Noose - Accalappiati di Fanny Jumping Sparrow (/viewuser.php?uid=60955)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I – WORTHY THING ***
Capitolo 2: *** II – CRAZY SEAGULLS ***
Capitolo 3: *** III – MANGY ACCIDENT ***
Capitolo 4: *** IV – CROSSFIRE HURRICANE ***
Capitolo 5: *** V - SALTY DOGS ***
Capitolo 6: *** VI - LAND HO! ***
Capitolo 7: *** VII – EVERLASTING BOUND ***
Capitolo 1 *** I – WORTHY THING ***
*
Qualche premessa introduttiva alla lettura…
Salve gente! Alcuni di voi mi conosceranno, altri probabilmente non
ancora, anche se bazzico da qualche annetto in questa sezione di EFP.
Per questa nuova storia ho deciso di adottare uno stile introspettivo,
un linguaggio e dei toni leggermente più adulti e a volte
duri, per alcuni motivi: 1) i veri pirati di certo non si esprimevano
come galantuomini, checché ce li rappresentino
così la Disney e un po’ tutti i film anche
più datati sulle loro imprese; 2) di mezzo ci saranno
personaggi alquanto neri (nonna Sparrow) e situazioni drammatiche e
macabre (ricordate come appare nei film la mammina di Jack, no?).
Un ringraziamento speciale alla stimata e fedele collega
Spanish_Sparrow per le notizie preziose, a tutti i blog dedicati a Keith Richards e all’insonnia da
gelato al caffè che mi ha dato l’ispirazione
iniziale.
Ultimo appunto: i capitoli saranno più lunghi
perché, salvo ripensamenti, non ne scriverò
più di tre. Spero di non risultare pesante! Qui comunque ho
inserito anche qualche spunto più umoristico, nei prossimi
prevarrano gli elementi drammatici, un po' come nella prima trilogia
piratesca.
Ad ogni modo: commenti, insulti, tiri di schioppo, coltelli sono sempre
ben accetti.
Al prossimo (imprecisato) approdo!)
I – WORTHY THING
Un truculento fremito di budella lacerate esalò insieme ad
un rantolo spezzato.
Le dita incastonate da vistosi anelli restarono strette
all’elsa d’argento, mentre un caldo fiotto
vermiglio imbrattava il logoro acciaio, addensandosi attorno al codolo.
I ferrigni occhi bistrati fissarono con indolenza quelle orbite
giallognole rovesciarsi indietro, finché il grassone con il
turbante non stramazzò sul ponte già viscido di
altro sangue, misto alla salsedine e alla polvere da sparo.
Aveva snudato l’affilatissima sciabola e l’aveva
spinta a fondo, poco sopra l’arancione fusciacca di seta, non
lasciandosi sorprendere dal suo tentativo di aggredirlo alle spalle con un vile moschetto.
Un gesto meccanico e inesorabile che aveva imparato a compiere poco
dopo esser sceso dalla culla e che ormai non gli suscitava che un tenue
senso di nausea, presto sopraffatto dalla soddisfazione di essere
uscito vincitore.
Il giovane filibustiere concesse un veloce esame critico a quel
corpulento sconosciuto dalla carnagione violacea, toccandolo con la
punta dello stivale e appurando che avesse smesso di respirare. Le sue
labbra screpolate dal sale si stropicciarono in un borbottio: - Non mi
sono divertito neanche un po’ con te … -
schioccò la lingua deluso, saettando uno sguardo accigliato
allo stillicidio di combattimenti che impegnavano i compagni di
scorrerie, animando il resto della stretta tolda.
Gli ultimi sopravvissuti alla raffica di pallottole e
all’ineguagliabile furia dei suoi intrepidi diavoli
resistevano per onore e disperazione, proprio come quei soldati
invasati dalla fisima del dovere e dei giuramenti prestati a parrucconi
rammolliti, propensi a tessere subdole trame politiche per arricchirsi
a discapito dei nemici, ma non inclini a sporcarsi direttamente le
vesti in quella spietata guerra di corsa che insanguinava i mari,
riempendone i fondali di cadaveri di vascelli e uomini.
Lui l’aveva combattuta in prima persona sin dalle fasce; non
aveva mai capito quale valore potesse avere rimetterci la pelle per
qualcuno diverso da se stesso.
Neppure sua madre, per quanto disonesta e dispotica da incutere terrore
anche ai più navigati masnadieri, gli aveva mai imposto un
tributo di tale calibro.
“Io
t’ho portato in grembo nove mesi, senza cessare un solo
giorno di saccheggiare. T’ho partorito patendo le peggiori
pene dell’Inferno, mi sono squarciata tutta! E nessuno me lo
aveva chiesto con la pistola puntata! Ora sbrigatela da solo. E fatti
valere.”
Quello era stato l’aspro e incontestabile monito con cui
l’aveva allevato, tra arrembaggi, sbronze e omicidi efferati.
Aveva iniziato a ripeterglielo dacché avesse memoria, e
prepotentemente quelle ingrate parole, intrise di una lapidaria
crudeltà che non aveva mai penetrato, riecheggiavano
all’approssimarsi di ogni nuova sfida, pungolandolo ad
armarsi di ferocia, ardimento, determinazione. Onorava il dovere di
sopravvivere perché era destinato a succederle come Pirata
Nobile, essendo il suo primo ed unico erede. Un contratto stipulato
quando era ancora un poppante, consenziente perché privo di
coscienza. Eppure, ora che la possedeva, nulla era cambiato: si era
adeguato perché non era stato impossibile, e non avrebbe
saputo immaginarsi altrove.
Sfregò la lama ricurva sulla balaustra del parapetto per
sgrondarla dal viscoso fluido scarlatto che vi si era rappreso e, non
riscontrando altri bersagli su cui doverla brandire, la
risistemò nel fodero di cuoio, raggiungendo i sodali che
cincischiavano a poppa attendendo suoi ordini.
- È una bella nave, peccato l’equipaggio fosse
composto da insulse femminucce! – commentò briosamente il
suo quartiermastro, accendendo una ciarlante approvazione tra gli altri
pirati.
Il Capitano di contro si incupì ulteriormente:
giacché solcava gli oceani ed era in competizione con la
terribile madre, sognava grandi e memorabili imprese che
l’avrebbero eguagliato alle leggende viventi del suo tempo,
temute e riverite. Non gli serviva cumulare una quantità di
successi facili che nessuno avrebbe menzionato negli anni a venire. Ma
non tutti erano sospinti dalle sue stesse ambizioni.
Ismael, quell’arabo fuggito eroicamente “da una sporca galea cristiana”,
come raccontava allo sfinimento, aveva un modo di ragionare per certi
versi alquanto infantile. Anche se, per la spigliatezza e la forza di
cui in più occasioni aveva dato prova, l’aveva
eletto suo braccio destro. Il fisico particolarmente massiccio e dei
lineamenti induriti e maturi permettevano all’ex galeotto di
dimostrare il doppio della sua età, pur essendo in
realtà di un anno più giovane di lui.
Comunque dovette dargli ragione almeno sul primo punto: quella giunca
dallo scafo color malva e le vele triangolari ocra era
un’imbarcazione di singolare eleganza, agile, snella,
lussuosa nei legnami, nelle definizioni e nel complesso intreccio di
arabeschi che scolpivano ogni pezzo, artiglierie comprese. La sua
struttura tuttavia era abbastanza fragile e l’imprecisione di
quelle antiquate bocche da fuoco avevano reso una passeggiata
abbordarla ed impadronirsene, dopo che i due bastimenti che le
fungevano da scorta erano stati affondati a cannonate.
- Avanti ora, insolenti canaglie! Arraffate tutto ciò che
può giovare alle nostre tasche! –
incitò con ritrovata cupidità i suoi fedeli che
non esitarono a sparpagliarsi a frotte, buttandosi chi sulle vittime,
catturate o uccise, per spogliarle delle armi e dei loro averi, chi per
i corridoi di sottocoperta, in una febbrile ricerca dei beni di valore
che di sicuro erano stati ammassati nella stiva.
Il giovane Capitano non partecipò a quel concitato
saccheggio: rinunciava volentieri a quella parte del lavoro, ritenendola
la più volgare e noiosa. Dopotutto la ciurma era assoldata
per quel preciso scopo.
Affidandosi ad una cima penzolante si catapultò sul suo
mistico, la Dama di Nebbia, e, assicuratosi di non essere visto dagli
altri, si accese un sigaro che conservava da un po’ di tempo
in un astuccio di osso e pelle di foca. Socchiuse le palpebre
inspirando avidamente quella narcotica composizione di tabacco, canapa
e oppio che gli avevano venduto a Malacca; la assaporò
pigramente fino ad inebriarsi dell’illusione di galleggiare
nel nulla.
L’incognita e la morte avevano accompagnato la sua breve
esistenza, ora dopo ora.
In fin dei conti quella vita priva di leggi, certezze, legami, nel bene
o nel male, scorreva veloce e forse l’avrebbe obliata prima
che diventasse un fardello sopportarla. Al momento era quello
l’unico rimedio che adoperava per rimuovere quei tetri
pensieri, soffocanti, freddi. Onnipresenti.
Quel forte sedativo non poté tenerlo a lungo veramente
distante dalla cruda realtà in cui sguazzava dalla nascita.
Tra le spirali grigiastre gli parve di scorgere relitti di velieri in
fiamme inghiottiti con famelica indifferenza da onde di cobalto, un
dimenarsi di anonime vite aggrappate ottusamente all’estremo
anelito combattivo, come sciocchi pesci già finiti nelle
nasse. Poteva sentire persino le loro grida inascoltate, le bestemmie
urlate contro divinità imperturbabili o forse solo
inesistenti.
E, mescolato a quel vocio indistinto, udiva anche qualcuno chiamare il
suo nome.
- Edward!
Non il suo cognome. E neppure il titolo che con vanto si era
precocemente guadagnato con le sue prodezze, con la spada, col sudore della fronte, non comprandoselo con ignominiose ruffianerie.
Solo una persona si permetteva di chiamarlo così
confidenzialmente; a parte sua madre, qualora per chissà
quale fortuita coincidenza non fosse tanto incazzata. Quando accadeva, sovente
c’era sotto qualcosa di spiacevole che quello spiritoso
considerava molto divertente.
Edward Teague scacciò frettolosamente le nuvolette di fumo
che gli annebbiavano la mente e la vista.
- Fottuto figlio di cagna! Potresti smettere di alloppiarti come un
turco e tornare con noi?
Ismael si sbracciava animatamente sulla tuga dell’imbarcazione
arrembata, sventolando il cappellaccio di fustagno per attirare la sua
attenzione.
Buttò fuori lentamente un fumo denso che pizzicava le narici
e stese un pugno drizzandogli il dito medio, assieme ad
un’occhiataccia più che maldisposta cui quello
rispose con un altro improperio. Edward tirò
un’ultima nervosa boccata, quindi sbriciolò il
consunto involucro di erbe bruciacchiandosi i polpastrelli.
Scrollò energicamente la scarmigliata capigliatura
sforzandosi di tornare lucido.
Recalcitrante, balzò dalle scalette e si lanciò
nuovamente sulla giunca, sbuffando e scansando col suo cipiglio
indispettito e spigoloso quanti gli si paravano davanti smozzicando
frammenti di frasi sconnesse e infarcite di colorite esternazioni da
taverna.
- Di qua, Capitan Teague! – continuavano ad instradarlo tra
le rampe, con eccitazione e ilarità. Tutti quei sorrisini
ambigui e ammiccanti lo stavano urtando peggio di una merda di
gabbiano piovuta sulla giacca nuova: - Insomma,
cos’è che vi ha rincitrulliti?
Finn, il biondo nostromo irlandese che guidava il gruppetto, si
costrinse a restare serio e compito, ma invano, poiché alla
seconda ripetizione di quella lecita domanda annunciò
platealmente: - Abbiamo beccato un bel carico di puttane!
Teague strizzò ripetutamente gli occhi, poi scosse la testa
maledicendo quel viziaccio che lo aveva avviluppato da qualche
settimana e di cui i suoi talvolta si approfittavano: - Se mi state
prendendo per il culo, vi giuro che vi appendo per gli intestini!
– li tacciò sostando davanti ad una porta
riccamente intarsiata. Nonostante la sua serratura fosse stata
scassinata e scardinata, reggeva quel tanto che bastava ad isolare un
incognito locale dal quale, ora si accorse, proveniva un sommesso chiacchiericcio
che lo indusse ad acuire le orecchie, scontento.
- Ecco a voi il tesoro! – si frappose con un sorrisetto Finn,
spalancando con un calcio la porta.
Al giovane comandante si schiuse spontaneamente la bocca trovandosi di
fronte un accecante tripudio di colori, drappi, suppellettili e sete
trasparenti che avvolgevano maliziosamente decine di corpi e volti
femminili ornati da luccicanti monili. Le sue profonde iridi castane,
sprizzanti diffidenza ed imbarazzo, si posavano ora su quelle seducenti
curve appena celate da veli variopinti, che indietreggiavano ad ogni
suo passo inoltratosi nello stanzone, ora sulle espressioni di
rimbambimento e animalesco fervore dei suoi compagni, che pendevano da
un suo assenso per scatenare i già labili freni inibitori.
Lui taceva, attonito e impreparato dalla stravaganza di quella
inaspettata situazione che, se non gestita con misura, avrebbe potuto
ritorcersi drasticamente contro di loro. Troppo allettante per non
nascondere una trappola. La nomea di marmaglia di debosciati li
precedeva, doveva per certo esservi stato qualcuno che aveva escogitato
quella messa in scena. La Marina Britannica ad esempio. Erano mesi che
si preparavano a sferrare l’attacco definitivo dopo averli
coinvolti in una lunga serie di scontri minori e inoltre le abili
incursioni dei Fratelli della Costa nei loro porti avevano causato
parecchie perdite di merci.
Ormai gli Inglesi stavano estendendo il loro predominio incontrastato
anche nel Golfo Indiano, stringendo alleanze con i vari
rajà, solo per non ammettere che li stavano sottomettendo
alle loro direttive, senza invadere esplicitamente i loro territori.
Edward, prima di parlare, cercò la complicità dei
marinai più affidabili tra i suoi, di quelli che avevano
abbastanza senno da non lasciarsi ingannare tanto stupidamente da
lusinghe generose e apparentemente casuali.
- Vi è andato in pappa il cervello, amici miei! Sembrate un
branco di cani in calore! Neanche fosse la prima volta che vedete
qualche paio di tette e gambe discinte!
Li sbeffeggiò duramente ottenendo il graduale silenziarsi dei loro
scomposti schiamazzi, fissandoli truce per assicurarsi che il
rimprovero avesse sortito l’esito voluto, ossia obbedienza,
la principale qualità richiesta ad una ciurma, oltre che la
più ardua da preservare, specie
nell’eterogeneità e nell’incostanza di
certi caratteri.
Neppure lui a quasi ventiquattro anni poteva considerarsi risolto in
quanto ad uomo, tanto meno nel ruolo di Capitano. Almeno sapeva
ciò che non voleva: usare la violenza su ostaggi deboli ed
inermi era una di quelle codarde azioni che avrebbe tranquillamente
evitato. Scontata e spregevole.
Camminò in tondo meditativo, osservando l’enorme
quantità di oggetti da rubare ivi concentrati, quindi
afferrò per i fianchi una delle giovani velate. I compagni
si infervorarono, quella mormorò sottovoce nella sua
estranea lingua, chinando la fronte e tremando di paura ad ogni suo
sfioramento. Ma Teague non intendeva oltraggiarla.
Con garbo da far impallidire un vero gentiluomo, le sottrasse spille,
orecchini, bracciali e collane che l’adornavano: - Piuttosto
non vi siete accorti che queste gallinelle sono piene di orpelli
preziosi? – li ammonì mostrando loro il pugno
colmo di gioielli, risvegliando con quell’ipnotico sfavillio
la loro acquolina.
– Placherete i bollori a terra. Queste donzelle possono
fruttarci parecchie ghinee sul mercato … a patto che siano
presentabili. – puntualizzò con affettata
galanteria, abbonando un sogghigno di intima soddisfazione per l'astuzia in cui aveva dissuaso i loro depravati propositi,
riconducendoli alla sua volontà.
Vi era un confine molto sottile tra il frugare e il palpeggiare, ed
Edward certo non poté soffermarsi a riprendere ogni mano che
si allungava più o meno distrattamente a perquisire le
gonnelle, cercando ben più del lecito. Dopo qualche
tentativo rinunciò a quell’ambiziosa pretesa di
giustizia, compiacendosi comunque per l’ininterrotto
tintinnare di gioie nelle sacche. Quell’arrembaggio, alla
fine, li aveva ripagati molto più di quanto sperasse, e la
sua faccia tesa per il sentore di un vergognoso fallimento a poco a
poco si rilassò, anche se la mascella leggermente squadrata
ed ispida restò contratta e serrata nel suo abituale
contegno che lo faceva apparire oltremodo rigido, orgoglioso ed
introverso.
In verità lui aveva imparato a sospettare di tutto e tutti,
non si sentiva mai troppo sereno lontano dalla sua nave. Desiderava
solo rientrare nella sua cabina, chiudere tutto il resto fuori e
suonare le flessuose corde della sua chitarra, poltrendo nella sua
branda fino all’alba.
Era uno di quei ricorrenti periodi di immotivata uggia e molestia per
tutto, comportamenti idioti dei suoi furfanti in primis.
Tra una sconcezza e l’altra, invece, quelli si stavano
attardando a terminare quel metodico spoglio, scordandosi di essere nel
bel mezzo del mare aperto, e non in un bordello di Singapore.
- Ah, basta con queste manfrine! Trasferite immediatamente tutta la
mercanzia sulla Dama di Nebbia, prima che qualche dannata corvetta
della Compagnia venga a porci i saluti. E fate sparire ogni traccia del
nostro passaggio – ordinò in tutta fretta,
spazientito dall’eccessiva sosta che li stava esponendo
ingenuamente al reale pericolo di un’imboscata.
Ismael, riscosso dal suo tono collerico, gli volse un cenno
affermativo, tralasciando per una volta la sbruffoneria ed istruendo i
marinai ad uscire alla svelta.
Teague attese sulla soglia che tutti si allontanassero, ma,
anziché confondersi in quella bolgia, si intrattenne ad
esaminare gli innumerevoli oggetti d’arredo di quella
sfarzosa cabina. Non ricordava di avere mai incontrato tanta opulenza
su una nave e non se ne era reso conto subito con la folla di
fruscianti stoffe che l’occupavano e che avevano lasciato
nell’aria una penetrante fragranza floreale.
D’un tratto fu colpito da alcune stilizzate incisioni che
riproducevano i tratti di un uomo somigliante al corpulento indiano che
aveva infilzato poc’anzi. Probabilmente doveva essere lui il
proprietario di quell’imbarcazione ricolma di ricchezze. In
effetti, era stato il più mediocre tra coloro che aveva
affrontato in duello, non aveva dato prova di tecnica né
prontezza di riflessi; però aveva un certo gusto per gli
arredamenti ricercati.
Valutò accuratamente cos’altro trafugare tra quelle anticaglie, ignorando di essere in compagnia durante il suo placido
curiosare. Per la precisione di essere ostilmente spiato.
Lo aveva osservato con interesse e impazienza, tenendosi ben nascosta,
camuffandosi tra arazzi e paraventi. Figura superba e distinta, tono deciso e stentoreo, occhi fieri e profondi: era lui il Capitano di quell’ammasso di canaglie di diversa foggia e colore che avevano preso d’assalto la sua dimora.
Gli dei erano stati doppiamente benevoli, non ci avrebbe mai sperato.
La avevano condotta a lui e, ora che erano rimasti da soli, avrebbe finalmente potuto compiere la sua vendetta. Per la sua famiglia brutalmente
trucidata, prima di tutto, e per gli incubi che l’avevano
tormentata da quella infelice notte di spade e fiamme che aveva
spazzato al pari di un monsone ogni frammento del suo passato.
Era giovanissima, nubile, priva di dote e di qualsiasi protezione. Era
diventata meno di niente, lei che aveva avuto il meglio di tutto:
affetti e averi, corteggiatori e servi, perfino una raffinata
educazione inglese. A causa sua, di quelli come lui, aveva perduto ogni
cosa trasformandosi in un’ombra insignificante tra la fiumana
di disgraziati che vagavano per le strade della sua città.
Dopo lo sconforto e la rabbia che l’avevano resa una pallida
copia dell’aggraziata e ammirata fanciulla tra le
più invidiate della sua cerchia per l’acume e la
bellezza, la miseria l’aveva cambiata, abbrutita. Vedendo
chiudersi ogni portone, si era ingegnata a vivere di mille espedienti,
ingannando il prossimo, fingendosi sempre un’altra persona.
Non dimenticando però chi era stata e chi l’aveva
ripudiata.
Così, bazzicando per qualche giorno nel porto, aveva
intercettato la notizia di una giunca che stava per partire alla volta
del Golfo Persico. Si era imbarcata come clandestina e poi a bordo aveva
indossato il costume da odalisca, confondendosi con le altre vergini
destinate a scaldare il letto di un facoltoso pascià. Stava
per mettere a segno il miglior colpo della sua breve carriera. Entrare
in quella corte principesca l’avrebbe riportata ai fasti che
le spettavano di diritto. Invero, oramai che aveva sperimentato la
libertà, non credeva di poter resistere confinata da mura.
Rubare qualche ninnolo le avrebbe permesso di scappare dove voleva. E
ricominciare.
Ogni progetto era sfumato dal momento in cui aveva intuito che erano
sotto attacco di un vascello pirata. La paura era riapparsa a
stringerle il respiro e aveva pregato di non dover crepare.
Poi, riconoscendo il famigerato nome, aveva sentito risorgere la brama
di assolvere quella promessa, sussurrata tra le lacrime sulle loro pire
trasportate dal fiume. Vendetta. Come un fiele che circolava nelle
vene, non si era mai riassorbito e ora pompava prepotente nel cuore,
istruendo le movenze di ogni muscolo.
Prese un profondo respiro e scattò in avanti, agile e lesta
come una pantera.
Ciò che il pirata avvertì fu un fulmineo
frusciare prima di percepire un modesto peso abbarbicarsi sulle spalle
e una lucida punta di coltello spuntare minacciosa da sotto il mento.
- Ho già provveduto a radermi, stamane! –
stigmatizzò iniziando a divincolarsi e reclinando il collo
indietro, inalando un sottile profumo di patchouli e cannella,
decisamente femminile. Di sbieco notò due gambe affusolate
fasciate da larghi pantaloni glicine attorcigliate
all’altezza del cinto. Provò a sciogliere quella
fastidiosa stretta che gli impediva di impugnare la pistola ma,
ponderando male i movimenti, favorì l’avvicinarsi
della lama che gli si impresse sulla gola marchiandolo con un taglio.
- Mannaggia! – sbottò il ragazzo inarcandosi
ancora, agguantandole il magro polso e torcendolo, perché
mollasse il pugnale. Quella sibilò come un aspide,
scivolandogli con un piede sull’inguine e colpendolo
furiosamente.
Edward imprecò continuando a muoversi e a stringerle il
braccio, procurandosi altri sfregi. Non avrebbe chiesto soccorso a
nessuno. Sarebbe stato ridicolo: in fondo doveva essere soltanto una mocciosetta ostinata, però non capiva per quale ragione volesse
ucciderlo. Non la avrebbe accontentata in quel modo: alla morte, se
proprio fosse arrivata lì, voleva sputare il suo disprezzo
in faccia.
Si tuffò di schiena su un sofà, schiacciandola
sotto di sé. L’aggreditrice, tramortita dalla testata che gli
aveva rifilato, fece cadere l’arma, mentre lui, ribaltando
rapidamente le posizioni, la bloccò accavallandosi sul suo
bacino. Quella si difese graffiandolo e soffiando, ma
nell’istante in cui il pirata sfoderò la canna
metallica piantandogliela nella pancia nuda, le sue unghie si
ritrassero, come fosse una gatta, e il seno madido cominciò
a sobbalzarle rotto dai singhiozzi.
Solo ora che aveva smesso di dibattersi il predone poté
guardarla e subito venne rapito dal magnetismo dei grandi occhi
dall’esotica forma allungata, scuri e lucenti come le
più preziose onici, risaltati da uno sbavato kajal blu.
Erano enigmatici, languidi e fieri, anche se tersi di lacrime.
Istintivamente le strappò via la veletta appuntata sulla nuca che la
occultava dal naso in giù scoprendo i capelli nerissimi con
alcune ciocche intrecciate da fili e perline colorate, la calda
sfumatura di sabbia carezzata dal tramonto della pelle levigata, il
dolce profilo delle labbra tinte di rosso ciliegia.
Aveva un’indocile e adorabile espressione da bambina
smarrita in cerca di aiuto, e al contempo il sembiante di una donna
scaltra che mirava ad irretirlo subdolamente con le sue grazie.
Fremette scombussolato: l’acuta sensazione che di quel volto
non si sarebbe mai liberato gli attraversò il midollo,
irragionevole e travolgente. Sconsigliabile. I pirati non possedevano,
altrimenti non avrebbero avuto l’ansia continua di esplorare
e saccheggiare posti sconosciuti.
Pensò che fosse una sicaria, inviata da qualcuno che lo
odiava. E moltissimo.
La fissava incantato ed esterrefatto, tempestandola di muti
interrogativi che restavano impigliati nella sua lingua, curvandogli la
sottile bocca. La scrutava con il candido stupore tipico della sua
età imberbe. Era più giovane di quanto si
figurasse; non avrebbe pensato che l’autore di tanti crimini
scellerati potesse essere un ragazzo scapigliato e imbronciato, poco
più che adolescente. Fissandolo a sua volta, al di
là degli zigomi appuntiti che rendevano i suoi occhi
più severi e ombrosi, vide altro.
Tra le sue ciglia bruciava il fuoco triste di tante battaglie che
prematuramente avevano scorticato la sua innocenza. Neppure la più esaltante di esse l’aveva mai pienamente rallegrato. Era inselvatichito
dalla sorte che gli era toccata, ma nel fondo serbava qualcosa di
tenero che non seppe spiegarsi, che strideva con l’immagine
del famigerato bucaniere di cui la gente parlava accusandolo di delitti
indicibili. Non lo conosceva, eppure credette che in parte fossero calunnie costruite ad arte, da se stesso o da rivali.
Le girava la testa al pensiero del sangue di cui stava per macchiarsi, forse ingiustamente. Si scoprì pavida: sottrarre la vita a qualcuno non era semplice quanto rubare qualche spicciolo. Tra tutte le identità che aveva assunto quella dell’assassina non le si addiceva, ed era contenta di averlo compreso grazie a lui.
Uno sparo infranse bruscamente quell’intenso dialogo
silenzioso.
La bruna gemette strillando, il bucaniere si maledisse per aver
accidentalmente premuto il grilletto e un nugolo di piume
svolazzò ricoprendoli.
Edward, appurato che a squarciarsi era stato solo il materasso su cui
oziavano, si staccò da lei e rinfoderò la pistola
ficcandosi le dita nella folta zazzera per ripulirsi da quella
lanugine, emettendo una sequela di parolacce e versacci schifati.
L’indiana singhiozzava piano coprendosi la bocca, non
più per le lacrime ma per il riso. Un tintinnio di cristalli.
- Sì, molto divertente – bofonchiò lui
fra i denti, indispettito dalla sua ilare reazione, spazzolandosi
arrabbiato i vestiti. La fanciulla si sollevò sui gomiti e
protese una mano verso la sua fronte sfilandogli con tocchi delicati un
paio di piume bianche dalla frangia che gravava su quegli occhi
irrequieti e frustrati, come i suoi, da un’inguaribile
malinconia. Non avrebbe avuto ragione di odiarlo, e neppure di smettere
di farlo da un istante all’altro; d’altronde non
aveva mai brillato per coerenza. I suoi stessi consanguinei la
consideravano strana e spesso restavano spiazzati dai suoi
comportamenti fuori dall’ordinario. Semplicemente non
conosceva misura nelle sue emozioni. Impulsiva e imprevedibile; invece
lui sembrava tanto misurato e riflessivo ...
La spontaneità del suo sorriso lo disarmò.
Qualcosa di invisibile, misterioso e molto forte gli
imprigionò il respiro. Un cappio che avrebbe dovuto recidere
prima che lasciasse il solco, anziché permetterle di
ipnotizzarlo con il suono del suo respiro leggero e dei gingilli che le
pendevano dalle braccia, dalle orecchie, dal collo. Avrebbe dovuto
respingerla anziché vagare con lo sguardo sulla sua pelle
nocciola che appariva, dietro i veli rosati, decorata da arzigogolati
disegni dei quali si domandava con insistenza il significato.
- Brutto bastardo ipocrita che non sei altro! Non hai perso tempo a
spassartela! Ci chiedevamo dove diavolo ti fossi cacciato!
La squillante insinuazione del suo vice fu una frustata che lo
riportò alla ragione, inducendolo a schizzare via da quella
futile trasgressione: - Sei il solito stronzo boccalone, Ismi!
– lo screditò rizzandosi dalla lettiga e
chinandosi a recuperare il pugnale decorato dal pavimento,
sottoponendoglielo. – La serpe mi è saltata al
collo ed ha tentato di sgozzarmi come un maiale! –
strepitò scaldandosi più del dovuto, grattandosi
la bandana olivastra ancora impiastricciata di pilucchi.
La mora alle sue spalle si alzò a sua volta scoccandogli
un’occhiata livida, mordendosi un labbro e preparandosi a
vibrargli un ceffone, ma l’arabo, senza volerlo, si interpose
boccheggiante: - Sia lode ad Allah … Toglie il fiato
– mormorò stregato, squadrandole ripetutamente il
corpo minuto e formoso, dai lunghissimi capelli d’ebano alla
punta delle babbucce rosa, rivolgendosi di riflesso allo scontroso
coetaneo.
- Anche il tuo alito! – lo irrise Edward - Sbattetela in gattabuia con
le altre – si limitò a chiosare freddamente, senza
ricadere nella tentazione di incrociare il suo sguardo pizzuto, che
poco dopo, però, gli arrivò come un colpo di
cerbottana mentre sul ponte di comando dettava disposizioni.
- Datevi una mossa, rammolliti! Su quelle gabbie! Spiegate i fiocchi e
bracciate i pennoni! – ragliò pressante e
autoritario, manovrando risolutamente il timone, rincorrendola con la
vista mentre veniva scortata dai suoi verso un boccaporto. Il vento
portava il calore del fuoco che stava incendiando la giunca; ma era un
altro calore a scaldargli il petto. Si schernì: non poteva
davvero averlo accalappiato.
Qualche ora più tardi, in assenza di altre grane, decise di
rientrare a passo spedito nella sala nautica per rilassarsi, ma,
varcata la porta, inciampò in cumuli di casse, pallottolieri
e bilancini disseminati su ogni superficie d’appoggio insieme
a fogli zeppi di numeri e nomi.
- Capitan Teague! I miei più sentiti complimenti!
È stato il migliore arrembaggio degli ultimi mesi!
– lo accolse da dietro un tavolo Nizar, riponendo il monocolo
con cui stava studiando alcune pietre sfavillanti. Per metà
arabico, per l’altra, chissà come, tedesco;
insomma uno che l’algebra e la precisione le aveva innate,
l’unico di cui si fidava quando occorreva calcolare come
ripartire i guadagni.
- Potremmo comprarci un’isola! Siamo ricchi! Ricchi sfondati!
– trillò saltellando e provando inutilmente a
coinvolgerlo.
Edward lo superò con la parvenza di un sogghigno amaro: -
Non farmi ridere – commentò ruvido, buttandosi su
un’amaca agganciata vicino la vetrata prospiciente il mare
– Esiste forse ricchezza duratura per i furfanti perdigiorno
come noi? La terra prosciuga tutto ciò che crediamo di
possedere – sussurrò mestamente, imbracciando la
vecchia chitarra.
Nizar, che navigava da quasi un lustro al suo fianco ed era abituato ai
suoi repentini sbalzi di umore, non trovò nulla di sospetto
in quell’accento burbero e beffardo, sottovalutando del tutto
il nuovo e sconosciuto tumulto che ribolliva nel suo cuore vagabondo.
- Chiamo gli uomini a raccolta, allora? – lo
interpellò piazzandoglisi a lato a braccia conserte,
dondolando gli occhialetti rotondi tra indice e pollice.
Edward alzò una palpebra interrompendo di punzecchiare le
corde: - Prepara le quote. Appena saremo approdati a Malabar
procederemo coi pagamenti – lo licenziò
preparandosi a scattare fuori di lì senza motivazione
apparente.
L’eccelso matematico gli sbarrò la strada: -
È già tutto pronto - borbottò saccente
e piccato, stroncando la richiesta del Capitano,
- Ma bisogna sommarci la merce di carne, giusto? – gli
puntò un dito quello, trovando un’altra scusa per
svignare da tutta quella confusione.
E, mandando al Diavolo il buon senso, rivederla.
I locali di dabbasso erano bui, stretti, e stantii, e i più
opprimenti in assoluto erano quelli che ospitavano le prigioni di
bordo. Benché fossero state costruite con solide sbarre di
ottone vi era sempre un marinaio preposto alla sorveglianza,
specialmente se i detenuti erano fonte di denaro.
Edward lo rinvenne a poltrire rumorosamente sul suo cigolante sgabello:
- Olly! – sbraitò richiamandolo indelicatamente
sull’attenti. Il paffuto ragazzotto scozzese si
svegliò di soprassalto urlando per lo spavento e
asciugandosi la saliva colata sul pizzetto fulvo.
- Stavi sognando di nuovo di scopare con la tua adorata Mary Sue?
– ironizzò il Capitano osservandolo severamente
nella penombra irradiata da un’oscillante lampada.
Il marinaio rossiccio sgranò gli occhi verdi: - Non stavo
dormendo, signore … Stavo riflettendo. – disse
molto seriamente. Edward sospirò inarcando le sopracciglia e
invitandolo a precederlo nell’altro corridoio che li separava
dalle vere celle: - Riflettevi senza specchio …
- Come dite? – strabuzzò quello, impacciato dalla
precedente figuraccia, girando le chiavi nella toppa.
- Lascia stare … - sbuffò rassegnato il collega,
facendogli cenno di camminare.
- Ma … desideravate? – si bloccò Olly
prima di ubbidirgli.
Teague scrollò con indifferenza le spalle: - Oh scusami.
Stavamo stimando il bottino. Vorrei sapere quanti prigionieri ci sono.
- Ve lo dico subito – il rubicondo marinaio gonfiò
le guance concentrandosi a contare sulle dita – Dunque
… venti femmine e cinque eunuchi – concluse
lanciandogli un furbo ammiccamento.
- Eunuchi? – ripeté l’altro perplesso,
fissando gli esemplari in abiti maschili dietro le sbarre –
Oh beh, si trova sempre qualche invertito cui aggradano –
glissò contagiandogli la risata.
Quando intravide affacciarsi proprio la bella odalisca con cui aveva
avuto quel contatto ravvicinato si insultò beceramente.
Dalla maniera indiscreta con cui lo fissava sembrava leggere le confuse
emozioni che gli provocava.
Schioccò le dita richiamando Olly che si era tenuto in
disparte: - Date loro doppia razione quotidiana di zuppa. Ci attendono
due settimane di viaggio. Non vorrei i compratori le scambiassero per
rami secchi. – parlottò non allentando di scrutare
lei che lo guardava con partecipe timidezza, quasi aspettandosi che
potesse e volesse rispondergli. Pensiero ancora più stupido;
capì che doveva andarsene: – Avvertimi se
dovessero esserci problemi di qualche sorta.
La guardia ghignò chinando il capo in segno di saluto, e lui
lo ricambiò sfuggevolmente, acconsentendo a fidarsi della
bontà di non complicare ulteriormente la sua sciagurata
condizione solamente per essersi infatuato di quella matta ragazzina.
Il grande mistico veleggiava nella notte stellata sospinto a fil di
ruota dagli zefiri che soffiavano miti e costanti in quella stagione,
preannunciando la torrida estate.
Per non mettere a repentaglio il prezioso carico da smerciare, avevano
prediletto le rotte meno trafficate e ad ogni avvistamento di vele
sospette avevano abbrivato per non rischiare svantaggiosi scontri.
Poche leghe ormai li separavano dalla terraferma, il mare stava
cambiando odore. Se ne accorse pur essendo intento ad ascoltare la
nuova melodia che le dita avevano tessuto fluendo naturalmente sulle
sei corde.
Amava intrattenersi con quel poliedrico strumento musicale spandendo le
sue note all’aperto, il cielo come unico spettatore.
Tutto era apparentemente tornato come prima.
Aveva placato le insubordinazioni con esemplari punizioni. E a momenti
stava cancellando il ricordo di quanto accaduto. Di chi c’era
a pochi metri di distanza da dove era seduto.
Sistemò tra le labbra il rotolo di tabacco quasi spento,
aumentando lo strimpellare per soffocare l’eco dei pensieri.
- Capitano! C’è un’emergenza!
Un richiamo allarmato, passi affrettati che correvano nella sua
direzione. Dopotutto la tranquillità se si protraeva a lungo
lo inquietava.
Sospese la sonata al chiaro di luna e si mosse mollemente dal giaciglio
improvvisato con alcuni cuscini, volgendo il collo verso il segaligno
mozzo inglese di cui non aveva imparato il nome, invitandolo ad
esprimersi, mentre gettava oltre il parapetto il mozzicone fumante.
- Una delle indiane sta male, ha perso i sensi. Sembra abbia la febbre!
La concitata rivelazione non gli alterò un battito, diede
una pacca al moccioso e rispose con un grezzo: - Sbarazzatevene. Una in
meno non fa la differenza.
Il ragazzino deglutì un impacciato: - Come comandate,
Capitano. – girandosi e allontanandosi tutto tremolante, ma
per poco non ruzzolò sentendosi afferrare il braccio.
- Aspetta. Accompagnami. – mormorò Edward
controvoglia, passandosi una mano sulla faccia.
Non c’erano molti altri in giro a quell’ora,
incontrò solamente Ismael ed Olly che lo accompagnarono
farfugliando tutto il tempo di maledizioni legate al trasporto di
femmine e alla necessità di togliere di mezzo tutte quante.
Li lasciò blaterare camminando nervosamente davanti a loro,
rimuginando sulle soluzioni per zittire quella diceria prima che
prendesse campo tra gli altri.
Appena giunto sull’uscio delle celle notò subito
una maggiore irrequietezza nelle prigioniere che avevano alzato il tono
della voce, dando l’impressione di confabulare. Si
avvicinò battendo le nocche sulle traverse metalliche: -
Hey! Non sta bene sparlare di una persona in sua presenza –
le motteggiò fingendosi offeso. Le donne si spostarono
impaurite permettendogli di scorgere chi fosse tra di loro a star male.
Immergersi di nuovo in quel viso, che nonostante il pallore emanava un
bagliore dotato di uno sconosciuto potere avvincente, lo
destabilizzò.
- Ah! Ci avrei scommesso le palle che doveva trattarsi di quella
piantagrane! – mugugnò voltandole le spalle, roso
da una contraddittoria volontà di lasciarla lì o
condannarsi di nuovo a respirarla.
I compagni pazientavano il suo strano indugio, non riuscendo a scorgere
una decisione nei suoi occhi impenetrabili benché sbarrati.
- È da una settimana che si rifiuta di mangiare e bere
– lo informò Olly – Non sono riuscito a
convincerla in alcun modo! Gran bella testarda!
Edward sbuffò stizzito, poi si pronunciò
seccamente: - Portatela nella mia cabina.
Si sentì adagiare su qualcosa di non molto soffice ma
comunque comodo, e stese le gambe, sgranchendo le articolazioni
intorpidite mentre dei polpastrelli callosi le tastavano i polsi e la
carotide. Brividi di freddo la fecero sussultare quando sulla fronte
percepì qualcosa imbevuto d’acqua e si
rannicchiò su un fianco, rilassandosi per il tepore che
subito dopo la ricoprì.
- Mandalo giù. Ti riscalderà e
disinfetterà.
Una mano le sollevò la nuca ed obbedì alla
leggera pressione sulle labbra schiudendole e ingurgitando quel liquido
che immediatamente le incendiò la gola e le viscere,
riscuotendola di colpo: - Che veleno mi hai dato, farabutto!
Udirla parlare nella sua stessa lingua, seppure con un accento estraneo
e incerto, lo sorprese e rassicurò, ma cercò di
non mostrarlo: - Ci sono mille modi per suicidarsi, molto
più immediati del digiuno … o del rum. Lo bevo da
anni, credimi. – ridacchiò il giovane
avventuriero, alzandosi dalla brandina e continuando a scolarsi la
bottiglia.
La ragazza si guardò attorno non ricordando cosa le fosse
successo. Aveva la pelle accaldata ma rabbrividiva.
- Mangia – le ordinò Teague lanciandole una
saccoccia di biscotti secchi.
L’indiana portò le ginocchia al petto stringendosi
nella coperta sdrucita e piantando gli occhi nei suoi, abbozzando un
sorriso di timida gratitudine.
- Perché l’hai fatto? – la
fulminò lui, più avvilito che incuriosito,
risedendosi sul bordo del lettino per convincerla a nutrirsi e per
poterla osservare meglio. Le porse una galletta, speranzoso di vederla
riprendersi.
La mora abbassò il mento e il suo accento si
colorì di un tenace orgoglio: - Non voglio essere la schiava
di nessuno. – si inumidì le labbra rialzando lo
sguardo – Liberami, ti prego! Avete già preso
tutto ciò che di valore avevamo, non vi basta? –
lo supplicò sfiorandogli la sottile cicatrice sul collo.
Edward posò le iridi sulla sua piccola mano che continuava a
vellicarlo, innocente e pericolosa, sui languidi occhi a mandorla,
incantevoli e misteriosi, sui suoi capelli di seta, sul suo ventre
piatto e ornato da un vezzoso brillantino nell’ombelico: - Un
pirata non conosce limiti. Ambisce sempre a spingersi oltre –
bisbigliò meno disinvolto di quanto volesse, mentre
incontrollabilmente aveva iniziato a toccarle i fianchi scendendo verso
le cosce, bramando un contatto più diretto e proibito.
Lei non opponeva alcuna resistenza ma tremava e la prospettiva di
approfittarsi della sua evidente debolezza lo disgustò. Si
rialzò come scottato da olio bollente: - Mangia. Ti concedo
di restare qui fino a domani. Dopo di che tornerai con le tue compagne.
Qui non esistono favoritismi.
La giovane aggrottò le nere sopracciglia: - Dove ci state
portando? – polemizzò fiaccamente, attanagliata da
uno sbigottimento che lottava ad armi pari con l’agitazione.
Edward si ravviò la bandana: - Mettiamola così:
ammirerete posti che non avreste avuto occasione di ammirare se foste
giunte alla destinazione cui eravate destinate – la lingua
gli si arrotò veloce tradendo il trasporto che intendeva
rinnegare; oramai si era esposto.
La giovane donna si rattristò: - Fingete cortesia e invece
ci trattate peggio di bestie! So chi sei e quali cose orribili hai compiuto! – gli rivelò, mortificata
dall’effimera e sconclusionata illusione in cui si era
cullata per sfatare quella consapevolezza.
Lo spettro del rimorso corruscò il cipiglio fermo e
flemmatico di Teague: - Benvenuta nel mio mondo.
L’indomani una pallida alba salutò
l’ancoraggio della Dama di Nebbia nella verde baia di Malabar.
La ciurma si affaccendò eccitata a scendere a riva,
pregustando i divertimenti con cui scialacquare tutti i guadagni
accumulati in quelle settimane di scorrerie nelle prospere acque che
bagnavano quella miriade di isolotti e penisole. Non appena le
scialuppe furono calate sul pelo delle placide onde a bordo
piombò un silenzio tombale, screziato solamente dagli
scricchiolii delle giunture dei paranchi e dagli spifferi che
fischiavano tra le velature ammainate.
Edward si soffermò a contemplare qualche minuto
l’alzarsi del sole dal grigio orizzonte, rimandando
un’incombente decisione dalla quale intuiva che sarebbe
dipeso il suo futuro da Capitano. Controllò che le
imbracature dell’unica barca rimasta agganciata alla fiancata
fossero sufficientemente sbrogliate, quindi rincasò nella
sua cabina.
Ma non la trovò stesa nella branda su cui l’aveva
lasciata la sera precedente. Era ritta in mezzo alla stanza ed
esaminava le innumerevoli cianfrusaglie sparse o appese alle travi del
tetto.
- Perché sono ancora qui? Perché non mi hai
venduta assieme alle altre? – lo interrogò senza
voltarsi.
Sembrava essersi rimessa completamente; notò che aveva
consumato anche la porzione di minestra e la sua andatura non vacillava
più. Presumibilmente aveva ingigantito il suo malessere
perché voleva affrontarlo di nuovo. Per quanto illogico era
possibile.
Le si avvicinò cautamente, sussurrandole sulla scapola che
sporgeva dal corpetto traforato: - Il codice prevede che il bottino di
ogni battaglia venga distribuito equamente. E che ogni uomo abbia la
facoltà di disporne come e quando vuole.
La straniera, sentendosi solleticare dalla sua
vicinanza, sfuggì lesta. Il bucaniere la raggiunse e le scagliò
un’occhiata in tralice: - Accomodati.
Non era un vero invito, piuttosto una spazientita imposizione.
Ricomponendone il senso, la prigioniera non vi si piegò: -
Non sarò la tua scimmia ammaestrata!
Era uno scricciolo eppure
sprizzava una vitalità eccezionale, abbagliante. Proprio per
questo tenerla con sé l’avrebbe spenta di
dispiacere.
– Odio le scimmie! – sbottò Edward,
distogliendo il nascente rammarico per quanto stava per accordarle.
Un’ultima domanda lo assillava. – Come conosci la
mia lingua? – le chiese addolcendo il tono, e,
sperò, lo sguardo.
La ragazza sbatté le palpebre diverse volte, disorientata
dal non comprendere le sue intenzioni e affascinata dal suo astruso
interessamento. Volle essere sincera: - La mia istitutrice la parlava.
- Sei una specie di aristocratica? – si stravolse il Capitano
squadrandola in maniera più insistente. Il portamento
indubbiamente era tale; poi ripescò dalla giubba
l’arma con cui l’aveva minacciato e le si
appressò con un sogghigno arrogante – O forse una
sicaria? – la accusò oscillando il pugnale sulla
sua scollatura.
- Quello era un dono di nozze – mentì la ladra,
arretrando e scontrandosi con una seggiola, sentendo risorgere le
palpitazioni nell’imbattersi nel piglio intimidatorio presente sul volto cupo del ragazzo.
- Immagino. Glielo avresti infilato nello stomaco o magari
l’avresti castrato. – giudicò schietto e
sprezzante – Accidenti, quell’uomo mi è
debitore … Oh, già … L’ho
ammazzato – rifletté ad alta voce, lisciandosi le
guance punteggiate da un’irsuta peluria.
La bruna si era accasciata sulla sedia e lo squadrava a metà
tra la preoccupata e l’invaghita: quel ragazzo aveva degli
slanci assolutamente assurdi. Non era del tutto sano di mente,
probabilmente, e per quanto ciò lo rendesse più
affine di chiunque altro avesse conosciuto, era consapevole che non si
sarebbero mai appartenuti. Era un vascello in tempesta. E lei voleva un
ormeggio sicuro.
Teague, intercettata la sua espressione frastornata, andò a
sedersi dall’altro lato del tavolo, ripiegando alcune mappe e
riponendole nei cassetti: - Ad ogni modo, come ti chiami, carina?
– tagliò corto mimando un sorriso sfacciato per
ridurre l’imbarazzo.
Ora la trattava come fossero due amici e stessero giocando.
Intenzionalmente o no, la confondeva e le pareva di trovarsi in una
boccia di vetro, in una finzione.
– Diamine! Puoi anche inventartelo un nome! – si risentì lui, aggrottandosi per l’ineffabile intrigo che gli infondeva quella conturbante sconosciuta.
La replica della mora fu
improvvisamente furibonda: - Tu non potrai legarmi! Non potrai!
Il pirata riservò un’incisiva osservazione alla
porta lasciata aperta, accavallò i piedi sul tavolo e
incrociò le braccia dietro la testa, piantando gli occhi al
soffitto: - Non ne ho alcuna intenzione … –
confessò pigramente, aspettandosi di vederla volare via, con
il desiderio di libertà di un passerotto guarito.
L’affascinante estranea esitò, sentendo
formicolare sempre più le vene al richiamo della fuga.
Le stava suggerendo di scappare e che non l’avrebbe
ostacolata. Che non le importava di lei, in conclusione.
Il motivo di quella scelta non l’avrebbe indagato, però la
accolse con sollievo. E un pizzico di rimpianto. Anche lui era
un’anima errante, che agognava la pace ma ancora non era
pronto a ghermirla.
Lo aveva capito e le stava dando una possibilità.
Imbracciò i remi, precipitò sulle onde e
iniziò a vogare. Osò credere che un giorno,
forse, si sarebbero ritrovati. E lo avrebbe ringraziato.
Edward si appollaiò alla boma di trinchetto, sporgendosi sull’azzurro paesaggio marino. E, vedendola svanire dentro una barcaccia, si costrinse a dimenticarla.
Anche se gli era rimasto addosso un po’ del suo sensuale
profumo di pioggia primaverile.
Ruth ed Edward
Teague (alias Freida Pinto e Keith Richards).
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Capitolo 2 *** II – CRAZY SEAGULLS ***
Buona
sera, ciurma!
Torno
dopo molte maree e con un carico di scuse, a proporvi il secondo capitolo di questa breve long
avente per protagonisti i genitori del nostro stimatissimo Capitan
Sparrow.
Ho
ancora una volta immaginato le vicende aggrappandomi a quell'unica
scena che li vede insieme (^^), e al carattere del Capitano, cercando
di separare le doti apprese dal papà e quelle ereditate
dalla misteriosa mamma.
Inutile
dirvi che ho dovuto scavare e spolverare sotto spessi strati di rughe
per immaginarmi un Capitan Teague ventenne e nel frattempo, dovendo
cercare di capire che faccia e aspetto potesse avere, ho accuratamente
vagliato clip e foto del suo interprete, per chi non lo sapesse Mr
Keith Richards dei mitici Rolling Stones, cui lo stesso Depp ha dichiarato
più volte di essersi esplicitamente ispirato per costruire
il personaggio di Jack.
Sarà
anche per questo che io nel frattempo me ne sono perdutamente
innamorata? <3
Comunque
sia, come al solito commenti, critiche, proiettili, bottiglie sono
sempre ben accetti.
Ringrazio
infinitamente chi ha già letto il capitolo precedente e chi
ha dato fiducia a questa storia mettendola tra le seguite, preferite o
ricordate.
Il
capitolo è pienamente ARANCIO (o almeno credo) per
linguaggio e temi. Spero di non deludere le vostre aspettative.
Al
prossimo approdo!)
ps:
ci sono alcune citazioni stonesiane per chi leggendo lo sospettasse...
II – CRAZY SEAGULLS
Serrate e asciutte. Così le labbra, così le
palpebre.
Non perché non avesse motivo di urlare o piangere. Era uno
sfogo cui non voleva più cedere, tanto ormai sapeva che non
avrebbe smosso la sua compassione. Uno scarto come lei non la meritava,
piuttosto si sarebbe guadagnata gratuitamente altri insulti. Alcuni non
li capiva neanche, li riconosceva dall’ansito sgraziato con
cui gli vibravano in gola in quegli orribili momenti di buio.
La sua indole da rondine infine era stata tarpata, e per lei, catturata
e ingabbiata, era iniziata una lenta agonia. Aveva lottato, si era
ribellata, aveva morso e picchiato, vedendosi ritorcere ogni azione con
gli interessi.
Rinchiusa lì dentro aveva visto spegnersi almeno nove
tramonti. Il suo fragile corpo reclamava fosse da troppo.
Sperava che con quella resistenza passiva lo avrebbe sfinito, anche se
quella convinzione stava perdendo consistenza, come la rugiada non
protetta dall’ombra.
Avrebbe dovuto rimanere con i piedi ben saldi sulla terra, suo padre
l’aveva ammonita in un’infinità di
occasioni sull’assurdità dei suoi sogni:
viaggiare, vivere alla giornata, conoscere gente al di fuori della sua
cerchia. Era sempre stata impulsiva e cocciuta, ma anche vulnerabile e
debole. Infatti non aveva mai avuto l’intraprendenza di
abbandonare davvero la sua bella casa per più di qualche
ora: era sgattaiolata alcuni pomeriggi dalla sorveglianza della
servitù e delle sorellastre maggiori per poi reintrufolarsi
prima che fosse troppo tardi e i suoi fossero troppo in ansia. Aveva
visto poco o nulla in quelle brevi fughe, giusto il tempo di
provare l’ebbrezza di affrontare da sola quel che
c’era al di là della sua quieta e perfetta
esistenza da privilegiata.
Ma il mondo era molto più grande e pericoloso di qualche
stradina di periferia e lei era stata punita per la sua avventatezza.
Aveva scioccamente scambiato l’apprensiva saggezza del suo
genitore per arida autorità, e nonostante tutto gli aveva
disobbedito ancora, dopo che le era stato portato via.
Perché voleva misurarsi e forse dimostrargli che poteva
essere diversa da tutti loro.
Aveva vagato per mesi imbarcandosi clandestinamente su chiatte e
feluche che pullulavano i mari d’Oriente, ma ogni qual volta
provava a fermarsi troppo a lungo in un porto un incomprensibile
malessere l’attanagliava. Ora era stremata, priva di
volontà; e questo la stava uccidendo più della
prigionia e degli abusi che era costretta a subire quasi
quotidianamente.
Anche all'esterno la natura stava infuriando.
Il suo carceriere si legò la fusciacca, candida come i
calzoni, e riaffibbiò i bottoni dell’elegante
giacca blu con le mostrine. Si assicurò che i bracciali
fossero ben stretti, quindi le lanciò in fretta un
ripugnante saluto che equivaleva ad un’ennesima promessa di
male: - A domani, passerotta.
Se non altro si era trattenuto meno, soltanto perché
l’infimo senso del dovere, o forse il timore di essere
accusato per la sua assenza, l’avevano indotto a rinunciare.
Lo avvertì immettere quelle due maledette mandate e allora,
dolorante e nauseata, si alzò dal pavimento per
raggomitolarsi sulla misera brandina sfasciata. E mentre
nell’aria rombava l’eco di un temporale, la ragazza
liberò i singhiozzi che le gonfiavano il cuore.
La pioggia batteva sulle pareti confortandola con il suo suono
argentino.
Era insensato, ma le sembrò la premonizione che qualcosa
stesse per cambiare.
Alla fine aveva ceduto. Quella cagna assatanata gli aveva sbavato
dietro dal primo istante in cui l’aveva incrociato, anche se
lui si era addentrato in quel postribolo per altri affari.
Quale impressione gli avesse fatto, poi, non lo capiva affatto. Era
l’intoccabile moglie del proprietario, lui era uno spiantato
che aveva ad occhio e croce la metà dei suoi anni, e
lì brulicava di marinai infoiati che si sarebbero giocati
fino all’ultimo dente d’oro pur di accattivarsi i
suoi favori.
Lo aveva stuzzicato tutte le volte in cui, esattamente come quella
sera, si recava lì per rivendere grosse partite di liquori,
tabacco e spezie che avevano razziato in settimane di piratesche
imprese. Era entrato per arricchirsi, non per sperperare, e avrebbe
dovuto trattenersi poco perché quel mare nero non prometteva
un viaggio privo di intoppi.
Invece si era crogiolato nella lussuria. Poteva dare la colpa alla
sbornia, alla stanchezza, alla solitudine, alla noia, o, senza voler
essere tanto disonesto, esclusivamente al crudo bisogno di appagare un
prurito che avrebbe dovuto tacere o colmare con la fantasia negli
interminabili mesi lontano da voluttuosi approdi.
Era finito nel suo letto e già non sopportava il suo sudicio
aroma di carne corrotta dal vizio impregnargli la pelle e i capelli.
Aveva un retrogusto pestifero e asfissiante, come la morte che
avvinceva e cancellava. Doveva uscire subito e riempirsi i polmoni di
salsedine per scacciare quella ributtante sensazione che gli affaticava
il respiro.
Edward saltò su con un impeto di repulsione, scostando dal
rorido addome le pallide braccia dell’amante clandestina,
gettandosi nella penombra del mattino a recuperare i vestiti sparsi sui
rozzi mobili. Un lamento soffocato lo costrinse a voltarsi per
accertarsi di non averla destata, ma, sfortunatamente, quando si
girò la donna era seduta tra le lenzuola spiegazzate e lo
fissava maliziosa invitandolo a restare ancora, torcendosi tra le dita
una ciocca biondo paglierino ed inarcandosi felina.
Dopo un attimo di indecisione il giovane le andò incontro,
passo ciondolante e un’espressione impassibile e losca che la
infiammò mentre si chinava su di lei e infilava la mano
nella giacca, poggiandole un pesante borsello tra le cosce.
La bionda sgranò gli occhi cerulei, corrugando i floridi
lineamenti e annaspando di indignazione.
- Spendili bene, almeno tu – le sussurrò il
giovane pirata, allontanandosi e portando tre dita alla fronte in un
galante saluto che stonava con la beffarda offesa appena elargita.
Un pungente vento di burrasca flagellava il molo galleggiante del porto
di Cork, rendendolo oltremodo instabile, ma Edward avanzò
imperturbabile assecondandone le oscillazioni, ritemprato
dall’aria salmastra che si infiltrava in ogni poro,
ripulendolo.
- Stavamo per salpare senza di te, rubacuori!
– lo schernì Ismael, indicandogli la scialuppa che
beccheggiava vistosamente tra i flutti verdastri. Teague
ruotò le orbite al cielo con un burbero mugugno, afferrando
la sua mano e prendendo posto sul sedile in fondo a poppa.
Tre ore più tardi la Dama di Nebbia aveva detto addio alle
scogliere frastagliate della verde Irlanda e solcava superba le
profonde e immense acque dell’Oceano Atlantico.
L’inverno era alle porte sicché apparivano
desolate e gelide in quella stagione. Pochissime navi vi si
avventuravano, così anche loro erano costretti a migrare
verso i mari del Sud per trovare qualche allettante carico da
arrembare, poiché nessuno osava mai pensare di arrestarsi. E
dopotutto non esisteva luogo sicuro in cui mollare le ancore per
più di una notte, esclusa la Baia dei Relitti, che
però era riservata ai filibustieri di alto lignaggio.
Occorrevano anni di esperienza e fama da vendere per potervi attraccare
senza correre il rischio di finire impallinati appena avvistati. E
inoltre solo ad un numero ristretto di bucanieri era dato conoscere la
sua reale ubicazione.
Edward Teague non riteneva di essere presuntuoso nel lasciarsi
lusingare dalla certezza che presto quel posto sarebbe divenuto la sua
seconda dimora, dopo il mare, ovviamente. Perché in fondo
tutti quanti iniziavano imitando i propri eroi, e lui aveva cominciato
in anticipo rispetto a chiunque altro.
Sua madre gli aveva donato una vera spada per il suo terzo compleanno,
e al settimo già gli aveva affidato il timone del suo
catamarano. Ora attendeva l’abbordaggio più
propizio per rivelarsi al mondo, perciò non poteva
permettersi di oziare, neanche con quel tempaccio ostile. Restava
vigile, corroso da una viscerale smania che si riversava nella
conquista imperterrita di nuovi orizzonti, immolando i momenti di
meritato riposo, e imponendo con durezza lo stesso comportamento alla
ciurma.
E poi venivano i giorni in cui semplicemente non aveva la minima
intenzione di parlare, tantomeno di vedere qualcuno, e allora si
eclissava a lungo nella sua cabina, oppure compariva sporadicamente,
più somigliante ad un fantasma prigioniero che ad un
orgoglioso Capitano.
Diventava taciturno e assente, al punto che gli altri si dimenticavano
quasi che voce avesse.
Taceva perché nessuno lo capiva. Rinnegato, ribelle senza
causa, insoddisfatto e frustrato da scelte che non sapeva
più se fossero state sue. Rimescolato da domande che teneva
per sé o trasformava in note, affidandole alla corrente.
Poco importava se non otteneva risposta, tormentare quelle sette corde
era uno dei rari diversivi che dissipava la sua inveterata inquietudine.
Abitualmente funzionava, ma quell’oggi una sorta di malevolo
incanto sembrava essersi abbattuto su quegli unici sprazzi di
serenità quotidiana che era solito concedersi, rimanendo
seduto a cavallo sul rostro di prua. Era già il terzo crine
che si spaccava escoriandogli le falangi intirizzite.
Malgrado il sole risplendesse nel meriggio azzurro e limpido, era
dicembre e l’atmosfera rimaneva terribilmente fredda
insinuandosi in ogni articolazione. Il fiato che espirò si
condensò all’istante in una nuvola bianca mentre
una sagoma meno evanescente prendeva forma sull’orlo delle
onde.
Buttò di lato la tracolla e lesto inforcò il
cannocchiale, individuando un vessillo nero sventolante in cima
all’antenna. Recava la nota sigla VOC1. Un sorriso allucinato
gli rigò le guance scavate e arrossate di brina. Un vascello
di quella categoria in mare aperto in quel periodo significava una
consegna urgente e speciale, possibilmente argento e gemme dalle
Americhe, a giudicare dalla presunta rotta di provenienza. Proprio la
fonte di opulenza che gli avrebbe permesso di ascendere
nell’Olimpo della pirateria.
Si inerpicò a bordo e, precipitandosi sul cassero di poppa,
diede un’energica scossa al torpore dominante: - È
ora di spiegare le vele e far risuonare i cannoni, cani pulciosi!
– strepitò con trascinante entusiasmo, sguainando
la spada in direzione della fregata olandese – Murate a
dritta e andiamo a fotterli!
Al carismatico ordine il ponte della Dama di Nebbia fu invaso da una
folla di manigoldi che si alternavano alle manovre e
all’artiglieria, terzarolando e brandeggiando i falconetti
per colpire l’appetibile obiettivo.
Edward nel frattempo era rientrato nel suo alloggio per riporre la
chitarra e, già che c’era, ingollò di
seguito qualche foglia di qat e una fiaschetta di grog che gli erano
capitati tra le mani, giusto per iniziare a scaldarsi e aggiungere
quella botta di incoscienza in più che non guastava.
Riguadagnato il timone, diresse il mistico all’abbordaggio,
abbandonando il comando ad Ismael quando la distanza tra i due vascelli
si ridusse tanto da permettere agli equipaggi di scambiarsi i
convenevoli di rito.
Il suo fervore si accrebbe dacché si accorse che stavano
superando l’ultimo veliero di un piccolo convoglio,
situazione che gli confermava l’inestimabile valore di quel
carico.
- Merda, Teague! Ma sono tre! – lo distolse il suo
luogotenente, lui stesso basito, raggiungendolo trafelato tra le
pallottole vaganti mentre si apprestava a catapultarsi sui nemici.
Il Capitano osservò una per una le imbarcazioni, un
luccichio di sfida nelle iridi fuligginose: - Sceglitene una! – masticò sbruffone, la cicca
accesa nella bocca, passandogli una bottiglia quasi vuota e lanciandosi
con un grappino sulle sartie del bastimento che navigava in mezzo agli
altri due.
Ismael sacramentò in arabo guardando la bottiglia: come
trovasse uno scampolo pure per bere e fumare nella frenetica
preparazione dell’arrembaggio, ancora non se ne capacitava.
La scolò e gli si lanciò dietro, atterrando sulla
drizza di un pennone. L’amico lo dovette agguantare per la
collottola perché non perdesse l’equilibrio e si
schiantasse di sotto.
- Se ti ammazzi, non intendo sostituirti! – lo
sgridò il turco strappandogli una mezza risata, di scherno
più che di riconoscenza, prima che entrambi si scagliassero
indomiti e scatenati nella baraonda di urla, sferragliamenti e colpi
di moschetto.
La disinvoltura e l’arguzia con cui combattevano intontivano
e sorprendevano gli avversari, ignari ed impreparati nel trovarsi al
cospetto di una ciurma di giovani scapestrati agli ordini di uno
spregiudicato brigante che pareva possedere il coraggio e la
sfrontatezza di chi avesse vissuto un milione di vite e non avesse il
minimo timore di soccombere, perché ogni respiro in
più era già un premio.
Capitan Teague controllò rapidamente che i tafferugli si
fossero placati e che i suoi fidati compagni avessero terminato il
lavoro sui navigli di scorta, rendendoli inoffensivi. Balzò
allora di nuovo davanti all’ufficiale con i glaciali occhi
grigiastri che aveva appena sconfitto, pungolandogli la spada sullo
sterno: - La nave è nostra, damerino. Qualche obiezione?
– gli intimò ammiccando con sarcastica esuberanza,
mentre altri provvedevano ad annodargli i polsi dietro la schiena.
Il soldato digrignava e si dimenava sbuffando come un toro: - Immonda
feccia! I vostri corpi marciranno appesi ad una corda, prima o poi!
– vomitò con marcato accento tedesco, verde di
livore.
Il giovane filibustiere lo fissò per qualche attimo pensoso,
quindi gli annuì gravemente, scrollando la testa: -
Preferisco pensare poi – affermò prosaico,
richiamando con uno schiocco Finn e Olly – Inchiodatelo
all’albero maestro. Non sia mai che il capitano debba crepare
lontano dalla sua nave – sostenne con tono falsamente
rispettoso, ciondolando le braccia e allontanandosi senza aggiungere
altro, sottintendendo che dovessero occuparsi loro di depredare quel
che c’era.
Raggiunto il castello di poppa, bighellonò tra i ricchi
arredi della sala ufficiali, rimestando tra cassettoni e credenze in
cerca di mappe, bottiglie o gingilli curiosi. Si era disinteressato di
quale carico vi fosse nella stiva, tanto quello sarebbe andato
disperso; gli pareva più interessante appropriarsi di
oggetti personali appartenuti alle vittime delle sue ruberie per
poterli sfoggiare e testimoniare quante leghe avesse attraversato e
quanti uomini diversi fosse riuscito a fregare.
Requisì un paio di carte nautiche di buona fattura e
intascò un astrolabio e un trombone, aggiungendolo alla sua
collezione di armi da fuoco ben in mostra nel cinturone a tracolla.
Varcata la stanza adiacente, riconobbe quello che doveva essere
l’alloggio privato di quell’allocco del Capitano:
una cuccetta spartana e pulita con neppure la minima impronta di
imperfezione. Odiava gli Olandesi, sempre così parsimoniosi
e puritani, si credevano i migliori sulla faccia della terra!
Per contrasto gli sovvenne il motivetto della loro canzone, e le corde
vocali cominciarono a vibrare intonandola.
Rapiamo e devastiamo,
non ci importa un fico secco!
Trinchiamo allegri, yo
oh!
Siam diavoli e pecore
nere, proprio uova marce,
brindiamo allegri, yo
oh! …
D’un tratto un cigolio e un debole gemito giunsero alle sue
orecchie. Percorse a ritroso le scricchiolanti assi, fischiettando di
nuovo quel ritornello, le pistole strette in pugno. Stavolta
udì di rimando dei colpetti e un rantolio sommesso che lo scosse
tutto. Quel bussare si intensificò e Teague
analizzò ogni metro della stanza, oramai convinto che ci
fosse qualcuno o qualcosa che richiedesse il suo aiuto.
Provò ancora a canticchiare senza parole, non sapeva se si
trattasse di un animale o di un moribondo. Un brivido premonitore che
non comprese guidava i suoi movimenti verso quei rumori ovattati.
Finalmente ne scoprì l’origine. Un pannello
mimetizzato da un brutto ritratto celava una porticina.
Senza pensarci ripose le armi nel cinto e infilò il pugnale
nella toppa, scassinando la serratura.
L’ambiente che lo accolse era angusto e umido, un minuscolo
lucernaio bastava però a rischiararlo a sufficienza da
consentire di vedere.
Ed Edward deglutì spine acuminate. Un fremito gli
risalì lungo la spina dorsale e si trasmise alle ginocchia,
mentre un’esile figura claudicava sotto il fascio di luce,
palesandosi.
Tremava, di freddo, di caldo, di paura e speranza, rivestita da un
consunto abito di stracci che col suo rosso stinto mascherava macchie
dello stesso colore, a differenza della carnagione terrea su cui erano
evidenti i segni della reclusione e della violenza. Non aveva
più alcun ninnolo nella cascata di onde scure che le
ricadevano fino ai gomiti, e la sua bocca tumefatta non poteva sgorgare
le stesse faville di arcobaleno che l’avevano abbagliato.
Gli sembrò che un arpione gli fosse penetrato nello stomaco
e glielo stesse dilaniando.
Era una rosa troppo bella ed era stata sradicata da un viscido fiume di
fango. L’aveva sognata un paio di volte dopo il loro breve incontro. Aveva presentito quella fine per lei, ma non
gliel’aveva evitata, e adesso si sentiva unto
dall’umana crudeltà da cui era stata travolta.
Aveva pregato le fosse concessa una seconda possibilità, mai
aveva vagheggiato che avrebbe avuto il suo volto sporco e cattivo e i
suoi occhi cerchiati di antracite. Eppure per una strana coincidenza
erano dinanzi a lei, intensi e stralunati, seri e distratti da mille
pensieri turbinosi, e stranamente la confortarono. L’aveva riconosciuta
e anche lei si ricordava di lui: ogni dettaglio di
quell’ombroso figuro le era rimasto impresso. Forse era solo
un po’ più alto e robusto e perciò le
sembrava in qualche modo più maturo. I capelli neri e
ispidi, che neppure la bandana sbiadita poteva tenere in
ordine, gli erano cresciuti ribelli sulle spalle, increspati dalla
salsedine e schiariti da tanti soli. Gli davano un aspetto ancora
più maledetto e sciroccato che avrebbe dovuto metterla in
guardia, invece di rasserenarla.
O forse lo credeva perché non voleva soffermarsi sulle sue labbra imbronciate e socchiuse
e sul suo sguardo inorridito, leggendovi delusione e pietà,
provando disprezzo per se stessa.
Aveva sprecato la libertà che lui le aveva accordato. Si
odiava. Si sentiva bruciata, indesiderata, fallita. Era inutile
fingersi forte, lui aveva capito ogni cosa.
Ansimando, reggendosi a stento sulle caviglie sottili incatenate da
grossi ceppi arrugginiti, la giovane indiana gli poggiò il
capo sul bavero, bagnandolo di tiepide lacrime che sapevano di dramma e
liberazione. Era trascorso appena un anno, ma era come se si fossero
incontrati in una vita precedente: la sua innocenza era ormai sepolta
sotto strati di ricordi.
Edward iniziò a tremare senza rendersene conto, come se in
quel pianto sommesso e spezzato stesse riversando su di sé
la sua indescrivibile sofferenza. Avrebbe voluto darle conforto ma
ignorava un qualsiasi gesto che lo suggerisse e per non sbagliare non
mosse un muscolo.
Con tutto quello che aveva visto e subito rifiutava di credere in
qualche Dio che vegliasse su di lui, era più probabile
stesse simpatico al Diavolo. Come ogni marinaio era superstizioso, il
mare era la sua unica fede, avaro e impietoso. Se porgeva un dono lo si
doveva accettare al volo, andava assecondato. Era la seconda volta che
gliela sbatteva addosso. Ora non sapeva neanche lui distinguere quale
errore gli sarebbe costato di più, permetterle di fuggire e
perdersi, oppure riprendersela e smarrire se stesso.
Si irrigidì percependo le sue mani brancolargli sul petto, e
ancor più avvertendo lo scatto del caricatore che la ragazza
con celerità si piantò alla tempia.
Il bucaniere riagguantò l’arma approfittando della
sua terrificata esitazione e tranciò con un colpo di
sciabola le sue catene, spingendola sul lettino. C’era una
patina di lacerante mortificazione nelle sue iridi di liquirizia che
gli sobillò una tremenda vendetta.
Non comprendeva la ragione per cui volesse salvarla: andava fatto e
basta. Qualcuno aveva attorcigliato una sagola tra loro due che non
s’era sfilacciata né allentata.
- Non sei tu a dover pagare! – la rimproverò,
inasprito da una montante brama sanguinaria, uscendo di gran carriera
da lì.
Il baccano scemò nell’istante in cui lo videro
ricomparire, gli occhi di catrame fumante che suggellavano
inequivocabilmente il preciso intento di uccidere qualcuno.
I marinai si scansarono bisbigliando scongiuri, tutta la collera di
Teague convergeva però su un unico individuo designato a
subirla nella maniera più atroce.
Nell’approssimarsi a lui trascinò con
sé due della ciurma, tirandoli per le orecchie. I ragazzi si
scusarono confessando colpe delle quali non erano stati accusati e che
il Capitano non ascoltò neppure.
- Sollevatelo e allargategli le gambe – ordinò
loro spicciamente, rilasciandoli ai piedi del prigioniero –
Voglio vedere come sta messo a virilità – aggiunse
ghignando con espressione feroce e delirante.
I due titubarono, interrogandosi a vicenda sullo scopo di quella
controversa richiesta, anche se non avevano il fegato di contrastarlo e
finirono per ubbidirgli con soggezione.
Tentò invece di intromettersi Ismael: - Dannazione,
Capitano! Fermatevi, siete sbronzo! – lo assalì
strattonandolo e venendo respinto da un secco ceffone.
- Brutti pervertiti! Lasciatemi! – strillava intanto
l’ostaggio, con la fronte imperlata di orrore.
Edward si piegò all’altezza della sua patta,
valutandone la sporgenza attraverso i pantaloni avorio:
- Hmmm … Tutto qui? – commentò con
rabbiosa impertinenza.
Il suo vice lo riavvicinò, cincischiando imbarazzato: -
Eddy, torna in te. Guarda che non ti piace …
Quello si raddrizzò frizzandogli un’occhiataccia a
metà tra l’ovvio e l’indispettito,
suggerendogli che ciò che aveva intenzione di fare non
sarebbe piaciuto neanche a quello scarafaggio. Scelse la pistola
più grande e gliela premette sull’inguine bene
esposto, fissando ad una spanna la sgomentata reazione che rattrappiva
i lineamenti squadrati dell’uomo, ora che aveva intuito come
si sarebbe concluso quel sadico gioco: - Te le regalo io due palle
… – gli fiatò con caustica ironia, schiacciando il grilletto
– … Di piombo.
I sensi confusi e anchilosati, come al risveglio da un incubo, afflitta
dal permanente dubbio di aver sognato o piuttosto ricordato.
Quell’acuto vagito straziato l’aveva riscossa con
la strana sensazione di sollievo e soddisfazione. Non provava nessuna
pietà e nessun senso di colpa, e non le pareva sbagliato.
Avanzò sulle punte dei piedi scalzi affacciandosi abbacinata
dai raggi, e con lo sguardo titubante si aggrappò
impulsivamente a lui.
Il suo salvatore, acclamato da tutti, gironzolava con la stessa
leggerezza di chi stesse passeggiando su un campo di grano,
anziché tra feriti agonizzanti e frantumi di vario tipo.
Declinando i colpi d'occhio degli altri uomini, scese in fretta le
scalette, svolazzò verso di lui e gli si attaccò
fermamente alla coda della giacca, nascondendo il volto solcato di
dolore sulla sua schiena, cercandone di nuovo quell’inquieto
tepore che le trasmetteva protezione.
Teague non si bloccò, né la guardò,
continuando a percorrere la passerella: - Possiamo sbaraccare.
La terra arsa poteva conciliarsi con l’intemperanza del mare?
In fondo non era stato difficile né ignobile salvare una
donzella, il problema semmai sarebbe stato conviverci. Disconosceva la
maniera di comportarsi con un’ospite del genere, anche
perché non gli era per niente indifferente. Era cresciuto
solitario ed egoista, arido e scostante. L’unica gretta
consolazione era sapere di non poter rivelarsi peggiore del lurido
verme da cui l’aveva liberata.
Si era prefissò che l’avrebbe tenuta con sé solo
il tempo di svernare nell’altro emisfero, per poi trovarle
una sistemazione più adeguata. La traversata sarebbe stata
parecchio lunga e lei nel frattempo si sarebbe rimessa in sesto.
- La stiva trabocca così tanto che peschiamo il doppio!
– affermò il grugno esaltato del suo primo
ufficiale scomponendo le sue riflessioni.
- Ottimo – approvò distrattamente, grattandosi
sotto il naso, deviando lo sguardo sul ponte che stava sgombrandosi dal
marasma di casse e barili.
Evitò appena di inciampare nello sgambetto che Ismael gli
oppose, ammiccando tagliente alla sua cabina: - Cosa intendi farne di
quella lì? – lo interrogò impedendo che
si defilasse senza fornirgli qualche lecito chiarimento su quella
scriteriata decisione.
Edward sostenne sfuggevolmente le sue iridi scure, stringendosi il
fasciacollo con meticolosa indifferenza: - Non ci intralcerà
il lavoro, se è ciò che pensi.
Il turco gli scoccò un sorriso maligno: - Erro o
è la troietta che ti era scappata un anno fa?
Il compare sollevò il mento serrando la mascella fino a
scrocchiarla: - Erri.
Non è una troietta, ma la vittima della mia vigliaccheria
– sentenziò brusco, sfilandogli davanti
– Resterà nei miei alloggi e voi fingerete che non
ci sia. Ti è limpido? – lo rimbrottò
sfiorando la tracolla carica di armi.
In quell’istante un vociare indistinto gettò
scompiglio tra i marinai. Teague ignorò la frecciatina
dell’arabo che lo guardava di traverso con un sorrisino
accusatorio, e istintivamente pensò
all’irragionevolezza della sua buona azione. Erano pirati,
non eroi.
Brontolò sottovoce osservandoli dall’alto che si
calunniavano a vicenda, spintonandosi e insultandosi.
Era consapevole che se l’ozio forzato fosse stato contaminato
dal malcontento ne sarebbe derivata una miscela esplosiva.
Sguainò la pistola e fece partire un colpo su di loro: -
Hey! Hey! Di grazia, vi dispiace informare anche me? – li
sollecitò saltando giù dalla balconata.
Un mulatto che gli altri degnarono appena di considerazione si
ritrovò un buco alla milza e barcollò fuori
bordo, nel frattempo un ometto dalla spelacchiata peluria castana gli si parò davanti con in mano un mestolo: - Non
c’è più acqua in cambusa. –
sbottò incrociando le braccia.
- Lo so … – ammise il Capitano con un sospiro
accompagnato da una smorfia colpevole.
Il marinaio lo scrutò insospettito: - Ah … La
zuppa di tartaruga come la cucino?
Era il più anziano tra loro, e talvolta provava a
comportarsi da padre; in quella circostanza già di per
sé complicata era la mossa meno opportuna: - Cribbio,
Ronnie! Sei tu il cuoco: inventati qualcosa! – lo
criticò allontanandosi speditamente per troncare
quell’argomento, scomodo oltremisura.
- Se dovessi avere un’altra di queste felici idee, ti prego
di consultarmi! Io non vengo a dirti come navigare – gli
sbruffò dietro quello, agitando il grosso cucchiaio di legno.
Edward trascurò la sua pretenziosa minaccia, conscio
dell’innocuità di quell’uomo, pur
prestando attenzione a che la sua maldicenza non influenzasse gli altri
suscettibili bucanieri.
Proseguì fino al parapetto di tribordo sporgendosi per
metà della sua altezza per dare un’ultima
sbirciata al carcame dei velieri olandesi.
- No! Non ci
sarà d’intralcio –
infierì il suo primo ufficiale comparendogli a fianco, tanto
per corroborare i suoi dubbi. Il più temibile era proprio
lui: insistente e succiasangue come una zanzara!
E sembrava più ostinato del solito: - Se la situazione non
ti sconfinfera, puoi anche andartene a …
- Nah! Sono troppo curioso di vedere come ti barcamenerai! –
lo interruppe rifilandogli una derisoria pacca
sull’avambraccio sinistro, quello in cui si era oltretutto
beccato una pallottola di striscio.
Teague si mordicchiò il labbro inferiore e gli
drizzò contro l’indice, soffocando a malapena la
tentazione di strozzarlo o scaraventarlo: - Sei una carogna.
L’ex schiavo incassò con un sogghigno impenitente
per poi recuperare un briciolo di ritegno:- Se potrà rimanere, andrà messo ai voti. E comunque è risaputo che donne e navi non vanno d’accordo …
Stavolta fu il ragazzo più grande a concedersi una risata
dissacratoria: - Azzardati a proferire un apprezzamento del genere a
mia madre, e come minimo di ritrovi qualche dente rotto o un coltello
nella pancia – glissò voltandogli le terga e
risalendo sulla tuga.
- Muoio dalla voglia di conoscerla! Quanto ti deciderai a
presentarmela? – replicò sardonico il saraceno
accettando una bottiglia di alcol da un altro bucaniere.
Edward lasciò volutamente in sospeso una risposta che pesava
soprattutto a lui. Se la figurava, se avesse saputo in che guaio si era
cacciato, lo avrebbe definitivamente diseredato.
Non che avessero un rapporto idilliaco, tutt’altro.
Erano anni che non aveva notizie sul suo conto, eccetto quelle
racimolate per caso in qualche taverna in cui si magnificavano, con
incredulità e riverenza, le sue imprese per i sette mari.
L’aveva abbandonata alla sua sfolgorante carriera di nobile
piratessa dell’Atlantico proprio per non essere un eterno
secondo. E si impegnava da anni per riuscire. Niente e nessuno lo
avrebbe ostacolato.
Non esisteva cabina più invalicabile della sua sulla Dama di
Nebbia, ed era lì che l’aveva condotta.
Era struccata e provata, deturpata da lividi e sfregi, nondimeno la sua
bellezza incattivita restava tale da squarciare il cuore.
Edward inclinò lateralmente la testa facendosi ricadere i
capelli sulla fronte: il solo ammirarla fomentava pensieri
inappropriati, almeno in quel momento. Abbassarsi al livello di quel
porco che l’aveva segregata ed oltraggiata, non era un gran
vanto.
Anche se tante volte aveva agito senza riflettere troppo sulle
conseguenze, sentiva la necessità di giustificare
quell’attrazione perché aveva qualcosa di insolito
e sfuggente.
- Pensavo avresti gradito – borbogliò
distogliendosi dal suo cipiglio compunto e incuriosito alla tinozza di
legno ricolma d’acqua, una stramberia per effeminati, che
aveva trafugato ma mai utilizzato.
La bruna fissò il liquido con un lievissimo turbamento,
inginocchiandosi e saggiandone la temperatura. Era una coccola cui
stentava a credere. Ed era una manna. L’ultimo bagno risaliva
a molte settimane prima, in un torrente. Era schifata dal suo stesso
olezzo muschiato.
- Non è riscaldata, ma è il massimo che posso
offrirti – soggiunse il giovane Capitano, cacciando le mani
in tasca, spremendosi per arricciare qualcosa di simile ad un sorriso
discolpante che si trasformò in un’espressione
smarrita quando l’esotica ospite, abbassando le ciglia,
incrociò le braccia sul seno e stracciò
l’unica bretella della veste sbrindellata, lasciando che le
scivolasse via dalla pelle incrostata di lerciume, spingendola via con i piedi e coprendosi
pudicamente le nudità mentre rapida si immergeva interamente.
La leggiadria e la dignità che trapelavano da ogni sua
movenza lo ubriacarono. Non aveva vergogna né paura di lui
ma neppure si ostentava, risultandogli ammaliante come poche.
Riportò le languenti pupille su di lui, ravviandosi la fluente chioma corvina dietro la nuca. Due fossette le comparvero
finalmente sulle guance, solcate da goccioline che le tersero dalle
lacrime e dalla polvere: - Mi chiamo Ruth. Mio padre era inglese
– pronunciò la sua voce flautata.
- … Edward … - farfugliò lui
arretrando confuso intanto che lei si appoggiava al bordo della vasca,
adescante come una sirena: - Poi torni, vero?
Una spaurita
implorazione con cui lo riagganciò ai suoi lucidi occhi a
mandorla.
Ragionare stava diventando incandescente, la gola gli si
seccò come se una corda lo stesse strozzando: - Appena starai meglio – se ne uscì protettivo,
non avendo la più pallida idea del perché gli
desse tutto quell’affidamento. Si scontrò con la
maniglia e, chiudendosi la porta alle spalle, oltrepassò di
corsa la sala nautica, imbracciando la chitarra e sistemandosi fuori
sul ballatoio.
La confusione e gli schiamazzi della ciurma si diradarono in un brusio,
e le corde si mossero al ritmo di una struggente nenia che pareva
sopraggiungere da un'altra dimensione.
In tre lune non aveva appreso molto oltre al suo nome. Scarne
confessioni e sfuggevoli sorrisi erano affiorati da quel viso esotico
di cui aveva assimilato ogni particolare. Si limitava a mangiare in
fretta e in silenzio, a chiedergli di rado e a raccontare ancora meno.
Non era rilevante in verità, perché lui per primo
era poco propenso alla loquacità e credeva più
nella luce dei fatti che nella nebbia che poteva sottendere i discorsi.
Quantunque azioni e parole con lei avevano entrambe una logica
imprevedibile e astrusa.
Traviante.
Come quella volta in cui, con uno slancio degno di una gazza, gli si
era avvicinata e gli aveva sottratto uno di quei sigari
d’erba che si era acceso in bocca, portandolo con erotica naturalezza
nella sua.
"Ci sono già
tante cose che possono ucciderci. Non permettiamo possa provarci il
passato", aveva cinguettato ammutolendolo.
Un ragionamento da pirata.
Gettandosi indietro aveva sparso spire di fumo imitandolo
finché non aveva tossito, scoppiando a ridere e scusandosi.
Edward l’aveva osservata divertito, chiedendosi se fosse
più sbadata o sbandata, indispettito dal desiderio sempre
più stringente di sprofondare ripetutamente tra i suoi stuzzicanti
fianchi. E se non fosse stato per il persistente torpore di quelle
fumate, non si sarebbe dileguato con un’arrendevolezza che
non gli si addiceva, rivolgendole solo una manciata di minuti
quotidiani per accertarsi delle sue condizioni.
Da qualche tempo si era ridotto a pensare di essere lui tra i due
quello in convalescenza.
Aveva fatto una promessa a se stesso e l’avrebbe mantenuta.
Era tempo di separarsi.
Per quanto la sua ritrosa presenza avesse lenito un poco la solitudine
della stagione più inclemente, e desiderasse conoscerla più intimamente, non avrebbe avuto altro tempo
da dedicarle. Oramai avevano oltrepassato le spiagge del Madagascar.
Acque brulicanti di prede e insidie stavano per infrangersi sul loro
scafo.
Era ora che la graziosa ospite sloggiasse, altrimenti avrebbero mandato
via lui e la prospettiva non era affatto allettante. Una maggioranza risicata aveva votato a favore della sua permanenza.
L’aria era torrida già all’approssimarsi
dell’aurora e decise di rientrare per tentare di trovare un
po’ di frescura. Aveva dormito dappertutto nelle ultime
settimane, tranne che nella sua branda. E non c’era migliore
pretesto per reclamarla.
Poi accadde che si fermò a scrutarla nel sonno, e quella
sicurezza si frantumò in schegge che si conficcarono su
tutta la carne. Avvertì il respiro liberarsi da quel tanfo
amarognolo e infetto e un piacevole calore liquido espandersi nelle
viscere.
Insieme alla primavera, cui avevano navigato incontro, anche lei era
rifiorita. Le sue forme si erano ammorbidite e svettavano capricciose
da sotto la larga casacca che si era scelta da un baule tra una delle
sue, come unico indumento. Il suo colorito era tornato uniforme e
nocciolato, le labbra piegate in un tranquillo sorriso somigliavano a
dolci e invitanti fragole che chiedevano solo di essere assaporate e morse.
Non l’aveva rapita, ma riscattata.
Era presuntuoso e inammissibile forse da credere, ma reputò
la sua completa guarigione la prova che intorno a lui non ci fosse
spazio solo per il male, che fosse capace di qualcosa di diverso dal
distruggere e rubare.
Ruth si rigirò scrollandosi di dosso il lenzuolo sudato e
dischiuse piano le palpebre mettendo a fuoco, nel flebile barlume
azzurrino, una sagoma dinoccolata e spigolosa divenuta familiare. Si
curvò su di lei, i pugni sulle ginocchia, così
vicino da investirla con il suo odore di sale e vento.
Accennò un sogghigno assonnato e i
nervi le si incendiarono come dopo un lungo letargo: - Sai, mi sono
ricordato che questa è la mia cabina.
La sua voce era un graffio sul velluto. Bassa, vibrante, lenta nello
scandire ogni suono. Le era piaciuta subito perdutamente, come il suo
naso dritto e appuntito, le pupille ardenti e baluginanti, le labbra
disegnate in giù, restie a mostrare i denti.
Si era svegliata con un incontrovertibile buonumore.
- Hai vegliato me tutta la notte? – bisbigliò
allungando le braccia contro il cuscino e arcuando la schiena per
sciogliere le membra.
Lui si raddrizzò sgranando gli occhi come faceva spesso per
cercare conferma: - Ti fa tanta specie che un uomo possa dormire nella
tua stessa stanza senza provarci?
Si pentì di quella battutaccia, per nulla indicata, visto
quello che la ragazza aveva subito. Ma lei continuò con
noncuranza le sue snodate contorsioni, sbirciandolo di sottecchi. Gli
aveva spiegato che quell’insieme di torsioni serviva a
mantenere rilassata la mente oltre che i muscoli. Edward
però ci vedeva altro, una provocazione sfacciata e
deliberata.
- Si pecca anche col pensiero … - ribatté
vagamente la bruna, ristendendo con grazia le gambe lisce e nude sul
lettino.
Si stava rivelando furba e tentatrice, e non gli dispiaceva. Tuttavia
gli avrebbe reso tutto tremendamente più difficile. Aveva le
vene in fiamme solo per il falso pudore con cui lo fissava.
- Almeno finora per questo non ci trascinano su una forca –
ridacchiò, mascherando l’imbarazzo con
l’insolenza e trovando sollievo nel bagnarsi la faccia con un
po’ d’acqua raccolta in un bacile posato su un
ripiano.
Ruth si alzò e lo affiancò con passo di piuma,
attingendo dallo stesso catino per rinfrescarsi la fronte e il collo
spiandolo, da lui ricambiata, perché l’eccezionale
splendore che vi aveva trovato non l’aveva scorto in nessun
forziere. Era qualcosa che sapeva di proibito, come le foglie
d’erba che si fumava in sua presenza. Forse ancora
più oppiacea.
- Non puoi più restare, ragazza.
L’aveva tacciata con un drastico refolo di risentimento, con
quel suo modo particolare di dondolare la testa, quasi fosse in ascolto
dello sciabordio delle onde. Un movimento che aveva l’effetto
di un rapimento e che, senza accorgersene, l’aveva lentamente
ingarbugliata a quel malvivente che non riusciva a disprezzare
dall’attimo in cui le aveva risparmiato la vita.
Gli era debitrice, per tanti motivi.
Era un assassino feroce, un ladro incallito, eppure con lui aveva
imparato ad accettare ogni cicatrice, a considerarla
un’impronta di forza, e a dimenticare per andare avanti.
C’era riuscita perché dopo tanto tempo si era
sentita benvoluta. Non la maltrattava e aveva rispettato il suo riserbo. Pur nella sua stravaganza, non l’aveva mai giudicata, trattenuta, né trattata con inferiorità. Era un carattere difficile ma sincero.
Lasciò che l’accusa le scivolasse addosso e si
incamminò verso la sala nautica, entrandovi da lui
tallonata. Anziché proseguire e scappare, come aveva fatto
spontaneamente la volta precedente, si soffermò a rimirare
la sua chitarra abbandonata su un tavolo, passando i polpastrelli sulle
corde che produssero uno stridio simile al frinire di grilli.
- Io avevo un sitar. Ero brava … Ti ho ascoltato suonarla,
di notte – rivelò con un’occhiata
furtiva – A cosa pensi in quei momenti? – gli
domandò con fare tanto neutro quanto insinuante.
Edward emise un sospiro smorzato. Doveva aver riconosciuto certe
melodie che gli aveva ispirato, mormorandole durante il dì,
quando stava da sola: - A nulla. Mi rilassa – si
affrettò a ribadire, togliendole di torno lo strumento musicale a cui tanto era attaccato e riponendolo nella custodia.
“Al contrario
della tua presenza”, sembrava suggerire il suo
infelice aggirarsi da falco in gabbia.
Rintracciò delle mappe arrotolate su un altro scrittoio e le
spianò sotto il lumicino di un candelabro con due moccoli: -
Allora, dove vuoi che ti sbarchi? – la sollecitò,
elencandole alcune opzioni.
Ruth era affascinata dalle sue dita che strisciavano senza meta su
incomprensibili simboli. Notò l’anello argentato
con l’effige di un teschio che gli adornava il medio della
mano destra, talismano scaramantico di un’ossessione che
pareva paventare meno di lei. Lo sfiorò, risalendo alle
nocche ossute e sbucciate e ne ebbe conferma dalla lama di ghiaccio che
uscì dallo sguardo del ragazzo, colpendola dritta alle
costole, accelerandole il respiro senza intaccare la sua ostinazione.
- Tu mi hai curata e accudita – guaì mantenendo
quel contatto che lui spezzò bruscamente.
- Non sono una bestia – si giustificò,
tracciando un cerchio con le braccia e puntandone uno al suo indirizzo
con un piglio duro – Ma non devi ringraziarmi. Non si
ringrazia la gente come me.
L’indiana lo osservò intenerita: - Ti sbagli. Non
ne esiste molta.
Le vide chiaramente, faville d’arcobaleno. Erano ricomparse.
Nella sua fede strabiliante non vi era ingenuità, quanto
fiducia e stima. Affetto.
Per uno come lui. Doveva aver vissuto una sciagura dietro
l’altra per pensarla in quel modo.
Era abituato a non chiedere né pretendere niente da nessuno,
poche cose avevano davvero valore, e aveva evitato di giocarsi
l’anima e la nave per quella che credeva una carnale
infatuazione.
Sua madre lo aveva avvertito sul fatto che le femmine fossero edere
velenose di cui bisognava diffidare sempre, ma quella discreta e
silenziosa creatura aveva immediatamente esercitato un ascendente
diverso su di lui.
Era un fiore di loto, meno espansivo e appariscente, e tuttavia capace
di radicarsi nelle profondità di un animo torbido quale il
suo e sopravvivere.
Affondò una mano nella zazzera arruffata, impigliandosi un
anello nell’orecchino che si era legato ad un ciuffo dietro
la tempia. Lo stesso che lei aveva perso nella sua cabina durante il
loro primo incontro, e che lui aveva conservato per una frivolezza di
cui si era dimenticato; sperò non se ne accorgesse: - Hai un
ampio ventaglio di scelte. Il mare non è posto per te
– la fulminò inflessibile, accostandosi alla
vetrata e contemplando meditativo le onde striate di indaco e viola.
Ruth gli si avvicinò con prudenza e sconforto: - Io non ho
niente e nessuno.
- Non sempre si può avere
ciò che si vuole – mugugnò amaro e beffardo Teague contro la manica della camicia.
La ragazza inspirò compiendo un altro passo. Era stanca di resistere e mentire. Era evidente che qualcosa danzava tra loro due. Quel perseverante distacco stritolava il respiro. L’avrebbe dovuta ridurre in pezzi per impedirle di restargli accanto. Aveva voglia di accarezzarlo per scoprire se fosse davvero tanto ruvido quanto appariva. Alzò una mano verso la sua spalla, prima tenendola chiusa, poi allungando le dita: - E tu cosa vuoi?
Il pirata si voltò con lentezza, scollandosi con dolente
riflessione da quella postura e lasciò vagare i penetranti
occhi anneriti oltre il suo viso prima di incunearli nei suoi,
increspando la bocca, indeciso, facendosi lambire le palpebre e socchiudendole.
Ruth gli sorrise cercando di toccargli la guancia mal rasata, ma lui con uno scatto le afferrò il polso: - Il Codice, ho omesso di dirtelo … prevede che la parte migliore del bottino debba spettare a chi in battaglia venga ferito, o resti mutilato … - sussurrò sul suo profilo, estorcendole un leggero tocco sul collo bagnatosi per la calura - … gravemente mutilato – sibilò rauco, trasportandole il palmo fino al torace che pulsava impazzito, stringendole con vigore le dita in corrispondenza del proprio cuore, restando a fissarla, bramoso e inerme.
Non appena il suo alito di mare agitato le solleticò le
labbra, Ruth le serrò impetuosamente con le sue.
Sentì il sangue evaporare e la testa diventare leggera e gli
allacciò il braccio libero attorno alle spalle, esplorandone
la muscolatura asciutta e tesa. Risalendo sulla nuca gli
acciuffò i capelli che il sudore gli appiccicava sulle
tempie e sulla mascella pungente, con cui graffiava deliziosamente la sua
pelle mentre le denudava e mordicchiava la clavicola, allentandole i lacci della camicia.
Era cauto e misurato nell’aderire al suo corpo, quasi
presentendo potesse svanire. Era sicura che fosse la paura di ferirla a
frenarlo. Gli rubò un altro bacio accalorato, per un attimo
le sue iridi si offuscarono e temette di nuovo un rifiuto. Strusciando la fronte contro la sua, riprese ad
abbracciarlo e tranquillizzarlo sulla sua volontà,
solcandogli gli zigomi con i polpastrelli, attirandolo a sé, boccheggiando in uno sconosciuto e dolcissimo idioma il suo cieco desiderio.
Era sensibile al gentil sesso, anche se non era un gran donnaiolo. In
certe situazioni era abituato a proiettarsi subito dritto alla meta,
senza troppe cerimonie. Non c’era molto altro cui badare e
tirarsi indietro ne sarebbe andato del suo onore. Ma in quella
circostanza sapeva che era tutto incomparabile. Poteva trattarsi di un
sofferto addio, oppure del nodo definitivo di un cappio di fuoco che
non si sarebbe spento nemmeno con la forza di mille maree future.
Perché a legarlo c’erano i suoi occhi di ambra
fusa e inchiostro che lo cercavano di continuo, la sua bocca dolce e
calda che accoglieva la sua lingua assetata, le mani piccole e audaci
che percorrevano il suo petto sciogliendo i nodi che lo intrappolavano,
i capelli di seta che scorrevano tra le dita ricoprendole la schiena
che si tendeva come una corda accompagnando ogni suo minimo gesto, e il
suo soffio melodioso, più orgasmico di musica nelle orecchie.
- Voglio appartenerti – asserì determinata e
sensuale, tirandogli la camicia fuori dai pantaloni, reggendosi alle
sue braccia per riuscire a salirgli addosso e circondargli i lombi con
le caviglie, ansiosa di provare la consistenza della sua malcelata
passione.
Edward le scoprì le cosce e stringendo la presa la spinse
contro il vetro: - Impossibile – protestò
imbizzarrito, mozzicandosi una guancia, rinnegando ciò che ogni
fibra del suo corpo urlava.
Anche lei se n’era accorta, e la malizia velata con cui abbassò lo sguardo, incagliandolo di nuovo nel suo e scendendo con le dita a toccarlo nel punto in cui i loro impulsi si erano fusi, lo fece irrimediabilmente avvampare.
Le sue labbra erano petali roventi.
Scivolarono sul pavimento.
Ormai erano due folli gabbiani che sfidavano la tempesta, inebriati dal
rischio, impazienti di trovare riparo l’uno
nell’altra.
Immagine
modificata dalla gallery di KejaBlank su Deviant Art.
1 VOC: è la
sigla della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (Vereenigde
Oostindische Compagnie).
* Il nome Ruth mi
è stato spifferato da una cara collega, nonché
parente prossima del Capitano...
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