Who knew?

di Vampiresroads
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Who knew? ***
Capitolo 2: *** Understanding What We've Grown To Be. ***



Capitolo 1
*** Who knew? ***


WHO KNEW?

Oliver aprì la porta lentamente, erano quasi ventiquattrore che nessuno entrava nella mia stanza e non c’era verso ch’io la abbandonassi o che avessi contatti anche solo virtuali con qualche essere umano.
Ero tranquillo e stavo meglio, ma suppongo che le mie ridotte provviste di acqua e cibo scarseggiassero, non che me ne curassi, ma il mio fisico stava per crollare e da lì a poco sarei dovuto uscire.
La visita di Oliver cadeva a pennello, era l’unica persona che avrei avuto la faccia di affrontare in quel momento; probabilmente perché sapevo che non mi avrebbe giudicato: questo mi piaceva di Oliver.
Lui giudicava solo chi non conosceva e lo faceva tra sé e sé, probabilmente perché non voleva affrontare l’idea di valutare qualcuno a cui voleva bene per la sua facciata scura, anche se per tutti gli altri sembrava mortalmente semplice.
Non volevo mostrarmi felice e tantomeno compiaciuto della sua visita, così mi limitai a girarmi di spalle per poi affogare nel morbido e avvolgente calore delle verdi coperte che sembravano dirmi ‘avanti Charlie, avanti, ricolora un minimo quella pelle pietrificata e fai la brava persona’, ma in quel momento la scena era patetica.

Mi sembrava di ritornare a un decennio prima, quando mamma si impegnava ancora a cucinare i peggiori intrugli di verdure per convincermi a mangiarle e io continuavo a scappare in camera e chiudermi dentro, con papà che veniva a trovarmi silenziosamente e dirmi tutto ciò di buono che avevano quei salutarissimi ciuffi verdi dal sapore umido.
Così restavo lì, girato di spalle, aspettando la predica che mi convincesse: non a mangiare verdure, ma a uscire da quella stanzetta appiccicosa e asfissiante.
-Charlie, posso entrare?- La porta nera, che ormai tendeva al grigio tanto era consumata, gracchiava fastidiosamente e la mia convinzione nel riuscire a rimanere immobile fallì prima che Oliver entrasse.
Il rumore costrinse un movimento del collo che mi spinse ad avvicinare l’orecchio verso la spalla, rappresentandomi emotivamente scomponibile dal primo momento.
Ritornai immediatamente in posizione, stavolta convinto di poterci rimanere, e rimasi in silenzio, allenandomi sull’espressione da mantenere prima che lui si presentasse davanti a me e iniziasse a parlarmi.
Pregai intensamente che se ne restasse sull’uscio; nonostante fosse il soggetto che m’inquietava di meno, un viso umano non era benvenuto ai miei occhi.
-Charlie, mamma ha fatto la torta, è tanto buona. Che succede devi metterlo via per un po’, per la torta di mamma si fa!- Ancora confondeva qualche struttura, ma ero così fiero del mio piccolo campione.
In quel momento mi resi conto che l’innocente e inconsapevole Oliver, sgattaiolando con i piedini sbadati e cercando di evitare gli ostacoli per non cadere e di conseguenza portarmi la torta sana e salva, era effettivamente la persona più insostenibile da affrontare in quel momento.
‘Avanti Charlie,’ pensavo, ‘puoi parlarci con lui, tranquillo.’
-Dai fratellino, siediti sul letto.- cedetti definitivamente.
Non posso tenergli il muso, non ce la farò mai.
Mi ero finalmente tolto dalla testa il pensiero del perché ero chiuso lì dentro annebbiando il tutto con l’impegno di non lasciarmi muovere dalla sua dolcezza, ma un improvviso stormo di intrecciati: ‘perché non esci?’, ‘perché sei così giù?’, ‘perché non parli più con nessuno?’, ‘perché ti rifiuti di vedere chiunque?’, ‘che succede?’ mi obbligarono a pensare a una risposta credibile da dargli.
Aveva otto anni, ma era una forza della natura. Lo era solo per me in realtà, perché gli altri lo sottovalutavano in maniera smisurata, ma io sapevo che avrebbe definitivamente fatto il culo a tutti, nessuno escluso.
Lo prendevano di mira perché era sempre così educato, cosa che io non sono mai stato, così paziente, riflessivo, timido e minuto.
Per tutti  i suoi compagni era un… era solo un…
No, per i suoi compagni non era: non esisteva, né tantomeno per le maestre o per i parenti.
Non esisteva per nessuno, perché non era esibizionista, prepotente o egocentrico, lui era felice con tanto poco e con altrettanto poco mi faceva sentir bene.
La curiosità di vederlo crescere mi mangiava, era già così nascostamente maturo che se gli avessi spiegato il vero motivo del mio comportamento probabilmente l’avrebbe capito meglio dei miei amichetti coglioni che mi domando ancora come faccio a chiamare amici.
Non che sia un tipo eccessivamente critico con le persone, infatti quelle carogne non erano umane né comprensive. E poi Oliver era così splendente per come riuscivo a vederlo io, che il resto della gente non riuscivo nemmeno a considerarla confrontabile.
Sta di fatto che, poco dopo essersi seduto sul letto e avermi fatto migliaia di domande alle quali cercavo una risposta credibile, finalmente demmo inizio a un discorso di quelli che mi piacevano tanto, quelli che alla fine di una giornata di pieno sconforto in mezzo alla solitudine, ti fanno esclamare: “Non mi sono mai sentito tanto capito in vita mia.”
Iniziò balbettando con l’inevitabile vocina incerta: -Charlie, so che ho la metà degli anni tuoi e che pensi di farmi male, ma ho paura, sempre chiuso sei, sempre chiuso, tanta paura- ansimava –paura.-
-Non avere paura: è avere sedici anni. Non penso che essere sedicenne ed essere felice combacino. Succedono tante cose, sono sempre successe tante cose, Oli,  senza eccezioni, avrai un tempo illimitato per scoprirlo attraverso le tue stesse esperienze. Credimi quando ti dico che se i pesi e vuoti di stomaco non sono una cosa che si trasmette geneticamente ci sono centinaia di motivi.
Non sto bene, lo so, ma non essere preoccupato, non tu.
Sai, a chiunque altro avrei fatto una di quelle sfuriate feline che faccio a chi invade il mio territorio quando nessuno deve, una di quelle dove posso sfogarmi attraverso la mia scusa dell’agitazione, ma sai benissimo che non sarei capace di farlo a te, perché sei il mio piccolo campione e non voglio tu stia male, va bene? Se sono calmo ora è merito tuo, grazie.
Voglio solo allontanarmi dalla Terra, almeno per un po’. Non riesco ad ambientarmi, a vedermi, a guardarmi ancora.- mi accorsi di aver iniziato a divagare troppo per la sua protezione, così tagliai e tentai di concludere: -Prendo atto del fatto che le difficoltà e i complessi li hanno tutti, che non devo farmene un problema e che tutto andrà bene, risolverò ciò che mi blocca. Ma ora, ciuffo d’oro, sta’ tranquillo, promesso?
Mi accorsi solo alla fine del piccolo discorsetto cosa avevo appena detto, grande stronzata quella di aver aperto bocca.
Per quanto fosse intelligente, non era abituato a convivere con queste parole e concetti, è innaturale.
Pentito crollai ancora, sprofondando violentemente verso il muro spoglio della stanza e iniziai a mordermi il labbro, come se avessi potuto cancellare così tutto ciò che avevo detto.
Partii in quarta colpendomi e ricolpendomi, pensando a tutto quello che avrebbe domandato il piccolo dopo questo.
Sapevo che gli occhioni color granato –così delicato rispetto al pesante nero dei miei- mi stavano fissando, così l’ansia che avevo messo da parte prima attaccò ancora i polmoni.
Iniziai a tossire anche l’anima.
-Dimmi solo perché non esci,- azzardò infine –Ti prometto che non lo dico a nessuno!
-Ma io mi fido, non preoccuparti, stasera sto a cena insieme a voi, va bene?
-No, tu devi uscire, uscire fuori, dove c’è l’erba, devi andare a scuola, devi vedere i tuoi amici!
-Oli,- sbottai con un tono più minaccioso e serio di quanto avrei dovuto, –sono proprio gli amici che ho paura di vedere.
Non avrei mai dovuto dirlo, mi sono sputtanato esattamente come avrei dovuto evitare; che uomo potrei mai essere?
-Ma io dico gli amici amici, non sono buoni a esserlo se ne sei spaventato.- Non l’avevo mai sentito parlare così. Avrei voluto rispondergli qualcosa di confortante, ma non avevo più amici, che avrei potuto raccontargli?
Scattai seduto e lo guardai, per poi notare una tensione davvero anormale per un bambino di otto anni.
-Quelli non ne ho più, ma me ne farò altri, mi servirà come lezione.- Schivai l’argomento cercando di vedere le buone prospettive e impegnai la massima dolcezza possibile, ma al solo pensiero la rabbia mi percuoteva da capo a piedi; rabbia che si pietrificava al contatto con lo sguardo del mio fratellino.
Gli avrei detto di andare, di lasciarmi, che l’avrei raggiunto presto, ma mi piaceva parlare con lui, così il mio egoismo si mangiò i miei pensieri, lasciando più libero me e più preoccupato lui.
-Come ti fai gli amici se non vai in giro e non parli mai con nessuno? Fratellone la tua vita non è meglio se pensi di nascondere le paure dentro la cameretta, facci incontro!
Quei piccoli errori in mezzo a frasi così spontanee e, soprattutto, giuste mi fecero sorridere, uno di quei sorrisi di sconforto e divertimento uniti, un’espressione azzardata, mentre intanto rodevo e appassivo, ammettendo che aveva maledettamente ragione.
-Allora?- insistette, la pressione.
Non potevo dargliela vinta, così lo abbracciai in silenzio, mentre il buio della sera ci copriva le spalle.
Mi sentivo un leone mangiato dall’agnellino, non reggevo il confronto.
-Charlie, mi accompagni a prendere un gelato domani?
-Va bene Oli, domani pomeriggio andiamo al parco e prendiamo un gelato, okay?
Il piccolo mi aveva convinto davvero; la mia mente era troncata in due parti: senso di colpa asfissiante per essermi approfittato di lui e contemporaneamente una leggerezza sovraumana, qualcosa di inspiegabile.
Sorrisi al ragazzino e lo spinsi ad andare a cena dicendo che l’avrei raggiunto prestissimo; lui sorridendo saltò via dal letto e corse in cucina, pavoneggiandosi ironicamente di aver portato a termine il suo compito.
Solo in quel momento mi ricordai di cosa avevo davanti: dovevo rivedere la mia compagnia.

 
Mi presi anche la mattinata successiva libera e passai la mattinata leggendo, evitando di pensare a cosa mi avrebbe aspettato il pomeriggio stesso e insistendo sul fatto che lo stavo facendo per Oliver, che glielo dovevo.
Pranzai in famiglia e, come fecero la sera precedente, i miei mi trattarono come prima che mi rinchiudessi per settimane in casa e questo mi diede un buon conforto, dato che non avevo la minima voglia di sentirmi strano anche quel giorno.
Mi vestii velocemente, una camicia a quadri rossa e nera e dei semplici pantaloni, con le scarpe che piacevano tanto al ragazzino.
-Andiamo?- mi propose allegramente.
-Certo, sono pronto, tu?
-Prontissimo.
Chiusi la porta e uscii:  respirare aria fresca mi fece una buffa impressione, ma mi sentivo tranquillo, ero davvero sicuro che non avrei avuto brutte sorprese sulla mia strada quel giorno.
Per la prima volta in vita mia le persone erano tante piacevoli decorazioni su una meravigliosa torta, mi convinsi che si erano davvero scordati di me e che mi avrebbero lasciato in pace, il sole uscente timido dalle nuvole mi trasmetteva un’ottima sensazione, così mi divertii a camminare un po’ ascoltando le tranquille storie del mio fratellino, che aveva così tanto da dire, ogni volta.
La giornata stava davvero andando troppo bene, mi preoccupavo
e facevo bene.
 

-Ciao frocio.
La fastidiosissima voce di Matt, leader della mia vecchia combriccola, mi stava sfidando con uno sguardo affine a quello soddisfatto di una pantera che ha inseguito per chilometri la sua insignificante preda.
-Ma guarda un po’, che piacere vedervi.- risposi accentuando l’ironia, tanto qualsiasi cosa avessi fatto, non avrei avuto via d’uscita.
-Chi si vede! Pensavamo fossi morto definitivamente. Ti godevi il bel tempo?
-Esattamente, mi fa piacere ne godiate anche voi.
-Non è l’unica cosa che sfrutteremo oggi.
-Bene, io penso usufruirò delle mie gambe per raggiungere il parco. Piacere di avervi rivisti.- Conclusi, affrettandomi verso il verde, stavo tremando.
-Non mi hai chiesto cos’altro sfrutteremo.
Restai in silenzio, se per un nanosecondo avevo pensato di potermi salvare, mi ero sbagliato.
-Avanti coglione,- intervenne l’altro –fai tanto il gradasso difendendo quell’altro culo da frocio e ora scappi? Che cazzo di logica hai?
-Chi intendi per ‘culo da frocio’, Ash? Steph non ho voglia di prendere a pugni e morsi qualcun altro, lasciatelo in pace, - qui iniziai ad alzare il tono in modo significativo –l’avete già ucciso, non permettetevi di fargli ancora del male. Chiaro? pezzi di merda!
-Adesso inizi a insultarci? La prossima volta ci pensi prima di tradirci prendendoci a pugni per difendere quel ritardato pieno di cazzo.
Mi dimenticai persino dell’esistenza di mio fratello e la cecità prese possesso di me, l’autocontrollo non mi aveva mai caratterizzato.
-Non sono mai stato più fiero di me di quel giorno, mai sentito meglio in vita mia, spero soffriate come porci con un tumore, ammesso che esista.
-Intanto non hai più nessuno. Nessuno. A forza di dover sopportare tutte le verità su di lui e avendo solo un altro frocio come te a difenderlo pure lui s’è ammazzato. E tu, tu ci dai ancora la colpa? Mi auguro che tuo fratello non cresca come te.-
Se nella prima parte della frase mi aveva convinto a ucciderlo definitivamente, il pensiero di mio fratello mi riportò al mondo.
Sotto i respiri fitti dei cinque ragazzotti che mi fissavano, tirai fuori tutti gli spicci che avevo e li diedi a Oliver, dicendogli di andare a prendere il gelato. Capì che era il caso e obbedì.
-Sì, do ancora la colpa a voi, siete i pezzi di merda peggiori che io abbia mai conosciuto, il mondo dovrebbe rifiutarlo il vostro atteggiamento. Vi sentite così grandi, così forti, non siete nulla, solo dei coglioni. Ash vi fa il culo.- Recitai tutto con molta calma, dai loro sguardi capii che i miei pugni mi sarebbero stati restituiti.
Senza forze dal poco cibo, acqua e allenamento dal quale ero reduce, potei resistere poco prima che mi trascinassero lungo quella strada umidiccia e poco frequentata nella quale ci trovavamo, fino a raggiungere il vicolo più remoto.
Ricordo solo che mi chiedevo dov’era Oliver e se fosse riuscito a ritrovare la strada di casa.
Intanto, tra le mille violenze oscurate da Ash e Oli, la mia memoria si perdeva delicatamente e impotentemente, privandomi della possibilità di reagire di nuovo.
Ash era il mio unico amico, lo era sempre stato, se questo significava portargli onore dopo che s’era tolto la vita, ero fiero di me ancora una volta.
Nessuno gli aveva mai perdonato le piccole stranezze, i suoi travagli o la sua sincerità, ma ogni singolo insulto che gli aveva reso la vita impossibile andava vendicato ed ero fiero di avere quel compito.
Prima di perdermi completamente pregai di risvegliarmi presto così da ringraziare il piccolo di avermi fatto uscire: mai stata cosa più giusta.
Forse ero a terra, forse ero finito, ma aver tirato fuori tutto quello che per anni sognavo di dire mi rendeva la persona più leggera del mondo. 

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Capitolo 2
*** Understanding What We've Grown To Be. ***


Sono nato, poi?
 
A sette anni dallo spiacevole incidente, quella giornata iniziava a sfumare nei miei ricordi, mentre il mio fratellino ricordava ancora tutto alla perfezione, perfino quello che gli avevo raccontato dello scontro.
Ero contento che non ci fosse stato in mezzo, se l’avessero anche solo toccato probabilmente non me lo sarei mai perdonato, e starei ancora a rimuginarci su, con aria colpevole e assassina.
Invece, è andata bene, direi. Piuttosto bene.
Ho ancora una cicatrice marchiata nello stomaco e ho avuto macchie e lividi per mesi e mesi, ma non smetterò mai di ripetermi quanto ne fosse valsa la pena.
Vedere mio fratello così fiero di me, poi, mi rendeva il ragazzo più felice del mondo.

Andando avanti con la medesima vita, arrivò il 15 Settembre di sette anni dopo: un’altra giornata che non dimenticherò mai, una di quelle che hai inevitabilmente tatuata ovunque, ma che alla fine riesci a vedere solo tu.
Una piacevole sensazione, direi.
 
La scena si stava ripetendo quasi analogamente: Oliver, stavolta fiero dei suoi quindici anni, entrò nella stanza silenziosamente, attento a non scivolare sul poster distrutto sul pavimento.
“Charlie? Posso?”
Eravamo cresciuti tantissimo, dio come vorrei che il tempo torni indietro.
Di solito i genitori o i fratelli maggiori dicono “Sembra me quando avevo la sua età!”, ma lui non assomigliava minimamente a com’ero io alla sua età.
Né di aspetto, né di carattere.
I suoi occhioni oro mantenevano la lucentezza, col passare degli anni avevano iniziato a sfumare sul verde e la pelle pallida si manteneva di quel chiarore perfetto e quasi angelico che lo aveva sempre caratterizzato, così come le labbra che sembravano anticipare una crescita più che fiorente.
Non era ancora fidanzato, impegnato o innamorato, o così credevo.
Era ancora un bambino, dalla sua parte, nonostante fosse di un’intelligenza che comunque i suoi compagni si sognavano, e questo mi faceva piacere.
Non che fossi uno di quei fratelli maggiori gelosi che desiderano solitudine o vendetta verso i piccoli, ma mi faceva piacere vedere la sua purezza ancora vergine.
Perché si sa, è un’età in cui si inizia a desiderare la libertà, la ribellione, l’alternativo, e lui lo era, molto più degli altri, proprio perché aveva una fermezza mentale e una capacità di vedere fuori dagli schemi che lo faceva risaltare senza che lui lo facesse apposta.
Senza che lui lo volesse nemmeno, in realtà.
Molti penseranno fosse diventato uno di quegli adolescenti chiusi e intellettuali, uno di quelli che passano le giornate sopra ai libri, fino a raggiungere l’esasperazione.
Beh, vi sbagliate di grosso.
Lui era esattamente l’opposto di tutto questo: amava studiare solo ciò che gli piaceva, il resto lo faceva superficialmente, ma in ciò a cui teneva metteva tutto sé stesso, così come per gli amici.
Non era mai violento o troppo volgare, sempre aggraziato e divertito allo stesso tempo, riusciva a ironizzare su qualsiasi cosa in modo apprezzabile, così che tutti si potessero divertire senza offendere altri.
È incredibile come arrivasse ad animare qualsiasi gruppo con una battuta pronta che ancora mi domando come riesca a trovare.
In ogni caso usciva spesso e aveva iniziato a trovare amici che apprezzassero la sua spontanea amabilità e mi faceva piacere vederlo finalmente ottenere ciò che ha sempre lottato per meritarsi.
E dentro di me, per quanto possa sembrare assurdo, abitavano tanti orchi che iniziavano a distruggere il mio stomaco solo al pensiero che sì, doveva crescere, che era cresciuto, che il mio piccolo Oli dai giochi nuovi e dai biondicci capelli morbidi se ne sarebbe dovuto andare.
Dio, lui sarebbe sempre rimasto la mia solida roccia, il mio piccolo orgoglio.
 
Finii di analizzarlo e guardarlo con la solita fierezza che è abituato a vedersi dimostrare, così lo invitai a sedersi sul solito letto.
Quel giorno non ero triste: stavo leggendo Candido di Voltaire per l’università, quel libro mi traumatizzò in prima media, quando la professoressa di lettere ci costrinse a leggerlo.
Ero felice che il ragazzino avesse interrotto l’inquietante lettura, così mi dimostrai interessato al massimo.
Di solito, quando fa irruzione nella mia stanza  e accetta di sedersi un momento sul letto, è perché vuole parlarmi di qualche nuova incredibile teoria, e , come avrete notato, amo parlare con lui.
“Ciao Oli, come sta andando l’esposizione di storia? Sei pronto?” Gli domandai sorridendo; era ovvio fosse pronto.
“Sì, penso di saperla piuttosto bene, avevo iniziato fisica per giovedì.”
“Hai fatto bene, torna?”
“Per ora, ma non riesco a concentrarmi.” Parlava con aria assente, mi piace quand’è così, ha sempre un argomento nuovo da tirar fuori.
“Cos’è che ti preoccupa?”
“Nulla in realtà, però pensavo.”
“Pensavi?”
“Non so come spiegarti. A volte mi capita di sedermi su un muretto del corso e semplicemente guardare la gente, non ti è mai capitato? Solo mettersi lì e immaginare.”
“Molte volte, e spesso mi domando che vita abbiano e cosa facciano nella vita.”
“Io li guardo piano piano. Voglio dire, inizio dai bambini, dai più piccoli. Ognuno sembra raccontare una storia diversa e sembra esser lì per sfondare e diventare il migliore.
Hanno tutti quell’occhio vivace e quei sorrisi macchiati di gelato che sembrano dire: ‘hey, potrei diventare presidente degli Stati Uniti se volessi!’, oppure li vedi che esplorano la piazza e cercano risposte in tutto quello che vedono. Sono meravigliosi, sono così diversi, così vivi.
Poi inizi a guardare gli adolescenti e iniziano a svuotarsi, e lo dico da persona, non da teenager.
Voglio dire, sono tutti divisi in gruppetti e ogni gruppetto ha il suo stesso modo di fare qualsiasi cosa: è impressionante.
Gli occhi cominciano ad appassire e sono così pochi quelli che brillano ancora.
Così tanta nostalgia per le figure minute dei bambini.
I più grandi iniziano a diventare davvero cattivi, e l’incoscienza lascia spazio all’ignoranza e all’acidità, così si entra nell’età adulta.
I trentenni: è così raro vederli in giro. Loro solo sempre terribilmente indaffarati e occupati a cercare lavoro o fidanzati o relazioni o vattelappesca. Iniziano a mettere da parte tutti i loro sogni…
Mi capisci, capisci cosa intendo? Si rassegnano.
È terribile vedere le persone rassegnarsi, sembra quasi spingerti a rinunciare, ma io non voglio rinunciare, non è così che voglio finire.
Voglio dire, finire come loro.
Come quelli dai quarant’anni in su che ormai hanno schematizzato pressoché tutto e, a parte le rare eccezioni, sono così freddi e rassegnati.
Non voglio rassegnarmi, Charlie.”
Quanto amo quando mi parla così. Mi vengono le farfalle dello stomaco e non riesco mai a fare a meno di abbracciarlo.
Ha sempre qualcosa di nuovo da dire e il fatto che sia deciso a non rassegnarsi mi sollevò, nonostante non fossi sicuro dell’argomento a cui si riferiva.
“Oliver, non ti stai arrendendo e non ti arrenderai mai, io lo so.
Qualcuno ce la fa, va bene? Hai tanto da dire, ce la farai.”
“Io lo vedo. Stai lì in mezzo a mille persone e inizi a domandarti: ‘ma loro lo sanno che potrebbero essere molto di più?’
Dimmi, fratellone, loro lo sanno? Loro potrebbero essere molto di più.”
Mi spiazzò. Dio, quel ragazzino, quel ragazzino.
Aggrottò le sopracciglia e vedevo la sua domanda trapassargli gli occhi, sempre più presenti.
Non sapevo davvero come rispondergli, lo vedevo accucciato in attesa di una risposta e desideroso di conversazione, così riflettei qualche secondo e buttai giù la prima risposta che riuscii ad argomentare.
“Non so se se lo chiedano. Ti ricordi quei ragazzi della simpatica e radiosa giornata di sette anni fa? Loro si stanno distruggendo, e come loro molti altri, ma non tu.
Hai qualcosa di speciale fratellino, e non lo dico per dire, non spegnerti.”
“Ma tu?”
“Io? Io tutto bene.”
“Ma tu, che hai intenzione di fare?”
“Non saprei, io… -balbettai- troverò un modo per andare avanti, studierò, lavorerò, viaggerò.”
“E ciò che vuoi? E i tuoi sogni?”
Mi stavo per sciogliere, sembrava un cerbiatto, un bambino, un essere delicato e intoccabile.
“Charlie, -riprese- hai ancora dei sogni, vero?”
“Certo, Oli, certo che ho dei sogni.”
“E non li sotterrerai?”
“Perché non possono essere tutti come te?” Risi bonariamente, mi trasformavo in un’altra persona quando c’era lui, non ho mai visto quindicenni così.
Sorrise modestamente e si sdraiò riflettendo, finché non suonarono a casa e corse a rispondere, balbettando che sarebbe sceso subito.
“Chi è?” domandai, “Will?”
“No, Chai, è Lara.”
“Lara?”
“C’è qualcosa che dovrei raccontarti, in effetti…” Si infilò frettolosamente il giacchetto e corse di sotto. “A dopo!”
Lo osservai dubbioso e tornai in camera.
Sta crescendo, cazzo, sta crescendo.
 

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