Bar della Rabbia

di Trigger
(/viewuser.php?uid=120257)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giovanni grida solo per la via ***
Capitolo 2: *** Me ne andrò su una barca che vola ***



Capitolo 1
*** Giovanni grida solo per la via ***


01 - Giovanni grida solo per la via

 
Giovanni grida solo per la via: "Fermatevi! Parliamo di poesia!"
ma tutti vanno avanti, contano i contanti, 
minaccian di chiamar la polizia.
[1]

 
 
 


Giovanni era quel tipo di ragazzo che veniva emarginato da qualsiasi tipo di gruppo sociale: era stato allontanato dal gruppo del catechismo perché diceva in giro che se Dio fosse realmente esistito, allora tutti gli uomini avrebbero dovuto estinguersi già da tempo per via della loro malvagità; da quello di arti marziali perché si faceva pestare senza reagire, dal gruppo classe quando si andava in gita e dall’ospedale perché rubava morfina.

Giovanni era quello che solitamente viene definito reietto della società.

Aveva due occhi scuri come il petrolio e la pelle chiara come la luna, ma non era bello; i capelli gli ricadevano ricci e disordinati sulla fronte e le gambe erano così magre – così, fatte solo di pelle e qualche ossa – che sembravano non poter reggere il peso di tutto quello che Giovanni si trascinava dietro; al polso destro portava una catenina d’oro finissima che ogni tanto finiva per mangiucchiare e nella mano una raccolta di poesie di Baudelaire che aveva letto trilioni di volte, ma dalla quale non riusciva a separarsi. Sul petto aveva un tatuaggio fatto di cicatrici e dietro l’orecchio una bruciatura da sigaretta.

Apriva e chiudeva le dita della mano sinistra in continuazione, come se volesse afferrare qualcosa, o come se fosse in uno stato costante di tensione. Nessuno sapeva che Giovanni fosse mancino e che con quella mano passava le notti a scrivere – d’amore impossibile, d’odio, di rabbia e solitudine – sotto la luce di una lampadina quasi del tutto fulminata e con la schiena piegata sulla scrivania. Scriveva così tanto e così velocemente che la mano poi continuava a formicolargli per tutto il giorno.

Giovanni dentro di sé covava tanta – forse troppa – rabbia nei confronti del mondo intero, da quel giorno in cui aveva visto suo padre tirare uno schiaffo sulla guancia candida di sua madre. Aveva sì e no dieci anni e qualche mese e sua madre gli aveva appena regalato una raccolta di poesie scritte da Rodari. La sua preferita era L’avventura dello Zero, perché anche lui era alla ricerca del suo Uno personale.

A sedici anni poi aveva scoperto Baudelaire e a diciotto si era fatto scrivere con dell’inchiostro nero, sul collo: Hymne à la beauté. Nessuno capì mai quale significato nascosto ci fosse dietro quelle parole scritte in francese, perché era una città fatta di gente disinteressata, lavoratrice, persone che non avevano tempo per un po’ di cultura.

Non aveva mai avuto una ragazza, Giovanni, ma non gli importava. A lui piacevano gli uomini, ma non aveva avuto mai neanche uno di loro.

Passava i pomeriggi nel bar vicino al mare, a far finta di studiare per l’esame di letteratura inglese, con una maglietta sgualcita sui fianchi e due occhiaie violacee sul viso. Sembrava non dormisse mai e perfino il proprietario del locale aveva rinunciato a cacciarlo via, quando si rifiutava di prendere qualcosa da consumare e pretendeva comunque di occupare quel tavolino poco illuminato nell’angolo più solitario della stanza.

C’erano dei giorni in cui gli altri clienti potevano giurare di aver sentito quel ragazzo parlare tra sé, e altri invece, che credevano fosse muto. Loro la sua voce, non l’avevano mai sentita con chiarezza. Eppure Giovanni gridava. Gridava nella sua stanza, con il cuscino sulla faccia, ricordando le urla terrorizzate di sua madre e quelle astiose di suo padre; gridava per la strada, alle cinque del mattino  ripetendo i versi delle poesie più sconosciute, barcollando su piedi instabili qua e là, con un po’ di alcol nel sangue e nel fegato; e gridava nella sua testa, quando i pensieri erano troppi e ingombranti s’accavallavano tra loro.

Giovanni gridava, ma nessuno ascoltava.

Non si era mai presentato a qualcuno in particolare, eppure tutti conoscevano il suo nome. A volte la gente cercava d’evitarlo per via di quello strano sguardo che t’incollava addosso e sembrava scavarti fin dentro le ossa.

Solo una persona aveva il coraggio di cercare costantemente quegli occhi: Pietro.

Pietro era il fratello maggiore di Giovanni, ma neanche questo poteva essere affermato con certezza. La famiglia da cui  provenivano era sempre stata avvolta di un tale mistero da inquietare tutti, al punto da essere quasi sempre al centro di pettegolezzi infondati, inventati per passare il tempo di fronte ad una tazza di tè fumante.

Di Pietro non si conosceva nulla - se non che fosse un ex-tossico – perché lo si vedeva in giro soltanto due volte all’anno: il 14 di aprile e il giorno di Natale, insieme a Giovanni naturalmente.

I due non parlavano molto, eppure sembravano legati da qualcosa di più forte di semplici parole. Pietro e Giovanni sembravano condividere le stesse emozioni, come fossero un’unica persona, e di solito, quando erano insieme, entrambi s’illuminavano di una luce diversa da quella della solitudine. Una luce fatta del ritrovo di due amici di vecchia data.

Anche Pietro pensava che Giovanni fosse un po’ strano, ma gli voleva bene e sembrava capirlo anche quando diceva cose di cui non capiva il senso. Era vero, Pietro si drogava ma aveva smesso quando Giovanni gli aveva detto delle cose che gli avevano segnato il cervello e il cuore. Ricordava bene la posizione del sole sull’acqua, di quel pomeriggio, allo stesso modo con cui ricorda gli occhi del fratello penetrargli la pelle.
 
- Giovanni, cosa stai facendo?
- Leggo.
Ma Giovanni non aveva alcun libro tra le mani bianco sporco, aveva dimenticato persino Baudelaire, quel giorno.
- Cosa leggi?
- Una poesia.
- E com’è?
- Triste.
- Dove stai leggendo questa poesia, Giovanni?
- Dentro i tuoi occhi e sulle tue mani.  
 
Pietro sapeva che doveva smetterla con tutto quello schifo, e lo doveva fare per se stesso e per suo fratello, che quando iniziava a leggere poesie tristi, dentro di sé, sulla pelle degli altri, su pagine ingiallite e stropicciate, voleva dire che non stava bene. Faceva così quando era ancora un bambino, e allo stesso modo continuava a farlo anche a venticinque anni. Era il suo modo di urlare il suo rifiuto verso il dolore. Leggeva cose tristi, e poi te ne parlava, perché non era capace di dire: mi stai facendo del male, lo stai facendo a te stesso e io sono stufo.
 
Per le strade buie della città vecchia, girava la voce che Giovanni fosse pazzo perché vedeva cose che non esistevano.

È un allucinato, completamente fuori di testa, dicevano.

Tutti parlavano, ma nessuno sapeva che Giovanni dietro quell'aria assente e un po' maledetta,  e quegli occhi scuri,  nascondesse nient’altro che l’anima allucinata più profonda della città.
 
 
 

 


[1] Citazione tratta dalla canzone “Svegliatevi italiani”, di Alessandro Mannarino.
 





Note random di un'autrice (?) a caso

Non vi biasimerei se, arrivati alla fine, vi foste chiesti una cosa del tipo: “E quindi?”, perché una volta terminata, me lo sono chiesta anche io. Giuro. C’è un nonsense di fondo davvero inquietante, lo so, ma ho voluto assecondare l’ispirazione del momento fornitami da Sonia, a cui dedico questa cosa e che ringrazio, perché tra una canzone e l’altra, è riuscita a farmi uscire da quel periodo di crisi che io e Word abbiamo attraversato durante i mesi precedenti.
 
Ma passiamo alle cose importanti, che io di deliri, ne ho scritti già troppi.
Le fotografie a inizio capitolo son state rubate dalla pagina Facebook Jack Batchelor Photography, che ringrazio per avermi fornito, inconsapevolmente, il volto di Giovanni.
La canzone di cui sopra,  di cui consiglio l'ascolto, è qui sul tubo.
Trovate semplicemente me, invece, qui allegata a qualche ritardo immenso o ad un dinosauro di peluche.
 
In conclusione, grazie a te, se hai avuto il coraggio di arrivare fino all'ultima riga.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Me ne andrò su una barca che vola ***


02 - Me ne andrò su una barca che vola



Solo me chiedo perché sto così bene co te 
Io che non ho paura nella notte scura 
A fa risse, guerre, scommesse, mille schifezze 
Tremo tremo forte fra le tue carezze [1]
 
 
 
Violacea era ormai la guancia che le dita di Veronica accarezzavano dolcemente; Andrea aveva quasi dimenticato come se la fosse procurata, quella ferita, lì cullato dal profumo di pesca che la pelle dei polsi bianchi della ragazza effondeva. 

Il tempo sembrava essersi bloccato e il ragazzo non riusciva a capire se quello che sentiva fosse freddo o caldo. L’unica cosa che riusciva a percepire distintamente, con gli occhi chiusi e un po’ gonfi, era il suono di una nenia forse infinita che gli si infrangeva sul naso, sulla bocca e sulla fronte. 
 
Avrebbe voluto chiederle di tacere e di ascoltare insieme il rumore del nulla, ma non ci riusciva. Era come incantato e non trovava la forza necessaria per dar fiato ai pensieri. 
 
Il dolore che aveva provato fino a qualche ora prima era scomparso, o forse solo aumentato al punto da non sentirlo più. Probabilmente era la costola. Ricordava bene il punto preciso di quel pugno inflittogli a tradimento, ma non gli importava. Sapeva che prima o poi sarebbe dovuto arrivare il momento e voleva non aver paura. 
 
- Perché piangi? – osservò sorpresa spezzando il silenzio di una quiete angosciante.
- È il vento. 
- Non si muove una foglia – disse lei sussurrando.
 
L’unica foglia che si muoveva era il suo corpo, tremante come fosse dicembre, tra le braccia troppo magre di Veronica, che nel frattempo continuava a cullarlo come fosse sua madre. Non cantava più, troppo concentrata a contare i frammenti di respiro che uscivano da quella bocca ancora troppo giovane per impallidire. 
 
- Perché piangi? – chiese Andrea.
- È il vento. 
- Non si muove una foglia. 
- Tu sì, però.
 
Andrea sentiva che per una qualche ragione non avrebbe avuto a disposizione molto altro tempo ancora, così avrebbe voluto baciarla, perché non l’aveva mai fatto e perché invece avrebbe dovuto.
 
Voleva baciarla su quella guancia arrossata e sul quel naso ghiacciato; voleva baciarle i polsi alla pesca e le dita sottili, e poi avrebbe voluto baciarla sulle labbra salate di quelle lacrime trasparenti che si ostinava a nascondere. Ma sapeva che non lo avrebbe fatto, era terrorizzato.
 
- Dove credi mi porterà?
- Chi?
- Il vento.
- In un posto sicuramente migliore di questo.
 
Me ne andrò su una barca d'argento 
Me ne andrò su una barca che vola 
Me ne andrò ma non resterai sola [2]
 
Era quasi l’alba e il cielo aveva quel colore indefinibile che sta tra il blu notte e il grigio del primo mattino e la sagoma scura di due ragazzi abbracciati giaceva immobile in riva al mare.
 
- Mi farò portare ovunque andrai tu. 








[1], [2] Citazioni tratte dalla canzone "Statte zitta", di Alessandro Mannarino.




Trigger LanaDelReymefaunbaffo Efp è qui!

Come al solito io le one shot così sole solette, proprio non riesco a lasciarle e quindi continuo a stravolgere canzoni meravigliose, come quella che cito questa volta e che potete trovare qui. Ho deciso di creare un'altra raccolta per poter mettere insieme questi piccoli frammenti che ogni tanto vengono fuori ascoltando l'album che dà il nome alla raccolta stessa.

Qui in mezzo ci sono io, versione dammiunalamettachemitagliolevene, ma pur sempre io. 

Quindi grazie a te, che sei arrivata/o qui ancora una volta.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1331856