There's room for two six feet under the stars

di Pwhore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


There's room for two six feet under the stars cap1 «Buongiorno ragazzi, come sono andate le vacanze?» è l'inutile tentativo della professoressa di letteratura di interessare quella che tra tutte è la sua classe più scalmanata e meno rispettosa delle regole, che invece preferisce di gran lunga continuare a chiacchierare e tirarsi palline piuttosto che darle anche la minima soddisfazione.
Sbuffo, annoiato, e mi sporgo in avanti per cercare Alex e chiedergli di sedersi accanto a me, come tutti gli altri giorni. Ovviamente non c'è. Alex è il mio migliore amico da anni e la mia sbandata più decisa da qualche mese, e ha una salute bizzarra: non si ammala per mesi e se ne lamenta in continuazione, poi prende freddo per dieci minuti e finisce a letto con un febbrone da cavallo per giorni e giorni, con conseguente smarrimento da parte mia. Non che non abbia amici in classe, sono ben apprezzato da una mezza dozzina di persone e se le altre mi sfottono non lo fanno di certo davanti ai miei occhi, quindi tutto sommato penso che la situazione vada abbastanza bene; ma lui è Alex, è diverso, e ogni volta che manca da scuola mi sento un po' più scarico e maldisposto. Nessuno è al corrente di quello che provo nei suoi confronti se non Zack, comunque, a cui mi sono confidato quasi unicamente perché la sua aria timida e riservata semplicemente non gli permettono di andare in giro a sputtanare gli altri, anche se volesse. E poi dai, è un bravo ragazzo.
Insomma, fatto sta che Alex non si è presentato a scuola questa mattina, e io ho dovuto passare sei ore della mia esistenza a rimuginare su come farlo sorridere questo pomeriggio, quando andrò a trovarlo e portargli compiti dei che né io né lui faremo mai. O almeno, vorrei poter dire di averlo fatto: quei due coglioni di Zack e Rian hanno pensato bene di rendermi partecipe di tutte le interessantissime svolte nelle loro faccende amorose, nelle loro vite quotidiane e nel loro rendimento scolastico, cose di cui non me ne frega un dannato accidente. Ma insomma, se voglio continuare a poter contare su qualcuno quando il mio migliore amico è assente, devo fare buon viso a cattivo gioco e assecondarli.
Mi sono messo ad ascoltare con aria quasi interessata i loro racconti e stavo per giungere a una conclusione piccante sulle vacanze del batterista, quando Nick è entrato nell'aula, con mezz'ora di ritardo e un numero spropositato di strilli da parte della professoressa, che continuava ad essere ignorata da chiunque tranne il solito aspirante scrittore che non si è ancora reso conto di quanto in realtà lei non abbia la minima idea di come diventare famosa; e si è seduto davanti a me.
«Jack, ciao!» ha esordito come sempre, senza proprio riuscire a capire che a me sta sinceramente e totalmente antipatico e che se potessi non gli rivolgerei mai la parola. Mi ha ammollato una sonora pacca sulla spalla e io ho sbuffato trai denti, bofonchiando un ciao in rimando, ma lui non ha gettato la spugna e mi ha rivolto il suo sorriso più smagliante. «Ma che hai fatto, hai tentato il suicidio durante le vacanze?» ha scherzato, prendendomi il braccio e alzandolo in alto. Il mio umore è sprofondato ulteriormente sotto terra e il mio cervello ha elaborato meccanicamente una risposta, che mi è uscita dalle labbra senza che neanche ci pensassi.
«Ti ricordo che sono di ritorno da sette giorni di montagna, dove ho avuto come minimo trentaquattro frontali con pini, ginepri e compagnia bella» ho sibilato, riuscendo a sembrare pure più sincero di quanto non sembri di solito quando mento, e lui ha riso di gusto, immaginandomi andare a cozzare contro cespugli e quant'altro.
«Ma che scemo, non ci posso credere» mi ha sfottuto, lasciando andare il mio braccio e posandosi il suo davanti alla bocca. Ho abbozzato un sorriso e l'ho mandato a cagare mentalmente, ma gli altri sembravano non essersene neanche accorti. Mi sono sentito meglio. Se la sono bevuta alla grande.
«E Alex dov'è?» ha domandato quindi Nick, sentendosi parte del gruppo e sorridendo a tutti con aria smagliante.
«È malato» ho risposto, spostando lo sguardo verso la cattedra, dove la prof imprecava nervosamente.
«Ceerto» ha ridacchiato fra sé e sé il moro, scuotendo la testa, «è quello che dicono tutti quando fanno sega. Dov'è ora?»
«Alex non fa mai sega» gli ho ricordato con una punta di risentimento, e lui ha sorriso, portando le mani vicino al volto.
«Ehi, calmo, stavo solo scherzando» si è scusato con una risata, per poi tornare a chiacchierare allegramente coi miei amici. Ho sospirato. A loro non sta antipatico, quindi me lo ritrovo attorno tutti i santi giorni, tranne quando c'è Alex e Nick capisce che non ho intenzione di concedergli la minima attenzione; allora si limita a girarci attorno, salutarci vivacemente quando c'incontra nei corridoi e a fermarci con la scusa più stupida giusto per fare due chiacchiere e interrompere i nostri discorsi. Ad Alex è sembrato una persona molto sola che non ricevendo abbastanza affetto a casa ne cerca tra i muri scolastici, ma io non gli ho dato neanche la possibilità di pensare che avrebbe potuto unirsi a noi, qualche volta, e l'ho messo al corrente dell'astio che provo nei suoi confronti da quando l'ho conosciuto. Alex non ha indagato oltre, anche se all'inizio ha indugiato nel lanciargli un'altra occhiata da lontano, e sapevo non avrebbe fatto altre domande. È questo il bello della nostra amicizia: non devo giustificare il perché di come mi senta o perché mi comporti in un determinato modo piuttosto che in un altro in presenza di certe persone, e anche per Alex funziona così; ci apriamo sì l'uno con l'altro, ma non ci obbligheremmo mai a farlo. Rispettiamo ognuno lo spazio e i tempi dell'altro, e se qualcosa ci preoccupa parliamo, affrontiamo il problema e lo risolviamo insieme, come solo due migliori amici sanno fare. E in effetti, è quello che purtroppo siamo. Ma non è per questo che ultimamente ho ceduto al fascino delle lame, affatto. Alex ha sempre avuto la capacità di farmi star bene, accollargli una responsabilità del genere rasenta la follia pure in questo momento, nonostante i miei nervi facciano fatica a connettere e funzionare a dovere. Se un giorno dovessi dare la colpa a Lex per quello che ho fatto a me stesso sparatemi pure, non meriterei di vivere.



Prima che partiate coi film mentali, sappiate che non ho un passato di violenze, che non mi ha mai molestato nessuno se non qualche matto sull'autobus che da dietro mi aveva scambiato per una ragazza per poi pensar bene di fare qualche bel massaggio al mio simpatico fondoschiena, che a scuola i bulli non mi pestano e che non sono mai stato gettato in un secchio della spazzatura poco prima dell'inizio delle lezioni, come succede a tutti i ragazzi dei telefilm che passano in TV durante le vacanze estive. No, gente, mi dispiace ma Jack Barakat non ha mai dovuto affrontare niente del genere e ringrazia il cielo per la vita che ha passato finora, coi suoi alti e bassi, i suoi pregi e difetti. No, il mio problema è un altro, e penso si possa riassumere con una sola parola: me.
Non fraintendiamoci, sono un gran simpaticone e se mi prendete dal verso giusto posso anche farvi passare delle serate indimenticabili, ma sotto questa copertura di pimpante casinista batte un cuore che si è imprigionato da solo molti anni fa, continuando a rifinirsi la gabbia giorno dopo giorno. Credo che il problema maggiore sia che sono un amante dell'estremo - sono casinista fino al midollo, non riesco a stare fermo un attimo che sia un attimo, passo dalla depressione più profonda alla felicità più assurda in pochi istanti, se esco non mi fermo mai alla terza birra ma finisco con l'ubriacarmi e limonare con gli alberi, quando suono non smetto finché non mi sanguinano le dita, se voglio attirare l'attenzione passo subito ai metodi rumorosi e poco tradizionali e tralascio quelli più politically correct, quando sono in giro mi sentono arrivare da tre isolati di distanza, se vado ad una festa non c'è possibilità che io non sfasci qualcosa; potrei andare avanti così per anni e trovare comunque qualcosa da dire al riguardo, non è normale. Vorrei poter dire che mia madre è esasperata e cerca di cacciarmi fuori da casa tutte le volte che può, o che mio padre mi sbraita sempre addosso per farmi dare una calmata e tornare coi piedi per terra, ma né lui né lei ci sono mai, quindi per ricevere una sgridata dovrei urlarmi contro da solo, e francamente mi sembra un po' triste come cosa. Probabilmente è per questo che sono così esagerato: visto che facendo il bravo non ottengo abbastanza attenzioni sono costretto a ricorrere a mezzi che altrimenti preferirei evitare e ficcarmi nelle situazioni più improbabili, così i miei sono costretti a prendersi dei permessi da lavoro per portarmi a casa e farmi una ramanzina, e irrimediabilmente passiamo del tempo assieme come una vera famiglia. Trovo infinitamente deprimente che il nostro rapporto si sia ridotto a una routine del genere, ma lasciandomi libero come l'aria fin da piccolo i miei genitori mi hanno come messo da parte, al punto che se ci penso ora mi viene da dubitare che mi abbiano mai davvero dato un'educazione. Probabilmente esagero perché la cosa mi ferisce, in fondo quando ci sono, non sono dei genitori niente male, anzi. Si sono sempre fidati ciecamente di me, mi hanno sempre considerato un ragazzo coscienzioso e in grado di prendersi cura di sé, e se mi hanno lasciato solo così a lungo avranno avuto i loro motivi, non lo facevano perché la cosa li divertiva. Solo che, motivi o non motivi, non ho passato un'infanzia come quella di tutti i miei amici. Ho letto troppo, mangiato troppo, pianto troppo, disegnato troppo, urlato troppo - un'altra parte della mia vita segnata dagli estremi, per farla breve.
Poi è morto nonno, e il migliore amico di papà; un cugino ha contratto una grave infezione e un altro è caduto vittima del cancro; il mio gatto ci ha lasciati e in seguito pure il suo rimpiazzo; e quando piangevo ero solo, solo come un cane. Credo che la perdita più grave sia stata quella di mio nonno, ha fatto così male che ancora oggi evito di pensarci perché è una ferita non cicatrizzata e il suo sorriso mi attorciglia le budella tutte le volte che lo incontro in fotografia.
Un altro mio problema è che per quanto possa essere proiettato nel presente o nel futuro, vivo nei ricordi. Basta entrare nella mia stanza per rendersene conto: è tappezzata di poster musicali, disegni, volantini e cazzate varie, ma le foto, le lettere delle mie ex-fidanzate, i regali che mi hanno fatto nel corso degli anni, persino un articolo che parla della mia città risalente a ormai sette anni fa, è tutto rimasto, tutto esposto, tutto allo stesso posto di quando l'ho sistemato la prima volta. Sono un maniaco in queste cose, e anche se mi rendo conto che la loro presenza non ha una buona influenza su di me, togliere questi pezzi di storia dai ripiani della libreria e strappar via gli inviti dalle pareti mi sembra una cosa insensibile e sbagliata, quasi fossero parte di me. E in effetti lo sono, ma questo ci riporta al primo problema, cioè che sono un pazzo estremista che non prova nessuna via di mezzo come gli altri comuni mortali ma che deve sempre distinguersi e attaccarsi morbosamente a qualsiasi cosa gli sia regalata senza un doppio fine. Ho carenze d'affetto, che ci volete fare?
Un altro problema forse è che non riesco a esprimere i miei sentimenti come dovrei. Rido, canto, chiacchiero come tutti gli altri e a prima vista non sono niente di anormale, ma il punto è che - e non sono molti quelli che riescono a diventarmi così amici da rendersene conto - non riesco a piangere, urlare, dare di matto o spaccare qualcosa quando mi sento giù. Avete presente quelle giornate di merda, ma così di merda, che una volta tornati a casa vorreste solo seppellirvi e lasciarvi morire per non essere costretti a soffrire un secondo di più? Ecco, io quelle giornate le passo come se niente fosse. Torno a casa, prendo la chitarra, suono, canticchio, faccio brutti pensieri, vado a fare una passeggiata, magari passo a rompere un po' i coglioni a Alex, ma è tutto lì. Vorrei morire, ma so che c'è gente che soffre molto più di me e che va avanti comunque con un sorriso grande come una casa stampato sulla faccia, e non sento il permesso di poter piangere o lamentarmi anche solo parzialmente della mia vita. Ho amici che si tagliano, amici che hanno tentato più volte il suicidio, amici i cui genitori sono le merde peggiori del pianeta, amici che fumano, amici che bevono, amici che semplicemente non ce la fanno più a tirare avanti in questo mondo, e non mi sento come se potessi davvero piangere e sentirmi male per me stesso. Non ne ho il diritto, non sono nella loro situazione. E poi dopo l'acquazzone c'è sempre l'arcobaleno, quando ci si sente male bisogna sempre tener duro ed aspettare che la tempesta passi prima di fare scelte avventate, e tutte queste cose qua. Le ho ripetute agli altri così tante volte che mi sono penetrate sottopelle e non riesco più a spingerle via; le sento premere con insistenza e marcire sgraziatamente tra le mie ossa, deluse dal fatto che sia umano e che ogni tanto il peso del mondo cada addosso anche a me, quasi non me lo potessi permettere. Chissà, forse non posso davvero; fatto sta che però ora non riesco più a permettermi di rimaner giù un secondo. Può morirmi il cane, può morirmi il gatto, può morirmi perfino il mio dannato pesce rosso: rimarrei impassibile, e così per tutto il resto delle tragedie che possono capitarmi. E qui la gente di solito dice 'che fortuna sfacciata! E hai pure il coraggio di lamentartene? Magari fossi anch'io così, sai che pacchia', ed è qui che si sbaglia: non è bello, non è positivo, non è una cosa di cui vantarsi e andar fiero, è una cosa che ti logora dentro ogni giorno di più, che ti fa sentire strano, diverso, che non ti permette di farti prendere sul serio dagli altri o da te stesso. All'inizio ne sei contento, ti dici 'daje, finalmente le cose cominciano a girar bene', ma bastano poche settimane per renderti conto che no, le cose non hanno cominciato a girar bene, perché la tua parte più sensibile e fragile è stata uccisa, sepolta e abbandonata, e tu sei rimasto lì, con l'illusione che un giorno possa tornare. Cominci a sentirti smarrito, a gettarti nei problemi degli altri per non dover affrontare il tuo, e più il tempo passa più ti convinci di esserti sbagliato, che ti sei solo abituato alle sfuriate della vita e che se ti capitasse l'occasione saresti più che in grado di piangere e soffrire come qualunque altro essere umano; ma quando poi l'occasione si presenta e senti la tua mente divagare, slittar via da quel soggetto e spostarsi su quel disco appena uscito che ti piace tanto e non vedi l'ora di ascoltare, allora ti rendi conto che c'è davvero qualcosa che non va, che non puoi più continuare a ignorarlo. Ma nello stesso momento in cui lo realizzi, il tuo cervello si focalizza su qualcos'altro e ti convince a ignorare la cosa, la seppellisce nei meandri del tuo inconscio e fa in modo che tu te ne dimentichi per un po', giusto il tempo di smaltire quell'ultima coltellata alla pancia, e quando poi te ne ricordi, sottovaluti la faccenda un'altra volta; e il giro ricomincia. Tipo il simbolo dell'Ouroboros, il serpente greco che si mangia la coda, solo che per gli gnosticisti e gli ermetisti aveva un significato positivo; di sicuro quando lo disegnavano non pensavano a un ciclo di autodistruzione individuale, dove noi stessi siamo i nostri peggior nemici. Non sono sicuro di quando esattamente io sia riuscito a non ignorare più il problema e ad afferrare il toro per le corna, ma di preciso so che quando mi sono sfogato al riguardo, Alex c'era e mi ha abbracciato, dicendomi che per me ci sarebbe sempre stato e che potevo contare su di lui in qualsiasi momento della giornata, non solo durante il giorno; e la cosa per un momento mi ha aiutato, mi ha fatto sentire amato e quanto il mio migliore amico fosse davvero una persona speciale, ma ora che sono qui, seduto alla mia scrivania, il senso di vuoto è tornato, e non so come affrontarlo.
E questo ci porta dritti a un altro problema: mi sento perennemente e costantemente solo, anche se so di non esserlo e che se glielo permettessi, tante persone si farebbero avanti per diventare mie amiche. Il brutto è che sono introverso, ho problemi ad aprirmi con gli altri e fargli capire che per me sono importanti e che ci tengo davvero a loro, e a meno che voi non siate Alex, non mi sentirete mai parlare apertamente dei miei problemi o di quello che (non) succede a casa. Quando ci vediamo e comincio a parlare, mi sento fuori posto perfino con lui, ma so che è la cosa giusta da fare e continuo a fare uscire questa matassa intricata di pensieri che mi transitano in gola, in attesa di venir rilasciati contro l'unico ragazzo che abbia davvero mai tenuto a me; e quando ho finito di parlare sento di aver fatto un passo avanti, perché ora che le parole sono fuori non posso più mentire a me stesso, ed è pur sempre qualcosa. Che poi i consigli di Alex calzino a pennello nella mia situazione è irrilevante, anche se fosse l'imbecille più incompetente del pianeta andrei lo stesso a chiedergli come comportarmi e come affrontare la giornata; è il fatto che sia il mio migliore amico ad essere importante, non il resto. Lui riesce a capirmi, aiutarmi, ma più di tutto riesce ad ascoltarmi e confortarmi quando ce n'è bisogno, e nessuno al mondo è in grado di farlo come lui. Alex è l'unica persona nell'universo a essere in grado di non farmi sentir solo quando le crisi cominciano ad attanagliarmi ed è l'unica persona nell'universo a sapere vita, miracoli e morte di me, che di norma agli altri non dico neanche cos'ho mangiato a colazione. Alex è speciale, la persona più bella del mondo, e senza di lui sarei davvero perso, dico sul serio.
Sfortunatamente, questo ci porta ancora una volta a un problema, che posso identificare con il primo che ho elencato: ritengo Alex la persona più speciale del pianeta, l'unica in grado di cambiarmi la giornata con una pacca sulla spalla e un 'ehi, ti va di uscire questo pomeriggio?', il solo capace di farmi sentire qualcosa quando ho i miei attacchi d'apatia e il mondo intero mi sembra uno spreco di spazio. Per me Alex è fantastico, la persona più dolce e disponibile del mondo, quello di cui davvero non riuscirei mai a fare a meno; è l'incarnazione estrema della perfezione umana, se vogliamo farla breve, e lo amo come mai sono riuscito ad amare qualcun altro, ma proprio per questo non posso permettermi di essere completamente sincero con lui, ho paura di perderlo e cadere nel buio più completo, senza più alcun appoggio. Non che il mio affetto e il mio attaccamento per lui possano essere ridotti a un 'ho bisogno di aiuto e lui è l'unico che c'è, meglio che mi accontenti o rimarrò solo come un cane', assolutamente. Senza di lui tutto perderebbe significato, a partire da questo diario che sto scrivendo ora, e molto probabilmente mi suiciderei nel giro di poco tempo. Il mio mondo gravita attorno a lui e la cosa non potrebbe essere più viscerale e profonda di quanto non sia ora; il nostro rapporto è senza dubbio il miracolo più bello che mi sia mai capitato e non potrei perdonarmi di rovinarlo. Per questo sono sempre zitto e impassibile quando mi parla delle sue cotte, per questo mantengo sempre il sorriso quando mi racconta di come qualcuna ci abbia provato con lui, per questo ingoio il rospo con nonchalance quando rivolge la sua attenzione a qualcuno che non sono io. Fa male da morire, ma perderlo sarebbe infinitamente peggio, e tutto sommato non fingo mai fino in fondo: mi fa piacere quando mi racconta di essere felice, quando la sua ragazza gli fa un regalo inaspettato e lui ci rimane di stucco, quando arriva con un sorriso a trentadue denti e mi dice 'Jack, mi sono innamorato'. Perché okay, non sono io quello che ama, ma sono io quello a cui va a dirlo, il primo con cui condivide ogni cosa che accade nella sua vita, e finché la situazione lo soddisfa per me non ci sono problemi, i suoi occhi vivaci sulla mia pelle mi bastano. Certo, prima o poi arriverò ad avere bisogno di qualcosa di più concreto per riuscire a tirare avanti come faccio ora, ma finché quel tempo è lontano non importa, voglio dare tutto me stesso per vedere quel suo bel sorriso aleggiare sulle sue labbra il più a lungo possibile. Sticazzi del resto.
Più melenso e pesante di un frullato di caramelle mou e canditi, vai così! Spero non apra mai gli occhi o sarà imbarazzante.


Busso alla porta e ciondolo sull'uscio, spostando il peso da un piede all'altro finché qualcuno non viene ad aprirmi.
«Oh, ciao Jack» mi saluta sua madre, sorridendo e facendosi da parte per lasciarmi passare, «vieni pure».
La ringrazio ed entro, lanciando un'occhiata alle scale. «Alex è di sopra?» domando. Annuisce.
«Sta un po' meglio, la febbre si è abbassata ieri notte» m'informa allegramente, poi aggiunge un 'divertitevi e chiamatemi se serve, io torno in cucina' e se ne va, asciugandosi le mani chiare sul grembiule. Salgo le scale stando ben attento ad essere il più silenzioso possibile, voglio sapere cosa fa Alex quando non sono in giro e non ha nessuno a tenerlo coi piedi per terra, magari ha qualche hobby fuori dal comune di cui io non so l'esistenza e che in futuro potrebbe aiutarmi per... qualche cosa. La gente dice che la curiosità è donna, ma se mi conoscesse probabilmente cambierebbe radicalmente il proverbio per aggiustarlo meglio a me. Non è colpa mia, il mondo è troppo interessante per non essere esplorato tutto, e poi le persone nascondono sempre le cose più salienti, quindi uno è letteralmente costretto a ricorrere a metodi alternativi per conoscerle a fondo e farsi un'idea del loro vero aspetto. Peccato che non sia mai riuscito a cogliere Alex alla sprovvista in questi anni, sarebbe interessante sapere cosa gli passa davvero per la testa quando non c'è nessuno attorno a potergli fare la ramanzina; secondo me nasconde qualche oscuro segreto di cui non può proprio svelare nulla causa conseguenze devastanti, altrimenti non sarebbe sempre sul chi-va-là e si sarebbe lasciato cogliere in fallo almeno una volta. Forse la prendo troppo sul personale e dovrei farmi una bella spaghettata di cazzi miei, ma Jack la vecchietta di paese scoprirà il suo segreto prima o poi, e quando lo farà potrà ritenersi contento e soddisfatto. Oh.
«Jack» esclama lui appena metto la mano sul pomello, prima ancora di cominciare ad aprire la porta. Come cazzo fa?
«Ehilà, malato grave» lo saluto entrando nella stanza, per poi sbracarmi sulla sedia davanti alla scrivania e lasciar cadere i libri per terra, come se mi trovassi in camera mia, «Che mi racconti?»
«Che ho appena finito di leggere un libro strano; parla di un uomo che andando in bicicletta cade e prende una botta in testa, e quando riprende i sensi si rende conto che la sua vita non lo soddisfa davvero e va a vivere in mezzo ai boschi con un cucciolo d'alce di nome Bongo, solo che poi un militante di destra decide di prenderlo ad esempio e piazza una tenda accanto alla sua, solo che a lui gli umani non piacciono, così quando anche un altro suo amico va a vivere lì, prende, costruisce un totem dedicato al padre e se ne va» mormora, senza fare una pausa tra una frase e l'altra.
«Wow» commento, impressionato «qualcuno che sta più fuori di te».
Mi lancia un cuscino con una smorfia divertita sulle labbra e non provo neanche ad evitarlo, mi limito a far finta che non sia mai neanche stato tirato e che sia solo un frutto dell'immaginazione febbricitante di Alex.
«Com'è andata oggi a scuola?» domanda, mentre io finisco di fare il distaccato.
«Una palla, come al solito. Quando ti degni di tornare fra noi comuni mortali?» gli chiedo, inarcando il sopracciglio. Si lascia cadere all'indietro, contro il cuscino, e sospira storcendo il labbro, in quella che riconosco come una smorfia a metà fra l'amaro e il compiaciuto. Gli piace sapere che mi manca, al bastardo, lo posso giurare su mia madre.
«Spero presto, stare qui immobile è un taglio delle vene» risponde francamente. Annuisco, pensieroso. Lui si volta a guardarmi, tirandosi su di nuovo, e mi guarda con più attenzione.
«Jack, non è che è successo qualcosa oggi?» domanda di nuovo, con quella sua aria innocente e preoccupata.
«Niente di rilevante a parte Nick e le sue battute terribili» lo tranquillizzo, spostando lo sguardo verso la grande libreria alla sua destra, che abbiamo montato assieme un numero considerevole di anni fa. Tace, capisce che non sono in vena di parlare e annuisce, cambiando argomento per evitare di lasciar cadere un silenzio opprimente e fuori luogo.
«Immagino ti stia divertendo molto con lui» ghigna, guardandomi dritto negli occhi e rigirando il coltello nella piaga.
«Molto più di quanto non faccia con te, stronzo» ribatto, concedendogli una fugace occhiata divertita.
«Allora perché non sei con lui, in questo momento?» m'incalza, vincendo anche quest'ultima finta battaglia, come sempre.
«Certo che sei proprio una palla» faccio con un sorriso esasperato, alzando lo sguardo al cielo con un sospiro sonoro.
«Consapevole e fiero di esserlo» si compiace, sorridendo docilmente. Ahh, quel sorriso.
«Oggi Nick ha detto che avevi fatto sega» butto lì dopo un po', lui si acciglia e risponde con un 'ah'. «Gli ho detto che si sbagliava e lui ha detto che l'ho presa troppo sul personale. Mi chiedo se lui non lo farebbe, col suo migliore amico»
Alex annuisce e ci rimugina un po' su, poi mi guarda. «Non credo ce l'abbia, un migliore amico» nota.
«Be', può anche darsi» scrollo le spalle, indifferente «in effetti è simpatico quanto un'anguilla nelle mutande».
«Sei una bestia» commenta scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo, mentre io continuo a giocherellare con una penna, lo sguardo perso davanti a me e la sua risata genuina che mi rimbomba in testa. Mi sento in un altro mondo, come se avessi appena fatto un viaggio di cinquecentomila chilometri in una manciata di secondi, solo con la mente però.
«A parte questo, Bassam, che mi dici?» fa quindi lui, costringendomi a tornare nella sua stanza.
«Niente di che William, se non che non devi chiamarmi Bassam» ribatto, abboccando all'amo come mio solito.
«D'accordo, non ti chiamerò Bassam, ma a una condizione» riprende, mi vede annuire distrattamente e continua: «Mi devi dire che cazzo ti succede, perché quando sei assorto non è mai per caso». Mi guarda con quei suoi occhioni enormi color gelso bianco e non abbassa lo sguardo, deciso come ogni volta che sa di fare la cosa giusta, e rimane così, immobile, finché non sospiro, scuoto la testa e abbasso le spalle in segno di resa. A quel punto il mondo riprende a esistere.
«Huhh, in realtà non so come cominciare» biascico controvoglia, alzando le sopracciglia e guardando qualcos'altro.
«Be', l'inizio mi sembra un ottimo punto» m'incalza Alex, abbozzando un sorriso leggero. La battuta mi scivola addosso; mi alzo e mi vado a sedere sul letto accanto a lui, lui si fa da parte e lascia che mi sdrai al suo fianco, docilmente, senza insistere ulteriormente al riguardo. Sa che gliene parlerò, ma non vuole mettermi fretta. Per qualche secondo nella stanza aleggia il silenzio, ma un silenzio ovattato, piacevole, non un silenzio pesante e fuori posto; uno di quelli che ti coccolano quando non hai le parole per esprimerti e senti addosso la pressione del momento, uno di quelli che ci sono spesso fra noi e che mi danno l'opportunità di sentire il suo respiro infrangersi contro la mia pelle, quando ci troviamo abbastanza vicini. Vivrei di questi silenzi, mi ricaricano come poche cose e mi riempiono di pace e tranquillità, sensazioni che raramente riesco a trovare nella mia vita quotidiana, lontano da casa Gaskarth. Secondo me si fanno di qualche strana droga poco famosa o s'iniettano incenso e tisane direttamente in endovena, perché sono sempre placidi e rilassati, pronti a ridere e a prendere sottogamba le situazioni più ansiolitiche; non è assolutamente normale. Però forse non sono loro a iniettarsi la roba, forse tengono delle candele speciali accese tutto il giorno e tutta la notte così che tutta la casa sia impregnata della loro allegria, perché quando vengo qui mi sento meglio anch'io e i miei problemi si ridimensionano notevolmente, quindi devo essere anch'io sotto l'effetto di questa strana sostanza di cui non riesco a identificare la composizione. Ma sì, okay, sto divagando e non va bene, non ora che Alex si aspetta un bel resoconto fatto per bene e la mia testa è più vuota di.. di.. più vuota del cartone del latte che ho lasciato in frigo stamattina, ecco. Ma non è questo il punto, ho divagato ancora, il punto è che non ci sono parole per dirgli quello che provo e che, porca puttana, ho le spalle al muro.
«Huhh» borbotto un'altra volta, e lui si gira a guardarmi con quei suoi occhi enormi e pieni di buone intenzioni. Urgh.
«Io... credo di essermi tagliato durante le vacanze» butto lì, cercando di farla sembrare come una cosa di poco conto. Lo sento sussultare tra i denti serrati e fisso ancora più intensamente il pavimento alla mia destra, improvvisamente diventato la cosa più interessante dell'universo. Non so come continuare il discorso, già non avevo idea di come aprirlo, figuriamoci di come portarlo a termine, soprattutto con lui accanto che mi sonda il cervello con lo sguardo. Porcoddue, Jack.
«E, huhh, non... non credo mi abbia fatto schifo» continuo, spostando lo sguardo verso la base della sua scrivania, «ma allo stesso tempo non sono sicuro che mi abbia aiutato in qualche modo... Mi ha svuotato la testa, che fa sempre bene se sei costretto a convivere con il mio cervello ventiquattr'ore su ventiquattro, ma non mi ha fatto sentire accettato, non mi ha fatto sentire come se qualcosa fosse effettivamente migliorato, quindi non credo sia stato davvero utile». Annaspo per trovare le parole ma è dannatamente difficile, vorrei alzarmi e andarmene lasciando tutto in sospeso, ma la presenza di Alex al mio fianco mi tiene incatenato al letto e mi costringe a proseguire. Deglutisco.
«Però quando mi sono disinfettato il braccio ed ho disinfettato il coltello prima di affondarmelo nella carne mi sono sentito come se avessi la situazione in mano - che è anche vero se ti fermi a pensarci - e, non lo so, mi sono sentito bene. Sapere che ho ancora il controllo su qualcosa che mi riguarda, su qualcuno dei miei sentimenti e su una parte del mio cervello mi ha fatto sentire più... normale, comune, come se non ci fosse niente di sbagliato in me» mormoro.
«Non c'è nulla di sbagliato in te» ribatte Alex, io lo guardo e distolgo lo sguardo subito dopo, senza riuscire a sostenerlo.
«Non è quello che mi dicono i sogni» rispondo, «ma grazie. Il pensiero conta».
Sento che mi stanno salendo le lacrime e cerco di mandarle via; ci manca solo questa. Alex se ne rende conto, fa guizzare lo sguardo in giro, poi si sporge e mi abbraccia, appoggiando la testa sul mio petto e deglutendo. Oh, Dio.
«Jack, tu sei fantastico, non c'è nulla che sbagli» mi sussurra, guardandomi dal basso. Sembra profondamente addolorato.
«Non lo so, Alex» commento scuotendo debolmente la testa, «un secondo me lo dico anch'io, il secondo dopo sono per terra con la testa tra le mani a piangere come un deficiente perché le voci mi dicono che non ne faccio una buona. Io ce la metto tutta, cerco di guardare tutti i miei lati positivi e tengo il conto delle buone azioni che faccio ogni giorno, ma il mio inconscio conosce tutti i passi falsi che ho fatto e supera le mie liste di tantissimo senza il minimo sforzo. Io mi piaccio, in linea di massima, ma è tutto così...» mi stringo la testa fra le mani «non lo so. Confuso. Caotico, direi; non ci capisco nulla di nulla. Ho paura di essere incinto, ho degli sbalzi d'umore pazzeschi» termino, ridendo nervosamente per scacciare la tensione che si è venuta a creare. Alex mi scruta preoccupato e non so come sentirmi. Da una parte sono sollevato perché mi sono levato il peso dal petto, dall'altra mi prenderei a schiaffi perché le cose che ho detto ho già smesso di sentirle o le ho espresse male, come ogni volta che provo a parlare dei miei sentimenti, e la cosa mi lascia sempre un po' deluso.
«Senti 'lex... non preoccuparti. Davvero. È che è un periodo un po' così e non mi sono sentito capace di fare nient'altro se non quello, ma so che è sbagliato e vedrò di tenermene lontano nei prossimi tempi» chiarisco. Lui tace.
«Rimani a dormire qui, oggi» dice finalmente, con un tono dolce ma che non ammette repliche, e io annuisco. Rimango lì in silenzio, con Alex accoccolato contro il petto, e respiro, flebilmente, di nuovo libero di perdermi nell'infinito che si nasconde oltre l'armadio del mio amico. Sento il suo calore su di me e comincio istintivamente a giocherellargli coi capelli, lui chiude gli occhi e sorride piano, allentando la tensione dei muscoli. Messo a voce, il mio problema non sembra neanche poi così grave, e nel pronunciare l'ultima frase mi sono sentito diverso, come se credessi davvero in ciò che ho detto. Che poi è anche vero, ho abbastanza cazzi per la testa di mio e l'ultima cosa di cui ho bisogno è crearmi un altro problema da solo, senza contare che comunque non voglio continuare a ferirmi inutilmente e mettere in ansia pure Alex per qualcosa che non può aiutarmi in nessun modo. Ma è sbagliato anche solo dire che voglio smettere; voglio dire, quando mai ho cominciato? Tre tagli non sono tagliarsi, tre cicatrici non sono un segno indelebile, un cuore infranto non è perduto per l'eternità, sono tutte cose a cui si può rimediare e a cui rimedierò presto, giusto il tempo di stabilizzare i miei sentimenti. Distolgo lo sguardo dal muro e osservo Alex, che nel frattempo si è addormentato e soffia silenziosamente sul mio petto, le iridi che si muovono freneticamente da sotto le palpebre chiuse. Sorrido e gli lascio stare i capelli, spostandogli i ciuffi dal viso, rimango in silenzio per un po' e mi volto verso la porta quando questa si apre, dopo il bussare delicato di sua mamma.
«Tutto okay, ragazzi?» domanda, infilando la testa dentro. Sorride alla vista del figlio e m'invita a uscire con un gesto della testa, per poi chiudersi gentilmente la porta alle spalle quando la raggiungo davanti alla tromba delle scale.
«Siete riusciti a studiare un po'?» chiede premurosamente, cominciando a scendere.
«Non molto, a dir la verità» rispondo, seguendola in salotto e poi in cucina. Si siede su una sedia e mi fa cenno di imitarla, ma quando prendo posto si alza e si dirige verso la credenza, dalla quale tira fuori due bicchieri azzurri. Si avvicina al frigo e apre l'anta, indugia un attimo e poi si volta verso di me, per ricevere conferma della mia solita bevanda, così sorrido e lei tira fuori del succo d'arancia e una bottiglia di latte. Torna da me, mi versa del succo e si riempie il bicchiere di latte, poi incrocia le gambe e sospira, soddisfatta dalla sua pausa di metà pomeriggio.
«State lavorando a qualche nuovo progetto?» domanda con un interesse spontaneo che l'ha sempre caratterizzata.
«Ho qualcosa in mente ma preferisco aspettare che guarisca prima di proporglielo» ammetto, scuotendo la testa.
«Approvo» annuisce, dando un altro sorso al suo latte, «ora come ora Alex ha il cervello completamente in pappa. Spero sia la febbre e che non si sia innamorato di un'altra, le sue ragazze sono così poco cordiali quando me le presenta». Tacciamo e beviamo un po' in silenzio, poi lancio un'occhiata al forno e noto il suo grembiule buttato a casaccio sul piano.
«Cucinato qualcosa?» chiedo, indicando col mento le ciotole infarinate che emergono dal lavello.
«Assolutamente sì» esclama, «ricetta speciale. In realtà è la prima volta che la sperimento, però ho seguito tutte le istruzioni alla lettera e penso sia venuta alla grande. Ti va di fermarti a cena e provarla?»
Mi piace la sua spontaneità, è difficile non volerle bene. «Perché no, tanto mi aspettava un'altra serata di pizza e TV».
La mamma di Alex è una creatura minuta, pallida, con gli stessi spinaci incasinati che caratterizzano tutta la famiglia, ed è una persona con cui è facile parlare, anche se non ci condividi praticamente nulla. Le viene naturale cercare sempre un argomento che possa interessare entrambi e in questi anni non è mai capitato che se la prendesse con me per qualcosa che aveva combinato suo figlio, suo marito o il suo capo. Non penso di averla proprio mai vista arrabbiata, a dire la verità, ma so che può essere molto decisa quando vuole: quando eravamo piccoli, io ed Alex eravamo delle vere calamità su due piedi, e visto che mia madre passava la mattina presto e ci portava a scuola, a venirmi a prendere erano i genitori di Alex. Arrivavamo a casa sua, facevamo merenda con le prime vaccate che trovavamo nella parte bassa della credenza e poi sfrecciavamo fuori alla velocità della luce, per goderci il più possibile quei pomeriggi e fare i giochi più pericolosi che ci venissero in mente; poi quand'eravamo troppo esausti per continuare a correre e fare la guerra al prossimo, rientravamo e ci sbracavamo sul divano a guardare i cartoni animati. Il problema si poneva quando fuori pioveva, tirava vento o c'era un brutto tempo in generale e ci era quindi vietato stare all'aria aperta: potete benissimo immaginare di cosa sono capaci due ragazzini irrequieti abituati a poter contare su spazi aperti e che per divertirsi si prendono regolarmente a botte che di punto in bianco vengono rinchiusi in una casa sì a due piani, ma comunque considerevolmente più piccola e piena di mobili rispetto al giardino in cui stanno sempre. Aggiungete a questi due ragazzini e all'ambiente sfavorevole una bella quantità di zucchero, bevande frizzanti e cartoni ultra-violenti, dategli qualche giocattolo con cui creare delle storie e bam, avete un salotto distrutto assicurato. Mia madre c'avrebbe sbroccato come una pazza per ore, facendoci sentire le peggio merde del pianeta, ma la mamma di Alex si è limitata a raccogliere i cocci, buttarli nella spazzatura, tornare da noi e dirci di non farlo mai più, ma con un tono così serio e autoritario che né io né lui abbiamo più trovato il coraggio di spaccare qualcosa nella sua bella casetta. Insomma, è sempre stata una donna tutta d'un pezzo, e credo che poche persone si sarebbero accollate la responsabilità di badare ad un ragazzino in più, specialmente appena arrivate in città da un altro paese, quindi ai miei occhi è il triplo più determinata di tutte le altre mamme che conosca. Ma credo che il miglior tratto di lei sia che non si è mai rassegnata con me: si è sempre mostrata gentile, aperta, pronta a prestarmi un pigiama e ad invitarmi a cena nei momenti in cui i miei tardavano e io vagavo da solo per la casa senza sapere cosa fare; non si è mai lamentata quando mi presentavo da loro agli orari più assurdi, anche durante le vacanze, per fare un salutino ad Alex e passare qualche ora con lui, né tantomeno si è mai arrabbiata con me perché facevo troppo casino e non stavo fermo un attimo, contagiando pure suo figlio con la mia iperattività. Per me è una donna grandiosa; se dovessi scegliere mia madre nella prossima vita, senza alcun dubbio la mia scelta ricadrebbe su di lei. Specialmente se come fratello avessi Alex.
«Dì un po' Jack, tu non hai niente da raccontarmi? Niente gossip, niente cose piccanti?» domanda sornionamente dopo un po', accavallando le gambe e posando il mento sulle dita intersecate tra loro, senza traccia di malizia nella voce.
«Zero via zero, il buon vecchio Jack non interessa alle ragazze» rispondo, evitando in parte la domanda. Stringe le labbra.
«Dici davvero? Mi sembra piuttosto strano, non sei mica brutto» commenta.
«Mi sa che sono troppo per gli standard della mia scuola, se fossi da un'altra parte mi salterebbero addosso» scherzo.
«Non ci allarghiamo» ridacchia lei, socchiudendo gli occhi e riaprendoli alla sua destra. «Guarda che tempo... se foste stati un minimo più piccoli, tu e Alex sareste schizzati fuori e chissenefrega della febbre. Vi state rammollendo, ragazzi».
«La vecchiaia incombe, signora mia, l'artrite non mi permette più di prender parte a certi futili giuoghi da infanti» ribatto.
«Ma come te ne esci?» esclama lei corrugando le sopracciglia, un sorriso aleggiante sulle sue labbra fine e rosse. Si alza per andare a portare i bicchieri nel lavello e la seguo docilmente, anche se il mio non si trova più a tavola, e osservo con attenzione la precisione con cui mette a posto tutto. Un bip-bip preregistrato ci annuncia che la lavastoviglie ha terminato il suo ciclo e la apro automaticamente, cominciando a mettere i piatti nel ripiano alto della credenza di vetro, poi passo ai bicchieri e alle posate. La mamma di Alex nel frattempo se n'è andata e mi sento un po' un deficiente a fare i lavori a casa sua senza neanche la sua presenza accanto, ma visto che ho cominciato tanto vale finire. Lancio un'occhiata all'orologio e vedo con stupore che è passata quasi un'ora da quando sono sceso al piano terra, ma non mi scombussolo più di tanto e porto a termine il mio lavoro in un paio di minuti, tranquillo.
«Ehi Jack, dì un po', te lo ricordi questo?» mi sento chiamare dall'altra stanza. Mi affretto a raggiungerla e la trovo seduta sul divano con in mano una scatola di metallo piena di graffi e adesivi mezzo strappati che non vedevo da anni.
«Eccome se me lo ricordo» ribatto, sedendomi al suo fianco. Quando eravamo piccoli avevamo trovato questa scatola, che all'epoca era di un bel blu elettrico, in garage e l'avevamo ribattezzata come nostra scatola dei ricordi, e per tutti i mesi dell'estate avevamo continuato a metterci dentro tutto ciò che ci sembrava speciale e che non volevamo finisse sotto gli occhi degli adulti. Non pensavo l'avesse conservata, così quando la prendo in mano mi batte un po' il cuore.
«Quanti anni sono passati?» sorride lei, socchiudendo dolcemente gli occhi, «Sei? Sette?»
«Sette e quattro mesi» rispondo sovrappensiero, le dita che accarezzano la chiusura della scatola. «Però è la scatola dei segreti, non posso fartela vedere» mi ricordo tutto d'un tratto, per poi pensar subito che ormai doveva conoscerla come le sue tasche, visti gli anni in cui era stata dispersa, e arrossire lievemente tra me e me. Lei ride, cristallina.
«Hai ragione, vorrà dire che aspetterò altri sette anni e quattro mesi prima di aprirla con i vostri nipotini» scherza, poi si alza, si alliscia la maglietta e se ne va un'altra volta, senza lasciarmi tempo per ribattere.
«Cosa intendi con 'i vostri nipotini'? Procreare a ventitré anni è rovinarsi la vita» esclamo di rimando, e la sento ridere.
«Procreare è migliorarsi la vita, Jack» ribatte dall'altra stanza, «quando sarai grande capirai cosa intendo».
«Temo passerà molto tempo prima che io lo faccia allora» constato, pensando che comunque, oltre a non aver un cazzo di successo col mondo femminile, sono pure innamorato di un maschio, quindi campa cavallo che l'erba qui è na foresta.
«Non essere così negativo, secondo me qualcuno che ti accetterà tutta la vita lo troverai presto» insiste, tornando.
«Anzi, secondo me potresti già averlo trovato. Quanta gente c'è a scuola vostra? Milleduecento, milletrecento persone? E vuoi dirmi che in mezzo a loro non c'è uno straccio di qualcuno che riesca a farti pensare al vostro futuro assieme?»
«Be', oddio, non l'ho mai vista sotto questo punto di vista» ammetto, accigliandomi «ma credo che la risposta continui a essere 'no, mi spiace, non ho intenzione di seppellirmi sotto cacca e pannolini entro i prossimi vent'anni'»
«Sei impossibile» scuote la testa lei, ma con positività «vedrai che presto incontrerai qualcuno che ti farà cambiare idea e che cambierà completamente la tua visione del mondo; e quando succederà, vedremo chi aveva ragione»
«Affare fatto» dico, porgendole la mano «ma chi perde paga pegno».
Mi da' uno scappellotto sulla spalla come a dire 'ma non puoi mai essere serio tu?', poi sorride e me la stringe con forza.
«Va bene, sfida accettata. Ma vedrai che sarai tu ad ammettere di aver avuto torto, Barakat» commenta, decisa.
«Continua a sperarci» ribatto, poi ci alziamo e ci separiamo per far scena. Ho già detto che amo quella donna?


 Alex non scende a cena. Suo padre è fuori città per lavoro, quindi io e sua madre mangiamo da soli, il silenzio rotto solo dall'eco ovattato della televisione, accesa più per riflesso che per effettivo interesse – il papà di Alex guarda sempre il telegiornale quando cenano, così si tiene informato su tutto ciò che affligge il mondo e il giorno dopo può permettersi di leggere il giornale e distrarsi un po', se ha qualche affare importante per le mani e non riesce a concentrarsi come vorrebbe sulle notizie – e a essere sinceri la cosa mi fa sentire solo da morire. Il piatto speciale della mamma di Alex non è poi così eclatante ma la riempio di complimenti lo stesso, cosa che lei sembra apprezzare di buon grado; finiamo di mangiare e ci separiamo discretamente, senza sottolineare troppo la cosa. Torno in camera del mio amico, apro il secondo cassetto dell'armadio a muro e tiro fuori una sua maglietta; mi sfilo la mia e mi cambio, poi vado in bagno e tiro giù dal mobiletto il mio kit «nottata fuori programma», provvisto di uno spazzolino e un paio di vestiti puliti. Mi lavo i denti sovrappensiero e torno di là, sistemo i vestiti sulla sedia davanti alla scrivania e mi siedo sul materasso accanto a lui.
Alex è di una carineria assurda quando dorme. Mi dispiace quasi per chi non ha mai avuto l'opportunità di vederlo: io mi fermo a dormire a casa sua una volta alla settimana da tipo otto anni, e prima capitava che mi fermassi ancora più spesso, eppure non c'ho ancora fatto il callo. E lo dico oggettivamente, è una cosa che penso da sempre, da molto prima che m'innamorassi di lui; Alex che sogna è la cosa più bella del mondo e non puoi non pensarlo, che tu sia etero, gay, lesbica o una talpa. È semplicemente fantastico, non so neanche come descriverlo; mi manda gli ormoni in pappa, porca paletta, e non sono un tipo che normalmente si emoziona a guardare gli altri dormire, quindi potete benissimo immaginare come stia messo e perché mi stia sforzando così tanto di ricordare gli elementi della tavola periodica, di cui non mi è mai importato un accidente e di cui non mi servirò mai e poi mai nella mia vita futura. Oddio, vorrei poter urlare.
Il bello di avere come amico Alex, è che non s'imbarazza mai di niente se lo conosci da un po'; dorme con te, si fa vedere nudo da te, ti confida i suoi problemi, ti lascia fare tutto ciò che vuoi a casa sua, si fida di te come di pochi, a momenti ti regala perfino le chiavi della porta d'ingresso col permesso di usarle ogni volta che ti gira. Non conosco nessun altro come lui, è completamente fuori eppure è sempre cosciente di sé; non credo abbiano ancora inventato un termine adatto a descrivere le persone come lui, ma detto sinceramente a me basta il suo nome per descriverlo e sentire scariche elettriche invadere le mie vene. Non lo so, è come se al suo nome fosse collegato un sistema d'elettrodi che perdono il controllo ogni qualvolta una persona parla di lui o di qualcosa che gli piace; tipo un antifurto che scatta quando qualcun altro si permette di rigirarsi il suo nome fra i denti e farlo suo per una manciata di secondi: se viene tenuto nascosto troppo a lungo mi allarmo e attivo un qualsiasi sistema di difesa che gli faccia cambiare argomento, senza però dare a vedere il motivo della mia preoccupazione. Insomma, in mezzo ai problemi e alle stramberie anche il sottoscritto è un ingranaggio che funziona a dovere in questo universo contrastante che è Baltimora e i suoi giovani abitanti, e anche se ogni tanto crollo, l'amore mi porta sempre a galla e mi rimette al timone di questo dannato casino che è la mia vita. E già che parliamo di vita, possiamo fare un altro sbarco sulle spiagge dell'anima più importante dell'intero oceano e rimettere i piedi per terra, visto che Alex sta cominciando a svegliarsi e fra pochi secondi mi spingerà accanto a sé, come tutte le altre volte. Non riesco a ricordarmi com'è cominciata questa tradizione, però dormiamo insieme da sempre, abbracciati uno all'altro come se fuori imperversasse una tormenta e noi fossimo smarriti tra i ghiacci più remoti della Siberia, protetti solo dal calore dei nostri corpi pressati guancia contro guancia; ma credo che sia cominciato tutto quando eravamo davvero piccoli e crollavamo più o meno in contemporanea davanti alla TV: la mamma di Alex ci notava, spegneva l'apparecchio, si tirava su le maniche e ci prendeva in braccio assieme, poi saliva le scale con qualche sbuffo, ci posava sul letto e ci toglieva i pantaloni, sempre macchiati dalle zolle di terra e fango, e ci sistemava sotto le coperte, a volte con una maglietta, a volte senza. Alex allora cominciava a tremare e cercava la mia mano nel dormiveglia, mugolando finché non la trovava; a quel punto la stringeva e se la portava accanto al viso, respirandoci flebilmente sopra, mentre io rotolavo verso di lui e sistemavo la testa nell'incavo del suo collo, senza poi spostarmi fino alla mattina successiva. Ci svegliavamo come se non fosse successo nulla e ci lanciavamo giù per le scale, irrompendo in cucina con la stessa foga di chi non mangia da anni un pasto decente, e la signora Gaskarth sorrideva, mettendo il latte a tavola. A me piaceva riempire la tazza di latte e appoggiarmi con la testa sul palmo a osservare i cereali che scricchiolavano, gonfiandosi sempre di più, mentre Alex preferiva metterci anche del cacao in polvere e inzupparci dentro i biscotti, riempiendo tutto il tavolo di macchie e briciole. Non finivamo mai le nostre colazioni, scappavamo sempre a giocare dopo qualche cucchiaiata; però è un ricordo a cui penso con molta felicità quando metto piede in questa casa. Anche se, in effetti, ogni ricordo qui è più che felice.
«Jack» mugola Alex come previsto, tastando il materasso accanto a me per cercarmi «vieni a letto».
Lo scavalco cercando di non cadergli addosso e scivolo sotto le coperte in silenzio, tirandomele su fin sopra il collo; lui mi concede mezzo minuto, poi decide che ha aspettato fin troppo e rotola dalla mia parte, prendendomi la mano nella sua.
«Vedi di guarire presto» mormoro, lui socchiude gli occhi e sorride, sornione. Intreccia le dita con le mie.
«Lo sai, insieme siamo imbattibili» commenta pacatamente, poi chiude gli occhi e appoggia la guancia sulla mia mano, addormentandosi nuovamente. Scotta contro la mia pelle, probabilmente ha avuto una ricaduta e la febbre si è alzata mentre io ero giù, e aspettava me per abbandonarsi definitivamente al mondo dei sogni. Gli sposto una ciocca dagli occhi, delicatamente, e gliela sistemo dietro le orecchie, ripetendo il gesto qualche altra volta per rilassarmi e permettere alla mia mente di divagare come suo solito, quando le ombre emergono dai loro nascondigli, ma stasera non riesco a concentrarmi su niente che non sia la mia vita. Ma non macroscopicamente, sarebbe troppo comodo; stasera tutto ciò su cui riesco a concentrarmi è qualche spezzone di vita quotidiana ben definito e allo stesso tempo opaco, che dovrebbe avere un qualche significato che non sono ancora riuscito a cogliere ma che invece è di viscerale importanza per me e ciò che mi circonda; e devo ammettere che la cosa mi lascia un po' inquieto. Mi capita spesso di pensare a cose a cui non so dare una risposta, o a cose di cui ho paura anche solo a immaginare la soluzione, ma in genere quando lo faccio sono solo e ho le stelle sott'occhio. Invece in questo momento sono in compagnia del primo ragazzo che abbia mai amato, in una stanza quadrata con le tapparelle tirate e una TV accesa in lontananza e mi sento strano, come se non avessi capito fino in fondo qualcosa che invece dovrei aver capito tanto tempo fa, e il suo respiro continua a infrangersi ritmicamente sulla mia pelle, distraendomi ogni due secondi e impedendomi di ragionare lucidamente. Mi è capitato più volte di pensare che Alex mi ricambiasse, anche in minima parte, ma ogni volta sono stato costretto a ricredermi quando mi presentava la sua nuova improvvisa fiamma, ma a volte mi chiedo cosa succederebbe se prendessi davvero coraggio e mi dichiarassi. Non è il tipo che mi sputerebbe in faccia, mi urlerebbe di portare il mio culo da frocio fuori da camera sua e di non farmi più vedere fino alla fine dei miei giorni, ma non è neanche il tipo che rimarrebbe impassibile, del tipo 'okay, va bene, vedremo cosa farci. Ora possiamo riprendere il progetto di chimica per favore?'. Più volte mi sono immaginato una sua eventuale reazione, ma ogni volta che lo faccio, la risposta cambia - vuoi a causa del mio umore, vuoi a causa del tempo, vuoi a causa di una sua qualsiasi frase, vuoi a causa della quantità di zuccheri presenti nel mio sistema, vuoi a causa della sua rottura con qualche ragazza, a causa di qualsiasi cosa insomma - e finora non sono mai arrivato ad una conclusione soddisfacente, sebbene ne abbia elaborate decine. Non ho mai chiesto a Zack cosa ne pensi e tantomeno ho intenzione di farlo; un conto è dirgli che mi sono preso una bella cotta per Alex, un'altra è andare lì da lui, ammettere i trentamila complessi che mi faccio ogni giorno e mettermi a smontarli uno a uno, col rischio di rafforzarne qualcuno e farmi vedere più vulnerabile di quanto voglio che la gente mi veda. Va bene, okay, ho una cotta praticamente senza speranza, ma parlare di quanto mi piaccia non migliorerà le cose in nessun modo, tanto meno farà aprire gli occhi ad Alex, quindi perché abbassare la guardia e farlo? In realtà non so neanche perché mi sia confidato, visto che comunque non mi sento meglio di prima e non ho mai pensato che qualcosa sarebbe potuto cambiare, ma egoisticamente parlando, penso di averlo fatto perché, nel remoto e assurdo caso in cui io riesca a aprirmi con lui e rivelargli ciò che provo, e lui confermi i miei sentimenti con un bacio, allora nessuno dei ragazzi potrà dire 'cazzo, ma perché nessuno ci ha detto niente?' e mettere su il muso. Lo so, sono una merda, ma d'altra parte che bene mi porta lasciare che sappiano che sono innamorato perso di un ragazzo etero e costantemente mezzo impicciato con qualche gnocca di questa o quella scuola? Mi umilio e basta, alla fine. Anzi no, 'umilio' no, nessuno può umiliarsi nell'innamorarsi di Alex Gaskarth, semmai viene investito da una luce speciale e assume un aspetto completamente diverso agli occhi di tutti; ma il senso è che già non godo poi di tutto questo appoggio, figuriamoci se si spargesse la voce che sono innamorato di un ragazzo che non solo è il mio migliore amico, ma che non mi caga neanche di striscio. Cioè, dai, mi chiuderei da solo il coperchio della bara dopo essermi scavato la tomba, gettato contro dei fiori e fatto la cerimonia da solo, interpretando sia il prete che i miei genitori e gli altri quattro gatti che vi presenzierebbero. Una fine insignificante di un ragazzo poco determinante. Ma quando mi giro e guardo Alex negli occhi non posso non pensare che andrà tutto bene, che anche se non mi ricambiasse mi rimarrebbe comunque accanto, e che in fin dei conti male non può finire. Mi fa sentire a casa, come se mi trovassi nel posto giusto nel momento giusto, e non mi da' mai l'impressione di non volermi tra i piedi, come invece succede con i miei genitori; ha sempre pronto un sorriso per me e non esita mai se gli dico che non mi sento bene: esce dalla finestra, salta sul ramo e scende dalla casa sull'albero per non incappare in sua madre e si fa di corsa la sua strada fino al semaforo, dove lo aspetto con un'enorme tazza di cappuccino in mano e gli occhi gonfi di gratitudine. Ogni volta che compare sono la persona più felice del mondo, ma non credo lo capisca fino in fondo - voglio dire, fino a qualche paia di mesi fa non l'avrei capito davvero neanche io, eppure ora un suo sguardo è tanto importante quanto un weekend senza lavoro con i miei genitori, e per me i miei sono una cosa importantissima. Non lo so, è come se Alex avesse occupato con la sua perfezione ogni spazio vuoto del mio animo, spingendomi a vedere il bicchiere né mezzo pieno né mezzo vuoto, ma completamente pieno di positività e affetto da parte sua, che in ogni periodo del giorno c'è sempre stato; e se mi fermo un attimo a pensarci è una cosa che mi da' i brividi. In questi anni è diventato così essenziale per me che la cosa quasi mi spaventa. Dovrebbero benedire chi l'ha inventato. E anche se praticamente tutte le mie serate si concludono con questa riflessione, non riesco a non sorridere come uno scemo ogni volta che ci penso e realizzo che non importa quale sia il mio umore, cosa mi sia successo durante la giornata o cosa mi abbiano detto i miei compagni di corso, alla fine Alex è sempre la cosa più importante della mia vita e senza di lui niente sarebbe più lo stesso. Per questo poi quando mi dorme accanto mi sento così strano: è a pochi centimetri da me, è più vicino di quanto decine di altre persone potrebbero mai sperimentare nella loro vita, ed è abbracciato alla mia dannata mano, non a una ragazza, non a un cuscino, ma alla mia mano, alla mia stupida, magra, irrilevante mano; e c'è avvinghiato seriamente, con amore, non avvinghiato così, tanto per; c'è avvinghiato con forza perché vuole starci avvinghiato e rimanerci tutta la notte, non solo ora che ha bisogno di addormentarsi. C'è qualcosa di magico in questo, c'è qualcosa di magico in lui, e a volte mi chiedo se standogli così accanto non riesca a diventare magico anch'io, giusto quel che basta perché mi noti, perché mi dica ehi, Jack, sai che oggi i tuoi capelli sono proprio una figata, perché mi sorrida col cuore pensando a quanto cavolo significhi per lui e quanto cavolo starebbe male senza di me, perché mi guardi negli occhi, mi prenda il viso fra le mani e...
Porca miseria, mi sono addormentato un'altra volta. Quando faccio questi pensieri non so mai quando sono lucido e quando invece sono già crollato - in genere distinguo le due cose solo al risveglio, quando la realtà mi prende a pesci in faccia e mi ricorda che sono sì un innamorato, ma non un ricambiato, e che questi castelli in aria mi feriscono più di quanto creda - e anche quando mi sveglio non è che sia poi così diverso. I frammenti del sogno interrotto mi si sovrappongono alla visione normale, creando accostamenti surrealmente belli che mi fanno venire la pelle d'oca e intrecciare lo stomaco, e quando mi volto a guardare Alex ho sempre l'impressione che sappia che l'ho sognato ma che taccia per mantenere vivo il nostro rapporto, ma anche se l'illusione svanisce appena i sensi riprendono il controllo, forse è davvero così, forse si è davvero accorto di qualcosa e me lo nasconde perché mi vuole troppo bene per perdermi. Mi tiro su e mi appoggio coi gomiti per il poco che mi è concesso, visto che Alex è ancora attaccato alla mia mano, respiro, chiudo gli occhi e mi concentro su ciò che mi circonda, rilassando i muscoli. La camera di Alex ha un odore speciale, un misto fra quello dolce del ragazzo che la occupa, il mio e quello delle decine di libri e CD che sovrastano tutto dall'alto della libreria, squadrando chiunque metta piede nel loro regno e comunicandogli un senso di familiarità e calma caratteristico del loro proprietario. Espiro silenziosamente e mi rimetto giù, chiudendo nuovamente gli occhi; lascio vagare i pensieri e mi concentro sul ticchettio dell'orologio del bagno, che ha una cadenza soffice e regolare, udibile solo quando dentro tutto tace; e per un po' di tempo faccio finta che il resto del mondo non esista. Una ventina di minuti dopo, Alex si sveglia.
Mugola qualcosa d'incomprensibile, si stropiccia un occhio con la mano libera e lascia ciondolare le dita davanti al volto per un paio di secondi, prima di ritrarle e voltarsi verso di me. Dal canto mio, ho chiuso gli occhi appena in tempo e ho visto abbastanza video con me che dormo per essere perfettamente in grado di riprodurre il lieve russare che mi caratterizza quando non sto affrontando un incubo; così appesantisco un po' il mio respiro, rilasso il più possibile i muscoli e continuo con la mia messinscena. Alex tace, sento il suo sguardo appannato bucarmi la pelle e la cosa mi mette leggermente a disagio; sfila le sue dita dalle mie e si tira un po' su, staccando il suo corpo dal mio. Probabilmente deve andare in bagno, penso, ma non sento il materasso sollevarsi e mi rendo conto di essermi sbagliato, rimanendoci male per la mano. Ma chi lo sa, forse sto sudando come un maiale e non me ne rendo conto perché non posso toccarmi dall'esterno, e in questo caso è meglio che si sia staccato, così almeno domattina non si sveglierà madido di sudore e io potrò evitare di vergognarmi come un cane. Emetto un verso giusto per fargli sapere che nel mio sogno è accaduto un imprevisto ma non mi muovo, rannicchiato con la mano sul suo cuscino, in attesa del suo ritorno, e lo sento respirare lentamente, a quello che sarà un terzo di metro di distanza. Forse ha un attacco di nausea o mal di pancia, dopotutto ha la febbre e non è neanche venuto a mangiare un boccone prima; forse dovrei smetterla di fingere e andargli a prendere una pasticca giù in cucina così che possa sentirsi meglio; ma l'unica cosa che faccio è aspettare e rilassare ancora di più i muscoli, concedendomi il lusso di aspettare la sua prossima mossa prima d'intervenire in qualche modo, ma la cosa non sembra dispiacergli. Seduto sulle ginocchia, respira e tace, avvolto da un manto di silenzio e sogni interrotti; tace e aspetta qualcosa, ma cosa non lo posso sapere. Aspetto cinque minuti poi apro gli occhi, magari sta proprio male. Sposto lo sguardo su di lui e incontro il suo, vivo, profondo, pieno di mistero e sicurezza; rimaniamo a fissarci per un po' senza dire nulla, poi si alza e va in bagno. Io rimango fermo. Ho la pelle d'oca e solo quando è fuori dal mio campo visivo mi permetto di cominciare a tremare. Il mio cervello è scomparso, non riesco a pensare a nulla e nulla riesce ad attirare la mia attenzione; rimango immobile e attendo, sciogliendomi dentro l'ambiente circostante; attendo e rimango immobile, deglutendo. Quando torna si corica al suo solito posto senza dire una parola, guardando verso il muro, si tira la coperta fin sopra la spalle e poi l'abbassa, porgendomi la mano. La stringo in silenzio e rimaniamo fermi per un po', poi è lui a rompere il mantello taciturno che ci ha ricoperti.
«Ci hai mai pensato a perché siamo sulla terra?» domanda, sistemandosi sulla schiena e girandosi a guardarmi in volto.
«Continuamente» rispondo, facendo vagare stancamente le iridi sul soffitto. Una delle cose a cui penso di più, credo.
«Io non ci ho mai fatto troppo caso» ammette francamente, spostando lo sguardo verso l'infinito, «ma ultimamente penso molto ad altro. Dì un po', Jack, distruggeresti mai qualcosa di perfetto solo per renderlo bellissimo?»
Lo guardo. «Non lo so. Perfetto non implica di per sé che quel qualcosa sia già bellissimo?»
«Dipende da cosa si parla. Un maiale può anche essere un esemplare perfetto, ma non per questo è bellissimo».
«Hai un modo molto poetico e dolce di esprimere i concetti» commento. «Allora può darsi di sì, probabilmente lo farei.»
«E se una volta bellissimo, quel qualcosa non riuscisse più a tornare come prima?» insiste, tornando a guardarmi.
«Be', me ne farei una ragione. La perfezione non esiste» ribatto, scrollando le spalle. Sembra abbastanza soddisfatto dalla mia risposta, così rimane in silenzio e rimugina per un po', mentre io respiro.
«Jack, non tagliarti più» esclama dopo un po', piantando lo sguardo sulla mia pelle. Non rispondo, perdendomi nell'infinito, lui si accoccola nell'incavo tra il mio mento e il mio petto e tace, le dita nuovamente intrecciate con le mie, dolcemente. Appoggio la testa contro la sua e inspiro il suo odore, riempiendomene i polmoni fino a farmi male; espiro silenziosamente e deglutisco, tornando a guardarlo. «Prometto» mormoro, annuendo abbozzatamente un paio di volte. Respira a fondo, sorride come un idiota e si stringe forte contro il mio petto, imprimendo la forma della sua testa su di me.
«Ti voglio bene Jack» sussurra, le labbra che mi solleticano la pelle.
«Ti voglio bene anch'io, Alex» dico, accarezzandogli i capelli. Vorrei che questo momento durasse per sempre.
«Grazie» dice dopo un po', mi lancia un ultimo sorriso, sbadiglia e chiude docilmente gli occhi, senza spostarsi. Spero solo che non si metta a badare al mio battito cardiaco, perché penso che fra un po' il sangue mi sarà pompato direttamente fuori dal torace, altro che nelle vene. Si addormenta subito e io con lui, portandomi la gioia nel viaggio.




Note: In realtà l'ho scritta come una one shot quindi non lascia in sospeso o nulla, solo che sta diventando davvero troppo lunga per essere pubblicata come un capitolo solo e non avevo altra scelta se non dividerla in più parti, quindi se rimanete un po' 'Ma che cazz', sappiate che è colpa mia fino a un certo punto ghjkg. Che poi in realtà questo capitolo potrebbe essere diviso in due per la lunghezza ma okay, è stata un impresa trovare un primo spacco vagamente adatto, figuratevi a trovarne due. Boh grazie se siete arrivati qui, vi amo tutti cwc

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


there's room for two six feet under the stars cap2 Quando la sveglia comincia a suonare e apro gli occhi, Alex è ancora aggrovigliato a me, mi soffia addosso con la sua aria calma e rilassata di ogni giorno e sorride, pacioso, mentre sogna chissà cosa; e non so in che modo sia riuscito a spostarlo ed alzarmi per andare a vestirmi, se ci penso non riesco a non darmi del deficiente patentato. Ma se salto scuola e mia madre lo viene a sapere va a finire che mi manda in collegio, quest'anno le ho dato già abbastanza problemi a sentire quel che dice, e se mi salta in mente di pisciare mi srotola le budella, parole sue. Quindi a malincuore sono dovuto sgusciare via dalle braccia di Alex, lasciandomi alle spalle il suo odore, il suo calore e la sua stretta rincuorante, per dirigermi verso il posto che più detesto la mattina presto, il mio liceo schifio pieno di gente schifia e materie schifie. Che poi chiariamo, la scuola può pure essere interessante se ti capitano le materie giuste, ma se ciò che studi lo scegli quando sei fatto allora non puoi proprio sperare di cavartela con lezioni fighe e minimamente utili per il tuo futuro, anzi; molto probabilmente capiterai in aule di letteratura capitanate da una professoressa che sembra avere una paura matta dei suoi stessi studenti, scienze della comunicazione, economia, recitazione et similia, dove trovare un qualche amico simpatico è un'impresa altrettanto dura che farti promuovere senza carenze. Insomma, mi sparerei da solo per ciò che mi sono scelto, e butto nuovamente in campo il fatto della tomba: sono un deficiente con tendenze masochiste per farla breve.
Quando entro in classe sono accolto come al solito da un'aria pesante e viziata, contornata da una ventina di ragazzi che urlano e strepitano fin da quando cominciano a radunarsi davanti al portone dell'edificio, verso le sette e un quarto, e da una lavagna strabordante di disegni e prese in giro d'insegnanti e alunni. Prendo posto vicino alla finestra, dove mi metto di solito, lascio cadere lo zaino accanto a me e alzo lo sguardo verso l'esterno, sovrappensiero; quando ecco che Nick, accompagnato dalla sua aria gaiamente eccitata, si fa largo fra la folla dirigendosi verso di me, sventolandomi un sorriso smagliante sotto il naso. Cos'avrà da essere così felice di primo mattino, lo sa solo lui. E purtroppo fra poco anch'io.
«Eeeehiii, Jaaack!» gongola, percorrendo di corsa gli ultimi due metri, «indovina cos'è successo!»
«Hai trovato una ragazza?» butto lì, visto che ultimamente si stanno fidanzando tutti. Viva la primavera!
«Uh? No, non sono innamorato di nessuna» ribatte, accigliandosi leggermente. Scrollo le spalle, rassegnandomi.
«Non ne ho idea allora, mi arrendo» esclamo con un sospiro che lui interpreta come un segno d'eccitazione condivisa.
«Mi trasferisco!» annuncia mettendosi i pugni sui fianchi.
«Che cosa? E dove?» domando, perdendo per un attimo il mio aplomb distaccato. Dio, grazie, grazie, grazie!
«A un isolato da casa tua» risponde subito, come se stesse fremendo da ore per dirlo a qualcuno altrettanto emozionato.
«No, aspetta, cosa?» ripeto, la mascella che a momenti mi cade per terra.
«Massì, hanno licenziato mamma, così abbiamo preso in affitto una di quelle villette a schiera come la tua, visto che sono molto meno care; e visto che avevo già amici in zona, i miei hanno preferito optare per venire qui intorno» mi spiega.
«Non ci posso credere» boccheggio, spiazzato. 
«Lo so, è fantastico» conferma lui, sfoggiando un altro sorrisone a cinquantamila denti, «non vedo l'ora!»
«Tutti ai posti» esclama nel frattempo la professoressa, entrando in classe con un pacco di compiti sotto il braccio e una tazzina bianca di caffè nella mano sinistra; gli alunni migrano ai loro banchi e io rimango di nuovo da solo, incredulo.
«Brutte, bruttissime notizie» scrivo velocemente; poi prima d'inserire il destinatario mi blocco e osservo il cellulare con aria indecisa, me lo rinfilo in tasca dopo aver salvato il messaggio e lascio stare. Avvertirò dopo Alex, meglio lasciarlo dormire finché può; e poi per ora non ho abbastanza informazioni per svegliarlo e metterlo al corrente della situazione in modo soddisfacente, tanto vale aspettare nuovi riscontri e informarlo durante la ricreazione. Tiro fuori quaderno, astuccio e diario e comincio a scarabocchiare sul banco, elaborando tra me e me una maniera per evitare d'invitare Nick ai futuri barbecue di quartiere e rimanere comunque nei limiti dell'educazione, secondo la fissazione di quella maniaca di mia madre, ma nessun metodo mi soddisfa fino in fondo. Che accollo, cazzo. Comunque la prof comincia a spiegare, quindi posso tranquillamente isolarmi nel mio mondo di fantasia senza rischiare di essere interrogato. Oh, gaudio.
La ricreazione arriva più lentamente di quanto sperassi inizialmente, accompagnata dal trillo acuto della campanella e dallo sbuffo seccato della professoressa, ancora lontana dalla fine della spiegazione; sguscio via dal mio banco prima che a Nick possa saltare in mente di raggiungermi e continuare la nostra conversazione e mi dirigo verso il bagno assieme agli altri ragazzi, che, sbadigliando, commentano quanto sia stata una palla la lezione e quanto vorrebbero tornarsene a casa a dormire.  Se penso che io stamattina stavo dormendo abbracciato ad Alex mi vengono i brividi, ma non è il caso che lo dica o ci pensi, ho davanti ancora quattro noiosissime ore che intendo passare arroventandomi il cervello per trovare un modo di salvaguardare il mio vicinato, e non per farmi film mentali sul nostro futuro assieme.
«Ehi Barakat, noi andiamo alla macchinetta a prenderci qualcosa da mettere sotto i denti, vieni anche tu?» propone Rian.
«Puoi scommetterci le chiappe, so che muori dalla voglia di offrirmi un caffè» esclamo subito, girandomi di scatto. Quello che non mi aspetto è di avere un capogiro e cadere a terra come una pera cotta, davanti agli occhi a metà tra il divertito e lo sgomento dei miei amici, che corrono subito verso di me e mi posano una mano sulla spalla, apprensivamente ma comunque sul punto di scoppiare a ridere, quasi non fossi neanche loro amico.
«Jack? Tutto okay, bello?» ride Rian, ma la risata gli muore tra le labbra quando fissa il suo sguardo sul mio, appannato.
«Rian, ci vedo doppio» mormoro in un sussurro, sgranando gli occhi e piantandoli dentro ai suoi, grandi e neri; deglutisce, digrigna la mascella e stacca la mano dalla mia spalla, senza smettere di guardarmi per un secondo.
«Vado a cercare aiuto, non ti muovere» mi dice, in un tono spaventato e serio che non credo di avergli mai sentito usare; annuisco fievolmente e lo guardo schizzar via, mentre il castano rimane lì con me e mi si avvicina, inginocchiandosi.
«Ce la fai ad alzarti?» mi domanda lentamente, lanciandomi un'occhiata soffice, e io scuoto la testa, deglutendo.
«Non saprei che mano stringere» aggiungo; Zack annuisce e lascia la mano premermi contro la spalla, delicatamente, poi dopo un po' si alza e viene a sedersi accanto a me, guardandomi negli occhi.
«Vuoi che chiamiamo Alex?» chiede, senza staccare lo sguardo da me per neanche un istante. Sono tentato da dirgli sì, chiamalo, chiamalo e digli che sto male e ho bisogno di lui e che non ci capisco niente e ho paura, poi mi torna in mente che non è neanche venuto a scuola oggi e scuoto la testa, senza volerlo caricare di ulteriori problemi; lui si limita ad annuire in silenzio e rimaniamo là un altro po', osservando il nulla. Provo a tirarmi in piedi appoggiandomi a lui ma le gambe mi cedono prima che io sia anche solo a metà strada, e dopo Zack non mi permette di fare altri tentativi, temendo che possa spaccarmi il cranio contro il pavimento. Rian arriva dopo quattro, cinque minuti, ma il tempo passato sembra un'eternità; alle sue spalle c'è l'infermiera della scuola, una donna forte e decisa che ormai ci conosce come le sue tasche per quanto spesso ci facciamo male e veniamo a farci mettere due cerotti da lei, ma questa volta è diverso, lo capisco dal suo sguardo. Si china su di me e mi guarda negli occhi, puntandomi contro una luce; annuisce soddisfatta quando vede le mie pupille dilatarsi e armeggia un po' dentro la sua borsa bianca per tirare fuori qualcos'altro.
«Hai mangiato qualcosa di strano fra ieri e oggi?» mi domanda, chiudendo le dita attorno a un oggetto allungato. Mi viene in mente il piatto della mamma di Alex e mi lascio scappare un sorriso, però so che non è quello ad avermi fatto male, l'ho già assaggiato altre volte a casa di alcuni parenti, quando ero più piccolo.
«Hai preso qualche botta in testa, qualcosa che possa averti lasciato tramortito o intontito?» insiste, ma davanti al mio no storce la bocca. «Hai per caso bevuto qualcosa prima di venire qui o - dio non voglia - durante la ricreazione?»
Scuoto la testa un'altra volta, e solo ora mi accorgo che mi fa un male cane. «Da quant'è che non mangi?»
Biascico un 'ieri sera verso le otto e mezza', poi mi ricordo della colazione e rettifico, aggiungendo che stamattina mi sono preso una tazza di caffè e una di cereali, anche se poi non ho finito né l'una né l'altra; lei annuisce e rimette a posto l'attrezzo, probabilmente quello sbagliato, senza nascondere un velo di fastidio per non aver trovato subito quello giusto.
«Aspetta, fammi provare una cosa» dice dopo un po', spostandomi la frangetta dalla fronte e rimanendo in attesa qualche secondo, in silenzio. «Potrei bollirci un uovo sulla tua fronte» commenta, alzandosi in piedi e dirigendosi verso il lavandino; tira fuori un fazzoletto, lo bagna e torna indietro, premendomelo contro la testa con delicata decisione.
«Tienilo lì, vado a chiamare a casa» mi annuncia; io annuisco docilmente e rimango seduto circondato dai miei amici, sospirando silenziosamente fra me e me. Non troveranno nessuno a casa. Probabilmente verrà a reclamarmi la zia, che poi mi farà una ramanzina per averla costretta a prendere un permesso da lavoro, o se sono abbastanza fortunato la mamma di Alex, ma a casa il telefono squillerà per ore senza che nessuno lo senta. Sono quasi sul punto di avvertire la dottoressa di non provarci neanche, tanto è inutile, poi rinuncio e torno a concentrarmi sulla pezza che mi sgocciola sulla fronte, mentre un rivolo d'acqua mi corre lungo la guancia, si getta oltre il collo e mi bagna la maglietta, infastidendomi.
«Vado a prenderti un the» fa dopo un po' Rian, alzandosi in piedi, togliendosi la polvere dalle gambe e uscendo dal bagno.
«Jack, non c'è nessuno a casa, vero?» domanda Zack, voltando poco il volto per guardarmi annuire.
«Qual è il secondo numero d'emergenza?» chiede di nuovo, stavolta fissando il vuoto davanti a sé.
«Non ne hanno» rispondo, sospirando rassegnato «ma forse chiameranno dai Gaskarth, visto che siamo sempre insieme».
Annuisce; «Sarebbe una cosa buona» commenta, poi si alza, tira fuori dalla tasca un altro fazzoletto e lo inumidisce.
«Credi che si arrabbieranno, ad avere un altro malato tra i piedi?» domando quando me lo passa, e lui scrolla le spalle.
«Non vedo perché dovrebbero» ribatte.
«Quello che pensavo anch'io» mormoro, «ma dopotutto la gente è strana».
Rian torna con il the, me lo passa e dopo qualche minuto entra pure la dottoressa, massaggiandosi il collo.
«Accidenti, non so che dire, ho chiamato sia tua madre che tuo padre ma hanno entrambi la segreteria telefonica, e non ho nessun altro che abbia la delega per farti uscire» mi dice, squadrandomi con preoccupazione. «Da chi puoi andare?»
«Sono stato mezzo adottato dalla famiglia Gaskarth» dico, lei annuisce e corruga la fronte.
«Oh, quelli» si stupisce. «Ce li ho ben presenti, sono personcine molto a modo e lei è molto gentile. Vado a chiamarli».
Quando ha ormai girato i tacchi e percorso tutto il corridoio, Rian si gira verso di me e mi stropiccia i capelli.
«Dai campione, vedrai che nel giro di pochi giorni sarai di nuovo sano come un pesce» sorride, ritirando indietro la mano.
«So che muori dalla voglia di tornare alle spiegazioni della Tidell ma non preoccuparti, ti porteremo noi i compiti, non ne perderai neanche una» scherza poi, e mio malgrado mi lascio scappare un sorriso. Che scemo.
«Ha risposto al secondo squillo, una vera padrona di casa» commenta la dottoressa, comparendo dal nulla. «Mette in moto la macchina e ti viene a prendere, comincia a preparare lo zaino; ma vedi di non affaticarti troppo per un paio di giorni o non ti passerà mai. In caso di peggioramenti chiamami pure» si raccomanda, poi mi aiuta a tirarmi in piedi e lascia che siano i miei amici ad accompagnarmi in classe a recuperare la mia roba. La campanella è suonata da ormai venti minuti e i miei compagni sono nel bel mezzo di una lezione, ma quando la professoressa vede la mia faccia pallida annulla la nota e permette a Zack e Rian di restare con me fino all'arrivo di chi si prenderà cura di me, lanciandomi uno sguardo apprensivo quando lascio l'aula per la seconda volta, stavolta accompagnato dallo zaino. Nick mi chiede come sto ma mi prendo il permesso di ignorarlo e arranco fuori dalla porta, sempre aggrappato al braccio di Rian; ci fermiamo dopo pochi metri per permettermi di riprendere fiato, ricominciamo a camminare e arriviamo finalmente nell'androne, dove fra poco dovrebbe comparire la mamma di Alex con un grande sorriso a metà fra il 'cavolo, è colpa mia' e il 'be', almeno potrò rimediare'. Mi siedo sugli scalini e mi prendo la testa fra le mani, mentre Zack mi accarezza premurosamente la schiena. Arriva dopo dieci minuti col respiro ansimante, come se avesse corso.
«Oh Jack, eccoti qui» esclama venendomi incontro «scusa se c'ho messo tanto, ma ho incontrato un sacco di traffico».
Poi nota gli altri e le labbra le s'increspano in un sorriso sollevato: «Ehi, ragazzi! Grazie per avergli tenuto compagnia!»
«Ehilà, signora Gaskarth» la risalutano loro, un po' a disagio ma comunque contenti che sia arrivata.
«Alex vi saluta tutti e ci tiene a dirvi che gli mancate» precisa, pimpante, e loro sorridono, alzandosi in piedi. Mi danno l'ultimo saluto e mi lasciano andare, poi salutano gentilmente anche lei e se ne vanno, tornando svogliatamente in classe.
«Vieni, ho parcheggiato proprio qui di fronte» mi mormora, passandomi un braccio attorno alle spalle per aiutarmi. La ringrazio, mi appoggio a lei e barcolliamo assieme fino all'uscita; poi sblocca la macchina, apre la portiera e mi lascio cadere sul sedile di dietro, atterrando con un tonfo morbido mentre lei si mette al volante.
«Mi sa che Alex ti ha attaccato la febbre» commenta, lanciandomi un'occhiata dallo specchietto retrovisore. Gorgoglio.
«Grazie per essermi venuta a prendere, i miei sono fuori città e torneranno fra qualche giorno» mormoro stancamente.
«Di nulla, ma faresti meglio a dormire ora. Ti sveglio io quando arriviamo, non preoccuparti» mi tranquillizza. Sorrido, appoggio la testa al finestrino e socchiudo gli occhi, offuscando ulteriormente la mia vista già compromessa. Crollo subito.

«Ehi, Jack, svegliati» mi chiama con dolcezza, scuotendomi delicatamente la spalla. «Siamo arrivati. Ti ho preparato un letto in camera di Alex, ma non sono abbastanza forte da prenderti in braccio e portarti su per le scale. Mi dai una mano?»
Apro gli occhi e la trovo a qualche centimetro di distanza da me, e per un istante mi sembra più stanca di me.
«Arrivo» gorgoglio, passandomi una mano sugli occhi e alzandomi facendo leva sull'altra. Lei mi porge il braccio e io lo afferro, grato; camminiamo lentamente per incontrare la porta di casa già aperta e ci dirigiamo verso le scale, che saliamo impiegandoci quella che mi sembra un'eternità, poi lei mi lascia davanti alla stanza di Alex. Mi ha davvero preparato un letto, noto stupendomi; mi giro per dirle un grazie un po' impastato ma lei è già scesa, così mi limito a sorridere, entrare e lasciarmi cadere sul letto, scontrandomi con l'abbraccio morbido del piumone. Alex dorme nel letto accanto al mio, le pupille che corrono freneticamente sotto le palpebre serrate, ma non ho abbastanza forza per rialzarmi e accovacciarmi al suo fianco, così mi limito ad afferrargli la mano e a tenergliela stretta finché non mi addormento, dopo pochi secondi.
Quando mi sveglio la stanza ha smesso di girare, il silenzio mi circonda e Alex si è svegliato da poco, è scivolato nel mio letto e sta aspettando che apra gli occhi; così quando lo faccio non devo neanche cercarlo per la camera per trovarlo.
«Come stai, Bassam?» mi domanda, soffice.
«Non chiamarmi Bassam» ribatto, chiudendo di nuovo le palpebre, e sento che ride.
«Sembra che Nick dovrà fare a meno della tua presenza oggi» commenta, e stavolta sono io a ridere. Che scemo.
«Mi ha chiesto come stavo quando stavo uscendo, ma non credo di avergli risposto» mormoro.
«Gentile però» osserva, tornando a osservare il soffitto.
«Ero pallido come una mozzarella, se lo stavano chiedendo tutti» ribatto cocciutamente; e lui lascia perdere.
«Quando tornano i tuoi?» chiede poi, continuando a far scorrere lo sguardo sul bianco che ci sovrasta. Scrollo le spalle.
«Li conosci, se gli arriva qualche altra richiesta sono capacissimi di fare retromarcia e tornare fra due anni».
«Jack Gaskarth. Suona di merda, non trovi?» commenta, sornione.
«Non credere che Alex Barakat sia meglio» ribatto.
«Secondo me ormai hai perso il diritto di chiamarti Barakat, sei diventato un Gaskarth» ride.
«Daje, passiamo da un cognome di merda a uno ancora più assurdo» commento, mezzo compiaciuto.
«Guarda che ti butto fuori» minaccia, fingendosi piccato. Poi torna a sorridere. «T'immagini se fossimo fratelli?»
Sarei un ardente sostenitore dell'incesto, allora, ma dico un'altra cosa. «Secondo me ci avrebbero già venduti agli zingari»
«Addirittura venduti? Regalati dopo la prima settimana» ride «e poi restituiti al mittente con una lettera di lamentele lunga un chilometro e mezzo. Direi che siamo fortunati ad essere solo amici».
Mi fa male il cuore. 'Solo amici' e 'fortunati ad essere' non dovrebbero mai essere accostati, mai, neanche per sbaglio.
«Be', oddio, magari saremmo come quei bambini dei film che vengono scoperti da qualche star mentre bighellonano per i vicoli strimpellando una chitarra e vengono scritturati per incidere decine di dischi» commento.
«Può anche darsi, ma onestamente la vedo molto, molto dura» ammette. «E poi non sei così bravo»
«Ma vaffambrodo, parla lui» lo spingo e lui ride.
«Lo sai che sei molto più bravo di me Jack, non c'è bisogno di dirlo» mormora; poi tace un attimo. «Mi ha detto mamma che avevi in mente qualcosa ma che volevi farmela sentire quando sarei stato bene, che ne dici di fare uno strappo e farmela ascoltare ora?» dice. Lo osservo, stranito. Non pensavo gliel'avesse detto.
«Non ho la chitarra a portata di mano» osservo.
«Questo lo vedo, però hai una lingua e delle corde vocali. Spara» insiste, guardandomi dal basso.
«Non posso fartela sentire dopo? È imbarazzante» mi ritraggo, arcuando le sopracciglia.
«Cioè, non ti sei vergognato a dormire nudo con me e ti vergogni a cantarmi quattro righe? Dai, non fare il coglione e fammi sentire» ribatte, allegramente ma deciso. Prendo un respiro profondo e cerco di non arrossire come un idiota.
«Okay. Ma sai che sono negato a cantare, non sfottermi» chiarisco.
«Non ti sfotterò. Vai» sorride.
«Okay, er, non è finita, in realtà è poco più che un abbozzo, e con una melodia sotto sarebbe cento volte più carina-»
«Jack!» esclama, soffocando una risata. Oh Dio, non ce la posso fare.
«Okay, okay, ce la posso fare. Okay» iperventilo quasi, mi sento un deficiente. Vorrei essere un libro, aiuto.
«In teoria dovrebbe esserci una parte prima di questa, però non c'ho ancora pensato e non lo so, non è che finora mi sembri tutta sta meraviglia di pezzo ma okay, andiamo» prendo un respiro e comincio a cantare, vergognandomi come un ladro che si accorge di star svaligiando la casa sbagliata dopo settimane di appostamenti. «Memories never seem to fade; you were the best part of my life, my last regret. Now, I've walked this line a thousand times before, it hurts too much to bear. For you I'd tear out my own heart and write our names together. Your love is the barrel of a gun so tell me, am I on the right end? I could be nothing but a memory to you, don't let this memory fade away»
Mi fermo improvvisamente e mi passo una mano sulla faccia, stirandomela. Oddio che imbarazzo immondo; uccidetemi, vi prego. «Te l'ho detto, è incompleta e fa schifo, con la chitarra sarebbe sembrata almeno decente» farfuglio, lui mi ferma.
«Sei uno scemo Jack, è bellissima; rilassati» ride, mentre io comincio a riprendere colore.
«È bellissima» ripete, tornando a poggiare la testa contro il mio petto «vorrei averla scritta io».
Non lo vorresti davvero, mi viene da dirgli, ma taccio e accetto il complimento.
«Sicuramente cantata da te farà molto più effetto, ma non so se agli altri potrebbe piacere. Dopotutto è sdolcinata».
«E allora?» ribatte, guardandomi con un sopracciglio alzato «Sdolcinata non significa uno schifo, e poi non è neanche così sdolcinata come pensi. È bellissima e basta, il resto non conta». Torna a sistemarsi nell'incavo del mio petto.
«Non lo so, ho paura che sia una gran stronzata» ammetto, guardando il soffitto, ma lui scuote la testa.
«Non hai il diritto di commentare, okay?» m'incalza.
«Okay» rido. Soddisfatto, torna a guardarmi, la mano stesa sul mio stomaco.
«Jack, mi scrivi una canzone?» mormora.
«Cosa» rido di nuovo, senza capire. Lui, che oltre a cantare suona e compone, vuole che io scriva qualcosa per lui?
«Dai, provaci. Dopo otto anni di amicizia qualcosa dovrò pur ispirarti, no?» insiste, facendo una smorfia divertita.
«Alex la febbre ti da' alla testa, torna a dormire» ribatto, imbarazzatissimo.
«Io una canzone te l'ho scritta» dice. Mi volto a guardarlo.
«Seriamente?» domando.
«Huh-uh. Ma non ti dirò mai qual è» sogghigna soddisfatto poi, beccandosi una schicchera. Ha scritto decine di canzoni, come diavolo dovrei fare a riconoscere la mia in mezzo a tutta quella roba, sempre che sia tra quelle che ho ascoltato?
«Alex sei un pezzo di merda» mi lamento, e lui accetta di buon grado la cosa, poi torna a guardarmi.
«Me la ricanti?» chiede, improvvisamente serio. Deglutisco e ricomincio, poi finisco e lui si rimette a guardare la porta.
«Non so se ti ricordi, ma quando eravamo piccoli siamo andati a giocare a paintball, una volta. Abbiamo eliminato subito i nostri genitori, e in men che non si dica la battaglia è finita con l'essere me contro te, senza più nessun altro concorrente in campo. Ci siamo rincorsi per ore, infrattandoci in tutti i nascondigli più assurdi e saltando ovunque per evitare i proiettili di vernice, e alla fine ci siamo trovati faccia a faccia, io senza più munizioni, tu con uno o due colpi rimasti. Ci siamo guardati e stavo per dirti 'va bene, hai vinto', ma tu hai sparato a un bersaglio e hai detto 'cavolo, mi sa proprio che siamo pari.' Sei stato molto carino» mormora, lo sguardo perso nel vuoto.
«Oh» mormoro «non me lo ricordavo».
Alex tace e annuisce un'altra volta, poi abbandona l'infinito e si concentra su di me. «Secondo me chiunque si trovi nella stessa situazione, con te indifeso e pronto ad arrenderti e con in mano una pistola carica di proiettili, e scelga di spararti contro, non può essere che un coglione da abbattere senza pietà».
Sorrido, lo stomaco mi fa fizzle. Lo dice sempre anche Alex, quando è felice e si sente caldo dentro.
«Senti Alex» riprendo dopo un po' «tu che ne pensi dei transessuali?»
Lui mi guarda e ride, poi continua a sorridere. «Stai cercando di dirmi che vuoi diventare una donna, Jack?»
«Huh? No, neanche per sogno» esclamo, ma lui continua a ridere. «Ho la febbre, Cristo santo, lasciami vivere!»
«Ti piacerebbe» scherza, poi storce le labbra in una smorfia allegra e riprende: «Oddio, non mi opererei mai per diventare una ragazza, ma se qualcuno vuole passare all'altro sesso è liberissimo di farlo, sono affari suoi e sono felice per lui o lei se ci riesce; non credo che la cosa mi riguardi più di tanto». Sorrido, mi piace che sia aperto.
«Proseguendo su questo argomento, l'altro giorno al supermercato c'erano due ragazzi e una ragazza e lei parlava in continuazione con quello più alto, e sembravano troppo fidanzati di lunga durata. Mi sono chinato per prendere il latte, mi sono rialzato e c'erano i due ragazzi che si davano un bacio sulle labbra mentre lei trotterellava in giro con in mano un pacco di non so cosa, completamente tranquilla» racconta, inclinando la testa verso sinistra. Il mio battito rallenta di colpo e lui ci mette un po' prima di riprendere a parlare, come se si fosse ridisegnato la scena davanti agli occhi.
«Non pensavo che ci fossero membri della comunità LGBT nei dintorni» commenta semplicemente, scrollando le spalle.
«Non si può mai conoscere davvero la gente che ci circonda» convengo, pregando che continui.
«Questo è vero. Solo che a volte vorrei che venissero alla scoperta, non c'è niente di male ad amare qualcuno uguale a noi, c'è del male nel negare agli altri la possibilità di essere felici; ma se nessuno dice niente allora non si potrà mai chiarire le idee a tutti quelli che sono per l'unione uomo-donna e che a quelle omosessuali sputano in un occhio, perché diranno 'eh, ma il problema non si pone, non c'è nessuno che possa star male per le nostre idee', quando invece qualcuno c'è sempre, e di solito è quello che meno ti aspetteresti» mormora, osservando il soffitto.
«Voglio dire, se adesso Rian arrivasse e mi dicesse 'ehi Alex, devo dirti una cosa' e poi bam, scoprissi che è gay e che vuole dirlo a tutta la scuola, allora sarebbe un pugno in faccia a tutti quelli che non credono neanche esistano, i gay, e qualcosa succederebbe nella nostra città, anche se magari le cose non cambierebbero poi così radicalmente. Però sorgerebbe davvero il problema delle coppie e dell'accettazione, e forse anche tutti gli altri riuscirebbero a fare un passo avanti e dire 'okay, ho aspettato troppo a lungo; sono stanco di nascondere ciò che sono' e bam! Cambiano le carte in tavola».
«Gli direbbero che è normale nell'adolescenza e che è soltanto bicurioso» osservo, abbassando lo sguardo.
«E se anche fosse? Come io sono stato libero di mettermi con Siv e baciarla per strada, un altro dev'essere libero di stare insieme alla sua metà e camminare per strada a testa alta, senza timore di essere bottigliato» ribatte.
«Mi piace come la pensi» dico, quando lui è tornato a chiudere gli occhi e si è lasciato alle spalle il suo discorso.
«Bene» sorride «questa città ha bisogno di gente come noi». Poi tace un attimo, si tira su coi gomiti e mi si avvicina.
«Hai ancora la febbre?» domanda; scrollo le spalle e rispondo che non lo so, ho le mani calde quindi non si capisce. Lui annuisce, si sporge e afferra il termometro dal comodino, si acquatta di nuovo contro di me e me lo passa, lentamente.
«Misurati» mormora con tono serio, io lo fisso e lui contraccambia, poi capisce e mi spinge energicamente.
«Solo a quello pensi» esclama, alzando gli occhi al cielo.
«Io non ho detto nulla veramente, hai fatto tutto da solo» mi discolpo, prendendogli il termometro di mano e sistemandomelo sotto l'ascella, mentre lui torna al suo posto e sbuffa, divertito. Potrei abituarmi alla sua presenza.
«Jack» mi chiama un'altra volta, io rispondo con un 'mh?' e piego la testa per riuscire a guardarlo in faccia.
«Sono felice che i tuoi ti lascino sempre a casa nostra».
«Fizzle» squittisco, e mi sembra di scorgere un po' di colore sulle sue guance pallide. Mi stringe.
«Non volevo attaccarti la febbre» dice quindi, il viso premuto contro il mio braccio.
«È il duro prezzo per frequentarti» ribatto, storcendo le labbra in una smorfia palesemente finta «Ma se mi permette di prendermi una pausa dalle lezioni della Bowden e starti accanto più del solito, allora venga pure quando le pare».
«Grazie Jack» sorride, socchiudendo gli occhi. Quando sono con lui, gira tutto attorno al suo sorriso e ai suoi occhi.
«Di nulla» dico alla fine, giocherellando coi suoi capelli.
«È permesso? È l'ora delle medicine» cinguetta la signora Gaskarth dopo aver bussato alla porta, aprendola prima uno spiraglio e poi quasi completamente, entrando nella stanza con in mano un misto di pacchi e pacchetti di tutti i colori. Che tempismo, ragazzi. Si dirige verso il figlio e gli passa un involucro biancastro, raccomandandogli di prendere una pasticca ogni ora, possibilmente a stomaco vuoto.
«Vediamo un po' cos'abbiamo per te, Jack» fa poi, posando le scatole sulla scrivania, prendendo posto sulla sedia con naturalezza e mettendosi a esaminarle una per una, attentamente; ne trova un paio che la soddisfano e le mette da parte, ignorando completamente il fatto che Alex sia spalmato su di me e stia praticamente facendo le fusa sul mio petto.
«Huh-uh!» esclama, alzando un pacco e scattando in piedi. Si dirige verso di noi e me lo mostra dall'alto, al che aggrotto la fronte e strizzo gli occhi, facendole capire che non ci vedo nulla da sdraiato, calcolando che è pure controluce; si siede per terra e mi sventola davanti alla faccia il pacchetto, più colorato di quello del figlio.
«Ogni tre ore a stomaco pieno, puoi anche fare a meno dell'acqua» mi spiega, alzandosi e posando la scatola sul comò.
«Mi pare di capire che non abbiate voglia di scendere a mangiare, però» commenta, posandosi le mani sui fianchi. «Per me non c'è problema, ma se volete che vi porti il pranzo qui dovete dirmelo ora, visto che sto per uscire».
Fisso prima Alex poi il sorriso di sua madre, poi di nuovo lui. «Io qualcosa la mangerei» ammetto, alzando la mano.
«Alex?» domanda lei, sollecitando una sua risposta «Entro stasera magari?»
«Prendo qualcosa anch'io» dice, annuendo qualche volta per convincersi «ma dove stai andando?»
«Ehh, sapessi» sogghigna lei, punzecchiandolo «Penso di esserci stasera, in caso mangiatevi a vicenda. Dicono che la carne umana sia molto nutriente» scherza. Alex le fa la linguaccia.
«Molto divertente» commenta, e lei gli fa una smorfia di rimando, avvicinandosi alla porta e lasciandosi l'arsenale di medicine alle spalle; la sentiamo scendere le scale e poi più niente per una manciata di secondi, nei quali Alex starnutisce. Quando ricompare sullo stipite della porta, ha in mano un vassoio con dentro due piatti fondi, cucchiai, bicchieri, tovaglioli, acqua e un recipiente pieno di brodo di pollo, che ci prega vivamente di non rompere perché deve restituirlo a un'amica. La ringraziamo, lei ci augura di sentirci meglio presto e se ne va, chiudendosi la porta alle spalle e avviando la macchina dopo qualcosa come cinque minuti, che passano con una lentezza stratosferica ma comunque piacevole, visto che siamo ancora avvinghiati l'uno all'altro. Non ho molta fame ma non si può dire lo stesso per Alex, che mugola, infastidito dal doversi alzare, rotola verso il bordo del letto passandomi sopra e si spinge verso la scrivania, senza però voler lasciare la sua postazione. Rimane lì per un po', a soppesare i pro e i contro dell'alzarsi, lanciando ogni tanto qualche occhiata ai piatti di zuppa per assicurarsi che siano ancora lì; capisco l'antifona e mi tiro giù dal letto con un mugolio, barcollando faticosamente prima di arrivare alla scrivania e rovinare sulla sedia. Dio, la testa.
«Ohh, Dio» mormoro stordito, portandomi una mano alla fronte con una smorfia «mi gira tutto»
Alex alza la testa verso di me, vede che sono sbiancato, si sente in colpa e mi viene incontro, sedendomisi accanto e guardandomi apprensivamente. «Jack, devi mangiare qualcosa» dice poi, e quando scuoto la testa insiste.
«Dico davvero, se vuoi guarire devi mantenerti in forze; hai bisogno del cibo» pigola, avvicinandomi il piatto e un cucchiaio e invitandomi con gli occhi a prenderne un po', giusto per dare al mio corpo un po' d'energia. Mugugno di nuovo.
«Ho lo stomaco sottosopra» mormoro, ma Alex non mi sposta il piatto da davanti.
«Vuoi tornare a letto?» domanda quando capisce che non attacca, e io annuisco flebilmente, deglutendo.
«Vieni, ti aiuto io» si offre, passandosi un mio braccio attorno alla spalla e aggrappandosi col suo al mio fianco sinistro; mi accompagna nei movimenti e non mi permette di buttarmi contro il materasso, obbligandomi a sedermi prima, prende dal tavolo le medicine di entrambi e le lascia accanto a me, così che possa prenderle senza muovermi troppo, poi finalmente mi sorride e si stende accanto a me. Mi tende la mano, la stringo e mi rannicchio contro di lui, lasciandomi circondare dal suo abbraccio, e chiudo gli occhi. Quando li riapro è notte fonda.
Non credo che la mamma di Alex sia tornata, durante il mio sonno fuori programma: i piatti sono ancora sul tavolo, dove li abbiamo lasciati, e accanto a loro continua ad esserci il brodo, anche se ormai il suo vapore non s'immette più nell'aria; ma ho fatica a credere anche che sia rimasta fuori fino a quest'ora lasciando a casa due adolescenti febbricitanti, quindi non so davvero dove battere la testa. Che, a proposito, è ancora a pochi centimetri dal mento di Alex, che respira con cadenza tranquilla e regolare e mi circonda con le braccia da quelle che saranno ormai tre, quattro ore, senza avermi lasciato andare la mano. Non so se è la febbre a intontirmi o l'amore, però cazzo, non riesco a pensare.
«Alex?» mormoro, più per essere sicuro che stia dormendo che perché ho davvero qualcosa da dirgli. Non mi risponde e sorrido, in qualche modo sollevato, stringendomi più a lui e fermandomi a osservargli il petto, imprimendomelo nella memoria il più dettagliatamente possibile, per quando sarà lontano e non potrò guardarlo quanto e come voglio. Da così vicino riesco a sentire i battiti del suo cuore e la cosa mi fa avvampare non poco, al punto che comincio a provare un caldo insopportabile, di quelli che o te ne liberi o cominci a sudare come un maiale senza alcuna possibilità di fermarti; così appena me ne accorgo, allarmato, cerco di distogliere il pensiero, concentrar l'attenzione su qualcosa di fresco e corrente e distrarre un po' i miei ormoni, ovviamente senza riuscirci. Sguscio via velocemente dall'abbraccio di Alex, maledicendomi tra me e me, mi sfilo la maglietta con foga e l'appallottolo accanto al letto, senza badare a dove finirà; mi tuffo di nuovo tra le braccia del mio amico e spero di non aver rovinato anche questo momento, accovacciandomi il più vicino possibile a lui. Mormora qualcosa e contrae istintivamente i muscoli della mano, senza trovare la mia; grugnisce qualcos'altro e mi sbrigo a stringerla, intrecciando le mie dita con le sue. Sembra rilassarsi e mi rilasso anch'io, aspettando un paio di minuti prima di appoggiare anche l'altra mano sul suo petto, avvinghiandomi alla sua maglietta.
Quando dorme posso essere chi voglio e pretendere che i miei desideri siano reali, non importa quanto assurdi essi siano; non c'è nessuno a riportarmi coi piedi per terra e dirmi 'ehi, bello, è tutto frutto della tua immaginazione', così posso montarmi la testa e far finta di essere il suo ragazzo - o forse preferirebbe che fossi la sua ragazza? -, permettendomi di guardarlo, guardarlo e riguardarlo, al punto che se fosse possibile sarebbe sciupato e sgualcito, come quel libro che proprio non riesci a mettere giù nei momenti tristi e che malgrado tutto ti porti sempre con te. Ecco, non c'è posto in cui io vada che Alex non visiti con me, anche se il vero lui non ne è al corrente; e nei momenti come questo, quando tutto dorme e io e lui siamo gli unici esseri umani nei paraggi, mi sento in cima al mondo, la persona più fortunata e benedetta del pianeta. Pace, silenzio e il ragazzo che amo stretto tra le braccia; cosa potrei desiderare di più? Forse che mi amasse, ma mi basta stargli accanto per essere felice; dopotutto è l'essere più speciale dell'universo, stargli accanto è di per sé una qualche grazia divina.
«Jack...» mormora dopo un po', senza aprire gli occhi, con il suo solito tono impastato da sogno appena scomparso. Gli rispondo girando la testa verso di lui, ma continua a non guardarmi e a tenere le palpebre serrate. Credo stia sognando.
«Jack» ripete, con un tono più deciso stavolta, meno soffice e più addolorato; e il suo cuore accelera il battito.
«Jack» mi chiama un'altra volta, irrigidendo i muscoli del braccio e spostando la testa dall'altra parte, la mascella serrata e le sopracciglia corrugate in un'espressione tutt'altro che felice. Comincia a dimenarsi e un rivolo di sudore gli scorre lungo la guancia, andando a perdersi tra i muscoli del collo; mi spavento e gli stringo più forte la mano, scuotendogli la spalla.
«Alex, ehi Alex svegliati, è soltanto un sogno» farfuglio, accarezzandogli il palmo. Apre gli occhi di scatto, sgranandoli, e punta lo sguardo verso di me, a metà tra l'atterrito e il confuso, fa per aprire la bocca ma la richiude subito, limitandosi a buttarsi in avanti e stringermi a sé, tremandomi contro. Gli accarezzo i capelli e gli sussurro che va tutto bene, ci sono io qui, non ti succederà niente; lui annuisce stentatamente e mi lascia parlare, il volto affondato nel mio petto nudo, poi si stacca e mi guarda in faccia, le iridi lucide e dilatate.
«Jack, non abbandonarmi» mormora all'improvviso, aggrappandosi al mio sguardo.
«Non potrei mai» dico, circondandolo con le braccia. Non aggiunge altro ma scoppia a piangere, prima disperatamente, poi riprendendo il controllo di sé stesso; si asciuga gli occhi e respira a fondo un paio di volte, ricomponendosi del tutto.
«Okay, penso di aver finito» commenta, rispondendo con una risata nervosa al mio sguardo preoccupato; abbozza un sorriso stanco, mi prende le mani e mi tira verso di sé, facendomi accoccolare sul suo grembo. Mi abbraccia di nuovo e appoggia il viso sulla mia spalla, inclinandolo verso destra. «Scusa se non sono stato lì ad impedirtelo» mormora.
«Sappi che sei la persona più importante della mia vita» dice, baciandomi delicatamente la nuca.
«Grazie di esistere» sussurra poi, chiudendo gli occhi arrossati e sorridendo dolcemente. Mi volto a guardarlo e mi sembra tanto fragile quanto il filo di una ragnatela; mi viene da baciarlo ma mi trattengo, ricambiando l'abbraccio però.
«Ti va di parlarne?» propongo, ma lui scuote la testa.
«Sto bene» dice «ho solo bisogno di realizzare che era solo un sogno dettato dalla febbre. Va tutto bene». Annuisco docilmente e rimaniamo lì così, a cullarci l'un l'altro, finché i nostri cuori non cominciano a battere all'unisono, sovrastando il silenzio che ricopre tutto il vicinato. Un cane abbaia e il rombo di una moto invade una via non troppo lontana da qui, poi tutto torna silente e lui fa per aprire la bocca, richiudendola poi con una smorfia stanca.
«Grazie per prenderti cura di me ogni giorno» faccio invece, osservando le mie dita affusolate assieme alle sue.
«Ti voglio bene».
«Ti voglio bene anch'io» mormora, poi approfitta del fatto che mi sono spostato per stiracchiarmi e si alza, dirigendosi verso la scrivania. Prende in mano il piatto e torna a sedersi sul bordo del letto, guardandomi.
«Ormai farà un po' schifo, ma devi prenderlo per la medicina» mi ricorda.
«Posso cominciare da domani, dubito che tra tre ore sarò sveglio per prenderne la seconda dose» osservo.
«Jack, hai sentito quanto sei caldo?» m'incalza, e io mi ricordo all'improvviso di non avere più la maglietta.
«Okay, forse sono un po' caldino» ammetto «ma non ho davvero fame».
«Non mangi per fame, mangi per necessità» mi fa notare. Il ragionamento non fa una grinza, ma non mi va davvero.
«Ho lo stomaco chiuso, ti giuro che domani mangio tutto quello che vuoi» prometto; mi guarda, sospira e lascia stare.
«Okay, ma vedi di ricordartelo» si arrende, rimettendo il piatto sulla scrivania e lanciando un'occhiata alla sveglia.
«Sembra che siamo destinati a diventare creature della notte» commenta poi «sono le quattro».
Si siede accanto a me e poso la testa sulla sua spalla. «Ti ricordi quando i tuoi sono dovuti tornare in Inghilterra e ti hanno lasciato una settimana a casa mia per risparmiarti il viaggio, e noi eravamo così eccitati che la prima notte l'abbiamo passata in bianco, a parlare, parlare, parlare? Quando finalmente ci siamo addormentati albeggiava, e il pomeriggio dopo ci siamo ammalati tutti e due, facendo prendere un colpo della madonna a mia mamma, che pensava fossimo usciti di nascosto o qualcosa del genere, e che non riusciva a capire come diavolo avessimo fatto a superare la porta chiusa. Io mi sentivo stanchissimo, ma tu sembravi fresco e riposato come una rosa e correvi avanti e indietro per la stanza per farmi ridere, fregandotene della febbre. Anche allora eri premuroso da morire» mormoro. Sorride piano, sospirando.
«Mi piace quando ricordi il passato» dice, socchiudendo gli occhi «mi fa sentire caldo dentro». Mi guarda. «Grazie per essere venuto a trovarmi, Jack. Mi piace stare con te». Chiude nuovamente gli occhi e lascia ciondolare la testa sulla mia per un po', poi quando i nostri respiri si sincronizzano si butta sul materasso e mi tira giù con sé.
«Qualche ora fa ha telefonato tua madre» mi avvisa di punto in bianco «voleva parlare con te riguardo la telefonata che ha ricevuto dalla scuola, ma le ho detto che stavi dormendo e che stavi male, e che avrebbe fatto meglio a richiamare un'altra volta, perché non avevo nessuna intenzione di svegliarti. Ha detto che si farà sentire presto».
La notizia mi lascia un po' sconsolato. Non voglio che torni in città e mi porti via da qui. «Ha detto quando?» chiedo. Scuote la testa e mi sento un po' più tranquillo, ma rotolo verso di lui in ogni caso, aggrappandomi alla sua maglietta e chiudendo le dita attorno alle sue; lui mi guarda e capisce, così mi stropiccia i capelli e sorride.
«Non ti preoccupare, non aveva il tono di chi muore dalla voglia di tornare in città» mi tranquillizza «però potrebbe farlo se peggiori, quindi ti conviene tornare sotto le coperte e tenerti al caldo il più possibile». Seguo il suo consiglio e torno sotto il piumone, lui si toglie la maglietta e fa lo stesso, guardando distrattamente il soffitto nel riabituarsi al tepore.
«Vedrai che guarirai presto e tornerai a essere il cazzone pimpante di prima» soffia dopo un po', sorridendomi «il primo passo è riposarsi, e direi che noi possiamo esserne definiti campioni». Rido sotto i baffi e lui lo percepisce, allentando la tensione dei muscoli; affonda la testa nel cuscino e mi s'avvicina un altro po', mi prende la mano e sorride ancora.
«Buonanotte, Jack» miagola sofficemente.
«Buonanotte, Alex» ribatto, restituendogli il sorriso. Si addormenta quasi subito, stremato.

In questi due giorni mi sembra di vivere in un dormiveglia, scandito dai rintocchi dell'orologio e dai sorrisi di Alex, e non sono mai sicuro di essere sveglio o nel pieno di un sogno, quando qualcosa accade. Dicono che per capire se si dorme o meno bisogna darsi un pizzicotto sul braccio e vedere se fa male o no, ma cosa impedisce a un sogno di essere realistico e farti provare dolore? Temo di aver bisogno di un nuovo metodo per orientarmi, ma non riesco a trovarne uno adatto.
«Ehi, ragazzi, posso entrare?» domanda nel frattempo la padrona di casa, bussando delicatamente sulla porta di noce con le nocche e aprendosi un varco nel non sentire risposta da parte nostra. Socchiudo gli occhi e fingo di dormire; non ho voglia d'intrattenere una conversazione ma non sono abbastanza lucido da alzarmi e andare in bagno per poi tornare una volta che se n'è andata, così preferisco fare l'ameba e pretendere di non essermi accorto della sua presenza. Entra dopo aver aperto lentamente la porta, così da evitare di svegliarci con uno scricchiolio, si dirige verso la scrivania e emette un verso preoccupato nel vedere che non abbiamo toccato il brodo, ieri sera; poi però se ne fa una ragione e sistema le cose nel vassoio, pronta a riportarsele giù alla prima occasione. Prende in mano il vassoio, esita e sento che lo rimette giù; e a questo punto non può che essersi girata a guardarci, entrambi abbracciati e senza maglietta, in una situazione a dir poco equivoca e decisamente imbarazzante da spiegare. Non sento sbuffi infastiditi né si lascia scappare commenti di alcun genere; rimane a guardarci per un po', si avvicina, ci sistema le coperte e se ne va, portandosi dietro le stoviglie. Dopo un po' apro gli occhi e incontro il suo sguardo, mentre lei ciondola appoggiata alla parete e sorride sornionamente.
«Jack paga pegno» si limita a dire, poi mi lancia un sorriso di vittoria e se ne va sul serio, scomparendo oltre le scale. Ora sì che potrei cuocerci un uovo sulla mia fronte, porca miseria. Mi volto a guardare Alex e noto con sollievo che sta ancora dormendo, così scivolo fuori dal letto, agguanto qualche vestito da terra e mi dirigo verso il bagno, facendo meno rumore possibile. Per quanto sia controindicato per uno con la febbre, ho bisogno di una doccia e di lavarmi di dosso un po' di questa incertezza, magari poi mi viene anche qualche bella idea per fare impressione su Alex e levare dalla testa di sua madre l'impressione - corretta, ma dettagli - che sia completamente cotto perso di suo figlio, dato che la cosa potrebbe anche diventare imbarazzante se non chiarita con un'opportuna distorsione dei fatti.
Mi chiudo la porta alle spalle, mollo i vestiti nel lavandino e apro l'acqua, aspettando appoggiato al muro che si faccia abbastanza calda; quando decido che soddisfa pienamente i miei standard, mi spoglio, sistemo un asciugamano vicino all'apparecchio ed entro, chiudendomi subito alle spalle l'anta. L'acqua mi picchietta con decisione contro la pelle e chiudo gli occhi per non farmi accecare; con la mano tasto in giro finché non trovo la manopola e a quel punto abbasso l'intensità del getto, asciugandomi la faccia con il polso e cercando con lo sguardo lo shampoo. Lo trovo sul fondo della cabina, mi siedo e me ne metto un po' sul palmo, passandomelo poi fra i capelli. Ho deciso che farò la doccia da seduto, così se i vapori mi faranno girare la testa un'altra volta non correrò il rischio di svenire, cadere e spaccarmi la testa contro il vetro, rischiando fra l'altro che a soccorrermi sia Alex e che a vestirmi prima di portarmi al pronto soccorso sia sempre lui. Avvampo al solo pensiero; se succedesse una cosa del genere morirei d'imbarazzo prima che per la ferita, altro che 'ragazzo impassibile', come mi chiamano a scuola, basta che ci sia lui intorno perché la mia solita baldanza abbia un fremito e stramazzi al suolo.
Comunque sto per passare al secondo giro che qualcuno irrompe nella stanza, e il qualcuno è ovviamente Alex.
«Jack, telefono» dice a volume alto, per sovrastare lo scroscio dell'acqua, avvicinandosi alla doccia.
«Alex non so se lo vedi ma sono piuttosto occupato» ribatto, tirandomi in piedi e togliendomi la schiuma di dosso.
«È tua madre, è già la quarta volta in dieci minuti che chiama» insiste, premendo il cellulare contro l'anta appannata.
«Ecco, tutto sistemato» dico, facendo scorrere l'anta, prendendo il cellulare in mano e premendone il tasto rosso.
«Jack, forse non è il caso di farla incazzare» mi fa notare mentre il telefono ricomincia a trillare, imperterrito. Sospiro.
«Mamma, sono io e sono nel bel mezzo di una doccia, cosa c'è?» rispondo, pacatamente ma parlando il più velocemente possibile per liberarmene presto. Lei mi sommerge con un fiume di parole e io mi mordo un labbro, annuendo a voce nella speranza che si sbrighi, ma purtroppo sembra intenzionata a tirare la cosa per le lunghe. Sospiro un'altra volta, in modo abbastanza sonoro, e mi appoggio all'anta, passandomi una mano sulla faccia in segno di disperazione; lei parla per altri due, tre minuti senza lasciarmi il tempo di fiatare o controbattere, ma l'unica cosa a cui riesco a pensare è che comincia a fare freddo e che mi scappa da starnutire, quindi quando mi chiede come sto sono costretto a farle ripetere la domanda.
«Oh, ehm, bene direi» rispondo «ma mi sono appena alzato, quindi è relativo. Posso tornare alla mia doccia?»
Mi saluta riempiendo di baci e abbracci tutti quanti, poi finalmente riesco ad attaccare. Alex è ancora lì che mi guarda.
«Che voleva?» domanda alzandosi dal water e venendo a riprendere il telefonino.
«Tutto e niente, ha detto che non può tornare in città ma che comunque cercherà di liberarsi il prima possibile, che a lei e papà dispiace non poter essere qui e che tua madre è una santa e non devo farla esaurire» dico, scrollando le spalle.
«Mamma non è una santa, temo che abbia solo una gran predilezione per te» commenta, al che sorrido e chiudo l'anta. Apro l'acqua, rabbrividisco nel sentirne il tepore e riprendo in mano lo shampoo, passandomelo velocemente fra i capelli; mi sciacquo un'altra volta e poi chiudo definitivamente l'acqua, strizzandomi i capelli e scrollandomi  le gocce di dosso.
«Alex, mi passeresti l'asciugamano?» chiedo, scorrendo l'anta e tirando fuori la mano, che incontra subito la stoffa.
«Gracias» dico, strofinandomelo addosso velocemente e legandomelo attorno alla vita, poi esco. Alex sta cazzeggiando al cellulare, ma quando mi sporgo per vedere che sta facendo di preciso alza lo sguardo e mi sorride, infilandoselo in tasca.
«Sai, pensavo che visto che oggi mamma va a trovare zia potremmo guardarci un film» dice, io ribatto con un 'mi sembra una grande idea' e proseguo verso l'altra parte del bagno, dove afferro un asciugamano azzurro e mi asciugo i capelli, mentre lui guarda lo specchio davanti a sé e continua a parlottare, lasciandomi cambiare in pace.
«L'altra settimana papà è tornato a casa con questa montagna di DVD che gli hanno regalato al lavoro, solo che visto che né lui né mamma sono grandi fan della televisione alla fine non ne abbiamo visto ancora nessuno» spiega, gesticolando.
«E visto che stiamo male entrambi e che non sei abbastanza in forze da fare qualsiasi cosa ti vada di fare normalmente, potremmo riscaldare il brodo di ieri o farci un the e metterci a guardare qualcosa, tanto per passare il tempo».
«Mi sembra grandioso» commento, mettendo a posto l'asciugamano azzurro e infilandomi la maglietta «tu hai un'idea?»
«Di che film vedere, dici? Bho, non è che me ne intenda molto» risponde «anche perché da quando sono arrivati a casa non gli ho ancora dato un'occhiata, quindi non so cosa aspettarmi. Preferisco decidere con te, mi sembra più adatto».
Annuisco, gli lancio un'occhiata per verificare che stia ancora fissando lo specchio e m'infilo rapidamente le mutande, al che lui si massaggia la testa e tira nuovamente fuori il cellulare, lanciandogli un'occhiata fugace.
«C'è questa tipa, una certa Sharon, che mi sta tempestando di messaggi da quando mi sono alzato» spiega davanti al mio sguardo interrogativo; io annuisco ma lui sospira, abbassando le spalle «Non ho la più pallida idea di chi sia e non sono interessato a lei, ma fa finta di non capire e io non posso dirglielo apertamente, sarebbe troppo stronzo».
«Da' qua, ci parlo io» ribatto col tono meno geloso che possiedo, tendendo la mano per prendergli il telefono.
«Jack, non credo che sia una buona idea» farfuglia lui, restio a passarmi l'apparecchio.
«Ah-ah, non Jack, Jean, che si scuserà e dirà che sei troppo occupato per risponderle direttamente» lo interrompo.
«Sarebbe scorretto» mormora, ma all'ennesima scarica di messaggi di Sharon allunga la mano e distoglie lo sguardo, esasperato «tutta tua, Jean». Mi sporgo, prendo il cellulare e digito una risposta gentile ma abbastanza acida da farle capire che deve girare al largo da queste acque, poi poso il telefono sul lavandino e incrocio le braccia.
«Missione compiuta» mi limito a dire, poi m'infilo i pantaloni e appendo l'asciugamano bagnato, con Alex che guarda apprensivamente il suo telefono, sperando che il mio intervento non sia stato troppo brusco, e si torce le mani.
«Andiamo?» lo esorto dopo essermi asciugato superficialmente i capelli; lui risorge dal sogno ad occhi aperti e annuisce, seguendomi docilmente prima in camera e poi giù per le scale, in salotto. Ho portato due coperte, così in caso di bisogno non dobbiamo alzarci e fare tutta la strada a ritroso, e le poso sul bordo del tavolino-poggiapiedi davanti al televisore, mentre lui è scomparso in cucina a cercare chissà cosa. Mi sdraio sulla poltrona con un sospiro soddisfatto e sporgo la testa per cercare di capire cosa stia combinando Alex nell'altra stanza, ma da come sono messo non vedo nulla, così lascio perdere e trovo una posizione comoda in cui sistemarmi, aspettando il suo ritorno.
«Mamma ci ha lasciato scritto cosa dobbiamo riscaldare e cosa invece non dobbiamo neanche azzardarci a toccare» mi dice emergendo dalla cucina con in mano un foglio ripiegato, che apre, liscia con la mano e legge velocemente «e a quanto pare tutte le cose più buone ci sono negate. Mi sa che dovremo ripiegare sul the senza latte, sui biscotti della salute e su un brodo o di pollo o di verdure, altrimenti possiamo metterci a cucinare e farci una pasta in bianco». Mi guarda e scrolla le spalle, poi commenta: «Sinceramente a me non va tanto di cucinare».
«Il brodo di pollo va benissimo» annuisco; lui conferma con aria assorta e torna indietro, facendomi cenno di rimanere seduto. Passo lo sguardo sui libri e sui mobili che adornano la stanza, poi la curiosità - o la gelosia? - si fa troppo forte e prendo il cellulare di Alex, abbandonato sul tavolino, scorrendo lo schermo fino ad arrivare al nome 'Sharon', di cui mi sbrigo a controllare le foto su un social network. Una bionda con delle belle curve e delle ciglia lunghissime, annerite da qualche prodotto di cui non conosco il nome, che nella maggior parte delle foto del profilo sorride a braccetto di un'amica e un bicchiere di birra, come se la vita per lei fosse solo un gran momento di festa. Mi sento montare il fastidio e la mia parte possessiva mi suggerisce di scagliare il telefono contro il muro, se non proprio di dirle chiaramente di smetterla di ronzare attorno ad Alex; ma per fortuna ho ancora un po' di buonsenso e mi limito a rimettere il cellulare dove l'ho trovato, appena in tempo per sentirlo imprecare contro un fornello che non vuole saperne di accendersi. Afferro il primo oggetto che mi capita a tiro e comincio a stringerlo con diverse intensità, frustrato, e mi viene spontaneo chiedermi come quella tipa sia arrivata a interessarsi ad Alex, se lui non la conosce nemmeno; poi mi tornano in mente le foto e la birra e mi rispondo che devono essersi incontrati a qualche festa di quelle a cui lui partecipa sempre, per un motivo o per l'altro, e mi si corrode lo stomaco nel pensare a lei come una rivale. Che poi, 'rivale'; sicuramente ha molte più possibilità lei di me di riuscire a trovarsi un posto nel suo cuore, e la cosa mi manda in crisi se mi ci soffermo troppo a lungo. Dio, perché sono nato maschio, e perché Alex non poteva nascere almeno bisessuale? Perché, perché, perché?
«Jack, tiepido o caldo?» mi urla in tutta risposta lui, facendo riecheggiare un rumore di piatti fino al salotto.
«Come ti pare, mi è assolutamente indifferente» grido di rimando, poi torno a prendermi la testa fra le mani, stremato, e ondeggio avanti e indietro, soffocando un mugolio tra i denti. Alex arriva dopo un po', mi guarda accigliato e si siede.
«Tutto okay Jack?» domanda, stranito; io mi tolgo le mani di dosso e annuisco vivacemente, sporgendomi verso il piatto.
«Solo un po' di mal di testa» mento con un sorriso «scegliamo un film?». Lui esita e mi guarda.
«Se hai mal di testa non è il caso, magari poi ti torna la febbre» mormora, e mio malgrado mi sento tiepido dentro.
«Ma ti pare, scialla» dico «non è così forte, dev'essere perché non mi sono asciugato bene i capelli, prima. Scegli pure, per me non c'è alcun problema; anzi. Almeno così non passiamo la giornata a dormire».
«Se lo dici tu» accetta, con un malcelato velo di preoccupazione «però non voglio essere io a scegliere».
«Okay allora, ti passerò una pellicola a caso e come va, va» sorrido, poi mi alzo e prendo la busta contenente i DVD, riportandola sul divano e posandomela davanti. Leggo qualche titolo di sfuggita, infilo una mano nel sacco e tiro fuori il film vincente, che inserisco nel lettore con un 'dio ce la mandi buona', poi torno sulla mia poltrona e il film comincia.
A nemmeno metà film sono sul punto di crollare e fatico a tenere gli occhi aperti, ma tiro fuori il cellulare e comincio a giocarci, sperando che mi tenga sveglio, e in una decina di minuti il sonno è passato completamente. Alex è nella poltrona parallela alla mia, si sta mordendo le unghie e sembra totalmente assorto, cosa che lo rende ancora più dolce, ma mi costringo a guardare da un'altra parte e mi concentro sul protagonista del lungometraggio, che sta cercando in maniera piuttosto vana di accendere un fuoco e cuocersi della carne dopo una giornata di duro lavoro.
Mi sono chiesto più volte se sono gay, bisex o questa cotta sia solo un caso isolato del tipo 'bisogna provare prima di scartare', ma purtroppo non sono mai arrivato a darmi una risposta, e questa cosa mi lacera. Non ci troverei niente di male se mi piacessero solo gli uomini, ma vorrei saperlo e mettermi l'anima in pace, non restare qui a farmi domande su domande a cui solo il tempo potrà trovare risposta; è devastante e si aggiunge alle mie altre insicurezze, che anche quando credevo di essere etero erano tante e non hanno certo bisogno di un'ulteriore spinta per cadermi addosso. E se non fosse una cosa poi così malvista potrei anche farmene una ragione e dirmi 'vabbè dai, ti sei innamorato di un ragazzo, e allora?' e continuare con la mia vita di tutti i giorni; ma in una città come questa essere un minimo diverso ti garantisce centinaia di occhiate in ogni spazio, come se fossi una bestia rara, se non degli insulti aperti; e vorrei sapere se è una cosa seria, prima di ritrovarmi schedato a vita. Se fossi davvero gay o bi allora sopporterei le occhiate più facilmente, perché diavolo, è la mia vita e i miei impulsi sessuali riguardano solo me; ma se fosse una sbandata da una botta e via e il fatto non si riproponesse più, e venissi comunque guardato come se fossi un alieno, non credo riuscirei a farmene una ragione e sbattermene le palle tanto bene, perché comunque, a dispetto di quello che lascio vedere agli altri, ho bisogno di appoggio e affetto come ogni altra persona al mondo, e così me ne verrebbero negati a bizzeffe. Anche perché poi c'è la possibilità che Alex mi lasci da solo, e in tal caso perderei ogni ragione per vivere, quindi non lo so. Vorrei tanto saperlo e farmene una ragione, come va va; ma purtroppo l'unica è aspettare, e non è che sia una cosa che mi piaccia tanto.
«A che pensi?» chiede Alex in un momento di pausa, mentre il protagonista si concede il suo tanto bramato sonnellino.
«A tutto e a niente» rispondo, eludendo in parte la domanda.
«Mi sembra molto interessante» dice, fingendo una smorfia convinta «allora ti lascio ai tuoi ragionamenti». Torna ad accoccolarsi sulla poltrona e si stringe le ginocchia al petto, posandoci sopra la testa, poi la inclina un po' verso di me e si concentra sulla pellicola, nuovamente assorto. Oddio, che carino che è porca miseria, perché non sono la sua ragazza e non posso baciarlo quando mi pare? Strizzo occhi e labbra il più forte possibile e quando li riapro il batticuore è diminuito notevolmente, mentre lui è rimasto nella stessa posizione e mi guarda accigliato.
«Jack? Sicuro di star bene?» domanda, aggrottando le sopracciglia.
«Mai sentito meglio in vita mia» mento, poi prendo il piatto e mando giù un po' di brodo, abbozzando un sorriso. Mi guarda, ancora più accigliato, ma fa finta di credermi e distoglie lo sguardo da me, per posarlo sullo schermo.
«Mi passeresti una coperta?» rompe il silenzio un'altra volta, tendendo la mano verso di me. Ne afferro una, mi sporgo e gliela do; lui la prende con due mani, ringrazia e la apre, stendendosela addosso; poi apre la bocca, esita e la richiude.
«Ti serve qualcosa?» domando, ma lui scuote la testa.
«No no, tutto a posto» mi tranquillizza, poi appoggia la schiena alla poltrona e respira. Finisco di mangiare, poso il piatto sul tavolino e mi volto a guardarlo, ma noto che è ancora assorto nei suoi pensieri, così mi alzo e prima che possa dirmi niente mi sdraio sgraziatamente su di lui, facendolo scoppiare a ridere.
«Sei troppo ossuto Alex, non va bene per un cuscino» mi lamento dopo averlo costretto a stendere le gambe, e lui ride.
«Senti chi parla» ribatte, però continua a sorridere e smette di arrovellarsi la testa con qualunque cosa stesse rimuginando su prima, che è un bene considerando la faccia che aveva assunto. Mi sistemo un po' meglio e lui si lascia scappare un 'ouff' mentre lo schiaccio, per poi emettere un sospiro di sollievo quando mi fermo e ci rimetto sopra la coperta.
«Buon Dio Jack, sei peggio di uno schiacciasassi» ride, anche se vedo che fa fatica a muovere il petto. Mi sposto un po'.
«Come hai detto che si chiama questo capolavoro cinematografico?» domando quindi.
«Non l'ho detto» sorride «ma comunque non ne ho idea, non è che m'interessi più di tanto», e io annuisco.
«Sì, non è particolarmente entusiasmante» convengo, lui indica con un cenno il telecomando, io lo prendo e glielo passo.
«Cambiamo?» propone, io accetto con un 'deo gratias' e lui mi dice di scegliere un altro film, magari non un altro western possibilmente; così mi alzo e vado a frugare nella busta, riemergendo con un'altra pellicola. Tiro fuori la prima e infilo nel lettore la seconda, poi metto il western nella scatola, la rimetto dentro al sacco e torno a spaparanzarmi su Alex.
«Comunque secondo me la protagonista era piuttosto carina» commenta dopo un po' lui, mentre compare la pubblicità.
«La bionda dici? Bho, secondo me non era niente di speciale» ribatto. I suoi commenti sulle attrici non mi toccano.
«Ti sei preso cotte per ragazze molto più brutte» mi ricorda, scherzando.
«Al cuor non si comanda» dico, e mi colpisce quanto sia vero e quanto poco ci abbia mai fatto caso.
«Hai anche ragione» sorride, poi mugola, si sposta e raccoglie una cosa da terra «devi prendere la medicina, Jack».
«Oh, mi era completamente passato di mente» esclamo, tirando fuori una pasticca «tu l'hai già presa?»
«Sì, prima di pranzo» mi tranquillizza con una pacca sulla schiena «ma ormai io sono praticamente guarito, quindi».
«Oh» commento di nuovo, deluso «quindi domani torni a scuola?»
«Non se tu stai male» dice, e io sorrido. Appoggio la testa sulla sua spalla e mando giù la pasticca, mentre il film comincia.
«Comunque più di tre, quattro giorni non dovrebbe durarti, io sono guarito in quattro ma perché non ho preso nulla».
«Speriamo bene allora» dico, realizzando che una volta tornati a scuola non potrò più passare le giornate a letto abbracciato ad Alex e rimanendoci un po' male, per poi però scacciare l'espressione con uno starnuto.
«Ah, a proposito, mi sono arrivati dei messaggi da Rian e Zack che ci augurano di guarire e di tornare presto» aggiunge.
«Mi è sembrato molto buffo perché anche se non gli abbiamo detto niente erano sicuri che stessimo assieme» ride.
«Ohum, a me è arrivato un messaggio da...» tiro fuori il cellulare dalla tasca per controllare «Nick».
Alex soffoca una risata nel vedere che mi sono rabbuiato ma prende il telefono prima che possa eliminare l'sms, lo legge e risponde da parte mia, quindi me lo ripassa e scuote la testa, come se fossi un bambino poco cresciuto e lui il baby-sitter.
«Certo che dovresti dargli più corda» commenta, ridendo sotto i baffi «senza di te sembra davvero perso». Gli do una spinta e lui ridacchia, mentre gli mimo un 'non ci penso neanche' e mi rimetto il telefono in tasca.
«Ah» esclamo dopo un attimo «ah, non ti ho detto l'ultima notizia che lo riguarda».
«Sono tutto orecchi» scherza «ma se stai alzato non vedo nulla».
Mi sdraio e sembra apprezzare, poi pianta le iridi nelle mie e apro la bocca. «Si trasferisce».
«Be', mi sembra grandioso» esclama, anche se la cosa non lo tocca minimamente «dovrai esserne piuttosto contento».
«Il punto è dove si trasferisce» mugugno io «quel bastardo viene ad abitare a un isolato di distanza dal mio».
Nonostante tutta la sua buona volontà scoppia a ridere e riceve una mia occhiata torva, ma ci vogliono un paio di decine di secondi perché riesca a farsi passare la ridarella. «Non ci credo, ti prego dimmi che scherzi» farfuglia.
«Magari» sospiro «l'altro giorno è venuto al mio banco a dirmelo e sembrava la persona più felice del mondo; a momenti si metteva a saltare e ballare dalla felicità, guarda». Scoppia a ridere un'altra volta e la mia disperazione sale ulteriormente.
«E cosa pensi di fare, togliere il tuo cognome dal cancello e fingere di chiamarti in un altro modo quando busserà alla tua porta a chiedere di te? Perché mi sembra sì stupido, ma non abbastanza da cascarci» ride.
«No, ti giuro, non puoi capire; sono disperato» esclamo «va a finire che mamma comincerà a mandarmi a casa sua piuttosto che da te perché abita più vicino ed 'è un bravo ragazzo che ha tanto bisogno di un amico, lo sai vero, tesoro?'»
«Mi sa che stai esagerando» fa lui divertito, dandomi una pacca sulla spalla «magari non le piacerà neanche un po' e ti vieterà di frequentarlo, oppure non arriverà proprio a conoscerlo perché la fermeremo prima»
«Oddio ti prego sì, non potrei sopportare di ritrovarmelo a pranzo le poche volte che ci sono anche loro» guaisco.
«Dai, scialla, vedrai che un modo lo troviamo» mi tranquillizza, al che mi giro e lo fisso con apprensione.
«Se si accolla oltre ogni dire e non riesco più a sopportarlo mi offri asilo politico?» domando, pregandolo con gli occhi.
«Okay, ma non credo ce ne sarà bisogno» ride, io mi tranquillizzo e sospiro sonoramente, tornando a posare la testa sul suo petto. «Massimo massimo Abbie gli manderà un messaggio e gli dirà di smetterla di rubargli il ragazzo».
«Oddio ti prego sì, ti amerei» ribatto, forse con più foga del dovuto, e lui ride.
«Va bene allora, gli manderò un messaggio» acconsente, stropicciandomi i capelli con calma.
«Sharon?» domando io, e a quel punto scrolla le spalle.
«Non si è più fatta sentire, Jean deve aver fatto proprio un bel lavoro» commenta, e stavolta sono io a ridere.
«Bene, una seccatura in meno a cui pensare» dico, nel frattempo qualcuno nel film spara e mi fa prendere un colpo; non me l'aspettavo minimamente, credevo fosse un film lento e pacioso. Alex mi guarda con un ghigno e io mi sposto su di lui, schiacciandolo; si lascia sfuggire un altro 'ouff' e chiede una tregua con gli occhi, cosa che io accetto docilmente.
«Diosanto, sei tutto pelle e ossa ma quanto pesi» gorgoglia, mentre io torno alla mia posizione iniziale.
«Non sarai tu troppo gracilino per reggermi?» lo sfotto di rimando, consapevole di non pesare praticamente niente.
«Può anche darsi» mormora con un respiro sonoro; io sorrido e rotolo di lato, graziandolo. La tipa del film sta fuggendo da qualcuno e per non farsi trovare si è infrattata in una casa abbandonata, ovviamente senza corrente elettrica o uscite di sicurezza, e sta cominciando a rendersi conto di aver fatto una gran stronzata, al punto che ha già le lacrime agli occhi ed è sul punto di crollare emotivamente, quasi l'avessero già catturata. Alex non sembra particolarmente interessato al suo destino, credo che più che altro si sia di nuovo perso nei suoi pensieri, ma non potendo entrare nella sua testa mi concentro su qualcos'altro di più accessibile e cerco di passare il tempo. Denise - nel frattempo sono riuscito a scoprirne il nome - si è chiusa a chiave nel salotto, ha tirato tutte le tende e si è rintanata sotto una scrivania a tremare, la pistola carica stretta tra le mani e tenuta accanto al viso; ma in qualche modo sembra essersi ripresa, così l'ambiente sembra meno tetro. Alex assume un'aria sempre più appannata secondo dopo secondo e Denise riprende il controllo dei sensi man mano che il tempo passa, potrebbero completarsi perfettamente se solo lei non fosse solamente la protagonista di un film scadente che non ho mai sentito nominare prima; e se non fosse che lo disturberei, credo lo direi pure ad Alex, tanto per distrarlo e fargli fare altre due risate. Mi sembra così stanco ultimamente, non credo dovrebbe tornare a scuola domani, e neppure dopodomani; credo che sarebbe una buona cosa se si prendesse una vacanza, una volta tanto, e smettesse di preoccuparsi sempre di tutto e di tutti, anche se questo significherebbe lasciarmi una settimana a cazzeggiare coi miei demoni senza nessuno accanto. Credo gli farebbe bene ma so che non gli piace sentirselo dire, quindi me lo tengo per me, sperando che se ne renda conto da solo prima di avere un crollo emotivo ben peggiore di quello di Denise; ma so anche che probabilmente quando se ne renderà conto farà finta di niente e reprimerà il suo inconscio, ferendosi ancora di più. Il mio piccolo, fragile Alex. Mi chiedo se mi ricambierà mai.
«Stai sempre a pensare tu?» mi domanda con un sorriso, improvvisamente caduto dalle nuvole.
«Senti chi parla» lo punzecchio «io pensavo alla nostra amica qua, tu a che pensavi?»
«Come hai detto prima? A tutto e a niente» dice, e non posso evitare di sentirmi un bel po' preoccupato.
«E questi tutto e niente cosa riguardano? La scuola?» butto lì con una nonchalance poco credibile.
«Non voglio guastarmi il film pensando alla scuola» ride «e poi ti pare che mentre questa viene uccisa penso ai compiti?»
«Ma che ne so, tu sei strano» mi difendo «e poi Denise è intelligente, vedrai che riuscirà a sfuggirgli»
Mi guarda con un'aria a metà tra il divertito e lo stupito, a cui ribatto con un 'che c'è? Lo sto seguendo il film', lui scuote la testa con un sorrisone e annuisce fra sé e sé. «E poi sono io quello strano, eh?» ripete, sornione. Annuisco vivacemente.
«Decisamente. Strano come te non conosco nessun altro» annuisco, sostenendo fedelmente la mia idea.
«E tu come ti definiresti?» domanda, appoggiandomi la testa sulla spalla.
«Be', intanto direi che sono un gran figo» comincio «poi proseguirei con un gran bel pezzo di ragazzo, molto simpatico e pieno di qualità, che tutti ammirano e cercano di imitare ogni giorno della loro vita, che però ha un cuore troppo grande e, visto che gli dispiace non poter essere amico di tutti, preferisce avere un amico solo a cui tiene più di sé stesso». Alex fa un sorriso enorme. «Ma non dimentichiamoci che comunque è un gran bel pezzo di figo» insisto.
«E oltre a strano, io come sarei?» chiede, mettendomi in difficoltà.
«Be', oddio, prima di tutto una rottura di coglioni enorme che se non fosse per me non avrebbe proprio amici e verrebbe isolato drasticamente da tutti giorno dopo giorno, poi un ragazzo speciale di cui non potrei mai, mai, mai fare a meno».
«Mi piace quando fai così» mormora, guardandomi con affetto, e io mi sciolgo mentalmente, abbozzando una risata.
«Non ci fare l'abitudine, si vede che sto male» ribatto, e lui fa una smorfia, stringendomi più forte il braccio.
«Sei uno scemo» scherza; io convengo con un 'lo so' e appoggio la testa sulla sua, dolcemente. Vorrei non guarire mai.


Quando mi sveglio sua madre sta infilando la chiave nella toppa mentre parla animatamente al telefono con un qualche probabile cliente, e ci vogliono all'incirca due minuti prima che riesca ad aprire il portone con un'esclamazione di gioia, che viene prontamente soppiantata da un sorriso quando nota il mio sguardo su di sé. Mi saluta con un'alzata di sopracciglia e continua a chiacchierare, abbandonando la borsa sul mobiletto d'ingresso e passandosi una mano fra i lunghi capelli chiari; prosegue la sua discussione in cucina e torna da me solo dopo un po', appalesandosi con uno sbuffo liberatorio, contenta di essersi levata dalle scatole anche quell'ennesima seccatura fuori programma e di potersi rilassare.
«Passato una bella giornata?» domanda sedendosi sul bracciolo del divano.
«Mi sento molto meglio» rispondo, «e mamma ti ringrazia per prenderti cura di me ancora una volta».
«La prossima volta che chiama dille che le lascerò il conto ospedaliero» scherza tirandosi indietro i capelli con le mani.
«A proposito, che pegno paghi?»
Quasi mi strozzo nel sentirglielo dire. «Ecco, di questo volevo parlare, io non pago proprio nessun pegno» ribatto.
Fa una smorfia a metà fra il deluso e il 'ma quanto devo aspettare ancora?', lascia stare la sua coda e concentra la sua attenzione su di me, guardandomi come se stessi cercando di negare che il ghiaccio è freddo. «E come mai?»
«Perché continuo a non volere figli e non sono innamorato di Alex» rispondo, fingendomi distaccato.
«Ah no?» m'incalza lei, sorridendo sotto i baffi.
«No» insisto, sentendomi avvampare le orecchie «e sono ben lungi dal cambiare idea».
«Va bene, se lo dici tu non posso che crederti. Ma sappi che anche chi mente paga pegno» commenta alzandosi in piedi e rifacendosi velocemente la coda, dandomi le spalle per qualche manciata di secondi; «e tu che pegno paghi, Jack?»
«Te la smetti? Ti ho detto che non ho cambiato idea» esclamo, ma so che mi sono già tradito da solo.
«E io ti ho detto che ti credo, ma se non sei il primo a credere in ciò che dici non andrai avanti con questo gioco» sorride infatti con aria di vittoria; raccatta la borsa e scompare in un'altra stanza, mentre io rimango fermo come un carciofo ad arrossire su ogni centimetro di pelle visibile e disponibile, pronto a prendere a capocciate qualsiasi superficie in grado di spaccarmi il cranio in un ristretto numero di colpi. L'unica cosa che ci manca è che Alex abbia sentito tutto, ma per mia fortuna dorme della grossa abbracciato a uno dei super-ricamati cuscini bianchi di sua madre, quindi è tutto okay. Più o meno. Mi alzo e vado a cercare Isobel; di chiarire o continuare a negare non se ne parla neanche, ma magari riesco a convincerla a tenere la bocca chiusa e a far finta di non aver proprio mai fatto quel commento, che sarebbe più che grandioso considerando che ne va della mia sanità mentale. L'unico problema è che è tutto silenzioso da morire e che non riesco a percepire nessuno spostamento attorno a me, quasi lei non fosse proprio entrata in casa; e visto che ho la fronte che scotta non mi stupirei troppo se fosse stata solo un'allucinazione causata dalla febbre troppo alta, così lascio perdere e giro i tacchi, spegnendo la luce del corridoio prima di abbandonarlo.
«Boo!» esclama saltando fuori dal sottoscala; io sobbalzo e mi lascio scappare un rantolo spaventato, ansimando.
«Ommioddio» gemo portandomi una mano al cuore «ommioddio non me l'aspettavo, ommioddio che trauma, oddio».
Lei replica con la stessa risata cristallina del figlio e si copre la bocca con le dita, divertita. «Avresti dovuto vedere la tua faccia, sei stato qualcosa di meraviglioso» commenta, mentre io cerco di recuperare un minimo di contegno.
«Senti, riguardo alla conversazione di prima-»
«Uh-huh! Avevo ragione, ti piace!» m'interrompe con un'espressione trionfante.
«Assolutamente no!» m'intestardisco «ma mi piacerebbe se te lo tenessi comunque per te».
Mi squadra un attimo, ritraendo la mano dalla bocca, poi inclina il capo verso sinistra. «E io cosa ci guadagno?»
«Be', hum, la mia più profonda e sincera gratitudine?» propongo.
Finge di esitare, soppesando le due cose. «Troppo poco gossip» giudica infine «manca di avventura».
«Ma cosa, 'avventura'!» esclamo «non siamo in televisione, non puoi uscirtene così; cioè, non è normale».
Mi fa la linguaccia: «se non c'è avventura, che vita è?»
«La vita che vorrei in questo momento» ribatto «potresti non dirglielo, per favore?»
«D'accordo, immagino tu voglia dichiararti in uno di quei modi esagerati che usano i vostri coetanei nei film; spero solo che non ci metta troppo o diventerà noioso» commenta storcendo la bocca, come se stesse parlando di una telenovelas.
«Non ho la minima intenzione di dichiararmi ad Alex, lo vuoi capire sì o no?» insisto, pur sapendo che è inutile.
«Questo lo capisco benissimo» sorride «ma capisco pure che ti piace».
«Cos'è che non capisci di 'no'?» intigno.
«Il fatto che non sia seguito da 'non è vero che non mi piace Alex'» ride. Servita su un piatto d'argento.
«Okay, va bene, forse mi piace giusto un po', ma se non te lo tieni per te ti brucio le peonie, okay?» ammetto, cercando di spostare la sua attenzione su qualcos'altro e di non arrossire, per quanto sia ormai inutile tentarci, visto il mio bel colorito.
«Oddio lo sapevo; Jack paga pegno, Jack paga pegno» esclama lei, canzonandomi allegramente.
«Sì ma il tuo non è stato un comportamento corretto» mugugno, conscio che non conti assolutamente niente.
«Hai ragione, ma il tuo lo è stato?» ribatte, sorniona. Colpito e affondato. «Solo, dichiarati presto, o qui morirò dalla noia»
Avvampo definitivamente. «Non ci penso neanche, ci manca solo questa!» scatto con un'imbarazzante vocetta stridula.
Lei mi guarda con un sorriso deciso. «Tira fuori le unghie Barakat, o qualcun altro ci metterà le mani sopra».
«Per quanto ne so potrebbe già star sotto per un'altra ragazza» ribatto, amareggiato.
«Hai anche ragione, ma se non ci provi come puoi saperlo davvero? E poi vi ci vedo bene come coppia, dovresti buttarti una volta per tutte e come va va; non credo smetterebbe di parlarti o niente, quindi» insiste, appoggiandosi al muro.
«Anche lui e Sally Morton sarebbero una bella coppia, però a lei lui non piace e viceversa» le ricordo.
«Non puoi innamorarti di una che si chiama Sally» commenta alzando le sopracciglia e facendo una smorfia.
«Hai capito il concetto» dico espirando dal naso, con un tono che non accetta repliche «non mi dichiarerò né ora né mai, sarebbe fiato sprecato. Potresti per favore tenertelo per te, adesso?»
«Sta' tranquillo Jack, non una parola uscirà da queste labbra» sorride, mimando di chiudersi la bocca a chiave con un lucchetto e stropicciandomi affettuosamente i capelli prima di girare su sé stessa e andarsene per la sua strada. Dovrei sentirmi più rilassato e a mio agio ma mi sento un vortice nel petto, ho paura di essermi rovinato da solo un'altra volta.
«Complimenti genio» mi dico sottovoce, scuoto la testa e torno in salotto con il mondo sulle spalle. Alex dorme ancora; trovo un posto comodo al suo fianco e rimango accoccolato accanto a lui, lo sguardo perso nell'infinito, ma nulla viene a infrangere quel muro di silenzio che si è interposto fra me e il resto del mondo, cosa che invece vorrei tanto. Non credo proprio che Isobel possa andare a ridirglielo, ci mancherebbe altro; ma in questo modo le persone a conoscenza del mio segreto sono due, e da due nasce tre, e poi quattro, e poi cinque, e poi qualche voce di corridoio arriverà anche a lui, rovinandomi definitivamente. Mi stringo la testa fra le dita e cerco di scacciare la negatività, ma i brutti pensieri s'insinuano da ogni dove e si nascondono dietro quelli belli, appalesandosi lentamente, nella maniera che più è in grado di colpirmi; e nonostante tutto il mio impegno non riesco a mantenermi positivo, come dice sempre di fare Alex. Stringo i denti, scuoto la testa e mi volto dall'altra parte; non riesco a guardarlo in faccia ora. Ho paura; di nuovo. Paura che qualcuno possa dirglielo, paura che possa scapparmi come sabbia fra le dita, paura che qualcuno possa portarmelo via e che io non possa farci niente, paura che si renda conto che non sono la persona adatta a lui, paura che apra gli occhi e capisca perché sono sempre in giro quando va a comprare qualcosa, paura che rimanga deluso qualora mi dichiarassi, paura che le cose fra noi cambino, paura che mi lasci da solo. Di solito vedo la mia cotta con una benevola rassegnazione e mi dico 'okay bello, sei innamorato perso dell'ultima persona che avresti potuto immaginare di poter desiderare, buffa la vita eh?', ma ogni tanto ho degli sprazzi di dolorosa lucidità in cui la consapevolezza di star lanciando sassi contro una finestra chiusa a doppia mandata mi colpisce e mi costringe a fermarmi un attimo, per rendermi conto per davvero che Alex è il mio migliore amico da oltre otto anni e che sto sprecando il mio tempo rincorrendo il suo riflesso, perché il massimo che ci può essere fra due qualsiasi amici di lunga data è appunto amicizia, fratellanza forse; ma aspirare a qualcosa di più profondo e magari tentare la fortuna lanciandosi in un'avventura più imprevedibile porta quasi sempre a periodi di sofferenza da entrambe le parti, e, a parte qualche raro caso fortunato, a una rottura lacerante e amara per tutti e due, sebbene sia sempre devastante accettare il fatto di non poter proseguire in questo modo e rassegnarcisi completamente. Alex è il mio migliore amico e lo è sempre stato; anche con le migliori intenzioni fra noi due non potrebbe mai esserci più che amicizia o un rapporto del tipo 'ti amo e lo sai ma non riesco a dimostrartelo perché mi sento troppo fuori luogo a dirtelo'; e una situazione del genere non farebbe del bene né a me né a lui, senza contare che metterebbe in difficoltà anche Zack e Rian, che sono le persone che più sono costrette a convivere con noi. Potrei baciarlo, abbracciarlo, fargli regali carini e portarlo a spasso nel parco quando tutta la città dorme, ma ci sarebbe sempre un velo di disagio nascosto dietro ogni mio gesto e non è quello che voglio per noi. Sarebbe una catastrofe, cazzo. Io voglio farlo sentire amato, a casa, come se non ci fosse altro posto in cui dovrebbe essere se non fra le mie braccia; voglio proteggerlo dal mondo ed esserci, quando il mio guscio non sarà più abbastanza e i frammenti di vetro cominceranno ad impazzare verso di lui; voglio fargli da scudo col mio corpo e mettergli il mio cuore fra le mani, con nulla se non un sorriso a spiegare tutto. Voglio essere ciò che credeva di aver perso, quello che non avrebbe mai pensato di poter sperimentare, l'unica persona in grado di portarlo sulle nuvole quando il resto della sua vita appartiene alla terra; voglio essere il suo piano d'emergenza e quello principale, voglio semplicemente essere. Cosa potrei mai desiderare di più se non esistere al suo fianco, e cosa mai potrebbe rendermi più felice?
Invece no, dovevo nascere maschio, migliore amico di tutto il mondo e neanche così attraente, così che senza un miracolo non mi noterà mai neanche per sbaglio; e ciliegina sulla torta, dovevo far sì di non essere in grado di nascondere le mie emozioni e di farmi sgamare da nientemeno che la mamma dell'oggetto di ogni mia fantasia; perché sennò che gusto c'è?
Mi prendo la testa fra le dita e stringo la mascella con tutta la forza che mi è possibile trovare in questo momento; poi di colpo l'attacco svanisce com'è arrivato, lasciandomi stordito e con un retrogusto amaro nascosto dietro ai denti, dove nei momenti migliori un sentore di caffè si lascia scoprire e cullare dalla mia lingua; e tutto ciò che rimane è la desolazione e la consapevolezza che nell'ombra accanto a me qualcosa si è mosso. Isobel probabilmente. Magari prima ha lasciato qui qualcosa - l'ha più ripresa la borsa? - ed ora è giustamente venuta a riprendersela, oppure era solo curiosa di vedere come stessero andando le cose ed è entrata quatta quatta per evitare di farsi cogliere con le mani nel sacco; chi lo sa. Sinceramente non m'interessa più di tanto. Mi prendo la punta del naso fra le dita - 'nasone, te la smetti di fare il broncio o devo venire lì a ucciderti di solletico?' mi echeggia involontariamente in testa, accompagnato dal sorriso di Ri -, espiro profondamente un paio di volte e rimango immobile con gli occhi chiusi per un po', per dare a chiunque sia qui con me il tempo di andarsene; poi li riapro e mi accoglie l'oscurità di prima, accentuata dalla luce appena spenta.
«Tutto okay Jack?» mi sento domandare da non so nemmeno più chi.
«No; no, affatto» mormoro stancamente, alzandomi dopo aver fatto leva sulle mie ginocchia «vado a letto». Non sento risposta, ma non sono sicuro di star davvero ascoltando. Arranco su per le scale e mi lascio cadere sul letto, vuoto. Vuoto, vuoto, vuoto; solo questo sento. Non mi accorgo neanche di star piangendo, come non mi accorgo in primo momento delle braccia che mi cingono. Non voglio che mi cingano, non voglio che mi ricordino cosa non posso avere. Non voglio che vengano sprecate con me soprattutto, ma non ho la forza di spingerle via e le lascio bruciare contro la mia pelle.
Stavolta mi addormento che piango. Fra le braccia di Alex, silenziosamente, lontano anni luce ma vicino, piango. E non basta il suo calore a riscaldarmi il cuore.

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Capitolo 3
*** Parte terza ***


there's room for two six feet under the stars cap3 Quando mi sveglio è pomeriggio inoltrato, la faccia mi tira e la stanza è vuota. Della luce filtra dalla tapparella semialzata, le lenzuola accanto a me sono sfatte e fredde e nella confusione del dormiveglia mi rendo conto che alcuni libri mancano all'appello dalla libreria. Alex dev'essere andato a scuola, alla fine.
Mi tiro a sedere e mi sento lo sguardo pesante; spero non si senta in colpa per avermi lasciato qui. Non può passare la vita standomi sempre dietro, non è giusto e non gli fa bene in nessun modo. «Lo porti giù, Jack». Afferro la chitarra e suono.

Certe volte quando sono lucido mi chiedo come sia cominciato tutto. Come abbia fatto ad innamorarmi di Alex, come me ne sia accorto la prima volta, come sia riuscito ad affrontare quell'oceano di veleno che mi sentivo sgusciare sottopelle ogni volta che lo vedevo con una ragazza, quando non ci avevo ancora fatto il callo; e in pochi istanti i come invadono la mia mente, accucciandosi in ogni meandro libero e occupando lo spazio degli altri ricordi, scacciandoli sgarbatamente a loro piacimento; e quando succede non ho altra scelta che mettermi in disparte e lasciarmi trasportare da quella massa di pensieri decisi e indipendenti, per di più domande senza risposta e convinzioni che di vero hanno solo la paura. Posso solo sedermi, intrecciare le dita e chiudere gli occhi, accarezzando silenziosamente quella processione di dubbi e insicurezze, sperando che presto le risposte emergano di loro spontanea volontà. Potrei dire che in quei momenti la mia mente non mi appartiene e avrei solo ragione - è come se per un tempo che può variare dai dieci secondi alle due ore Jack smettesse di esistere e al suo posto comparisse un'entità in grado di far finta di rilassarsi, respirare e sembrare normale, ma che in realtà non ha nessun potere su ciò che succede nel suo subconscio, le sue intenzioni fievoli soffi di vento allontanati dalla marcia decisa dei sogni interrotti, e tutto ciò che mi rimane da fare mentre nel mio cervello divampa il caos è trovarmi un posto comodo e perdermi nella sinuosità della distruzione, trasportato dal suo essere surrealmente affascinante. E quando tutto finisce, quando la pazzia si assopisce e la ragione ritrova la via di casa, non sono mai io a raccogliere del tutto i cocci - non senza aiuto almeno. Ed è così complicato ottenere aiuto quando non sai spiegare nemmeno a te stesso cosa stia succedendo dentro la tua testa; ed è così pesante guardarsi attorno per cercare una mano e vedersi rispondere con occhi crucciati e sopracciglia aggrottate quando tutto ciò di cui avresti bisogno è un abbraccio; ed è così assurdo trovarsi davanti alla possibilità di non avere nessuno a sostenerti tranne chi ti fa perdere in maniera così sregolata il controllo giorno dopo giorno; ed è così normale finire col rifiutare ogni comodità pur di non esporre lui alla pazzia, pur di tenerlo al di fuori di ciò che ti sta divorando l'anima sempre di più, fino a farti desiderare di essere qualcos'altro.
Quando la realtà comincia a fondersi con l'immaginazione e inizio a perdere il controllo dei sensi faccio sempre in modo di allontanarmi da tutti, per non arrecare danno a nessuno. La gente non capisce e non capirebbe neanche se mi prendessi un attimo e glielo spiegassi in tutta tranquillità, quindi meglio non farle proprio venire in mente nulla e starmene sulle mie finché l'attacco non finisce, come se fosse la cosa più normale del mondo e non ci fosse nulla di sbagliato in me. Credo di non averne mai parlato neanche ad Alex e non riesco a non essere felice della mia decisione, perché in questo modo lui è salvo e continuerà ad esserlo a lungo, senza doversi arrovellare il cervello pure su quest'imprevisto. Che poi anche se volessi non saprei come fare - non riesco a capirmi da solo, figuriamoci se posso pretendere che qualcun altro, seppur sia il mio migliore amico da tutta la vita, mi metta le mani sulle spalle, mi guardi dritto negli occhi e mi dica 'so cosa fare'. Utopia allo stato puro, al punto che non è neanche utopia, è solo un'altra espressione della follia. E io non sono folle, non sono pazzo, sono solo stanco e bisognoso d'affetto, alla ricerca di un qualcosa che possa rendermi felice ed essere solo mio in ogni istante del giorno; e forse la cosa che mi ferisce di più è l'essere consapevole di aver trovato quel qualcosa di speciale, ma sapere anche che non sarò mai la sua unica speranza. Quanto doloroso può diventare un amore disilluso?

Sono le cinque e mezza ormai, ho preso le mie medicine da un paio d'ore e di Alex ancora nessuna traccia. Spero che non l'abbiano messo in detenzione e che sia solo uscito coi ragazzi, cogliendo l'occasione per andare a farsi una passeggiata e prendere una sana boccata d'aria dopo giorni di poltrire e combattere la febbre. Ho cominciato a leggere quattro libri e tre ne ho abbandonati, per noia o perché non mi piacevano; e questo si sta salvando così a lungo solo perché faccio fatica a mantenere lo sguardo focalizzato sulle parole e quindi non riesco a concentrarmi abbastanza per trovarci dei difetti. Con uno sbuffo, mi sporgo e lo lascio cadere sul comodino, tornando a scompigliarmi i capelli con le mani. L'attesa mi lacera.
«C'è qualcuno in casa?» colgo finalmente la sua voce; il mio cuore ha un guizzo e mi tiro a sedere.
«Occhio a tutti, sta arrivando l'infermiera» mi urla da di sotto, sfilandosi la giacca e lanciandola sul divano. Sale le scale in mezzo minuto, canticchiando qualcosa fra i denti, e quando entra in camera è decisamente pimpante e di buonumore.
«Allora» esclama, sprizzando radiosità da ogni dove «ti senti meglio?».
Annuisco e lui fa un sorriso enorme, portandosi le mani ai fianchi. «Be', meraviglioso, perché domani sera usciamo!»
«Wo, wo, wo, frena un attimo, cosa?» controbatto, aggrottando le sopracciglia e rimanendoci di sasso. Cosa cavolo?
«Mi rendo conto che siamo ancora convalescenti e che non è l'idea più geniale del mondo, ma ho parlato con la dottoressa oggi e ha detto che vista la velocità con cui mi è passato tutto non dovremmo preoccuparci, si tratta solo di una forma un po' più violenta dell'influenza che sta girando in questi ultimi tempi. Ha detto che prendere una boccata d'aria ti avrebbe fatto bene e che un po' di cibo alla griglia sarebbe stato più invitante rispetto al brodo; mi ha praticamente costretto a prometterle che ti ci avrei portato» spiega abbozzando una risata, sedendosi ai piedi del letto.
«E dove dovresti portarmi scusa?» dico, senza sapere come comportarmi.
«Come 'dove'? Jack domani c'è la festa di quartiere e siamo invitati, te ne sei dimenticato?» ride.
«In ogni caso l'ultima parola l'avrai tu, però credo che di medicina lei ne sappia molto più di noi due messi insieme e che dovremmo darle retta; chissà, magari ci divertiamo pure» aggiunge, sorridendo francamente. Oddio che carino che è.
«Hu, er, va bene» acconsento, preso alla sprovvista «ma da chi si fa? Dai coniugi Cross come l'anno scorso?»
«Hai presente quella signora ansiosa che incontriamo spesso quando prendiamo il caffè al bar alla fine della strada? A quanto pare è la moglie del signor Harroway, quello che ci saluta sempre quando c'incontra in giro, e a quanto pare è lei che organizza tutto e offre il giardino» risponde liscio, massaggiandosi i palmi e battendoseli sulle cosce.
«Ah, hu, grandioso» commento, aggiungendo un annuire piuttosto vago. Non ho la minima idea di chi stia parlando.
«Com'è andata oggi a scuola?» domando per cambiare argomento.
«Be' oddio avrebbe potuto essere migliore» espira lui, per niente colpito «però sono stati tutti molto carini e mi hanno fatto le feste quando mi hanno visto entrare. Hanno subito detto che erano preoccupatissimi, che volevano chiamare per avere mie notizie ma che avevano paura di disturbare, che nel frattempo non erano andati molto avanti e che se avessi voluto mi avrebbero prestato i loro appunti, che erano estremamente contenti di rivedermi e che gli dispiaceva fossi stato male così a lungo. Poi quando la folla è defluita Nick mi ha chiesto come stessi e si è offerto di venirti a trovare, ma gli ho detto che eri contagioso e che probabilmente non era il caso di andare a gettarsi nella tana del lupo senza protezioni; mi è sembrato un po' deluso ma ha capito e non ha insistito più, anche se ha detto che chiamerà per sapere qualcos'altro».
«Oddio ma perché a me» piagnucolo, e Alex scuote la testa con un piccolo sorriso.
«Si direbbe che gli manchi immensamente» commenta pacioso «dovresti tenertelo stretto, non trattarlo male». Lo guardo per un paio di secondi e l'idea che mi stia comportando come Nick ai suoi occhi mi sfiora con la delicatezza di una farfalla e la velenosità viscosa di una salamandra - spero davvero di non essere opprimente quanto lui o intimamente ne soffrirei da morire, sarebbe l'ultima cosa che vorrei mai accadesse fra noi due. Alex mi guarda, i suoi occhi hanno un guizzo di vitalità e ride di colpo, scacciando l'idea che mi si era dipinta in viso con la mano.
«Non intendevo farti la morale, puoi comportarti come meglio credi» ride spontaneamente, coprendosi la bocca. «Sta a vedere se ora sono in grado di stare lì a dirti dove sbagli e cosa invece dovresti migliorare; figurati».
Mi sento più leggero ma il dubbio rimane, così lo metto a tacere abbozzando un sorriso. «Bene, a parte quest'ultimo particolare, che mi dici? Com'è andata la tua giornata?» mi chiede quindi.
«Così così, ho preso le mie medicine, letto e fissato fuori dalla finestra» butto lì con una scrollata di spalle.
«Se vuoi puoi studiare con me la lezione della Tidell per domani, così la finisci di annoiarti» scherza tirando fuori il libro.
«Guarda, soffro molto nel dirtelo, ma credo sia meglio se studi da solo, così non posso distrarti» mi fingo addolorato.
«Ma no guarda, mi farebbe un piacere infinito invece, così non sarò l'unico a godere di una simile fortuna» insiste.
«Sei proprio un pollo» scherzo, lanciando il libro sulla scrivania. Sappiamo entrambi che non lo apriremo mai e proprio per questo ripetiamo la scenetta tutte le volte, come a convincerci che in realtà ci proviamo, solo che a causa d'imprevisti che non dipendono da noi alla fine non è mai aria e lo studio passa sempre in secondo piano; ma non è davvero colpa nostra.
«Credo sia meglio che tu rimanga a casa da scuola domani» riflette Alex, buttandosi con la schiena sul letto «così almeno limitiamo un po' i rischi. Sei sicuro di farcela domani sera? Non dirmi di sì per farmi contento, non voglio che tu stia male».
«Non preoccuparti, ce la faccio benissimo» sorrido «al massimo mi prendo una sdraio e mi faccio una bella dormita».
«Se ti dovessi sentir male dimmelo però - giriamo i tacchi all'istante e torniamo a casa a guardarci un film».
«Rilassati, non sto andando a morire» scherzo, lui mi spinge la spalla.
«Certo che si vede proprio che sei guarito» ridacchia alzando gli occhi al cielo. Io abbozzo un sorriso.
«Ci saranno anche gli altri?» chiedo dopo un paio di minuti di silenzio. Si gira a guardarmi, aggrottando le sopracciglia.
«Sai che non ne ho idea?» risponde, cadendo dalle nuvole «però immagino di sì, ci sono sempre in queste occasioni. Di solito dove c'è una festa ci sono loro, e poi per te potrebbe anche essere l'occasione per conoscere nuova gente, visto che di questi tempi ti stai chiudendo da morire. Da quant'è che non mi parli di ragazze - sei mesi? Sette mesi? Non è da te, amico. Okay che non ci s'innamora tutti i giorni, ma qualche tipa l'avrai pur notata».
So che sta scherzando ma un brivido mi gela la schiena. «Sarà che ho notato tutto il notabile» mormoro, pallido.
«Oh, andiamo, è impossibile. C'è sempre qualcuno da notare, soprattutto se si parla di ragazze. Questa sera almeno ci sarà di sicuro; dovrebbero venire un paio di amiche della figlia della padrona di casa, oltre a lei, quindi nuovi pesci entrano nel lago» ridacchia «e la caccia si fa più divertente».
Sento lo stomaco stringermisi e annodarsi ai polmoni, fa improvvisamente un freddo terribile.
Poi di colpo scoppia a ridere. «Dio, mi sento un imbecille a parlare così» dice con un sorriso raggiante «fa così film scadente e ammuffito che non riesco a immaginare chi ci crede davvero così. Cioè, è assurdo, no?»
Mugugno fievolmente, so che non si aspetta conferma. «Però davvero, stasera sarà divertente. Lascerà il segno».
Annuisco fra me e me, preoccupato. Non c'è niente di speciale nella festa, è un party a base di barbecue che si svolge una o due volte l'anno a casa di qualcuno del quartiere, che si offre di fornire vitto e alloggio in cambio di una quindicina di dollari a partecipante; e non c'è niente di speciale neanche nella signora che l'organizza, senza offesa per il marito. Forse si riferisce alle ragazze che la loro figlia ha invitato, ma se non le conosce neanche di vista come fa a sapere che stasera non andrà in bianco quando ci proverà con loro? E se non sa neanche se i nostri amici vengono a cazzeggiare e a bersi una birra con noi, perché mai dovrebbe essere così eccitato all'idea di andarci?
Realizzarlo è come venire colpito in faccia da un asteroide rovente.
Ci va per vedere qualcuna di preciso, qualcuna a cui basta che si avvicini per sentirsi meglio, qualcuna che è per lui ciò che lui è per me; ci va per vedere qualcuna di preciso e non posso fare niente per cambiare i suoi sentimenti.
Mi sono trovato in questa situazione tante volte in questi mesi, ma ogni volta la nausea è difficile da trattenere. Le lacrime ancora ancora, basta che ti concentri ardentemente su qualcos'altro, pretendi di star sbadigliando e te le asciughi con qualche grugnito, in modo da sembrare naturale; ma la nausea non ti colpisce a scoppio ritardato e non può essere scambiata per qualcos'altro, è il dettaglio che più di tutti colpisce chi ti sta di fronte. E in questo momento Alex è sdraiato accanto a me, non ha ancora la testa fra le nuvole e io sto sprofondando verso il centro della terra, silenziosamente, mentre tutto in questa stanza perde vitalità. Ogni volta mi sembra di morire, trovarmi a fianco qualcuno che mi disidrata goccia per goccia, senza risparmiarmi le torture più traumatiche; e ogni volta mi trovo a desiderare che sia vero, piuttosto che dover rimanere lì a guardare Alex innamorarsi e disinnamorarsi, impotente e conscio della mia posizione. Sono due tipi di morte, il risultato raggiunto è lo stesso; ma come lo raggiungi è totalmente diverso e la cosa più importante. Morire psicologicamente è mille volte peggio di morire fisicamente, perché anche se ti senti al pieno delle forze, anche se sai che il tuo corpo è perfettamente in grado di reggere il colpo, sai che la tua anima non ce la fa, che la tua mente è ormai allo stremo e che i tuoi sentimenti implorano pietà secondo dopo secondo; ti ritrovi a desiderare le cose sbagliate per te e chi ti circonda, perdi la cognizione del tempo e della realtà, e tutto ciò che ha a che fare con te diventa una trappola, un altro modo del mondo per sottometterti; e ti stanca così tanto, così tanto, che a un certo punto le tue difese crollano per forza, e con loro crolli anche tu e tutto ciò in cui hai sempre creduto. Ti senti così vuoto, così nero, così sfruttato e abbandonato che non riesci neanche a descrivere i tuoi sentimenti; arrivi al punto di non riuscire a pensare ad altro che a cose brutte, a cui non vorresti pensar mai, che vorresti rinnegare ed esiliare nella parte più remota della tua mente, e da lì è solo una strada in discesa con qualche accenno di risalita ogni tanto, e la distruzione acquista un significato molto più viscerale; un significato che non puoi esprimere a voce, che non puoi comunicare con le parole, che solo chi l'ha provato è in grado di capire; e quando arrivi a provarlo daresti qualsiasi cosa per tornare nell'ignoranza, qualsiasi.
Ma in questo momento non è la cosa a lungo termine che m'interessa, è quest'attimo, l'ora, l'abbraccio sgraziato dei brividi e la patina opaca della paura, il suo sguardo che sonda il soffitto e potrebbe posarsi su di me in qualsiasi istante; è questo senso d'irrimediabile piccolezza che mi debilita, questa costante insufficienza che mi sgomenta; è come se tutto ciò che facessi non fosse mai la mossa corretta, come se dicessi le cose giuste troppo sgarbatamente o troppo presto, come se non riuscissi mai a cogliere l'occasione adatta al momento adatto. Mi sento così fuori luogo, come se non fossi neanche in gara per lottare per un pezzo del suo cuore, e questo continuo sminuirmi mi ferisce, manco fossi la persona più cattiva del mondo. Sono un ragazzo onesto, che cerca di non ferire mai nessuno e quando gli capita fa sempre la buona azione; mi faccio in quattro per aiutare e far ridere gli altri, non litigo coi miei ogni santo giorno e non mi presento a lezione vestito in modo indecente; faccio a botte con chi se lo merita e difendo i miei amici ad ogni costo, a mensa non tiro il pranzo contro gli altri, non rubo i soldi ai ragazzi più piccoli e quando me lo chiedono dispenso pure consigli - ho tanti pregi in confronto ad altre persone della mia età, sono un ragazzo perfettamente normale. E chissenefrega se sono gay, chissenefrega se sono etero, chissenefrega se sono bi - vorrei solo essere amato dall'unica persona capace di dare un senso a tutta questa sofferenza, dall'unica persona in grado di farmi sentire una fenice quando in realtà sono solo un altro ragazzino con la testa piena di sogni e le tasche piene di sassi. Ma invece quella persona è innamorata di un'altra, e tra poco più di ventisei ore saranno assieme, respireranno la stessa aria e condivideranno la stessa risata, prestandosi un sorriso a vicenda quando non ci sarà più bisogno delle parole; e io sarò a pochi metri di distanza da loro, invischiandomi sempre di più nella loro rete man mano che proverò a scappare, e corteggerò tutta la sera un bicchiere d'alcolico sempre pieno, costringendomi poi a passare il resto della notte abbracciato al bagno, in compagnia dei rimorsi più neri. A una cert'ora smetterò di vomitare, m'infilerò nel letto accanto a lui e guarderò il buio scivolare dietro le palpebre, lasciando spazio a una luce man mano più sobria e disinfettata; e mentre l'alba dipingerà la stanza, il rimorso diventerà troppo opprimente e mi renderò conto di cosa mi sto facendo, ma scuoterò la testa e penserò ad altro. Aspetterò che l'intera città prenda vita attraverso le sue mansioni cicliche, poi, dopo essermi assicurato che i pericoli della notte siano stati debellati del tutto, chiuderò gli occhi e cadrò in un sonno leggero, simile al dormiveglia; sentirò Alex muoversi al mio fianco e a seconda del significato dei suoi gesti metterò in atto qualcosa di diverso ma familiare, che da sempre tranquillizza entrambi. E quando saremo entrambi svegli, inventerò una scusa per il mio bere recidivo e lo convincerò che volevo solo divertirmi, senza cercare di dimenticare nulla; lui mi guarderà negli occhi, io sosterrò il suo sguardo con uno finto e lui espirerà dal naso, senza insistere ulteriormente. Oppure salterà quest'ultimo passaggio e mi racconterà della sua serata, troppo emozionato per collegare la mia devastazione fisica alla sua riottenuta felicità, frutto improvviso di un'impresa azzardata, e io sorriderò con lui, condividendo la sua gioia, mentre dentro appassirò e mi accartoccerò su me stesso, dilaniato dal mio stesso salvatore.
Ma questo domani, dopo che avrò avuto l'occasione di rovinarmi e risparmiarmi i particolari più dolorosi della serata - ora c'è solo la paura di quello che potrà accadere, di quello che potrà esser fatto, di quello da cui non potrò fuggire; e mentre la paura banchetta con le infinite possibilità del futuro io sono lasciato qui, in preda a me stesso, alla deriva da ogni forma di aiuto che possa circondarmi in questo momento, e tutto mi sembra così senza speranza, così ghiacciato, così lontano. Vorrei slanciarmi di lato, stringere la mano di Alex con tutta la forza che ho in corpo e strizzare gli occhi fino a piangere, senza dovergli poi spiegar nulla, ma il pensiero mi scivola davanti con la placida consapevolezza che non mi aiuterebbe in nessun modo e lascio che si sciolga assieme al resto dei miei deliri. Gli piace qualcuna. E non qualcuna di così, passeggera, una persona che a vederla ti rimane impressa per i primi tre minuti e poi comincia a svanire; ma una persona che noti in mezzo a una folla di migliaia di ragazzi, che ti dà l'energia per restare in vita centinaia d'anni con un sorriso, che ti modella come vuole con uno sguardo e che col suo profumo scandisce il ritmo delle tue giornate; una persona di cui è impossibile fare a meno, che al solo pensiero di poterci passare una serata insieme ti fa bollire il sangue nelle vene e salire gli ormoni a mille. Una persona come Alex insomma. Ha trovato una ragazza alla sua altezza e domani sera la incontrerà, le offrirà da bere, ci parlerà e si convincerà sempre di più che è quella giusta, quella apposta per lui, e allora ciao ciao Jack, perfino i film mentali ti diranno arrivederci. Oddio - non ce la posso fare.
«Sembra che sulla tua testa ci sia un raduno di nuvole nere, si può sapere che hai?» chiede di colpo.
Lo guardo roteando le pupille e senza spostarmi, con la miglior 'faccia da persona impassibile che non stava pensando a nulla in particolare' che possiedo, poi sbatto le palpebre e torno a fissare il soffitto. «Niente, temo sia stato uno scherzo della tua immaginazione. Qui va tutto alla grande, non c'è niente che potrebbe andare meglio. Tutto okay» commento.
«Sicuro?» insiste, un po' destabilizzato.
«Come che la Terra gira» ribatto, aggiungendoci un pugnetto contro le nocche per tranquillizzarlo.
«Vuoi che chiami e dica che non veniamo più? Non hai affatto una bella cera» propone, ignorando il pugnetto.
«Ehi, calmati, va tutto bene» mi affretto a rispondere «l'hai detto tu, domani lascerà un segno; non andarci è del tutto fuori questione. Va tutto per il meglio, quindi non preoccuparti, okay? Sarà una serata a dir poco grandiosa». Esita.
«Chi è il mio campione?» scherzo con una voce buffa, porgendogli un'altra volta il pugno. Suo malgrado ride.
«Barakitty, sei proprio un idiota» scrolla la testa, io abbozzo un sorriso. Guardarlo mi fa venire da piangere, ma non devo.
«Ti va se chiamo i ragazzi e gli chiedo che fanno?» propongo, tirandomi a sedere e guardandolo di sfuggita. Annuisce.
«Mi sembra un'ottima idea» commenta storcendo le labbra in una smorfia d'approvazione «io intanto vado in bagno». Lo guardo uscire, aspetto che la porta del bagno si chiuda dietro di lui e mi alzo in piedi, raccattando il cellulare dal tavolo e dirigendomi giù per le scale; esito un attimo, urlo che sto uscendo un secondo e vado a sedermi sul marciapiede davanti al loro cancello, dando le spalle alla porta in modo da accorgermi se qualcuno esce. Rimango immobile per qualche secondo, lo sguardo perso nel vuoto, poi le lacrime cominciano a uscire ed io a tremare, strizzando gli occhi in silenzio. Vorrei che il cemento che mi circonda mi mangiasse e mi digerisse, senza lasciar nulla ma un guscio vuoto impossibile da ferire. Piango a dirotto per forse mezzo minuto, poi mi obbligo a smettere, mi asciugo gli occhi e chiamo Zack.
«Jack, bello, che mi dici? Stai meglio?» mi accoglie subito la sua voce, sinceramente felice di sentirmi. Tiro su col naso.
«Tutto bene, sì... che mi sai dire del barbecue del vicinato? Ci vieni?» domando, passandomi una mano sulla faccia.
«Quello di domani dici? Penso di sì, perché?» chiede.
«Bho, così, veniamo anche noi ma volevo sapere un po' con chi avrei passato la serata» rispondo.
«Be' con lui, mi pare ovvio» ride «oppure ha in mente una notte di sesso sfrenato?»
«Non so riguardo al sesso, ma qualcuna in mente ce l'ha» mormoro, inumidendomi le labbra. Zack smette di ridere.
«Ah, cazzo. Bello, mi dispiace, scusa, non avevo idea» farfuglia «senti, se vuoi possiamo andare a farci un giro e sti gran cazzi della festa; ci appalesiamo giusto il primo quarto d'ora e poi chi s'è visto s'è visto, giriamo i tacchi».
«Non sarebbe una cattiva idea» commento, poi resto un attimo in silenzio e tiro su col naso, espirando lentamente. «Ma così mi tormenterei pensando a cosa sia successo, non credo sia il caso...». Lo sento annuire attraverso il telefono.
«Certo, sì, ho capito, hai più che ragione... però non credo che stargli attorno ti aiuti molto di più» nota con gentilezza.
«Lo so, è che... se lo vedo almeno so cosa aspettarmi, capisci? Se invece sono da un'altra parte non posso sapere cosa succede, cosa non succede, praticamente mi getto da un aereo senza paracadute» sospiro, disegnando dei cerchi nel selciato con le dita. «D'altra parte se non lo vedo posso pure illudermi, ma se succede qualcosa e lo vengo a sapere da qualche voce sarà molto peggio di averlo visto con i miei occhi».
Zack sospira sonoramente, credo stia scuotendo la testa o quantomeno cercando un'altra via d'uscita. «Aspettati compagnia domani» dice alla fine «non ti lasceremo solo un secondo». Annuisco e abbozzo un sorriso.
«Grazie Zack. Ci vediamo domani» mormoro, poi chiudo la chiamata e poso le braccia sulle ginocchia, accoccolandoci la testa sopra; respiro nel silenzio per un po', poi sospiro, mi siedo per bene e compongo svogliatamente il numero di Rian.
«Jack, ehi, come stai?» mi risponde al quinto squillo con voce affaticata; probabilmente ha appena finito gli allenamenti.
«Tutto okay, mi chiedevo se saresti venuto domani» dico, mordicchiandomi distaccatemente il labbro. Ci pensa su.
«Massì dai, perché no? Ci becchiamo lì?» propone, schiarendosi la gola.
«Andata. A domani» lo saluto, lui attacca e io rimango fermo per un altro po' a rigirarmi il cellulare fra le dita, poi decido che è passato troppo tempo, mi tiro in piedi e rientro in casa, fermandomi a pulirmi le scarpe sul tappetino. Nell'ingresso vuoto rimbomba l'eco della voce di Alex, al telefono con qualcuno. Faccio un po' di casino per fargli capire che ci sono e lui riattacca sbrigativamente con un 'mi manchi anche tu, a domani', al che si affaccia sulle scale e mi sorride.
«Allora? Che hanno detto?» domanda, affrettandosi a scendere.
«Vengono tutti, ci vediamo direttamente là» rispondo, cercando di eliminare quel 'mi manchi' dalla memoria «per te va bene o preferisci che gli dia un altro appuntamento, chessò, prima di andare?»
«No no, è perfetto» si sbriga a chiarire, poi si calma. «Vuoi vedere qualcosa?» propone, allegro.
«Veramente vorrei prendere un'altra boccata d'aria» dico, sentendomi addosso una stanchezza infinita «per te è okay?»
«A me va benissimo, basta che non ti allontani troppo o ti sentirai male» poi esita un attimo: «ce l'hai il telefono?»
«Sì, non preoccuparti» mormoro «in caso ti chiamo». Lui annuisce, mi dà una pacca sulla spalla e abbozza un sorriso.
«A dopo allora» mi saluta «vedi di non strafare». Ricambio il saluto e mi dirigo nuovamente verso la porta, facendo uno sforzo immenso per non strascicare i piedi durante il tragitto; ma quando me la chiudo alle spalle non mi sento per niente meglio. Un alito di vento mi sfiora il viso ma lo sento a malapena, avvolto dai pensieri come sono, così barcollo verso destra e proseguo alla cieca, guidato passivamente dai miei piedi. Quel 'mi manchi anche tu' potrebbe anche essere rivolto a qualcun altro, non necessariamente a una ragazza; d'altra parte chi lo dice che a un maschio non possano mancare anche i ragazzi? Magari si riferiva a un altro suo amico che per puro caso domani si troverà alla festa, e visto che non si vedono da tanto tempo a causa dell'influenza non vedono l'ora di rincontrarsi e scambiarsi le ultime novità su, che ne so, chitarre, dischi, videogiochi, partite di football, roba del genere. Nessuno lo vieta, no? Quindi calmati nasone, potrebbe esser stato chiunque, non per forza lei - anzi, ti pare che siano già arrivati a quel punto senza che nessuno ne abbia detto nulla? Va tutto bene, non preoccuparti, sei solo spaventato; vedrai che è solo suggestione.
Mi prendo la punta del naso fra le dita e mi fermo per fare dei respiri profondi, cercando di calmarmi. Non può esserci una ragazza, Alex te l'avrebbe sicuramente detto se si fosse innamorato; quindi tranquillo, respira, vedrai che nel giro di tre giorni non ci penserai neanche più su; va tutto per il meglio, va tutto bene, devi solo calmarti e respirare, re-spi-ra-re.
Quando riapro gli occhi mi rendo conto di star piangendo. E fanculo tutto, mi sposto dalla strada, mi accascio in un punto seminascosto da una siepe e piango finché le lacrime non si stufano di uscire; poi mi alzo, mi tolgo la polvere dai pantaloni, mi asciugo gli occhi e torno sui miei passi, svuotato. Spero che non mi stia aspettando.

Fortunatamente quando rientro è in camera che studia per l'interrogazione a tappeto di matematica - non che capisca i procedimenti, però almeno così la teoria sa ripeterla - così posso scivolare in bagno senza doverlo prima incontrare. Mi lavo velocemente la faccia con dell'acqua fredda ed evito di osservarmi allo specchio - so benissimo che aria devo avere, posso sistemarmi un po' i capelli ma sicuramente non si vedono tracce di pianto. Questa è una cosa bella del mio corpo, posso piangere e disperarmi quanto mi pare ma guardandomi in faccia non me lo si vedrà mai addosso, mai. È tanto una benedizione quanto una sfortuna, perché non posso contare su una pacca solidale da parte dei miei amici se prima non mi hanno visto piangere o comunque buttarmi giù, e a volte ce ne vuole una inaspettata.
«Com'è andata la tua passeggiata?» mi chiede Alex quando rientro in camera, io scrollo le spalle e mi siedo sul letto.
«Bho, normale» rispondo «sono arrivato fino alla curva e mi sono seduto ad osservare il cielo per un po'».
«E com'era?» sorride.
«Sembrava dipinto con degli acquerelli» sorrido a mia volta.
«Ragazzi, sono a casa» urla invece Isobel dal piano di sotto, lasciando cadere delle buste sul tavolo.
«Ciao mamma» grida di rimando Alex, lasciando il libro di matematica sul tavolo «vuoi che scendiamo?»
«Ma sì dai, facciamo un po' di conversazione» risponde, Alex mi fa un cenno allegro con la testa e ci dirigiamo in cucina, senza però scapicollarci giù per le scale. «Come va?» domanda lei, bevendo un bicchier d'acqua. «State meglio?»
«Huh-uh, molto meglio» rispondo, abbozzando un sorriso.
«Ah sì? Mi fa piacere sentirlo» dice, posando il bicchiere nel lavello «ma forse è meglio se domani stai a casa».
«Gliel'ho detto anch'io, poi comunque domani andiamo al barbecue quindi è meglio se è riposato» interviene Alex.
«Da quando t'intendi di medicina, tu?» ribatte Isobel, sorniona, e lui le fa la linguaccia.
«A che ora programmate di uscire?» domanda quindi, tirandosi indietro i capelli con una molletta.
«Sette e mezza, otto penso» butta sul vago Alex «tanto comunque lì c'è già gente, quindi non ci annoiamo».
«E i vostri amici a che ora arrivano?» s'informa, lo sguardo di Alex cade su di me.
«Ah, er, verso le sette e mezza anche loro mi sembra» rispondo, senza averne la più pallida idea.
«E verso che ora contate di tornare?» domanda. Alex scrolla le spalle, come a dire che non ci aveva ancora pensato.
«Non lo so, l'una, le due» propone, ma lei boccia il tutto con un gesto secco della mano, scuotendo il capo.
«Non se ne parla neanche» ribatte decisa «sei appena guarito e Jack è ancora sull'orlo del ricaderci, sarei un'incosciente a lasciarvi andare e star fuori così a lungo di punto in bianco. A mezzanotte e mezza, l'una meno un quarto massimo, dovete essere qui, meglio se ce la fate prima ma assolutamente non un minuto dopo o finite nei guai; ci siamo capiti?» Annuisco. Può sembrare severissima dai toni che assume, ma alla fine Isobel è una donna che ti viene molto incontro per fortuna.
«Tu non vieni?» domando e lei mi guarda con aria intenerita.
«Questi barbecue sono organizzati soprattutto per voi giovani, noi adulti facciamo una cena un po' più calma alla fine della strada, quindi non credo c'incontreremo» risponde, e improvvisamente mi ricordo che è così da almeno sette anni.
«Forse è meglio se domani non torniamo a mezzanotte e tre quarti» ride Alex.
«E va bene via, i dettagli più importanti li abbiamo sistemati» espira Isobel con soddisfazione, annuendo vistosamente «ora avete la facoltà di apparecchiare, mentre io metto su l'acqua e cerco d'inventarmi un sugo».

La cena passa velocemente, senza argomenti degni di nota, e presto torna il mio momento preferito del giorno: l'andare a dormire. In realtà sono già sotto le coperte e sull'orlo dell'addormentarmi da parecchio, ma non ho idea di dove sia andato a finire Alex quindi cerco di rimanere sveglio con tutte le mie forze. La casa è silenziosa - dal salotto ogni tanto arriva l'eco di uno sparo ma per il resto l'unico segno di vita è dato dal danzare delle luci della televisione contro il muro subito attaccato alle scale - ma mi fa strano pensare che sia uscito in giardino. Voglio dire, è appena guarito da una brutta influenza, sarebbe stupido rischiare subito di riprendersela a causa di una passeggiatina notturna, tanto più che non ha neanche il bisogno di fumare o, o... o fare una telefonata importante in santa pace. Okay, questo è maledettamente plausibile. Cazzo. Mi stringo il cuscino sulla faccia per evitare di urlare e grazie al cielo dopo un po' mi addormento, risparmiandomi il dolore dell'attesa. Quando mi risveglio però lui c'è.
Lancio un'occhiata all'orologio sul comodino e noto stancamente che sono quasi le quattro; dovrei andare in bagno ma sono troppo impastato dal sonno per volermi alzare e spingere lontano dal letto, quindi mugolo e scaccio l'idea. Muovo leggermente le dita e con mio grande sollievo incontro quelle di Alex, che mi stringono premurosamente. Man mano che riacquisto sensibilità mi accorgo che non sono solo le mie mani a essere strette dalle sue, ma tutto il mio corpo - senza essermene accorto per la stanchezza, ho dormito dandogli la schiena, circondato dalle sue braccia, e ora che l'ho notato non posso evitare di sentirmi bollente ovunque. Avvampo totalmente e poggio nuovamente la testa sul cuscino, il sangue che mi pompa sonoramente nelle tempie - si è addormentato abbracciandomi, cazzo, abbracciando me, Jack, il nasone; il sottoscritto, cazzo. Sto per esplodere di gioia, non posso farcela. Lo guardo con la coda dell'occhio e vedo che sta dormendo placidamente, soffiando silenziosamente fuori le brutte sensazioni e inspirando invece tranquillità, e non riesco a capacitarmi del fatto di essere qui, fra le sue braccia, mentre qualche ora fa era con la testa su un altro pianeta, troppo impegnato a pensare a qualche altra ragazza per darmi la minima attenzione. Gli stringo più forte la mano e chiudo gli occhi, sorridendo. L'idea che stia abbracciando me perché non può abbracciare lei non mi sfiora neanche per un attimo e mi addormento felice, avvolto dal suo calore.

La mattina dopo quando si alza per andare a scuola inciampa e si aggrappa alla sedia, facendo abbastanza rumore per svegliarmi; esita qualche secondo ma vedendo che continuo a tenere gli occhi serrati tira un sospiro di sollievo e va in bagno, rimettendosi le cuffie. Torna in camera dopo forse cinque minuti, senza maglietta. Lo guardo armeggiare con le ante dell'armadio e rovistare fra i cassetti alla ricerca di qualcosa di carino, ma più che sui vestiti mi concentro sul suo petto magro, esitando all'altezza del bacino. Strizzo le palpebre e mi giro dall'altra parte. Torna a dormire, Jack.

Passo la mattinata a leggere e scarabocchiare pezzi di canzoni sul quaderno di letteratura, sovrappensiero. Ora che ho dormito e metabolizzato leggermente la cosa, il fatto che Alex possa essersi innamorato di qualcuna e che non veda l'ora di andare alla festa per incontrarla non mi sembra più l'unica opzione plausibile. Certo, rimane la più probabile, ma non dev'essere necessariamente così; alla fine potrebbe davvero trattarsi di una vecchia amica o di un amico perso di vista, oppure di un parente o di comunque qualcuno che ha cambiato città ma prima viveva qui nei dintorni. Cioè, dai, perché no? In fondo è sempre più frequente che la gente si sposti per lavoro o perché un parente sta male, quindi non è così impossibile che sia successo anche con questa persona; che poi vogliano parlarsi al riparo da qualsiasi paio d'orecchie è ancora più normale, a nessuno piace che gli altri origlino le proprie conversazioni. Quindi credo di poter prendere un respiro profondo e rilassarmi, magari stasera non sarà poi così grave. La speranza prima di tutto, no?
«Vieni qui» mormoro, sporgendomi e abbracciando la chitarra. Magari riesco a finire la canzone.
«I said I'd never forget your face, vaulted away inside my head, and memories never seem to fade» muovo lentamente le dita sulla tastiera, alla ricerca degli accordi giusti. Ho sognato questa scena, so già cosa fare. «You were the best part of my life, my last regret» la chitarra esita sotto il mio tocco insicuro, ma le parole sembrano scritte per suonare bene solo se accompagnate da queste corde, non mi sento a disagio. «Now I've walked this line a thousand times before, it hurts too much to bear» il suono si fa più forte, ho già provato questa parte abbastanza da saperla riprodurre a occhi chiusi. «For you I'd tear out my own heart and write our names together» la mia voce si abbassa per un istante ma l'attimo dopo sono di nuovo sicuro dell'intonazione che devo prendere. «Your love is the barrel of a gun so tell me, am I on the right end? I could be nothing but a memory to you» senza volerlo, comincio a tremare e in pochi secondi sto piangendo violentemente, stringendo la chitarra fino a farmi male. Rimango curvo sullo strumento per un tempo che non riesco a decifrare, poi soffio via una lacrima che mi sta per cadere dal naso e deglutisco, tenendo lo sguardo basso «don't let this memory fade away». Lascio andare la chitarra, la poso sul letto accanto a me e faccio un respiro profondo, mordendomi il labbro. Esito qualche secondo, poi deglutisco di nuovo, mi alzo e vado a farmi una doccia. Sarà di ritorno presto, andrà tutto bene. Tutto bene.

«Jack!» urla rientrando in casa, lanciando freneticamente lo zaino all'ingresso e affrettandosi a raggiungermi.
«Ehilà, come mai così di buon'umore?» domando, mettendo giù il libro.
«Non indovinerai mai chi ho incontrato per strada» esclama eccitato con un sorriso a trentadue denti.
«Il tuo cervello forse?» dico, lui alza gli occhi al cielo e scuote la testa, senza farsi rovinare la giornata.
«Molto simpatico ma non ci sei andato neanche vicino. Te lo dico?» aspetta un attimo, poi esclama: «Lisa!». Devo aver fatto una faccia diversa da quella che si aspettava, perché mi chiede se me la ricordo; rispondo di sì e lui torna a sorridere, felice. «Cioè non so se mi abbia visto ma era lì, cavolo, era proprio lei» continua, scavalcando il bracciolo del divano con un salto e venendomisi a sedere accanto «a qualcosa come cinque, sei metri da me, capisci?»
«Figata, ma questo dove?» lo assecondo.
«Proprio quaggiù, a mezzo chilometro da casa» risponde adrenalinico «chissà che ci fa qui, non ci viene mai».
«Magari ha qualche amico nei paraggi oppure sta semplicemente cazzeggiando in giro» suppongo, e lui annuisce.
«Già, dev'essere così; però che figata, eh?» gongola, lasciandosi cadere pesantemente contro lo schienale del divano.
«In effetti era parecchio che non si faceva sentire» realizzo.
«Vero? Dev'essere stata parecchio impegnata ultimamente, chi lo sa» conviene Alex, riflettendoci.
«Be' dai, è una gran bella cosa» esclamo «speriamo venga anche lei alla festa di domani, sarebbe bello rivederla».
«Più che bello direi, non le parliamo seriamente da un casino di tempo» s'infervora, eccitato. Comincia a parlare ma ben presto stacco l'audio, so per esperienza che il suo monologo durerà ancora almeno una mezz'oretta.
Lisa è una ragazza della nostra età che prima veniva a scuola con noi e usciva col nostro gruppetto tutto il tempo, ma poi i suoi genitori hanno trovato un lavoro più retribuito in un'altra città e sono andati a vivere lì, portandola via con loro. Credo sia passato qualche mese dall'ultima volta che i suoi riccioli biondi hanno messo piede a Baltimora, e decisamente più tempo dall'ultima volta in cui ha fatto un giro nel nostro quartiere. Non è che ci siano stati grossi rancori fra noi, ma tempo fa Alex mi ha convinto a uscirci perché a quanto pare le piacevo parecchio, solo che alla fine c'è finito a letto mentre noi cominciavamo finalmente a conoscerci, quindi diciamo che è un po' saltato tutto. Non so dire fino a che punto ci sia rimasto male, ma alla fine mi è passata. Siamo ancora migliori amici, scherziamo ancora, facciamo ancora battute sporche e se capita commentiamo pure le ragazze che ci passano sotto il naso. Insomma, tutto okay. Però a differenza mia, che quando la vedo rimango assolutamente indifferente, per qualche motivo Alex si emoziona ancora a incontrarla per strada quando non se lo aspetta. Sarà che era particolarmente brava sotto le coperte e gli è difficile non ricordarselo quando la vede, non saprei; ma non mi è sembrata una ragazza poi così eccezionale neanche la prima volta che l'ho vista, figuriamoci ora. Però adesso è tornata, quindi immagino tornerà con noi. Chi lo sa.
«Ah, per pranzo abbiamo dell'insalata di riso» mi ricordo, anche se so che è l'ultima cosa a cui sta pensando adesso.
«Ma certo che sì» dice infatti, da tutt'altra parte con la testa «sono sicuro che sarà più che felicissima di rivederti».
«Be' sì, in effetti faccio spesso colpo sulle insalate» sorrido sotto i baffi mentre rimugina.
«Credi che le andrà bene se proverò a avvicinarla? Dopotutto non ci vediamo da secoli ed eravamo buoni amici prima».
«Non vedo perché non dovrebbe andarle bene» ammetto «alla fine non credo che le sia dispiaciuto».
Si gira a guardarmi come se se lo fosse appena ricordato e mi rendo conto della gaffe; ma ci ride sopra prima che possa farlo io. «Figurati se è quello il problema» dice mettendosi la mano davanti alla bocca «quello le è piaciuto sicuro».
«Troppa sicurezza fa male» lo sfotto «ma credo comunque che non esista proprio il problema. Voglio dire, non le hai fatto niente di male, perché non dovrebbe volerti vedere?»
Scrolla le spalle. «Le conosci le ragazze, non si capisce mai come ragionino» commenta, franco.
«Secondo me se le regali un fiore la conquisti anche stavolta» scherzo; lui scuote la testa e ride di nuovo.
«Probabilmente hai ragione, la situazione non è così tragica» ammette rincuorato, tirandosi su dopo aver fatto leva sulle ginocchia «dai, andiamo a vedere un po' cosa ci ha lasciato mamma, ho una fame che non ti dico». Si avvia verso la cucina e lo seguo, alzando gli occhi al cielo. Il mio pollo preferito.
«L'insalata di riso è nel primo ripiano, sopra i noodles precotti» lo informo entrando nella stanza.
«Ah davvero? Grande» esclama tirando fuori la vaschetta dal frigo «ce n'è una quantità industriale, ci durerà per mesi». Apro la credenza e metto due piatti sul tavolo, aggiungendo due tovaglioli e due forchette; ai bicchieri ci pensa Alex, che poi comincia a mettersi un po' d'insalata nel piatto, dopo avermi chiesto se volevo essere il primo a mangiare.
«Che avete fatto oggi a scuola?» domando quando ha finito di servirsi «ti ha più interrogato matematica?»
«Non ci ha neanche provato» scuote la testa masticando un primo boccone «meglio perché non mi ricordavo nulla».
«Per il resto tutto okay?» chiedo, abbassandomi per evitare di far cadere troppo riso.
«Nick chiede come stai e ti manda i suoi più calorosi saluti» mi sfotte abbozzando un sorriso. Mi rannuvolo.
«E i ragazzi hanno detto che si faranno trovare alle sette e mezza vicino al tavolo del punch» aggiunge, addolcito.
«Questa è una gran bella cosa» commento, riprendendomi «e magari hai chiesto anche a qualcun altro?»
«In realtà no, tanto alla fine ci si ritrova tutti, volenti o nolenti» ammette, giocherellando col cibo.
«Mi sembra giusto» annuisco «e, hum, nient'altro da aggiungere?»
«C'è un raduno per coppie miste questo week-end, un paio di quartieri più a est, lo organizza la chiesa giù all'angolo... credo che tu e Nick sareste molto ben accetti» scherza, godendosi la mia espressione contrariata.
«Dio, parlare di queste cose con te è bellissimo» ride di gusto «abbocchi sempre al primo colpo; non importa quanto sia cliché ciò che dico, abbocchi ogni singola volta. Sempre, sempre, sempre. Dio, Jack, sei meraviglioso, cazzo».
Non è che mi senta molto lusingato ma ammetto che ha tutta la ragione del mondo dalla sua. Abbozzo un sorriso.
«Comunque, seriamente parlando, è andato tutto come al solito. Tidell che spiega e viene ignorata, ore successive in un coma irreversibile, ricreazione troppo corta e troppo affollata, bagni schifosi e caffè troppo annacquato» commenta. «Insomma, solita roba. Lauren si è beccata una nota perché si rifaceva il trucco al posto di ascoltare la lezione, e credo ci siano stati dei problemi fra lei e il ragazzo perché oggi flirtava con mezza classe».
«Come se ci fosse qualcuno pronto a sfidare le ire di un quaterback simile per entrare nelle sue mutande» ribatto.
«Hai centrato il punto» conviene divertito «dovevi vedere la sua faccia mentre si voltavano tutti dall'altra parte, non credo si sia mai sentita così indesiderata in vita sua». Scoppio a ridere assieme a lui, non credo le sia mai successo.
«E alla ricreazione? Avete seguito le sue tracce per un po'?» domando, tornando a masticare.
«Guarda, ti basta sapere che si è slacciata un po' i bottoni della camicia e sono scappati tutti» ridacchia.
«Oddio e lei?» non ce la vedo proprio, soffoco al solo pensiero.
«Lei niente, s'incazzava e persisteva, umiliandosi ancora di più» risponde allegro, servendosi un'altra forchettata.
«E a voi non ha detto nulla?»
«Be' no, ecco, una cosa l'ha detta» resta un attimo in silenzio, annuendo fra sé con l'aria mezzo rassegnata di chi è abituato ad avere a che fare con i pettegolezzi più assurdi e non sa come prenderli «ci ha provato spudoratamente con Ri ma è passata Cassadee che l'ha uccisa con lo sguardo, quindi ha lasciato perdere. Zack si è girato dall'altra parte con un'aria da 'ommioddio questo muro è veramente interessantissimo' così non ha neanche potuto tentare, poi ha visto me, ha fatto una smorfia e ha detto 'ma che ci provo a fare, tanto questo è frocio', poi se n'è andata».
L'atmosfera si è improvvisamente raffreddata. «Oh» è l'unica cosa che riesco a spiccicare «mi spiace».
Scrolla le spalle, indolente «Non importa. Non c'è nulla di sbagliato nell'essere gay, non lo prendo come un insulto».
Però riesco a vedere che c'è rimasto male. «Se ti può consolare crede che io sia un ermafrodito» dico.
«Ma sappiamo entrambi che non c'è proprio vicina» ribatte, abbozzando un sorriso.
«Okay, questo era decisamente gay» esclamo, ridendo sotto i baffi «ma tanto sticazzi di quello che dice Lauren, alla fine la cagano solo perché la dà facilmente. Se gli altri perdessero un solo secondo ad ascoltarla, si ritroverebbe sola».
«Hai anche ragione» ammette, ma devo aver mascherato male la mia apprensione perché poi sorride e aggiunge: «è tutto okay, davvero. Non preoccuparti. Può dire quel che le pare su di me, sono cavoli miei chi e cosa mi piace - di sicuro non vado a farmi influenzare da quello che pensa una ragazza del genere». Annuisco, un po' rassicurato.
«E gli altri che hanno fatto?» domando.
«Si sono girati entrambi con gli occhi sgranati e sono rimasti senza parole con me; poi dopo un po' che lei aveva girato l'angolo Zack si è portato una mano alla fronte e ha detto 'be', adesso le ho proprio sentite tutte'» abbozza un sorriso «ora che ci penso, è stato un commento simpatico. Ebbravo Zack».
«Certo che un pacco di affari suoi ogni tanto non le farebbe male» commento, piccato.
«'Se devi dire cose sgradevoli tanto vale che non apri bocca'» conviene Alex, alzandosi per portare il piatto sporco nel lavandino «tanto più che su di lei ci si potrebbero scrivere delle trilogie intere senza trovare un dettaglio carino».
Seguo il suo esempio mentre apre l'acqua «Tanto quest'anno non lo supera di sicuro coi voti che si ritrova» dico.
«Non vedo l'ora di lasciarmela alle spalle» soffia, e so per certo che per lui la situazione in classe è più pesante. Io me la cavo un po' meglio perché sono il pagliaccio della situazione, quindi la gente mi tollera più facilmente, ma quella che ho scelto io è la strada facile, fra noi due quello speciale è Alex. Essendo il ragazzo amabile che è, anche se non parla molto pian piano si sta facendo apprezzare anche dagli individui più falsi e superficiali dell'istituto; ma per ora fa fatica a integrarsi in classe perché non ha molto in comune con quelli che ci circondano, che non esitano a metterlo da parte e cercarlo la maggior parte delle volte solo per tornaconto, visto che con loro non si arrabbia mai. Dice che non gli interessa particolarmente star simpatico 'a quell'inutile banda di piccioni' e che quindi possono trattarlo come gli pare, ma probabilmente non riuscire a fare amicizia lo fa sentire un po' diverso e solo, ed è un pensiero brutto perché è tutto ciò che vorrei essere e dovrebbe essere amato.
Lo osservo trafficare distrattamente con bicchieri e posate sotto il getto d'acqua fredda, poi quando chiude il rubinetto e si volta verso di me mi limito ad aprire le braccia e invitarlo con un cenno del capo. Non dice nulla ma si avvicina e si stringe a me, lo circondo e rimaniamo avvolti così per un po', a respirare assieme nel silenzio totale.
«Non mi era mai successo prima» mormora dopo un po', sento le ciglia muoversi lentamente su e giù lungo il mio petto.
«È un'infame» ribatto, accarezzandogli i capelli «i tuoi sentimenti, qualunque essi siano, riguardano solo te».
Non ha il respiro affannato, ma so che si sente pesantissimo. «La gente non dovrebbe giudicare dall'aspetto» sussurra.
«Non è colpa tua se lo fa, purtroppo i pregiudizi esistono da sempre» soffio, senza fermare le dita «e poi mica è un difetto avere il senso dei colori, non sai quante ragazze darebbero un rene per avere un fidanzato che se ne intenda».
Ride per qualche secondo. «Secondo te sono troppo effemminato, Jack?» chiede poi.
«Devo essere sincero? Per niente; sei perfetto così, è Lauren che non ci capisce un cazzo» rispondo, e lui sorride.
«Grazie» mormora dolcemente «Lauren può anche farsi fottere».
«Credimi, ci sta sicuramente provando in tutti i modi» scherzo, in tutta risposta lui mi stringe fino a togliermi il fiato.
«Ouff» esalo, spalancando gli occhi; poi allenta la presa e ricomincio a respirare, lasciandogli una mano fra i capelli.
«Alex, Cristo santo, non farlo mai più» squittisco «a momenti vomitavo la milza».
Ride e lo stringo più forte, posando la testa sulla sua. «Non importa quello che dice Lauren, tu sei e rimarrai fantastico, okay? Sei etero? Tanto meglio per le ragazze, guadagnano un gran bel premio. Preferisci i maschi? Perfetto, li avrai comunque tutti ai tuoi piedi. Non devi preoccuparti di quello che pensano gli altri, puoi essere felice in ogni caso».
«E tu e gli altri sareste felici se fossi gay? Non avreste paura?» soffia.
«Paura di cosa? Se all'improvviso ti svegliassi e ti piacessero i maschi sarebbero affari tuoi, non nostri; e le cose fra noi rimarrebbero comunque le stesse - forse riusciremmo perfino a convincere Ri ad accompagnarti per locali, pensa».
Lo sento sorridere. «E tu saresti felice?» chiede, alzando lo sguardo verso di me.
«La persona più felice del mondo. A me basta che tu riesca a essere te stesso e contento di ciò che sei, il resto conta poco o niente» lo tranquillizzo dolcemente, tornando ad accarezzargli i capelli. Dio, sarei felice da morire.
«Certo che Lauren è proprio sfortunata» commenta dopo qualche secondo, arricciando le labbra in una smorfia soddisfatta «anche se fossi gay riuscirei a essere più felice di quanto è lei nei suoi sogni più sfrenati. Mi spiace per lei».
Rimango in silenzio alla frase - devo ammetterlo, mi ero fatto un gran bel film mentale su lui che faceva coming out fra le mie braccia, io che gli dicevo che avevo anch'io qualcosa da dirgli e mi dichiaravo e lui che mi diceva che provava le stesse cose per me, poi ci baciavamo e aiuto a cuccia cuore. Alex lo nota, ride e mi guarda.
«Jack? Tutto okay?» scherza, io mi sbrigo ad annuire.
«Assolutamente, ogni tanto mi prende» mi paro il culo, lui ride di nuovo e mi sorride.
«Sei proprio un tipo strano tu» commenta «sarà per questo che siamo sempre stati amici».
Gli do un pizzicotto allo stomaco e si piega in avanti con una risata «Strano a chi?» lo stuzzico, continuando.
«Strano chi? Chi?». Continua a ridere e si aggrappa alla mia maglietta - non me l'aspetto così inciampo su di lui.
«Ommioddio Jack levamiti di dosso, pesi un quintale» esclama riprendendo fiato, ancora vittima della ridarella.
«Ma senti chi parla, perché non hai idea di quanto pesi tu!» ribatto, divertito.
«Sicuramente meno di te, manco na trebbiatrice riuscirebbe a superarti» mi sfotte mettendomi una mano sotto il petto e spingendo verso l'alto, sollevandomi di qualche centimetro. Mugugno perché mi è difficile respirare, ma da così il suo viso mi sembra ancora più bello quindi tengo la bocca chiusa finché il braccio non gli crolla e cado di nuovo su di lui.
«Attenzione, atterraggio numero due riuscito» distorco la voce, lui mi spinge di lato con una risata e rimane sdraiato. Mi tiro sui gomiti e mi volto a guardarlo, questa situazione mi sembra stranamente buffa.
«Sai Jack, vorrei che momenti così durassero per sempre» si volta verso di me «io, te e quest'infinità di risate».
Sorrido. «Lo faranno, non ho la minima intenzione di abbandonarti».
«Ne sono felice» sorride sinceramente «non sopravviverei».
«Grazie di esistere, lex» mormoro, improvvisamente avvolto da un'ondata di calore e felicità «senza di te il mondo sarebbe terribilmente grigio». Allunga la mano verso di me e la stringo stretta, poi rimaniamo zitti per un po', sdraiati sul pavimento ad osservare i giochi di luce che si riproducono sul soffitto. Tutto attorno a noi è chiaro e di buonumore - mi sento come se in questo momento potessi fare tutto senza mai fallire e quando guardo le nostre dita intrecciate non posso non pensare che in effetti non ho bisogno di tentare nulla, la gioia ce l'ho già accanto.
«Alex?» lo chiamo dopo un po', si gira a guardarmi.
«Dimmi» risponde, squadrandomi.
«Se mai te ne andassi, ti rincorrerei e ti porterei indietro». Sorride dolcemente.
«Grazie Jack» mormora «non potrei sperare di meglio».
Torno a fissare il soffitto con un sorriso ancora più grande dipinto sulle labbra. Qualcosa mi dice che non lo perderò mai, e voglio credere in questo qualcosa con tutte le forze che abbia mai posseduto, senza esitazioni.
Dopo un po' Alex si alza e mi tira su con sé, si dirige verso il salotto e si spaparanza con un sospiro soddisfatto sulla poltrona dell'altroieri, invitandomi a fare lo stesso con un gesto del capo. Obbedisco e mi siedo sulla poltrona dirimpetto alla sua, poi mi stiracchio e mi metto comodo, tentato dal sistemarmi coi piedi verso l'alto e la testa al loro posto.
«Abbiamo quattro ore prima di andare al barbecue» conta sulle dita «che facciamo?»
«Ti va di provare un po'?» propongo dopo averci pensato su.
«Ci sta» conviene Alex annuendo «vado a prendere le chitarre, così magari mi musichi pure la canzone».
Si alza e corre su per le scale, mentre io rotolo giù dalla poltrona e mi sistemo in una posizione normale; ricompare dopo due minuti e mi porge la chitarra acustica di prima, poi posa sul tavolo una ventina di fogli bianchi e di spartiti da riempire, assieme a una penna e a una matita, e mi guarda tutto allegro.
«Così magari butti giù le note e la mettiamo nel raccoglitore con le altre» dice e io annuisco.
«Preferisci che prima scriva o suoni?» domando, più per guadagnare tempo che altro - so già come risponderà.
«Suona, così se qualcosa non ti convince del tutto possiamo rivederla assieme» dice infatti, sedendosi sul bracciolo. Annuisco, imbraccio lo strumento e comincio a pizzicare le corde, dopo aver controllato di non aver scordato la chitarra dopo il mio set di stamattina; decido di non alzare lo sguardo per non rischiare di scoppiare a piangere inutilmente e dopo un attimo di esitazione comincio, deglutendo.
«Ho fatto un sogno stanotte, e quando mi sono svegliato avevo le parole per la prima parte. Sii cattivo, mi piacerebbe se diventasse una buona canzone» mormoro, finendo di suonare le note iniziali. Attacco a cantare premendo gli occhi sulla tastiera - l'imbarazzo in questi momenti è qualcosa di inevitabile anche se in effetti ci siamo sempre messi a nudo per quanto riguarda i sentimenti, ma più che altro ho paura di lasciarmi scappare qualcosa senza rendermene conto - quindi non so che espressione possa aver assunto. Non credo di volerlo sapere.
«Jack, perché non li componi tu i nostri pezzi?» dice semplicemente quando poso la chitarra e respiro a fondo.
«Perché abbiamo il miglior compositore della contea e sostituirlo sarebbe una gran cazzata» ribatto, imbarazzatissimo.
«Dico sul serio, è da paura» insiste «e dire che l'hai pure sognata, cioè io non ne sarei capace».
«Smettila e aiutami a trascrivere le note» faccio goffamente, sporgendomi per prendere i fogli e la penna.
Ride sotto i baffi e prende la chitarra dal mio grembo, lasciandomi libero di scrivere, poi ci ripensa e mi dà indietro lo strumento, prendendosi i fogli «Dimenticavo che non so le note, suona tu e io trascrivo».
In una mezz'oretta ce la caviamo - ci avremmo messo anche meno ma una pausa caffè ci stava eccome.
«Pausa gelato?» propongo, ho ancora un languorino.
«Aspetta, idea migliore» m'interrompe, poi tace un attimo «pausa affogato».
«Meraviglia, vado a prendere i soldi» esclamo, saltando in piedi e dirigendomi in camera. Raccatto cinque dollari da una tasca della borsa e torno giù di corsa, Alex fa un sorrisone e si avvia verso la porta con le chiavi in mano.
«Oggi mi sembra una giornata magnifica» commenta, annuisco e ci lanciamo verso la gelateria.

Le sette e mezza arrivano dopo un pomeriggio passato all'insegna di chitarre riaccordate ogni due secondi, fogli che volano via col vento, affogati al caffé rovesciati sugli spartiti appena compilati e risate fin troppo contagiose. Arriviamo nel giardino del party che gli invitati sono ancora pochi - noto con delusione che i ragazzi non sono ancora qui.
«Alex, Jack!» ci chiama la padrona di casa, smettendo di parlare con una donna.
«Buonasera» salutiamo, avvicinandoci, e in un lampo mi accorgo di non avere la minima idea di quale sia il suo nome.
«Purtroppo non sono molti quelli ad essere già arrivati, però se volete potete tranquillamente cominciare a mangiare» dice con un sorriso «o fare un giro in casa, come volete. Fate come se foste da voi, d'accordo?»
Ringraziamo e lei torna dalla sua amica, che nel frattempo l'ha aspettata sorseggiando un bicchiere di punch. Mi guardo intorno e ho come l'impressione di essere già stato qui, anche se sono sicuro che questa sia la prima volta che ci metto piede; guardo Alex e penso che forse prova la stessa cosa anche lui. Non glielo chiedo e comincio a camminare verso destra, curiosando un po' in giro; lui mi segue docilmente - non abbiamo nulla da fare ma sarebbe scortese andarcene e tornare più tardi ora che la padrona di casa ci ha visti e salutati, quindi non è che abbiamo molte altre alternative.
«Come te la cavi dietro a un barbecue?» domando dopo un po'.
«Non lo so e non lo voglio sapere» risponde francamente «non credo sarei molto bravo».
«Forse hanno bisogno d'aiuto in cucina» suppongo «andiamo a impicciarci?»
«Sicuramente farà passare il tempo» conviene Alex, avviandosi con me all'interno della sala.
Alla fine non c'è alcun bisogno di noi, però ficchiamo il naso nel salotto e decretiamo che i divani sono abbastanza comodi per i nostri gusti, e che se non li soddisfano appieno poco ci manca; così quando usciamo almeno quindici minuti sono passati di gente ce n'è parecchia. Troviamo i ragazzi vicino al tavolo e ci avviciniamo, salutandoli.
«Allora è vero che sei guarito» esclama un Rian soddisfatto, servendosi un bicchiere di punch.
«Grazie al cielo sì, mi sembrava di vivere sulle montagne russe» rido. Con la coda dell'occhio noto Cassadee alle spalle del fidanzato che chiacchiera con una sua amica, mi sporgo verso di lei e le faccio un allegro «ciao anche a te Cass!».
Si gira e mi nota, mi rivolge uno stupitissimo «ommioddio Jack non ti avevo proprio visto!», mi afferra per il braccio e mi trascina verso di sé: «devo assolutamente presentarti qualcuno, è un miracolo che ti sia fatto trovare così presto!».
Non faccio resistenza ma mi lancio un paio di occhiate disperate alle spalle mentre vengo portato verso il tavolo del cibo, ricevendo in cambio risate e qualche pollice alzato; nel frattempo Cass getta parole al vento, parlando di qualcosa di cui ho perso da tempo il soggetto, e scoppia in qualche risatina per mettermi a mio agio. Arriviamo al tavolo, si riavvia rapidamente i capelli, sorride prima a me poi a una ragazza, poi ci avvicina.
«Jack, questa è Kailey, una mia compagna di corso. Kailey, questo è Jack» miagola, presentandoci.
«Er, ciao» mormoro porgendole goffamente la mano «come va?»
«Bene grazie, tu?» ribatte lei, stringendomela saldamente. Rispondo con un 'sì, anch'io tutto bene' e Cass s'illumina.
«Bene, vedo che il ghiaccio è rotto» trilla «vi lascio a conoscervi, ci vediamo dopo».
La guardo scomparire un po' spaesato, mi volto a guardare Kailey e noto che sta sorridendo radiosamente verso di me.
«E così...» mormoro, senza sapere come continuare. Odio quando Cass mi combina appuntamenti a mia insaputa.
«Hmm, vediamo un po'» rimugina un po' lei «tu studi letteratura assieme a Ri, giusto?»
Annuisco lentamente, mantenendo il silenzio. «Ecco, mi sembrava di averti già visto» esclama abbozzando un altro sorriso «e per caso abiti alla fine della strada?»
«Non proprio, un paio di case a destra giù all'incrocio» rispondo, a disagio.
«Oh be', ci sono andata vicina» ride, mentre io abbozzo un sorriso e tiro su col naso.
«Tu invece dove stai?» mi sento in dovere di chiedere, più che altro per limitare le ire di Cass quando saprà che i suoi sforzi sono andati come al solito tutti a monte e che non ho combinato niente anche stavolta.
«Hai presente il supermercatino indiano vicino alla rotonda? Terzo piano» risponde allegramente, al che annuisco.
«Fate spesa lì?» chiedo, lo sguardo perso oltre le sue spalle.
«In realtà non ci passiamo mai, non ci piace troppo la cucina speziata» ammette con un velo d'imbarazzo.
«A me piacciono molto i burrito» dico, cercando di scorgere i ragazzi dietro di lei.
«Davvero?» esclama, come se fosse una vera scoperta «piacciono tantissimo anche a me, e pure i nachos!»
«Non saprei esprimermi sui nachos» commento «ma i burrito sono il culmine dello sviluppo umano».
«Qualcosa mi dice che sei un cliente affezionato di Tacobell» ride «io invece preferisco cucinarmeli da sola».
«Ammetto di essere un po' pesaculo per quanto riguarda la cucina» dico, alzandomi sulle punte «ma d'altra parte se possono prepararmelo altri ad un costo più che conveniente non vedo perché non dovrei accettare».
«Chissà che ci mettono dentro» mi fa notare, e finalmente scorgo Alex.
«Qualsiasi cosa sia, quello che crea è il paradiso» ribatto, cercando di capire cosa stia facendo.
«Fa strano sentirti parlare di cibo, sei magro come uno stecco» dice allegra mentre io strizzo le palpebre per riuscire a distinguere meglio le due silohuette nella penombra - è una donna quella che gli sta facendo compagnia?
«Questione di metabolismo; quando crescerò probabilmente diventerò un panzone» commento mantenendo il distacco - Alex sta offrendo da bere alla ragazza, lei accetta e ridono assieme.
«Speriamo di no» esclama con aria mesta «ma almeno tu non vivi perennemente a dieta», si circonda la pancia con le braccia e guarda in basso con una smorfia. Alex e la tipa si avvicinano un po' a noi, lei gli mette la mano sul braccio.
«È uno spreco di tempo, stai benissimo così» la tranquillizzo, il cuore che accelera «anzi, sicura di non voler mettere qualcosa sotto i denti?» aggiungo, avvicinandomi al cibo e quindi alla coppietta.
«Non si rifiuta ciò che è gratis» commenta, seguendomi docilmente con un'aria più che felice. Mi riempio il piatto senza guardare, girato verso di loro, poi sento Kailey ridere e mi volto verso di lei aggrottando la fronte.
«Non ci credo, ti piace quella roba?» ridacchia, indicando qualcosa di giallognolo che sovrasta la mia carne.
«Lo trovo meraviglioso» mento, senza capire cosa sia «dovresti assaggiarlo».
«Forse lo farò» sorride, servendosi uno spiedino. Alex e la tipa sono più vicini, troppo vicini.
«Hmm, quefto fpiedino è davvewo buoniffimo» bofonchia Kailey dopo un morso, io annuisco distrattamente. Me lo sto immaginando o lei ha la mano attorno al suo fianco?
«Ma tu non hai fame?» domanda, costringendomi a distogliere lo sguardo.
«Eh? No sì sì, è solo che penso di aver visto qualcuno che conosco laggiù e non riesco a capire se sia davvero lui».
«Probabilmente lo è, è stato invitato tutto il vicinato» ragiona dopo aver mandato giù il boccone.
«Già, probabilmente hai ragione» convengo, addentando la mia robaccia giallastra «buono».
«Sì?» ribatte con un'aria poco convinta.
«Sì, dovresti provare» insisto, avvicinandole il piatto. Mentre lei lo fissa con disgusto e curiosità assieme, torno a spiare i movimenti dei due e scopro con sgomento che non sono più dove mi aspettavo di trovarli. Setaccio velocemente tutto il giardino con gli occhi, terrorizzato, e li ritrovo a chiacchierare in un angolino, separati dagli altri.
«Hmm, hai ragione, è davvero buono» mormora lei restituendomi il piatto.
«Vero?» concordo senza guardare, le previsioni più catastrofiche che mi affollano la mente.
«Mi chiedo cosa sia, forse peperoni» butta lì - Alex si sporge verso la sua accompagnatrice e ride di nuovo.
«I peperoni hanno un gusto più deciso, probabilmente è verza bollita» rispondo, lo stomaco che mi si chiude.
«T'intendi di cucina?» domanda stupita.
«Quel che basta per sopravvivere, i miei non sono mai a casa» dico.
«Davvero non ci sono mai? Ma è terribile, mi dispiace tanto» si stupisce «se vuoi posso ospitarti io ogni tanto».
«Grazie mille ma non è un problema, praticamente vivo a casa di Alex» ribatto, osservandolo insistentemente.
«E sua mamma non si arrabbia?» chiede mentre mi stringo la punta del naso.
«Eh? Ah no no, è molto disponibile invece» dico «mi vuole bene, a volte l'aiuto a cucinare».
«E hai la tua camera pure da loro?» insiste, sinceramente interessata. La tipa ha di nuovo la mano sul suo fianco.
«No, mi sistemano un materasso in camera di Alex e dormo lì» rispondo, sempre più spaventato.
«Caspita, dev'essere dura» mormora, impressionata.
«Potrebbe essere più facile» convengo, mordendomi il labbro. È lei che doveva incontrare, che non posso sconfiggere.
«E quando Alex non può che cosa fai?» domanda, inclinando la testa.
«Sto a casa» dico distrattamente «mi mangio un film, guardo una pizza, passo il tempo».
«Ti mangi un film?» ride «è divertente come cosa?»
«Abbastanza, diciamo che ti tiene occupato» rispondo - la mano di lei non è più sul suo fianco, ma solo perché ha trovato qualcosa di meglio da fare sulla sua spalla. Mi stringo di nuovo la punta del naso, deglutendo.
«Jack, ti senti bene?» chiede lei, sfiorandomi apprensivamente il braccio con le dita «tutto a posto?»
«No, in realtà no» mormoro, portandomi una mano alla testa «è meglio se vado a sedermi. Grazie della compagnia Kailey, ora è meglio che vada». Apre la bocca per dire qualcosa ma mi allontano prima che possa articolare nulla, dirigendomi verso il giardino e scontrandomi con tutti quelli che incontro. Quando sono abbastanza isolato dagli altri mi lascio cadere su una panchina di legno e tiro un pugno contro il bracciolo, ottenendo un'ulteriore conferma del fatto che non sono arrabbiato con loro, solo terribilmente ferito e dolorante; e rimango fermo con le mani penzoloni per un po', a radunare i pensieri e cercare di non piangere - cosa difficile, avendoli proprio davanti agli occhi.
Ma forse quello che fa più male è sapere di aver avuto ragione ancora una volta, di aver riconosciuto i segni premonitori della tempesta senza però averci potuto far nulla, di essere stato solo uno spettatore paralizzato in quello che potrebbe essere l'atto tragico più importante della mia vita. Non che ci sia stato niente che avrei potuto fare e non ho fatto - le cose sono andate come dovevano andare e non c'è niente che avrei potuto cambiare per far sì che in questo momento loro due non fossero insieme - ma anche quando sai di essere ininfluente non riesci a perdonarti i risultati.
La cosa vitale è che lui è lì, a venti, venticinque metri da me, e al suo fianco c'è una ragazza, una ragazza con cui ride, scherza, beve e si diverte, una ragazza che non si fa problemi a mettergli la mano sul fianco o sulla spalla, una ragazza che a quanto pare trova piacevolissimo aggrapparglisi al braccio e non lasciarlo più andare.
Sono tentato dal piangere, tanto da qui non mi vedrebbe nessuno, ma scuoto la testa e mi limito a spostare lo sguardo sull'erba che mi cresce tutt'intorno, ricoperta da un sottile velo di giallo e movimentata dal passaggio di qualche insetto che non sono in grado di captare. Affondo il viso fra le dita e in qualche modo il calore mi dà un po' di sollievo, anche se non rimango in questa posizione a lungo.
«Posso sedermi?». Zack si sistema accanto a me dandomi solo una breve occhiata. Si concentra sulla coppia.
«È lei?» domanda, senza aver davvero bisogno di una risposta.
«Temo proprio di sì» dico comunque, tornando ad osservarli mestamente. Respira sonoramente.
«È bella» commenta, tirando le labbra.
«È il suo tipo» metto a fuoco il suo pensiero, abbassando gli occhi.
«Te l'ha presentata?» domanda ancora, cercando di scorgerle qualche dettaglio del viso.
«No, sono stato rapito da Cassadee e sono caduto vittima di uno dei suoi appuntamenti a sorpresa».
«Meglio così allora» soffia, espirando dal naso. Sposta lo sguardo da me a lei, poi si sofferma sul buio della notte.
«Vuoi che andiamo ad impicciarci?» propone, ma io scuoto la testa.
«Preferisco guardarlo da un posto sicuro e non espormi, così non dovrò perdere».
Rimane in silenzio e apprezzo, annaspando di nuovo fra le onde di pensieri che mi sbilanciano la mente.
«Zack, potresti prendere qualcosa da bere?» domando flebilmente, lui annuisce e si avvia.
L'eco della musica e delle risate mi arriva attutita e rimbalza contro il mio scudo di vetro, scivolandomi via lungo la pelle, e per un secondo mi chiedo se non sia meglio andare da loro e trasformare la coppia in un trio caciarone; poi scuoto la testa e lascio perdere - solo perché la mia serata fa schifo non deve star male pure Alex.
Zack torna dopo tre minuti con in mano due bottiglie di birra, me ne passa una e posa l'altra sull'erba, sedendosi.
«Cosa pensi di fare?» chiede dopo un po', girandosi verso di me. Poso la bottiglia e mi asciugo le labbra.
«Non ne ho idea» mormoro «aspetterò che si separino un attimo e mi appolperò ad Alex, immagino».
Tacciamo insieme, mentre io torno a bere.
I due stanno ancora chiacchierando, muovono le mani con convinzione e sembrano spassarsela parecchio. Ridono spesso, soprattutto lui, anche se è lei quella che cerca più di tutti il contatto fisico, e questo mi dà un po' di speranza. Forse Alex non è davvero convinto di quello che fa, forse è davvero solo un'amica di vecchia data.
Continuo a guardarli e l'idea mi muore davanti, cerco con le dita l'altra bottiglia e lenisco la paura con il sapore aspro della birra, conscio che senza mangiare qualcosa mi ubriacherò presto. Mando giù un altro lungo sorso. Non so cosa sarebbe meglio, se diventare così ubriaco da non capire più nulla e soffrire domani anche per oggi o rimanere sobrio e domani soffrire un po' di meno perché qualcosa l'ho già data. Nel dubbio finisco la birra, mi alzo barcollando un po' e mi trascino verso il banchetto del cibo, dove il mio piatto giace abbandonato ancora praticamente intoccato. Zack mi segue e bada per me a dove cammino, stringendomi il braccio quando metto un piede in fallo, e sembra felice quando mi vede buttar giù un po' di carne, oltre all'alcol. Quando finisco la salsiccia e poso il piatto sul tavolo lo afferra e me lo rimette davanti, pregandomi con gli occhi di mangiare qualcos'altro; abbasso lo sguardo e obbedisco docilmente, senza protestare, poi afferro un'altra bottiglia di birra e me la porto alle labbra. So che non gli piace quando bevo per lasciar fuori l'immagine di Alex che si diverte con qualche ragazza, ma mi aiuta a non impazzire.
«Jack, che ne dici di farci una passeggiata?» propone in alternativa. Scuoto la testa.
«Non posso allontanarmi, potrebbe succedere di tutto».
«Anche se stai qui a guardarli non potrai fare nulla per impedirlo» mi ricorda preoccupato.
«Lo so ma...» non so cosa dire ma qualcosa devo spiccicarla. «Rimaniamo, per piacere. Non posso permettermelo».
Sospira sonoramente, me la dà vinta e riempie il piatto con altro cibo, indica la panchina e lo ringrazio con gli occhi.
«Jack, ehi!» mi chiama qualcuno, non riesco a capacitarmi sia Alex.
«Ehi» ribatto, voltandomi e cadendo dalle nuvole.
«Si può sapere dove ti eri cacciato?» mi domanda, visibilmente felice.
«Cass mi aveva organizzato un appuntameno a sorpresa» rispondo, lui scoppia a ridere.
«Davvero? Ci prova ancora?» esclama «certo che è proprio assurdo». Abbozzo un sorriso. Felice che sia felice.
«Piuttosto, senti qua» s'interrompe di punto in bianco «c'è una persona che voglio farti vedere».
Spero non abbia notato che ho stretto la mano di Zack con tutte le mie forze. Lui mugola sottovoce e chiude gli occhi.
«Ah sì?» dico, fingendomi stupito «e chi?»
«È una sorpresa» gongola, poi mi prende e mi trascina via dopo un velocissimo 'ciao Zack!'. Ci fermiamo accanto al tavolo del punch ma per fortuna non c'è nessuna ragazza ad aspettarci, così lui si gratta la nuca, stupito.
«Non riesco a capire, le avevo detto di aspettarmi qui» mormora, e qualcuno ci assale alle spalle con un 'boo'. Trasale visibilmente e si gira di scatto, portandosi la mano al petto.
«Non te l'aspettavi vero?» ride una ragazza, non mi va di girarmi a guardarla in faccia.
«Sei un'infame, lo sai che queste cose con me funzionano sempre» si arrabbia per finta lui, lasciando spazio a un enorme sorriso sulle labbra fine. Lei ride e mi sento improvvisamente seppellir vivo, vorrei morire sul colpo.
Poi un telefono squilla, sento un 'merda' sottovoce e lei che risponde con un 'pronto' squillante, per poi fare cenno ad Alex di aspettarla un attimo, perché la telefonata è importante e non può proprio rimandare.
«Fa' pure con calma Noel» la tranquillizza lui, guardandola allontanarsi con una sicurezza felice, rilassata.
In un istante mi torna in mente una delle sue vecchie canzoni, una di quelle di cui non vuole svelare il significato perché evidentemente sono troppo personali per essere raccontate apertamente, e la sensazione di prima si ripropone, più decisa e violenta. Annaspo per un po' d'aria ma non riesco a trovarne, così mormoro un 'torno subito' e scappo via prima che possa dirmi nulla, andandomi a sedere nel buio sul prato opposto a loro, le ginocchia tirate su contro il petto e le mani a coprirmi il volto. Non sto piangendo né voglio farlo, ma mi sento così terribilmente pesante e lacerato che non riesco a fare altro che nascondermi da tutto e tutti, intenzionato a evitare tutto il più possibile. Mi sposto i capelli dalla faccia e respiro, incrociando le gambe e posandoci sopra i gomiti, mi reggo la fronte coi palmi e cerco di rallentare i battiti, ormai fuori controllo.
Okay, quella è la Noel della canzone, quella dal ruolo così importante che potrebbe distruggere il legame fra due migliori amici, quella che si deduce essere andata a letto con Alex all'interno di una macchina e che a quanto pare è il mix perfetto per mandarlo su di giri, quella che aspettava con ansia e che ha finalmente rivisto, che io non eguaglierò mai e che osserverò sempre dal basso in alto senza osare un confronto, perché so che se ci provassi verrei stracciato su tutti i fronti - è quella Noel ed è qui, a qualche ventina di metri di distanza, e ad Alex mancava, mancava così tanto che era su di giri solo nel dirmi che saremmo andati alla festa, e io non so che fare, perché è tornata e lui è felice, e io voglio che sia felice lui, non io, ma non riesco ad esserlo nel vederlo ridere e la cosa mi lacera, e più di tutto ho paura, perché ora che è tornata starà solo con lei e cesserò di esistere, e anche se esisterò non sarà più come prima, e cazzo, ho un fiume in piena nel cervello, mi sento travolgere e trascinare e non riesco a far nulla. Non riesco a far nulla neppure quando Alex mi si appalesa alle spalle e mi abbraccia, neppure quando lei si avvicina a noi e lui le fa segno di andar via - rimango come sono e tremo, tremo da morire, finché lui non mi tira su di peso e mi sistema premurosamente sul suo grembo, avvolgendomi con le braccia e posando il viso sulla mia spalla. Vorrei guardarlo ma non ce la faccio, fa male, e nel frattempo mi sento bruciare ovunque, senza sapere se è colpa della birra o dell'amore. Alex mi mette una mano sulla fronte e non riesco a vedere la sua espressione, ma so di essere piuttosto pallido.
«Ti porto a casa Jack» dice immediatamente, sfilandosi il giacchetto e posandomelo in fretta sulle spalle, cerca di farmi alzare ma invece di mettermi in piedi scoppio a piangere e lo mando nel panico - comincia ad accarezzarmi il braccio ma più mi tocca più i singhiozzi diventano forti, percepisco la paura nelle sue dita.
«Jack, calmo, va tutto bene» farfuglia, inginocchiandosi davanti a me e stringendomi la testa contro il petto «ora ce ne andiamo okay? Va tutto bene, si sistemerà tutto te lo giuro, va tutto bene». Continuo a singhiozzare disperatamente per un altro paio di minuti, mentre lui cerca di calmarmi e mi stringe il più forte possibile, poi a un certo punto mi fermo e mi ricompongo, smettendo di tremare. Alex mi guarda ancora più spaventato e mi porta una mano sul collo, come a controllare che sia ancora vivo, e non trattiene un sospiro di sollievo nel sentire il battito, impazzato che sia. Mi stringe la testa contro il suo petto ancora più forte e mi bacia la nuca, poi si stacca e mi tira su con sé, passandosi il mio braccio sinistro attorno al collo e sistemandomi saldamente una mano sull'anca destra.
«Va tutto bene, okay Jack? Ti sto portando a casa» dice voltandosi verso di me, io annuisco flebilmente e comincia a camminare lentamente verso l'uscita, sorreggendomi. Scorge il profilo di Zack e devia verso di lui, facendolo voltare.
«Zack, quanto ha bevuto?» chiede, lanciandomi un'occhiata di preoccupato rimprovero. Guardo dall'altra parte e poi abbasso lo sguardo, respirando silenziosamente. Zack scruta le mie occhiaie e deglutisce, poi scuote la testa.
«Quando stava con me due bottiglie e mezzo al massimo, ma ha mangiato» risponde, e sento lo sguardo di entrambi premermi contro. C'è un attimo di silenzio e so che Alex è incazzato, quindi riapro gli occhi e li fisso su Zack, pregandolo tacitamente. Lui capisce, respira sonoramente, s'inumidisce le labbra e si scompiglia i capelli.
«Senti, era con me, avrei dovuto tenerlo d'occhio io» dice «lo riporto io a casa. Tu rimani pure, c'è una ragazza che non fa altro che girare chiamandoti, forse è il caso che tu vada da lei piuttosto. Tanto stavo per andarmene, non mi costa nulla allungare di qualche chilometro e lasciarlo a casa». Lo guarda arcuando le sopracciglia e lo guardo anch'io, Alex sembra ragionarci ma poi scuote violentemente la testa.
«No, no non se ne parla» nega «l'ho trascinato qui io ed è giusto che ora stia con lui».
Abbasso lo sguardo, mi sento sempre più debole. Zack mi guarda apprensivo e lo prego di nuovo, ma stavolta esita.
«Dico davvero, sembra una pazza, forse è davvero il caso che tu vada a cercarla. Resto io con Jack, torniamo a casa, se necessario vomitiamo e poi andiamo a dormire; non è un problema. Non guastarti la festa» insiste.
«Guardalo in faccia e dimmi che posso non preoccuparmi» ribatte Alex, guardandomi in preda all'ansia «è gentile da parte tua ma non posso lasciarlo solo, se sta così è anche colpa mia».
Zack è costretto ad annuire, io deglutisco. Non avevo pensato sarebbe successa una cosa del genere.
«Dico agli altri che ce ne andiamo e ci avviamo, okay?» mi avverte abbozzando un sorriso, poi chiede un attimo a Zack di sorreggermi e corre ad avvertire gli altri, probabilmente solo Noel e Ri. Zack rimane in silenzio per un po', poi si passa una mano sulla faccia e s'inumidisce nuovamente le labbra, guardando l'orizzonte.
«Era questo il tuo piano?» chiede. Mi vergogno come un cane.
«No» soffio flebilmente «non avevo nessun piano. Non mi era mai successo».
«Seriamente, quanto hai bevuto?» insiste.
«Due e mezzo, massimo tre. Non progettavo nulla, davvero». Lo guardo e deglutisce davanti al mio pallore.
«Sarà ma è un bel casino» commenta «sembri sul punto di tirare le cuoia».
«A volte lo spero tanto» mormoro. Zack pianta gli occhi nei miei e non riesco a sorreggere il suo sguardo.
«Dici che Alex mi odia?» domando, sospirando rassegnatamente.
«No, non credo proprio» sospira a sua volta «ti vuole un bene dell'anima, è solo preoccupato. Solo che se stavolta non è riuscito ad arrivare fino in fondo con quella ragazza, non illuderti che la prossima volta la cosa si ripeta».
«Già, lo so...» mormoro, le palpebre improvvisamente di cemento «vedo tutto sfocato».
«Fra poco sarai a letto a dormire, non preoccuparti» sorride con dolcezza, spostandomi delicatamente una ciocca dalla fronte e sistemandomela dietro l'orecchio «Cristo santo, sembri un cadavere ma sudi come un maiale».
Qualche minuto dopo Alex è di ritorno, si riavvolge il mio braccio attorno al collo e mi sorride affettuosamente.
«Ora ti porto a casa Jack, va tutto bene» mi dice, poi cominciamo ad avviarci. Ringrazio solo che abita così vicino.

Quando mi risveglio sono sul divano con una coperta di pile addosso e una busta del ghiaccio sulla testa, accerchiato da un paio di cuscini, un termometro e una scatola di fazzoletti. Pensavo che mi avrebbe pulsato terribilmente la testa, ma stranamente la birra non mi ha dato problemi, quindi riesco a ragionare abbastanza lucidamente. Sento delle voci ovattate provenire dalla cucina, una è sicuramente quella di Alex. Sono tentato dall'alzarmi e raggiungerlo di là, poi mi ricordo che gli ho rovinato la serata e lascio perdere, probabilmente non vuole vedermi.
«E ora cosa conti di fare?» dice una voce che non coincide con quella di Isobel.
«Non lo so, ma così non può più andare» risponde Alex.
Improvvisamente la paura prende il sopravvento e realizzo che avevo ragione, lui qualcosa sa.
«Sono d'accordo ma non puoi parlargliene così all'improvviso, rischi di rovinare il vostro rapporto» obietta.
Il cuore smette di battermi e la cassa toracica mi si restringe fino a togliermi il respiro. Sa che mi piace.
«Cosa dovrei fare allora? Ho aspettato il più possibile ma le cose non sono migliorate affatto» ribatte.
«Io... hai ragione, solo che non mi sembra il momento adatto. Voglio dire, hai visto come sta, no?»
«Posso anche aspettare a farlo, ma alla fine l'effetto sarà sempre lo stesso» le fa notare.
Oddio, vuole dirmi che nonostante tutto non mi ricambia.
«Lo so, ma adesso ha bisogno di te come non mai, Alex». 
«Oh andiamo Lisa, non è questo il punto. Anch'io ho bisogno di lui, ma prima di tutto ho bisogno di sapere che possiamo davvero fidarci l'uno dell'altro, e se non ne parliamo non potrò mai davvero mettermi l'anima in pace». Sembra stanco oltre ogni dire, non riesco a non odiarmi per avergli rovinato anche questa giornata. Gli occhi mi si riempiono di lacrime ma cerco di ricacciarle indietro a forza, mi tiro a sedere e mi tolgo la borsa del ghiaccio dalla testa, lasciandogliela sul tavolino. Non voglio continuare a fare il peso, è meglio se torno a casa e lo lascio vivere. Mi tolgo di dosso la sua felpa, la piego e la sistemo ai piedi del divano, mi metto in piedi e vengo accolto da un capogiro improvviso. Aspetto che passi, stringo i denti e vacillo fino alla porta - le voci dalla cucina si sono abbassate ancora, ma dal tono che riesco a recepire capisco che non è una chiacchierata rose e fiori -, appoggio la mano sulla maniglia e apro la porta. Mi accoglie una ventata di aria fresca e mio malgrado rabbrividisco, ma non voglio ripensarci e mi richiudo silenziosamente la porta alle spalle, poi prendo un respiro profondo e arranco verso casa mia. Dev'essere ancora piuttosto presto, perché sento gli schiamazzi della festa e almeno quindici finestre hanno la luce accesa, ma per strada ho la fortuna di non incontrare nessuno. Mi sento la testa leggera e il corpo pesante, sono a metà strada quando tutto si spegne. All'inizio sento un freddo terribile avvolgermi e chiudermi nella sua morsa, poi più niente. Grazie.

«Jack! Jack!» Alex mi sta chiamando e apro gli occhi a fatica, indolenzito. Si piega su di me e mi tira su il torace, guardandomi terrorizzato «Si può sapere che cazzo ti passa per la testa? Che cazzo stai facendo?»
Una ragazza si avvicina ma non riesco a metterla bene a fuoco, anche se credo sia Lisa. Ha l'aria spaventata quando si china sul marciapiede e incontra il mio sguardo vago, ma forse è un'impressione.
«Aiutami a portarlo dentro, ha le labbra blu» sento esclamare Alex, che nel frattempo mi ha caricato sulla schiena e ha cominciato a correre verso casa «porca miseria Jack, saresti potuto morire assiderato, te ne rendi conto?»
Chiudo gli occhi, tenerli aperti mi costa un'energia indicibile. «Non voglio essere un peso» mugolo.
«Tu non sei affatto un peso Jack, che diavolo ti viene in mente?» esclama.
«Ti ho sentito prima» mormoro, le parole escono lentamente «non voglio rovinare il nostro rapporto».
Alex trasale ma prima che possa dirmi qualcosa chiudo un'altra volta gli occhi e mi riaddormento, distrutto.

Stavolta quando mi sveglio sono le quattro del mattino e sono nel letto di Alex, con la borsa dell'acqua calda fra le gambe e il busto cinto dalle sue braccia. A fatica noto che questa non è la maglietta con cui sono uscito e avvampo nel pensare ad Alex che mi spoglia e mi riveste, poi il ricordo della chiacchierata fra lui e la ragazza mi colpisce e rimango immobile ad assorbire il fatto, conscio che questa potrebbe essere l'ultima notte in cui dormiamo insieme. Lo stomaco mi si arriccia e cerco di mandar giù il groppo che mi si è venuto a creare in gola, ma non riesco a sentirmi meglio. Mi tiro su coi gomiti e noto un'altra sagoma, dall'altra parte della stanza. Lisa. Dorme nel letto che Isobel ha preparato per me, quindi Alex ha preferito di concedermi un'ultima notte felice prima di mettere le cose in chiaro fra di noi. Mio malgrado non riesco a non sorridere della sua gentilezza, mi rimetto giù e mi addormento fra le sue braccia.
Fosse anche l'ultima volta, ma sono felice.

Mi risveglio per l'ultima volta quest'oggi che sono le nove del mattino e la luce del sole filtra nella camera. Lisa se n'è già andata - se a fare colazione o proprio del tutto non ne ho idea, però riesco a vedere che il suo letto è vuoto - mentre Alex è ancora a letto accanto a me, il viso illuminato da un raggio e i capelli scompigliati dal sonno. So che è sveglio.
«Ehi» lo saluto con un tono da scuse.
«Ehi» ribatte, posando lo sguardo su di me. «Stai meglio?»
«Scusa per ieri» mormoro «non volevo rovinare niente. Sono un coglione».
«Avresti potuto evitare di scappare di casa a maniche corte e in preda alla febbre a mezzanotte meno venti, quello sì, ma non hai rovinato nulla» ribatte dolcemente «stavi male, portarti a casa e metterti a letto era il minimo».
«Però così non può più andare» concludo, le parole mi mozzano il fiato. Alex deglutisce e abbassa lo sguardo.
«Vedi, è che...» esita qualche secondo, come a sciogliere le parole «a me piace starti accanto e mi fa sentir bene svegliarmi la mattina e vederti dormire al mio fianco, ma allo stesso tempo mi fa morire dentro sempre di più». Tace e io vorrei solo scoppiare a piangere - so benissimo dove vuole arrivare ma ho paura di sentirglielo dire. «Non sei tu il problema, dio solo sa quanto non lo sei, ma io non... non riesco più ad andare avanti così. Fa troppo male». Respira a lungo prima di continuare, mi viene da pensare che forse è il mio turno di aprir bocca ma prima che possa farlo riprende e s'inumidisce le labbra. «A volte mi sveglio e penso 'fanculo tutto, posso benissimo continuare in questo modo', ma ci sono giorni in cui apro gli occhi e cade tutto a pezzi, e io non sono abbastanza forte da piegarmi e raccogliere i cocci. E so che non è la cosa giusta da dire o da fare perché hai i tuoi casini e sono mille volte peggio di quello che sto passando io, ma non ce la faccio davvero a tenermi tutto dentro. Più vado avanti e più le cose diventano serie, più siamo vicini più mi sembra che sia la cosa sbagliata, e non è giusto perché sei il mio migliore amico e significhi così maledettamente tanto per me e io non... non... non riesco ad andare avanti. Significhi l'universo per me, eppure ogni volta c'è questa cosa che mi blocca, che m'impedisce di essere me stesso fino in fondo, e mi distrugge, perché il nostro rapporto si è sempre basato sulla sincerità completa e ora non ci riesco più, e so che è la cosa sbagliata ed è tutta colpa mia. Mi sveglio la mattina, ti guardo e ho questa consapevolezza dentro al petto, e più i giorni passano più non so come dovrei comportarmi, e più la ignoro più è difficile andare avanti ed è così, così... indescrivibile, pesante, mi si piazza addosso e non riesco a pensare, parlare o fare niente, e l'unico modo di uscirne è parlarne con te, ma così rischio tutto per qualcosa che non so neanche quanto possa aiutarmi e io.. io non so più che fare. Sei il mio universo e ti stai richiudendo su di me, qualunque cosa io faccia, e ho paura che non ci sia una vera via d'uscita se non la cosa che più mi spaventa al mondo, e non voglio arrivare a quello. Non voglio perderti, non sopravviverei. Vorrei solo che tutto tornasse come prima e che tutto questo non fosse mai accaduto, così saremmo gli amici di sempre con i problemi di sempre, e ora io non dovrei esser qui a parlarti di una cosa che mi lascia completamente spiazzato e lacerato dentro e che ho paura mi porterò dietro per sempre». Fa una pausa per annaspare alla ricerca di un po' d'aria, si morde le labbra. «Io non... non so come dirtelo, non so come dirmelo, non ho la minima idea di cosa fare, ma ogni giorno che passa vedo che questa cosa diventa più forte, e ho paura di essere arrivato a un punto in cui non posso più combatterla. È troppo per me, non ce la faccio davvero. E so che non è colpa tua, come del resto non è colpa di nessuno, solo che non so più come fare, ma le cose non possono andare avanti così, io non... devono cambiare».
Stavolta tace a lungo anche se vedo che cerca le parole, e il suo sguardo è un misto di paura, ansia e dolore.
«Io... eliminerò tutto alla radice, vedrai» mormoro «ma ho bisogno che tu mi perdoni un'ultima cosa».
Ho capito dove vuole andare a parare, ormai non ho più nulla da perdere. Ho perso lui.
Mi giro verso il suo viso, metto via la mia parte razionale e lo bacio. Così, senza aggiungere altro o guardarlo negli occhi, una mano sul cuscino e l'altra sul materasso accanto al mio bacino - poggio le labbra sulle sue e lo bacio, dimenticando il resto. Non so se per lo stupore, per lasciarmi un bel ricordo di lui o perché lo vuole davvero, ma schiude le labbra e lascia che le nostre lingue s'incontrino e si riconoscano, e per la manciata di secondi più belli della mia vita mi asseconda e lascia che la sua bocca diventi la mia, mentre il mio cuore batte come non ha mai fatto prima e tutto perde significato. Quando mi stacco apro gli occhi e incontro il suo sguardo, ma ne scappo subito.
Non dice niente, si accoccola contro il mio petto e porta la mano all'altezza del mio cuore, poi mi guarda.
«Rifallo» mormora. Gli passo una mano dietro al collo e lo avvicino a me, ma stavolta partecipa anche lui al bacio, mi divora le labbra e mi tranquillizza i sensi, mentre io divento un'insieme di esplosioni e reazioni chimiche troppo fuori controllo per essere calmate. Si stacca dopo un po', e so che stavolta devo guardarlo per forza.
«Credo di star per piangere» soffia, posa di nuovo il viso contro il mio petto e sento due gocce bagnarmi, seguite da altre due e due ancora. Rimaniamo lì così, lui che piange in silenzio e io che fisso il muro, senza riuscire a realizzare niente di quello che è successo, e per un po' nessuno parla, il silenzio rotto solo dai nostri respiri. Ho baciato il ragazzo della mia vita, lui mi ha chiesto di rifarlo e ora piange, e non sono sicuro del perché.
«Alex, io... Scusa» mormoro, le lacrime che mi offuscano la vista. «Ho rovinato tutto. Ti prego, non odiarmi».
Alza il viso dal mio petto, mi guarda e mi sorride come non faceva da anni, mentre due lacrime gli rotolano lungo le guance. «Jack, sei la cosa più bella che potesse capitarmi» dice, e sento che è sincero.
Strizzo le palpebre e lascio che la cosa mi avvolga, piangendo sofficemente, lui mi stringe e mi bagna il braccio.
«Alex, ti amo da morire» dico passandomi una mano sul viso, lui non risponde ma lo sento sorridere, e per la prima volta da tanto tempo sono felice per davvero, in ogni angolo del mio essere. Stringo Alex a me con una mano e con l'altra mi asciugo inutilmente gli occhi, deglutendo per calmarmi, e mi sembra improvvisamente tutto così radioso e pieno di gioia che non riesco a non scoppiare a ridere. Piangendo, stretto al ragazzo della mia vita, rido e tremo, e tutto ciò che ci circonda mi sembra la cosa più bella del pianeta, bella quasi quanto lui.
«Barakitty» mormora, e io lo guardo «senza di te non sopravviverei». Sorride e mi bacia, in un attimo che registro come il nostro primo vero bacio, e se il tempo si è mai fermato davvero, dev'essere successo in questo istante.
Rompiamo il bacio quando qualcuno bussa alla porta - facciamo appena in tempo a separarci che entra una ragazza.
«Noel?» suppongo, senza riconoscere i capelli castani fermati da un cappello.
«Maddai, conosci il mio secondo nome?» si stupisce lei con una risata, mentre Alex si alza e mi lascia a letto da solo, stropicciandosi decisamente gli occhi con le mani per nasconderle i segni del pianto e fingere che vada tutto bene.
«Ma che cosa, non capisco» farfuglio aggrottando le sopracciglia, lei passa il cappello ad Alex e torna a guardarmi.
«Ma come, non mi riconosci? Okay che mi sono tinta i capelli, ma non mi sono trasferita da neanche sei mesi e la mia faccia e la mia voce sono rimaste le stesse» finge di offendersi, mi si accende una lampadina in testa e sussulto.
«Lisa» boccheggio, sgranando gli occhi «non ci credo, ti prego dimmi che non sto sognando».
«Sei bell'e sveglio Barakat, mi dispiace per te» ride «e hai più che bisogno di rimediare alla gaffe il più presto possibile».
«Aspetta, eri tu con cui--» ricollego la sua faccia a ieri sera e trasalgo «ommioddio».
«Già, ommioddio» commenta lei con un sorriso «non ti è bastato sentirti male e scappare da casa per evitarmi».
«Ommioddio, non ci credo» ripeto «vi prego ditemi che ieri non ho interrotto niente».
Alex mi guarda con una faccia divertita da 'che cosa vuoi aver interrotto?', Lisa scoppia a ridere.
«Certo che sei proprio lento di comprendonio» soffia, poi frega un'altra volta il cappello ad Alex e torna verso la porta.
«Ero venuta a dirvi che Isobel vi vieta di portare altre ragazze a dormire dopo le feste se lei non è a casa e non offrite loro la camera degli ospiti, e che la colazione è pronta; se siete interessati sapete dove trovarla» ride, poi esce e se ne va. Resto a guardare la porta decisamente spaesato, Alex abbozza un sorriso e si siede sulle mie gambe incrociate, prendendomi le mani fra le sue.
«Quindi quello di ieri non era un appuntamento?» chiedo.
«No» sorride, guardandomi negli occhi. Mormoro un 'oh' e deglutisco.
«Allora devo scusarmi due volte» dico «ho bevuto perché non riuscivo a vedervi ridere».
«Non fa niente» ribatte «io mi sono messo con un sacco di ragazze diverse per ingelosirti».
«Vuoi dire che non ti piaceva Syv?» chiedo.
«Sì che mi piaceva, ma come amica» precisa «non c'è mai stato niente di fisico fra noi. Solo quando ero ubriaco».
Abbozza un sorriso. «Peccato che non sembrassi mai geloso».
«Lo ero» ammetto «ma non avrei mai pensato di poterti fare ingelosire». Sorride.
«E io invece non riuscivo a guardarti chiacchierare con nessuno. Però con Nick ti ci vedo bene davvero» scherza.
«Passo oltre solo perché ora non potrà più girarmi attorno» ribatto.
«E perché non dovrebbe?» domanda, baciandomi a stampo.
«Perché sennò Alex, meglio conosciuto come Abbie, gli spaccherà il culo» rispondo fra un bacio e l'altro.
«Whoa, frena, perché dovrei farlo?» ride «io sono per la pace».
«Perché altrimenti Jean cederà alle avances di Lauren» rispondo, ricattandolo «Seriamente, non ti dà fastidio che mi stia sempre attaccato? Io m'incazzerei come una bestia».
«Visto quanto ti sta simpatico non vedo perché dovrei considerarlo un rivale» dice, baciandomi.
«Tu allontanalo e basta, il perché non ha importanza» taglio corto, lui ride e poi tace.
«Fallo di nuovo» mormora, io sorrido e vengo accolto dalle sue labbra schiuse. Lisa apre la porta con un 'avete tutto il giorno per amoreggiare, venite a far colazione' e Alex le lancia un libro, ridendo senza staccarsi da me. Lei evita il lancio socchiudendo la porta e ride, ma poi la riapre e vi si appoggia.
«Seriamente ragà, Isobel si sta scazzando» insiste divertita «fareste meglio a scendere prima che salga lei a prendervi a calci in culo». Rimette la mano sul pomello e fa per andarsene, poi si rigira verso di noi. «Jack, dammi retta e cambia maglietta, quella macchia umida sembra molto equivoca». Stavolta sono io a lanciarle un libro, ma lei ride comunque.
«Dai, avete cinque minuti contati» ci sollecita «vi aspettiamo in giardino».
Se ne va per davvero e rimaniamo a fissare la porta divertiti, poi Alex mi prende il viso fra le mani e mi bacia a stampo.
«Forza, andiamo a cambiarci» dice, alzandosi e trascinandomi per il braccio «non voglio rovinarmi la giornata».
Fruga nell'armadio e mi lancia una maglietta, quindi ne prende una per sé e se la infila velocemente, raccogliendo poi i pantaloni da terra; io mi metto i miei jeans e lo osservo cercare di darsi una sistemata ai capelli, poi si arrende e mi fa cenno di scendere giù per le scale. Arrivati in salotto l'eco di qualche risata ci raggiunge, accompagnato da quello di un cucchiaino che sbatte contro un piatto, e nell'uscire in giardino la prima immagine che ci accoglie è la tavola imbandita su cui fanno colazione le due donne, una col cappello e l'altra coi capelli legati.
«Alla buon'ora!» esclama Lisa, esasperata «ancora un po' e mi sarebbe cresciuta la barba!»
«Mi sembra di conoscerla quella maglietta» scherza invece Isobel mentre mi siedo davanti a lei «anche se forse sta meglio a te che a Alex». Alex le fa la linguaccia e lei ricambia, passandogli la bottiglia del latte. «Avete visto che giornata meravigliosa? Per fortuna il freddo di ieri sera è durato appunto solo ieri sera».
«Sei passata al forno stamattina?» domanda Alex, sporgendosi verso il cibo.
«Era tutto chiuso, è inutile che cerchi i dolci» risponde «però se proprio vuoi c'è una torta a raffreddare giù in cucina, se è vado a prenderla. Voi ragazzi ne volete un po'?»
«Be' oddio, se proprio insisti» commenta felice Lisa «ti aiuto a portarla qui?»
«Massì dai, un po' di supporto morale non fa mai male» accetta alzandosi da tavola «così porti la panna».
Le due si allontanano e la sensazione è che abbiano voluto lasciarci da soli apposta, ma la cosa non mi dispiace affatto. Vedo che Alex mi sorride e arrossisco, ricambiando impacciatamente, poi un 'oplà' ci annuncia l'arrivo della torta.
«Et voilà» gioisce Isobel con soddisfazione, spostandosi a destra del suo capolavoro e tirando via il panno che ricopre una scritta 'Jack + Alex', contorniata da un enorme cuore di glassa al cioccolato. Sgraniamo entrambi gli occhi ed esclamiamo all'unisono 'Isobel!' e 'mamma!', arrossendo. Lei sbuffa e si sposta una ciocca dietro l'orecchio.
«Ammazza quanto siete noiosi» commenta imbronciata mettendosi le mani sui fianchi e inclinando la testa «ve l'ho detto, mancate di avventura». Alex la guarda storto, io abbasso lo sguardo perché la situazione m'imbarazza troppo. «Non venitemi a dire che non è un'idea carina, avanti» esclama quindi recuperando il sorriso «il mio spirito avventuroso rimedia al vostro troppo pudico!»
«Vado a sotterrarmi» commenta Alex prendendosi la testa fra le dita.
«Ah, ah, ah, ma come sei simpatico. Almeno quando ho avuto la mia avventura lesbo io non c'ho messo tre anni a dichiararmi» ribatte lei facendogli la linguaccia, poi cambia tono «qualcuno vuole una fetta di torta?»
Alex ripete un paio di volte 'perché a me?', ma per non saper né leggere né scrivere io una fetta la prendo volentieri.
«Ecco, bravo Jack che mi dà soddisfazione» esclama passandomi il pezzo con su scritto 'Alex' «e tu Lisa?»
«Giusto un assaggio, sono a dieta» risponde, sorridendo ma facendo cenno di no con la mano.
«Ragazzi, siete di una mosceria esemplare» sospira Isobel, addolorata «ma che v'insegnano a scuola oggigiorno?»
«A non diventare come te» risponde Alex, a cui lei ha appena passato un piatto, e suo malgrado Isobel ride.
«Ragazzi, sono felice di non far parte della vostra generazione; ho paura mi annoierei a morte» scherza. Poi si ferma a contemplarci e noi ricambiamo lo sguardo, bloccandoci nel bel mezzo delle nostre azioni - Alex che giocherella col cibo, Lisa che sorride e io a bocca aperta con la forchetta a mezz'aria - e lei ride.
«Siete tremendi» commenta, e io riprendo a mangiare.
«Buona» esordisco dopo un po', lei ferma la forchetta e la rimette nel piatto, soddisfatta.
«Ohh, finalmente qualcuno che mi apprezza!» esclama, io arrossisco «comunque ha chiamato Joyce, dice che sarà di ritorno questo pomeriggio e che passerà a prenderti verso le tre e mezza quattro, quindi fatti trovare pronto».
Ci rimango male e dalla sua faccia direi che pure Alex non è tanto contento.
«Dice che se vuoi andare pure tu, sei il benvenuto» si rivolge al figlio «e in effetti mi pare una buona idea, una serata di tranquillità e relax non mi farebbe schifo per niente dopo questa settimana allucinante». Alex sorride tanto.
«Dio, si vede lontano un miglio che vi piacete» miagola prendendosi il viso fra le mani «era ora che vi decideste».
«Sì, grazie per la torta mamma» ribatte imbarazzato Alex alzandosi da tavola «io avrei da fare, ci vediamo quando ci vediamo, ciao ciao» insiste, andandosene senza rivolgerci le spalle fino all'ultimo. Quando se n'è andato, Isobel ride.
«Oddio, vista la reazione potrei prenderlo in giro per sempre» commenta scuotendo la testa, poi mi guarda e indica la porta con un cenno del capo, sorridendo «avanti, vai, aspetta solo te».
Guardo lei, Lisa e poi la porta, afferro il piatto e mi affretto a raggiungerlo. Finisco la torta per le scale e lascio piatto e forchetta sul mobile fuori da camera sua, socchiudo la porta e lo trovo in piedi davanti all'armadio aperto.
«Ecco dov'era finita» mormoro notando la mia maglia dei Blink.
«La rivuoi?» domanda, prendendola e passandomela.
«Preferisco ce l'abbia tu» scuoto la testa, lui sorride e la rimette dentro.
«Mia madre è una pazza, ma in effetti avrei potuto farmi avanti mesi fa» mormora.
«Averti ora non mi fa schifo per niente» ribatto, lui si alza e mi sorride, guardandomi negli occhi.
«Se mai dovessi andartene, sappi che ti rincorrerei e ti riporterei indietro» mi quota. 
«Perché senza di te non sopravviverei» concludo. Finiamo di guardarci e lo stringo, affondando il viso nella sua spalla.
«Ti amo Jack» sussurra, ci stacchiamo e mi guarda di nuovo. Mi prende il braccio, mi accarezza dolcemente i tagli e sorride «riempiremo tutto questo vuoto e vinceremo questa battaglia insieme, okay?»
Annuisco e mi sento il petto esplodere di gioia. «Ripetilo» soffio.
«Ti amo Jack. Ti amo come nessun'altra cosa al mondo» mormora, mi passa una mano dietro al collo e mi bacia.
Mi bacia, e io mi sento la persona più importante del mondo. Tra le braccia del ragazzo della mia vita, respiro e scoppio a piangere, e divento la persona più importante del mondo per davvero, mentre tutto il resto perde di significato. Tra le braccia del ragazzo della mia vita, tremo, chiudo gli occhi e mi sento un oceano, e ritrovo in lui l'unica barca in grado di solcarmi e non venir ferita. Tremo, e niente importa più, e la sua pelle chiara diventa il faro di cui ho sempre avuto bisogno, che mi accarezza e mi ricorda che posso farcela, non sono uno spreco di tempo. Tremo, e sento il mio amore per lui non finire mai, e in un attimo realizzo che non è necessario che il tempo si fermi davvero perché le cose rimangano così per sempre, ma che c'è un universo a parte che ci circonda e accada quel che accada, saremo infiniti per l'eternità. Tra le sue braccia vivo e muoio, eppure esisterò per sempre, e quest'universo non sbiadirà mai. Diventeremo il cielo e la terra e resteremo abbracciati all'infinito, a scambiarci messaggi d'amore e di speranza che nessun altro potrà captare ma che tutti sentiranno dentro, e così come le foglie cambiano colore, il nostro amore si farà più intenso e vivo, e il nostro ricordo vivrà per sempre negli occhi l'uno dell'altro. E mentre tutti cercano il loro per sempre e non si godono il presente, noi vivremo proiettati in uno spazio tutto nostro, dove il tempo non conterà niente e girerà tutto attorno ai nostri tocchi e ai nostri pensieri, e più cercheranno di capirci più ci avvolgeremo l'uno dentro l'altro e scompariremo nel profumo dell'altro, in una danza infinita, sempre uguale e sempre diversa; e quando gli altri si stuferanno di cercare di scoprire il nostro punto debole, ci accasceremo su un mare di spartiti e ci guarderemo negli occhi, e scoppieremo a ridere al pensiero di tutti quelli che non sono in grado di vedere nella loro metà il presente, il futuro e il passato, lo spazio e l'oceano, la musica e il tremore, il respiro e la gioia; ci tenderemo la mano senza dire una parola e la stringeremo con tutta la delicatezza che ci sarà possibile, chiuderemo gli occhi e saremo nel sogno, in una realtà dove non esiste null'altro che una lenta e dolce melodia arcana, ci stringeremo l'uno all'altro e balleremo fino a crollare per la stanchezza, riducendoci a un fragile mucchio di baci e sospiri portati via dal vento. Tra le sue braccia tutti gli universi nascono e vivono, e con loro nasciamo e viviamo anche noi, morendo solo per rinascere su un'altra stella, sempre incastrati l'uno all'altro, e rinasceremo l'ultima volta come due sprazzi di energia, destinati a rincorrersi e acchiapparsi fino alla fine dei tempi, in un arcobaleno illuminato da colori mai scoperti e brividi mai provati, e quando finalmente ci abbracceremo per l'ultima volta tutto si farà chiaro e diventeremo una cosa sola, chiusi nel guscio di una goccia d'acqua. Qualcuno si fermerà e ci osserverà, poi se ne andrà con l'impressione di aver sentito una melodia sconosciuta, stranamente dolce e lenta, e quando arriverà a casa abbraccerà la sua metà, la bacerà e non ci penserà più, mentre lei giurerà stranamente di aver sentito una musica avvolgerle il petto e rischiararle la mente, e comincerà a ballare e lo prenderà per la mano, perdendosi in piroette infinite e promesse taciute, e in quella frazione di secondo in cui in tutti e due risuonerà la nostra melodia, la scintilla si riaccenderà e noi torneremo a rincorrerci, nascondendoci nel vento e negli steli del fiori che ondeggiano sotto la pioggia, piegati da quell'improvvisa ondata di musicalità e luce, e tutto ciò che toccheremo comincerà a cantare, perdendosi in balli, sorrisi e frasi cominciate e mai finite, e tutto ciò che riusciremo a dire sarà che ci amiamo, e come una stella che muore ci romperemo in mille pezzi e finiremo in ogni angolo di mondo, senza mai separarci e lasciarci la mano. Rinasceremo uno dentro l'altro, una, due, infinite volte, e tutto ciò di cui avremo mai bisogno sarà il tocco dell'altro, e nel momento stesso in cui le nostre dita si riconosceranno fra mille, l'universo si sarà fermato e avrà cominciato a ruotare attorno a noi, dando vita a tante altre piccole lamelle di luce, che a loro volta salveranno persone e creeranno universi, e tutto ciò che servirà a mandarli avanti sarà l'amore, e il nostro incontro è fuoco, amore mio, fuoco e speranza, perché fra noi nulla si scioglierà mai. Bruceremo all'infinito e diventeremo cenere solo per dar vita e sostenere nuovi amori, e vivremo e nasceremo all'infinito, per poi riaprire gli occhi e ritrovarci in piedi nella nostra camera, mano nella mano, circondati dal mondo e lontani da tutti, e guardandoci negli occhi non avremo bisogno di dirci nulla, ci abbracceremo e ci salveremo ancora una volta, senza che nessuno ci capisca mai. Tra le braccia di Alex tutto esiste e niente importa, e attorno a noi si creano oceani di possibilità e sfumature, e quando all'improvviso l'odore di salsedine arriverà a stuzzicarci le narici ci guarderemo negli occhi e ci scopriremo a casa, circondati dagli 'oh' degli altri, che per quanto ci provino non capiranno mai quello schizzo di colore nelle strade e quella punta di elettricità attorno a Baltimora, e mentre loro si gratteranno le teste noi ci affretteremo nei sottopassaggi e ruoteremo su noi stessi con le braccia al cielo, sfrecciando man mano più veloci per ogni trillo di bicicletta e stella cadente che percepiremo, e mentre il sole si tufferà nel cemento, ci lasceremo cadere sulle tegole del tetto e ci ritroveremo nel sogno, a dipingere buone azioni e colorare abbracci, per poi riaprire gli occhi solo per scoprire che le pareti attorno a noi non sono mai state così vive e pronte a sostenerci. Perché fra le sue braccia, tutto nasce, si sviluppa e finisce, ma come ogni certezza il nostro amore sarà l'eccezione che conferma la regola, e mentre appassiremo l'uno negli occhi dell'altro, le luci esploderanno una dopo l'altra in mille farfalle e fiammelle e avvolgeranno l'anima di tutti in un manto di cotone e nuvole, trasportandoli in alto, lontano dai loro problemi. E quando tutti apriranno i loro occhi per davvero, sarà quando ci dissolveremo in uno stormo di colombe e raggiungeremo la nostra vera libertà, librandoci nell'infinito senza più dover tornare, tornando ad essere l'energia primordiale che ha cominciato tutto e ci ha fatti conoscere.
Ma per ora siamo ancora solo Jack e Alex, e tutto ciò a cui riesco a pensare è che lo amo, e lo amerò sempre. Dal suo respiro sento che per lui è lo stesso e mi basta per essere felice. Jack e Alex, Alex e Jack - due nomi creati apposta per completarsi e incastrarsi in modi sempre nuovi, per due persone che ora che si sono trovate non usciranno più l'una dagli occhi dell'altra. Potrei chiedere di più?
Forse un'altra fetta di torta, ma non si può aver tutto dalla vita suppongo. Per ora ho il ragazzo della mia esistenza, e direi che mi basta. Non sarebbe potuta andarmi meglio. Gli passo le mani sulle guance e mi sorride.
«I won't let this memory fade away». Lo stringo e chiudo gli occhi. Il viaggio è appena iniziato, ma so che, nel bene e nel male, saremo sempre una fiamma ardente e andrà tutto bene, fino alla fine. E a me basta.
Cominciamo a ballare, e tutto attorno a noi muta.
A me basta.


Angolo dell'autrice: se siete arrivati fino a qui sappiate che vi amo, mi sono affezionata a questa ff come non mi succedeva da tanto tempo e tutte le recensioni carine che ho ricevuto mi hanno fatta sentire la scrittrice più brava del mondo, siete tutti delle personcine meravigliose e potessi vi stropiccerei tutti -stropiccia-. Verso la fine mi sono chiusa con Le Luci e credo si capisca fin troppo, ma anche se stona col resto del racconto alla fine ho deciso di lasciare quest'ultima parte perché non sono brava coi finali e mi piacciono le cose in cui non si capisce mai fino in fondo quello che vuole dire l'autore (forse dovrei darmi alle poesie ermetiche). Se ci sono costrutti linguistici di dubbia correttezza è perché leggo troppo in inglese e francese e ormai non so più parlare bene nessuna lingua, quindi se ci sono casini vi prego ditemelo che correggo cwc grazie mille per essere arrivati alla fine, lo apprezzo tanto. Siete bellissimi.

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