L'angelo storto

di purepura
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pennellata ***
Capitolo 2: *** Macchia ***
Capitolo 3: *** Segno ***



Capitolo 1
*** Pennellata ***


L’angelo storto
Pennellata

 
   Io con te, per te. Nelle notti devastate dai troppi vetri, mi fermo e ti guardo dormire.
   La luna gioca col tuo volto, un poco al buio e un poco alla luce. Le labbra sono schiuse, come se stessi per sorridere, e una notte mi rendo conto che è esattamente così. Sai che ti guardo come sai che ti amo, ed è la mattina successiva, che me lo chiedi, mentre indossi le tue calze preferite e ti pettini i capelli sempre troppo lucidi.
   «Prometti che dirai di sì?»
   Mi blocco, intenta a scartare camicette scure. «A cosa?»
   La giornata porta i segni inconfondibili di una primavera che non resisterà. Sole, azzurro, verde e cinguettii. Tuttavia, se appena si fa un passo in avanti, ecco che la gelida brezza ti scompiglia la vita e insieme l’entusiasmo.
   «Prometti», ripeti.
   Indossando un paio di pantaloni, in fretta decido di infischiarmi del meteo e stiro le pieghe di una canottiera lilla.
   «Lo farò. Dirò di sì».
   Ti alzi, le scarpette leggere al loro posto.
   Mi carezzi una guancia, cosa che mi fa sorridere.
   «Lo sposerai?», sussurri.
 
   Troppe lettere ammucchiate in un solo scatolone. Abbiamo dovuto etichettare tutto, in modo che i facchini non ficcassero le tazzine da caffè nel bagno del secondo piano. E puntualmente è da giorni che stiamo cercando le tazzine da caffè e beviamo nelle tazze da tisana, grosse e ciccione, facendo apparire lo sputo di caffè ancora più misero.
  La dicitura su quella scatola dice DOCUMENTI, ma io so che la quantità di imposte ufficiali è ben povera se confrontata alle imposte ufficiose. Che mi spedivi insieme a pacchetti di sigarette e di gomme da masticare alla fragola. «Per arricchire i dentisti», dicevi.
  Leo porta dentro l’ultima scatola, che ha attraversato tutti i corridoi. Non sapevamo, dove metterla. La sua dicitura è più fragile e problematica. FOTOGRAFIE.
  Non ho nessuna foto di te. Ho solo il brivido della tua bocca sulla mia, delle tue mani, dei tuoi fianchi nudi e del tuo seno. Le tue mani erano sempre troppo fredde, quando toccavano i miei fianchi.
   «Dove le metto?», mi chiede, e poi storce il naso, vedendomi accoccolata sul divano intenta a fissare quella scatola. «Che stai guardando?»
   «Nulla», dico. «Lasciale pure lì. Le metto via insieme a questa scatola, nello sgabuzzino magari».
  Annuisce. Esce dalla stanza, borbottando «Voglio andare a letto presto», prima di chiudersi la porta alle spalle. Lo sento salire le scale e sbattere la porta del bagno.
  Fumerà e renderà l’aria satura e irrespirabile. Poco male. Aveva promesso che avrebbe smesso, ma anche io avevo promesso di smettere di vederti. E invece le tue mani sono ancora sui miei fianchi, sdraiate ogni notte in un letto diverso, pagando ogni volta tariffe orarie differenti, mentre dietro al bancone la gente ci fissa e non capisce.    
  Poco male. Mi sposto verso la scatola delle fotografie, pensando che infondo io stessa il giorno del matrimonio non sono stata fedele; credevo veramente a quel finché morte non ci separi ma a tutto quello che riguarda la fedeltà nella buona e nella cattiva sorte… insomma, non ero già fedele, per cui buona o bella non avrebbe fatto differenza.
 
   Leo infine è davanti a me, a chiedermi se gli voglio dare un figlio. Un bimbo con i suoi magnifici capelli e il suo mento. Un bambino per Leo.
   Penso vagamente al fatto che non dovrebbe apparirmi così, la cosa. Non dovrebbe essere un bambino per Leo, ma il nostro meraviglioso piccolo bambino che avremo desiderato con tutti noi stessi.
   Ma io sono capovolta, con la testa e con il cuore. Rimarrebbe solo il bambino di Leo.
   Io sono tua. Come potrebbe il mio cuore, trovare spazio per altro?
   Annuisco, perché fare contento Leo, è una delle maniere migliori per – finché morte non ci separi, per poter sgusciare fuori di casa alle ore più impensate e salire sulla tua auto, sempre pulita ma in disordine, e sfrecciare lontano, nell’ennesimo motel, dalla carta da parati allegra e stagna.
   Ed è quella stessa sera che te lo accenno, perché il bambino di Leo non è un argomento da nulla, e tu sorridi carezzandomi una gamba nuda, e riprendi a baciarmi le labbra. Io riprovo, quando passi alle spalle, a dirti che presto insieme con me ci sarà anche il bambino di Leo, e tu mi baci il ventre ed io non riesco più a respirare.
   Tu sorridi ed io sospiro, pensando che potremmo anche parlarne l’indomani, per telefono.
   «È normale, non trovi?», mi chiedi, mentre mescolo il caffè nella tazza da tisana. «Alla sua età, è normale voler metter su famiglia. Che cosa hai risposto?»
   «Ho detto di sì».
   Il tintinnio del cucchiaino non mi distrae abbastanza. Sento il tuo respiro. Mi accusa – crepitio maestoso senza il quale non potrei mai più ridere – di dire sempre finché morte non ci separi.
 
   Il bambino di Leo ha i miei capelli e il mio mento, e si aggrappa alle mie dita con le sue piccole falangine e falangette senza smettere di storcere il visino.
   Il bambino di Leo è l’angelo che forse mi raddrizzerà.
   Poi arrivi, per conoscere il bambino di Leo, e quando è fra le tue braccia apre gli occhi – come i miei, i miei occhi e i miei capelli e il mio mento e il mio bambino – e stringe i piccoli pugni che ti sbatte sul petto.
   Il mio angelo storto tiene su di sé il mio diavoletto dritto.
 


_______________________________


[Tutto quello che ho narrato non si ispira a fatti reali ma è solo frutto della mia immaginazione, e i personaggi sono maggiorenni e consenzienti.
Ora, se sospettate che io abbia qualche problema, siete sulla giusta strada! :)
Seriamente, non chiedete spiegazioni. Non ne ho!^^]

   

 

 

  

 

 

 

 

 

  

 

 

 

   

 

    

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Capitolo 2
*** Macchia ***


L’angelo storto
Macchia

 
   Sei di fianco a me, alla fresca brezza estiva, profumata di fragole e miele, e poi sei in piedi, illuminata, e d’improvviso sei sopra di me – solo gambe e braccia e labbra – e sento sconnessi i tuoi bisbigli.
   La tua mano è sul mio braccio, scende e sfrega, graffia; le tue dita sono sul mio ventre, sulla cicatrice regolare e non ancora sbiadita.
   I gemiti, quando chiudo gli occhi, si mischiano alle tue domande. Ti interessi alla salute del bambino «Possibile che non abbia ancora un nome? Ha già sette mesi!» ma poi lo sguardo vaga, smetti di ascoltarmi. Non mi accusi mai di esserne innamorata; sai che è un’accusa fondata. Sai che sono condannata.
   Mi riempi di baci in una stanza d’albergo luminosa e ariosa. Mi trascini verso il basso – la tua bocca fra le mie gambe, le tue mani sulle mie cosce, l’arrangiare di un essere che muore – insieme alla mia coscienza.
  Acconci i miei capelli riempiendoli di rose blu. La mia schiena sul tuo petto, la notte che lenta ci divora, l’attesa che si fa premura, ancora non mi lasci andare. Il telefono ha suonato mille volte. Me lo prendi dalle mani e lo lanci sempre più distante.
   «Devo tornare», sussurro. «Mio figlio».
   «È con suo padre», dici. «Taci».
 
   Mi friziono i capelli davanti allo specchio appannato.
   La porta è chiusa ma lui la apre, con il bambino fra le braccia. Ed è la prima volta, che mostra di accorgersene. «Sei tornata molto tardi».
   «O molto presto, secondo come vuoi vederla».
  «La prossima volta, informami almeno dell’orario del ritorno. Avevo bisogno di scappare al lavoro e tu non c’eri. Ho dovuto affidare il bambino alla Signora Healthy». Sa, ma non mi accuserà.
  «Dovremmo trovargli un nome», rifletto, continuando ad asciugare i cappelli e la condensa sullo specchio. «Non si è mai visto un bambino che resta anonimo per così tanto».
  Il figlio che non avrei mai immaginato sarebbe apparso – paradisiaco, il figlio che abbiamo battezzato Matthew davanti a un caminetto acceso, ti guarda quando entri dalla porta sul retro. Oggi sei – lentamente più guardinga entri e ti sistemi sul divano. Matthew ti sorride.
  Il sole plana a illuminare quel salotto che sta per diventare scenario di adulterio. Nella buona e nella cattiva sorte.
 
   Sorte maledetta da milioni di baci. Le sue mani vagano, sanno dove andare, ma io non so come reagire. Non ci sei tu, con me. Il suo corpo caldo che si muove mi è sempre stato cauto, e – l’altro figlio di Leo che adesso richiede attenzione, scalcia – si ferma per riprendere fiato, si scosta e si rilassa, respirando.
   Due figli e due amanti. Due angeli e due demoni.
   «Mi hanno offerto un lavoro a Philadelphia».
   Forse, appagato dall’orgasmo, è abbastanza di buon umore da infischiarsi delle conseguenze per le sue scelte.
   Mi volto a guardarlo. Nel buio della stanza, noto solo in quel momento la sua cicatrice sul braccio sinistro. Ricordo ancora quando mi raccontò quell’episodio. Non ricordo il dove, però.
   «Ho accettato. Prenderò con me i bambini».
   Un bambino per Leo.
   Matthew.
   Amore mio.
   «A quando la partenza?»
   «Sei mesi, otto al massimo».
   «Questo bambino sarà ancora troppo piccolo».
   «Per fare cosa? Per viaggiare?»
   «Per stare lontano da me».
   Ora guardo il soffitto.
   Amo loro, più di te.
   Non posso vivere senza di te, ma senza di loro non posso esistere, o continuare a respirare, o morire.
   Incubo.
 
   Le valigie sono pronte, minacciose, nell’ingresso. I ponti sono crollati nell’istante in cui, tramortiti, i chiodi e gli infissi hanno cigolato, minacciando.
   Sdraiata su di un letto che non trattiene il caldo delle coperte, intravedo i suoi preparativi.
   Ha vinto. La scatola stava esplodendo, rovesciandosi. Lui ha vinto, alla fine. La scatola si è rovesciata. E io insieme a lei. Troppo poco sangue e troppa poca voglia.
  Mere, Mere Slew*, che piange nella cesta, mi riporta alla realtà. Dovrei alzarmi per cullarla, ma non posso toccarla. Matthew gironzola per la stanza, raccogliendo giocattoli per buttarli a terra.
   Matthew.
   Mere Slew.
   Valigie.
 
  «Non puoi dire sul serio!»
  Hai smesso di toccarmi. Avrei voluto che continuassi, ma ti ho sussurrato che sarebbe stata l’ultima volta e tu hai smesso di toccarmi. Non avrebbe potuto mai esserci un’ultima volta se non ti fossi decisa a continuare.
  «Potrei perderli», ho mormorato, la voce smorzata, ancora febbrile.
  «E quindi hai deciso di perdere sicuramente me».
  «Potrebbero usare questa storia contro di me».
  «Non puoi cancellarla. C’è comunque stata».
  «Sì, lo so. Posso però tentare di negare».
  «Lo sa lui e lo sai tu. Negare?»
  «Tentare», ho sussurrato.
  Di starti lontano, di non amarti, di non amarmi, di non vedere, di non volere, di stare ferma.
  Di essere una buona madre.
 
   Da sola nella stanza insieme al sole.
   Senza di loro non potrei morire.
   Senza di te non potrei vivere.
 
 
______________________


[*Vengono entrambi dall’inglese. Mere sta per stagno e Slew per lago.
Se ci siete, ancora non ho spiegazioni.
Due capitoli assurdi di una storia senza senso.
Ringrazio perché siete arrivati sino a qui!
Ultimo capitolo in arrivo!]







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Capitolo 3
*** Segno ***


L’angelo storto
Segno

 

   Segno sul taccuino sporco, senza inchiostro.
   Segno sulla pelle, senza unghie.
   Segno nella mente, senza memoria.
   Segno nella vita, senza eventi.
   Segno nella morte, senza dolore.
   Voi.
   Arcano – piange e dorme – e irruento.
   Decisa – piange e non dorme – e friabile.
 
   Segno nella pietra, senza trapano.
   Segno nella pelle, senza ago.
 
   Mere segna con la matita un quadrato. I suoi compiti sono sempre a scelta multipla, così molto spesso affida il suo voto alla sorte. Seduta alla medesima scrivania, la osservo, mentre Matthew sottolinea con l’evidenziatore un intero paragrafo, probabilmente senza leggerlo davvero. Sono qui con me per pochi giorni. Per un weekend.
   Che passa sempre troppo in fretta, più veloce di un soffio, e troppo presto mi ritrovo da sola, con le loro chiamate a orari troppo definiti.
   Per loro, la madre ha abbandonato la casa. Quale madre non prende con sé i propri figli? Ogni volta che mi guardano, vedo l’accusa. Non vengono volentieri.
   Si rintanano nei libri e nei compiti, non vogliono parlare né offrirmi dettagli sulla loro vita. Così immagino tutto.
 
   Ti sei trasferita appena finito il processo. «Sono curiosa del verdetto».
   La tua casa ora è vuota. È stata venduta a una coppia di giovani sposi.
   Tra i tuoi vestiti, vi era un lungo abito scuro che non era tuo. Probabilmente l’avrai con te, ovunque ti trovi.
 
   Sono fuori, durante una pausa pranzo frenetica. Il cellulare squilla. Non aspettavo chiamate, così lancio uno sguardo al display. Il tuo nome. Sul mio telefonino.
   «Insegno a Philadelphia, ora».
   Ho la testa bloccata. Resto zitta sinché non sospiri.
   «Ho uno dei tuoi bambini in classe. Il maschio. Non ricordo il suo nome».
   «Oh». Tutto qui. Anni che non ti sento e mi esce solo un’esclamazione.
   Ho perso, anche se ho tentato.
   «A quanto pare, il suo tema sulla famiglia è stato molto breve. Gli manchi».
   «L’ho visto qualche giorno fa», mormoro. «Ti assicuro che sta meglio lì dove è ora».
   «A me non sembra. Lo vedo tutti i giorni, e il venerdì è senza ombra di dubbio il suo giorno preferito».
   Resti in silenzio. «Ho un divano, in casa mia», mormori dopo un attimo.
   Tuttavia, ho tentato…
   «Perché non ti segni l’indirizzo? Se avessi voglia di vederli più spesso, potresti stare da me qualche giorno».
   Non vivo e muoio da troppi anni.
   Non riesco più a sorprendermi.
   «Perché proprio ora?», domando.
   «Solo durante queste settimane mi hanno trasferita. C’è voluto un po’, per ricordare il cognome del tuo ex marito».
   «Ho carta e penna».
 
   Il palazzo è bianco e blu. L’intonaco è nuovo. Quando apri la porta, la luce ti abbaglia e fa sembrare i tuoi capelli lunghi più luminosi.
   Mi offri del vino e parli. Parli di come tu ti sia sistemata, di come sia riuscita ad andare avanti ma di come ti sono sempre rimasta appiccicata addosso, di come rivedi me negli occhi di mio figlio.
   Mi offri altro vino e mi avvicino. Annuisco piano e racconto di come sia rimasta bloccata e non sia riuscita a proseguire; del lavoro statico e dell’appartamento vuoto. Del vestito scuro che è scomparso.
   Mi offri altro vino che non finiremo mai.
 



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[Grazie all'immaginazione.
E a voi che siete qui!]

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