Il viaggio che non ti aspettavi.

di Starmel_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Plot. ***
Capitolo 2: *** Chapter One. ***
Capitolo 3: *** Chapter two. ***



Capitolo 1
*** Plot. ***


Il viaggio che non ti aspettavi.
 

 


 

Gli idoli, sono quel sogno proibito, gli unici capaci di creare quella piccola curvatura sull'angolo delle labbra chiamato sorriso. Quegli esseri che nonostante anni luce lontani da te, sono gli unici di cui necessiti costantemente.

E poi rimani immobile, in piedi dinanzi una sua foto lo vedi lì, ti guarda, con un non so che di piacere, sa che lo stai fissando, sa che daresti la vita per lui, ti avvicini, poggi il viso sul foglio, ed è lì che entri in una strana dimensione dove sei un tutt'uno con lui, accompagnata dalla sua musica e da quello strano batticuore che solo lui è capace di scatenare dentro il tuo corpo, improvvisamente fragile, e stretto per un cuore che del tuo misero corpo non sa più cosa farsene,e batte, sempre di più, vuole uscire, liberarsi, assaporare quelle labbra che stai fissando,e magari morirci sopra.

E per loro, faresti ogni cosa, qualunque cosa. Persino metterti contro tutto e tutti.
Contro l'intero sistema in cui vivi,contro quelle persone che conosci ancor da prima della tua nascita, ti metti persino contro te stessa. Rifiuti amori o ideali raggiungibili, scegliendo qualcosa di così irreale da togliere il fiato, e da farti sentire in una nuova dimensione, qualcosa che ti taglia in due, quando l'alba varca la soglia della tua anima. E allora realizzi di completarti. Loro ti completano. E anche se questo sentimento è così utopistico e lontano dalla realtà, tu non puoi farne almeno.
Ti nutri di loro, diventano la tua ossessione, il tuo dolore. Ma li ami, non puoi farne almeno.
Sì, ne soffri, perché sono così lontani e irraggiungibili da sembrare quasi frutto della tua mente ingannatrice, da sembrare castelli di sabbia, fragili al tocco. Ed è proprio quel tocco, che ti è tanto caro, conservi il ricordo del tocco di uno di loro, un ricordo che non è mai esistito. Conservi pagine e pagine di libri mai scritti, e nel frattempo senti che tutto ciò che ti sta attorno non è all'altezza di quegli esseri così perfetti.

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Capitolo 2
*** Chapter One. ***


 

Word on a Wing.

 


Ivory si svegliò di scatto, disturbata dal suono metallico della sveglia, che insisteva a martellare le sue povere orecchie con il suo suono assordante. «Ma cosa ti ho fatto di male, maledetta sveglia del cazzo?!» Sporse una mano per trovare e spegnere quell'aggeggio infernale, quando una voce la chiamò: «Ivory! Datti una mossa. Tra dieci minuti abbiamo lezione!» Urlò Ophelia, irrompendo all'improvviso nella stanza, e si avvicinò all'amica, scuotendola leggermente.

«Mi hai sentita? Abbiamo quella bisbetica della Raudelph a prima ora, non vorrai far tardi.» Sussurrò Ophelia tirando velocemente via le coperte.

«Altri cinque minuti, mamma.». Rispose Ivory con voce vuota, alzando appena la testa dal cuscino per poi riposarla.

«Mamma?» Ophelia aggrottò le sopracciglia, per poi avvicinarsi ed iniziare a far il solletico insistentemente all'assonnata Ivory, tentando invano di farla svegliare del tutto. La ragazza si contratte, cercando inutilmente di fermare quelle mani. «Maledizione!», disse tra i denti, facendo un tonfo scivolando dal letto e tirando con lei le coperte.

 

Era una normale mattina risalente all'anno 2012, erano apparentemente due normali ragazze frequentanti un college nella capitale Londinese.
Ivory, era una un'ambiziosa sognatrice con le idee ben chiare sul suo futuro: sfondare nel mondo della musica.

Quando si parla di Ivory Von Droste, la fredda ragazza di origini tedesche non si parla di una persona timida ed introversa, ma più tosto d'una ragazza non comune.

Costretta ad ambientarsi in un'epoca che non le apparteneva ed indotta a crearsi maschere per il sol timore di non piacere all'ipocrita gente dell'undicesimo secolo.
Veniva sempre menzionata come la ragazza “particolare”, “strana”, “eccentrica” e che non stava mai con i piedi sulla terra. “Perché stare con i piedi sulla terra? Quando tutto ciò che non è questa è mille volte meglio?”, diceva; osservando con i suoi grandi occhi celesti il cielo e domandandosi se, magari, lassù, su Marte, c'era vita. Già, “C'è vita su Marte?” Come faceva la canzone del suo cantante preferito, David Bowie. Una figura che per lei non era solo un vecchio cantante con una carriera acclamata, ma la sua ispirazione perenne.

Cosa ci faccio qui?” pensava, mentre sola e meditabonda guardava la gioventù odierna così stereotipata e uguale strimpellando le corde della sua chitarra, con la quale, un giorno, avrebbe voluto salpare i palchi. Meditava sul perché Dio, se esisteva, le aveva riservato quest'ignobile destino.

Si sentiva così sola alcune volte, sola.
Fin quando non incontrò Ophelia.

Ophelia Delacroix era una timida ragazza di origini francesi che amava leggere e scrivere, e come Ivory, meditava sul perché quello pseudo Dio le aveva imprigionate in quel vile e stupido undicesimo secolo.

Lei, a contrario dell'amica, non aveva le idee ben chiare sul suo futuro, il suo motto era Carpe diem e amava Lou Reed, quell'uomo anni luce lontano dalla sua vita.

Quel giorno, era un giorno come tutti gli altri: Londra era cupa, le due ragazze erano, come al solito in ritardo per la lezione, e la campanella della prima ora era suonata.
«Iv, muoviti, su.» Ansimò affannata dalla corsa Ophelia cercando con lo sguardo l'amica che aveva perso di vista durante la corsa, e ritrovandola vicino alla macchinetta delle merendine intenta a scegliere uno spuntino con tutta la tranquillità possibile. «Ivory, maledizione. Cosa stai facendo? » s'avvicinò l'amica, posandole una mano sulla spalla. «La Raudelph non ci farà mettere piede in classe se non ci muoviamo!».

Ivory, che stava per mettere una monetina nella macchinetta, farfugliò qualcosa come un “ma quanto sei paranoica”, sbuffando e voltandosi verso l'amica. «Che si fotta.» sbottò «Non ho voglia di sentire i suoi strepiti di gallina in prima mattina.» pigiò con l'esile indice il numeretto per far uscire la merendina; aveva una fame folle, era da giorni che non toccava cibo, da giorni, sì. Avete capito bene. «Sono stanca. Di lei, di tutti. Del mondo.» Mormorò poi, chinandosi per prendere la barretta ai cereali. «L'ha rifatto di nuovo, sai? », disse poi.

«Fatto cosa?» Chiese poi Ophe con fare interrogativo. «Farmi una promessa e poi non mantenerla.» Sul viso pallido di Ivory si dipinse uno sghembo sorriso segno di un dispiacere interiore. «Ha preferito passare il Natale con la sua famiglia, non con me. Di nuovo». Ophe posò la mano sulla testa bionda, guardandola dispiaciuta. Ecco perché dopo le vacanze di Natale l'amica non si era minimamente preoccupata di farle la telecronaca di come aveva trascorso le vacanze.

Vedeva il padre una o due volte all'anno, se le andava bene.

A Iv mancava suo padre, anche per quel poco che ricordava da piccola: quando il giorno di Natale, la prendeva sulle spalle facendole appendere quei deliziosi addobbi.

L'amore non si compra con i beni materiali, ma il padre di Ivory, pensava il contrario, credendo di espiare le proprie colpe mandandole costosi regali. «Mi dispiace, Iv.». Ivory, rabbrividì stringendosi le spalle e mettendo le mani bianche e venose dentro il maglione di lana grigio per via d'un filo d'aria entrato dalla finestra aperta dal bidello della scuola; il rigido clima di Gennaio, post vacanze di Natale si faceva sentire. «Andiamo, dai. Non voglio metterti nei guai», disse poi la bionda, avviandosi per il corridoio.

 

«Griffin?!» «Presente!».

«Simons?!» «Presente!».

Le figure delle due ragazze sviarono a sedersi ai bianchi prima che l'occhio maligno della professoressa poté avvistarle.

«Delacroix?!» «Presente!». Ophe alzò la mano, senza accorgersi che era quella dove teneva il cellulare Nokia e72, vittima di cadute dal terzo piano. «Signorina, metta via quel cellulare se non vuol finire in detenzione.» Ophelia trasalì al richiamo della Raudelph, una professoressa tutta d'un pezzo.

L'insegnante finì l'appello iniziando una noiosissima lezione di anatomia.

Passò la prima, la seconda, la terza ora e quel maledetto DRIN sembrava non arrivar mai. Lo sguardo abbattuto di Ivory era rivolto verso l'orologio che ticchettava armoniosamente, accompagnato dal ticchettio che ella faceva con la penna sul banco. «Bene. Dividetevi in gruppi da due, e mi aspetto che domani, mi portiate una tesi scritta sull'argomento che ho spiegato oggi. Per approfondimenti, aiutatevi con i libri di testo della biblioteca.» si congedò poi l'occhialuta ed esile professoressa, appena in tempo che il suono della campanella potesse risuonare nelle aule causando un caos con gente che si ammassava per uscire dalla classe.

«Te hai capito qualcosa della lezione di anatomia?» la voce di Ivory richiamò Ophelia persa nei suoi pensieri più profondi dell'ora di ricreazione «Umh, come dici?», rispose, scuotendo la testa. Ivory riformulò la domanda. «Niente di niente.», replicò poi, posando gli occhi sull'ultima pagina del libro che stava leggendo “La Dama Che Dorme” di Poe, un autore che non giovava di certo alla sua psiche mentale. «Mi raggiungi in biblioteca pomeriggio?», domandò poi Ophelia con la sua flebile voce, non ricevendo una risposta dall'amica presa a scrivere su un foglio pentagrammato «Un altro tuo lavoro, mia cara?», Ophelia con un abile gesto strappò il foglio dalle mani all'amica e si mise a leggerlo, anche non sapendo leggere la musica. Non sapeva cosa ci fosse scritto su quel foglio, non ci capiva nulla con tutte quelle semibrevi, chiavi di violino, pause dell'ottavo; ma sapeva che se era ciò che aveva scritto l'amica era qualcosa di geniale.

«Sai, dovresti far ascoltare a qualcuno i tuoi lavori, credimi. Sono straordinari». Ivory si portò teatralmente una mano al petto, accennando un sorrisino compiaciuto.

«Lei mi lusinga, signorina Delacroix», disse facendo un finto tono modesto.

La fredda Von Droste era l'ambizione fatta persona, il suo ego era quasi al livello di quello di Roger Waters. «Beh, può darsi che tu abbia ragione.» continuò poi, sfilando il foglio dalle mani all'amica. «Ma.. non credo che qualcuno se lo filerà più di tanto. Cioè, guarda la gente.» esclamò, agitando le mani verso i propri coetanei di college «A nessuno ormai fila più niente della musica. Preferiscono star dietro quella Gangnam Style ballandola anche non capendone il significato e idolatrare cantanti di plastica che fanno canzoni più stupide di quelle che potrebbe scrivere una scimmia senza cervello che mangia banane.» continuò poi, parlando tutto d'un fiato e sistemando il proprio foglio pentagrammato dentro le pagine del quaderno d'inglese. «Farò per raggiungerti in biblioteca stasera, dopo che son passata da Stooges, per cambiare le corde alla chitarra.» Fece un salto scendendo dal tavolo della mensa e afferrando il proprio zainetto con su dipinti astronauti, pianeti e navicelle spaziali, lasciò sul banco la merendina che aveva preso prima, senza neanche un morso, intatta. Si sistemò il ciuffo versatile che ricordava sia dal colore che dai taglio quello del suo adorato Duca Bianco. «Ci vediamo, musona!» Si avvicinò all'amica scompigliandole il liscio ciuffetto mogano e sviando prima che lei possa proferire parola. «A stasera, Bowie. E non tardare!», esclamò Ophe con un tono di voce gradualmente più alto, osservando la figura dell'amica che si allontanava correndo tra la folla di studenti, come a fuggire.



Author's area. 

Salve a tutti! Vedete, era un noioso sabato sera e la connessione internet non predeva.
Quindi, ho iniziato a dare un'occhiata ai miei lavori di Word ed ho trovato questa bozza scritta qualche mese fa da me e dalla mia migliore amica.
Inizialmente mi è sembrata banale, scritta male, ma dopo averla riletta mi è sembrata carina. Perciò, senza il consenso della mia amica ho detto: "Massì, dai! La pubblico."
Ci teniamo molto a questa fan fiction, specie perché le due protagoniste sono i nostri alter eghi e perché tratta dei nostri idoli.
Spero vi piaccia, e preciso, ho fatto solo una prova, se mi dite che fa schifo... Non mi offendo. ;_;.

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Capitolo 3
*** Chapter two. ***


Strangers in the crowd.


 

 

«Ophelia. Ophelia De Lacroix. Guardi che c’è una ics alla fine.»
A sussurrare era una ragazza dai corti capelli mogano. Ophelia quel giorno aveva deciso di ritirare la tanto attesa tessera della biblioteca. Leggere, nel suo vocabolario, era sinonimo di respirare.
E la maestosità e il gusto retrò dell’imponente biblioteca di Londra sulla quarantaseiesima a est di Notting Hill era certo perfetta per un topo da biblioteca come lei. Aveva quasi dimenticato però che, come accadeva la più parte delle volte, gli inglesi non riuscivano a scrivere il suo cognome.
Cos'è che ci trovano di complicato non lo capirò mai, pensò ponendo la copia di “Il viaggio che non t’aspettavi”, del promettente Ruphus Smith, nella sua piccola borsa di velluto. Londra quel tardo pomeriggio era decisamente cupa. Il cielo non ne voleva sapere di mostrarsi in tutto il suo splendore ai suoi abitanti. Se ne stava rintanato tra le nuvole, forse amava giocare con il sole. Ma alla giovane non dispiaceva, amava le nuvole e soprattutto la pioggia, che non tardò ad arrivare. Si riparò sotto la tettoia di un piccolo ristorante italiano. Sentiva vociare i clienti, nonostante non capisse una parola di quello che urlavano. Sospirò guardando l’orologio: erano le dieci passate e di Ivory nemmeno l’ombra.
Ivory Von Droste era la sua migliore amica sin da data preistorica. Avevano condiviso praticamente ogni passo della loro vita, da quando Ophelia era giunta nella metropoli, ovvero alla tenera età di nove anni.
Quest’ultima era una bambina piuttosto silenziosa, non amava la compagnia, e sembrava detestare il contatto con gli altri bambini, e in più era francese. Ma ciò non servi ad allontanare Ivory che, anzi, le si avvicinò sin dal primo giorno, curiosa e attratta dalla nuova arrivata che borbottava parole incomprensibili.
La loro fu amicizia istantanea, nonostante l’enorme differenza di carattere. Ivory amava conoscere nuova gente, anche se non adorava ricevere complimenti dalla moltitudine di ammiratori che aveva, poiché nessuno di loro l’attirasse davvero. Ophelia, al contrario, aveva sviluppato al massimo il suo lato da solitaria perennemente in lotta col mondo intero. Ma ciò sembrava attirare ed incuriosire parecchi loro coetanei, che, invano, tentavano d’avvicinarsi e di socializzare con la “strana” della scuola. Ivory amava far credere loro che Ophelia era interessata alle loro spietate avances. Prendere in giro quei poveri creduloni era tra i suoi passatempi preferiti. A volte amavano rifugiarsi tra le fitte selve de boschi, appollaiate sui rami degli alberi a contare quanti cuori al giorno avevano infranto. In fondo erano molto diverse. Forse troppo.
Ivory amava Dante, Wilde, Shakespeare, il giapponese e Tim Curry. Ophelia stravedeva per Rimbaud, Poe, Baudelaire, le popolazioni celtiche e Jack Nicholson. Passavano ore a dibattere su argomenti quali la letteratura, la psicologia, ma soprattutto la musica. Sì, proprio la musica sembrava essere ciò che legava profondamente le due giovani amiche. Ascoltavano di tutto, tutto ciò che era buona musica. Andavano letteralmente matte per parecchi gruppi inglesi appartenenti all'era del grande rock’n’roll britannico. Ma i loro idoli, o meglio ispirazioni perenni, erano due artisti che, forse, nel loro presente, non erano abbastanza elogiati quanto lo erano stati nel passato: David Bowie e Lou Reed. Ivory sosteneva da sempre d'essere la copia esatta del Duca Bianco, sapeva che le loro affinità erano più che semplici coincidenze. Ophelia si limitava ad amare e venerare l’ex stravagante e rivoluzionario cantante dei Velvet Underground, nonostante si meravigliasse d’aver parecchie cose in comune con quell’uomo distante anni luce dalla sua vita.
Ciò che entrambe sapevano per certo era che quella, l’era moderna dalla facile vita e dal facile raggiungimento del successo, non era la loro era, assolutamente. Si sentivano sempre nel posto e nel tempo sbagliato, erravano come esseri senza meta in un mondo che probabilmente non sapeva nemmeno della loro esistenza. Ma non sapevano che quel freddo pomeriggio di un piovoso Venerdì londinese avrebbe cambiato la loro vita, per sempre. O quasi.

«Sì, sono in ritardo, e sì, sei incazzata nera. Ma un sorrisino me lo fai lo stesso?».
Ivory aveva sempre avuto un modo di fare tutto particolare. Sapeva sempre come farsi perdonare, e nel trovare scuse era la migliore.
Ophelia roteò leggermente gli occhi, poggiando il gomito sinistro sulla spalla dell’amica.
«Il tuo ritardo mi ha fatto pensare a dieci invitanti modi per poterti uccidere, dovresti essere in ritardo ancor di più di quanto tu non sia già, è bello pensare in tua assenza.»
Ivory le diede una gomitata accennando una risata.
«Leggere Poe ti fa male, lo sai, vero?»
«Lo so, ma lo leggo per trovare nuovi modi di tortura, mi rende così felice».
Ivory rise, aveva sempre pensato che Ophelia fosse strana, ma ciò non sembrava turbarla, dato che di stranezze e comportamenti anormali ne era lei stessa portatrice.
«Merda, se solo smettesse di piovere!», sbraitò Iv agitando entrambe le mani al cielo.
«Guarda cos'ho trovato in biblioteca, Iv.», sussurrò Ophe pescando tra la decina di oggetti ammassati nella sua grande borsa il libro di quel quasi sconosciuto Ruphus Smith.
«Ti pare questo il momento di leggere?», disse Iv, con un leggero tono d’ironia che Ophe sembrò ignorare.
«E' la soluzione ai nostri problemi.»
«Che stai blaterando, Ophe?»
«Guarda, leggi qua.»,rispose Ophe, puntando il dito nella prima pagina del voluminoso testo.
«'Dedicato a tutti coloro che nella propria vita non hanno mai trov..»
«No, non lì. Salta quel pezzo, leggi qui.», esortò Ophe, scendendo giù di qualche riga, e indicando un nuovo paragrafo.
Iv le rivolse un’occhiata confusa, per poi tossire e iniziare a leggere.
«'Ho trovato il modo per esaudire i vostri desideri più nascosti, ho trovato il modo per rendervi felici, ho trovato il modo per sfidare la scienza, non mi credete? Leggete queste righe, ad alta voce, pronunciando queste parole, ma attente, sarà un viaggio dal quale non uscirete facilmente, sì, mi riferisco a voi, Ophelia Delacroix e Ivory Von Droste..». Ivory s’interruppe, fece per dire qualcosa, ma Ophe le fece segno di proseguire.
«'Sono queste le parole, le amerete, le odierete, chi può saperlo, basta che le pronunciate: Diem ex die facultatem sentiendi augeo et veneficium penìtus didìco'.»
Non ci fu nemmeno il tempo di respirare, nemmeno il tempo di pensare che, una luce abbagliante quanto l’esplosione di un gas nocivo, le travolse in una voragine improvvisa.

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