Sogni di cristallo

di Edelvais
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Moonlight ***
Capitolo 2: *** Complicazioni ***
Capitolo 3: *** Scacco matto ***
Capitolo 4: *** Incubo ***
Capitolo 5: *** Reminescenze ***
Capitolo 6: *** Di racconti e confessioni ***
Capitolo 7: *** Quando la leggenda diviene realtà ***
Capitolo 8: *** How to save a life ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Moonlight ***


 Sogni di cristallo ~
 

 

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Prologo
••

 

 

È serena, la morte. Calda e accogliente.
Mi sentii avvolgere da un piacevole tepore, mentre avvertivo la mia anima volteggiare leggera, libera del fardello del mio corpo quasi spento.
La morte è la via più semplice; è un rifugio piacevole, dove i dilemmi e le preoccupazioni della vita perdono il loro peso, e la pace invade quel che resta di te.
Morire per salvare una persona che si ama: questo è sicuramente il miglior modo per andarsene.
Un attimo prima di raggiungere quell’armonia interiore, un solo pensiero sfrecciò nella mia mente: Jareth.


 

 
Capitolo I - Moonlight

•••
 

Quando aprii gli occhi, mi accorsi di avere il libro di fisica aperto appoggiato sul mio petto.
Era successo di nuovo.
Mi capitava spesso di addormentarmi nel pieno dello studio, specialmente se riguardava materie soporifere come matematica, chimica e fisica.
Alzai gli occhi al cielo, imprecando mentalmente contro il mio scarso autocontrollo.
Tra pochi mesi avrei avuto l’esame di maturità, ed io cosa mi permettevo di fare? Mi buttavo sfacciatamente tra le braccia di Morfeo, spedendo a quel paese lo studio.
Lanciai un’occhiata all’orologio allacciato al mio polso: segnava le nove e mezza di sera.
Storsi la bocca in una smorfia di disappunto, cercando di alzarmi dal divano.
Come se non bastasse, in quel momento qualcuno suonò al campanello, rievocando in me l’irritazione di poco prima.
«Arrivo, un momento!», gridai con voce ancora impastata dal sonnellino di una misera mezz’ora.
Prima di andare ad aprire controllai il mio stato, decisa per una volta a non dovermi scusare per essermi presentata in vestaglia da notte: solita camicia a scacchi di due taglie più grande e i jeans che tanto amavo. Sospirai, raccogliendo i miei lunghi capelli neri in una coda e aprii la porta.
Non feci nemmeno in tempo a sorprendermi che quattro ragazzi irruppero in casa mia senza troppi complimenti, con dei sorrisoni a trentadue denti stampati sui loro volti.
«Buon compleanno!», esclamarono in coro, reggendo tra le mani una piccola torta alla frutta, con sopra infilate diciannove candeline.
«Oh, ragazzi! Non dovevate, davvero, i-io sono-», cercai di ringraziarli, nonostante il mio malumore non fosse che aumentato vertiginosamente, ma Kristen mi interruppe, facendo scollare i suoi capelli corti e biondi in un cenno di diniego.
«Niente borbottii insensati il giorno del tuo compleanno. Ora soffia le candeline, ed esprimi un desiderio», ordinò perentoria.
Mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso. «Avanti ragazzi, non sono più una bambina, perché mai dovrei…»
«Taci e goditi la tua festa a sorpresa», esordì Joan, l’altra mia amica.
Jasper e Taylor annuirono, appoggiando le due ragazze.
Quei quattro sciagurati erano gli unici amici che ero riuscita a guadagnarmi al liceo, e non avrei mai tollerato di vederli delusi dal mio malessere.
Mi sforzai di sembrare entusiasta; in fondo, l’attitudine alla recitazione scorreva ancora nelle mie vene. «D’accordo, d’accordo. Grazie mille, maledetti disgraziati che non siete altro. Per poco non mi buttavate giù la porta!».
Accompagnata dalle loro risate spensierate, soffiai sulle candeline, ricordandomi con nostalgia di quando mia madre, Linda Williams, prima di lasciare me e papà per inseguire il suo sogno, mi incitava ad esprimere un desiderio.
Proprio mentre il mio respiro andò ad abbattersi contro le esili fiamme delle candele, un pensiero mi squarciò il petto in due, lasciandomi con gli occhi sbarrati e il battito del cuore a mille.
Jareth.
Nonostante una parte di me fosse orgogliosa di averlo sconfitto e di non avere più nulla a che fare con il Re di Goblin, l’altra scalpitava dalla voglia di rivedere il suo bel viso marmoreo, incorniciato da quella cascata di capelli biondi e stravaganti. Non l’avevo più visto da quell’avventura nel labirinto di quattro anni fa, ma avevo pensato a lui diverse volte.
«Ehi, stai bene?», domandò Kristen, sfiorandomi il braccio con la mano.
A quella ragazza non sfuggiva nulla. Non che non fosse abbastanza evidente il mio sgomento, ma aveva un’innata quanto irritante propensione a cogliere all’istante lo stato d’animo delle persone che la circondavano. In quel momento detestai con tutta me stessa il suo acume e la mia incapacità a celare le emozioni forti.
«S-sì», replicai dopo alcuni secondi.
Squadrai le espressioni dei miei amici, certa di non avergliela data a bere.
Invece, contro le mie pessimistiche aspettative, notai che avevano riacquistato l’allegria di poco prima.
«E ora», esclamò Joan, prendendo la torta e infilandola accuratamente nel freezer sotto il mio sguardo perplesso. «Andiamo a divertirci!».
Quell’affermazione mi atterrì: per loro “divertirci” significava discoteche, musica a tutto volume e alcol a fiumi. Storsi le labbra in una malcelata smorfia di disapprovazione. Dopotutto dovevo aspettarmelo.
Odiavo quei posti. Nonostante i locali che frequentavano i miei amici trasmettessero buona musica rock, non potevo sopportare tutta quella confusione.
Prima che potessi protestare mi trascinarono di fuori, nel freddo pungente di Marzo, costringendomi a salire in macchina senza anche solo provare a lamentarmi.
«Sarà bellissimo! Visto che non sei mai voluta venire con noi, questa volta obbedirai senza fare storie, okay?».
Avrei tanto voluto rispondere di no, rientrare in casa e tuffarmi nella lettura fino a quando i miei occhi non avessero implorato pietà, ma non volevo spezzare il loro entusiasmo.
Avevo sempre rimandato ogni volta che avevano provato a invitarmi in posti del genere. Forse quel giorno era meglio dargliela vinta.
Sbuffai nella mia mente, cercando di calmare l’ansia che cresceva impetuosa.
In fondo, cosa mai sarebbe potuto succedere?
In quel momento il mio sguardo cadde sulla camicia di due taglie più grande e sui jeans maltrattati dal tempo. Non mi avevano nemmeno lasciato il tempo di cambiarmi. Per poco non uscivo in pantofole!
Jasper frenò all’improvviso, annunciando l’arrivo a destinazione.
Con un entusiasmo che non avrebbero invidiato nemmeno gli zombie, seguii i miei amici all’interno del locale, il cui nome era illuminato da mille luci intermittenti colorate: “Magic Dance”.
Non appena lessi l’insegna lo stomaco mi si chiuse in una morsa dolorosa.
Erano le parole della canzone che il Re di Goblin aveva cantato a mio fratello, mentre io cercavo di disegnare delle frecce sulle mattonelle per orientarmi. Ricordavo che la sua voce melodica era giunta persino alle mie orecchie, nonostante il castello distasse chilometri.
Scossi la testa, certa di stare impazzendo, ed entrai.
Joan e Taylor si precipitarono subito nella pista da ballo, mentre Jasper si diresse verso il bancone del bar.
Kristen invece rimase accanto a me.
«Mi vuoi spiegare cosa ti è successo prima in casa? Sei sbiancata all’improvviso, e sembrava che stessi per svenire da un momento all’altro!».
Sapevo che prima o poi mi avrebbe chiesto una motivazione, perciò durante il tragitto mi ero preventivamente preparata una risposta plausibile.
«Oh, be’… Nulla di cui preoccuparsi: mi ero dimenticata che Karen e mio padre fossero usciti portandosi dietro anche Toby, e in quel momento mi sono preoccupata del fatto di non essere andata a controllare se stesse bene… Lo sai, ha solo cinque anni e-».
Kristen m’interruppe, sorridendo. «Ti sei di nuovo addormentata sul divano, eh?».
Annuii arrossendo, lieta del fatto di aver eluso qualsiasi sospetto fosse nato nella sua mente.
«Dai, adesso andiamo a scatenarci!», esclamò prendendomi per mano e trascinandomi nella pista.
Palesemente a disagio, anziché tentare qualche approccio come invece stava facendo Kristen, mi guardai in giro, spaesata.
Notai un gruppetto di tre ragazzi, più grandi di me di qualche anno, che mi stavano squadrando con insistenza. Mi voltai, cercando di capire cosa mai avesse attirato il loro sguardo su di me, conciata com’ero, invece di mirare a qualche preda più appariscente e dagli abiti decisamente più provocanti.
Sperai di essere soltanto oggetto delle loro risate per quanto riguardava il mio abbigliamento da campagnola, ma i loro erano ghigni ambigui e spaventosi.
All’improvviso le casse sputarono una nuova melodia, più lenta della precedente, che mi fece sobbalzare.

 
As the pain sweeps through                                          
Quando il dolore si insinua
Makes no sense for you                                                Non significa niente per te
Every thrill has gone                                                   Ogni fremito è passato
Wasn't too much fun at all                                            Non era poi così divertente
But I'll be there for you                                                Ma ci sarò per te
As the world falls down                                                Quando il mondo cadrà giù



Sgranai gli occhi, sull’orlo di una crisi isterica: quella era la canzone del ballo!
La voce era così simile alla sua che quasi non svenni per lo sgomento.
Feci per dirigermi all’uscita – avevo un palese bisogno di rinfrescarmi le idee all’aperto e respirare aria pulita – ma Jasper mi afferrò per un polso.
«Dove credi di andare? Non starai mica scappando!», disse ridendo.
«Non preoccuparti, torno fra un momento, ho solo bisogno d’aria».
Un impellente bisogno d’aria, avrei aggiunto.
Uscii dal locale quasi correndo, e dovetti reggermi al muro per non stramazzare per terra. Le mie gambe tremavano, minacciando di cedere, ed ero sicura che il mio viso non avesse un aspetto migliore. Cercai di calmarmi, ordinando al mio corpo di rispondere ai comandi, e cominciai a camminare con andatura piuttosto incerta.
Due passi mi sarebbero serviti per schiarirmi le idee.
Ad un tratto una risata sguaiata mi distolse dai miei pensieri, obbligandomi a voltare le spalle in quella direzione. Il mio volto diventò ancora più pallido di quanto lo era già, non appena riconobbi i tre ragazzi che mi fissavano nel locale.
Stupida, stupida, stupida Sarah!
Dovevo aspettarmelo.
Terrorizzata, accelerai il passo, intenta a raggiungere l’angolo della strada.
«Ehi, dolcezza, dove stai andando?», gridò uno di loro.
Con ogni probabilità erano ubriachi fradici. La mia solita fortuna!
Svoltai l’angolo, sperando di incontrare qualche buon’anima che potesse trattenere quei bifolchi dall’aggredirmi in presenza di testimoni.
Il sangue mi si raggelò nelle vene quando notai con orrore che mi ero intrappolata da sola: era un vicolo cieco. Avvertii di nuovo le loro risate sguaiate, e li vidi avvicinarsi sempre di più a me.
Ero come un topolino messo alle strette da tre gatti selvatici affamati: senza possibilità di scampo.
«Oh, eccoti qui!».
«Temevamo di perderti».
Le loro parole mi giunsero taglienti alle orecchie, fendendo l’aria.
Li vidi avvicinarsi sempre più, fino a fermarsi a circa due metri da me. Con il cuore a mille, mi appiattii contro il muro alle mie spalle, con gli occhi sbarrati dal terrore.
«Non avere paura», disse il più alto dei tre sfiorandomi la guancia con la mano.
Rabbrividii sotto il suo tocco ruvido, scatenando l’ilarità dei miei assalitori. Cercai di trattenere le lacrime, mantenendo un po’ della dignità che mi rimaneva, e alzai gli occhi al cielo.
In quel momento vidi un rapace solcare l’oscurità della notte, volteggiando con decisione sopra le nostre teste.
Lo riconobbi subito: era un barbagianni.
Contemporaneamente una sfera di cristallo rotolò fino ai miei piedi, suscitando confusione e perplessità nei tre ragazzi.
All’improvviso il barbagianni scese in picchiata verso di noi, e un momento prima di piombare sull’asfalto una nuvola di polvere scintillante si disperse nell’aria, scoprendo poco a poco una figura familiare.
«Jareth», sussurrai con gli occhi sgranati.

 

•••












 



Buongiorno/sera a tutti! Finalmente — e purtroppo per voi  — sono riuscita a pubblicare il prologo e il primo capitolo di questa long che mi ronzava in testa da un sacco di tempo. Dopo aver vagato senza meta su Tumblr alla ricerca di nuove immagini su cui fangirlare, presa dall'ispirazione ho deciso di buttarmi in questa nuova impresa: la mia prima long su Labyrinth.
Spero di aver attirato la vostra attenzione, e ovviamente spero anche che vi sia piaciuto quello che ho scritto. 
Al prossimo capitolo ^^

P.s. Nimuecal, spero tanto che l'attesa sia valsa questo capitolo! Grazie per la fiducia e per il sostegno 
 

 

 

 















 

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Capitolo 2
*** Complicazioni ***


 Sogni di cristallo ~
 

 

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Capitolo II - Complicazioni

••

 
 
 
Stavo sognando?
Lui si voltò verso di me, stiracchiando le labbra sottili in un sorriso compiaciuto.
«Buon compleanno, Sarah. Mi sembri un tantino pallida, sei sicura di stare bene?», ghignò divertito.
«Potrei stare meglio», borbottai asserendo ai tre, che nel frattempo scrutavano la nuova comparsa con rabbia.
Il Re di Goblin si voltò a esaminarli, scuotendo la testa.
«Come temevo», mormorò. «Avanti, mostrate a Sarah la vostra vera forma… Demoni Nephilim».
Rischiai veramente una sincope quando quelli che all’apparenza sembravano umani, si trasformarono in esseri demoniaci dai denti affilati come rasoi. La loro pelle diventò di un colore tendente al bordeaux, e i loro occhi parevano ardere come delle fiamme.
«Resta dove sei, Sarah», m’intimò Jareth.
D’un tratto il mago evocò una sfera di cristallo dalle sue dita, e la lanciò in aria, facendo comparire un bastone infuocato. Si lanciò addosso ai tre demoni, colpendoli con l’arma.
Notai con stupore che non appena le fiamme sfioravano la loro pelle, essi si dissolvevano nell’aria come cenere, senza nemmeno emettere un solo suono.
Jareth era impegnato a difendersi da uno dei due che rimanevano, e non si accorse di quello che strisciò fino ad arrivare a due spanne da me, pronto ad affondare il pugnale che teneva in mano nel mio petto. Proprio quando realizzai di essere spacciata, mi ricordai dell’accendino che avevo messo in tasca dopo aver acceso le candeline della torta.
Lo afferrai con decisione, riuscendo a schivare l’affondo del demone per un soffio, e lo lanciai acceso contro di lui.
Mi coprii il volto mentre la creatura si dissolveva in un mare di polvere scura, e tossii, ancora incredula dell’accaduto.
Jareth si voltò in quel momento, dopo aver finito l’ultimo dei tre demoni, e mi raggiunse.
«Tutto bene?», domandò divertito, scrutando la mia espressione scandalizzata.
Se non fossi stata appena assalita da un gruppetto di demoni e non avessi avuto gli arti letteralmente paralizzati, l’avrei schiaffeggiato volentieri per la sua insolenza.
«Come ho già detto potrei stare meglio».
Lui rise, suscitando per la seconda volta la mia irritazione.
«Vieni, dobbiamo andarcene da qui».
Mi afferrò per un polso, cercando di trascinarmi altrove, ma io mi opposi con fermezza.
«Non se ne parla! I miei amici mi stanno aspettando».
D’accordo, tre demoni avevano appena tentato di uccidermi e quello che alcuni anni prima aveva tentato di trasformare mio fratello in uno gnomo si era materializzato davanti a me senza alcun preavviso, quindi era fondamentale trovare un posto sicuro al più presto prima che altri esseri mostruosi potessero riparare agli errori dei loro “colleghi” infernali. Tuttavia fuggire in quel modo lasciando i miei amici con la preoccupazione della mia scomparsa non mi sembrava per niente giusto.
«Capiranno, in fondo sanno benissimo quanto fossi ansiosa di tornare a casa».
Tentò di nuovo di schiodarmi da lì, ma non cedetti.
«Ho detto no! Se vuoi che ti segua devo prima avvisarli».
«Sarah…».
Non sfidarmi.
Si avvicinò lentamente, piantando il suo sguardo di ghiaccio nel mio.
«È un ordine, non una richiesta. Perciò ora niente storie, li contatterai domani… forse».
Inarcai un sopracciglio. «Come sarebbe a dire forse?».
«Perché fai tanto la difficile? Se sto cercando di portarti via dalla tua squallida compagnia di amici, un motivo ci sarà!», sbottò al limite della pazienza.
«E quale sarebbe questo motivo?!».
«Non posso parlarne qui. È rischioso».
Assottigliai lo sguardo in un’espressione irremovibile.
Jareth allargò le braccia, esasperato. «Hai appena rischiato la vita per colpa di tre demoni e ti preoccupi del fatto che i tuoi amici, nonostante siano troppo occupati a imbottirsi di alcolici, potrebbero accorgersi della tua assenza?».
Sospirai, acconsentendo; in effetti, non potevo dargli torto. «D’accordo, ma prima dimmi dove intendi portarmi».
«A casa tua», rispose come se fosse la cosa più ovvia.
«Come? Tra poco meno di un’ora arriveranno i miei genitori! Non posso nasconderti».
«Oh, lo farai, invece», s’impose con aria minacciosa. «Sarah, è una cosa seria. Sei in pericolo».
Sbuffai, incrociando le braccia. «Fino a qui c’ero arrivata. Sai com’è, sono appena stata attaccata da tre creature demoniache», borbottai.
Lui sorrise beffardo. «Ti farà piacere sapere che quelli non sono nulla in confronto a ciò che ti dà realmente la caccia. Ora sbrigati».
Senza inveire inutilmente lo condussi fino a casa mia.
Dopo venti minuti di camminata silenziosa e furtiva, entrammo nel salotto, e gli feci strada fino in camera mia. Era strano stargli accanto in quel modo, dopo l’avventura nel Labirinto, senza la costante paura che possa soffiarmi Toby da sotto il naso.
«Bene, ora vorresti spiegarmi chi e perché mi sta dando la caccia?», domandai.
Jareth si era appoggiato con la schiena al muro, giocando distrattamente con una sfera di cristallo che faceva ondeggiare con abilità sulle mani. Rimasi rapita da quei movimenti così fluidi e rapidi che tanto mi erano mancati in quegli anni, finché non si decise a rispondermi.
«Dunque, ricordi quando, quattro anni fa, mi dissi di non avere alcun potere su di te?».
Annuii, leggermente irritata dal suo tono accusatorio.
«Bene. Dopo che te ne sei andata riprendendoti il marmocchio, il mio Labirinto si è rivoltato al suo Re, causando l’ira di Zephit, mio padre. Egli non ha sopportato la mia sconfitta e soprattutto ritiene noi due responsabili della ribellione del Labirinto».
Prima che potesse proseguire lo interruppi, confusa. «E perché mai a tuo padre dovrebbe interessare tutto ciò? Voglio dire, invece di perseguitarti dovrebbe cercare di aiutarti a rimediare. E poi in che senso si è rivoltato?».
«L’Underground non è come il mondo dove vivi tu. Mio padre è totalmente indifferente alla carica di figlio che ricopro io, e si ricorda di ciò solamente per questioni politiche. Proprio per quest’ultima ragione vuole punire i responsabili della rivolta del Labirinto, in modo da mettere ordine al caos che è nato nel mio Regno. E per punire, intendo uccidere. Per rivoltato intendo proprio che il Labirinto si è ribellato alla mia persona, cambiando la propria morfologia e diventando un luogo ostile a chiunque, persino a me».
«E solo uccidendoci il Labirinto tornerà com’era?», domandai scettica.
Insomma, cos’avevo combinato di male, oltre a voler riprendere mio fratello dalle grinfie del Re di Goblin? Nulla. E lui mi stava accusando ingiustamente.
«Esatto, mia preziosa. Vedo che cominci a capire».
«Ma è una cosa assolutamente insensata! Perché gli interessa tanto il tuo Labirinto? Ma, soprattutto, cosa c’entro io? Non mi sembra di aver fatto nulla di male».
Jareth si allontanò dal muro, avvicinandosi a me con passo lento e sfrontato.
«Ah, non hai fatto nulla di male, dici. A me pare proprio il contrario, visto che non solo non ti sei accontentata di riprenderti il bambino, corrompendo i miei sudditi con stupidi braccialetti di plastica, ma hai anche fatto in modo di mettermi contro il mio stesso Labirinto».
Il suo volto minaccioso era a due spanne dal mio, e potevo sentire il suo respiro pungente solleticarmi il collo. Questo era troppo. Mi considerava colpevole della rovina del suo Regno?
«Come puoi dire una cosa simile?! Io mi sono solo ripresa mio fratello!», protestai puntandogli un dito contro.
«Certo, potevi benissimo accontentarti di questo e andartene, ma non l’hai fatto».
«Come sarebbe a dire-», ribattei infuriata, ma lui m’interruppe, impassibile.
«Tu non hai alcun potere su di me», sorrise senza entusiasmo. «Ricordi?».
«Ma come…».
«A causa di quella frase, il mio Labirinto si è ribellato al mio potere, approfittando della mia sconfitta. Sono ancora il sovrano di Goblin, ma il Labirinto non mi appartiene più».
Abbassai lo sguardo, aggrottando le sopracciglia.
No, non poteva essere…
«Non l’avrei mai pensato», sussurrai fissando il pavimento.
«Ah, non pensavi?».
Quelle parole risvegliarono la memoria della notte del rapimento di Toby, quando a quindici anni mi resi conto del terribile errore che avevo commesso a sfidare inconsapevolmente il mondo della magia, formulando quelle maledettissime parole.
 
«Non credevo mai…»., cercai di giustificarmi, con voce traballante.
Sentivo gli occhi inumidirsi, mentre la vista si faceva più offuscata.
«Ah, non credevi?», sibilò l’essere che si stagliava in tutta la sua regale altezza davanti a me, un’insignificante ragazzina che aveva osato sfidarlo, ma che alla fine era persino riuscita a sconfiggerlo.
 
Ritornai alla realtà di camera mia, posando lo sguardo su quello che in passato era stato mio avversario, e che pochi minuti prima mi aveva salvato la vita. «E sentiamo: perché sei venuto qui?».
«Per proteggerti», ammise voltandosi a passeggiare per la mia stanza. «E per reclamare il tuo aiuto».
«Il mio aiuto?», domandai scettica.
«Esattamente. Per far sì che il Labirinto ritorni sotto il potere della mia famiglia, l’alternativa alla nostra morte è questa: noi due dobbiamo sconfiggere mio padre».
«E perché tuo padre?».
Sentivo la testa girare, sovraccarica d’informazioni che non riuscivo ad incastrare tra loro. Insomma, tutto ciò non aveva alcun senso.
«Perché è lui che ci vuole morti».
«E come dovremmo fare?», mi arresi. «È proprio necessaria la mia presenza?».
«Certo, mia cara. A meno che tu non voglia versare il tuo sangue per il bene della mia famiglia», rise lui. «In ogni caso non possiamo affrontarlo ora. Posso avere di nuovo accesso all’Underground soltanto durante l’Equinozio di Primavera».
«Perché mai? Il tuo caro papino ti ha buttato fuori dal tuo mondo?», domandai con sarcasmo.
«Precisamente, mia preziosa. Zephit mi ha bandito persino dalla mia città, in modo che possa trovare due piccioni con una fava; infatti, sa perfettamente che se riesce a scovare me, ti troverà in mia compagnia e a quel punto potrà soddisfare la sua sete di sangue».
Mentre parlava era tranquillo, come se non rischiasse affatto di perdere la pelle da un momento all’altro.
«E perché puoi tornare nel Sottosuolo soltanto il 20 di Marzo?».
Jareth sbuffò. «Quante domande, non ti facevo così interessata», sorrise beffardo. «Durante l’Equinozio l’esilio non varrà più, ed io sarò libero di recarmi nell’Underground. Ma non oltre la mezzanotte del 20 Marzo».
«E come faremo ad andarci?».
«Ancora ho dei dubbi a riguardo; non penso che sia immediato come al solito. Ti ho contattata anche per questo: aiutarmi nelle ricerche. Dobbiamo trovare un metodo per varcare la soglia dell’Underground».
«E nel frattempo dove pensi di andare? Manca una settimana all’Equinozio».
«Mia cara, sarò tuo ospite! Pensavo l’avessi capito».
Proprio quello che temevo.
«Oh no, tu non resterai qui per una settimana! Ti ha dato di volta il cervello? Che cosa racconto ai miei genitori?», sbottai gesticolando.
Il Re di Goblin si avvicinò di nuovo, prendendo una ciocca dei miei capelli tra le dita guantate.
Un brivido freddo corse per la mia spina dorsale quando avvertii il suo sguardo lambire la mia pelle.
«Potresti presentare loro il tuo spasimante segreto proveniente da una città distante», sussurrò al mio orecchio. «E avvisarli che si fermerà a casa tua per qualche giorno, per motivi che inventerai».
Storsi le labbra in una smorfia di disapprovazione e scossi la testa. «Non se ne parla».
«Non mi sembra una cattiva idea».
«Oh, certo. Mamma, papà, vi presento il mio ragazzo, di cui non vi avevo parlato prima d’ora perché la nostra relazione si basa su una lunga serie di segrete corrispondenze epistolari, dato che non viviamo nella stessa città», esplosi con pungente sarcasmo, allargando le braccia. «E poi non voglio fingermi la tua ragazza; Karen incoraggerebbe sicuramente un bacio».
Jareth sorrise, malizioso. «E tu non vorresti baciarmi?».
Arrossii di colpo, visibilmente in imbarazzo. «Cosa…? No! Assolutamente!», gridai.
In quel momento sentii la porta di casa aprirsi.
«Sarah, siamo tornati! C’è qualcosa che non va?». Era mio padre.
«Sono arrivati! Presto, fuori da qui prima che ti vedano», dissi, sperando di eclissare il discorso del bacio.
Jareth non se lo fece ripetere e, una volta trasformatosi in un barbagianni, volò fuori dalla finestra, appollaiandosi su un ramo.
Robert entrò un secondo dopo, sorridendomi. «Ciao, Sarah! Trascorso bene il compleanno?».
I miei amici l’avevano sicuramente informato della sorpresa che avevano intenzione di farmi.
«Sì, papà. È andato tutto meravigliosamente», mentii.
«Ne sono felice. Be’, buona notte tesoro».
Mio padre uscì dalla stanza, e nello stesso istante il Re di Goblin riapparve al mio fianco, facendomi sobbalzare.
«Com’è che non ti credo?», mormorò divertito.
«A che proposito?».
«Riguardo al fatto che non desideri baciarmi».
Decisi di ignorarlo, placando a fatica la voglia di fargli passare quel sorrisetto derisorio.
Mi buttai sul letto, sotto il suo sguardo indagatore. «Che hai da guardare? Voglio dormire, lasciami in pace».
«Sta bene», rispose tranquillo, sedendosi e appoggiando i piedi sulla mia scrivania.
Gli lanciai un’occhiata torva. «Togli subito i tuoi sudici stivali da lì».
Invece di obbedire incrociò le mani dietro la nuca, cominciando a dondolarsi sulla sedia.
Sbuffai, certa che avrebbe finito soltanto qualora avessi deciso di scaraventarlo giù con la forza.
Ma ero troppo stanca per discutere con lui; tutta quella storia di demoni e regni in contrasto mi aveva sfinita, per non parlare dell’ombra che minacciava le nostre vite.
«Sono curiosa di sapere come farai a dormire così», borbottai con la testa schiacciata contro il cuscino.
«Mia cara, a differenza di voi umani, io non necessito di dormire con la vostra stessa frequenza. Anzi, potrei persino evitarlo, per noi Sidhe non è un bisogno impellente».
Le sue parole mi parvero quasi sussurri, e proprio quando stavo definitivamente scivolando nel sonno, avvertii i suoi passi diretti verso di me, seguiti dal suono melodico della sua voce, le cui note s’intrecciavano in una nenia che mi accompagnò tra le braccia di Morfeo. 











Bene, rieccoci con il secondo capitolo! Mi dispiace aver atteso tanto, purtroppo ho passato una settimana d'inferno, e non ho avuto molto tempo per revisionare e pubblicare. Spero mi perdoniate ^^
Anyway, fortunatamente Jareth è intervenuto da bravo cavaliere prima che fosse troppo tardi, salvando Sarah dalle grinfie dei Demoni. Più avanti chiarirò anche i vostri dubbi su questi ultimi esseri, non temete! 
Spero di non avervi deluso! Fatemi sapere cosa ne pensate :)

Un grazie enorme a chi segue questa storia e a voi che recensite, mi ha fatto davvero molto piacere ricevere le vostre recensioni. 
Grazie di cuore!






 
 

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Capitolo 3
*** Scacco matto ***


 Sogni di cristallo ~
 

 

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Capitolo III - Scacco matto

••

 
 

Sbadigliai, cercando di fare mente locale.
«Mi sono addormentata di nuovo sui libri?», domandai a me stessa, con voce impastata dal sonno.
«No, quello è successo ieri sera prima della festicciola con i demoni», rispose una voce vicina al mio orecchio.
Sobbalzai, colta talmente di sorpresa che quasi rischiai di cadere dal letto.
«Ma cosa… Oh, no. Allora non era un sogno», sospirai riconoscendo il Re di Goblin.
Per un momento avevo creduto che i ricordi della sera prima fossero solo frutto dei miei sogni.
Ma dato che il destino si divertiva a prendersi gioco di me, ovviamente era tutto reale. Persino l’irritante, seppur bellissima, faccia da schiaffi del Re di Goblin.
Lui sorrise, palesemente divertito. «Non mi avevi mai detto che parli nel sonno».
Sgranai gli occhi. «Cosa? Io non parlo nel sonno!».
«Oh, sì, invece», sogghignò, cominciando a passeggiare per la stanza. «È stato molto interessante ascoltare i tuoi deliri; prima farneticavi cose senza alcun senso, parole di dubbia esistenza. Poi mi hai nominato…».
M’irrigidii, desiderando ardentemente sprofondare in una fossa per non tornare mai più in superficie. In un modo o nell’altro riusciva sempre a trovare il modo per umiliarmi: quattro anni prima rinfacciandomi il sogno perverso di una quindicenne di ballare con una sorta di principe azzurro- nonostante Jareth non fosse sicuramente l’esempio migliore - come nelle fiabe che leggevo da bambina, e ora informandomi che – dopo aver passato la notte divertendosi ad ascoltare i miei vaneggiamenti – aveva sentito emergere dalle mie labbra il suo nome.
Per la prima volta non seppi cosa rispondere; un po’ a causa dell’intontimento post risveglio domenicale, e un po’ perché effettivamente ero a corto d’idee per ritorcergli contro quella meschina frecciatina.
«Allora… Mi presenti ai tuoi, oggi?», continuò imperterrito nel suo piano di abbattere la mia poca pazienza.
«Sei un mio vecchio amico, di un anno più grande di me, del corso di teatro che ho frequentato due anni fa, in cerca di un appartamento in affitto per l’università, e nel frattempo verrai a stare da noi».
Certo, non era una motivazione brillante, ma sicuramente Karen non avrebbe avuto nulla in contrario, fissata com’era sul fatto che dovessi stare più spesso con gli amici.
Jareth annuì. «D’accordo. Dato che questo non è uno dei problemi maggiori, possiamo accontentarci», si avvicinò alle mie spalle, aggiungendo una punta di malizia nel suo tono. «Anche se avrei preferito che venissi presentato con una definizione più importante».
Sbuffai, esasperata.
«Vedi di muoverti, e rimedia anche una valigia. Io vado a fare colazione».
Lui sorrise, trasformandosi in un barbagianni e volando fuori dalla finestra.
Scesi di corsa le scale e raggiunsi la cucina, dove trovai i miei genitori.
«Buon giorno, cara!», squittì Karen mentre serviva il caffè a mio padre.
«Ciao Karen, ciao papà», salutai, incerta se avvisarli del nuovo ospite oppure fare loro una sorpresa.
Poi scelsi la prima opzione, onde evitare occhiatacce assassine da parte di Robert.
«Ehm…», cominciai, tamburellando sulla superficie lignea del tavolo. «Vi ricordate di quel corso di teatro che frequentai due anni fa?».
I due presenti annuirono, perplessi.
«Be’, avevo conosciuto un ragazzo…», proseguii altalenante. Chissà perché le parole si rifiutavano di uscirmi di bocca.
«Hai uno spasimante?», m’interruppe immediatamente Karen, elettrizzata dall’idea che la sua figliastra diciannovenne finalmente si fosse decisa a impegnarsi con qualcuno.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo. «No, è solo un caro amico», in quell’istante vidi il suo entusiasmo sfumare fino a spegnersi, e potrei giurare di aver intravisto una smorfia di delusione sfrecciare sulle sue labbra. «Dopo quel corso si è dovuto trasferire a Medford* a causa del lavoro di suo padre. Ci siamo sentiti qualche volta per telefono o per corrispondenza, e proprio qualche giorno fa mi ha rivelato di voler frequentare l’università qui a New York l’anno prossimo, però ha bisogno di trovare un appartamento, e mi ha chiesto se nel frattempo per cinque o sei giorni posso ospitarlo. Insomma, per voi sarebbe un problema se rimanesse qui per… circa una settimana?».
Karen e Robert si scambiarono una rapida occhiata, ancora confusi.
«Certo cara, ma perché non l’hai detto subito?», fu Karen a rompere l’imbarazzante silenzio creatosi nella cucina.
 «Be’, io non…». Io non avrei mai pensato di rivederlo, continuai nella mia mente.
Il suono del campanello accorse in mio aiuto. Ringraziai mentalmente Jareth del tempestivo intervento, sospirando di sollievo.
«Vado io, è sicuramente lui».
«È già qui?», sentii borbottare mio padre alle mie spalle.
Mi affrettai ad aprire, pronta psicologicamente per la messa in scena.
Come piano non era effettivamente il meglio che il mio intelletto poteva concepire, ma sempre meglio che fingersi la sua ragazza per poi subire le sue frecciatine derisorie.
Karen e mio padre mi seguirono, appostandosi alle mie spalle, curiosi.
Spalancai la porta, rivelando ai due spettatori la figura alta e slanciata del Re.
Rimasi sorpresa quando mi resi conto che stava indossando vestiti umani: jeans attillati, maglietta bianca, una giacca di pelle nera e gli immancabili stivali. All’apparenza, chiunque l’avrebbe scambiato per una rock star, con i capelli che si ritrovava.
«Salve, Signori Williams. Ciao, Sarah».
La sua voce si era fatta improvvisamente morbida e cortese. Rimasi quasi più sorpresa dei miei genitori a sentirlo parlare così dolcemente.
«Ciao, ti stavamo aspettando. Entra pure», cominciai a recitare la mia parte, facendolo accomodare dentro casa.
«Karen, papà, vi presento Jareth».
Il Re di Goblin strinse la mano ai miei genitori, sorridente. Karen, dopo aver superato il pizzico di timore che emanava la figura misteriosa di Jareth, sembrava piacevolmente colpita, e avrei scommesso la testa che stava mettendo in dubbio che non fosse il mio spasimante segreto.
Come biasimarla! Jareth non vantava certo una particolare simpatia ma, in quanto essere magico plasmato dai miei sogni di ragazzina, era sicuramente bello, e sicuramente non le sarebbe dispiaciuto averlo come genero.
Mio padre sorrise di rimando al mago, cercando di scavare nei suoi occhi spaiati alla ricerca delle risposte alle domande che preferiva non esternare. Era sempre stato un uomo piuttosto riservato, Robert, soprattutto con gli sconosciuti.
«Piacere di conoscervi, signore e signora Williams».
«Il piacere è nostro, figliolo», aveva ribattuto mio padre.
«Vi ringrazio per avermi permesso di alloggiare qui fino a quando non troverò una sistemazione».
Riuscii a malapena a trattenere le risate che l’assurdo tono formale che Jareth aveva assunto mi stava suscitando.
«Oh, non ti preoccupare, è un piacere! Sarah, accompagna Jareth di sopra, e fallo pure sistemare nella camera degli ospiti», disse Karen, liquidando i suoi ringraziamenti con un gesto della mano.
Annuii, fingendo di fare strada al Re di Goblin, mentre lui mi seguiva fino nella stanza degli ospiti, sghignazzando sommessamente.
Quando fummo al sicuro dagli ascoltatori indiscreti che erano i miei genitori, scoppiai a ridere.
«Piacere di conoscervi, Signore e Signora Williams», esordii imitando la voce formale ed educata che Jareth aveva assunto poco prima.
Lui stiracchiò le labbra in un sorrisetto beffardo. «Non sei l’unica in grado di recitare bene, qui».
Lo ignorai, appollaiandomi sul balcone della finestra. «Bene, ora che tutto è sistemato, avrei un altro paio di domande da porti».
Jareth alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla, esortandomi a continuare.
«Dunque, ricapitolando, tu hai detto che tuo padre si è arrabbiato per via della rivolta del Labirinto e ora ci da la caccia per rimettere le cose a posto», feci una pausa, aspettando la conferma di Jareth. «Ma quando è successo tutto questo?».
«Poco tempo dopo la tua vittoria».
«E perché mi hai cercato solo ora? Insomma, sono passati quattro anni!».
«Sarah, io posso presentarmi davanti a te solo se chiamato».
Solo se chiamato? Ma io non avevo affatto invocato il suo nome!
Aggrottai le sopracciglia, confusa. «È impossibile, non ti ho mai nominato».
Lui sorrise beffardo, alzandosi dal letto sul quale era comodamente seduto.
«Ricordi la sera del tuo compleanno, vero?», cominciò fermandosi davanti alla finestra, scrutando il sole mattutino che illuminava il cortile di casa.
Annuii. «Certo, è stato ieri».
«In quel caso, hai desiderato inconsciamente di rivedermi quando hai soffiato sulle candeline», spiegò, crogiolandosi nel piacere di avermi umiliato per l’ennesima volta. Odiavo quel suo comportamento. In quelle poche ore che fino a quel momento avevamo passato insieme, se avessi contato tutte le volte in cui l’avrei schiaffeggiato volentieri per la sua sfrontatezza, mi sarebbero occorsi almeno due giorni.
«No, non è vero…», borbottai, testarda. Non gliel’avrei data vinta anche questa volta.
«E invece sì, mia preziosa, altrimenti non sarei qui», sussurrò a due centimetri dal mio viso.
Si allontanò quasi subito, lasciandomi con il respiro mozzato e il battito del cuore totalmente fuori controllo.
Scacco matto.
«Comunque, hai avuto un tempismo perfetto, vista la situazione», ricominciò a passeggiare lento per la stanza, facendo dondolare il frustino nella mano destra. «Durante questi anni sono sempre riuscito a stroncare la vita di quei demoni alla loro nascita, riuscendo a prevedere le loro mosse, ma in quest’ultimo caso mi colsero di sorpresa, e non mi rimase che la speranza che mi chiamassi prima del loro attacco. E così hai fatto, per fortuna».
Sgranai gli occhi, fissandolo interdetta. Durante questi quattro anni era rimasto qui, nell’Aboveground, a setacciare la città in cerca di quei demoni aspettando che lo invocassi? Se il suo nome non mi fosse saltato in mente mentre soffiavo sulle candeline, a quell’ora mio padre avrebbe dovuto prepararmi il necrologio.
Tuttavia, anche se in parte gli ero debitrice per avermi protetto da quegli esseri demoniaci, l’istinto omicida che preservavo nei suoi confronti non sarebbe scemato così facilmente.
«Cosa… Cosa sono esattamente quei demoni? Chi li crea?», ripresi a sfoderare il mio repertorio di domande. In fondo, se ogni minuto che passava rischiavo di morire, meritavo delle delucidazioni.
«Sono i Nephilim, demoni leggendari creati con l’unico scopo di uccidere. Sono anche dei sicari, nati dal soffio dei quattro maghi più potenti del Sottosuolo, e mio padre è uno di essi. Non sono altro che nebbia, al loro stato primario, e per assumere una forma concreta hanno bisogno di esseri umani dall’anima particolarmente vuota e corrotta, come quei tre ragazzi. Una volta insinuatisi nel corpo di un uomo, sono pronti ad attaccare, con un unico pensiero in testa: uccidere. Non sono difficili da contrastare, poiché se anche solo sfiorati dalle fiamme ritornano al loro stato primordiale, lasciando liberi i mortali che li ospitavano nel loro corpo».
«Quindi anche se sconfitti con il fuoco non muoiono definitivamente, da quanto ho capito».
«No, ma sono totalmente innocui. Non sono altro che anime perse nella nebbia, poiché possono insinuarsi nelle vesti di un uomo soltanto una volta sola. Se riescono ad adempiere la missione loro affidata, sono liberi di continuare a vivere in quel corpo nel Sottosuolo, continuando a servire il loro padrone. Altrimenti si dissolvono nell’aria, confondendosi con la fumata grigia dei vostri camini».
Rabbrividii, ripensando ai volti mefistofelici dei demoni che mi volevano morta.
Il Re sorrise della mia reazione. «Non temere; se sono riuscito a tenerti in vita per questi lunghi anni senza farmi mai vedere, salvaguardare la tua pelle sarà ancora più facile ora che mi hai chiamato e posso tenerti sotto controllo da vicino». Si riavvicinò a me, sussurrando in tono di sfida. «Sarà proprio un gioco da ragazzi».
«Invece non sarà proprio un gioco da ragazzi affrontare l’ira funesta di Kristen», bofonchiai, conscia del fatto che fra poco avrebbe cercato in tutti i modi di vedermi, anche a costo di sfondare a calci la porta d’ingresso. «Chissà cos’avranno pensato, per colpa tua».
«Colpa mia? Mia cara, sei stata tu ad allontanarti dal locale».
«Ma sei stato tu a spingermi a farlo! Scommetto che la canzone che avevano trasmesso in quel momento era opera tua».
Jareth alzò il mento con fare altezzoso, ghignando divertito.
«In effetti sì, sono pronto ad assumermi questa responsabilità. Ma ancora non comprendo il motivo per il quale hai reagito così».
Sospirai, destando il ricordo delle ultime settimane che mi avevano fatta penare. Sicuramente era tutto opera di Jareth, che sperava di riuscire a farmi desiderare il suo ritorno sbattendomi in faccia il ricordo della sua voce…
«Nell’ultimo periodo mi pareva di star diventando matta; sentivo la tua voce rimbombarmi in testa fino a farmela scoppiare, ogni volta che accendevo la radio trasmettevano canzoni simili a quelle che avevi cantato quattro anni fa nel Labirinto… L’unica cosa che mi poteva dare conforto, i miei vecchi amici, non rispondevano più alle mie chiamate imploranti, non apparivano più nel mio specchio. Si sono fatti vivi soltanto la stessa sera in cui ti avevo sconfitto, poi più nulla».
Era tutto vero. Da molto tempo ormai non riuscivo più a contattare Hoggle, Sir Dydimus e Ludo.
All’improvviso la loro memoria m’illuminò gli occhi, accendendoli di una preoccupazione incalzante. Mi alzai bruscamente dalla sedia, prendendo il Re di Goblin per le spalle.
«Dove sono i miei amici? Il Labirinto ha fatto loro del male? Sono finiti in qualche trappola, oppure catturati da quei demoni? Anche loro mi hanno aiutata a vincere, è possibile che siano stati presi di mira come noi». Quella raffica improvvisa di domande colse di sorpresa Jareth.
Quest’ultimo, divertito, posò gli occhi sulla stretta delle mie mani sulle sue braccia ed io, imbarazzata, lo liberai subito, indietreggiando.
«I tuoi amichetti del cuore stanno bene», fece una pausa, guardandomi dritta negli occhi. «O almeno fin quando io ero ancora a Goblin. Sono passati quattro anni, Sarah, non posso sapere cosa sia accaduto laggiù. In ogni caso, rimane una città protetta dalla mia magia e, nonostante non viva lì da un po’ di tempo, è sempre sotto il mio potere. Per questo posso quasi assicurarti che con ogni probabilità sono al sicuro».
Emisi un sospiro di sollievo, lasciandomi cadere di nuovo sulla sedia.
«Hai detto che la città è ancora sotto il tuo potere… Allora perché non puoi ritornarci?».
«La città è in mio potere, ma non il passaggio tra i nostri due mondi. Sono stato bandito dall’Underground per volere di mio padre, ma Goblin è una parte di me. Nessuno può sottrarla al  mio potere».
Annuii, pensierosa, e in quel preciso istante la mia matrigna bussò alla porta.
«Sarah, scusa l’intrusione, c’è una tua amica alla porta!».
Oh, no. Non ero ancora pronta ad affrontare Kristen. «D’accordo, arrivo subito».
Jareth scoppiò in una risata sommessa, mentre mi fissava, a braccia conserte, pensare ad una possibile scusa. «E ora che le racconto?!», sbottai allargando le braccia, nervosa.
«Un’idea ce l’avrei, ma dovrai presentarmi anche a lei», replicò, sorridendo sornione.
«Va bene, qualsiasi cosa pur di evitare una sua predica», taglia corto guidandolo in salotto.
Trattenni il respiro e aprii la porta, rivelando la piccola figura di Kristen, il cui viso era piegato in un’espressione crucciata.
«Sarah! Allora sei viva», esordì puntellando i pugni chiusi ai fianchi. «Se non avevi voglia di passare la serata con noi potevi dircelo, invece di dartela a gambe in quel modo e-», all’improvviso venne interrotta da una voce pungente alle mie spalle.
«L’ho costretta io a tornare a casa», disse, tagliente.
Il suo tono era stranamente diverso da quello che aveva usato con i miei genitori, e non riuscivo a comprenderne il motivo.
Lei rimase visibilmente interdetta, e la vidi indietreggiare impercettibilmente sotto lo sguardo di ghiaccio di Jareth. «E-e lui chi sarebbe?».
«Lui è Jareth, un mio vecchio amico. L’ho incontrato ieri sera mentre ero fuori dal pub, quando mi sono sentita male. Ha visto come stavo e ha insistito a scortarmi a casa», spiegai gesticolando.
«Oh… Come ti senti ora?».
«Sto meglio, grazie ».
«Be’, mi dispiace che ti sia sentita male, ma avresti dovuto avvisarci! Ci siamo preoccupati», continuò Kristen, imperterrita. Ormai ero abituata alla sua insistenza, ma evidentemente il suo comportamento urtò la poca pazienza di Jareth, che sbuffò rumorosamente alle mie spalle.
Gli avrei tirato una gomitata, se solo non fossi stata ancora intontita dal risveglio.
La ragazza spostò lo sguardo sul Re di Goblin, visibilmente indispettita.
 «Hai ragione, mi dispiace». Piantai lo sguardo sinceramente dispiaciuto su quello di Kristen, la quale sorrise, abbracciandomi di slancio.
«Non preoccuparti, ora è tutto a posto», poi mi si avvicinò all’orecchio, sussurrando in tono malizioso. «Ah, non sarà il massimo della simpatia, ma almeno è carino! Poi mi spiegherai meglio».
Quando si sicolse dalla stretta mi strizzò l’occhio, ridendo della mia espressione confusa, e corse via.
«Ci vediamo domani a lezione!», esclamò svoltando l’angolo della via.
Mi voltai non appena avvertii Jareth sghignazzare sommessamente, palesemente divertito dalla battuta della ragazza, che con ogni probabilità era riuscito a sentire.
«Carino?», ironizzò. «Non ho mai sentito un eufemismo di simile portata».
«L’eufemismo sta nella frase “non sarà il massimo della simpatia”, invece. Sei davvero, davvero irritante», ribattei incrociando le braccia, in segno di sfida.
Lui avvicinò il volto al mio, e per l’ennesima volta mi persi nelle sue iridi spaiate e cristalline.
«Sarah», sussurrò. «Non sfidarmi».
Sorrisi a quell’affermazione, mentre il ricordo del Re di Goblin che rivelava ad una me quindicenne di aver rapito Toby, riaffiorava nella memoria.
La voce di mio padre mi distolse dai miei pensieri. «Qualcosa non va?».
Sussultai, allontanandomi d’istinto da Jareth. «No, tutto a posto. Kristen è appena andata via».
«Oh, d’accordo», rispose venendomi incontro insieme alla moglie. «Be’, io e Karen andiamo a prendere Toby da zia Sophie a Manhattan, saremo di ritorno tra una o due orette».
«Okay, a dopo», salutai.
«Ciao ragazzi!», trillò Karen prima di uscire dalla porta seguita da mio padre, chiudendosela alle spalle.
«Toby…», mormorò Jareth. «Sono curioso di vedere quant’è cresciuto quell’ometto».
Sorrisi, per la prima volta intenerita dalle sue parole. Sapevo che mio fratello gli stava a cuore, e, in un certo senso, si somigliavano molto. «Ha cinque anni, ora».
«Cinque anni… Come scorre veloce, il tempo». Continuava a parlare sottovoce, tra sé e sé, come se stesse chiacchierando con un amico dei vecchi tempi e delle avventure vissute insieme.
Sembrava si fosse completamente dimenticato della mia presenza, mentre passeggiava tra i mobili del salotto.
«Questa è tua madre?», domandò improvvisamente, spezzando il silenzio che incombeva nella stanza.
Annuii, affiancandolo. Jareth era in piedi davanti al camino, osservando una a una tutte le foto riposte nel pianale in mattoni, e si era imbattuto in una vecchia foto che ritraeva me appena nata tra le braccia di una donna dai capelli corvini: Linda Williams.
La sua bellezza scultoria mi provocò una crepa nel petto, come se all’improvviso si fosse riaperta una ferita ormai quasi rimarginata. La foto era in bianco e nero, ma i suoi occhi verdi risplendevano come due fari in piena notte, emanando luce propria, e i lineamenti morbidi e regolari scandivano la perfezione del suo viso marmoreo.
Il Re di Goblin sembrò notare la fitta di dolore che mi aveva assalito, ma non cercò di deviare il discorso, come invece qualsiasi essere umano con un briciolo di pietà avrebbe fatto.
«Ti somiglia molto», continuò imperterrito, senza scollare gli occhi dalla foto.
Fui seriamente tentata di scoppiargli a ridere in faccia, ma riuscii a trattenermi, limitandomi a inarcare un sopracciglio, incredula. «Hai bisogno degli occhiali, per caso?».
Lui si voltò verso di me, accigliato. «E per quale assurdo motivo? Ci vedo benissimo».
Sorrisi con amarezza, tornando a esplorare i dettagli della foto, ignorando la stilettata che mi stavo infliggendo da sola. Ormai ero abituata a sopportare il ricordo dell’abbandono da parte di mia madre, ma in quel momento ‒ per qualche strana ragione – mi parve impossibile frenare l’impulso di sfogarmi, lasciando che le lacrime mi rigassero le guance.
Cercai di trattenermi, ma ormai i miei occhi cominciavano a bruciare, offuscandomi la vista.
«Lei è diversa da me», risposi con il tono di voce traballante. «È talmente bella…».
Il mio sussurro malinconico fece sorridere Jareth, che mi squadrava con l’aria di chi sa di essere preso in giro. «Forse è a te che servono gli occhiali, mia preziosa».
«Siamo così simili soltanto perché ho ereditato da lei il colore degli occhi e dei capelli», protestai.
«Siete così simili perché avete la stessa determinazione nello sguardo, e scommetto anche la stessa cocciutaggine».
«Forse è vero, ma io non avrei mai abbandonato la mia famiglia per inseguire un sogno nel cassetto», replicai sprezzante, tornando a sedermi nella poltrona.
 La memoria di quel giorno si faceva sempre più nitida, abbattendo ogni sorta di muro che avevo eretto nella speranza di proteggermi da quel ricordo.
 
Avevo solo cinque anni, quando ti vidi oltrepassare la soglia di casa, per non tornarci mai più.
«Tesoro, la mamma deve dirti una cosa», avevi detto con tenerezza, prendendomi le manine piccole e paffute fra le tue, e portando il tuo bellissimo viso all’altezza del mio.
«Vuoi dirmi che mi vuoi bene? Io lo so già», avevo risposto con allegria, totalmente ignara di cosa sarebbe successo di lì a poco. Un momento prima avevo visto mio padre dirigersi in bagno con aria assente e con sguardo vacuo, ma ero solo una bambina, cosa avrei mai potuto intuire?
Il tuo sorriso amaro mi spaventò. «Sì, Sarah, ti voglio molto bene, più di quanto immagini. Però non è questo che volevo dirti», diventasti seria, e non allontanasti lo sguardo dal mio fino a quando non terminasti di parlare. «Vedi, piccola mia, io me ne devo andare. Ho deciso di inseguire un sogno che ho nel cuore fino a quando ero una bambina come te, e finalmente mi si è presentata l’occasione di realizzarlo. Ma per fare questo sono costretta a lasciare te e il papà».
Avevo le piccole dita serrate sulle tue mani, come se la debole stretta di una bimba di cinque anni potesse servire a trattenerti dall’abbandonarmi.
Intanto sentivo le lacrime bagnarmi le guance, mentre cercavo di trattenere i singhiozzi.
«No, Sarah, non devi piangere», sussurrasti cullandomi tra le braccia, mentre con le dita tracciavi con delicatezza i lineamenti del mio viso, quasi a volerteli imprimere nella memoria. «Sarò sempre con te, nel tuo cuore».
«T-t-tornerai, vero? Starai via poco e poi tornerai da me, giusto?», biascicai.
«Certo, tornerò, te lo prometto», mentisti, cercando di calmarmi.
Cominciasti a intonare una canzone, finché il suono della tua melodica voce non placò il mio pianto, facendomi sprofondare in un sonno profondo.
La mattina dopo te n’eri già andata, decidendo che sarebbe stato meno doloroso per entrambe recidere il filo che ci univa con un taglio netto.
 
In quel momento il rumore della porta d’ingresso che si apriva mi riportò alla realtà, e solo in quel momento mi accorsi di star piangendo sommessamente, sotto lo sguardo impassibile di Jareth.
Ignorando lui e cercando di asciugarmi le lacrime con la manica della camicia, mi alzai in piedi, pronta ad accogliere il mio fratellastro.
«Siamo tornati!», esordì la voce di Karen.
«Sarah!», strillò Toby correndomi incontro.
Prima che potessi ricambiare il saluto, fui assalita da quel terremoto di mio fratello, che mi stritolò in un forte abbraccio, ridendo spensierato.
«Ehi, piano! Non respiro», scherzai sciogliendomi dalla stretta. «Allora, sei stato bene con la zia? Era da molto tempo che non la vedevi».
Toby fece una smorfia, scuotendo la testa. «Non smetteva di stritolarmi le guance!».
Risi immaginandomi la scena.
«Sarah, io e Karen usciamo di nuovo; dobbiamo comprare un regalo di matrimonio per tua cugina».
Annuii. «Va bene, baderò io a Toby».
«Cara, vi ho lasciato dei tramezzini sul pianale della cucina per pranzo. Noi mangeremo fuori», m’informò Karen, per poi salutarci. «Ciao, ragazzi!»
I due si chiusero di nuovo la porta alle spalle.
Avvertii i passi di Jareth alle mie spalle, e nel frattempo mio fratello aveva sgranato gli occhi in un’espressione di stupore.
«Ciao, Jar… Toby», si corresse sotto una mia occhiataccia.
Il bambino inclinò il capo, avvicinandoglisi curioso. Nonostante il suo aspetto il più delle volte suscitasse timore e inquietudine negli umani – e Kristen ne era la prova – Toby non sembrava nemmeno lontanamente spaventato dal suo tenebroso – seppur affascinante – aspetto. Da come lo guardava, sembrava lo conoscesse da sempre; un po’ era vero, dato che a un anno dalla nascita aveva passato quasi tredici ore con lui nel suo castello, ma di questo non poteva ricordarsi.
«E tu chi sei?», domandò aggrottando le sopracciglia, pensoso. Probabilmente stava scavando nella memoria, in cerca dell’evento nel quale aveva incontrato il Re di Goblin.
Quest’ultimo sorrise, chinandosi fino a portare il viso alla sua altezza. «Sei cresciuto molto, marmocchio. Comunque io sono Jareth», disse scompigliandogli i capelli.
Toby arricciò il naso alla parola “marmocchio”, poi si ricompose, illuminandosi.
«Sarah, è il tuo ragazzo?».
Arrossii violentemente a quella domanda improvvisa, mentre con la coda dell’occhio cercavo di fulminare il mago – il quale non si preoccupava nemmeno di reprimere l’impulso di scoppiare a ridere – con lo sguardo. «No, Toby, è solo un vecchio amico», spiegai reprimendo l’imbarazzo.
Dapprima parve indeciso se credermi o no, poi quando ebbe indagato per bene nei miei occhi, decise di fidarsi. «Andiamo al parco?», chiese infine, speranzoso.
«Prima dobbiamo pranzare», gli ricordai.
«E dai, ti prego ti prego ti prego! Io ho già mangiato dalla zia!».
Sbuffai, dirigendomi in cucina e ignorando il Re di Goblin, che osservava divertito la scena.
Probabilmente si aspettava che da un momento all’altro perdessi la poca pazienza che avevo, implorandolo di rapire di nuovo mio fratello.
«Tu sì, ma noi no», risposi.
«Io non ho fame», s’intromise Jareth, poi avvertii il suo sussurro all’orecchio. «Non ho bisogno di nutrirmi con la frequenza di voi umani».
Mi voltai immediatamente, furente, ma lui era troppo vicino e finii per perdermi nel mare dei suoi occhi spaiati, per l’ennesima, maledettissima volta.  Quasi mi dimenticai il mio nome, se solo Toby non l’avesse gridato con veemenza.
«Sarah! Per favore», implorò dal salotto.
Jareth sorrise, sempre più compiaciuto dell’effetto che aveva su di me; io intanto sentivo l’irritazione crescermi dentro, ansiosa di sfogarsi contro quel mago da strapazzo.
Ma come si permetteva? Certe volte proprio non riuscivo a comprendere la sua natura insolente.
Alla fine mi arresi, concludendo che effettivamente anche io – nonostante non avessi fatto nemmeno colazione – non avevo molta fame.
«D’accordo», sospirai. «Però mettiti la giacca, non si sa mai».
I nuvoloni che si avvicinavano minacciosi da Nord non promettevano per niente bene, e non avevo voglia di sorbirmi le lamentele di Karen in caso suo figlio si fosse ammalato.
Toby brontolò qualche «uffa», per poi obbedire, uscendo di casa seguito da me e Jareth.
Camminammo in silenzio, e finalmente arrivammo al parco nel quale recitavo da ragazzina.
Un impeto di nostalgia mi assalì, e d’istinto la mia mente volò a quella fatidica sera, quando vestivo i panni della protagonista di “Labyrinth”, la mia storia preferita, prima di desiderare che Toby fosse rapito dagli gnomi.
Mentre mio fratello si lanciava all’inseguimento di un malcapitato coniglio, sbucato improvvisamente da dietro una siepe, io e Jareth ci sedemmo sul bordo della fontana.
«Per colpa tua mi brontolerà lo stomaco per tutto il giorno», mi lamentai rimpiangendo il tramezzino che a quell’ora sarebbe dovuto essere già nella mia pancia.
Lui sogghignò, facendo comparire una sfera di cristallo tra le sue dita, e cominciando a farla roteare con maestria.
«Questo parco mi è sempre piaciuto».
Aggrottai le sopracciglia, perplessa. «Sei già stato qui?».
«Certo. Eri una brava attrice, sai?».
«E tu come fai a saperlo? Non mi hai mai vista recitare».
«Non ti facevo così stupida», inveì con un sospiro, fissando il vuoto. «Sei piuttosto lenta di comprendonio».
«Perdonatemi tanto, maestà, se il mio intelletto non può ambire al vostro livello», replicai sarcastica, offesa dalle sue parole affilate. «Vorreste, di grazia, spiegarvi?»
Lui sospirò. «Sarah, sforza la memoria. Non ricordi nulla del barbagianni che se ne stava appollaiato su quella colonna?».
Improvvisamente l’immagine del rapace si fece vivida nella mia mente, e ricordai di come il suo sguardo affilato m’incutesse timore.
Trasalii, sgranando gli occhi. «Eri tu?!».
Jareth annuì, sorridendo sornione. «Era il mio passatempo preferito, vederti impersonare le vesti delle eroine delle tue storie preferite».
«Ora si spiega perché ero così inquietata dal barbagianni», borbottai.
Il Re piegò le labbra in un sorriso sghembo, e in quel momento gli riconobbi la bellezza di cui vantava, e che era stata colta anche da Kristen. «Ora però sei cresciuta, Sarah. Hai rinchiuso in un cassetto anche la tua passione per la recitazione?».
«No, assolutamente. Nemmeno dopo l’avventura nel Labirinto ho smesso di sognare ad occhi aperti, e nonostante abbia ripulito la stanza dai miei vecchi balocchi, sono ancora schiava della mia immaginazione», confessai con un velo d’imbarazzo.
«Lo immaginavo», rispose Jareth, osservando la sua sfera fare capriole sul dorso della sua mano.


 



Buonasera ^^ Perdonate il ritardo, ma sono tornata solo ieri da un viaggio di una settimana a Londra, e non ho potuto aggiornare fino a oggi.
Bando alle ciance! Spero che questo capitolo non vi abbia deluso, e spero anche di aver accentuato la vostra curiosità sullo svolgimento della trama. Ringrazio tutti voi che state leggendo e anche chi recensirà. 

Al prossimo capitolo! 

 

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Capitolo 4
*** Incubo ***


 

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Capitolo IV - Incubo

••

 
 

 

Ero immobile, in un luogo sconosciuto, di cui conoscevo solamente la consistenza del pavimento sotto i miei piedi: pietra. Non riuscivo nemmeno a muovermi, ero come paralizzata.
All’improvviso un lampo di luce proveniente dall’alto si scagliò nello spazio davanti a me, rivelando una parete tempestata di specchi che riflettevano quel raggio accecante.
Grazie a quell’inaspettato riverbero, riuscii a distinguere una figura familiare, ad alcuni metri da me, che mi fissava con sguardo assente, scuotendo la testa con amarezza.
Feci per muovere un passo verso di lui, ma qualcosa mi bloccò. Un secondo dopo avvertii un dolore lancinante allo stomaco, e quando portai una mano alla sua altezza, la mia pelle urtò qualcosa di gelido e duro. Il manico di un pugnale. Lo stesso la cui lama aveva appena lacerato le mie carni.
Sopraffatta dal dolore e dallo sgomento, mi lasciai cadere in ginocchio, ansimando. Nel frattempo una maligna risata si propagò nell’aria, e giunsi alla conclusione che senza dubbio il suo proprietario era anche il mio assassino. E chiunque fosse, ora si stava dirigendo verso la persona che aveva scosso la testa quando aveva incontrato il mio sguardo.
Non poteva fare la mia stessa fine. Almeno lui doveva salvarsi.
Nonostante la mia impotenza, feci l’unica cosa che ero in grado di fare: gridare e sperare che seguisse il mio consiglio.
«Jareth, scappa!»
  
Mi svegliai di soprassalto, grondante di sudore, nel mio letto, e notai con disappunto che le lenzuola erano finite tutte per terra. «Che campo di battaglia», pensai ansimando.
All’improvviso sentii uno strano rumore alla finestra, e prima che potessi anche solo alzarmi per andare a controllare, il Re di Goblin spalancò le imposte, irrompendo in camera mia.
Rabbrividii e mi affrettai a chiudere la finestra.
«Sicura di stare bene, mia cara?», domandò esplorando la mia espressione stravolta dall’incubo.
«No, infatti. Stavo molto meglio prima che piombassi qui senza preavviso», borbottai di rimando. «Sai, esistono le porte».
«Mi hai chiamato».
«Assolutamente no!».
«Invece sì, altrimenti non mi sarei precipitato qui. Hai urlato il mio nome in maniera straziante; mi hai quasi rotto i timpani».
Arrossii violentemente. «Be’, è stato solo un incubo».
Il suo sorrisetto beffardo lasciò il posto a un’espressione preoccupata. «Cos’hai visto?!», esclamò prendendomi con forza per le spalle.
Allentò la stretta solo quando si accorse della mia smorfia di dolore mista a sorpresa.
Che senso aveva quella reazione?
«Be’, è stato solo un brutto sogno, niente di cui tormentarsi…», biascicai, ma lui m’interruppe, impassibile.
«Non è solo un brutto sogno!», sbottò esasperato. «Avanti, parla, ragazzina, prima che perda la pazienza».
L’hai già persa, la pazienza, gli avrei risposto acida.
Invece decisi di obbedire, sciogliendomi dalla stretta ferrea delle sue mani sulle mie braccia e mi sedetti sul letto, respirando a pieni polmoni. Lui rimase in piedi di fronte a me, immobile come una statua.
Finché non terminai il mio racconto, lui non si mosse di un millimetro, ascoltando attentamente ogni mia parola.
Quando finalmente conclusi, Jareth aggrottò le sopracciglia, tamburellando le lunghe dita sulle labbra, pensoso.
«Forse ho capito cosa significa», proruppe dopo alcuni minuti di silenziosa riflessione. «Ma dobbiamo fare una tappa nella biblioteca della tua città per averne la certezza».
«La certezza di cosa? Ti ricordo che tra quaranta minuti devo essere in classe. È Lunedì: io ho lezione!», protestai.
«È proprio indispensabile che tu vada? Ti ricordo che abbiamo dei potenti demoni alle calcagna, mia cara, e ogni indizio potrebbe esserci utile per salvare la pelle».
«Certo che è indispensabile! Fra poco meno di tre mesi avrò gli esami di maturità».
Il Re di Goblin roteò gli occhi, sbuffando. «Allora ci andremo dopo le tue lezioni», concluse.
 
Dopo aver buttato fuori dalla mia camera il mago, mi affrettai a cambiarmi, ripiegando la tuta che usavo come pigiama e indossando un paio di jeans chiari e un maglione di un tessuto piuttosto leggero, vista la stagione e il clima altalenante.
Scesi le scale e mi fiondai in cucina, consapevole di rischiare di arrivare a scuola in ritardo, e vi trovai Jareth, appoggiato con la sua solita indolenza al pianale del lavandino, a braccia conserte.
Notai con sollievo che i miei genitori erano già usciti per andare a lavoro, consolandomi del fatto che non avessero udito le mie grida di terrore causate dal sogno.
«Tu non mangi?», domandai mentre mi preparavo una tazza di cereali.
Lui lasciò che un sorriso sghembo sfrecciasse sulle sue labbra. «Mi sono già servito».
Indicò il bicchiere vuoto davanti a me. «Non male quel succo di frutta».
Cercai di trattenere una risata, mentre immaginavo il Re dei Goblin alle prese con un cartone di succo alla frutta. Una scena decisamente buffa e umana.
«Sai, Sarah, non sono poi così estraneo alle faccende umane», rivelò sedendosi di fronte a me.
Appoggiai il mento sulla mano, guardandolo con interesse. «Ah, no?».
Jareth scosse la testa. «Non da quando ho passato quattro anni ad osservarti, mia preziosa».
Sgranai gli occhi, atterrita. «Cosa?!», sbottai in un impeto di rabbia.
Lui non si scompose. «Tutto per la tua sicurezza».
Allora fino a quel momento aveva recitato… aveva finto sorpresa quando aveva visto me e Toby cresciuti rispetto alla nostra ultima avventura nel Labirinto…
Oh, no.  Questa non gliel’avrei fatta passare liscia.
«Tu hai mentito!», sibilai alzandomi e andandogli incontro.
«Sarah», sospirò. «Come potevo proteggerti le spalle senza guardarti crescere? Come pensi che avrei potuto difenderti da quei demoni senza mai vederti? Certe volte mi meraviglio della tua stupidità».
Quell’ultimo aggettivo mi fece ribollire il sangue nelle vene. Come osava darmi della stupida?
«Perché ti sei finto sorpreso di vedere me e Toby così cambiati? Illuminami, maestà, perché da sola non capisco», vomitai queste parole, acida.
«Speravo di evitare questa scenata, ma a quanto pare mi sono ingannato da solo, tirando fuori l’argomento», spiegò facendo spallucce. «E sinceramente non vedo cosa ci trovi di tanto clamoroso, visto che durante tutti questi anni non ho fatto altro che salvarti la vita».
Il fatto era che mi vergognavo terribilmente. Il solo pensiero di lui affacciato alla mia finestra mentre controllava se fossi al sicuro mi faceva arrossire violentemente.
«Conoscendoti non ti sarai di certo limitato a guardarmi le spalle», borbottai con sarcasmo.
Lui colse l’ironia al volo, e si alzò in piedi, avvicinandosi pericolosamente a me.
Con un sorriso beffardo portò una mano guantata al mio braccio, cominciando a tracciare delle linee astratte con l’indice. Io rimasi pietrificata, paralizzata dal suo sguardo ferino di ghiaccio.
Poi sollevò la mano, sfiorandomi una guancia, compiaciuto dell’effetto che sapeva di avere su di me.
«Che grande considerazione che hai di me» sussurrò piantando le sue iridi spaiate nelle mie. «E pensare che sei tu a modellare il mio essere con i tuoi sogni umani».
«I-io?», farneticai.
Lui sorrise, enigmatico. «Io sono un Fae, mia preziosa. Forgiato dai tuoi sogni».
Deglutii, ancora sotto l’ipnosi che i suoi occhi mi provocavano.
«Tremavi davanti a me, e io mi facevo più terrificante», citò a memoria la stessa frase di quattro anni prima. Rabbrividii a quel ricordo. «Io dipendo dai tuoi sogni e desideri».
Mi oltrepassò come se fosse stato un fantasma, come aveva fatto nella stanza di Esher, e lo sentii ridere canzonatorio alle mie spalle.
«Forse è meglio che tu vada, se non vuoi arrivare in ritardo alle tue preziose lezioni».
Mi ripresi improvvisamente dallo stato catatonico in cui ero caduta e portai lo sguardo all’orologio a pendolo nelle scale.
«Mancano cinque minuti!», gridai allargando le braccia, nervosa e irritata.
«Allora farai meglio a correre», suggerì ironico. «Penserò io a Toby».
«Se gli succede qualcosa giuro che non rivedrai mai più il tuo caro Labirinto!», sibilai uscendo di casa sbattendo la porta.
Per fortuna il liceo che frequentavo non era molto lontano, e impiegai circa un quarto d’ora per arrivare. Tuttavia ero comunque in ritardo, e dovetti sorbirmi le lamentele del professor Black, l’insegnante di biologia.
Mi sedetti al mio solito posto di fianco a Kristen e, guarda un po’, la fortuna volle che si fosse ricordata di ciò che era successo il giorno prima, e cominciò a tempestarmi di domande.
«Sei sicura che sia solo un amico?», chiese per l’ennesima volta, facendo quasi fatica ad associare la parola “amici” a me e Jareth. Insomma, per quale assurdo motivo tutti lo scambiavano per il mio spasimante segreto?
«Sì, Kris, te l’avrò ripetuto almeno venti volte», sbuffai esasperata.
Lei fece spallucce. «Però è un bel ragazzo, ammettilo».
Come darle torto? Jareth sapeva essere odioso e terribilmente irritante, ma in quanto ad avvenenza non potevo certo fingergli indifferenza. «Sì, d’accordo. È un bel ragazzo», acconsentii.
Kristen sorrise soddisfatta. «Secondo me tra voi due c’è o ci sarà qualcosa; il mio sesto senso non sbaglia mai».
«Be’, questa sarà un’eccezione, allora», brontolai di rimando.
«Williams, qualche problema laggiù in fondo?», mi riprese il docente, fissandomi da sotto i suoi occhiali rotondi.
«No, mi scusi», risposi scoccando un’occhiataccia a Kristen, che, finalmente, si decise a tenere la bocca chiusa e a seguire la lezione.
 
Le cinque ore trascorsero in fretta, e durante la mensa riuscii a scusarmi anche con il resto della comitiva, spiegando loro cos’era successo sabato sera. Jasper, Joan, Taylor e Kristen insistettero per accompagnarmi a casa - con ogni probabilità non vedevano l’ora di incontrare Jareth, di cui sicuramente Kristen aveva parlato loro senza il mio permesso - ma nel momento in cui varcammo la soglia dell’edificio scolastico, il mio cuore fece una capriola, mentre i miei piedi si rifiutarono di proseguire oltre.
Jareth se ne stava appoggiato al muretto di fronte all’ingresso con le braccia incrociate al petto, sorridendo sornione. Portava gli stessi abiti umani che indossava in presenza di altra gente.
«Ragazzi, guardate, è quello biondo laggiù!», bisbigliò Kristen ai tre alle mie spalle.
La ignorai e strinsi i pugni, architettando nella mia mente una maniera atroce e dolorosa per ucciderlo. Con poche grandi falcate lo raggiunsi, seguita a debita distanza dai quattro spettatori indesiderati.
«Si può sapere quale dei pochi neuroni che ti ritrovi ha dato il ben servito proprio oggi?», sibilai. «Cosa ti è saltato in mente?!».
Lui non si scompose. «Qual è il problema, mia preziosa?».
«Il problema sei tu! Non puoi presentarti qui davanti a tutti! Davanti a loro», precisai indicando i miei amici con lo sguardo.
«E perché mai?».
«Non fare il finto tonto! Lo sai cosa pensano di noi».
«E che male c’è? Hai paura dell’opinione altrui?», ribatté scostandomi delicatamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. A quel gesto avvampai, maledicendo lui e i mormorii maliziosi dei quattro.
«Dobbiamo andare in biblioteca, ricordi?», aggiunse.
«Un momento. Hai lasciato Toby a casa da solo?».
«È un ragazzino in gamba, non gli succederà nulla», rispose con tranquillità.
«COSA?!», strillai, poi abbassai la voce, ricordandomi di essere in un luogo pubblico. «Ha solo cinque anni, Jareth! Sei impazzito?! Come minimo sarà caduto dalle scale, avrà dato fuoco alla casa… ».
Cominciai a torturare nervosamente un lembo del maglione, pensando al peggio.
Jareth alzò gli occhi al cielo. «… Si sarà buttato dal divano senza paracadute», aggiunse ironico.
Gli lanciai un’occhiata di fuoco, facendogli passare la voglia di scherzare.
«Sarah, non è in casa», confessò alla fine.
M’illuminai, ricordandomi del fatto che anche lui andasse a scuola il Lunedì.
«Giusto», borbottai. Me ne ero completamente dimenticata.
Jareth rise sardonico, contento di avermi presa in giro per l’ennesima volta.
Fece per voltare le spalle, ma lo bloccai. «Prima devo dare spiegazioni a quei quattro, aspettami qui».
Certe volte proprio non li sopportavo; detestavo con tutta me stessa quando i miei amici si cimentavano nella parte degli “studenti impiccioni alla ricerca di nuovi gossip”.
Mi diressi verso di loro, scocciata.
«Il mio sesto senso non sbaglia mai», affermò Kristen ammiccando.
Scossi la testa, eclissando con un gesto quell’insinuazione. «Ragazzi, io devo andare. Non fatevi strane idee, per favore».
I quattro annuirono, incerti se credere o no alle mie parole. Con ogni probabilità non appena avessi volto le spalle, avrebbero cominciato a spettegolare, ma poco importava.
«A domani», li salutai senza entusiasmo, e loro ricambiarono con altrettanta euforia.
 
«Originariamente, secondo il folclore romano, un Incubo era un demone di aspetto maschile che giace sui dormienti, per trasmettere sogni cattivi agli umani,».
 «Nel sonno è abbastanza comune avere il respiro affannoso, fare brutti sogni. Ma quando a questo si aggiungono le vivide immagini della morte di persone care - o di noi stessi - si ha a che fare con un demone conosciuto come Incubo. Egli agisce durante la notte, avvolgendo le vittime con la sua aura negativa e intrisa di malvagità che istiga le menti umane a elaborare cattivi pensieri, che si trasformeranno poi nei sogni veri e propri che ci fanno svegliare di soprassalto, grondanti di sudore…».
Un brivido mi percorse la spina dorsale, mentre leggevo a Jareth cosa avevo trovato a riguardo del demone Incubo, che mi aveva ordinato di ricercare tra i libri della biblioteca.
Per un attimo rimase a fissare il vuoto, mentre tamburellava con le dita sulle labbra.
«Proprio quello che temevo», sospirò infine.
«Cosa significa tutto questo?».
«I demoni Incubo non possono nuocerti in alcun modo, ovviamente tranne privandoti di un sonno profondo e senza brutti sogni, ma ci hanno lanciato un avvertimento da parte degli altri sicari al servizio di mio padre: presto o tardi ci prenderanno, e allora sarà la fine».
«Questo lo sapevamo già», brontolai appoggiando il mento sulla mano.
«Più precisamente», continuò ignorandomi. «Mio padre intende ucciderci prima dell’Equinozio di Primavera».
«Perché?».
«Per il semplice motivo per cui non vuole che tu ed io ritorniamo nel sottosuolo a reclamare il Labirinto. A causa di tutto questo trambusto molti degli alleati di Zephit hanno preferito rompere il patto d’amicizia, minacciandolo di eventuali attacchi al suo regno. Questo perché non accettano il fatto che suo figlio, il sottoscritto, abbia violato la legge del Sottosuolo, lasciando che una quindicenne sovvertisse l’ordine del tempo nel suo Labirinto. In questo modo l’unica via che mio padre ha per riavere indietro i suoi alleati e salvare il suo regno, è ucciderci ».
Annuii, e mi lasciai sfuggire uno sbadiglio.
Jareth sorrise. «Già stanca?».
«Sono le sei. Siamo qui da più di tre ore», mi giustificai.
«Hai ragione, forse abbiamo esagerato perdendo la cognizione del tempo», si alzò, facendomi cenno di imitarlo, e uscimmo dalla biblioteca, diretti verso casa.
«Sara», esordì Jareth quando arrivammo in prossimità della via in cui abitavo.
Aspettai che proseguisse, incuriosita.
Poi sospirò, guardandomi dritto negli occhi. «I sogni provocati dai demoni Incubo spesso si dimostrano in parte veritieri, e si possono considerare premonitori. Non accade sempre, ma molte volte succede che le immagini si ripetano nella realtà, in un futuro prossimo».
Rimasi stupita dalle sue parole, ma ancor più dal suo tono che sfiorava la supplica.
Capii al volo cos’avrebbe aggiunto, ricordando la lama che mi aveva trafitta nel sogno, e un brivido di terrore mi fece accapponare la pelle.
«Nel tuo incubo stavi morendo», pronunciò quella parola con ribrezzo, come se temesse la mia morte più di ogni altra cosa. «Quell’essere ha fatto in modo di ferirti in modo letale».
Scrollai le spalle, ottimista. Quel sogno non era nemmeno lontanamente realistico: le immagini erano sfocate e imprecise. Come avrebbe fatto a verificarsi in un futuro prossimo?
Ormai eravamo arrivati, e prima che potessi bussare alla porta, Jareth mi afferrò le braccia in una stretta ferrea. «Prometti che starai attenta e non farai cose stupide».
Cosa gli era preso? Perché tutt’ad un tratto si preoccupava così tanto?
«Perché ti interessa così tanto la mia vita?», domandai per alleggerire la conversazione.
Mossa sbagliata; a quanto pareva l’aveva colta come una frecciatina maliziosa.
«Mia preziosa, senza di te non posso riavere indietro il Labirinto», sussurrò. Poi con il dorso della mano sfiorò leggermente la mia guancia, facendomi avvampare. «E comunque, non permetterei mai che ti accada qualcosa di male».
Ebbi la sensazione di sprofondare quando riuscii finalmente a metabolizzare quelle parole.
La cosa assurda era il suo tono straordinariamente sincero.
Rimasi di nuovo paralizzata, incapace di compiere qualsiasi - anche se millimetrico - movimento. Una folata di vento gelido accorse in mio aiuto, riscuotendomi. «Forse è meglio entrare, comincia a far freddo», farfugliai in cerca delle chiavi di casa. Una volta pescate dallo zaino, aprii la porta, rifugiandomi nel caldo tepore del salotto.
«Siamo noi! C’è nessuno?» esclamai.
A quanto pareva i miei genitori erano tornati al lavoro.
Un post-it incollato sopra un mobiletto in legno accanto alla porta attirò la mia attenzione:
 
Sarah, tuo zio è all’ospedale, siamo dovuti correre a Manhattan da tua zia. Quando siamo rientrati in casa non c’eri, perciò ti abbiamo lasciato questo messaggio. Chiamaci appena l’avrai letto.
Mamma e papà
 
«Oh no», mormorai flebilmente. Mio zio, il fratello di mio padre, era sempre stato in perfetta salute… Cosa poteva essere successo di tanto grave per mandarlo all’ospedale?
Mi precipitai subito al telefono, componendo a memoria il numero di casa della zia Sophie.
Dopo alcuni squilli, una voce maschile rispose. «Pronto?».
Era mio padre. Dal tono sembrava esausto e senza speranze.
«Papà? Cos’è successo?», farfugliai preoccupata.
«Ciao, tesoro. Ci dispiace non averti potuta avvisare prima», si scusò con un sospiro. «Purtroppo David è stato coinvolto in un incidente stradale questa mattina. Sophie è riuscita a contattarci solo quando siamo rientrati a casa, verso le due e mezza del pomeriggio, e siamo corsi qui».
«Come sta?». Furono le uniche insulse parole che riuscii a spiccicare. Beh, come potrebbe stare uno scampato vivo per miracolo ad un incidente stradale?
«Se l’è cavata con una gamba rotta e due costole incrinate. E un po’ di sangue dal naso», aggiunse nel vano tentativo di alleggerire la conversazione. «Proprio a una settimana dal matrimonio di Marley…».
Lo sconforto si appesantì ancora di più quando mi ricordai del matrimonio imminente di mia cugina, e di come fosse elettrizzata e felice all’idea di sposarsi.
La sua vita sembrava perfetta, e a un tratto tutto era crollato come un castello di carte.
«Mi dispiace molto. Sophie come sta? Toby è con voi, vero?».
«La zia è ancora sotto shock, nonostante le condizioni di David non siano preoccupanti, a parte le fratture. E Toby è qui con noi».
Sentii un mormorio confuso di sottofondo, e tra quelle voci distinsi quella di Karen.
Mio padre sbuffò. «Sarah, purtroppo dobbiamo fermarci qui a Manhattan fino a domani, e forse anche il giorno dopo. David ha insistito a non rimandare il matrimonio; ha detto che piuttosto accompagnerà Marley all’altare con le stampelle e quattro centimetri di fasciatura sotto lo smoking», lo sentii ridacchiare leggermente. «Quindi io e mamma abbiamo deciso di rimanere qui per aiutarle nell’organizzazione, e Toby starà qui con noi».
«Nessun problema, sopravvivrò», scherzai, sollevata di non avere i miei genitori intorno durante quei giorni di serio pericolo.
«Ci dispiace tanto, Sarah. Ora devo andare, Karen, la zia e Marley ti salutano».
«Non ti preoccupare, papà, capisco. Chiamami appena puoi per farmi sapere come sta lo zio. Salutale anche da parte mia», conclusi chiudendo la chiamata.
Appoggiai le mani al mobiletto di legno, e chiusi gli occhi sospirando.
Quante cose erano successe in poco meno di due giorni? Avevo scoperto di essere inseguita da dei demoni che volevano uccidermi; avevo rincontrato colui che aveva rapito mio fratello quattro anni prima, e come se non bastasse mio zio era stato coinvolto in un incidente automobilistico.
Cos’altro poteva succedere?
Sentii Jareth avvicinarsi alle mie spalle. «È successo qualcosa?», domandò con finto interessamento; avrei scommesso la testa che aveva ascoltato tutta la conversazione.
«Mio zio è in ospedale con una gamba rotta, e i miei genitori devono aiutare mia zia nell’organizzazione del matrimonio di mia cugina». Scossi la testa, sorridendo con amarezza. «Quell’uomo è addirittura più testardo di me: ha insistito per non rimandare il matrimonio nonostante sia segregato in un ospedale fino a un giorno prima».
«La cocciutaggine è di famiglia, allora», commentò il mago.
Un sorriso spuntò sulle mie labbra. «A quanto pare».
Contro ogni preavviso, avvertii le sue dita percorrere il profilo delle mie spalle, per poi scendere leggero nelle braccia. Imprecai mentalmente contro il mio cervello, ormai in tilt, e contro le mie gambe che avevano cominciato a tremare lievemente, disubbidendo ai miei fievoli comandi.
Maledizione, perché aveva quell’effetto su di me? Che razza di magia usava per ridurmi così ogni volta che si azzardava a sfiorarmi?
Sentivo il suo respiro solleticarmi il collo, ed ero certa che stesse sorridendo con immesa soddisfazione.
«E così… ora siamo soli», bisbigliò con malizia.
I miei polmoni cominciarono a reclamare aria, e solo in quel momento mi accorsi di aver trattenuto il respiro. Quattro anni prima non ero stata così debole alla sua presenza, nonostante mi incutesse decisamente timore.
Riuscii a riprendere il controllo del mio corpo solo a questo pensiero, che mi incoraggiò a fronteggiarlo. Se l’avevo sconfitto a quindici anni, perché non potevo farlo a diciannove?
«Vado a farmi una doccia», decretai, balbettando.
Sfuggii alla sua vicinanza dirigendomi verso le scale. Poi riacquistai parte della mia tenacia, rivolgendomi di nuovo a lui.
«Mi raccomando: non entrare in bagno».
Lui sorrise sornione. «Certo, mia preziosa. Ogni tuo desiderio è un ordine».
Entrai in bagno dopo essermi assicurata che il mago non mi stesse seguendo, poi mi spogliai, infilandomi nella doccia. Volsi il capo verso il soffitto, perdendomi nei ricordi.
Quando il getto d’acqua calda si abbatté sulla mia fronte, le immagini di tempi passati cominciarono a scorrere davanti ai miei occhi contro la mia volontà.

«Con rischi indicibili e traversie innumerevoli, ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin, per riprendere il bambino che tu hai rapito».
La mia voce era limpida e decisa, infrangendosi sull’avversario invisibile che stavo fronteggiando.
Avanzai di un passo, senza staccare gli occhi da quelli che immaginavo avere davanti.
«La mia volontà è forte come la tua, e il mio regno...».

Mi bloccai all’improvviso, frugando nella memoria alla ricerca della battuta che mi sfuggiva.
«Accidenti», imprecai tirando fuori il libricino rilegato di rosso: “Labyrinth”.
«Tu non hai nessun potere su di me», ripetei tra me stessa, cercando di imprimere nella mente quella dannatissima quanto semplice frase, che ogni volta riuscivo a dimenticarmi.
Una fitta pioggia cominciò ad abbattersi sul parco, e tante piccole gocce andavano ad infrangersi nel mio costume verde chiaro, obbligandomi a correre verso casa seguita da Merlin, il mio cane.

Sorrisi a quel ricordo, ripensando con tristezza a come se n’era andato il mio compagno di giochi, morto di vecchiaia soltanto un anno dopo l’avventura nel Labirinto.
Nonostante tutto però, aveva avuto una vita ricca e serena, e per questo riuscii presto a superare il lutto, sebbene ancora la memoria delle giornate trascorse a giocare con lui nel parco mi provocassero un fastidioso groppo alla gola.
Inaspettatamente, uno strano ticchettio alla mia destra mi riportò alla realtà, attirando la mia attenzione alla piccola finestra. Incuriosita, uscii dalla doccia avvolgendomi con l’asciugamano, e mi avvicinai. Ad un tratto il rumore cessò, ma dopo un istante sentii il vetro rompersi in mille pezzi che sfrecciarono ovunque, e un essere mostruoso comparve davanti a me: era un demone Nephilim.


 




Buona sera ^^
Innanzitutto mi scuso per il ritardo abominevole con cui pubblico questo capitolo, ma fino a pochi giorni fa ho dovuto studiare per un esame, quindi il tempo per revisionare e correggere lo scritto era davvero pochissimo.
In ogni caso, spero di non deludervi ^^
Grazie a tutti!

Ed



 



 

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Capitolo 5
*** Reminescenze ***


  

 

Capitolo V - Reminescenze

 •• 


Ignorai l’improvviso dolore lancinante al braccio sinistro, e gridai con tutta l’aria che avevo nei polmoni.
L’essere dalle sembianze mezze umane e mezze demoniache si avvicinò a me, reggendo fra le mani un pugnale dalla lama ondulata, tracciata da mille segni indecifrabili incisi sopra.
Sollevò la mano che lo reggeva, pronto a colpire, ma prima che potesse compiere la mossa decisiva, una mano guantata lo afferrò per un polso scagliandolo contro lo specchio del bagno, che andò in frantumi.
«Sarah, scappa!», m’intimò il Re di Goblin, mentre cercava di strappare dalle mani del demone il coltellaccio.
Non obbedii, ostinandomi a rimanere appiattita al muro gelido del bagno.
Mi strinsi nell’accappatoio, cercando con gli occhi qualche strumento che potesse essere utile ad aiutare Jareth. Per fortuna quest’ultimo riuscì a respingere l’avversario i secondi sufficienti per evocare una sfera di cristallo, che si materializzò fra le sue mani sotto forma di torcia infuocata.
Senza indugiare oltre, proprio mentre il demone si stava scagliando di nuovo contro di lui, Jareth lo colpì con la fiaccola, disintegrandolo.
Il demone esibì un gridolino soffocato prima di ritornare al suo stato primario; una nebbia scura e soffocante uscì dalla finestra rotta, lasciando me e il mago senza fiato.
«Mi sembrava di averti detto di non entrare in bagno», ansimai cercando di sdrammatizzare.
Lui sorrise appena, ma qualcosa lo fece rabbuiare di colpo. «Sei ferita?».
Feci per negare, ma una fitta di dolore richiamò la mia attenzione al braccio destro.
Sussultai quando vidi il sangue scorrere fino al gomito. Non era un taglio molto profondo, ma mi provocò lo stesso un fastidioso senso di nausea.
All’improvviso Jareth mi afferrò per un polso, avvicinandomi a sé con poca grazia.
Istintivamente mi chiesi cosa diamine gli stesse passando per la testa quando sbiancò di botto, assumendo un’espressione ancora più preoccupata e angosciata.
«Ti ha colpita con il pugnale?», sibilò a denti stretti, piantando il suo sguardo nel mio.
In quel momento ebbi paura di lui. I suoi occhi di ghiaccio erano più freddi e inaccessibili del solito, e la maschera di terrore e sgomento che gli celava il volto era terrificante. Nonostante non comprendessi cosa l’aveva spaventato tanto, la paura che gli si leggeva nel viso sembrò trasmettersi a me, trasformandosi in un brivido agghiacciante.
«N-no», balbettai, facendomi più piccola sotto il suo sguardo pressante.
Lui esaminò la ferita, rilassando i muscoli della mascella per un istante. «Sei sicura?».
Annuii, mentre mi stringevo nel mio accappatoio. «Sono stati i vetri della finestra rotta».
Il Re di Goblin sospirò sollevato. «Vestiti, e medicati la ferita», ordinò perentorio.
«E cosa dico ai miei quando torneranno e troveranno il bagno a pezzi?!», sbottai con voce traballante.
In tutta risposta Jareth evocò due sfere di cristallo, lanciandole contro i cocci dei vetri sparsi per terra. Non appena si infransero contro il pavimento, i frammenti si sollevarono magicamente per aria, andandosi ad incastrare l’uno con l’altro riparando la finestra e lo specchio.
Tutto tornò com’era prima che il demone facesse irruzione nel mio bagno.
«Ora sbrigati», disse scomparendo dalla mia vista.
Ero talmente turbata da tutto quello che era accaduto in quell’arco di tempo di pochi minuti che non riuscii nemmeno a rispondere a dovere, indispettita dal suo tono imperioso.
Decisi di obbedire e uscii a fatica dal bagno, cercando di trascinare i miei arti inferiori atrofizzati dal terrore in camera mia.
Pescai i primi vestiti che mi capitarono sotto mano e tornai in bagno, cercando di evitare di calpestare i cocci di vetro, e presi delle bende e l’acqua ossigenata per medicare il taglio.
Tamponai la ferita e la avvolsi accuratamente nelle garze. Dopo essermi asciugata alla bell’è meglio i capelli, mi precipitai in salotto dove trovai Jareth, seduto sulla poltrona con gli stivali appoggiati al tavolino di fronte a lui.
Per una volta preferii ignorare quel gesto di indolenza che tanto odiavo e mi accomodai nel divano, esaminando la sua espressione; sembrava assorto completamente nei suoi pensieri e aveva lo sguardo perso a fissare un punto indefinito nella parete.
Mi ostinai a spezzare il religioso silenzio, distogliendolo dalle sue riflessioni.
Avevo un impellente bisogno di comprendere il motivo dell’angoscia che aveva stravolto i suoi lineamenti perfetti poco prima. Ne avevo il diritto.
«Perché eri tanto spaventato quando mi hai chiesto se mi avesse ferita con il pugnale?», domandai fissandolo negli occhi. Quella volta riuscii a non affogare nelle sue iridi spaiate, concentrandomi sul concreto pericolo che ci minacciava.
Lui sospirò, portandosi una mano al mento, pensoso. «Sarah, le lame dei loro pugnali sono forgiate dai demoni stessi, avvelenate dalle loro anime malvagie. Le incisioni che hai visto sono delle parole scritte nel loro idioma, ma nessuno sa esattamente cosa rappresentino quei simboli, poiché nessuno conosce la loro lingua. Se quella lama fosse entrata in contatto con la tua pelle, ferendoti, avrebbe intaccato la tua anima con il veleno, trasformandoti una di loro».
Quella rivelazione mi tolse quasi il respiro e in un attimo tutta l’ansia e la preoccupazione che avevo letto nei suoi occhi si giustificarono.
«Perché non me l’hai mai detto? Ho rischiato di diventare un demone… », brontolai, appoggiando la schiena nel cuscino del divano e incrociando le braccia al petto.
«Non volevo sovraccaricarti di informazioni che ti avrebbero sconvolta», rispose con naturalezza. «Sai, sei molto cambiata dall’ultima volta in cui ci siamo visti nel mio Labirinto. Quattro anni fa non ti paralizzavi in quel modo davanti ad un nemico… E nemmeno davanti a me».
Arrossii visibilmente quando le mie orecchie percepirono le sue ultime parole.
«Quattro anni fa non rischiavo la pelle».
«Tu credi?».
«Non mi avresti mai uccisa, nemmeno se avessi perso la sfida», risposi convinta.
Un sorriso enigmatico comparve sulle sue labbra. «E cosa te lo fa pensare?».
«Il fatto che avresti potuto farmi fuori in diverse occasioni, ma ti sei limitato a giocare con i miei sogni, cercando di ingannarmi».
«Mia preziosa, non avrei mai osato torcerti un capello», confessò guardandomi di sottecchi.
«Perché? Avresti potuto vincere se mi avessi uccisa; avresti potuto avere Toby ed evitare il disastro del Labirinto! Ti sarebbe solo bastato eliminare una semplice e insignificante umana per vincere la sfida. Per esempio avresti potuto cogliere l’occasione del ballo».
Jareth aggrottò le sopracciglia e la sua espressione divenne improvvisamente cupa e seriosa.
«Insignificante…», sospirò con amarezza quasi parlando con se stesso. Sembrava che le parole che mi erano uscite di bocca gli sembrassero estremamente ridicole. Poi rivolse a me. «Non è esattamente nel mio stile uccidere i miei sfidanti. Io sono il re degli inganni, non un mietitore di mortali».
«Avresti potuto», insistei. Non sapevo neppure cosa stessi cercando di fargli uscire di bocca, ma continuavo a puntare i piedi, ostinata. «Ti saresti risparmiato le gioie dell’essere perseguitato dai sicari di tuo padre. Senza contare il fatto che ti saresti tenuto Toby».
«Ma non capisci?!», ringhiò facendomi sobbalzare. Poi si calmò, scuotendo la testa con sarcasmo. «No, tu non capisci niente finché le cose non ti si sbattono in faccia».
Corrugai la fronte, stizzita dalla sua pungente ironia.
«E cosa dovrei capire, maestà?», replicai con altrettanta dose di scherno.
In tutta risposta si alzò di scatto, cominciando a passeggiare per la stanza fino a fermarsi alle mie spalle, appoggiando le mani allo schienale del divano e portando le sue labbra vicino al mio orecchio.
«Avrei fatto di tutto per fermarti, tranne toglierti la vita», sussurrò lentamente.
La sua voce mi sembrava morbida e vellutata, e il suo respiro mi accarezzò il collo.
«Perché pensi che sia qui, Sarah?», domandò infine, ricominciando a camminare per il salotto. «Perché pensi che ti stia proteggendo da ben quattro anni?».
Scrollai le spalle. «Ti serve il mio aiuto; senza di me non puoi riavere indietro il Labirinto».
Una risata forzata sgorgò dalle labbra del mio interlocutore. «Sarah… Ricordi come cominciava la storia che hai raccontato quella sera al tuo fratellino?».
Aggrottai le sopracciglia, perplessa. «E per quale motivo dovrei ricordare…?».
Lo sentii sospirare e lo vidi alzarsi dalla poltrona, fermandosi davanti a me. «Lascia perdere. Forse è meglio che ti riposi; domani sarà una giornata impegnativa».
Non afferrai il significato delle sue parole, ma non mi sforzai nemmeno di provare a farlo: ero troppo stanca. Non avevo nemmeno cenato, ma decisi comunque di obbedire.
Ultimamente stavo saltando troppi pasti.
Afferrai la mano che Jareth mi tendeva per aiutarmi ad alzarmi, e mi rizzai in piedi.
«Sì, hai ragione», mormorai massaggiandomi la tempia con due dita.
Il mal di testa aveva scelto proprio un brutto momento per palesarsi.
Salii le scale seguita dal mago, ed entrai nella mia camera, buttandomi sul letto.
«Se hai bisogno di dormire usa la camera degli ospiti», borbottai chiudendo gli occhi.
Lo sentii ridere. «Se non posso lasciarti da sola nemmeno il tempo di una doccia che vieni attaccata da un demone, figuriamoci un’intera notte!».
Non gli risposi, raggomitolandomi sotto le coperte.
Il peso della stanchezza si fece sentire immediatamente, e prima di addormentarmi completamente, sentii di nuovo la voce di Jareth perdersi nell’aria in una melodia che mi aiutò a distendere i muscoli e i nervi, mentre un dito della sua mano guantata mi sfiorava la fronte, scostandomi un ciuffo di capelli neri.
Un attimo prima di perdere conoscenza, un ricordo sfrecciò nella mia mente, trovando un senso alla richiesta di Jareth di rammentare le parole della storia di “Labyrinth”.
 
Reggevo in braccio un bambino dai capelli biondi, in lacrime. Avevo gli occhi illuminati da una strana luce di rabbia e frustrazione. Riposi Toby nella sua culla, sedendomi con irritazione sul letto dei miei genitori.
«Che cosa vuoi, una favola, eh? Okay!», sbottai esasperata. «Allora, c'era una volta una ragazza tanto carina che la sua matrigna lasciava sempre a casa col bambino. E il bambino era tanto viziato e la ragazza era praticamente una schiava. Ma quello che nessuno sapeva era che il re dei Goblin si era innamorato della ragazza e le aveva dato certi poteri…».
 
Dopo aver tratto le mie confuse conclusioni, scivolai senza nemmeno accorgermene tra le braccia di Morfeo, sprofondando in un sonno tranquillo e senza sogni.

••


 
Una figura slanciata e massiccia passeggiava per la sala arredata solo con un trono in pietra, tenendo le mani incrociate dietro la schiena. Il suo passo era lento e ripetitivo, il suo sguardo puntato per terra e la sua bocca impegnata a mormorare qualcosa.
Ad un tratto si fermò, come colto ad un’illuminazione folgorante, e sollevò la mano all’altezza del suo petto, con il palmo rivolto verso l’alto. Una sfera di cristallo delle stesse misure di un pallone da calcio, frastagliata regolarmente come un diamante, comparve sopra di esso, fluttuando sotto il ghigno compiaciuto dell’uomo.
Dopo una manciata di secondi delle immagini - dapprima sfocate, poi sempre più nitide - dipinsero il cristallo trasparente, rivelando un letto occupato da due persone. Nella sfera i dettagli del luogo in cui si trovavano erano sfocati, in modo tale da impedire agli occhi che scrutavano impazienti il cristallo di intuire dove queste due persone si trovassero.
Una di queste era una ragazza dai capelli neri, mentre l’altro era un uomo biondo, steso sopra le coperte con la schiena appoggiata alla testiera del letto. Il proprietario della sfera esibì una smorfia disgustata quando i suoi occhi si posarono sulle mani del ragazzo, il quale sfiorava con immensa delicatezza - quasi temesse di romperla con un gesto - i lineamenti della corvina, che dormiva beatamente. Gli occhi spaiati di lui erano completamente rapiti dalla figura della ragazza.
«Rivoltante», commentò infine l’uomo che reggeva la sfera. «Figlio mio, come ti sei ridotto! A cantare canzoni per un’insulsa umana e cullarla nel sonno».
Sputò per terra e scosse la testa, facendo scrollare i suoi lunghi capelli ramati.
«Mi stupisco che tu non abbia ancora inviato degli altri demoni per attaccarli», esordì una voce femminile alle sue spalle, facendolo voltare. «Ora che sono così indifesi».
«Zaphira, questi non sono affari che ti riguardano», borbottò.
«E invece sì, Zephit. Mi pare che Jareth sia anche figlio mio».
La donna spuntò fuori dall’ombra, rivelandosi al marito. Si avvicinò a lui, appoggiando una mano sulla sua spalla.
«Di’ la verità: non è solo una questione politica», continuò con voce suadente.
Zephit la fulminò con lo sguardo di ghiaccio. «È così, invece».
«Ne dubito. Jareth è sempre stato leale con lei, durante la sfida del Labirinto. Ha fatto il suo dovere ed è stato sconfitto, nonostante abbia fatto di tutto per convincerla a restare nell’Underground; lui tiene a quell’umana, Zephit, e tu lo sai».
«Taci, donna! Sei assolutamente fuori strada! Hai dimenticato che se non uccido quell’umana i regni d’Isen e Halifax ci attaccheranno? Non hai ancora capito la gravità della situazione? Vogliono che i colpevoli di tale affronto vengano puniti con la morte, e se non siamo in grado di scovarli e farli fuori, saremo noi a rimetterci le penne!», sbottò irato.
Zaphira non si scompose, limitandosi ad incrociare la braccia al petto.
«Allora perché non lo fai tu stesso? Perché continui ad inviare quegli esseri inutili dei Nephilim?».
«Ho un piano», ghignò Zephit.
«Be’, dovrai aspettare comunque l’Equinozio. Sai benissimo che Jareth può tornare a Goblin solo durante quel giorno».
«Certo, ma lui non tornerà a Goblin», disse Zephit continuando a scrutare la sfera.
Per un momento Zaphira parve interdetta, poi assunse la solita espressione impassibile.
«Come dici?».
Zephit emise una risata gutturale, sollevando la sfera all’altezza delle sue labbra.
«Hai capito benissimo, moglie. Jareth non farà in tempo a tornare nella sua stupida città. Inoltre quando la ragazza scoprirà che il suo adorato Re le ha mentito, sarà ancora più semplice catturarla».
«Le ha mentito?».
«Esattamente, le ha mentito per quanto riguarda il motivo per cui do loro la caccia».
«Zephit, ascolta, se uccidi la ragazza…» cominciò la donna, ma venne subito interrotta dalla voce roca e minacciosa del marito.
«… ucciderò anche Jareth, lo so. E non credere che me ne importi qualcosa, dopo tutto quello che la sua sconsideratezza ha scatenato».
Zaphira rimase in silenzio, mentre osservava Zephit crogiolarsi nella prospettiva della riuscita del piano che considerava perfetto. Ma nella sua mente stavano prendendo vita delle decisioni che, lei lo sapeva, l’avrebbero spinta a tradire suo marito e il suo regno per l’amore di suo figlio.
 

 ••
  


Ma quello che nessuno sapeva era che il Re di Goblin era innamorato di lei, e le aveva donato certi poteri…

Mi svegliai di soprassalto, sbarrando gli occhi. Le mie parole di quattro anni fa mi rimbombavano nella testa, impedendo la nascita di qualsiasi altro pensiero che non fosse rivolto a Jareth.
Se era vero che il Fae era plasmato secondo i miei sogni da quindicenne, allora era altrettanto vero il fatto che fosse innamorato di me.
Innamorato di me.
Ancora non riuscivo a capacitarmene.
Ecco a cosa alludeva il giorno prima! Ecco perché quattro anni fa non avrebbe mai preso in considerazione l’ipotesi di uccidermi, in caso mi fossi avvicinata troppo alla vittoria!
Tutto si faceva sempre più limpido, e le nubi dei miei vecchi dubbi si diradarono, lasciando il posto a un cielo nitido e cristallino.
Innamorato di me.
Dapprima pensai fosse solo uno stupido scherzo del mio cervello, che aveva messo in moto uno strano turbinio di ricordi che mi avrebbero indotto a credere a tale follia.
Innamorato di me.
Sì, era sicuramente un brutto tiro del mio subconscio. Jareth non poteva veramente essere attratto da un’umana come me. Da quella stessa umana che lo aveva sconfitto e umiliato davanti ai suoi stessi sudditi, a quella ragazzina che aveva osato scatenargli contro il suo stesso Labirinto, mettendolo a serio rischio di morte… Eppure l’espressione seria e stranamente sincera della sera prima, quando gli avevo chiesto per quale assurdo motivo non mi avesse fatta fuori prima che potessi vincere, sembrava piuttosto eloquente.
Scossi la testa, cercando per un istante di allontanare quei pensieri che m’infestavano la mente, e mi rizzai in piedi, guardandomi attorno.
Jareth non c’era.
Strano, avrei scommesso la testa che me lo sarei ritrovato davanti con quel suo solito ghigno malizioso, a rinfacciarmi quante sciocchezze dicessi durante il sonno.
Invece no. Quell’insolito silenzio mi mise a disagio, e mi affrettai a scendere in cucina.
Notai solo quando arrivai in salotto che anche questa volta non mi ero cambiata. Avevo dormito con i jeans e la maglietta del giorno prima.
Sbuffai, maledicendo la stanchezza che gravava sempre di più sulle mie spalle.
Tutta quella faccenda di demoni, reami magici in conflitto, maghi cacciati dal proprio regno dai propri genitori, mi stava dando alla testa.
«Finalmente», esordì una voce ironica alle mie spalle. «Pensavo che non ti svegliassi più».
Il mio cuore perse un battito, quando mi tornò in mente la riflessione di poco prima.
Calma, Sarah. Calma e sangue freddo.
«C-che ore sono?», balbettai cercando di distrarmi.
«Le nove di mattina», replicò Jareth con naturalezza.
Sgranai gli occhi. Le nove di mattina?! Le lezioni erano cominciate da un’ora!
«Oh, no! Perché non mi hai svegliato?!», esplosi irata.
Jareth ghignò. «Abbiamo altro da fare».
La sua espressione era la solita sfacciata di sempre, ma sembrava stesse cercando di nascondermi qualcosa. Indagai nelle sue iridi spaiate per una manciata di secondi, poi mi ripresi.
«Cosa, di grazia?», sibilai con palese irritazione.
Il suo sorriso si spense, mutando in una smorfia di preoccupazione. «Devo tenerti al sicuro».
Incrociai le braccia al petto. «Ieri non mi è successo nulla. Perché di punto in bianco hai cambiato idea?».
«Conosco abbastanza mio padre da sapere che non si fermerà a scagliarci contro dei semplici demoni. Sa perfettamente che non riusciranno a ucciderci».
Cercai di celare il mio disappunto alla parola “semplici”. Insomma, erano pur sempre demoni pericolosi!
«E allora perché continuano ad attaccarci? Cos’ha in mente di preciso?».
«Come credi che possa saperlo? Non leggo nella mente», borbottò tenendosi una mano sulla tempia, come se avesse mal di testa. «Per questo dobbiamo essere più accorti».
In quel momento ero sicura che mi stesse nascondendo qualcosa. Il suo atteggiamento era diverso dal giorno prima, e stava cercando in tutti i modi di deviare le mie domande.
C’era qualcosa, nei suoi occhi, che tradiva le sue parole.
Virai il discorso, sorvolando sulle sue mezze verità. «Se non mi lasci andare a scuola, allora voglio parlare con i miei amici», stabilii.
Lui inarcò un sopracciglio. «Sei così ansiosa di vedere quei pettegoli?».
Scossi la testa. «Non sto parlando dei miei amici umani».
«Sai che non posso».
«Invece sì! Se sono al sicuro a Goblin puoi benissimo contattarli», protestai avvicinandomi a lui con le mani incrociate, come ad implorarlo. Se non fossi stata certa che mi avrebbe deriso fino alla fine dei miei giorni mi sarei pure inginocchiata supplicandolo. «Ti prego», sussurrai.
Jareth sospirò. Fu un sospiro stranamente carico di amarezza e delusione.
Aggrottai le sopracciglia a quella reazione. Cosa gli stava succedendo?
«D’accordo», assentì voltandosi. «Ma sappi che rischiamo di essere intercettati da mio padre».
«Come?».
«In questo modo entro in contatto con l’Underground e Zephit se ne accorgerebbe sicuramente», spiegò sperando di convincermi a rinunciare.
In tutta risposta scrollai le spalle, troppo accecata dalla voglia di sentire la voce dei miei amici dopo tanto tempo, da ignorare il pericolo che stavo azzardando.
Il mago emise un altro sospiro, questa volta di rassegnazione, ed evocò una sfera di cristallo sul palmo della sua mano. Con un soffio la fece volare placidamente verso di me.
Entusiasta, ci guardai dentro. Dapprima non vidi che una nuvola di polvere scintillante, poi quattro figure cominciarono a distinguersi nella nebbiolina luminosa.






Ciao ragazze! Innanzitutto mi scuso per il ritardo imperdonabile, mi sento tremendamente in colpa!
Anyway, spero che questo capitolo non vi abbia deluso, e vi prometto che la prossima volta sarò più svelta ad aggiornare ^^
Grazie a tutti voi che continuate a seguirmi, un bacione! 

Ed



 


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Capitolo 6
*** Di racconti e confessioni ***



 

Capitolo VI - Di racconti e confessioni

••





Hoggle, Ludo e Sir Dydimus in sella ad Ambrogio mi fissavano increduli da dietro la sfera.
Per un attimo persino io fui incapace di proferir parola.
« Ragazzi! » esclamai infine, euforica.
« Sarah? » domandò Hoggle, spaesato.
« Sì, sono io! State tutti bene? »
« Come diavolo hai fatto a trovarci? » sbottò.
Aggrottai le sopracciglia, confusa. Dal suo tono furente sembrava non fosse affatto contento di rivedermi, anche solo attraverso una sfera. Cosa stava succedendo? Sembrava stessero bene… Eppure avevano delle espressioni stravolte e oscurate dal terrore.
« Hoggle, ma che ti prende? » biascicai, avvicinando gli occhi alla sfera.
Jareth intanto mi osservava a braccia conserte, studiando ogni mia reazione.
« Devi andare via, Sarah! Non dovevi contattarci, non sei al sicuro! » riprese il nano, questa volta addolcendo il tono di voce. « Come hai fatto? »
« Jareth mi ha aiutata » ammisi.
Il mago mi affiancò, rivelando il suo volto ai miei vecchi amici.
Ludo emise un lamento confuso, e Ambrogio abbaiò con enfasi.
« Re di Goblin », sibilò Hoggle additandolo « sei forse impazzito? Sai perfettamente il pericolo che sta correndo Sarah! Zephit la rintraccerà sicuramente! Cosa ci fai lì con lei? »
Prima che Jareth potesse replicare e dalla sua espressione ero certa che lo avrebbe fulminato molto volentieri  intervenni io. «Hoggle, Jareth è qui per proteggermi. Gli serve il mio aiuto per riavere il Labirinto ».
« A proteggerti? »
 La furia dirompente del nano mi sorprese non poco. Dov’era finito il timoroso Hoggle che avevo conosciuto quattro anni fa?
« Certo; rischiamo entrambi di morire per mano di suo padre », risposi con naturalezza.
Con la coda dell’occhio vidi Jareth battersi nervosamente il frustino sulla gamba, stranamente irrequieto. Ancora non riuscivo a capire che diavolo prendesse a tutti quanti.
« Milady, se permettete, non siamo totalmente d’accordo con voi » s’intromise Dydimus.
« Taci, cane! » ringhiò Jareth, facendo sussultare me e i miei amici.
Ambrogio smise di abbaiare, abbassando le orecchie, e Dydimus sfoderò la spada, con mano tremante. « Sempre al tuo servizio, mio signore, siamo stati io e i miei compagni. Nondimeno ci sentiamo in dovere di mettere la nostra beneamata Milady al corrente di ciò che realmente minaccia la sua vita ».
« Di cosa stai parlando, Dydimus? »
Tutto ciò cominciava veramente a puzzare di menzogna. Che Jareth mi avesse mentito? Pensandoci, il mago non si sarebbe fatto problemi a raccontarmi bugie; ma perché avrebbe dovuto farlo?
« Giuro che se osi anche solo aprire quella boccaccia… » sibilò Jareth, riducendo gli occhi a due fessure taglienti.
Sbuffai, irritata. « Jareth! Mi vuoi spiegare cosa diamine sta succedendo?! A cosa si riferiscono? »
Il Re di Goblin rimase in silenzio, spostando lo sguardo verso il muro davanti a noi.
Rinunciai a interpellarlo nuovamente: sarebbe stata palesemente fatica sprecata.
Vidi nel cristallo della sfera, che Hoggle aveva mosso un incerto passo avanti, tenendo le mani incrociate. « Sarah, il padre di Jareth vuole ucciderti », cominciò.
« Sì, questo lo so. Anche Jareth è in pericolo » specificai, squadrandolo con indiscrezione.
Scorsi il nano torcersi le mani in un impeto d’indecisione, chiaramente in conflitto con ciò che la sua mente suggeriva di fare, e ciò che il suo cuore cercava di imporgli.
Probabilmente stava pensando se raccontarmi la verità una volta per tutte e rischiare l’ira di Jareth, o lasciar perdere e tacere.
« Cosa c’è che non va? », domandai più dolcemente possibile.
Hoggle rimase un altro secondo a fissarsi le scarpe, poi prese coraggio.
« Jareth non ti ha detto la verità », fece una pausa, quando vide il Re di Goblin irrigidirsi mentre dalle sue iridi scaturivano fiamme di rabbia. In quel momento avrebbe potuto interrompere la comunicazione con un semplice gesto, ma non lo fece. Evidentemente una parte di lui voleva che scoprissi la verità. « Lui non rischia di essere ucciso, come te. Suo padre vuole solo la tua morte, poiché hai sconfitto suo figlio nel suo Labirinto, ma anche perché… ».
Il nano esitò, dondolandosi prima sul piede destro poi sul sinistro, e spostò lo sguardo a terra.
Cercai di reprimere quella al momento piccola dose di risentimento che stava cominciando a scorrere nelle mie vene, nei confronti di Jareth, ed esortai il mio amico a continuare.
« Va' avanti, Hoggle ». La mia voce era tremolante, un flebile sussurro.
« Ehm… Ecco, l-lui vuole che tu… », balbettò sotto il mio sguardo incoraggiante. « Vuole che diventi sua regina, e questo suo padre non può accettarlo, perché sei un’umana ».
Vomitò quelle parole come se fossero state di fuoco, come se gli stessero ardendo la gola.
Ora però le fiamme erano passate a me, incatenandomi in una stretta glaciale.
In quello stesso istante prima che potessi anche solo ringraziare i miei amici per la loro lealtà e salutarli Jareth afferrò, con uno scatto tanto rapido da sembrare puramente astratto, la sfera che mi permetteva di parlare dopo tanti anni con i miei vecchi amici, e la scagliò contro il muro, riducendola a mille scaglie di cristallo che atterrarono sul pavimento, dissolvendosi in una nube sfavillante.
Mi voltai con un furore tale da farmi sembrare fuori di testa, e le mie mani agirono prima che il mio cervello potesse rendersi conto di quello che stava succedendo, afferrando bruscamente il colletto della camicia sbottonata del mago.
« Perché l’hai fatto?! Perché?! » sbraitai senza alcun contegno.
Ero accecata dalla rabbia, non vedevo altro che Hoggle e gli altri, intimoriti dall’autorità del loro sovrano, che cercavano di svelare la verità sul pericolo che stavo correndo, e ad un tratto erano tutti spariti per colpa di quell’idiota di un Fae.
Se non fosse stato indubbiamente più forte di me, l’avrei ucciso a forza di schiaffi.
Ero al limite. Tutto quell’alone di pericolo mi stava sconvolgendo, e ora Jareth si permetteva persino di mentirmi. « Perché hai rotto la sfera? Li hai spaventati a morte, brutto idiota! Non mi hai neanche lasciato il tempo di salutarli o anche solo ringraziarli per aver fatto una cosa che tu non hai avuto il coraggio di fare! »
Sapevo che Jareth non mi avrebbe più permesso di parlare con loro, poiché questo comportava il rischio di essere scoperti da suo padre. Il che non faceva altro che aumentare la mia collera.
« Calmati, Sarah », ordinò in tono glaciale e distaccato. « Non mi provocare ».
Lo ignorai, stringendo la presa sulla stoffa bianca della sua camicia.
« Mi hai mentito! » sibilai tra i denti.
« Affatto, mia preziosa ».
Con una calma tanto innaturale quanto sfrontata per i suoi standard avrebbe meritato un premio per l’autocontrollo afferrò i miei polsi e li allontanò da sé, senza però lasciarli.
« Non posso mentire all’umano che mi ha creato con i suoi sogni. Posso invece raccontare mezze verità, girare attorno ad essa, ma mai mentire totalmente ».
« Hai detto che anche tu rischiavi la vita, e non mi avevi parlato del fatto che volevi che diventassi tua regina! »
«Mio padre non si limiterà a far fuori soltanto te. Se dovessi perdere la vita io morirei con te; sono irrimediabilmente legato a te, e le nostre vite sono intrecciate come i fili di un gomitolo di lana ».
Il suo sguardo mi trafisse, e se le sue parole fossero state lame di un coltello, in quel momento sarei potuta somigliare a una carota fatta a fettine per essere buttata nel minestrone di verdura.
Deglutii, sforzandomi di fronteggiarlo con lo stesso impeto di prima; ma ormai era riuscito a sovrastarmi, placando la mia ira con una semplice occhiata.
Lo fissai per un attimo ancora, prima di darmi alla fuga filando alla porta di casa, per poi uscire.
« Sarah, fermati! », lo sentii gridare, preoccupato, ma lo ignorai.
Corsi per il vialetto e attraversai la strada senza nemmeno guardare se stessero arrivando delle macchine, e volai dritta al parco. Mi accorsi solo quando raggiunsi il ponte di pietra che lacrime amare mi stavano rigando le guance, scorrendo disubbidienti.
Mi accovacciai per terra, contro un albero, e mi strinsi le ginocchia al petto, affondando il viso su di esse.
Per tutto il tragitto non avevo avvertito i suoi passi, ma sapevo benissimo che mi stava seguendo, e sicuramente lo stava facendo in forma animale. A conferma di ciò, giunse alle mie orecchie il tintinnio di una sfera di cristallo, che si era fermata ai miei piedi, e il battito d’ali di un barbagianni che s’inoltrò nel bosco alle mie spalle.
Dopo nemmeno venti secondi, ecco avvicinarsi dei passi dannatamente familiari.
Mi rifiutai di alzare lo sguardo, terrorizzata all’idea di incontrare nuovamente quei pezzi di ghiaccio incastonati nella sua pelle marmorea.
Diventare sua regina… Cominciai a riflettere sul serio alle parole di Hoggle, e rabbrividii.
Ma allora tutta la storia della ribellione del Labirinto era una balla? Perché non mi aveva raccontato tutta la verità?
Mi sforzai di parlare. « Perché… Perché vuoi che diventi tua regina? »
Gli occhi ricominciavano a pizzicare, annunciando un’altra inondazione di lacrime.
Guardai Jareth di sottecchi e notai che mosse le labbra in un repentino cambio di espressione, questa volta più tesa e rigida.
« Sarah », sussurrò « le nostre vite sono legate in modo indissolubile, questo lo sai già. Io sono plasmato dai tuoi sogni, e se tu ti spegni, i tuoi sogni moriranno con te, e così anche io ».
Rimasi letteralmente paralizzata, mentre il mio cervello si rifiutava di metabolizzare quelle parole.
Jareth non poteva amarmi.
Jareth non avrebbe mai desiderato che un’umana – la stessa umana che lo aveva sconfitto – diventasse sua regina.
Jareth era… cambiato.
Alzai lo sguardo fino ad incontrare le sue iridi spaiate. Tremai di fronte alla sua figura regale e determinata. Certo, anche quattro anni fa mi aveva fatto una simile proposta, ma ai miei occhi sembrava solo un pretesto per sottrarmi Toby rifilandomi i miei stessi sogni da quindicenne frustrata.
Eppure c’era qualcosa di diverso in lui; qualcosa che mi aveva colpita fin dal nostro secondo incontro, quando mi aveva salvata dai demoni Nephilim.
« Sei cambiato », mormorai più a me stessa che a lui.
« I tuoi sogni sono cambiati », ribatté.
Aveva ragione. La sua personalità era legata ai miei sogni. Purtroppo però non li conoscevo nemmeno io.
« E tu li conosci, i miei sogni? ».
Vidi l’ombra di un sorriso solcare il suo viso perfetto. « Come posso dire di conoscere me stesso ».
Già, che stupida. Lui era l’essere che incarnava tutta l’essenza racchiusa nei miei sogni, e per comprenderli, doveva conoscere se stesso.
« Non hai nemmeno preso in considerazione la mia opinione », cambiai discorso, ritornando alla questione del diventare sua regina.
« Come ho detto prima, noi siamo legati », rispose serenamente. « Ma il nano ha sbagliato ».
« Come? »
« Non si tratta di re o regine, Sarah. Mio padre non vuole ucciderti perché sa che vorrei tu diventassi mia regina e ha timore di una tua risposta affermativa; lui vuole la tua morte perché sa che sei la mia Melwa ».
Aggrottai le sopracciglia. Cosa diamine aveva detto?
« Cosa significa? »
Lui spostò lo sguardo al cielo, perdendosi nell’azzurro. «Melwa significa metà nell’idioma dell’Underground. Per noi Fae è, come direste voi umani, un’anima gemella. Cambiamo a seconda dei suoi sogni e siamo destinati ad incontrarla, in qualche modo ».
Improvvisamente mi tese una mano, invitandomi ad alzarmi.
Indecisa, alla fine optai per obbedire, rizzandomi in piedi tesa come una corda di violino.
Stavo sognando? Sì. Sicuramente era tutto frutto di un sonno tormentato dal mio subconscio.
Altrimenti non avrei mai potuto credere al significato di quelle parole, e al tono rapito di Jareth.
Quest’ultimo non mi lasciò la mano e con l’altra sfiorò la mia guancia, facendomi sussultare.
« Perché Zephit non vuole che io sia la tua Melwa? In fondo, sono io che ti ho creato, anche se inconsciamente… » farneticai piantando i miei occhi sui suoi.
Jareth sorrise. « Sei un pericolo, per lui. Non può permettersi che suo figlio sia legato ad un’umana; la stessa umana che aveva osato sconfiggerlo e rivoltargli contro il Labirinto. A causa mia, ha violato il patto dell’Alleanza dei Tre Regni, rischiando di essere attaccato dai suoi stessi ex alleati».
« E soltanto uccidendomi… » cominciai, rabbrividendo.
« Potrà essere riammesso all’Alleanza » terminò lui.
Una smorfia di trepidazione solcò il mio viso.
« Non avere paura » continuò Jareth. « Non ti torceranno nemmeno un capello, te lo prometto ».
« Perché è vietato? » domandai riprendendo il controllo del mio corpo. « Insomma, da quanto ho capito una Melwa non è per forza di cose una compagna, bensì soltanto la creatrice di un Fae, anche se legata a lui in maniera così indissolubile ».
Lui sospirò, concentrando il suo sguardo sul mio. « Saresti capace di affrontare una lunga storia? Senza interrompermi? »
Annuii, sciogliendo la mano dalla sua stretta e dirigendomi verso una panchina in pietra.
L’impeto di rabbia era ormai scomparso, e l’unico pizzico di rancore che riserbavo nei suoi confronti era quello di aver distrutto la sfera senza preavviso.
Una volta accomodati entrambi, cominciò a parlare, con gli occhi fissi su un punto non definito del prato davanti a noi.
« Una volta, l’Alleanza di cui fa parte mio padre, era composta non da tre membri, bensì quattro. Vi erano: Xanthi, il regno di mio padre collocato a Nord; Isen, a Ovest; Halifax, a Sud e il quarto era Anduin, il regno a Est. Essi, dopo lunghi scontri per estendere il proprio territorio, trovarono un accordo, e firmarono un patto con il quale formavano una sacra alleanza, e tradirla significava ritrovarsi gli altri tre regni contro ».
Si fermò, scrutando il cielo all’orizzonte come se le immagini della storia che stava narrando gli scorressero davanti.
Non avrei mai pensato che nel Sottosuolo esistessero tali conflitti politici.
« Dopo alcuni anni di pace e tranquillità, il Re di Anduin incontrò la sua Melwa e se ne innamorò incondizionatamente. Il guaio fu che la ragazza era un’umana, e non un essere magico appartenente all’Underground. Il sovrano, Elberth, portò l’umana nel suo regno, e fece di tutto per accontentarla. Persino sovvertire l’ordine del tempo e mettendo sottosopra il suo regno».
Le sue parole mi rimbombarono grevi nella mente, confondendosi con quelle che aveva pronunciato quattro anni fa:ho sovvertito l’ordine del tempo, ho messo sottosopra il mondo intero e tutto questo l’ho fatto per te.
Cercai di scacciare quel pensiero, concentrandomi sul racconto.
« Elberth era talmente innamorato, che l’unica cosa che gli importava veramente era rendere felice la sua Melwa, concedendole qualsiasi cosa purché rimanesse con lui nel Sottosuolo. Rosalie - questo era il nome della ragazza - era anch’essa conquistata dal Re, e rinunciò volentieri al suo mondo reale per vivere con il Fae. Ma le azioni sconsiderate che commise Elberth furono tali da spezzare l’Alleanza ».
Non resistetti alla curiosità e lo interruppi, ignorando la sua espressione esasperata.
« Cos’aveva fatto di tanto terribile? Insomma, a parte mettere sottosopra il suo regno per lei ».
Lui sospirò. « E ti sembra poco? ».
Scrollai le spalle. « Ti ricordo che non so quasi nulla del Sottosuolo ».
« Sovvertire l’ordine del tempo e sconvolgere le fattezze del proprio regno solo per soddisfare le esigenze di un’umana è un reato gravissimo, per l’Alleanza. A causa di questo persino gli altri tre regni cambiarono, poiché erano strettamente legati da un patto sacro. Così gli altri regni non tollerarono oltre, e decisero di annientare Anduin, poiché aveva infranto un’importante legge del patto. Dopo essersi organizzati, gli eserciti magici dei tre regni marciarono sulle terre di Elberth, distruggendo e sterminando. Elberth conosceva la sua fine, e sapeva che lui sarebbe dovuto cadere insieme al suo regno. Ma non voleva che la stessa sorte toccasse a sua moglie. Perciò, sperando di non essere visto, durante l’assedio cercò di portare in salvo la ragazza, posandola su una piccola barca in legno − che disgraziatamente poteva reggere non più di una persona − nel fiume che faceva da confine tra il suo regno e quello di suo padre. Elberth sapeva che una volta sulla riva opposta sarebbe stata al sicuro. Tuttavia non fece in tempo a sciogliere gli ormeggi che una lancia lo trapassò, mentre Rosalie assisteva impotente alla fine del marito, sconvolta. Le ultime parole di Elberth furono rivolte alla ragazza, e si narra che furono proprio: “Ti amo, mia dolce Melwa”. Per sua fortuna morì prima di poter assistere a sua volta all’ultimo respiro di Rosalie, la quale venne spinta in acqua da uno dei soldati di mio padre, annegando tra i flutti. Dopo questa vicenda, l’Alleanza dei Quattro diventò dei Tre Regni ».
Mentre parlava, inconsciamente m’immedesimai nei panni di Rosalie, immaginando me e Jareth al posto suo e di Elberth. Quando mi accorsi quale fosse la meta dei miei pensieri divaganti, trasalii, rabbrividendo.
Noi eravamo molto diversi dai due della leggenda: per prima cosa, non eravamo innamorati l’uno dell’altro. E anche se effettivamente il mago aveva ammesso che fossi la sua Melwa, non doveva per forza essere attratto da me, e viceversa.
In secondo luogo, il regno di Jareth non era compreso nei tre dell’Alleanza. Quindi perché perseguitarci? Che senso aveva tutto ciò?
« Wow » mormorai, ancora in ostaggio dell’atmosfera del racconto. « Una storia commovente ».
Lui annuì, spostando lo sguardo su di me. « È per questo che voglio proteggerti ».
« Ma tu non hai commesso gli errori di Elberth, e anche se fosse, il tuo regno non è compreso nell’Alleanza… Quindi perché vogliono punirti come avevano fatto con Elberth? ».
« Sarah, io mio regno è contenuto in quello di mio padre. A dirla tutta, io non possiedo un vero e proprio regno. Io governo su un Labirinto e su una città, ma queste sono all’interno di Xanthi, il regno vero e proprio, che appartiene a Zephit », disse, studiando la mia espressione confusa. In effetti, se dovevo essere sincera, non ci stavo capendo quasi nulla.
Jareth proseguì, ignorando la confusione che si leggeva nei miei occhi. « E poi, mia cara, io ho commesso esattamente gli stessi errori di Elberth. Quindi, oltre a modificare le fattezze del regno di mio padre a seconda dei tuoi sogni, anche gli altri tre sono cambiati. Per questo vogliono ucciderti: per far ritornare tutto com’era. Solo stroncando la fonte dei sogni che continuano a plasmare i loro regni, riusciranno a riaverli come un tempo ».
« Per quanto ne so, tu non hai affatto commesso gli stessi suoi errori, Jareth. Tu non sei innamorato di me come Elberth lo era di Rosalie! » insistei, convinta della mia tesi.
Improvvisamente, vidi l’espressione di Jareth diventare fredda come un pezzo di ghiaccio e le iridi due fiamme ardenti di rabbia. Sussultai, spaventata da quell’improvviso cambio d’umore.
Si alzò e chiuse violentemente gli occhi, dandomi le spalle. Forse stava ponderando il metodo più cruento per farmi rimangiare ciò che avevo detto. Anche se ancora non sapevo cosa diavolo avessi detto di sbagliato.
« Sarah » cominciò con voce nervosa, cercando palesemente di controllarsi. «Non hai ancora ripensato alle parole iniziali della tua storia? Le hai forse dimenticate?».
« N-no, me le ricordo benissimo » farfugliai alzandomi a mia volta.
« Allora a quanto pare non hai ancora capito » bisbigliò fra sé con amarezza.
Invece avevo inteso benissimo. Quelle maledette parole mi martellavano ancora nella testa, ansiose di vederla scoppiare: ma quello che nessuno sapeva era che il Re di Goblin era innamorato di lei, e le aveva donato certi poteri…
Il mio cuore accelerò il battito di colpo, e avvertii le guance avvampare, come se stessi andando a fuoco. Non poteva essere vero… Quella mattina non avevo creduto che il Re potesse veramente essere innamorato di me, ma ora era l’unica soluzione possibile. L’ultimo tassello di un puzzle.
La chiave di tutto.
« Tu sei… » sussurrai dando involontariamente voce ai miei pensieri.
Jareth si voltò verso di me. Il suo viso scultorio era solcato da un lieve sorriso.
« Sì ».
In quel momento mi resi conto di aver parlato a voce alta, e la sua risposta affermativa mi sotterrò definitivamente. Aveva detto sì. Aveva appena confessato di essere innamorato di me.
Rimasi a bocca aperta, aspettando di vedere un sorriso beffardo dipinto sul volto del Fae che mi rivelasse che in realtà era tutto uno scherzo per prendersi gioco di me.
Invece quel sorriso non giunse mai. Il suo sguardo indagatore continuava a scavare nelle mie iridi verdi alla ricerca di qualche segno di vita. Ma non riuscivo nemmeno a muovere impercettibilmente gli arti, da quanto ero paralizzata.
Avvertivo il mio cervello masticare quelle parole, combinando i miei pensieri alle sue confessioni.
Combaciavano alla perfezione. Ora era tutto chiaro.
Eppure, nonostante fossi letteralmente sconvolta della verità appena messa alla luce, uno strano senso di compiacimento misto a sollievo lottò contro il turbamento. Confusa e scombussolata com’ero, tutto ciò mi appariva semplicemente insensato.
Con un’espressione che non tradiva alcuna emozione, posò la sua mano guantata sulla mia guancia, e senza alcun preavviso avvicinò il suo viso al mio, fino a colmare la distanza di pochi centimetri.
Sentivo il suo respiro pungente lambirmi la pelle, e nonostante avessi intuito subito cos’avesse intenzione di fare, non mi mossi di un millimetro, paralizzata dalle sue iridi.
Sembrava che i miei piedi fossero incollati al suolo e i miei occhi a quelli di Jareth.
Quando finalmente le sue labbra si appoggiarono dolcemente sulle mie, una scossa di elettricità percorse la mia spina dorsale. Approfondii il bacio, insinuando istintivamente le mie mani nei suoi soffici capelli biondi ed inarcai leggermente il mio corpo contro il suo, mentre avvertivo la sua mano cingermi la vita e l’altra ancora appoggiata delicatamente sulla mia guancia scivolare sulla mia schiena, stringendomi al suo torace.
In quel momento non ragionavo più. La razionalità che aveva combattuto fino allo stremo delle forze contro il desiderio incalzante di avventarmi su di lui era stata sconfitta miseramente.
Sarah, cercò di richiamarmi alla realtà quel poco di ragione che mi rimaneva. Sarah, basta.
Ignorai la voce della mia coscienza, concentrandomi sulle labbra morbide e accoglienti di Jareth.
Non illuderlo, non potresti mai diventare sua regina. Lo sai.
La veridicità di quel pensiero mi travolse, costringendomi ad allontanarmi dal mago, che mi osservava perplesso, con il fiato corto.
Deglutii a vuoto, portandomi una mano alla tempia.
Stavano accadendo così tante cose in così poco tempo… Solo ripensandoci la mia testa minacciava di esplodere.
Jareth fece un passo verso di me, preoccupato. « Cosa c’è? Stai male? »
La sua improvvisa premura mi ferì più di quanto avrebbe fatto un’acida considerazione sul mio scarso autocontrollo. Avevo capito di ricambiare i suoi sentimenti, ma non volevo deluderlo di nuovo in caso mi avesse riposto la fatidica domanda. Conoscevo la risposta, e non gli sarebbe certo piaciuta.
« N-niente, i-io devo solo… » balbettai in un sussurro.
Il cuore mi martellava nel petto, mentre la testa pulsava così tanto che se non avessi messo a tacere i miei assillanti pensieri sicuramente sarebbe scoppiata.
Un’inaspettata debolezza mi pervase, la vista cominciò ad annebbiarsi e davanti a me comparvero diverse macchioline scure, che cambiavano forma continuamente, espandendosi fino ad accecarmi.
Strizzai gli occhi e nello stesso momento persi sensibilità alle gambe, ritrovandomi costretta ad aggrapparmi a sostegni invisibili. Prima di toccare terra, avvertii due braccia circondarmi prontamente la vita e il suono ovattato della voce di Jareth chiamarmi.
Poi mi arresi al buio, che mi avvolse completamente.

 
 
 

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Capitolo 7
*** Quando la leggenda diviene realtà ***


Sogni di Cristallo
 
 


Capitolo VII - Quando la leggenda diviene realtà
 



Quando ripresi coscienza, mi accorsi di essere stesa sul divano di casa mia, circondata da una cinta muraria di cuscini. Mi sorpresi di non trovare Jareth accanto a me; sicuramente era stato lui a riportarmi a casa.
Improvvisamente una cascata di pensieri e ricordi mi travolse, costringendomi a massaggiarmi le tempie per alleviare il dolore. Cercai di fare mente locale, e subito l’immagine del bacio fra me e il mago emerse alla memoria, e per un momento quasi mi dimenticai di respirare.
Con l’indice mi sfiorai le labbra, e nel medesimo istante una voce familiare raggiunse il mio udito.
« Come stai? »
Era tremendamente strano e insolito sentirlo così in pena per me.
Voltai la testa di scatto e lo vidi appoggiato allo stipite della cucina.
Grosso errore: il capo ricominciò a pulsare terribilmente e una smorfia di dolore attraversò il mio viso. « Potrei stare meglio » brontolai.
Jareth sorrise appena, avvicinandosi veloce e silenzioso come un gatto.
In effetti, tutto in lui ricordava un felino: l’eleganza e l’agilità dei movimenti, lo sguardo fiero e al contempo impetuoso…
La sua voce mi riscosse dai miei pensieri deliranti. « Rimettiti giù » ordinò inflessibile.
Aggrottai le sopracciglia. « Sono solo svenuta » protestai.
Insomma, ultimamente ero un po’ deboluccia e se a questo vi si aggiungeva la pressione degli ultimi giorni, non c’era nulla di preoccupante nel mio svenimento.
« Sei svenuta e hai quella che voi umani chiamate febbra » dichiarò lui.
Sorrisi alla sua pronuncia sbagliata. « Al massimo potrei avere la febbre » ghignai, divertita e soddisfatta per essermi presa la rivincita su tutte quelle frecciatine da parte sua. « E comunque non credo proprio di averla ».
Jareth si sedette nel tavolino di fronte al divano, piantando il suo sguardo nel mio.
« Sì, invece. La tua fronte è bollente. Ci potresti cuocere una bella fetta di carne ».
Sbuffai, e un vago senso di nausea mi confermò la sua tesi.
Come diavolo avessi fatto a prenderla non lo sapevo proprio.
Il Re di Goblin avvicinò la sua mano − stranamente senza guanto − alla mia fronte, appoggiandola, e il contatto con la sua pelle mi fece sussultare. In quel momento ero certa che le mie gote somigliassero a due pomodori e sperai con tutto il cuore che Jareth lo attribuisse alla febbre.
Non impazzivo dalla voglia di rendermi ridicola davanti a lui per l’ennesima volta.
Rimase fermo per qualche secondo, sotto il mio sguardo indagatore.
« Sì, hai proprio la febbre » constatò. « Spero solo che tu non mi abbia contagiato ».
Sorrisi a quell’affermazione. « Non sono stata io a baciarti per prima ».
« D’accordo, questa volta hai ragione. Mi assumerò le mie responsabilità », scherzò lui.
Fece per alzarsi, ma qualcosa lo illuminò. « Ah, tua madre ha chiamato prima. Le ho detto che non eri ancora tornata da scuola e lei ha risposto che richiamerà in giornata. Era piuttosto preoccupata, penso che si senta in colpa per averti mollata qui da sola con… me ».
« Forse vuole avvisarmi che torneranno oggi ».
« Sarebbe meglio che rimangano dove sono. Se Zephit ci dovesse attaccare qui in casa, la tua famiglia potrebbe essere in pericolo ».
« Come posso convincerli? ».
Jareth scrollò le spalle. « Inventa qualcosa. Dì che preferisci che aiutino tua zia e che qui te la cavi benissimo da sola. In fondo tuo zio è stato coinvolto in un incidente, hanno bisogno di sostegno e di aiuto per l’organizzazione del matrimonio di tua cugina ».
Annuii, concordando sul fatto che forse trattenerli a Manhattan, lontano dal pericolo, fosse l’idea migliore.
Con un sospiro sprofondai di nuovo nei cuscini, chiudendo gli occhi.
« Vuoi che ti porti di sopra in camera tua? » domandò rompendo il silenzio.
Per un momento esitai sulla sua improvvisa premura; era davvero lui? Lo stesso essere che quattro anni fa aveva tentato di sottrarmi il fratello per trasformarlo in uno gnomo?
« No, grazie. Non voglio dormire », biascicai.
« Come vuoi, mia preziosa ».
Avvertii il rumore dei suoi passi avvicinarsi, fino a quando si fermò proprio sopra di me, con i gomiti appoggiati sulla testata del divano.
Cominciò ad intonare una canzone, mentre sentivo il suo sguardo accarezzarmi il viso.
 
One day though it might 
as well be someday
You and I will rise up all the way
All because of what you are
The Prettiest Star
                            
                            The Prettiest Star, David Bowie

 
In quel momento il telefono squillò, trascinandomi lontano da quei versi stupendi e da quella melodia eufonica. Storsi la bocca in un’espressione scocciata.
« Karen » sbuffai, cercando di alzarmi dal giaciglio.
Il Re fu subito accanto a me, sorreggendomi con premura.
« Ce la faccio » assicurai sciogliendomi dalla sua presa e dirigendomi goffamente verso il telefono.
Ancora non riuscivo a comprendere quel comportamento così… diverso.
Portai la cornetta all’orecchio. « Pronto? ».
« Sarah! Stai bene? » trillò Karen.
Allontanai istintivamente il telefono dall’orecchio di qualche centimetro: la sua voce acuta mi aveva perforato il timpano.
« Sì, è tutto a posto ». Più o meno. « Lo zio come sta? ».
« Sta già meglio, gli hanno ingessato la gamba e ora è a casa a riposarsi. Io e tuo padre stiamo aiutando tua cugina a organizzare il matrimonio. Sapessi che bel vestito ha trovato Marley! Nel frattempo Sophie si occupa di David. Mi dispiace tant- »
« Karen » la interruppi. « Non preoccupatevi. Sto bene e so badare a me stessa ».
« Lo so, cara, mi fido di te. Il tuo amico si trova bene? ».
Colsi immediatamente l’ambiguità della domanda. Sul serio credeva ancora che fosse il mio spasimante? Be’, non che non ne fossi sorpresa: quando Karen si mette qualcosa in testa diventa irremovibile. Proprio come me. E poi, visto che poche ore prima avevo risposto a un suo bacio con un impeto non trascurabile, in un certo senso la convinzione della mia matrigna si stava avverando.
« In realtà oggi ha trovato un appartamento appena fuori città. Ha anche trovato lavoro in biblioteca, visto che comincerà l’università solo l’anno prossimo » mentii per sfatare la sua idea.
« Oh, be’, salutalo da parte nostra. È stato un piacere ospitarlo ».
Sembrava lievemente delusa.
«Comunque torneremo entro domani, cara » proseguì.
« No! » esclamai di slancio, rendendomi conto un secondo dopo di aver quasi gridato.
Jareth intanto mi osservava incuriosito.
« C-cioè, voglio dire… dovete aiutare la zia, forse è meglio che rimaniate là ».
Non volevo esporre la mia famiglia a un rischio così alto per colpa mia.
Lei sembrò pensarci su. « Hai ragione, però tuo padre ha il lavoro e tu sei in casa da sola… ».
« Ho diciannove anni! Ti ho già detto che so badare a me stessa. E poi non penso che a papà guasteranno due o tre giorni in più di pausa ».
« Certo, cara. Allora se per te non è un problema… ».
« Assolutamente ».
« Sicura? »
« Al cento per cento ».
« Okay, allora resteremo qui fino al giorno del matrimonio. Robert mi ha appena dato la conferma ».
Esultai mentalmente. « Bene. Salutami gli altri ».
« Certo. A presto, cara ».
Chiusi la chiamata, e mi appoggiai al mobiletto che avevo davanti, respirando affaticata.
Come avevo previsto, Jareth scattò al mio fianco.
« Più facile di quanto immaginassi » mormorai con il fiato corto.
« Ora torna a riposare » ordinò.
Mi voltai a fronteggiarlo, spazientita dai suoi toni perentori. Insomma, stavo male, è vero, ma non poteva permettersi di comandarmi a bacchetta.
« Ho soltanto un po’ di febbre! » protestai.
« La tua pelle è bollente e sei molto debole. Devi riprenderti in tempo per l’Equinozio ».
« T’importa solo quello, vero? In realtà la mia salute t’interessa soltanto per vincere contro tuo padre. Ovviamente dopo averlo sconfitto potrei anche finire sotto un camion che a te non fregherebbe nulla » esplosi, acida.
Mi resi conto di aver detto veramente troppo solo quando lo vidi curvare le labbra in un’espressione di rabbia e nervosismo. Maledii immediatamente la mia boccaccia, indietreggiando di un passo.
Dovevo imparare a tacere prima che fosse troppo tardi.
« Sarah » cominciò con il suo sguardo glaciale puntato su di me. « Bada a te ».
Non replicai, ma trasalii quando avvertii le mie gambe tremare, in procinto di cedere.
Un po’ per lo spavento, un po’ per la febbre, la debolezza degli arti mi spinse a cercare un appiglio, ma trovai solo le braccia di Jareth.
« Mi dispiace » sussurrai aggrappandomi alle sue spalle.
« Non dire mai più una cosa del genere » mormorò con tono improvvisamente dolce, scostando un ciuffo di capelli neri dalla mia fronte. « Non sopporterei mai di vederti soffrire ».
Non risposi, concentrandomi sul significato di quelle parole.
Stavo sognando? Molto probabile.
Il dubbio mi assaliva in tal modo che fui tentata di darmi un energico pizzicotto sul braccio, ma quando alzai gli occhi fino a incontrare le sue iridi ebbi la certezza di star vivendo nella realtà.
Jareth era sempre stato un tipo enigmatico e misterioso, ma non immaginavo nemmeno il motivo di un cambio di comportamento così repentino. Sì, aveva appena confessato di essere innamorato di me, in ogni caso la rapidità del suo cambiamento non aveva senso.
« Forse è meglio che ti stendi. Non riesco a capire se stai tremando per il freddo oppure per la mia vicinanza… » ghignò beffardo.
Strano a dirsi, ma a una parte di me quel comportamento insolente era mancato. Ovviamente all’altra scatenava ancora un impeto d’irritazione sopra ogni limite.
Scossi la testa, ricambiando l’espressione sorniona. « Non ci contare ».
Sogghignando, senza preavviso mi sollevò la terra a mo’ di sposa. Inutile dire che rischiai quasi una sincope a causa di quel gesto inaspettato. Inoltre ero certa di essere arrossita fino alla punta dei capelli, e in quel momento avrei tanto voluto sotterrarmi.
« Oh, no » mi lamentai mentre mi scarrozzava per il salotto. « Mettimi giù! ».
Mi avvinghiai istintivamente al suo collo, appoggiando la testa sulla sua spalla, mentre lo maledivo in ogni lingua possibile. Lo sentii ridere sommessamente.
« Non ti fidi di me? »
« Dovrei? » scherzai.
« Non saprei ».
Con tutta la delicatezza di cui disponeva, mi adagiò sul divano, senza staccare lo sguardo dal mio.
In quel preciso istante, imprecai mentalmente contro il mio scarso autocontrollo; sentivo di bramare più di qualsiasi altra cosa al mondo le sue labbra morbide e accoglienti.
Volevo di nuovo quel dannatissimo bacio…
« Non immaginavo di farti questo effetto » sussurrò lui, stiracchiando le labbra in un sorriso sghembo.
« Non immaginavo potessi essere… gentile » lo schernii.
« Io sono quel che tu desideri che sia per te » concluse stendendo sopra di me una coperta.
Aggrottai le sopracciglia, confusa. Perché diamine doveva essere così incomprensibile in ogni maledettissima cosa che faceva?
In mezzo a quei pensieri che mi martellavano in testa, scivolai nel dormiveglia, godendomi quegli attimi di piacevole incoscienza.
All’improvviso mi sentii scuotere da qualcuno, e una voce familiare mi chiamava, intimandomi di svegliarmi. Avrei volentieri ucciso quel qualcuno.
« Sarah! Sarah, apri gli occhi! » sibilò al mio orecchio.
Quel qualcuno era ovviamente Jareth.
« Cosa succede? » biascicai infastidita dalla luce del lampadario.
In quel momento mi resi conto che il divano stava traballando pericolosamente, e con esso tutti i mobili del salotto. Compresi che si trattava di un forte terremoto quando vidi il quadro appeso sopra il camino schiantarsi contro il pavimento. « Oh mio Dio ».
Il mago mi sollevò dal divano, aiutandomi ad alzarmi. « Dobbiamo scappare ».
Mi prese per mano e mi strattonò fino alla porta, e insieme ci ritrovammo in giardino, fuori dal pericolo. Con enorme sorpresa notai che le case vicino alla mia erano tutte scomparse; attorno a noi vi era soltanto una grandissima distesa di erba.
« Jareth » sussurrai traballante. « Dove siamo? »
« Non lo so. Ho la strana sensazione che sia opera di Zephit » commentò sarcastico continuando a stringere con vigore il mi braccio.
Era teso come una corda di violino, e molto probabilmente si aspettava un altro attacco da parte del padre.
« Re di Goblin » una voce profonda e dolce come il miele richiamò il mago. Sembrava provenire dall’alto, ma si disperdeva in tutte le direzioni quel tanto che bastava per confonderci.
Jareth sembrò rilassarsi per un momento.
« È lui? » domandai con voce flebile.
« Aramis » sussurrò incredulo, ignorando la mia domanda.
Inarcai un sopracciglio. « Cosa? »
La voce si concretizzò in una figura alta e slanciata davanti a noi, i cui lineamenti si delinearono lentamente, immersi in una nebbiolina.
Fece un passo in avanti, rivelandosi interamente a noi, e allargò le braccia, sorridendo giocondo.
Aveva i capelli corti e scuri, che incorniciavano un bellissimo viso che vantava due iridi dorate.
Mi ricordava tantissimo Jareth.
Quest’ultimo distese i muscoli quando riconobbe l’uomo, e sorrise a sua volta.
« Ben trovato, amico mio » esordì quello piantandomi gli occhi addosso. « E in buona compagnia, oserei dire ».
Avvampai, facendomi più piccola dietro Jareth. Chi diavolo era? E dove eravamo finiti? A giudicare dal tono amichevole con cui Jareth e quel Fae si parlavano, non doveva essere un nemico.
« Mi hai fatto prendere uno spavento, idiota » scherzò il Re di Goblin.
Aramis si avvicinò a noi e diede una vigorosa pacca sulla spalla a Jareth. « Era necessario ».
« Per un momento ho pensato fosse mio padre ad attaccarci ».
«Mi dispiace avervi spaventato. Ma eravate in serio pericolo nell’Aboveground, e così non ho resistito a portarvi qui. Siete la mia unica speranza ». S’interruppe, lo sguardo mesto e segnato dal dolore. Poi riprese a parlare, facendoci un cenno con la mano. « Venite con me, vi ospiterò nel mio castello ».
Aramis s’incamminò davanti a noi, lasciandoci indietro di qualche metro.
« Chi è quello? » domandai a Jareth, che camminava al mio fianco.
« Aramis è il fratello di Elberth, e questo è il suo regno ».
Il fratello di Elberth… Ora riuscivo a spiegarmi il motivo del dolore che gli si leggeva in volto.
« Dove ci sta portando? Come mai ci ha portati qui? Come ha fatto a farti entrare nell’Underground? »
Quel fiume di domande fece sorridere lievemente il mago. « Stiamo andando nel suo castello, e mi dispiace, ma per le altre domande dovrai aspettare le sue delucidazioni; nemmeno io saprei risponderti ».
In quel momento un forte senso di nausea mi ricordò di avere la febbre e mi bloccai sul posto, cercando di respirare aria sana a pieni polmoni. Il dolore alla testa si era affievolito, ma il mio corpo era ancora percorso da brividi di freddo.
Jareth si voltò immediatamente, posandomi una mano sul braccio. « Ti porto io » decretò.
« N-no, ce la faccio. Non è niente di grave » protestai.
Prima che il Re potesse ribattere, Aramis si materializzò davanti a noi, sorridendo.
« Non vi preoccupate, siamo arrivati » assicurò.
A un suo cenno della mano la nebbia che circondava il posto si diradò immediatamente, rivelando un castello di medie dimensioni, le cui mura erano soffocate dall’edera rampicante.
Davanti a noi vi era un profondo fossato colmo d’acqua stagnante, che rafforzò la nausea che mi assaliva, obbligandomi a portare una mano alla bocca.
Aramis fece un passo verso il bordo e continuò a camminarvi sopra, come se ci fosse stato un ponte invisibile sotto i suoi piedi. Rimasi talmente scioccata da suscitare l’ilarità dei due Fae.
« Niente è come sembra nell’Underground » sussurrò Jareth al mio orecchio.
Come Aramis, fece per attraversare il ponte invisibile, ma si fermò non appena si accorse che non lo stavo seguendo. Se pensava che fossi così pazza da fidarmi di due Sidhe, si sbagliava di grosso.
« Andiamo, Sarah » mi esortò Jareth, esasperato. « Non c’è nessun pericolo, per una volta ».
Mi tese la mano, e attese fin quando non ebbi ponderato tutti i possibili modi per torturarlo in caso fosse uno stupido scherzo. Poi mi decisi a salire sul ponte, avvertendo sotto i miei piedi una superficie ruvida ma invisibile al mio occhio.
Mi aggrappai subito alla mano di Jareth, e quando finalmente i miei piedi toccarono di nuovo la superficie visibile, sospirai di sollievo, fulminandolo con lo sguardo.
Aramis ci condusse nel grande cortile del castello, in cui erano disseminati ovunque i segni della rovina del suo regno.
Io e Jareth ci accomodammo in delle panchine di pietra, mentre Aramis si appoggiò a una statua sciupata dal tempo.
« Dunque » cominciò; si prospettava una lunga conversazione. « Il mio regno è stato allontanato e separato dai tre dell’Alleanza, visto il reato commesso da mio fratello, quindi le notizie che riguardano il tuo Labirinto sono giunte a me solo recentemente. Da quanto ho capito, questa ragazza umana è la tua Melwa, giusto? »
Jareth annuì.
« Quindi, in sintesi, il regno di tuo padre è stato condannato dagli altri due a causa tua, e Zephit è deciso a uccidere questa ragazza − Sarah, se non ho capito male − per evitare che i regni Isen e Halifax scatenino contro di lui gli stessi eserciti di demoni che hanno devastato mio fratello. Se riuscisse a mettere le mani su di lei, il suo regno sarebbe libero, e così anche gli altri due. Correggimi se sbaglio ».
« Non ti sbagli » assicurò Jareth.
« Bene. Dunque, non appena mi sono giunte queste voci, ho cercato in tutti i modi di scovarti, di capire dove diamine eri finito, ma non riuscivo a trovarti. Soltanto quando Sarah ti ha chiesto di contattare i suoi amici a Goblin sono riuscito a vederti nell’Aboveground, riuscendo ad intercettarti prima di tuo padre, e ho deciso di portarti qui. Da quanto ne so, mi è sembrato di capire che Zephit ti ha bandito dal Sottosuolo, lasciandoti libero accesso soltanto una volta all’anno: durante l’Equinozio. Ebbene, grazie alla presenza di quest’umana con te, sono riuscito a trasportarti qui ». Fece una pausa per riprendere fiato e puntò lo sguardo sulle mura del castello alle nostre spalle, poi riprese a parlare, in tono malinconico e nostalgico. « Amico mio, guarda il mio regno! Guarda i segni di distruzione che quella maledetta Alleanza ha disseminato nel mio regno, nel regno di mio fratello! Da quando Elberth è stato ucciso, la mia terra ha cominciato a non fruttare più; il cielo si è fatto sempre più greve e da allora questa nebbia lo infesta; il castello sta cadendo a pezzi, e il mio popolo è stato decimato da malattie terribili. Voi due siete l’unica speranza che mi rimane. Se riuscirete a sconfiggere Zephit e a spezzare l’Alleanza, il mio regno tornerà florido e ricco come prima, ed Elberth e Rosalie saranno finalmente vendicati ».
Parlava con voce profonda e assorta, e il suo sguardo era perso in tempi passati, quando ancora tutto era stabile e sicuro.
Mi sentii decisamente in colpa. A causa mia i regni dell’Alleanza avevano ricominciato a cambiare fattezze, e Jareth aveva infranto un patto secolare, rischiando la morte quanto me.
Ancora non afferravo del tutto la ragione per cui eravamo ricercati, ma riuscivo a seguire il discorso di Aramis. Sbadigliai, e appoggiai la testa contro la spalla di Jareth.
Prima che venissimo trasportati nel Sottosuolo era mattina, e non potevo credere di essere già così stanca. Febbre o non febbre − non sapevo nemmeno quanti gradi avessi − non era una cosa normale.
Chiusi gli occhi, e scivolai di nuovo nel dormiveglia, mentre una parte del mio cervello ascoltava i due Fae discutere.
« Sta male? », domandò Aramis, preoccupato.
Avvertii un braccio di Jareth scivolare sotto le mie ginocchia, mentre con l’altro mi cingeva la vita per poi tirarmi su.
« Temo che abbia la febbre, ma è molto più debole del normale ».
Sentii una mano sconosciuta − sicuramente di Aramis − posarsi sulla mia fronte bollente.
Il Fae sospirò. « Io invece temo che sia opera di quei demoni ».
Avevo la testa appoggiata al petto di Jareth, e sentii il suo cuore accelerare i battiti improvvisamente, mentre il suo tono di voce passò dalla preoccupazione al nervosismo.
« Pensi che abbiano… »
« Ne sono certo. L’hai lasciata sola in questi giorni almeno una volta? »
« No, io… Accidenti », imprecò. « Ieri mattina è andata a scuola, l’ho lasciata sola per sei ore ».
« È probabile che qualche scagnozzo di Zephit l’abbia avvelenata senza che lei se ne sia accorta. Il veleno che ha usato è abbastanza potente da ucciderla lentamente ».
« No! No, non può essere », esclamò per poi abbassare il tono di voce. Evidentemente pensava stessi dormendo del tutto, e non voleva svegliarmi. « Deve esserci un antidoto, qualsiasi cosa… »
« Non preoccuparti, Jareth. In tutti questi anni il mio malumore ha ridotto alla miseria questo regno, ma per salvare i miei pochi abitanti dalle malattie ho appreso l’arte delle erbe mediche. Nonostante le mie terre non siano più rigogliose come un tempo, molte di queste erbe curative crescono ancora presso i miei giardini ».
« Aramis, Sarah è stata avvelenata » replicò il mago in tono allarmato. La sua voce tremolante mi spezzò il cuore. Avrei tanto voluto dirgli che stavo bene, che non c’era bisogno di preoccuparsi e che sarei guarita presto, ma sentivo il veleno fare effetto, intorpidendomi ancor più gli arti e impedendomi di aprire la bocca per parlare.
« Quando i demoni hanno attaccato il regno di mio fratello sono accorso in aiuto dei suoi abitanti, che come Sarah erano stati avvelenati, e grazie alle mie erbe sono riusciti a guarire in molti ».
Jareth sospirò di sollievo. « Il veleno è molto più efficace nel Sottosuolo, dobbiamo sbrigarci ».
« Portala dentro e cerca di tenerla sveglia. Ora è in una fase di transizione tra la coscienza e l’incoscienza; devi tenerle la mente occupata, perché se si addormenta sarà per sempre ».
Le sue parole mi spaventarono a morte. Nonostante il mio cervello sembrasse andare a rilento, peggiorando di secondo in secondo, quell’ultima frase giunse subito alla mia mente, infrangendosi contro il mio cuore. Dovevo resistere, eppure quella forza oscura che mi trascinava sempre più in basso pareva farsi sempre più forte e più invitante.
Quello stato di immobilità mi stava infiggendo un dolore psicologico immane, e avrei volentieri messo fine a quella sofferenza se solo non ci fosse stato Jareth al mio fianco.
Mi adagiò su una superficie morbida e lo sentii sedersi di fianco a me, mentre con una mano mi accarezzava i capelli.
« Sarah » sussurrò. « Mi senti? Devi resistere. Resisti al buio, non devi cedere. Presto sarà tutto finito, te lo prometto. Resisti, fallo per me ».
Se fossi stata perfettamente cosciente e con il mio corpo libero dal veleno, probabilmente sarei scoppiata a piangere come una ragazzina. La sua voce allarmata, le sue implorazioni a resistere per lui… Tutto questo mi feriva in maniera brutale, facendomi sentire immensamente in colpa per aver rifiutato il suo amore quattro anni prima e per avergli rivoltato contro il padre. Ma sopra ogni cosa, mi sarei voluta svegliare per lanciarmi fra le sue braccia.
Lo sentii intrecciare le sue dita con le mie. « Non cedere ».
Cominciò a intonare una canzone, e udivo la sua voce più vicina che mai al mio cuore. Cercai di concentrarmi sui versi per allontanare il buio che mi aveva quasi vinta.
 
Making my love
like a shining star
Like a shining star
Baby that's what you are
Like a shining star

                     Shining star, David Bowie


 
Il cigolio di una porta che si apre interruppe la canzone, seguito da dei respiri affannati.
« Le ho prese », esordì Aramis. « Aprile la bocca ».
Jareth obbedì subito, facendomi socchiudere delicatamente la bocca. Sentii dei passi avvicinarsi al mio capezzale, e una sostanza viscida entrò in contatto con la mia lingua e con il mio palato. Mi chiesi come diamine avrei fatto a deglutire, ma scoprii che fu un movimento spontaneo quasi immediato. Non tutto è come sembra nell'Underground...
« È un rimedio efficace, ma dovrà riposare per alcune ore dopo che le erbe avranno assorbito il veleno. Per fortuna siamo arrivati appena in tempo, stava per essere catturata dall’ombra ».
Jareth mi stringeva ancora la mano, e ne fui lieta: era il mio unico appiglio alla realtà.
« Sta soffrendo, lo sento » sospirò il Re di Goblin.
« Non preoccuparti, presto sarà tutto finito. Il veleno paralizza la vittima per poi trascinarla verso il buio della morte, ma nell’Aboveground agisce molto più lentamente rispetto all’Underground, è per questo che prima è collassata così all’improvviso », spiegò l’altro Fae stendendo un pezzo di stoffa bagnata sopra la mia fronte. « Ma starà meglio, vedrai ».
« Quando riuscirà ad aprire almeno gli occhi? »
« Fra alcuni minuti. Ho mischiato l’erba curativa con una pozione magica, quindi agirà piuttosto in fretta ».
Sentii il respiro di Jareth farsi più lento e controllato, e lasciò distendere i muscoli, più tranquillo.
« Jareth », proseguì Aramis. « Devi aspettare che guarisca del tutto ».
« Certo, lo so. Non la lascerei mai affrontare mio padre in queste condizioni », promise il mago.
« Hai un piano? »
Sentii Jareth sbuffare. « No… Ma se è stata in grado di sconfiggere me, potrebbe vincere anche contro mio padre. Sinceramente non ho mai avuto un piano; se non fosse stato per te, non avrei nemmeno saputo come tornare nel Sottosuolo durante l’Equinozio » confessò.
« Sarò felice di aiutarvi fin dove posso, amico mio. E se c’è una cosa che so per certo, è che dovrete affrontare Zephit insieme. Siete legati, Jareth, e lo sai. Lei è la tua Melwa, e se dovesse perire la seguirai nella morte. Ma questo non succederà se sarete insieme. Tieni gli occhi aperti, Jareth; tuo padre sa queste cose meglio di me, e cercherà a tutti i costi di dividervi. È l’unico modo che ha per vincere ».
Intanto, dentro di me sembrava ci fossero due forze in contrasto che lottavano per avermi: una era il buio che continuava a gridare imperterrita il mio nome, mentre l’altra era una luce calda e accogliente. Pareva stessero giocando al tiro alla fune. Ovviamente la fune ero io.
Ad un tratto la luce si fece più vicina, avvolgendomi. Nel medesimo istante uno strano formicolio percorse le mie dita, che finalmente riuscii a muovere.
Esultai mentalmente, mentre la speranza mi pervadeva e l’ombra si faceva sempre più piccola.
Resisti, resisti, resisti. Ce la puoi fare, Sarah. Combatti!, continuavo a ripetermi, combattendo fino allo stremo delle forze.
Ce la stavo facendo. Le erbe mediche stavano funzionando.
Riuscii persino a stringere la mano di Jareth dopo qualche secondo, e avvertii la sorpresa mita a sollievo nel suo tono di voce. « Mi ha stretto la mano » sussurrò incredulo. « Le erbe stanno assorbendo il veleno! »
« È una ragazza forte. Non ho mai visto nessuno reagire così. Solitamente la maggior parte si arrendeva alla morte, ma lei… È come se qualcosa la stesse trattenendo qui ».
Certo, avrei risposto, è Jareth la mia ancora alla vita.
« Queste erbe sono molto efficaci ».
« Certo, ma raramente le persone riescono a resistere al buio prima che vengano curate ».
Jareth rise sommessamente; una risata colma di gioia e orgoglio.
« Avanti Sarah, apri gli occhi » m’incitò speranzoso.
La stessa speranza animò il mio spirito e in un ultimo spossante tentativo di allontanare definitivamente le tenebre, riuscii a vincere la morte e aprii debolmente gli occhi.
La prima sensazione era ovviamente la confusione; sembrava che il soffitto vorticasse sopra la mia testa. Poi avvertii una stanchezza immane piombarmi sulle spalle, e solo in quel momento mi resi conto di star respirando affannosamente, i polmoni avidi di ossigeno.
« Sarah » sussurrò Jareth. « Sono qui ».
Riuscii persino a spostare il capo in direzione del suo viso, che mi aspettava sorridente, più bello che mai. Sbattei debolmente le palpebre, mentre i miei occhi s’inumidirono.
Provai a parlare, ma dalla mia bocca uscii solo un rantolo confuso.
Jareth mi posò un dito sulle labbra. « Non ti sforzare, mia preziosa ».
Stiracchiai le labbra in un lieve sorriso.
« Sarah, ora sei libera dal veleno. Riposati, e vedrai che quando riaprirai gli occhi riuscirai a muoverti del tutto » s’intromise Aramis. « Jareth, puoi seguirmi un momento? »
Lessi l’esitazione nei suoi occhi spaiati. Dopo che ebbe lanciato uno sguardo incerto nella mia direzione, si decise a obbedire, seppur di malavoglia.
Uscirono entrambi dalla stanza e io mi decisi a chiudere gli occhi, scivolando subito in un sonno tranquillo. 

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Capitolo 8
*** How to save a life ***


Sogni di Cristallo

Capitolo VIII - How to save a life



 
Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life

                        The Fray, How to save a life


Quando riaprii gli occhi sentii tutti i muscoli intorpiditi.
La prima cosa che mi saltò in mente fu il buio che mi attirava verso di sé, che all’improvviso si ritrovava schiacciato dal suo opposto: una luce fortissima, calda. Poi i volti di Aramis, Jareth e il castello del primo si fecero posto nella memoria. Avevo sognato tutto?
Cercai di tirarmi su a sedere, e appoggiai la schiena al muro. « Accidenti » biascicai portandomi una mano alla tempia. « Dove diamine sono? »
Mi guardai intorno e mi accorsi di trovarmi nella stessa stanza che le ultime immagini sfocate dei miei ricordi ritraevano.  
« Sei a Feanor, il regno di Aramis, fratello di Elberth » esordì una morbida voce femminile. « E no, non stai sognando ».
Mi voltai nella direzione della voce e vidi una donna bellissima, dal volto giovane ma senza età. La sua pelle era scultorea, pallida come un lenzuolo ma candida come la neve; gli occhi somigliavano a due zaffiri incastonati nel bianco marmo del suo viso e brillavano di luce propria. Indossava una veste di un verde chiaro che non aveva altro ornamento che una cinta di foglie intrecciate con fili d’argento. Era l’essere più incantevole che avessi mai visto.
Si avvicinò leggiadra, dandomi l’impressione di star fluttuando, e mi rivolse un sorriso splendente, talmente bello da togliere il fiato. Si sistemò i capelli dietro un orecchio, e in quel momento vidi la sua forma: lievemente a punta. Un solo pensiero sfrecciò nella mia mente: la ragazza che avevo davanti era un elfo.
«Benvenuta a Feanor, Sarah » disse quasi cantando. « Come ti senti? »
« Tu chi sei? »
La sua risata argentina risuonò come un tintinnio di campanelli. « Perdonami, non mi sono presentata ». Si schiarì la voce, tendendomi la mano. « Io sono Amarie, la compagna di Aramis ».
Aramis aveva una compagna? Perché non ce l’aveva presentata?
Le strinsi la mano, e avvertii il calore della sua pelle diffondersi nella mia come se dei raggi di sole mi stessero illuminando. Da quella figura marmorea mi sarei aspettata un contatto più freddo.
« Ero nel mio giardino fino a un momento fa, è per questo che non mi hai vista prima d'ora » spiegò quasi mi avesse letto nel pensiero. « E sì, cara, non ti spaventare, ma sono in grado di leggere nella mente ».
Sgranai gli occhi, incontrando i suoi, più luminosi che mai. « Davvero? »
Ma quante diamine di cose erano in grado di fare le creature del Sottosuolo? Il mio pensiero ricadde subito su Jareth e sulle sue sfere di cristallo.
A proposito, dov’era finito il Re di Goblin? Perché non era lì con me?
« Jareth sta bene, non preoccuparti » rispose Amarie alle mie domande che avevo solo pensato. « È fuori con Aramis, stanno facendo una passeggiata ».
Avvampai, consapevole che in quel momento stesse frugando nel mio cervello e avrebbe visto tutto ciò che legava me e Jareth. Non che ce ne fosse bisogno, però; il battito accelerato del mio cuore a sentir nominare il mago era di per sé una prova inconfutabile.
Alzai lo sguardo, imbarazzata, e incontrai il suo dolce sorriso.
« Sarah », cominciò prendendomi una mano fra le sue. « Conosco i tuoi sentimenti verso Jareth, ma credimi se ti dico che non mi permetterei mai di intromettermi nei tuoi ricordi ».
« Scusami, è che non ho mai conosciuto nessuno in grado di leggere nel pensiero » ammisi con una punta di sarcasmo. Quale umano avrebbe potuto vantare di un tale dono?
« Non è sempre un vanto » rispose Amarie. « Da piccola non riuscivo a controllare il mio dono e sembrava che gli altri mi stessero urlando ciò che pensavano, e non era affatto piacevole. Crescendo ho imparato a controllarlo, e ora posso scegliere personalmente quando leggere nella mente delle persone e quando invece allontanarmi dai loro pensieri ».
« È fantastico » mormorai.
Tutti i Fae e le creature del Sottosuolo che conoscevo avevano un dono speciale: Aramis conosceva le erbe curative e la magia legata alla medicina; Jareth era il mago delle illusioni e poteva accedere ai tuoi sogni più segreti per poi manipolarli a suo piacimento; infine Amarie sapeva leggere nel pensiero.
In mezzo a tutti quegli esseri meravigliosi e perfetti, cosa contavo io? Non ero altro che un pesce rosso in un banco di squali. Ovviamente, nessuno di loro mi avrebbe sbranata.
Amarie sorrise delle mie riflessioni e mi fece alzare dal letto. « Forza, ti porto nel mio giardino ».
Non feci in tempo a ribattere che la ragazza mi aveva già preso per mano, trascinandomi fuori dal castello. Non capivo cosa mai ci fosse di tanto entusiasmante in un posto come quello; la decadenza segnava qualsiasi cosa nel regno di Aramis… Di certo il giardino di Amarie non poteva essere un’eccezione.
Invece così fu. Mi condusse attraverso un ampio corridoio tristemente spoglio di qualsiasi decorazione degna di un castello e si fermò davanti ad una porta, spalancandola.
All’improvviso un lampo abbagliante di luce m’investì, obbligandomi ad assottigliare gli occhi; non appena le mie pupille si furono abituate alla luce esterna − così diversa dalle lande desolate che circondavano il castello − proruppi in un’esclamazione meravigliata che fece ridacchiare Amarie.
Davanti a me si stendeva un giardino circolare, chiuso alle estremità dalle mura, la cui bellezza strideva terribilmente col grigio pallore del regno; aiuole di fiori dai mille colori, cespugli sagomati in forme bizzarre e al contempo stupefacenti, meravigliose statue di cristallo raffiguranti piccoli angeli disseminate ovunque… Era il posto più bello che avessi mai visto in vita mia.
Davanti alla porta vi era una piccola stradina di sassi bianchi e levigati, che conduceva al centro del giardino, dove era collocata una maestosa fontana di marmo bianco. Notai che non era l’unica, bensì dal centro del giardino partivano diversi brevi viottoli e ciascuno guidava a un’altra porta.
Incantata, mossi un passo verso quella meraviglia così surreale, ma Amarie mi bloccò prima che potessi varcare la soglia.
« Sarah, aspetta » mi ordinò, rigida.
Aggrottai la fronte, perplessa. « Ho fatto qualcosa di male? »
La sua risata argentina mi tranquillizzò, distendendo i miei nervi.
« No, cara » rispose. « Il fatto è che questo posto è alimentato dalla mia magia. Come hai potuto notare, Feanor è tempestata dai segni della disperazione di mio marito dalla perdita del fratello. È una ferita che ancora non è rimarginata e Aramis ne soffre moltissimo. Di conseguenza, dato che il suo regno è una parte di lui, anch’esso subisce la stessa lesione. Questo giardino ti sembra stonare con la desolazione del regno perché è protetto dalla mia magia ».
« E io non posso entrarvi? »
« Certo che puoi, Sarah. Ma soltanto se accompagnata da un essere magico del Sottosuolo. Vedi, tu sei un’umana, e la magia che nutre questo posto sarebbe opprimente per il tuo fragile corpo. Quindi dovrai tenermi per mano, e che non ti salti in mente di lasciarla » si raccomandò.
Annuii, ansiosa di entrare in quel piccolo paradiso.
« Se dovesse succederti qualcosa Jareth non me lo perdonerebbe mai » proseguì sorridendomi. « Perciò niente pazzie! »
« Stai tranquilla, hai la mia parola » promisi con un sorriso.
Amarie mi prese delicatamente la mano e insieme varcammo la soglia della porta, immergendoci nel verde del giardino. Solo in quel momento notai, spostando gli occhi al cielo, che in alto volavano degli uccelli dalle piume dei colori più insoliti.
Continuammo a camminare mentre io mi guardavo attorno, felice come un bambino il giorno di Natale. « È bellissimo » mormorai ammirando un’aiuola di tulipani rossi e blu.
Arrivati al centro, Amarie mi fece sedere nel bordo della fontana di marmo, stringendomi saldamente la mano.
« Tu sei… un Fae? Come Aramis e Jareth? » domandai curiosa.
Amarie spostò lo sguardo verso un piccolo uccello variopinto, che si era posato sopra il ramo di un albero. « No, non sono come loro. Sono una creatura dell’Underground, ma non un Fae; sono un Elfo » disse ripetendo il gesto di poco prima per scoprire le graziose orecchie a punta. « E sono la Melwa di Aramis ».
« Pensavo che solo gli umani potessero esserlo… ».
« Assolutamente no. Persino le femmine Fae possono esserlo. Ma accade raramente che nasca un Fae con questo dono ».
« Come? »
« Jareth non te l’ha detto? » chiese stupita. « In realtà sono molto pochi i Fae che possiedono una Melwa. Aramis e Jareth sono − per ora − gli unici di tutto l’Underground».
Sgranai gli occhi, incredula.
« D-dici davvero? » balbettai.
« Certo. È un bellissimo dono, che purtroppo in certi casi viene condannato, com’è successo ad Elberth ».
« Ovvero solo nei casi in cui la suddetta Melwa è un’umana » borbottai.
A causa mia − una semplice e insignificante umana − Jareth era stato privato della sua città e del suo Labirinto. Nonostante fossi io quella che rischiava la pelle ogni secondo che passava, il senso di colpa mi stava dilaniando.
Lei fece scontrare le sue iridi celesti contro le mie. « Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno » bisbigliò. « Sei fortunata ad avere Jareth, e lui è fortunato ad avere te ».
« Non credo proprio », replicai. «Se non fosse per me, lui ora sarebbe a Goblin, senza doversi preoccupare di dover proteggere una ragazzina ».
Amarie sospirò, chiudendo la mia mano fra le sue. « Certamente, lui ora sarebbe a Goblin, circondato dai suoi sudditi e tra le mani ancora il Labirinto. Avrebbe tutto questo, ma sarebbe solo ».
Solo. Fin dal primo istante che lo vidi, quella sera di quattro anni prima, riuscii a cogliere nei suoi occhi una tristezza che soltanto le persone senza nessuno da amare possono avere. Ma quando era piombato di nuovo nella mia vita, soltanto pochi giorni prima, avevo scorto nei suoi occhi una luce diversa, che illuminava il suo sorriso sghembo che tanto mi faceva innervosire.
« Lo so, ma se dovesse morire per colpa mia... »
« Vi salverete, Sarah. Finché rimarrete insieme non vi accadrà nulla di male, e potrete fare qualsiasi cosa » replicò Amarie. « Fidati di me. Io amo Aramis più della mia stessa vita e so che insieme possiamo vincere contro qualsiasi sortilegio. Accade questo, quando un Fae incontra la sua Melwa ».
Non risposi, continuando testardamente a fissare il vuoto. Dentro di me aveva luogo una lotta estenuante fra il desiderio di rimanere con Jareth e abbandonare la mia vita da umana e fra quello di continuare a vivere normalmente, con la mia famiglia e i miei amici.
« Sarah, conosco i tuoi sentimenti. Che tu lo voglia o no, li stai gridando con tutta l’aria che hai nei polmoni, nonostante ti ostini a reprimerli. Devi imparare ad accettarli. Jareth ti ama ».
« Lo so » sospirai, abbassando lo sguardo.
« E allora cosa c’è che ti preoccupa? »
Esitai, prima di liberare il mare di pensieri che mi martellavano la testa. « Amarie, io non voglio ferirlo. So che non potrei mai diventare sua regina abbandonando la mia vita nel mio mondo e assecondandolo finirei per illuderlo, e non voglio questo ».
« Se vi amate davvero − e so che è così − sacrifici del genere non saranno nulla in confronto a ciò che potrete vivere insieme. Io ho accettato di stare con Aramis nel suo regno e ho lasciato il mio, di cui ero regina. Ma non sei obbligata a diventare sua regina per stare con lui. Ci sono delle alternative ».
« Il fatto è che sono confusa » ammisi spostando lo sguardo sulle mie scarpe.
Prima che Amarie potesse ribattere, la vidi raddrizzare le spalle, tendendo le orecchie. I suoi occhi indagavano sulla fonte del rumore che si avvicinava e quando anche il mio udito umano riuscì a recepirlo, capii che era un suono di passi.
Allarmata, cercai qualche spiegazione nello sguardo di Amarie. Lei sembrò percepire la mia preoccupazione e mi tranquillizzò stringendomi forte la mano. « Non è nulla, tranquilla », bisbigliò con voce melodica. « Sono solo Jareth e Aramis che tornano dalla passeggiata ».
In quel preciso istante dalla stessa porta che avevamo varcato noi per entrare nel giardino, ecco spuntare le inconfondibili figure slanciate dei due Fae.
Riconobbi subito il suo volto, solcato dall’immancabile sorriso sghembo che mi irritava così tanto, ma che avevo imparato ad amare. Jareth si avvicinò alla fontana, seguito da Aramis, senza staccare per un istante i suoi occhi da me. Istintivamente feci per alzarmi e corrergli incontro, ma la stretta di Amarie mi bloccò in tempo, prima che potessi commettere chissà quale idiozia.
« Amarie » esordì Aramis con un tono di dolce rimprovero. « Ti avevo detto di lasciarla riposare nella sua stanza ».
L’elfa rise. « Mi dispiace, non ho saputo resistere alla tentazione di portarla qui ».
Poi, sotto un’occhiataccia di Jareth, lei alzò le nostre mani congiunte. « Tranquillo, barbagianni. Con me è al sicuro ».
Vidi il Fae sogghignare, fermandosi proprio davanti a noi. « Lo spero per te, orecchie a punta ».
Quello scambio di frecciatine amichevoli mi fece sorridere, e in quel momento desiderai solo potermi lanciare tra le braccia di Jareth. Ora che non ero più sotto l’effetto del veleno e che lui era così vicino a me, mi sembrava terribilmente ingiusto privarmi di questo.
Amarie parve ascoltare i miei pensieri e mi rivolse un dolce sorriso. Si alzò dal bordo della fontana facendomi cenno di imitarla, e con cautela appoggiò la mia mano su quella di Jareth, attenta a non lasciarmi nemmeno un secondo senza il contatto di uno dei due.
Il mago piantò il suo sguardo nel mio, studiando ogni singolo centimetro della pelle del mio viso.
« Stai bene? » domandò.
Senza rispondere, strinsi la sua mano e lo strattonai senza troppe cerimonie verso di me e gli lanciai l’altro braccio al collo, affondando la testa nella sua spalla. Mi costrinsi a ricacciare indietro le lacrime, per evitare l’ennesima figura da bambina frignante. Jareth appoggiò la sua mano sulla mia nuca, mentre l’altra lasciava la mia e andava ad accarezzarmi la schiena.
« Non avrei dovuto lasciarti sola nemmeno un secondo ». Avvertii nel suo tono di voce il senso di colpa che lo stava dilaniando.
Avrei tanto voluto rassicurarlo, dirgli che lui era stato per me l’unica ancora alla vita nella mia lotta contro le tenebre, invece dalle mie labbra uscirono solo due insignificanti parole: « Va tutto bene ».
Quel momento sarebbe potuto durare per sempre − e a me non sarebbe dispiaciuto − se solo la voce di Aramis non avesse spezzato il silenzio. Lui e Amarie avevano lasciato il giardino ed erano tornati dopo minuti, a quanto pareva portatori di cattive notizie.
« Jareth », esordì il Fae. « Mi spiace disturbarvi, ma c’è una persona che desidera vederti ».
Jareth si sciolse dalla mia stretta, senza però dimenticarsi di tenermi per mano, e mi costrinse a seguirlo fino alla porta, dove ci attendeva la coppia.
Lui e Aramis si scambiarono un fugace scambio di sguardi, che colsi come un avvertimento.
Che Zephit ci avesse scovati? O magari era persino riuscito ad arrivare fin qui? Era già pronto ad ucciderci? Il regno di Aramis non aveva un esercito e Zephit avrebbe potuto sottometterlo quando voleva.
« Cosa succede? » domandai, ma nessuno si degnò di rispondermi finché non arrivammo all’entrata del castello, nel cortile di accesso alla struttura dove poche ore prima Aramis aveva spiegato a me e Jareth di come ci avesse portati a Feanor.
All’improvviso tutti si fermarono e a causa dei miei scarsi riflessi andai a sbattere contro la schiena del Re di Goblin, prorompendo in un’imprecazione sottovoce.
Jareth mi fulminò con lo sguardo, intimandomi di restare dietro di lui, ma quando scorsi a pochi metri da noi chi era la persona che desiderava vederci, non resistetti e mi feci spazio fra lui e Amarie. Sgranai gli occhi quando il mio sguardo cadde su una figura femminile decisamente simile a Jareth: una pioggia di capelli ramati le ricadeva lunga e liscia sulle spalle, mentre le sue iridi di ghiaccio ci scrutavano con una certa impazienza. Era vestita con un abito simile a quello di Amarie, solo di un blu scuro come la notte. Notai solo dopo aver esaminato con stupore la somiglianza con il Re di Goblin che portava due orecchini con la stessa forma del ciondolo di Jareth.
Allora capii: era sua madre. Avrebbe potuto essere persino sua sorella, dato che il suo volto da Fae era senza tempo, ma qualcosa nel suo sguardo confermava la mia prima tesi.
« Zaphira » sussurrò Jareth al mio fianco, con una nota di stupore impressa nella voce.
« Figlio mio » rispose quella, accennando un debole sorriso. « Sono felice di vederti sano e salvo ».
« Strano, fino a poco tempo fa avrei scommesso che stessi aiutando mio padre a trovarci » ringhiò Jareth.
Zaphira fece un passo ma Aramis la bloccò, puntandole contro la spada. « Non ti avvicinare ».
La donna allargò le braccia, lasciandosi sfuggire un gemito di esasperazione.
« Oh, andiamo. Non sono venuta qui per conto di mio marito. Voglio aiutarvi. Voglio aiutare mio figlio. Purtroppo ho capito troppo tardi quale fosse il mio dovere, troppo accecata dal potere di cui tuo padre si stava impossessando; troppo occupata a preoccuparmi di quella stupida Alleanza per pensare a ciò che era realmente giusto fare: difendere mio figlio ».
Mentre parlava, sembrava veramente pentita e segnata dal dolore, e aveva osato avvicinarsi a noi, fino a fermarsi a poche spanne da me e Jareth.
Mi rivolse un lieve sorriso. « Non permetterò a tuo padre di privarti dell’amore ».
Il mago non rispose, limitandosi a sfiorare la mia mano con la sua per mettermi in guardia.
« Figlio mio, io non conosco i piani di Zephit; ha sempre cercato di tenermi all’oscuro di ogni cosa, poiché sicuramente dubitava sin dal principio che sarei rimasta fedele a lui, così ansioso di uccidere il proprio figlio pur di evitare l’invasione del suo regno » proseguì Zaphira, osando persino posare una mano sulla spalla del figlio, il quale rimase impassibile al suo tocco leggero. « Tuttavia posso aiutarti a prevedere le sue prossime mosse e suggerirti un piano per riuscire a sconfiggerlo, se tu me lo permetti ».
Con la mano sinistra tentò di sfiorarmi la guancia in un sincero gesto di affetto, ma Jareth le afferrò saldamente il polso, allontanandola da me. Nonostante ormai fosse chiara la sua resa e la sua proposta di aiuto, lui non si fidava. Non si fidava di sua madre.
Ora cominciavo a capire di quali differenze parlava Jareth quando, raccontandomi la storia della ribellione del Labirinto, affermò che nell’Underground nella maggior parte dei casi veniva considerato veramente un figlio dai genitori solo in faccende politiche.
Nel frattempo, Aramis e Amarie erano rimasti fermi a guardare, sempre pronti a intervenire in caso di attacco inaspettato da parte della nuova comparsa, ma ormai sembravano tranquilli, soprattutto perché l’elfa avrebbe sicuramente avvertito il pericolo nei pensieri della donna.
« Non ti azzardare anche solo a sfiorarla » sibilò il Re di Goblin.
Zaphira ritrasse il braccio, scuotendo impercettibilmente il capo. « Mi rendo conto che ancora non ti fidi di me » biascicò con amarezza. « Ed è giusto così; in fondo, solo ora mi accorgo di non essere stata una vera madre per te ».
Sembrava sincera. Anzi, sicuramente lo era e anche Jareth se n’era accorto da un bel pezzo. Tuttavia gli leggevo negli occhi che ancora non riusciva a fidarsi.
« Possiamo parlare in privato? » domandò il Fae.
Aramis e Amarie si congedarono con un cenno del capo, mentre io esitai sul posto, incatenando il mio sguardo a quello del mago. Non voglio lasciarti di nuovo, avrei voluto dirgli.
Lo vidi sorridere appena, sfiorandomi la guancia con la mano guantata. « Vai a riposare, mia preziosa. Ti sei appena rimessa da un avvelenamento » mi ricordò.
Invece io non mi sentivo affatto stanca. Una nuova e strana energia ribolliva dentro di me, e sospettai che la magia che teneva in vita il giardino di Amarie mi avesse aiutata a guarire più in fretta, donandomi persino rinnovate forze.
Tuttavia acconsentii, temendo già il momento in cui lo lascerò solo con il suo passato.
Annuii impercettibilmente e mi voltai, lasciando che Amarie e Aramis mi guidassero fino alla mia stanza. Prima che entrassi, Amarie mi strinse in un delicato abbraccio.
« Ci vediamo domani, Sarah » mi sussurrò all’orecchio. « Io devo andare a curare i malati del villaggio ».
Annuii, sciogliendomi dalla stretta. « A domani, allora ».
Mi rivolse un ultimo sorriso per poi voltarsi, camminando a fianco del marito che le cingeva le spalle con fare protettivo. Nel loro regno era sopravvissuto solamente un villaggio ed entrambi facevano del loro meglio per aiutare i loro sudditi. Mi chiesi che aspetto avessero questi ultimi, se fossero elfi, fate o altri esseri magici del Sottosuolo, poi scossi la testa, concentrando i miei pensieri sulla madre di Jareth. Senza dubbio voleva sinceramente aiutarci, dato che Amarie avrebbe potuto avvisarci del contrario servendosi del suo dono di leggere nel pensiero; nonostante ciò, il Re di Goblin esitava ancora a fidarsi di lei.
Non conoscevo il passato di Jareth, ma qualcosa mi diceva che questa sua titubanza derivava da eventi che potevano avergli sconvolto l’infanzia.
Straripante di energia, decisi di recarmi nella biblioteca del castello, che avevo intravisto dietro una porta socchiusa mentre Amarie mi guidava verso il suo giardino.
I corridoi erano talmente deserti e silenziosi da farmi venire i brividi.
Camminai finché non riconobbi la fila di porte tra le quali dovevano esserci quelle per il cortile di Amarie e per la biblioteca di Aramis. In quel momento due voci distinte giunsero al mio orecchio, ma erano troppo intrecciate e confuse perché ne potessi identificare i proprietari.
Sembrava che, chiunque fossero, si stessero gridando addosso sottovoce, attenti a non farsi scoprire da nessuno. Incuriosita, mi avvicinai finché non riconobbi le voci: erano Jareth e sua madre.
Sbirciai attraverso lo spiraglio della porta socchiusa e li vidi in piedi, l’uno di fronte all’altro, che parlavano con tono nervoso e preoccupato. Jareth stava camminando avanti e indietro, sbattendosi ritmicamente il frustino contro la gamba, mentre Zaphira se ne stava ritta sul posto con espressione impassibile, senza scomporsi.
« Jareth, non c’è alternativa » proseguì la donna. « Zephit invierà qui le sue truppe entro domani e il regno di Aramis non può rispondere all’attacco: Feanor non ha più un esercito ».
Il sangue mi si raggelò nelle vene quando le immagini di quei demoni che assalivano Feanor mi occupavano la mente. No, non potevano attaccare Aramis e Amarie. Loro non avevano fatto nulla.
« E allora cosa possiamo fare?! Hai detto che sei venuta qui per aiutarci, ma ancora non mi hai suggerito nulla di utile per fermare Zephit! » gridò il Fae, furioso.
« Calmati » s’impose Zaphira. « Calmati e ascolta la mia teoria ».
Jareth si fermò, stringendo convulsamente i pugni.
« Conosco solo un’alternativa alla morte di quell’umana per liberarci da questa condanna: dobbiamo radunare un esercito ».
Sgranai gli occhi quando le sue parole giunsero alle mie orecchie. Dobbiamo combattere? Con quale esercito? Anche se Aramis riuscisse a convincere i pochi abitanti del suo villaggio a imbracciare le armi contro le truppe di demoni di Zephit, non sarebbe comunque bastato a vincere.
Ci avrebbero annientato. Ormai era solo questione di tempo.
« Ti ha dato di volta il cervello? Non ci riusciremo mai! Abbiamo poche ore e nessuno si farebbe avanti per aiutarci » ribatté Jareth.
« È l’unica alternativa che abbiamo per salvare Sarah » esordì Aramis, che spuntò da dietro uno scaffale della libreria. Come poteva essere d’accordo con lei? Preferiva andare incontro a morte certa con i suoi sudditi per proteggere me? No, non potevo permetterglielo.
« Zephit vuole la sua morte, Jareth. Solo quando il suo cuore cesserà di battere, l’Alleanza revocherà la minaccia d’invasione al regno di tuo padre. Potremmo temporeggiare, in modo da aspettare che i Tre Regni lo sconfiggano prima di noi, ma poi sarebbero loro a darle la caccia, perché se non muore lei, i loro territori continuano a cambiare, modellandosi ai suoi sogni », continuò il Re di Feanor.
« Quindi mi stai dicendo che o Sarah muore oppure dobbiamo combattere contro gli eserciti demoniaci di Zephit? E poi cosa accadrà, una volta sconfitto mio padre? L’Alleanza continuerà a bramare la sua morte? » lo interruppe Jareth, sbattendo furiosamente i pugni sul tavolo di legno al centro della sala.
« Sai cosa succederà » intervenne Zaphira. « Tu diventeresti il nuovo re di Xanthi e Sarah la tua regina. Solo a quel punto sarete entrambi al sicuro ».
Il cuore fece una capriola nel mio petto. Regina di Xanthi? Quindi sarei diventata come loro… Immortale e destinata a un futuro accanto a Jareth.
« Comunque non riusciremo mai a procurarci un esercito alla pari di quello di Zephit ».
Non avevo mai visto Jareth più abbattuto di così. E mi dispiaceva terribilmente essere la causa di tutto quel disastro, anche se effettivamente non ero stata io a sovvertire l’ordine del tempo e a mettere sottosopra l’intero Underground.
Sentii Aramis sospirare rumorosamente, mentre si sedeva a sfogliare un libro.
« Mentre curavi Sarah dall’avvelenamento hai detto che se vogliamo sconfiggere mio padre dobbiamo farlo insieme… Cosa intendevi precisamente? » domandò il Re di Goblin.
Aramis alzò gli occhi dalle pagine del vecchio tomo. « Intendevo proprio affrontarlo insieme, voi due soli. Ma so che non lo permetteresti mai, perché esporrebbe Sarah a un rischio troppo grande: non è sicuro che possiate farcela e non so nemmeno in che modo potreste vincerlo. Ma quando siete arrivati qui, ho intuito subito che siete irrimediabilmente legati come lo siamo io e Amarie, e insieme potreste fare qualsiasi cosa ».
Jareth scosse la testa. «No, Sarah se ne andrà domani con Amarie a cercare protezione dagli Elfi ».
« Potremmo chiedere aiuto a loro » propose Zaphira.
« Non accetteranno mai ».
« Invece sì, Jareth. Potrebbero, se sarà Amarie a chiederlo. In fondo lei era la loro regina e loro sono rimasti ancora fedeli a lei » replicò Aramis.
« Che aspettiamo? Mandiamo tua moglie a chiedere aiuto! »
« Hai ragione, Zaphira. Dobbiamo aspettarci un attacco domani, e forse se io e Amarie partiamo questa sera riusciremo ad arrivare in tempo con i rinforzi ».
Aramis si alzò di scatto. « Vado al villaggio ad avvertirla. Se tutto va bene, ci vedremo domani all’alba ».
« Fai attenzione », si raccomandò Jareth. « E grazie di tutto ».
L’altro Fae sorrise e gli batté una mano sulla spalla, per poi dirigersi a grandi falcate verso la porta.
Verso di me.
Realizzai in quel momento che dovevo nascondermi se non volevo essere scoperta a origliare, perciò costrinsi le mie gambe a muoversi. Anche se mi fossi messa a correre non avrei raggiunto l’angolo del corridoio, quindi decisi di infilarmi nella stanza adiacente alla biblioteca, socchiudendo la porta senza far rumore.
Un secondo dopo Aramis vi passò davanti e ringraziai il cielo di aver avuto la prontezza di eclissarmi. Uscii subito dal mio nascondiglio e decisi di non ascoltare oltre la discussione tra Jareth e Zaphira, così me ne tornai nella mia camera.
Mi sedetti sul letto e mi portai le mani ai capelli, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
Ero un disastro. Un completo disastro.
Era assurdo come una semplice umana come me avesse potuto scatenare quel putiferio.
Non solo Zephit mi dava la caccia con le sue schiere di demoni assetati del mio sangue, ma adesso c’erano di mezzo anche Aramis e Amarie, e tutti gli abitanti del loro regno e molto probabilmente persino gli Elfi. Oltre che Jareth, ovviamente.
Questo pensiero mi mozzò il respiro, che diventò affannoso e irregolare, come se stessi per andare in iperventilazione. E, in effetti, c’ero molto vicina.
Okay, calmati, Sarah, mi ordinò il mio cervello. A quindici anni hai risolto il Labirinto del Mago delle Illusioni. Non puoi arrenderti così; devi trovare una soluzione.
Cercai di ascoltare quel poco di ragione che mi rimaneva, ma ormai il panico aveva messo radici nel mio animo e a quel punto sapevo di non avere speranze di salvare gli altri.
A meno che…
M’illuminai improvvisamente, mentre le parole di Aramis mi rimbalzavano nella mente: « Zephit vuole la sua morte, Jareth. Solo quando il suo cuore cesserà di battere, l’Alleanza revocherà la minaccia d’invasione al regno di tuo padre ».
Quindi ero io la chiave. O meglio, la mia morte era la soluzione di tutto.
La mia vita era il prezzo da pagare per allontanare la minaccia che incombeva su Jareth e gli altri. E mi sarei sacrificata volentieri, se solo non fossi stata certa che mi sarei trascinata nella tomba anche il Re di Goblin; perché se fossi morta, anche i miei sogni si sarebbero spenti con me, e di conseguenza anche lui.
Ma forse avevo una possibilità: rinchiudere i miei sogni in un cassetto. In un cassetto blindato, a prova di bomba, per proteggere Jareth.
Avevo paura, non lo nego. Ma sapevo che era la cosa giusta da fare e questo mi aiutava a combatterla.
In quel momento Jareth spalancò la porta della mia stanza, e in un silenzioso attimo mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri di distanza dal mio. Per un istante che mi parve meravigliosamente infinito, rimase a osservare i miei occhi, ed io mi persi inevitabilmente nei suoi.
Poi appoggiò una mano sulla mia guancia e con l’altra mi cinse la vita, attirandomi a sé. Le nostre labbra si incontrarono per una seconda volta, e in quel momento desiderai solo che quel momento non finisse mai.
Era un bacio decisamente migliore del primo e fu proprio questo a convincermi della giustezza della mia scelta: avevo finalmente capito di amarlo e avrei dato la vita per lui a tutti i costi.
Persino spezzargli il cuore.
Ringraziai il cielo che Amarie non fosse lì a leggere i miei pensieri, altrimenti avrebbe saputo del mio piano e mi avrebbe impedito di attuarlo. Ma a quanto avevo capito lei sarebbe tornata la mattina dopo all’alba, quindi dovevo fare presto.
La consapevolezza della mia morte imminente e del fatto di non poter mai più rivedere Jareth, mi spinse a prolungare quel bacio. Un bacio meraviglioso, ma che mi riempì d’angoscia.
D’un tratto avvertii i miei occhi inumidirsi e un secondo dopo mi resi conto di star piangendo sommessamente. Il Re di Goblin allontanò di poco il suo viso, sfiorandomi la guancia tempestata dalle lacrime con dolcezza.
« No, non piangere, mia preziosa » sussurrò. « Andrà tutto bene ».
Mi attirò di nuovo a sé, questa volta in un soffice abbraccio.
« C-che cosa ti ha detto Zaphira? » domandai fingendo ingenuità.
Lui esitò, stringendomi contro il suo petto con fare protettivo. « Mi ha avvertito ».
« Di cosa? »
« Zephit vuole invadere Feanor per scovarti e ucciderti. Crede che non opporremo resistenza perché ormai il regno di Aramis non ha più un esercito e i pochi abitanti sopravvissuti non sono in grado di reggere le armi. Ma quello che non sa, è che molti anni fa Amarie era la regina degli elfi, e secondo Aramis accetteranno senza esitare la sua richiesta d’aiuto ».
« E noi dove andremo? Combatteremo? »
« Durante la battaglia Amarie ti porterà al sicuro nel regno degli elfi »
« E tu? »
«Aiuterò Aramis a difendere il regno» fece una pausa, scostando una ciocca di capelli dalla mia fronte. « E a difendere te ».
Prima che potessi ribattere, avvertii le sue labbra premere di nuovo contro le mie, soffocando quelle parole che avrebbero salvato la vita a tante persone innocenti, compreso lui, ma che sarebbero state la causa della mia morte. Il suo profumo m’invase le narici, e ne rimasi talmente assuefatta da lasciarmi completamente in balia del Fae. Dopo una manciata di secondi mi resi conto di essere stesa nel letto, mentre avvertivo le labbra di Jareth sfiorare il mio collo, facendosi strada fino alla mia bocca. Il bisogno impellente di lui s’impose contro la necessità di agire subito, al fine di evitare una guerra che senza dubbio ci avrebbe annientato. Senza dubbio gli elfi avrebbero accettato di difendere la loro vecchia regina, ma qualcosa mi diceva che non avrebbero potuto nulla contro i demoni di Zephit. E probabilmente anche Jareth se n’era reso conto e, sapendo che non mi avrebbe più rivista, il suo desiderio era trascorrere la sua ultima notte con me.
Quel pensiero mi travolse come un’onda anomala, e mi costrinsi a ricorrere a tutta la mia forza di volontà per allontanarmi di pochi centimetri dal suo viso.
Ansimai, tuffandomi nelle sue iridi che rispecchiavano i miei stessi sogni.
E allora capii. Io sono quel che tu vuoi che sia per te.
Le sue parole echeggiarono nella mia testae finalmente colsi il loro senso: lui era tutto ciò che rappresentava i miei sogni, i miei desideri, e quando essi cambiavano, cambiava anche lui.
Ecco perché mi sembrava così strano. Ecco perché mi risultava difficile credere che il mago che aveva ammesso di amarmi e quello che rapì il mio fratellino quattro anni prima fossero la stessa persona.
Presi coraggio, sicura di star facendo la cosa giusta, e le parole mi uscirono di bocca tremolanti, come se stessero camminando su un filo sospeso a un centinaio di metri da terra.
« Aspetta » dissi, cercando di controllare la mia voce. Lui scrutò il mio sguardo, interdetto.
Non parlò, e qualcosa mi suggerì che sapeva dove volevo arrivare. Sperai solo che non avesse previsto il mio piano, perché altrimenti mi avrebbe persino rinchiusa in una cella sotterranea pur di evitarlo.
« Jareth, tu hai detto che noi due siamo legati ». Attesi il suo cenno di assenso prima di continuare. « Be’, in questi giorni ho pensato molto a questo e a come potrebbe influire sulla mia vita normale, nell’Aboveground. Tutto questo non mi appartiene, Jareth, e non sono più la ragazzina fantasiosa di una volta; io voglio vivere con i miei coetanei, svegliarmi presto la mattina per andare a scuola, divertirmi con gli amici, stare con la mia famiglia… E tutta questa storia della guerra mi sta sconvolgendo ». Feci una pausa, quasi orribilmente teatrale. « Insomma, voglio che tu spezzi il legame che c’è fra noi, come Elberth avrebbe voluto fare per salvare Rosalie. Non ho ancora visto niente del mondo e non voglio lasciare la mia famiglia. Mi dispiace, Jareth. Ho capito di amarti, ma non voglio illuderti che starò con te nel Sottosuolo per sempre, lasciando che la mia vita da umana mi scivoli via dalle mani ».
Gli attimi che seguirono furono come delle schegge di vetro conficcate in ogni parte del mio corpo, che mi provocavano dolori lancinanti. Jareth aveva indossato una maschera d’impassibilità per celare alla mia vista le emozioni che gli sfrecciavano attorno, e i suoi occhi sembravano vuoti, spenti come non li avevo mai visti.
« Per favore » mormorai. Non c’è tempo, avrei aggiunto.
Soppesò le mie parole, e solo quando si alzò dal letto capii che aveva abboccato. Il dolore che sapevo avergli provocato mi stava dilaniando, e in quel momento desiderai solo farla finita.
« Non posso farlo, Sarah; Zephit ti prenderà » disse con voce atona. « E a quel punto non potrò più proteggerti ».
« Se spezzerai il legame, non potrà più trovarmi, lo sai » gli ricordai con insistenza. « Voglio tornare a casa ».
Eccolo, il colpo di grazia che fece piegare le sue labbra in un’impercettibile smorfia di dolore.
« Perché? » sibilò facendo un passo indietro. Pareva che la mia vicinanza lo riluttasse.
Piantai il mio sguardo nel suo, e in quell’istante mi resi conto di avere gli occhi umidi di lacrime.
« Ti fidi di me? » sussurrai.
Silenzio.
« Ti prego » insistei.
« Se è questo che vuoi, ogni tuo desiderio è un ordine, per me » concluse, evocando una sfera di cristallo fra le sue dita e lanciandomela addosso.
Vidi la mia pelle farsi sempre più trasparente, mentre Jareth studiava per l’ultima volta il mio viso, quasi volendo imprimere nella memoria i miei lineamenti.
Un attimo prima che sparissi del tutto, una voce acuta e carica d’angoscia raggiunse il mio udito, e dalla porta fece capolino la figura di Amarie, seguita da Aramis. Quando il loro sguardo si posò su di me, entrambi sbiancarono di colpo.
« No! » gridò Amarie, che sicuramente aveva appena letto i miei pensieri e capito al volo le mie intenzioni. Non fece in tempo a muovere un passo verso di me, che un vortice di luce mi risucchiò, trasportandomi via dal Sottosuolo.
Da Aramis e da Amarie. Da Hoggle, Dydimus e Ludo.
Da Jareth.
Per sempre.
 
***
 

Quando la confusione e il disorientamento sparirono, un’occhiata attorno a me mi bastò per capire di trovarmi nel soggiorno di casa mia. Con passo incerto, mi diressi verso l’orologio a pendolo appeso al muro, che indicava con i suoi due bracci le sei e mezza di sera.
Il mio sguardo si posò sul giornale abbandonato sul tappeto della porta, che il postino aveva lasciato lì la mattina stessa. Lo presi tra le mani tremolanti e notai che nel mio mondo era sabato 20 Marzo.
L’Equinozio di Primavera.
Appoggiai la schiena contro la porta e mi accasciai al pavimento, con la testa tra le ginocchia.
Il pensiero della morte imminente mi martellava nella testa, opprimendomi.
Non fare la vigliacca, mi rimproverai. Se non troverai il coraggio, tutte quelle persone innocenti moriranno per colpa tua.
Deglutii a vuoto, stringendo convulsamente le mani a pugno. Sicuramente Amarie aveva già raccontato tutto il mio piano a Jareth, che a quel punto si doveva essere già strappato tutti i capelli per essere caduto nel mio tranello.
Sperai solo che capisse le mie ragioni e che sapesse che lo amavo più della mia stessa vita.
E tutto questo lo avevo scoperto troppo tardi.
Sapevo che nel suo cuore sarebbe rimasta una ferita che non si sarebbe cicatrizzata con il tempo, ma almeno sarebbe sopravvissuto.
Senza nemmeno accorgermene, le mie gambe mi guidarono malferme al camino, davanti alle foto della mia famiglia sistemate con cura nella mensola.
Le studiai una a una, e man mano che i loro particolari si rivelavano al mio occhio, sentivo le lacrime rigare sempre più le mie guance.
Linda, Robert e una me in miniatura nata da poche settimane… Karen con Toby fra le braccia… La mia famiglia riunita attorno all’albero di Natale insieme ai miei zii e a mia cugina Marley pochi anni prima…
E fra poco ai miei genitori non sarebbe rimasto altro di me, se non ricordi che si sarebbero sbiaditi nel tempo.
Presi tra le mani l’ultima foto, quella che ritraeva la mia famiglia solo un anno prima. Posai un bacio sopra di essa e trassi un profondo respiro.
Sparire senza lasciare alcuna traccia ai miei genitori non faceva che appesantire il mio compito e addolorarmi. Ma anche loro sarebbero sopravvissuti, come Jareth, anche se feriti nel profondo.
Feriti ma vivi.
Chiusi gli occhi e un impeto di coraggio ed energia mi travolse, facendomi pronunciare le parole che avrebbero contrassegnato per sempre la fine della mia esistenza.
«Desidero che il Re di Xanthi mi porti via. All’istante».

 

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


Sogni di Cristallo 


Capitolo IX - One step closer 





Time stands still
Beauty in all she is
I will be brave
I will not let anything take away
What’s standing in front of me
Every breath
Every hour has come to this

One step closer
 
                    A thousand years, Christina Perri
                      



La sposa era bellissima. Il semplice e delicato abito bianco ricadeva leggero a terra, sfiorando il piccolo viottolo di pietre che conduceva all’altare.
Marley sorrideva, entusiasta e al contempo nervosa, e non aveva occhi se non per Finn, il suo futuro marito. Camminava lentamente, nonostante traboccasse d’impazienza, per sostenere il passo incerto del padre, che aveva dovuto ricorrere alle stampelle per accompagnare la figlia all’altare.
Era terribilmente buffo, ma anche determinato ad adempire il suo compito.
La cerimonia si svolse piuttosto in fretta e quando, al suo termine, Marley si lanciò letteralmente tra le braccia di Finn per baciarlo, un sorriso amaro mi dipinse il viso.
Lei aveva trovato la sua metà. L’aveva capito subito, mentre io avevo impiegato secoli ad ammetterlo anche solo a me stessa, per poi perdere la mia unica fonte di calore.
Jareth.
Quando mi ero svegliata nel letto in camera mia, dopo la battaglia contro Zephit, lui non c’era.
Con lui, erano svanite nel nulla anche le ferite alla spalla e alla gamba, che non avevano lasciato nemmeno l’ombra di una cicatrice. La cosa assurda era che era passato solamente un giorno.
Ma tutto non è come sembra, e niente è impossibile nell’Underground.
In quel momento Marley si fiondò ad abbracciarmi, con quel sorriso radioso che la fece risplendere di luce propria.
« Sei bellissima, davvero. La sposa perfetta » le dissi con sincerità. « Congratulazioni ».
« Grazie Sarah, anche tu sei meravigliosa » replicò schioccandomi un bacio sulla guancia.
Feci una smorfia di disappunto, stiracchiando un lembo del vestito verde chiaro che Karen mi aveva propinato, senza lasciarmi nemmeno il tempo di protestare. Era un bell’abito, ma troppo colorato per intonarsi al mio umore grigio e tetro.
« Ora vado a salutare i miei amici ». Si congedò con l’ennesimo sorriso, lasciandomi sola con il mio dolore.
Dovevo essere forte. Sapevo che Jareth era sopravvissuto, mi aveva salvato lui.
Giocherellai per un momento con la treccia che ricadeva sulla mia spalla destra, pensando a quanto sarei riuscita a sopravvivere senza il Re di Goblin.
Poco. Non sarei resistita a lungo, ora che conoscevo il legame che ci univa e che avevo spezzato inutilmente.
Dopo aver salutato con finto entusiasmo parenti vari che non ricordavo nemmeno di aver mai visto, mi sedetti su una panchina, lontana dal buffet su cui si stavano rimpinzando gli invitati.
Osservai Karen e Robert fare i salti mortali per tenere a bada quella peste di Toby, che cercava di infilarsi sotto il tavolo, curioso come solo un bambino può essere. Quella scena mi strappò un lieve sorriso. Mi rendevo conto che non sarei più stata capace di ridere come un tempo, di apparire allegra e spensierata come sempre. Non avrei mai trovato la pace, non mi sarei calmata fin quando Jareth non fosse ricomparso magicamente al mio fianco.
Ma questo non poteva accadere: avevo spezzato il legame fra noi, e anche se era accorso a salvarmi per sconfiggere il padre, noi non eravamo più uniti. Nell'Aboveground non mi avrebbe più trovata.
« Ciao ».
Una voce sconosciuta alle mie spalle mi fece sobbalzare, e non appena mi voltai vidi un individuo piuttosto alto, moro e dal portamento un po’ goffo, che se ne stava dietro di me, con un sorriso a trentadue denti stampato sul viso.
Assottigliai lo sguardo, per nulla in vena di nuove amicizie.
Notando che non avevo alcuna intenzione di replicare, tentò il piano B, sedendosi di fianco a me.
« Mi chiamo Arthur, sono il cugino dello sposo » si presentò con garbo, tendendomi la mano.
Sorrisi appena, stringendogliela con poca enfasi.
« Sarah » risposi atona.
« … La cugina della sposa » concluse lui, mantenendo quell’odioso sorriso.
Sì, lo odiavo e conoscevo a malapena il suo nome. Lo odiavo perché il suo sorriso non aveva niente a che vedere con quello di Jareth. Lo odiavo perché… beh, perché non era Jareth il ragazzo che mi stava rivolgendo la parola.
« Già ».
« Ti piacerebbe andare a ballare? Sì, insomma, hanno messo la musica e gli invitati sono quasi tutti in pista e- ».
« No »  lo interruppi bruscamente. Questo era decisamente troppo. Avevo ballato con una sola persona nella mia vita e quello era Jareth. Se non fossi stata certa che Arthur non avesse mai sentito nemmeno nominare il mago, avrei sospettato che lo facesse apposta. Avevo letteralmente i nervi scoperti, e lui − pur non sapendolo − stava rapidamente premendo sui punti dolenti. Quelli che riguardavano il Re di Goblin.
Dapprima Arthur rimase interdetto dalla mia risposta secca, poi riprese a sorridere, come se non fosse successo niente.
«Oh, d’accordo» disse, con tono lievemente dispiaciuto. « Non fa niente, non sei in vena ».
Annuii, e il suo sguardo così dolce mi fece pentire del mio comportamento.
Che colpa ne aveva lui? Ero io quella che sgarrava.
« Sì, scusami ».
« Vuoi parlarne? » mi domandò, premuroso.
Mi aveva appena detto il suo nome e già pretendeva di ascoltare i miei dilemmi personali.
Scossi la testa, indecisa di pentirmi di essermi pentita del mio atteggiamento scorbutico.
« No, grazie comunque ».
Continuò a scrutarmi con i suoi occhi grigi e ridenti, così tanto diversi da quelli di Jareth.
Era incredibile come tutto mi rimandasse a lui, come qualsiasi cosa − persino ciò che non lo riguardava − mi ricordasse il Re di Goblin.
Sentii improvvisamente gli occhi inumidirsi, ma riuscii a trattenermi dallo sfogarmi in un pianto con il primo sconosciuto che mi si sedeva vicino.
« Anche tu sei all’ultimo anno di liceo? » mi domandò, imperterrito.
« Sì ».
« Hai già deciso dove andare? Cosa fare dopo il diploma? »
Quelle domande mi fecero trasalire. Cosa avrei fatto dopo il diploma? Beh sarei stata sicuramente insieme a Jareth, nell’Underground o nell’Aboveground. Ovunque, ma con lui.
Questo solo se non avessi rovinato tutto, come al solito.
Lui notò quel repentino cambio d’umore di male in peggio, e fece l’errore più grosso della sua vita.
Con l’unico intento di confortarmi, mi prese la mano e cercò di trascinarmi a ballare.
« Dai, andiamo. Qualunque cosa ti sia successa, non voglio che ti tormenti in un giorno felice come questo » esclamò.
Quel gesto risvegliò l’istinto omicida che scorreva ancora nelle mie vene, e quando fui sul punto di alzare la mano destra per stamparla sulla sua guancia in un segno rosso che sarebbe durato tutto il giorno, avvertii un rumore sopra le nostre teste.
Le fronde degli alberi si stavano muovendo, sospinte dal venticello primaverile, ma qualcos’altro aveva provocato quel frusciare di foglie… E fu in quel momento che lo vidi: un barbagianni.
Il barbagianni.
Senza esitare mi alzai in piedi e corsi verso il bosco, lasciandomi alle spalle un Arthur alquanto perplesso. Non tentò nemmeno di fermarmi: probabilmente pensava che fossi impazzita.
Ma non me ne importava.
L’istinto mi guidò fino ad una piccola radura, dove il battito d’ali del volatile cessò.
« Jareth! » gridai. « Jareth, dove sei? »
Silenzio.
« So che sei qui, stupido Re di Goblin! » insistei rabbiosamente.
No, non poteva essere. Per un attimo avevo veramente creduto che potesse essere lui. Un attimo che mi era bastato a creare un’illusione che mi avrebbe distrutto. Annientato.
« Ti prego » mormorai fra i singhiozzi. « Ti prego, torna da me ».
Abbassai il capo e cercai di asciugarmi le lacrime con un lembo del vestito. Non sarebbe mai tornato. Dovevo farmene una ragione e cercare di vivere la mia vita.
Forse sarei dovuta tornare indietro, chiedere scusa ad Arthur e accettare il suo invito a ballare... Insomma, almeno tentare di seppellire quel dolore.
Obbligai le mie gambe a fare dietro front − quel luogo mi stava opprimendo − ma in quel momento una voce mi bloccò, facendomi trasalire.
« Stai cercando qualcuno, mia preziosa? »
No, non era possibile. Doveva esserci una spiegazione. Forse il mio subconscio aveva ancora voglia di giocarmi tiri mancini, ed era tutto quanto una sua invenzione. Sì, doveva essere così.
Non mi voltai nemmeno, per paura di scoprire che in realtà era un'altra stupida illusione, ma quando sentii quelle braccia forti e protettive avvolgermi in un abbraccio, ebbi la certezza di averlo davvero ritrovato.
Mi girai verso di lui, e gli gettai le braccia al collo, stringendolo forte, come per paura di perderlo un’altra volta. Affondai il viso nella sua spalla, e insinuai una mano fra i suoi capelli.
« Razza di idiota » sussurrai con le lacrime agli occhi.
Jareth sorrise sornione.
Sollevai il capo, perdendomi per l’ennesima, meravigliosa volta nelle sue iridi.
I nostri nasi ormai si sfioravano. « Non lasciarmi andare mai più ».
Jareth mi accarezzò i capelli. « Sarò accanto a te finché tu lo vorrai ».
« Sempre » affermai io, decisa.
« Sempre » confermò lui, prima di premere le sue labbra sulle mie.
 
***
 
« Come hai fatto a trovarmi? »
Passeggiando con Jareth in mezzo ai prati rigogliosi del regno di Feanor − che da quando Zephit era stato sconfitto era ridiventato florido e ricco come un tempo − sentivo che era finalmente giunto il momento di chiarire alcune cose.
Per cominciare, come diavolo lui, Aramis e Amarie avessero fatto a trovarmi e a sconfiggere Zephit.
Jareth sorrise, intrecciando la sua mano con la mia.
« Sei stata fortunata: quando hai deciso di sacrificarti, Amarie era ormai fuori dalla portata dei tuoi pensieri, quindi non avrebbe potuto conoscere il tuo piano. In tutta sincerità, nemmeno io avrei sospettato di te, sei stata un'ottima attrice ».
A quanto pareva le mie doti nella recitazione non erano andate sprecate.
« Tuttavia è riuscita a capire quali erano le tue intenzioni quando ti ha vista scomparire. Quindi, insieme agli Elfi, che nel frattempo avevano seguito Aramis e Amarie accettando di combattere per noi, abbiamo raggiunto il regno di Xanthi e la Torre dove eri tu. Il resto lo sai ».
« Ma tu avevi spezzato il nostro legame, come hai fatto a tornare da me? »
Jareth ghignò, sornione. « Sarah, Sarah, Sarah... » cominciò con tono teatrale, ridacchiando sotto i baffi. « Sai, in fondo Trogolo ha ragione: mai fidarsi del Re delle Illusioni ».
Mi aveva mentito; in realtà non aveva spezzato il nostro legame, aveva solo finto.
Beh, del resto non potevo certo lamentarmi, visto che la prima a fingere ero stata io.
« Sarah, il nostro è un legame indissolubile. Niente può spezzarlo » disse appoggiando una mano sulla mia guancia. Chiusi gli occhi, beandomi di quel contatto.
Quanto amavo sentire la sua pelle a contatto con la mia! Dopo aver trascorso una giornata intera temendo di non rivederlo mai più, in quel momento ogni gesto di Jareth aveva il potere di incantarmi, facendomi sentire la ragazza più fortunata al mondo.
« Ora che Zephit è morto, il regno di Xanthi è nostro » proseguì. « Quindi devo chiederti una cosa, ma non devi sentirti obbligata a rispondere affermativamente. Ci sono sempre altre strade ».
Quella frase mi ricordò terribilmente il discorso di Amarie, durante la nostra chiacchierata nel suo giardino prima della battaglia contro Zephit.
Sicuramente, in mia assenza, i due avevano avuto modo di parlare di questo e Amarie gli aveva rivolto le stesse parole che aveva detto a me.
Infatti, sapevo perfettamente dove Jareth volesse andare a parare, e in quel momento mi sentii braccata; non volevo deluderlo, ma non mi sentivo nemmeno pronta per quella decisione così drastica.
« Se ti senti pronta, possiamo vivere qui, nell'Underground, e governare da re e regina su Xanthi. In caso contrario, sono disposto a vivere con te nel tuo mondo fino a quando non sarai decisa a diventare la mia regina » disse, guardandomi dritta negli occhi.
Sgranai gli occhi, presa in contropiede. « Sei disposto a vivere nell'Aboveground? Come un umano? » domandai, incredula.
Jareth sorrise e annuì, attendendo una mia risposta.
« Ho riflettuto sulle parole che mi hai rivolto quando mi hai chiesto di lasciarti tornare a casa e... beh, anche se non volevi veramente andartene, capisco la tua necessità di vivere le esperienze che la tua vita da umana ti può offrire e non voglio che te le perda per colpa mia » disse. « Aramis e Amarie guideranno il nostro regno al nostro posto, finché non sarai pronta ».
Ero commossa; non sapevo proprio cosa dire.
Provai a formulare una possibile risposta nella mia mente, ma non riuscii a spiccicare parola. Davvero Jareth avrebbe fatto questo per me? Rinunciare alla carica di re per stare con me?
Il Re di Goblin intuì la mia muta risposta e mi sorrise. « Preparati a dividere il tuo nuovo appartamento da universitaria con me ».
Ormai privata del dono della parola, lasciai perdere il discorso strappalacrime che avrei voluto esprimere e lo abbracciai di slancio, stringendolo forte quasi per paura di perderlo di nuovo.
Quel pensiero fulminante fece affiorare, con mio disappunto, alla mente una triste realtà: non gli avevo mai detto quanto lo amavo. Nemmeno prima di imbarcarmi nella mia impresa senza ritorno.
« Ti amo » dissi, semplicemente.
Fui immediatamente travolta dalla veridicità delle mie stesse parole.
E in quel momento ero sicura di aver trovato anche io, come Marley, la mia felicità.


 

EDELVAIS' WALL
L'ultimo capitolo. Ebbene sì, siamo giunti finalmente alla conclusione di questa storia. Nove capitoli di Jareth e Sarah; nove capitoli che spero non vi abbiano indotti al suicidio annoiati. Quando ho cominciato questa storia, avevo già in mente (e in seguito anche per iscritto) la sua trama in ogni dettaglio. Avevo quindi, fin dall'inizio, intenzione di scrivere anche un sequel. Anche qui ho già steso lo scheletro della trama e, sinceramente, non vedo l'ora di scrivere il primo capitolo. 
Spero che questa notizia non vi abbia spinto a buttarvi da un ponte, ma piuttosto che vi abbia incuriosito almeno un pochino.
In conclusione, ringrazio tutti quelli che mi hanno sopportata per ben nove, lunghi capitoli e, soprattutto, chi è stato così gentile da lasciarmi delle recensioni.
Fatemi sapere cosa pensate di questo ultimo capitolo!
Alla prossima fic ^^

 
Allonsy!





 

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