La nascita della profezia

di Hoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno ***
Capitolo 2: *** Rimpianti ***



Capitolo 1
*** Ritorno ***


I due immensi  portali che s’alzavano davanti a Liutan si aprirono. Stortò il naso notando l’asincronia dei movimenti delle porte millenarie. Era strano come quel dettaglio lo colpisse persino di più del frastuono immane, generato dalla folla bramosa di sangue. Eppure allo stesso tempo non era strano affatto. Aveva passato la vita tra ipocriti e avvoltoi, vedere quella gente sbraitare era per lui come vedere la loro vera essenza. Sogghignando passò lo sguardo sulle gradinate, concedendosi del tempo per cercare tra loro visi familiari. Non ne riconobbe nessuno. Dalla sua incarcerazione erano passati due giorni... forse tre, non avrebbe saputo dirlo con certezza perché i raggi del sole non arrivavano fino a quel buco tenebroso e nessuno gli aveva portato di che cibarsi. La lama ben affilata di una lancia gli affondò nella schiena come la puntura di un insetto, facendolo sobbalzare. La guardia alle sue spalle rideva, chissà per cosa... Liutan voltò la testa per guardare l’uomo che lo stava portando alla forca ridendo. Con quell’elmo dalla visiera divisa in due grandi sfere riflettenti, somigliava decisamente ad un ape in effetti. L’uomo-ape lo pungolò di nuovo ridendo, ma il colpo fu più deciso e Liutan intese che non stava scherzando. Se non fosse avanzato lo avrebbe ucciso lì, sul posto, senza pensarci un istante. Incerto, tornò a guardare l’anfiteatro, facendo un passo avanti. Quel passo fu sufficiente solo a farlo uscire dall’oscurità eppure un boato più forte si alzò dalla folla. Il calore del sole gli entrò nella pelle, riscaldandolo come l’abbraccio di sua sorella Milia. Era morta due anni prima Milia, sconfitta dalla peste. Non gli avevano permesso di vederla. Dicevano che si sarebbe ammalato anche lui, ma sapeva che non sarebbe successo, sapeva che se si fossero incontrati lei avrebbe preso un po’ della sua forza e sarebbe guarita. Non gliel’avevano permesso e lei era morta. Adesso sarebbe morto anche lui e la casata della Stella rossa con loro, al pensiero un terribile ed insensato senso di colpa lo pervase. Mentre il corpo iniziava a tremargli, inspirò profondamente l’aria calda dell’arena e ricominciò ad avanzare. Questa volta senza fermarsi né esitare. Avrebbe reso quella della sua casata una fine impavida e onorevole, non poteva fare di più. Si fermò davanti al ceppo su cui l’avrebbero decapitato. Il legno era scuro, imbevuto del sangue di tutti gli uomini passati di lì prima di lui. Accanto a lui la guardia non rideva più, Liutan alzò gli occhi su di lui per allontanarli dal ceppo. Non era più la stessa guardia, era un altro, portava un elmo diverso, più anonimo, era più grande, muscoloso e brandiva una spada a due mani con un grande rubino incastonato nell’elsa argentea. Conosceva quella spada, era quella che suo padre aveva brandito fino all’ultimo respiro, vederla in mano a quell’uomo lo sconcertò profondamente. Sarebbe stato ucciso dalla spada di suo padre. La spada che sarebbe dovuta andare a lui.
«La spada della mia casata...»
La guardia, senza dire nulla, strinse le mani più forte attorno all’elsa, come per affermare che quella ormai era sua. Liutan strinse le labbra e girò il viso d’avanti a sé, su Ascianero il capo dei barbari che aveva trucidato la sua famiglia e bruciato la sua città. L’uomo alzò una mano e attorno calò il silenzio. Senza che potesse impedirlo, il corpo di Liutan iniziò a tremare violentemente, ma non pianse. Tutto ma non le lacrime.
«Ripeti.»
Ascianero aveva parlato, ogni sua parole era un ordine e lui doveva eseguirlo.
«La spada della mia casata»
Appena ebbe pronunciato quelle parole Liutan si sentì stupido e arrossì, distogliendo lo sguardo. Cos’avrebbero potuto fargli se non avesse risposto? La vergogna gli passò in un istante quando si rese conto che stava sembrando un debole. Rialzò lo sguardo di scatto su Ascianero. L’uomo lo terrorizzava. Era imponente, abbronzato, con una grande ascia bipenne chiusa nell’elsa sulla schiena. Ma a spaventarlo non era nulla di questo, era la maschera. Piume nere come quelle di un corvo gli coprivano i capelli e si agganciavano ad una sagoma spigolosa del viso, forgiata con metallo nero privo di luce. Occhi azzurri, che brillavano nell’oscurità di cui si era circondato erano l’unica cosa che si vedeva. La sua voce rimbombava nella maschera diventando più bassa, come il rombo di un tuono.
«Pronuncia le tue ultime parole o lascia che siano queste»
Il cuore di Liutan iniziò a battere più veloce mentre alla mente gli riaffioravano immagini incoerenti. La mano della guardia gli calò sulla spalla, spingendolo in ginocchi. Se fosse riuscito a correre abbastanza veloce sarebbe potuto uscire dall’arena, tra le strade della città. Non si sarebbe fermato. Avrebbe continuato a correre fino alle porte e anche oltre, giù dalla collina, fino al lago. Non ci andava da quando a sette anni era uscito da palazzo di straforo, per vederlo ghiacciato. Sua madre non voleva che si avvicinasse, ma lui ci teneva tanto e quando si era trovato lì davanti non aveva resistito ed aveva azzardato qualche passo. L’inverno era appena iniziato e non era ancora caduta la prima neve. Si era sentito forte in quel momento ed era avanzato ancora. Altri due passi soltanto ed il ghiaccio aveva ceduto e lui era stato inghiottito dall’acqua gelata. Adesso il suo corpo tremava come allora. Quel giorno era stato un bracconiere a salvarlo. L’aveva avvolto nella pelliccia di un orso e riportato a palazzo in spalla, senza fare troppa fatica, nonostante la distanza. Suo padre aveva graziato i suoi crimini, come segno di gratitudine. Se avesse avuto quella pelle d’orso sulle spalle, avrebbe di certo smesso di tremare. Si era sempre chiesto se quell’orso l’avesse ucciso lui.
«Uccidere una belva... è questo che fa un bracconiere»
Si disse sorridendo. Quel ricordo l’aveva portato lontano, tanto che la voce di Ascianero gli parve un sussurro lontano, come l’eco di una voce dispersa nelle segrete del castello. Vide la figura del barbaro muoversi, ma era un’ombra sfocata, lontana miglia. Una mano possente calò sulla sua spalla, spingendolo in ginocchio. L’impatto col terreno lo restituì al frastuono dell’arena e alla voce della guardia che tra le mani stritolava l’elsa che avrebbe dovuto brandire lui.
«Appoggia la testa al ceppo ragazzo»
Liutan passò gli occhi dall’elsa alla lama. Una grande quantità di sabbia aleggiava nell’aria, filtrando i raggi del sole del tardo pomeriggio. Eppure la spada riluceva, più brillante del sole, tanto che dovette scostare lo sguardo, per non accecarsi. Riportò lo sguardo su Ascianero, ma in realtà era tornato a guardare il castello avvicinarsi da sopra le spalle del bracconiere.
«Appoggia la testa al ceppo!»
La voce della guardia sovrastò il boato della folla, tanto che tutti lo sentirono, anche se nessuno accennò anche solo per un istante a tacere. Liutan non ci fece caso. Non poteva, era indietro quattro anni nel tempo, avvolto in una calda pelliccia marrone, sul sentiero per tornare a casa.
La guardia sospirò, falciando l’aria, mentre con movimento fluido portava la spada a lato, dietro al capo del condannato.
Liutan chiuse gli occhi, lasciandosi trasportare dall’andatura ondeggiante dell’immenso omone che lo stava riportando dalla sua famiglia.
Nel frastuono la spada calò, mentre le porte del castello si aprivano. La sua famiglia lo stava aspettando

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Capitolo 2
*** Rimpianti ***


Le pareti del castello erano di pietra, spesse e possenti. Anche se non abbastanza da filtrare il chiasso dei festeggiamenti. Sotto di lui le grida continuavano ormai da diverse ore. La testa gli pulsava e non serviva a nulla tenere le mani sulle orecchie o premersi il cuscino in faccia. Il frastuono superava ogni cosa e si abbatteva su di lui, incessante. Quando bussarono non andò ad aprire. Sapeva che chiunque fosse se ne sarebbe andato se lui non avesse risposto. Si sbagliava. La porta si aprì e Neigo entrò.
«Vestiti e scendi»
Neigo era possente, anche chi non l’aveva visto combattere lo temeva. Lui l’aveva visto combattere innumerevoli volte eppure non si mosse. Rimase sdraiato sul letto di piume immerso tra i cuscini.
«Gli uomini hanno bisogno di vederti tra loro, quindi metti quella fottuta maschera e scendi»
Ci fu un istante di perfetta immobilità. Lo stava ignorando totalmente. Nessuno poteva trattarlo così. Afferrò la maschera e gliela scagliò addosso. Era furibondo. Quello stupido ragazzo gli aveva mancato di rispetto una volta di troppo.
«ORA!»
Per un lungo momento il vociare del piano di sotto fu sovrastato dall’ansimare iracondo dell’uomo. Con un movimento rigido Ascianero si mise a sedere e gli puntò gli occhi addosso. In un istante, l’ira scomparve dal cuore di Neigo. Aveva esagerato.
«Falla finita...»
Il possente guerriero esitò. Era un ordine, ma quello non era un tono da ordine. Valeva la pena rischiare.
«È stata una grande vittoria. Devi essere tra loro a festeggiare»
Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla maschera. Non sembrava affatto convinto. Con un gesto svogliato la prese tra le mani e iniziò a lisciare le piume silenziosamente. In momenti come quello, Ascianero dimostrava pienamente di avere solo sedici anni.
«Abbiamo ammazzato un bambino... Non mi sembra una grande vittoria»
Neigo sospirò, portandosi le mani dietro la testa. Non sarebbe successo nulla di tutto ciò se li avessero semplicemente lasciati in pace. Loro erano nomadi, non volevano nulla e non chiedevano nulla e non obbedivano ad una legge che non fosse la loro. Questo però le genti delle fortezze lo capivano di rado. Questa volta avevano chiesto un pagamento e lo avevano fatto con le spade in mano. Quello che era successo dopo era stata colpa loro. Se l’erano cercata. Senza contare che a far cadere la Casata che dominava quel castello erano stati gli stessi che lo abitavano. Si erano rivoltati gli uni contro gli altri e alla fine la fortezza era caduta.
«È la legge. Nulla è più importante della sopravvivenza della nostra gente.»
Una risata di scherno soffocò nella gola del ragazzo.
«E quanto era pericoloso quel bimbo!»
Lo sarebbe potuto essere invece. Suo fratello maggiore e suo padre erano morti. Quel bambino sarebbe stato l’unico erede e avrebbe potuto delegare il ruolo a qualcun’altro. Sotto una sola guida i cavalieri e le guardie della fortezza li avrebbero sconfitti facilmente. Ora che tutti i possibili capi erano stati giustiziati, sarebbero potuti restare tranquillamente nella fortezza e godere delle sue scorte, fino al termine della siccità. Tutto questo Ascianero lo sapeva e Neigo non glielo avrebbe ripetuto. Quindi restò in silenzio.
«Mio padre diceva che un uomo in punto di morte può vedere come crepa il suo aguzzino»
L’uomo scrollò le spalle, senza capire dove volesse arrivare.
«Tuo padre ne diceva tante di stronzate...»
Il ragazzo scoppiò a ridere sonoramente. Era vero. Suo padre aveva sempre avuto un debole per le frasi auliche, anche se inventarle era una cosa che gli veniva malissimo. Improvvisamente la risata gli si strozzò in gola e nella stanza tornò a regnare il frastuono dei festeggiamenti. Ascianero gettò la maschera sul letto e si portò le mani alle tempie, nel tentativo di lenire il mal di testa.
«Il bambino ha detto una cosa tipo... Sarà il bracconiere a uccidere la bestia»
Neigo sospirò estenuato. Iniziava seriamente a rimpiangere di esserlo andato a chiamare.
«Sì bhé, avrà letto una favola o una cosa così... e allora?»
Il ragazzo alzò la testa di scatto.
«Sono io! Loro mi vedono così... una bestia. Sono io»
Neigo sospirò di nuovo e gli si sedette accanto. Suo padre gli aveva riempito la testa di stronzate, ma gli sarebbe passata. Ne era certo.
«Ehy pensaci... Io l’ho ucciso, sono io l’aguzzino. Starò lontano dai bracconieri, va bene?»
Il ragazzo si limitò a fere un leggero cenno di sì col capo. Non sembrava molto convinto, ma riprese la maschera e se la calò sul volto. Da lì dentro il chiasso era persino peggiore. Quando si alzò era tornato quello di sempre. Ascianero si diresse alla porta e uscendo la lasciò spalancata. Scesero le scale in silenzio. Quando varcarono l’ingresso della sala grande un boato li accolse. Erano loro due gli eroi quella sera. Neigo gli tirò una leggera gomitata.
«Toglimi una curiosità... Che è un bracconiere?»
«Un cacciatore di frodo»
La risposta del ragazzo era stata secca, concisa. Niente parole inutili o esitazioni, era così che un capo parlava. L’uomo non poté fare a meno di sorridere. Poteva comportarsi da ragazzino e frignare da solo nella sua stanza, sarebbe comunque rimasto il re della sua gente. Era scritto nel suo destino, impresso a fuoco in ogni aspetto del suo carattere. Poco importavano quelle stupide ciance sulle profezie innanzi a questo. A passo deciso, Neigo si diresse verso il posto d’onore che gli era stato lasciato. Un boccale strabordante di birra era già lì ad attenderlo. Non avrebbe aspettato ancora molto. L’afferrò restando in piedi, lasciandosi circondare dai compagni che avevano già iniziato a tessere le sue lodi. Menco, uno dei suoi più vecchi amici, si appropriò del posto accanto al suo, gettando a terra il malcapitato che l’occupava.
«Mi è dispiaciuto non esserci stato quando la testa è rotolata...»
Senza aspettare una risposta, l’omone propose a gran voce un brindisi in onore della vittoria. Neigo brindò con lui, svuotando in una sorsata l’intero calice. Non era il solo Menco a non aver potuto assistere, in effetti erano stati in molti a lasciare la città, col compito di procurare l’enorme quantità di selvaggina che avevano servito al banchetto di quella sera. Un’ondata d’alcol arrivò alla testa dell’uomo, costringendolo ad aggrapparsi al tavolo per frenare il giramento. Distrattamente Neigo guardò i compagni, che affollavano la sala, domandandosi quanti di loro avessero cacciato quella mattina. Senza essersi mai seduto, l’uomo voltò le spalle al tavolo e si avviò verso l’uscita. In fondo Ascianero aveva ragione, non c’era nulla da festeggiare quella sera.

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