Le Sette Settimane

di La Mutaforma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1862 - La quiete prima della tempesta ***
Capitolo 2: *** 1863 - La Rivolta di Gennaio ***
Capitolo 3: *** 1864 - Come crolla un Impero? ***
Capitolo 4: *** 1864 - Torno dallo Schleswig ***
Capitolo 5: *** 1864 - Un dolore che nessuno sa ***
Capitolo 6: *** 1864 - Venti anni di buio ***
Capitolo 7: *** 1864 - Lettere di uno sciagurato fratello ***
Capitolo 8: *** 1866 - Lascia che curi le tue ferite ***
Capitolo 9: *** 1866 - La fuga ***
Capitolo 10: *** 1866 - Ci vediamo a Sadowa ***
Capitolo 11: *** 1866 - Torniamo a casa ***



Capitolo 1
*** 1862 - La quiete prima della tempesta ***


Questa long è nata da un’idea di getto, giusto perché era da un po’ che desideravo fare una pluricapitolo su Hetalia, e desideravo che avesse dei contenuti realistici ma poco conosciuti così la fanfic risulta addirittura interessante.
La storia comincia cronologicamente nel 1863 ma la vicenda principale –ossia la guerra austro prussiana– si colloca nel 1866;
Gli avvenimenti narrati sono quasi tutti storicamente veri, o almeno in parte;
Nonostante le tematiche serie ho cercato di conservare il carattere originale dei personaggi, anche se in alcuni casi potranno risultare OOC;
Poiché porta di nome “Veneziano”, nella storia Feliciano rappresenta essenzialmente solo la regione Veneto, che nel 1863 ancora non faceva parte del Regno d’Italia. Spero vogliate scusare l’uscita poco elegante;
Modifiche o precisazioni alla cronaca originale della guerra delle Sette Settimane verranno messe al termine del capitolo.
Salute e pace, e godetevi la Storia.
 
 


 
Avvertì il fischiante getto di vapore prorompere dalla vecchia teiera e spense il fornello.
A Ungheria piaceva preparare il the. Le piaceva preparare il the per Austria.
Piacevolmente rilassata sistemò su un vassoio la teiera, tazzina, zuccheriera e un piatto di dolci. Fece un sospiro, e ne prese uno dal piattino, pensando che a Italia sarebbe piaciuto avere un biscottino.
“Sta crescendo. È un ragazzo ormai”
Mentre si avviava in soggiorno col vassoio, ripensò a quello che le aveva confessato una notte.
Hai saputo di mio fratello, Ungheria? Adesso ha ottenuto l’indipendenza. Erano anni che sognava la libertà. E ormai il mio paese è quasi del tutto unito.
Lei aveva sorriso dolcemente, fingendo di non capire il suo discorso e gli aveva accarezzato la spalla. Ma invece di abbracciarla sotto le coperte, Italia rimase col viso puntato verso il soffitto, gli occhi pieni di pensieri.  
Come mi manca il mio paese. Come mi manchi tu, Romano.
Non glielo aveva mai chiesto direttamente, ma sospettava che desiderasse anche lui l’indipendenza e ritornare nel suo paese; inoltre, non si sarebbe affatto sorpresa se in verità avesse aiutato anche lui suo fratello a ribellarsi.
Sospirò.
Anche a lei mancavano i verdi prati in fiore ungheresi.
Da bambina, quando giocava con le spade di legno con… altri bambini; allora la sua vita non se la immaginava così. Sognava di combattere, tra le prime fila dell’esercito, ed essere libera.
Non pensava che avrebbe fatto la cameriera. Almeno non in modo così arrendevole.
Spinse leggermente la porta del soggiorno. Due occhi rossi incrociarono il suo sguardo.
Tu?!
 
Prussia. Diceva che molti lo conoscessero come “il magnifico”. Ungheria aveva sempre sospettato che in verità fosse unicamente lui ad autocelebrarsi in quel modo.
Nessuno con un minimo di orgoglio –e obbiettività– lo avrebbe affermato.
Senza una spada puntata contro, certo.
Sinceramente, non c’era traccia di magnificenza in lui. Solo tanta vanità, ma magari non del tutto infondata.
Dal canto suo, Ungheria non si interessava molto alla politica, ma a quanto aveva capito, dall’ultimo viaggio di Austria a Vienna per il Congresso, Prussia era diventato potente.
E aveva un forte esercito. Probabilmente il più temibile d’Europa.
Scacciò quel pensiero. L’impero, seppur decaduto, apparteneva ancora ad Austria.
“Oh, è così bello vederti, Ungheria” la salutò lui, falsamente cortese. La ragazza immaginò di strappargli dalla faccia quel ghigno che ostentava con la parvenza di un sorriso.  
“Salve Prussia” rispose seccamente “Ho interrotto qualcosa, signore? Le ho portato il the” aggiunse, più cordialmente, rivolgendosi ad Austria, mentre posava il vassoio sul basso tavolo davanti a lei. Il cambiamento di tono non passò inosservato a Prussia, che strinse con fastidio i denti.
Austria le rivolse un cenno senza proferire parola, conservando la sua solita tranquillità. Rasserenata, la ragazza chinò la testa per congedarsi e lasciò i due uomini ai loro affari.  
Pur non potendo fare a meno di chiedersi cosa volesse dal suo padrone Prussia.
 
Italia la raggiunse sulla veranda dietro casa con un grosso secchio tra le mani. Non gli fu difficile notare la sua agitazione.
“Chi era quell’uomo oggi?” chiese il ragazzetto con tono casuale. Nonostante fossero ormai passati degli anni, e la voce del ragazzino stesse diventano più profonda, Ungheria notò, non senza un’ombra di malinconia, che Italia non si era mai ancora separato dal candido grembiulino sgualcito, che portava sopra ad abiti maschili da lei stessa confezionati.
“Prussia”
“Lo conosci?”
Oh, i bambini sanno essere crudeli.
“Lo conoscevo”
“E adesso non lo conosci più?” insistette Italia, posando il traballante secchio contro il muro “A dire il vero, a me fa un po’ paura. A te non fa paura, Ungheria?”
Paura?La ragazza ripensò con un sorriso a quando correvano insieme per le campagne, e lei era più veloce di lui. Allora Prussia ­–col fiatone e il viso rosso– le diceva che era solo un’imbrogliona e che non meritava di gareggiare con lui.
E poi si picchiavano, come si picchiano i bambini, che sembrano non farsi mai male.
Finivano per sdraiarsi sulla collina ondeggiante nel caldo sole delle loro giornate lontane, e osservavano le nuvole passare, per non tornare più.
Come quei giorni.
Si allontanò, vergognandosi di mostrare gli occhi a quel ragazzino che come lei troppo bene conosceva quel tormento che, palese come una bugia, le passava in viso.
 
Fu un caso che si trovasse sull’uscio a spazzare quando Prussia uscì di casa.
Il lungo mantello bianco le oscillò sugli occhi come una bandiera. Ma quel bianco vessillo non era di resa. Qualcosa le diceva che c’era molto più.
E quella non era una semplice visita di cortesia.
“Non pensavo di rivederti così”
“Io non pensavo di vederti affatto” rispose lei, gelida, stringendo saldamente la scopa tra le mani. L’albino si fece sfuggire un sorrisetto, soddisfatto alla vista del suo fastidio.
“Parole forti… per una nazione dipendente”
La ragazza maledisse la sua condizione di sottoposta, solo per guardarlo negli occhi con il forte orgoglio di un tempo, e non sentirti così inferiore.
“In ogni caso, è sempre bello vederti, Elizabeta” disse, con in inchino “Ci vedremo presto, abbi fede, non sentirai più la mia lontananza”
Ungheria trattenne un moto di disgusto davanti a tanta tracotanza e a tanta presunzione.
“Stai pure tranquillo, Prussia, non ne soffrirò”
Il suo sorriso era la cosa più insopportabilmente raccapricciante che Ungheria avesse mai visto. “Era proprio quello che volevo sentirti dire. Auf wiedersehen, mein freund
Se ne andò, voltando le spalle e rimettendosi il capello piumato a coprire i corti capelli color inverno.
Mentre tornava alle sue faccende, Ungheria lo odiò con più fermezza di quanto avesse mai fatto in passato, e si augurò che non tornasse più. 

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Capitolo 2
*** 1863 - La Rivolta di Gennaio ***


“C’è qualcosa che non mi hai detto su Prussia, vero?”

Era notte. Italia era ancora sveglio, seduto a gambe incrociate accanto a lei che si scioglieva i lunghi capelli castani.

“E’ una lunga storia, Italia. Vai a dormire”

“Non importa quanto sia lunga. Ho bisogno di sapere” insistette con fermezza il ragazzino.

Ungheria sospirò. Era tardi, e benché non fosse molto stanca, non aveva voglia di parlare.

Non di Prussia.

“Ti ricordi il congresso del 1814?”

“Sì. Ricordo che stemmo per un po’ da soli. Il padrone Austria era fuori. Vienna deve essere bella. Fu un peccato non esserci andato” disse il ragazzino “Fu poco dopo… insomma, dopo quello che successe…”

“A Vienna c’era anche Prussia. Fu anche grazie a lui che la guerra finì”

Italia era confuso e insoddisfatto, tuttavia giudicò che fosse meglio non insistere. “Ancora non capisco perché sia venuto a corte”

Ungheria si infilò sotto le lenzuola, e nascose la testa sotto il cuscino, per soffocare le sue miti inquietudini.

“Nessuno lo sa”

Chiuse gli occhi. Non dormì.

 

 

Non passò molto tempo che Prussia ricomparve alle porte della corte imperiale.

Lo vide subito, mentre tirava dal pozzo un secchio d’acqua.

“La mia magnifica persone può aiutarti?”

Ungheria strinse le dita sulla ruvida corda consunta. “Faccio da sola. Conosci la strada, puoi arrivare da solo a corte, Austria-san ti starà aspettando”

Prussia si appoggiò con la schiena al pozzo, e sorrise. Il solito ghigno cattivo.  

“Sono venuto senza invito”

“Come al solito”

“Non devo incontrare Austria. Sono venuto dall’alta Europa. Per vedere te”

Ungheria gli dava le spalle, tuttavia spalancò gli occhi e si vergognò della sua reazione a quelle parole. Si allontanò finché non lo sentì afferrarla per il gomito.

“Sono venuto da troppo lontano per farmi mandare via, Eliza, sappi che non me ne andrò così, per tuo orgoglio” fu la sua dura risposta. Lei si divincolò, sostenendo fieramente i suoi occhi rossi.

“Non ho intenzione di sottostare ai tuoi capricci”

“Credevo che ormai fosse tua consuetudine” fece notare l’albino con una cattiveria inattesa che la fece impallidire. Lui se ne accorse e ne sorrise piacevolmente.

 “Andiamo, Eliza” lo odiava di più quando la chiamava per nome “Sai di volermi parlare”

La ragazza strinse i pugni, e guardò lontano. I suoi occhi si persero nell’immenso giardino reale, e lo sconfinato verde le ricordò la patria lontana.

“Ebbene, di che si tratta?”

“Di un’informazione riservata” disse lui, prontamente.

“Così riservata che vuoi confidarla a me”

“A te e a nessun altro” confermò “Mi sono alleato con Russia. Domani scendo in battaglia a reprimere l’insurrezione in Polonia”

Ungheria spalancò gli occhi, sorpresa e inorridita. Di colpo gli afferrò le mani, spaventata.

“Farai una strage!”

“Solo se sarà necessario”

I suoi occhi rossi promettevano solo malvagità, il suo sorriso era fiero, sicuro e crudele.

Lei ne ebbe paura. A lui piacque.

“Lo dirò ad Austria! Non permetterò che tu faccia ricominciare la guerra!”

“Dillo pure ad Austria, so che non interverrà” poi la guardò negli occhi, stringendo le sue piccole, ruvide mani, tra le sue “E’ bello sapere che ti preoccupi per me”

Ungheria si tirò indietro senza esitazione, con orrore crescente.  

“Mi preoccupo per il bene dell’Europa. Sono solo sessant’anni che…”

“Lo so cosa è successo cinquantasette anni fa. Era mio fratello, non ho bisogno che sia tu a ricordarmelo!”

Pronunciò quelle parole col veleno di un grave risentimento negli occhi e sulla lingua.

La caduta di Sacro Romano Impero doveva averlo scosso molto. Era strano pensare che uno come Prussia potesse reagire così.

Ungheria sospirò, riconoscendo di essersi espressa nel modo sbagliato.

Gilbert, l’Europa ha bisogno di pace. Se sei alleato di Russia, convincilo a concedere alla Polonia l’indipendenza e che finisca questa storia senza un bagno di sangue”

“La storia è fatta di sangue. Quello dei nemici”

“E’ un discorso degno di un pazzo e di un assassino!” lo accusò lei, inorridita. Prussia le prese le mani con dolcezza, ma con una presa sufficientemente decisa da non lasciare che lei si liberasse troppo in fretta.

Aveva le mani di uno spadaccino, poco delicate.

“E’ bello sapere che dopo tanto tempo ti ricordi il mio nome”

Sembrava che non lo preoccupasse affatto l’imminente guerra, né gli importasse cosa gli stesse dicendo lei in proposito. Era davvero venuto lì solo per vedere come avrebbe reagito lei a quella rivelazione? Si sentì ribollire di rabbia e di frustrazione; il suo atteggiamento immaturo era inaccettabile in quella situazione, ma anche lei non aveva che alimentato quel modo di comportarsi fino a quel momento.

“Perché sei venuto a confessarmi la tua decisione?”

“Volevo vedere come avresti reagito. Volevo che ti preoccupassi. Sei così bella quando hai paura di me e sgrani gli occhi. Sei molto bella e spaventata” sussurrò lui, con un ghigno disinvolto dipinto sulle labbra sottili.

Non poteva essere serio, non con quella smorfia atteggiata a sorriso.

Ungheria non volle dargli la soddisfazione di vederla piegata dalla sua insolenza, e tirò in su il viso, lasciandogli quelle fredde mani di assassino.

“Sei orribile, Prussia”

“Detto da te sembra un complimento”

“Tutto ciò non mi fermerà dall’intervenire” disse lei, spavalda. Troppo spavalda.

“Non sei libera, né indipendente. Pensi di poter fare qualcosa nella tua situazione attuale? Vuoi avvertire Austria? Non si schiererà contro di me, né contro la Russia. Ma comunque, è sempre bello vedere il terrore nei tuoi occhi”

Ungheria si coprì il viso con le mani, singhiozzando disperatamente. Non voleva sembrare debole, o impaurita. Pianse tutta la rabbia che aveva dentro, tutta la voglia di mandarlo via e non rivedere mai più i suoi occhi rossi.

Prussia attese che si sfogasse, forse troppo soddisfatto per parlare; poi le sfiorò una spalla.  Bruciò più di una lingua di fuoco.

“Sei incredibile, Eliza” Prussia le prese il viso con una mano, senza grazia, costringendola a guardarlo “Farò finta che tutto ciò non sia mai successo. Per il tuo bene”

Detto ciò, si inchinò e si infilò il capello con fare teatrale, allontanandosi verso i cancelli del palazzo reale.

Prima che potesse sparire tra le lacrime e il verde alla sua vista, Ungheria lo richiamò con un’esitazione così tremante che Prussia l’avrebbe avvertita nella sua voce senza difficoltà.

“Prussia!”

Lui si voltò lentamente, con un placido sorriso rasserenato. “Sì, Eliza?”

La ragazza masticò con aggressività le parole che avrebbe voluto gridargli contro. Non uscì che un flebile tono simile ad un lamento dalle sue labbra.

“Perché sei venuto da me? Perché dirlo a me?”

Prussia fece un sorriso. Uno normale. “Volevo che mi augurassi buona fortuna”

Se ne andò via senza aggiungere altro.

Inconsapevolmente, Ungheria sperò che la guerra lo tenesse lontano dalla corte imperiale per un po’.

 

 

Era passato quasi un anno da quel giorno, quando Italia le venne incontro con un giornale stropicciato tra le mani.

“Dove lo hai preso questo?”

“Giù in paese per pochi kreutzer. La guerra in Polonia è finita, leggi qua!” disse il ragazzino mostrandole l’articolo.

Ungheria strinse i fogli tra le mani, gli occhi già pieni di pianto.

Russia non era stato misericordioso. Un numero che non voleva leggere di persone era stata impiccata. Molti altri, i meno fortunati, deportati in Siberia.

Ed è così, dunque, che si conclude la Rivolta di gennaio. Con uno sterminio. E Prussia non ha esitato a macchiarsi le mani di quel sangue.

La ragazza strinse gli occhi, come per non vedere, e ripose il giornale tra le mani di Italia che le si accoccolò in grembo.

Perché Gilbert? Perché sei diventato così? A cosa è dovuto tanto furore?

“Hai paura, Ita-chan?” sussurrò lei tra i capelli del bambino. Il ragazzino annuì lievemente con la testa. Ungheria sorrise, stringendolo a sé per scacciare via la sua inquietudine.  

“Allora restiamo così. Finché la paura non passa via”

Il giardino era spento e ricoperto di un secco nevischio. Nel biancore oltre i cancelli, vide avvicinarsi un cavallo.

E il suo cavaliere.

Ungheria aguzzò la vista. Un cavaliere con capello piumato. E un lungo mantello bianco come la neve con una croce teutonica nera. Nera, che più nera non si può.

Così torna il guerriero dalla battaglia.

Ancora hai il coraggio di mostrarti a me, Gilbert? Ancora?

Così torna un assassino. 

 

 

 

 

 


 

 


Niente di meno il secondo capitolo. 

Non ho precisazioni da fare, oltre al fatto che storicamente l'Ungheria non si oppose alla Prussia; l'ho scritto perchè altrimenti la trama non va avanti e perchè li shippo. That's it.

Kreutzer: dovrebbe essere la moneta austriaca corrente nell'ottocento, qualcuno che se ne intende mi dica se è così. 

Per correttezza, la Rivolta di Gennaio finisce con la cattura degli ultimi rivoluzionari nel 1865, ma per questioni di trama ho preferito tralasciare gli ultimi particolari. Per quel che riguarda la fanfiction in generale, il '64 è un anno molto importante.  

 

 

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Capitolo 3
*** 1864 - Come crolla un Impero? ***


Ungheria strizzò le garze bagnate nella bacinella.

“Un anno intero, Prussia” mormorò lei, tra i denti “Un anno e anche più. A uccidere”

“A difendere ciò che è giusto” la corresse l’albino, osservandola mentre gli medicava le ferite brucianti.

“Sono quasi del tutto sicura che tu non l’abbia fatto senza un valido motivo”

“Sono semplicemente un assolutista come tanti in Europa” digrignò i denti quando lei gli strinse apposta le fasce più forte intorno al braccio. “La cosa ti turba?”

“No. E nemmeno mi sorprende” lo guardò negli occhi. Quei grandi occhi rossi che avevano visto tante battaglie quante ferite aveva riportato. “Mi dispiace”

“Il Magnifico si riprenderà”

“…Mi dispiace per quella gente”

Prussia fece un sorrisetto, sconfitto, ma non ancora arrendevole.

“Non hai nulla da dirmi, oltre alla solita paternale?”

Lei sospirò. “Sono stanca di fasciarti le ferite, Gilbert. Non siamo più bambini”

Ci fu un momento di silenzio. Poi si prolungò a lungo, e nessuno parlò più.

 

In quei giorni, la ragazza si accorse che Italia era irrequieto; più del solito.

La presenza di Prussia lo agitava, senza dubbio, ma lo incuriosiva anche. Da quando aveva sentito che era il fratello di Sacro Romano Impero, sembrava voler riconoscere nei tratti dello sconosciuto il viso del suo vecchio amico.

Ungheria dubitava che ci sarebbe mai riuscito, anche solo se avesse desiderato parlare con lui. L’ultima volta che aveva nominato il piccolo defunto, Prussia si era alterato al punto da spaventarla sul serio.

Il dolore nei suoi occhi era qualcosa di incancellabile, persistente.

“Hey ragazzino!” cominciò Prussia, rivolgendosi ad Italia “Portami un bicchiere di birra, velocemente

Il bambino lasciò cadere la scopa, spaventato, e si nascose dietro la gonna di Eliza. Lei gli accarezzò con dolcezza i capelli rossi, prima di rivolgere lo sguardo sull’albino.

“Lascia stare Feliciano, Prussia. Non ammetto un simile comportamento da parte tua”

Lui fece un sorrisetto sfrontato.

“Ho il diritto di rivolgermi come voglio con i domestici”

Elizabeta sostenne fieramente il suo sguardo rosso sangue “Non con i miei amici”

“Vuoi forse andare tu a prendermi della birra?”

La ragazza si chiese se in fondo non fosse quello il suo obbiettivo principale.

Sciolse Italia dal suo abbraccio e si allontanò, senza voltarsi indietro.

Mai come allora ubbidire ad un ordine le era sembrato più faticoso.

 

Italia lo guardava di sfuggita, con gli occhi bassi.

Il suo timore sembrava divertire l’albino, che gli fece segno di avvicinarsi, approfittando anche della temporanea assenza dell’altra domestica.

“Che ti guardi ragazzino?”

Il bambino deglutì con violenza, ma si fece coraggio.

“Sei il fratello di Sacro Romano Impero, giusto?”

Seguì un istante di silenzio, in cui il ragazzino credette di aver detto qualcosa di sbagliato.

“…Chi sei tu?” chiese Prussia, diffidente.

Lui allungò la mano, per presentarsi. “Sono Italia. Mi chiamo Feliciano”

L’albino prese la piccola mano tra le sue grosse e ruvide, incredulo. Poi, inspiegabilmente, sorrise. E anche un sorriso, su quel volto straziato dal dolore e dalla guerra, sembrava una smorfia di cattiveria.

“Mio fratello ti voleva bene. Penso che abbia pensato a te… quando…”

Feliciano sentì delle lacrime antiche, vecchie di quasi sessant’anni, già piante, trattenute, spesso nascoste, tornare a pizzicargli gli occhi castani.

Si liberò dalla presa del condottiero e scappò via, recuperando lo spazzolone da un angolo, e singhiozzando con violenza.

Ungheria entrò in quel momento, con un boccale di birra tra le mani.

Fissò i suoi occhi verdi e rabbiosi sul tedesco, le labbra che tremavano in preda ad un nervosismo furioso.

“Eliza, calmati, non gli ho fatto nulla!” si difese lui, scattando in piedi.

La ragazza si bloccò, un impulso glacialmente razionale.

“Non avvicinarti mai più a Feliciano. È tutto ciò che mi resta”

“Eliza..” provò a replicare il tedesco, prima che lei gli versasse la birra addosso.

Una macchia dorata e schiumosa si espanse sul pavimento liscio; lenta, come si espande la guerra.

 

In effetti, Gilbert non si avvicinò più a Feliciano.

Era Feliciano ad essere inconsciamente attratto dalla rude forza di quell’uomo, ormai una presenza solenne e opprimente a corte.

Mai la reggia era stata più silenziosa.

Persino il pianoforte di Austria talvolta sembrava taciturno.

Italia ci aveva riflettuto per giorni. Poi si era armato di coraggio e si era avvicinato a lui, in giardino, lontano dagli occhi materni e protettivi di Eliza.

“Ah, sei tu ragazzino, che vuoi?” Prussia non era più insolente del solito “Sai che non sono ancora riuscito a togliere la macchia di birra dalla giubba?” 

“Non sono qui per chiedere scusa”

Il tedesco notò nello sguardo del ragazzino un fuoco vivo che vibrava nelle sue iridi come fiamme che la sua superbia non poteva spegnere.

“Sono qui per sapere di lui”

Gilbert strinse furiosamente le labbra, voltando lo sguardo altrove. “Vai via ragazzino, e ti risparmierò”

“Non mi importa di quello che succederà, non mi importa di niente!” Feliciano lo afferrò per i lembi della giubba blu, anche se la sua era una presa molto debole “Io devo sapere di lui, devo sapere cosa gli è successo… come gli è successo!”

Prussia gli staccò con malagrazia le mani dalla giubba. Attese, sospirando, poi pensò che non si sarebbe mai liberato di lui, e si sedette nell’erba.

“Tu mi chiedi cosa sia successo…te lo spiegherò, ragazzino pestifero. È successo che mio fratello è stato sconfitto. Dicono che sia stata la Francia rivoluzionaria. Ma non è vero. Mio fratello me l’ha ucciso la guerra. La guerra scoppiata perché tutti abbiamo troppe pretese, e ci sentiamo grandi”

Era strano sentito dire da quel condottiero impavido e senza cuore.

“Io stesso, non mi sento grande. Non mi sento abbastanza magnifico. Quando l’ho visto, gli ho preso la mano, ma non si è stretta intorno alla mia. Credo ti abbia cercato. Credo che non abbia mai smesso di cercarti”

Feliciano tirò su con il naso, gli occhi secchi per aver pianto troppo su una storia che non conosceva.

In effetti se l’era sempre chiesto.

Come cade un Impero?

Facendo rumore.

Io invece non sono nemmeno una nazione, nessuno mi può sentire quando piango.

Gilbert lo prese con delicatezza in braccio e lo fece accoccolare sulle sue ginocchia. La pace quiete del giardino sembrava burlarsi della loro inquietudine.

Feliciano pianse liberamente sulla giubba blu che puzzava di sangue e di birra.

Gilbert strinse i denti, e singhiozzò tra i capelli rossi del bambino.

Sperò che non lo capisse.

È una tendenza formalmente umana vergognarsi del proprio dolore.

 

 

Era quasi una settimana che Prussia non si vedeva a corte.

Ci fu grande agitazione quando il suo cavallo bianco, nervoso e sbuffante, si ripresentò ai cancelli della corte imperiale.

Aveva un’espressione seria e rabbiosa, non più il ghigno malevolo e sprezzante che era suo uso sfoggiare.

Ungheria lo riconobbe subito, e si sorprese di come lui non si fosse fermato, come al solito, ad importunarla.

Era rabbioso. Ma di un furore contenuto. Quasi premeditato.

Stringeva tra le mani una lettera, mentre si dirigeva nella stanza dove Austria suonava con una quiete apparente il suo pianoforte.

La domestica lo seguì fino alla porta, senza farsi notare.

Poggiò l’orecchio sulla toppa, ma non capì nulla del loro discorso frettoloso.

Quando stava per staccarsi dalla porta con tiepida rassegnazione, sentì chiaramente la voce altisonante di Prussia parlare con un vigore battagliero.

“Che anno è?”

“1864”

“Bene. Allora si dica in tutta Europa, si scriva nel libri di storia, che nell’anno del Signore 1864 la Prussia ha dichiarato guerra alla Danimarca”

Ungheria spalancò gli occhi nel vuoto.

 

 

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Capitolo 4
*** 1864 - Torno dallo Schleswig ***


Quella mattina era ufficialmente la prima mattina di guerra.

Di nuovo.

Prussia stava sulla veranda, fuori dalla reggia.

Era sempre stato fuori. Anche quando era dentro.

Nonostante l’albino condottiero non mancasse mai di proclamare la sua magnificenza, la vita di corte non faceva per lui.

Gilbert aspettava solo la guerra, per dimostrare di essere il più forte.

I suoi occhi scrutarono l’orizzonte senza paura, e un vago ghigno gli si disegnò in viso.

Provò a fare un passo verso il giardino; qualcosa alle sue spalle lo trattenne. Quando si voltò, riconobbe il viso e i capelli rossi di Feliciano, le manine ancor piccole strette sul suo ampio mantello blu.

Come la notte. Scuro, come la guerra.

Si liberò con uno strattone, senza guardarsi indietro.

Gilbert guardava sempre avanti, qualunque cosa accadesse, anche se dietro aveva lasciato tante cose. Feliciano non ebbe il coraggio di rivolgergli la parola e affrontare quel dolore così ostinato e orgoglioso.

Seppellire un fratello è doloroso, vero?

Prussia si allontanò verso i cancelli della reggia, dove lo attendeva il suo cavallo bianco e fremente per il nuovo viaggio.

Feliciano guardò quella camminata solenne, tremenda, come un rito, mentre il condottiero raggiungeva il suo cavallo. Trattenne il fiato e lo rincorse, incespicando nell’erba rada del giardino che nessuno curava più.

Gilbert salì a cavallo: quel bambino sembrava ancora più indifeso visto da quell’altezza. Ma lui non provava tenerezza. Solo un sordo rammarico.

Scosse la testa. I suoi occhi rossi sembravano vuoti persino del disprezzo usuale.

Spronò gentilmente il cavallo e andò via. Da lontano, sarebbe potuto sembrare un principe, non un assassino.

Italia aspettò che fosse abbastanza lontano per piangere.

Era la seconda volta che guardava qualcuno allontanarsi. Stavolta però si era cimentata in lui l’idea che si parte per non ritornare.


Passarono del tempo.

Nonostante la guerra, nonostante il silenzio, Eliza seppe appurare che il temo trascorreva sempre allo stesso modo, sempre con la stessa velocità.

Italia non lavorava più ormai. Nessuno aveva cercato di richiamarlo all’ordine.

In realtà nessuno si curava più di lui.

Se ne stava sempre sulla soglia, sotto il porticato fuori la reggia, a disegnare.

Ungheria l’aveva visto crescere, in quei sessant’anni.

Più di mezzo secolo.

Ma quella non era maturità. Era solo sofferenza.

La ragazza posò la scopa in un angolo e uscì sul porticato. E Italia era lì, seduto a gambe incrociate, i capelli rossi agitati dal vento. Si avvicinò con cautela alle sue spalle, ma lui riconobbe subito il fruscio della sua gonna.

Aveva un lieve sorriso.

“E’ arrivata la primavera. La primavera non ti rende allegra, Eliza?”

Lei sorrise e si inginocchiò accanto a lui, sulla pietra, piegando la lunga gonna arancione.

“Arriva la primavera sul campo di battaglia?”

Ungheria chiuse gli occhi. Era vero. Il vento profumava davvero di primavera.

“Non c’è posto che resista alla primavera”


Anche il campo di battaglia fiorisce di cadaveri nuovi.


C’erano già tutti i fiori sugli alberi quando Eliza gli disse che la guerra sarebbe presto finita.

Ma non era come quando di notte lo abbracciava nel letto in cui dormivano assieme e gli diceva “finirà presto” e nemmeno lei ci credeva.

La guerra stava per finire, davvero.

Nessuno sapeva per quanto. Ma abbastanza per tornare a vivere un po’.

Forse con un attaccamento alla vita maggiore.

“Sta finendo. La guerra sta finendo”

Feliciano aveva sorriso al vento.

“Sì, lo so. L’ho sempre saputo. Questo non è periodo di guerra”

In realtà la guerra stava finendo perché la Danimarca era esausta. L’esercito tedesco era il più potente e temibile d’Europa.

Ungheria sorrise, posando una margherita tra i rossi capelli del bambino.

“Andiamo, Italia? Ti preparo un po’ di pasta”

Il bambino sorrise con entusiasmo, annuendo vivacemente con la testa.

Lo prese in braccio, anche se non era più un bambino, e lo accompagnò in uno dei tanti salotti della reggia.

“Siediti pure, il padrone non c’è” disse lei con un sorriso, mentre si allontanava verso la cucina. Feliciano si sedette con leggerezza tra i cuscini di pizzo e broccato sul divano e stese le gambe davanti  sé. Sembrava smagrito e pallido, le ginocchia sporche di terra e ferite per esser stato seduto sulla pietra troppo a lungo.

Eliza si sarebbe preoccupata.

Questo non è niente in confronto alla guerra.

Quando si muore, si hanno ferite più gravi di queste.

…o forse no?

Guardandosi intorno, notò un foglio arrotolato sul basso tavolo davanti a lui.

Si guardò intorno con circospezione, e poiché era solo, allungò la mano verso la pergamena come se avrebbe potuto scottarsi al solo tocco.

Ma nulla. Era un semplice foglio come tanti. Come quelli su cui lui disegnava.

Col cuore che gli pulsava dolorosamente in gola, lo spiegò con cautela. Era una mappa. Una mappa dettagliata dell’Europa.

Ecco l’Italia che tanto gli mancava, con la sua forma strana e le sue isole.

Ecco l’Austria e la reggia dove si trovava lui. Questa è Vienna, pensò Feliciano, puntando il dito sulla mappa.

Più a nord notò due regioni cerchiate con l’inchiostro.

Holstein e Schleswig. A confine tra la Danimarca e il vecchio Impero. 

Cercò di fare mente locale sui pochi concetti di geografia che gli erano stati insegnati da bambino. 

Dall'ultimo congresso a Vienna i confini europei erano cambiati. 

Quelle due regioni dovevano essere forse i ducati per cui Prussia stava combattendo?

Cercò con gli occhi la Prussia. Era lontana.

“Io pensavo che i due ducati fossero sul confine della Prussia… allora perché Gilbert vuole conquistare qualcosa che non gli appartiene?”

Guardò il grande vuoto al centro della mappa. L’impero faceva tanta tristezza. Ormai non si sapeva più quale fosse il suo nome.

Spalancò gli occhi.

La verità si mostra sempre come un fulmine. Non si sa dove cade, e non subito fa rumore.

 

Venne il primo giorno di Agosto. Quei mesi trascorsero come erano trascorsi tutti gli altri. Molti domestici avevano lasciato la reggia, erano quasi rimasti soli, Eliza e Feliciano.

Ungheria di tanto in tanto riprendeva la scopa tra le mani, ma era difficile per lei sentirsi schiava di una casa che non era più la sua prigione, ma nemmeno la sua casa.

Per ora era una passante che viveva nascosta dalla guerra con Feliciano.

Avevano passato la primavera lontano dalla reggia, da soli, nell’erba. A giocare, a disegnare e a scherzare tra di loro.

Poi scendeva la notte, e nessuno dei due aveva il coraggio di tornare nella reggia. Stavano lì, nell’erba, a dormire sotto le stelle.

A Feliciano bastava poggiarle la testa in petto, ed era felice.

Eliza invece era in ansia. Avrebbe voluto varcare quei cancelli troppo deboli per trattenere il suo spirito libero. Tornare così, di corsa, nella sua amata terra natia.

La mente correva libera in quei pensieri quando stava sdraiata al sole, sull’erba fresca e umida.

“Cos’hai in mano, Ita-chan?”

Feliciano era seduto e le dava le spalle. Leggeva.

“Me l’ha mandato per posta mio fratello. E’ un bel libro di poesie”

La ragazza si tirò a sedere, piegando l’ampia gonna. “Come si chiama?”

“Le Canzoni, di Leopardi”

Eliza gli si fece accanto, sorridendo i suoi capelli.

“Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

infinita beltà parte nessuna

alla misera Saffo i numi e l’empia

sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni

vile, o natura, e grave ospite addetta,

e dispregiata amante, alle vezzose

tue forme il core e le pupille invano

supplichevole intendo…”

Si bloccò nella lettura, guardando gli occhi marroni e intensi del ragazzino.

“Mette una grande tristezza anche a te, vero?” chiese lei, accoccolandoselo in grembo.

“Cosa ti fa pensare?”

Ad un collina verde. E tu e Gilbert stesi nell’erba, quando si giocava solo alla guerra e non la si faceva davvero.

“A tante cose”

Prima che il ragazzino potesse insistere, un nitrito di cavalli gli fece voltare la testa.

Erano Gilbert e Roderich.

Era strano vederli insieme.

Entrarono dai cancelli con le espressioni più diverse: Prussia aveva un ghigno insanguinato per il labbro spezzato e rosso di sangue. Austria invece era illeso, perché non prendeva parte personalmente alle battaglie, ma aveva un’espressione ben più cupa e preoccupata.

Quando il suo cavallo li oltrepassò, non si curò nemmeno di richiamare all’ordine i due domestici.

Prussia invece fermò il suo bianco destriero, e sorrise prima al bambino, poi ad Eliza.

Era un sorriso di sangue, e faceva un po’ paura. La ragazza si chiese se fosse sangue suo quello che gli macchiava il viso e i capelli bianchi.

Era un sorriso che avrebbe potuto esplodere in mille singhiozzi.

“Non guardarmi così, Eliza” disse, prendendosi il viso con la mano e spronando il cavallo.

Feliciano sorrise con entusiasmo, e lasciò il suo libro tra le mani di Eliza per rincorrere il cavallo di Prussia.

Lei lo osservò da lontano, perché a quella distanza sembrava un soldato ferito e rassegnato, e non un assassino senza cuore.  

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Capitolo 5
*** 1864 - Un dolore che nessuno sa ***


Ungheria entrò nella stanza con una tinozza d’acqua e delle bende.

“Ho già provveduto io” rispose la voce graffiante di Gilbert che le dava le spalle, mentre guardava oltre la finestra.

“Non sai fasciarti le ferite, Gilbert. Non hai mai saputo farlo”

Lui si voltò; la camicia coi lacci allentati mostra solo in parte una stretta fasciatura che gli attraversava il petto, e un’altra che gli stringeva un braccio.

Era pallido e smagrito, e sembrava aver perso molto sangue.

“Non siamo più bambini, Eliza”

“Sì, lo so. Ormai nessuno più gioca”

“Qui la guerra si fa. La guerra è vera”

“La guerra è finita” lo corresse lei, fiduciosa. L’albino annuì lentamente, e si adagiò con cautela su una poltrona, non senza una smorfia di dolore.

Lei gli si avvicinò e gli porse la mano e un sorriso, inginocchiandosi di fronte a lui per guardarlo negli occhi. Aveva lo stesso sguardo materno che avrebbe avuto con Feliciano.

“Ti porto qualcosa da mangiare, sei stanco”

“So provvedere a me stesso”

Lei sorrise e gli prese la mano. “Non è vero Gilbert. Sai solo difenderti. Sei sempre stato bravo con la spada, fin da bambino. Adesso lascia che sia io a prendermi cura di te”

Lui perseverò con ostinazione nel suo silenzio.

Eliza sospirò, sollevandosi da terra.

“Non c’è vergogna nel farsi aiutare, di tanto in tanto”

Prussia sorrise solo quando sentì chiudere la porta.

Di tanto in tanto.

Di tanto in tanto, lei c’era sempre stata.  

 

Feliciano era inquieto. Ci aveva pensato per giorni, prima che la guerra finisse. Adesso, i suoi dubbi riaffioravano con violenza e chiedevano risposta.

La carta nascosta sotto la camicia sembrava bruciare come una sottile lingua di fuoco e di perfidia.

Ma non c’era cattiveria nei suoi intenti.

Solo una gran confusione che non riusciva ad ordinare.

Ma Prussia… lui l’avrebbe chiarito.

Si avvicinò silenziosamente, stringendo la mappa tra le mani e mostrandola a Gilbert.

“Ebbene?”

“So cosa stai facendo. So cosa farai”

Prussia fece un sorriso sgangherato. “No, non me ne andrò se è quello che pensi”

“So che non te ne andrai” L’espressione del ragazzino era dura, enigmatica “Tu vuoi fare del male al padrone Austria”

Gilbert tacque, indeciso su cosa dire. Se rinnegare oppure confessare.

Si sedette sul muretto accanto al porticato, e invitò il bambino a fare lo stesso.

“Ho fatto un grave errore, Feliciano. Tanti anni fa”

Il bambino lo guardò con i suoi grandi occhi marroni sgranati “Intendi quando Sacro Romano Impero….”

“No. I miei errori non sono finiti quel terribile giorno”

Feliciano gli si sedette sulle ginocchia e gli sorrise. Il tedesco non lo spostò, anzi, lo strinse a sé. Sotto quell’ottica, Gilbert non sembrava una cattiva persona.

Qualcosa lo tormentava. Era quel dolore che si portava dietro, come una pesante catena.

“E’ successo meno di venti anni fa. Ho…rifiutato aiuto a qualcuno che ne aveva bisogno”

“Chi ne aveva bisogno?” chiese il bambino, inclinando la testa sulla spalla.

“Il mio fratellino”

Italia rifletté, confuso. “Ma vent’anni fa… Sacro Romano Impero era già caduto…”

Spalancò gli occhi e trattenne un urlo che Gilbert gli spezzò premendogli una mano sulla bocca.

“Ora sta zitto, e ti racconterò tutto”

 

Quella notte Feliciano continuò a rigirarsi incredulo nel letto, premendo il viso sul cuscino. Gli sembrava di sentire ancora quelle parole.

Devi aiutarmi.

Aiuta mio fratello.

Salva il mio piccolo Ludwig.

Il bambino si girò sulla schiena e mandò uno sguardo a Ungheria, che gli dava le spalle, i lunghi boccoli castani distesi morbidamente sul cuscino e il lenzuolo.

Guardò il soffitto.

In che guaio mi sono cacciato?

 

“Successe per un litigio stupido. Era l’inverno del 1847. Ero andato per trascorrere il Natale con il più piccolo dei miei fratelli, Ludwig. In famiglia non parlavamo molto, e la morte di Sacro Romano Impero ci aveva resi tutti più nervosi. Ludwig era il suo gemello, sai?

Non so se il mio errore fu presentarmi a Francoforte quel giorno, oppure non essere stato con lui abbastanza a lungo. Mi disse che voleva diventare una nazione. Voleva essere libero, indipendente dall’Austria. Voleva restare con me. E poi prendere il posto di Sacro Romano Impero. Esplosi. Forse non fu nemmeno colpa sua. A distanza di vent’anni penso che la sua richiesta fosse più che giustificabile… ma il modo in cui la porse mi fece infuriare. Gli dissi che lo avrei mai appoggiato, e che per me non avrebbe mai preso il posto di Sacro Romano Impero. 

Partii quel giorno stesso, prima della fine dell’anno. Il 27 Marzo scoppiò la rivoluzione a Francoforte. Mio fratello mi mandò una lettera. Non ce l’ho con me perché la bruciai. In quella lettera, da regno indipendente, mi offriva la corona di re di Germania”

“E tu che facesti?”

“La rifiutai. Vent’anni fa ero ancora contrario alle rivoluzioni… avevo un modo di vedere le cose… diverso. Mi rendo conto di aver sbagliato. Ma il mio errore non fu questo”

“Cosa accadde?”

“Andai a Francoforte. Mi dissero che mio fratello era fuggito. La sua fuga non durò a lungo. Lo raggiunsi a Stoccarda. Lì si arrese. Tornai a casa, a Berlino, e ripensai quello che avevo fatto. Ricordo che nel pieno della notte saltai a cavallo e tornai a Francoforte. Mio fratello era sparito. E da allora sono vent’anni che non lo vedo. Tutto ciò che so è che Austria sa dov’è. Lo sa di certo. Ma non mi ha mai detto dove”

 

Ti prego. Salva mio fratello.

Feliciano chiuse gli occhi, e cercò un pensiero tranquillizzante che gli conciliasse il sonno.

 

“Ti aiuterò. Sono pronto ad assisterti. Ma voglio che anche tu aiuti me”

“Cosa vuoi in cambio?”

Glielo sussurrò all’orecchio, anche se non era un segreto, né per lui né per nessun’altro.

“Ah, già. È comprensibile. So cosa vuol dire sentire la mancanza di un fratello”

 

Si addormentò, sognando il suono tranquillo della laguna sotto i ponti di Venezia.

 

In quei giorni tutta la reggia si vestì di una falsa quiete, di un silenzio spoglio di tranquillità e ansioso come un respiro estraneo.

Che ci fosse o no il padrone Austria non faceva molta differenza. Erano liberi in una casa non loro, eppure nessuno dei due poteva andare via.

Quel giorno Ungheria stava preparando la pasta sfoglia per preparare il rétes. Sul tavolo, tra la farina e il burro, la ragazza aveva lasciato un vassoio di mele, prugne e amarene, e un piattino di ricotta.

Feliciano allungò una mano a rubare una ciliegia, la più tonda e la più scura.

Guardando dalla finestra aperta appurò che anche l’estate era trascorsa velocemente, per lasciar spazio ad un lento autunno e un vento fresco e piacevole.

“Che stai disegnando di bello, Ita-chan?” chiese Eliza, pulendosi le mani sul grembiule.

Lui alzò il foglio. “Questi sono i ponti di Venezia. Sono belli, vero, Eliza? Sì?”

La ragazza gli sorrise con comprensione. Anche a lei mancava molto la sua casa. “Sì, sono molto belli. E tu sei molto bravo a disegnare”

“Dov’è andato Gilbert?”

La ragazza si sorprese che ormai lo chiamasse per nome così liberamente.

“E’ a Berlino, credo. La guerra è finita, Ita-chan”

Lui la guardò, stringendo gli occhi. Poi rise leggermente.

“Ah, che sciocco, l’avevo scordato”

 

Feliciano trascorreva il suo tempo disegnando, magari canticchiando.

Sembrava completamente esule da quell’ansia soffocante che avvolgeva il palazzo reale.

La sua vocetta risuonava tra i corridoi del palazzo.

Talvolta era lugubre.

Ma Feliciano cantava e passeggiava per i corridoi, fingendo che tutto gli interessasse, o che nulla gli piacesse particolarmente.

Era un ragazzino strano.

Ma nessuno, tranne lei, poteva avvertire la stranezza di quel sorriso incrinato.

 

“Cosa sono quelle scale, Eliza?”

Lei si voltò. Era le scale buie delle segrete. A volte ci passava vicino quando entrava nella porta di servizio alle spalle della reggia.

“Uhm, non lo so, Ita-chan”

“Sono le prigioni?”

Lei finse di ridere. “Prigioni qui, a palazzo, Ita-chan? Non è un po’ assurda come cosa?”

Il bambino si imbronciò.

“A Venezia c’erano dei palazzi con delle segrete”

“E anche se fosse, chi potrebbero rinchiuderci?” fece lei, scherzosa, posando in un angolo la scopa.

“Qualcosa che nessuno deve vedere!” disse Feliciano, con un ampio sorriso. Eliza si unì alla sua risata, allegramente.

“Sarebbe una storia molto avvincente, Feli. Adesso andiamo però. Ho lasciato l’impasto a crescere, se ci sbrighiamo prima di sera il rétes sarà pronto!”

Il bambino si fece parte del suo entusiasmo, saltellando e sorridendo.

Mentre uscivano rivolse un ultimo, timido sguardo alle scale, ma nessuno se ne accorse.  

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Capitolo 6
*** 1864 - Venti anni di buio ***


Nel sogno era primavera.

Nei sogni è sempre primavera.

Nel sogno c’era una collina verde, e il vento che spazzava l’erba folta e rigogliosa.

E nel sogno c’era lei, e c’era lui. Lei, vestita malamente come un maschio, i capelli tagliati corti e legati stretti sulla nuca, la corda dell’arco che le attraversava il petto.

E c’era lui, con i capelli bianchi disordinati, perché così erano più magnifici.

Biancovestito, come un principe, come un angelo. Una croce scura sul petto e una spada al fianco. Una spada vera, ma solo per giocare.

Nel sogno c’erano le corse sui prati, i loro giochi festosi, gli occhi pieni di sole.

“Ora subirai l’ira del cavaliere teutonico!” gridava e si lanciava su di lei, abbracciandola e rotolando nell’erba mentre si picchiavano affettuosamente.

Ma non c’era rivalità in quelle parole.

Nel sogno si amavano ancora. Ma si amavano come si amano i bambini, quando era tutto facile, tutto era un gioco.

Quando si risvegliò, si amavano come adulti, che si fanno la guerra, che si amano in modo complicato.

Elizabeta strinse gli occhi e allungò una mano, ad accarezzare il corpicino raggomitolato di Feliciano.

Le sue dita distratte ricaddero sul cuscino vuoto; spalancò gli occhi verso il soffitto.

 

La cera bianca colava rapida lungo la candela. La fiamma illuminava appena il percorso dei suoi passi lungo le scale di pietra, e Feliciano dovette mantenersi alla parete umida per non cadere sui bassi gradini.

Era così buio che non si vedeva la fine delle scale.

Pensò con malinconia ai suoi scarponcini che nella fretta non aveva potuto infilare sotto la camicia da notte bianca di pizzo.

La candela illuminava a stento i suoi piccoli piedi nudi sulla pietra.

Dopo alcuni minuti il pavimento gli parve piano, e stabile.

Sono finite?

Feliciano strinse gli occhi nel fitto buio: davanti a lui si apriva un lungo corridoio, e tante porte di legno, tutte chiuse.

Doveva essere parecchi metri sotto la reggia, non avrebbe potuto stabilire quanti.

Era umido, e faceva freddo. Un brivido insidioso si infilò su per la sua leggera camicia da notte mentre prendeva il primo passo, con cautela, verso quel corridoio senza fine.

Il cuore gli batteva così rumorosamente nel petto che temette che qualcuno lo sentisse.

Poi, un gemito sordo proveniente da una delle porte gli fece gelare il sangue nelle vene. Tuttavia, riuscì a trattenere l’istinto di urlare e correre via, e procedette con ancora più cautela.

Si avvicinò ad una delle porte di legno, e buttò uno sguardo oltre lo spioncino quadrato bloccato dalle sbarre di ferro. Era buio.

“C’è qualcuno?” sussurrò lui, spaventato.

Rispose un altro gemito, più silenzioso.

“Chi è?” Feliciano avvicinò la candela alle sbarre, sulla porta di legno mezza marcia. Il bambino dovette fare forza sulle gambe per restare in punta di piedi. La poca luce illuminò un corpicino sottile e una capigliatura che sotto il sangue e il sudiciume avrebbe dovuta essere bionda.

“Sei Austria?” chiese il ragazzino.

“No. Mi chiamo Feliciano”

“Hallo, Feliciano”

Aveva la dura pronuncia tedesca. Non poteva che essere lui.

“Sei tu Ludwig?”

“Ja, anche se non sembra. Devi portarmi al patibolo, Feliciano?”

“No”

“Perché sei qui?”  

Il bambino sospirò. Quella situazione era incredibile. Non avrebbe mai immaginato che, sotto i suoi piedi, mentre disegnava o si faceva pettinare i capelli da Eliza, un bambino era chiuso in cella.

Come quando da piccolo faceva cadere qualcosa e il padrone lo puniva.

Ma allora non era che per poche ore.

Questo ragazzino è chiuso in cella da venti anni.

Si chiese se fosse il caso di parlare di Prussia, di dirgli tutto quello che sapeva.

“Sono qui per salvarti”

Seguì un breve silenzio emozionato. “Hai le chiavi?”

Già. Le chiavi.

Feliciano non aveva idea di dove fossero. Fino a quel momento non era stato nemmeno sicuro che Ludwig fosse rinchiuso nelle segrete.

“No” rispose tristemente “Ma tornerò presto, Ludwig. È mia intenzione farti uscire di qui. Le troverò, stanne certo”

“Sei gentile”

“Ti ho portato una candela. Così non stai al buio. Quanti anni hai, Ludwig?”

“Quindici” rispose quello, laconico.

“Arrivi con la mano alle sbarre?”

“Credo di sì”

Feliciano lo sentì sollevarsi da terra e prendere pochi passi verso di lui. Attraverso le sbarre vide appena la sua testa, i capelli sporchi e disordinati.

Era più alto di lui.

Lasciò passare prima la candela, poi una scatola di fiammiferi.

“Fosfato bianco?”

“Clorato di potassio. Sono svedesi”*

“Sono stato troppo lontano dal mondo, in questi anni” la voce del principe sembrava molto malinconica “Tornerai a prendermi, Feliciano?”

“Prima che tu finisca tutta la candela”

“Al tuo ritorno, saresti così gentile da portarmi qualcosa da mangiare? È da un po’ che non viene nessuno a portarmi da mangiare. In che anno siamo?”

Feliciano sospirò. Tutto ciò era troppo crudele. Non avrebbe mai immaginato che Austria sarebbe stato capace di tutto quel che stava vedendo. “1864”

“Che stagione?”

“Siamo in autunno. Ieri pioveva piano”

Gut. Tra poco cadrà la neve a Francoforte”

Feliciano sorrise.

“Farò in modo che tu possa vederla”

 

Quando tornò in stanza, trovò Eliza fuori la porta in ansia. Si era accorta della sua assenza.

Sperò che si fosse svegliata da poco.

“Ita-chan! Dov’eri? Ero preoccupata per te” disse lei, prendendolo in braccio.

“Mi dispiace, Eliza. Mentre dormivo ho sentito un rumore e sono uscito a controllare. Era solo una finestra aperta”

La ragazza gli sorrise, accompagnandolo a letto. “Hai ragione, Feliciano. Ogni rumore in questa casa è sentore di guerra”

Lo abbracciò e entrambi ripresero a dormire, ognuno col proprio tormento sulla pelle.

 

Quello stesso pomeriggio Feliciano rubò dal cestino del pane una pagnotta e alcuni frutti, prese una candela e scese di nuovo le scale delle prigioni.

Era inquieto perché Ungheria sapeva che era in giardino a giocare.

Inoltre di giorno doveva fare più attenzione se non voleva essere scoperto. E magari finire in cella insieme a Ludwig, per altri venti anni.

Il solo pensiero lo terrorizzava.

Quando riconobbe la porta si avvicinò e bussò trepidante.

“Ja?”

“Sono Feliciano”

“Hallo”

“Ti ho portato da mangiare. Come te lo do?”

“Guarda sul fondo della porta, dovrebbe esserci uno sportello. Sposta il blocco di ferro e apri. È abbastanza grande per farci passare un piatto”

Feliciano fece come richiesto, pur faticando a spostare il blocco arrugginito e a muovere i cardini dello sportello di legno. Gli porse il fazzoletto col cibo che gli aveva preparato, e le sue mani avide afferrarono subito la pagnotta dolce.

Si sedette con le gambe incrociate sul pavimento di pietra, e lo guardò mangiare con foga; doveva essere molto affamato.

“Hai trovato le chiavi della cella?” disse il principe tedesco, addentando una mela.

“Non so dove cercarle. Forse c’è un altro modo per farti uscire”

“Un modo, sì, c’è”

“Dimmi come”

Il bambino deglutì, ingoiando un altro morso di mela. “L’umidità qui sotto a fatto marcire la porta. Se sai usare una sega non ci vorrà molto”

“Sono venti anni che sei rinchiuso qui sotto… non hai mai provato a fuggire?”

Feliciano poteva vedere solo una piccola parte del suo viso, ma avvertì ugualmente il suo cambiamento di espressione.

“Fuggire? E andare dove? A Francoforte? Non sono nemmeno una nazione. Sono solo un trofeo di guerra”

La sua voce esprimeva una cupa tristezza, tutto il dolore della rivoluzione e del fallimento. Aveva una voce simile a quella di suo fratello Lovino, quando gli raccontava i suoi tentativi di insurrezione.

“E a Berlino?”

“A Berlino non c’è nulla per me. Non è casa mia”

Feliciano sospirò. “E’ stato tuo fratello a mandarmi da te. È sinceramente pentito di quello che ha fatto. Sta combattendo con valore”

“Gilbert è così”

“Sta preparando l’Europa alla guerra”

Seguì un lungo silenzio.

“Non posso aspettare ancora a lungo. Stanotte porta due seghe, coltelli seghettati, quello che trovi. Voglio uscire di qui”

 

Quella notte Feliciano attese con ansia che Eliza si addormentasse, prima di tornare alle segrete. Aveva lasciato due seghetti, trovati nella stalla dove tenevano i cavalli, sulle scale, al buio, cosicché nessuno potesse vederli.

Scese frettolosamente le scale con la candela in una mano e i seghetti nell’altra.

Ci volle del tempo per aprire lo sportelletto e cominciare a tagliare verso l’alto, in modo da ingrandire il buco. Non ci volle molto, era davvero marcia come aveva detto Ludwig.

Tagliarono e spinsero i seghetti fino a ferirsi le mani, finché il buco non fu abbastanza largo per il bambino.

“Sei sicuro di passare?”

“Sono molto dimagrito” disse silenziosamente l’altro. Fece passare con molta cautela prima la testa, poi trascinò il resto del corpo. Rimase sdraiato alcuni secondi con gli occhi chiusi sulla pietra fredda, incredulo.

“Stai bene, Ludwig?”

“Sì… credo di sì. Hai portato quanto ti avevo chiesto?”

Feliciano annuì, incerto. Gli aveva chiesto una benda e dell’acqua.

“Sei ferito?”

“No” Gli prese la borraccia dalle mani e bagnò abbondantemente la benda. “Stringimela dietro la testa, in modo che copra gli occhi”

“Perché?” chiese l’italiano, tuttavia stringendo il nodo dietro la testa di Ludwig.

“Sono stato al buio troppo a lungo. Il contatto con la luce potrebbe accecarmi”

“Oh. Non ci avevo pensato. È ancora notte però. La notte è buia”

Bendato, Ludwig sembrava un fantasma. Piccolo e smagrito. “Non c’è nulla di più buio di quella cella, Feliciano”







Pensieri della persona che scrive ≈

Penso che questa sia la parte centrale della storia.

Come avevo avvisato dal primo capitolo, Sacro Romano Impero e Germania saranno due nazioni diverse per necessità della trama.

Ho fatto un riferimento stupido al periodo storico anche sui fiammiferi non-sto-bene. I fiammiferi a fosforo bianco erano tossici, ma continuarono ad essere venduti a lungo, anche dopo l'invenzione svedese dei fiammiferi di emergenza (1844) al clorato di potassio. I fiammiferi a fosforo bianco furono aboliti solo nel 1872 dalla Finlandia e in seguito anche dalle altre nazioni. 

(Abbiate-pietà-di-me-mi-piace-la-Storia) 

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Capitolo 7
*** 1864 - Lettere di uno sciagurato fratello ***


Era passata quasi una settimana. Un messaggero era arrivato alla reggia con una lettera per lui, quella mattina.

Ad Eliza aveva detto che era una lettera di suo fratello.

In realtà, era una lettera da Berlino.

 

Salì in fretta le scale, e arrivò in camera. Chiuse la porta a chiave alle sue spalle.

Non era la stanza dove dormivano lui e Ungheria.

Era una stanza vuota dove non andava mai nessuno.

Ludwig era nascosto sotto il letto, come sempre, per sicurezza e perché soffriva ancora per la luce.

Feliciano metteva sempre i tendaggi alle finestre, però Ludwig non portava più la benda sugli occhi, ormai.

Era bello, bello come un principe. In tutto simile a Sacro Romano Impero.

Il suo gemello… il gemello del bambino che aveva detto di amarmi…

Avevano gli stessi occhi azzurrissimi, la tonalità precisa del cielo del nord.

Conservava la sua regalità anche se vestito con semplicità, con la sua camicia, i calzoni scuri che gli andavano un po’ larghi e che manteneva con un paio di bretelle.

Era un principe, un principe senza corona.

“E’ arrivata una lettera da Berlino!” disse festosamente l’italiano, agitando la busta.

“Che cosa aspetti allora? Aprila!” lo incoraggiò Ludwig, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. Feliciano lo imitò e si sedette davanti a lui. Lesse rapidamente la lettera. Era un misto di un italiano zoppicante e un tedesco non troppo complicato per lui che aveva da sempre vissuto in Austria.

Prussia si esprimeva sempre in modo chiaro e conciso, senza perdersi in convenevoli, come un vero generale.

“Tieni, voglio che la legga tu. Questa parte è indirizzata a te, è scritta tutta in tedesco” gli disse Feliciano, consegnandogli la lettera. Il biondino la prese con mani tremanti e pensò che erano vent’anni che non aveva notizie del fratello maggiore.

Mente leggeva, Feliciano si accorse di come i suoi occhi si riempivano di commozione man mano che proseguiva la lettura.

Anche se aveva considerato l’idea di chiedergli cosa fosse scritto, si avvicinò e lo abbracciò. E fu molto meglio.

 

Qualche giorno dopo arrivò anche una lettera da Torino. Era di suo fratello.

Nella lettera, come in tutte le lettere che gli aveva spedito in quegli ultimi tre anni, Lovino si lamentava di come fosse grigia la capitale, di quanto poco sopportasse il nuovo re.

A quanto gli raccontava, il re d’Italia non era meglio del vecchio re delle due Sicilie.

“Quando arriverà questa lettera sarò già in viaggio. Parto questa stessa notte. Qui a Torino non c’è nulla per me. Torno a Napoli; forse lì c’è ancora qualcosa che io posso fare per vivere. Ho sentito dire che si sono formate molte bande di briganti. Alcuni di loro sono contadini impoveriti dalla guerra, altri sono rivoluzionari senza un sogno. Perdonami, tornerò a fare il ladro come un tempo, tornerò ad uccidere in vista di un profitto solo mio. Ma è questa l’Italia, fratello mio. E io quando mi unii a Garibaldi... credetti davvero che si potesse migliorare. Ma questo è il nostro paese, questo è il nostro popolo. Quello che vidi in Aspromonte non potrò mai dimenticarlo, né ora né fra cent’anni. Non potrò mai dimenticare i compagni morti per mano di altri italiani che avevamo chiamato fratelli. Ho lottato per l’unità, e adesso non vedo che soldati piemontesi ovunque, pronti col fucile in braccio per sparare.

Spero che tu perdoni questo tuo sciagurato fratello”

Feliciano chiuse gli occhi. Suo fratello non aveva che quindici anni. Eppure non era sempre stato così. Era cresciuto a Madrid, lontano dai suoi occhi. Aveva passato troppo tempo lì. Poi era diventato grande. No, forse solo meno bambino. Per certe persone non si diventa mai grandi.

Gli dava una strana malinconia il non poter esser stato partecipe della sua esaltazione prima e del suo dolore dopo.

Sospirò.

Da qualche parte, lontano, gli sembrava di sentire ancora il lento sciabolare delle onde nei canali della sua amata Venezia.

Decise di scrivergli.

Forse non fu una buona idea.

 

La seconda lettera arrivò qualche giorno dopo.

“Fratello mio, sarà l’aria fredda dalle tue parti a Vienna, ma cosa ti dice il cervello? Perché dovrei andare fino a Berlino per mettermi in un’altra guerra?

Voglio credere a quello che dici. Domani partirò per Torino, andrò dal re in persona se sarà necessario. Non so se ascolterà le parole di un ragazzino, per giunta brigante repubblicano. Avvisa il tuo amico tedesco di muovere il culo, lo aspetterò qui a Torino, ma non a lungo. Sai quanto odi l’aria piemontese.

Però ti ringrazio, perché in qualche modo sento di avere di nuovo un sogno, dopo tanto tempo. Il sogno di farti tornare in patria, di essere di nuovo due fratelli.

Anche a distanza, sappi che sarò sempre il tuo sciagurato fratello repubblicano”

 

Un giorno Ludwig spostò lievemente la tenda dalla finestra.

“La penombra mi mette tanta tristezza. È bello vedere di nuovo la luce”

C’era silenzio. Era un silenzio carico di sentimento e di malinconia, diverso da quando lui si addormentava in petto ad Eliza e stava in silenzio con lei.

Con Ludwig era diverso. Si stava in silenzio pensando ai fatti propri, eppure erano sempre in sincronia.

“Anche tu hai un fratello maggiore, Feliciano?”

“Sì. Dovrebbe avere più o meno la tua età”

“E’ molto che non lo vedi?” chiese il biondino, con educata apprensione.

“Molto. Tanti e tanti anni. Ci separarono quando eravamo piccoli. Lui andò in Spagna, fu dato in affidamento ad un certo Antonio Carriedo”

“Ricordo questo nome” fece Ludwig, sbattendo le palpebre “Deve essere stato nel 1820. O forse nel 21, chissà. Forse era uno dei rivoluzionari a Cadice”

Feliciano annuì lentamente. Quel giorno il padrone Austria si era molto arrabbiato.

“Tutto sommato, Lovino ha trascorso un’infanzia serena a Madrid, e io stesso non posso dire di essere stato tanto male qui a Vienna, anche se trattato da servo. C’è sempre stata Eliza a prendersi cura di me. E poi…”

“Cosa?”

Feliciano sorrise, guardando lontano. Sentì gli occhi umidi.

“Avevo un amico”

Il biondo non chiese nulla di più.

“Tu invece? Prima della rivoluzione… andavi d’accordo con tuo fratello?”

Ludwig abbassò lo sguardo. “Fin dalla nascita, il migliore è sempre stato il mio gemello, Sacro Romano Impero. Però non credere che non gli volessi bene. L’ho amato come me stesso, perché era me stesso. La nostra è una famiglia complicata… Gilbert ama spostarsi, combattere, stare nell’esercito. Fin da piccolo, sai, se ne stava da solo per l’est Europa, Poi Sacro Romano Impero mi lasciò. Venne qui a Vienna, e io rimasi solo, a Francoforte”

“Perché non sei venuto anche tu qui a corte?”

Ludwig sorrise aspramente “Sono fratello di un condottiero e gemello di un imperatore. Non sono nessuno. Volevo essere indipendente e diventare re del mio paese. Mi è stato impedito. Non solo non sono nessuno, sono anche un prigioniero”

Feliciano lo abbracciò d’istinto.

“Siamo stati tutti prigionieri. Per questo la guerra non può finire”

Ludwig lo guardò con i suoi grandi e ancor delicati occhi azzurri pieni di gratitudine.

“Per questo non smetteremo di combattere”

Si strinsero la mano.

La guerra non esiste quando c’è ancora amore.

 

Si vedeva a distanza di miglia che Lovino era meridionale. Povero e straccione come ormai di consuetudine. Gli occhi che vagavano ovunque e che eppure non guardavano nessuno. Si stringeva nel mantello scuro, troppo più grande di lui.

Sembrava più grande da quando aveva imparato ad andare a cavallo senza cadere.

Sotto il mantello portava il lungo fucile.

La prudenza non è mai troppa.

Lovino aveva i colori del sud, l’espressione di una società contadina disastrata.

Allo stesso modo, si vedeva a distanza di miglia che Gilbert era tedesco. Ricco e ben vestito, sprezzante come di costume, portatore di tradizioni militari antiche, che volevano ancora la spada medievale alla cintura.

Si chiese se fosse vera. Lovino non vedeva da molti anni un cavaliere vecchio stile.

Da quando era scoppiata la rivoluzione, aveva vissuto nella polvere. Quella da sparo.

La polvere non gli dispiaceva. Era sempre stato nella polvere.

Si guardarono, e pur non conoscendosi si riconobbero subito.

 

Lettera da Torino.

“Caro fratello, ho incontrato Gilbert a Torino. Hai degli strani amici, fratello mio. Però la sua politica di guerra mi affascina. L’Italia non è un paese di guerra, lo sai bene. In Italia il potere è nelle mani dei moderati, dei pacifisti, dei diplomatici. E… anche io stavo bene con quella realtà. La guerra mi spaventa, Feliciano. Mi spaventa perché non sono grande come cerco di far credere. Però stavolta ho qualcosa per cui combattere, stavolta ho qualcosa in cui credere.

Prussia ci ha dato un anno per organizzare le truppe, ha già parlato con Vittorio Emanuele. Io mi unirò ai volontari, come sempre. Il pericolo è grande ma la posta in gioco lo è di più. In caso di vittoria avremo un’Italia quasi unita, e avrò te al mio fianco. Potremmo andare a Venezia. Odio l’odore della laguna, ma sono quanto ami la tua città. Andremo a Venezia, e faremo baldoria a carnevale per le strade. Non aspetto che questo.

In caso di sconfitta, perdona il fratello che ti ha tanto voluto bene e che ti è sempre stato distante”

 

Ungheria gli venne incontro con un fascio di lettere tra le mani.

Feliciano spalancò gli occhi. Possibile che avesse dimenticato di nasconderle?

Lei aveva gli occhi arrossati di pianto, la voce secca.

“Le… le ho trovate nel tuo cassetto mentre facevo le pulizie”

Feliciano deglutì. “Le hai aperte?”

La ragazza annuì, e cadde in ginocchio davanti a lui. “Mi sembravi strano in questi giorni. Pensavo che ti stesse succedendo qualcosa… perché non me lo hai detto subito?!”

Feliciano si sentì prendere con vigore sulle spalle da quelle mani lavoratrici, ma gli fece ben più male l’espressione languida e sofferente della ragazza che lo aveva amato e cresciuto quando non c’era stato nessun altro per lui.

“Perché Ita-chan? Perché questo a me?”

Lui si sciolse dalla sua presa.

“Andrà tutto bene, Eliza. Abbi fiducia in me, e in Gilbert. Stiamo facendo tutto questo per l’Europa, per la libertà”

Ungheria si prese il viso tra le mani e pianse al pensiero di una nuova guerra.

“Ti prego, non dire niente al padrone”

Eliza non rispose.

“Ti prego. Voglio tornare a casa, Eliza. Voglio tornare da mio fratello”

Si abbracciarono piangendo.

“Anch’io voglio tornare a casa, Ita-chan”






Tanto per dire qualcosa: 

Lovino in una delle sue lettere fa riferimento alla sconfitta subita da Garibaldi in Aspromonte. L'obbiettivo dei garibaldini (di cui Lovino fa parte nella storia) era quello di conquistare Roma. Napoleone III minaccia che, se Roma fosse stata toccata dai garibaldini, avrebbe fatto guerra all'Italia. Vittorio Emanuele fece fermare i garibaldini in Aspromonte, in una dura battaglia in cui lo stesso Garibaldi rimase ferito. 

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Capitolo 8
*** 1866 - Lascia che curi le tue ferite ***


Lovino quando arrivò a Piacenza chiese che giorno fosse.

Era il 6 giugno, del 1866.

Pensò che con tutta probabilità era il più giovane dei soldati italiani.

Imbracciò il fucile con orgoglio. L’esercito italiano si era diviso in due parti a quanto aveva appreso in quei difficili mesi di preparazione. Il capitano del suo esercito, un certo Alfonso La Marmora , aveva deciso di mantenere il blocco alle fortezze del Quadrilatero. Sarebbero partiti da Piacenza e si sarebbero diretti verso Mantova.

Siamo settantamila. Sono fiducioso.

L’altra parte dell’esercito era stata affidata ad un certo Ernico Cialdini, con l’obbiettivo di avanzare verso il Veneto.

Poi era stata organizzata la Marina… la bellissima flotta italiana.

Gli austriaci non hanno speranza.

Lovino si spolverò la camicia rossa da ex garibaldino e fece passare la cinghia del fucile sulla spalla, in modo che gli attraversasse il petto.

Era un nuovo giorno. Un giorno in cui valeva la pena continuare a vivere.

 

Feliciano seguiva le sorti della sua patria da lontano, ricevendo numerose lettere da suo fratello. A volte anche Gilbert inviava delle missive, ma erano indirizzate a Ludwig e spesso ad Ungheria.

La ragazza aveva racimolato un consistente fascio di lettere, ma non le leggeva mai se non da sola. Le leggeva prima di andare a dormire e poi le nascondeva.

Era ansiosa e agitata, tuttavia cercava di mostrarsi aperta e comprensiva con i più piccoli Feliciano e Ludwig.

Avevano bisogno del suo sostegno, della sua sicurezza da adulta.

Ma in verità la guerra la agitava. La lontananza di Prussia la feriva. Era lì, ancora a Berlino, e lei non poteva smettere di sognarlo, di immaginare le colline dove giocavano da piccoli, l’albero sotto il quale si distendevano per dormire, per guardare il cielo, e immaginare il loro futuro.

Ma quando si è bambini il futuro non corre più lontano del domani e le loro giornate erano sempre uguali, sempre perfette.

A volte, quando era sola e preparava il the, piangeva.

Piangeva perché aveva paura che fosse troppo avventato. Da bambini toccava sempre a lei fasciargli le ginocchia sbucciate e le mani scorticate.

Lascia che curi le tue ferite, Gilbert. Lascia che io ti ami come allora.

 

Un’altra cosa che la agitava molto era la presenza di Ludwig. In quegli anni si era molto affezionata al biondo ragazzino, però aveva paura di quello che sarebbe successo se Austria lo avesse scoperto.

Cosa ne sarebbe stato di lei?

Cosa ne sarebbe stato di Feliciano?

A volte ci pensava. Poi chiudeva gli occhi e scuoteva la testa, per non pensare più.

Era sufficiente non pensarci di giorno. I suoi sogni –i suoi incubi- erano abitati solitamente da Gilbert.

Sospirò, e prese una sorsata di the.

In casa non c’era nessuno, per cui si erano barricati nella stanza dove avevano nascosto Ludwig. Lui e Feliciano stavano sdraiati sul pavimento, il più piccolo disegnava, il biondo invece leggeva “Il Visionario” di Schiller.

Lei invece se ne stava un po’ a bere il the, un po’ ad osservare il foglio bianco su cui il suo cuore tanto desiderava scrivere i tuoi pensieri a Gilbert.

Gli aveva scritto un blocco di lettere. Non gliele aveva mai inviate.

Feliciano si voltò verso di lei e si sedette ai suoi piedi per mostrarle il suo disegno: una riproduzione accurata di piazza San Marco.

“Cos’hai Ungheria?”

Lei sorrise, lieve “Sto bene, Ita-chan”

“Sembri triste! Vuoi che ti canti una canzone?”

Ludwig si voltò alzando gli occhi dal suo libro, incuriosito.

Inorgoglito da quegli sguardi ammirati e curiosi, Feliciano prese fiato e cominciò a cantare una canzone veneziana.

La biondina in gondoleta

L'altra sera g'ho menà:

Dal piacer la povereta,

La s'ha in bota indormenzà.

La dormiva su sto brazzo,

Mi ogni tanto la svegiava,

Ma la barca che ninava

La tornava a indormenzar…

Ungheria lo interruppe ridendo e battendo le mani.

“Oh, Ita-chan, il dialetto veneziano è così buffo!”

Ludwig aveva uno sguardo impassibile “Non ho capito quasi nulla a dire il vero”

Il piccolo italiano dai capelli rossi si sedette accanto a lui, sorridendo ampiamente.

“Sei mai stato a Venezia, Ludwig?”

Lui scosse la testa.

“Devi venirci. C’è la laguna, e ci sono i ponti… quando ero piccolo guidavo le gondole. Oh, se tornerò mai a Venezia mi piacerebbe tanto fare di nuovo il gondoliere! E tu verresti con me, Ludwig? E tu Eliza? Verrete tutti, vero? Ci divertiremo a Venezia! Ci andremo per il carnevale! Costruirò delle maschere ad entrambi!”

Ludwig e Eliza si scambiarono uno sguardo stanco e rassegnato, poco fiducioso. Poi lei sorrise di nuovo annuendo lievemente col capo.

“Sì Ita-chan. Staremo tutti insieme”

Feliciano ci credeva davvero. Feliciano non aveva mai smesso di sognare.

 

Lovino riaprì gli occhi, dopo tanto tempo.

Così tanto che credette di essere morto.

Mentre il torpore dello svenimento scemava, un cieco dolore pulsante lo inchiodò a terra anche quando provò ad alzarsi.

Voltò la testa per quanto gli bastava senza farsi male.

C’era un uomo, alto e grosso. Quello che notò di lui furono per prima cosa i baffi folti e la camicia rossa.

“Chi sei?” chiese il ragazzino con voce soffocata.

L’uomo si voltò verso di lui.

“Credevo fossi morto. Mi chiamo Saverio. Aspetta, ci penso io a te, ragazzino” si avvicinò e lo aiutò a poggiare la schiena contro il tronco di un albero. Lovino trattenne a stento un gemito di dolore.

“Forse è meglio che ti cambi la fasciatura”

L’uomo sciolse il bendaggio che gli costringeva la spalla. Il ragazzino spalancò gli occhi. Lo aveva medicato con… con.. il tricolore?!

“Perché lo stai facendo?! Non lo sai che la nostra bandiera è sacra?!”

“La tua vita è più importante di un fazzoletto, qualunque cosa esso rappresenti. Preferiresti morire dissanguato?”

Lovino non rispose. Aveva paura della morte. Molta.

“Come ti chiami?”

“Lovino”

“Quanti anni hai?”

“Quindici”

L’emorragia gli aveva procurato un gran giramento di capo, e una forte nausea.

“Da dove vieni Lovino?”

Il ragazzino sospirò. “Sono nato a Napoli, cresciuto a Madrid e sono tornato in Italia per la rivoluzione. Ho preso parte alla spedizione dei mille. E sono stato in Aspromonte”

“Dov’è la tua famiglia Lovino?”

“L’unico che si sia preso cura di me adesso sarà in Spagna, o chissà dove. E mio fratello… il mio fratellino è a Vienna…”

L’uomo strinse forte il bendaggio sulla sua spalla. Lovino accarezzò a malincuore il bel tricolore come una medaglia al valore.

“Dimmi la verità, Saverio, cos’è successo?”

“Siamo stati sconfitti. Molti sono scappati, i più sono morti, quelli che vedi qui intorno. Il sogno è finito, ragazzo mio”

Se Lovino fosse stato meno orgoglioso, avrebbe pianto. Aveva combattuto, aveva rischiato di morire, e avevano perso.

Dov’era suo fratello? Dove si trovava lui? Perché tanta vergogna gli cadeva addosso?

“Che giorno è, Saverio?”

“E’ il 26 giugno, Lovino. Ci troviamo a Custoza. Davvero non ricordi?”

“La testa mi fa troppo male. Cerca nella mia borsa, dovrebbero esserci carta, una penna e dell’inchiostro. Scrivi una lettera a mio fratello Feliciano. Te la detto io, però tu scrivi, io credo di non potere”

Saverio gli sorrise sotto i folti baffi e gli accarezzò i capelli neri.

“Stai tranquillo, ragazzo, vedrai che te la caverai”

Poi tutto divenne buio. Buio come quella notte in Aspromonte.

Così buio che continuava a non ricordare niente.

Nel buio, Lovino credette di piangere, e chiamò il nome di Antonio.

 

La lettera arrivò con alcuni giorni di ritardo.

Feliciano era sconvolto e preoccupato, e nulla poteva consolarlo.

“Mio caro fratello, ti porto notizia del mio fallimento. Questo è una sconfitta che brucia, perché il sogno italiano era così vicino, fratellino adorato. Prendi nota e ricordatelo bene quando il tuo padrone ti ordinerà di lavare per terra: il 24 giugno dell’anno 1866 l’esercito austriaco ha sbaragliato i tuoi fratelli italiani. E tra questi, ci anche sono io. Quasi vivo, quasi morto. Ti avevo promesso di non rischiare troppo, ma la foga era troppa, e credo di essersi esposto al fuoco nemico. Ho un proiettile austriaco nella spalla, fratello. Fa tanto male. E fa male pensare che tutto questo dolore è inutile, che non mi aiuterà a farti tornare a casa. Ho incontrato una persona, Saverio, è un ex garibaldino, repubblicano come me, e ora scrivano. Non ce la faccio a scrivere da solo. Si sta prendendo cura di me. Dice che mi salverò, se la ferita non si infetta. Non voglio morire senza vedere l’Italia unita. Ma forse non posso fare tutto io.

In caso accada il peggio, ti prego di inviare una lettera a Madrid da parte mia. Per ora non vorrei che Antonio si preoccupasse troppo per me.

Abbi fede nell’Italia, Feliciano. Persano è a capo della marina italiana. C’è ancora molto per cui sperare, fratello. Non abbandonarla mai, la speranza.

Il tuo amato fratello, Lovino”

 

Ungheria lo aveva fatto sedere sulle sue ginocchia; gli accarezzava i capelli rossi, lo cullava e gli sussurrava vecchie nenie ungheresi, ma nulla sembrava tranquillizzarlo.

“Hey, Feliciano, non piangere” sussurrò lei tra i suoi capelli sentendolo singhiozzare “Si tratta di tuo fratello, Lovino! Ti ricordi cosa ha fatto Lovino, no? Ha conquistato l’Italia, ha creato un regno! Un proiettile non lo fermerà di certo. E poi ha qualcuno a prendersi cura di lui, no? Vedrai che presto riceveremo sue notizie. Tu torna a sperare, non perdere mai la speranza, cosa ti ha detto?”

Feliciano tirò su con il naso, rassegnato, e annuì col capo pur poco convinto.

“Sento dei passi!” fece lei soffocando un grido. Ludwig rispose nascondendosi d’impulso sotto l’ampio letto. Appena in tempo, prima che qualcuno aprisse con foga la porta.

Eliza saltò in piedi, stringendo in braccio il ragazzino.

Era Austria, accompagnato da un corazziere austriaco.

“Austria-san…”

Lui le buttò ai piedi un fascio di lettere. Quando le riconobbe spalancò gli occhi.

“Lo sai cosa sono queste?”

“Austria… io…”

“Lo sai cosa è successo appena pochi giorni fa?! A Custoza. Siamo in guerra, Ungheria. E tu scambi informazioni con i nostri nemici? Lo sai che la Prussia non attende altro che un momento di debolezza per far crollare l’Impero?!”

La voce dell’austriaco era imperiosa e crudele, e Ungheria che era sempre stata tanto fedele e legata a lui avrebbe voluto piangere. Feliciano, terrorizzato, si nascose dietro di lei, tra le pieghe della sua gonna arancione che stavolta non avrebbe potuto proteggerlo. 

“Portala via!” comandò Austria con voce ferma, mentre il corazziere la afferrava per le braccia per trascinarla con sé. Feliciano dovette staccarsi dalla sua gonna, trattenendo a stento le lacrime e la paura. Cadde seduto, senza la forza di piangere.

Ungheria scalciava e di dimenava, ma era troppo provata dal capovolgimento di quegli eventi. Ebbe solo la forza di voltare indietro i suoi occhi verdi verso Feliciano, prima che la porta si richiudesse davanti a lei.

I minuti che seguirono furono troppo veloci.

Eliza fu trascinata a lungo, finché non ebbe più la forza di dimenarsi e riaprì gli occhi.

Riconobbe le scale buie delle segrete. Austria era lì, con una torcia in mano.

Vogliono… rinchiudermi?

Fu trascinata malamente lungo gli stretti e bassi gradini che le ferivano i piedi. Il corazziere la lasciò, solo perché potesse cadere con il viso sulla pietra. Poi fu risollevata da terra, troppo stanca per opporre resistenza.

Quando la portarono alla sua cella successe qualcosa.

“Ma questa cella… qui… perché la porta è distrutta?!”

Ungheria aveva gli occhi gonfi, ma pur non vedendo immaginava l’espressione furibonda del padrone. Il corazziere le lasciò il braccio su cui avrebbe potuto contare i segni delle sue dita e la ragazza cadde sulle ginocchia, esausta e in lacrime.

“Tu!” Austria si rivolgeva al soldato, quella volta “Tu non avresti dovuto occuparti di lui?”

“Ma signore, eravamo tutti occupati con la guerra!” si difese debolmente il soldato. Austria lo afferrò per la giubba blu e lo spinse indietro. Quindi tirò dal taschino un mazzo di chiavi e aprì la porta della cella: era vuota.

“E’ scappato! E’ scappato! Ma non può essere fuggito da solo” si voltò verso Ungheria e le tirò i lunghi boccoli castani per costringerla a guardarlo “Tu! Sei stata tu a farlo scappare?”

La ragazza non aveva nemmeno la forza di muovere la lingua. Austria le lasciò i capelli.

“Però nelle lettere Gilbert non faceva parola di tutto ciò. Che senso ha? E comunque, quel ragazzino era troppo indebolito per rompere una porta da solo…ma… perché non ci ho pensato prima?”

Ungheria inorridì al pensiero che il suo padrone avesse pensato a Feliciano.

Si aggrappò al suo mantello, gridando e piangendo.

“E’ stata colpa mia, sono stata io! Lascia stare Ita-chan, non ha fatto niente di male!”

Bastò uno strattone; tutto si scurò prima che Eliza sbattesse il viso sulla pietra.

Sentì un lieve torpore. Fu come morire.

Ma faceva troppo male per essere morta.

Avvertì qualcosa muoversi nelle ombre. Il gocciolare umido del sangue che le bagnava il viso. Sentiva il suo odore di ferro, amaro come la vita.

Poi cominciò a sognare.

Gilbert? Sei tu? Sei tornato da me?

Sì. Sono sempre stato con te. 

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Capitolo 9
*** 1866 - La fuga ***


La visione di Ungheria trascinata via dalle sue mani gli aveva bloccato ogni pensiero, anche la paura. Persino la facoltà di ragionare.

E aveva lasciato spazio a un devastante tremore, una crisi di pianto che tardava a mostrarsi palese ai suoi occhi.

Ludwig attese che i passi si allontanarono, poi scattò da sotto il letto e afferrò la mano di Feliciano.

“Dobbiamo andarcene!”

“…Hanno preso Ungheria. Cosa le faranno?”

“Feliciano!” il ragazzino lo afferrò per le spalle e lo agitò con forza, disperato “Non ci vorrà molto prima che capiscano che anche tu sei coinvolto. Dobbiamo fuggire!”

L’altro si liberò dalla sua stretta, piangendo “Ormai non ha più senso! Mio fratello sta per morire, Ungheria è stata portata via!” cadde in ginocchio “Prussia è lontano… io… io non sono abbastanza forte! Non lo sono mai stato! Tutto quello che volevo era tornare a casa mia, da mio fratello, dalla mia Venezia!”

Ludwig non ebbe il tempo di lasciarsi commuovere da quelle lacrime infantili. Gli alzò il viso e lo schiaffeggiò. Non con violenza, ma fu un colpo ben assestato.

Anche lui aveva paura. Aveva paura perché conosceva il buio, conosceva le urla. La paura. L’aveva assaporata a fondo in quei venti anni di agonia, abbandonato e dimenticato in una cella umida e scura.  

“Feliciano, tu hai visto coi tuoi occhi quello che mi hanno fatto. Se restiamo qui e non fuggiamo, tu finirai in una cella come la mia e io al patibolo, più probabilmente. Ne vale la pena? C’è ancora da sperare. Mio fratello non è ancora sceso in battaglia. Io so che lui ci salverà. Lo so, Feliciano! Adesso però ti devi fidare di me, dobbiamo scappare dalla reggia! Dobbiamo andare via prima che ne accorgano! Ungheria è adulta, se la caverà! Mio fratello è troppo legato a lei per abbandonarla. Ma adesso dobbiamo andarcene!”

Feliciano tirò su con il naso e annuì, improvvisando un sorriso. Prese in fretta la mano del biondino e scesero rapidamente le scale cercando di fare meno rumore possibile.

Il bambino si impegnò a non prestare attenzione alle urla di Eliza: aveva ragione Ludwig, ora doveva correre, correre il più velocemente possibile.

Uscirono dalla porta e raggiunsero il giardino. Il cuore gli batteva così forte che non poteva nemmeno riflettere e gli ci volle un po’ per orientarsi. Poi, riconosciuta la strada, riprese a correre, trascinandosi dietro l’amico.

Non aveva mai corso così.

Si chiese se la guerra fosse davvero quella.

Stranamente, in quel trambusto di sensazioni, un pensiero, forse l’unico, volò a Sacro Romano Impero.

Quanta tristezza hai dovuto affrontare, amico mio? Quanto valgono adesso le tue fughe, il tuo imbarazzo?

Dov’è l’amore?

Feliciano pianse più forte, perché tanto Ludwig era dietro di lui e non poteva vederlo.

O forse perché era solo un bambino, e non c’è vergogna a piangere.  

Qualcuno ha creato il mondo, bello come niente. Ci ha regalato il cielo, le stelle, il sole, il mare, la musica. Abbiamo inventato l’amore.

Eppure ci facciamo la guerra.

 

 

 

Corsero per dei minuti lunghissimi, interminabili istanti in cui Feliciano temette davvero di aver sbagliato strada, di aver smarrito la via. Ludwig tremava insieme a lui, tentando di restare calmo.

Poi Feliciano fece un grande sorriso e corse verso la siepe che delimitava il giardino. Spostò una pietra e mostrò all’amico accanto a lui un buco buio e profondo.

“E’ abbastanza grande per passarci. Mi ci è voluto un po’ per scavarlo. Ti porterà dall’altra parte, abbi fiducia in me”

Ludwig sorrise e si calò nel buco. Riaffiorò dopo qualche minuto.

“Non vieni?”

“No” rispose fermamente Feliciano.

“Feliciano…”

“Devo tornare da Ungheria” il veneziano si inginocchiò nella terra davanti a lui “Ascoltami bene, appena sei dall’altra parte segui la via dritta, ma cammina sempre nascosto e non farti vedere. Se vedi un carro, chiedi di farti trasportare fino a Berlino. Appena trovi tuo fratello ti prego, non farlo venire qui a Vienna. Deve combattere la guerra. Deve farlo per la Germania, per Sacro Romano Impero e per il mio paese. Non importa cosa succederà a me. Tu fai in modo che si vinca la guerra, va bene?”

Ludwig strinse le labbra, gli occhi celesti persi in quelli marroni di Feliciano. Infine gli sorrise e gli strinse la mano; aveva uno sguardo deciso, determinato.

Sembri Sacro Romano Impero. Ma stavolta combatterò per proteggere quello che amo.

Appena si lasciarono la mano, Feliciano si voltò e corse di nuovo verso la reggia.

Dentro gli sembrava ancora di sentire le urla di Austria.

Poi i suoi passi.

Feliciano si chiuse in un armadio, e trattenne il fiato. Poteva avvertire la sua presenza e la voce del corazziere dell’esercito al di là dell’anta.

Un uomo con una divisa come quella aveva quasi ucciso suo fratello.

Attese molti minuti, e quando la casa tornò muta, attese ancora.

Si augurò che Ludwig stesse bene, magari in salvo clandestinamente su un carretto. Ma vivo, e soprattutto diretto a Berlino.

Aprì con cautela la porta dell’armadio e buttò un occhio fuori: era solo. Uscì. Gli mancava anche il coraggio di fare rumore. Quando ebbe la forza di muoversi di nuovo, corse verso le scale delle segrete e scese correndo i bassi gradini di pietra. Anche se era pieno giorno, lì sotto era sempre buio, e cadde per essere stato così distratto e ostinato dal voler correre senza reggersi alla parete e nel buio, senza nemmeno una candela.

Ebbe solo il tempo di pararsi il viso con le braccia quando cadde. Ormai gli facevano male le gambe e le ginocchia, ma non sembrava sentire più il dolore.

Qualcuno aveva lasciato una lampada ad olio accesa.

La luce sottile illuminò la figura sdraiata di Eliza.

Cosa ti hanno fatto amica mia?

Feliciano provò a rialzarsi ma fu inutile. La gamba gli faceva troppo male.

Strisciò dolorosamente verso di lei, fino a sfiorarle i lunghi boccoli castani con le mani.

“Eliza? Eliza ti prego, rispondimi”

Eliza aveva gli occhi stretti, chiusi, e una macchia di sangue sulla tempia.

Ebbe paura. Paura perché non sapeva cosa fare, né come aiutarla.

Come posso salvarti se sei sempre stata tu a prenderti cura di me?

Le fece appoggiare la testa sulle sue ginocchia, come faceva lei quando stavano fuori in giardino. Allora lui le leggeva delle poesie italiane, perché a Eliza piacevano molto le poesie di Leopardi.

Le piacevano così tanto che Feliciano aveva deciso di regalarle il libro che gli aveva spedito suo fratello.

“Eliza? Ti prego, svegliati. Non so che fare senza di te…”

La ragazza schiuse debolmente gli occhi. Quando vide il viso dell’italiano sembrò delusa, come se avesse immaginato un altro bambino al posto suo.

Feliciano era troppo felice per avvertire quell’espressione.

Lei chiuse gli occhi e gli strinse le mani.

Il sogno era più bello.

Nel sogno si poteva solo giocare a fare la guerra.     

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Capitolo 10
*** 1866 - Ci vediamo a Sadowa ***


Lovino era solo.

Di nuovo.

Aveva rubato un cavallo ed era corso il più velocemente possibile ad Ancona.

Saverio gli aveva detto che era una pazzia, ma Lovino era pazzo. Pazzo e italiano. Inebriato del desiderio cancerogeno dell’unità, ormai il suo male più grave.

Un’infezione incurabile, che bruciava più del proiettile nella spalla.

La ferita  pulsava ancora dolorosamente, ogni giorno con più fermezza. Ma lui non aveva tempo per soffrire, non aveva tempo per morire.

Quando aveva sentito che la marina italiana si sarebbe radunata ad Ancona si era fiondato su un cavallo ed era partito al galoppo.

Ricordava ancora la parole che Saverio gli aveva gridato.

Sei un ragazzino! Non morire per l’astratto! La vita è lunga! Pensa a tuo fratello!

Lovino scosse la testa e piantò la punta del fucile in terra. Pianse.

Pianse perché si sentiva debole.

La ferita bruciava più di quel senso di inadeguatezza che provava.

Era arrivato ad Ancona poche ore prima: sceso a terra si era sentito morire. Aveva parlato con alcuni soldati della marina.

Lo avrebbero accettato, se non fosse stato per la spalla ferita. E la giovane età.

Lovino strinse il manico del fucile e si inginocchiò a terra, piangendo con violenza.

Guarderai da qua la maestosità della marina italiana, ragazzino.

Ma lui non voleva guardare. In quegli anni non era mai stato spettatore. Raccolse il fucile e si asciugò le lacrime infantili, e si diresse al molo. Con una manciata di sassi nelle tasche, per lanciarli in mare, e aspettare che qualcosa più in là del suo sguardo cambiasse.

Intanto, sono di nuovo solo.

 

Al suo risveglio, Feliciano si sorprese di come, pur avendo gli occhi aperti, tutto intorno a lui sembrava buio. Di un buio che non si dissolveva sbattendo violentemente le palpebre. Un buio dentro, appena sugli occhi, e che non andava via.

La consapevolezza arrivò in fretta, senza sconvolgerlo troppo, come se in fondo lo avesse saputo dall’inizio.

Così, questa è la prigione.

Notò con sollievo che il padrone non era stato tanto crudele da separarlo da Eliza, ancora svenuta al suo fianco.

“Eliza? Sei sveglia?”

La ragazza si mosse leggermente e si spostò sulla schiena. Mugolò di dolore, mantenendosi la testa con una mano. “Ita-chan? Cosa è successo?”

Il ragazzino scosse il capo e la aiutò a sedersi contro la parete di pietra. “Siamo in prigione, Eliza. Adesso non possiamo che aspettare”

Aspettare cosa?

La ragazza piegò le ginocchia sotto la gonna e nascose il viso tra i lunghi capelli castani.

Feliciano la sentì singhiozzare, ma l’umidità nella cella assorbiva ogni cosa.

La prigionia annullava tutto.

La luce, il tempo, il dolore. Persino la speranza.

Eppure Feliciano si accasciò alla porta di legno mezza marcia, e ci poggiò sopra la fronte. Non pianse.

Non ebbe vergogna di sperare ancora.

Chiuse gli occhi. Sognò Venezia, pur senza dormire.

Sognò la nebbia di mattina, quando apriva la finestra e guardava la laguna e le barche. Sognò suo fratello che impastava la pizza.

Sognò di tornare. Finalmente a casa propria.

 

Prussia lo riconobbe in un momento.

E Ludwig quasi non gli credette quando lo vide in ginocchio davanti a sé, con quegli occhi rossi persi, di una tristezza quasi rabbiosa. Gilbert lo abbracciò piangendo, e pianse anche lui. Un po’.

“Venti anni, fratello mio. Venti anni e ora ti posso riabbracciare”

Ludwig sorrise, perché suo fratello aveva il familiare odore della birra fresca e della guerra.

Pensò che forse qualcosa in quei venti anni di lontananza non era cambiato.  

“Perdonami, fratellino. Perdonami” gemette il più grande, stringendolo convulsamente a sé come aveva sognato spesso in quei venti anni.

Ludwig gli accarezzò i capelli color cenere. Non aveva nulla da perdonargli.

Aveva perdonato già tutto in quei venti anni di solitudine.

Gilbert si asciugò gli occhi prima che qualcuno potesse vederlo, poi lo aiutò ad alzarsi e lo portò in casa.

Il biondino gli raccontò il suo viaggio. Di come si era salvato grazie ad un brav’uomo che lo aveva caricato sul suo carro e lo aveva portato fino a Berlino. Di come si era nascosto nella paglia quando aveva sentito avvicinarsi il cavallo di Austria.

Il suo povero cuore così ansioso. Il suo pensiero che era rimasto fisso su Feliciano, e non aveva più pensato ad altro.

Gilbert gli chiedeva con pari ansia cosa ne fosse stato di Ungheria e gli si dipinse in viso un’espressione rabbiosa quando sentì il suo racconto.

“L’hanno portata via?”

“Sì”

“Pagheranno. Vado a Vienna!” disse il condottiero, furibondo, già avviandosi verso le porte del suo palazzo. Ludwig lo afferrò per il mantello, una fermezza difficile da esprimere con i suoi quindici anni.

“No. Devi finire la guerra. E’ così che la salverai!”

Gilbert sgranò i grandi occhi rossi, consapevole pur rifuggendo quell’idea.

“Ma… Eliza… cosa ne sarà di lei? Io e lei siamo amici da quando eravamo bambini…” lui guardò lontano, i suoi occhi cupi e malinconici si posarono su una Berlino spenta e vuota.

Ogni posto è vuoto, senza di te.

“La guerra è più importante, Gilbert. Finiamo questa guerra in fretta”

Il condottiero lo guardò e si appoggiò alla parete, fingendo naturalezza.

Poi ordinò ad un inserviente che fosse preparato l’esercito.

“Ti aspetto, Austria. Ci vediamo a Sadowa”

 

Si incontrarono, sì.

Fu diversa dalle altre battaglie a cui Gilbert aveva partecipato.

Perché c’era suo fratello con lui, perché stava combattendo per qualcosa di giusto.

Fu una vittoria così eclatante che l’albino, quando calò il silenzio sul campo di battaglia, gettò un urlo liberatorio.

Lo portarono via febbricitante, mentre ordinava che gli venisse portata carta e inchiostro, che doveva scrivere alla sua amata, anche se non aveva mai chiamato così Eliza.

Era il 3 luglio e Austria tornava a casa sconfitto.

 

Era il 20 luglio e Lovino stava ancora sul molo. L’isola di Lissa era lontana e quasi non la riusciva a vedere quando il sole era alto gli andava negli occhi.

Aveva fatto bene quel giorno a lasciare il molo e andarsene in giro per Ancona, aspettando che accadesse qualcosa.

Poi aveva sentito la gente mormorare.

L’Italia è stata sconfitta.

Perché Persano ha fatto ritirare la flotta?

Lovino ormai non si sorprendeva più, non piangeva più per l’Italia.

Perché sentiva ancora le parole di Saverio che gli rimbombavano nella testa.

L’Italia non esiste.

Però lui esisteva. E che esistenza era la sua! Da solo. Ovunque andasse, la solitudine era la sua unica compagnia.

La solitudine, i sogni infranti, i soldi che non aveva per comprarsi un po’ di vino.

Sono stufo di fare il brigante.

Sono stufo di essere il ragazzino meridionale che nessuno conosce.

Chiuse gli occhi, e si chiese perché con lui non ci fosse Antonio in quel momento. 

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Capitolo 11
*** 1866 - Torniamo a casa ***


Quella mattina Eliza gli aveva pettinato i capelli e gli aveva dato dei vestiti puliti, i più belli che avesse trovato della sua misura.

Adesso era seduta in poltrona a scucirgli da una giubba blu l’aquila austriaca.

La sua espressione serena non era affatto indice di tutto quello che avevano sofferto.

La loro prigionia non era durata che pochi giorni, forse una settimana.

Di quell’esperienza non era rimasta che una cicatrice sulla tempia di Elizabeta e una stretta fasciatura intorno al ginocchio di Feliciano.

Era allegro e ansioso.

“Andiamo a fare una gita?”

“Forse. Ti piacerà Praga”

“Sono così felice Eliza!” disse il bambino, mentre lei gli sistemava la giubba addosso. Lui fece una piroetta per mostrarsi per bene. “Sembro un principe”

“Ti scambieranno per il figlio di Vittorio Emanuele a Praga”

“Sarebbe divertente” disse, ma non lo pensava davvero.

 

A Praga, Feliciano non poté trattenere la sua euforica agitazione di ragazzino.

“Guarda, Ita-chan, stanno cominciando la cerimonia”

Anche se erano nazioni minori, avevano avuto la possibilità di vedere, anche se da lontano, anche se Eliza era distratta, persa nei suoi pensieri.

“E’ proprio lui, vero?”

Gilbert era là, con un sorriso orgoglio in volto. Eliza riuscì a vedere nella calca anche la mano austriaca che firmava il trattato. Tremava, un po’ sconfitta, un po’ impaziente di far finire tutto.

Ed era tutto merito di Prussia. Gilbert, il bambino con cui aveva trascorso l’infanzia. Ora aveva fondato un regno.

Le aveva scritto molto da quando era finita la guerra.

Anche prima.

Forse avrebbe continuato a farlo. E lei non avrebbe smesso di aspettare sue notizie.

Già si immaginava, ancora a casa di Austria-san, con le sue missive tra le mani, indecisa tra l’aprirle o gettarle nel camino.

Sorrise e sentì le lacrime pungerle gli occhi mentre Feliciano le tirava il vestito e lo indicava con dito festosamente.

Era tutto finito.

Era finalmente tutto finito.

A termine di cerimonia, Gilbert si avvicinò a loro. Avrebbe voluto abbracciarlo per fargli coraggio, ma si limitò a fargli un sorriso e si appiattì alla parete, senza avere nulla da dire. Eppure aveva pensato tutta la notte ad un bel discorso decisivo e distaccato da farli.

Invece era troppo emozionata di essere lì, di rivederlo.  

“Hallo Feliciano. C’è una persona che vorrebbe conoscerti”

“Chi?”

Gilbert indicò un giovane uomo dai capelli biondi e due grandi occhi azzurri.

“E’ un ambasciatore, viene da Parigi”

“Oh, Parigi deve essere bella” disse il bambino con sguardo sognante.

“Venezia lo è ancora di più”

Feliciano sgranò gli occhi, incredulo, e rivolse lo sguardo a Prussia che invece gli sorrise accarezzandogli i capelli rossi.

“Sì, Feliciano, adesso torni a casa”

 

Non attese un momento. Si mise in carrozza con Francia, tutto euforico. Aveva a stento salutato Ludwig e di era tuffato in braccio a quello sconosciuto dalle rosee promesse che aveva subito chiamato fratello.

La cosa la inteneriva.

Feliciano allungò la mano dal finestrino per prendere quella di Ungheria.

“Mi raccomando, Eliza, vienimi a trovare a Venezia. Sarà bellissimo quando verrai anche tu da me! Me lo prometti?”

Lei sorrise annuendo e lo salutò un’ultima volta prima di rendersi conto di non averlo salutato abbastanza, quando la carrozza si allontanò. Quella partenza la lasciò vuota e impreparata, e si trattenne dal piangere, pur essendo felice della sua libertà.

Chiuse gli occhi, come la bambina che lascia volare via la sua piccola farfalla.

In fondo, non era sua madre. Non aveva alcun diritto su di lui.

Per me non c’è nulla a Venezia. Il mio posto è ancora qui. Io non sono libera.

A cerimonia conclusa, pareva che a Praga tutto fosse tornato com’era. Ungheria si voltò verso la carrozza preparata per Austria, pronta per tornare a Vienna.

Il suo padrone salì per primo e lo sportello prima che lei potesse anche avvicinarsi.

“Ma padrone… che vuol dire?”

“Ah, non lo sai? Sei indipendente ora. Col trattato ho…” indugiò per un istante “…deciso di dare l’indipendenza anche a te. L’Ungheria adesso sarà un regno governato dallo stesso imperatore, ma adesso avete diritti ad un’amministrazione propria. Sono stufo delle rivoluzioni. Addio, Eliza. Buon ritorno a Budapest” disse il suo padrone, come se la cosa non sconvolgesse né lui né l’altra.

Quando la carrozza partì Eliza ancora non poteva crederci. Con due carrozze la sua vita era definitivamente cambiata. Dovette premersi una mano sulle labbra per impedirsi di urlare per la gioia. Saltò ripetutamente sull’erba, incredula, e si avvicinò ad un alto cavallo. 

Si sorprese perché ricordava ancora come montare a cavallo, nonostante la lunga gonna, nonostante il tempo trascorso.

Accarezzò il collo dell’animale e lo spronò gentilmente ad allontanarsi. Trattenne le lacrime di gioia che le bagnavano già le ciglia, e sorrise. Un sorriso vero, a denti scoperti, un sorriso di cuore, indirizzato solo a sé stessa.

Fuori dal palazzo di Praga dove si era tenuto il congresso, un altro cavaliere aspettava.

Era lui. Era lui che non aveva mai smesso si aspettarla. Era lui che le aveva reso la libertà.

Prussia spronò il cavallo bianco e le si avvicinò tanto quanto bastava per metterle un fiore tra i capelli. Si sorrisero.

“Da qui a Budapest è lunga la strada. Ti scorto io?”

Era lui. E nulla gli avrebbe più impedito di odiarsi come si odiano i bambini, quando si tirano i capelli e giocano alla guerra.

“Sarebbe un onore, generale

 Lui rise stringendo le redini di pelle e la guardò. “No. Tu puoi ancora chiamarmi Gilbert. O ‘Magnifico’ al limite”

“Sì, Gilbert” lo spense lei, sospirando esausta. Le tese la mano.

“Eliza” sorrise “Andiamo a casa”

E presero la via più lunga.

 

Forse c’era nel mondo, un posto dove non valeva la pena continuare a mentirsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alzate i vostri bicchieri di birra, piccoli bastardi!

Sì, è finita anche questa long. Probabilmente non per sempre. Negli ultimi giorni avevo sfiorato l’idea di continuarla, giusto perché mi ero appassionata a questa storia.

Ma è stata un’idea passeggiera, per ora non saprei nemmeno come svilupparla.

Per ora.

Intanto, vi passo le precisazioni di ordine storico.

Col trattato di Praga nel 30 agosto del 1866 l’Austria riconosce la Confederazione degli stati tedeschi del Nord, quindi non si può ancora parlare di Germania vera e propria (e non se ne potrà parlare per un bel po’ di tempo);

L’Ungheria storicamente non ha preso parte agli avvenimenti che vanno dal 61 al 66, cioè quelli raccontati. Al tempo, c’erano ancora le rivoluzioni di Kossuth (spero si scriva così) per l’indipendenza;

L’indipendenza verrà raggiunta non tanto dalle spinte rivoluzionarie, ma dalla politica di Francesco Giuseppe II, che deciderà di dividere il suo vasto regno e dare delle concessioni alle varie etnie del regno da adesso austro-ungarico. Tutto ciò nel 1867, la mia forzatura temporale è dettata dal fatto che questa storia voleva un finale PruHun;

L’Italia tecnicamente ha perso la guerra, è stata sconfitta clamorosamente due volte, ma la vittoria tedesca è stata così schiacciante da far finire la guerra. L’Austria per orgoglio ha ceduto il Veneto prima alla Francia e poi la Francia lo cederà all’Italia.

In sintesi, anche se perdiamo vergognosamente, troviamo sempre un modo per salire sul carro dei vincitori.

Sono felice che a qualcuno sia piaciuta questa storia senza particolari pretese e ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito e mi hanno commentata.

Grazie di cuore!

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