A.A.A. Cercasi maggiordomo

di SimplyMe514
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Forse non è stata una buona idea... ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Sogni da inseguire ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Colloquio di lavoro ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Musica, maestro! ***



Capitolo 1
*** Prologo - Forse non è stata una buona idea... ***


Nota preliminare: il canon è ancora la serie degli anni Sessanta, ma trovandomi nella necessità assoluta di scegliere un nome di battesimo per la nonna ho usato quello de La Nuova Famiglia Addams, degli anni Novanta, solo perché mi piaceva di più e perché quella serie mantiene la stessa parentela.

Gomez bambino non è ricalcato sul Pubert dei film: il dato sui baffi è stato effettivamente menzionato in un episodio della serie.

Giungere a una cronologia accettabile della sua infanzia non è stato semplice come credevo: ci sono indicazioni contrastanti su quando è avvenuto il trasferimento negli USA dalla nativa Spagna. Siccome non è l'unico punto su cui la serie si contraddice, ho scelto di seguire solo quelle date nell'episodio “Il dilemma di Morticia”, che collocherebbero il trasloco all'età di circa cinque anni.

L'indirizzo di casa è quello canonico, con il numero civico 0001, non 1313.

Tutte le informazioni sulla famiglia di Lurch sono dedotte per vie dirette e/o molto traverse dai due episodi “Lurch il Gaucho” e “Mamma Lurch va a trovare gli Addams”.

Liberissimi di non essere d'accordo con me su come ho ragionato, ma questa è la mia versione, godetevela com'è.

 

Prologo – Forse non è stata una buona idea...

La villa al numero 0001 di Cemetery Lane ormai era quasi più casa di quella nella nativa Castiglia, ma doveva ammettere che a volte le pareva troppo grande da mantenere: tra l'età che avanzava e il piccolo Gomez che diventava ogni giorno più Addams, ovvero un esserino ingovernabile che l'avrebbe rovinata a furia di farsi comprare nuovi trenini e che stava sviluppando caratteristiche incredibilmente adulte per aver compiuto da poco sei anni (i baffi non contavano, ci era nato), come un interesse straordinariamente precoce per la finanza, l'abitudine di fumare il sigaro e l'hobby di mangiare spade, e tutto questo in barba all'apparato respiratorio decisamente deboluccio che lo tormentava con periodiche sinusiti e attacchi di tosse, la vita sarebbe presto diventata impossibile senza un paio di mani in più. Una c'era già, pronta a spuntare dall'una o dall'altra delle sue infinite scatole portando la posta o porgendo piccoli oggetti all'occorrenza, ma per quanto fosse un aiutante eccezionale e assolutamente insostituibile quando si trattava di grattare la schiena proprio nel punto giusto, quello che serviva era una persona intera, testa, gambe e tutto. Meditava di assumere qualcuno già da un po', ma le era sempre mancata la determinazione per attivarsi e farlo. Odiava l'idea di lasciare che la vecchiaia la rendesse pigra: via alle danze!

Boom. «Yu-huu!» Nel silenzio che seguì l'esplosione si diffuse un lieve odore di fumo. Un altro ponte saltato, come minimo. «Mamma? Mi compri una locomotiva nuova?»

Per l'appunto. In un modo o nell'altro (e aveva avuto un bel daffare a negare di fronte alle schiere di zii e cugini di aver dato un aiutino al loro portafoglio con qualche stregoneria, anche perché non era la migliore delle bugiarde), la famiglia non se l'era vista troppo brutta durante la crisi che aveva messo in ginocchio entrambi i lati dell'oceano, quindi c'era ancora un discreto gruzzolo su cui fare affidamento. Aprì il cassetto dei risparmi, inclinò la testa da un lato per studiarlo meglio e lo giudicò sufficientemente rivestito di bei bigliettoni verdi. Perché no? Tutto quel che ci voleva era un annuncio sul giornale.

A.A.A. Cercasi maggiordomo. Bella presenza, massima discrezione, disposto a lavorare con bambini. Vitto e alloggio inclusi. Astenersi perditempo e deboli di cuore. Rivolgersi a Eudora Addams, 0001 Cemetery Lane.

Ecco, conciso ed essenziale. Davvero perfetto. Ora non restava che mettersi seduta ad aspettare i candidati.

Il primo si fece attendere per un bel pezzo: forse quell'accenno ai deboli di cuore aveva spaventato qualche potenziale buon acquisto, ma si era limitata a dire la verità.

Tra le poche caratteristiche elencate, questo qui pareva puntare tutto sulla bella presenza: era un giovanotto all'ultima moda, con un portamento elegante e troppa brillantina sui capelli biondissimi, che disse di chiamarsi Charles Dunstan. Perfino il suo modo di sfregarsi il naso dopo averlo platealmente sbattuto contro lo stipite della porta in seguito alla breve colluttazione col campanello aveva un che di vanesio, quasi fosse più preoccupato della terribile eventualità di ritrovarselo storto che del dolore.

«Esperienze precedenti?»

«Soltanto una, signora, ma Lady Chittenden sarebbe pronta a parlare bene di me, se fosse qui. Ecco la mia lettera di presentazione». E con questo le tese una busta più pesante di quel che l'aspetto suggeriva, di ottima fattura in tutto, dalla filigrana della carta all'inequivocabile stemma che la sigillava. Sarebbe stato un tale peccato rovinarla con un brutto strappo... ci voleva un tagliacarte, ecco cosa. Due colpetti sul coperchio e Mano fu subito lì a offrirgliene uno (Eudora giurò a se stessa di scoprire prima o poi in quale delle cinque dita serbasse quell'apparente abilità di leggerle nel pensiero: sapeva sempre cosa le serviva un attimo prima che glielo chiedesse espressamente).

«Argh!» Be', sì, non era la prima persona a reagire più o meno in quel modo allo spuntare di Mano. Bah. Una cosina tanto innocua...

Si diede alla lettura della fitta paginata di lodi che la padrona precedente tesseva riguardo al giovane, ma dopo neanche due righe fu distratta dallo sbattere della porta principale.

«Signor Dunstan? Charles?» Niente, se n'era andato e probabilmente era già troppo lontano per sentirla. C'era solo da aspettarselo da una personcina così superficiale: un minuto scarso di colloquio e aveva già cambiato idea. Meglio perderlo che trovarlo.

Il numero due forse non era nemmeno un candidato, visto che quando gli aprì la porta passò dallo squadrare l'edificio con sospetto al balbettare: «Ehm, mi s-scusi, credo di aver sbagliato casa...» e se la squagliò senza aggiungere altro, fermandosi solo per gettare nel cestino dei rifiuti più vicino la copia del giornale che recava l'annuncio.

Il terzo possibile maggiordomo prometteva decisamente meglio: più avanti con gli anni rispetto agli altri due, ma ancora nel pieno delle forze, si presentò come Howard Langton senza troppi preamboli e parve cavarsela più che bene nella prima parte della breve intervista.

Per cominciare, Eudora gli ripeté la domanda che aveva posto al primo ragazzo, e per Giove, la lista di referenze di quell'uomo era così lunga che credette di addormentarsi a metà. Doveva davvero averne viste di tutti i colori, era un vero esperto del mestiere. Poi cominciò a informarsi su che genere di lavori sapesse fare, e non c'era un solo, dannatissimo campo in cui lo si potesse cogliere in fallo, a parte forse uno: mise bene in chiaro, tra gran professioni di modestia, che non avrebbe mai toccato il clavicembalo se non per pulirlo, scusandosi anzi in anticipo per le poche note tremendamente discordanti che avrebbe prodotto per errore mentre lo spolverava. Peccato, non le sarebbe dispiaciuto un po' d'intrattenimento di tanto in tanto. Per metterlo alla prova, tirò su col naso più forte dello stretto necessario e attese i pochi secondi necessari a Mano per trovare un fazzoletto nel marasma che doveva essere l'interno della sua benedetta scatola. Langton si ritrasse visibilmente contro lo schienale della sua sedia e si sfregò gli occhi come per assicurarsi di non aver avuto un'allucinazione, ma rimase saldamente al proprio posto, anche se un po' della sua determinazione a ottenere il posto pareva essere crollata. Diamine, pareva perfetto. Dov'era la fregatura?

«Bene, signor Langton, veniamo all'ultima clausola. Pensa di saperci fare con un bambino di sei anni?»

«Adoro i bambini, signora Addams. Ne ho visti crescere parecchi durante i miei impieghi precedenti, quindi non vedo perché il suo dovrebbe essere un problema».

«Un avviso amichevole, mio figlio è un po'... difficile».

«Perché non lo chiama? Vorrei proprio vedere quanto».

«Be', se le piacciono le sfide, chi sono io per dire di no?» Poi, alzando la voce: «Gomez!»

Il piccolo si fece desiderare, ma infine si degnò di raggiungerli, ed era l'incarnazione di quel che aveva inteso dire definendolo “difficile”. Reggeva in una mano un vagone in miniatura evidentemente reduce dall'ultimo scontro, in bocca un sigaro appena cominciato, enorme rispetto alla boccuccia baffuta, e aveva macchie scure di fuliggine sui pantaloni, sui capelli e su una buona metà del viso, ovvia conseguenza dell'essersi messo carponi nel camino spento, cercando di convincere il cugino Itt a scendere e dare un'occhiata ai miseri resti dell'ennesimo spettacolare deragliamento. «Mi volevi?» Gomez squadrò il nuovo arrivo dalla testa ai piedi. Eudora aveva meditato di fargli una sorpresa ad assunzione avvenuta, ma l'andirivieni di sconosciuti l'aveva allertato che stava per succedere qualcosa d'importante e aveva insistito per sapere tutto fino a farla cedere, quindi non gli fu troppo difficile intuire cosa ci facesse lì. Infilò il sigaro in tasca senza spegnerlo per poter parlare più agevolmente e prese a inondarli di parole: «Questo sarebbe il nuovo maggiordomo? Forte! Vuoi venire a veder saltare un paio di trenini? È il mio gioco preferito! Così, guarda». Sbattè con gran convinzione il vagoncino malridotto contro la mano libera, accompagnando il gesto con un soddisfatto: «Boom!»

Langton era sbiancato di colpo al suo arrivo, un contraltare perfetto alla faccia annerita del bambino.

«Ha... v-veramente sei anni?»

«Perché, quanti ne dimostra? Mi dispiace terribilmente che si sia fatto vedere in queste condizioni, penso che venga dritto dritto dal camino...»

«Dal camino? Dall'inferno! Mi spiace, signora Addams, forse in fondo non corrispondo al profilo che sta cercando. Si trovi qualcun altro! Addio!» E fu fuori prima che potessero anche solo cominciare a reagire.

«Ho detto qualcosa di male, mamma?»

«No, Gomez, non sei tu. Quello lì non era comunque adatto a vivere con noi. E non sapeva neanche suonare». Eudora sospirò. L'annuncio sarebbe presto diventato vecchio, nessuno vi avrebbe più fatto caso e la sua bella idea minacciava di finire in un nulla di fatto. Per una ragione o per l'altra, le poche, semplici richieste che aveva scritto diventavano incredibilmente difficili quando si trattava di lavorare in casa Addams. Avevano bisogno di qualcuno che fosse di tutt'altra pasta.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Sogni da inseguire ***


Capitolo 1 – Sogni da inseguire

«To', leggimi i risultati». Il giornale già stropicciato fu ridotto ancora peggio dai suoi non troppo aggraziati tentativi di trovare la pagina sportiva. Prima che potesse uscirgli di bocca anche uno solo dei nomi – uno più assurdo dell'altro, a parer suo – dei cavalli le cui vicende suo padre seguiva come se si fosse trattato di una questione di vita o di morte, tuttavia, s'intromise la voce petulante di sua madre:

«Tu e le tue corse! Non avrai scommesso di nuovo, spero...»

L'uomo diede un basso grugnito che non era né un sì né un no. Quella era un'abitudine che avevano in comune: parlavano il minimo indispensabile e quando il concetto era troppo complicato da esprimere con più di qualche frasetta ridotta all'osso si arrendevano. Non che fossero troppo stupidi per mettere insieme un discorso lungo, era così e basta. Star lì a blaterare per troppo tempo era terribilmente noioso, uno spreco di energie e di secondi preziosi, e a furia di andare al risparmio si erano disabituati. Comprensibilmente, dunque, Lurch era diventato un genio nell'interpretare i versi di suo padre e viceversa. Questo, per esempio, voleva dire: “Sì, ho scommesso, ma so che se te lo dico in faccia mi farai un'altra delle tue scenate, quindi sto zitto e spero proprio che tu capisca male, è meglio per tutti”. Traduttore simultaneo... hmm, se ci fossero state più persone al mondo che si esprimevano così, sarebbe stata una gran bella carriera.

«E tu non startene lì impalato! Da' un'occhiata agli annunci, piuttosto, sarebbe proprio ora che ti trovassi un lavoro decente!»

Qualcosa di simile alla nausea gli montò nel petto a quel rimprovero. Come le aveva già spiegato diverse volte (non che gli avesse creduto), guardava quegli annunci tutti i santi giorni, ma il lavoro giusto per lui sembrava non esistere. Non perché non fosse disposto ad adattarsi: si sarebbe abbassato a quasi qualunque cosa pur di guadagnare un po' di soldi propri e passare qualche ora al giorno lontano dalle critiche continue di lei e dalle lamentele ingiustificate di lui sulla situazione finanziaria familiare, che era piena di buchi causati dalle sue maledette scommesse. Erano gli altri a non adattarsi a lui. Grosso e forte com'era, aveva seriamente considerato di fare la guardia del corpo, ma quando a temerlo era la persona che avrebbe dovuto proteggere e non i malintenzionati, la cosa diventava un po' difficile. Non erano mancati i tentativi di fare qualche lavoro di fatica, ma dopo una spettacolare serie di licenziamenti lampo dovuti a una gran varietà di incidenti o all'impossibilità di lavorare gomito a gomito con altri operai che o lo evitavano o lo trattavano come lo scemo del villaggio, anche quella strada era stata scartata. Cosa ci poteva fare se aveva quella brutta tendenza a rompere tutto ciò che toccava? Era colpa sua se era nato con una faccia un po' diversa? Poteva costringersi a parlare e parlare fino a farsi bruciare la gola per essere come tutti gli altri, anche se andava contro la sua natura taciturna, solo perché farlo tanto e bene sembrava essere l'unico indicatore dell'intelligenza? E poi c'era suo padre con quei sogni balzani che interferivano con i suoi...

«Fantino» sbottò, come se avesse sentito i suoi pensieri. Lurch aveva ereditato tante cose dal padre oltre all'ostinato mutismo, e la stazza era una di queste. Rispetto alla gente là fuori sembrava già un gigante, ma suo padre lo faceva quasi sparire in confronto: era grosso abbastanza da vedere lui agile e leggero come un fuscello. Lurch aveva provato a fargli capire che i fantini di professione erano molto, molto più piccoli di lui, che era venuto fuori a metà tra la sua vastità e il peso piuma della madre, una donna di bassa statura che entrambi riuscivano ormai a sollevare senza sforzo, ma non c'era stato verso. Nemmeno con le foto dei cavallerizzi più famosi del momento alla mano si era convinto che il suo prezioso unico erede potesse esimersi da una brillante carriera nell'equitazione. Peccato solo che qualsiasi cavallo sarebbe stramazzato con lui in sella, accidenti! Non gli faceva una colpa per quella sua bizzarra tendenza a giudicare tutto e tutti con il suo metro distorto: era così enorme che aveva voluto una casa ampia e dai soffitti alti, per non correre rischi, ma continuava a sbattere ovunque, con buona pace dei vicini che volevano un po' di tranquillità (Lurch, al contrario, ne aveva avuto più che abbastanza delle lamentele, e per parte sua aveva imparato da un pezzo a muoversi in un modo che mal si accordava con le sue misure extra-large, silenzioso come un gatto). Era l'insistenza a dargli sui nervi. Gli aveva detto di no una volta, due, tre, cento, ma quello continuava a regalargli libri sui cavalli ad ogni compleanno, sperando che vi s'interessasse come per magia e ignorando completamente il fatto che non gli piacesse né leggere né tantomeno imparare tutto quel che c'era da sapere sulla corretta manutenzione di un potenziale campione di corsa a ostacoli o dressage. La sua argomentazione era una soltanto, sempre la stessa: “E sentiamo, cos'è che vorresti fare, invece?”. E ogni volta che provava a rispondere, un gigantesco nodo in gola lo zittiva. Sapeva cos'avrebbe voluto fare, oh, se lo sapeva, ma aveva già scoperto sulla propria pelle che sarebbe stato impossibile.

Il suo sogno vero, quello grande, quello che era stato il suo chiodo fisso fin da quando aveva memoria, era di fare il musicista. I tasti bianchi e neri erano l'unica cosa che non si rompeva sotto le sue dita, ma forse era soltanto perché li amava così tanto da toccarli piano piano, con una cura speciale, come se ogni nota fosse stata una carezza. Procurargli un pianoforte era stato uno sforzo enorme per i suoi genitori, uno che ancora non la piantavano di rinfacciargli a ogni occasione, ma alla fine, centesimo per centesimo, ce l'avevano fatta, e Lurch non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui la squadra di ragazzoni – grossi, ma non quanto lui – l'aveva trasportato in casa. Sorrideva poco, come se gli provocasse dolore ai muscoli facciali, e piangeva ancor meno, ma quella volta aveva fatto entrambe le cose, incapace di fermare le lacrime di gioia. L'impassibile, inespressivo Lurch di sempre, solido come una roccia, aveva frignato come un bambino e non se ne vergognava affatto.

Aveva lavorato per quel sogno con ogni briciolo di forza che era riuscito a trovare. Si era esercitato a tutte le ore del giorno e della notte, aveva speso tutte le sue paghette in spartiti, aveva rimpolpato il suo repertorio con qualsiasi cosa da Mozart agli ultimi successi swing, purché fosse musica, e infine, un'unica volta, era stato ingaggiato. Era un piccolo incarico in un piano bar poco frequentato, ma per lui, che fino ad allora non era stato ascoltato praticamente da nessuno a parte mamma e papà, era come essere chiamato per suonare con la più importante orchestra d'America. Aveva messo il vestito della festa, ripassato furiosamente fino a non sentirsi più le mani e preso pure in prestito un po' d'acqua di Colonia, lui che di queste cose s'infischiava altamente, e si era presentato al locale con un esubero di energia nervosa in corpo, teso come una molla pronta a scattare alla minima sollecitazione. Si era seduto al piano, un affare tirato a lucido dieci volte più bello del suo, si era sgranchito per bene le dita e aveva aspettato l'arrivo dei primi clienti, pregando tra sé di conoscere tutti gli eventuali pezzi che avessero richiesto espressamente, ma soprattutto attendendo con fervore il momento in cui – il proprietario aveva detto che poteva farlo, e la sua parola era legge – si sarebbe finalmente potuto concedere il piacere e la sfida di un po' d'improvvisazione. Alla gente piaceva, apparentemente. Ma quelli non erano arrivati, o meglio, erano entrati eccome, soli o a coppiette, ma erano scappati dopo avergli lanciato una singola occhiata. I più coraggiosi erano rimasti per un unico drink buttato giù in tutta fretta, e Lurch era stato cacciato a male parole alla fine della serata, con l'avvertimento di non tornare mai più e la minaccia di dover pagare i danni per tutti i potenziali clienti che gli aveva fatto perdere. Aveva messo insieme a stento una manciata di note. Anche quella notte, nella sua stanza, aveva pianto, ma non di gioia. Aveva la pratica, aveva la passione e non temeva di lodarsi troppo dicendo di avere anche il talento, ma era tutto inutile se non aveva la faccia. Per esibirsi in pubblico, purtroppo, toccava essere anche moderatamente belli, mentre lui... be', se usciva vestito normalmente la sera di Halloween, veniva fermato da almeno quattro o cinque bambinetti che lo osservavano a bocca aperta, sciogliendosi in lodi sperticate sulla perfezione del suo (inesistente) costume.

«No, papà» tagliò corto, quasi in un ringhio. Piuttosto che andare a cercare in capo al mondo un completo da fantino della sua misura, si sarebbe vestito da clown... ma avrebbe spaventato gli spettatori, invece di farli ridere.

Girando le pagine con violenza (qualcuna si strappò, ma non gli importava), si diede a scorrere i dannati annunci con un plateale sbuffo, tanto per dare l'impressione di fare qualcosa di utile. La gente pagava per far scrivere le cose più disparate: alcune sembravano avere un briciolo di senso, altre erano davvero state pubblicate solo perché qualcuno aveva sborsato denaro sonante. Chissà che faccia aveva fatto il tizio a cui era stato chiesto di stampare quello lì, per esempio: A.A.A. Cercasi maggiordomo. Bella presenza, massima discrezione, disposto a lavorare con bambini. Vitto e alloggio inclusi. Astenersi perditempo e deboli di cuore. Rivolgersi a Eudora Addams, 0001 Cemetery Lane.

Astenersi deboli di cuore”, bah... era una frase simpatica, ma chissà cosa stava a significare. Non poteva essere letterale, o sì? Per come si parlava degli Addams, niente era da escludere.

«Trovato qualcosa?» chiese subito sua madre. Accidenti a lei, doveva essersi accorta del microscopico sussulto verso l'alto delle sue labbra che era il principio di un rarissimo, sforzato sorriso.

«No» ribatté recisamente, anche se una piccola, folle parte di lui cominciava a sperare che fosse una bugia. Non avrebbe mai più sentito la fine delle sue prediche se le avesse rivelato che pur di togliere il disturbo sarebbe stato pronto a fare il maggiordomo, una parola che suonava un sacco più elegante di come l'avrebbe definito lei, cioè servo. Neanche vivere nella costante preoccupazione di finire sul lastrico per colpa della sconfitta di uno di quei dieci volte maledetti cavalli le aveva tolto quell'incrollabile senso di superiorità che non si sapeva bene da dove venisse, ma che la induceva a desiderare per suo figlio una posizione che lei avrebbe chiamato rispettabile. L'avrebbe ucciso se l'avesse saputo... no, ripensandoci, si sarebbe difeso troppo bene da qualsiasi suo tentativo, probabilmente l'unico modo per farlo fuori sarebbe stato quello di spingerlo al suicidio a furia di discorsi su quanto sarebbe stato vergognoso, degradante, umiliante e un mucchio di altri sinonimi.

Girò un'altra pagina con forza, e stavolta la strappò apposta, sperando di far sembrare il gesto un incidente, ma stando bene attento a includere l'annuncio integro e leggibile nel pezzetto che gli era rimasto in mano, poi lo intascò furtivamente quando gli parve che nessuno dei due stesse guardando.

Non avendo molti motivi per uscire, conosceva poco la città, ma aveva più che presente di che casa si trattasse, non tanto perché era di per sé inconfondibile, quanto perché si trovava in una zona dove i suoi piedi lo portavano spesso quando se ne andava con la scusa di prendere un po' d'aria, mentre il motivo vero era che voleva smettere di sentirli litigare sull'ennesima scommessa andata male. Non avrebbe frequentato l'area del cimitero, normalmente, ma non è che ne avesse paura: semplicemente, non aveva quasi famiglia a parte i suoi genitori, quindi non gli risultava che ci fosse alcun nome legato a loro su quelle lapidi. Con il tempo, però, aveva scoperto che era un buon posto per pensare. Non sembrava che pensasse molto, ma lo faceva eccome, e un luogo che tutti evitavano accuratamente a meno che non fossero assolutamente obbligati ad andarci era l'ideale per avere un po' di pace.

Quando invece non era la pace che cercava, si dava all'ascolto di qualche pettegolezzo diverso da quelli del suo circondario. Non che gli importasse granché delle vite private altrui, ma le voci che correvano da quelle parti erano molto più interessanti di quelle che sentiva di solito, così tanto che avrebbe potuto scriverci un romanzo, se solo ci avesse saputo fare con le parole. Aveva udito la gente di quel quartiere definire il cimitero “inquietante”, e per estensione attribuire l'aggettivo anche alla villa che vi sorgeva quasi attaccata. Era stata vuota per un bel pezzo, ma da circa un anno a quella parte erano venute a viverci delle persone (ampiamente lodate per il loro coraggio), e da quando era successo, la casa era diventata ancora più strana. Tanto per cominciare, tutti si aspettavano che i nuovi proprietari vi facessero lavori su lavori fino a renderla irriconoscibile, perché i più esagerati tra i pettegoli del posto dubitavano che fosse agibile così come stava, e invece, almeno per quanto riguardava l'esterno, niente era stato toccato. Secondo, il giardino era uno spettacolo di desolazione: se vi cresceva qualche fiorellino spontaneo, gli osservatori più acuti avevano notato che tendeva a sparire quasi subito, come se fosse stato tolto di proposito, e le poche piante che c'erano non erano né tulipani, né margherite né alcun altro fiore comune che i vicini potessero riconoscere a prima vista, ma una signora che stava a qualche casa di distanza e che ne sapeva di botanica assicurava a chiunque si desse la pena di ascoltarla che erano tutti esemplari tossici, dal primo all'ultimo, e che qualsiasi persona sana di mente a cui saltasse in testa di coltivarli probabilmente fabbricava veleni. Terzo, ma non ultimo, c'erano decisi indizi di attività sospette. Mai una volta che da una finestra aperta si diffondesse il buon odorino di un pranzetto appena preparato, al massimo delle puzze nauseanti che facevano seriamente temere per la sorte di chiunque avesse mangiato la roba che le produceva, ammesso e non concesso che si trattasse del pasto di qualcuno. E poi c'erano le esplosioni. Non passava giorno senza che lì dentro scoppiasse qualcosa. Un po' tutti avevano tentato di informarsi, soprattutto quelli direttamente confinanti, che non ne potevano più del rumore, ma o veniva loro a mancare il fegato prima di riuscire a chiederne il motivo o venivano rimandati indietro con un repertorio senza fine di scuse che variavano dal moderatamente credibile alla più completa assurdità. Qualcuno aveva perfino preso il coraggio a due mani e mandato la polizia, ma anche gli agenti erano stati rispediti al punto di partenza.

E ora questi qui – una vecchia e un bambino, ma c'era chi non era sicuro di ricordarsene bene, perché era difficile che si vedessero in giro – avevano bisogno di un maggiordomo. Più di una persona che aveva conosciuto in passato gli avrebbe dato del pazzo per aver anche solo considerato l'idea di concorrere per il posto, ma Lurch ne aveva già sentite di peggiori. “Pazzo” era praticamente un complimento rispetto a certe altre dolci paroline. E poi, se questi Addams erano davvero strani come si diceva, forse uno come lui si sarebbe sentito a casa tra loro. Sì, doveva essere per questo che la voglia di provarci gli rodeva il cuore come un tarlo. Le uniche persone che lo facevano sentire anche solo vagamente a casa, pur con tutti i loro difetti, erano un gigante e una donna dalla mente abbastanza aperta da sposarlo: una vecchia e un bambino che vivevano soli soletti in una villa che aveva visto giorni migliori incollata a un cimitero sembravano proprio i suoi tipi.

Dunque, maggiordomo... esattamente, cosa sapeva della professione di maggiordomo? Dannatamente poco, doveva ammetterlo, anche se al vedere l'annuncio aveva avuto un buffo flash di se stesso in un completo elegante con tanto di cravatta a farfallino e l'immagine gli era piaciuta parecchio. La mansione comprendeva un sacco di lavori umili, sospettava, soprattutto se gli fosse toccata la posizione di primo e unico servitore presente in casa, ma non era un problema insormontabile. Li sapeva fare in modo più che accettabile: sua madre gli aveva insegnato molto presto e poi aveva smesso quasi completamente di occuparsene, tutta presa da quell'alta considerazione di sé che la faceva sentire indegna di sgobbare come una schiava in casa propria. Suo padre, semplicemente, non aveva imparato mai, un po' perché la maggior parte degli utensili sembravano giocattoli nelle sue mani, un po' perché era l'uomo di casa e si era aspettato di non dover fare quel genere di cose una volta sposato. Sì, la sua vita fino a quel punto era stata un'ottima scuola per un potenziale maggiordomo.

Poi c'erano sicuramente un sacco di cose da imparare sul galateo, tipo servire correttamente la cena in presenza di chissà quanti ospiti e chissà quante posate in apparente sovrannumero, ma si sarebbe informato. Leggere non era decisamente tra le sue occupazioni preferite, ma era necessario, e quando qualcosa era o davvero necessario, come questo, o molto appassionante, come la biografia di qualche grande compositore, lo faceva eccome.

C'era, inoltre, la questione del bambino: la carriera di baby-sitter era una di quelle che tentare sarebbe stato ridicolo, dato che probabilmente avrebbe fatto piangere i suoi piccoli protetti, ma uno che viveva in una casa dove le cose scoppiavano regolarmente e dove, a quanto pareva, i deboli di cuore avrebbero fatto meglio a non lavorare probabilmente non era proprio uguale al bambino americano medio. In qualche modo si sarebbe arrangiato.

Non sapeva bene cosa intendesse la signora Addams con “massima discrezione”, ma sia che volesse dire che si aspettava che i suoi servi si facessero vedere e sentire poco, sia che gli avesse fatto giurare di mantenere il segreto su quello che succedeva in casa sua, si sarebbe adattato. Quella clausola sul vitto e alloggio era troppo invitante. Una vita sua, con uno stipendio regolare indipendente dalla fortuna o sfortuna di qualcun altro alle corse e lontana da quelle osservazioni al vetriolo che lo facevano sentire un buono a nulla... accipicchia, doveva essere proprio un paradiso.

Certo che quella “bella presenza” era minacciosa: se oltre che efficiente la signora Addams lo voleva pure bello, con lui avrebbe fatto un buco nell'acqua grosso quanto un oceano. D'altra parte, però, se tutti i maggiordomi del mondo fossero stati così avvenenti, perché diamine non esisteva un enorme concorso di bellezza dedicato solo a quella categoria? Forse se la sarebbe potuta cavare con qualcosa di un po' diverso da un semplice bel faccino. Sarebbe stato tutto impettito come i perfetti maggiordomi di cui aveva sentito solo parlare, avrebbe fatto tre volte più attenzione del solito a non fare assolutamente niente di maldestro, e per il resto non rimaneva che pregare. Chi o cosa, non ne era sicurissimo.

 

C'erano un sacco di altre librerie in città, lo sapeva bene, ma quella volta Lurch scelse apposta la più vicina a Cemetery Lane, giusto per avere una scusa per allungare il tragitto e dare un'occhiata a quella famigerata casa.

Con la commessa che faticava a decifrare i suoi grugniti e lui che decodificava a stento i balbettii di lei, procurarsi un'edizione vagamente comprensibile del galateo e per buona misura un tomo che prometteva poco confortanti dettagli sulla vita della servitù attraverso i secoli era stata un'impresa, ma alla fine ne era uscito alleggerito di un po' di denaro e appesantito di due tra i pochi volumi veramente utili che gli fossero mai capitati in mano. Il secondo sarebbe stato una lettura spaventosa, sia nel senso che pareva difficile, sia perché non diceva niente di carino o di invitante.

Col suo piccolo carico sottobraccio, sentendosi quasi uno scolaretto, deviò verso Cemetery Lane e la percorse tutta, fingendo indifferenza ma senza mai smettere di fissare i numeri civici sul lato dispari che scendevano, fino a giungere all'estremità meno frequentata. Sembrava che una mano gigante avesse tracciato una linea invisibile tra lo 0003 e lo 0001: di qua una casetta curata che sembrava uscita da un libro illustrato a colori vivaci, di là una villa che aveva poco da invidiare al set di uno dei film horror che Hollywood si era messa a sputare a ripetizione da qualche anno a quella parte (non era esattamente un cinefilo, ma gli era stato suggerito una volta o due di mettersi in fila per i provini, dato che avrebbe fatto risparmiare centinaia di bei verdoni sul trucco). Se non fosse stato per un movimento colto con la coda dell'occhio, appena un'ombra dietro una tendina e poi più nulla, sarebbe stato pronto a giurare che la vecchia e il bambino fossero un'allucinazione collettiva e che lì dentro non ci fosse nessuno. Chi avrebbe lasciato regnare le erbacce in quel modo, tanto alte da rendere mezzo illeggibile anche il cartello appeso al cancello esterno (che avrebbe potuto essere un “Attenti al cane”, sennonché la prima lettera dell'ultima parola non gli sembrava affatto una C)? Lo stomaco di Lurch fece una capriola: una parte di lui gli sussurrava in un orecchio che sarebbe stato molto più saggio aver paura di quei tizi e scappare come facevano tutti gli altri, ma un'altra gli suggeriva contemporaneamente, nell'altro orecchio, che c'era anche tanta gente che aveva paura di lui, e che secondo logica questo doveva significare che aveva trovato delle persone simili, finalmente... Ora doveva solo starle ad ascoltare tutte e due e capire quale parlasse più forte, tutto qui. E per farlo aveva bisogno di silenzio e tranquillità, che si trovava proprio a due passi.

 

«Mamma, giù in strada c'era un tipo che fissava casa nostra!»

«Non preoccuparti, Gomez, lo fanno tutti. Poi però se ne vanno».

«Ma questo qui non stava mica scappando! Mi sa che andava al cimitero».

«Davvero? In questo periodo dell'anno? Quasi quasi lo raggiungo...»

«Va bene, ti aspetto qui. Io però al posto tuo lo lascerei in pace, andarci da soli è un sacco più divertente».

«Sai che hai proprio ragione? Il mio ometto...» Poi, con un sorriso che chiunque l'avesse visto avrebbe definito sibillino: «Se è il tipo di persona che penso che sia, verrà lui da noi».

«Questa è una di quelle volte in cui ci azzecchi, mamma?»

«Può essere».

«Allora non vedo l'ora di conoscerlo».

«Con un po' meno fuliggine in faccia, si spera... anche se devo dire che sotto sotto ti dona».

 

Senza orologio, gli risultava difficile stimare quanto a lungo fosse rimasto lì a discutere con se stesso, come si diceva che facessero i pazzi: contare i minuti con i suoni che provenivano dalla villa non era un gran bel sistema, ma c'erano stati almeno due scoppi e diversi tonfi che per quanto si lambiccasse il cervello non capiva proprio da cosa potessero essere stati provocati.

Qualcosa di buono, però, ne era venuto: si era sorpreso a cercare di immaginare cosa stesse succedendo là dentro con più curiosità che timore e ne aveva concluso che sì, la vocina tentatrice numero due parlava appena un po' più decisa della numero uno. Scoccò un'altra occhiata alla casa e fu come se, con l'eco distante di un rumore meccanico, nella sua testa fosse scattata una sorta di serratura. Se fosse il suono di una nuova porta che si apriva, non lo sapeva, ma avrebbe provato a spingerla e avrebbe affrontato il resto a mano a mano che arrivava.

Cercò di cominciare uno dei suoi libri nuovi di zecca, o meglio, lesse un totale di due righe e fu investito da tante e tali sensazioni – le paure che tornavano alla carica, lo sconforto alla prospettiva di un'occupazione mortalmente noiosa come imparare a memoria tutti quei particolari, ma anche quel pizzico di eccitazione che gli procurava sempre il pensiero della stravagante alta società, tutta una regola e un luccichio, che finora aveva solo sognato – che non c'erano abbastanza parole nel suo vocabolario per riassumerle efficacemente. E in quei casi c'era una sola cosa da fare, abbandonarsi a uno di quei suoni di petto che volevano dire tutto e niente insieme. Lurch dovette stiracchiare il viso in un sorriso malizioso all'idea di come avrebbe reagito una rispettabile personcina di quel perfettamente ordinario vicinato nel sentire una cosa del genere provenire dal cimitero. Probabilmente aveva appena procurato una settimana di incubi a qualche sconosciuto.

Stava familiarizzando con il modo di comportarsi a tavola, tipo il lato giusto da cui servire le pietanze e quello da cui ritirare i piatti vuoti, quando si rese conto che per studiare il disegno stilizzato del coperto perfetto doveva strizzare gli occhi per mancanza di luce. Ora di tornare a casa.

 

Appena giunto in vista della meta, nascose i libri sotto i vestiti e protesse il rigonfiamento sospetto con le braccia. La sua natura decisamente laconica, per sua gran fortuna, non faceva sembrare strano il fatto di gettare ai suoi genitori un “Ciao” frettoloso e badare poco o nulla alla loro risposta: di solito pretendevano più rispetto di così, ma vista la condizione in cui li aveva lasciati (nel bel mezzo di una litigata tale che dubitava che avessero sentito la porta chiudersi dietro le sue spalle quand'era uscito, ma ormai era ordinaria amministrazione), la sua scarsa voglia di parlare era doppiamente giustificata, quindi avrebbero lasciato correre.

Ebbe appena il tempo di macinare un altro paio di paragrafi prima che lo chiamassero per la cena. Con gli angoli delle labbra che saltellavano su e giù per la voglia di sorridere, si mise alla prova da solo e scoprì con un moto di soddisfazione di aver memorizzato tutto (e di aver fatto un mucchio di errori fino al giorno precedente, ma pazienza). Non sapeva se avessero notato o meno il cambiamento – un gesto diverso qui, uno lì, qualche secondo in più passato a squadrare l'effetto che facevano le posate sul tavolo – ma Lurch, per parte sua, si sentì dieci volte più elegante del solito.

Si ritirò di nuovo nella sua stanza non appena gli fu possibile e affrontò il primo capitolo dell'altro volume, nella speranza di trovarvi un'anticipazione del tipo di vita a cui andava incontro, ma le parole si confondevano sulla pagina. Leggeva, ma qualcosa lo pungolava, ricordandogli che c'erano cose più importanti da fare al momento. Piano piano, con quei suoi passi che nessuno sentiva e che ancora non sapeva bene neppure lui come gli riuscissero, si accaparrò una valigia che avevano usato quelle poche, pochissime volte che erano andati in vacanza quand'era piccolo. Era più che sufficiente per i ben scarsi ricambi di vestiti della sua taglia, i due libri appena acquistati (quelli sull'equitazione sarebbero rimasti lì dov'erano, a prendere polvere sullo scaffale, e tanti saluti ai sogni di papà) e... accidenti, doppio accidenti, triplo accidenti! Che ne avrebbe fatto degli spartiti? Dovevano restare dove stavano o era meglio portarseli e pregare con ogni fibra del suo corpo che a quegli Addams la musica piacesse almeno un po'? Diede una scorsa a un fascicolo a caso, divorando con gli occhi le cinque linee del pentagramma ripetute all'infinito, poi lo chiuse con uno scatto secco.

«Per ricordo» si disse con un'alzata delle enormi spalle. Una lacrima cadde proprio dentro la O di “Mozart” e la pila di spartiti finì in valigia. Separarsene faceva troppo male.

Lurch non dormì sonni tranquilli quella notte, ma ripensandoci era stata una benedizione, dato che i suoi confusi e poco riposanti frammenti di sogni gli permisero di essere già in piedi prima che gli altri due potessero anche solo concepire l'idea di alzarsi.

Sul tavolo della cucina, soltanto un biglietto, sintetico come sempre:

Vado incontro alla mia unica possibilità. Se torno, vuol dire che l'ho persa. Se non torno, non preoccupatevi, ho trovato il lavoro decente che volevate e vi farò avere il mio nuovo indirizzo.

Vostro figlio (non più buono a nulla),

Lurch

Note dell'Autrice

Sulla natura di Lurch. Come non è stata spiegata esplicitamente nella serie, così io non ho intenzione di scriverla nel testo vero e proprio, ma affinché possiate regolarvi vi dico che ai fini di questa storia Lurch è una creatura essenzialmente umana, anche se con la strana fisiologia degli Addams (quella stessa che permette loro di mettere il cianuro nel tè, per intenderci). Il suo comportamento e, in parte, il suo aspetto corrispondono allo stereotipo del mostro di Frankenstein, ma secondo me non lo è: mentre quest'ultimo è una creatura artificiale messa insieme in un laboratorio, il Lurch degli anni Sessanta ha chiaramente due genitori naturali, uno solo nominato e l'altra mostrata fisicamente. Rispetto a quello di Ted Cassidy, l'attore che lo interpretò a quei tempi, a somigliare di più al mostro è sicuramente il trucco e parrucco del suo successore Carel Struycken, quello dei film.

Sull'alfabetizzazione di Lurch. Il mio Lurch sa leggere e scrivere, punto e basta. In due episodi riceve corrispondenza, quindi è chiaro che è in grado di scambiare lettere con qualcuno. Ne esiste, però, un altro in cui c'è una gag che secondo me non potrebbe avere luogo se non fosse completamente analfabeta: il rapporto un pochino stentato con la parola scritta che mostro nella storia è un compromesso.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Colloquio di lavoro ***


Capitolo 2 – Colloquio di lavoro

Mentre il resto del corpo puntava alla posizione di maggiordomo, le sue viscere dovevano essersi dissociate per unirsi al circo, se i salti mortali che facevano erano un buon indicatore. Valigia alla mano, Lurch strinse i denti e si mosse verso il cancello, ma quello si aprì con un gran cigolio prima ancora che lo toccasse. Ci voleva un bel respiro profondo, il primo di tanti. C'era di mezzo o una tecnologia avanzatissima o una magia, e se era la prima, allora gli Addams erano ricchi da far schifo e avrebbero sicuramente voluto qualcuno di molto più bravo ed esperto di lui, mentre se era la seconda... be', accidenti, doveva decidere cosa pensare proprio subito o aveva il permesso di rifletterci ancora un pochino? Un lungo passo e il cancello, come se l'avesse aspettato, sbatté alle sue spalle con un gran clangore metallico che sapeva di definitivo. Sembrava che volesse dire: Non uscirai più di qui. Più che terrificante, saltò su una parte ribelle della sua mente in subbuglio, la prospettiva era un tantino deprimente: avrebbe voluto dire che il posto era suo, e questo era un bene, ma diamine, una commissione o due ogni tanto, giusto per vedere ancora il mondo?

Dopo l'esperienza del cancello – il primo test era passato... ma no, era lui che vedeva troppi significati nascosti in tutto, doveva essere così – venne il sentiero che qualcuno aveva aperto in quell'incrocio tra un giardino e una foresta, stavolta senza sorprese di sorta, e poi il campanello. Diede una tirata e quello, molto semplicemente, si staccò. Tutto il meccanismo gli era rimasto in mano. A tutti gli dei presenti e passati fischiarono le orecchie, lassù in cielo, per aver ricevuto tante e tali maledizioni nel giro di un secondo. Lui e la sua stramaledetta forza! Bel modo di presentarsi! Le sue possibilità erano appena precipitate, e davvero appropriatamente, tra l'altro, sottoterra.

Proprio quando stava per risolversi a bussare e provare a profondersi in scuse, la porta si aprì. Ad accorrere era stata un'anziana donna avvolta in uno scialle che doveva avere all'incirca la sua età, con una chioma incanutita che probabilmente non vedeva neanche l'ombra di un pettine da un tempo incalcolabile e una strana luce divertita negli occhi.

«Ehm...» esordì Lurch, ormai perduto anche l'unico, microscopico briciolo di eloquenza che sperava di essere riuscito a raccogliere, mostrando il campanello distrutto con lo sguardo fisso sulle proprie scarpe.

«Quello si sistemerà. È qui per l'annuncio?»

«Sì» riuscì a dire, incapace di nascondere il tono di chi ormai aveva perso le speranze.

«Allora il resto non importa. Dentro, dentro, il posto è ancora libero».

Doveva ammetterlo, era stato completamente preso in contropiede. Se faceva sul serio, però, il suo modo di ragionare gli piaceva parecchio. Non senza una buona dose d'incredulità, la seguì all'interno e quasi rischiò che la sua consueta maschera andasse in un milione di pezzi. Quella casa era... era... incredibile. Riusciva a essere inquietante, pacchiana e bellissima contemporaneamente. La sua prima impressione fu quella di una stanza piena di tante, troppe cose, un caotico accumulo capace di far girare la testa a chiunque. Poi, una frazione di secondo più tardi, cominciò a rendersi conto di che genere di cose fossero. Facendo saltare lo sguardo qui e là a caso, riconobbe una collezione di animali imbalsamati e altri trofei che suggerivano la presenza di un incallito cacciatore, se non fosse stato per il fatto che provenivano da parti troppo diverse del mondo e sarebbero stati meglio in un museo che in un soggiorno. Come se non bastasse, se i suoi pochi ricordi d'illustrazioni di alci non lo ingannavano, uno dei giganteschi palchi di corna della testa impagliata appesa al muro doveva essere stato girato dalla parte sbagliata con la forza per un motivo che gli sfuggiva. Infine, Lurch vide quello, e dentro di sé mandò poco cerimoniosamente al diavolo le armature, il tappeto di pelle d'orso e la tartaruga a due teste. La signora Addams possedeva un clavicembalo, uno vero, che al suo occhio molto meno esperto di quanto avrebbe desiderato pareva anche antico, con quelle delicate decorazioni che lo percorrevano da cima a fondo. Se era così raffinato l'aspetto estetico, non osava neanche iniziare a immaginarne il suono. Da dove si trovava, i tasti risultavano parzialmente nascosti, ma quanto gli sarebbe piaciuto toccarli anche solo una volta... Per staccarne gli occhi dovette ricordare severamente a se stesso che era più carino mostrarsi interessato anche al resto della casa, ma dopo neanche due secondi si arrese: continuavano a tornare lì come attirati da una calamita.

«Allora», cominciò la signora, facendolo accomodare (e che gli venisse un colpo se non l'aveva fatto di proposito) su una poltrona di proporzioni tali da non far sembrare troppo grosso nemmeno lui, «vedo che abbiamo un aspirante molto determinato».

«Determinato?» ripeté, suonando senza dubbio molto stupido.

«Be', è l'unico che si è presentato con una valigia finora. Vuole proprio restare, eh?»

«Lunga storia» rispose debolmente, sperando che cambiasse argomento. Spiegarle l'esatta ragione per cui aveva fatto i bagagli non rientrava affatto nell'idea – probabilmente da buttare, a questo punto – che si era costruito di quel colloquio.

«Ci sarà tempo più avanti, dunque. Almeno, spero. Prima le formalità: come si chiama?»

«Lurch».

«E poi?»

Ecco, questo era un bel problema. I suoi gli avevano riempito la testa di storie di luoghi lontani, in qualche angolo del pianeta, dove la gente non aveva cognomi, per non farlo sentire troppo a disagio riguardo al fatto di essere chiamato sempre e solo “Lurch”, ma non era tanto sciocco da non sapere che razza di incubo burocratico fossero stati i documenti che erano seguiti al matrimonio tra i suoi genitori, e tra pellirosse, tribù africane e antichi eroi ancora non aveva capito bene da dov'è che venisse esattamente la famiglia di papà, perché ogni volta che glielo domandava si metteva a parlare del tempo.

Ci pensò con tutte le sue forze, cominciando ad avvertire i primi segnali del panico, ma alla fine non gli uscì di bocca altro che quel che già conosceva: «Lurch».

«Lurch e basta

Annuì, salutando da lontano le sue ultime speranze.

«E va bene. Tanto ce l'abbiamo già, un amico con un problema simile».

Se fosse stata una partita di uno strano, nuovo gioco in cui perdeva chi si lasciava sorprendere più volte dall'altro, Lurch avrebbe anche potuto alzare bandiera bianca e riconoscere la clamorosa sconfitta. La signora Addams era decisamente o stravagante o disperata: non c'erano altre spiegazioni possibili per quel suo modo quasi buffo di prendere tutto, compresi i campanelli rotti e i cognomi inesistenti, come un trascurabile sassolino lungo la strada che poteva essere comodamente scalciato via.

Quando le domande da porre erano circa un milione, l'unica cosa da fare era sceglierne una e incrociare le dita, sperando di non aver optato proprio per la più idiota: «Quale amico?»

«Oh, vuole conoscerlo? Sono sicura che avrete un sacco di cose da dirvi, sempre che lei conosca un po' l'alfabeto Morse». E con quest'affermazione più di un tantino criptica, si sporse verso un tavolino e bussò educatamente sulla scatola rettangolare che vi troneggiava sopra. Il coperchio si alzò con un cigolio e lì, impossibile imitazione di un pupazzo a molla, Lurch vide una mano che lo salutava con entusiasmo. Da qualche parte all'interno doveva esserci almeno un gomito, ma non capiva proprio dove potesse nascondere tutto il resto. Semplicemente, quella cosa non aveva un corpo. Consisteva in cinque vigorose dita maschili, un polso e gran parte di un avambraccio nudo, e poi più nulla. Be', si costrinse a pensare Lurch, adesso so cosa intendeva con quella faccenda dell'alfabeto Morse, visto che non c'è la bocca... Non sapeva bene da dove gli venissero quei pensieri, a essere sincero. Forse era l'atteggiamento della signora Addams a influenzarlo, ma mentre metà della sua mente spingeva per scappare di lì e dimenticare il progetto, l'altra metà provava una sorta di perverso divertimento nel cercare ad ogni costo una logica in quello che ancora non sapeva se considerare la realtà o una specie di macabro sogno senza filo conduttore. Il buonsenso urlava a pieni polmoni che il posto per cose del genere era in qualche spettacolo di fenomeni da baraccone, ma poi c'era una vocetta più tranquilla (e molto più convincente, a ben vedere) che gli faceva notare che gli organizzatori dello spettacolo sarebbero stati felicissimi di avere lui come pezzo forte. Perché comportarsi da spettatore se c'era dentro fino al collo? Forse quella mano che gli faceva freneticamente “ciao” era un invito. Resta qui, faremo un bel patto: se tu non avrai paura di noi, neanche noi ne avremo di te. Che ne dici?

«Ehm... salve».

«Oh, finalmente uno che conosce l'educazione! Direi che è ora di fare le presentazioni come si deve. Mano, questo è Lurch, un aspirante maggiordomo. Lurch, le presento Mano. E basta. È il nome, il cognome e anche il secondo nome. Come vede, è in buona compagnia».

Mano si protese nella sua direzione più che poté, un chiaro segnale che voleva... ecco, stringergli la mano, ma forse per lui era paragonabile a un abbraccio fraterno. Era comunque un bel gesto, e non accoglierlo sarebbe stato orribile. Aveva una gran stretta, oltretutto: non poté non notare che la propria, di mano, era di dimensioni simili, e che il suo probabile nuovo amico non aveva mostrato alcun fastidio nella sua presa d'acciaio. Lurch ebbe una curiosa visione di se stesso impegnato in un match di braccio di ferro, lui appoggiato al tavolino e l'avversario comodamente installato nella sua scatola.

«Oserei dire che la prima prova è stata superata brillantemente».

Una piacevole sensazione di calore gli esplose nel petto. Non sapeva che fosse una prova, ma già il fatto di averla passata era molto confortante. Se poi si aggiungeva il piccolo dettaglio che niente di quel che aveva fatto era mai stato definito “brillante” prima d'allora... era questo che si provava ad essere al settimo cielo? Un sorriso un po' storto incrinò la sua studiata faccia neutra per tutta la sua larghezza. La signora Addams sollevò appena un sopracciglio.

«Ah, be', direi che con questo è risolto anche il problema della bella presenza!»

Doveva esserci un'altra mano in casa, stavolta invisibile, perché altrimenti non sapeva proprio che cosa l'avesse appena schiaffeggiato sonoramente, anche se non gli aveva fatto male. Avrebbe avuto una gran voglia di prendere un bel respiro e sbottare tutto d'un fiato qualcosa come: “Se sta scherzando, signora Addams, gradirei davvero che rimandasse le battute a dopo, e se invece no, mi faccia almeno la cortesia di spiegarmi perché ha detto una cosa del genere”. Ma non ci riuscì. Non poteva proprio, le sue corde vocali avrebbero preso vita e si sarebbero messe a piangere per lo sforzo. Tutto quello che conseguì fu di dare un deciso tono interrogativo al verso che, squassandogli il petto, arrivava dove le parole fallivano.

«Ma certo che dico sul serio, Lurch! Dovrebbe sorridere più spesso, le dona moltissimo. Si sarà pure accorto dall'arredamento che non sono molto d'accordo con il senso estetico del resto del mondo... E poi, diciamocelo chiaramente, richiedere una bella presenza su un annuncio per un maggiordomo è praticamente una formalità».

La mano invisibile passò direttamente dagli schiaffi a un potente pugno in pieno stomaco.

«Lei... mi capisce?»

«Forte e chiaro. Ho conosciuto persone messe peggio. O forse “persone” non è proprio la parola giusta, ma sorvoliamo... comunque, noi Addams abbiamo orecchio per queste cose».

Era come se nessuna delle stranezze per cui era stato segnato a dito in passato le importasse minimamente. La forza eccessiva, il nome, i sorrisi che parevano smorfie, il suo modo di parlare che nessuno sapeva tradurre a parte suo padre: tutto cancellato, zero assoluto. Un sassolino senza importanza, un calcio e via. Era troppo bello per essere vero.

«Mai nessuno...» cominciò, ma le altre parole, se ce n'erano, si persero per strada. Avrebbe potuto limitarsi a dire che nessuno prima di lei era mai riuscito a capirlo, ma non era più solo questione della sua maniera tutta particolare di esprimersi: lei lo capiva anche in tutt'altro senso del termine. Non lo trattava come se grosso e poco eloquente volessero per forza dire anche stupido, tanto per cominciare, e qualunque cosa fuori dalla norma facesse o dicesse, continuava a non fare una piega. Un nodo residuo di tensione da qualche parte nelle sue viscere c'era ancora, ma via via che quel colloquio decisamente sopra le righe proseguiva, senza che se ne rendesse del tutto conto gli si erano sciolti i muscoli. Lo metteva a suo agio in un modo che non aveva mai sperimentato prima.

«Be', non sanno cosa si perdono. Ora basta chiacchiere, le faccio conoscere anche mio figlio».

«È una prova anche questa?» Wow, cinque parole di fila, si era proprio imbaldanzito.

«Se la vuole vedere così... Gomez!»

Le boccate di fumo raggiunsero la stanza prima di lui. Tra il sigaro e i baffi, pareva un adulto magicamente ristretto: solo la forma ancora infantile del viso tradiva la sua giovinezza, pur sepolta sotto uno spesso strato di tratti che sembravano non appartenergli. Il solito, vecchio buonsenso si preoccupò per la salute del piccolo per circa due secondi prima di essere soffocato prepotentemente dalla parte di lui che aveva semplicemente smesso di stupirsi, anestetizzata dal fuoco continuo di stranezze quasi più grandi delle sue. A meno di non essersi sbagliato di grosso sull'età di uno dei due o di entrambi, la signora Addams sembrava troppo vecchia per essere sua madre, ma se lui aveva già i baffi, forse anche lei aveva quell'aspetto da molto tempo... se c'era una cosa che aveva capito, era che niente in quella casa era come appariva a prima vista.

Il bambino lo guardò con tanto d'occhi, facendogli precipitare lo stomaco sotto le scarpe. Eccone un altro che lo fissava come un animale allo zoo. Forse si era illuso. «È il tipo che ti dicevo!»

«Be', questo cambia le cose...»

Lurch bruciava dalla voglia di chiedere delucidazioni. Lo conosceva già? E come? Che cosa significava per le sue possibilità di ottenere il posto, visto e considerato che la signora Addams pareva riflettere seriamente sull'ultimo dato appreso come se potesse avere un'influenza cruciale sulla sua decisione?

«Mamma dice che non devo parlare con gli sconosciuti, ma te lo devo proprio chiedere: che cosa sei andato a fare al cimitero ieri?» Sua madre parve volerlo fulminare con lo sguardo, ma quella sua scintilla di divertimento la fece fallire miseramente.

«Pensavo».

«Bella risposta. Gomez, lui si chiama Lurch ed è qui per il colloquio di lavoro. Ecco, adesso non è più uno sconosciuto, contento?»

Gomez lo squadrò per benino da cima a fondo. «Non mi sembra come gli altri che ci hanno provato». Lurch sospirò. I bambini a volte erano i peggiori: nella loro innocenza facevano molto più male degli adulti, che avevano imparato a ricoprire le loro parole con un po' più di zucchero.

«Acuta osservazione, caro».

Intanto il piccolo continuava a passarlo ai raggi X. «Ehi, guarda che intendevo in senso buono...»

«Davvero?»

«Sicuro! Non avevo mai conosciuto nessuno che andasse al cimitero per pensare, a parte la mamma e me. Mi sa che hanno tutti troppa fifa. Di cosa, non lo so».

«A me piace». Stare a discutere con un bambino appena incontrato il fatto che un'occasionale passeggiatina silenziosa tra i morti fosse molto più produttiva di dieci conversazioni con persone vive continuava a sembrargli inopportuno, ma forse questo qui faceva eccezione.

«Anche a me. È l'unico posto all'aperto dove vado a giocare».

«Mi fa piacere che andiate d'accordo. A proposito, il secondo test è passato a pieni voti».

Lurch sorrise di nuovo, con meno esitazione del solito. Un altro passo era compiuto. Ora veniva la parte difficile: confessarle che non aveva mai fatto il maggiordomo prima. Se questo non avesse mandato in mille pezzi la prima impressione inaspettatamente buona che le aveva fatto, allora voleva proprio dire che era scritto nel destino (in cui stava cominciando a credere proprio in quel momento, tra l'altro).

«Sai che hai una faccia simpatica?»

E due. Ancora un po' e si sarebbe montato la testa! Da quando in qua una faccia come la sua era simpatica? L'ultimo bambino della sua età che aveva osato guardarla era scappato urlando, per l'amor del cielo.

«È quello che ho cercato di fargli capire anch'io. Torna pure a giocare, da qui in poi parleremo di cose un po' più noiose».

«Posso restare? Voglio vedere come se la cava». E si piazzò in poltrona con l'aria soddisfatta del principino di casa senza nemmeno aspettare di ottenere il permesso. Grandioso, un altro membro della famiglia pronto a sottoporlo a scrutinio. Normalmente l'avrebbe sottovalutato, definendolo “solo un bambino”, ma nel caso di Gomez la parola “solo” strideva parecchio.

«Testardo come un mulo, questo qui. Non avrebbe problemi a farsi coinvolgere in giochi un tantino turbolenti, vero?»

«Con le esplosioni?»

Gomez lanciò un tale grido di giubilo che Lurch dovette sforzarsi per sentire il sommesso: «Se n'è accorto, eh?»

«Non c'è problema. Spalle larghe». Si era appena cacciato in un guaio più grosso di lui, il che era proprio tutto dire, ma quanto potevano essere pericolosi gli scoppi se una madre lasciava che fossero il giocattolo prediletto di suo figlio?

«Ottimo. Prossima domanda, che di solito è la prima, ma ormai è da un pezzo che facciamo le cose alla rovescia: esperienze precedenti?»

Eccolo, il momento che temeva di più. «Nessuna» borbottò, decidendo che le punte delle proprie scarpe fossero una visione da non perdere.

«Accidenti. Visto l'andamento, quasi quasi mi aspettavo delle referenze spettacolari». Gli sfuggì un sospiro. Addio alle sue possibilità. «Vede che ho fatto bene a cominciare il colloquio un po' diversamente? Se fossimo partiti così, forse non saremmo mai arrivati a questo punto. Dopo quel che ho visto, Lurch, posso dire solo una cosa: si farà le ossa prima o poi».

«Sul serio?»

«Le pare che scherzi?» ribatté, piccata.

«No, signora Addams». Ecco, magari con un po' di cortesia extra si sarebbe rimesso in carreggiata...

«Appunto. Ora, non abbiamo altra servitù in casa, anche se Mano è tanto gentile da fare la sua parte, quindi, nel caso ottenesse il posto, il suo sarebbe un lavoro molto vario. Dunque, vediamo: le direi che deve fare le pulizie e riordinare, ma le mie idee di ordine e pulizia sono... un caos organizzato, ecco. Capirà con la pratica. Poi sarebbe l'ideale se se ne intendesse di riparazioni e fai-da-te: mantenere in buone condizioni tutte le botole, assicurarsi che le porte non perdano quel simpatico cigolio, questo genere di cose. Non mi dispiacerebbe un aiuto anche in giardino, ma più che il pollice verde ci vuole il pugno di ferro, quindi se ha bisogno di qualche informazione in più la biblioteca è lì che l'aspetta, non pretendo che sappia tutto».

«Ehm... sono richieste particolari». Gli girava un po' la testa. Finora non sembrava un grosso problema, anche se non aveva mai sentito dire che una porta in buono stato dovesse cigolare, semmai l'opposto.

«Oh, lo so. Ce ne sono anche un paio che forse poteva aspettarsi, come annunciare e servire i pasti e occuparsi degli ospiti. Finora sono stati pochini, tra parentesi, ma non si sa mai. In queste si riconosce un po' di più?»

Fu come scendere a terra dopo un viaggio in mare decisamente turbolento. «Sì, signora Addams».

«E ritiene di saper fare tutte queste cose in modo accettabile?»

«Lo spero».

«Mente aperta, un bel sorriso e pure modesto. Sta' a vedere che abbiamo fatto centro».

«Gli piace il cimitero e non ha paura delle cose che esplodono» commentò Gomez con un'alzata di spalle. «Per me può anche restare per sempre».

«Sarà felice di sapere che il suo è il colloquio più lungo finora. Nessuno degli altri è riuscito a durare fino a questo punto: ancora un paio di dettagli da curare e il posto potrebbe essere suo».

Il cuore di Lurch diede una brusca accelerata. Possibile? Non stava sognando?

«Mi dica» rispose educatamente, chiudendo con un grosso tappo di buone maniere la bottiglia di seltz delle sue emozioni, a cui quell'ultimo annuncio aveva dato una vigorosa scrollata.

«Ha la patente?»

«Sì, signora Addams». Le sue abilità al volante erano parecchio arrugginite, dato che le occasioni di metterle in pratica erano rare, ma sua madre aveva insistito fino alla nausea per fargliela prendere. Segno di distinzione, diceva lei. Saper guidare conferiva un'aria da grand'uomo che poche altre attività potevano dare. Contenta lei...

«Un problema in meno. Può fare anche da autista senza avere guai con la legge. Comunque, non sarebbe stata una tragedia se avesse risposto di no: ci piace la guida spericolata...» L'ultima parola parve rimanere sospesa nell'aria per qualche istante di troppo, minacciosa. Si sarebbero messi tranquillamente nelle mani di un guidatore senza alcuna esperienza? Quello era istinto suicida, non amore per il rischio! Fortuna che possedeva il suo bravo documento... ma via, le riflessioni sulla visione del mondo dei suoi potenziali datori di lavoro potevano aspettare. Lasciarsi distrarre ora sarebbe stato niente di meno che un crimine.

«Va bene». Francamente, ormai era così vicino alla meta che pur di raggiungerla si sarebbe offerto di scarrozzarli in giro anche in risciò.

«Perfetto! E adesso viene il bello: se io le dicessi che in questa casa il massimo del lusso non è un letto morbido, ma uno di chiodi, e che il nostro tè delle cinque è fatto per lo più di cicuta, riterrebbe ancora di poter sopravvivere qui dentro?»

«Mai provato» replicò cautamente. La risposta più ovvia sarebbe stata “no”, ma non poteva rovinare tutto. E poi, a ben pensarci, non era lui quello che da piccolo aveva avuto il vizietto di ingoiare qualunque cosa senza finire mai all'ospedale, non perché la sua famiglia non potesse permetterselo, ma perché non si sentiva male affatto? Era sopravvissuto senza fare una piega perfino a un termometro a mercurio, vetro e tutto. Non era lui che, per quanto andasse indietro con la memoria, non rammentava nella sua infanzia neanche una ferita banale quale un ginocchio sbucciato, come se fosse stato rivestito di una scorza un po' più dura di una pelle comune? E non era sempre lui che se si buttava su un materasso troppo soffice non lo trovava scomodo lì per lì, ma se osava passarci la notte si svegliava con la schiena completamente irrigidita? Sotto sotto, il suo gigantesco corpo era sempre stato o molto resistente o montato al contrario.

«Comprensibile. E se ci provasse, la sua prossima visita al cimitero sarebbe da vivo o da morto?»

«Vivo, credo».

«Alleluia! Il prossimo aspirante se ne tornerà a casa con la coda tra le gambe. Lei è assunto».

Altro che esplosioni, qualcuno doveva appena avergli fatto scoppiare una bomba dentro la testa, mettendogli il cervello del tutto fuori uso. Ringraziare? Non era certo che fosse appropriato. Esultare? Sarebbe solo sembrato stupido. Restare lì a fissarla senza dire niente? Scemo e pure ingrato. Non gli restava che dar fondo a un altro dei suoi lasciapassare universali per quando le parole non funzionavano.

«Ah, lasci stare, chiunque sarebbe in difficoltà. Benvenuto. A occhio e croce posso cominciare a darle del tu, diciamo dalla prossima frase. Gomez lo fa già da un pezzo, ma lui entrerebbe in confidenza con i muri se potesse. Un'ultima cosa...»

«Sì, signora Addams?»

«Sai suonare?»

Lurch aprì la bocca per dire di sì e poi la richiuse per timore di sembrare poco modesto.

«Oh, andiamo, ho visto benissimo come guardavi il clavicembalo. Solo un cieco o uno sciocco non se ne sarebbe accorto, e io non sono né l'una né l'altra cosa. Allora?»

«Suono il piano» precisò, cercando con tutte le sue forze di non illudersi che la piega presa dalla conversazione significasse quello che pensava, anche se in fondo il fatto di doversi rimproverare da solo voleva dire che era già troppo tardi.

«Ti abituerai alla differenza dopo un po'. Vuoi provare?»

«Adesso?»

«E quando, il trenta febbraio?»

Il suo stomaco prese vita, ma non era sicuro se si trattasse della tensione che tornava a tormentarlo o di una danza di felicità. Era come essere di nuovo al locale, eppure non lo era, perché sapeva che i suoi due ascoltatori – ops, tre, rettificò mentalmente vedendo spuntare Mano da una seconda scatola poggiata sullo strumento... via, era giustificabile non averlo contato, siccome non aveva orecchie – non sarebbero scappati. Lo sgabello, verificò, lo reggeva benissimo, il che era già un piccolo miracolo, ma aveva urgente bisogno di essere regolato in funzione della sua altezza. Tanto meglio, aveva qualche secondo in più per decidere cosa suonare. Non aveva la più pallida idea di cosa potesse piacere ai suoi nuovi padroni. Si crogiolò per un istante in quell'espressione, godendosi il successo e insieme cercando di capire una volta per tutte se l'idea di essere un servo gli desse fastidio. Forse, sotto chiunque altro, il suo amor proprio avrebbe recalcitrato, ma con gli Addams ne valeva la pena. Solo durante il colloquio gli avevano già dato così tanto – comprensione, accettazione e approvazione come non ne aveva mai conosciute – che in cambio avrebbe accettato qualunque condizione. E all'improvviso seppe esattamente quale brano le sue dita avrebbero messo insieme per loro: Beethoven, l'Inno alla gioia. La sua.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Musica, maestro! ***


Capitolo 3 – Musica, maestro!

Gli tremarono un po' le mani quella sera a cena, ma non abbastanza da impedirgli di tagliare l'arrosto di yak o da fargli fare confusione tra il bicchiere “per quando avevano solo bisogno di liquidi”, come se non volessero ammettere che perfino loro ogni tanto bevevano semplice acqua (il fatto che fosse anche potabile era tutto da discutere), e quello “per quando volevano divertirsi”, che non sapeva cosa contenesse, ma che era suo compito riempire regolarmente versando da una bottiglia etichettata con un teschio e fior di avvertimenti di pericolo.

L'Inno alla gioia aveva riscosso qualche tiepido applauso, ma era stato giudicato troppo felice: pur capendo le sue motivazioni, l'avevano gentilmente invitato a cercare tra i suoi spartiti qualcosa di più adeguato, che tra melense canzoni d'amore e libri d'insulsi esercizi, semplicemente non c'era. Andavano già meglio le arie di celebri opere liriche in cui i rispettivi protagonisti, tra un acuto e l'altro, morivano atrocemente, ma alla fine fu deliberato di mettere a ferro e fuoco la soffitta per potergli fare un regalo di benvenuto: una copia della Marcia funebre di Chopin, che a detta loro era assolutamente inaccettabile che non possedesse già.

I due furono tanto premurosi da lasciargli esplorare la villa a suo piacere senza interromperlo troppo spesso, anzi, partecipando con entusiasmo al tour e distribuendo spiegazioni a destra e a manca, con la scusa che erano sopravvissuti senza un maggiordomo fino al giorno precedente e potevano ben permettersi di aspettare fino all'indomani per approfittarne. Nell'ordine, Lurch scoprì una serra in cui, per quanto s'impegnasse, non riconobbe neanche una pianta che fosse una perché erano tutte troppo esotiche (e alcune anche piuttosto aggressive), poi una cucina dall'aspetto incredibilmente ordinario se non fosse stato per l'inequivocabile calderone, le etichette sui contenitori che parevano uscite dall'illustrazione dell'antro della strega in un libro di fiabe e l'ennesima scatola da cui Mano fu fin troppo felice di indicargli tutte le curiosità più macabre, e poi, senz'altro rimandata il più possibile per sfruttare al massimo l'effetto drammatico, la “stanza dei giochi”. Per quanto si stesse abituando all'atmosfera, non poté impedirsi di pensare: Alla faccia dei giochi! Alcuni di quegli aggeggi non sapeva nemmeno come si chiamassero, ma era abbastanza certo che quella cosa laggiù nell'angolo, indubbiamente lasciata aperta apposta nella parodia orrorifica di un abbraccio accogliente, fosse una vergine di Norimberga.

«In realtà non ci vengo a giocare tanto spesso. Salterebbe tutto, e la mamma non sarebbe per niente contenta» si premurò di precisare Gomez. «Però mi piace, è molto rilassante».

«Ah».

«Un giorno di questi ti faccio vedere».

Dopo la visita alla stanza dei giochi gli furono pazientemente illustrati i passaggi segreti che collegavano tra loro le stanze della casa – tutta una botola e un comparto invisibile: memorizzare i percorsi sarebbe stato un incubo, ma avrebbe fatto meglio a crearsi subito una bella mappa mentale, un po' per non perdersi e un po' perché la condizione di quelle porte era una sua responsabilità – e poi, come gran finale, dopo avergli concesso un attimo per superare lo stupore di fronte alla grotta perfettamente integrata nella struttura dell'edificio (in cui l'eco si poteva accendere e spegnere a piacimento, tra l'altro), si giunse alla sua camera. Era già stata preparata da un po', gli rivelarono, perché la villa stessa pareva concepita per ospitare anche la servitù, quindi era solo questione di tempo prima che qualcuno arrivasse davvero a riempire quegli spazi troppo vuoti, ma non sapendo chi o cosa l'avrebbe occupata, non avevano avuto altra scelta che mettervi solo lo stretto indispensabile. Trovandosi nella parte bassa della casa, la luce a disposizione era ben poca (un dettaglio che parvero invidiargli come se gli fosse toccata una suite, altro che i notoriamente scomodi quartieri servili che il suo secondo libro descriveva come l'inferno sulla Terra), ma c'era da dire che il letto gli piaceva. Il materasso era talmente duro che per un istante dubitò che ci fosse, ma soprattutto era delle dimensioni giuste: siccome l'inquilino avrebbe potuto essere di qualsiasi taglia, da gigante a nano, meglio procurarselo bello grande, in modo che l'occupante, in ogni caso, non si ritrovasse con i piedi che penzolavano dal fondo. Il resto era tutto spazio che avrebbe potuto sbizzarrirsi a personalizzare: i vestiti che si era portato non arrivavano neanche lontanamente a riempire l'armadio, ma la signora Addams gli promise che una volta prese le sue misure avrebbe avuto abbastanza livree da bastargli per una vita. L'immagine di se stesso con un completo che ricordava da vicino un pinguino molto distinto stava per avverarsi. Forse nel volume sul galateo c'era anche, da qualche parte, una bella illustrazione dei passaggi necessari per annodarsi il papillon nel modo corretto, senza che risultasse tutto storto e sgualcito. Avrebbe fatto qualche prova di nascosto. Poi c'era uno scaffale che bastava e avanzava per tutta la sua musica, e poi... di primo acchito credette che mentre girava per la casa uno dei due fosse entrato in punta di piedi e gli avesse lasciato sulla scrivania un altro fascicolo di spartiti, ma quando si diede a sfogliarlo scoprì che i pentagrammi erano vuoti.

«L'ho trovato mentre cercavo la Marcia funebre e ho pensato che potesse servirti. Non mi hai detto se per caso sai anche comporre». Gli erano bastate poche ore per inquadrare la signora Addams come il genere di persona che non buttava mai via niente e poi, quando qualcuno aveva una richiesta assurda, si tuffava in quel che pareva un mucchio di cianfrusaglie e ne riemergeva con la soluzione perfetta e un'espressione soddisfatta sul viso, come a dire: “Visto che avevo ragione?”. E dal “caos organizzato” di cui aveva parlato durante il colloquio, questa volta, era spuntato il più grande regalo che potesse fargli.

«Grazie». Per una volta, a renderlo sintetico era un nodo in gola che poteva essere solo commozione.

«Figurati. Noi incoraggiamo la creatività, te ne accorgerai presto».

 

I primi giorni filarono lisci, o almeno, lisci quanto potevano filare in una casa in cui non si facevano mai partire i trenini elettrici senza far capitare apposta qualche spettacolare incidente e, quando gli esplosivi da piazzare sotto i ponti ferroviari in miniatura erano finiti, c'era una nuova cavia con cui giocare a Guglielmo Tell. Il bersaglio era un po' alto, ma pazienza. Una sfida in più.

C'era solo un piccolo ma fastidiosissimo problema: madre e figlio ne avevano avuto più che abbastanza di sgolarsi per richiedere la presenza di Lurch, soprattutto il piccolo, a cui era tornata una tosse di proporzioni notevoli che gli impediva di sforzare troppo la voce. Nei momenti liberi il nuovo maggiordomo continuava a trasformarsi nel topo di biblioteca che non era mai stato prima d'allora e aveva imparato che nelle residenze con la servitù normalmente c'era un sistema di corde che collegava ogni stanza a dei campanelli ben capaci di sostituire le urla, ma in casa Addams, chissà perché, non era mai stato installato nulla del genere. Forse era mancata la voglia o la possibilità di fare i lavori necessari, o forse, come aveva suggerito la signora con un vistoso brivido, nessuno aveva mai voluto che la pace e la tranquillità della villa fossero invase dal suono argentino dei campanelli. Se proprio toccava apportare quella modifica, dovevano trovare qualche tipo di allarme che non facesse venir loro voglia di tapparsi le orecchie, ma quale?

Gomez propose entusiasticamente una sirena, ma l'idea fu accolta con qualche riserva: aveva i suoi meriti, ma si sarebbe certamente sentita anche da fuori e nessuno voleva scocciature dai vicini, che avevano tutti delle reazioni davvero esagerate al minimo rumorino. Non avevano ancora avuto neanche un'occasione di vedere Lurch alle prese con un visitatore esterno, ma da lì a costringerlo ad andare alla porta ogni cinque minuti per dare sempre la stessa spiegazione... No, la sirena andava bocciata. Ansioso di contribuire, il bambino si offrì di immolare sull'altare della praticità i fantastici effetti sonori del suo plastico, ragionando che tra scampanii e fischi assortiti ce ne sarà pure stato uno che andasse bene, ma a meno di non trovare un bel modo per amplificarli non c'era verso, non erano neanche lontanamente abbastanza forti.

Stavano cominciando a non sapere più dove sbattere la testa quando il suono di un gong squassò l'intero edificio. Mano, dalla sua scatola, parve un po' in imbarazzo: con una mazza in miniatura tra le dita, si era messo ad ammazzare il tempo giocherellando con l'ultimo soprammobile aggiunto alla collezione di curiosità esotiche, che era appunto un gong in formato ridotto, senza aspettarsi minimamente che un oggettino di quelle dimensioni potesse fare un tale baccano. Chiunque nella stanza fosse dotato di occhi scoccò agli altri uno sguardo d'intesa e di esultanza: centro! Ne avrebbero acquistato un altro simile, magari più grosso, per non sacrificare quello già presente, che era una gioia per l'estetica e un gran divertimento per il loro amico dalle cinque dita, e si sarebbero messi all'opera. Anzi, meglio fare subito una capatina a comprare diversi metri di corda prima che arrivasse: con una corda si potevano fare tante cose, avrebbero certamente trovato qualche modo per ingannare l'attesa scatenando la fantasia, a patto di non spezzarla.

I tizi che trasportarono dentro lo strumento persero gran parte della loro voglia di fare domande quando si videro sottrarre da Lurch i cappellini con il logo della ditta e si zittirono del tutto quando si resero conto di quanto si accordasse bene un gong con lo stile del resto della casa. Chissà perché, poi: non stava scritto sul suo bel manuale che era suo specifico compito prendere eventuali cappelli e soprabiti e restituirli ai rispettivi proprietari alla fine della visita? E va bene, forse ne erano usciti un po' sgualciti, ma suvvia, non li aveva mica fatti a pezzi...

La parte più difficile, senza alcun dubbio, fu collegare il gong al resto del sistema, ma una volta messi insieme gli ingegni il lavoro fu uno scherzo, soprattutto ora che in casa c'erano la bellezza di sette mani. Ogni stanza fu debitamente testata fino a raggiungere la certezza assoluta di poter chiamare Lurch da qualsiasi angolo (le prove rintronarono le orecchie a tutti quanti, ma cosa non si fa per il comfort...), e c'era da ammettere che quelle corde penzolanti creavano un'aggiunta niente male all'arredamento. Tuttavia, non erano ancora perfette. La signora Addams fu sorpresa a squadrare quella del soggiorno con aria critica, reggendosi il mento in atteggiamento pensieroso.

«Tutto bene, mamma?»

«Manca ancora qualcosa qui...»

«Sai che è proprio vero?» E prese a esaminare a sua volta la corda nel tentativo di capire cosa ci fosse che non andava. «Idea!»

«Sentiamola, allora, quest'idea».

Per tutta risposta, Gomez si protese in tutta la sua altezza verso la corda, ma anche se riusciva ad afferrarla per un pelo, era chiaro che non era sufficiente per mettere comodamente in pratica il suo piano. «Oh, accidenti!» Spiccò un salto e vi si attaccò di peso, scoprendo incidentalmente che usarla per dondolare era un gran bel gioco, e il gong echeggiò in tutta la sua potenza.

«Chiamato?» si fece notare Lurch, ancora tutto preso dalla soddisfazione personale, futile ma non troppo, di aver appreso finalmente a spuntare né visto né sentito da uno dei passaggi. Ancora non lo sapeva, ma sarebbe diventata la sua parola preferita.

«Puoi sollevarmi?»

Lui lo afferrò saldamente da dietro e lo tirò su senza alcuno sforzo particolare, con la sensazione di essere apprezzato che lo scaldava dentro. Qui anche la sua forza aveva un posto tutto suo.

«Grazie». E le sue piccole dita si misero a trafficare industriosamente intorno alla corda. Gli furono necessari un paio di tentativi, ma il risultato fu un nodo scorsoio veramente impeccabile. «Ecco qua. Ho appena imparato a farlo e ho pensato che così...», un accesso di tosse tagliò in due la frase, «potesse essere un po' più bello».

«Decisamente» approvò la signora Addams. «Hai occhio per queste cose».

«Posso fare anche gli altri?»

«Ma certo!»

E con questo l'annodatore ufficiale, talmente orgoglioso di sé da dimenticare anche la tosse, fu trasportato in giro per ogni stanza a creare cappi a ritmo industriale. Vero, i nodi mettevano una volta per tutte la fune troppo in alto per i suoi gusti, quindi avrebbe dovuto o farsi aiutare o crescere ancora un po', ma era un vero tocco di classe.

 

Lavorando in casa Addams non ci si annoiava mai, decise Lurch una volta abituato alla sua nuova routine quotidiana (che routine non era, dato che s'inventavano sempre qualcosa di diverso, dai bagni di luna per assicurarsi un colorito perfettamente diafano alle lezioni di scherma), ma non ci si sentiva nemmeno come i servi oppressi e maltrattati del suo libro: aveva ancora del tempo libero, e sapeva esattamente come occuparlo.

Con sua somma gioia, la musica era ancora una parte molto importante della sua vita, dato che non c'era sera che non passasse a intrattenerli e a raccogliere applausi (fu vagamente sorpreso di scoprire che non richiedevano solo pezzi particolarmente deprimenti, perché Gomez voleva a tutti i costi imparare a ballare), ma far loro da sottofondo vivente non gli bastava più. Il quaderno di carta pentagrammata era rimasto lì a prendere polvere troppo a lungo, e quando perfino la signora Addams manifestò velatamente la sua delusione nel notare che non l'aveva ancora usato, Lurch decise che era ora di darsi una mossa.

Scelse un pigro pomeriggio in cui padrona e padroncino si erano chiusi beatamente nella stanza dei giochi, dato che quel genere di attività faceva molto meno rumore degli incidenti ferroviari su piccola scala, e si mise finalmente al lavoro. Sapeva qualcosa di composizione, ma non aveva quasi mai osato passare dalla teoria alla pratica, forse perché si era ormai convinto che la sua faccia avrebbe comunque impedito alle sue opere di arrivare lontano. E forse non sarebbero davvero arrivate neppure fuori dalla porta, ma stranamente non gli importava. La sua vita era lì, ora, non insieme a qualche grande orchestra, e andava più che bene così. Per essere felice non aveva bisogno che la musica lo rendesse famoso, gli bastava che ci fosse.

Quello che riuscì a produrre, dopo così tanti tentativi che aveva smesso di contarli, era tutt'altro che una sinfonia, ma aveva come l'impressione che a loro sarebbe piaciuta. Il suo obiettivo primario, nel comporla, era stato di andare incontro ai loro gusti, ma era da diverso tempo ormai che non si sentiva più abbastanza triste da darle il giusto tono funereo, per cui era sceso a un compromesso: una musichetta che di primo acchito poteva sembrare allegra, ma che a un ascolto più attento aveva abbastanza diesis e bemolle distribuiti in punti strategici da risultare moderatamente inquietante. La melodia era semplice ed essenziale, facile da arricchire sul momento in qualsiasi modo gli suggerisse l'ispirazione, qualcosa con cui poter giocare fino a renderla quasi irriconoscibile, e si sarebbe perfino prestata ad avere un testo, ma Lurch sapeva di non essere abbastanza bravo con le rime. Mise l'idea in un angolino per poterla ripescare più avanti, casomai gli fosse venuta l'idea giusta. Per ora la musica era più che sufficiente... sempre che fosse riuscito a finirla, accidenti. Il pezzo era quasi terminato, ma aveva ancora un'aria irrimediabilmente incompleta. L'inizio non gli piaceva, ma non se la sentiva di cancellarlo. Appena scritto gli era sembrato che funzionasse bene, che fosse accattivante e facile da ricordare, ma l'inchiostro si era a stento asciugato sulla pagina quando erano cominciati i dubbi: c'erano quelle dannate pause che si stavano rivelando una vera spina nel fianco. Se usati con maestria, i silenzi erano parte integrante della musica; questi, invece, erano proprio un errore, un orribile buco che andava riempito in qualche modo, ma in cui nessuna nota della scala riusciva a trovare posto. Ci voleva qualcosa di sorprendente, di inaspettato, di non convenzionale, proprio come loro. Ne sarebbero stati entusiasti, ne era sicuro. Sì, ma cosa?

Abbandonandosi a un verso di frustrazione, suonò daccapo le prime quattro note, quelle che ormai cominciavano a martellargli in testa in modo quasi fastidioso, e poi si bloccò per l'ennesima volta. Un cigolio lo avvertì che Mano aveva fatto la sua comparsa dalla scatola posta sul clavicembalo. Vedendolo in difficoltà, s'inabissò di nuovo e prese a battere un messaggio sulle pareti interne: “C'è qualcosa che non va?”. Ormai stava imparando a decifrare quel codice, così come tutti capivano il suo.

«Manca qualcosa» spiegò in poco più di un ruggito animale.

Fammelo risentire”, batté Mano, riuscendo a dare perfino all'alfabeto Morse un tono speranzoso.

Le quattro note iniziali risuonarono ancora e ci fu un che di pensieroso nel silenzio che rispose, poi il suo piccolo amico rispuntò, tremando d'eccitazione. Gli fece il gesto di rifarlo e lui obbedì, incuriosito. Mano riempì la sua pausa schioccando le dita.

Hmm... sì, si poteva anche fare.

«Di nuovo». Alle sue note risposero due schiocchi. E poi una seconda volta, e poi una terza, e finalmente poteva cominciare la melodia principale. Mano se ne stava lì, felice di aver contribuito, ad aspettare la sua occasione di tappare i buchi di tutti i ritornelli. Era perfetto.

«Grazie».

«Cosa sentono le mie orecchie?» lo sorprese la signora Addams, che era entrata seguendo la musica e stiracchiandosi placidamente dopo un pomeriggio passato a rilassarsi torturandosi da sola.

«Un duetto». Be', lo era, no? “Sonata a tre mani” suonava benissimo come titolo, sennonché non era il termine tecnico appropriato. Peccato, aveva un che di raffinato che rotolava piacevolmente sulla lingua.

«L'hai scritto tu?»

«Sì, signora Addams».

«Be', che mi prenda un colpo! Hai colto perfettamente lo spirito di questa famiglia. Non so perché, ma ho l'impressione che ci rappresenti moltissimo. Dai, suonalo ancora».

E stavolta schioccò le dita insieme a Mano, sorprendentemente a tempo. Aveva appena dato i due clic che segnavano il finale quando Gomez fece a sua volta irruzione nella stanza e pretese anche lui il bis, unendosi allo schioccare generale. Erano proprio determinati a smentire la sua idea di un duetto, a quanto pareva, e in fondo non importava. Era più bello così: poteva intitolarsi “La famiglia Addams”, e basta. Una famiglia di cui ora faceva parte anche lui.       

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