Figli della libertà

di Trick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Figli della libertà ***
Capitolo 2: *** Scacco Matto ***
Capitolo 3: *** Pezzi di pazzia ***
Capitolo 4: *** A mani sporche ***



Capitolo 1
*** Figli della libertà ***


favola

Attenzione: sono presenti spoiler di Deathly Hallows



Figli della libertà

by Trick


A Piero, con tanto affetto e tanti auguri.






Sono figlio della libertà,

e a lei devo tutto ciò che sono”.





«Pensi che durerà ancora a lungo?»

Alzo lo sguardo verso il volto di Tonks; continua a fissare intensamente la tazza di cioccolata calda che stringe fra le mani, come se cercasse in quel dolce liquido scuro le risposte ai miliardi di dubbi che la stanno tormentando. Abbasso i modesti appunti che sono riuscito a stilare dal mio ritorno dal clan di Fenrir Greyback e mi strofino il viso con un gesto stanco della mano. Morgana, sono quattro giorni che non riesco a riposare. Devo avere un aspetto ancora più terribile del solito.



*



«Quanto credete continuerà?» chiese Alice, fissando intensamente il nulla oltre la finestra appannata della cucina. «Tutto questo, intendo» aggiunse, voltando il viso rotondo verso di noi. Nessuno le rispose.

«Non può certo durare in eterno» decretò Lily dopo qualche minuto di silenzio, gli occhi intenti a studiare le venature del legno scuro del tavolo. «Non possiamo mollare ora, Alice». Pose particolare enfasi sul nome dell’altra strega, quasi volesse sottolineare il loro ruolo in quel tormentato susseguirsi di giorni.

Sapevamo tutti a cosa stava riferendosi.

Non potevamo mollare. Nessuno di noi poteva permetterselo.

Non allora, che aspettavamo la vita.

Quella vera.



Decisi di prendere parola anch’io, ma il mio stato d’animo mi portò involontariamente a remare contro le parole di Lily.

«Cerchiamo di guardare in faccia alla realtà» dissi, «quanto credete potremmo ancora resistere in queste condizioni?»

Trovai nello sguardo scoraggiato di Alice la conferma che stavo cercando: nulla di ciò che ci avrebbero potuto dire quella sera, sarebbe stato in grado di alleviare le nostre angoscie. Entrambi ci eravamo lasciati avvolgere dal senso d’impotenza e dall’incombente terrore con cui ci svegliavamo ogni giorno da anni.

La guerra ci aveva fatto suoi schiavi.

«Non dire assurdità, Remus».



«Credi davvero che abbiamo qualche speranza, James?» domandai in un tono a cavallo fra la sfida e il sarcasmo. Guardai uno ad uno tutti coloro che mi circondavano.

Sirius sembrava perso in un altro universo, intento com’era a giocherellare con noncuranza con la bacchetta, lanciando silenziosi incantesimi di Levitazione alla polvere che da secoli riposava su quel vecchio tavolo.

Peter continuava a fissarsi nervosamente le mani, rigirandosi il calice come se scottasse. Mi guardò agitato e si asciugò il sudore dalla fronte, senza aggiungere nulla.

I Prewett avevano le sopracciglie inarcate e mi fissavano indignati. Mi chiedo ancora come sia stato possibile che non mi siano saltati addosso allora, loro che credevano nell’onore sopra ogni altra cosa.

«Siamo numericamente inferiori» continuai imperterrito, con la gola secca e gli occhi che bruciavano, «ci vengono a cercare uno ad uno».

Attesi qualche istante prima di lasciarmi sfuggire una risatina. Stavo letteralmente impazzendo, minuto dopo minuto.

E l’imminente luna piena, questa volta, non aveva alcuna colpa.

«Chi sarà il prossimo a cadere per una guerra che non possiamo vincere?»



«Non è questione di potere o non potere, Remus».

Lily aveva alzato lo sguardo su di me; una scarica elettrica mi aveva attraversato la colonna vertebrale. Merlino, non ho ancora saputo dimenticare il potere del suo sguardo. Non che voglia farlo, per inciso. In tutta la mia vita futura non ho mai incontrato un’altra donna che fosse anche solo lontanamente paragonabile a Lily Evans Potter.

«È questione di capire per cosa lo stiamo facendo».



«Per cosa lo stiamo facendo?»

Dovetti attendere qualche attimo di irrespirabile silenzio, prima che qualcuno lo infrangesse nuovamente. Fu Frank Paciock a parlare.

«La libertà resta uno dei migliori motivi per cui un uomo può voler cercare la morte in battaglia».

Silenzio.

«Dove te la sei letta, questa?» ridacchiò Sirius, rivolgendogli un’occhiata di palese perplessità.

«Sulle parole crociate» rispose con naturalezza Frank.



«Perché non vogliamo che distruggano il nostro mondo, Remus» intervenne aspramente Fabian, nel momento stesso in cui mi chiesi quando si sarebbe deciso a farlo. «È così difficile da capire?»

«Placa i tuoi bollenti spiriti, Fabian» lo rimproverò con un sorriso storto Frank, nonostante fosse completamente d’accordo con lui. Per lui, come per James, in ballo c’era una posta troppo alta per arrendersi. «Se iniziamo a creare dispute anche fra di noi, è la fine», concluse.

«Ma sta dicendo che siamo condannati a morire come degli idioti!» incalzò Gideon, stringendo il bicchiere di Whisky Incendiario con tanta foga che le nocche sbiancarono. «Perché è questo, quello ci stai dicendo, non è così, Remus?» mi domandò in un sussurro che a stento riusciva a contenere la sua rabbia.

«No, Gideon» risposi con rassegnazione. Sapevo che non mi avrebbero capito. «Sto solo cercando di dire che non possiamo vincerla. Indipendentemente dai motivi che ci spingono a combattere, e indipendentemente da quanto aneliamo alla sua fine, questa guerra finirà con il soffocarci tutti».

Sirius scoppiò a ridere, gettando la testa all’indietro. La sua risata – così simile a un latrato da far sorridere chiunque – aveva un effetto scarica: te la sentivi attraversare la colonna vertebrale finché non ti irrompeva con un brivido nel cervello. Aveva un che di demoniaco, a dirla tutta.

«Scommettete che l’ha letta anche lui sulle parole crociate?»



James iniziò a ridere, contagiando tutti quanti in pochi attimi.

Frank si piegò letteralmente in due, picchiando con forza il legno del tavolo.

Lily gli rivolse un’occhiata sconcertata, tradendosi però in un ghigno quasi impercettibile.

Gideon e Fabian, nonostante l’acredine che li agitava, si lasciarono trasportare da quella disarmante dimostrazione di allegria, il primo chinando la testa in avanti, e il secondo coprendosi il viso con un mano.

Peter, che fino a quel momento non aveva detto nulla, ridacchiò sommessamente nel suo angolo.

Anche Alice, sebbene fosse la più agitata fra tutti noi, si aprì in un sorriso pacato.

Io rimasi a fissare il liquido ambrato del mio Whisky, interrogandomi silenziosamente sul momento preciso in cui avevamo perso la capacità di ridere sul serio, sempre che ciò sia possibile. Mi ricollegai all’istante nel quale capimmo di dover contrastare l’insorgere di un conflitto più grande di noi, e avevamo deciso di imboccare la strada verso l’apatia, al fine di renderci immuni allo strazio di quella vita trascorsa appesa a un filo, come se non fossimo nient’altro che semplici esperimenti della selezione naturale, e non dei giovani uomini abituati, fino a pochi mesi prima, a vivere.



«Coraggio, Lunastorta» tentò di spronarmi Sirius, alzando verso di me il proprio bicchiere e rivolgendomi uno dei sorrisi accattivanti con cui ammaliava la popolazione femminile di Hogwarts, «cerca di rilassarti: non c’è mica solo rogna, al mondo».

Sospirai, sconfitto. Strinsi le dita attorno al mio bicchiere e lo alzai debolmente in direzione di Sirius.

«Hai un qualsiasi motivo per il quale potrei fingere di essere spensierato?» domandai mesto.

James mi diede un pacca amichevole sulla spalla e mi guardò divertito al di sopra degli occhiali rotondi, levando a sua volta il braccio. «Ad Harry...»

«E ad Ormerod» aggiunse con un sorriso raggiante Frank, sollevando il calice.

«Neville!» contestò Alice con una risoluzione decisamente lontana dai suoi soliti modi dolci e affabili. «Non ti permetterò di chiamare il nostro primogenito Ormerod»!» continuò, ponendo sull’ultima parola un accento di palese disgusto.

Diverse risatine aleggiarono intorno a noi, quasi ci stessimo lentamente spogliando delle pesanti e fredde armature che la guerra ci aveva costretto ad indossare.

Continuando a ghignare divertiti, anche i fratelli Prewett li imitarono, seguiti dal timido e schivo gesto di Peter. Le labbra di Lily s’incurvarono con dolcezza, e con gesto calmo ed elegante della mano, aggiunse il suo bicchiere ai nostri.

Mi scoprii inconsapevolmente a sorridere anch’io. Sirius mi fece l’occhiolino.

«È abbastanza valido come motivo, Remus?» domandò.

«Assolutamente» risposi.

«Dunque è deciso» esclamò James, trionfante, «ad Harry Potter e Neville Paciock!»

«Ehi!» protestò Frank, «tu da che parte stai?»

«Taci, ti prego» lo implorò l’altro, scuotendo la testa afflitto, «io, mio figlio, volevo chiamarlo Nimbus. Donne...»

Lily e Alice cozzarono i propri bicchieri l’uno contro l’altro, lanciandosi sguardi eloquenti. «Ad Harry e Neville» mormorò la prima.

«Ad Harry e Neville!» risuonò nell’aria, mentre il tintinnio del vetro ci perforava piacevolmente le orecchie.

Seppur con diffidenza, mi lasciai inebriare da quella sensazione speranzosa e ingannevole, convincendomi che forse, avevamo ancora un speranza.



*



«Pensi che la guerra sarà finita quando nascerà il bambino?»

La voce di Tonks mi riporta bruscamente alla realtà, strappandomi – non sono in grado di capire se fortunatamente o no – a ricordi della mia giovinezza che credevo aver perduto con gli anni. Alzo lo sguardo sul volto di mia moglie, e ringraziando il cielo di averla messa sul mio cammino, le bacio la fronte.

«Non importa quando, Dora» le sussurro in un orecchio, stringendola a me e accarezzandole la schiena minuta, «ciò che conta è che nascerà. Il nostro bambino nascerà. Tutto il resto è irrilevante».

Affonda il viso nel bavero della mia giacca, serrando la presa attorno al tessuto. Quando rialza lo sguardo su di me, la vedo -per un attimo fugace – sorridere come l’avevo vista fare mesi prima, a Grimmauld Place. Nonostante scintillino di lacrime che si costringe a non versare, i suoi occhi mi scrutano ridenti, velati di una sicurezza che ha quasi dell’infantile.

Merlino, quanto la amo.

«Nascerà» mi ripete con risolutezza, annuendo. «E la guerra finirà».

L’ultima volta che mi sono lasciato convincere dalla speranza di qualcuno, mi sono trovato a fissare le iscrizioni sulle lapidi di coloro che l’avevano fatto; dall’ultima volta in cui ho sentito affermare con tanta fiducia che la guerra sarebbe presto finita, sono trascorsi più di quindici anni; e di quel lontano brindisi del 1980, non sono rimasti che i miei frammentati ricordi. Davanti a me, sfrecciano repentini i volti dei miei compagni.

Sfiorò il pancione di Ninfadora, e mentre un brusco movimento la fa sussultare, io avverto una scarica elettrica attraversarmi le viscere.



«È abbastanza valido come motivo, Remus?»


Assolutamente sì.



*



Avvolgendosi attorno al piumino colorato del proprio letto, il bambino voltò la testa sul cuscino, storcendo il naso e strizzando gli occhi quando la luce invadente della luna, filtrando dalla finestra, gli illuminò il viso. Il turchese dei suoi capelli sembrava brillare sotto quei raggi lattescenti.


È abbastanza valido come motivo, Remus?










*****



Una breve one-shot con l’unica pretesa di uscire dalla cartella Documenti del mio pc. Povera creatura, vi sostava senza un futuro da mesi, ormai... oggi mi ha guardato con gli occhi lacrimosi, e non ho potuto dirle di no.

Sono figlio della libertà, e a lei devo tutto ciò che sono” è una frase di Camillo Benso conte di Cavour, citata dal mio professore, durata una sublime lezione di storia.


Sono in arrivo l’ultimo capitolo della Storia della Bella e della Bestia senza Bella e senza Bestia (era ora...), e il ventunesimo capitolo del Diario di un Lupo in un Branco di Lupi.


...devo smetterla di scegliere titoli così lunghi...

Avvertenze: potrebbe trasformarsi in una raccolta di one-shot sul primo Ordine della Fenice. Sapete che ne sono ossessionata...

Trick




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Capitolo 2
*** Scacco Matto ***


favola

 

Scacco Matto

by Trick






Degli scacchi è stato detto che la vita non è abbastanza lunga per essi,

ma questo è il difetto della vita,

non degli scacchi.”

(Irving Chernev)





Rapide, fiduciose e determinate, le lunghe dita di Benjy Fenwick afferrarono l’alfiere malamente intagliato di quel vecchio servizio da gioco, e con l’abilità e la maestria di un esperto burattinaio, lo condussero lungo la diagonale di caselle bianche in direzione della già critica posizione del re bianco.

«Alfiere in B6» sentenziò con un sorriso compiaciuto. «Scacco matto, Remus».

Remus Lupin fissò per un attimo la lucida scacchiera, contemplò velocemente l’eventualità di un fuga tattica di cui il proprio avversario poteva non essersi reso conto, così preso dall’enfasi dell’imminente vittoria, ma sorridendo di rimando a Benjy, fu costretto ad ammettere di avere davvero perso la partita. Il suo re era morto. Di nuovo, maledizione.

«Incredibile» ridacchiò, lanciando un’ultima occhiata speranzosa all’unica torre sopravvissuta e grattandosi distrattamente la testa, «mi hai stracciato, Ben».

«Sai qual’è il tuo problema?»

«Temo di no» rispose con un sorriso mesto l’altro, «o sarei riuscito a dare scacco matto prima di quest’imbarazzante umiliazione».

Benjy rise. «Sei troppo buono, Remus. A scacchi, invece, bisogna essere brutali. È un po’ come la vita, se vogliamo vederla con filosofia».

«È un bel paragone, effettivamente» convenne Lupin, appoggiando il capo su una mano e rivedendo mentalmente le ultime, decisive mosse dell’avversario. «Molto caratteristico, aggiungerei».

Benjy afferrò uno dei primi pedoni bianchi che aveva sottratto a Lupin, e lo scrutò attentamente rigirandoselo davanti agli occhi. «Prendi il pedone, ad esempio» disse, «il prigioniero della scacchiera. Il più recluso fra i pezzi dello scacchista. Non sa mai quando potrebbe essere mangiato, non è in grado di stabilire quando il suo padrone deciderà di sacrificarlo a favore di un alfiere o di un cavallo. Sa solo che è quello il suo posto in battaglia, in prima fila, a fronteggiare un nemico decisamente più pericoloso di lui sotto tutti i punti di vista».

Lupin inarcò un sopracciglio, fissando il volto rapito del compagno a cavallo fra il divertimento e lo stupore. «Da quando sei diventato anche poeta, Ben?»

Ben ridacchiò leggermente. «Non c’è bisogno di essere un poeta per capire da che parte gira la vita. Il pedone, ad esempio, non è un poeta. Se ne resta immobile, sperando con timore di non essere mangiato come i suoi compagni, nonostante abbia già compreso che il suo destino è quello di ritrovarsi nella traiettoria della Regina. E lei, per Merlino, lei non conosce la pietà» concluse, afferrando pensieroso la propria regina nera, e avvicinandola al pedone.

«Un eroe in miniatura» commentò Lupin, sfiorandone uno nero con un dito.

Benjy scosse la testa. «Eroe?» ripeté con un velo di malinconia nella voce. «No... se solo potesse, se la darebbe a gambe, fidati. I tuoi , inoltre, credo ti prenderebbero a calci. Non hanno fatto niente di male per meritarsi un simile sterminio».

L’espressione sul volto di Lupin non poteva essere più inequivocabile: con un sopracciglio inarcato e l’angolo destro della bocca lievemente alzato verso l’alto il suo divertimento era più che palese.

«Non meritavano un simile sterminio?» ripeté sbalordito, «ti ricordo, Ben, che sei tu ad averne fatto una carneficina».

«Gli scacchi sono spietati, Remus» ribatté Benjy, alzando le spalle con fare innocente e disinvolto, «devi essere pronto ad ammazzare la gente».

Un brusco e oppressivo silenzio calò improvvisamente fra loro, smorzando in pochi istanti l’intimo calore creatosi nella loro conversazione. Calarono gli occhi pressoché contemporaneamente sul re che Lupin aveva disperatamente cercato di salvare: la luce scivolava sulla sua corona di legno, creando una semplice e lineare ombra sulla scacchiera pressoché deserta. Così detronizzato e schiacciato, il sovrano del gioco era tornato ad essere nient’altro che un misero pezzo di legno. Benjy alzò lo sguardo sul compagno, stiracchiando i muscoli del viso in un sorriso tirato.

«Hai un argomento allegro di riserva nel cilindro, vero?»

«Ti sembro il tipo che è solito estrarre argomenti allegri dal cilindro?»

«No, ma mi sembri il tipo che ne avrebbe seriamente bisogno».

Lupin, seppur a malincuore, sorrise. «Ne avremmo bisogno tutti, temo».

Benjy fece una smorfia di disappunto. «È tutta questione di sopravvivenza» disse, «come negli scacchi».

«C’è qualcosa che non sei in grado di paragonare agli scacchi?»

«Tutto può essere paragonato agli scacchi» fu la risposta, «prendi questa guerra, tanto per fare un esempio».

«Un esempio molto rilassante, se posso permettermi».

«Fa’ finta» iniziò, raddrizzando velocemente il re sulla scacchiera, «che i neri siamo noi».

Lupin inarcò confuso un sopracciglio. «Perché i neri?»

«Perché il bianco muove sempre per primo» spiegò con semplicità Benjy, aggiustando morbosamente un alfiere nero, «è sempre lui a iniziare la partita. E chi l’ha iniziata, questa dannata guerra?»

L’altro mago si limitò a sorridere tristemente, e a concentrare il proprio sguardo sulle mosse illustrate sulla scacchiera. Benjy, trasportato come da un’ispirazione artistica, continuava a muovere i vari pezzi, incurante dei loro movimenti regolari e della geometria bipartitica della tavola.

«Non è solo un paragone, il mio, Remus: gli scacchi sono la riproduzione in miniatura della nostra vita: basta un errore, anche la più piccola svista, e puoi compromettere l’intera partita fino alla tua totale sconfitta. Prima, hai astutamente cercato di prendere il controllo delle caselle centrali. Nonostante questa volta la tua strategia mi abbia messo in difficoltà un paio di volte, non ti sei accorto della pericolosità del mio alfiere in prossimità della tua torre, e questo, puoi rigirarlo come ti pare, ma è stato il tuo errore fatale».

«Sembra ancora più brutale vista da questo punto di vista» commentò Lupin, «ma, perlomeno, hanno vinto i neri».

Benjy annuì. «Casualità».

«Da quando la casualità riguarda il gioco degli scacchi?»

«Puoi tentare di prevedere le mosse del tuo avversario. Ma non puoi sempre avere la certezza della sua prossima azione».

«Vince chi riesce a prevedere meglio l’avversario, dunque».

«Vince chi fa meno errori. Remus. È solo e sempre questione di errori» fece scivolare l’alfiere lungo una diagonale scura, finché questo non cozzò violentemente contro il re bianco, mandandolo a terra e lasciandolo rotolare un paio di volte su sé stesso, quasi si stesse contorcendo un’ultima volta prima di esalare il suo ultimo respiro.

«Un solo errore, Remus» disse gravemente, «e qualcuno è capace di farti a pezzi».



*



«Cerchiamo di mantenere il controllo, Black» sbottò la voce ansiosa di Alastor Moody, da qualche parte nella penombra della foresta. «Frena la tua foga e inizia ad usare la testa, o prima o poi finirai per lasciarci le penne pure tu».

Nonostante il fischio del vento gelido e il fruscio delle fronde, Remus riuscì a sentire lo schiocco violento provocato dalle nocche di Sirius. Intuendo la necessità di distrarre il compagno al più presto, ed emettendo leggere nuvolette di vapore – quel dicembre si stava rivelando fra i più rigidi degli ultimi vent’anni, come se non ci fossero già abbastanza problemi – gli sussurrò:

«Ho bisogno di qualcosa di forte da mandare giù».

«Fammi indovinare... cioccolata?» propose Sirius, sfregando le mani arrossate l’una con l’altra.

«Temo sia finito il tempo della cioccolata» ribatté, «ho bisogno di whisky, per Merlino, di whisky...»

In un’occasione differente, Sirius avrebbe sicuramente riso nel vedere il suo ex-compagno di dormitorio, noto per la sua elevata – ma dirottabile – morale, scongiurare per un bicchiere del Whisky Incendiario di Ogden. Date le circostanze, tuttavia, immersi nella neve fino alle ginocchia, con i mantelli appesantiti dall’acqua e con gli spiriti scoraggiati, persino la sua classica euforia sembrava assopirsi.

«Da quanto siamo qua?» domandò Remus, tentando inutilmente di rendere la propria voce meno apprensiva di quanto in realtà fosse.

«Non saprei. Ehi, Frank, hai l’orologio?»

«A che ti serve?» rispose in un sussurro la voce di Frank Paciock, accompagnata da diversi frusci che indicavano i suoi movimenti.

«Io dico che riesco a portarmi a letto Dorcas in meno di dodici ore a partire da adesso, mentre per Remus è impossibile» disse Sirius. «L’unico problema è che non sappiamo che ora sono, ora».

I rumori alle loro spalle cessarono improvvisamente. «State scherzando, vero?» domandò incredulo Frank.

«Lascialo perdere» s’intromise Remus, inarcando un sopracciglio in direzione di Sirius, «volevamo solo sapere che ore fossero».

«Con questo buio non riesco a vedere il quadrante, ragazzi, mi spiace».

«Non preoccuparti, vorrà dire che rimanderemo la nostra scommessa».

«Dacci un taglio, Sirius».

«Siamo partiti alle undici» riprese Frank, «per me sono passate almeno tre ore».

«Anche di più, a giudicare da quanto sono intirizzite le mie dita».

«Volete darci un taglio?» sbottò Moody, muovendosi nervosamente nel cespuglio nel quale si era nascosto. «Non stiamo facendo una scampagnata, siamo in perlustrazione, e finché Potter non ci manderà il suo messaggio, rimarremo qui, chiaro?»

«Buona fortuna, allora» sbuffò Sirius, «James sarebbe capace di arrivare in ritardo perfino all’altro mondo».



*



Le gambe dei giovani membri dell’Ordine della Fenice affondavano nella neve fino alle ginocchia, trascinandosi dietro corpi stremati e intirizziti, ma decisi che non sarebbero tornati a casa senza il loro compagno.

«Potter, sei certo di non aver visto nessuno?»

«Santo Boccino, Alastor, ti ho già detto di sì!» incalzò James Potter, stringendosi maggiormente nel colletto del proprio mantello. «Dei Mangiamorte non è rimasto nemmeno il cappuccio. E tantomeno di Benjy», aggiunse accoratamente.

«Quanti credete che fossero?» si azzardò a chiedere Frank, controllando per l’ennesima volta aldilà di un gruppo di sporgenti e appuntiti massi.

Sirius alzò le spalle. «Che importa?» disse. «Saranno sempre troppi».

«Avete notato niente dietro a quelle betulle, laggiù?» domandò Moody, arrancando faticosamente con la gamba di legno nella neve fresca.

«Erano nella zona di Remus e...» iniziò Frank. «Dov’è finito Remus?» esclamò, guardando nervosamente in direzione di James e Sirius. I due si scambiarono un’occhiata eloquente, e sembrarono convincersi in quell’unico e modesto gesto che non c’era nulla di cui preoccuparsi.

«Starà ancora cercando nella sua zona» tentò Sirius, annuendo con decisione, «sapete com’è fatto, Remus. È sempre preciso e meticoloso in tutto quello che-»

«JAMES! SIRIUS

Sgranarono gli occhi, voltando contemporaneamente la testa verso il punto da cui si era levata la voce di Remus.

«Dannazione» sbottò Moody. «Muoviamoci».

I tre ragazzi, tuttavia, avevano già estratto le proprie bacchette e lo avevano già distanziato di parecchi metri, avvantaggiati com’erano dalle loro gambe giovani e sane. Sirius precedeva il gruppo, incespicando continuamente per la troppa velocità e sbracciando nella neve come se avesse intenzione di rivoltarla tutta; James lo seguiva a pochi passi, preferendo avanzare a balzi piuttosto che trascinarsi; per Frank – che non aveva mai spiccato in altezza – l’idea di saltare era improponibile, quindi optò per una sorta di incrocio fra le due tecniche di attraversamento, che perfino Moody – che aveva continuato ad osservarli avanzare – la definì semplicemente ridicola, ma decisamente più efficace.

«Remus!» gridò Sirius, una volta riconosciuta la figura accucciata contro il tronco più vicino. Puntò automaticamente la bacchetta verso qualunque cosa avesse spaventato il compagno, ma non scorse null’altro che il candore delle cortecce delle betulle. Abbassò gli occhi verso l’amico, sconcertato dal modo terrorizzato in cui i suoi occhi continuavano a fissare fra le fronde, con il respiro ansante e la mano tremante stretta attorno alla bacchetta.

James e Frank lo raggiunsero pochi attimi dopo, entrambi rincuorati di averlo trovato sano e salvo. «Remus» iniziò James, passandosi sollevato una mano fra i capelli scompigliati, «hai quasi fatto venire un colpo al vecchio Alastor, amico mio».

«Fa’ poco lo spiritoso, Potter» sbottò Moody, scostandolo Frank con una spinta seccata. «Lupin, che diavolo succede?»

Remus alzò lentamente lo sguardo su di lui solo un istante, prima di tornare a concentrare la propria attenzione sulle betulle davanti a sé. Quasi pesasse quanto un Troll intero, il giovane mosse il braccio sinistro davanti a sé, indicando un punto preciso fra gli alberi.

Freddi e spalancati, gli occhi vitrei della sola testa di Benji Fenwick rispondevano al suo sguardo terrorizzato.



«Un solo errore, Remus. E qualcuno è capace di farti a pezzi.»






*****




Ebbene, sì: ho deciso di trasformarla in una raccolta di one-shot sulla guerra combattuta dai Malandrini, e per questo dovete ringraziare nient’altro che il mio migliore amico, che adora distruggermi a scacchie, fomentando il mio desiderio di rivincita.

Non so dirvi con certezza ogni quanto posterò le storie – e non mi pare il caso di prendere impegni che SO con certezza di essere geneticamente portata a non mantenere – ma, ispirazione permettendo li posterò. Anzi, credo di potervi anticipare il personaggio del prossimo capitolo: sono quasi sicura che tratterà di Dorcas Meadowes (è per questo motivo che l’ho nominata).


E prima che piovano insolenze, ci tengo a specificare due cosette:


  1. non è mia intenzione trasformare il personaggio di Frank Paciock (che fra l’altro, adoro) in una sorta di versione migliorata di Peter Minus. Il fatto è che nella mia immaginazione, quando ho letto dei coniugi Paciock, non sono mai riuscita a figurarmi un Frank che fosse alto. Non chiedetemi il perché, temo sia questione di inconscio. Sta di fatto, che sì: in questa raccolta Frank Paciock non sarà molto alto. ^^ Che carino...

  2. magari a non tutti piacerà il modo in cui ho delineato i giovani componenti dell’Ordine: spaventati, agitati, e ancora, forse, immaturi. Sappiamo che Remus Lupin è un uomo calmo, pacato, razionale ed un mago molto dotato, certo, ma all’epoca in cui io mi sono immaginata la storia, non aveva più di vent’anni. La mia raccolta parlerà di ragazzi di fronte ad una guerra, non di eroi.



Blah, basta con queste inutili ciancie.


SakiJune: così sia, è diventata una raccolta. Be’, spero sarai felice di sapere che la famiglia Paciock ha un posto fisso nella mia hit-parade di personaggi preferiti; seppur marginalmente, il tuo paciocchino ci sarà sempre. ^^

...Harry non è una presenza necessaria... v__v mentre Teddy... ç__ç, non ci voglio neanche pensare...

Un bacione gigante, con la speranza che anche questa sia di tuo gradimento.


lady hawke: mi è piaciuto tantissimo quel «pittorico»; non ho potuto che apprezzarlo facendo una scuola d’arte. Grazie, mi chiedi? Dovrei essere io a ringraziare te per una così incoraggiante recensione. Sono contenta che il mio intercalare fra sorrisi e malinconia sia apprezzato, è il modo di scrivere che più mi viene naturale. Un bacione enormemente riconoscente.


Juliet: speranza accontentata? Mi auguro di sì, con questo nuovo capitolo. I tuoi complimenti mi hanno fatto arrossire, e non lo dico tanto per dire. Grazie, infinite. Per quanto riguarda i diversi personaggi, sono davvero contenta il modo in cui li ho deniati ti sia risultato IC. Trattare personaggi marginali, è facile e difficile allo stesso tempo, secondo il mio punto di vista. Sei libera di spaziare con la fantasia, certo, ma parti comunque da zero. Ed ora, visto che l’hai nominato, mi vedo costretta a confessare che mi ero dimenticata dell’esistenza di Peter, scrivendo il primo capitolo... è umiliante, come ho potuto. L’ho aggiunto in seguito, sperando che la sua presenza non sembrasse un semplice copia e incolla. Fortunatamente, il suo carattere timido e taciturno mi ha aiutato parecchio. Un bacione assurdo.


Kel: ebbene sì, sono masochista e farò una raccolta su i componenti del primo Ordine della Fenice, diventando una maniaca depressiva...^^ Sono rimasta piacevolmente stupita di vedere Remus diventare padre nel corso di Deathly Hallows, e credo che tutti abbiano collegato la figura di Teddy a quella di Harry e Neville. Perciò, ho pensato, perché non posso collegare anche quella dei loro genitori? Sono ancora disgustata dall’ultimo libro, ed è per questo, che come molto fanwriter hanno già detto, che non smetterò di scrivere. Sono davvero felicissima che la mia storia ti sia piaciuta, e spero ugualmente ti piaccia questa. Un bacione grandissimo.


Raisoul: Grazie mille, mi fa davvero piacere che tu l’abbia apprezzata. Be’, spero che anche questa sia di tuo gradimento. ^^ Un bacione, con la speranza che ti piacciano gli scacchi!


Christine: A dire la verità, è al mio barista preferito che spetta il merito di avermi suggerito il nome. Mentre mi serviva uno dei suoi disgustosi caffé (è il massimo, garantisco, ma è un barista pessimo) mi ha chiesto che nome avrei dato ad un elicottero se solo lo avessi avuto. Ora, io non ho voluto indagare a cosa gli servisse, ma la prima cosa che mi è venuta in mente dopo Precipito e Sfracello è stata Nimbus... ^^ Un grazie gigantesco e un bacione ugualmente grande.


ramona55: ti ringrazio, mi fanno sempre tantissimo piacere le tue recensioni, in quanto capisco che mi avvicino sempre più all’obiettivo di mostrare i personaggi senza alcuna maschera dell’eroe a coprirgli il volto, ma caratterizzati dalle più comuni emozioni umane. Mi piace tentare di giocare sul lasciare in sospeso qualcosa per i personaggi, come una frase che pronunciata nel contesto non simboleggia nulla, ma che per noi, che ne conosciamo il destino, come hai detto tu, risulta un bel colpo. In questo caso, ho giocato molto sul diverso significato della parola pezzi. I pezzi degli scacchi e i pezzi di Benjy Fenwick. Ancora grazie mille, e ti prometto – per quanto le mie promesse lascino a desiderare – di non abbandonare più nessun file al loro triste destino. Un bacione.


puciu: sì, mancavi ed io iniziavo a preoccuparmi seriamente! XD Mi sono già scusata con la fanfic di averla relegata al grado di storia senza capo né coda, e devo dire che l’ha presa piuttosto bene.

Trovi davvero che Ormerod sia un nome melodioso? °__°

Io lo trovo sconcertante. Un bacione assurdo.


lauraroberta87: sfrutto questo momento per rispondere a tutte le meravigliose e apprezzatissime recensioni che mi hai lasciato in questo perioso. Innanzitutto, grazie mille davvero, sono imbarazzata...^^ Hai pensato male, io non mi perdo nemmeno una recensione, non mi scappano le critiche e non riesco a non mordicchiarmi ansiosa le labbra mentre aspetto il giudizio popolare XD.

E ancora una volta, mi rendi incredibilmente felice nel vedere che anche tu apprezzi il mio stile (seppur involontario, credo sia una cosa genetica) semplice. Adoro i membri dell’Ordine della Fenice e, come avrai sicuramente notato, sono una maniacale Wotcher Wolfie.^^ E di nuovo, non sei certo a dovermi ringraziare, ma io, perché con i tuoi complementi mi hai davvero fatto toccare il cielo con la tastiera. Per quanto riguarda la tua storia, ho intenzione di deatomizzarmi a leggerla seduta stante, mi fa molto piacere. Un bacione, e una valanga di gratitudine.


















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Capitolo 3
*** Pezzi di pazzia ***


Lo so, avevo detto che questo capitolo sarebbe stato incentrato sul personaggio di Dorcas Meadowes: ma mentre scrivevo sono stata fulminata da un improvviso desiderio di ''Paciock'', Nuovo Documento, a capo, via... cose che capitano. Dorcas la lasciamo alla prossima puntata, tanto non mi scappa.^^


Lucia: non parlarmi del sacrificio dei pedoni... se solo fossero in grado, mi prenderebbero a sberle per le tattiche kamikaze che adopero. Poco efficaci, tra l'altro. Grazie mille per i complimenti.


lyrapotter: ce ne sono fin troppe, a dir la verità, andrò davvero giù di matto (tanto per restare in argomento), o da un analista per depressione, è la stessa cosa. Avevo già scritto una shot su Alice e Frank Paciock, e spero sinceramente che questa ti piaccia. Grazie infinite per i complimenti.


___MiRiEl___: Grazie mille, spero infinitamente che ti piaccia anche questo scorcio della tragedia dei Paciock.


SakiJune: ...temo dovrai aspettare un poco per sapere come andrà a finire la vicenda con Dorcas, chiedo venia!^^ Anch'io adoro Moody (è irrilevante, a questo punto... adoro tutti i membri dell'Ordine della Fenice, Mundungus compreso). I tuoi complimenti mi riempiono sempre di gioia, grazie, grazie, veramente grazie! (Lo avevo detto che ero andata nei commenti dell'ultimo capitolo del Diario... ho ripreso un po' del mio solito contegno, per grazia divina).


Giulia: sei fortunata, allora!^^ Nonostante, al contrario, io adori Tonks, probabilmente non comparirà mai più in questa raccolta... insomma, mi pare che io possa fare a meno di Remus/Tonks, almeno in questo frangente. Ho apprezzato particolarmente i tuoi complimenti, forse per il fatto che temo sempre di non riuscire a trasmettere a parole le scene che si formano nella testa, perciò davvero grazie mille. Spero che anche questo sia di tuo gradimento.


fleacartasi: anch'io mi sono divertita tantissimo a scrivere la scena dei nomi, e devo ammettere che Nimbus è almeno tredici volte e mezzo meglio di Harry. Andiamo, siamo sinceri: «Nimbus Potter e la Camera dei Segreti», «Nimbus Potter e il Prigioniero di Azkaban»... suona incredibilmente meglio. *Trick vaneggia di nuovo e chiede perdono*. Ti ringrazio, dunque, sperando che anche questo capitolo ti piaccia.


puciu: ed io che, non avendo avvertito, potevo perdermi una tua recensione, cosa dovrei dire? Buona fortuna, se vuoi imparare a giocare a scacchi. I casi sono due: o io sono un incompetente cronica, o è un gioco troppo brigoso per i miei delicati gusti. Davvero nessuno pensa che Ormerod suoni melodioso? Scherzi? A me piace tantissimo.




SPOILER HARRY POTTER E I DONI DELLA MORTE


*

*

*

Pezzi di pazzia

by Trick






Si nasce tutti pazzi. Ma alcuni lo restano.”

(Samuel Beckett)






*



«E se non funzionasse?» continuò agitata Alice, strofinando convulsamente le mani fra loro e scrutando fra le ombre del giardino. «E se qualcosa dovesse andare storto? Come facciamo ad essere sicuri che-»

«Alice, misericordia, stai tranquilla» cercò di calmarla Frank, alzandosi stancamente dalla propria poltrona e avvicinandosi alla finestra. La donna trasalì appena al contatto gentile delle mani del marito sulle spalle.

«Santo cielo, sei tesa come una corda di violino» commentò mestamente, socchiudendo con un gesto deciso la tendina color salmone del loro soggiorno e sospingendo la moglie verso il sofà.

«Stai tranquilla» ripeté con maggiore enfasi, avvolgendo con le proprie mani quelle di lei e tentando di soffocare il nervosismo che stava lentamente dilaniando anche lui. «Non può succederci nulla, abbiamo l'intero Ordine della Fenice a proteggerci, ricordi?»

«Sì, ma-»

«È tutto sotto controllo» la interruppe lentamente. «Silente non rivelerà mai dove siamo nascosti».

«Perché Alastor ha deciso di aumentare la protezione della casa, Frank?» domandò per l'ennesima volta lei. «Ti prego, rispondimi».

Frank abbassò gli occhi, sconfitto. «Silente... Silente crede sia più probabile che Tu-Sai-Chi sia sulle nostre traccie, piuttosto che su quelle di James e Lily».

Lei socchiuse gli occhi e fece un grande sospiro. «Cosa glielo fa pensare?»

L'uomo scosse il capo. «Non ne ho idea. Ma Silente ha tutta la mia fedeltà».


L'avrà per sempre.



*



Lo sguardo perennemente pungente di Alecto Carrow scrutò disinteressato il gruppo di studenti ai quali stava ripetendo le principali motivazioni della naturale supremazia dei Purosangue sui Babbani.

Inutile sudiciume.

«I Babbani non sono nient'altro che una ripugnante massa di stolti plebei» aveva ribadito nuovamente, «è necessario preservare la purezza della magia di padre in figlio e di madre in figlia, onde evitare che qualche sudicio impostore si approffitti della nostra eccessiva benevolenza».

Osservò i visi dei ragazzi davanti a sé, compostamente seduti a propri banchi e intenti ad appuntare le sue parole come guidati da un'unica mano. Su alcuni di loro spiccavano recenti segni di punizioni, lividi e graffi che – ne era certa – avrebbero contribuito alla redenzione delle loro giovani anime, stradicando fino all'ultimo, frammentato ricordo, i deplorevoli insegnamenti di quello sciocco di Albus Silente.

Il vecchio era morto: per quanto i loro acerbi cervelli potessero essere stati plagiati dalle ignobili fantasticherie di quello schifoso babbanofilo, ormai, Alecto ne era certa, tutti si erano convinti di quanto grande realmente fosse la diversità fra maghi e Babbani. Nonostante la minuta statura e i tratti rotondi del viso, il naso straordinariamente a punta e l'ingiallito e sadico sorriso della strega parevano avere un'effetto a dir poco raggelante sugli studenti di Hogwarts, indipendentemente dalla loro età e dalla loro provenienza. Da quando Severus Piton era stato nominato Preside erano trascorsi pochi mesi mesi, ed i risultati che avevano ottenuto in fatto di discipina e contegno erano incredibilmente promettenti. Sebbene inizialmente quella banda di mocciosi si fosse rivelata piuttosto ribelle e poco disposta alla nuova direzione della scuola, qualche buona randellata era stata più che efficace a placare gli spiriti più bollenti.

Alecto attraversò con passo rapido fra i banchi, lanciando occhiate minacciose in direzione dei loro appunti.

«Signorina Brown» intimò ad una ragazza dai lunghi capelli biondi seduta accanto alla finestra. A quel secco richiamo della professoressa di Babbanologia, Lavanda trasalì impietrita.

«Sì, professoressa Carrow?» pigolò timidamente.

«Come ho appenta definito i Babbani?»

«Come una ripugnante massa di stolti plebei, professoressa» recitò tutto d'un fiato.

«Molto bene, signorina Brown».

Proseguì con un'atteggiamento soddisfatto fra i banchi, controllando che gli appunti fossero impeccabili e che le nozioni fossero state acquisite dagli studenti in maniera eccelsa. A discapito di chi continua a ripetere quanto le maniere forti si dimostrino inutili, si diceva mentalmente, guarda come abbiamo rimesso in riga questi moscerini.

Momentaneamente distratta dai complimenti che si stava rivolgendo, non si accorse che uno dei ragazzi, seduto in uno dei banchi più in fondo all'aula, aveva alzato con decisione la mano.



*



Immobile sulla sua poltrona, nel silenzio rassicurante del proprio salotto, Frank ascoltava Alice cantare.

«All night, all day, angels watching over you....»

Sorrise, e ancora una volta, si ritrovò a pensare a quanto davvero fosse stato fortunato.

«Ti amo» sillabò silenziosamente alla moglie.

«Angels watching over you» continuò lei, posando con delicatezza il bambino appena addormentato nella culla e rimboccandogli le coperte celesti. Sollevò gli occhi in direzione del marito, e sorrise.

«Anch'io».


Gli angeli vegliano su di te, bambino mio.


*



«Non voglio entrare, nonna» protestò debolmente il bambino, seguendo a capo basso la scia del mantello verde dell'anziana strega. «Per favore, torniamo a casa».

La strega sembrò non udirlo nemmeno, o più probabilmente, lo sentì alla perfezione, ma non diede segno di averlo fatto. Procedette nella sua andatura sicura e determinata lungo i corridoi spogli e soffocanti del Reparto Speciale del San Mungo, salutando con un cenno sbrigativo del capo un Guaritore dal mento appuntito e l'aria spossata di cui Neville non conosceva il nome. Si strinse debolmente nelle spalle e sollevò gli occhi scuri verso la schiena della nonna.

«Non mi piace...» mormorò, tirando in su con il nasino e assottigliando le labbra per trattenere le lacrime.

«Non dire nient'altro, Neville» lo riprese bruscamente lei. «Ho intenzione di dimenticare ciò che mi hai appena detto». Si bloccò davanti ad una porta – quella porta, constatò amaramente Neville – e rivolse al nipote un'occhiata severa. «Entra. Non voglio più sentire sciocchezze del genere».


Dovresti esserne fiero, Neville.



*



«Ormerod».

«Neville».

«Ormerod».

«Neville».

«Ormerod!»

«Neville, Frank. Si chiamerà Neville. Fine della discussione».

Frank Paciock posò con forza la tazzina di caffé sul tavolo di legno della loro cucina, e incrociò le braccia con uno sbuffo rassegnato. «Ormerd è un nome da uomo. Un nome che lascia il segno».

«Ci credo» ribatté piccata Alice, strofinando con maggiore energia lo straccio con cui stava asciugando i piatti appena puliti. «Nessuno potrebbe dimenticare un simile abominio. E antiestetico, anti-musicale e anti...» s'interruppe, ricercando rapidamente un aggettivo con cui dare la stoccata finale. «Anti-Neville» concluse soddisfatta.

«Anti-Neville?» ripeté perplesso il marito, mentre un sorriso divertito intaccava la sua espressione contrita. «Anti-Neville non è una parola, Alice».

«Nemmeno Ormerod, se è per questo. Dovrebbero bandire dal paese i genitori che affibiano ai figli nomi simili. Per tutti i Troll di Glasgow, Frank, gli rimarrà per tutta la vita».

«Io sarei fiero di chiamarmi Ormerod».

Alice sorrise con aria malefica, appoggiandosi provocatoriamente al tavolo e guardandolo divertita.

«Già» convenne, «è una fortuna che tua madre abbia scelto per te un nome... come posso dire...» disse, fingendosi pensierosa. «Appropriato».

«Sei sleale» affermò Frank, improvvisamente indignato. Alice inclinò il capo e scoppiò nella risata spensierata e cristallina che aveva fatto perdere la testa, diversi anni prima, all'adolescente Frank.

«Franklin Benjiamin Junior è un nome che fa molto ''uomo''...» continuò lei, certa che con quel colpo finale avrebbe salvato il bambino che portava in grembo da un destino di infami prese in giro da parte dei propri coetani. «Specialmente se chi lo porta ha dovuto indossare un paio di scarponi rialzati per poter raggiungere l'altezza minima di cinque piedi e mezzo per poter frequentare l'Accademia».

«Donna» la intimò alzando l'indice, «ti proibisco di immettere la mia particolare situazione nel discorso che-»

Le labbra morbide di Alice decisero di soffocare qualunque protesta il marito avesse in mente di fare. Frank le accarezzò con dolcezza la guancia paffutta, rispondendo al bacio con la stessa dolcezza.

«Compromesso?» propose lui dopo qualche secondo.

«Se non accantoni l'idea di chiamarle tuo figlio in quel modo osceno, non sperare di avere contatti con la sua mamma fino al suo tredicesimo compleanno» ridacchiò Alice. «E quando dico nessun contatto, Franklin...» continuò in un sussurro a malapena percebile, «intendo nessunissimo contatto di nessunissimo tipo».


Nessun contatto, Frank.

Nessuna salvezza.



*



«Professoressa Carrow?»

Alecto trasalì, riemergendo improvvisamente alla realtà della lezione. Sollevò distrattamente lo sguardo verso il giovane mago seduto nell'ultima fila, con l'indice alzato verso il soffito e l'espressione vagamente arrogante, mentre un angosciante silenzio calava con velocità fra gli altri studenti.

Neville Paciock, pensò la professoressa, lasciandosi sfuggire un ghigno soddisfatto, non ne hai avuto abbastanza, ragazzino?

«Cosa c'è, Paciock?»

Detestava ogni tratto del suo viso rotondo, ogni parola da lui pronunciata sembrava – ed effettivamente era vero – aver acquisito nell'arco di pochi mesi la straordinaria capacità di interrompere le lezini con domande sempre più impertinenti e sfrontate, di coinvolgere qualche impulsivo compagno in ogni genere di bravate e, ultimo ma non meno importante, di innervosirla con quell'irritante tono sarcastico che caratterizzava ogni sua sillaba. Ciò che più la disturbava, tuttavia, era che Paciock pareva completamente consapevole di arrecarle tale fastidio, e ciononostante, continuasse imperterrito a farlo.

«C'è un dettaglio della vostra spiegazione che non mi è completamente chiaro, professoressa» rispose con un sorriso amabile. «Mi chiedevo se foste così cortese da aiutarmi a comprenderlo meglio».

C'era qualcosa di apparentemente canzonatorio nel suo tono, e ad Alecto non passò certo inosservato. Tuttavia, lei rimaneva la professoressa, e lui uno studente dalla pessima, pessima condotta: decise di lasciar correre – per il momento – in attesa di possedere maggiori informazioni sulla base delle quali decidere la punizione più appropriata. Perché lo avrebbe punito, questo lo sapevano entrambi. E lui, maledizione, sembrava non trovarlo rivelante.

«Cosa non hai capito?» sbottò stizzita, nonostante non aspettasse altro che un motivo per mostrare – per l'ennesima volta – cosa succede a coloro che osano ribellarsi alle autorità istituzionali della scuola.

Gioca con attenzione le tua carte, giovane Paciock, te l'ho ripetuto una decina di volte.

Il sorriso di Neville si allargò ancora di più.

I tuoi sono finiti male per non averlo fatto, tienilo a mente, sciocco ragazzino.

«Mi chiedevo, professoressa» disse, sfoggiando un sorriso che solo all'apparenza risultava gentile e affabile, in quanto – e Alecto, Merlino, lo sapeva – non era altro che la sua espressione più canzonatoria, «mi stavo chiedendo quanto sangue Babbano circolasse nelle vostre vene e in quelle di vostro fratello».

Le narici di Alecto Carrow si dilatarono improvvisamente.

Il resto della classe di Babbanologia trattene il fiato.


Neville l'aveva fatta grossa, questa volta. L'avrebbe punito come forse non era ancora arrivata a fare.

Eccome, se l'avrebbe punito.



*




Con le gambe ciondolanti sotto la scrivania, il piccolo Neville continuava ad osservare la foto di quei due estranei che lo zio Algie gli aveva regalato quella mattina a colazione.


«Sun is a-setting in the West; angels watching over you, my Love».


Dov'è il tuo papà, piccolo Neville?



*



«I tuoi genitori erano persone in gamba, ragazzo».

A quanto pareva, Neville Paciock non se la sentiva proprio di sollevare lo sguardo dai vapori evanescenti del liquido bollente che stava sorseggiando nell'Ufficio del professor Moody. Quello, nel mentre, continuava ad osservalo con attenzione, quasi volesse indagare fra i pensieri di quel ragazzo sventurato.

«Lei... lei li conosceva, professore?»



«Non lo so, non so dov'è il vostro signore! Non sappiamo niente!»

Il volto rotondo di Alice Paciock non aveva mai trasmesso tanta angoscia e sofferenza come in quest'ultima – definitivamente ultima – ora. I capelli chiari le ricadono scomposti sulle spalle incurvate, celando le lacrime sulle sue gote paffute. Cerca di riprendere fiato, ma ogni respiro sembra incendiarle i polmoni come se volesse causarne l'esplosione da un momento all'altro. Porta una mano tremante all'altezza dell'addome, ma questo, certo, non serve a placare il dolore lancinante che le pulsa nel petto.

«Non mentire a noi, donna!» grida Rabastan Lestrange, i capelli neri e sudati appicicati sull'alta fronte spaziosa. «Dov'è l'Oscuro Signore!?»

«Lei non sa niente, lasciatela andare!»

Un tonfo sordo e un gemito sommesso. Alice solleva leggermente il capo, quel poco che basta per scorgere il viso del marito nella penombra. È riverso a terra a pochi passi da lei – eppure a lei sembrano chilometri – pallido e ansante. Cerca il suo sguardo, ma lui non pare in grado di sollevare la testa. Nota qualche macchia rossa impregnare la polvere della baracca dove erano stati trascinati, all'altezza del volto di Frank, e si chiede, maledizione, se mai qualcosa le fosse sembrato più orribile.



«Sì» annuì bruscamente il mago, «ho avuto il piacere di conoscerli, tempo fa. Tuo padre era un uomo molto coraggioso, te l'avranno certamente detto».



«Lei non sa niente, lasciatela andare!»

Frank non si accorge nemmeno dell'arrivo del calcio, riesce solo a coglierne la violenza del colpo e il dolore perforante qualche attimo dopo. Si accascia a terra, tremante e umiliato, incapace di formulare pensieri coerenti che non siano indirizzati a lei, a lei che è a pochi centimetri da lui e con la quale, tuttavia, non riesce a comunicare, con la quale non riesce nemmeno a scambiare un'ultima occhiata. Scappa Alice, vorrebbe dirgli, corri via, ti prego! Ma Frank è un tipo realista: dove mai potrebbe andare? Non perde nemmeno tempo a urlare, a che servirebbe?

«Paciock, non credi di aver fatto l'eroe abbastanza?»

La voce di Rodolphus Lestrange gli perfora le orecchie. Un brivido di vergogna gli attraversa la schiena: come ha potuto permettere che li prendessero? Come diavolo ha potuto permettere che prendessero anche Alice?

«Va' aill'inferno» è tutto quello che riesce a pronunciare.

Parole vuote le sue, Frank non ha mai creduto in Dio.

L'inferno lo stavano scontando lui e Alice, in quel momento.

Si augurò solo che finisse in fretta.



«Sì» rispose in un sussurro Neville, assottigliando le labbra e stringendo con forza la tazza fra le mani. «Mia nonna lo dice spesso».

«Ha combattuto fino alla fine» continuò il professor Moody. «Stando alle ricostruzioni».


«Crucio!»

Non urla, non strilla, non si contorce.

Alice capisce improvvisamente che è finita.

Sgrana gli occhi e fissa terrorizzata la sagoma tremante del marito accasciarsi senza più alcuna resistenza a terra.

Qualcuno sta gridando, ma lei non capisce chi sia o cosa voglia, non sente più nulla.

Non ha più intenzione di sentire nulla.

Fissa solo suo marito, a terra e immobile.

Qualche secondo ancora, e comprende di essere stata lei ad urlare.

Qualche secondo ancora, e l'ombra scura di una bacchetta entra nel suo campo visivo.

Si augurò solo che Neville stesse bene.



«Tua madre aveva una parola buona per tutti».


«Se tua madre fosse viva... se solo tua madre potesse vederti ora, Barty...»

«È questo il punto, Alice» ridacchiò Crouch Jr. con un ghigno divertito a increspargli le labbra. «Mia madre è morta».

«Andavano a scuola insieme, Barty...»

«E poi siamo cresciuti» la interruppe. «Bella favola, la racconti a tuo figlio prima che si addormenti?»

Chinando il capo sconfitta, Alice azzarda un'ultimo, disperato tentativo.

«Barty...» mormora tremante. «Non sei come loro».

Ride.

Ridono tutti.

Fa male, vero, Alice?

«Povera, povera, Alice» sghignazza Bellatrix Black nella sciocca parodia di una voce infantile, ed è forse quella la voce a fare più male di tutte. «Tutta sola con i Mangiamorte cattivi perché il suo Frank è andato a marcire fra i vermi».

Alice chiude gli occhi, ripensa alla sua vita, ripensa a quando a undici anni si era vista arrivare quella lettera sigillata che tanto aveva atteso, ripensa a quel ragazzo carino che sedeva tre banchi davanti al suo, alle lezioni di Trasfigurazione, ripensa a quando quel ragazzo tanto carino l'aveva invitata a fare un giro ad Hogsmeade, a quando lei aveva capito di esserne innamorata, a quando gliel'aveva confessato, a quando avevano fatto per la prima volta l'amore, a quando lui le aveva chiesto di sposarla, a quando si erano diplomati insieme all'Accademia per Auror, a quando aveva scoperto di essere incinta, a quando era nato il suo...

Il suo...?

Basta.

Alice non ripensa più a niente.

Alice non ricorda più niente.


Non ricorderà più niente.



«Sì, lo so» ripeté mestamente Neville. «Me ne hanno parlato».

«Dovresti essere molto orgoglioso di loro, Paciock» asserì Moody. «Lo sei?»

Neville chinò il capo, sempre più determinato a non guardare il proprio professore.

«Non lo so, signore... è difficile».

«La vita non è facile. Tienilo a mente, quando sarai costretto a scegliere fra qualcosa e qualcos'altro, Neville, perché sono le scelte che facciamo a disegnare il nostro futuro».


«Voi siete il mio Signore in ogni dove e in ogni tempo, a Voi dichiaro eterna e irreversibile fedeltà, o dolorosa morte mi colga presto. Ora, con il nome di Mangiamorte, mio solo Signore, la mia vita è al Vostro nobile servizio».


«Tieni a mente ciò che ti ho detto, quando arriverà anche il tuo momento di scegliere» concluse il mago.

Neville sollevò finalmente gli occhi sul suo viso deturpato dalle battaglie che aveva combattuto: un lieve e raccapricciante sorriso complice stava deformando ancora di più il volto del suo professore.

«Promettimi che sceglierai bene, giovane Paciock».

Il ragazzo si arrischiò in un debole sorriso. «Lo farò, signore» mormorò imbarazzato.

«Bravo ragazzo. Scegli il re che più ti conviene servire. Gioca per il colore che ti offre le migliori opportunità. E, fra parantesi» continuò, mentre il sorriso gli si allargava orribilmente, «il nero generalmente vince la partita».

Neville inarcò perplesso un sopracciglio, non riuscendo ad afferrare il complesso intrico di parole del professore.


I tuoi genitori hanno giocato per il colore sbagliato.

Impara dai loro errori.

Impara dalla loro pazzia.



*



«Questa» gli aveva detto con piglio severo la nonna, «apparteneva a tuo padre. Ora è tua».

Nascosto dall'ombra che la grande quercia del giardino creava sulle pareti della propria cameretta, Neville Paciock continuava ad agitare la bacchetta di legno da più di un'ora, sperando ad ogni movimento del polso di scorgere una qualche scintilla colorata uscire dalla punta. Riprovò un'altra volta, e un'altra ancora, e ancora, e ancora. Decise di attendere un attimo, perché in fondo la bacchetta aveva una certa età, e forse aveva bisogno di un po' più di tempo prima di riprendere a funzionare egregiamente come aveva fatto anni per prima per suo padre.


Ancora una volta.

«Non sembra aver ereditato il talento di suo padre».

Un'altra volta.

«Peccato non sia abile negli incantesimi quanto lo era sua madre».

Un'ultima volta.

«Non sarà mai in gamba come i suoi genitori, temo».


Furioso più con il resto del mondo che con quella bacchetta che continuava a rimanere soltanto un inutile pezzo di legno vecchio, nonostante tutti i suoi sforzi, Neville la gettò con forza contro il muro turchese della propria cameretta. Si raggomitolò su sé stesso e iniziò a singhiozzare.

Le lacrime, povero ragazzo, non gli permisero di vedere quei piccoli guizzi rossi e oro che saettavano a pochi passi da lui, giocherellando sull'ombra della quercia e ansiosi di essere visti dal loro creatore.


Neville non alzò gli occhi.

Nevile continuò a singhiozzare.

Neville non sarebbe mai stato all'altezza dei suoi genitori.



*



«I tuoi genitori sarebbero fieri di te».

Alzando lo sguardo verso il ritratto di Albus Silente, Neville sorrise mestamente.

«Non ho fatto nulla, professore».

L'anziano mago gli rivolse un'occhiata indulgente.

«No, caro ragazzo» asserì. «Hai fatto la differenza. È questo non è decisamente ciò che definirei nulla».


«Sii fiero di te stesso, Neville, così come lo sei dei tuoi genitori».


Hai vinto la partita che avevano cominciato, Neville.

L'hai vinta per i bianchi.

L'hai vinta anche per loro.




*



Sistemando sul comodino accanto al letto la graziosa piantila appena recapitatale, la Guaritrice osservò la propria paziente. I capelli grigi e privi di forma le incorniciavano il viso smunto e pallido, enfatizzando l'espressione vacua e distante dei suoi occhi chiari. Studiò l'impercettibile nenia che era intenza a cantare – come sempre, del resto – mentre osservava la primavera rinascere nel grande giardino del San Mungo, dondolando la testa a ritmo di dimenticate note passate.


«Sleep my child, take your rest; angels watching over you».


Dove hai lasciato il tuo bambino, Alice?




*



«Vostro figlio Neville ha combattuto nell'Ultima Battaglia, dicono abbia avuto un ruolo decisivo e che abbia movimento per mesi la Ribellione all'interno di Hogwarts, non siete orgogliosi?»

Frank Paciock lanciò un rapido sguardo vacuo alla Guaritrice, prima di tornare a concentrarsi sul candore soffocante del muro della stanza.

Alice Paciock si lasciò sfuggire una risatina, poi, come si fosse improvvisamente ricordata una cosa importante, si alzò dal letto e iniziò a rovistare nella tasca del lungo camice bianco.

«Alice, cosa stai-?» iniziò la Guaritrice, ma l'altra strega la interruppe alzando tremante un braccio. Le porse con un sorriso trionfante il pugno chiuso della mano destra.

La Guaratrice scosse il capo, confusa. «Forse è meglio se-» si bloccò, mentre Alice apriva lentamente il pugno per mostrare una carta di Gomme Bollebollenti.

«Certo, Alice» rispose la donne a quella tacita richiesta. «Potrai dargli tutti gli incarti che vuoi non appena verrà a trovarti».

Il sorriso di Alice si allargò ancora di più.




*



Amatissimo nipote,




sono in fuga dal Ministero, spero perciò perdonerai la brevità di questa mia lettera.


Non sono arrabbiata con te, se è quello che stai pensando, per aver costretto alla clandestinità l'intera famiglia Paciok (sì, anche tuo zio Algie e tua zia Enid hanno pensato bene di cambiare aria per un po' di tempo), tutt'altro. Ti stai dimostrando il vero figlio dei tuoi genitori, Neville, ne sono molto orgogliosa.

Se tuo nonno e i tuoi genitori potessero vedere l'uomo che sei diventato, stanne certo, lo sarebbero altrettanto.

Sii fiero del nome che porti così come oggi io lo sono di te, ragazzo mio.


Sii fiero di essere figlio di eroi.


*




Sessantasei incarti di gomme Bolle Bolenti, due ritagli di giornale privi di senso, una vecchia figurina della Cioccorane di Albus Silente, un sacchetto vuoto di Pallini Acidi e i tristi resti di una Bacchetta di Liquirizia.

Con un'ultima nostalgica occhiata all'interno della scatola, Neville la nascose nuovamente sotto l'asse malmesso del pavimento di camera sua.




*



Frank Paciock osservò l'espressione serena dipinta sul viso paffuto del proprio figlio. Ne osservò le guancie rotonde e la pelle liscia e vellutata, stupendosi, per l'ennesima volta, di quanto assomigliasse ad Alice e chiedendosi se negli anni successivi questa si sarebbe smorzata o accentuata. Si disse che no, le assomigliava già abbastanza e che sarebbe arrivato anche il turno dei suoi geni. Immaginò il momento in cui avrebbe potuto insegnargli a cavalcare una scopa, quando lo avrebbe accompagnato dal vecchio Olivander ad acquistare la prima bacchetta, quando si sarebbe dovuto accorgere che il suo bambino ormai era diventato un uomo. Chissà se avrebbe intrapreso la carriera dell'Auror. Certo che sì, si disse nuovamente, non potrebbe essere altrimenti. E anche se così non fosse, a lui poco importerebbe.

Si chinò sulla culla e posò un delicato bacio sulla fronte del figlio.


C'è il papà qui con te, bambino mio.


Sulla Gazzeta del Profeta, abbandonata sullo sgabello a pochi passi dal lettino, troneggiava la data di Halloween.


31 ottobre 1981.


Due ore più tardi, James e Lily Potter avrebbero cessato di essere genitori.

Frank e Alice Paciock avrebbero condiviso il loro destino solo due giorni dopo.


Nessuna possibilità di fuga.

Nessuna salvezza.




*



«È finita, Harry, ci sei riuscito, non posso crederci!»

«È anche merito tuo, amico mio».

L'abbraccio fra Harry Potter e Neville Paciock non avrebbe potuto avere più significati di così, agli occhi dei maghi e delle streghe sopravvisuti all'ultima, cruenta battaglia finale.


«Angels watching over you...»


Gli angeli vegliano su di te, bambino mio.

Anche quelli pazzi.












Chiedo venia per la probabile e irritante sfilza di errori di battitura, punteggiatura e grammaticalmente idioti. Ho il computer fuori dai coppi, e di conseguenza, lo sono anch'io.

Grazie a tutti quelli che continuano a seguire le mie storie, vi adoro!


P.s.

How! È la One-Shot più lunga che abbia mia scritto! Applausi


P.s.s.

«Angels watching over you» è una vera ninna nanna inglese.


Baci,

Trick









































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Capitolo 4
*** A mani sporche ***


Non ci credo: sono riuscita ad aggiornare la mia raccolta sul primo Ordine della Fenice. Giuro non credevo possibile che la mia mediocre ispirazione sarebbe improvvisamente zampillata. Bastarda, fra l'altro, perché dopo mesi, e mesi, e mesi, e mesi e ancora mesi di nulla, decide bene di risvegliarsi ora. Ora, che sono quasi le tre e a me non restano che tre ore di sonno. È davvero una creatura bastarda. Anyway, domani mi imbottirò di caffè. Al solito, fra l'altro.
Non credo che io debba spiegare questo capitolo della Raccolta; anzi, non credo nemmeno che vi anticiperò il contenuto. Vi basti sapere che il protagonista è Remus (strano!).
L'idea mi era venuta rileggendo il punto di DH in cui Remus ammonisce quel rintronato di Harry dicendogli: «These people are trying to capture and kill you! At least Stun if you aren't preparated to kill!» aka «Finiscila di fare il pirla e spara granate serie». Remus ha le palle quadre in quel momento, sa che quella guerra fa affrontata senza troppi fronzoli e senza troppi ripensamenti. Altro che dispensatore di cioccolata. Ma nessun adulto è lo stesso di quando era giovane.
(I soprannomi dei Malandrini sono in lingua originale; non sono nemmeno paragonabili a quelli tradotti. Tutti gli altri termini, però, sono quelli dell'edizione italiana. I vari nomi di incantesimi e notizie varie sono state estrapolate dal sempre fido Lexicon).
Fine del comunicato, grazie e arrivederci.


A mani sporche


La vita umana va presa a piene mani”
(Goethe)


Alastor Moody conosceva bene il sapore della battaglia. Nel corso della sua carriera, ne aveva affrontate tante – troppe, forse. Aveva imparato a riconoscerle una dall'altra, a distinguerle fra quelle in cui si andava rischiando la vita, quelle in cui andava rischiando l'onore e quelle in cui si rischiavano entrambe le cose. La guerra aveva un particolare gusto agrodolce, che nulla al mondo era in grado di eguagliare; in certe battaglie, si era ritrovato inebriato talmente dal sapore dell'adrenalina, da desiderare di poterlo provare in eterno.
Non che per Moody fosse un diletto, in ogni caso: era un Auror – uno dei migliori, fra l'altro – ed il suo lavoro era spalleggiare la giustizia quando i tempi si facevano più cupi e maligni. Nonostante fosse pagato per scendere in battaglia, tuttavia, non si era mai ritenuto un mercenario. Al contrario, riteneva tale appellativo una grave onta per quello che la sua categoria rappresentava: i mercenari non erano altro che burattini al servizio del migliore offerente; gli Auror erano guerrieri al servizio del Bene e il loro onore non era negoziabile per definizione.
Tanti anni prima, quando aveva varcato per la prima volta la soglia del Quartier Generale degli Auror, al secondo livello del Ministero della Magia, si era ripromesso che avrebbe difeso l'Inghilterra dagli attacchi dei maghi Oscuri fino alla morte. Non ci sarebbe stata alcuna pensione, per lui: non l'avrebbe mai accettato. Sarebbe caduto in battaglia, stringendo con forza la bacchetta magica e fissando negli occhi un avversario più forte di lui.
O più fortunato, a seconda dei casi.
Sollevò lo sguardo dalla nebbia e dal sudiciume che avvolgeva i quartieri poveri dell'Essex e studiò nuovamente il ragazzo.
Remus Lupin aveva compiuto diciotto anni da poco più di un mese.
Moody era dell'idea che avesse notevoli potenzialità, ma che fosse ancora troppo giovane e inesperto per saperle sfruttare al meglio. Era perspicace e sapeva ragionare con rapidità e buonsenso: due caratteristiche che Moody aveva sempre ritenuto fondamentali per un mago. Ed era incline a rimanere in silenzio; una caratteristica che riteneva fondamentale per chiunque dovesse lavorare insieme a lui. Sarebbe potuto diventare un ottimo Auror, se solo avesse potuto.
Al momento, tuttavia, rimaneva solo un diciottenne spigliato e preparato, e Moody, per quanto apparisse rude e senza cuore ai più, sentiva di avere la sua incolumità fra le tante responsabilità di quella notte insidiosa.
«Ragazzo» ringhiò piano. «Come ti senti?».
Remus annuì nervosamente.
«Sono pronto, Alastor» sussurrò con voce roca. «E non ho paura» aggiunse determinato, guardandolo con serietà.
Moody lo fissò un'ultima volta e sogghignò nell'ombra.
Bravo ragazzo.
«Vigilanza costante» lo ammonì, indicandogli di seguirlo con la mano sinistra. «E spera di avere una buona stella, lassù, da qualche parte».


Quando si era reso conto di essere finito in un'imboscata, era già troppo tardi per evitarla. Un istante dopo, lui e Moody erano già circondati da cinque alte figure incappucciate.
Per un attimo, Remus dimenticò di respirare, poi, istintivamente, sollevò la bacchetta e la mirò dritta al petto del Mangiamorte che lo fronteggiava. Il suo Schiantesimo era stato incredibilmente preciso, ma poco potente; l'altro mago era stato capace di respingerlo con un Sortilegio Scudo di mediocre energia.
Colse un movimento con la coda dell'occhio e si scansò con un guizzo rapido. Un improvviso bruciore alla spalla sinistra gli fece storcere il naso, ma non riusciva a rendersi conto di cosa stava succedendo attorno a lui. Non sentiva né le grida, né gli incantesimi. Dov'era Alastor? Chi fra quei due Mangiamorte lo avrebbe colpito prima? Sarebbe morto quella notte?
«Corri verso Buffalo, attraversa il ponte!» sentì tuonare Moody. «ORA!».
Cos'è Buffalo?
Non ricordo.
Le gambe di Remus si mossero da sole: il ragazzo pregò che sapessero dove andare. Mentre saltava una cassetta di legno abbandonata sul ciglio umido di Gliwell Street, volse il capo indietro, spaventato. Cerco con lo sguardo la figura di Moody, ma non riusciva a vedere oltre la spessa coltre di nebbia dell'Essex. Sapeva che non avrebbe dovuto ignorare gli ordini di Moody – tantomeno in una situazione critica come quella – ma voleva avere la certezza che l'Auror fosse scappato a sua volta.
Volevamo sigillare il quartiere per intrappolare loro.
Ora non possiamo Smaterializzarci.
Siamo noi ad essere finiti in trappola.
Stava per tuffarsi nuovamente nella nebbia, quando una mano gli comparve improvvisamente davanti e tentò di afferrare il bavero del suo logoro e sciupato mantello. Incespicò sulle gambe e cadde all'indietro, senza distogliere lo sguardo dal Mangiamorte che lo sovrastava.
Lo vide sollevare con misurata lentezza la bacchetta...
Fu questione di un secondo.
Facendo forza sulla mani, calciò con forza lo stinco dell'altro mago, che si ritrasse con un gemito e perse di vista la propria preda. Remus si rialzò rapidamente, strinse la bacchetta e la indirizzò verso il terreno.
Merlino, aiutami.
«Dominusterra!» gridò con quanto fiato aveva in gola.
Un potente fascio luminoso colpì il suolo, e la terra attorno ai piedi del Mangiamorte iniziò a tremare, dapprima leggermente, poi con intensità crescente. L'uomo tentò di muovere un passo, ma i suoi movimenti erano scoordinati e presto perse l'equilibro e rovinò in una pozza d'acqua putrida.
Remus girò rapidamente sui tacchi e iniziò a correre con quanta più velocità avesse mai corso: dopo pochi istanti, tuttavia, il Mangiamorte gli era già alle costole. Il suo incantesimo gli aveva solo concesso un paio di secondi di vantaggio.
Sapeva di essere un bersaglio troppo facile da quella distanza. Si voltò improvvisamente e scandì rapido: «Lacarnum Inflamare!». Non aspettò di vedere l'esito delle fiamme da lui evocate; non ne avrebbe mai avuto il tempo. Riprese a correre e si infilò in un cupo portico di Pontoon.
«Lumos!».
Respirando affannosamente, guardò a destra e a sinistra, cercando di riconoscere la zona di Londra nella quale era finito. Riconobbe le luci del porto in distanza, e si gettò nella zona marittima con un moto di sollievo. Il canale di Buffalo non era molto distante dal porto dell'East End: oltre il ponte avrebbe potuto Materializzarsi in un luogo sicuro. Mancava meno di un miglio...
«Avada Kedavra!».
Si buttò oltre la cinta di una diroccata casa popolare dei quartieri poveri. La Maledizione si infranse con un boato a pochi passi da dove lui era prima.
«Dannazione» imprecò a bassa voce.
Attraversò di corsa il cortile interno, scivolando fra erbacce, pezzi di rottami abbandonati e fili arrugginiti. L'orlo del mantello si impigliò in un rovo, così Remus lo sfilò e mormorò nervosamente: «Wingardium Leviosa».
Diresse l'abito verso una scala d'emergenza del secondo piano, facendo attenzione che dal punto in cui lui era entrato fosse bene in vista, e si allontanò quatto quatto nel buio.
Scavalcò il muricciolo dall'estremità opposta e si ritrovò – con suo grande stupore – sull'argine di Greaving Dock, a poco più di cinquecento yard dal ponte di Buffalo.
«Alarte Ascendare!».
Precipitò al suolo ancor prima di rendersi conto di essere stato sollevato da terra. Atterrò sulla schiena con un tonfo sordo ed ebbe uno spasimo di dolore talmente intenso che rimase senza fiato. Boccheggiò e tentò di girarsi sulla pancia, sputando un grumo di saliva e sangue e cercando a tentoni la bacchetta. Fu sufficientemente fortunato da trovare immediatamente l'impugnatura, ma il Mangiamorte già lo sovrastava per la seconda volta.
«Credevi davvero di poter scappare da me?» sibilò perfidamente, inclinando il capo. «Hai idea di chi io sia, ragazzino?».
Respirando affannosamente, Remus riuscì a voltarsi ed ad arretrare di pochi passi dal Mangiamorte. Riverso nel fango, alzò tremante la mano e si pulì malamente il volto sporco: per un momento, un guizzo di onore e coraggio squarciò la paura che gli si leggeva negli occhi ambrati.
«Uno sporco assassino» mormorò con voce roca. «Nient'altro».
Il Mangiamorte gli scagliò un calcio violento ai reni, strappandogli un sommesso gemito di dolore e costringendolo a voltarsi sul fianco sinistro.
«Crucio!».
Ebbe l'impressione di essere trafitto da mille lance acuminate.
Oddio, fa' che sia veloce.
Nell'accecante impeto del dolore causato dalla maledizione del Mangiamorte, nella sua mente annebbiata riecheggiò un grido lontano.
«Ti prego... ti prego, non farmi del male! Ti prego... ti prego, va' via da me!».
Gli artigli squarciarono ferocemente la sua pelle candida di fanciullo.
La sua carne si stava squarciando.
Le zanne penetrarono con ingordigia nell'incavo del suo piccolo collo.
I suoi muscoli stavano bruciando.
Le sue ossa si spezzavano come giunchi sottili.
Pietà, basta!
Il Mangiamorte sferzò nuovamente l'aria con la propria bacchetta: tremante, Remus rimase con la schiena a terra, gli occhi serrati e le braccia spalancate verso il cielo stellato. Non ricordava di aver mai avuto la mente tanto sgombra come in quel momento.
Sto per morire.
Buon Dio, non riesco a rendermene conto.
Dunque morire è questo.
«Alzati, animale» ordinò imperioso il Mangiamorte. «Alzati!» gridò ancora, sollevando con disprezzo per il colletto logoro del mantello e gettandolo lontano. Remus barcollò diversi secondi, stringendo con forza il braccio destro: nonostante fosse ancora intorpidito dalla tortura appena subita, ebbe la netta impressione che fosse rotto. Ghignando beffardo, il Mangiamorte gli lanciò la bacchetta, che cadde a pochi passi dal suo piede.
«Raccoglila» intimò stentoreo.
Apatico, Remus abbassò lo sguardo verso il suolo e, lentamente, si inginocchiò nella melma e strinse la mano sinistra all'impugnatura di frassino.
«Tredici pollici di lunghezza con un nucleo di corde di cuore di drago; un degli esemplari femmina più brillanti dell'allevamento del clan dei MacFusty, se non vado errato. Niente male, giovane Lupin. È una grande bacchetta, non c'è che dire. Pare che tu sia destinato a risultati altrettanto grandi».
Era la sua bacchetta: la possedeva da oltre sette anni. Con lei aveva imparato i primi rudimenti di magia – l'incantesimo di Levitazione fu il primo, in effetti – e, di tanto in tanto, l'aveva aiutato a credere di non essere poi così tanto diverso dagli altri ragazzi.
Sono un mago.
Strego gli oggetti.
Sono un lupo mannaro.
Uccido le persone.
Cosa sono, io?
Il sorriso del Mangiamorte era quanto di più ripugnante avesse mai visto. Con la coda dell'occhio lo vide alzare il braccio con il quale impugnava la bacchetta.
Fra due secondi sarò morto.
Il ghigno si contorse in un'espressione di pura malvagità.
Un solo secondo.
Un solo respiro.
Le sue labbra si stavano schiudendo.
Ora.
«AVADA KEDAVRA!».


Seduto sul freddo marciapiede che costeggiava le deliziose villette di Godric's Hollow, Remus Lupin si rigirava la bacchetta fra le mani sottili, osservando con sguardo perso un punto indistinto davanti a lui.
L'autunno era ormai alle porte: la nebbia andava infittendosi giorno dopo giorno e il vento soffiava sempre più gelido. Quella sera, tuttavia, non pareva in grado di avvertire la brezza pungente, nonostante Indossasse una semplice maglietta di cotone grigia – sfilata lungo i bordi, ma perfettamente linda.
Un cadenzato e calmo suono di passi alle proprie spalle lo distolse dall'incessante fluire dei propri ragionamenti. Il suo udito – di un poco superiore alla norma – avrebbe riconosciuto quella lenta camminata fra mille.
Albus Silente.
«Si preannuncia una notte tormentosa» affermò pacatamente la voce dell'anziano mago. «E anche tu mi sembri tormentato, Remus. Cosa ti angustia, se mi è concesso chiedere?».
Remus rimase in silenzio e deglutì faticosamente. Scosse il capo.
«Nulla, signore».
Dietro di lui, Silente sorrise amaramente.
«Non addossare altri fardelli a quelli che già ti sei costretto a portare» disse. «Non avresti potuto fare diversamente; non colpevolizzarti più di quanto non sia necessario».
«Ho ucciso un uomo!» sbottò infine Remus, voltandosi e fissandolo angosciato. «Come può dire questo!?».
Silente fece un profondo respiro.
«Capisco cosa stai provando, Remus».
«No, signore...» mormorò flebile lui, scuotendo debole il capo. «Lei non può capire».
«Uccidere è molto più difficile di quanto appaia agli occhi di chi non l'ha mai fatto» parlò piano Silente, scrutandolo con intensità disarmante. «Lascia un segno indelebile che ognuno di noi sarà costretto a portare fino alla fine dei suoi giorni. I tempi si faranno sempre più duri, Remus. Le battaglie sempre più pericolose. In virtù di ciò, resti comunque libero di scegliere da te la strada che ti è più congeniale. Se preferirai allontanarti da tutto quello che la guerra rappresenterebbe per te, non potrei che comprenderti. Se preferirai restare per combattere tutto quello che la quella rappresenterebbe per il mondo intero, non potrei che apprezzarti».
Remus emise un lungo sbuffo.
«Non faccia leva sul mio senso del dovere» disse. «Non ne vale la pena».
«Al contrario, Remus. Non credo che ti renda conto del talento che possiedi».
«Uccidere la gente? Molto talentuoso, davvero» ribatté con un velo di sprezzo. «Professore, conosce meglio di me l'esecuzione di una Maledizione Senza Perdono».
Silente non lo interruppe.
«Bisogna volerlo» concluse Remus in un sussurro. «Bisogna desiderare di uccidere qualcuno. E se io ne sono stato in grado...» lasciò cadere la frase nel nulla, affondando la testa nelle mani.
Mani sporche.
Assassino.
«Sai chi era quell'uomo, Remus?» domandò a bruciapelo Silente.
«Devlin Wilkes» rispose atono lui.
«Sì» mormorò stancamente l'altro. «Devlin Wilkes. Complessivamente, il Ministero presume che la sua collaborazione con Lord Voldemort abbia portato alla morte di una quarantina di Babbani e alla tortura di almeno un centinaio di loro» Silente si fermò un attimo. «Ed era presente la notte in cui vennero aggrediti i Bones».
Remus trasalì, stringendo gli occhi e serrando le labbra.
«Avrei fatto giustizia, dunque? È questo che mi sta dicendo?» rispose debolmente. «Uccidere un assassino non è una colpa? Professore, io... io volevo la sua morte».
Gli occhi azzurri di Silente parvero trapassarlo da parte a parte.
«Tu non sei come lui,(*) Remus. Tu sei un giovane di grande coraggio, di notevole intelletto e di ammirevole altruismo. Dovresti smetterla di convincerti di essere un mostro».
«Ti prego... ti prego, va' via da me!».
Io non sono un mostro.
«Per favore, non farmi del male...».
Ho ucciso un assassino.
«AVADA KEDAVRA!».
Cosa sono, io?
«Cosa farai, Remus, se mi è permesso domandartelo?».
Remus scosse il capo, distratto.
«Non lo so».
Forse, non l'ho mai saputo realmente.
In effetti, ci sono molte cose che non ho mai – mai – saputo realmente.
Cosa sono, io?
Chinò lo sguardo e osservò le proprie mani, sfiorando con estrema lentezza una sottile cicatrice che attraversa l'intera larghezza del suo dorso sinistro.
«Hai delle mani assurde, Moony».
Studiò con calma meticolosa ogni falange ed ogni nocca.
«Hai ragione, Padfoot. Moony, nemmeno una ragazza ha delle mani così pulite e curate. Bisognerà fare qualcosa, a riguardo».
Pulite?
Perché continuava a vederle sporche?
Cosa sono, io?


___
(*) Nel caso non fosse chiaro, Silente si riferisce a Fenrir Greyback.

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