ZERO

di lunax
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** I ***


ZERO
 
 
Ti faccio spazio dentro di me,
in questo incrocio di sguardi
che riassume milioni
di attimi e di parole.
 
Pablo Neruda

 
 
1
 
La strada era assolata.
All’interno dell’abitacolo, Valentina cantava pensando a come sarebbe stata questa volta, in cui il padre e il fratello si sarebbero trovati dopo anni, nella stessa casa, per un periodo di tempo piuttosto lungo.
Il sole era tiepido e il finestrino lo filtrava con dolcezza, bonariamente, senza imperlarle la fronte. La carreggiata era alberata e pianeggiante. Le fronde irrompevano nella fragile luce di Marzo e per un attimo la vista si oscurava, e una sottile paura del baratro coglieva Valentina che conosceva la sensazione di brivido sotterraneo e acuto.
Quando aveva dieci anni, al riparo per un istante dagli occhi vigili di Lina, si sporgeva dal parapetto della finestra di Via Poerio per raggiungere i raggi del sole sempre troppo lontani dalla sua casa, e per quell’attimo sentiva l’infinito sotto, spaventandosene, a morte - tanto da rientrare col fiato corto ma con un senso di vita raramente consentito in quegli anni. Dovette fermarsi per un gregge di pecore che spuntò all’improvviso dietro una curva. Non interruppe però i suoi densi pensieri, andando veloce a un pomeriggio di venti anni prima quando sulla stessa strada per la campagna  la stessa cosa accadde d’inverno. La madre Lina cantava immersa al posto di guida, attenta a ogni tornante e dosso, il padre contrito e muto, il fratello assente nell’indistruttibile quiete apparente guardava fuori e Valentina lo scrutava sottecchi per capire e custodire un segreto nascosto dietro l'angolo dell’orecchio, vicino al finestrino.
Era arrivata al bar dei salumi, si fermò, posteggiò alla meglio e si diresse diritta al banco dove ad attenderla, secondo un antico rituale, il signor Mario con i baffi più corti del solito le sorrise a denti larghi e le diede il benvenuto.
“Bentornata signorina Valentina, come sta? Diretta alla villa su a Pratora?”
“Si. Come al solito, .. e Donara?”, il viso del signor Mario si fece rapido, scuro e compunto. Apparvero intorno agli occhi i segni, piccoli ma profondi, del tempo già trascorso - di cui Valentina non si era accorta prima.
Aspettava.
“Me l’hanno portata via..”.
Che vuol dire? Valentina avrebbe voluto chiederlo subito, avrebbe voluto spiegazioni su quell’espressione vaga ma abbagliante. Restò in silenzio però, come colpita all’improvviso da un fendente in pieno volto. Le venne da fare la pipì, ma la trattenne. Si fece caliginosa e piccola. I suoi capelli lunghi e compatti delineavano la nera figura pure fulgida contro il bagliore che arrivava limpido dalla fenditura d’ingresso. “All’ospedale, in giugno..”
“Nella notte di giovedì aveva avuto un malore, diceva di avere mal di testa, ..e di vedere doppio. La mattina siamo andati al pronto soccorso più vicino. Ci hanno detto che forse era per la stanchezza, per via dei lavori del locale, della ristrutturazione..”
”E’ morta due giorni dopo. Era da sola, in camera da letto - attendendo che finissi di dare il blu a quella parete lì in fondo. La vede Valentina..? La parete, dico, la vede..?”
Valentina riemerse da lontano, e piano  risentì parlare la sua voce, dire che sì, la vedeva, e complimenti per i lavori, ma non poteva crederci, che Donara se ne fosse andata...
E se ne andò, salutando il signor Mario con un affetto distante, in un modo che non voleva assorbire il dolore che esalava dal viso e dalla bocca, che invece cercavano un gesto di amore, un gesto che venisse da lontano, da un passato di gioia e di vita, da un passante conosciuto e inconsueto che può portarti indietro, con la forza eccezionale e preziosa  dello sporadico.
Se n’era andata.
Nella macchina già ripartita e sulla strada per il villaggio non riusciva ad afferrare, a realizzare  che Donara, la signora russa con l’accento calabrese della sua infanzia, se ne fosse andata per sempre. Quell’immagine sempre cara, quel porto quieto di sorrisi accomodanti era morta di meningite fulminante.
Fulminante. Così aveva detto Mario, il signore coi baffi neri neri di quando era piccola e poi grigi e poi bianchi, il marito di Donara, che di nascosto la faceva salire nella casina bianca – quando i suoi discutevano con Mario  sui salumi da portare alla villa – e le riempiva le tasche di pezzettoni di Krovrizka, la sua torta  fatta in casa  e che aveva un sapore straniero. Che era coperta da fili di glassa intensa ed effondeva odore di cannella e chiodi di garofano, che, quando Valentina non aveva le tasche, infilava in buste di carta antica di un colore giallastro che sembrava quella del pane e che veniva certamente da lontano, da un Paese diverso e più duro, dalle mani di persone abituate a spugne da bagno spente e  ruvide, da un’igiene avvezza a una carta zotica come foglie di campo. E non le aveva più viste da nessuna parte. Profumavano di nuovo e di pace.
Era il loro segreto. Era il suo solo adesso e Valentina non avrebbe più potuto spiegarne la profonda libertà e bellezza.


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Capitolo 2
*** 2 ***


2

Era trascorsa circa mezz'ora da quell’incontro ma sembravano ore. Valentina se ne accorse dal gruppo di case consueto che le scorreva davanti. Ancora da lontanissimo arrivò un pomeriggio in maschera a casa della nonna paterna. Mentre tutti gli altri parlavano, il vestito da sirena che aveva desiderato era troppo stretto sulle caviglie. Sentiva ciarlare la mamma e la nonna, sentiva la fatica degli altri venire dagli antri degli occhi nascosti gli uni agli altri. Avrebbe voluto liberarsi per ballare le arie suadenti che dalla radio grande del corridoio arrivavano fino al salotto buono di nonna Assunta. Svelavano una gioia antica passata di là, una leggerezza frivola e contenta contrapposta di netto all'aspetto petulante e austero e museale e vecchio, perennemente chiuso all’aria e alla luce che, negli anni, aveva assunto quel posto. Si ricordò di un'aria balzana, di una gaiezza mite e nostalgica, come di qualcosa che, nelle attese, avrebbe dovuto essere e mai fu. La mamma Lina ammirata e distratta sedeva. La guardava volteggiare con fatica ed eleganza dentro quell’abito conquistato, i suoi occhi avevano una luce intensa e serena e insieme profondamente dolente e distante. Uno struggimento mesto e lontano. Un travaglio acquoso e scontento. Edoardo stava immobile nel mezzo del divano vermiglio. Antico, trasognando a guardare distante. Il padre, tentando qualche passo di danza, ricacciando indietro i pensieri gravosi e continui, si scopriva senza sosta sprovvisto. Ancora un lampo insieme a un sorpasso avventato, di un bambino sulla battigia al calare del sole. Inverno, accanto al mare.
Valentina si ferma a guardarlo.
E’ lo spettacolo di una purezza persa, è lo spettacolo di un essere umano bellissimo, dagli occhi azzurri e limpidi, che correndo respira la brezza del nord, frugando con le mani la sabbia, rincorrendo una barca quieta cullata da onde pastose, gridando “dai! vieni a giocare con me”, il viso rattristato dall’orizzonte mangia-barchette e poi di nuovo un sorriso per il padre che lo guarda seduto aspettando contento.
«Ma papà, ci hai mai portato sulla battigia di sera?»

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Capitolo 3
*** 3 ***


3
 
Valentina sentì sulla strada uno strepito brusco di freni. Era il suo.
Si trovò davanti una signora anziana, canuta. La guardò assorta.
Le rughe profonde le solcavano ogni angolo della faccia, percorrevano in lungo e in largo le guance, il contorno della bocca di fuoco, la fronte, disegnata come una strada tortuosa, e gli occhi blu, nei contorni di verde e di rosa. A guardar bene era l’istantanea adirata di una donna con grandi borse sotto i bulbi pesanti e guance rosse da palcoscenico, vestita di tulle bianco, urlava e spurgava spropositi in dialetto. Valentina riconobbe l’idioma scorbutico e bisbetico da cui doveva difendersi da bambina,  anche dal fruttivendolo, con il sacco di tela di Rosalina, o al bar sulla strada prendendo un latte buonissimo, di mandorla - fatto in casa. Era l’idioma del volgo, che nel tempo breve ma libero dei soggiorni di Pratora, le aveva negato amiche, giochi e feste di piazza. Non l’aveva mai parlata quella lingua dura e storta, pensava non fosse per lei, ed anche sua madre pensava così.
Intanto neri insultacci di strada erano sparsi dall’espansiva e cordiale vecchietta «si ‘nà puttana », «cosa hitusa, ‘i ‘nduvi vìjani? si ti pìju ti  cuanzu a frischijattu.. ».
 «Troppo » pensò Valentina che chiese scusa, guardandosi intorno basita e innescando la marcia per andare via.
Stava intanto arrivando alla Villa.
Il cielo imbruniva e il sole guardava per l’ultima volta quel giorno del mondo. La signora passò. Valentina notò sulla destra curiosi guardarla come fosse marziana.
Si chiese se non si fosse resa conto di qualcosa, se fosse tanto lontana dalla sua gente, o dalla gente. Ma non gliene importava nulla.
Cambiò disco – come diceva  quando voleva escludere qualche pensiero – e continuò per un poco a camminare lentamente, accompagnata dal sentimento di dover recuperare e insieme da una specie di pentimento per essersi lasciata andare a pensieri che, sapeva bene, gettavano ombre - nella sua vita e non per i fatti che liberavano, ma perché evocavano un clima di angoscia che non aveva mai imparato a spiegare e che pure conosceva a memoria, che attribuiva alla sua famiglia, a quel modo di stare insieme, a quell’energia che riusciva a sprigionare, cattiva e inaffidabile.
Si fermò alla prima piazzola di sosta lungo la strada. Aprì pianamente lo specchietto  con luce del posto guidatore e si osservò.
 Era stropicciata e triste. Il suo sguardo le rivelò un sentimento che  non sapeva di provare. Si guardò, stringendo gli occhi per capire che cosa fosse successo.
Le era già capitato, che i suoi occhi, prima di lei, prima della realtà avessero detto qualcosa, avessero dato qualche segnale di scompiglio. Ma quale?
Pensò meglio che i ricordi appena affiorati e sfioriti dovessero essere ricacciati da dove erano venuti. Nessuno spazio alla tristezza, non voleva arrivare da Edoardo con quella faccia sconvolta, con quei capelli arruffati e selvaggi. Aprì la borsa da viaggio e ci diede giù pesante. Spazzola, cipria, rossetto, fard, ombretto.
«Basta, mio fratello non ha certo bisogno di vedere una così. Valentina, stai tranquilla» si disse a voce alta davanti  alla luce dello specchietto per schiacciare ogni voce interiore, per scongiurare l’ipotesi che inquietudini sepolte venissero in superficie, e riprese il viaggio verso il fratello e suo padre. Verso quell'incontro inaspettato.
Verso il passato, che quegli occhi le avevano rivelato e che gli anni trascorsi, le ore occupate a sconfiggere i fantasmi, l'astinenza totale dalla famiglia non erano riusciti, evidentemente, a levarle da dosso.
Quei presentimenti e quei presagi di sventura, quel senso sotterraneo, che aveva tenuto lì, nascosto a tutti e soprattutto a se stessa, erano tornati ad attenderla, sornioni e maliziosi, come chi sa di avere il potere di cambiare di tutto.  

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Capitolo 4
*** 4 ***


4
 
Edoardo guardava il sole spegnersi, spingendo contro il fianco della collina. Il suo respiro, regolare e lento, lasciava all’età insonnolita di quelle terre il tempo per trascorrere quieta.
Suo malgrado, una leggera smania lo coglieva ogni tanto, come un impeto interiore che si ripete meccanicamente. Anni di lavoro non riuscivano ad imbrigliare il profondo affanno che quegli ambiti scatenavano in lui. Allarmato si girò di scatto all’indietro.
Era Silvia - che arrivando con passo sicuro, appagava con gli occhi mori l’ansia incipiente.
Le andò incontro per tuffarsi nella sua chioma vasta e odorosa, che come sempre sembrava aspettarlo.
Il primo incontro era avvenuto a Madrid, hace un año y medio.
Era un inverno tiepido e il sole lo blandiva, accompagnandolo posato sulla Gran Via  spagnola.
Edoardo camminava silenzioso e accorato. Pensava, ed a volte, senza accorgersene, articolava parole, traspirando lemmi vagamente inquieti.
Silvia, bruna e alta ragazza fiera, si accorse di lui a un semaforo rosso per i pedoni. Ne rimase colpita.
Tentò di farsi notare. Era bella, ed abituata alle attenzioni maschili.
Gli andò vicino, molto vicino, poi lo oltrepassò, per riuscire a guardarlo negli occhi, e a farsi guardare.
E lui la guardò; lei sorrise piegando la testa a destra ma rimase sospesa. L’aveva attraversata. E i suoi denti, bianche pietre lucenti e brillanti, si persero nel fiume di gente che trascinò i due a conquistare le strisce.
Gli occhi fermi delle vetture li guardavano fissi, mentre quelli, con orme diverse ma convergenti, muovevano in fila come soldati scortati dal verde pedonale. E mentre Edoardo rapito e distante andava, mentre tutto intorno correva, Silvia, curiosa, iniziò ad osservarlo con maggiore attenzione.
Camminava lentamente Edoardo, come trascinandosi dietro un impiccio invisibile. La gamba destra, alzandosi per battere al suolo, faceva una curva scontrosa sull’anca che poi percuotendo il ginocchio proseguiva il suo corso. Biascicava frasi sconnesse mirando al cielo, perdeva lo spazio guardandosi intorno confuso e poi, circospetto, indagava l’ora, preoccupandosi un attimo ma tornando subito ai suoi pensieri. Il suo viso librava in ampie ipotesi brulle, balenavano gli occhi ruotando senza tregua su ciò che accanto muoveva.
Era mattino e la Gran Via, brulicando uomini e mezzi, rigurgitava da ogni vico pensieri, emozioni e dolori,
pressappoco continui, ed enormi. La vita, fiume umano di genti diverse, correva perpetua e complessa nel letto eterno di asfalto ma Edoardo, tirando il freno del suo mezzo bacato, di colpo sostò.
Silvia, sembrava irretita. Il tempo le si era fermato, masticando impegni e attenzioni, ingoiando a grandi bocconi la normalità.
Avrebbe dovuto essere dall’altra parte della città. Si era preparata, quella mattina, promettendo a se stessa che non avrebbe tardato. Lavorare per lo studio d’architettura ICM era una buona possibilità.La inseguiva da tempo e finalmente aveva un colloquio. Questi pensieri che arrivarono da lontano, con voce roca e insistente, la svegliarono da quello stato appeso in cui si trovava. Ricordò l’appuntamento e “porca morte” si disse. Dopo un’ultima breve scorsa scappò, e senza rendersi conto guardava, fuggendo veloce verso la metro, al nome del bar che aveva inghiottito quel tipo bizzarro.

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