire l’argomento.
 
Dovetti, invece, prestare la massima attenzione a quello che mi stava dicendo Rachel e alle persone che le stavano intorno.
“Mi sento come ai tempi del Glee Club, con il professor Shuester che introduceva i nuovi membri al resto del gruppo!”
“Peccato che a quei tempi abbiamo fatto delle audizioni, Rachel, e siamo entrati nello stesso momento. Ah, e poi ci odiavamo”, le ricordo con una punta di cinismo. Perché insomma, non è un dettaglio di poco conto, visto che adesso è tutta un “Kurt qui” “Kurt lì” “Oh Kurt” “Kurt dove sei”... proprio in quel momento mi prese a braccetto, dandomi dei colpi affettuosi sulla spalla e facendomi fare il giro della stanza.
“Non era odio, dai. Era più una sana e reciproca rivalità!”
Rivalità un corno. Io detestavo lei, il suo fa naturale e i suoi maglioni con le renne. Eppure incredibilmente, lì in quella sala, più mi abituavo ai suoi squilli e ai suoi commenti più o meno saccenti e più... mi rilassavo; era come se il mio corpo fosse portato automaticamente ad affidarsi a Rachel. Forse era un effetto collaterale della perdita di memoria, o forse ero solo troppo disorientato e mi aggrappavo all’unica faccia nota... ma era piacevole. E dovevo ammetterlo: Rachel si stava comportando in modo davvero gentile con me.
“Kurt, so che non te lo ricordi, ma lei è-“
“Io sono Emily.”
La ragazza che poco prima mi aveva letteralmente assalito adesso mi stringeva la mano con forza.
“Sono la costumista. E sono una tua collega a Vogue.com.”
“Collega? Ah, giusto.” Quasi dimenticavo di quel piccolissimo particolare. “Perchè io sarei... sarei una specie di stilista, non è vero?”
“Diciamo che sei un freelancer. Sei stato tu a portarmi qui, serviva una costumista e mi hai presentato subito agli altri!” Mi fece l’occhiolino ammiccando un po’ troppo esageratamente; va bene, affrontiamo una follia alla volta.
“Torniamo a parlare dello spettacolo, per favore.”
“Facciamo una versione moderna di Sogno di una notte di mezza estate”, annunciò Rachel tutto d’un fiato, con un sorriso che le arrivava fino agli zigomi. “E’ un lavoro interamente creato da noi ragazzi della scuola. Io, ovviamente, sono Ermia.”
Ovviamente.
“E Brody, il mio... amico”, sogghignò, prendendo per mano quel manichino in pelle umana, “E’ Lisandro.”
“Chissà come mai non sono sorpreso.”
“E poi ci sono Liz e Jeremy, che fanno Elena e Demetrio. Poi c’è la ragazza che interpreta Titania, Oberon...”
Mi presentò una serie di persone che mi salutarono più o meno affettuosamente; io sorrisi, cercando di mostrarmi tranquillo, anche se sapevo bene che non mi sarei ricordato il nome di nessuno di loro. In breve mi presentò tutto il cast, fino a quando Emily si spostò una ciocca di capelli neri come la pece dal viso pallido e mi indicò il ragazzo che mi aveva bacchettato appena arrivato.
"E lui... beh, lui è Wes. Wes è Wes.”
"E chi è Wes?"
"Oh mio Dio Kurt non puoi chiedere chi è Wes.” Borbottò Emily, completamente stizzita. “E' come chiedere cos'è un accendi-energie a pressione."
"E che diavolo è un accendi-energie a pressione?"
“Sono il regista.” Disse allora lui, facendo un passo in avanti con la schiena eretta, un’espressione seria e rilassata. “Ma davvero non ti ricordi niente, Kurt?”
Quando risposi di no per l’ennesima volta abbozzò una smorfia e scosse la testa, come amareggiato.
“Come diavolo facciamo ad andare in scena tra due settimane? Forse dovremmo posticipare il debutto...”
“Vedrai che Kurt se la caverà.” Adam era rimasto in disparte per tutto il tempo, in silenzio fino a quel momento; mi cinse le spalle con un braccio e aggiunse: “Diamogli del tempo, è ancora tutto nuovo per lui.”
In quel momento, mi resi conto che non sapevo assolutamente quale fosse il ruolo di Adam nella compagnia.
“Sono il produttore”, disse semplicemente. E pensai che fosse anche piuttosto ovvio.
L’intera sala sembrò d’accordo nel fidarsi di Adam, e quindi di me; questo avrebbe dovuto confortarmi, e invece in quel momento un macigno pesante quanto una casa si piazzò all’altezza dello stomaco: in pratica, contavano tutti su di me. Si fidavano. E se non fossi riuscito a reggere le aspettative?
“Quindi...” Emily iniziò a fare un elenco con le sue dita lunghe e affusolate, piene di cerotti e con le unghie coperte da smalto nero e pesante: “Hai conosciuto il cast, il regista, i protagonisti... ah, che scema, ti manca la band!”
“La... band?”
Mi portò in un’altra stanza adiacente all’aula tre; mi voltai verso Rachel e Adam, ma loro mi fecero cenno di andare avanti senza curarsi di loro. Le due salette comunicavano attraverso una piccola porta in legno, dall’apparenza sottile e debole, ma che nascondeva delle pareti ben solide e insonorizzate.
Al centro c’erano dei ragazzi, uno più diverso dall’altro, che tenevano in mano una serie di strumenti e sembravano litigare animatamente su chissà cosa.
“Ti ho detto di no!”
“Ma che ne sai tu? Quel violino è scordato dal cinquantaquattro e non te ne sei nemmeno accorto!”
“Disse quello che non sa usare nemmeno il diapason per la sua chitarra elettrica!”
“Nick, Jeff, smettetela con questi litigi da fidanzati.”
“Non siamo fidanzati, Thad!” Urlarono in coro i due interpellati, agitandosi intorno ai loro strumenti e guadagnandosi un’occhiata torva dal ragazzo in questione e da un altro, alto, di colore, alle prese con una consolle piena di dischi e strumenti.
Wes attirò l’attenzione tossendo piuttosto rumorosamente. In un attimo, i quattro ragazzi si voltarono verso di lui e quelle lamentele furono sostituite da dei sorrisi meravigliosamente falsi.
“Che piacere averti qui capo! Noi stavamo giusto provando, vero Jeff?”
“Sì... aspettavamo Blaine per...” Il ragazzo che avevo dedotto rispondesse (dedussi, rispondeva) al nome di Jeff, abbandonò la chitarra acustica e spalancò le braccia. “Comunque, Kurt! Che bello vederti! Che hai fatto al braccio?”
“Sono caduto...” per fortuna che il mio cervello parlò prima di connettere davvero, perchè ero rimasto piuttosto perplesso da quel chiasso e da quei ragazzi indubbiamente stravaganti. “Dalle scale. Mi sono fatto male al braccio. E ho perso la memoria.”
“Sì, e io sono Tassorosso.”
“No dico sul serio...”
Sollevarono la testa di scatto, nello stesso preciso momento, e se non fosse una cosa a dir poco incredibile mi avrebbero spaventato, e non poco. Comunque li fissai senza battere ciglio, e il loro silenzio mi faceva ben sperare che non andassero fuori di testa, come tutto il resto del mondo prima di loro.
Chiaramente sbagliavo.
“... Cosa?”
“Che?”
“Oh mio Thad sei Tassorosso?!”
“CHE COSA?” Il ragazzo che era alla consolle si avvicinò e in un battito di ciglia mi afferrò per le spalle: “Kurt. Kurt. Stai scherzando?”
Wes lo congelò con lo sguardo: “Se voi foste venuti alla riunione di mezz’ora fa, David... Non dovremmo ripetere di nuovo tutta questa storia.”
“... Infatti non lo ripeteremo! Kurt ha perso la memoria? Bene! Nessun problema! Risolvibile! Giusto ragazzi?”
“Veramente no”, commentai. La mia faccia doveva essere a metà tra lo sconvolto e il divertito.
“Ma certo che sì! E poi abbiamo un’ottima motivazione per la nostra assenza... Thad?”
Il ragazzo alla batteria fece per aprire bocca nell’esatto momento in cui Nick esclamò: “Non chiedere a Thad di mentire per te! Lui è Tassorosso, un’anima innocente!”
“Non sono Tassorosso! Tu sei Tassorosso!”
“Vedrai Kurt, risolveremo il tuo problema in un attimo.” Jeff sfoggiò un sorriso smagliante, dandomi perfino una pacca sul braccio: “Noi siamo bravi con i problemi irrisolvibili. Tipo l’orecchio completamente inesistente di Nick.”
“Dimmelo in faccia, Pikachu!”
 “Kurt.” Wes si passò una mano sulla fronte, emettendo un lungo, pesante sospiro. “Questa è la band che gestisce la colonna sonora del nostro musical. Si fanno chiamare... Warblers.”
Il nome non mi fece il benchè minimo effetto. “Vi chiamate Fringuelli?”
Poco gay mi dicono.
“Non siamo gay.” Dissero in coro come leggendomi nel pensiero; incrociarono le braccia al petto e io, inevitabilmente, scoppiai a ridere. Risi così forte che mi vennero le lacrime, come non mi succedeva da tempo. Era una bella sensazione.
Pensai che non fossero molto sani di mente. Pensai anche che potessero piacermi proprio per quel motivo
 
 
 
 
 
“Ma quindi... voi siete l’orchestra del musical? Non siete... beh, pochi?”
“Ci facciamo aiutare da altri ragazzi”, mi spiegò Thad, passandomi una tazza di caffè appena fatto e raggiungendoci al tavolo in cui ero seduto insieme a Wes, Nick, Jeff e David, il ragazzo della consolle.
“Per il debutto saremo un gruppo di trenta persone... sarà divertente!”
“Quindi fate il corso di musica della Nyada”, rimuginai, cominciando finalmente a comporre tutti i tasselli scoordinati del mio puzzle e facendo chiarezza nella mia mente, già sin troppo confusa. “E nel frattempo, voi quattro formate una band.”
“Cinque.”
“Come scusa?”
Guardai Nick, Jeff, Thad e David. Forse anche Wes era un membro?
“Non guardare me”, alzò le mani come allarmatosi, “Io non ho niente a che fare con loro. Dio me ne scampi e pure liberi.”
“A parte aver passato quattro anni di liceo e tre di college insieme?” David si avvicinò a lui con qualche gomitata ammiccante. L’occhiata omicida che ricevette un attimo dopo gli intimò di non continuare.
“L’ultimo membro... E’ Blaine Anderson.”
“Oh.”
Il ragazzo della scalinata. E della porta.
Lo stesso ragazzo che mi aveva guardato in quel modo così strano, quando aveva saputo del mio incidente e che, in quel momento, sembrava come sparito. In effetti, non lo avevo più visto da quando avevo annunciato la perdita della memoria.
“Suona la tastiera, ma non è solo questo: si è occupato di tutte le canzoni del musical, ha scritto la melodia, e io le ho riempite con le parole. E’ davvero eccezionale.”
Fissando quella tazza di caffè caldo assorto nei miei pensieri, metabolizzai soltanto metà delle cose che mi stava dicendo Wes, il mondo della Nyada che mi girava intorno e io che mi sentivo ancora un po’ spaesato, come se mi mancasse qualcosa.
E avevo come l’impressione che quel qualcosa fosse strettamente collegato a quel Blaine Anderson.
“Kurt?” Jeff mi passò una mano davanti al volto, sorridendomi radioso e punzecchiandomi una guancia. “Sei ancora tra noi? Cavoli, dalla faccia che hai sembri sconvolto!”
Lo ero.
“E’ tutto nuovo per me. Non riesco ancora a... abituarmici.”
Quei ragazzi si guardarono e, in quel momento, mi sembrò che avessero veramente capito: anche loro dovevano abituarsi all’idea di trovarsi davanti un nuovo Kurt. Uno diverso, uno a cui doveva essere spiegato di tutto, comprese le amicizie.
“Beh... non ti preoccupare. In qualche modo faremo.” Disse Nick, e gli altri ragazzi si trovarono immediatamente d’accordo. E sembrava tutto così semplice, detto da loro, che anche io credetti per un momento che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi.
Non avevo ancora considerato quella strana sensazione che mi aveva assalito prima.
 
 


Dopo aver passato tre ore nell’aula tre, soltanto parlando e cercando di captare le informazioni essenziali sul musical, decisi di averne abbastanza.
Rachel mi rassicurò che sarebbe passata a trovarmi la mattina dopo, e così anche Emily. Gli altri ragazzi della compagnia, nel salutarmi, mi dissero che ci saremmo visti la sera dopo, e io in quel momento non vi prestai troppa attenzione. Ero troppo stanco e confuso, dovevo ancora fare mente locale di tutto quanto e memorizzare una dozzina di nomi.
Per quel motivo, quando aprii la porta della villa, per un momento non riuscii a credere di essere finalmente a casa. Forse perchè ancora non mi ero ambientato; forse perchè quella era sembrata la giornata più lunga della mia vita, e tutto ciò che volevo fare ora era un bel bagno caldo.
“Kurt...” Adam mi interruppe giusto prima che mi chiudessi nel mio piccolo mondo fatto di sapone e Celine Dion, torturandosi i capelli intimorito e guardandosi intorno con i suoi occhi azzurri.
“Senti... hai presente quando i ragazzi hanno detto che ci saremmo visti domani sera?”
“... Credo di ricordarmi qualcosa, sì.”
Pessima scelta di parole. Adam si paralizzò come terrorizzato e allora mi apprestai a rettificare: “Voglio dire, me lo ricordo, me lo ricordo benissimo.” Insomma, non avevo perso la memoria. Di nuovo.
Vidi parte della tensione sulle sue spalle svanire lentamente.
“Bene... perchè devi sapere che noi ogni settimana facciamo una specie di cena a casa nostra, viene tutta la compagnia. So che può essere stressante per te, quindi se non vuoi farla io-“
“No”, lo interruppi, stupendo perfino me stesso “No, va bene. Facciamo questa cena.”
Non sapevo nemmeno perchè lo avessi detto. Non volevo fare la cena, non volevo rivedere tutte quelle persone, ma una parte di me pensò che fosse giusto, che magari mi avrebbe aiutato a ricordare. E poi Adam sembrò così contento di sentirmi dire quelle parole, tanto da augurarmi la buona notte limitandosi a un semplice abbraccio impersonale con un pieno sorriso sulle labbra. Sapeva bene che non ero pronto per... beh, per altro.
Forse non era una cattiva idea. Forse sarei riuscito a non sentirmi più un pesce fuor d’acqua, prima o poi.
Per il momento, mi limitai ad afferrare chiavi e giubbotto, infilarlo maldestramente e uscire di casa. Avevo bisogno di aria, e di stare da solo.
 
Sempre se fossi riuscito prima ad uscire, da quella casa.
Il problema con le macchine è che ognuna ha un motore a sè; hanno una propria sensibilità, una propria frizione, qualcuna ha il servosterzo più rigido di altre e.. perchè diavolo mi ero comprato una macchina con il cambio automatico? Ma per caso fumavo marijuana e non lo ricordavo?! Era assurdo. Ma perchè avevo deciso di prendere la macchina? Già che era difficile guidare con un braccio ingessato, se poi si aggiungeva il non avere la più pallida idea di come si guidasse un cambio automatico...
E adesso quella Prius mi stava fissando sprezzante come per sfidarmi: coraggio Hummel, sei figlio di un meccanico, vediamo come te la cavi con un po’ di veri motori. Dovresti saperlo fare anche ad occhi chiusi, figuriamoci con una mano sola.
Ah no, mia cara macchina, non avresti vinto tu.
La lunga giornata e la notte insonne che mi portavo dietro mi aveva reso ancora più caparbio e nervoso: volevo fare da solo, volevo dimostrare al mondo intero che un ragazzo senza parte della memoria non era un disabile. Anche se non ricordavo la mia password, o il mio numero di cellulare, o il mio indirizzo di casa, o la taglia di pantaloni che portavo perchè, ehi, ero dimagrito un sacco. Un lato positivo in mezzo a milioni di disastri.
Cominciai mettendo in moto e facendo scorrere il freno a mano, in modo da disincagliare la macchina. Bene, sembrava procedere tutto a meraviglia. La radio cantava una canzone che non avevo mai sentito prima.
E fu così che salì la malinconia. Così, all’improvviso. Fu quando riepilogai tutto quello che mi stava succedendo; fu quando realizzai di essermi perso chissà quanti Tony Awards, chissà quanti eventi, storici, importanti, della mia vita. Quei tre anni perduti erano come peso insopportabile.
Mi chiesi se sarei stato in grado di affrontare tutto senza impazzire. Mi chiesi perchè fosse successo proprio a me. Mi chiesi che diavolo di messaggio volesse mandarmi il cosmo, o il karma o qualsiasi cosa fosse, e da un lato, non avevo nemmeno voglia di capirlo.
Ma tutto passò, nel momento in cui la macchina cominciò a uscire dal vialetto della casa con un’andatura non molto convinta e annoiata. E io non avevo mosso nemmno un muscolo.
“No no no, un momento, un momento!” Cercai di azionare il freno e poi la frizione, ma la macchina, invece di fermarsi, rallentò soltanto, come se fosse mossa da un meccanismo di auto prevenzione. Infatti, sul cruscotto completamente computerizzato comparve la scritta: start up inserito.
Quindi non potevo spegnerla?
“Ma stiamo scherzando?!”
L’innovazione. Che cosa meravigliosa.
Se la situazione non fosse stata paradossalmente ridicola sarei quasi scoppiato a piangere: io, dentro a una macchina da chissà quante centinaia di migliaia di dollari, con il cruscotto che sembrava nel bel mezzo di un rave party pieno di luci che mi stava guidando in mezzo alla strada a passo di lumaca. Oddio, e se un camion mi avesse colpito in pieno? Dovevo fermarmi, avevo bisogno di aiuto.
“Dove è quel figlio di Satana della Apple?”
Ovviamente, avevo dimenticato il cellulare a casa. Giusto perchè mi ero dimenticato troppe poche cose, ultimamente.
E nel frattempo alla radio era partita un’altra canzone, come per girare il coltello nella piaga. Perfetto. Stavo per morire per un altro incidente d’auto, e non potevo nemmeno cantare qualcosa per farmi compagnia, dal momento che mi erano del tutto sconosciute.
Abbandonai la testa sul volante, e decisi che sarei rimasto così.
“Che diavolo stai... Kurt! Ferm- fermati!”
Successe un attimo prima che la macchina finisse nel traffico newyorkese, con i camion e taxi che strillavano e autisti che mi mandavano a quel paese: un ragazzo aprì di scatto la portiera, premendo un tasto giusto accanto alla leva per i tergicristalli e facendo automaticamente spegnere il motore, insieme al mio attacco di panico.
La macchina era immobile. La musica sparita. Ero davvero vivo.
“Grazie, oh Dio grazie!” Mi voltai verso il mio presunto salvatore in uno slancio di pura euforia e, in quel momento qualcosa, dentro di me, si bloccò di scatto.
Era Blaine.
Le sue mani, strette intorno al volante, si allontanarono quasi subito assieme al resto del corpo, abbandonandosi inermi lungo i fianchi stretti, coperti da dei jeans scuri. Con lo sguardo passai oltre la polo bianca e aderente, andando a finire sul suo viso, pallido, come sbiancato, le labbra carnose e serrate in un’espressione indecifrabile.
Era un bel ragazzo, non c’era ombra di dubbio. Ma chi era?
E perchè ogni volta che lo vedevo mi facevo prendere dal panico?
“... Io... ti ringrazio. Per... sì insomma, per la macchina. Non riuscivo a fermarla.”
Ma lui non disse una parola. E io mi stavo sentendo sempre più a disagio.
“Visto... visto che sei nella compagnia, deduco che ci conosciamo già, vero? Sì, voglio dire, sicuramente ci conosciamo, visto il momento alle scale e... scusami. Sarà meglio che rientri. Vero? Sì?”
Ma perchè diavolo lo stavo chiedendo a lui?
“I-io vado. Ti auguro una bella serata e-“
“Allora è tutto vero.”
Mi ammutolii di colpo. Lo aveva detto piano. Sottovoce.
“Non ricordi niente.”
Non riuscivo a smettere di guardarlo negli occhi.
“... No.”
Non capii il perchè lo avessi detto con un tono tanto rammaricato; non era di certo colpa mia. E io non sapevo nemmeno chi fosse, quel tizio. Eppure c’era qualcosa, in lui, che non riuscivo davvero a ignorare.
Il suo tono di voce. Il modo con cui mi fissava.
“Tu non sai chi sono.”
“... No”, dissi, ancora una volta.
Lo vidi serrare i pugni come trattenendo a stento uno sfogo, e poi andò via in un attimo, esattamente come era comparso.
Non feci nemmeno in tempo a chiedergli spiegazioni sul suo comportamento. Mi aveva lasciato con un milione di dubbi e, allo stesso tempo, con un moto di nervosismo che saliva fino alla punta dei capelli.
In pratica quel ragazzo era comparso senza nessun preavviso, mi aveva fatto l’inquisizione spagnola, mi aveva guardato malissimo e alla fine se n’era andato senza aggiungere una parola.
Non avevo idea di chi fosse, ma una cosa era certa: non prometteva niente di buono.
 










***


Angolo di Fra
 

Ho deciso di aggiornare un po' prima, per farmi perdonare per il pesce d'Aprile. Anche se dovreste tutti amare la Pimpa.
Comunque, tempo fa (non ricordo quando, comincio anche io a perdere la memoria) una ragazza mi ha detto: "Ma Fra! Non scrivi più le tue note chilometriche? Tipo quelle di Blame it on Blaine!"
Ma grazie a Dio che non le scrivo.
Però le ho promesso che stavolta avrei straparlato un po', e quindi eccomi qui. Non so nemmeno di cosa parlare, ma se state leggendo fino a questo punto immagino non importi. Ma state ancora leggendo? Sul serio?

Allora. Partiamo da cose "In-Topic": sono felicissima che questa storia vi stia piacendo. Dico sul serio. Io mi sto divertendo tantissimo a scriverla, mi sta facendo tornare quell'amore per la Klaine che non è mai terminato, ma per via del telefilm è rimasto un po' sopito.
Glee sta diventando sempre più WTF, non trovate? Ogni tanto mi sveglio nel cuore della notte e mi ricordo che la Quinntana è canon.
... Ok.
Tornando alla ff, il bello deve ancora venire. Tipo nel prossimo capitolo ci sarà una cosa mooolto divertente. Divertente per me, per voi penso che sarà un OH MIO DIO WTF!? Gigantesco. O forse no. Leggete tra le righe, gente, tra le righe!
Ho già detto che amo i Warblers?
Come dite? Lo dico a ogni nuova long?
E li infilo in ogni nuova long?
Ebbene sì. E io stavolta ci ho provato a non metterli. Dico davvero. Ci sono già troppi personaggi e troppe cose da incastrare e-
Al diavolo. Amo i Warblers. Amo i MIEI Warblers. Sono un po' la mia firma. Come Emily.
EMILY!!!
Sìììì è proprio lei! :) Vi ha fatto piacere questo piccolo dejà-vu?
Va bene ho straparlato abbastanza. Grazie alla magica beta Rachele, grazie ancora per le recensioni (comprese quelle della Pimpa. Meravigliose) e alla prossima!!


PS _ Per chi non sapesse chi sia Emily: è un personaggio di Come un HEADSHOT al cuore
PPS _ Per chi non sapesse cosa sia Come un HEADSHOT al cuore: è una fanfiction, la trovate nel mio profilo autore.
PPPS _ Per chi non sapesse cosa minchia sia un HEADSHOT: No problem. Ci sono passati tutti.


Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 



C’è un tempo per innamorarsi, c’è un tempo per fare l’amore e c’è un tempo per farla finita.
Timone

 



Non avevo voglia di uscire.
Non avevo voglia di andare alla Nyada, o a comprare il pane, o anche semplicemente di uscire da quel fagotto di coperte che mi ero creato durante la notte. Perchè il mondo non poteva arrestarsi lì? Me ne sarei stato buono buono a dormire per il resto della mia vita e tutto sarebbe andato bene. Sembrava un piano perfetto.
Il lato positivo era che la sera prima, dopo un veloce trattamento al viso, mi ero infilato il pigiama ed ero crollato sul letto senza pensarci due volte: evidentemente ero arrivato a un punto di rottura, per il quale la stanchezza accumulata aveva battuto lo stress. Ad ogni modo, quando Adam bussò delicatamente alla porta, dopo un sonno di undici ore e mezza, lo sentii a malapena.
“Kurt? Sei... sei sveglio?”
La mia unica risposta fu una sottospecie di rantolo, che nel linguaggio degli “appena svegli” significava: sì, sono vivo, lasciami stare, ho il diritto di rimanere in silenzio fino a quando non avrò tra le mani una tazza fumante di caffè.
Ma chiaramente Adam lo interpretò nel peggiore dei modi.
“Posso entrare? Sono già le dieci e mezza...”
Errore; avrebbe dovuto dire: sono soltanto le dieci e mezza.
Senza nemmeno aspettare una mia risposta, o meglio, un altro mio grugnito, aprì lentamente la porta e si avvicinò alle coperte, sedendosi alle mie spalle, con la mano che accarezzò delicatamente una spalla come per svegliarmi.
Non avevo voglia di parlare con Adam; in realtà non avevo voglia di parlare con nessuno, e per un momento considerai l’idea di coprirmi ancora di più con il piumone e fingere di russare. Passò diverso tempo, durante il quale sentivo gli occhi di Adam puntati su di me, probabilmente aspettando una mia mossa, o un invito a parlare, o chissà cos’altro: non ricordavo come mi comportavo in quei casi, perchè sicuramente una scena del genere era successa altre volte.
Ma poi mi sorse un dubbio, che a rigor di logica mi sarebbe dovuto nascere sin dal primo momento in cui Adam aveva varcato la soglia di camera mia: perchè si trovava qui?
“Ho fatto una cosa per te.” Lo sentii mormorare un po’ insicuro, e allora mi voltai; i miei occhi chiari si adattarono malamente alla luce della stanza, il mio corpo si stiracchiò un po’ goffamente, una manica del pigiama era arrotolata intorno al gomito, mentre l’altra penzolava oltre le mie dita.
Adam mi sorrise soltanto, non commentando le mie condizioni assolutamente indecenti; in silenzio, sollevò un libro enorme da terra e lo appoggiò sulle coperte, vicino a me.
“Che... che cos’è?” Borbottai con la voce ancora impastata, il mio cervello che cercava con molta difficoltà di carburare senza caffè; adesso la mia mente doveva assomigliare a un motore a scoppio.

“E’ un manuale.”
Sollevò la copertina, e avvicinandomi un poco riuscii a leggere un titolo scritto a penna: Manuale sulla vita pratica di Kurt Hummel.
“Ci ho messo tutto quello che devi sapere.” Continuò Adam, “Dagli indirizzi più importanti al numero del tuo cinese a domicilio preferito. Non dovrei aver lasciato niente, ma... beh, controlla tu.”
C’era davvero tutto. C’erano le informazioni base su di me, statura, taglia di pantaloni, quella delle scarpe... c’era il nome della mia redattrice di Vogue, quello dei miei collaboratori, un fascicolo contenente il copione del musical nuovo di zecca – dal momento che il mio era ancora scomparso -.
Non riuscivo a credere che Adam avesse fatto tutto quello per me. Doveva essere stato un lavoro lunghissimo e articolato; stavo quasi per ringraziarlo, chiedergli scusa per come mi ero comportato e dirgli che, forse, volevo davvero far funzionare quel matrimonio.
Ma poi notai che alla fine del libro, c’era tutta una sezione evidenziata da un’etichetta rossa.
“... Istruzioni... sul sesso?”
“Pensavo volessi saperlo.”
No. Veramente no. Non volevo leggerle; non volevo. Ma purtroppo gli occhi sono più veloci del cervello e captarono una cosa che-
“Ha-hai scritto le posizioni che abbiamo fatto?”
“E quelle che vogliamo provare.” Il suo tono sicuro si contrapponeva perfettamente al mio sussurro spaventato.
“E... e la nostra marca di... di...”
“Preservativi, Kurt.”
Bene. Avevo letto abbastanza.
“Ti ringrazio per il libro”, sentenziai chiudandolo con uno scatto un po’ brusco e guadagnandomi uno sguardo sorpreso da parte sua. “Lo leggerò più tardi.” Forse. “Esattamente... quali sono i tuoi piani per oggi?”
“Devo uscire per fare delle commissioni”, commentò dopo un secondo, “Temo che sarò fuori fino a sera.”
Oh no Kurt, cerca di contenere quel sorriso.
“E tu invece? Che hai intenzione di fare?”
La mia voglia di uscire era ancora pari a  zero, quindi gli dissi semplicemente che ero molto provato dalla giornata precedente e sarei stato a casa: volevo riposare un po’, fare ricerche sul web per scoprire cosa fosse successo nel mondo in quei tre anni...
“Leggerai anche il manuale?” Mi chiese con tono speranzoso.
“Certo. Sarà in cima alla lista di cose da fare.”
Subito sotto a “spararmi”.
La colazione passò piuttosto in silenzio, con il notiziario delle undici che parlò di politica, cronaca nera e un cane che aveva fatto bunjee jumping. Provai un moto di sollievo indescrivibile nel vedere il volto di Obama, ancora presidente degli Stati Uniti; in effetti in tre anni non poteva essere cambiato, ma avevo imparato a non dare niente per scontato.
Adam mi salutò con un abbraccio e una promessa di telefonarmi presto.
E così rimasi io. Con il mio pigiama sgualcito, i capelli arruffati e un libro da affrontare.
 
 
La prima metà riuscì a risolvere molti dei quesiti che mi ero posto, e perfino alcuni a cui non avevo pensato: chi l’avrebbe mai detto che, in tre anni, sarebbe nato un nuovo social network come fusione tra Facebook e Twitter.
Passando a cose più serie, capire finalmente quale fosse il mio ruolo a Vogue fu una sorta di benedizione: lavoravo part-time. La direttrice, Isabelle Wright, mi aveva assunto da quasi un anno, partendo come segretario, poi tuttofare, e alla fine come collaboratore alla nuova collezione primavera-estate con alcune mie creazioni. Avrei dovuto farle visita e spiegarle tutto partendo dal principio, prima o poi; optai per il poi.
Adam aveva aggiunto anche una piccola postilla, segnata con un giallo evidenziatore: lavori con Emily!
Oh, giusto. La maniaca del giorno prima.
Continuai a sfogliare quel libro gigante, sorseggiando un po’ di tè e rielaborando le nozioni un poco alla volta. Era un po’ come ripassare per un test: le nozioni base c’erano tutte, quello ero sempre io; però, in tre anni, c’erano stati delle aggiunte. Tra cui tre carte di credito in più: mica male.
Lessi attentamente tutto il copione del musical, come se fosse un primo approccio accademico: evidenziai le mie battute, segnai a matita le posizioni che venivano suggerite dal testo, canticchiai perfino qualche canzone, anche se era molto difficile dar loro un senso, dal momento che non avevo idea di quale fosse la melodia. Adam non mi aveva dato gli spartiti; stavo per mandargli un messaggio, magari me li avrebbe inviati via mail, ma poi le mie mani si bloccarono sul dinosauro che osavo ancora chiamare Ipod.
Wes aveva detto che le musiche le aveva fatte Blaine.
Decisi di lasciar perdere il musical, dopotutto avevo ancora metà manuale.
Adesso che gran parte del mondo aveva cominciato a girare con un senso logico, mi sentii un po’ più tranquillo. C’erano ancora delle grosse lacune, come ad esempio l’enigma su tutte le mie cose scomparse, oppure Mercedes che non aveva risposto a nessuno dei miei messaggi; a proposito, dal momento che avevo tutto il pomeriggio libero mi sembrò l’occasione migliore per provare di nuovo a contattarla.
Composi quel numero che ormai sapevo a memoria e attesi pazientemente di sentire la sua voce dall’altra parte del telefono, magari che si scusava per non avermi richiamato, o che mi chiedeva come stessi, se mi facesse male il braccio.
All’orecchio mi giunse un saluto freddo, impersonale.
“Sì?”
Per un momento dubitai perfino se si trattasse della voce di Mercedes.
“ ‘Cedes, sono io, Kurt!”
“... Kurt.” Pronunciò il mio nome come se non fosse del tutto abituata a farlo. Come se non ci sentissimo ogni sera, raccontandoci la giornata e gli aneddoti più stupidi.
“Che fine avevi fatto? Sono due giorni che ti cerco!”
Ci fu una lunga pausa. Nel frattempo, il tè rimase abbandonato sul tavolino di fronte a me, destinato a raffreddarsi lentamente.
“Sì, ho visto i tuoi messaggi. Hai bisogno di qualcosa?”
“Ho bisogno di bere”, ammisi, “E di parlare con la mia migliore amica. Dio Mercedes, mi sembra tutto così complicato...”
“Non dovresti avere le prove, Kurt? Quelle del vostro musical?”
Restai un po’ interdetto dal modo con cui lo chiese; mi fece rabbrividire, facendomi sedere composto sul divano in pelle, le mani che si stringevano sul tessuto del pigiama e lo sguardo fermo, puntato verso il vuoto.
“Non ci sono andato. Non mi sento molto bene.”
“Ah. È per questo che mi hai chiamato?”
“Sì. Cioè, anche”, mi corressi, intimidito dal suo cinismo: “È solo che ho avuto un incidente. Fisicamente sto bene, ma sono successe delle cose... farei meglio a spiegarti tutto a voce. Sei libera oggi?“
Sapevo bene quanto quella notizia potesse confondere, soprattutto se detta così a bruciapelo, così attesi tutto il tempo necessario affinchè Mercedes elaborasse quanto sentito e, da brava amica, corresse in mio soccorso. Mi conosceva: sapeva che non avrei mai potuto scherzare, non su un argomento del genere.
Sarebbe corsa da me in un attimo; ci saremmo fatti una bella cioccolata calda –magari con un goccio di rum- ci saremmo seduti l’uno di fronte all’altra, e io avrei potuto finalmente sfogare tutte quelle lacrime che stavo ancora trattenendo.
“Mi dispiace Kurt, oggi non posso. Devo andare, ci sentiamo.”
Prima ancora che potessi aprire bocca per protestare, fermarla o semplicemente rimanere sbigottito, lei aveva già riattaccato.
Perfetto. Un altro mistero da risolvere. 
Cominciavo davvero a essere stufo. Perchè non c’era una cosa, una singola cosa, che andasse come volessi io; la casa era strana e non mi ci raccapezzavo. Inoltre, grazie alla domestica – Dio, avevo una domestica – non potevo nemmeno distrarmi pulendo un po’ in giro, visto che era tutto in perfetto stato, e avevo ancora un lungo pomeriggio davanti a me.
E se non potevo passarlo con Mercedes, allora lo avrei passato con mio padre.
 
 
Non appena intravidi quegli occhi così simili ai miei e quel cappellino, mi buttai tra le sue braccia senza nemmeno dare retta a quella vocina nella mia testa che mi ripeteva quanto fossi ridicolo.
Era mio padre. Era mio padre e, grazie al cielo, su di lui potevo sempre fare affidamento.
Quando sciolsi l’abbraccio, papà mi diede due forti pacche sulla spalla, portando automaticamente lo sguardo verso il braccio medicato.
“Perchè sei in pigiama?”
“... Non sono riuscito a cambiarmi.” In realtà non ci avevo nemmeno provato.
“Per il braccio, vero? Una gran seccatura. Come te lo senti?”
“Non fa così male. Prude giusto un po’”, commentai sollevando quella sottospecie di pongo colorato, e guadagnandomi una risata da parte di mio padre. Ebbe effetti immediati sul mio umore.
Carole mi salutò con un bacio sulla guancia, scompigliandomi un po’ i capelli e asciugandosi i lacrimoni. “Quanto vorrei che Finn fosse qui.”
Io in realtà non avevo così tanta voglia dell’ennesima complicazione da aggiungere alla lista della mia incasinata vita, ma non risposi, cercando di mascherarmi con un sorriso.
Carole mi scrutò dall’alto verso il basso, e poi mi passò una mano sulla fronte: “Sei così pallido, tesoro.”
Beh, se proprio dovevo essere sincero, nemmeno loro sembravano in ottima forma: adesso che potevo osservarli con più calma, notai che papà aveva delle profonde occhiaie, il viso più scavato, il fisico più magro. Carole, invece, aveva la ricrescita della tinta, e non era da lei, visto che detestava con tutta se stessa i capelli bianchi; in quell’ultimo periodo non aveva avuto tempo per andare dal parrucchiere?
“Quand’è stata l’ultima volta che hai mangiato qualcosa di decente?”
Cibo? Con tutte le notizie shock che ricevevo due, trecento volte al giorno? No, il mio stomaco era sigillato e io non avevo nessuna intenzione di mangiare.
“Mangerò stasera, faremo una cena qui.”
“La cena della compagnia, quella che fate ogni settimana?”
“Proprio così.” Bene. A quanto pare ne erano tutti al corrente, tranne me.
“Sicuro che non sia uno stress troppo grande?” Domandò papà a mezza voce, mentre li accompagnavo in cucina per offrir loro qualcosa da bere. Risposi semplicemente che secondo Adam mi avrebbe fatto bene, magari aiutandomi a ricordare.
In casa non c’era granchè, quindi offrii loro il tè avanzato dentro al bollitore e una piccola scatola di salatini. Ecco, se proprio avessi dovuto mangiare, avrei gradito con tutto il cuore una bella fetta di Cheesecake. Magari due.
E se la cena di quella sera si fosse rivelata un fiasco, forse anche una intera.
“Come ti trovi con Adam?”
Papà fece quella domanda accarezzando il manico della tazza in porcellana, senza guardarmi negli occhi.
“Bene. E’ molto gentile. Mi ha fatto un manuale con tutte le cose più importanti da ricordare.”
Cosa avrei dovuto dirgli? La verità? Che mi sentivo come se vivessi con un coinquilino che mi sembrava anche piuttosto bizzarro?
 “Oh. Che cosa carina da parte sua.” Carole e papà fecero lo stesso identico sorriso, lo stesso di quando avevo diciassette anni e avevo detto loro che il concerto di Lady Gaga era un evento totalmente sicuro, in cui c’erano solo persone per bene: sapevamo tutti che era una bugia, ma sapevamo anche che, se volevo farla franca, potevo soltanto mentire.
“Che tipo di manuale?” Chiese allora papà, aggrottando le sopracciglia: “Posso vederlo?”
E rischiare di leggere le posizioni con cui avevo – o non avevo – fatto sesso?
“Uhm, non posso. È una cosa tra me e Adam, sai... è un segreto coniugale, tipo... tipo un segreto professionale.”
Nemmeno fossi un prete.
“Capisco. A questo proposito, ti abbiamo portato il video del matrimonio. Pensavamo volessi vederlo.”
“... Oh.”
Non ci avevo pensato.
“Sempre se ti senti pronto”, aggiunse Carole. “Vedresti una parte di te che hai dimenticato... potrebbe essere difficile.”
Alla vista di quel cd bianco, con una raffinata etichetta color avorio, che se ne stava immobile stretto tra le dita di papà, una parte di me lottò per strapparglielo dalle mani e gettarlo brutalmente nel tritarifiuti.
L’altra parte, però, voleva sapere.
“Ho il lettore dvd in sala.”
 
 
Quando comparve l’immagine di un me più sereno, più rilassato e, soprattutto, più elegante, il mio cuore cominciò a perdere dei seri colpi, e mi mancò il respiro.
Fu come assistere a un film già visto, di cui sapevo battute, scenografie e protagonisti. Fu come se la realtà dei fatti si presentò di fronte ai miei occhi, con tanta freddezza da investirmi. Carole era esattamente come la vedevo adesso, fatta eccezione per un vestito elegante e delle bellissime perle che la rendevano ancora più affascinante; Papà, invece, aveva gli occhi lucidi, forse combattendo contro l’impulso di piangere. Era la prima volta che indossava una cravatta e sembrava non avesse voglia di strangolarsi.
C’erano proprio tutti: parenti, amici, perfino i ragazzi del Glee Club, probabilmente venuti apposta per festeggiarmi. Finn faceva capolino di tanto in tanto da dietro la telecamera, e guardai ammutolito i suoi lineamenti più marcati, la sua barba incolta, le sue spalle più toniche.
Inoltre continuavamo a battibeccare, proprio come due veri fratelli, ed era bello. Mi sentii bene.
Il video continuò imperterrito, mostrando immagini di New York, degli invitati, perfino la preparazione della sala con il fotografo che provava le luci.
“Mi sono sposato in comune?” Fu l’unica domanda che mi sentii in grado di fare.
“Non hai avuto molto tempo per organizzarti in chiesa”, commentò papà, e io arricciai le labbra in una smorfia, appoggiando il mento a una mano: avevo sempre voluto sposarmi in chiesa. C’era una piccola zona in un quartiere che avevo sempre amato, conosciuto durante i primi mesi di soggiorno a New York. Avevo preparato tutti i dettagli - fiori, gli invitati, la musica e gli addobbi- che tenevo in fascicoli catalogati per nome e data di creazione.
Invece, mi ero sposato in comune. Con nessun dettaglio arrangiato da me; quello non sembrava affatto il mio matrimonio. Mi chiesi quante altre cose del mio carattere fossero cambiate, ma poi, decisi di non volere la risposta. Nel frattempo la telecamera si era spostata verso di me. E vedere un me stesso di cui non ricordavo assolutamente nulla fu la sensazione più strana della mia vita.
C’era anche Adam, ovviamente: si avvicinò con un sorriso che non avevo ancora mai visto, e io lo abbracciai. Sembravamo felici.
Ma quello non sembravo io.
Ci fu il ricevimento, un grande ristorante dall’aspetto elegante; quando papà comparve di nuovo nel mirino della telecamera, con un microfono in mano, Carole, emise un sospiro e afferrò il telecomando appoggiato sul bracciolo, mandando immediatamente avanti.
“Ma io volevo veder-“
“Oh, questa parte è noiosa. Non ti perdi niente. Guarda, questi siete tu e Adam dopo il taglio della torta.”
Eravamo usciti da quel salone moderno e formale con due sorrisi semplici e gli applausi di tutti i presenti.
Bene. Allora ero davvero sposato.
 
 
Quando mi salutarono, alla porta di casa, l’abbraccio fu leggermente più lungo del solito; lipperlì non capii bene il motivo. Fu solo quando mi dissero che sarebbero ripartiti il giorno dopo che gli occhi cominciarono a bruciarmi e le mie labbra si strinsero in una smorfia.
Avrei preferito saperlo prima. Non che sarebbe cambiato granchè, però... mi sarei preparato psicologicamente. Volevo che non andassero mai via. Mi dissero che mi sarebbero stati vicino in ogni caso; sapevo che fosse vero, ma voleva dire che adesso avrei dovuto affrontare da solo la cena.
 
 
Il campanello suonò alle otto in punto, mentre io, aggiustando il farfallino trovato frugando nella cassettiera, guardavo un po’ sospreso il mio riflesso allo specchio: non sapevo dire se fossi bello io o se quella giacca mi donasse particolarmente. Ad ogni modo, non mi sarei mai abituato alla mia immagine.
Andai ad aprire credendo che si trattasse di Adam, che avrebbe dovuto aiutarmi a finire di preparare la tavola; avevo trovato piatti, posate, tovaglioli e bicchieri, ma per quanto riguardava il cibo? Nel frigo non c’era niente in grado di sfamare così tante persone, per questo pensai che Adam fosse andato a fare la spesa, o a comprare qualcosa in rosticceria.
E in effetti il cibo c’era, ma non quello di Adam: erano Wes e Emily.
“Buonasera! Non siamo in ritardo, vero?”
“In realtà siete i primi”, mormorai osservando quella montagna di contenitori trasparenti, attraverso i quali intravedevo una torta, dei muffin, una pannacotta e dei biscotti al cioccolato.
“Visto Wes? Siamo i primi. Adesso la smetti di rompere?”
Wes la fulminò con lo sguardo, e io deglutii: non prometteva niente di buono.
“Il fatto che il resto del mondo sia in ritardo, come al solito, non vuol dire che dobbiamo esserlo noi. E la prossima volta ricordati prima di infornare i biscotti, o di truccarti, o di stirare, o di ragionare con la testa.”
“Fai sul serio, Wesley?” Lo punzecchiò la ragazza, “Perchè se proprio vogliamo giocare queste carte, chi è che ti ha cucito quella camicia che stai indossando?”
“Sì, brava, sai cucire. Vuoi un applauso?”
“Ragazzi, non mi sembra il caso di...”
Mi rivolsero un’occhiata acida che mi fece ammutolire all’istante. Non volevano far pace, bene.
“Vado... a controllare la tavola.”
Che poi non sapevo nemmeno cosa dovessi controllare, ma l’importante era svignarsela da lì.
“Kurt, aspetta, ti do una mano!” Esclamò Emily con un sorriso che era tutta un’altra cosa rispetto al broncio di un secondo prima. Bene, quella ragazza era strana. Ma dopotutto, c’era qualcuno di normale in quella combriccola?
A mie spese, avrei capito presto che la risposta era un puro e semplice no.
 
 
“Kurt! Stai benissimo!”
“Concordo con la mia ragazza. Potrei diventare gay per un ragazzo come te.”
“Ciao Rachel. Ciao Megafusto.”
“Come?”
“Brody. Ho detto ciao Brody.”
“Ah, no perchè mi sembrava che avessi detto-“
“Kurt, ti ho portato gli antipasti! Dove li metto, sempre nella tavola della sala? Mi fai strada?”
Quella fu la prima di una lunga serie di volte in cui amai profondamente Rachel Berry.
 
 
 
“Il tartufo al mais è pronto per essere infiocchettato.”
Nick, Jeff, Thad e David dissero questa frase in coro sbucando da dietro i cartoni della pizza. E io li guardai, tentai di capirli, ci provai davvero. Ma proprio no.
“Il... cosa?”
“Kurt, il tartufo al mais.”
“Idiota, Kurt non se lo ricorda!” Sbottò David dandogli un pugno sulla spalla. Quando Nick rispose che era un coglione e iniziarono a picchiarsi lì, sulla soglia di casa,Thad mi appioppiò tutti i cartoni della pizza in una pila sola e Jeff cominciò a piangere.
Così. A caso.
“Ragazzi, perchè non entrate e- oh, oh no!”
La pila di pizze che mi impedivano di vedere il resto del mondo cominciarono a inclinarsi pericolosamente.
“Ehm... ragazzi? Una mano?”
“Ha ragione Kurt, Jeff picchialo con l’altra mano, questa ti serve per sunoare!”
“Ma io non sto picchiando nessuno!”
“Ragazzi...”
“Dovresti farlo Jeff, il Fight Club non ti ha insegnato nulla? Dio, stai proprio passando al lato buono della Forza.”
“Ragazzi?”
“Ti ho sempre detto che non sono uno Jedi, Nick. Sono un signore del Tempo.”
E no. non ce la feci più.
“Basta! Parlate cristiano, che cavolo! Prima l’accendi-energie-a-pressione, ora questa metafora delle giunchiglie che volano in aria-“
“Giunchiglie? Kurt... ma che stai dicendo?”
Certo. Ora ero io quello che parlava strano. Sebbene ci fossero una ventina di pizze davanti alla mia faccia, fui quasi sicuro il mio sguardo carico d’odio li avesse colpiti in pieno.
“Aiutatemi. Con. Le. Pizze.”
Un secondo dopo sentii qualcuno fare un passo avanti; lentamente, le scatole della pizza cominciarono a scalare una dopo l’altra, mentre la mia visuale ricominciava ad adattarsi al mondo esterno e le mie braccia non rischiavano più di cedere per la troppa pressione.
Mormorai un timido “Grazie”, tirando perfino un sospiro di sollievo. Ma quale dei quattro ragazzi aveva avuto il buon senso di correre in mio soccorso?
L’ultima pizza che mi ostacolava la vista fu rimossa, e-
“Blaine.”
Era proprio lì, tutto intero, con la sua felpa aderente, gli occhi chiari, le labbra carnose leggermente socchiuse.
Rischiai seriamente di far cadere a terra le ultime pizze che tenevo in mano.
“Buonasera Kurt.”
“Come... da quanto tempo è che sei arrivato?”
Lui abbozzò un sorriso, uno di quelli che si incurvano all’angolo della bocca: “Abbastanza per capire che David non sa tirare un gancio.”
“Ehi!”
I ragazzi ripresero a battibeccare, ma stavolta entrarono in casa portandosi dietro le pizze che aveva dato loro Blaine. E sotto a quel vociare fatto da insulti, frecciatine e risate sarcastiche, io rimanevo imbambolato a fissare Blaine, quel ragazzo che era comparso sulle scale il giorno prima, e alla mia macchina quella stessa sera.
“Quindi... come sta il braccio?”
Risposta rapida e efficace Kurt. Rapido e efficace.
“Bene.”
Blaine spostò il peso da un piede all’altro, guardandomi per un attimo di sottecchi: “Questa volta non mi saluti?”
Inutile dire che le mie guance assunsero ogni possibile sfumatura di colore. Ma il sorriso di Blaine si fece un po’ più sincero e, oh, che diavolo, c’era così tanta tensione nell’aria che avrei potuto tagliarla con un coltello da burro.
“Fa freddino fuori, eh? Gli altri sono tutti dentro, Adam dovrebbe arrivare e-“
“Kurt.”
Il modo con cui mi interruppe fu affrettato, impaziente; si portò una mano trai capelli pieni di gel, voltandosi a osservare chissà cosa in mezzo alla strada. Sembrava sul punto di dirmi qualcosa. Come se non riuscisse a trovare le parole; come se non riuscisse ad aspettare nemmeno il tempo di entrare, per dirmelo.
“Kurt, io devo assolutamente dirti che-“
“Eccomi, scusate per il ritardo!”
“... Adam.”
Lo vidi raggiungere la porta a passo di marcia, con la cravatta ancora sbottonata per la fretta, le chiavi della macchina in una mano e una busta di carta nell’altra. Nel frattempo, l’espressione sul viso di Blaine era cambiata completamente.
“Ciao, amico. Che fine avevi fatto?”
“Oh, mi hanno trattenuto più del necessario, ma sono riuscito a fare un salto in enoteca per prendere una bottiglia di vino. Ciao Kurt. Passato una buona giornata?”
Ricambiai il saluto con un sorriso, stringendomi nelle spalle.
“Tutto regolare.”
“Bene allora, entriamo e diamoci dentro!”
Blaine sembrò leggermente interdetto da quelle parole, a giudicare da come lo fissò mentre entrava in casa e mi prendeva dalle mani le ultime pizze, facendomi cenno di entrare perchè faceva freddo.
Eravamo di nuovo soltanto io e Blaine, ma capii anche da solo che fosse sfumata l’occasione. Per fare cosa, poi, non lo capivo ancora.
“Dovevi dirmi qualcosa, Blaine?”
Lo vidi scrollare leggermente la testa, per poi posare una mano sulla spalla e seguire Adam dentro al salotto.
“Non importa. Meglio lasciar stare.”
Sì che importava, invece. Perchè io non ci stavo capendo assolutamente più niente.
 
 
La cena era un gran trambusto dove nessuno badava esattamente alla mia presenza e, chiaramente, non ci fu nessun “elemento chiave” che mi fece tornare istantaneamente la memoria.
Rachel era troppo presa a flirtare con Megaf-Brody; i Warbler litigavano e scherzavano un secondo dietro l’altro, guadagnandosi tutti i commenti cinici di Wes e i rimproveri di Emily che diceva a Wes di non essere così cinico.
Adam parlava con tutti, da vero e proprio padrone di casa. Offriva il vino quando il bicchiere ne era privo e cercava di contenere gli insulti che volavano da una tavola all’altra, tutto perchè Nick e Jeff odiavano quando gli altri facevano notare loro quanto fossero una coppia di sposini.
Pensai a quanto Mercedes si sarebbe divertita: adorava quel tipo di serate. Pensai anche a quanto mi mancasse.
E poi, quasi inconsciamente, spostai lo sguardo dal bicchiere di vino a Blaine: in una serata non aveva detto nemmeno una parola.
“Emi, che dolci hai portato questa settimana?” David si sporse verso la ragazza facendo gli occhi languidi mentre ancora ingoiava l’ultimo boccone di pizza.
“Oh, un po’ di tutto, lo sapete che sono sempre molto indecisa.”
“David. Mantieni le distanze dalla mia ragazza.” Wes lo indicò con un coltello e quello mi parve come il momento più appropriato per agire.
“Vado a prendere i dessert!”
 “Ti aiuto.”
Senza nemmeno darmi il tempo di metabolizzare, Blaine si era alzato lasciando il fazzoletto sulla tavola, seguendomi silenzioso fino alla cucina e facendo aumentare terribilmente il battito del mio cuore.
 
 
Non ero mai stato così in ansia in vita mia. Nemmeno quando avevo sfidato Rachel su Defying Gravity; nemmeno quando avevo provato la mia prima lacca ecologica.
Blaine continuava a tagliare fette di torta accompagnandole con i biscotti e io non riuscivo a pensare ad altro che non fosse la scena della porta. Immaginai che volesse riprendere il discorso da dove era stato interrotto. Immaginai che avesse qualcosa di molto importante da dirmi, visto che era piombato in casa mia perfino la sera prima.
Ma allora perchè diavolo non diceva niente? Era il silenzio che mi faceva impazzire: quell’atmosfera riempita soltanto del suono di coltelli che sfregavano sui piatti. E dal momento che, evidentemente, non aveva nessuna intenzione di parlare, lo feci io. Iniziai a dire tutto ciò che mi passava per la testa.
“Questa sembra molto buona.”
“Lo sai che una volta ho fatto bruciare i biscotti?”
“Questi sembrano buoni. Davvero buoni.”
“Potrei tagliarla in orizzontale, invece che in verticale. Forse sarebbe meglio. Cosa ne pensi?”
“Va bene, ne mangio solo uno.”
“Blaine, mi passeresti quei tovaglioli che sono alla tua sinistra?”
“Okay, un altro.”
“E’ carina questa cosa di portare un po’ di cibo a testa. Risparmia un sacco di fatiche all’ospite, non credi?”
“Questo è l’ultimo, promesso. Dio, sono in grado di riacquistare in una sera tutti i chili che ho perso in tre anni. E il bello è che non ricordo nemmeno di averli pers-“
E poi si voltò, di scatto, appoggiando le mani sul ripiano di marmo della cucina.
“Non ce la faccio più.”
Che intendeva dire?
“Kurt, io ti amo.”
Come?
“E anche tu ami me, in realtà.”
Cosa?
“Avevi intenzione di lasciare Adam. Per sposarmi.”
Benissimo.
Buio, inchini e sipario. Qualche fiore sui tagli e le luci puntate sul protagonista. Perchè si trattava di quello, no? Era una scena di teatro, vero? Blaine stava recitando un qualche copione.
O magari era una cosa in codice, qualche scherzo che facevamo sempre e che io, in quel momento, non ricordavo affatto.
Ma il suo sguardo era troppo intenso. La sua voce troppo imbarazzata e, allo stesso tempo, impellente, come se avesse bisogno che io ricordassi. Ma non potevo ricordarlo: per me Blaine era uno sconosciuto. Così come Adam, Rachel e chiunque altro.
E io non ero un traditore. Sapevo davvero pochissime cose della mia vita in quel momento, ma su quella ci avrei messo una mano sul fuoco.
“Forse ti potrà sembrare un bello scherzo”, replicai, “Prendiamo tutti in giro il povero smemorato Kurt Hummel. Divertente.”
“Kurt, ti prego, devi credermi, sto dicendo la verità.”
“No.”
Non ho mai tradito nessuno. Quando avevo diciotto anni e pagai in contanti una borsa di Prada sapevo benissimo che fosse finta, ma la comprai lo stesso. Poi però tornai indietro e chiesi i soldi al piccolo nigeriano abusivo; sono fatto così. Non riesco a sopportare le menzogne. Figuriamoci l’infedeltà.
Blaine si passò una mano trai capelli, emettendo un lungo sospiro. Sembrava davvero seccato per la mia reazione. Ma cosa si aspettava? Pensava che alla sua rivelazione mi sarei sciolto come un ghiacciolo? Pensava che il mio cuore avrebbe cominciato a battere come nei film, dove tutto mi sarebbe tornato alla mente, ci saremmo abbracciati e dichiarati amore eterno?
Il mio cuore stava benissimo. Non soffrivo nemmeno di pressione alta. Il respiro regolare, la pelle attraversata da nessun brivido di genere e sorta.
Ma era ovvio, perchè quello che aveva detto Blaine non poteva essere vero. Io non avrei mai tradito nessuno, figuriamoci un uomo che, per qualche ragione che in quel momento mi sfuggiva, avevo deciso di sposare. E magari non mi ricordavo assolutamente nulla di Adam, ma da quanto avevo potuto apprendere in quei pochi giorni, era gentile. Premuroso. In quei pochi giorni, mi ero sentito felice e protetto.
“Senti, non so cosa ci siamo detti prima che io... prima dell’incidente”, esitai, “Ma secondo me c’è stato un enorme fraintendimento.”
Mi guardò come se avessi appena detto di essere una donna. Così, un po’ seccato, fui ancora più chiaro: “Io non posso amarti.”
“Non puoi?”
“Certo che no. Innanzi tutto sei più basso di me, e io non starei mai con uno più basso.”
Mi guardò incredulo per un attimo e, subito dopo, si abbandonò a una risata che avrei giudicato quasi... piacevole. Se solo non fossi stato troppo arrabbiato a causa del suo atteggiamento presuntuoso e delle sue vergognose affermazioni; ma visto che non accennava a smettere, incrociai le braccia al petto, e gli chiesi cosa ci fosse di così tanto divertente.
“L’hai detto anche la prima volta.”
“Che cosa?”, sentenziai, cinico, esasperato.
“Eri in crisi perchè ti eri innamorato di uno più basso. Dicevi che non ti innamori mai dei ragazzi bassi, perchè non puoi rubargli i vestiti.”
‘Ok, potrei averlo detto’, pensai. Insomma, sembrava una frase proprio da me. Ma non significava niente.
“E con questo?”
Tutta l’euforia di quel minuscolo momento, a quelle parole, svanì di colpo. Ecco, adesso era tornato il Blaine serio, quello che sembrava pugnalarmi ogni qual volta che il suo sguardo incrociava il mio. Quello che sembrava pretendere da me qualcosa che non potevo, o non dovevo, assolutamente dargli.
“Blaine, io sono sposato.”
“Con un uomo che non ti rende felice”, ribattè lui, quasi sovrastando la mia voce canzonatoria. E io ero furioso: non riuscivo a crederci.
“Ma chi ti credi di essere?”
Il suo corpo trasalì come se gli avessi appena dato la scossa; le sue spalle si irrigidirono, così come i suoi lineamenti, e le labbra serrate in una smorfia.
“Tu vieni qui, in casa mia e di mio marito, cominci a straparlare di tradimenti e altre assurdità e adesso vuoi pure venire a dirmi com’è il mio matrimonio?!” La mia voce si alzava sempre di più mentre avanzavo, puntandogli un dito sul petto e premendo sempre più forte dalla rabbia.
“Tu non sai niente. Niente. E, soprattutto, tu non sai chi sono io.”
“Sì che lo so,” bisbigliò trai denti, “Ti conosco meglio di chiunque altro.”
E forse poteva anche avere ragione, almeno su quel piccolo punto.
“Ma io non conosco te. Sei un estraneo.”
Se Blaine fosse stato un mio amico, mi si sarebbe stretto il cuore nel notare l’espressione che assunse dopo quel commento: vedere i suoi occhi tremare come foglie, la sua bocca aprirsi come incredula, tutte le sue certezze cadere, come un fragile castello di carte.
Ma per adesso, tutto ciò che vedevo era un ragazzo di cui sapevo soltanto il nome, che mi aveva dato del traditore, che pretendeva di sapere come gestire la mia vita; e no, non provai nemmeno il minimo risentimento quando lo vidi uscire a grandi falcate dalla cucina, senza nemmeno preoccuparsi di chiudere la porta con delicatezza.
 
 
 
 
 
 
 
 ***

Angolo di Fra


Jackpot.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***




 Anche un orologio fermo segna l'ora giusta due volte al giorno.
Herman Hesse






 

Quella notte feci un sogno strano.
Ero da solo, in una casa che non riconoscevo; intorno a me c’erano foto di persone che non avevo mai visto in vita mia, e io ero lì con loro, che sorridevo, salutavo verso l’obiettivo, a volte perfino abbracciavo qualcuno.
Ce n’era una mia insieme a Adam in completo da matrimonio, mentre ci scambiavamo le fedi nuziali; e poi un’altra, in cui ero in un parco con Blaine. Lui indossava dei semplici jeans e maglietta, io una tuta: eravamo seduti su una panchina a sorseggiare caffè, lui mi stava parlando di chissà cosa e io ridevo, accarezzandogli il dorso della mano.
L’ho detto io che era un sogno strano: non uscirei mai di casa in tuta.
 
 
Per una serie incalcolabile di minuti fissai il soffitto bianco e vuoto, mentre le immagini della sera precedente scorrevano davanti ai miei occhi come le diapositive che papà mi faceva vedere ogni estate, quando tornava dal campeggio con Carole. Sono quelle cose che non vuoi davvero vedere, di cui faresti volentieri a meno, ma sei obbligato a farlo; così come io ero obbligato a uscire da quel letto, farmi una doccia e prepararmi per la giornata.
Mentre lavavo i denti mi osservai allo specchio: le occhiaie erano ancora più violacee di prima, il volto leggermente più incavato. Per la prima volta in vita mia provai nostalgia verso quelle guance rosse e paffutelle che mi avevano sempre contraddistinto.  Poi, scacciando dalla mente quel pensiero, mi infilai sotto la doccia.
Era tutto talmente meschino da risultare anche un po’ ironico: proprio quando avevo avuto l’impressione di aver ripreso le redini della mia vita, iniziando a riempire gli spazi vuoti e quelli scoloriti, ecco che una folata di vento era arrivata a spazzare tutto quanto. E non ero nemmeno tornato al punto di partenza, no, ero ancora più indietro. Ma da qualche parte dovevo pur ricominciare.
Questo pensai, mentre l’ultimo ciuffo di capelli si asciugava sotto al getto d’aria calda del phon a ioni, e decisi di occuparmi personalmente di quella faccenda piuttosto strana. Quella faccenda che aveva un nome e un cognome, degli occhi nocciola, un sorriso semplice quanto disorientante.
Bene: se ero davvero l’amante di quel Blaine Anderson, quanto meno avrei dovuto trovare delle prove. Un regalo impacchettato maldestramente, un bigliettino spiegazzato, qualsiasi cosa. Così corsi in camera da letto, l’unico posto in cui avrei potuto nascondere qualcosa di incredibilmente pericoloso, e dopo essermi guardato un po’ intorno cominciai a frugare nel cassetto della biancheria. Insomma, avevo sempre nascosto lì le cose, quando non volevo che papà le trovasse; ma oltre a degli slip con delle borchie e un altro paio con la coda di coniglietto attaccata dietro – le buttai immediatamente nel cestino -, non c’era niente. Era tutto incredibilmente, terribilmente pulito.
Stavo quasi per esultare, facendo una piroetta su me stesso e sorridendo come un bambino, quando inavvertitamente scorsi, con la coda dell’occhio, un armadio. Il mio armadio. Il mio armadio a muro che se ne stava lì con aria innocente, buono buono in un angolo della stanza.
Un pericolosissimo armadio a muro che conteneva chissà quali scheletri.
Mi fiondai sulla mia preda e per poco non stritolai la maniglia di un’anta: era pieno di vestiti di tutti i tipi, camicie, giacche, perfino delle converse che non avevo mai visto in vita mia e- un momento. Le presi in mano osservandole accuratamente e facendo una smorfia: come diavolo mi era saltato in mente di comprare una roba simile? E poi con cosa le abbinavo, con dei pantaloni? Nemmeno fossi David Tennant.
Ma poi, mi ricordai di aver altro a cui pensare nel momento in cui trovai un piccolo baule. Era sotto a una pila di tracolle e felpe, chiuso con un lucchetto, una combinazione a quattro numeri.
Avevo sempre usato la stessa combinazione per quel genere di serrature, e sperai con tutto il mio cuore che in tre anni non mi fosse venuta la malsana idea di cambiarla: ma no, era proprio quella. La serratura si aprì senza nessuna difficoltà e non riuscii a trattenere un “Sì!” di vittoria, agitando i pugni in aria e rischiando di perdere l’equilibrio. Lo sapevo che la data di nascita di mio padre non mi avrebbe deluso.
Un momento. Perchè stavo esultando? Quello era un baule che avevo accuratamente sigillato, in modo che nessuno scoprisse il contenuto al suo interno. Qualcosa che nessuno doveva vedere.
Era giunto il momento? Allora, finalmente, avrei scoperto la verità su me stesso, e su quello che ero diventato?
Non riuscivo ancora a crederci. Non potevo crederci. Io, un amante.
Mi tremavano le mani quando sollevai il coperchio per rivelarne l’interno, con estrema lentezza e attenzione.
Mi ero immaginato uno scenario terribile. Lettere bagnate con delle lacrime innamorate in cui io e Blaine ci professavamo eterno amore, alle spalle dell’ignaro Adam, con tanto di fiori segreti, piccoli regali, magari... una promessa.
“Avevi intenzione di lasciare Adam. Per sposarmi.”
Il mio cuore non sapeva più come funzionare. Batteva all’impazzata, sintomo di un  imminente attacco di panico insieme ai brividi che stavano correndo lungo la schiena rigida, alla pelle d’oca,  ai sudori freddi.
Non stava succedendo davvero, non poteva succedere.
In effetti, non successe.
Non c’era nessuna lettera, nè alcuna prova della mia presunta relazione con Blaine.
C’era solo un cuscino a forma di persona. Con un braccio. Un cuscino che sembrava avesse la funzione di abbracciare persone. Sulla camicia – che, purtroppo, riconobbi essere una delle mie -, c’era un nome: Bruce.
“Kurt, che stai facendo?”
In meno di un secondo quel... quella cosa era tornata da dove proveniva, il baule era di nuovo sigillato e io ero in piedi di fronte ad Adam, con un sorriso a trentadue denti e un principio di mancamento.
“Chi? Io? Niente. Niente di niente. Tu piuttosto che facevi? Come stai? Che mi racconti?”
Alla faccia dell’attore: ero più finto del seno di Pamela Anderson.
“Ti ho sentito urlare”, disse lui. “Volevo sapere se fosse tutto okay.”
“Certo. Va tutto benissimo. Splendidamente.”
Se magari avessi smesso di sorridere in quel modo, forse, ci avrebbe anche creduto.
“... Come ti è sembrata la cena di ieri sera?”
“Bene. Cioè, bella. È stata una bella serata, sembrano tutti molto carini.”
“Quindi... ti sei divertito?” Mi chiese un po’ titubante, facendo un piccolo passo in avanti. “Voglio dire, non è stato troppo stressante, vero?”
Stressante?
“Non ce la faccio più. Kurt, io ti amo. E anche tu ami me, in realtà.”
“È stata una serata tranquillissima.”
Adam sembrò come illuminarsi a quella risposta, rilassando i muscoli tesi delle spalle e prendendo un lungo respiro liberatorio.
“Bene. E... a memoria, come andiamo?”
Bastò un piccolo cenno con la testa per fargli capire che non c’erano stati progressi. Sul suo viso comparve una smorfia, che tentò di mascherare maldestramente con un’espressione incolore; parlò con un tono di voce molto morbido, come se non volesse spaventarmi. “Non ti preoccupare Kurt, procediamo con calma.”
Non sono io che sto andando veloce, volevo dirgli. È il resto del mondo che è impazzito.
“Lo sai che puoi chiedermi tutto,” incalzò di nuovo, “Se hai qualsiasi dubbio, o domanda... non esitare a chiedere.”
Uhm. Sviai lo sguardo prima sul soffitto, poi sul pavimento sotto ai miei piedi.
Come dire.
Adam, che tu sappia, ho un amante?
"Ehm.. noi... sì insomma, come siamo?"
Inutile dire che restò piuttosto confuso da quella domanda, motivo per cui mi fissò per un attimo e poi mi chiese: "In che senso?"
"Che tipo di coppia siamo..." Mormorai, come per fare degli esempi casuali e del tutto innocenti, "Come ci comportiamo l’uno con l’altro... se ci... fidiamo.”
Forse l'ultima frase non era uscita in modo molto casuale. In realtà la mia voce era scesa di un'ottava e avevo il fiato corto e lo sguardo puramente colpevole. Non riuscivo a guardare Adam nemmeno con la coda dell'occhio. Tutto ciò che potevo fare era stare lì, in piedi, con le mani in mano, e pregare che non iniziasse a farmi un interrogatorio dal quale non sarei uscito del tutto integro.
"Kurt", Lo sentii pronunciare, in quel modo un po' strano e spiacevole, "Non vado a letto con il mio migliore amico, se è questo che intendi."
"No. Certo che no. Ah ah. Buona questa."
Qualcosa con cui uccidermi, per favore?
Ma poi lui si limitò a voltarsi dall’altra parte, dandomi le spalle, giusto un attimo prima di uscire dalla stanza. “Ci vogliamo bene. Quando hai finito di prepararti dimmelo: ti porto a far vedere il nostro teatro.”
 
Camminammo per quaranta minuti abbondanti. Adam mi aveva proposto di prendere la macchina, ma dopo l’ultima volta, optai per una sana e sicura passeggiata.
New York era sempre bella da vedere, aiutò a distogliere le attenzione da me stesso, riversandole sul mondo che mi circondava; un ragazzino aveva preso al volo un autobus che portava verso Soho e un fotografo aveva passato mezz’ora davanti a un insegna di un locale. Ogni volta che trovava la giusta luce, il sole intanto si era mosso, e quindi gli toccava far tutto d’accapo.
Adam era piuttosto silenzioso, mentre ammirava la città insieme a me. Forse, non aveva molto da dire. Se lo avessi conosciuto meglio avrei capito che stava pensando a qualcosa.
Dopo aver svoltato l’angolo si presentò davanti ai miei occhi un edificio piccolo e anonimo, fatta eccezione per una grande insegna sulla cima. E lì sopra, c’era il mio volto. Quello ero io. Quello era il teatro in cui avrei debuttato.
Adam si voltò verso di me e fu quasi stupito nel vedere i miei occhi velati dalle lacrime, così come le mie mani che si stringevano l’un l’altra cercando di fermare il tremore. Ma come potevo stare calmo, come potevo non sentirmi sopraffatto da quella realtà che assomigliava ancora a un sogno irrealizzabile?
Io a teatro. Io come personaggio principale. Magari l’incidente mi aveva mandato in coma, e quello faceva tutto parte di uno scherzo del mio subconscio; non era possibile che stesse succedendo davvero.
“Vieni, Kurt”, Incitò Adam afferrandomi una mano. “Andiamo a vedere dentro.”
Non riuscendo a formulare nessuna risposta sensata, mi lasciai trascinare da lui fin dentro al teatro, rimanendo sopraffatto dalle poltrone colorate, la platea centrata con il palcoscenico, il sipario nel suo impeccabile colore rosso cremisi.
“Ti piace?”
“È  bellissimo”, Riuscii a dire, tra un respiro spezzato e l’altro. Adam mi cinse le spalle con un braccio e sembrò assolutamente fiero di sè.
“Dovremmo organizzarci con le prove, contattare il resto della compagnia... ma si può fare. Manca poco, Kurt.”
Manca poco.
“Ah, ecco Blaine.”
Per poco non soffocai nel mio stesso singhiozzo.
“B-Blaine?”
“Sì, non te l’avevo detto? E’ venuto anche lui a vedere il teatro.”
Certo. Giustamente. Dopotutto è il compositore, ha diritto ad ammirare il suo successo più di noi. E poi è amico di Adam e, forse, anche amico mio. Ma potevamo veramente parlare di amicizia, dopo la cena del giorno prima? Dopo quello che mi accusava di essere?
Le sue parole continuavano a trafiggermi come se mi fossero state inflitte in quel preciso istante. Eppure, provavo anche una certa ansia all’idea che ci fosse un fondo di verità; ma poi ricordai a me stesso di aver setacciato la casa in lungo e in largo in cerca di qualche indizio, senza trovarne nessuno. Certo, in quanto relazione segreta, sarebbe stato un po’ stupido lasciare in giro delle prove, ma non avevo trovato assolutamente niente,  neanche l’ombra di qualcosa capace di farmi dubitare.
Quindi, non esisteva nulla che dimostrasse la mia presunta relazione con Blaine. Potevo stare calmo.
“Blaine, finalmente ce l’hai fatta a venire.”
“Avevo perso la fermata della metropolitana.” Con il suo impeccabile sorriso gentile, strinse affettuosamente la mano di Adam, per poi voltarsi verso di me rivolgendomi soltanto un misero “ciao”.
Ciao. Tutto qui? Quattro lettere informali, fredde, assolutamente banali? Non mi dava l’idea di una grande relazione segreta. Forse, perchè non ce n’era alcuna: Blaine non mi amava, io non amavo lui, ed ero felicemente sposato. A quell’idea, il mio cuore si era fatto un po’ più leggero.
Mi persi qualche discorso tra Adam e Blaine circa la grandezza del palcoscenico o l’adattamento delle coreografie, preferendo concentrarmi sull’ammirare quel posto e sognare il giorno in cui lo avrei vissuto appieno, spettacolo dopo spettacolo. Ma poi, sarei riuscito a farcela? Non ricordavo assolutamente nulla del copione, o delle canzoni, o delle coreografie. Diavolo, non ricordavo nemmeno la trama del musical. Come avrei fatto a recitare, o meglio, a evitare delle figuracce di dimensioni epiche?
Non mi ero nemmeno accorto della presenza di Blaine alle mie spalle, fino a quando non lo sentii sussurrare il mio nome facendomi completamente trasalire.
“Adam ha ricevuto una telefonata importante, ma mi ha detto di continuare il tour senza di lui.”
Oh. Perfetto. Io e Blaine da soli. Niente di grave, dopotutto non eravamo certo amanti.
“Sicuro che non sia una tattica per incatenarmi da qualche parte e approfittarti di me?” Chiesi guardingo, scrutandolo con i miei occhi pieni di risentimento; Blaine sembrò un po’ incredulo fino a quando non si sciolse in una risata, dicendo che non aveva bisogno di quei trucchetti per fare quelle cose.
Mi faceva imbestialire. Sembrava così sicuro; come se fosse assolutamente certo che io, da un momento all’altro, potessi trascinarlo nei camerini per fare... chissà cosa.
“Sei un illuso.”
A quella frase Blaine si voltò di scatto verso di me, rimanendo in silenzio.
“Ho messo a soqquadro tutta la casa. Non ho trovato nulla. Nè un biglietto, nè uno scarto di foto, nemmeno qualche sms ambiguo.”
Blaine stava per rispondere dicendo chissà quale falsità, ma prima la sua espressione si trasformò in un sorrisetto e fece un cenno impercettibile con la testa: "Ah, capisco. Hai trovato Bruce."
"... Non so di cosa tu stia parlando."
Dovevo liberarmi di quell'affare e il prima possibile.
"E non cambiare argomento. Ammettilo."
"Ammettere cosa?"
"Che la nostra storia non esiste."
Incrociai le braccia al petto, puntando i piedi verso di lui. Per un attimo, dall’espressione dei suoi occhi grandi e ambrati, credetti di averlo sorpreso; ma poi lo vidi sospirare e sorridere, quasi comprensivo.
“Certo che esiste. Non fare lo stupido.”
“Io stupido?”
Volevo dargli un pugno. E l’avrei fatto, solo che le mani mi servivano integre per lo spettacolo.
“Kurt, devi rassegnarti. Noi due ci amiamo.”
Più lo diceva, più ne sembrava assolutamente convinto.
“Certo”, commentai acido, “infatti due persone che si amano non hanno nemmeno una foto insieme, o non si fanno regali, o si salutano come se fossero due perfetti sconosciuti.”
Dopo qualche secondo, in cui metabolizzò quelle parole, lo vidi inarcare un sopracciglio, parlando con tono confuso: “Ti stai riferendo al saluto di prima?”
Certo che mi riferivo al saluto di prima.
“Kurt”, commentò. Stava trattenendo a stento un sorriso. “So che hai perso la memoria, ma non credo che tu abbia perso anche la tua intelligenza. Credi davvero che potessi salutarti diversamente, con tuo marito a mezzo metro?”
“Beh, ovviamente no. Ma insomma, non è che mi hai salutato e basta, tu mi hai praticamente ignorato per tutto il tempo.”
“Stavo parlando con Adam”, replicò perplesso lui.
“Ma possibile che in dieci minuti di conversazione tu non ti sia mai fermato a guardarmi? Nemmeno di sbieco, nemmeno un sorriso, nemmeno una particolare attenzione verso di me?”
Per un momento mi bloccai, perchè detta in quel modo sembrava quasi che mi interessasse ricevere delle sue attenzioni, e non era così. Solo, mi sembrava impossibile avere una relazione con quel ragazzo. Mi sembrava impossibile, perchè ero sposato, e perchè lui sembrava nutrire verso di me nessun riguardo particolare.
Ma poi, tutti i miei pensieri vennero brutalmente smontati nel momento in cui affermò: “Kurt, non siamo in un flim hollywoodiano. Non esistono sguardi sottintesi, parole non dette o far piedino sotto al tavolo. Io e te siamo due persone adulte che si amano. Non abbiamo certo bisogno di dimostrarlo con queste cose da bambini, soprattutto sapendo bene quanto possa essere rischioso.”
... Maledizione. Blaine riusciva a rendere tutto così convincente.
“Parli come se stessimo insieme per davvero.” Quella frase mi scappò senza nemmeno averci pensato; Blaine, in risposta, spalancò gli occhi, fissandomi a lungo e in un modo che non riuscii assolutamente a decifrare. Era così strano. Adam sembrava un libro aperto, in confronto a lui; quando era felice, sorrideva. Quando era deluso, si ammutoliva di colpo. Mi erano bastati pochi giorni per capire quelle cose fondamentali, e invece, non riuscivo proprio a capire quel Blaine.
Fu per quel motivo che mi stupii un poco quando lo sentii parlare con un tono rauco, spezzato da dei veri e propri fremiti di rabbia.
“Non puoi dire queste cose.”
Se possibile, però, quella sua prepotenza non fece altro che incitare la mia.
“Che ti piaccia o no, che tu lo voglia ricordare o meno”, puntualizzò, “Io e te abbiamo avuto una storia. E io ti amo. Ti amo più di ogni altra cosa Kurt.”
“Adesso smettila!”
Il mio urlo riecheggiò in tutto l’atrio, attraversando le quinte, i muri di cartongesso, le poltrone di pelle. E ne restai quasi sopraffatto: non ricordavo di aver una voce così potente. Ma mi ripresi in fretta, troppo arrabbiato per lasciar cadere quelle parole al vento.
“Io sono sposato.” Mi sforzai di abbassare il tono, nel caso Adam tornasse di punto in bianco. “Adam è un bravo ragazzo, ci tiene veramente a me, non hai il diritto di infangare quello che abbiamo. Devi smetterla di dire che siamo stati insieme e che mi ami alla follia!”
“No.”
Mi pietrificai. Lì, in un attimo. Incredulo della sua cocciutaggine e della sua sconfinata faccia tosta.
“Come sarebbe a dire ‘no’?!”
“No Kurt. Non smetterò mai di dirti che ti amo. Te l’ho promesso. Ho anchre promesso di cucinarti dei biscotti, almeno due volte l’anno. Perchè è vero che finisci sempre per bruciarli, Kurt, e dai sempre la colpa agli altri. Ho promesso di rispondere sempre alle tue telefonate e di stare dalla tua parte, anche quando hai torto. E ho promesso di baciarti, tutte le volte che vuoi. In pratica ti ho promesso di ricordarti, ogni giorno, quanto tu, nelle tue imperfezioni, sia perfetto per me .”
E fu il modo con cui lo disse, che fece scattare qualcosa dentro di me. Qualcosa di strano, di inspiegabile. Blaine mi aveva detto di amarmi svariate volte fino ad allora, e c’erano anche le dichiarazioni da parte di Adam... ma niente, niente era paragonabile a quella.
Il mio cuore stava battendo così forte che per un attimo temetti che si potesse udire, amplificato dall’architettura di quel teatro.
Allora Blaine mi amava sul serio. Non era una messa in scena, non lo diceva tanto per dire. Perchè non avrei mai potuto dubitare di quelle parole, non dette in quel modo, non quando mi fissava con quegli occhi carichi di emozione.
"M-ma non è possibile.” Mi allontanai da lui, come cercando di riguadagnare quel contegno in grado di non farmi svenrie. Ma era un’impresa molto difficile, dal momento che tutta quella storia, tutta quella vita, sembrava essere più complicata di quanto volessi e, soprattutto, mi stava portando a direzioni che non avrei mai pensato di conoscere.
“Io non sono un bugiardo.” Sussurrai quelle parole in modo incerto. Non ne ero più così sicuro.
“Non sono il tipo di persona che tradisce il proprio compagno."
"Nessuno lo è." Mi rispose. Lo guardai ancora una volta ma, dopo nemmeno un secondo, mi arresi all’evidenza di non riuscire a sostenere il suo sguardo.
"Non si tratta di diventare o non diventare, Kurt." Sembrava intento a tenere la sua voce rigorosamente calma e controllata. "Uno non tradisce il proprio compagno perchè si diverte. O meglio, sì, alcuni stupidi lo fanno. Ma non è il tuo caso."
"Infatti, perchè io non posso averlo tradito!"
"No. E' perchè tu non hai mai amato Adam, e invece ti sei innamorato perdutamente di me."
“Quanta confidenza in te stesso.” Stavo quasi per rispondergli male un’altra volta, ma lui fece un passo in avanti, sfiorandomi delicatamente un braccio, prima di ricordarsi che non gli fosse permesso e ritrarre la mano.
"Kurt", sussurrò, con un sospiro. Era strano: aveva un modo tutto suo di pronunciare il mio nome.
"Non sto dicendo che è semplice. Non sto nemmeno dicendo che sia giusto. Ne abbiamo parlato tanto, anche se tu non lo ricordi. “
Lo guardai esitante, decisamente incredulo: “Ne abbiamo parlato?”
“Sì”, affermò, con una forza tale da cancellare ogni mio stupore. “Credi davvero che sia stata una decisione presa a cuor leggero, senza rifletterci?”
Beh, di solito funzionava così, no? O almeno, nei film si vedevano “lui e lei” che non riuscivano più a contenersi e allora si ritrovavano a fare sesso selvaggio... Tra me e lui non era andata così?
“Kurt, di nuovo. Non siamo in un film.”
Non era possibile. Adesso sapeva anche leggermi nel pensiero?
“Abbiamo cercato di non innamorarci l’uno dell’altro. Dico sul serio. Ci siamo evitati, per evitare di peggiorare le cose, ma più stavamo lontani e più ci mancavamo ogni giorno, ogni minuto, arrivavamo a fare cose assurde pur di vederci.”
E mentre lo diceva, le sue labbra si erano incurvate in un sorriso così dolce che, per un attimo, mi ritrovai a fissarlo.
“Quando abbiamo capito cosa stesse succedendo, era troppo tardi. Il mio cuore era già tuo. E tu, a quel punto, hai fatto una scelta.”
Era così, allora: io avevo tradito Adam. Con Blaine. E per quanto mi sforzassi di trovare un minimo senso in tutto quel groviglio intricato di pensieri, un flashback, un suono, un'immagine... avvertivo il vuoto più assoluto.
La rivelazione di avere un amante era stata sconcertante quanto quella di essere sposato: semplicemente, perchè non riuscivo a credere a nessuna delle due.
"Senti” esordii, piano, calibrando ogni parola, “Mettiamo che io ti creda. Mettiamo che noi due siamo stati veramente... veramente..."
"Amanti."
"Sì. Quello." Balbettai. "In ogni caso, io non me lo ricordo. E' come se non l'avessi mai vissuto. Non posso provare sentimenti di cui non ricordo l'esistenza, nè per te, nè per Adam."
Il volto di Blaine si fece improvvisamente più serio. E quello, i suoi occhi chiari, le sue labbra increspate da una smorfia, mi portarono ad aggiungere un'altra frase; non sapevo nemmeno io da dove fosse uscita, fatto stava che ad un tratto mi sentii dire: "Perchè non proviamo... non proviamo ad essere amici? Un rapporto tranquillo, piacevole."
Non infedele e sporco. Ma Blaine, a quel punto, scoppiò in una piccola risata che mi fece innervosire non poco.
"Questo è assolutamente fuori questione."
"E perchè mai?" Incrociai le braccia, tentando di mostrarmi superiore al suo fare da so-tutto-io e alle sue espressioni eloquenti.
"Non siamo mai stati amici, Kurt. Ci abbiamo provato, per un periodo, ma non è mai andata bene."
“Cosa intendi dire? Nel senso che finivamo sempre per litigare?"
A Blaine spuntò un mezzo sorriso, per poi schiarirsi la voce e mormorare, un po’ incerto: "Nel senso che finivamo sempre per fare sesso."
 
 
 




***


Angolo di Fra


Sono di nuovo qui. E sono di nuovo io.
Non ho ben capito se quando dite "mi mancano le tue note chilometriche" mi prendete per il c*** oppure siete sinceri. Ad ogni modo sono scazzata e quindi ho voglia di straparlare.
Perchè tra il "Conclave" che dà più fumate nere delle zucchine che ho messo al microonde ancora surgelate, esami DI PURA FANTASIA in cui la professoressa di 33 anni è aretina e mi fa "Alò" quando le chiedo una spiegazione sul budget e Glee che rinnova di altre due stagioni (di cui mi fregherà soltanto della parte Klaine, sinceramente) non so più da che parte farmi.
Almeno mi sono divertita a scrivere questo capitolo. Spero che vi piaccia, non c'è granchè, ma visto che la storia è molto incasinata (ma dai? Non si era capito ndtutti) (sì lo so sono una baldracca ndme) voglio procedere con calma. Un WTF alla volta.
Basta ho straparlato abbastanza, vado a vedermi un po' Crozza che mi fa sempre ridere come una scema.
Fatemi sapere se vi piace questo capitolo, e questa storia in generale. Si accettano soprattutto critiche costruttive :) Saluto tutti e in particolare Rachele che è sempre una beta efficientissima nonchè una grande amica!
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1666113