Midnight star di Aurore (/viewuser.php?uid=144679)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Brick by boring brick ***
Capitolo 2: *** Talk ***
Capitolo 3: *** Unwritten ***
Capitolo 4: *** It's time ***
Capitolo 5: *** Breathless ***
Capitolo 6: *** Secrets ***
Capitolo 7: *** Kiss me ***
Capitolo 8: *** Storm ***
Capitolo 9: *** When will you see ***
Capitolo 10: *** Torn ***
Capitolo 11: *** Apocalypse please ***
Capitolo 12: *** The scientist ***
Capitolo 13: *** I won't let you go ***
Capitolo 14: *** Blinding ***
Capitolo 15: *** Shadow of the day ***
Capitolo 16: *** Point of view ***
Capitolo 17: *** Halfway gone ***
Capitolo 18: *** Breathe ***
Capitolo 19: *** Stop crying your heart out ***
Capitolo 20: *** Lullaby ***
Capitolo 21: *** Fix you ***
Capitolo 22: *** Redemption ***
Capitolo 23: *** Please don't stop the rain ***
Capitolo 1 *** Brick by boring brick ***
Capitolo 1
Capitolo 1
Brick by boring brick
She lives
in a fairy tale
somewhere too far for us to find
forgotten the taste and smell
of the world that she lefts behind.
Brick by boring brick,
Paramore¹
Qualsiasi
idiota può superare una crisi; è il quotidiano
che ti logora.
Anton Checov
«Voglio arrampicarmi
sull’albero!» esclamò
una vocina petulante.
Fui bruscamente distolta dai miei giochi di
abilità con le carte della Carica dei 101 e guardai la
bambina che stava in
piedi sul prato davanti alla veranda. Aveva otto anni, ma
sembrava più
piccola, con i codini castano ramato, gli occhioni scuri spalancati e
quella tenera espressione di curiosità. Dubitai di aver
capito.
«Cosa?»
«Voglio salire sull’albero»
ripetè in tono
deciso e indicò il melo ritorto che campeggiava nel
piccolo
giardino di casa Uley.
Osservai l’albero per un istante, incerta. E
adesso cosa avrei dovuto inventarmi per distrarla?
«Claire, sarebbe meglio di no».
«Perché?»
«Be’, perché… è
pericoloso: potresti cadere
e farti male».
Ci pensò su per un attimo. «Quanto male?»
Okay, forse ero sulla buona strada. «Un po’.
Anzi, direi parecchio».
«Ma se tu mi aiuti non mi faccio niente».
O forse no. Sospirai. «Tesoro, credo che
impedire che tu salga sugli alberi faccia parte dei miei compiti di
baby sitter».
«Sei
proprio sicura, Nessie?»
«Sì».
Inclinò la testina da un lato mentre mi
fissava. Probabilmente stava valutando fino a che punto avrebbe potuto
disubbidire. «Lo voglio fare lo stesso».
Tentai un’ultima volta. «Non ti va di
sederti qui con me a giocare a Memory?» le chiesi con il tono
più invitante che
mi riuscì di tirare fuori.
«No».
Risposta secca e decisa. Claire studiò il
melo con attenzione, poi indietreggiò di qualche metro,
corse verso il tronco e
saltò. Niente da fare. Non arrivava nemmeno al ramo
più basso. La bimba non si
diede per vinta: indietreggiò di nuovo e riprovò.
«La perseveranza non le manca» commentai
sotto voce.
Mi chiesi come avrei potuto distrarla:
ovviamente non sarebbe mai riuscita a salire sull’albero e
non volevo che ci
rimanesse male. Purtroppo i cartoni in tv erano appena finiti ed
essendo solo
in prima elementare Claire non aveva compiti per casa. Sbirciai il mio
orologio
da polso, chiedendomi quando Emily sarebbe rientrata.
Emily
insegnava tessitura e altri lavori
artigianali di tradizione indigena nella scuola superiore di La Push e
in
alcune scuole professionali dei dintorni, ma spesso lavorava anche in
casa
filando al telaio e realizzando splendidi lavori che poi vendeva. La
sua nipotina Claire trascorreva tantissimo tempo a La Push e quando
Emily era impegnata e le serviva qualcuno che si occupasse per
qualche ora della bambina e del suo piccolo Levi, che aveva due anni e
tre
mesi, chiamava me. Mi
piaceva fare la baby-sitter, adoravo quei
bambini e non mi andava che mi pagassero per stare con loro, ma Emily
aveva
sempre insistito. Qualche volta cercavo di scappare prima che mi si
parasse
davanti per allungarmi i soldi, ma fino ad allora non c’ero
mai riuscita.
Ero sicura che nella sua testolina arruffata
Claire stesse immaginando di saltare molto più in alto di
quanto facesse in
realtà. Sorrisi mentre la osservavo provare per la terza
volta e
lasciai che la mente tornasse ai miei giochi d’infanzia:
riuscivo perfettamente
a visualizzare me stessa bambina al posto di Claire, anche se per me
non
sarebbe stato affatto un problema arrampicarmi su un albero.
La mia assurda crescita accelerata mi aveva
impedito fin dalla nascita di frequentare chiunque altro al di fuori
della mia
famiglia e di mettere il naso fuori di casa, dunque non ero mai andata
nemmeno
a scuola. Per quattro anni avevo studiato a casa, da sola, con la
supervisione
del mio fantastico nonno Carlisle e a volte del mio ancor
più fantastico papà.
Avevo un bel ricordo di quel periodo: loro sembravano avere una
risposta per
ogni mia domanda e, sebbene vivessi quasi come una reclusa, mi avevano
aperto
gli orizzonti del mondo. Eppure avevo sempre avuto la sensazione che mi
stessi
perdendo qualcosa. E le scorrazzate per i boschi tra casa mia e la
riserva di
La Push, con tanto di tuffi nell’oceano, arrampicate sugli
alberi e corse a
ostacoli, erano tra le poche occasioni in cui potessi uscire e vedere
qualcosa
di diverso dalle pareti di casa, a parte le visite al nonno Charlie.
Solo nel corso dell’estate
precedente al mio quarto compleanno la mia crescita aveva cominciato
finalmente
a rallentare e ad essere meno evidente, soprattutto per
l’occhio umano, in
conseguenza del fatto che la mia dieta era ormai un perfetto equilibrio
tra
quella di un umano e quella di un vampiro… anzi,
più simile a quella degli
esseri umani, in realtà, visto che cacciavo di rado, e
ciò sembrava aver
rallentato il mio sviluppo. Così mi ero iscritta al mio
primo anno
di liceo, dopo che mia madre si era procurata dei falsi certificati di
licenza
elementare e media dal nostro avvocato di fiducia… il fido Jenks, così lo
chiamavamo quando eravamo tra noi.
L'idea
di andare a scuola mi aveva resa felice: finalmente avrei avuto
un'esistenza più simile a quella di una ragazzina normale e
meno
simile a quella di una lebbrosa o di una ricercata che non
può mettere il naso fuori di casa. Mi aveva anche causato
parecchia ansia, però. Dopotutto, i miei futuri compagni
avevano
più di dieci anni
di vantaggio su di me... E se non fossi stata all'altezza della
situazione? E se non gli fossi piaciuta? E se gli fossi sembrata strana?
E se non fossi riuscita a farmi neanche un amico? Per fortuna queste
paure si erano rivelate infondate: ormai frequentavo il secondo anno e
potevo dire di essere perfettamente felice e integrata nella mia
scuola.
Le mie riflessioni furono interrotte da una
vocina assonnata proveniente dalla casetta color mattone.
«Levi si è svegliato». Mi alzai da
terra. «Claire,
torno tra qualche minuto, okay? Non ti muovere da
qui».
Lei si limitò ad
annuire in risposta, ancora tutta concentrata sul suo obiettivo.
Entrai, corsi al piano di sopra e spinsi con
delicatezza la porta della stanzetta del piccolo. Levi, seduto nel suo
lettino,
mi fissò attentamente con quegli occhi color carbone che,
insieme ai riccioli
scuri, aveva ereditato dal papà.
«Mami!» strillò.
«Ehi, ciao piccolo» lo salutai con dolcezza mentre
mi avvicinavo alla culla. «Come va? La mamma non
c’è, ma adesso ci penso io a
te».
Iniziai a muovermi piano per la stanza,
preparando il fasciatoio e canticchiando a bassa voce una canzoncina.
Ogni
tanto mi accostavo alla finestra per controllare la bambina nel
giardino:
Claire sembrava aver rinunciato all’albero e si era distesa
sul prato. Quando
lo presi in braccio, Levi finalmente mi sorrise.
Lo cambiai e scendemmo di sotto, dove versai del succo di mela nella
sua
tazza con due manici. Mentre beveva lentamente sentii il rumore di
un’auto che
parcheggiava davanti a casa, una portiera che sbatteva e poi gli
strilli di
Claire. Era troppo presto perché Emily fosse già
di ritorno dalle sue
commissioni, ma non aspettavamo nessun altro. Uscii in veranda e sul
prato vidi
l’enorme figura di Jacob che rideva tenendo la bambina sotto
il
braccio.
«Jake!» esclamai e subito mi sentii
invadere da quella sensazione di calore e benessere che provavo quando
lo
vedevo.
Il mio Jacob, il mio sole personale, la mia roccia, il mio migliore
amico in assoluto… Adoravo Jacob, probabilmente da sempre.
Non avrei saputo dire né
come né quando fosse nato il mio affetto per lui. Per quel
che potevo
ricordare, era sempre stato dentro di me. Dal momento che avevo le
braccia
occupate non gli saltai addosso per farmi prendere al volo, come di
consueto,
ma mi limitai ad allungarmi per baciarlo sulla guancia mentre mi
raggiungeva
sotto il portico con due passi, continuando a tenere Claire.
«Che ci fai qui?» domandai.
«Ho appena finito il
mio turno di ronda e
sapevo che oggi avresti fatto la baby-sitter, così sono
venuto a vedere come
va».
Mentre parlava tese una mano per fare il
solletico sotto il mento a Levi, che ridacchiò entusiasta.
Sospirai. Il solito,
apprensivo Jake. L’unica cosa che avrei potuto recriminare
nel nostro rapporto
era il modo in cui a volte mi trattava, come se fossi stata una bambina
piccola. Sì, avevo soltanto quattro anni e mezzo, ma in
realtà ne avevo quindici
a tutti gli effetti, dal punto di vista fisico e psicologico. Ero
perfettamente
in grado di badare a me stessa e di fare una cosa semplice come tenere
due
bambini per un paio d’ore senza che lui andasse in
iperventilazione… Ma non si può essere perfetti
sotto tutti i punti di vista.
«Quil non c’è?» chiese Claire,
la testina
che spuntava da sotto il braccio di Jacob.
«No, tesoro, è dovuto restare al negozio per
aiutare la mamma di Embry».
Quil lavorava nel piccolo negozio di
gadget per turisti di La Push da circa un anno, poiché aveva
finito il liceo ma non era
intenzionato a continuare gli studi.
La piccola sbuffò sonoramente e corse di
nuovo in mezzo al piccolo prato. Jacob ed io ci sedemmo sui gradini
della
veranda. «Com’è andata la
ronda?» domandai mentre Levi si agitava tra le mie
braccia.
«Bene. Ero insieme a Tommy».
«Ancora non ti fidi a mandarlo da solo?»
Tommy aveva sedici anni ed era l’ultimo acquisto del branco
di Jacob, che con
lui saliva a sei membri: Leah, Seth, Quil, Embry, Chris e Tommy,
arrivato solo
da qualche settimana.
«Non ancora, ma non dipende da me, dipende
solo da lui: se la piantasse di fare il bambino e si decidesse a
maturare un
po’, sarei ben felice di liberarmene».
«Perché
non lo affidi a qualcun altro, ogni tanto? Magari Seth può
darti una mano,
oppure Leah».
Sul suo viso comparve un’espressione strana,
divertita e inorridita al tempo stesso. «Seth già
se lo porta sempre dietro,
non posso lasciare questo compito solo a lui. E Leah…
be’ non posso mandarlo
con lei se ci tengo a rivederlo vivo».
«Cosa? Come mai?» esclamai, incuriosita.
Leah non aveva un carattere facile, ma Tommy era appena arrivato nel
branco e
non poteva già averla
fatta
arrabbiare.
«Non lo sopporta. O meglio, non sopporta
l’idea di dovergli fare da baby-sitter. Pensa che sia solo un
moccioso incapace
e infantile, una scocciatura per il branco, insomma».
«Ah». Ci pensai un po’ su.
«Povero Tommy…
Potrebbe anche dargli una possibilità, in fondo è
appena arrivato».
Jacob fece una smorfia. «Lo sai che non è
facile stare con lei, anche se è migliorata molto da
quando… da quando ha
lasciato il branco di Sam».
«Wow, non oso immaginare com’era prima»
mormorai.
Jacob ridacchiò. «Tanto non ci riusciresti.
Non hai tutta questa immaginazione. O forse sì. Dopotutto,
vivi con
Rosalie».
Gli tirai un pugnetto sul braccio, ma non
potei trattenere una risata. «Dai, lasciala stare! Non mi va
che tu la prenda
in giro».
Lui rise ancora più forte. Prima che potessi protestare
ancora, fummo
interrotti da Levi che mi agitò il suo bicchiere vuoto sotto
il naso.
«Ne vuoi ancora, piccolino?»
Lui fece di si
con la testa.
«Jake mi guardi la bambina, per favore?
Torno presto».
«Certo».
Mentre
rientravo in casa mi accorsi che si alzava anche lui per raggiungere
Claire sul
prato. In cucina riempii il bicchiere con un altro po’ di
succo di frutta e
Levi bevve tutto d’un fiato. Misi la tazza nel lavandino, poi
portai il piccolo
in salotto, con l’intenzione di accendere per qualche minuto
la tv. Si era
appena ripreso da un brutto raffreddore ed era meglio che non stesse
troppo
all’aperto. Sedetti sul divano tenendolo in braccio e feci un
po’ di zapping
cercando qualcosa di adatto. A un certo punto sentii aprire la porta
d’ingresso, che avevo lasciato accostata.
«Ehi, Nessie» chiamò Jacob
«tutto bene?»
Sospirai. Il solito, apprensivo Jacob… Sorrisi,
leggermente divertita. «Sì, tranquillo. Stiamo
guardando la tv».
«Ah, okay. Allora noi siamo qui fuori».
«Certo».
Finalmente trovai un programma di cartoni
animati e lì mi fermai. Mi rilassai contro lo schienale del
divanetto un po’
sgangherato e fissai lo schermo senza vederlo sul serio, presa da altre
riflessioni, mentre Levi ridacchiava divertito osservando degli omini
colorati
che ballavano una musichetta vivace. Stavo giusto pensando con
raccapriccio
alla montagna di compiti che mi aspettavano a casa quando sentii delle
grida
festose provenire da fuori. C’era una sola spiegazione.
«Levi è tornata la mamma!» esclamai.
«Andiamo a salutarla?»
«Mami!» trillò con entusiasmo.
Spensi la tv e uscimmo sotto il portico.
Emily era sul prato, letteralmente assediata da Claire che
strillava e saltava intorno a lei. Jacob salì di corsa le
scale tenendo due
buste della spesa che doveva aver preso dalle mani di Emi, mi fece
l’occhiolino
e schizzò dentro.
«Claire, tesoro, sta' buona... Oh, ciao, Nessie».
«Ciao. Come sono andate le tue commissioni?»
«Tutto bene. E questi bimbi come sono
stati?» chiese prendendo in braccio Levi.
«Buonissimi» risposi con un sorriso
indulgente. La povera e ignara Emily non avrebbe mai saputo dello
yogurt che
Claire aveva rovesciato sul pavimento o del suo prezioso profumo che
aveva spruzzato qua e là. Rientrammo tutte insieme. In
cucina, Jacob aveva lasciato le buste
sul tavolo e stava già attaccando a morsi una mela,
appoggiato al bancone da
lavoro. Sedetti al tavolo e Claire si
sistemò subito
sulle mie ginocchia mentre Emily sistemava il piccolo nel seggiolone,
iniziava a
preparare la cena e intanto ci raccontava del grosso ordine di gilet e
maglie
i lana che aveva ricevuto da un negozio proprio quella mattina.
Chiacchieravamo del più e del meno, quando mi resi conto
dell’ora e scattai in
piedi mettendo giù Claire.
«Accidenti, è tardi! Devo
andare».
Già immaginavo
mia madre intenta a protestare per la cena che si raffreddava e
mio padre che guardava l’orologio ogni minuto, mentre zio
Emmett borbottava in
sottofondo contro i genitori troppo permissivi.
«Ti
aspetto in macchina» disse subito Jacob con un sorriso.
«Ciao Emily, ciao Claire, ciao piccolino!»
Distribuendo
baci
e carezze sulla testa uscì di casa.
«Aspetta, Renesmee» disse Emily,
asciugandosi le mani sul grembiule e correndo fuori dalla stanza.
Okay, era il momento di filarsela. Baciai
velocemente i bambini, andai in punta di piedi nell’ingresso
buio e infilai
il giubbotto che avevo lasciato su una sedia. Per fortuna Jake non
aveva
richiuso la porta.
«Ehi,
Emi, mi dispiace ma vado di fretta!» gridai verso
l’interno della casa. «Ci si
vede, ciao».
Avevo un piede fuori dalla porta e già stavo
congratulandomi con me stessa quando un’ombra emerse
all’improvviso
nell’ingresso e corse verso di me. Feci un salto di un metro
e a stento mi
trattenni dal cacciare un urlo.
«Dove
credi di andare? Non provarci, sai!» sbottò
l’ombra. Era Emily.
«A
fare cosa?» domandai con tono innocente, ma non ci
cascò.
«A
svignartela così!» rispose in tono secco e poi
addolcì di colpo la voce. «Ecco qui, cara.
Grazie per l’aiuto». E mi allungò i miei
sette dollari.
Rassegnata,
li presi e la baciai sulle guance. «Di niente. Alla
prossima».
«Saluti
a casa».
Corsi
fino alla Golf dove Jacob mi aspettava seduto al posto di guida, salii
e
sbattei la portiera.
«Allora,
ci sei riuscita?» si informò con tono divertito.
Sbuffai. «No.
Ovviamente mi ha pagato».
Lui rise. «Sei proprio una frana».
Lo colpii sul braccio, arrabbiata e offesa.
«Ahi!»
protestò, sbuffando una risata. Tanto sapevo che la sua era
tutta scena e che difficilmente sarei
riuscita a strappargli un ahi
sincero. «Sto
guidando, ti pare il caso di picchiarmi? Guarda che se facciamo un
incidente e
ti riporto a casa a pezzettini non mi salvo neanche se lascio il
paese».
«Allora
ti conviene tenere gli occhi ben incollati sulla strada»
risposi, acida.
«Che c'è? Hai dimenticato di prendere la pillola
del buon umore, stamattina?»
Sospirai. Detestavo essere cattiva con il
mio Jacob. «Scusa, sono un po' nervosa. Lo sai
quanto si agitano i miei se faccio dieci minuti di ritardo...
sicuramente staranno già pensando che sono morta sul ciglio
della strada o qualcosa del genere. E poi devo
fare ancora un sacco di compiti e domani ho una verifica di
matematica».
«Mm… Insomma, un’altra monotona giornata
di
scuola».
«Sembra anche che pioverà» aggiunsi in
tono
tetro.
«Be’, questa non è una
novità! Comunque
sappi che le giornate più belle, quelle perfette, capitano
quando meno te lo
aspetti».
Lo guardai, dubbiosa. «Sul serio? Parli per
esperienza personale?»
«Certo». All'improvviso divenne serio.
«La giornata più brutta della mia vita si
è conclusa con il tuo arrivo».
Mi girai di nuovo a guardarlo: fissava la
strada, ma sembrava perso in qualche lontano ricordo. Jacob era il mio
migliore
amico e avrei potuto dire di conoscerlo come le mie tasche, eppure
c’erano dei
momenti in cui avevo l’impressione che mi nascondesse
qualcosa, che ci fosse
dell’altro. A volte ne avevo parlato con i miei, ma a sentire
loro ero paranoica,
il che suonava piuttosto buffo detto da due che non avevano idea di
cosa fosse
la normalità, a cominciare dal fatto che erano vampiri.
Per riempire quell’imbarazzante silenzio
iniziò a raccontarmi dei progressi fatti con la macchina che
stava aggiustando
al momento.
Quando ancora frequentava il liceo, aveva
cominciato a lavorare part-time come meccanico, all’inizio
solo per La Push e
poi anche per Forks, quando la voce della sua bravura e dei suoi prezzi
si era
diffusa. Due anni prima si era brillantemente diplomato nella scuola
della
riserva, ma aveva deciso di non frequentare il college e di continuare
a
lavorare, ormai quasi a tempo pieno. Questa scelta aveva provocato
qualche discussione, soprattutto con suo padre
Billy, ma Jacob aveva sempre portato delle motivazioni indiscutibili a
proprio
sostegno. Prima di tutto, era un licantropo, un alfa e un membro del
consiglio
della tribù: le sue responsabilità ormai erano
tali da non consentirgli di
allontanarsi da La Push per un impegno così gravoso come
frequentare il
college e qui nessuno avrebbe osato protestare perché queste
responsabilità
per lui venivano prima di tutto. L’altro motivo per cui aveva
deciso di
rinunciare era proprio Billy: lasciarlo vivere da solo per un periodo
di tempo
indeterminato, viste le sue difficili condizioni fisiche, era
impensabile per
Jake. Billy non era mai stato d’accordo, ma Jacob, come al
solito, aveva fatto di testa sua.
Nemmeno Bella era mai stata d’accordo e
per mesi e mesi aveva cercato di convincerlo a cambiare idea, ma senza
successo
e ormai doveva aver rinunciato… A volte riprendeva
l’argomento, ma la risposta
era sempre la stessa. Jacob era davvero deciso, in due anni non
c’era mai stato
un tentennamento.
Quanto a me, non avevo mai espresso un vero
parere al riguardo: tutto quello che volevo era che fosse felice, come
non importava. Ol pensiero che potesse andarsene da La Push
era doloroso, la sua
lontananza insopportabile, ma se avesse voluto questo non avrei cercato
di
trattenerlo. Eppure, forse in cuor mio ero inconsapevolmente ed
egoisticamente
felice della sua decisione, perché l’avrebbe fatto
restare al mio fianco, e
sospettavo che lui l’avesse intuito, come tutti gli altri.
Be’, non potevo
farci niente. Fin dai miei primi momenti di vita, stando a quello che
mi
avevano raccontato, Jacob era stato con me e c’era rimasto in
quei cinque anni:
ci separavamo solo durante le vacanze estive, quando andavo con i miei
sull’Isola Esme o a Denali a trovare il clan di Tanya, al
massimo per qualche
settimana. Eravamo talmente abituati a stare insieme da essere ormai
inseparabili.
Poco
dopo fermò la macchina di fronte alla
grande casa bianca dei miei nonni. Mi slacciai la cintura di sicurezza
e tirai su la cerniera del giubbotto. Eravamo nel pieno di
marzo, ormai la primavera avrebbe dovuto essere vicina, ma a Forks le
stagioni non seguivano il loro corso normale e faceva ancora un gran
freddo.
«Entri
e ceni con me?»
Scosse la testa. «Stasera no: ho promesso a
Billy che sarei tornato per cena».
Jacob passava tanto di quel tempo a casa
nostra che probabilmente suo padre doveva sentirsi parecchio
trascurato. «Va bene.
Allora ci vediamo domani?»
Mi
sorrise. «Certo». Mi accarezzò appena la
guancia e poi si chinò per baciarla.
«Buona fortuna per la verifica».
«Grazie.
Notte, Jake».
«Notte, piccola».
Scesi
dall'auto e presi le chiavi. Mentre aprivo la
porta, mi girai a salutarlo con la mano, ma solo quando fui entrata
sentii che riaccendeva il motore e si allontanava. Scossi la testa,
divertita e seccata in ugual misura, mentre mi sfilavo il giubbotto. Il
solito apprensivo... come se avesse mai potuto capitarmi qualcosa fuori
alla porta di una casa piena di Cullen.
Note.
1. Ecco il link della canzone: http://www.youtube.com/watch?v=rzZf8PNZmmQ.
Spazio autrice.
Ciao a
tutti/e! Questa è la prima long che pubblico ed è
anche la prima long alla quale abbia lavorato proprio con l'intenzione
di renderla pubblica. I capitoli che compongono la prima
metà di questa fanfiction sono stati scritti circa tre anni
fa. Per motivi di tempo, infatti, la sua stesura è stata
piuttosto lenta. Nel frattempo, ho scritto e pubblicato dell'altro e
credo che il mio modo di scrivere sia leggermente cambiato... se in
meglio o in peggio, questo non spetta a me dirlo xd, però mi
sembra di riscontrare qualche piccola differenza rispetto al mio stile
attuale. Ciò nonostante, ho deciso di pubblicarli
così come sono, senza grosse modifiche. Forse non saranno
perfetti (anzi, sicuramente non lo sono), ma è questa la
storia che ho scritto tre anni fa e alla quale ho dedicato tutta me
stessa per molto tempo. Modificarla non mi sembrava giusto.
A mercoledì prossimo per il secondo capitolo, grazie!
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Capitolo 2 *** Talk ***
Capitolo 2
Talk
Are you lost or incomplete?
Do you feel like a
puzzle, you can't find your missing piece?
Tell me how do you feel?
Well I feel they're
talking in a language I don't speake.
And they're talking it
to me.
Talk, Coldplay¹
L'amicizia è un tormento in più.
Soren
Kierkegaard
Entrai
in casa e mi sfilai la giacca, l'ombra del sorriso ancora sulle labbra.
Seguendo il rumore e il vociare di quella che sembrava una partita di
baseball
in tv, salii le scale e subito mi sentii apostrofare dal vocione di
zio Emmett.
«Ehi, peste! Dov’eri finita? Tua madre si
farebbe venire un infarto, se potesse».
Lui e zia Rosalie erano allungati sul
divano, nella zona tv. Lo zio teneva il telecomando, come sempre, e mi
scrutava con
aria indagatrice. Alzai gli occhi al cielo.
«Ho cercato di scappare a
Las Vegas per fare la ballerina in una discoteca, ma Jacob mi ha
fermata».
Rosalie ridacchiò, ma Emmett mi fissò con
cipiglio minaccioso per qualche istante. Questo genere di battute non
gli
andava per niente a genio. Gli feci una linguaccia ed entrai nella
cucina, che era piuttosto affollata: mamma e papà erano alle prese
con la mia
cena, mentre Esme metteva in ordine.
«Ciao a tutti» esordii.
Mia madre sollevò gli occhi dalla pentola che
stava estraendo dal forno e mi guardò storto.
«Finalmente! Sei in ritardo di
mezz’ora».
Montai su uno degli sgabelli del bancone da
lavoro e papà, che detestava farmi le ramanzine
perché poi gli toccava
ascoltare i miei commenti non espressi a voce alta, mi diede un bacio sulla fronte senza dire nulla. «Ero da Emily, lo sai. Quando è
tornata abbiamo chiacchierato un
po’, non mi ero accorta che fosse ora di cena».
La mamma sospirò.
«Okay, magari la prossima volta telefona. Per fortuna ti ha
accompagnato
Jacob».
Dovevano aver sentito la sua
voce. Nessuno si chiese cosa ci facesse con me a casa Uley: lui era
sempre dove
ero io. «E gli altri?» chiesi, cercando di cambiare
argomento.
«Alice e Jasper sono a caccia e Carlisle è
ancora a lavoro» rispose papà.
Di lì a poco sentimmo sbattere la porta
d’ingresso.
«Carlisle» ci informò Edward.
A conferma della
sua infallibilità, dopo un minuto sentimmo dei passi veloci
sulle scale e il
nonno entrò nella cucina tirandosi su le maniche del
maglione.
«Ciao famiglia!» esclamò. Era il suo
modo
tipico di salutarci e ogni volta mi faceva sorridere.
Ci fu un coro di ciao
in risposta e per un qualche minuto nella cucina regnò una
certa confusione, mentre tutti parlavano contemporaneamente.
«Spero che Jacob non abbia trascurato il lavoro,
oggi, per passare da te» disse la mamma a un tratto, a mezza
voce.
«Certo che no, sai quant’è preciso su
queste
cose» risposi, prendendo una forchettata di insalata di
patate. Stavo morendo di fame.
«So anche che quando siete insieme avete una
strana tendenza a perdere il senso del tempo e staccarvi
l’uno dall’altra è
impossibile, neanche foste attaccati con la colla»
borbottò, il tono
leggermente acido.
La guardai, un po’
stupita. «Be’, è anche il
mio migliore amico, non solo il tuo. E da quando questo ti dà
fastidio?»
Mentre parlavo, papà si accostò alla mamma e
le passò un braccio intorno alla vita. Sembrava un gesto
disinvolto, ma a me
parve una specie di avvertimento. Bella fece un respiro profondo e mi
sorrise.
«Non mi dà fastidio, è solo che Jacob
ha già rinunciato al college e non voglio
che cominci anche a disertare il suo lavoro».
Ero perplessa: avevo la sensazione di
essermi persa qualcosa. «Ma che dici? Lo conosci, non lo
farebbe mai. E poi sai
benissimo perché ha dovuto
rinunciare. Non è come per Embry e Quil, che si sono
diplomati per il rotto
della cuffia».
Lei rimase a guardarmi mordendosi un labbro,
incerta. Prima che potesse rispondere, sentimmo una voce annoiata
provenire
dalla porta. «Oh, sì, è un autentico
genio, il tuo cane da compagnia. Perché
non lo spediamo in qualche laboratorio per farlo studiare?».
Era zia Rose che
faceva capolino.
Sospirai. «Zia, potresti per favore smettere
di insultare il mio migliore amico?» domandai con tono
forzatamente cortese.
«Te ne sarei molto grata».
Lei mi fissò con aria inespressiva, come se avessi fatto una
battuta per niente divertente. «Renesmee, tesoro, sai quanto
bene
ti voglio e sai
che per te farei qualsiasi cosa… ma questo
no».
Si voltò e fece per uscire, ma papà la
richiamò. «Come va la partita?» chiese,
ironico.
«Cosa vuoi che me ne importi» borbottò
la zia
per tutta risposta e tornò sul divano.
Edward e Carlisle si scambiarono uno sguardo divertito ed io non
riuscii a trattenere una mezza risata. La mamma mi fissò e
subito dopo rise anche lei, scrollando i lunghi capelli castani
raccolti in una coda.
«Prima o poi le passerà» disse Carlisle
a
bassa voce «dopotutto, ormai sono quasi cinque anni che Jacob
entra ed esce da
questa casa. Ci farà l’abitudine».
Mmm. Secondo me Carlisle era fin troppo
fiducioso, a volte. Finito di cenare, aiutai Esme a caricare la
lavastoviglie,
poi salii di sopra, nella vecchia stanza di papà, e iniziai
a
studiare. Avevo già fatto qualcosa nel pomeriggio, mentre
Levi
dormiva e Claire guardava la tv, ma avevo ancora una montagna di
esercizi di
matematica da fare, dovevo leggere due capitoli di storia e scrivere la
bozza
di una tesina sul ciclo bretone. Ero al lavoro da mezz’ora,
quando qualcuno
bussò piano alla porta e fece capolino: era zia Alice.
«Ehi, siete tornati» la salutai.
«Ciao Nessie» disse dolcemente, allungandomi il
cordless
che stringeva in mano. «C’è Jas al
telefono per
te».
Ero
talmente concentrata da non aver sentito il telefono. Sospirai.
Naturale… Erano
le nove e mezza e ancora non si era fatta sentire. Accidenti a Jas, Jas
Williams. Era la
mia migliore amica e le volevo bene, ma aveva la straordinaria
capacità di
chiamare sempre nei momenti meno opportuni, mentre facevo la doccia o
ero presa dallo studio, alle undici e mezza di sera o alle sette meno
un quarto di mattina…
Presi il telefono, feci un respiro profondo e...
«Pronto?»
«Renesmee? Accidenti, finalmente ti trovo! Lo
sai che ho chiamato tre volte a
casa
tua, oggi? Dov’eri finita?»
«Stavo facendo la baby-sitter». Non avevo
nemmeno avuto il tempo di dirle ciao
e non avrei avuto il tempo di dirle
nient’altro.
«La baby-sitter? Ancora?
Non la capirò mai, questa... Che ci trovi di così
divertente a passare il pomeriggio con dei marmocchi? Be', lasciamo
stare, ci sono cose più urgenti di cui parlare»
continuò Jas e la sua voce divenne di colpo
eccitata. «Ci sono
novità!»
Sospirai
di nuovo. La mia amica era sempre stata un po' scocciatrice, ma da
quando aveva cominciato a
frequentare
Tom Evans era diventata insopportabile: da ben tre settimane mi toccava
ascoltare ogni giorno il resoconto di tutto quello che succedeva tra
loro... resoconto dettagliato, molto
dettagliato, che andava dal numero di volte in cui Tom l'aveva guardata
adorante al numero di minuti che avevano passato tenendosi per
mano.
«Oggi, mentre tornavamo a casa da scuola, mi
ha quasi invitata ad uscire insieme di nuovo, sabato!»
esordì.
«Jas, come si fa a invitare qualcuno quasi
ad uscire?»
«Sono sicura che ci stava pensando perché
non ha fatto altro che parlare dell’ultimo film che
è uscito, quello sulla fine
del mondo».
«Be’, ne parlavano tutti, stamattina»
obiettai con cautela. Ovvio, visto che era l’unico film che
veniva proiettato
al momento nel minuscolo cinema di Port Angeles.
«Sì, ma tu non hai sentito il tono con cui
me ne ha parlato! Insomma, era evidente che voleva chiedermi di andarci
con
lui».
«E perché non l’ha fatto,
allora?»
Rimase in silenzio per un attimo. «Credo che
si senta… spaventato e intimorito da quello che prova per
me».
«Sul serio?»
«Sì! Lui è il mio primo ragazzo, io
sono la
sua prima ragazza, ma deve aver capito quanto è importante
per me e magari non
sa bene come gestire la situazione».
Ne dubitavo fortemente, ma non volevo che ci
restasse male.
«Non pensi che forse proprio perché siete tutti e
due alla prima esperienza e
vi frequentate da poco, è un po' presto per
sentire… un tale coinvolgimento
emotivo?»
A quel punto assunse il suo tipico tono da sto
parlando con una tonta, che usava piuttosto spesso quando
parlava con me. Anche
troppo spesso. «Dici così perché non ci
hai mai visti insieme sul serio!
Tom è più timido di quanto
sembri, con le ragazze, e ancora non vuole baciarmi in pubblico, ma ti
garantisco
che tra noi c’è qualcosa di travolgente! Magari se
tu gli dicessi che io muoio dalla
voglia di vedere quel film…»
«Eh?» sbottai.
«Ma sì! In questo modo sarà certo di
poterlo
fare».
«Di poter fare cosa,
esattamente?»
«Di potermi invitare! Forse ha paura che io
pensi che stiamo correndo troppo se mi invita ad uscire due volte in
una
settimana, ma se tu gli dici che può farlo tutto
andrà liscio!»
E con questo, Jas aveva definitivamente
perso il cervello. «Senti, perché non lo inviti tu
e basta?»
«Non posso!»
«Perché,
J?» sbottai, usando inconsapevolmente il suo nomignolo.
«Magari è lui che pensa che stiamo correndo
troppo, per questo non m’invita di nuovo! Ma se fosse
così e tu parlassi con
Tom, te lo direbbe, così tu poi lo diresti a me ed io saprei
che non c’è niente
di cui preoccuparsi e devo solo aspettare che lui sia pronto».
A quel punto avevo perso il filo. «Senti,
secondo me gli stai troppo addosso... Rischi di farlo innervosire. Tra
poco penserà
che vuoi sposarlo entro la fine dell’anno
scolastico». Lei rispose con una
risata. «Sul serio, Jas: se la darà a
gambe».
«Parli per esperienza personale?»
Esitai. «In che senso?»
«Voglio dire, ti è mai capitato che un
ragazzo scappasse perché si sentiva oppresso da
te?»
Breve pausa. Avevo capito dove voleva andare
a parare. «No. Lo sai che non ho mai avuto un
ragazzo».
A un tratto cambiò completamente e diventò "la
dolce
Jas". Dopo un po' di tempo che la frequentavo, mi ero resa conto che la
mia
amica soffriva a volte di un vero e proprio sdoppiamento della
personalità. «Accidenti! Renesmee, mi dispiace!
Scusami, sono stata odiosa».
Sorrisi. «Non ti preoccupare. Però secondo
me dovresti… Aspetta un attimo». In quel momento
papà si era infilato
silenziosamente dentro la stanza.
«Tesoro, sono le nove e mezza passate: dovresti finire i
compiti. Vi vedrete domani a scuola».
«Capito. Dammi un minuto». Si dileguò
silenzioso come era apparso e io tornai al telefono. «Jas?
Devo andare, è
tardi».
«Sì, anche per me. Ci vediamo domani,
allora».
«Certo. Notte, J. E cerca di non cadere in
qualche bel sogno insieme a Tom».
Lei ridacchiò. «Sta' zitta! Notte!»
Chiusi
la comunicazione con un sorrisino e ripresi a studiare.
Mezz’ora più tardi,
quando cominciavo a sentire che la testa minacciava di staccarsi dal
corpo, misi di
nuovo i
libri nella borsa e scesi al piano di sotto. Per il resto
della
sera dimenticai la mia chiacchierata con Jas mentre guardavo la tv e
giocavo a carte con gli zii, ma più tardi, tornata al
cottage con Edward e Bella, quel pensiero si impose alla mia attenzione. Mentre mi preparavo per andare a
letto, rimuginai sulle parole di Jas e a quello che non
aveva detto, ma
che aveva pensato:
non avevo nessuna esperienza con i ragazzi. Stavo continuamente con
Jacob, sì,
ma lui era il mio migliore amico, quasi un fratello, non un ragazzo
e basta…
Lui era il mio
Jacob. Lui era speciale. Cosa significasse davvero stare con un ragazzo
normale,
cosa si provasse, non lo sapevo.
Eppure, non ero una sprovveduta completa. Avevo letto abbastanza libri
e guardato abbastanza film da nutrire la mia
immaginazione, avevo
ben quattro, innamoratissime coppie da osservare a casa e delle amiche
con una vita sentimentale ben più movimentata della mia...
e,
sebbene non potessi vantare alcuna esperienza diretta, ero a conoscenza
di un paio di cosette fondamentali. Tanto per cominciare, grazie alle
confidenze delle mie amiche sapevo che la maggior parte degli studenti
del secondo anno delle superiori non erano altro che ragazzini immaturi
ossessionati da sport, videogiochi e spalline del reggiseno in bella
mostra, che uscivano con le compagne di classe soltanto per passare un
pomeriggio a pomiciare da qualche parte e poi raccontarlo ai loro amici
il giorno dopo... Ecco perchè ogni volta che qualcuno mi
osservava o si faceva avanti, chi spavaldo e disinvolto, chi timido e
impacciato, puntualmente lo respingevo. Non avevo alcuna intenzione di
finire sulla lista delle loro conquiste e poi... nessuno di quei
ragazzi mi era mai piaciuto davvero. Eppure, questo non mi impediva di
avvertire un vuoto, dentro di me, quando pensavo a Tom e Jas e a
quanto fossero carini insieme mentre passeggiavano nel cortile della
scuola mano nella mano. Desideravo quello che avevano loro e allo
stesso tempo mi sembrava irrealizzabile, troppo distante da me... Una
mezza vampira con il fidanzatino del liceo? Troppo complicato. Solo a
pensarci mi scoppiava la testa. Finchè si trattava di
frequentare delle amiche, potevo anche farcela, ma avere una storia con
qualcuno... sì, decisamente troppo complicato. Anche se, a
rifletterci bene, niente avrebbe mai potuto essere più
complicato
delle vicende sentimentali di Jas, pensai, sorridendo tra me e me,
appena prima di scivolare nel sonno.
Note.
1. Il link della canzone: http://www.youtube.com/watch?v=_SE4zuXEEXE.
Spazio
autrice.
Eccomi
di ritorno con il secondo capitolo! Anche questo, come il primo,
è un
po' introduttivo, lo so, non succede niente di che... Ma i
primi
capitoli sono sempre introduttivi, non trovate? Nel prossimo capitolo
cominciano gli avvenimenti ;-). A presto!
|
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Capitolo 3 *** Unwritten ***
Capitolo 1
Capitolo 3
Unwritten
Feel the rain on your skin
no
one else can feel it for you
only
you can let it in
no
one else, no one else
can
speak the words on your lips
drench
yourself in words unspoken
live
your life with arms wide open
today
is where your book begins
the
rest is still unwritten.
Unwritten, Natasha
Bedingfield¹
A volte il destino gioca scherzi
piacevoli.
STEPHENIE MEYER, New
moon
«Renesmee?
È ora di alzarsi».
Come ogni mattina fu papà a svegliarmi,
accarezzandomi piano la fronte. Mugugnai qualche protesta e mi rigirai
nel
letto, ma lui insistè finchè non mi fui tirata
su, poi se ne andò. Barcollai
fuori dal letto, infilai nello stereo il primo cd che trovai sul
comodino e
alzai il volume, giusto per svegliarmi completamente. Aprii le tende e
osservai
scocciata il cielo grigio. Visto Jake?,
pensai tra me e me, un’altra
giornata
come tante.
«Renesmee! Sbrigati o farai tardi»
chiamò
la mamma dalla cucina.
Feci una doccia lampo e mi vestii. Mentre mi
truccavo davanti allo specchio, papà fece capolino sulla
porta. «Alice ha appena telefonato, lei e Jasper ti hanno
preparato la
colazione. Ti va bene o vuoi mangiare qui?»
«No, va bene» bofonchiai, concentrata nel tracciare
delle
linee perfette con l’eyeliner sulle palpebre. Non era
insolito che mangiassi a casa dei nonni: quando proprio non c'era
nient'altro da fare per riempire le loro giornate senza fine, cucinare
per me era una gradita attività per i membri della famiglia
Cullen. Finito di truccarmi, corsi in camera
per prendere giacca, sciarpa e borsa.
«Ciao mamma, ciao papà» strillai mentre
correvo verso la porta.
«Ciao!» mi risposero in coro.
Cinque minuti dopo ero a casa
dei nonni. Aprii con le mie chiavi e puntai
subito verso le scale. In cucina trovai solo Alice e Jasper, occupati
a preparare la colazione.
«Buongiorno» esordii.
«Buongiorno, Raggio di Sole» esclamò la
zia.
La incenerii con lo sguardo: ormai ero decisamente troppo grande per
quel
vecchio nomignolo che mi aveva affibbiato nonno Charlie, ma lei
sembrava non farci caso. Fece un gesto verso il tavolo dove
stava disponendo cereali, succo d’arancia e biscotti al
cioccolato. «Spero che tu
abbia fame… La colazione è pronta».
«Grazie…
Wow, le frittelline!»
Proprio in quel momento zio Jazz aveva
lasciato i fornelli e stava facendo scivolare in un piatto due
frittelle dorate
e profumate. Uno dei grandi
misteri della vita, per me, era come accidenti riuscissero
i vampiri a cucinare così bene senza assaggiare mai nulla.
Papà era il
cuoco migliore, secondo me, ma le frittelline di zio Jasper erano
imbattibili.
«Figurati, è divertente» rispose la zia,
mentre mi scrutava da capo a piedi. «E complimenti per
l’abbinamento».
La ringraziai ricambiando il sorriso perché
avevo già la bocca piena. Zia Alice si era autoeletta
consulente di moda ufficiale dell’intera famiglia e non
permetteva a nessuno di uscire di casa senza prima aver superato
un'attenta ispezione. Per fortuna io avevo ereditato la sua passione
per la moda e sapevo di riuscire a vestirmi piuttosto bene anche da
sola, ma questo non le impediva di esaminarmi come un sergente ogni
volta che la incrociavo.
In quel momento zio Emmett entrò in cucina
fischiettando. «Ciao, Nessie». Mi lanciò
un’occhiata penetrante, le sopracciglia
che sciabolavano minacciosamente. «Quella gonna non
è un po’ troppo
corta per andare a scuola?»
«Lasciala stare, Emm» intervenne Alice.
«Se è
uscita di casa così vuol dire che a Edward e Bella sta bene
e, se sta bene
a loro, a te non
deve interessare».
«Certo che mi deve interessare!»
protestò,
indignato. «Sono suo zio e ho il preciso dovere di
intervenire se va a scuola
con una minigonna che sembra un francobollo».
Nessuno gli diede retta. «Nessie»
continuò la zia
«stamattina Carlisle non può accompagnarti
perché
il suo turno inizia
alle dieci».
Annuii. Carlisle era l’unico che uscisse di casa tutte le
mattine,
così in genere mi portava lui a scuola.
«Ti porto io» fece zio Jasper. «In
moto». E
mi sorrise da lontano, i denti affilati che luccicavano come piccoli
diamanti.
«Fantastico!» esclamai. Adoravo andare in
moto con lui, soprattutto perché non capitava tanto spesso.
Esitai un poco. «Solo…
ehm, non ho chiesto ai miei». Ecco una cosa che proprio non
sopportavo: per
andare in moto dovevo avere il permesso di Edward e Bella, come se
fossi stata una bimbetta.
«Tranquilla, l’ho fatto io» rispose la
zia.
«Ho parlato con tua madre».
«Perfetto» gongolai, soddisfatta.
Probabilmente
la mamma aveva detto di sì solo perché discutere
con zia Alice la stressava
parecchio e tanto non la spuntava mai. Finii in fretta la colazione ed
io e
Jazz scendemmo in garage. Reagii con una smorfia quando mi porse il
casco.
«Non ci metteremo neanche dieci minuti, è
inutile» provai a protestare. Non aggiunsi il vero motivo: il
casco mi avrebbe
rovinato i capelli. Meglio lasciarseli scompigliare dal vento che
appiattirli dentro il casco. Lui non rispose, limitandosi a fissarmi,
ma fu sufficiente: rassegnata, lo presi e lo indossai.
Mentre sfrecciavamo verso la scuola, pensai
che quel dannato casco non sarebbe stato poi così
indispensabile
senza la guida
da folli che caratterizzava tutti i Cullen quando si trovavano su di un
qualunque mezzo di trasporto… tranne la mamma: sembrava che
la
trasformazione
in vampira non avesse scatenato in lei il minimo interesse per le auto
veloci. Probabilmente era l’unica al mondo a possedere una
Ferrari e a guidare
tenendosi sotto i sessanta all’ora. Quando Jasper
inchiodò
la moto argentata nel cortile della scuola, scesi, un
po’ barcollante, mi sfilai il casco e
cominciai subito a rimettere in sesto i capelli con le mani. Jasper
alzò gli occhi al
cielo.
«Renesmee, smettila. Stai benissimo».
«Lo so» risposi con tono scherzoso e un sorrisetto
sulle labbra. «Grazie del passaggio, a dopo».
«Ciao, buona giornata».
Mentre mi avviavo verso la scuola, sentii
alle mie spalle il rombo della moto che ripartiva. Avevo fatto solo
pochi passi
quando…
«Renesmee! Ehi, Renesmee!»
La mia amica Danielle Warner mi venne
incontro di corsa, i capelli castani e lo zaino che le ballavano sulle
spalle. La salutai con la mano e attesi che mi raggiungesse.
«Ciao» ansimò.
«Ehi! Come mai così di fretta?»
«È tardi» mi fece notare mentre mi
prendeva sotto braccio e ci incamminavamo nel cortile.
Alzai gli occhi al cielo. «È tardi solo dal
tuo punto di vista, Danielle. Dubito che assistere ai primi tre minuti
della
lezione del professor Flowers cambierà le nostre
vite».
Mi lanciò un’occhiata di disapprovazione e
lasciò cadere l'argomento.
«Ieri sera ho provato a chiamarti per
mezz’ora a casa dei tuoi nonni, perché Jas mi
aveva già detto che da te non
c’era nessuno, ma era sempre occupato. Con chi eri al
telefono?»
Sospirai. «Lascia perdere, per favore».
Fece un sorrisino furbo. «Ho capito… Solita
storia?». Annuii con espressione tragica e lei
ridacchiò.
«Si
frequentano solo da tre settimane e già non ne puoi
più?
Pensa quante cose Jas avrà da raccontare quando
staranno
insieme da cinque anni… le telefonate serali dureranno tutta
la
notte!»
Ridacchiamo insieme, mentre attraversavamo la strada per raggiungere
l’edificio cinque. In quel preciso istante, il rumore di una
frenata brusca e stridente squarciò l'aria. Mi guardai
intorno
con un sussulto di sorpresa, mentre Danielle cacciava un urletto
spaventato, e vidi
una bellissima auto nera e sfavillante che inchiodava
sull’asfalto giusto in
tempo per non investirci in pieno.
«Ehi…» protestò Danielle,
indignata.
Sbuffò. «Ma che diavolo… Vieni,
andiamo». Mi
prese per un braccio e mi tirò via dal centro della strada.
Allungai un po’ il collo per capire
chi ci fosse nell’abitacolo. I finestrini erano oscurati, ma
quello del guidatore era parzialmente abassato e scorsi il profilo di
un ragazzo con i
capelli neri e gli occhiali da sole. Non lo riconobbi.
D’altra
parte, non avevo mai visto
neppure quella macchina. Il ragazzo al volante attese che Danielle ed
io fossimo
in salvo sull’altro marciapiedi, girando un po' la testa per
seguirci con lo sguardo, poi ripartì e si
allontanò verso il parcheggio.
«Chi era quello?» sussurrai.
Lei alzò le spalle. «Non ne ho idea, non
l’ho
visto bene. Accidenti a Jas, per parlare di lei stavamo per farci
investire!»
esclamò, un po' irritata, un po' divertita. «Ma
guarda » disse all’improvviso
appena entrammo nell’edificio. «Parli del
diavolo…»
Jas ci venne incontro quasi di corsa, strillando come
un’isterica. «Ragazze! Ragazze, non
indovinerete mai cosa succede oggi!»
Danielle ed io ci scambiammo un’occhiata e un
sorrisino d’intesa. «Finalmente ti degnerai di
prendere appunti durante
letteratura invece di copiare i miei prima del prossimo
test?» fece lei.
Jas le dedicò un’occhiataccia e un furioso
battito di ciglia. «Lo sai che questo va al di là
delle mie capacità scolastiche. Comunque,
se cominciate a prendermi in giro di prima mattina non vi
dirò niente e vi
abbandonerò nelle tenebre
dell’ignoranza» dichiarò con aria offesa.
Sospirai. «Dai, che tanto non resisti!
Allora, che succede oggi?» chiesi mentre camminavamo vicine
nel corridoio degli armadietti.
Nei suoi occhi azzurri luccicò qualcosa che
conoscevo fin troppo bene: l’eccitazione del pettegolezzo.
«Okay, visto che
insistete: arriva uno studente nuovo!»
La guardai, stupita: e se fosse stato… Prima
che potessi parlare Danielle intervenne. «Tu sai sempre
tutto! Come fai a
sapere sempre tutto?» chiese con tono leggermente stizzito.
Jas sorrise. «Ho le mie fonti».
Danielle sospirò, rassegnata. «Voglio
vederlo… Speriamo che abbia qualche corso insieme a
noi».
«Non riusciremo a vederlo facilmente»
rispose Jas. «È più grande, credo che
sia al terzo anno».
Ecco perché era al volante, pensai. Doveva
essere proprio lui. «Be’, noi l’abbiamo
visto».
Jas sgranò gli occhi con espressione
sconvolta. «Cosa? E quando?»
«Già, quando?» le fece eco Danielle,
occupata a riempire lo zainetto di libri e quaderni.
«Poco fa, nel parcheggio: ci ha quasi
investite».
A quella rivelazione Danielle trattenne il fiato e
spalancò gli occhi. «Cioè vuoi
dire… Era lui?»
«Per
forza, nessuno ha una macchina del genere, qui. E poi non mi
è sembrato per
niente familiare».
«L’avete visto sul serio?»
esclamò Jas. Sembrava sconvolta.
Le feci un sorrisino. «Sì! Questa volta ti
abbiamo battuta».
«Non credo, mia cara» ribattè,
trionfante.
«Io so un’altra cosa che voi non sapete!»
«Cioè?» la incalzò Danielle.
Era abbastanza
ingenua e curiosa da essere l’ascoltatrice perfetta per Jas.
«Viene da New York» squittì Jas.
«Me l’ha detto Susie Finch appena
cinque minuti fa, dopo che l’ho staccata da Simon
Brown».
«E perché hai dovuto staccarla da Simon
Brown?» chiese Danielle.
«Perché si stavano baciando» le risposi.
Non
che lo sapessi, ma non era difficile da immaginare.
«Ah» fece lei e arrossì un
po’. «Come mai
si è trasferito, comunque?»
«Questo non lo so. Non ancora. Non sono mica
l’FBI»
disse Jas e a quelle parole scoppiammo a ridere tutte e tre.
Non avevamo ancora smesso, quando suonò la campanella e
fummo
costrette ad abbandonare i pettegolezzi per correre nell'aula di
letteratura inglese.
****
Fu
una mattina decisamente fuori dal
comune. Nei corridoi tra una lezione e l’altra, dentro le
aule in assenza dei
professori, nei bagni delle ragazze, fuori alla mensa, negli angoli del
cortile, dappertutto un unico, incessante mormorio: non si faceva che
parlare
di lui, il nuovo arrivato, il ragazzo del mistero, e fin dalla prima
ora avevano
cominciato a circolare le poche notizie divulgate da chi frequentava i
suoi
stessi corsi, talmente scarse che non facevano che incrementare la
curiosità
generale. E in un posto dove non succedeva mai nulla, quello era solo
l’inizio.
Quanto a me, ero curiosa, ma non così tanto
da non riuscire a pensare ad altro o a parlare d’altro. Era
altamente
improbabile che lo incrociassi a una delle mie lezioni, visto che
frequentava
il terzo anno, e nei corridoi affollati e caotici cercai invano un
volto che
mi risultasse del tutto nuovo.
Durante la terza ora il test di
matematica mi fece uscire dalla mente tutto il resto finchè
non
ebbi finito. Dopo aver consegnato il compito, uscii dall’aula
con
Jas,
che era troppo impegnata a lamentarsi della crudeltà del
professor Peters, il
nostro docente di matematica, e ad insultare la goniometria per
ricominciare a
spettegolare.
Raggiungemmo l’aula della lezione
successiva, geografia, e prima ancora di sederci fummo raggiunte da
Holly Matthews,
decisa invece a riprendere il solito argomento, e Danielle. Holly e Jas
si
immersero subito in una fitta conversazione punteggiata da risatine e
piccoli
scoppi d’isteria (a quanto pareva, una del terzo anno aveva
diffuso la voce che
il ragazzo nuovo avesse un fondoschiena fantastico), mentre Danielle mi
chiedeva del test di matematica, ma fummo interrotte presto
dall’arrivo del professor
Redmont, occupato a trascinarsi dietro un televisore e un
videoregistratore su un mobile dotato di rotelline. Sospirai,
afflitta: era già la terza lezione in una settimana che ci
propinava quel
dannato documentario su uragani, trombe d’aria e il loro
impatto ambientale…
Per fortuna, quel giorno ci sarebbe toccato ascoltare
l’ultima parte.
«Oh santo cielo» si lamentò Jas, seduta
nel
posto accanto al mio, con voce bassa ma perfettamente udibile.
«Ma non finisce mai
questo documentario?»
Il professore la fulminò con lo sguardo e
tornò ad armeggiare con la videocassetta. Magari
l’avrebbe rimproverata, se
solo non fosse stato lui stesso così profondamente annoiato
dalla sua materia.
Fece partire il documentario e nel giro di cinque minuti ero
sprofondata nel
torpore, complici le imposte delle finestre abbassate per migliorare la
visuale. Fissavo
lo schermo senza interesse, prendendo svogliatamente qualche appunto, e
lasciavo che i miei pensieri vagassero qua e là senza mete
precise.
A un tratto, nel bel mezzo del documentario, accadde qualcosa: un
piccolo fascio di luce comparve sulla destra, dove si trovava la porta,
accompagnato da un lievissimo
cigolio, e un istante dopo era scomparso. Qualcuno doveva essere
entrato. Prima che potessi girare la testa e guardare,
un’ombra
scura raggiunse con due passi l'ultima fila, dove ero seduta, e si
infilò nel
posto vuoto accanto al mio. Era un ragazzo. Gli lanciai un'occhiata
sorpresa, cercando di capire chi fosse. Non lo conoscevo. Non era
sicuramente qualcuno della mia classe di
geografia. Lo guardai meglio e quel ciuffo di capelli neri sulla fronte
fu una folgorazione. Oddio, poteva essere... In quel momento, il
ragazzo notò che lo stavo fissando a bocca aperta. Mi
sorrise.
«Ehi, Scheggia»
sussurrò.
Non afferrai. Scheggia? Guardai velocemente in direzione di Redmont:
era seduto alla cattedra, ma dava le spalle alle spalle, la sedia
girata in modo da poter vedere il documentario, e a giudicare dalla
strana
pendenza della sua testa quasi pelata non era tanto più
sveglio di noi. Potevo
rischiare. Mi sporsi un poco verso di lui.
«Come, scusa?»
«Ma sì…
Sei la ragazza del parcheggio. Quella che stamattina ho quasi
investito. Ti ho
soprannominato Scheggia... Sembravi parecchio di fretta,
tanto da non guardare prima di attraversare la strada».
Il suo tono ironico non mi piacque affatto.
«E tu hai mai sentito parlare di limiti di
velocità? Forse pensavi di essere su un circuito di auto da
corsa e non nel
parcheggio di una scuola» ribattei, piccata.
Inarcò appena un sopracciglio, poi gli
scappò una risatina soffocata. Lanciai un’altra
occhiata a Redmont, tesa, ma
lui era perfettamente immobile. «Okay, hai ragione»
disse. «Scusa. Ho esagerato,
stamattina. Mi sono fatto prendere la mano... Volevo provare la
macchina. È nuova».
«Buon per te». Mi raddrizzai e mi accorsi che Jas,
seduta
dall’altro lato a qualche banco di distanza, mi fissava con
occhi e bocca spalancati, come se avesse visto
un fantasma. Mi augurai che si ricomponesse.
«Allora, sei ancora arrabbiata?»
continuò
il ragazzo con voce leggermente maliziosa.
«Arrabbiata?»
ripetei. «No… Sono un po’ sorpresa,
veramente».
«Perché?»
Feci un respiro profondo e per la prima volta sentii il suo profumo.
Sapeva di dopobarba, bagnoschiuma e... un vago sentore di rose.
Lo assaporai per qualche istante, in silenzio, prima di rispondergli.
«Che ci fai
qui? Pensavo frequentassi il terzo anno».
Corrugò la fronte, chiaramente sorpreso del
fatto che sapessi di avere di fronte il nuovo arrivato. Forse doveva
ancora
entrare nella modalità "vita in una cittadina di provincia". «Le voci corrono
così in fretta? È vero, sono del terzo anno. Ho
avuto solo un piccolo problema».
Un piccolo problema? Che razza di risposta era? Mi voltai per guardarlo
di nuovo, stupita. Aveva un viso molto bello: lineamenti fini e
regolari, occhi di un azzurro intenso e luminoso, capelli lisci e neri
che ricadevano in ciocche morbide sulla fronte
ampia e chiara.
«Capisco» sussurrai. «Ma sarebbe meglio
se adesso
tornassi in
classe o ci metterai nei guai, tutti e due». In
realtà,
probabilmente avremmo
potuto continuare a parlare per tutta l’ora visto che Redmont
sembrava ormai
collassato, ma non mi andava che stesse lì, seduto accanto a
me,
a parlarmi con quel tono, come se fossimo stati vecchi amici, e a
rivolgermi quel sorriso presuntuoso. Mi infastidiva un po'.
Lui annuì, fingendosi serio. «Sì,
sarebbe meglio: devo ancora
farmi perdonare per stamattina, l’ultima cosa che voglio
è metterti nei guai».
«E tu non ti preoccupi di finire nei guai?
Vuoi solo salvare me?»
«Nah… Lo vorrei proprio, qualche guaio:
scaccerebbe
la noia… e il resto».
Okay,
era ora di piantarla. «Be’, io non mi stavo
annoiando».
«Ah, no?». Lanciò un’occhiata
veloce allo
schermo della televisione e ridacchiò.
Mi sta
prendendo in giro, pensai, stizzita.
«Stai
bluffando, secondo me» ribattei con tono di
superiorità.
Inarcò un sopracciglio, senza smettere di sorridere.
«Accidenti Scheggia,
mi hai smascherato».
D’accordo,
basta. «Non stavi andando via? Per non mettermi nei
guai?»
«Hai ragione. E poi credo che il pericolo
sia passato». Non capii cosa intendeva dire, ma prima che
potessi aprire bocca, controllò velocemente Redmont e si
alzò in piedi con cautela,
per non far rumore. «Ciao Scheggia, buon
divertimento» sussurrò, chinandosi
verso di me, poi si diresse alla porta e uscì
silenziosamente. Lo seguii con
gli occhi finchè potei, perplessa da quello strano incontro,
quando la faccia
sconvolta di Jas comparve all’improvviso nella mia visuale.
«Era lui?» sussurrò, concitata.
«Era quello
nuovo? Che faceva qui? Che ti ha detto?». Si sporgeva tanto
da sembrare in
procinto di saltare sul mio banco.
«Ssh» la rimproverai. «Ne parliamo
dopo».
Riuscii a tenerla buona per il resto
dell’ora, ma appena suonò la campanella del pranzo
non
aspettò nemmeno che
fossimo uscite e quasi mi si avventò addosso per avere i
particolari. Le altre non ci misero tanto a capire cos’era
successo e nel giro di due minuti mi ritrovai
letteralmente bersagliata di domande, mentre ci dirigevamo verso
la mensa. Purtroppo non fui in grado di rispondere alla maggior parte
dei loro
quesiti: non avevo potuto soffermarmi sul fondoschiena del nuovo
arrivato e
quindi non sapevo dire niente ad Holly sull’argomento,
nonostante
le sue
ansiose richieste.
Quando entrammo nella mensa mi parve che
tutti stessero parlando della stessa, identica cosa. Tutti comprese le
mie
amiche. Lasciammo le borse al nostro solito tavolo, dove si erano
già sistemati
Tom Evans, Paul Davis e Scott Green e ci mettemmo in coda al banco
delle
vivande, senza che loro cambiassero argomento. Si interruppero solo per
fare
qualche battuta disgustata sul pranzo: il menù del giorno
prevedeva tagliatelle alla panna con funghi, ma a me sembrava colla e
basta.
Tornammo al tavolo e mi ero appena seduta,
quando Paul mi chiamò dall’altro lato del tavolo.
«Ehi, Renesmee! Di' un po', è
vero che quello nuovo ha un’auto da sballo?»
Lo guardai aggrottando la fronte. Holly, che usciva con lui da qualche
mese, se ne stava abbarbicata alle sue spalle come una naufraga a un
salvagente. «Non ne ho idea. Le sedie ne sanno più
di me
in fatto di macchine».
«Ho sentito che è un'Audi
coupè»
intervenne Tom con aria interessata.
«Nello spogliatoio un ragazzo mi ha
detto che è una Mercedes» fece Scott.
Paul aveva la bocca piena e non
aggiunse nulla, si limitò ad annuire calorosamente.
«Oh, ma chi se ne importa della sua
macchina!» esclamò Jas. «Pare che abbia
degli occhi fantastici, vero, Renesmee?»
Sospirai. «Jas, gli ho parlato per due
minuti ed eravamo quasi al buio: non ne ho idea». La
verità era che quel discorso mi metteva un po' a disagio.
Ripensare a quel ragazzo e al nostro singolare incontro mi causava una
strana sensazione... come un formicolio lungo la schiena. E non ne
capivo il perchè.
«Chi se ne importa degli occhi» rincarò
Holly mentre apriva la sua lattina di Coca. «Sarah Richardson mi ha detto che il
suo fondoschiena è da urlo».
«Ah, sì? È solo la trentesima volta che
lo
dici» fece Danielle con tono esasperato. Holly le
dedicò una linguaccia.
«Scusa, vorresti dire che il suo
è meglio del mio?»
esclamò Paul girandosi verso Holly, indignato.
«Non c’è paragone» rispose Tom
imitando
l’aria sognante di Holly e scoppiammo tutti a
ridere.
Prima che
qualcuno aggiungesse
qualcos’altro di stupido, fummo raggiunti da Maggie Smith,
ultima
componente del nostro solito gruppo, che piombò come
una folata di vento accanto al tavolo.
«Alexander Christopher Hayden» annaspò
ancora prima di occupare il suo solito posto.
«Cosa?» chiese Jas con aria distratta,
prendendo una forchettata di tagliatelle.
«Ciao anche a te» disse Scott, ironico.
«Alexander Christopher Hayden» ripetè
Maggie,
imperturbabile.
«Ma di che parli?» domandai.
«Di quello di cui
parlate anche voi, ci
scommetto tutta la paghetta settimanale!» esclamò
con tono deciso. Sedette di
fronte a me, scostandosi i ricci castani disordinati dalla fronte.
«È lui, il
ragazzo nuovo, si chiama così».
Holly
la guardò, sconvolta. «E tu
come lo
sai?»
«Me l’hanno detto Jordan e la sua ragazza, li
ho incontrati due minuti fa» spiegò Maggie. Jordan
era suo fratello maggiore
e frequentava proprio il terzo anno. Forse aveva qualche corso in
comune con il nuovo arrivato.
«Alexander Christopher Hayden» ripetè Jas,
gongolando. «Wow, perfino il suo nome è da
sballo».
Tom le lanciò un’occhiataccia che lei
ignorò.
«È incredibile» esclamò
Danielle, guardando Maggie con occhi sgranati. «Non
comincerai anche tu, adesso! Bastano già Holly e Jas con il
loro telegiornale quotidiano».
«Non preoccuparti, Danielle» la consolò
Jas
con un sorrisino malizioso. «Oggi Renesmee ci ha battute
tutte». Si girò verso
Maggie. «Durante l’ora di Redmont, Alexander Christopher Hayden si è
intrufolato nella nostra classe e le ha parlato per due
minuti!»
«Cosa?» trillò Maggie, girandosi di
scatto
verso di me. «Racconta! Voglio sapere tutto!»
Sospirai. Sarebbe stata una giornata ancora molto
lunga.
****
Quando
sentii suonare l’ultima campanella,
mi trattenni a stento dal fare i salti di gioia. Non mi piaceva essere
al centro
dell’attenzione e non riuscivo a sentirmi così
eccitata da
quell’ incontro come
sembravano esserlo le mie amiche: era stato tutto troppo veloce e
improvviso perché potessi già essermi fatta
un’idea.
In cortile salutai le ragazze con un bacio e mi
diressi verso la moto metallizzata di zio Jasper, ferma poco lontano.
Stavo per
attraversare la strada, con più cautela, questa volta,
quando con una sgommata
una macchina si fermò accanto a me, bloccandomi
dov’ero. La riconobbi
all’istante.
«Ehi, Scheggia! Com’era il documentario?»
Fissai il profilo dentro l’abitacolo, inorridita.
«Allora mi perseguiti» farfugliai.
Lui gettò indietro la testa e rise. «No,
giuro! Voglio solo darti un passaggio».
«Cosa?». Non c’era una risposta adeguata
a
una proposta come quella. «Io nemmeno ti conosco»
dissi, sorpresa.
«Sì, ma devo ancora farmi perdonare per
averti quasi uccisa, stamattina, e poi per averti quasi messa nei
guai… Ah, e
devo anche ringraziarti per avermi coperto con quel professore.
Andiamo, salta su».
Per un istante, un unico, folle istante, fui
tentata di balzare sul posto accanto a lui e scappare come una
fuggitiva da zio
Jazz e da quello che mi attendeva a casa… la solita,
vecchia, noiosa vita di tutti i giorni. Ma
l’istante passò e la ragione ebbe la meglio.
Ricambiai il sorriso impertinente.
«No, grazie. Voglio vivere ancora un po'. E se proprio vuoi
scusarti o
ringraziarmi o tutte e due le cose, impara ad usare i freni. Ciao,
straniero».
Note.
1. Il
link della canzone: http://www.youtube.com/watch?v=wJgjyDFfJuU. Io la adoro e la
trovo perfetta per il capitolo, e voi? E poi questo video è
molto carino ;-).
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Capitolo 4 *** It's time ***
Capitolo 1
Capitolo
4
It's time
It' time to begin, isn't it?
I
get a little big bigger, but then I'll admit
I'm
just the same as I was
Now
don't you understand
I'm
never changing who I am.
It's
time, Imagine Dragons¹
Ma tu chi sei che avanzando nel
buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?
WILLIAM
SHAKESPEARE
«Ciao,
piccola» mi
salutò Jasper quando raggiunsi la moto. Mi passò
il casco. «Chi era quello?»
«Nessuno» risposi mentre salivo dietro di
lui. Ed era la pura verità.
Non indagò oltre e mise in moto.
«Com’è
andata? Il test di matematica?»
Mi imposi di non guardarmi indietro mentre
uscivamo dal parcheggio. «Bene, credo. Saprò il
voto la prossima settimana».
«Un’altra A
in arrivo per la signorina Cullen» disse in tono scherzoso,
strappandomi una mezza risata.
Il tragitto verso casa durò pochissimo,
sebbene zio Jazz rallentasse di parecchio la propria andatura abituale
perché
c’ero io. Per fortuna non pioveva. Ripensai
all’espressione incredula del ragazzo misterioso quando gli
avevo dato quella
rispostaccia e mi ero allontanata senza aggiungere altro…
Oh,
dimenticavo,
non era più il ragazzo misterioso, adesso aveva un nome:
Alexander Hayden.
Sembrava perfetto per lui. Un nome così elegante e snob
calzava
a pennello ad un tizio che si comportava come se avesse il mondo ai
suoi piedi per divertirlo e se ne andava in giro con una Mercedes o
un'Audi o quello che era.
Scesi
dalla moto prima che Jasper la parcheggiasse nel garage al coperto e
corsi in
casa, infreddolita. Lasciai la giacca e la borsa
nell’ingresso e salii in
cucina. Lì trovai Esme e Rose, sedute al tavolo ingombro di
disegni e progetti.
Mi chiesero della mia giornata ed io glissai sui particolari
più strampalati.
«Stai lavorando a qualcosa di nuovo?»
chiesi ad Esme mentre mi preparavo un sandwich.
«Sì» rispose con gli occhi che le
brillavano. «Un professore universitario di Seattle mi ha
chiesto di restaurare
una villa in campagna costruita all’inizio del ventesimo
secolo».
«Sembra impegnativo» dissi, dando
un’occhiata ai fogli sparsi sul ripiano.
«Certo, ma anche molto interessante».
Diedi il primo morso al sandwich e presi in
mano un progetto per guardare meglio. In quel momento zia Alice
entrò nella
stanza.
«Nessie!» trillò, entusiasta.
«Finalmente sei tornata, devo parlarti!
Io e Rose abbiamo programmato una giornata di shopping a Olympia,
questo
sabato, puoi venire?»
Ci pensai un attimo. «Sì, credo di sì.
Ho
giusto bisogno di scarpe nuove».
«Perfetto! Si ha sempre bisogno di scarpe
nuove» sentenziò Alice.
«Dovrò dirlo alla mamma,
però» aggiunsi con
tono mesto.
«Oh, sta' tranquilla» disse la zia. «Se
ti
crea problemi ci penso io. E comunque dovrebbe ricordare che la
tua cabina armadio è stata un mio regalo e dunque ti
autorizzo a riempirla come
ti pare e piace».
Nei confronti della moda e dello
shopping Bella aveva più o meno la stessa reazione che aveva
verso il cibo umano, quindi
parlare con lei di queste cose era fuori discussione. Un paio di volte
mi aveva
accompagnato a fare spese, ma aveva aperto bocca solo per protestare
contro i
miei acquisti mentre per il resto del tempo si era annoiata a morte,
quindi non le
avevo più chiesto di venire. Ormai Alice aveva preso
l'abitudine di fare acquisti anche per lei e poi farglieli trovare
già
al loro posto dentro la cabina armadio… E poiché
la mamma
detestava gli sprechi
di soldi almeno quanto detestava lo shopping, dopo una bella
sfuriata si
rassegnava ad indossare quello che le aveva comprato la sua troppo
intraprendente cognata come se fosse stata una punizione.
«A proposito, dove sono i miei? A casa?» chiesi
all'improvviso.
L’atmosfera si fece tesa nel giro di un
secondo: Esme ricominciò a tratteggiare con la matita su un
progetto, Rosalie
girò la testa verso le finestre ed Alice prese a studiarsi
le unghie perfette
con attenzione. «Che succede? Dove sono andati?»
domandai, sospettosa.
Silenzio. «Pronto?»
sbottai, sempre più stizzita.
«Ehm… Non lo so, tesoro, mi dispiace» si
scusò zia Alice.
La guardai male. «È
impossibile che tu non lo sappia! Dove sono?»
Rose sospirò. «E va bene: sono andati a
caccia».
Trattenni rumorosamente il fiato. «Che
cosa?» esclamai, indignata e
sconvolta. «Non ci credo, l’hanno fatto di nuovo!
Mi avevano promesso di portarmi
con loro, la prossima volta, e invece… Che
bugiardi!»
Erano solo due settimane che non cacciavo e
per me, che ero vampira solo per metà e riuscivo a
mantenermi
anche solo con il
cibo umano, era un periodo piuttosto breve. Trattenere la sete non era
mai
stato un problema, era una sorta di riflesso istintivo e
inconsapevole. Mi era successo varie volte di non andare a caccia per
un paio di settimane, ma
la cosa non mi causava problemi. Tuttavia, avevo bisogno anche del
sangue per
tenermi in forze: se ne facevo a meno per troppo tempo, mi indebolivo.
E poi
era divertente. I miei genitori, invece, erano sempre preoccupati
quando
cacciavo, anche se non lo facevo mai da sola, e mille paure li
spingevano a
starmi con il fiato sul collo dall’inizio alla fine: paura
che
cadessi e mi
rompessi qualcosa, che non fossi abbastanza forte e veloce, che
incontrassimo
qualche nomade non vegetariano mentre era a caccia e che fosse attirato
dalla
mia scia e via di questo passo. Ecco perché, in linea di
massima, preferivo
cacciare con Jacob: non perché fosse meno
apprensivo, ma perché
essendo in forma di lupo non poteva intasarmi le orecchie con un
milione di
raccomandazioni e di divieti… Al massimo poteva ululare un
po’, ma senza
esagerare, per non farsi sentire.
L’ultima volta ero stata lasciata a casa con
la scusa del mio raffreddore e adesso quale avrebbero usato? Zia
Rosalie mi rivolse un sorriso paziente.
«Tesoro, avevano sete e lo sai che noi non
possiamo aspettare quanto te. Non è prudente, soprattutto
per la mamma, che è
ancora giovane. Non ti preoccupare, ti accompagneranno quando
vorrai».
Mi stizzii ancora di più. «Non mi servono i
baby-sitter quando vado a caccia! Posso andarci anche da
sola!»
«Certo che sì!» disse subito zia Rose
con
aria colpevole ed esitante. «Ma… sarebbe meglio di
no».
La fissai in silenzio per un minuto. Non trovavo le parole per
risponderle. Alla fine pensai che i
compiti fossero il modo migliore per farmi passare
l’arrabbiatura e comunque
mi sarebbe toccato farli lo stesso.
Andai nella stanza di papà e a parte una breve pausa per
chiamare Jas, che era in piena crisi
isterica, alle prese con una valanga di capitoli di matematica da
recuperare, non
uscii da lì e nessuno venne a disturbarmi. Jacob aveva del
lavoro da sbrigare e
preferii non fargli perdere tempo. Forse pensavano che fossi ancora
troppo
arrabbiata. In realtà, avevo in testa pensieri ben
più interessanti dei miei
genitori e le loro assurde fobie… Fingere di essere
incavolata a morte li
avrebbe fatti sentire in colpa, però, quindi tenni il muso
per tutto il
pomeriggio.
Stavo scrivendo una relazione sul
documentario di geografia, anche se più che uragani e
problemi ambientali avevo
in mente occhi azzurri scintillanti e sorrisi impertinenti, quando
sentii
bussare e mi riscossi.
«Avanti» farfugliai. Lanciai un’occhiata
alla stanza ormai quasi immersa nel buio. Doveva essere più
tardi di quello che pensavo. I miei fecero
capolino dalla porta uno dopo l’altro.
«Tesoro» esordì la mamma con aria
dispiaciuta «Esme e Rose ci hanno detto... non essere
arrabbiata, per favore. Scusaci, ma
ne avevamo proprio bisogno. Abbiamo incontrato Seth e Quil di ronda e
c'è
mancato poco che diventassero lo spuntino pomeridiano!». Il
suo tentativo di battuta non mi fece ridere. Li fissai con espressione
truce dal divano di
pelle, senza dire una parola. Bella ricambiò lo sguardo per
un attimo, poi si
girò verso papà. «Su, dammi una
mano» lo incitò a voce bassa.
Lui sospirò. «Nessie, lo sai che per noi
è
una necessità primaria. Quando vorrai andare a caccia non
avremo problemi ad
accompagnarti… Oppure puoi andare con Jacob, se
preferisci».
«Non è per questo» feci a denti stretti
«il problema è un altro: so benissimo che evitate
sempre di portarmi con voi
perché pensate che io non sia in grado di starvi
dietro».
La mamma spalancò gli occhi. «Cosa… Non
essere ridicola! Certo che ne sei in grado, lo fai da sempre. Devi
solo… essere
un po’ più attenta di noi».
Aprii la bocca per rispondere qualcosa di
irripetibile, ma lo sguardo di papà mi fece cambiare idea.
Sbuffai. «Va bene.
Fa niente».
«Come possiamo farci perdonare?» chiese la
mamma, sedendosi sul divano accanto a me.
«Uhm, vedremo. Sono certa che mi verrà in
mente qualcosa» mugugnai.
«Ti serve una mano?». Si allungò e
sbirciò il mio blocco per appunti.
Scrollai le spalle. «No, non potete aiutarmi:
la relazione deve essere intrisa di tutta la profonda noia del
documentario, se
no non vale. È scritto nella consegna. E dal momento che non
l'avete visto...»
Loro risero, io no.
«È così noioso? Avrei giurato
che fino a un minuto fa stessi pensando a… luminosi occhi
azzurri…» disse papà, con aria
vagamente maliziosa
e la fronte aggrottata come per concentrarsi, poi rise di nuovo.
La mamma era stupita. «Come? Chi ha dei luminosi
occhi azzurri?»
Alzai gli occhi al cielo, seccata.
«Nessuno».
«Scusa piccola, non volevo metterti in
imbarazzo» esclamò papà, sforzandosi di
frenare la sua risata. «Credevo non fosse
importante».
«Non lo è, infatti, e non sono
imbarazzata!» sbottai, cercando di controllare il rossore
delle mie guance.
«Qualcuno mi spiega che succede?»
intervenne la mamma, confusa.
«Te lo spiegherà papà fuori
di qui» borbottai.
Lui sembrò sorpreso. «Sul serio? Posso?»
«Certo che sì, tanto ormai lo saprà di
sicuro tutta
la città».
Continuava a guardarmi in modo strano ed io
a mia volta lo fissavo con le sopracciglia inarcate. Bella si
alzò e lo prese
per mano. «D’accordo, leviamo le tende. Parliamo di
sotto».
Se lo tirò dietro
e uscirono. Non avevo idea di cosa papà avrebbe raccontato e
a dirla tutta
nemmeno m’importava. Ero un po' infastidita dal fatto che
Edward mi avesse beccata a pensare a lui.
Sicuramente ora avrebbe creduto che quel ragazzo mi piacesse, ma non
era così. Insomma, senza dubbio era piuttosto bello...
affascinante... e anche simpatico, sebbene sembrasse molto pieno di
sè e a volte decisamente sfacciato. Ma non c'era
nient'altro. Non sapevo nulla di lui, conoscevo a stento il suo nome.
Con ogni probabilità, il nostro strano incontro continuava a
tornermi alla mente solo perchè si trattava del primo evento
che
si presentasse a rompere la monotona routine quotidiana da parecchio
tempo. Era stato qualcosa di nuovo e di particolare, tutto qui. E se
Alexander Hayden aveva degli occhi di un azzurro impossibile da
dimenticare, non era certo colpa mia. Ma conoscendo la mia famiglia e
la loro abilità nell'impicciarsi degli affari altrui, e in
particolare nei miei
affari, temevo che
la storia non sarebbe finita lì.
Tuttavia, quando scesi
per la cena, una mezz’ora più tardi, fui costretta
a dire a me stessa che forse
avevo lavorato troppo di fantasia: nessuno sembrava occupato a pensare
a me o
al ragazzo nuovo, tanto meno papà e mamma. Se ne avevano
parlato, la cosa
doveva essergli sembrata poco interessante. Quando entrai in cucina,
Bella
rideva e scherzava con Esme mentre cucinavano uno dei miei piatti
preferiti, lasagne vegetali.
«Eccoti! La cena è
pronta» disse, tranquilla.
«Bene, muoio di fame» esclamai, ostentando a mia
volta disinvoltura.
Mangiai le lasagne lentamente, quasi senza
sentirne il sapore, perché troppo concentrata ad ascoltare
cosa succedeva
intorno a me. Esme illustrava alla mamma e a zia Rose i suoi progetti
per la
villa inizio secolo. Emmett e Jasper programmavano una partita a poker
con
Charlie, Jacob e Seth per il sabato successivo. Papà e
Carlisle seguivano il
notiziario in tv e commentavano l’andamento di alcune azioni
che avevano
acquistato da poco. Zia Alice trasportava su e giù delle
enormi buste da
riempire di abiti vecchi (ovvero praticamente quasi nuovi)
destinati alla beneficenza.
Sembrava proprio una serata come tutte le altre,
senza niente di speciale. D’altra parte, perché
mai mi ero aspettata che fosse
diversa? Come se quello che era accaduto durante la mattina avesse
cambiato qualcosa. Niente avrebbe potuto
influenzare ciò che trovavo lì, nella mia casa,
ciò che avrei sempre
trovato lì, senza limiti di
tempo… Quello non sarebbe mai cambiato, loro
non sarebbero mai cambiati, e quel pensiero riusciva a rassicurarmi
come nient'altro. La mia famiglia e Jacob erano le due certezze
granitiche della mia esistenza e sapere che non sarebbero mai venute a
mancare neanche per l'azione del tempo mi faceva sentire sicura.
Il resto della serata trascorse tranquillo
come al solito: guardammo tutti insieme un film in tv, poi giocai a
scacchi con Jasper e Carlisle. Quando io, Edward e Bella decidemmo di
rientrare gli altri stavano
uscendo per una battuta di caccia notturna.
Mentre camminavamo verso casa
chiacchierammo del più e del meno: raccontai del test di
matematica e mi
lamentai per la mostruosa quantità di compiti per me e di
lavoro per lui che aveva impedito a me e a Jacob
di vederci, quel giorno. Loro mi raccontarono di aver preso due grizzly
giganteschi a testa e che la mamma aveva quasi fatto un bagno nel fiume
Calawah mentre tornavano indietro.
Arrivati a casa, puntai subito verso il
telefono perché volevo fare un saluto rapido al mio
Jacob e aggiornarlo sulle ultime novità. Stavo
già
schizzando nella mia stanza, quando sentii dei passi leggeri dietro di
me e la mamma mi chiamò.
«Renesmee, aspetta un secondo, per favore» disse,
avvicinandosi. Aveva un sorriso tenero sul
volto. «Non
abbiamo parlato per niente, oggi».
«Be', non c'è un granchè da raccontare.
Il solito» risposi con un'alzata di spalle.
«Veramente mi era sembrato che fosse successo qualcosa.
Qualcosa di particolare».
Ci pensai su per un attimo e quando intuii dove voleva arrivare,
sussultai. «Ah, sì! Vuoi dire... il
ragazzo
nuovo?». Mentre parlavo avvampai senza neanche sapere il
motivo.
«Già. Com'è? Interessante?»
Okay. Ecco la fine di ogni speranza che la mia nuova conoscenza
passasse inosservata. «Ehm... Sì, diciamo
di
sì. In realtà, abbiamo parlato
pochissimo».
Lei annuì con aria compunta, come se stessimo
affrontando un discorso importante, ma senza smettere di
sorridere. «Però sembra carino, non
trovi? Deve avere
degli occhi molto belli».
Arrossii ancora di più e abbassai il viso, cercando di
nasconderlo. «Carino... Sì... Dovrebbe
soltanto
abbassare un po' la cresta e poi sarebbe fantastico». Ma che
stavo dicendo?! Accidenti a me! Perchè quando ero nervosa
parlavo a vanvera? Cercai di ricompormi con un respiro
profondo. «Okay, se è tutto... Stavo per
chiamare
Jacob» borbottai, a disagio.
«Certo. Scusa se ti ho trattenuta, lo sai come sono fatte le
madri: sempre fastidiosamente impiccione» rispose, ridendo.
Scosse un po' la testa e i lunghi, fluenti capelli castani danzarono
sulle sue spalle minute. Sembrava particolarmente allegra e anche se me
ne sfuggiva il motivo era bello vederla così.
Sorrisi anch'io. «Nessun problema. Vado».
«Salutami Jake» aggiunse mentre sparivo nella mia
stanza.
«Okay!» risposi, chiudendo la porta.
Per un attimo rimasi ferma, in piedi, pensando al suo
comportamento. Era decisamente un po' strano: prima tutto
quell'interesse verso il nuovo studente della Forks High e poi
quell'improvviso buon umore... Sì, doveva esserci qualcosa
sotto. Eppure, mi dissi subito dopo con un sorrisino, i miei genitori
non erano mai stati del tutto sani di mente. Secondo Jas nessun
genitore lo era, per una sorta di legge di natura. Forse mi stavo
preoccupando per niente.
Presi il cordless, mi sdraiai sul letto e
digitai il numero di casa Black. Jacob rispose al terzo squillo.
«Ehi, Jake!» esclamai. «Non sai quante
cose ho da raccontarti...»
Note.
1. Qui la canzone: http://www.youtube.com/watch?v=r0idI4WiGSg.
Spazio
autrice.
Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno inserito Midnight star tra
le Storie seguite, Preferite e Da ricordare. Sono felice che la storia
vi piaccia e spero di leggere presto i vostri pareri. Ringrazio di
nuovo anche le persone che hanno recensito :-). Alla prossima!
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Capitolo 5 *** Breathless ***
Capitolo 1
Capitolo
5
Breathless
So go on, go
on, come
on, leave me
breathless
tempt me, tease me until I can' deny
this
lovin' feeling
make
me long for your kiss, go on, go on, yeah
come
on.
Breathless, The
Corrs¹
È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo,
ma è anche vero che non sappiamo ciò che
ci è mancato prima che arrivi.
PAOLO COELHO
«Francese,
francese, studi sociali, inglese,
ginnastica, algebra: non credo che potrò resistere ancora
per molto e sono
solo le dieci e mezza. Tutto questo ha un senso, secondo
voi?» sospirò Jas
con aria teatrale mentre, davanti allo specchio del bagno delle
ragazze, si
passava sulle labbra il terzo strato di rossetto.
«Sì che ce l’ha, un senso, se vuoi
diplomarti, andare al college e mollare questo buco piovoso di
Forks» ribattè
Danielle.
«Oh, giusto!» esclamò Jas.
«Ritiro quello
che ho detto. Amo la scuola, se servirà a portarmi via di
qui. E comunque devo ammettere che la scuola ha anche
i suoi lati positivi» disse Jas.
«Ah, sì? E uno di questi lati positivi
è per
caso il fatto che tu e Tom continuate ad imboscarvi nello stanzino
delle scope
vicino alla palestra ogni volta che vi incontrate nei
corridoi?» chiesi, ironica, mentre stendevo un sottile velo
di mascara sulle ciglia.
Danielle scoppiò a ridere. «Ecco perché
tutto il rossetto era andato via, prima!»
Jas mi fulminò con gli occhi. «Non
c’è
niente da ridere. Fate così solo perché ancora
non capite i turbamenti
dell’amore».
Danielle ed io ci scambiammo un’occhiata e
scoppiammo a ridere di nuovo. Jas sbuffò. «Siete
così immature! D’accordo, dal momento che vi
ostinate a prendermi in giro non
vi racconterò cosa ho visto stamattina, quando
sono arrivata».
Sospirai. Credevo di sapere dove sarebbe
andata a parare dopo i fatti del giorno prima. «Per
caso abbiamo a che fare con il nostro Straniero?»
La mia amica mi guardò con gli occhi ridotti
a fessure. «Hai parlato con Holly, stamattina?»
«Ho tirato a indovinare» mugugnai.
«Perché lo chiami così? Ce
l’ha,
un nome, e sappiamo anche qual è»
osservò Danielle.
«Sappiamo solo quello, di lui,
quindi in sostanza è un perfetto sconosciuto».
«Mi sembri un po' acida, Renesmee. Come mai? Non
sarà che lui non ti piace?»
sentenziò Jas. Mi guardò nello specchio con aria
furba. «Insomma, è vero che ti ha quasi uccisa,
poi ti ha quasi messa nei guai con Redmont, ha cercato di rapirti
all’uscita di
scuola e per giunta ti ha appioppato un soprannome che ti fa sembrare
una
psicopatica o qualcosa del genere... Però devi ammettere che
è carino».
«Non è che non mi piaccia» spiegai.
«Si è comportato in modo un po' strano,
sì, ma è un
dato di fatto che non lo conosco». Tacqui per un istante.
«E dopo quello che ho visto ieri,
preferirei continuare a non
conoscerlo».
«Davvero? E perchè?»
esclamò Danielle, osservandomi con aria stupita.
Riflettei per un po' mentre prendevo la spazzola di Jas dalla sua borsa
e sistemavo una ciocca di capelli ribelle. Alzai le
spalle. «Sembra... uno di quei tipi che attirano soltanto
guai. E io non voglio guai».
«Secondo me ti piace eccome» disse Jas dopo un
attimo di silenzio.
«Cosa?» sbottai, sconcertata. «Hai
sentito quello che ho appena detto? E poi ci siamo parlati soltanto due
volte».
«I guai sono affascinanti, Renesmee. E perché un
ragazzo ti piaccia
non devi conoscere il suo albero genealogico».
«Il punto è che lui non mi piace»
ripetei,
con calma. «Sarà anche carino, ma non fa per me.
Dovrebbe piacermi un tizio che mi ha quasi investita?»
Jas alzò le mani come per arrendersi. «Okay,
okay! Non ti piace. Ho afferrato».
Danielle esitò prima di parlare. «Comunque
non ci sarebbe niente di strano, Renesmee».
«Niente affatto, anzi!» esclamò Jas
prima
che potessi rispondere. «Stamattina l’ho visto nel
parcheggio con la sua
macchina: è un'Audi²! Deve essere costosissima!
È normale perdere la testa
di fronte a una macchina del genere».
Danielle ed io ci scambiammo l’ennesima
occhiata d’intesa. «Be’, hai
ragione…» fece lei. «E allora tu come
hai potuto
perdere la testa per Tom? Mi risulta che non abbia nemmeno una
bicicletta o
sbaglio?»
Jas sospirò, togliendomi la spazzola dalle mani e iniziando
a pettinarsi i lunghi, fluenti capelli biondi. «Come siete
superficiali, ragazze mie. Nella vita non ci sono solo le Audi
Coupè, sapete. Certo, una bella macchina non guasterebbe
affatto, ma anche le passeggiate mano nella mano hanno il loro
fascino» disse con aria di superiorità.
«Giusto» risposi, divertita, e mi voltai
verso Danielle. «Deve essere stata la sua
personalità a farla impazzire,
allora».
Per un
attimo pensai che Jas mi sarebbe saltata al collo e invece ridemmo
tutte e tre
insieme.
«Muoviamoci, ragazze, non voglio fare tardi»
intervenne Danielle
riportandoci all’ordine.
Uscimmo dai bagni e in quell'istante vedemmo la professoressa Campbell
venire a passo svelto verso di noi, i
capelli biondi permanentati svolazzanti insieme al caftano dai colori
vivaci che indossava.
«Maledizione» sussurrò Jas.
La Campbell
insegnava teatro e contemporaneamente gestiva molti laboratori, corsi e
strane
iniziative: se la vedevi venire verso di te in quel modo, di sicuro
stava per
appiopparti qualche noiosissimo compito. Tuttavia, la mia amica non
aveva
motivo di preoccuparsi: quel giorno il bersaglio della professoressa
non era
lei.
«Signorina Cullen!» esclamò, un
po’
ansimante. «Bene, lei fa proprio al caso mio».
«Ehm… davvero? Veramente stavo andando in
classe».
«Be', trattenga la sua impazienza, ci andrà
tra un minuto: certamente saprà che ieri si è
unito a noi un nuovo studente, il
signor Alexander Hayden». Oh, no. Ancora lui! Mandai un
gemito, ma la Campbell
non se ne accorse, o forse lasciò perdere, e
proseguì. «Dovrebbe essere il
Comitato di benvenuto che ho fondato tre anni fa ad occuparsi di queste
cose,
ma purtroppo ne fanno parte solo studenti dell’ultimo anno e
sono tutti via per
una vacanza studio: serve qualcuno che li sostituisca e lei sarebbe
perfetta».
Trattenni il fiato, inorridita, e accanto a
me sentii Jas e Danielle fare altrettanto.
No.
Tutto, ma questo no.
«Oh, ma… sono
sicura che i membri del Comitato
di benvenuto svolgeranno alla perfezione il loro compito quando saranno
tornati».
«Torneranno tra una settimana, non possiamo
aspettare tanto» ribattè la professoressa con tono
scocciato. «Il signor Hayden potrebbe perdersi e non tornare
mai più a casa».
Be', tutta la Forks
High School sapeva che la Campbell non aveva tutte le rotelle a posto,
ma quello era troppo anche per lei.
Stava
cercando di incastrarmi.
«Questa scuola non è così
grande»
protestai.
Tutto inutile.
«Non discuta con me, signorina Cullen!»
sbottò, stizzita. «Lo aspetterà alla
fine della quarta ora fuori all’aula C1,
edificio sei, lo accompagnerà a fare un giro per la scuola,
risponderà alle sue
domande, eccetera eccetera. Oh, ovviamente questo non è nel modo più assoluto
una scusa
per saltare la quinta ora. Verificherò che lei e il signor
Hayden facciate regolamente
lezione per il resto della giornata».
Sospirai, sconsolata. A quanto pareva, non
avevo scelta. «Devo farlo da sola?» borbottai.
«Be'… se proprio ci tiene, la signorina
Williams e la signorina Warner possono aiutarla». Percepii
nuovi sospiri al mio
fianco, questa volta sognanti. A stento mi trattenni dal mettermi a
strillare.
«Mi raccomando, conto su di lei per tenere alto il nome della
nostra scuola.
Ricordi, quarta ora, aula C1, edificio sei. Buona giornata,
signorine». Ci
salutò con un gesto distratto e scomparve lungo il corridoio.
Per un secondo rimasi in silenzio,
ammutolita, poi sparai un’imprecazione così grossa
che Jas scoppiò a ridere e Danielle mi guardò con
aria
sconvolta. Loro non potevano sapere che a casa zio Emmett ne sfornava
una ogni cinque minuti, facendo arrabbiare parecchio la mamma se io mi
trovavo nei paraggi. «Non ci posso credere!»
sbottai. «Mi
ha incastrata! Quella vecchia bacucca mi ha incastrata!»
Jas mi passò un braccio intorno alle spalle.
«Su, dai… Non è così
terribile».
La fulminai con lo sguardo. «Ah, no? Sono
soltanto costretta a passare il resto della giornata con un tizio
che... che...».
Non seppi come finire la frase e non aggiunsi nulla.
Per tutta risposta, Jas ridacchiò.
«Secondo me è un tipo simpatico. E tu sei
perfettamente in grado di tenerti alla larga dai guai»
osservò Danielle con la sua solita calma e
razionalità. «Comunque
non sarai sola».
Già, l’avevo momentaneamente dimenticato. Mi
sentii un po' meglio.
«A proposito, grazie tante per averci
coinvolte!» sbottò Jas all’improvviso.
«Quando lo vedrò non potrò resistere e
gli salterò addosso per baciarlo, Tom mi lascerà
e sarà tutta colpa tua,
Scheggia».
«Non chiamarmi in quel modo! Mettiti un sacco della
spazzatura in testa, allora, così
non vedrai un bel niente e non cadrai in tentazione». Jas mi
lanciò un'occhiata
offesa e divertita insieme, ma non le lasciai il tempo di dire altro.
«Ho
biologia con Morton, adesso, meglio che mi sbrighi. Voi
cos’avete?»
«Studi sociali» rispose Danielle.
Dovevamo separarci. «Allora ci vediamo tra
un’ora nell'edificio sei… Non fate tardi, mi
raccomando».
Io invece ero già in
ritardo e dovetti precipitarmi in
classe. Maggie, la mia compagna di laboratorio, era già
seduta, come anche la maggior parte dei ragazzi, e mi fece un cenno da
lontano.
Oltrepassai Tom, seduto davanti a lei, e schizzai al mio
posto.
«Ciao» la
salutai un po’ affannata.
«Ehi, Renesme». Lanciò
un’occhiata alla
porta da cui era appena entrato il professor Morton. «Ce
l’hai fatta per un
pelo. Dov’eri finita?»
Mi raccolsi i capelli in disordine dietro le
spalle. Accidenti a quei riccioli. «In bagno con Jas e
Danielle e poi siamo
state fermate dalla Campbell».
«Perché? Che voleva?»
Le
spiegai qualcosa sotto voce, ma fummo interrotte dal professore che si
schiarì
rumorosamente la voce.
«Cosa? Sul serio? Tu, Jas e Danielle dovete
portare in giro quel tizio?» esclamò Tom girandosi
di colpo verso di noi.
Sulla sua fronte sembrava quasi lampeggiare una scritta al neon: Gelosia
mortale e odio per gli occhi azzurri. Prima che potessi
trovare una risposta
decente, Morton richiamò la classe all’ordine e
Tom tornò con uno scatto a
guardare davanti.
Passai tutta l’ora a rimuginare su quello che mi aspettava e
cercando freneticamente un modo per scamparla, dal
fingere uno svenimento a una fuga in piena regola. Non ne trovai
nessuno che
fosse sufficiente. Conoscendo la Campbell ero sicura che se avessi
cercato di
fregarla non mi avrebbe più dato tregua fino a giugno. Era
dall’inizio
dell’anno che cercava di convincermi a frequentare quel suo
stupido corso di
teatro e di certo non intendevo fornirle un’ottima scusa per
obbligarmi a
partecipare.
Ma la prospettiva di trascorrere del tempo con quel ragazzo mi metteva
in agitazione. Di solito ero una frana, timida e imbranata, con le
persone
che non conoscevo bene. Lui, invece, sembrava così
tranquillo e sicuro
di sè, spiritoso, sfacciato e rilassato. Il tipo di persona
che non si
sente mai a disagio. L'esatto opposto di me. Probabilmente gli avrei
fornito dieci motivi per prendermi in giro entro i primi cinque minuti.
Eppure... non mi andava giù l'idea di dargliela vinta. Forse
Alexander non avrebbe mai saputo dei miei timori, però
l'avrei saputo io.
In fondo avrei dovuto solo portarlo un po’ in giro e dargli
qualche informazione. Potevo ignorare le sue battute e i suoi modi
provocatori e magari anche evitare
guardare quegli irritanti occhi azzurri... Potevo farcela.
Non ascoltai quasi nulla della spiegazione
di Morton e se non avessi avuto accanto Maggie, che era una specie di
mostro
nelle materie scientifiche, avrei distrutto un mucchio di provette, il
plastico
che riproduceva la struttura delle cellule e la mia media in biologia
beccandomi
una bella C. Al suono della campanella schizzai in piedi, facendo un
gran
baccano con la sedia e guadagnandomi un’occhiataccia dal
professore, raccolsi
le mie cose e salutai Maggie.
«Ciao, ci vediamo a pranzo».
Lei annuì. «Sì, buona
fortuna». Sembrava un
po’ preoccupata.
Mentre mi avviavo alla porta sentii la voce di Tom che mi
chiamava.
«Renesmee! Renesmee, aspetta…».
Accelerai e uscii dalla
classe prima che potesse fermarmi e chiedermi di sorvegliare Jas e
tenerla alla
larga da Alexander "Rubacuori" Hayden… Quello sarebbe stato
davvero troppo,
visto che già dovevo tenere me
stessa
alla larga da lui. Corsi al mio armadietto, che per fortuna era
lì accanto, lo
spalancai, svuotai lo zaino e ci infilai dentro altri due libri a tempo
di
record. Stavo per richiudere l’armadietto quando notai
qualcosa: un bigliettino
rosa piegato in quattro e infilato tra le griglie di aerazione dello
sportello. Mi alzai in punta di piedi
per prenderlo e lo aprii, riconoscendo all’istante la
scrittura di Jas.
Ciao R! Io e D abbiamo altro da fare che star
dietro allo Straniero: te lo lasciamo.
Divertitevi! Baci. J
R, io non
ero d’accordo, ma J mi ha minacciata. Prenditela con lei. D
R, se
spifferi alla C. giuro che sostituisco
la tua sfilza di A con una sfilza di F.
Tanto lo sai che ci riesco. J
Fissai
quelle parole a bocca aperta per un
secondo, scioccata.
Cosa? Cosa?! Mi
stavano mollando? Mi lasciavano a vedermela da sola con quello?
Al panico si sostituì la furia e per un secondo pensai di
correre a cercarle e fare una bella scenata a tutte e due, al diavolo
Alexander e al diavolo la Campbell!
Ma fu solo un istante, poi la ragione ebbe la
meglio. Dovevo andarci, anche da sola. Non avevo scelta. Volevo forse
scambiare
un paio d’ore di battutine con quattro
mesi di persecuzioni della Campbell? Decisi in un lampo. E quelle due
perfide
me l’avrebbero pagata più tardi: Jas poteva anche
scordarsi i miei appunti
d’inglese per il resto dell’anno,
altrochè.
Mi diedi un’occhiata veloce allo
specchio che tenevo appeso nell’armadietto, giusto per
accertarmi di essere
in ordine, non per altro, e mi accorsi di avere le guance rosse e
accaldate e
il fiato corto… Ma solo perché ero di fretta,
tutto qui. Chiusi la porta
dell’armadietto e corsi via con il cuore che stranamente mi
batteva forte.
Per raggiungere l’edificio sei dovetti
uscire e attraversare mezzo cortile sotto la pioggia. Correndo per non
fare
tardi, entrai e percorsi in fretta i corridoi scivolosi e gremiti di
studenti
più grandi. Ero a pochi passi dall’aula C1 quando
da un gruppetto di ragazzi
spuntò lui. Mi bloccai con una frenata al centro del
corridoio e per poco non investii in pieno due innocenti studentesse di
passaggio.
Alexander stava parlando con un ragazzo. Sembrava calmo, tranquillo e
padrone della situazione. Non aveva per niente l'aria di uno appena
arrivato. Chiacchierava e si guardava intorno come se avesse parlato
con quelle persone e percorso quel corridoio da tutta una vita. A un
tratto si girò e mi vide. Smise di parlare e per qualche
secondo, una manciata di lunghissimi secondi, mi guardò da
lontano, fermo, con aria seria. Poi salutò il suo amico con
un cenno della mano e venne verso di me camminando lentamente.
Cercai di scuotermi e
di parlare, ignorando il fiato corto, il cuore a mille e la bocca
secca, ma lui mi anticipò. «Ehi, Scheggia! Che ci
fai da queste parti?» esclamò, sfoderando un
sorriso fantastico. Ne fui
abbagliata per un istante, ma il pensiero delle sue prese in giro del
giorno
prima bastò a raffreddarmi. Dovevo mantenere le distanze o
chissà quali strane idee si sarebbe fatto.
«Ciao» cominciai con tono piuttosto freddo e subito
dopo rimasi in silenzio. Avevo la sensazione che la mia testa si fosse
svuotata. Mi ci volle un po' per riordinare le idee e tirare fuori una
spiegazione. «Io... sono... Ehm... devo farti da
guida» farfugliai, affannata.
Alexander sgranò gli occhi mentre io mi
maledicevo silenziosamente per essermi resa ridicola la prima volta che
avevo aperto bocca. Devo
farti da guida? Dove credevo di essere, in un
museo? Quella storia del Comitato di benvenuto sembrava ridicola anche
a me, che avevo a che fare con le stramberie della Campbell da due
anni, figurarsi a lui che era appena arrivato in quel mondo di matti.
«Wow» commentò sottovoce.
Gli brillavano gli occhi. «Allora guidami»
aggiunse con uno strano tono suadente. «Sono tutto tuo,
bellezza».
Ma che
razza di idiota! Fui a un millimetro dal tirargli uno schiaffo: ero
forte
abbastanza da fargli saltare un dente, così il suo sorriso
sarebbe stato di
sicuro meno perfetto. Peccato che una cosa del genere andasse un
tantino contro
la politica di mimetizzazione della famiglia Cullen: stendere un
ragazzo che era il doppio di me avrebbe attirato troppo
l’attenzione. La tentazione, però, era
fortissima: già sentivo ruggire la vampira che era in me.
Meglio andarsene. Mi
voltai di scatto, ma lui mi trattenne per il polso, costringendomi a
voltarmi
di nuovo. Il fiato mi si mozzò in gola. Mi stava toccando.
«Aspetta. Scusa, non volevo prenderti in
giro». Riuscii a riprendermi abbastanza da inarcare le
sopracciglia, mentre lo
fissavo. Alexander ridacchiò, cercando di trattenersi.
«Be', forse un
pochino, ma stavo scherzando. Giuro». Adesso sembrava serio.
Almeno un po'. Sospirai e
feci un cenno con la testa. Mi lasciò il braccio ed io
ricominciai a respirare.
«Cos'è questa storia della guida?»
«C’è un Comitato
d’accoglienza, qui a
scuola, che si occupa dei nuovi studenti, ma tutti quelli che ne fanno
parte
sono via per una vacanza studio. Serviva qualcuno che li sostituisse e
hanno
chiesto a me» spiegai cercando di avere una voce normale.
Un altro sorrisino. «Per caso devi scontare
una punizione o qualcosa del genere?»
Idiota.
«No» sbottai. «È solo
che… la professoressa che gestisce queste cose è
una
specie di squalo travestito da donna e mi ha incastrata».
Mi fissò per un attimo, poi scoppiò a
ridere. «È anche peggio! Se avessi combinato
qualcosa almeno adesso potresti
vantartene».
Che razza di logica!
«Sì, certo, è un vero peccato che io
non mi
sia messa nei guai! Comunque devo farlo e basta». Ci tenevo a
sottolineare che
non ero stata io a propormi perché nutrivo un qualche
interesse nei suoi
confronti.
«Insomma, è come se io fossi un compito a
casa» concluse.
Scrollai le spalle. «Più o meno
sì».
«D’accordo. Allora forza, guidami!» e
accennò
al corridoio davanti a noi.
Gli lanciai un’occhiataccia. «La smetti di
dirlo, per favore? Mi fai sentire una guida turistica. E smettila anche
di
chiamarmi Scheggia».
«Come faccio se non so il tuo vero nome?
Come dovrei chiamarti? Dolce
fanciulla dagli occhi color cioccolato…?».
Mi guardò con aria beffarda, ma la mia espressione gli fece
in qualche modo cambiare
atteggiamento. «È meglio se ci presentiamo, non
credi?» disse subito e mi
tese la mano. «Alexander Hayden, ma preferisco
Alex… anche se probabilmente lo
sai già».
Gli fissai la mano per un istante prima di
ricambiare la stretta. «Renesmee Cullen».
Strabuzzò gli occhi. «Renesmee? Non era
meglio Scheggia? Decisamente più breve e più
facile da pronunciare».
«Il mio nome è difficile solo per te»
mentii, seccata, e gli strappai dalle mani il suo orario delle lezioni.
«Cos’hai adesso?»
«Spagnolo» rispose prima che potessi leggere.
«In effetti non so dove sia quest’aula».
«Quando sei arrivato non ti hanno dato una
mappa o qualcosa del genere?»
Nei suoi stupefacenti occhi azzurri guizzò un
lampo che non compresi, ma un secondo dopo era scomparso.
«Sì, ma… l’ho
persa».
«Fantastico» commentai, ironica. «Su,
andiamo, ti accompagno. E ti faccio vedere anche l’aula magna
per le assemblee,
è nello stesso edificio».
Gli restituii l’orario e ci incamminammo lungo il
corridoio. Dopo circa trenta secondi di silenzio di tomba stavo
già annegando
nell’imbarazzo più totale. Annaspai, cercando
disperatamente qualcosa da dire, e intanto insultavo tra me e me la
Campbell per
avermi messa in quella situazione e Jas e Danielle per avermi
abbandonata,
quando lui parlò.
«Io non ti piaccio, vero?»
La sua domanda mi paralizzò e mi fece
arrossire di botto mentre ne valutavo i possibili
significati… ma ovviamente
poteva intendere solo piacere
in senso lato. «N-non ci conosciamo affatto»
balbettai.
«Diciamo allora che mi conosci abbastanza
da trovarmi insopportabile».
Sospirai. «No… È quel soprannome che
non sopporto».
Di certo non avrei potuto rispondere semplicemente che la sua vicinanza
mi metteva a disagio. Come bugiarda facevo pena, lo sapevo. Potevo
sperare di mentirgli soltanto adesso che ci eravamo appena incontrati.
Ben presto mi avrebbe conosciuta abbastanza da smascherarmi al minimo
tentativo. L'unica bugia che fossi capace di raccontare con un minimo
di credibilità era quella sulle mie origini e la mia famiglia³,
ma solo perchè ci avevo fatto l'abitudine: mi ero allenata
ad utilizzarla da tanto di quel tempo che ormai non me ne accorgevo
quasi più.
«Però devi ammettere che è perfetto per
te…
ti sei vista, prima? Ma vai sempre così di fretta? O forse
eri solo impaziente
di vedermi!» esclamò e rise di gusto.
Lo fulminai con lo sguardo. «Come no! Quando
ti sei intrufolato di nascosto nella mia aula ho passato i tre minuti
più
eccitanti della mia vita… A parte l’attimo fugace
in cui mi hai quasi
schiacciata sull’asfalto, ovvio».
Fu il suo turno di sospirare. «Okay, è
evidente che io e te abbiamo cominciato con il piede sbagliato. Ti va
di
stipulare una tregua?» disse e sollevò gli occhi
verso di me con
un’espressione irresistibile. Mi mancò il fiato.
«Una tregua? Okay» balbettai. Cercai di
riprendere il controllo del mio respiro. «Niente
più Scheggia, però».
«Uffa! Va bene». Sogghignò.
«Tanto prima o
poi sarai tu stessa a darmi il permesso di chiamarti
così». Sembrava certo del
fatto suo.
«Non credo proprio» risposi a denti
stretti.
«Dai, è in corso una tregua, ricordi?
Pace».
Mi prese per il gomito e fui costretta a fermarmi. Eravamo nel bel
mezzo del
cortile, sotto una pioggerellina battente. Il mio cuore fece un tuffo
mentre mi
fissava con uno sguardo serio che non gli avevo mai visto, ma era
bello:
rendeva i suoi occhi ancora più intensi.
Avanti,
Renesmee, piantala. Non
fare la stupida.
Sbuffai. «Pace».
Alex mi fissò ancora per un secondo, poi
sorrise e mi lasciò andare. «Bene! Muoviamoci,
sono proprio curioso di vedere
quest’aula magna».
Quel tono ironicamente emozionato mi strappò
una risata. «Resterai impressionato, te lo
garantisco!» scherzai. Lo
precedetti dentro l’edificio fino a una porta a
vetri a doppio battente.
«Ecco qui. Le assemblee si tengono ogni primo
lunedì del mese, un quarto d’ora
prima dell’inizio delle lezioni. Di solito il preside parla
dei problemi della scuola, ma tanto nessuno lo sta mai a sentire. In
teoria la
partecipazione è obbligatoria, salvo giustificazioni, ma
è impossibile che
riescano a controllare sempre tutte le classi… Se ti
beccano, però, ti tocca un
doposcuola punitivo. Conoscerai un sacco di persone se partecipi alla
prossima
assemblea».
Alex sbirciò oltre i vetri. «Credo
che l’aula magna della mia vecchia scuola potrebbe contenere
tutta la Forks
High School».
Alzai le spalle. «Be', è una scuola di
provincia».
«Quanti sono gli iscritti?»
«Trecentoquarantanove».
Fece un fischio modulato. «A New
York frequentavo una scuola privata, ma eravamo comunque di
più».
«Una scuola privata, eh?» mormorai
lanciandogli un’occhiata curiosa.
In effetti, adesso che potevo osservarlo
meglio mi rendevo conto che aveva proprio l’aria,
l’abbigliamento e il modo di
fare di un ragazzo iscritto a una scuola privata di New York. Tra gli
studenti
del liceo di Forks spiccava come una rosa rossa sulla neve. Riuscivo ad
immaginarmelo fin troppo bene con indosso una di quelle uniformi
perfettamente
stirate, nel suo costosissimo attico all’ultimo piano di un
grattacielo di
Manhattan,
mentre discuteva al cellulare ultimissimo modello con il suo
avvocato personale del conto in banca
di milioni di dollari che i genitori
gli avevano intestato alla nascita… Be’, in teoria
anch’io avevo un conto in banca che Carlisle mi aveva
intestato da poco, ma
non c’entrava nulla. Io non avevo
quell’atteggiamento… la soggezione
che tutti sembravano provare verso me e la mia famiglia era solo un
fatto
istintivo per gli umani. Oppure no?
Alex mi rivolse uno sguardo divertito.
«Non lo sapevi? Vuoi dire che tutti gli
studenti di questa scuola non stanno parlando di me da due
giorni?». Esitai,
ripensando a certi discorsi delle mie amiche. Alex prese
quell'attimo di silenzio come una risposta positiva. «Lo
vedi?» esclamò
con aria trionfante. «Su, raccontami tutti i pettegolezzi che
hai sentito».
E adesso? Come ne sarei uscita? Stavo già per
scappare urlando, quando un pensiero mi venne in aiuto.
«Magari dopo! Faccio
tardi a lezione se non mi sbrigo e anche tu. La tua aula è
subito dopo
l’angolo del corridoio, la prima a destra». Non gli
lasciai il tempo di
parlare. «Se ti servisse qualcosa cercami pure, sono
nell’edificio uno, aula A3, okay? Ciao!»
Mi girai e corsi via, allontanandomi il più in fretta
possibile. Quando fui di nuovo in cortile, mi resi conto che era
andata: ce l'avevo fatta. Trassi un sospiro di sollievo, convinta che
non l’avrei rivisto almeno per il resto
della giornata: la nostra scuola era così piccola che
perdersi o non trovare
un’aula sarebbe stato quasi impossibile… Quel
Comitato di benvenuto era pressoché
inutile, l’ennesima sciocchezza messa in piedi dalla
Campbell. Quindi era
parecchio improbabile che Alex avesse bisogno del mio aiuto per
qualcosa
e non aveva nessun altro motivo per cercarmi.
Quando entrai nell’aula di letteratura, la
lezione successiva, individuai subito chi stavo cercando: Jas e
Danielle
facevano capannello con Holly e Maggie parlottando sotto voce. Le
raggiunsi a
passo di marcia.
«Siete le peggiori amiche che potessi avere»
sbottai.
«Renesmee, mi dispiace!» esclamò
Danielle.
«Io non volevo, Jas mi ha costretta, lo
giuro…»
Fu
interrotta proprio da Jas, che alzò gli occhi al cielo.
«Oddio, quante storie
per niente! Non capisci che l’abbiamo fatto per te? Su,
raccontaci com’è
andata».
«Sì, raccontaci!» squittì
Holly, eccitata
come una bimba la mattina di Natale. Maggie non disse nulla, ma il suo
sguardo
curioso implorava notizie. Fui costretta a soddisfare la loro
curiosità per
evitare di essere assediata per il resto del tempo.
«Wow» fece Holly sottovoce quando ebbi
terminato. «Secondo me gli piaci».
Anche lei? Sentii un tuffo al cuore. «Ma che cavolo
dici?»
«Sì» ripetè, imperturbabile.
«E anche
parecchio».
Danielle strillò e battè le mani, facendo in
modo che mezza classe si girasse a guardarci. Che imbarazzo.
«È
meraviglioso!»
«E tu come fai a dirlo se non ci hai mai visti
insieme?» protestai rivolta ad Holly,
ma lei non ebbe il tempo di rispondere: il professor Berty
entrò in aula e furono
costrette a tacere. Grazie al cielo.
Andai al mio posto, ma un attimo dopo Holly, seduta dietro di me, si
sporse in avanti. «Sì, gli piaci!»
sussurrò.
Ancora?
Adesso la uccido.
«Piantala!» ripetei a bassa voce, esasperata.
Consegnammo le tesine sul ciclo bretone e
cercai di concentrarmi per seguire la lezione sul poeta di Gawain, ma
senza molto successo:
continuavano a balenarmi in mente due occhi azzurri. Quegli
occhi. Erano davvero incredibili. Non avevo mai visto un colore simile,
un blu chiaro e luminoso: era l’esatto colore della sottile
linea dell’orizzonte in cui
mare e cielo s’incontrano in un giorno
d’estate.
Ogni tanto riuscivo a seguire il professor Berty, ma solo per qualche
minuto. Il viso di Alex faceva continuamente capolino nei miei
pensieri, imponendosi ostinato alla mia attenzione. Non potevo negare
di essere... attratta da lui, anche se non ero pronta a volare di
fantasia come le mie amiche, che senza alcun dubbio già
immaginavano uscite a quattro e baci al chiaro di luna. Era la prima
volta che non riuscivo a togliermi dalla testa un ragazzo e cercai di
capire cosa fosse ad attirarmi tanto. Forse proprio quegli aspetti che,
all'inizio, mi avevano un po' indispettita: la disinvoltura, la
sfrontatezza, l'ironia, il sorriso scanzonato... l'espressione dei suoi
occhi. C'era sempre un lieve scintillio ad animare quell'azzurro, come
se una lucina ci ballasse dentro. Quando mi fissava avevo la sensazione
che il suo sguardo, a volte serio e intenso, altre ridente e malizioso,
volesse comunicare un segreto, ma non sapevo quale.
Il suono della
campanella mi colse
talmente di sorpresa che feci un salto di un metro. Incrociai
gli occhi di Jas, seduta al mio fianco, l'espressione compiaciuta
e divertita che mi rivolse mi suggerì che i miei pensieri
dovevano essere piuttosto
evidenti per lei. Arrossii un po' e fui grata ad Holly che
iniziò subito a parlare del prossimo compito in classe di
letteratura. A quanto sembrava, Berty ci aveva comunicato la data
durante la lezione, sebbene io non me ne fossi accorta.
«Non
ci credo, ho il test di matematica e
quello di letteratura nello stesso giorno… Che
strazio» si lamentò mentre
ci avviavamo tutte insieme verso la porta.
«E qual è il problema?»
esclamò Maggie con
aria furba. «Insomma, non ti cambia nulla: tanto non avresti
studiato comunque
per nessuno dei due».
Holly le rivolse
una delle sue occhiate gelide che avrebbero tramortito anche un sasso,
ma Maggie si limitò a sorriderle e ad alzare le spalle come
per scusarsi. Precedendo il resto del gruppo, uscii nel corridoio e mi
bloccai senza fare un altro passo: in piedi, appoggiato al muro,
c’era Alexander Hayden che mi fissava.
«Ehi, Scheggia» mi salutò e
tirò fuori il
solito sorriso smaliziato.
Per un secondo mi limitai a fissarlo, troppo
scioccata persino per prendermela per il nomignolo. «Che ci
fai qui?»
balbettai quando mi riuscì di tirar fuori la voce.
«Come… come sapevi
dov’ero?»
Alle mie spalle potevo percepire lo shock delle ragazze come se fosse
stato una
presenza reale. Non era mai accaduto che restassero
senza parole tutte insieme contemporaneamente, nemmeno quella volta in
cui Tom
aveva minacciato, urlando in mensa durante la pausa pranzo, di
lanciarsi giù dal tetto
dell’edificio
scolastico se Jas non avesse accettato di uscire con lui.
«Me l’hai detto tu» fece Alex
tranquillamente. «Quando te ne sei andata, ricordi? Hai detto
che potevo
cercarti».
Ops. Ah sì, l’avevo detto.
«Certo» risposi,
cercando di sembrare naturale e tirando un respiro profondo. Le mie
amiche mi
stavano così addosso che sembrava volessero spingermi
direttamente tra le
braccia di Alex e mi sentivo un tantino oppressa. «Ti serve
una mano? Dimmi pure».
Per la prima volta da quando lo conoscevo parve leggermente
imbarazzato. «Sì,
ehm… Potresti farmi vedere dov’è la
mensa?»
Caddi dalle nuvole. «La mensa?». Ero
confusa. «Non ci sei già stato ieri? Dovresti
saperla, la strada».
Aveva un’espressione strana, come se si
stesse sforzando di trattenere una risata. «Infatti ieri ci
sono andato, ma…
l’ho dimenticata».
Eh? Dubitai di aver capito. «Hai… dimenticato
la strada per andare in mensa?» ripetei, accigliata.
Lui annuì. Okay, era
troppo. Ero stufa che ridesse di me, non ero il suo clown. E niente
poteva
giustificare quell’umiliazione… nemmeno
l’azzurro dei suoi dannatissimi occhi.
Holly e Jas si sbagliavano di grosso: come potevo piacergli se
continuava a spassarsela alle mie spalle?
«E va bene» sbottai, scocciata.
«È evidente che io non ti sono simpatica e
ovviamente puoi pensare quello che ti pare, ma io non ho il dovere
di stare a sentire un tizio che mi prende in giro, quindi facciamo
così: vado subito a cercare la Campbell e le
chiederò di trovare qualcun altro
che ti faccia da guida».
Feci per andarmene ma lui me lo impedì,
mettendosi davanti a me e bloccandomi la strada. Senza volerlo i miei
occhi
finirono sul suo viso: sembrava sbalordito. «No, aspetta! Non
volevo prenderti
in giro, sul serio… Okay, forse un po’, ma non lo
faccio perché mi sei
antipatica».
I geni vampireschi di mio padre riaffiorarono
di botto in superficie e fu un bene, per Alex, che io riuscissi a
controllarli perfettamente. «Ma
fai sul serio?» ringhiai, inviperita. «Ho
dimenticato la strada per la mensa? Ti ha colpito
un’amnesia, per caso?»
Alex sospirò pesantemente come se fosse
stato costretto ad arrendersi a qualcosa, senza smettere di sorridere.
«Okay,
ecco la verità: vorrei che pranzassimo insieme, oggi. Che ne
dici… ti va?»
Subii uno shock per la seconda volta in meno
di tre minuti. Alle mie spalle sentii tutto il gruppo trattenere
rumorosamente
il fiato in attesa della mia risposta. Per un attimo mi trovai
nell'indecisione più totale. Una parte di me era affascinata
dall'idea di stare con lui, l'altra un po' spaventata. Ero sul punto di
dire di no, ma poi ci guardammo negli occhi e fu come se qualcosa si
sciogliesse all'improvviso dentro di me.
«Vuoi che pranziamo insieme?» ripetei,
leggermente divertita all’idea che fosse solo quello
l’obiettivo delle sue
manovre. «Tutto qui? Certo».
Si rilassò subito e fece un sorriso
trionfante. «Fantastico. Andiamo, allora?»
Mi sentii contagiata da quell’entusiasmo
sincero. Era davvero felice che gli avessi detto di sì.
«Va bene». Avevo fatto appena
un passo quando sentii qualcuno che si schiariva rumorosamente
la voce. Riconobbi subito quel timbro inconfondibile: Holly. Con un
sospiro mi
bloccai e mi rivolsi al gruppetto di pazze furiose che stazionava
ancora sulla
porta. Alex mi guardò, in attesa. «Ehm…
prima di andare vorrei presentarti le
mie amiche» dissi e le indicai una per una. «Loro
sono Holly Matthews, Jas
Williams, Maggie Smith e Danielle Warner».
Alex fu perfetto: sorrise a tutte e strinse
loro le mani, e riuscì persino ad ignorare lo sguardo
affamato di Holly e
quello allucinato di Maggie (sembrava che avesse visto un fantasma).
«Piacere
di conoscervi, ragazze».
«Il piacere è tutto nostro»
squittì
Holly. «Benvenuto alla Forks High».
La fissavo con un crescente senso d’orrore:
se avesse continuato a mulinare i capelli color noce moscata e a
sbattere le ciglia
in quel modo Alex mi avrebbe sostituita all’istante con
lei.
«Okay» dissi con
voce un po' acuta. «Allora noi… andiamo. A dopo,
ragazze».
«Ciao» le salutò Alex.
Ci avviammo
lentamente lungo il corridoio. Prima che
potessimo allontanarci più di tre metri, sentimmo
un'esplosione di strilli, esclamazioni e risate
dietro di noi. Che imbarazzo. Avrei voluto essere inghiottita dal
pavimento
seduta stante.
«Ehm… scusa» farfugliai verso Alex.
Sentivo le guance in
fiamme, quindi probabilmente sembravo un pomodoro con i capelli.
«Non fanno
sempre così».
Lui non
sembrava seccato. «No, tranquilla. Evidentemente erano
impazienti di vederti
andare a pranzo con me» disse con tono malizioso.
Mi scappò una
risatina isterica. «Ma se fino a ieri non sapevamo nemmeno
della tua
esistenza».
«Già, e le vostre vite erano grigie e
noiose, vero?»
Mi era appena venuto in mente un nuovo
soprannome per lui, "Faccia da schiaffi". Chissà se gli
sarebbe piaciuto. «Non
sai quanto» sbuffai, lanciandogli un’occhiataccia.
«Allora confermi che tutti stanno parlando
di me da quando avete saputo del mio arrivo?»
insistè. Sembrava una domanda
retorica.
Fui incerta per un attimo poi sollevai le
spalle. «Be’… siamo in un piccolo
centro, te l’ho detto: non succede mai niente
da queste parti e l’arrivo di un nuovo studente rappresenta
sempre un bel
diversivo».
«Quindi sono circolati parecchi
pettegolezzi?»
Feci un sorrisino. «Qualcuno».
«E anche tu e le tue amiche avete spettegolato?»
Non sopportavo quel suo tono malizioso… e
allo stesso tempo lo adoravo. Decisi di ricambiarlo un po’
con la stessa moneta
che aveva usato con me. «Certo. Ovvio. Ad esempio,
è probabile che appena ci
siamo allontanati la mia amica Holly abbia detto a tutti che sei un
agente della CIA in incognito».
Scoppiò a ridere di gusto.
«Touchè!»
esclamò.
Mentre percorrevamo il corridoio che conduceva alla mensa, mi accorsi
che parecchie persone si giravano a guardarci con espressioni curiose.
Due omini verdi scesi da una navicella spaziale che si fossero messi a
passeggiare tra gli studenti avrebbero attirato meno
l’attenzione. Provai imbarazzo, ma anche un certo piacere.
Ero sempre
stata oggetto di sguardi curiosi, dappertutto e fin da piccolisiima,
per quel
che potevo ricordare. Era il prezzo di essere una Cullen. Ma quella
volta era
diverso perché sapevo che non era per me. Era per lui. Era
perché un ragazzo
fantastico e sconosciuto mi camminava accanto…
Perché lui era
fantastico… Holly doveva avermi attaccato qualcosa,
accidenti!
Quando entrammo in mensa fu ancora peggio:
forse era solo la mia immaginazione, ma mi parve che tutti si
fermassero un
istante, un istante quasi inesistente tanto passò in fretta,
per osservarci e
registrare il nostro arrivo, insieme.
Stavamo facendo colpo. O forse stavo solo diventando paranoica.
«Che ne dici?» propose Alex indicando un tavolo con
cinque sedie un po' isolato dagli altri.
«Va bene» risposi.
Sembrava proprio che Alex volesse stare un po’ tranquillo e
da
solo con me. A quel pensiero mi si contrasse lo stomaco. Possibile che
gli
piacessi davvero? Ci stavamo liberando di giacche, sciarpe e borse
quando
qualcuno piombò accanto a noi. Sollevai lo sguardo e per
poco non mi cadde la
mascella. Ecco chi ci voleva per rovinare la mia pausa pranzo in
compagnia del
ragazzo più bello che avessi mai visto: Caroline Johnson,
capo delle
cheerleader e Ape Regina della Forks High. Tutti i maschi presenti nel
raggio
di venti metri cominciarono a sbavare, a ridacchiare e a darsi di
gomito.
Penosi. Tutti tranne Alex, che si limitò a guardarla in modo
del tutto normale.
«Ciao Alex!» squittì Sua Altezza.
«Ciao» la salutò lui con un mezzo
sorriso.
A quel punto la mia mascella era piombata a terra con un tonfo. Si
conoscevano?
Cosa? Come? Quando?
«Come va?» continuò Caroline con il
solito
tono che usava per accalappiare i ragazzi. Gliel’avevo
sentito usare così
spesso che ormai non mi suscitava più le risate a non finire
delle prime volte.
Ah, bei vecchi tempi!
«Sono contenta di rivederti».
«Sì, anche… anche a me fa
piacere».
«Spero che tu ti stia trovando bene. Ti stai
ambientando?»
«Abbastanza» fece Alex rivolgendomi
un’occhiata eloquente e il mio cuore fece una capriola su se
stesso.
Caroline continuò ad ignorarmi
beatamente, concentrata sulla sua preda.
«Bene! Ma in fondo... sei qui solo da due giorni e capisco se
non hai nessuno con cui
pranzare… Se vuoi puoi sederti con me e i miei
amici».
Fu
come una doccia d’acqua gelata. La
stupida oca aveva ragione, accidenti. Alex era appena arrivato e
probabilmente
non aveva ancora fatto amicizia con nessuno. Quella mattina, quando ero
andata a cercarlo, mi era sembrato abbastanza inserito tra i compagni
di classe, sì... Però era risaputo che nessuno
accettava volentieri i novellini a tavola durante il pranzo. Forse
voleva evitare di rimanere da solo portandosi dietro qualcuno...
qualcuno tipo me.
Che stupida, Renesmee.
Avevo costruito un
castello in aria basandomi solo su un paio di sorrisi e sulle
elucubrazioni
delle mie amiche psicopatiche, e per giunta Alex se ne era reso conto
perfettamente. Dio, che imbarazzo. Avrei voluto morire. Avrei voluto
strisciare
sotto il tavolo e morire.
Alex le dedicò uno strano sorriso. «Ti
ringrazio, sei molto gentile. Forse non ci hai fatto caso, ma stavo per
pranzare
con Renesmee. Vi conoscete?» disse, e fece un cenno nella mia
direzione. Finalmente Caroline
puntò i suoi occhi color ghiaccio su di me.
«Oh, sei qui! Non ti avevo vista!»
Le rivolsi un sorriso acido che avevo appreso da zia Rose in persona.
«Ciao. Neanch’io ti avevo vista».
Alex abbassò la testa per celare un sorriso mentre lei mi
guardava con aria confusa. «Sul serio?» disse
distrattamente, poi tornò ad
Alex. «Be’, allora… rimandiamo a
domani?»
Lui alzò le spalle. «Si
vedrà» fu
l’enigmatica risposta, e stavolta toccò a me non
scoppiare a ridere.
Caroline scosse con aria stizzita la lunga
chioma bionda. «Bene! A domani… Baci
baci!»
Salutò Alex con la mano, mi ignorò
con decisione ancora una volta e poi marciò verso il suo
tavolo. Dopo che si fu
allontanata ci fu un attimo di silenzio.
«Prendiamo il pranzo?» propose Alex in tono
leggero.
Mi sforzai di apparire tranquilla, anche se l'idea che lui mi avesse
cercata solo perché non aveva nessun altro con cui
stare e non perchè gli piacevo faceva male. Come avevo fatto
a non pensarci prima? Proprio io che rimproveravo le mie amiche di
fantasticare troppo, avevo fantasticato anche più di loro. E
in fondo perché era così importante per me
piacergli?
Sapevo che c’erano parecchi ragazzi a scuola che avrebbero
fatto carte false
per uscire con me, ma nessuno di loro mi aveva mai interessato,
così come non
mi aveva mai fatto né caldo né freddo essere
guardata da loro. Perchè l’idea che ad Alex non
piacessi in quel modo era così... deprimente? Non
ha senso, pensai, arrabbiata, mentre facevamo la fila al
banco
delle vivande.
«Ehi, va tutto bene?»
La voce dell’oggetto
delle mie riflessioni mi riscosse. Misi di nuovo a fuoco il suo
viso.
«Sì, tranquillo». Gli sorrisi e sentii
svanire l'espressione contratta del mio viso.
«Accidenti, ma qui c’è sempre
quest’odore?»
chiese storcendo il naso.
«Be’, immagino che nella tua
scuola privata a New York ci fosse un cuoco Cordon Bleu o qualcosa del
genere».
«Non saprei, ma di sicuro non c’era
quest’odore». All’improvviso
cambiò espressione. «A casa mia ne avevamo uno,
però». Il suo tono leggermente amaro mi
stupì. Aveva uno sguardo indecifrabile.
«Gaston. E non era solo un grande cuoco, ma anche un
brav’uomo».
Sembrava che parlarne lo addolorasse. Cercai
di alleggerire l’atmosfera. «Scommetto che la
cucina di Gaston è la cosa che
più ti manca di New York» scherzai.
Non funzionò. Anzi, il suo bel viso si
rabbuiò in un attimo e non rispose. Ero sempre
più a disagio. Ma che gli
prendeva?
«Ehi, Alex» esclamò una voce. Ci
voltammo
entrambi, io segretamente sollevata che fosse arrivato un diversivo, e
forse
anche lui. Accanto a noi si erano fermati due ragazzi che non riconobbi.
Alex sorrise e finalmente si rilassò di
nuovo, come se fosse stato un gesto automatico per lui cambiare
espressione
così velocemente.
«Ciao ragazzi».
«Che ti è preso, prima? Sei letteralmente
fuggito via dall’aula» disse uno dei due, biondino
e smilzo. «Non che mi interessi la letteratura spagnola del
Cinquecento, ma alla professoressa non deve aver fatto molto piacere. E
comunque
pensavamo che saresti venuto in mensa con noi anche oggi».
E così era fuggito via dalla lezione
dell’ultima ora? E perché mai? Per…
correre da me? Sbirciai l'espressione di Alex: sembrava abbastanza
rilassato.
«Scusate, è che… dovevo fare una
cosa» rispose e mi fece
l’occhiolino.
I due tipi si lanciarono uno sguardo
d’intesa. «Ah…» disse il
biondo. «Sembra una cosa
piuttosto interessante». Il
modo in cui mi guardava era così insinuante che ricambiai
con un’occhiataccia.
«Ehi, lasciali in pace» intervenne
l’altro
con un ghigno. «A dopo, Alex… e buona
fortuna!»
Si allontanarono ridendo e bisbigliando tra loro
«Scusa» disse Alex, sospirando, dopo un minuto di
silenzio.
«Li ho appena conosciuti, non sapevo che fossero due completi
idioti».
«Non preoccuparti. Sono tuoi amici?»
«Frequentiamo qualche lezione insieme e ieri
mi hanno invitato a pranzare con loro».
A quel punto realizzai una cosa: Alex
conosceva delle persone. Non erano ancora amici veri e propri, ma
avrebbe avuto
qualcuno con cui stare, e invece di pranzare con loro aveva scelto me.
Non ero
solo una specie di ripiego, allora. Quel pensiero mi fece sentire tanto
bene
che quando presi il mio vassoio avevo un gran sorriso sul volto.
Alex mi guardò stranito mentre, dopo aver preso il
suo vassoio, afferrava anche il mio per togliermelo di mano.
«Che c’è? La visione di un piatto
di pasta al formaggio puzzolente ti rende felice?»
«Adoro la pasta al
formaggio… anche quella puzzolente».
Mi guardò con aria stupita, ma capì che stavo
scherzando. Scrollò la testa e poggiò entrambi i
vassoi sul tavolo. Ci sedemmo.
«Allora, dove eravamo rimasti?»
ricominciò
lui. «Ah, sì: i pettegolezzi. E così
sarei un agente della CIA, eh?»
Annuii, seria. «Secondo Holly sì».
«E secondo te?»
«Secondo me sei un serial killer» lo provocai.
«Davvero? E l’idea che io possa
essere una persona normale non piace a nessuno?»
«Ma se non hai l’aspetto di una persona
normale. Solo i jeans che porti costeranno un occhio della
testa».
«Perché, i tuoi no?». Mi guardava con
aria
di sfida. «Nemmeno tu hai l’aspetto di una persona
normale. Ho visto come ti
fissano gli altri».
«Come mi fissano?» domandai con calma.
«Come se fossi un alieno o qualcosa del
genere. Ma un alieno che sembra perfettamente inserito».
Le sue parole mi
fecero sorridere. «Be',
ti giuro che non sono un alieno»
esclamai, disinvolta. Tanto era la verità. Non avevo
detto Ti giuro
che sono
umana.
«Però scommetto che spettegolano anche su di
te, o quanto meno l’hanno fatto in passato. Ho
ragione?»
Questa volta pensai con cura la risposta.
Lui sembrava fin troppo perspicace. «Vivere in provincia ha i
suoi lati
negativi».
«Non passeresti inosservata nemmeno nelle
affollatissime e caotiche strade newyorkesi, te lo
garantisco» rispose Alex, accompagnando le sue parole con
un'occhiata decisamente lusinghiera. Imbarazzata, cercai di cambiare
argomento.
«Ma scusa, ti preoccupi dei pettegolezzi e
poi frequenti Caroline Johnson?» lo provocai.
«Uhm, è
anche peggio di quello che sembrava» mugugnò dopo
aver assaggiato una
forchettata di pasta. «Io non frequento Caroline Johnson, mi
ha cercato lei il
primo giorno e si è presentata, tutto qui».
«Lo sai chi è quella?»
«Un alieno?»
Sorrisi. «Peggio. È l’Ape Regina della
Forks
High».
«L’avevo intuito» disse e
sospirò. «Non c’è
bisogno che tu mi istruisca, conosco perfettamente il tipo. Nella mia
vecchia
scuola ce n’erano a bizzeffe di ragazze
così».
«Non ti piacciono molto, vero?»
Storse il naso. «Le
sopportavo a malapena. A
quanto pare, qui mi toccherà sopportare Caroline».
«Be’, sei in buona compagnia: non piacciono
nemmeno a me».
Fece un ghigno. «In effetti la scenetta di
poco fa è stata davvero divertente. Non
c’è un grande affetto tra voi, eh?»
Cercai le parole giuste. «Non possiamo
proprio definirci nemiche, anche se sono abbastanza sicura che
nella sua
testa succeda spesso, ma nemmeno amiche. Siamo sempre state molto in
competizione».
«Su cosa?»
Ingoiai un boccone di pasta
prima di
rispondere. «Oh, su tutto: lo studio, le
amicizie…». Mi bloccai prima di
inserire nell’elenco qualcosa di cui avrei potuto pentirmi.
Ma Alex intuì come avrebbe continuato il mio discorso. Era
decisamente troppo
intuitivo, questo ragazzo.
«E…?» disse.
«Cos’altro?». Io rimasi zitta.
«I ragazzi, forse?»
«No» risposi, così precipitosamente che
suonai falsa anche a me stessa.
Ridacchiò. «Chi ruba i
ragazzi a chi? Racconta»
esclamò, divertito, abbandonandosi contro lo schienale della
sedia.
«Io non le ruberei mai un
ragazzo perché
tutti quelli che sceglie sono stupidi e insulsi. È stata con
l’intera squadra
di football, e non aggiungo altro».
«Allora è lei la ladra»
insinuò, e si
sporse un po’ sul tavolo verso di me.
Il suo profumo dolce e fresco, al vago sapore di lavanda, mi
colpì con forza per la seconda volta. Era delizioso e mi
solleticava la gola, ma testai la
mia forza e mi resi conto di essere perfettamente in grado di
resistere.
Come sempre. Sorrisi soddisfatta e scossi la testa. Notai che osservava
i boccoli che mi rimbalzavano
allegri sulle spalle. «Non è mai successo,
fin’ora… Intendo dire che non mi ha
mai portato via nessun ragazzo».
«E come mai? Sei riuscita a tenerteli
stretti?» scherzò.
Feci un piccolo sospiro. Lo conoscevo
appena e gli dicevo una cosa simile? Dovevo essere impazzita.
«La verità è che
non c’è mai stato nessuno che
m’interessasse sul serio, quindi Caroline non ha
mai avuto l’occasione, in un certo senso. Ma basta che
qualcuno guardi un’altra
ragazza al posto suo e subito scatta la necessità di
conquistarlo».
Alex era stupito. «Sul serio non ti è mai
piaciuto nessuno?». Avevo il viso in fiamme, ne ero sicura, e
mi limitai ad
annuire. Mi fissò in silenzio per un attimo, poi
schizzò all’indietro, come se avesse voluto
ristabilire le distanze. «Scusa,
non volevo metterti in imbarazzo» mormorò.
Feci un respiro profondo e cercai di
cambiare argomento. «Ma se è questo che stai
facendo da quando ci siamo
conosciuti».
«Non è vero» protestò.
«E mi hai presa in giro a non finire»
aggiunsi, giocherellando con la pasta che avevo nel piatto.
Roteò gli occhi, esasperato. «D’accordo,
ma solo un pochino! Scusa, non hai nessuno che ti prende in giro a
casa?»
Per un attimo rimasi senza parole. Nessuno che mi prendeva in giro?
Magari.
«Fin troppe persone, direi».
«Allora dovresti esserci abituata. E
comunque mi pare di essere stato ampiamente ricambiato, visto che tu e
le tue amiche mi accusate di essere un agente della CIA».
«Giusto! Ecco perchè ti sei intrufolato
nella mia aula, ieri: ti nascondevi durante una missione in
incognito».
Sghignazzò e allargò un po' le braccia.
«Beccato! Adesso dovrò ucciderti e poi cercare
un’altra copertura».
«Dai! Sul serio, che stavi facendo? Perché
quella scena?»
Alex esitava. «Come faccio a dirti che stavo
facendo se era una missione segreta… Vuoi darmi un altro
motivo per farti
fuori?»
Lo ignorai. «Stavi saltando qualche
lezione, è ovvio, la domanda è perché?»
«Avevo scienze» bofonchiò. «Io
odio scienze».
Non sapevo se credergli o meno, ma
bersagliarlo di domande avrebbe potuto indurlo a sospettare
l’interesse che,
ormai inutile negarlo, avevo per lui. «Incredibile. Il primo
giorno di scuola
già salti le lezioni! Non dovrei stare con te, mi porterai
sulla cattiva
strada».
«Già…» mormorò.
«Lasciami indovinare, Scheggia: media
altissima, mai una punizione o una nota di demerito, mai un colpo di
testa, nessun ragazzo
all'orizzonte o alle tue spalle, poche amiche fidate… mai
uno sgarro, mai un'uscita dai ranghi. Allora, ho ragione?».
Aveva
un’aria sorniona e divertita.
Sorrisi anch’io. «Che c’è di
male in tutto
questo?»
«Niente, è solo che... sembra tutto troppo
perfetto».
«Non è perfetto... È perfetto per me.
Insomma, è forse sbagliato essere felici? Io lo sono, tutto
qui».
Ed era la
pura verità. Non che non ci fossero piccole zone
d’ombra, a volte, ma la mia
vita era perfetta, lo era davvero.
Avevo tutto quello che si potesse desiderare: due genitori
meravigliosi,
sempre attenti e presenti, mai stanchi di darmi tutto il loro amore;
una
famiglia fantastica, a dir poco unica; un migliore amico che adoravo;
delle
amiche fuori di testa a cui volevo un mondo di bene.
Lanciai istintivamente
un’occhiata al tavolo che occupavo ogni giorno: il mio gruppo
era lì come sempre e al
momento tutti e sette si stavano sbellicando dalle risate. Guardai
meglio e mi
accorsi che Maggie, una gran pasticciona, aveva rovesciato a terra
qualcosa,
forse un budino al cioccolato, ed era talmente rossa in viso che pensai
avrebbe preso fuoco. Ridacchiai anch’io, scuotendo la testa,
ma
quando tornai a guardare Alex il sorriso morì
all’istante: aveva di nuovo
quell’aria sofferente, lo sguardo fisso
su un punto lontano, proprio com’era successo poco prima.
«Sai» cominciò con tono un po' amaro
«una
volta, parecchio tempo fa, avrei detto la stessa cosa
anch'io».
«Davvero?» sussurrai.
«Sì, perché anche la mia vita
è stata
perfetta. Ma non poteva durare per sempre… Come tutte le
cose troppo belle, secondo
me».
Quelle parole mi trasmisero una sottile
inquietudine. Mi agitai sulla sedia, improvvisamente nervosa.
«Tu credi?
Insomma, non pensi che le cose belle siano destinate a
durare?»
Alzò le spalle. «Il mio mondo perfetto
è esploso, ma non è detto che vada sempre
così».
«Vorresti dirmi
cos’è successo?»
Avevo parlato di getto, senza pensarci, ma Alex si ritirò
precipitosamente da quell’attimo di intimità e
tirò fuori di nuovo il solito sorriso sardonico.
«Che ingenua! Hai appena chiesto a un
misterioso agente della CIA di raccontarti la sua vita?»
Okay, forse non gli andava di parlarne. Lo
assecondai. «Ti ho confessato che adoro la pasta al formaggio
puzzolente, ormai
non ho più segreti per te» protestai. «E
poi sbaglio o devi ancora farti
perdonare un paio di cose?»
«Ah, sì? Non ricordo, al momento».
Riecco Faccia da schiaffi. «Lascia che ti
rinfreschi la memoria, allora: una macchina nuova fiammante lanciata a
tutta
velocità nel parcheggio di una scuola, un pazzo agente della
CIA al volante e
una povera ragazza che giace sanguinante sul ciglio della
strada… Ti dice
niente?»
Sbuffò con aria scocciata. «Ancora con
questa storia? Gli incidenti capitano».
«Certo, anche quelli mortali».
«Be', mettiamola così: se ti avessi ucciso
saresti stata autorizzata a non venire a pranzo con me».
Risi. «Cosa? La tua logica ha qualche falla,
sai?»
«Tu dici, Scheggia?». Aggrottò la fronte.
«Io dico! E non chiamarmi Scheggia se non
vuoi che ti rifili un bis di pasta al formaggio».
Ridevamo ancora a crepapelle quando suonò la
campanella.
«Uffa, è già ora» borbottai,
scocciata.
«Caspita, mi frequenti da appena due giorni
e hai già imboccato la strada della perdizione».
Scuoteva la testa fingendosi
scandalizzato.
«Che vuoi, io imparo in fretta».
«O forse sono un maestro eccellente»
ribattè e mi fece un occhiolino da infarto. Fui costretta a
tirare un paio di
respiri profondi per non svenire. Ma come diavolo faceva? Come? Raccogliemmo le nostre cose,
gettammo i vassoi e uscimmo
unendoci alla fiumana di studenti.
«Allora, è stato così male?»
chiese
all’improvviso.
«Che
cosa?». Ero distratta, stavo ancora chiedendomi se per caso
avesse qualche
potere occulto in grado di abbagliarmi completamente e farmi sembrare,
a volte, una stupida fatta e finita.
«Pranzare con me. A parte la storia della
perdizione, eccetera eccetera».
Sorrisi, cercando una risposta non troppo
compromettente. «Ehm… meglio questo che rompersi
una gamba».
Fece una smorfia. «Però… Gentile.
Grazie».
«Prego, figurati».
«Dai, io ti piaccio… almeno un po'.
Ammettilo».
Sentii le guance imporporarsi e girai la
testa di lato perché non se ne accorgesse. «E tu
devi ammettere che la modestia
non è proprio la tua principale
qualità».
«Scusa ma non dovevi sostituire quelli del
Comitato di Benvenuto? Che razza di benvenuto mi stai dando?»
«Ehi, ho pranzato con te, non ti basta?»
«Voglio che diventiamo amici, Renesmee».
All’improvviso il suo tono divenne serio e mi si
parò davanti, impedendomi di
camminare. Sembrava sincero, stavolta.
«Be'… direi che
si può fare» borbottai cercando di apparire
disinvolta e noncurante quando
invece quell’improvvisa vicinanza mi stava mandando il cuore
a mille. «Okay».
Lo superai e ripresi a camminare e lui mi affiancò.
«Ottimo! Ah, ovviamente mi impegno a non
cercare mai più di investirti o di metterti nei guai con un
professore o qualcosa del
genere».
«Mi fa piacere».
«Quindi… ora siamo amici?»
Ci pensai un po'. «Uhm... Forse sì»
risposi con una scrollata di spalle, come se la cosa non avesse alcuna
importanza. Stavo scherzando e lui lo capì al volo.
«Questo significa che sono
perdonato?»
Scossi con decisione la testa. «Certo che
no. Dovrai impegnarti molto di più per
questo».
«Se camminassi in ginocchio per il resto del
pomeriggio?»
«Divertente ma… no. Qualcosa di più
utile».
«Ci penserò durante matematica,
promesso».
Mi sorrise allegro e mi superò di qualche passo, poi si
voltò di nuovo. «Ciao
Scheggia!» gridò a beneficio dei presenti che
ovviamente si fecero una bella
risata. Se solo non fosse corso via a razzo, gli avrei lanciato dietro
lo
zaino.
Mentre mi dirigevo verso la palestra per l'ora di ginnastica cercai di
fare un bilancio degli ultimi tre quarti d’ora, ma mi resi
conto di non esserne
in grado. Ero su di giri e non riuscivo a riflettere con calma su tutto
quello
che era successo. Forse avrei dovuto aspettare di essere a casa, nella
mia
stanza, e di essermi rilassata un po' prima di trarre qualche
conclusione.
Raggiunsi gli spogliatoi per cambiarmi e prima ancora che di varcare la
soglia due mani spuntarono fuori dal nulla, mi afferrarono e mi
trascinarono
dentro.
«Eccola! Finalmente!» strillò una voce a
me
ben nota. «Ma quanto ci hai messo? Cominciavo a pensare
che fossi scappata con lui!»
«La mensa è dall’altra parte della
scuola, Jas»
protestai stancamente. Niente da fare. Non mi sentì nemmeno,
o se lo fece mi
ignorò.
«Voglio sapere tutto! E
non azzardarti a tralasciare una virgola!». Era emozionata
come se qualcuno le avesse appena detto che le vacanze estive erano
arrivate in
anticipo.
E non era l’unica, purtroppo: Holly sbucò
all’improvviso da dietro la fila di armadietti con la t-shirt
infilata a metà e il reggiseno in bella
mostra e si precipitò verso di noi.
«È arrivata?» chiese ansiosamente.
«Uffa,
non ci vedo!»
Mi affrettai a chiudere la porta prima che
si mettesse a dare spettacolo nel corridoio. «Siete due
squilibrate, lo
sapete?» sbottai.
«Sì sì, quello che ti pare, ma adesso racconta» ordinò Jas
saltellando sul
posto.
Mi tolsi la giacca e pensai a cosa avrei
potuto dire. Esattamente come prima, mi sembrava che le idee mi
sfuggissero di
mano. «Be’… Non c’è
molto da raccontare, in verità».
Mi fissarono come se fossi stata pazza,
compresa Holly, che era riuscita a tirare giù la
maglietta.
«Che c’è, fai la
furba?» esclamò Jas, indignata. «Non
vuoi raccontarci cos'è successo? A noi
che siamo le tue migliori amiche? Vi
siete baciati, vero? E tu non vuoi dircelo!»
«Ehi, calma!». Sembrava che stessero per
venirle le convulsioni. «Non ci siamo baciati».
«Non ci credo» disse subito Holly.
La guardai male. «Ve lo giuro!» protestai,
esasperata.
Jas sembrava parecchio confusa. «E quindi
che avete fatto?»
Sospirai mentre mi spogliavo per infilare la
tuta. «Secondo
te cosa avremmo dovuto
fare in mensa durante la pausa pranzo?»
«Cioè avete solo mangiato?»
«Mangiato e parlato» la corressi.
«Avete parlato?»
ripetè Holly. Sembrava
sconvolta, come se per lei fosse inconcepibile parlare e mangiare senza
baciarsi. Ed era proprio così. «E di
cosa?»
«Ehm… di tutto e di niente. Insomma, non ci
siamo detti nulla di importante, in fondo la nostra è una
conoscenza ancora
superficiale».
«Se vi foste baciati non lo sarebbe più»
fece Holly. Non sapevo in che modo risponderle qualcosa di sensato e
rimasi in silenzio.
«Be', che abbiate parlato un po' è già
qualcosa» disse Jas. «E poi?»
«Mi ha chiesto di diventare amici»
sussurrai.
Ci fu un attimo di silenzio, seguito quasi subito da un coro di urletti
eccitati.
«Oh mio Dio!» strillò Jas. «Oh
mio Dio, ma
questa è chiaramente solo una scusa per continuare a
vederti!»
«Sentite, non so ancora se gli piaccio così
tanto da…»
Jas sbuffò sonoramente. «Uffa! Non
cominciare a fare la guastafeste, Renesmee! Te l’ha chiesto
lui, no? Quindi
almeno un po' dovrai piacergli, giusto?»
«Sì, ma forse gli piaccio solo come amica,
non è detto che…»
Holly alzò gli occhi al cielo con aria
scocciata. «Dai, abbiamo visto tutte come ti guarda!
Perché ti ostini a negare?
Ti sembra impossibile che tu piaccia a un ragazzo?»
«No, non è impossibile, è solo
che...».
Esitai. Sapevo che Holly aveva ragione, ma ammetterlo mi spaventava un
po'. Forse c'era qualcosa di sbagliato in me.
«Se vuoi possiamo fornirti un elenco di
tutti quelli che ci hanno provato con te, o che avrebbero voluto
provarci,
dall’inizio dell’anno» aggiunse Jas
mentre si pettinava i capelli. «Ci vorrà
una vita, ma è per una buona causa».
Mi sfuggì una risata. Era troppo divertente vederle
affannarsi così per quella storia. «Okay, okay,
avete ragione!
Ma nessuno di loro...;
«... ti è mai piaciuto fino ad oggi» terminò Jas al posto
mio. Mi guardò con l’aria di chi la sa lunga.
«Non succederebbe niente se lo
ammettessi, sai».
Ci pensai un istante, poi feci un sospiro pesante e deciso. Le guardai
dalla panca dove mi ero seduta per infilarmi le scarpe. «Oh,
al diavolo! Va
bene, d’accordo, lo
ammetto: io... penso che Alex mi piaccia sul serio» dissi
tutto d’un fiato.
La stanza fu invasa di nuovo da strilli
spacca timpani. Grazie al cielo eravamo sole, altrimenti sarebbe stato
un bel
problema. «Finalmente!» esclamò Jas.
«Sei grande, Scheggia!»
Cosa?
Mi augurai di aver sentito male. «Jas! Non comincerai anche
tu!»
«Ma è carino! E poi meglio se ti ci abitui
se dovete mettervi insieme… non ti pare,
Scheggia?».
Lei e Holly scoppiarono a
ridere a crepapelle. Che simpatiche!
«Okay, continuate pure» dissi, tranquilla.
«Vuol dire che non saprete mai cos’è
successo quando Caroline Johnson è venuta da noi e
ha chiesto ad Alex di sedersi con lei e i suoi
amici».
Feci per uscire dagli
spogliatoi diretta in palestra, ma loro due mi si pararono
davanti all’istante.
«Cosa?»
esclamò Holly. «No, adesso devi
parlare». Scossi la testa, perfidamente
divertita. «Ma io ho bisogno
di
sapere!» protestò, fissandomi con gli occhioni
scuri spalancati. Sembrava disperata.
«Non puoi sparare una bomba simile e poi
andare a giocare a badminton
come se niente fosse» rincarò Jas.
«Parla!»
Finsi di pensarci un po' su per tenerle
sulle spine. «Ehm… no, mi spiace, non ho tempo. Il
badminton mi chiama».
Scrollai le
spalle e marciai fuori dallo spogliatoio.
****
Se le reazioni di Holly e Jas
erano state
allucinanti, quelle del resto del gruppo non furono da meno. Per il
resto delle lezioni non ascoltai altro che battutine e risatine, al
punto che quando giunse l'ultima ora non ne potevo più.
Perfino Maggie,
che di solito era abbastanza matura da non lasciarsi coinvolgere in
queste
cose, non faceva che chiedermi altri particolari sulla mia pausa
pranzo.
Quando
suonò l’ultima campanella mi precipitai al mio
armadietto, riempii la borsa
alla velocità della luce e corsi fuori come se fossi stata
inseguita da un
drago. Sapevo che quel giorno sarebbe venuta a
prendermi la mamma, ma non la trovai ad aspettare in macchina come al
solito,
cosa strana perché i vampiri non erano mai in ritardo, mai. La puntualità e
la precisione micidiali dovevano essere due
caratteristiche che si acquisivano con la trasformazione insieme alla
velocità,
alla forza, eccetera.
Trovai un angolino tranquillo dove aspettare, sedetti su una panchina e
tirai fuori l’i-pod per sentire un po’ di musica.
Me
ne stavo da sola da appena cinque minuti quando una sgommata accanto a
me mi
fece sobbalzare. Purtroppo la riconobbi all’istante.
«Oh,
no» mormorai mentre la macchina nera tirata a lucido si
fermata davanti alla mia panchina con una frenata. Il
conducente abbassò il finestrino dal lato del passeggero.
«Ciao,
Scheggia!» esclamò Alex. In quel
momento indossava la sua faccia da schiaffi, quella che non sopportavo
e allo
stesso tempo adoravo perché lo faceva sembrare ancora
più carino.
«Sparisci»
fu la mia risposta, mentre mi sforzavo di trattenere un sorriso.
La faccia da schiaffi
mutò in un’espressione
offesa. «Andiamo… è questo il modo di
trattare un amico? Guarda che sono venuto
per farmi perdonare».
«Ancora? Non
fai altro, ormai».
Mi ignorò.
«Capisco che ieri tu non abbia
accettato il passaggio, in fondo non mi conoscevi e avrei anche potuto
essere
uno strangolatore, un maniaco o tutte e due le cose, ma oggi lo
accetteresti?»
Ebbi un tuffo al
cuore. Sì,
sì, sì!, avrei voluto
strillare. Invece mi limitai a rivolgergli
un sorrisino. «Abbiamo solo pranzato, come faccio a sapere
che non sei sul
serio uno strangolatore, un maniaco o tutte e due le cose?»
«Be',
provare per credere! Giuro che ti
riporterò a casa sana e salva».
Mi venne da tremare al
pensiero della faccia
di zio Emmett se fossi tornata a casa in auto con un ragazzo
sconosciuto. In
quel momento vidi con la coda dell’occhio la Ferrari della
mamma che si
avvicinava.
«Ehm… ti ringrazio, Alex, sul serio,
ma… un’altra volta, magari».
Mi alzai in piedi.
Seguì la
direzione del mio sguardo e lo vidi
spalancare la bocca, ammirato. «E quella? Sei sicura che non sia la
macchina di uno strangolatore, di un maniaco o tutti e due?»
Sorrisi.
«No, è solo... mia zia».
Era chiaramente molto
sorpreso, ma ancora
una volta non reagì come mi aspettavo. Fece un fischio
modulato. «Tua zia?
Caspita, già mi presenti alla famiglia? È un
po’ presto, ma insomma, se ti
piaccio così tanto…»
Risi e alzai gli occhi
al cielo. «Sì, certo.
Ciao, Alex».
«Ehi!»
mi chiamò mentre mi allontanavo
sporgendosi dal finestrino. «Domani non accetterò
scuse!»
Gli feci un cenno con
la mano e camminai verso la macchina della mamma, sorridendo. Che
egocentrico! Si aspettava sempre che tutto il mondo svenisse ai
suoi piedi? Okay, un paio di volte io ero quasi svenuta, ma
non intendevo dargliela vinta così in fretta.
Ero così
presa dalle mie riflessioni che
quasi non mi accorsi di essere salita in macchina. Mi
risvegliò la voce
squillante e cristallina della mamma.
«Ciao tesoro» squittì.
«Com’è andata?»
La guardai,
sospettosa. Di solito non parlava mai con quel tono eccitato,
nè tantomeno
mi rivolgeva occhiate così in tralice.
«Ciao» risposi a mezza voce. «Tutto
bene».
«Ottimo!».
Continuava a squittire mentre
metteva in moto. «Allora… sbaglio o quel tipo con
cui stavi parlando aveva gli
occhi azzurri? O meglio, luminosi occhi
azzurri?»
Feci un tale salto sul
sediolino che per
poco non sbattei la testa contro il tettuccio della
Ferrari. «Cosa? Mi hai spiato?» strillai. Ne
bastava già uno di genitore che
ficcava il naso.
Strabuzzò
gli occhi. «Assolutamente no! Lo sai che non posso fare a
meno di vedere e ascoltare un sacco di cose! Non
te la prendere, tesoro, se quel ragazzo ti piace è una cosa
bella».
Incrociai le braccia,
imbarazzata e
infastidita da morire, e mi lasciai andare con uno sbuffo contro lo
schienale.
«Spero proprio che non incontri Holly e Jas, se no tutte e
tre insieme sareste capaci di organizzarmi il
matrimonio».
Note.
1. Qui
la canzone.
2. Siete curiosi/e di vedere la famosa
macchina di Alex? Eccola: qui
e qui.
È un'Audi TT Coupè.
Stupenda, vero?
3. Se per caso vi state chiedendo in cosa consista questa bugia e
soprattutto che cosa raccontino i Cullen al mondo per giustificare
l'esistenza di Renesmee, non preoccupatevi: tutto sarà
spiegato nel prossimo capitolo ;-).
Spazio autrice.
E allora, che ne
pensate di questo capitolo? So che è piuttosto lungo, spero
che non risulti pesante. Per quanto mi riguarda è uno dei
miei preferiti perchè adoro far interagire Alex e Renesmee,
e poi questa incursione nei pensieri, nei timori e nelle paranoie di
una teenager è divertentissima... Mi sembra di essere di
nuovo al liceo xd. Grazie,
alla prossima!
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Capitolo 6 *** Secrets ***
Capitolo 1
Capitolo
6
Secrets
Tell me
what you want to here
Something that were like those years
Sick
of all the insincere
So
I'm gonna give all my secrets away.
Secrets, One Republic¹
La felicità
è avere una famiglia grande, amorevole, affettuosa e unita,
in un'altra città.
George Burne
«Così
sei perfetta!» esclamò zia Alice allontanandosi
per guardarmi meglio. «Devi
solo ritoccare un po' l'eyeliner. Dov’è quel
braccialetto d’argento che ti
hanno regalato Emmett e Rose per Natale?»
Le indicai il portagioie e
corsi in
bagno per controllare il trucco allo specchio. In effetti
l’eyeliner era leggermente sbavato. Riparai il danno, poi mi
diedi un’occhiata d’insieme: indossavo un
vestito rosa corto con il bordo decorato di pizzo nero, calze bianche e
ballerine
nere. Feci una giravolta su me stessa per controllare da ogni
angolatura e i
capelli che avevo lisciato con la piastra si sollevarono, ricadendo poi
dolcemente sulle spalle.
Soddisfatta, tornai in camera mia dove trovai anche
la mamma, intenta a mettere ordine con aria contrariata. Non potevo
darle
torto: sembrava che un turbine di trucchi e vestiti si fosse abbattuto
con
violenza su tutte le superfici d'appoggio. Quando entrai, mi
agitò contro un
mucchio di top e camicette che aveva raccolto dal pavimento.
«Renesmee,
stiamo solo andando da Charlie e
Sue per la solita cena settimanale, non è affatto necessario
fare tutto
questo!». Smise di sbraitare e mi fissò con
attenzione, poi sospirò. «Però stai
benissimo» ammise.
Sorrisi, raggiante.
«Grazie, mamma! E scusa
per il disordine».
Alice
saltellò verso di me e mi allacciò al
polso il braccialetto. «Ecco… così sei
davvero perfetta». Poi si girò verso la
mamma che aveva ricominciato a borbottare innervosita. «Ah,
Bella, domani pomeriggio
io e Rose avevamo pensato di andare a Olympia a fare shopping, e
vorremmo
portare Nessie con noi».
Lei si tirò
su molto lentamente da sotto il
letto, dove si era infilata per recuperare una scarpa da ginnastica.
«E cosa
vorreste acquistare, con esattezza?»
La zia alzò
gli occhi al cielo. «Vestiti, è
ovvio».
«Che cosa? Alice, ma
ti rendi conto di quanti ne
ha?» sbottò la mamma indicando la stanza
devastata. «Se ne compra ancora degli altri,
qui dentro non ci sarà più spazio per lei e
dovrà accamparsi in giardino!»
Scoppiai a ridere
mentre rovistavo tra i lucidalabbra per trovarne uno adatto.
«Lo sai che
alla velocità a cui cresce
niente le va bene per più di qualche mese!»
esclamò Alice.
«Verissimo» concordai, ignorando le
occhiatacce della mamma. «Mi servono un nuovo paio di scarpe
da ginnastica,
almeno due maglioni, una felpa, delle camicette e poi una minigonna
colorata…»
«Visto?»
fece Alice rivolta alla cognata
con aria di superiorità.
«Non hai
affatto bisogno di tutta questa roba,
Renesmee!» sibilò Bella.
«Oh, dai!
Che razza di zia sarei se non
viziassi nemmeno un po' la mia nipotina?» disse Alice. Fu al
mio fianco in
un battito di ciglia, controllò il colore del lucidalabbra
che avevo scelto e
me lo restituì con un sorriso: approvava.
«Comunque se la cosa ti preoccupa
tanto perché non vieni con noi? Così potrai
controllare che non facciamo
acquisti troppo pazzi» propose e mi fece di nascosto un
occhiolino.
La mamma la
guardò con espressione
inorridita. «Ti ringrazio del gentile pensiero, ma ne
farò a meno». Mise le
mani sui fianchi e lanciò un’occhiata
tutt’intorno alla stanza in disordine,
poi fece un sospirone e allargò le braccia. Conoscevo la sua
espressione: era
quella di quando si arrendeva a zia Alice. «Che posso dire?
Andate e
divertitevi».
La zia fece un
saltello di felicità. «Fantastico!
Adesso però basta riordinare, Bella, devi prepararti anche
tu. Sono le sei passate,
non vorrete fare tardi».
«Sono
già pronta» borbottò la mamma.
Alice
osservò con aria disgustata i jeans e
la camicetta che indossava. «Stai scherzando, vero?»
Era il momento della
solita scena!
«Niente
affatto, questi vestiti vanno
benissimo» rispose la mamma con una specie di ringhio.
Alice sembrava sconvolta. «Non permetterò a
mia cognata di uscire di casa per una cena conciata come una
barbona».
«Scordatelo,
Alice. Non sono la tua bambola».
«Dai, ci
vorrà solo un minuto!» pregò la
zia. «L’ultima volta che sono stata a Port Angeles
ti ho preso un meraviglioso
abito da cocktail…»
Corse fuori dalla stanza, probabilmente diretta verso
la cabina armadio della mamma. Lei lanciò in aria
tutti i vestiti che aveva
raccolto e le sfrecciò dietro, furibonda.
«Alice! Lascia stare la mia roba!»
Pensai di seguirle per
assistere
alla
seconda parte della scena, ma volevo evitare di ridere fino alle
lacrime e
sciogliere di nuovo il trucco. Invece presi il cappotto e la borsa e mi
diedi un’ultima occhiata allo specchio. Poi uscii dalla mia
camera.
«Ehi, io vado!» gridai in direzione della stanza
dei miei. Non
ricevetti risposta, ma sentii solo una serie di tonfi e strilli.
«Smettila,
Alice! Non provare a sfilarmi i jeans!»
«E tu
smettila di fare la bambina!»
Ridacchiando, mi
precipitai fuori casa
perché sapevo che non sarei riuscita a
trattenermi ancora per molto. Camminando nel bosco lungo
il vialetto che conduceva alla casa dei nonni, i miei pensieri
volarono inevitabilmente verso le mille cose che erano successe quella
mattina.
Durante il pomeriggio,
mentre
facevo i
compiti e mi preparavo per la cena, mi ero resa conto di un paio di
cose.
Primo, che più mi sforzavo di controllare i miei pensieri
più mi sfuggivano di
mano, per cui nel giro di mezz’ora dopo che ero tornata da
scuola
papà era già
a conoscenza di ogni singola parola e ogni singolo sguardo che avevo
scambiato
con Alex. La seconda cosa che avevo capito era che mi ero presa una
Cotta
Gigante per Alexander Hayden e
questo fatto così imbarazzante era ormai di pubblico
dominio: a
parte mio padre,
che non era responsabile della sua onniscienza, e la mamma, alla quale
avevo
raccontato qualcosa io per tenerla buona, gli altri avevano
inspiegabilmente capito tutta la situazione senza che io aprissi bocca
una sola volta. O papà aveva spifferato, oppure erano
dannatamente troppo perspicaci per me.
E così mi era toccato sopportare un intero pomeriggio di
battutine
e risatine alternate a minacce nei confronti di Alex se non avesse tenuto le mani a
posto, per
citare testualmente zio
Emmett. Gli unici ad avere un comportamento più normale e ad
ignorare la cosa
erano Esme e Carlisle, mentre gli zii si erano letteralmente scatenati.
Sapevo
grazie all’esperienza di mia madre che l’unico modo
per costringerli a tacere
sarebbe stato batterli in uno scontro fisico, ma in quel caso io non
potevo che
perdere, quindi la situazione sarebbe solo peggiorata. Mi toccava
rassegnarmi,
cercare di ascoltarli il meno possibile e sperare che si stancassero
presto e
trovassero qualcos'altro da fare per ammazzare il tempo.
Il comportamento dei
miei invece
era stato
abbastanza normale: avevo temuto che potessero andare fuori di testa e
trasformarsi in Genitori Gelosi, Severi e Iperprotettivi ma non era
accaduto. Anzi sembravano quasi contenti della mia nuova amicizia. Si
erano limitati a
raccomandarmi di non correre troppo, e l’unica cosa su cui
avevano posto il
divieto più assoluto, trasformandosi per un momento proprio
in
Genitori Gelosi,
Severi e Iperprotettivi, erano le passeggiate in macchina con Alex fino
a quando non avessero avuto modo di accertare le sue
capacità al
volante. In realtà era piuttosto difficile mi succedesse
qualcosa di grave in un eventuale incidente d'auto, ma su certe cose
Edward e Bella sembravano incapaci di ragionare. Tuttavia su quel punto
non avevo protestato: di certo non sarei stata proprio
entusiasta di trovarmi in macchina da sola con lui, e non
perché
temessi per la
mia vita, ma per la mia sanità mentale, che in una
situazione
del genere
sarebbe senz’altro andata a farsi friggere…
Le mie riflessioni si
interruppero quando
arrivai all’enorme casa bianca. Salii saltellando i gradini
della veranda,
sentendomi di buon umore, e suonai al campanello. La
porta si aprì e comparve zia Rosalie.
«Eccola qui,
la nostra Conquistatrice!»
esclamò con aria divertita.
«Sai
perché le bionde si lavano i capelli
nel lavandino?» ribattei prontamente con un amabile sorriso.
«Perché è lì che
si lava la verdura».
Dall'altro lato del
muro esplose uno scoppio
di risate, tra cui quella particolarmente fragorosa di Emmett. La zia
mi guardò storto. «Tu passi troppo tempo con quel
licantropo»
sibilò.
«E tu dovresti essere un po' più matura,
considerando
quanti anni hai».
«Come sei
noiosa,
oggi» commentò, poi si fece da parte ed io entrai,
soddisfatta di aver
vinto quel match.
La seguii in salotto, dove era riunito il resto della famiglia.
«Ciao!»
salutai con un gran sorriso.
«Finalmente,
è ora di andare» esclamò
papà, sollevato. Poi mi guardò e gli
sfuggì un sospiro. «No, a quanto pare dovremo
aspettare
ancora».
«Dove sono
Alice e Bella?» chiese zia Rose.
«Le ho
lasciate che si azzuffavano nella
cabina armadio della mamma».
«Solita
storia, eh?»
fece Esme con un sospiro.
Annuii mentre mi
sistemavo sul bracciolo
della poltrona dove sedeva Carlisle.
«Allora,
come mai ci hai messo tutto questo
tempo?» cominciò Emmett con aria sorniona.
«Sognavi ad occhi aperti, forse?».
Diede una gomitata a zia Rose, seduta accanto a lui, e ridacchiarono
come
deficienti.
Li guardai male.
«Oh, sto morendo dal
ridere!» esclamai, scocciata. «Non avete niente di
meglio da fare che
prendermi in giro?»
Emmett
lanciò un’occhiata
maliziosa verso Rosalie. «Certo che c’è
qualcosa di meglio, cara nipotina, ma ogni tanto
bisogna pur fare una pausa» rispose, e poi scoppiarono a
ridere di nuovo.
«Maniaci»
borbottai sotto voce, sperando di non farmi sentire. Tentativo inutile.
Rosalie
alzò gli occhi al cielo. «Oh,
andiamo… Come se tu non avessi passato l’intero
pomeriggio pensando ad Alex!»
«Secondo me
ha sospirato così tanto che i
vetri nella sua stanza sono tutti appannati»
rincarò zio Emmett.
Altro scoppio
di risatine convulse.
«Se avessi
la possibilità di minacciarvi la
smettereste, vero?» domandai per pura curiosità.
«Ehm…
Non saprei, è troppo divertente»
rispose zia Rose.
Okay, ne avevo
abbastanza. «E domani io
dovrei sorbirmi tutto questo per una giornata intera? Non se ne parla
proprio!
Lo shopping è annullato». Incrociai le braccia con
aria decisa.
Rosalie
alzò le spalle, forse troppo sicura
del fatto suo. «Va bene… ma lo dici tu ad
Alice».
«A proposito
di shopping» intervenne Emmett
con tono minaccioso «basta minigonne, okay? E solo maglie a
collo alto»
ordinò puntando un dito verso di me.
«Ma voi
siete pazzi?» sbottai, inviperita.
La nostra fantastica
chiacchierata fu
interrotta dall’ingresso della mamma, che indossava un
vaporoso vestito nero
in stile anni Cinquanta, sandali con il tacco a spillo e
un’espressione da omicidio di massa.
«Bella,
cara, stai benissimo!» esclamò la
nonna sorridendo.
«Grazie»
sibilò lei per tutta risposta e
nessuno si azzardò ad aggiungere altro.
In
quell’istante Alice entrò quasi volando
dalla porta di casa e in un quarto di secondo me la ritrovai a un palmo
di naso
da me. «Perché mai dovresti annullare lo
shopping?» indagò con voce squillante.
Feci un salto di un
metro e se Carlisle non
mi avesse afferrato il braccio sarei caduta dalla poltrona. Oh, merda.
«Scherzavo!»,
esclamai subito, senza fiato, spaventata a morte. Rosalie mi
lanciò un’occhiata divertita.
«Controllerò
tutti gli acquisti» aggiunse
zio Emmett con tono deciso, come se avesse seguito le proprie
riflessioni senza
prestare attenzione al resto.
Alice lo
guardò perplessa e stizzita, e credo
che avrebbe risposto qualcosa di irripetibile a chi limitava il suo
shopping se
papà non fosse intervenuto. «D’accordo,
basta,
è ora di parlare di una cosa».
«Ah,
sì?» continuai. «Emmett ha deciso di
fare un favore all’umanità ed emigrare in
Antartide, per caso?»
«Ti
piacerebbe, ragazzina, così potresti
darti alla pazza gioia con quel bamboccio del tuo ragazzo»
sbottò lo zio.
«Non
è
il mio ragazzo e non chiamarlo bamboccio!»
«Ehi!»
esclamò papà con aria esasperata.
«Ho detto time out, okay?» e mi rivolse
un’occhiata eloquente.
Sbuffai alzando gli
occhi al cielo. «Okay».
«Allora,
c’è una cosa importante di cui
dobbiamo parlarti» cominciò.
Notai che sembrava
teso. «È successo
qualcosa?»
«No, tesoro, non preoccuparti. Alice ha avuto una
visione, tutto qui» disse Carlisle.
La guardai: se ne stava in piedi a braccia
incrociate e fissava Emmett con aria truce.
«Cos’hai visto?»
Alzò le
spalle. «Tra poco riceveremo visite».
Mi spaventai
all’istante. «Dall’Italia?»
esalai, temendo la risposta con tutta me stessa. Era il mio incubo
peggiore.
«No!»
esclamò subito papà. «Non sono i
Volturi, sono Peter e
Charlotte».
Peter e Charlotte!
Sospirai di sollievo e
sorrisi. «Ah! Bene, mi fa piacere. È una vita che
non li vediamo, magari ci
racconteranno qualcosa di interessante».
Nel salotto cadde un
silenzio innaturale. Tautti puntavano accuratamente gli occhi altrove
per non incrociare i miei. Brutto
segno.
Papà si schiarì un po’ la voce.
«Ehm… Renesmee, noi crediamo che sarebbe
meglio se tu non li incontrassi» disse a voce bassa e attenta.
«Cosa?»
sbottai. «E perché?»
«Be’,
mi sembra ovvio: loro non sono
vegetariani. Potrebbe essere pericoloso per te» rispose zia
Rosalie al posto
di papà.
«Ma che
sciocchezza!» esclamai. Quasi mi
scappava da ridere. «Quando i Volturi stavano venendo a
ucciderci ho passato un
intero mese in compagnia di vampiri non vegetariani e non è
mai successo
niente».
«Sì,
ma quella volta era necessario» intervenne
zio Jasper. «Perché dovresti esporti inutilmente a
questo rischio?»
Lo guardai, indignata.
Da lui non me lo
sarei aspettato, sempre così calmo e razionale. Non era di
certo Jazz, in casa,
quello che perdeva la testa per un nonnulla.
«Perché li ho già incontrati e non
hanno mai cercato di farmi del male! Le vostre sono solo
paranoie!»
Papà
alzò appena le spalle. «Forse l’altra
volta siamo stati solo
fortunati. Tu non hai idea di quanto sia difficile
controllarsi».
Sollevai gli occhi per
guardarlo. «Anche per
voi?» lo provocai.
Per un istante mi fissò in silenzio e mi parve che esitasse
un poco.
Infine sorrise. «È diverso. Noi ti
amiamo».
Mmm. Risposta sensata,
ma non del tutto
soddisfacente. Sapevo che il mio profumo li tentava da quasi cinque
anni, ma mi
sarebbe piaciuto sapere quanto, anche se forse era solo una
curiosità morbosa.
Edward sembrò ignorare queste riflessioni.
«E dal momento che verranno
qui come pensate di impedire che io li veda?»
Di nuovo silenzio di
tomba. Poi Jasper parlò
lentamente. «Non verranno qui: io ed Alice gli andremo
incontro non appena
saranno abbastanza vicini e ci fermeremo nei boschi, così
nessuno sarà in
pericolo».
Strabuzzai gli occhi.
«Non gli permetterete
di venire in questa casa? Sono i tuoi più vecchi
amici!»
Lui mi rivolse
un'occhiata dolce e carica di affetto. «E tu sei la mia
adorata
nipotina, non permetterei mai che ti succedesse qualcosa. Sono certo
che Peter
e Charlotte capiranno».
«Ma loro ci
hanno aiutati!» esclamai, sempre
più sconvolta. «Cinque anni fa ci hanno salvato la
vita, mi hanno salvato la vita, non mi
farebbero mai del male! Avrebbero
combattuto al nostro fianco! Non possiamo dimenticare quanto gli
dobbiamo».
«Cara,
nessuno lo
dimentica» disse Carlisle con voce calma e serena. Mi sarebbe
piaciuto sapere come riusciva a mantenere sempre il controllo. Forse
era una qualità innata. «Gli siamo molto grati e
lo saremo
per sempre, ma
tu e la tua sicurezza venite prima di tutto».
Sospirai.
«Lo so e vi ringrazio, ma questa è
una paranoia e un’ingiustizia».
«Be', ormai
è deciso» sentenziò zia Rosalie
scrollando la sua cascata di capelli d’oro.
«Non sono
d’accordo» ribadii, ostinata.
«Renesmee,
siamo sempre felici di ascoltare la
tua opinione, ma stavolta no» intervenne la mamma, ancora un
po’ irritata per aver perso l'ultimo round con Alice.
Rimasi in silenzio per
un paio di minuti, a
braccia incrociate e fissando il tappeto con aria truce.
All’improvviso mi si
accese una lampadina. «E se io avessi un’idea
migliore?»
Emmett emise un verso
di scetticismo mentre
papà al mio fianco sospirò appena. «Lo
immaginavo» mormorò.
«Cioè?»
chiese la mamma.
«Peter e
Charlotte verranno qui, ma io non ci
sarò: Jacob può venire a prendermi a scuola e
passerò la giornata con lui a La Push…
e quando il
pericolo si sarà allontanato tornerò a
casa».
Nessuno
commentò il mio sarcasmo.
«Non è una
cattiva idea. Lì saresti al sicuro» fece Bella
soprapensiero.
«Non ti
chiedo cosa preferisci fare» mi
disse papà con tono ironico.
«Odio avere un baby sitter, ma se si tratta
di Jake almeno posso fingere di passare solo un pomeriggio con il mio
migliore
amico invece di essere sotto sorveglianza speciale» risposi,
acida.
Lui annuì.
Sembrava stranamente rassegnato a qualcosa di inevitabile e molto
sgradevole. «Allora è
deciso».
«Hai
ereditato le rotelle fuori posto di tua
madre, Renesmee, lasciatelo dire» borbottò Emmett.
La mamma
scoppiò a ridere di gusto. «Grazie
mille, la tua bontà mi commuove»
esclamò.
Soddisfatta, scattai in piedi con entusiasmo. «Bene, ora che
questa faccenda è sistemata possiamo andare da
Charlie. Comincio ad avere fame».
Per fortuna io avevo
già superato
l’ispezione di zia Alice e la mamma era appena stata
agghindata dalle sue
stesse mani, quindi riuscimmo ad uscire di casa in un tempo
ragionevolmente
breve. Durante il tragitto in macchina nessuno parlò ed io
mi persi nei miei
pensieri su Alex, i compiti che avevo per il week-end, Alex, le stupide
battute
degli zii, Alex, gli acquisti che progettavo per la gita a Olympia,
Alex, Alex
e ancora Alex, mentre mi allungavo tra i due sedili anteriori per
cambiare i
cd e mettere le mie canzoni preferite.
«C’è
una sorpresa» disse a un tratto papà.
A giudicare dalla voce stava sorridendo.
Alzai gli occhi e mi accorsi che eravamo arrivati a destinazione.
Parcheggiata di
fronte a casa di Charlie, insieme alla volante della polizia e alla
macchina della sua seconda moglie Sue, c’era una Golf rossa a
me ben nota.
Cacciai un gridolino di gioia, lanciai in aria un cd e mi precipitai
fuori
dalla Aston Martin prima ancora che papà cominciasse le
manovre per infilarsi
in fondo alla fila di auto. Corsi alla porta e suonai energicamente il
campanello, e un istante dopo mi ritrovai davanti Jacob con un sorriso
che andava da orecchio a orecchio.
«Guarda un
po' chi si vede» disse a mo' di
saluto.
Gli saltai al collo e
lui
mi strinse tra le braccia forti, ridendo. «Ehi! Che
entusiasmo!».
«Jake! Pensavo
che fossi di turno!» dissi, senza fiato e ancora attaccata a
lui.
«Mi sono
fatto sostituire. Dopotutto è una cena in
famiglia».
Fummo interrotti
dall’ingresso, in
contemporanea, dei miei genitori e di Charlie.
«Ah, siete arrivati» borbottò
il nonno. «Mi pareva di aver sentito un gran
fracasso».
«Ciao
papà» lo salutò Bella con voce
allegra.
«Ehi, Bells. 'Sera, Edward», rispose lui
distrattamente, continuando a fissare me e Jacob come se fossimo stati
due
alieni piombati in casa sua direttamente dallo spazio.
Per un secondo la sua espressione mi stupì, poi mi resi
conto che me ne stavo ancora abbarbicata al mio amico come a
un’ancora di
salvezza. Mi lasciai sfuggire un sospiro impercettibile. Per continuare
a vedere me e
la mamma, Charlie era stato costretto ad accettare tante cose. Per
citare la
più eclatante, aveva accettato il mistero del mio arrivo e
in quei cinque anni
aveva assistito alla mia assurda crescita senza mai fare domande. In
parte
riusciva a far finta di niente perché poteva contare sul
supporto psicologico
di Sue, in parte perché ci amava e non voleva perderci.
L’unica cosa
per cui riservava l’espressione
che aveva in quel momento dipinta in faccia, gli occhi stretti e le
labbra serrate, eravamo io e Jacob. O meglio, io e Jacob quando ci appiccicavamo in quel modo, come diceva la
mamma. Già da tempo avevo notato che Charlie reagiva con
disappunto alla nostra amicizia, al nostro modo di stare insieme,
sempre
abbracciati o mano nella mano, sempre riducendo al minimo la
lontananza. Era
come se ci trovasse qualcosa di strano, quando invece per me niente era
più
naturale di quello. Non sapevo come fosse avere un fratello gemello, ma
probabilmente sarebbe stato così.
Alle domande che gli
rivolgevo in proposito,
la risposta di mio padre era più o meno sempre la
stessa.
«Chiunque guarderebbe sua nipote con quella faccia se lei
frequentasse un tizio che si
trasforma in lupo».
Ecco l’unico punto dolente della situazione: Charlie sapeva
che Jacob era un licantropo perchè, subito dopo la mia
nascita, Jacob aveva parzialmente
introdotto mio nonno nel
mondo del sovrannaturale, facendogli sospettare quel tanto che gli
bastava per
avere un’idea di cose fosse successo a sua figlia, ma non per
capirci
effettivamente qualcosa. Il tutto allo scopo di permettere a Bella, la
sua migliore amica, di continuare a vederlo ed evitarle di
trasferirsi dall’altra parte del mondo.
In effetti, quando
pensavo che
Charlie aveva
assistito alla trasformazione di Jacob in lupo, mi meravigliavo che
riuscisse
ancora a stare nella stessa stanza con lui senza avere una crisi
isterica,
quindi il
fatto che non gli rivolgesse sorrisi smaglianti era tutto sommato
perfettamente
comprensibile… Ma c’era una differenza tra il modo
in cui
guardava Jacob quando era solo e il
modo in cui lo guardava quando era con me. Sì, una
differenza
c’era, e tutte le rassicurazioni dei miei non potevano
impedirmi di notarla, non potevano dissipare i miei dubbi e la
sensazione che
Charlie vedesse qualcosa che a me sfuggiva.
Ma non era il momento
di pensarci. Mi
sforzai di sorridere mentre mi avvicinavo al nonno per baciarlo sulla
guancia.
«Ciao piccola» mi salutò, squadrandomi
da capo e
piedi. «Sei cresciuta ancora dall’ultima volta che
ti ho
vista?»
La
mamma fece una risatina. «Ma no, Charlie, sono passate solo
due settimane».
Insieme alla battuta di caccia, il mio raffreddore aveva fatto slittare
anche
la visita ai nonni. Avevamo l'abitudine di incontrarci una
volta a settimana per cena, solitamente di venerdì
perchè il giorno dopo non dovevo andare a scuola e potevo
fare più tardi. Il nonno si limitò ad annuire,
pensieroso. Mi
voltai con un sorriso per incrociare lo sguardo di Jacob. Lui mi tese
la mano, io la presi e schizzai di nuovo al suo fianco come una specie
di calamita.
Be’, mi dispiaceva per Charlie e i suoi tormenti interiori,
ma
non riuscivo a
farne a meno.
«Meno male che sei venuto, ho una montagna di cose da
raccontarti» esclamai.
«È
proprio per
questo che sono qui, figurati: la mia giornata non ha senso se tu non
mi
arroventi le orecchie per un paio d’ore».
«Lasciatemi
indovinare, da quant’è che non
si vedono? Ventiquattr’ore?» borbottò
Charlie, infastidito.
«Più
o meno» rispose la mamma quasi con lo
stesso tono.
Charlie
bofonchiò qualcos’altro di incomprensibile,
poi alzò la voce. «Su, venite, la cena
è quasi pronta».
Lo seguimmo in cucina,
dove
trovammo Sue ai
fornelli e Seth alle prese con una pila di piatti sporchi. Andai ad
abbracciare
anche lui, un po’ per rabbonire il nonno, un po’
perché ero sinceramente felice
di vederlo. Dopo il mio Jacob, era il licantropo che mi piaceva di
più e con il quale avevo più confidenza. Sua
madre
lasciò i fornelli per salutarmi con un
bacio, poi mi prese il viso tra le mani e mi osservò
attentamente.
«Sei
cresciuta» disse con semplicità. «E sei
uno splendore».
Arrossii, imbarazzata,
e la ringraziai. Intanto la mamma si era già infilata un
grembiule per aiutare con la cena.
«Bella, non
se ne parla proprio» esclamò Sue con tono deciso
«sei un'ospite».
Sorrisi. Ecco
un’altra delle scene tipiche a cui assistevo in occasioni
come questa.
«Un'ospite?
Ma no, siamo in famiglia. Sono
contenta di darti una mano, e poi penso che Charlie non
resisterà ancora a lungo».
Alla fine la mamma
ottenne una piccola
montagna di carote, zucchine e cipolle da affettare, ma Sue non le
permise di
accostarsi alle pentole per non macchiare il suo bel vestito. Charlie e
papà
aprirono una bottiglia di vino e si spostarono in salotto a vedere una
partita
di baseball ed io, approfittando dell’assenza dei controlli
del capo Swan, sedetti al
tavolo in braccio a Jacob piegando i tovaglioli per la cena.
«Che bello
avervi qui tutti insieme» disse
Sue aprendo il forno per controllare qualcosa.
«Per fortuna
Leah ci ha dato buca anche
stavolta, altrimenti avresti dovuto accontentarti degli
avanzi» fece Seth a
Jacob con un sorrisetto.
Probabilmente Leah si era proposta per la ronda al posto di Jake,
perché preferiva mille volte starsene
nei boschi al freddo che passare una serata in famiglia. Si univa alle
nostre
cene solo a Natale e a Pasqua con un muso lungo fino a terra e lo
sguardo
disgustato che riservava ai succhiasangue, compresa me. Lei era
l’unica in
entrambi i branchi che nutriva ancora tutto quel risentimento verso di
noi.
«Allora,
Jacob» cominciò la mamma storcendo
un po’ il naso per via del cibo crudo «spero che tu
non abbia trascurato il
lavoro per essere qui».
«Per fortuna
non sono solo.
Stasera ho delegato i compiti».
«Non mi
riferivo a questo. Pensavo che
avessi una macchina di cui occuparti per la cugina di Emily».
«Avrò
tutto il tempo di finirla domani e la
consegno lunedì».
«Certo»
disse la mamma. Teneva lo sguardo
incollato sulla carota che stava tagliando. «È
solo che… insomma, naturalmente
sono felice che tu sia qui, ma devi dare la precedenza a ciò
che è davvero importante».
«Lo faccio, credimi» rispose Jake con
tranquillità. Mi sfiorò il dorso della mano con
il pollice, un gesto che
adoravo. Mi rilassava da morire. «È tutto sotto
controllo, Bells. Ho lavorato un sacco, questo mese, e
ho guadagnato un bel po'».
«Mi fa
piacere» fu la risposta a denti
stretti. «Allora ritengo che non manchi più molto
alla tua partenza per il
college. Alcune università accettano ancora le domande di
iscrizione, non è
troppo tardi. Perchè non provi? Così non dovresti
aspettare l’anno prossimo».
Sollevai la testa e
guardai mia madre,
perplessa. Continuava a tenere gli occhi bassi, ma nel suo viso
c’era qualcosa
di strano. Che voleva fare? Ricominciare la sua piccola crociata
personale?
Ormai erano mesi che non si toccava l’argomento.
«Grazie del
pensiero, ma non m’interessa.
Non penso che il mio futuro sia nel mondo accademico».
«A chi lo
dici» borbottò Seth con
un’occhiata furtiva a sua madre.
Bella smise di
affettare e lo fissò con
espressione indecifrabile. «Potresti sbagliarti. Sei un
ragazzo in gamba, Jake.
Ti sei diplomato con dei buoni voti e potresti avere facilmente una
borsa di studio».
«Forse
potrei, ma non mi interessa» rispose
Jacob con lo stesso tono pacato.
«Allora ti
accontenti di questo, per tutta
la vita?» lo provocò la mamma. Non capii se si
riferisse al suo lavoro di
meccanico o al suo ruolo di alfa.
«Accontentarmi?
Non mi sto accontentando, è
una mia scelta».
Seth e sua madre
tenevano gli occhi
bassi e
non fiatavano. Io ero sempre più sbalordita e seguivo
quell’acceso scambio di
battute spostando la testa da mia madre a Jacob, come se stessi
seguendo una partita di ping pong. Avevo la sensazione di essermi persa
qualcosa.
Bella fissò
Jake
ancora per un secondo, poi afferrò una cipolla e
ricominciò a tagliare. «Dovresti
lasciare La Push, vedere un po’ il
mondo…»
«Sai che non
ci sono solo il mio lavoro e... le altre cose: non posso lasciare mio
padre».
«Billy non
ha bisogno del tuo aiuto, e se
anche fosse sono sicura che preferirebbe fare a meno di te piuttosto
che
vederti rinunciare alla tua vita».
«Io non
rinuncio a niente, Bella» rispose
Jacob con forza. «È una mia scelta restare e sono
felice di farlo».
Il coltello della
mamma si bloccò a mezz’aria
e lei gli puntò di nuovo lo sguardo addosso. «Sei
sicuro, Jake?»
Lui rimase
perfettamente calmo, come prima.
«Certo. Cosa ti fa pensare che non lo sia?»
Con un piccolo tonfo
la lama cadde di nuovo
sul tagliere. «Be’, io credo solo che non dovresti
restare così attaccato a…» di
colpo tacque e sul suo viso si dipinse un’espressione
sconvolta, come se non
potesse credere a quello che stava per dire «... a casa
tua» farfugliò, correggendo la frase in extremis.
Jacob scoppiò a ridere. «Rassegnati, Bells.
Non vi libererete tanto presto di me».
«Scusate
l’intromissione» disse una voce sulla porta. Mi
girai:
papà era entrato tenendo tra le mani un bicchiere di
vino. «Bella, devi assaggiare questo, è
squisito».
La raggiunse con passo tranquillo e le tese il
bicchiere.
Non potevo vedere il viso di papà, ma quello della mamma si
distese
a poco a poco mentre si guardavano. Buttò
giù un sorso di vino sforzandosi di
non lasciar trapelare una smorfia di disgusto e restituì il
bicchiere a papà.
«Delizioso» disse, e tornò al suo lavoro.
«Spero che non manchi molto, non so per
quanto ancora potrò trattenere Charlie» aggiunse
Edward.
«È
quasi pronto» rispose Sue.
Papà uscì
dalla cucina rivolgendomi uno dei suoi fantastici sorrisi mentre
passava, e
sembrò portare via con sé la tensione che avevo
percepito fino a un minuto
prima.
Mentre gli umani e i
semiumani si godevano
la fantastica cena preparata da Sue, e i non
umani mandavano giù qualche boccone cercando di mantenere
delle espressioni
normali, Jacob raccontò che Paul e Rachel, sua sorella,
avevano deciso di
sposarsi entro la fine dell’estate e mi anticipò
che la sposa avrebbe voluto me tra le damigelle. Notizia
buona e
cattiva allo stesso tempo: se da un lato l’affetto della
sorella di Jacob mi
faceva piacere, dall’altro detestavo essere al centro
dell’attenzione e avendo
già fatto quell’esperienza al matrimonio di
Charlie e Sue, quattro anni prima,
avevo un’idea piuttosto precisa di cosa aspettarmi.
Fui preoccupata per
tutta la cena: temevo
che la mamma e Jacob ricominciassero a battibeccare, e anche se mi
sarebbe
piaciuto dare un senso alla scena cui avevo assistito in cucina,
sentivo che
non erano né il luogo né il momento adatti per
mettersi a discutere.
Dopo
cena aiutammo tutti Bella e Sue a
sparecchiare, lavare i piatti e mettere in ordine, e grazie alla super
velocità
della prima e all’abilità della seconda, finimmo
in un
quarto d’ora. Poi
Charlie tirò fuori il vecchio Cluedo che era appartenuto
alla
mamma, infilato
insieme ad altri giochi nello sgabuzzino sotto le scale, e cominciammo
una
partita.
A poco a poco mi rilassai di nuovo, litigando scherzosamente
con Seth
che pretendeva di indovinare sempre tutto, progettando strategie con
Jacob (ovviamente giocavamo in squadra), prendendo in giro il nonno che
dopo pochi
minuti tra tutti quei potenziali assassini e tutte quelle potenziali
armi del
delitto non si raccapezzava più.
E poi, all’improvviso,
un nuovo momento di
tensione. Dopo essere rimasto zitto e con il viso contratto per un
po’, Charlie
sparò una piccola bomba.
«Ehi, Bells,
indovina chi mi ha telefonato
due giorni fa» disse con tono forzatamente noncurante.
«Chi?»
chiese lei, distratta, osservando
le carte che aveva in mano.
Charlie le
scoccò un’occhiata furtiva prima
di rispondere. «Tua madre».
Lei si
irrigidì appena, ma non lasciò
trasparire nessuna particolare emozione. «Mmm» fu
il suo commento.
Ci fu un minuto di
silenzio, poi il nonno
tornò alla carica. «È preoccupata per
te. Si è lamentata perché non ti fai mai
sentire, deve lasciarti decine di messaggi prima che ti decida a
richiamarla,
ti manda valanghe di email a cui a stento rispondi…
Così ha chiamato qui per
sapere come stavate, se c'è qualche problema e
se… se per caso ce l’hai con
lei». Il discorsetto terminò in un bisbiglio.
La mamma fece un
sospiro pesante. «Oh, no,
certo che non ce l’ho con lei. Perché dovrei? Ho
sempre tanto da
fare e tu sai che Renee ha un modo tutto suo di vedere le cose. Basta
un
niente per farle costruire un castello di carta».
La mia nonna materna,
Renee, e il suo
secondo marito Phil, vivevano a Jacksonville, in Florida, ed erano a
conoscenza
di quella che chiamavamo "la versione ufficiale": secondo questa
versione, io
ero la figlia del fratello maggiore di Edward, morto con la moglie in
un
incidente stradale quando io ero molto piccola. Per un po' di tempo
avevo
vissuto con la famiglia di mia madre, poi il mio presunto zio si era
sposato e
aveva deciso di adottarmi insieme alla sua seconda moglie, Bella, e
così ero
arrivata a Forks.
Quando la mamma le
aveva comunicato
tutto
questo per telefono, con il pericolo dei Volturi ormai scomparso
all’orizzonte,
Renee era quasi impazzita e aveva subito cominciato a smaniare per
venire a
Forks a vedermi. Bella era stata costretta ad accampare un mucchio di
scuse per evitare il disastro, finchè l’estate
precedente,
quando la mia crescita era rallentata e aveva smesso di essere evidente
per gli occhi umani, lei e
Phil erano corsi a trovarci.
Le due settimane della loro visita erano state probabilmente
le più stressanti nella vita di mia madre, poiché
Renee l’aveva talmente
subissata di domande che subito dopo la sua partenza l’intera
famiglia aveva
decretato, sconvolta da tutta quella tensione, che non era
più il caso che mi
vedesse. Passata l’estate, dunque, la mamma aveva sempre
ostacolato qualsiasi
possibilità di un nuovo incontro, limitandosi a scambiare
con Renee alcune
email e sporadiche telefonate, come me.
Mi rattristava
tenerla così a distanza: mi era piaciuta fin da subito
quella nonna giovanile,
allegra e un po’ svampita, che perdeva di continuo il
cellulare e le chiavi
della macchina, indossava orecchini spaiati e si vestiva come una
ragazzina. Le
giornate trascorse con lei erano state divertentissime e interessanti:
mi aveva
raccontato tante cose sull’infanzia della mamma, e tra noi
due non c’era mai
stata molta tensione dal momento che non osava, per il timore di
turbarmi, rivolgere
a me le domande con cui invece assillava sua figlia. Ripensando a lei,
sorrisi
istintivamente.
«Lo so,
ma… sarebbe comunque meglio se
domani tu le telefonassi e la tranquillizzassi un
po’», insistè Charlie con
tono serio e grave. «Era davvero preoccupata e non
è bello, ti vuole molto bene
e voi due eravate così legate, fino
a…». Tacque di colpo, consapevole di aver
detto troppo, mentre l’atmosfera nella stanza si congelava.
«Chiamerà
l’FBI se continui così» aggiunse.
«Proprio
quello di cui abbiamo bisogno»
commentò Jacob a bassa voce, e mi strappò un
sorrisetto.
La mamma era
visibilmente
tormentata da quelle parole. «D’accordo, ti
prometto che la chiamerò».
«Bells…»
«Ehi, ti ho
detto che lo farò!» esclamò,
esasperata.
Charlie
alzò le mani. «Okay, okay! Era mio
dovere avvertirti, tutto qui».
E la cosa
finì lì, per fortuna.
Quando ci fummo
stancati di giocare, era ora
di tornare a casa. Mentre salutavo tutti e infilavo il cappotto, di
colpo mi
sentii stanca morta. Charlie disse che sarebbe venuto a trovarci la
sera
successiva per una specie di torneo di poker che avevano organizzato
Carlisle e
gli zii, e feci promettere a Jacob che ci sarebbe stato anche
lui.
Appena salii
in auto, mi sdraiai sul sedile posteriore e scivolai nel dormiveglia.
Dopo un
po’ mi accorsi di un bisbiglio appena udibile
nell’abitacolo: i miei stavano
parlando sottovoce. Cercai di ascoltare, incuriosita.
«Non era affatto necessario che
intervenissi, prima. La situazione era sotto controllo» stava
dicendo la mamma
con tono leggermente stizzito.
«Tu dici?
Jacob ha sempre saputo perché lo
fai e anche se ti capisce non potrà mai essere
d’accordo. È davvero una sua scelta, Bella, ed
è davvero felice»
ribattè papà.
«Forse, ma
io continuo a pensare che sarebbe
la cosa migliore per tutti. In fondo si tratterebbe solo di seguire
qualche
corso alla Washington State, per esempio. Non deve trasferirsi in
Australia o chissà dove. E poi sarebbe meglio anche
per…». Di colpo abbassò di
più la voce e
mi persi qualche parola. «Non è giusto, non mi
va che cresca con questa... spada di
Damocle sulla testa».
«Ne parliamo
dopo» rispose papà troncando
bruscamente la discussione. Doveva essersi accorto che ascoltavo.
«Piuttosto,
quando chiami tua madre? È peggio se la ignori
così, lo sai. Non è una stupida».
«Lo
farò domani. È solo che… è
dura doverle
sempre rispondere di no quando mi chiede di andare a Jacksonville e
portarle la
bambina». La tristezza nelle sue parole mi colpì.
Davanti agli altri aveva
cercato di mantenere un tono neutro, ma ora sembrava sfuggirle il
solito
controllo.
«Be', magari
quest'estate…» disse papà.
Non sentii altro. Troppo stanca anche per farmi domande, chiusi gli
occhi e
lasciai che i loro sussurri mi cullassero nel mondo dei sogni.
Note.
1. Qui la canzone.
Spazio
autrice.
Okay, anche questo capitolo è abbastanza lungo! xd Spero che
non vi dispiaccia, personalmente non amo i capitoli troppo brevi
perchè non danno proprio soddisfazione xd. Resto in attesa
dei vostri pareri ^^. Fatevi sentire, gente!
|
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Capitolo 7 *** Kiss me ***
Capitolo 1
Capitolo 7
Kiss me
Oh,
kiss me beneath the milky twilight
lead me out on the
morning floor
lift your open hand
strike up the band and
make the fireflies dance
silvers' moon sparkling
so kiss me...
Kiss me, Sixpence none the richer¹
Nel primo bacio d'amore rivive
il paradiso terrestre.
George Byron
Il lunedì
mattina mi svegliai di ottimo umore. Ero euforica mentre
facevo la doccia, mi vestivo, battibeccavo con la mamma che
protestava per i miei acquisti durante lo shopping di sabato
pomeriggio…
Sentivo che sarebbe stata una giornata fantastica, anche se non
c’era nessun
motivo particolare per farmi pensare questo. Anzi, avrei avuto un
compito di
biologia a sorpresa che ormai tanto
a
sorpresa non era dal momento che io e i miei compagni eravamo riusciti
a scoprire la data. Mentre papà mi accompagnava a scuola in
auto, alzai la musica
a tutto volume e iniziai a cantare sotto voce. Lui aveva il sorrisone
di chi la sa lunga.
«A cosa è
dovuto tutto questo entusiasmo?»
domandò a un certo punto. «Non che mi dispiaccia,
sei uno splendore stamattina».
«Nessun
motivo in particolare.
C’è bisogno per forza di una ragione per essere
felici?» ribattei.
«Posso
chiedere se questo nessun
motivo si
chiama Alex?»
buttò lì come se niente fosse.
Mi scappò
una risata mentre arrossivo un po'. «Be’,
sì, è anche per quello» ammisi. Lui
già lo sapeva, ovviamente.
Voleva solo farmi uscire allo scoperto. «Ho un nuovo
amico».
«Non devi
sentirti tanto in imbarazzo, Renesmee» replicò.
«È assolutamente normale che ti piaccia un
ragazzo. Alla tua
età… o meglio, in questa fase della tua vita
è giusto prendersi una cotta. L’importante
è non correre troppo ed essere sempre
consapevoli dei propri sentimenti». Fece
una piccola pausa mentre io lo fissavo, sorpresa da tutta quella
tolleranza. In
famiglia erano sempre così gelosi e paranoici quando si
trattava di me. «E
soprattutto non devi legarti subito a una persona sola»
aggiunse un attimo
dopo.
«Che vuoi
dire?» esclamai, meravigliata.
«Io non sono legata a nessuno». Alex lo conoscevo
appena, e per quanto mi
piacesse era decisamente troppo presto per parlare di fidanzamenti e
roba del
genere.
«Certo»
mormorò, ma il suo volto divenne
scuro di colpo, come se in una giornata di primavera un banco di nuvole
grigie avesse offuscato il sole luccicante. «Voglio solo
che tu abbia una vita normale».
«Papà,
sono una mezza vampira di quattro anni che ne dimostra quindici,
vivrà per sempre e proietta i propri
pensieri nelle teste altrui: come potrò mai essere
normale?»
Dopo un attimo di
esitazione lui sorrise di nuovo e le nuvole scivolarono via.
«Intendevo nei limiti del possibile».
«Be’,
questa è una specificazione molto utile!» esclamai,
divertita.
In quel momento
eravamo arrivati al parcheggio della scuola.
«Passa una bella giornata, tesoro» mi disse
papà.
«Ah, non so
perché ma penso che lo sarà!» risposi
in tono allegro, su di giri.
Edward spense il
motore e mi guardò in silenzio per un attimo. «Ti
voglio bene,
lo sai vero? Sì che lo sai». Un grosso vantaggio
di avere un padre che ti legge
nel pensiero è che tre volte su quattro ti risparmia la
fatica di rispondere.
«Anch’io papà. A dopo. E divertitevi con
il nostro J» esclamai con un
sorrisino.
Quella mattina i miei
avevano un
appuntamento a Seattle con il fido Jenks. In realtà era
sempre la mamma a trattare con lui per conto dell’intera
famiglia, ma papà la accompagnava spesso. Saltai
giù e mi
incamminai a passo svelto, pensando che anche se il summenzionato padre
che
legge nel pensiero ha centodieci anni ed è un vampiro
terrificante, sa essere la
persona più dolce dell’universo.
Entrai nel cortile, affollato ma non troppo
perché era già tardi... Colpa della mamma e delle
sue prediche. Stavo
rimuginando sul test di biologia,
quando mi sentii chiamare.
«Renesmee!
Ehi, Renesmee!»
Era Alex,
comodamente seduto sul cofano della sua auto, le cuffiette
dell’i-pod che
spuntavano dalle orecchie. Gli sorrisi, rispondendo al saluto con la
mano, e lo osservai da lontano per qualche secondo: gli occhi luminosi,
la
carnagione chiara e delicata, le labbra perfette, il sorriso smagliante
stile
pubblicità del dentifricio, i capelli scuri elegantemente
scompigliati dal
vento… sentii lo stomaco contrarsi per
l’eccitazione e il nervosismo. Mentre mi avvicinavo, cercai
di darmi un contegno.
«Ehi! Come
stai?»
«Alla
grande, adesso» rispose con tono
insinuante. «E tu?»
«Non
c’è male. Che fai ancora qui? Si sta
facendo tardi».
«Ero
impegnato a
convincere me stesso ad entrare e andare a matematica».
«Ah,
sì? E stai avendo successo?»
Scrollò le
spalle. «Non molto. Sai, la
matematica non mi piace un granchè. E poi avrò un
test di storia, ma io l’ho
saputo venerdì, quindi ho avuto solo il week end per
ripassare tutto il
programma».
Feci una smorfia.
«Che bella sfortuna. Io avrò un
test di biologia a sorpresa».
«Non
dovresti sapere che è oggi, allora»
obiettò sollevando un sopracciglio.
«Se
è per questo non avrei nemmeno dovuto
guardare nell’agendina del professore per scoprire
la data» ribattei con aria orgogliosa e imbarazzata al tempo
stesso.
Lui scoppiò
a ridere di gusto. «Non posso
crederci! Miss Perfettina che imbroglia un insegnante… non
l’avrei mai detto».
Mi piantò in faccia quegli occhi
incredibili ed io mi ci persi per un istante. Faticai a tirare un bel
respiro e
a parlare di nuovo.
«Ci sono
tante cose che non sai di me. In
fondo ci conosciamo solo da qualche giorno».
Schizzò in
piedi con agilità. «È il caso di
approfondire, allora! Potrebbe essere interessante, soprattutto se hai
altre
simili prodezze da confessare! Forza, andiamo». Si diresse
verso il posto di guida della sua macchina.
Lo guardai,
disorientata. «Dove?»
Anche lui si
fermò per guardarmi. «A fare un giro! A scuola non
potremmo parlare comodamente, no?»
Sbattei le palpebre,
ancora perplessa. «Un giro? Stai scherzando,
vero?»
«Mai
stato più serio di così».
«Come?»
sbottai. «Alex, se
oggi perdo quel test potrei avere dei problemi e ne avrai anche tu se
perdi il
tuo. Muoviamoci».
Stavo per girarmi
verso l’edificio, ma lui
mi fermò. «Oh, dai, so che vuoi farlo, Scheggia!
Solo un giro! Sarai qui fuori
alla solita ora e nessuno lo saprà mai».
Questo era quello che
credeva lui, che non
sapeva delle abilità extra di mio padre. Per un attimo
provai ad immaginare la sua reazione, e quella della mamma, se avessi
saltato le lezioni. Non avevo mai fatto una cosa del genere, quindi non
sapevo con certezza come l'avrebbero presa. Sicuramente non ne
sarebbero stati entusiasti, ma non erano tipi da scenate, loro due. Poi
immaginai di passare la mattina lì dentro, a scuola, a fare
le stesse cose di
tutti i giorni, e immaginai invece la mattinata con lui: un’incognita, era
vero, perché avevo la sensazione che con Alex
potesse succedere qualsiasi cosa… ma forse valeva la pena di
vedere cosa
sarebbe successo. Forse era il caso di assecondare lo strano impulso
che
avvertivo di seguirlo. Forse era arrivato il momento che Miss
Perfettina desse
una bella scossa alla sua vita.
«Muoviamoci»
sibilai, e lo raggiunsi di
corsa.
Alex
scoppiò a ridere, raggiante. «Sì!
Vittoria! Evvai, Scheggia!» esclamò, salendo
in macchina.
Io mi infilai rapidamente al suo fianco,
guardandomi in giro con attenzione per verificare che non ci
fossero professori nella vicinanze.
«Forza,
sbrigati! Parti!» strillai mentre
inseriva la chiave nel quadro.
Accese il motore e diede gas, con una sgommata
la macchina balzò in avanti, accelerò e un minuto
più tardi eravamo fuori dal
parcheggio, ma io non abbassai la guardia finchè non fummo a
qualche chilometro
dalla scuola, terrorizzata al pensiero che qualcuno ci vedesse. E se
papà era
ancora nelle vicinanze? E se il preside Green era in ritardo e proprio
in quel
momento stava arrivando a scuola? Quando finalmente fui certa che
l’avevamo
fatta franca, potei tirare un sospiro di sollievo e, trascinata
dall’entusiasmo
di Alex che continuava a gridare come se stesse facendo il tifo in uno
stadio, mi unii a lui. Ci volle un po'
prima che ci calmassimo abbastanza da poter parlare di nuovo.
«Oh mio Dio,
sono scappata da scuola!»
strillai saltellando sul sedile come una bambina. «Non
l’avevo mai fatto! È
fortissimo!»
«E
così, ormai Miss Perfettina ha imboccato
la strada della perdizione…» disse con un ghigno.
«E ci ho messo anche poco
per convincerti a seguirmi!». Scosse la testa,
divertito.
«Eh,
già… Mi avrai sulla
coscienza per il resto della vita».
«Questo
è solo l’inizio, Scheggia. Abbiamo
un’intera mattina davanti a noi».
«Non
chiamarmi Scheggia, e qualunque piano
criminale tu stia ideando, sappi che qui a Forks combinare qualcosa di interessante, come diresti tu,
è
assolutamente impossibile».
Ignorò le
mie proteste su quello stupido
soprannome, come al solito. «Ho notato che è tutto
molto tranquillo, da queste parti, ma non è detto che non si
riesca a movimentare un po’ le cose. Ci sarà pure
qualche posto dove andare, a parte il supermercato».
«Certo»
risposi con tranquillità «c’è
il
fantastico Museo del Legname dove ammirare tutte cose interessanti come
gli
attrezzi dei boscaioli di due secoli fa. Oppure, se ti va di fare
qualche
chilometro in più, nel Tillicum Park è conservata
una vecchia locomotiva del 1930
e ti assicuro che guardarla è la cosa più
emozionante che si possa fare senza uscire
dalla penisola olimpica²».
Alex rise di gusto nel sentire le mie
proposte. «Non puoi fare sul serio!»
«Bene,
verifica di persona, se non mi credi! Ah, e poi c'è il
supermercato, certo: potremmo andarci, comprare qualcosa di
trasgressivo come una lattina di Coca e sorseggiarla di fronte
all’ingresso. Sarà uno spasso».
Questa volta lo shock
fu più forte. «Tutto
qui? E che cavolo… saltare la scuola non ha senso se non si
combina qualcosa
di divertente nel frattempo».
«E allora
che si fa, torniamo indietro?»
sbottai, delusa. Avevo sperato in qualcosa di meglio per la mia prima
fuga da
scuola che dieci minuti in macchina lungo la Forks Ave.
«Neanche per
idea! Perfino restare in
auto ad ascoltare dei cd sarebbe meglio delle tue proposte…
ne ho un mucchio,
possiamo ammazzare almeno un paio d’ore».
«Sarebbe
carino, ma è meglio non passare
troppo tempo in giro: mio nonno potrebbe beccarci, o comunque visto che
lo
conoscono tutti qualcuno potrebbe vederci e riferirglielo»
mugugnai.
«E
allora?» esclamò, un po' sconcertato, lanciandomi
un'occhiata rapida. Probabilmente nella sua testa un nonno impiccione
non rappresentava un grosso
problema.
«È
il capo della polizia» risposi con
un’occhiata eloquente.
«Merda»
fu il suo commento sparato tra i
denti.
Riflettei in silenzio
per un minuto. La sua idea non
era male, ma comunque non abbastanza eccitante, anche senza il pericolo
incombente di Charlie. Nell’esatto momento in cui lo
formulavo, quel pensiero
stesso mi stupì, come tutto il resto. Avevo saltato la
scuola, ero in macchina
con un ragazzo appena conosciuto e mi stavo scervellando per trovare
qualcosa
di divertente da fare in barba ai duecento divieti e regole di famiglia
che mi
risuonavano nelle orecchie e alla minaccia dell’ispettore
capo Swan. Che mi
stava succedendo? A quel punto mi venne un’idea.
«Credi che
il tempo reggerà?» domandai
sbirciando fuori dal finestrino. Il cielo era coperto, anche se non
pioveva, ma
stando alle previsioni di zia Alice in mattinata sarebbe uscito un
po’ di sole.
«Sembrerebbe
di sì. Perché?»
«Perché mi è appena venuto in mente un
posto
fantastico, ma sarebbe
meglio se non piovesse. È abbastanza isolato,
sarà difficile
incontrare qualche problema... Siamo pur sempre due fuggitivi, dobbiamo
stare all'erta» dissi con un sorriso malizioso.
«Bene. Di
che posto parli?»
«Lo vedrai.
Quando te lo dico svolta a sinistra».
«Allora il
comando della giornata passa a te? Mi sa che mi toccherà
fidarmi».
«Tu
fidati» risposi, e l’occhiata
successiva che mi lanciò, stranamente seria e tenera allo
stesso tempo, mi fece
arrossire di confuso piacere. Mi ero appena resa conto di amare quello
sguardo.
Ero certa che quel
posto gli
sarebbe piaciuto un sacco. Alex non aggiunse altro, si
limitò a frugare un po’ nel vano
cd, ne scelse uno, lo infilò nel lettore e lo fece partire.
La prima traccia, a
volume non troppo alto, era una canzone degli anni Novanta, romantica e
piuttosto famosa. L’avevo già sentita
perché era una delle
preferite di tutte le coppie in amore di casa mia: quante volte li
avevo
guardati ammirata mentre ballavano al ritmo di quelle note, di quelle
parole?
Un’infinità. Ma quella volta, seduta
in macchina accanto ad Alex, mi parve che avesse un suono del tutto
nuovo, le
parole del testo un significato sconosciuto, come una dolce promessa.
A parte le mie
indicazioni stradali, che lui
seguiva in silenzio, non parlammo mentre proseguivamo verso la nostra
meta, con
la musica che riempiva l’abitacolo, la vegetazione che
diventava sempre più
fitta fuori dai finestrini. Eppure quel silenzio non mi pesava e a
giudicare dalla sua aria rilassata nemmeno a lui. Forse adesso che
cominciavamo a conoscerci meglio avevamo superato l’imbarazzo
dei primi giorni…
Ma io ancora non lo conoscevo bene, mi resi conto di colpo con un
sussulto interiore. Non
sapevo quasi nulla di Alex, solo il suo nome. Com’era
possibile allora che con
lui mi sentissi sempre così bene, nonostante
l’imbarazzo, le prese in giro…
come se fossimo stati due spiriti affini. Mi era già
capitato di pensare
qualcosa del genere, con il mio Jacob. Ma con lui era tanto diverso: lo
conoscevo dalla nascita, era come un fratello… per Alex
invece sentivo che
avrei potuto provare qualcosa di più. Proprio lui interruppe
bruscamente i miei
pensieri con una risatina.
«Avrei
dovuto arrivarci. Non era poi così
difficile».
Tornai alla
realtà e mi resi conto che
avevamo appena passato il cartello stradale che indicava
l’ingresso nella riserva
dei Quileutes. Sorrisi. «Eh sì, un agente segreto
molto scadente, direi».
«Ma si
potrà entrare? Non serve un permesso o
qualcosa del genere?»
«Nessun
permesso. Già conoscevi la riserva,
allora?»
«Ne ho
sentito parlare. È un gran bel
posto».
«Unico al
mondo! Ma io sono di parte, passo
qui un sacco di tempo».
«Sul serio?
E come mai?»
«Ho molti
amici tra i Quileutes».
«E non
c’è il pericolo che qualcuno ci
veda?»
«Hai
paura?» lo provocai.
«Io non
chiedo di meglio che un gran casino
a casa e a scuola. Dicevo per te».
Il suo tono mi
stupì. Non era noncurante o
spavaldo come mi sarei aspettata, ma semplicemente sincero.
«Tranquillo, i miei
amici non sono mai in giro a quest’ora».
Era una mezza
verità: i licantropi che
erano di ronda di giorno non si spingevano mai troppo vicino alla
spiaggia per
non rischiare di essere visti, e quelli che in mattinata non erano di
turno di
solito erano appena rientrati dalle ronde notturne, per cui erano a
casa a
dormire. E anche se qualcuno fosse stato nei paraggi e mi avesse
visto, non sarebbe stato un gran problema. I miei l'avrebbero scoperto
comunque. Tanto valeva
non pensarci e godersi il momento. Cinque minuti più tardi
eravamo nel
parcheggio sterrato attiguo a First Beach. Da lì si poteva
già vedere la
spiaggia.
«Forza,
andiamo» dissi, emozionata.
Alex
parcheggiò in fretta e mi seguì mentre correvo
lungo il sentiero di terra
battuta. Giunta alla spiaggia mi fermai e osservai il panorama
spettacolare: la
distesa di sassi e tronchi dai colori tenui portati a riva dal mare, il
cielo
plumbeo solcato da candidi gabbiani, l’oceano
grigio e inquieto. Il vento freddo increspava la superficie dell'acqua,
mi scompigliava i capelli portandomeli sul viso e agitava le folte
chiome
degli alberi che circondavano la mezzaluna. Conoscevo quel posto come
le mie
tasche. Avrei potuto chiudere gli occhi e descriverlo fin nei minimi
dettagli,
eppure ogni volta che tornavo riusciva a stupirmi con la sua bellezza.
«È
meraviglioso, vero?» esclamai, senza
fiato.
Mi voltai di scatto
per cercare Alex convinta che fosse rimasto indietro
e me lo ritrovai a pochi centimetri di distanza. Era immobile e non
guardava il
paesaggio. Guardava me con espressione intensa.
«Sì» sussurrò e il mio cuore
fece un
balzo. Ma nemmeno un secondo dopo, era scoppiato a ridere e si era
allontanato. «Sì, direi che non è male
per passare una giornata in
clandestinità! Complimenti, Scheggia».
Tirai un respiro
profondo e ripresi il
controllo totale, approfittando del fatto che non poteva vedermi in
viso. «Ancora
non ti ha stufato questo stupido soprannome?»
Si girò a
guardarmi con aria perfida mentre
saltellava su dei sassi molto grandi. «Ehm… no. E
non credo che succederà tanto
presto, sai. La tua faccia ogni volta che ti chiamo così
è un tale spasso».
«Conosci il
mio nome, ormai, usa quello»
ribattei acida, troppo stizzita per cercare di non dargli soddisfazione.
Scrollò le spalle. «Anche tu conosci il
mio».
Ancora una volta le
sue risposte
impertinenti mi lasciavano a bocca aperta. Ma invece di ribattere a
tono, colsi al volo l'occasione. «Certo, ed è
praticamente l’unica
cosa che so di te» buttai lì mentre lo
raggiungevo. «Se vogliamo davvero
diventare amici, è il momento di fare qualche passo avanti,
non ti pare?»
Era di spalle. Si
fermò in bilico su un
grosso sasso e si irrigidì appena. Tacque per un secondo,
poi parlò con tono allegro,
forzatamente allegro. «Naturale. Che vuoi sapere?»
Storsi il naso.
«Così lo fai sembrare un
interrogatorio» sbottai. Mi avvicinai e mi sedetti sul tronco
rovesciato che
io e Jake usavamo come postazione per le nostre eterne chiacchierate in
spiaggia. Era una strana coincidenza che ci trovassimo proprio
lì vicino. «Raccontami
qualcosa di te, quello che vuoi… Perché non
cominci dal nostro primo
incontro? Come mai eri in fuga?»
Mi sorrise.
«Be’, avevo geometria e ti ho già detto
che odio la geometria… per giunta, la
professoressa mi aveva costretto a presentarmi davanti a tutta la
classe: un supplizio
atroce. Così sono uscito dall’aula con una scusa
qualunque e ho fatto una bella
passeggiata per il campus. Stavo giusto pensando di filarmela, quando
ho visto il preside Green sbucare da un corridoio e venire
dritto verso di me. A quel punto mi sono buttato nella prima aula che
ho
trovato ed eccoci qui» allargò le braccia come per
concludere il racconto. «Come
vedi, è molto più banale di quanto potessi
immaginare».
«Devi essere
stato molto veloce per non
farti beccare» mormorai. «Green vede tutto.
Probabilmente ha un paio di occhi anche dietro la testa, nascosti dai
capelli. Ho
l’impressione che tu faccia spesso cose del genere».
Ci fu
un attimo di silenzio. «Direi che spesso è un
eufemismo» rispose con aria
furba.
«Eppure la
tua media è altissima. Al momento
batte perfino la mia». Mi scappò un sorrisetto.
«E tu lo sai
perché…» aggiunse, sbalordito,
le sopracciglia inarcate.
«La mia
amica Holly ha sbirciato nei tuoi
documenti approfittando di un attimo di distrazione della
segretaria» risposi
noncurante.
Sul suo volto si
disegnò un sorriso
ammirato. «Caspita».
«Allora,
com’è possibile che un ragazzo così
sveglio e in gamba passi poi la maggior parte del suo tempo a scappare
da
scuola e a saltare le lezioni? Ad andare in cerca di guai,
insomma» domandai,
curiosa, ma cercando di non essere invadente.
Di nuovo non rispose
subito, ma rimase zitto
per un po’. Guardava verso l’oceano con aria
indecifrabile. In quel momento,
con lo sguardo perso in lontananza e i capelli scompigliati dal vento
che
sapeva di mare, in piedi su quel sasso, era così bello da
togliermi il fiato.
Sentii il mio cuore battere più forte, e desiderai con tutte
le mie forze
sapere cosa aveva in testa.
«Se
è troppo difficile passo alla prossima domanda»
lo stuzzicai. Non volevo vederlo triste, e nemmeno pensieroso, per
quanto
potesse affascinarmi. Volevo vedere il suo sorriso e sentire che era
felice.
«Non
è questo, è che non voglio…
annoiarti»
rispose, e sembrò che avesse cambiato parola
all’ultimo istante.
«Be’,
anche io potrei annoiarti quando
ti racconterò qualcosa di me, ma non importa: mi hai chiesto
di essere amici ed
io voglio esserlo, davvero, ma dovremmo conoscerci meglio, non
trovi?». Alex annuì appena, mentre
mi fissava con aria seria, ed io mi sentii incoraggiata e proseguire.
«Bene. Allora, come mai ti sei trasferito dalla fantastica
New
York alla sperduta Forks?» cominciai. Era una delle prime
domande che mi era
venuta in mente e non troppo personale.
«È
stata mia
zia a volerlo».
«Tua
zia?»
«Sì,
la mia tutrice. Mia e di mia sorella
minore. Vedi, i miei genitori sono… sono
morti».
Saltò giù dal sasso gigante e
venne a sedersi accanto a me.
«Oh»
mormorai, colta totalmente di
sorpresa. «Mi dispiace».
«Un anno e
mezzo fa hanno avuto un incidente
d’auto, mentre andavano ad una festa, e sono morti sul
colpo» continuò senza
badare al mio commento. «Nel
testamento zia Julie,
la sorella minore di mia madre, è stata nominata tutrice
legale e si è trasferita a casa nostra».
«Hai una
sorella?». Mi sforzavo di mantenere
un tono normale, ma sentivo gli occhi pungere stranamente, forse
perchè stavo pensando a
cosa avrei dovuto raccontargli dopo. Per la prima volta da quando ero
uscita
dal bozzolo di casa Cullen ed ero entrata nel mondo reale, desiderai
con tutte
le mie forze non dover mentire a chi avevo di fronte.
«Si chiama
Phoebe. Ha dieci anni». Fece una breve pausa ed io rimasi in
silenzio, lasciandogli il
tempo di cui aveva bisogno. «So che può sembrarti
una frase retorica, ma da quel
giorno, dal giorno in cui ho visto i miei per l’ultima volta,
è cambiato tutto. Julie ha solo ventotto anni...
è una persona intelligente e
comprensiva. Si è sforzata di rendere tutto il
più semplice possibile, ma anche
se cercava di non darlo a vedere, per lei è stata molto
dura, almeno quanto lo
è stato per noi».
«Ti
capisco» sussurrai con voce roca. E
iniziai la messinscena. «Anche i miei genitori sono
morti». Spalancò gli occhi,
incredulo, ma non disse una parola. Feci un respiro profondo.
«Ero
piccolissima, non li ricordo affatto. Per parecchi anni ho vissuto con
i miei nonni materni, a Seattle. Poi qualche anno fa ho
conosciuto zio Edward, il fratello minore di mio
padre».
«Lo conosci
solo da qualche anno?»
«Sì.
Vedi, anche mio padre e mio zio erano stati adottati, ma da
famiglie diverse. E non si sono mai più visti
finchè Edward non ha saputo della morte di mio padre. A quel
punto mi ha cercata e ha
deciso di adottarmi insieme a sua moglie Bella».
Continuava a guardarmi
meravigliato. Sarebbe
stata davvero una strana coincidenza che le nostre storie fossero
così simili…
se solo io avessi detto la verità. «E
perché sei andata a vivere con loro? Non
li conoscevi affatto».
«No, li
conoscevo. Prima che decidessero di
adottarmi sono venuti a trovarmi molte volte, e fin da subito mi sono
trovata
benissimo con loro. E poi, i miei nonni ormai erano anziani ed era
diventato
difficile per loro prendersi cura di me. Allora ho detto di
sì, e due anni fa
mi sono trasferita a Forks».
«E adesso
vivi con loro?»
«Con loro e la famiglia di mio zio Edward:
il dottor Cullen e sua moglie, che oltre a mio zio hanno adottato altri
quattro
ragazzi».
«E per te
cosa sarebbero? Zii e nonni
acquisiti?». Sembrava leggermente confuso, e potevo capirlo:
era la stessa
reazione di tutti quelli che sentivano la mia storia per la prima volta.
«Praticamente
sì».
Alex
riflettè in silenzio, corrugando la fronte.
«Devono essere tutti molto giovani».
«Zio Edward
e zia Bella hanno solo ventitré
anni. Si sono sposati subito dopo aver finito il liceo».
«E
com’è vivere con due
ragazzi che ti fanno da genitori? A me a volte sembra strano che Julie
sia
la mia tutrice perché ha solo ventotto anni, ma
ventitrè…»
«Non
è affatto male, sai. Insomma, a volte è
fantastico parlare
con loro, capiscono i tuoi problemi perché ci sono
passati da poco e non fanno tante storie per niente… ma sono
anche in grado di scoprire tutti i tuoi trucchi e le
bugie perché sono gli stessi che hanno usato anche loro, e
sanno cose che i
genitori normali non immaginerebbero nemmeno perché fino a
poco tempo fa la
scuola, gli amici, erano il loro mondo, come adesso sono il nostro. Ad
esempio,
è quasi impossibile che non si accorgano della mia bravata
di stamattina»
ammisi.
Alex annuiva, stupito.
«Wow»
esalò lentamente. «E io che pensavo che la mia
storia fosse troppo in stile
Oliver
Twist».
Anche se forse il
momento non era adatto,
per via degli argomenti che stavamo affrontando, mi venne da ridere e
non riuscii a
trattenermi. «Già, potremmo scriverci un
romanzo» esclamai.
«Almeno
siamo in due» aggiunse, e mi
rivolse un sorriso intenso e bellissimo.
Per un attimo mi
sentii stordita, ma cercai
subito di riprendermi e fare finta di niente. Forse, se mi ci mettevo,
potevo
ancora sperare di non fargli capire l’effetto che aveva su di
me… soprattutto quando
sorrideva in quel modo. «E come mai vi siete trasferiti in
questo buco sperduto?»
«È
successo poco dopo Natale. Il fidanzato di mia zia, Andrew, che
è un giornalista, ha ottenuto un posto al Vancouver Gazette,
quindi
avrebbe dovuto trasferirsi da queste parti. Lei ha pensato di seguirlo,
visto
che vorrebbero sposarsi. Julie lavora nel mercato dell'arte,
così ha cominciato a spulciare su Internet e ha trovato una
vecchia galleria d’arte da ristrutturare a Port Angeles, che
è molto vicino a
Forks, se non sbaglio». Confermai annuendo.
«Be’, la vendevano a un prezzo
eccellente e lei aspettava da una vita un’occasione del
genere. Così qualche
mese fa ha deciso per il trasferimento». Fece una piccola
pausa e
fissò a terra per un minuto con espressione seria. Poi,
all’improvviso, accennò uno strano sorriso
obliquo, dal sapore amaro. «Ti sembrano ragioni
sufficienti?»
«Che vuoi dire?» chiesi a bassa voce.
«Voglio dire
che sono questi i motivi che
Julie ha elencato a me e a mia sorella per spiegarci la sua decisione,
ma
non ci ho messo molto a capire che c’era
dell’altro, a farle confessare il vero motivo per cui ci
trasferivamo:
voleva portarci via. Via dalla nostra vita, o meglio, da quello che ne
rimaneva,
dai nostri ricordi, dal nostro dolore, da tutto quello a cui ci eravamo
aggrappati per andare avanti». Parlava abbastanza velocemente
e con voce
tranquilla, misurata. Sembrava che quella storia non lo toccasse
più di
tanto, come se non fosse stata la sua. Ma se guardavo i suoi occhi, se
li
fissavo con attenzione, potevo scorgere la sofferenza che accompagnava
quelle riflessioni. «Dopo la morte dei nostri
genitori, Phoebe ed io abbiamo
avuto… qualche problema».
Lo guardai,
imbarazzata. «Anche… anche tua
sorella?» mormorai.
Si limitò ad annuire. Fece un respiro profondo come per
sforzarsi di continuare. Era evidentemente in difficoltà.
«Alex»
intervenni posandogli una mano sul
braccio «aspetta. Non devi dirmi per forza tutte queste cose
se non vuoi, se
non te la senti». La conversazione si stava facendo davvero
troppo personale, e poi potevo lasciare che si aprisse in quel
modo con me senza che io potessi fare altrettanto con lui?
L’avevo appena
riempito di bugie, santo cielo.
Lui scosse la testa.
«Ma io me
la sento. Non so perché, ma voglio farlo. Vedi, Phoebe... da
quel giorno lei si è come... svuotata. È sempre
stata una ragazzina sveglia e intelligentissima, sempre la prima in
tutto, e
all’improvviso Julie faticava perfino a convincerla ad andare
a scuola. Passava
tutto il tempo chiusa
nella sua stanza e aveva perso interesse per qualsiasi cosa. È
stata veramente dura per lei. Io, invece…» fece un
sorriso triste «... due giorni
ti fa ti ho detto che un tempo la mia vita era perfetta, e
finchè lo è stata,
l’ho vissuta al massimo della felicità. Poi
è andata distrutta all’improvviso ed
io… non so perché, ma ho deciso che tutto doveva
andare alla deriva, tutto
doveva morire, insieme ai miei genitori.
Ho cominciato a frequentare brutte
compagnie.
Saltavo le lezioni per andare con queste persone a bere e a fumare. Un
giorno
ho preso la macchina di mia zia e l’ho distrutta
perché guidavo ubriaco e senza
patente. La polizia mi ha beccato e lei è dovuta venire a
prendermi… per fortuna
ero minorenne. Ho organizzato una festa notturna a scuola, in palestra,
ma il custode ha sorpreso me e un altro paio di imbecilli, ubriachi
fino al midollo, mentre cercavamo di entrare nell'ufficio della
preside. Sono stato sospeso per due settimane. E quante volte sono
tornato a casa da una festa conciato così male che per
giorni non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto…». Scosse il capo
mentre parlava, come se lui stesso non credesse fino in fondo a quello
che stava raccontando.
«Povera Julie, quante gliene ho
fatte passare. E
anche a Phoebe, per la verità: allora non me ne rendevo
conto, ma lei soffriva
con me, e per me».
Interruppe il
racconto per un attimo, ma non mi guardò. Continuava a
fissare le pietre della spiaggia con aria tesa e concentrata, e allo
stesso tempo assente. Sembrava all'improvviso lontanissimo da me, come
se stesse viaggiando tra i suoi ricordi. Io rimasi in silenzio,
immobile e rigida, osando a malapena respirare, troppo dispiaciuta e
troppo sorpresa per dire una parola. Avevo intuito che ci
fosse qualcosa di triste nel suo passato, ma quella storia superava di
gran
lunga le mie congetture. Alex fece un sospiro.
«Ero davvero
fuori, in quel periodo.
Ripensandoci adesso, con un briciolo di maturità e di
serenità in più, capisco
che stavo solo cercando qualcosa che fosse più forte del
dolore. Qualcosa che
lo cancellasse, che mi aiutasse a fuggire… Per me era come
se avessi preso un
aereo e avessi cambiato paese: stavo scappando a gambe levate. Adesso
so, e forse lo
sapevo anche allora, che era un modo stupido e infantile di affrontare
i
problemi, ma mi sembrava che non potesse esisterne un altro.
E a un certo punto
ho del tutto perso la bussola: una sera, a una festa, ho esagerato e
sono stato
male. I miei amici hanno chiamato un’ambulanza e sono stato
ricoverato. Ricordo
che a quel punto pensai di aver toccato il fondo e di poter finalmente
cominciare a risalire. Zia Julie era disperata e mi pose un ultimatum:
se non
avessi smesso di fare cose del genere mi avrebbe mandato in un centro
di
recupero. Anche Phoebe mi chiese si smettere, lo fece per la prima
volta:
voleva che tornassi quello di prima. Allora decisi sul serio che era il
momento
di piantarla. Cercai di tornare a una vita normale… non
quella che avevo perso, ma almeno una vita normale. Non è
stato facile. Se
non sono impazzito del tutto lo devo solo a Julie, che non mi
ha mai
lasciato solo, nemmeno quando combinavo un guaio dietro
l’altro… E alla mia migliore amica: anche lei mi
è
rimasta vicino nonostante tutto.
Ho smesso di
comportarmi da idiota, ma a
quel punto il dolore che avevo lasciato fuori mi è piombato
addosso all’improvviso. Ed io non ero abituato ad affrontarlo
da sobrio. È stato allora che Julie ha cominciato a parlare
del trasferimento.
Capisci ora perché l’ha fatto, qual è
stato il vero motivo?»
«Cercava di
aiutarti» mormorai, la voce
roca dopo essere rimasta zitta per tutto quel tempo. «Voleva
portare te e tua sorella lontano da un posto dove avevate sofferto
così tanto».
Mi guardò
per un attimo, poi
annuì lentamente. «Certo. All’inizio
aveva paura che noi ci opponessimo, ma a Phoebe non
interessava ed io… il sollievo che provavo al pensiero
di andarmene mi sorprese. Certo, tante cose e tante persone che ho
lasciato mi
sarebbero mancate da morire, mi mancano
da morire, ma forse in cambio avrei potuto guadagnare un po’
di pace. Così ho
dato l’okay».
«E…
l’hai trovata, un po’ di pace?»
domandai in un sussurro, esitante. Non ero certa di potergli rivolgere
delle
domande su un argomento così personale, ma dopotutto era
stato lui a insistere
per parlarne. E poi il desiderio di capire cosa provava era fortissimo.
Fece una strana
smorfia, a metà tra un ghigno e una risata. «Devo
dire che sta andando
meglio di quanto pensassi. Immaginavo che trasferirsi in una cittadina
di
provincia con una storia come questa alle spalle, dove non conosci
nessuno e
dove tutti ti guarderanno come un mostro e sparleranno di te, sarebbe
stato un
incubo».
«Cavolo, hai
dipinto un quadro da brivido!
Quasi mi viene voglia di fare i bagagli e puntare verso una grande
città»
esclamai leggermente divertita.
«Diciamo che
per ora è solo un mezzo incubo, grazie a un paio di
cose».
«Scommetto
che il tempo mite e soleggiato è
la prima della lista» scherzai lanciando
un’occhiata alle minacciose nuvole
grigie che solcavano il cielo.
«Ovvio. E
subito
dopo c’è la qualità eccellente del cibo
della mensa a scuola».
Scoppiammo a ridere
insieme e finalmente l'atmosfera si distese. Era strano che dopo avermi
raccontato una
storia tanto dolorosa, sembrasse di colpo così tranquillo e
spensierato. Quando ci calmammo, restammo entrambi in
silenzio per
un po’ a
guardare l’oceano e le onde che si infrangevano sugli scogli.
«E tua zia
come ha preso… ehm,
tutto questo?» domandai all’improvviso.
Alex alzò le spalle. «Julie è una
persona molto forte. Ce l'ha fatta da sola. Non
so dove trovi questo coraggio,
ma ha superato tutto molto prima e molto meglio di quanto abbia
fatto io.
Anche se… be’, perfino Phoebe, che è
soltanto una
bambina, l’ha affrontato meglio
di me».
«Non dire
così. Ognuno ha i suoi tempi e i
suoi modi».
«Ho scelto
il modo più idiota che potessi
trovare, allora» esclamò. «E chi lo sa,
magari se non ci fossimo trasferiti
avrei anche ricominciato, prima o poi… che vigliacco sono
stato». Il suo tono
tornò amaro, e anche se dal viso perfetto non traspariva
nulla, nei suoi occhi
scorsi una nuova ondata di dolore… un’ondata
fulminea, che un istante dopo era
già passata. Mi sorrise di nuovo mentre lo fissavo
preoccupata.
«Vuoi
smetterla di giudicarti?» sbottai. «Non
è giusto. Hai vissuto un’esperienza terribile, e
non sei tenuto a giustificare
ciò che hai fatto».
«La stessa
esperienza che hai vissuto anche
tu e chissà quante altre persone… ma non mi
risulta che tu ti stia comportando
da pazza».
Ops.
«È vero»
risposi lentamente, scegliendo
con cura le parole «ma io ero piccolissima quando i miei
genitori
sono morti,
praticamente non li ricordo affatto… e con il tempo delle
persone
meravigliose hanno preso il loro posto e hanno sostituito con il loro
amore
quello che i miei non hanno potuto darmi. E sono stata felice, malgrado
tutto».
Ero convincente? Lo speravo proprio. Presi aria e proseguii.
«Hai
una sorella
che ti ama abbastanza da soffrire quando soffri tu e stare bene quando
stai bene tu, e una zia che per aiutarti è stata disposta a
trasferirsi
dall’altra parte del paese... e hai soltanto sedici anni:
forse
adesso non
riesci a crederci, ma un giorno smetterai di soffrire e potrai essere
di nuovo
felice. Devi solo superare questo momento».
Mi fissava con un'aria così attenta e così
intensa che sotto il suo sguardo arrossii, imbarazzata. Poi
annuì lentamente. «Wow, Scheggia… sei
molto meglio di tutti i consulenti scolastici e gli
psicologi con cui ho parlato fino a qualche mese fa».
Ancora una volta il
dolore che c’era nel suo
passato mi stupì, ma mi sforzai di assumere un tono
scherzoso. «Ah, sì?»
«Certo. Sei
l’unica che è riuscita a
parlarmi di queste cose senza farmi venire la voglia di tagliarmi le
vene».
Il tono rilassato con
cui pronunciò quelle parole orribili fu come una doccia
fredda. «Adesso
sei veramente un idiota, Alex»
sbottai.
Gettò
indietro la testa e la sua risata riempì l’aria.
«Allora ci tieni un po’ a me, Scheggia!
Ammettilo!»
Sentii tutto il
dispiacere e la comprensione
che avevo provato per lui fino a un istante prima svanire, dissolversi
di
colpo… peccato che non fosse lo stesso per
l’attrazione fisica. «Come no! Fatti
dare qualche lezione di umiltà, Narciso».
Scattai in piedi e mi diressi verso
la battigia,
ma lui si alzò e mi raggiunse in un secondo.
«Narciso?
Però, niente male! Avevi ragione,
impari in fretta».
«Ti
riferisci anche al fatto che per causa
tua avrò un sacco di guai, oggi?» dissi.
«Per causa
mia? Sì, è vero, la proposta indecente è partita da
me»
rispose e sottolineò quelle due parole tracciando in aria
due
virgolette con le mani «ma non ho dovuto faticare affatto per
convincerti a
seguirmi». Il suo tono malizioso non mi piaceva neanche un
po'. Cercai di ignorarlo e
tenni lo sguardo fisso davanti a me, mentre camminavamo vicino
all’acqua. «E
poi ho riconosciuto subito quella luce nei tuoi occhi: sei venuta
perché lo
volevi, perché in quel momento non eri Miss Perfettina ma la
ragazza che ha
frugato tra i documenti di un suo insegnante per scoprire la data di un
compito
in classe a sorpresa». Sbuffai. Già mi pentivo di
avergli raccontato quella
storia! Forse avrei dovuto aggiungere che ero stata praticamente
costretta da
Jas e Holly. Alex proseguì imperterrito nel suo monologo.
«Ma avrei dovuto
saperlo che nel corso della giornata Miss Perfettina sarebbe rispuntata
a
tratti».
«Perché
hai chiesto a me di venire, allora,
e non a uno dei tuoi compagni di classe? Avresti faticato ancora meno
che con
me, te lo garantisco».
Restò in
silenzio per un secondo, e quando
parlò sembrava quasi a disagio. «Non lo
so» rispose con il tono di chi si sta
confessando «mi andava di chiederlo a te».
Cadde di
nuovo il silenzio, questa volta carico di tensione, mentre mi
scervellavo per
trovare il modo di romperlo.
«Tua zia
come credi che prenderà
quello che hai fatto oggi, se dovesse accorgersene? Da quello che mi
hai raccontato sembra una tipa
tosta» dissi in fretta.
Alex
sospirò. «Più che arrabbiarsi, si
spaventerà a morte».
«Davvero?»
«Penserà
che io stia ricominciando a fare…
quello che facevo prima, e probabilmente minaccerà a tutto
spiano con la storia
del centro di recupero».
«E avrebbe
ragione?» mormorai, preoccupata.
Mi sentivo in colpa: se avessi saputo del suo passato, avrei fatto di
tutto per
convincerlo ad andare a scuola.
«No, si
sbaglierebbe di grosso» rispose
dopo un attimo, a voce bassa ma con decisione. «Non ho
nessuna intenzione di
ricominciare. Stamattina è stato… non voglio
dire uno sbaglio perché non lo
è, ma una specie di colpo di testa, tutto qui. È
come un addio: un addio a ciò
che sono stato e che non voglio essere mai più,
perché prima credevo di non
avere nulla da perdere e non avevo capito che invece potevo perdere tutto, anche la vita. Ho dovuto
andarci
vicinissimo per capirlo, ma… meglio tardi che mai».
Solo quando
finì di parlare mi resi conto
che lo stavo fissando a bocca aperta, camminando meccanicamente senza
fare caso
a dove andavo. «Dovresti dirgliele, queste cose»
balbettai. «Cioè, a tua zia,
se venisse a sapere di oggi. Credo che sarebbe contenta di sentirle. E
vedrai
che non parlerà di nessun centro di recupero».
Mi lanciò
un’occhiata furba.
«Grazie del consiglio, Scheggia».
Uffa! Possibile che
dovesse sempre tirare
fuori quella cosa? E possibile che riuscisse a farsi adorare e
detestare
alternativamente nel giro di due minuti? Mi chiusi in un silenzio
risentito e accelerai il passo più che potevo restando nei
limiti umani.
«Se
c’è una cosa che Miss Perfettina non ha
ancora imparato, però, è stare al
gioco» continuò con voce beffarda.
Incredibile! Riusciva a starmi dietro senza la minima
difficoltà! Di nuovo non risposi,
sempre più stizzita. «Che fai, tieni il broncio,
adesso?»
«Buttati
nell’oceano, Alexander Hayden»
sibilai senza riuscire a resistere.
Si fermò.
«Okay» fece con tono noncurante.
Sentii un tonfo alle mie spalle. Mi voltai di scatto: aveva appena
gettato
sui sassi della spiaggia la sua borsa a tracolla firmata e ora si stava
sfilando la
giacca. Lo guardai a bocca aperta.
«Alex,
potrei sapere che diamine stai
facendo?»
«Faccio come
mi hai detto» rispose con la
massima tranquillità, lanciandomi un’occhiata
sconcertata come se lo stessi
prendendo in giro. «Sai, questa fantastica massa
d’acqua agitata e gelida mi attirava
da morire già da un po’».
«Stai
scherzando, spero» farfugliai,
sconvolta.
Mi dedicò
un sorrisetto e scrollò le spalle.
«Non stavamo cercando qualche brivido, stamattina?
L’occasione è perfetta,
no? Unisciti a me, Scheggia, se hai coraggio!»
«Cosa? No,
Alex!» gridai, ma non mi badò e
invece salì agilmente sulle rocce appuntite che si
inoltravano in acqua.
Un’onda si infranse sugli scogli e investì le sue sneakers
nuove di zecca e il
bordo dei jeans, e lui rise, cercando di restare in equilibrio. Fui
colta dal
panico: era abbastanza fuori di testa da tuffarsi veramente, non appena
fosse
arrivato dove l’acqua era abbastanza alta, e a quel punto
cosa avrei dovuto
fare? Seguirlo? Non potevo certo restare a guardare mentre lui
sguazzava
nell’oceano, poteva essere pericoloso… pensavo di
riuscire a tirarlo fuori se
la corrente non fosse stata troppo violenta, ma se per aiutarlo avessi
fatto
poca attenzione e lui avesse notato, ad esempio, che ero un
po’ troppo forte
per una ragazzina di quindici anni?
«Non fare
l’idiota, torna indietro!»
strillai e gli corsi incontro, avvicinandomi più che potevo
senza toccare
l’acqua. «È pericoloso,
Alex!». Lui mi ignorava completamente, continuando a
saltellare da un masso all'altro con la stessa aria spensierata che
avrebbe avuto passeggiando sul lungomare di Port Angeles. Fece una
giravolta su se stesso per voltarsi verso di me, quasi perse
l’equilibrio e barcollò sulle rocce affilate. Il
mio cuore perse un paio
di battiti. «Alexander Christopher Hayden! Scendi subito da
lì!»
«Ma scusa,
me l’hai chiesto tu di buttarmi
nell’oceano!» esclamò con voce beffarda.
«Sto solo eseguendo i tuoi ordini,
sperando che il sacrificio della mia giovane vita ti faccia passare
l’arrabbiatura».
E così,
rieccomi di nuovo ad interpretare il suo zimbello
personale. Sbuffai. «Che cavolo stai dicendo? Va bene, non
sono più arrabbiata, ma
adesso piantala. Non mi va di venire
a ripescarti».
«Scendo solo
se mi prometti che sono
perdonato» esclamò tutto d’un fiato.
«Sì,
d’accordo! Non sono arrabbiata
e tu sei perdonato» risposi in fretta, ansiosa di vederlo di
nuovo con i
piedi sulla terra ferma. «Ora torna qui!»
Mi osservò in
silenzio, divertito, probabilmente chiedendosi se sarebbe valsa la pena
di
continuare quella scena e vedermi dare di matto ancora un
po’. Colsi un
bagliore nel blu dei suoi occhi che per qualche motivo mi fece
rabbrividire. Non era paura, divertimento, rabbia o dolore, ma
qualcos’altro che non riconobbi. Saltò
giù
dagli scogli e spruzzando acqua salata ovunque mi raggiunse. Prima che
potessi
rendermene conto, mi prese per le spalle, si chinò su di
me e posò dolcemente le sue labbra sulle mie.
Note.
1. Ecco il link
della canzone. Scommetto che appena letto il titolo del capitolo avete
indovinato cosa sarebbe successo xd. È semplicemente
perfetta, ho sempre associato questa canzone al primo bacio di Alex e
Renesme... perfetta!
2. Queste interessantissime
notizie sono state prese da Wikipedia.
Spazio autrice.
In
realtà non c'è nulla da dire, se non che amo
follemente Alex e Renesmee quando sono insieme. Davvero! Scrivere di
loro due è una delle cose più divertenti che
abbia mai fatto, e anche se è passato del tempo ricordo
benissimo l'entusiasmo che mi trasmettevano questi due personaggi. Fin
dall'inizio il loro rapporto è venuto fuori in modo
così semplice e spontaneo da farmi pensare che fossero
davvero nati per stare insieme. Be', vedremo come andrà...
Chissà cosa può succedere! xd *scappa via di
corsa prima che cominci il lancio di frutta e verdura* A
mercoledì prossimo!
|
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Capitolo 8 *** Storm ***
C 8
Capitolo 8
Storm
If I could
just see you
Everything
would be all right
If
I'd to see you
This
darkness would turn to light
And
I will walk on water
And
you will catch me if I fall
And
I will get lost into your eyes
I
know everything would be alright
I
know everythin is alright
Storm,
Lifehouse¹
Le gioie dei genitori sono segrete, e così i loro dispiaceri
e timori;
le prime
non le sanno e i secondi non li vogliono esprimere.
Francis Bacon
Rimasi perfettamente immobile,
come paralizzata, gli
occhi spalancati, senza riuscire a formulare un pensiero o programmare un’azione. Non
so quanto durò il
bacio. Nella mia testa fu un’eternità.
Quando Alex si
staccò,
lentamente, si tirò un po’ indietro e mi
guardò con
una buffa espressione. Non avrei saputo dire se si aspettasse che gli
mollassi
una sberla o che gli saltassi al collo per un altro bacio. In ogni caso
lo delusi,
perché dopo averlo fissato per un secondo, sempre in
silenzio e ad occhi
sgranati per la sorpresa, mi voltai e scappai.
Letteralmente. Non so cosa fece Alex, ma non mi
seguì.
Corsi
come una pazza lungo la spiaggia, imboccai il viottolo sterrato che
conduceva
al parcheggio, sfrecciai accanto alla sua auto ferma e mi tuffai tra la
fitta
vegetazione della riserva che ormai grazie alle battute di caccia e ai
continui
giri con Jacob conoscevo come le mie tasche. Presi una serie di
scorciatoie
senza fermarmi nemmeno un istante, sebbene avessi il respiro affaticato
e
sentissi tutti i muscoli bruciare, finchè non fui in vista
del
cottage. Quasi
mi lanciai contro la porta sul retro, mi precipitai nella mia stanza e
lì
finalmente frenai un attimo prima di schiantarmi contro la
cabina armadio. Mi buttai sul letto,
ansimante, il
cuore che sembrava sul punto di scoppiare, tutti i muscoli doloranti.
Ecco uno
degli inconvenienti di essere solo una mezza
vampira: potevo correre molto velocemente e far mangiare la
polvere a un
essere umano, ma mi stancavo subito.
Mi coprii la testa con un
cuscino e cercai
di rimuovere quello che era appena successo, ma non ci riuscii. Serravo
gli
occhi, ma continuavo a vedere il volto di Alex che si abbassava verso
di me… il
divertimento nei suoi occhi mentre mi prendeva in giro e fingeva di
tuffarsi, poi quello
strano lampo, come un fulmine in mare aperto… e poi la
sensazione delle sue
labbra fresche sulle mie… Non avevo mai provato niente del
genere, mai. Era
stato solo un attimo, ma aveva cambiato qualcosa. Lo sentivo. Era come
se qualcuno, all'improvviso, avesse voltato la pagina di un libro
rimasto aperto nello stesso punto per molto, molto tempo.
E poi ancora… non
potevo fare a meno neanche di pensare a cos’era successo dopo, o meglio, a cosa non
era successo. Avevo assistito ad abbastanza scene
appassionate tra i miei
genitori, i miei zii e i miei nonni, avevo ascoltato abbastanza
resoconti da
Jas sul numero di minuti che passava incollata alla bocca di Tom e
avevo visto
abbastanza film da sapere con esattezza cosa avrei
dovuto fare e che ovviamente non
avevo fatto. Ripensarci mi dava la nausea, così
cercai di svuotare la mente e di rilassarmi, mentre ascoltavo il mio
respiro e il battito del mio cuore rallentare a poco a poco.
Pensai di distrarmi in qualche modo ma non
mi veniva in mente nulla che fosse abbastanza efficace, tranne forse la
caduta
di un meteorite dritto nel nostro giardino. Con un sospiro mi tolsi il
cuscino
dalla testa e mi girai a pancia in su, ascoltando il silenzio della
casa, il
cinguettio di un uccellino tra i fiori, il rumore del vento che agitava
le
fronde degli alberi.
Ma che accidenti mi era preso? Va bene che mi aveva colta
di sorpresa, anzi, mi aveva a dir poco fulminata, ma scappare in quel
modo! Non
avevo forse fantasticato un sacco di volte sul mio primo bacio? Non
avevo forse
sperato che fosse proprio con lui? Non avevo forse immaginato una
cornice
romantica come la spiaggia deserta durante una burrascosa mattina
d’inverno? E
quando era arrivato il momento, invece di cogliere
l’occasione e far capire ad
Alex quanto mi piacesse, me l’ero data a gambe come
un’idiota, o peggio come
una bambina piccola.
Cosa avrebbe pensato lui che sicuramente aveva già
baciato chissà quante ragazze? Avrebbe cambiato idea su di
me,
avrebbe pensato
che ero troppo infantile per stare con lui? A quel pensiero sentii
lo stomaco torcersi sgradevolmente e schizzai a sedere di colpo. Ero
stata una
vera stupida. Immaginai le parole e le espressioni delle mie amiche non
appena avessero saputo ogni cosa: Holly e Jas avrebbero riso a non
finire, ne ero certa. Pensandoci bene, forse era meglio tenere per me
quello che avevo
combinato, sperare che Alex non raccontasse tutto ai compagni
di
classe e che Emmett non venisse mai a sapere niente… avrebbe
fatto
una sfuriata di gelosia e sarebbe corso a cercare Alex per staccargli
la testa. Decisamente, meglio
tacere.
All'improvviso mi sentii
soffocare. No, impossibile, non ce l’avrei mai fatta.
Dovevo parlare con qualcuno, sfogarmi, forse piangere o strillare,
forse tutte
e due le cose, ma a qualcuno dovevo
dirlo o sarei impazzita. Mi alzai dal letto e andai in cucina per
telefonare a Jacob. Lui non si sarebbe sicuramente arrabbiato per la
storia della
fuga da scuola, anzi, ci avrebbe riso sopra, e poi mi avrebbe ascoltata
come al
solito. Era sempre lui la prima persona che mi veniva in mente quando
avevo
voglia di parlare con qualcuno.
Però, forse… Rallentai un po’ mentre
percorrevo il
corridoio, riflettendo. Per la prima volta nella mia vita mi chiesi se
fosse il
caso di raccontare qualcosa a Jacob. Con lui non esistevano segreti, e
non solo
perché gli avevo sempre detto tutto, ma perché
gli bastava
uno sguardo per capire se mi era successo qualcosa, se ero
triste
o allegra, se avevo voglia di
un abbraccio, di fare due chiacchiere o di stare semplicemente in
silenzio, e
anche questa volta avrebbe capito che c’era qualcosa di nuovo
nel
mio universo.
Avrei potuto non confidargli una cosa così importante?
Sarebbe
stato un insulto alla sua
amicizia, e lo sapevo bene. Allora cos’era
quell’esitazione?
Ancora un po' incerta, presi
il cordless
mentre salivo su uno sgabello della cucina e composi lentamente il
numero di
casa sua, chiedendomi se l’avrei trovato. Scombussolata
com’ero, non ricordavo
se quella mattina sarebbe stato di ronda o se sarebbe rimasto a casa a
lavorare. Lasciai squillare a lungo il telefono prima di rassegnarmi e
chiudere. Inspiegabilmente provai un po’ di sollievo.
Irritata, scacciai quella sensazione e mi convinsi a
riprovare… Ma quella
faccenda era davvero così importante da doverlo disturbare,
poi? Stavo per
caso diventando come Jas, che si sentiva in dovere di riferire alle sue
amiche
tutte le singole volte che lei e Tom si tenevano per mano, si
abbracciavano o
si baciavano? Pensierosa, composi di nuovo il numero e portai
il
cordless all’orecchio. Presi a mangiucchiarmi nervosamente
un’unghia, chiedendomi quale
fosse il modo migliore per dare la notizia.
Non era finito il primo squillo che
sentii una chiave infilarsi nella serratura e la porta di casa si
spalancò. Feci un tale salto che per poco non caddi dallo
sgabello, chiusi immediatamente
il cordless e lo gettai sul bancone. Accidenti, ero così
distratta da non aver sentito il rumore dell’auto? La mamma
piombò
in cucina guardandosi intorno con aria perplessa, come se cercasse
qualcosa o qualcuno... me. Era vestita
elegantemente con una gonna a tubino, una deliziosa
camicetta blu, scarpe blu con tacco a spillo e uno spolverino
grigio, i capelli scuri legati in una coda perfetta. Doveva essere
stata Alice
a decidere gli abbinamenti.
«Che ci fai
qui?» esclamò.
Un secondo dopo
papà varcò
lentamente la porta chiudendosela alle spalle. Lo guardai, ansiosa:
aveva un’aria indecifrabile, non avrei saputo dire se
turbata,
sopresa, preoccupata o leggermente divertita. La mamma aspettava una
risposta fissandomi
con occhi spalancati. Aprii la bocca ma non riuscii ad emettere alcun
suono. Come avrei potuto spiegare tutto quello che era successo? Ci
pensò papà al posto mio.
«Ha saltato la scuola» disse
con voce neutra. Sembrava quasi che cercasse di mascherare una risata.
Di solito Edward teneva per
sè la maggior parte
dei miei pensieri e la sua delicatezza al riguardo mi permetteva di
convivere abbastanza tranquillamente con il talento di cui era dotato.
D'altra parte, ormai era sua abitudine ignorare quasi completamente i
pensieri altrui. Diceva che a volte era una necessità, per
non
impazzire nell'ascoltare tutte quelle voci. Quando si
trattava di faccende del genere, però, dimenticava il suo
solito tatto
e raccontava ogni cosa alla mamma.
Non lo faceva
per mettermi in difficoltà, ma perché non le
avrebbe mai nascosto qualcosa che
riguardava me e che secondo lui avrebbe dovuto sapere. Tuttavia non
aggiunse
altro, forse sapendo che se avesse continuato sarei andata a fuoco per
l’imbarazzo. Se
papà sembrava divertito, la mamma invece non trovava
niente da ridere in tutto questo. Più che altro era
scioccata.
«Che cosa… Che
cosa? Sul serio?» boccheggiò.
Di nuovo cercai di parlare, ma
mi sembrava di
avere qualcosa impigliato in gola.
«S-sì» balbettai alla fine.
Lei era sempre più
sbalordita. «Ma… perché? Che ti
è successo?»
Sapevo cosa intendeva dire. Io
non facevo
cose del genere. Non sembravo affatto un’adolescente da quel
punto di vista.
Io ero precisa, attenta e responsabile. Non sapevo cosa rispondere.
«Non… non lo so» mormorai. Forse ero
impazzita. Lei
non mi toglieva gli occhi increduli di dosso.
«C'è altro?» chiese
all’improvviso
voltandosi verso di lui.
Papà
esitò.
«Questo deve dirtelo lei, amore».
La sua esitazione
bastò a spaventarla. «Renesmee che è
successo?» sbottò
tornando a concentrarsi su di me.
Oddio, e adesso? A quel punto
il fiume in
piena straripò. «E va bene!». Scattai in
piedi. «Vuoi sapere cos’è
successo? Io ed Alex siamo scappati da scuola, siamo andati sulla
spiaggia e
lui mi ha baciata ed io sono corsa via, così ora
penserà che sono una vera idiota! Soddisfatta? Fine della
storia!»
Mi
precipitai fuori dalla cucina inseguita dalla voce della mamma.
«Ehi! Renesmee? Renesmee!» strillò.
Mi infilai a razzo nella mia stanza, chiusi
la porta con un tonfo e sedetti sul pavimento in parquet color miele,
la schiena appoggiata al letto, sperando di
mimetizzarmi con la trapunta. Ci fu un attimo
di silenzio, poi sentii i tacchi della mamma avvicinarsi
precipitosamente
accompagnati da un bisbiglio acceso e concitato. La porta si
spalancò
di botto ed eccoli lì, lei con aria incredula e arrabbiata
insieme,
lui ancora con quella buffa espressione a metà tra la
preoccupazione e il riso.
«Potreste lasciarmi
in pace, per favore?»
sbraitai.
«No!»
rispose subito la mamma.
«Non puoi sparare una cosa del genere e aspettarti che noi
tiriamo dritto come
se niente fosse!»
Papà la
strattonò
un po’ per il braccio. «Bella,
forse…»
«No, Edward! Voglio
sapere cos’è successo».
«Lo sai
già cos’è successo!» risposi
senza
riuscire ad abbandonare il tono isterico «e se vuoi altri
dettagli c’è qui
Edward-mi-ficco-nelle-teste-altrui-Cullen a tua disposizione!»
Bella si voltò
rapida
verso di lui, ma papà aveva un’aria decisa.
«Non posso farlo. Non posso e sai
che non lo farò» rispose con calma.
Lei sembrò
gonfiarsi
per la stizza. «Cosa? Credevo che avessimo deciso che sulle
questioni
importanti non doveva esistere il concetto di privacy! Questa è una cosa importante, ha
marinato la
scuola, per la miseria!»
«Hai assolutamente ragione, tesoro: questa
è
la cosa importante e la sai già. Vuoi metterla in punizione?
Fai pure,
ma il
resto…». Si interruppe e per un attimo parve che
non trovasse le
parole. In quel
brevissimo spazio di tempo mi chiesi improvvisamente come dovesse
apparire ai
suoi occhi quello che era successo, e tutto mi parve di
colpo così stupido e imbarazzante che desiderai potermi
nascondere in
fondo a una grotta o qualcosa del genere. «Non posso
farlo» aggiunse
alla fine.
«Edward!»
esclamò
la mamma sdegnata.
A quel punto non ne potevo
più. «Insomma,
piantatela!». Schizzai in piedi mentre loro si giravano a
guardarmi sconcertati.
«Avete finito di decidere se la mia vita privata
può
essere spiattellata pubblicamente oppure no? Perché non
sparite? Dannazione!»
Sapevo di essere
un tantino melodrammatica ma non mi importava. Mi rifugiai nella cabina
armadio, sbattei di nuovo la porta alle mie spalle e sedetti per terra
a gambe
incrociate, la testa tra le mani. Avevo
il fiato corto come chi ha appena fatto una maratona. Nella stanza
accanto ci
fu un altro scoppio di esclamazioni, proteste e bisbigli,
seguì
un attimo di silenzio, poi i tacchi della mamma si diressero a
velocità supersonica verso di me e la porta della cabina
armadio
si aprì.
Bella
fece capolino sulla soglia, questa volta un po’ meno agitata
e un po’ più
preoccupata, con papà alle sue spalle che sembrava un cane
da guardia. Lei mi
osservò in silenzio mentre io mantenevo lo
sguardo ostinatamente puntato a terra.
«Temo che sparire sia una
capacità che non
rientra nei poteri di nessuno di noi. Spiacente» disse a un
tratto.
«Ah-ah»
sbottai, acida, in una parodia di
risata. Non l’avrei assecondata così facilmente.
La mamma parve intuirlo
perché
sospirò.
«Senti» disse con tono pacato avanzando di qualche
passo
nella stanza «la mia
reazione è stata eccessiva prima, e mi dispiace,
è solo
che… tu sei sempre così
assennata e precisa e tieni così tanto alla scuola che mi
è sembrato assurdo.
Tutto qui. Però...». Fece un altro sospiro
roteando gli
occhi.
«Insomma, non è così grave. Non ci
sarà
nessuna punizione o roba del genere. Anche se sei andata in macchina
con Alex
quando ti era stato espressamente proibito... Non importa.
Però
facciamo in modo che non succeda di nuovo o la mia testa
esploderà». Terminò
con un sorrisetto al mio indirizzo. Secondo, penoso tentativo di
battuta andato a vuoto. «Sei d’accordo?»
chiese a
papà. Lui alzò
le spalle senza smettere di fissarmi. «Bene»
continuò
Bella. «Adesso che ne dici di lasciare da parte la fuga da
scuola e
passare al resto?»
Oh, merda. «Cosa?
No» sbottai con
decisione. «No. Accetto volentieri qualunque punizione ma non
voglio mai più
parlare del… resto».
Lei parve confusa.
«Ti ho appena detto che
non ci saranno punizioni».
«Non
m’interessa! Niente cellulare, niente computer,
niente televisione, niente uscite extra per un settimana, un mese o il
resto
dell’anno, va bene tutto, ma non voglio parlare di
quello!»
Lo stato confusionale della
mamma peggiorò. «Ma
che stai dicendo?»
«Esattamente quello
che ho detto!». Avevo
ricominciato a fare l’isterica, ma non me ne importava nulla.
«Cioè
preferisci essere messa in punizione
per una sciocchezza piuttosto che parlare di…»
«Ah!»
strillai sobbalzando, e la mamma
strabuzzò gli occhi, sconvolta. Probabilmente si stava
chiedendo se avevo perso la ragione. «Non ti azzardare a
finire la frase!»
Bella mi fissò in silenzio per un attimo, poi si
inginocchiò
lentamente sul pavimento vicino a me. «Tesoro…
Prima o poi dovrò
saperlo».
«Non da
me» sibilai tra i denti, senza
sollevare lo sguardo.
«Sai che
papà non mi racconterà un bel
niente, e comunque preferirei che fossi tu a dirmelo.
Insomma, noi due
siamo amiche, non siamo solo madre e figlia, giusto? Abbiamo sempre
parlato di
tutto. Che ti succede oggi?». Il suo tono era dolce e
preoccupato. Volevo
risponderle ma non ce la facevo, ero troppo imbarazzata. Avrei
preferito essere
inghiottita da una voragine del pavimento piuttosto che raccontare nei
dettagli cos’avevo combinato. Lei aspettava, paziente, e a un
tratto le scappò
un mezzo sorriso. «È andata così
male?» chiese.
Sospirai e chiusi gli occhi,
profondamente seccata e ancora più
imbarazzata di prima. Ma sapevo anch’io che avrei dovuto
affrontarla, prima o
poi. «Non puoi nemmeno immaginare quanto» borbottai.
«Andiamo…
cosa può
essere successo?»
Feci una pausa prima di
rispondere, ascoltando il
silenzio intorno a me. Loro due erano assolutamente immobili, non
respiravano
nemmeno. «Sono scappata» confessai.
«Mi hai
già detto della fuga da scuola»
rispose la mamma, di nuovo confusa.
Oh, mio Dio. Sospirai di nuovo
alzando gli
occhi al cielo. Era una tortura!
«No, sto parlando
del resto!
Alex mi ha
baciata all’improvviso ed io sono corsa
via!»
Dirlo ad alta voce era
ancora peggio di quanto avessi pensato.
«Ah» fece
lei per tutta risposta, e poi
tacque. Anche papà taceva e per qualche istante di suspense,
mentre
sperimentavo a
pieno il significato della frase morire di vergogna,
mi sembrò
quasi di riuscire a percepire i loro sforzi congiunti per non scoppiare
a
ridere. Finalmente la mamma parlò di nuovo.
«Be’, tesoro, pensa che sarebbe
potuta andare molto peggio».
«Tu dici?»
esclamai in tono scettico. «E
come? Neanche se fossi svenuta sarebbe stato peggio di
così».
«E invece avresti
anche potuto ucciderlo»
mi corresse, sorridendo.
Ci mancava solo che si
mettessero a
scherzare!
«Mamma! Ti prego,
per favore, è una cosa
seria! Ho fatto la figura dell’idiota!»
«Ma no»
rispose papà, anche lui un
sorrisino a metà fra la presa in giro e la compassione
stampato in faccia.
«Sì,
invece! Tu hai visto
cos’è
successo, dovresti capirmi! Un attimo prima stavamo scherzando come al
solito e
un attimo dopo mi stava baciando e … e io sono stata
travolta dal panico, non
sapevo che fare... E lui ci sarà rimasto male,
avrà
pensato che non volevo che mi baciasse o che io sia una
bambina e adesso non
mi vorrà più! Ho rovinato tutto!»
La mamma, che mi guardava con
attenzione
come se stesse cercando di capire cosa le dicevo, sospirò
senza smettere di sorridere. «Renesmee, calmati e ascolta,
okay? Quel
che è successo è successo, non ha senso
rimuginarci sopra. Che ne dici di
pensare alla prossima mossa?»
«Quale prossima
mossa?»
«Perché
non chiami Alex e non ne parlate?»
La proposta era così
assurda che per poco non saltai in aria. «Sei matta?
Chiamarlo?
Non esiste, non voglio vederlo né parlarci mai
più! Come potrei guardarlo in
faccia dopo stamattina? Voglio cambiare scuola. Anzi, no, voglio
cambiare
città».
Il sorriso di mio padre
divenne ancora più
largo di fronte a quelle parole insensate. «Renesmee, sii
razionale, per favore.
So che ti sembra una tragedia, ma non è così
grave».
Ma io non ero ancora pronta ad
ascoltare la
voce della ragione. Meglio fare la pazza ancora per un po’ e
sfogarsi ben bene.
«Alex non vorrà saperne più niente di
me, oppure diventerò
un simpatico aneddoto su cui farsi quattro risate con quei deficienti
dei suoi compagni di classe! Non è una tragedia secondo
te?»
«La tragedia
sarà quando Emmett verrà a
saperlo» disse improvvisamente la mamma, seguendo il filo dei
propri pensieri. «Se Alex vuole vivere abbastanza a lungo da
raccontare a
qualcuno cos’è successo oggi gli
toccherà entrare nel
Programma Protezione Testimoni».
«Nel Programma
Protezione Fidanzati, vuoi
dire» corresse papà con una risata.
«Siete la famiglia
più insensibile che
potessi avere la sfortuna di ritrovarmi» fu il mio commento.
****
[BELLA]
Quella sera, suonate le undici, spedii
Edward a compiere una missione che a me non era riuscita nonostante
innumerevoli tentativi: costringere Renesmee a chiudere il telefono e
andare
a dormire, visto che la mattina successiva avrebbe dovuto svegliarsi
alle sette e
andare a scuola come al solito. Nel suo piccolo mondo interiore quella
poteva anche essere stata una giornata straordinaria, segnata da un
avvenimento
così eccezionale da eclissare qualunque altro pensiero
e dare una svolta alla sua vita, ma nel mondo esterno le cose
proseguivano al
solito ritmo, del tutto indifferenti a quello che le era
successo.
Il suo primo
bacio. Continuavo a pensarci mentre pulivo la cucina e mettevo in
ordine il
salotto, e non potevo fare a meno di sorridere tra me e me. Che strano
miscuglio di sensazioni provavo: eccitazione, gioia, sollievo,
malinconia.
Sembrava quasi che anche per me fosse stata una giornata particolare,
ma avevo
imparato da tempo che le gioie, le sofferenze, le speranze, le
delusioni di una
figlia che ami più di qualunque altra cosa al mondo le vivi
anche tu, come se
lei fosse ancora parte di te.
Ormai era quasi mezzanotte e la missione di
Edward probabilmente aveva avuto successo. Già da un
po’ non sentivo
più chiacchiere e risatine isteriche, ma un silenzio quasi
innaturale tanto era
profondo riempiva la nostra casetta. Chissà
dov’era finito Edward.
Raccolsi dal
salotto una manciata di cd, un paio di libri, una sciarpa e un tubetto
di
mascara, tutte cose di Renesmee che come al solito ritrovavo in giro
per casa,
e mi avviai in camera sua. Aprii con cautela la porta ed
entrai. La stanza immersa nel buio, ma la pallida luce
lunare filtrava dalle tende chiuse creando una pozza di luce
madreperlacea sul pavimento ai piedi della finestra.
Misi a posto cd, libri, sciarpa e mascara, poi mi
avvicinai al letto e diedi una sbirciatina. Renesmee dormiva
profondamente
distesa sul fianco sinistro, il braccio piegato sotto la testa, i
capelli color
bronzo sparsi sul cuscino bianco, le labbra appena dischiuse, il
respiro lento
e profondo. Sorrisi mentre la osservavo. Quando dormiva
sembrava
tornare bambina. Era così bella che spesso Edward ed io
restavamo a
guardarla per ore. Lei lo sapeva e trovava la cosa abbastanza
seccante, ma non potevamo farne a meno. Forse era solo la mia
immaginazione che
andava a briglia sciolta, ma in quei momenti mi sembrava una
principessa
addormentata in attesa del bacio del suo principe. Be’, un
bacio
era arrivato…
ma riguardo al principe, meglio non azzardarsi a fare previsioni.
E come sempre quando
posavo gli occhi sul
suo viso, che fosse addormentata o meno, anche quella
volta fui colpita dallo stesso pensiero: avevo fatto bene. Avevo fatto
bene a
combattere per lei. Immaginare ora la mia esistenza, da umana o da
vampira, con
Edward o senza di lui, priva della gioia della presenza di mia figlia
era
impensabile. Mi chinai verso di lei e posai per un istante le labbra
sulla
sua fronte liscia, sperando che il mio tocco gelido non la svegliasse.
Renesmee si mosse
appena ma continuò a dormire mentre le sistemavo meglio le
coperte,
poi uscii silenziosamente dalla stanza e seguendo una dolce scia a me
ben nota
uscii nel piccolo giardinetto del cottage, passando per la camera
matrimoniale.
Edward era lì, seduto su una panchina di ferro, lo sguardo
rivolto allo spicchio di luna nel cielo. Lo raggiunsi e sedetti al suo
fianco, e subito intrecciò le sue dita alle mie senza
abbassare gli occhi.
L’aria fredda di una notte di inizio marzo mi sembrava una
carezza delicata sulla
mia pelle di marmo. Sollevai la mano di Edward portandomela alle labbra
e vi
posai un bacio.
«Finalmente
si è addormentata» dissi. «Credevo che
il telefono avrebbe preso fuoco, stasera».
Lo sentii sorridere.
«Lei e Jas avevano
cose importanti di cui discutere».
Sospirai. «Eh, già. Il primo bacio. Non si
dimentica mai. Il nostro è ancora stampato nella mia mente,
anche se è solo un
ricordo umano».
«Come
dimenticarlo» commentò
sotto voce. Coglievo una strana rigidità nella sua mano e
nella
postura, e un’intonazione malinconica nelle sue parole, ma
non vi feci troppo
caso. Forse anche lui, come me, aveva semplicemente un bel
po’ di cose per la
testa.
«Probabilmente
Alex le chiederà di mettersi
con lui… Lei non lo farebbe mai! È
così imbarazzata che mi stupirebbe davvero se domani
si presentasse a scuola».
«È
solo un po’ scombussolata. È normale,
le passerà» rispose Edward sempre con lo stesso
tono mesto.
Gli
lanciai un’occhiata guardinga. «Credo
che dovremmo essere felici di quello che è successo oggi.
Insomma, nostra
figlia ha ricevuto il primo bacio da un ragazzo che le piace da
impazzire,
forse diventeranno una coppia. Tutto assolutamente nella norma. Presto
potrebbe scoprire quanto è meraviglioso essere innamorati.
Era
quello che
volevamo per lei, quello per cui abbiamo lottato».
«E per cui
abbiamo deciso di mentirle. Di nasconderle l'imprinting»
aggiunse.
Tacqui per un momento
soppesando le sue
parole. «Sì, anche. Ma lei oggi è
serena, la sua è una vita
normale… per quanto può essere normale una mezza
vampira. Era questo il
nostro obiettivo. L’abbiamo deciso cinque anni fa, dopo che
siamo riusciti a
salvarla dai Volturi» gli rammentai, anche se ovviamente non
poteva aver
dimenticato quella conversazione, la notte successiva alla giornata
più
difficile della nostra vita. Avevamo fatto l’amore a lungo,
senza mai riuscire
a saziarci l’uno dell’altra, fino
all’alba, e poi avevo mormorato quelle
parole, stretta tra le sua braccia.
Non
dobbiamo dirglielo, Edward. Non adesso. Quando sarà
cresciuta, quando sarà
pronta.
Lo sentii sospirare
appena.
«In quel momento decidere di non dirle nulla è
stato facile, quasi
immediato: ne aveva già passate tante ed era così
piccola. Volevamo che fosse spensierata e serena, ancora bambina, per
un altro po’ prima
di dover affrontare…». Non finì la
frase e rimase
in silenzio per un attimo, poi
proseguì. «Ma Renesmee sta crescendo, Bella.
L’episodio di
stamattina ne è una prova. Io… non so se i motivi
per cui
cinque anni fa
abbiamo deciso di tacere tengono ancora».
Infine aveva esternato
il pensiero che
evidentemente lo assillava. Ma quasi non potevo credere alle sue
parole. «Certo
che sì» esclamai con convinzione. «Noi
siamo i suoi
genitori, dobbiamo proteggerla».
«La stiamo
tradendo, Bella» mormorò.
«No!».
Ero perplessa. Che gli
prendeva? Non eravamo sempre stati d’accordo su quel punto?
Non avevo forse
scoperto, la notte che gli avevo chiesto di nasconderle la
verità, che la
pensava come me?
Lo so.
Queste erano state le
sue parole,
pronunciate con timore e preoccupazione. Ed io mi ero convinta ancora
di più
che fosse la cosa giusta.
«Sì,
invece. Ci penso continuamente: ogni volta che
mi guarda con quegli occhi, che si addormenta tra le mie braccia o che
si
affida completamente a me, penso che la stiamo tradendo. E questo non
è giusto,
lei si fida di noi».
La sua voce seria e
grave era
carica di preoccupazione. Lo capivo, ma quello che stava dicendo era
comunque sbagliato. «Che vorresti
fare, allora? Andiamo a svegliarla e le diciamo
dell’imprinting,
così
probabilmente impazzirà?»
Sospirò di nuovo.
«Non intendevo questo. Ma non possiamo
andare avanti così per sempre, prima o poi dovrà
saperlo».
Meglio poi che prima. «Certo, ma non
adesso! È cresciuta, sì, ma non è
un’adulta. È ancora una ragazzina, e
ora che c’è Alex…»
«Già,
Alex» mi interruppe con tono tetro. «E
se un giorno si innamorasse di lui? E se dopo arrivasse qualcun altro?
Come la
mettiamo con Jacob?»
«Jacob
non ha nessuna fretta, lo sai meglio
di me» risposi leggermente stizzita. Non era mai stato
semplice
discutere di quella faccenda, neanche tra noi. E soltanto immaginare la
reazione di Renesmee mi metteva i brividi. «Vuole solo che
Renesmee sia felice e se
lei è felice lo è anche lui. E poi non
è detto che... che
debba finire così. L'imprinting non è solo
quello».
«Bella,
stiamo girando
intorno al
problema» disse Edward bruscamente. «Noi siamo
liberi di
non dirle
niente, ma nostra figlia un giorno potrebbe innamorarsi di lui.
È il suo migliore amico, sì, ma è
anche la persona
che più la rende felice nell'universo. Non serve a niente
mentire a noi stessi o convincere Jacob ad
andare al college. Potrebbe succedere e sarebbe semplice, spontaneo,
naturale come respirare» mormorò con voce
appena udibile. Sembrava che parlasse a se stesso e non con
me. «Credo che dovremmo prepararla
a questo».
«Ma anche
Jake pensa che sia troppo presto,
che Renesmee non sia pronta» protestai.
«Lui
rispetta soprattutto la nostra
decisione, ma odia mentirle e non ti nascondo che a volte si chiede se
non sia
il caso di tirare fuori la verità. In questo momento pensa
ancora che sia la
cosa migliore per lei, ma potrebbe cambiare idea. E allora le
confesserebbe tutto». Fece una breve pausa.
«D’altra parte, se non le parliamo noi prima o poi
ci arriverà da sola, e
sarebbe ancora peggio».
«Lo
so» risposi, e in quell’istante mi
sentii tormentata dall’angoscia. Proteggerla, tenerla al
sicuro da ogni
sofferenza, da ogni dispiacere… Era l’unica cosa
che volevo. Come potevo fare?
«È
troppo presto» ripetei quasi a me
stessa. «Non è ancora pronta».
Esitò prima di
rispondere. «Forse no. Ma il
problema è se noi saremo mai pronti».
Assorbii in silenzio
l’impatto di quelle
parole. Sapevo che aveva ragione ma avrei tanto voluto che non fosse
così: se noi
non eravamo
pronti a dirle
dell’imprinting, come avrebbe mai potuto lei
essere pronta ad accettarlo? Che disastro.
«Non saprei neanche da dove
cominciare» mormorai «Jacob è il suo
migliore amico… Sarà come strapparle la
terra da sotto i piedi».
«Non
dico che sarà facile, Bella. Ma il loro legame è
così forte. A volte riescono a comunicare in un modo che non
comprendo neanche leggendo le loro menti. È come se fossero
una cosa sola. Sono sicuro che Renesmee capirà, prima o poi».
«Spero che
basti. Lo spero davvero».
«Basterà.
E qualunque cosa accada, in ogni caso... la affronteremo insieme. E ne
verremo fuori».
Restammo in silenzio a
lungo, lui
continuando a osservare la luna nel cielo, io con gli occhi fissi
sull’intricata macchia scura della foresta di fronte a noi,
chiedendomi
cosa avremmo dovuto aspettarci dal futuro. Ormai eravamo perfettamente
felici da anni, da quando i Volturi avevano smesso di tormentarci. Era
durata
troppo, forse? Incombeva una tempesta all’orizzonte e in quel
momento eravamo
troppo abbagliati dal sole per accorgercene? All’improvviso
lui parlò
di nuovo.
«Permettimi
di dirti grazie ancora una
volta» sussurrò.
Mi voltai per
guardarlo, perplessa. La sua
espressione era indecifrabile. «Perché?»
«Perché
se tu non fossi stata così
forte e così coraggiosa lei non sarebbe qui, ora, e noi
avremmo perso tutto. Io avrei perso
tutto. Anche te» rispose.
Il suo tono
infinitamente triste mi
commosse. Era sempre così quando toccavamo
quell’argomento, non spesso, per
la verità. A nessuno dei due piaceva rievocare i momenti
tristi del nostro
passato. Strinsi con più forza la sua mano tra le mie.
«Non devi ringraziarmi. Ho
fatto quello che ho fatto perché lo volevo io, e
perché ero sicura che un
giorno saresti stato d'accordo con me».
Cadde di nuovo il
silenzio per un
po’.
Continuai a fissarlo, timorosa. Non sopportavo l’idea che
stesse
male, ma in fondo era tipico di Edward tormentarsi per qualcosa che
apparteneva al passato. Per quanto glielo ripetessi, non riusciva
a smettere di sentirsi in colpa.
«Grazie»
ripetè in un soffio.
Note.
1. Il link
della canzone. Stupenda, vero? Malinconica, dolce, romantica...
Spazio autrice.
Soltanto
una breve nota "musicale" e poi chiudo. Sicuramente avrete notato che
ogni capitolo è accompagnato da una canzone che gli
dà il titolo. Vorrei specificare, anche se senza dubbio
è piuttosto chiaro, che la scelta della canzone ovviamente
non è casuale ma è sempre legata a quello che
succede nel capitolo. In alcuni casi il testo può fare
riferimento a un episodio preciso, in altri il rapporto
canzone/capitolo può essere un po' più generico,
ma comunque c'è sempre. Molto spesso queste canzoni sono
state fondamentali nel processo di stesura della storia. Ecco perchè nelle
Note inserisco sempre il link per ascoltarle e vi invito, se per caso
foste interessati/e ad approfondire questo aspetto, a leggere i testi,
le cui traduzioni sono sempre facilmente reperibili in rete (ad
eccezione di un paio di casi, quindi se non riuscite a trovare una
traduzione in particolare fatemelo sapere e ve la passerò in
qualche modo). A volte il testo della
canzone potrebbe rivelarsi utile per capire meglio lo stato d'animo di
un personaggio o il significato di un certo episodio. E adesso
probabilmente scoprirò che queste spiegazioni non
interessano a nessuno e che sono del tutto superflue! xd Vabe', se vi
ho annoiato potete sempre vendicarvi nelle recensioni... xd. Alla
prossima!
|
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Capitolo 9 *** When will you see ***
Capitolo 1
Capitolo
9
When will you see
You're
the one and you don't realize
Yes it's true
This was meant to be
You and me
No, there's no help, we lost our way
I made a wish and watched it fade
I wanna speak but I am afraid
When will you see it's you and me?
When will you see, Isabelle Yardley¹
È più facile conoscere
l'uomo in generale che conoscere un uomo in particolare.
FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD, Massime
Credevo
che avrei trascorso una notte completamente insonne, e invece quando mi
infilai
nel letto, dopo che papà era entrato in camera mia e mi
aveva imposto di chiudere il telefono, mi addormentai
quasi subito. L’intero pomeriggio trascorso a discutere con
le mie amiche una
dopo l’altra, insieme a ben due tentativi falliti di
conversazione a tre con
Holly e Jas, dovevano avermi sfinita. Non appena aprii gli occhi mi
sembrò
di averli appena chiusi, e mi sarebbe piaciuto richiuderli nuovamente
quando
sentii una voce acuta e cristallina a me ben nota diffondersi per la
casa: zia
Alice mi stava dando il buongiorno nel suo personalissimo,
insopportabile modo.
«I
come home in the morning light, my mother
says "When you gonna live your life right?", oh mother dear
we’re not the
fortunate ones, and girls just want to have fun²…»
Mandai
un gemito, ficcai la testa sotto il cuscino e sperai che per una
qualche
sconosciuta legge della fisica, un buco nero si aprisse
all’improvviso nella
piccola Forks e inghiottisse tutti i vampiri dei dintorni. Purtroppo
non accadde. Sentii una folata di vento levarsi di colpo accanto al mio letto e un
istante dopo le coperte in cui ero avvolta furono bruscamente strappate
via.
«Girls they want
to have fun… Oh girls just want to have fun!»
«Vattene!»
mugugnai, la faccia premuta contro il letto, rabbrividendo per il
traumatico passaggio dal caldo delle coperte all’aria fredda
del primo
mattino.
«Andiamo, Raggio di
sole, è ora di sorgere e
splendere!» esclamò la zia. Per chissà
quale motivo, il suo tono era sempre
entusiasta anche senza nessuna ragione particolare.
«Non mi
va» ribattei, imbronciata. Sarebbe
stato meglio alzarsi e arrendersi subito: non avevo nemmeno finito di
parlare
che anche il cuscino mi fu tirato via dalla testa. Schizzai a sedere
nel letto,
furibonda. «Vattene, Alice!»
Per tutta risposta,
sollevò la mano destra davanti alla bocca a
mo' di microfono e ricominciò. «That’s
all they really want, some fun!»
«Basta!»
protestai con un gemito,
tappandomi inutilmente le orecchie. Era come essere svegliati da un
trapano
elettrico. Non che lei cantasse male, tutt’altro, ma
cominciava a farsi sentire
un atroce mal di testa.
«Non ti
piace?» disse con aria imbronciata e
dispiaciuta. Tutta scena. «Preferisci Madonna,
forse?». Si illuminò di colpo e
brandì nuovamente il suo immaginario microfono a
mezz’aria. «Like
a virgin! Touched for the very first
time! Like a virgin, when your heart beats next to mine³…»
Okay,
ne avevo abbastanza. Scesi dal letto con un balzo e cominciai a
spingerla in direzione della porta. «Fuori! Fuori dalla mia
stanza!»
Lei si lasciò trascinare senza opporre
resistenza, sfoggiando un’assurda espressione a
metà tra il pianto e il riso. «Dai,
Raggio di sole, questo non è carino da parte tua»
protestò con voce imbronciata.
«Diventerò
ancora meno carina se uccido
brutalmente mia zia prima di colazione!» sbraitai.
«Ma io volevo
aiutarti a decidere cosa
indossare» continuò stazionando sulla porta
spalancata. «Oggi Alex ti chiederà
di diventare ufficialmente la sua ragazza, il modo in cui ti
vedrà stamattina a
scuola condizionerà tutto il vostro
rapporto…»
Non attesi nemmeno che finisse
la sua
stupida frase. «Vai a tormentare qualcun altro»
sibilai e finalmente riuscii a
chiuderla fuori.
Mi appoggiai alla porta,
chiusi un
momento gli occhi e tirai un respiro profondo portandomi le mani alle
tempie.
Mi aspettava una giornata incerta e difficile e
lo stressante risveglio opera di Alice non era certo il modo migliore
di
cominciarla. Meglio cercare di riprendermi se volevo evitare una crisi
isterica
entro l’ora di pranzo. Feci una rapida doccia e mi vestii con
cura continuando a
ripetere a me stessa che il sacro comandamento di lì alle
prossime ore doveva
essere stare
calma. E quando uscii dalla mia stanza potevo dire di
sentirmi abbastanza tranquilla. In cucina trovai
la zia seduta al tavolo con Edward e Bella.
Alice mi scrutò da
capo a piedi. «Credo che
tu non abbia più tanto bisogno di me» ammise a
malincuore. «Sei stata un’allieva
fin troppo zelante. L’unica cosa che proprio non va
è quest’espressione».
«Quale
espressione?» domandai con blando
interesse versando latte e cereali in una tazza e cercando di ignorare
gli sguardi insistenti dei miei genitori. Cosa avevano tanto da
fissare? I capelli erano in disordine, forse? D'istinto li sfiorai con
una mano e mi sembrarono a posto.
«Questa
espressione». Alice si sporse sul tavolo per prendere
delicatamente il mio viso tra le dita di
ghiaccio. «Sembra che tu stia andando al patibolo o qualcosa
del genere. Vuoi
rilassarti? Ricevere un bacio improvviso e tremendamente romantico da
un bel
ragazzo dovrebbe essere motivo di entusiasmo, non di terrore».
Quasi mi affogai con una
cucchiaiata di
cereali. Avevo una faccia da patibolo? I miei tentativi di apparire
normale erano miseramente falliti?
«Non
sono affatto terrorizzata» sbottai. «Sono
solo… preoccupata. E comunque
sarebbero cose personali».
Alice mi guardò
come se avessi appena
raccontato una barzelletta che non faceva ridere. «Cose
personali? Non esistono
cose personali nella famiglia Cullen».
«Ah, no? Da sempre o
solo da quando hai scoperto
che non puoi vedermi?»
la provocai. Ero certa che la storia del niente
privacy, che ultimamente veniva tirata fuori un
po’ troppo spesso, fosse solo
un’idea sua e di Emmett all’unico scopo di
impicciarsi dei fatti altrui. O
meglio, dei fatti miei.
«Alex non ti
vorrà più con quella faccia»
continuò lei, imperturbabile, poi scrollò la
testa. «Be’, vedrò di fartela
passare mentre ti porto a scuola». Si allungò,
prese una rivista dal banco da
lavoro e cominciò a sfogliarla distrattamente.
Rischiai di strozzarmi per la
seconda volta. Afferrai il bicchiere d’acqua e mandai
giù un sorso, lanciando un'occhiata dubbiosa oltre i vetri
della finestra. Davanti a casa era parcheggiata la Porsche giallo
canarino della zia. «Non dirmi che andiamo con la tua
macchina» mugugnai.
«Certo che
sì. Io guido solo la mia Porsche,
lo sai».
Guardai papà,
scocciata. «Una Porsche giallo
canarino? Ma come ti è venuto in mente di regalarle una
Porsche giallo
canarino?»
Tutti e tre sorrisero
misteriosamente scambiandosi occhiate divertite come se condividessero
un segreto. Sollevai
un sopracciglio, incuriosita, ma Edward si limitò a
scrollare le spalle. «È
una lunga storia» rispose.
E io non avevo tempo, quella
mattina.
Terminai in fretta la colazione, corsi a lavarmi i denti e saltai nella
Porsche, dove Alice già mi aspettava al volante, facendo
ringhiare il motore e
cantando a squarciagola un’orrenda canzone anni Ottanta che
usciva
dal lettore cd. A volte il fatto che i membri della
famiglia avessero svariati decenni, e talvolta secoli, di gusti
musicali alle spalle rappresentava un serio
problema: avevo perso il conto delle volte che mi ero ritrovata ad
ascoltare
canzoni da brivido solo perché ricordavano qualcosa
a qualcuno di loro. Che strazio.
Quella volta però
riuscii a non ascoltare
quasi nulla mentre sfrecciavamo verso la scuola attirando occhiate
curiose e
clacson infuriati da parte dei passanti. Pensavo a cosa avrei dovuto
aspettarmi da quella giornata e dal momento che non ne avevo la minima
idea
era davvero assurdo che riuscissi a rimuginarci su per tutto quel
tempo. Nella
mia testa c’era un insieme confuso di spiegazioni, risate,
prese in giro
(dirette a me, ovviamente), dichiarazioni appassionate e baci rubati
nel
parcheggio della scuola. Quando Alice inchiodò a terra con
una frenata
stridente feci un salto di un metro e cacciai uno strillo. Mi
scoccò
un’occhiata a metà tra il divertimento e la
sorpresa.
«Ehi! Calma, piccola, non
ti faccio volare fuori dal parabrezza. Promesso» disse con un
sorrisino.
«Sicura?»
chiesi mentre con uno sguardo mi
accertavo di essere arrivata a destinazione. Feci per aprire la
portiera.
«Ah!
Aspetta!» strillò Alice, facendomi
sobbalzare di nuovo.
«Cosa?»
sbottai, infastidita.
Mi prese il mento tra le mani,
scrutandomi
attentamente il volto. Fece una smorfia di disappunto. «No,
sempre uguale.
Andiamo, Raggio di sole!». E si esibì in un
assurdo sorriso forzato. Sembrava
il gatto di Alice nel paese delle
meraviglie. Oh, mio Dio.
«Grazie del
passaggio» borbottai e saltai
giù dall’auto prima che potesse acciuffarmi di
nuovo.
«Sorridi!»
esclamò sopra il tonfo della portiera. La ignorai e un
attimo dopo sentii la
Porsche sgommare via.
Mentre camminavo nel cortile
della scuola,
salutando di tanto in tanto qualcuno che conoscevo, mi guardavo
nervosamente
attorno cercando un viso specifico. Niente. Feci il giro due volte,
come una
scema, senza incontrarlo. Avevo sperato di chiarire al di fuori degli
edifici
scolastici, dove anche i muri avevano occhi e orecchie. Mi resi conto
appena in
tempo che stavo facendo tardi alla prima lezione, smisi di gironzolare
e mi
diressi verso l’edificio due. E poi,
all’improvviso, eccolo lì, a pochi metri
da me: stava entrando nello stesso edificio. Il mio cuore fece un
balzo.
«Alex!» esclamai di getto, senza pensarci. Se
l’avessi fatto probabilmente
sarei fuggita, da brava codarda. Lui sembrò non aver
sentito: non si fermò e non
si girò. «Alex!» chiamai di nuovo,
saltellando ansiosa in mezzo alla piccola
folla che si dirigeva verso l’entrata e che sembrava
sovrapporsi
perfettamente tra me e chi volevo raggiungere. Quando riuscii ad
entrare ormai non lo
vedevo più. Chissà in quale corridoio si era
infilato… Non conoscevo il suo
orario, maledizione.
«Chi stai
cercando?»
Qualcuno sbucò di
colpo dal nulla accanto a me, e poco mancò che cacciassi un
gridolino.
Ovviamente era lei.
«Jas!» sbottai. «Ti dispiacerebbe non
farmi
venire un infarto, per favore?»
Lei mi guardò
offesa. «Non è colpa mia se tu
sei così distratta! Allora, chi stavi cercando?»
«Nessuno»
risposi in fretta continuando a
sbirciare oltre la sua testa, nel corridoio, sperando di vederlo
riapparire.
«Penso che tu abbia
perso il tuo signor
Nessuno» rispose maliziosa. Le lanciai
un’occhiataccia senza dire nulla e Jas sbuffò.
«Dai! Ieri ho passato tutto il pomeriggio a
telefono con te per parlare del signor Nessuno, ti prego di non
insultare la
mia intelligenza».
Mi arresi con un sospiro.
«L’ho chiamato,
ma… non mi ha sentita».
Jas stralunò gli
occhi e
lanciò uno sguardo al corridoio affollato di studenti. Fuori
il cielo era grigio e gonfio e tutti erano ansiosi di mettersi al
riparo dalla pioggia che sarebbe arrivata di lì a poco.
Aveva un’aria perplessa e un po' preoccupata.
«Che…
che c’è?» balbettai.
«Niente».
Sorrise prendendomi sotto braccio.
«Tranquilla, prima o poi lo rivedi. O se preferisci durante
la pausa ti accompagno
a cercarlo».
Stavo per proporle
di andarci subito ma in quell’esatto istante suonò
la campanella ed io emisi
un verso di sconforto. Jas mi strinse la mano.
«Ehi, hai tutta la giornata
davanti! Perché nel frattempo non pensi a cosa vorresti
dirgli?»
Buona
idea, ma sarebbe stato più semplice
affrontare un’orda di vampiri assetati. Passai tutta la
mattina a progettare un piano o un discorso, ma niente di
ciò che elaborai mi
sembrava avere una parvenza di razionalità. Al contrario,
qualsiasi iniziativa
sembrava decisamente stupida e sbagliata.
«È solo
perché hai paura» mi informò Jas
quando esternai le mie sensazioni, mentre ci dirigevamo in palestra per
la lezione di ginnastica. Eravamo già alla quarta ora e Alex
non si faceva sentire nè vedere. Stavo iniziando a
preoccuparmi sul serio.
«Non sapevo che
fossi diventata una
psicologa» commentai sotto voce.
Lei proseguì come
se non avessi aperto bocca. «Allora. Primo: lui ti
piace e penso che questo lo abbiamo chiarito anche se con un
po’ di
difficoltà. Secondo: tu piaci a lui e anche questo
è chiaro, ormai,
altrimenti non ti avrebbe perseguitata per due giorni, non avrebbe
saltato la
scuola con te, non ti avrebbe baciata. Ora, se tu piaci a lui e lui
piace a te,
ci sarà un motivo, giusto? Anzi, anche più di
uno, probabilmente. Sono sicura
che troverete un modo per chiarirvi. Te lo sto dicendo da ieri e anche
Holly
era d’accordo con me» disse con aria di
superiorità.
«Sul
serio?» esclamai con tono brusco.
«Forse non sono riuscita ad afferrare questi concetti visto
che durante i
nostri patetici tentativi di conversazione a tre di ieri non avete
fatto altro
che starnazzare contemporaneamente».
«Caspita, quanto sei
acida stamattina!»
si lamentò con un sospiro.
«Se non sbaglio tu sei la mia migliore amica, quindi ti
tocca sopportarmi anche se
ti faccio venir voglia di dare la testa contro il muro, esattamente come io, la tua
migliore amica, faccio con te
quando passi ore ed ore a raccontarmi nel
dettaglio tutto quello che tu e Tom vi siete detti e tutto
quello che avete
fatto!» sbottai con tono leggermente isterico. Ma solo un
pochino.
Jas mi osservò
perplessa per un attimo.
«Vuoi che andiamo a cercare Alex?» propose.
Ci pensai un secondo.
Chissà come mai, mi
sentivo sempre più nervosa. «No» risposi
seccamente.
Il mio umore non migliorò
quando raggiungemmo lo spogliatoio dove c’era Holly intenta a
prepararsi. Lei
e Jas cominciarono subito a discutere dell’argomento del
giorno. Non intendevo
in alcun modo unirmi a loro e me ne restai in silenzio ad ascoltarle
battibeccare mentre mi cambiavo, scocciata.
«È
assurdo che Alex non l’abbia ancora
cercata» sentenziò Holly con aria decisa.
«Insomma, che gli è preso? Era pazzo
di lei!» e qui mi lanciò di soppiatto
un’occhiata dispiaciuta, credendo che
non la vedessi. Provai l’orrenda sensazione che lo stomaco mi
scivolasse sotto
i tacchi.
«Perché
usi l’imperfetto? È ancora pazzo di
lei!» ribattè Jas incrociando le braccia. Non
potevo vedere il suo viso, ma
ero certa che stesse cercando di sparare fulmini e saette dagli occhi
per
incenerire Holly. Peccato che lei fosse troppo occupata ad
esaminarsi nello specchietto che aveva in mano per
accorgersene.
«Ma avrebbe dovuto
almeno chiamarla. Il
bacio è partito da lui, doveva essere lui a farsi
sentire».
«Be', in fondo non
è passato neanche un giorno, forse stiamo correndo
troppo».
Io le ascoltavo a malapena, presa com'ero dalle mie riflessioni. A
dispetto delle elucubrazioni di Holly e Jas, sapevo perfettamente il
motivo per cui Alex non mi aveva ancora cercata, il motivo per cui non
mi
avrebbe cercata mai: non ero stata all’altezza delle
aspettative. La mia
reazione era stata del tutto fuori luogo e avevo reagito in quel modo
perché
una paura folle si era impossessata di me.
Dannazione,
perché dovevo essere così?
Perché non ero più sicura di me? In
teoria la metà vampiresca dei miei geni avrebbe dovuto darmi
qualche piccolo vantaggio sugli esseri umani e invece niente. La
verità
stentavo a confessarla persino a me stessa: non mi sentivo mai
veramente a mio
agio né con i vampiri né con gli umani. Ero ormai
abituata a stare con i
vampiri ma ero consapevole della distanza che ci separava, consapevole
che non
sarei mai stata forte, veloce, bellissima, invincibile come uno di
loro. Eravamo divisi da una barriera sottile, ma
impenetrabile. La
stessa identica barriera che mi separava da Charlie e dai miei compagni
di
scuola: con loro stavo bene, eppure a volte mi sentivo
diversa…
abbastanza diversa da
avere costantemente paura di apparire strana ai loro occhi, di
spaventarli e
farli allontanare da me, ma non da sentire di avere qualche carta in
più da
giocare rispetto a loro.
Ero un maledetto ibrido, capace di vivere in
entrambi
i mondi tra cui ero divisa ma senza sentirmi veramente in armonia in
nessuno
dei due. A volte mi sembrava di essere una pallina da ping pong che
viene
lanciata continuamente da un capo all’altro del tavolo da
gioco.
A casa mi
sforzavo di essere il più possibile simile alla mia
famiglia, a
scuola e da
Charlie esattamente il contrario. E non avevo idea di quale fosse il
mio posto. Nè da una parte nè dall'altra riuscivo
a sentirmi pienamente a casa, a sentirmi davvero me stessa. Era come se
fossi sempre in attesa di tornare nell'altra metà
dell'universo, e allo stesso tempo sapevo che una volta passata
dall'altro lato dopo un po' avrei avvertito di nuovo quella
sensazione... la sensazione di essere in parte estranea a tutto e a
tutti. E una persona non riesce ad essere sicura di sè, di
ciò che è e di quello che vuole se non riesce
neanche a trovarsi un posto nel mondo. Ecco perchè ero
sempre così maledettemente insicura e timida e imbranata. Il
mio carattere c'entrava solo in parte.
Come potevo pensare di avere una storia normale con un
ragazzo normale
in mezzo a questo casino? Era giusto legarmi tanto a delle persone a
cui mentivo
spudoratamente? Come poteva una mezza vampira, o una mezza umana, a
seconda dei
punti di vista, mettere in piedi una storia con un ragazzo?
E poi c’era il
nostro segreto, la cosa più importante di tutte, mi era
stato insegnato quando
ero piccolissima. Gestire Charlie e le mie amiche era già
abbastanza
complicato, a volte. La possibilità di coinvolgere
un’altra persona mi aveva spaventata, anche se forse me ne
rendevo conto solo adesso. Così ero
scappata. Era il prezzo per condurre un’esistenza quasi
normale: se un
ramo della vita che conduci mette a rischio il tuo segreto e la tua
famiglia,
quel ramo va troncato. Quante volte in passato i miei erano stati
costretti a
mollare tutto e trasferirsi di punto in bianco per via di una parola,
un gesto,
uno sguardo di troppo?
La storia dei miei genitori mi
era stata
raccontata tante volte, da loro, dal resto della famiglia, da Jake, da
Charlie,
da fotografie, ricordi, frasi e sguardi. Sapevo quant’era
stato
difficile, quanto avevano dovuto lottare. Non intendevo paragonare
quello che
c’era tra me e Alex, qualunque cosa fosse, alla forza
devastante che aveva
travolto le vite dei miei genitori e le aveva rivoltate da cima a
fondo: non osavo
pensare che fosse amore. D’altronde non avrei nemmeno saputo
spiegarmi con
esattezza il significato della parola, sebbene ne avessi visto tanto
intorno a
me da quando ero venuta al mondo.
Ma non era solo una cotta, per usare quell’orribile
parola. Nessuno era mai riuscito ad affascinarmi
così.
No, Alex non era solo una
cotta
adolescenziale. Sarebbe diventato qualcosa di speciale, se solo avessi
lasciato
che accadesse. Non ero sicura di averne la possibilità, ma
non potevo
nemmeno lasciarlo in quel modo. Non lo meritava. In quei pochi giorni
insieme a lui avevo vissuto le emozioni
più strane, potenti e meravigliose dei miei cinque anni e
mezzo di vita. Avrei
tanto voluto parlargli.
Quando suonò la
campanella corsi a cambiarmi
con Jas alle calcagna; forse si sentiva in dovere di controllare che
non facessi qualcosa di stupido. Mentre Holly si infilava con Paul
nello stanzino
accanto alla palestra per divertirsi
in pace, come diceva lei, ci cambiammo in fretta e ci
avviammo verso l’aula di
letteratura.
Rimuginavo tra me e me mentre Jas si lamentava ad alta voce
dell’ultima
tesina che il professor Berty ci aveva assegnato, probabilmente solo
per
cercare di distrarmi visto che io l’avevo già
finita e lei lo sapeva benissimo. Svoltammo l'angolo di un corridoio
affollato e mi scontrai con qualcuno. Ero
così distratta che non riuscii ad afferrare uno solo dei
libri appena presi
dall’armadietto e caddero tutti a terra. Ma io non me ne
curai affatto, e
nemmeno Jas. Davanti a noi c’era…
«Alex!»
esclamai.
Fantastico! Avevo proprio
sperato di incontrarlo per spiegargli che non ero una ragazzina
imbranata e
invece gli ero appena caduta addosso. Assolutamente perfetto! Alex
sollevò gli
occhi, mi vide e per un istante mi parve di cogliere un lampo di panico.
«Ehi» fece
un attimo dopo con voce del
tutto normale, e mi sorrise. Alle sue spalle un gruppetto di ragazzi
del terzo anno che conoscevo di vista ci osservavano con aria curiosa.
Lui non
lasciò a lungo gli occhi blu fissi nei miei: si accorse dei
libri ancora
sparpagliati sul pavimento. «Ops. Scusa, è stata
colpa mia».
Si chinò, li
raccolse e me li porse. Automaticamente, senza riuscire a smettere di
fissarlo
sbalordita o di articolare una sillaba, li afferrai. Alex mi
lanciò un'occhiata rapida, gli occhi sfuggenti che
faticavano a fermarsi su di me, e
accennò un altro sorriso.
«Ci si vede» disse, e si allontanò lungo
il
corridoio seguito dai suoi amici.
Scese il silenzio mentre cercavo di
realizzare cosa era appena accaduto. Doveva essere passato soltanto un
minuto,
ma nella mia testa quel minuto era durato
un’eternità, esattamente com’era
successo sulla spiaggia quando mi aveva baciata. Lentamente, molto
lentamente,
ricominciai a respirare.
«Hai… hai
sentito anche tu?» balbettai. «Ha
detto ci si vede?
Ha veramente detto ci
si vede?»
Dalla mia migliore amica
non giunse alcuna risposta. Mi voltai per accertarmi che non fosse
svenuta: Jas
aveva l’espressione più assurda che le avessi mai
visto, occhi e bocca
spalancati come chi ha appena assistito a un cataclisma di proporzioni
epiche,
e non sembrava in grado di dire nulla di intellegibile. Era buffissima.
Se solo non fossi stata
così sconvolta e se non avessi creduto di avere io stessa
un’espressione molto
simile, quel momento sarebbe stato consacrato da una risata senza
precedenti.
****
Non so come riuscii ad affrontare il
resto
della mattina, ad andare in classe di letteratura e poi alla lezione
successiva fingendo che non fosse accaduto niente, che Alex non mi
avesse appena trattata come un’estranea, una qualunque
ragazza conosciuta
da poco della quale non gli importava granchè. Non come una
che gli piaceva e alla quale aveva
dato un bacio. O meglio, cercavo di far finta di niente ma
probabilmente non
stavo avendo molto successo. Lo intuivo da come ogni tanto Jas si
voltava a
fissarmi, preoccupata, da come mi guidava nell’aula giusta
tenendomi sotto
braccio perché io non facevo caso a dove andavo, da come mi
scuoteva con un
calcio sotto il banco quando un insegnante mi interpellava ed io non
rispondevo. Forse aspettava
un’esplosione che per fortuna non arrivò.
Quando suonò la
campanella del pranzo mi
stupii che la mattina fosse già passata. Seguii Jas nella
mensa, presi il
vassoio e sedetti al solito tavolo meccanicamente, senza pensare a
ciò che
facevo. Riuscii ad accorgermi, però, degli sguardi che si
posavano su di me
e mi resi conto che nel nostro gruppetto la voce doveva già
essere circolata. Per fortuna nessuno tirò in ballo la
questione, forse per pietà, o forse perché
Tom e Paul avevano troppa paura delle rispettive fidanzate per
potersela
spassare in tutta tranquillità.
A un tratto uno scoppio di
risate
particolarmente rumorose, al nostro tavolo, mi riscosse e sollevai gli
occhi dallo stufato con cui stavo giocherellando: Scott e Paul avevano
improvvisato una partita a basket con i resti del pranzo e la mela che
stavano usando a mo' di palla
era appena rimbalzata e finita dritta nel piatto di Maggie, invece di
cadere
nel cestino del pane che fungeva da canestro, schizzandole la
camicetta. Tutti
ridevano mentre Maggie cercava di smacchiarsi la camicetta con un
fazzoletto
umido e intanto lanciava insulti verso Paul e Ryan. Forse era
divertente, ma non mi venne affatto da ridere.
Mi guardai intorno, disorientata
dalla confusione che all’improvviso sembrava esplodermi nelle
orecchie dopo ore
di isolamento, come se qualcuno avesse rapidamente alzato al
massimo il
volume di una tv. Percorsi con lo sguardo la mensa e la folla
vociante e
rumorosa che la occupava, e lo vidi: Alex era seduto a un tavolo
accanto
all’ingresso con gli amici, tra i quali riconobbi quelli che
erano con lui quando
ci eravamo scontrati. Sembrava assolutamente rilassato:
parlava, rideva, si
passava una mano tra i capelli per scompigliarli un po’,
assaggiava un boccone
dal piatto e poi con espressione disgustata si voltava verso gli altri
dicendo
qualcosa, probabilmente una battuta, scatenando le risate della
tavolata. Non
sembrava nemmeno un nuovo studente tanto riusciva ad essere naturale,
disinvolto, come se si trovasse in mezzo a persone che conosceva da una
vita. E
soprattutto sembrava che non fosse successo niente.
Gli ultimi giorni non erano mai esistiti.
Poi
qualcuno attirò la sua attenzione: Caroline Johnson si
avvicinò ancheggiando al suo tavolo e lo salutò
dedicandogli uno dei suoi agghiaccianti sorrisini da pescatrice che
lancia la rete. Alex sorrise di rimando mentre lei gli domandava
qualcosa con
voce
squillante, lui rispose e Caroline fece una risata civettuola prima di
sedersi
con disinvoltura sulla sedia vuota al suo fianco, gettandosi i capelli
oltre le
spalle. E per quanto solo qualche giorno prima Alex avesse
assicurato di
non sopportare quel tipo di ragazza, non parve particolarmente
infastidito
dalla situazione.
Okay, quello era troppo.
Potevo anche accettare
che mi ignorasse e si comportasse in modo strano, ma che se la
spassasse con
quell’oca mangia uomini mentre io mi
tormentavo per cercare di capire i suoi sbalzi d’umore era
davvero troppo.
Mi
alzai di botto, lasciai al tavolo tutte le mie cose e attraversai in
fretta la
mensa a passo sostenuto, probabilmente attirando un bel po’
di sguardi curiosi. Tenni gli occhi fissi davanti a me senza incrociare
quelli di nessuno, facendo
appello a tutte le mie forze per non scoppiare in lacrime davanti a un
centinaio di persone, superai il tavolo di Alex e uscii nel corridoio.
Sentivo che stavo per cedere.
Mi
diressi al bagno delle ragazze e controllai rapidamente che non ci
fosse
nessuno. Quando ne fui certa, mi fermai un istante. Tirai un profondo
respiro,
cercando di calmarmi, ma gli occhi bruciavano minacciosamente. E poi,
all’improvviso, qualcosa si sciolse dentro di me e le lacrime
sgorgarono.
Scivolai lungo la parete, sedetti sul pavimento e poggiai la testa
sulle
ginocchia, singhiozzando disperatamente. Era come se avessi tenuto ben
stretto
un rubinetto per l’intera mattina e ora lo avessi aperto
tutto di botto e ne uscisse un fiume in piena.
Pensai che per quanto mi
sentissi molto
sciocca e infantile ad avere un simile sfogo per una questione
così
futile e che fino a qualche giorno prima avrei definito assolutamente
indegna
di tutta quell’attenzione, allo stesso tempo mi rendevo conto
che era qualcosa con
cui avrei dovuto fare i conti, prima o poi. Ed era meglio che avvenisse
in una
condizione di totale solitudine. Quando Jas litigava con Tom e Holly
litigava
con Paul, strillavano e si agitavano per un po’ di tempo e
poi sembrava tutto passato. Forse l’isterismo era una specie
di
passaggio obbligatorio quando perdevi la testa per un ragazzo e magari
dopo
avrei ricominciato a ragionare usando il cervello.
Non durò molto,
però, quella solitudine:
solo un paio di minuti più tardi la porta del bagno si
aprì e sulla soglia
comparve Jas. Ero sicura che sarebbe venuta a cercarmi. Mi
guardò in silenzio
per un attimo ed io ricambiai lo sguardo, senza riuscire a smettere di
frignare. Sospirò pesantemente con aria dispiaciuta e venne
a sedersi accanto a
me. Non parlò, limitandosi ad accarezzarmi la testa, ma
sapevo che dentro di sè
stava lanciando ad Alex gli insulti più cattivi del suo
vocabolario. Certo, Jas
sapeva essere una gran scocciatrice quando voleva e tre volte su
quattro diceva
la cosa sbagliata nel momento sbagliato, ma era un sollievo averla con
me.
«Lui non mi
vuole» singhiozzai. Sentivo la
gola gonfia e dovetti sforzarmi di parlare. «Ed è
colpa mia. Ho sbagliato
tutto e lui non mi vuole più».
Jas mi scoccò una
delle sue occhiate da meno
male che ci sono io. «Ho un piano»
disse.
Tirai su col naso e cercai di
frenare le
cascate del Niagara. «Sarebbe?»
«Convochiamo Alex,
da qui in avanti "Il bastardo", in un bel posticino tranquillo come il
parcheggio del supermercato
dopo la chiusura, con una scusa qualsiasi, e dico a Tom e Paul di
portarsi le
loro vecchie mazze da hockey: lo faremo pentire di essere venuto a
Forks».
Mi scappò un mezzo
sorriso. «Jas» protestai
con voce roca «ti prego, sii seria». Feci una pausa
e tirai un respiro
profondo. «Ho combinato un disastro».
Alzò gli occhi al
cielo. «Ancora con questa
storia? Senti, non voglio dire che darsela a gambe dopo il suo bacio
sia stata
una bella idea, okay?
Capisco che Alex possa essere confuso ma il suo comportamento di oggi
non ha
giustificazioni! Insomma, ti ha trattato malissimo,
è… è stato un vero
bastardo! Prima fa finta che tu
non esista e poi si mette a flirtare con quella stupida vacca davanti a
te,
davanti a tutti… Dovresti fargliela pagare!»
A quel punto interruppe la sua filippica per
prendere fiato. Caspita, era veramente indignata. Sentendola descrivere
da un’altra
persona quella situazione faceva davvero schifo. «E come?
Torno di là e lo
decapito con un vassoio?» dissi stancamente.
Jas si
calmò un po’ e assunse un’espressione
meditabonda. «Questo potrebbe crearti
qualche problema» ammise.
«Giusto qualcuno»
aggiunsi con tono piatto e ironico.
Lei sbuffò, contrariata, e restammo in
silenzio per un po’. Forse Jas meditava qualche tremenda
vendetta, io
invece pensavo a come organizzare la mia seconda fuga da scuola in due
giorni. A un tratto parlò di
nuovo.
«Be’, c’è sempre la mia idea.
Non era tanto male, ti pare? Almeno, se
gli facciamo un occhio nero sarà di sicuro meno
affascinante».
****
Fu
dura arrivare alla fine delle lezioni.
Oltre al dispiacere e al senso di umiliazione che provavo, nel
pomeriggio si
aggiunse un mal di testa perforante a rendermi le cose ancora
più facili.
Fantastico. Non so per quale miracolo non incontrai più Alex
dopo la pausa
pranzo, ma in compenso vidi Caroline in un’aula vuota in
compagnia delle sue
stupide amiche con l’aria tronfia di chi si è
appena aggiudicato un bel
bottino. Strillavano e ridacchiavano a un tale livello di decibel che
non mi
fu difficile cogliere l’argomento delle loro chiacchiere. Non
so come, soffocai
l’istinto di ucciderla e passai oltre.
Jas sembrava molto preoccupata e mi riempiva di insistenti
attenzioni. Le ero grata, ma allo stesso tempo mi sentivo soffocare.
Non desideravo essere trattata come una stupida che si era lasciata
prendere in giro dal nuovo arrivato. Avrei voluto soltanto tornare
indietro nel tempo per impedirmi
di prendere una stratosferica cotta per un ragazzo che era
così palesemente un…
bastardo. Presa com’ero da queste riflessioni, il suono
dell’ultima
campanella mi colse del tutto di sorpresa. Fortunatamente la
Ferrari della mamma era già nel parcheggio ad aspettarmi.
Saltai dentro e il
sorriso un po’ incerto ma carico di aspettative che mi
rivolse si congelò
all’istante quando vide la mia faccia.
«Che è
successo?» esclamò con l’aria di chi
preferirebbe invece non ricevere una risposta.
«Non ne voglio
parlare» borbottai, un po' brusca. Lei esitò un
attimo. Mi toccò
ribadire il concetto. «Non ne voglio
parlare».
Stavolta afferrò e si limitò a mettere in moto
senza aggiungere altro,
ma per tutto il tragitto non fece che sospirare e gettarmi rapide
occhiate
ansiose a intervalli di circa trenta secondi. Feci del mio meglio per
ignorarla, anche se essere
continuamente perforata dai suoi occhi ambrati che sembravano
scongiurarmi di
parlarle mi rendeva ansiosa.
Arrivate a casa, corsi dentro
prima ancora
che la mamma potesse parcheggiare.
«Non voglio parlare» ripetei per la terza
volta all’indirizzo di mio padre, seduto in salotto, che mi
guardava con le
sopracciglia inarcate.
Mi chiusi in camera mia con l’intenzione di restarci e
passai più o meno un’ora così,
allungata sul letto a pancia in giù, un cuscino
stretto fra le braccia, ripassando nella mia mente tutti i momenti
più brutti
della giornata e guardando avvilita la pioggerellina che cadeva fuori
dalla finestra.
«Tesoro,
possiamo?»
La mia solitudine fu a
un tratto disturbata dalla voce incerta della mamma. Mi riscossi e fui
costretta a scrollarmi di dosso un po’ di torpore.
«Non posso
impedirvelo» mugugnai.
Comparvero tutti e due nella mia visuale, tenendosi per mano e
fissandomi con
occhi ansiosi.
«Renesmee»
cominciò papà dolcemente «senti,
sappiamo che vuoi restare sola, ma… sicura che non ti
andrebbe di parlare un
po’? Staresti meglio, dopo».
Forse, ma io non volevo stare
meglio. Non
desideravo altro che crogiolarmi nell'autocommiserazione e disperarmi e
sospirare e piagnucolare da brava quindicenne quale mostravo
di essere. «No».
Ci fu un attimo di silenzio.
Li vidi con la
coda dell’occhio scambiarsi uno sguardo accorto. A loro
bastava questo per
comunicare.
«Come
preferisci» rispose la mamma in un
sussurro. «Noi andiamo a caccia, vuoi venire?»
«No». La
sete era l’ultimo dei miei
pensieri, al momento. Altro silenzioso scambio di sguardi.
«D’accordo»
fece Bella, rassegnata. «Allora
ci vediamo più tardi dai nonni, okay?»
Avevo completamente
dimenticato che per
quella sera era in programma un torneo di poker con Charlie, una specie
di tradizione di famiglia, ormai. Non sapevo se mi andasse di
partecipare o
meno, ma di sicuro in quel momento non mi andava di intavolare una
discussione
con i miei. Per tutta risposta alzai le spalle.
Bella esitava, poi
papà la strattonò per farle capire che era meglio
allontanarsi.
«Su, andiamo» mormorò.
Uscirono accostando la porta della mia stanza e in casa scese il
silenzio. Finalmente ero sola, ma per me cambiava ben poco e rimasi sul
letto nella
stessa identica posizione. Speravo che a un certo punto arrivasse
il sonno a troncare le mie cupe riflessioni, ma non accadde. Continuavo
a
fissare fuori dalla finestra il cielo che si faceva scuro, quando a un
tratto
sentii il cigolio della porta della mia stanza. Edward e Bella erano
tornati e
non me ne ero accorta? Sbuffai alzando gli occhi al cielo.
«Ho detto che non mi va di parlare!»
sbottai, arrabbiata. Ma quanto
ci metteva un vampiro super intelligente a recepire un messaggio
preciso?
«Nemmeno con il
sottoscritto?» fece una
voce ironica.
Mi rianimai all’istante e schizzai su dal
letto come una molla. «Jake!»
Con uno strillo mi lanciai tra le sue braccia
tese dimenticando all'istante tutto il resto.
«Vuoi che me ne vada?» chiese, ridacchiando.
«Non ti azzardare!
Meno male che sei qui!»
Il giorno prima gli avevo raccontato della
fuga da scuola e di tutto il resto per telefono perché aveva
un impegno di
lavoro e poi la solita ronda, quindi non ci eravamo visti. Parlarsi di
persona era tutta un’altra cosa. E
in quel momento di profonda depressione non avrei potuto desiderare di
meglio per consolarmi che la presenza del mio licantropo
preferito.
Ci sedemmo per terra appoggiati al mio lettone e gli raccontai di
getto le ultime novità. Lui mi ascoltò con
attenzione fino alla fine, senza fare
commenti.
«Per lui è come se non fosse successo
assolutamente niente»
sussurrai quando ebbi terminato. «Mi ha baciata, e
ora… sembra che non gliene
importi. Ma perché fa così?»
«Non hai pensato che
potrebbe essere stato
rapito dagli alieni e aver subito un trapianto di
personalità?»
Alzai gli occhi al cielo, ma
non potei
frenare un sorriso. «Jacob».
«Be’, che
c’è? Non credi negli alieni?
Esistono i vampiri, esistono i licantropi, perché non
possono esistere anche
omini verdi con le antenne che rapiscono i ragazzi e li rimandano sulla
Terra
completamente alterati?» continuò.
«Un rapimento alieno sarebbe una
giustificazione» continuai, decisa a non permettergli di
distrarmi.
Jacob sospirò e
battè delicatamente una mano sul mio ginocchio.
«Senti, secondo me avete bisogno di un po' di
tempo, tutti e due. Sono tanti i ragazzi che sembrano spavaldi e poi si
portano
dietro un sacco di problemi. Magari Alex è tra questi. E
anche tu hai bisogno
di tempo: è successo tutto così in fretta, e tu
odi quando le cose ti piombano
addosso all'improvviso, vero?». Era una domanda retorica.
Jake mi conosceva così
bene che a volte parlare con lui era quasi un po’
inquietante. Sembrava che potesse leggermi dentro come papà.
«Tempo»
ripetei, soprapensiero. «Il fatto è
che Alex ha sul serio un sacco di problemi. Me ne ha parlato ieri in
spiaggia. Si è aperto completamente, mi ha raccontato tutto
del suo passato, o
almeno credo che sia tutto, ed io ero sorpresa: gli ho detto che non
era
costretto a farlo e che avremmo potuto parlarne più avanti,
ma lui ha insistito mi ha
raccontato cose molto, molto personali. Ed io credevo che lo avesse
fatto perché
gli piacevo davvero. Insomma, non avrebbe parlato tanto con una persona
che per
lui non fosse almeno un po’…
importante». La mia voce tremò, sentii
gli occhi inumidirsi e la stretta di Jacob aumentare.
«Credevo di aver visto il
suo cuore».
Lui non rispose subito,
continuò
a stringermi il ginocchio e intanto fissava il pavimento per darmi il
tempo di riprendermi. Feci un paio di respiri profondi e riacquistai il
controllo. «Nessie» cominciò lentamente
«io credo che tu gli piaccia. E credo che Alex sia diventato
tuo amico e ti abbia baciata perché lo voleva,
perché in quel momento ne sentiva il bisogno. Sono sicuro
che gli importa di
te. Non ti sei sbagliata».
«Avrebbe
potuto… che so, avvisarmi»
borbottai tirando su col naso. «Non avevo capito che stava
per succedere.
Che stava per baciarmi». Ah, che sollievo ammetterlo con
qualcuno! Era una liberazione.
Lui rise piano, non in modo
offensivo. «Non
si può avvertire quando sta accadendo una cosa del
genere».
«Perché?»
«Perché
è impossibile. Non si può
mandare un avviso scritto, si perderebbe tutta la magia. Certe emozioni
vivono nello spazio di un attimo e l’attimo passa. Bisogna
coglierlo prima che
svanisca. Non avercela con lui per questo».
«Be’,
avrebbe potuto essere un attimo
perfetto se solo mi fossi resa conto…»
Non mi lasciò
finire. Mi prese una mano e me la strinse forte, guardandomi con
espressione seria e dolce. «Basta, Renesmee. Tu sei
importante per Alex, non puoi dubitarne, perché hai sentito
di esserlo
quando eravate insieme e devi sempre fidarti di te stessa e delle tue
sensazioni. Niente deve contare più di quello che ti dice il
tuo cuore, mai».
Mi accorsi che lo stavo fissando con occhi
sgranati. Era uno di quei momenti, momenti in cui Jacob cessava di
essere il
mio compagno di giochi, di passeggiate e cacce nei boschi e si mostrava
per quello che in effetti era, un giovane
uomo. Aveva ventun’anni, ma non avvertivo quasi mai la
differenza d’età: era
sempre pronto a ridere e scherzare come uno dei miei compagni di
scuola, e poi
di colpo, quando ne avevo bisogno, si tramutava in un uomo maturo e
responsabile
che accoglieva e frenava le mie crisi isteriche, mi stringeva e mi
faceva
sentire sempre al sicuro. Diventava la mia roccia.
«Tu hai sempre
seguito il tuo cuore?» domandai all'improvviso.
Ci pensò un
istante, un mezzo sorriso sulle labbra. «Credo
di averlo sempre fatto».
«E non ti sei mai
pentito?»
Aveva ancora quel sorriso, il
sorriso di chi
contempla ricordi lontani con serenità. «No.
Rifarei tutto. Non butto via
niente».
Feci un piccolo sospiro. Mi
sentivo incredibilmente
stanca, come se avessi corso per chilometri e chilometri.
«Sai, forse è meglio
così: non potrebbe mai funzionare».
«Che cosa?»
«Io ed
Alex».
«Perché?»
«Anche se si
sistemasse e noi… ci
mettessimo insieme… insomma, te lo immagini?».
All’improvviso ero infastidita.
Non riuscivo a trovare le parole giuste. Era strano come passavo di
colpo da un
sentimento all’altro, da un umore all’altro.
«Come potrei avere una storia con lui?»
«Con un tizio rapito
dagli alieni, vuoi
dire?» mi provocò con un sorrisino furbo. Ecco che
ogni tanto
l’uomo maturo scompariva e tornava il ragazzino.
«Con un
umano» lo corressi senza scompormi. «A volte fatico
a tenere a bada Charlie e le
mie amiche, avere un ragazzo sarebbe allucinante. Si accorgerebbe
subito che
c’è qualcosa che non va».
Al solo pensiero, tremai. Davvero potevo rischiare di
dover mollare tutto all’improvviso e trasferirmi
chissà dove, di perdere il
nonno, la casa dove ero nata e che amavo tanto, i ragazzi della
riserva, le mie
compagne di scuola, Jas, soltanto
per
lui, il signor Alexander Hayden appena sbucato dal nulla?
Jacob aggrottò la
fronte. «Io non la vedo così complicata.
Però tu devi
volerlo, certo». Lo guardai, colpita dalle sue parole. Lui
continuò
con aria tranquilla. «Se hai paura non funzionerà
mai».
Ancora una volta aveva colpito
nel segno. Mi
morsi il labbro, incerta su cosa rispondere, quando fummo interrotti da
un
trillo proveniente dal mio cellulare. Mi sporsi per prenderlo dal
comodino e
controllai il display. Avevo ricevuto un sms da Emmett, che per quanto
ne
sapevo era a casa a preparare tutto per la serata:
Ehi, Raggio di
sole, il cane ci serve per la
partita. Se non lo porti subito qui vengo a prendervi io.
Sbuffai
mentre cancellavo in fretta quel
ridicolo messaggio. «Emmett. È a casa, vuole che
tu vada subito lì
o verrà a prenderti lui».
Jacob rise di gusto,
scuotendo la testa. «Sono tutti
matti nella tua famiglia. Che vuoi fare, andiamo?»
«Tu
devi andare di sicuro: non ho voglia che Emmett venga qui a rompere le
scatole».
«Non ci vado senza di te» disse come se
fosse la cosa più ovvia del mondo.
Riflettei un istante.
«Be’… Tanto devo
venire per forza. Se Charlie non mi trova sarà lui a venire qui.
Ultimamente è diventato un gran seccatore, mi sta sempre
addosso».
«È
perché si è accorto che stai crescendo»
rispose Jake in tono dolce, e mi accarezzò un
attimo la guancia.
D'istinto gli
afferrai la mano e me la premetti contro la pelle: aveva un profumo
buonissimo,
fresco, di aghi di pino.
«Jake»
sussurrai «grazie di avermi ascoltata. Sento di poterti dire
qualunque cosa. È come se tu fossi mio fratello»
dissi di getto, senza pensarci. Sentivo il bisogno di fargli sapere
quanto mi avesse fatto
bene, anche in una giornata triste come quella, semplicemente parlare
con lui e
averlo accanto. Non avevamo di certo trovato una soluzione al mio
problema, ma
era come se un tenue raggio di sole fosse spuntato tra le nuvole.
Lui rimase a fissarmi
per un minuto, senza
dire nulla, poi si alzò e mi tirò su con
sè. Mi baciò la
testa con aria divertita. «Per fortuna non è
così! Se
fossi un Cullen sarei pazzo anch’io e qui serve una mente
lucida, ogni
tanto. Dammi retta».
Ci avviammo insieme
verso la
casa dei nonni tenendoci per mano. Appena arrivati Jacob fu subito
coinvolto
da Emmett in una rapida partitina di riscaldamento con Jazz e Carlisle,
che aveva cambiato il proprio turno in ospedale appositamente per
l’occasione. Di lì a poco arrivarono anche i miei
e ne
approfittarono per raccontare della caccia pomeridiana prima che
arrivassero
orecchie indiscrete, ed Emmett e Rose si lanciarono in una valanga di
strane
battute che facevano sbellicare Jacob e irritavano la mamma, ma io non
li
ascoltavo per davvero.
Me ne stavo seduta sulle scale in silenzio e per quanto cercassi di
concentrarmi su altre cose, i miei pensieri tornavano
inevitabilmente ad analizzare i fatti della mattina. Mi sembrava di
essere un
uccellino chiuso dentro una stanza che sbatte di continuo contro la
finestra
cercando di uscire. L’arrivo di Charlie in compagnia di
Seth, che aveva pranzato con lui e Sue, pose fine ai resoconti di
caccia e alle risate sguaiate, ma non alle battute di Emmett. In
presenza del nonno tendeva a scatenarsi particolarmente e solo le
occhiate assassine della mamma, alla millesima battutaccia oscena,
riuscivano a contenerlo un po'.
Cominciò la partita ed io cercai di seguirla.
Papà, ovviamente
bandito dal gioco per le sue capacità extra (a
Charlie raccontava di detestare il poker), gironzolava
intorno a me come un pianeta
attratto dalla forza di gravità, lanciandomi occhiate
preoccupate. Faceva
sempre così quando ero presa da pensieri tristi, non
riusciva
a non starmi vicino: voleva farmi sapere che lui c’era, se ne
avessi avuto
bisogno, senza farmi sentire oppressa. A un tratto fui distratta da
Charlie.
«Ness,
tesoro» disse
all’improvviso, approfittando di una breve sosta nel gioco
mentre
Emmett e Jacob erano impegnati a litigare per le rispettive carte e un
presunto
tentativo di imbroglio «ti senti bene? Sei così
pallida
e silenziosa». Mi lanciò un lungo sguardo
indagatore.
Gli rivolsi un sorriso
che speravo non
apparisse troppo forzato. «Sto bene,
sì… Tutto bene».
Non se la bevve
affatto e continuò
a scrutarmi, la fronte aggrottata e gli occhi attenti. Lo
scambio di battute distolse Emmett e Jacob dalla loro discussione o
forse
avevano trovato un compromesso, chissà. Sul volto dello zio
si dipinse un sorriso
assassino che prometteva guai.
«Andiamo, Raggio di sole, cos’è quella
faccia?
Che succede, ci sono lacrime su in paradiso?»
interloquì
con voce vellutata e ironica, trasudando malizia da tutti i pori della
sua pelle liscia e perfetta.
Gli rivolsi lo sguardo
più cattivo del mio
repertorio. «Vai all’inferno» sibilai.
Charlie assunse
un’aria scioccata per la mia
risposta velenosa. Senza aggiungere altro mi alzai e salii le scale a
passo di
marcia, inseguita dalle risate di zio Emmett. Piombai in cucina come un
fulmine. Esme, che stava preparando degli spuntini tutti per Charlie,
mi lanciò
un’occhiata guardinga ed io mi sforzai di sorriderle,
incrociando le braccia con gesto nervoso.
Restai lì
un istante a guardarla armeggiare con piatti, sandwich e confezioni di
noccioline, poi uscii di colpo sulla terrazza assecondando
l’impulso asociale
del momento. Preferivo stare da sola. Anche i dolci sorrisi della nonna
riuscivano ad irritarmi perché dietro vi leggevo il suo
dispiacere per me.
Tirava una brezza piuttosto fredda ma grazie alla mia temperatura
più elevata
della media potevo resistere un po’ prima di dover indossare
una giacca. L’aria
fresca riuscì a schiarirmi le idee e pian
piano la rabbia improvvisa che l’odiosa battuta di Emmett
aveva scatenato si
dissolse. In compenso tornò la familiare sensazione di
delusione che mi
accompagnava da ore. Ero sola da un paio di minuti, quando mi accorsi
che qualcuno mi aveva seguita.
«Disturbo?»
chiese una voce dolce. Era zia
Rose. Non usava quel tono con nessun altro.
Mi girai e le sorrisi.
Un sorriso sincero,
questa volta. «No, vieni. Non ho intenzione di suicidarmi,
papà dovrebbe
saperlo» dissi con tono ironico. Chissà se una
caduta da lassù avrebbe ucciso
una mezza vampira. Magari avrebbe fatto soltanto un gran male e basta.
Meglio non
provare.
Si appoggiò
alla ringhiera, accanto a me. «Non è per questo
che sono qui. Mi
chiedevo solo se magari ti andava di parlare».
Esitò
un istante. «Edward e Bella mi hanno detto
cos’è successo».
Fantastico. «Discrezione è il loro secondo
nome» commentai.
La zia fece un sorriso
imbarazzato. «No, non
te la prendere. Sono preoccupati per te. E
anch’io». Breve pausa. «Lo è
anche
Emmett, per quanto non sia in grado di dimostrarlo. Siamo tutti
preoccupati per
te».
Sospirai, osservando
il fiume Sol Duc
luccicare leggermente nel buio. «Non c’è
molto di cui parlare, ormai. Credo che
sia finita».
«Cosa?»
«Quello che
c’era con Alex, qualunque cosa
fosse».
«Tesoro, mi
dipiace» mormorò la zia dopo un breve silenzio.
Scrollai le spalle. «Non fa niente. Quello
che non sopporto è che sia riuscito a farmi questo».
Sentii un moto di rabbia invadermi per un istante. No, non lo
sopportavo. Era
la cosa peggiore. Molto peggio che vederlo ridere e parlare con la
stupida oca mangia uomini.
«Cosa ti ha
fatto?»
«È
riuscito a ferirmi! Mi ha ridotta così!»
sbottai. «Come una di quelle insulse ragazzine che cambiano
completamente
quando incontrano il primo tizio che gli piace e poi finiscono in pezzi
da un
giorno all’altro solo perché quel tizio non le
considera più!». Dirle a voce
alta, quelle cose, le fece sembrare ancora peggio, come già
era successo con Jas.
«Ma tu non
sei un’insulsa ragazzina»
ribattè Rosalie, perplessa.
«Ah,
no?» la provocai. Mi voltai di scatto,
appoggiandomi alla ringhiera di schiena, e incrociai le braccia
nervosamente.
«Due giorni fa avresti mai pensato che io potessi saltare la
scuola il giorno
di un test importante con uno appena conosciuto? Non dovevo andare in
macchina con lui, mi era stato proibito, e invece l'ho
fatto».
La guardai con aria di sfida. Scappare da scuola
in auto con un ragazzo non era forse una gran cosa, Holly
l’aveva fatto chissà
quante volte. Ma non io. Renesmee Cullen non faceva mai niente del
genere. Era ubbidiente, posata e assennata e metteva la
scuola e lo studio prima di molte altre cose. A pensarci bene, Miss
Perfettina era davvero un
soprannome adeguato, per quanto lo odiassi. Sapevo di possedere una
certa vena ribelle, ma
l’avevo sempre messa a tacere e controllata nel continuo
timore di mostrare
troppo di me stessa, di espormi eccessivamente e compromettere il mio
segreto.
Rosalie esitava.
«Be’, no, non l’avrei mai
detto, ma a volte si cambia. È il prezzo di
crescere».
Sul serio? Crescere
significava perdere
la testa, allora? Buono a sapersi. «Ma non
così! Sono
giorni che mi comporto in modo assurdo per colpa sua. Nel giro di una
settimana
è riuscito a sconvolgere la mia vita. Ho sempre pensato che
in generale i ragazzi non fossero molto interessanti, a parte
poche eccezioni, e non mi è mai importato un accidenti
di quanto fossero carini. Invece stamattina ero buttata sul pavimento
del
bagno della scuola a piangere per uno di loro». Sentivo la
mia voce incrinarsi
pericolosamente. Zia Rose si avvicinò mettendomi una mano
sulla spalla. «Mi ha
illusa» continuai dopo aver preso fiato, cercando di non
scoppiare a piangere.
Avevo già dato, almeno per quella giornata. «Ha
costruito un castello di sabbia
e poi l’ha distrutto di colpo, adesso mi ignora e…
ed io vorrei andare avanti,
vorrei superarla come mi sembra che abbia fatto lui, ma non ci
riesco». Tirai
un altro respiro profondo per calmarmi un po' e feci una breve pausa.
Rosalie
rimase in silenzio a guardarmi, senza parlare.
«Eppure» continuai a bassa
voce «se domani all’improvviso tornasse
com’era prima e volesse ancora stare
con me, senza nemmeno chiedermi scusa o darmi una motivazione per il
suo
comportamento, non mi importerebbe niente di quanto oggi mi abbia fatto
stare
male né di quanto potrebbe essere complicato e pericoloso
stare con lui».
Abbassai gli occhi, imbarazzata.
La zia mi osservava
con attenzione, la
fronte aggrottata. «Forse devi solo accettare
l’idea che Alex ti piaccia più di
quanto pensassi» disse lentamente, come se temesse che
scoppiassi in lacrime
da un momento all’altro.
All'improvviso
sentii una fitta acuta e dolorosa alla tempia destra. Stava per
scoppiarmi un bel mal di testa. Ero stanca, triste, arrabbiata e non
riuscivo a spiegarmi come avrei voluto. Rosalie era il
membro della famiglia con cui mi confidavo di più, dopo
Jacob e i miei genitori, ma in quel momento non mi
era di alcun aiuto. Volevo solo mettermi a letto, anche se erano le
sette di
sera, e dormire per una settimana intera.
«Me ne vado
a casa» dissi all’improvviso, e
la mia voce suonò incredibilmente stanca. «Saluta
Charlie da parte mia, per favore, e digli che ho un sacco di compiti da
fare».
Be’, questo era vero. Se non mi sbrigavo a smettere di
rimuginare e a combinare
qualcosa, l’indomani avrei avuto problemi a scuola.
Rose annuì.
«D’accordo, ma… tu stai bene?»
Non sapevo cosa rispondere. «Sono solo
stanca. Forse è meglio dormirci su. Magari domani mi
sarò
schiarita le idee».
«Certo»
mormorò la
zia. Dalla piega della sua bocca capii che era ansiosa, ma non aggiunse
altro.
La abbracciai,
baciandola su una guancia di
pietra. «Grazie. Ti voglio bene».
«Anch’io.
Buonanotte, piccola».
Andai a prendere la giacca e uscii
velocemente di casa senza essere fermata da nessuno, per fortuna. Mi
avviai
verso il cottage a passo svelto. All’improvviso sentivo un
gran freddo e mi
strinsi la giacca addosso, sforzandomi almeno per un po’ di
dimenticare le
ultime ore, di pensare ad altro, a qualcosa che non fosse lui. Ma mi stavo
rendendo conto che a volte più ci si sforza di ottenere
qualcosa, più ci si
allontana da essa. Arrivata a casa cercai di studiare sul serio, ma non
avevo la concentrazione sufficiente. Rinunciai poco dopo e quando i
miei
rientrarono ero già a letto.
A un
tratto sentii squillare il telefono. Papà rispose e poi
entrò nella mia stanza.
«Tesoro, è Jas» disse a bassa voce. Non
mi
presi neanche la briga di rispondere, era fatica sprecata. Lo sentii
sospirare
mentre usciva e si chiudeva la porta alle spalle. «Jas?
Renesmee non si
sente molto bene, è a letto. Parlerete domani a scuola.
Nessun disturbo. Buonanotte».
I suoi passi leggeri si allontanarono
lungo
il corridoio. Mi tirai le coperte fin sopra la testa, chiusi gli occhi
e mi
lasciai avvolgere dalla tanto desiderata incoscienza.
Note.
1. Qui
la canzone. Non è semplicemente meravigliosa? <3
2. Link.
3. Link.
Spazio autrice.
Okay, è un capitolo sterminato,
lo so. Ho cercato di dividerlo in due parti ma mi sembrava di spezzare
un'unità narrativa. Meglio un capitolo un po' più
lungo del solito che due capitoli brevi ma con un'interruzione che
distrugge la continuità, non vi pare? Comunque spero che la divisione in paragrafi renda la lettura abbastanza scorrevole. Come al
solito, vi invito a farmi sapere cosa ne pensate. Critiche costruttive e consigli
sono sempre ben accetti. Grazie! :-)
|
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Capitolo 10 *** Torn ***
Capitolo
10
Torn
Well
you couldn't be the man I adored
you
don't seem to know or seem to care what your heart is for
I
don't know him anymore
there's nothing where he use to lie
my conversation has run dry
that's going on, nothing's fine
I'm torn.
Torn, Natalie Imbruglia¹
L'esperienza non è
che la somma delle nostre delusioni.
HENRI FRÉDÉRIC AMIEL, Diario
intimo
Il giorno seguente mi
svegliai prima del solito e rimasi per
un bel po’ distesa nel letto, a riflettere. Dovevo pensare ad
una
strategia per affrontare la nuova giornata. La mia parte razionale mi
spingeva ad essere mentalmente
pronta ad affrontare ogni situazione, compresa la
possibilità di
vedere Alex e Caroline che si sbaciucchiavano nei corridoi della
scuola. Conoscevo quella strega
abbastanza bene da sapere che quando ci si metteva era in grado di
stendere il
soggetto maschile prescelto nel giro di poche ore, e nonostante le sue
dichiarazioni di odio nei confronti delle reginette bionde e
starnazzanti, Alex
aveva già dimostrato di non sapersi comportare di
conseguenza.
La mia parte
irrazionale, invece, mi urlava di non presentarmi mai più a
scuola proprio per non dover affrontare situazioni come
quella.
Tuttavia alla fine fu
la parte razionale a vincere, pur con qualche difficoltà:
progettai un piano
mentre mi alzavo, facevo la doccia, mi vestivo, mi truccavo, e quando
uscii
diretta in cucina per la colazione avevo preso una decisione.
«Eccoti
qui!» esclamò la mamma con aria
festosa. «Buongiorno, tesoro! Dormito bene?»
Non so come, intuii
che
dovevano aver
parlato di me fino a un attimo prima, ma feci finta di nulla.
«Non c’è male»
risposi mentre sedevo al tavolo osservando la montagna di cibo che i
miei
avevano preparato per colazione. Doveva essere un tentativo di
tirarmi
su di morale, ma dubitavo fortemente che una montagna di
dolcetti al cioccolato potesse curare una delusione di quel
genere. «Wow…
Non mi ero
accorta di essermi
svegliata in un hotel a cinque stelle, stamattina».
«Tesoro, non
so se
è una buona idea»
cominciò papà.
«Che
cosa?» domandò subito Bella, l’aria un
po’ preoccupata. Si liberò del grembiule che
indossava e lo lanciò sul bancone
da lavoro.
Feci un profondo
respiro e mi
preparai a
dare la notizia. «Ho deciso che non mi importa più
niente di questa storia»
annunciai.
«Quale
storia?»
«"Il
bastardo" e
tutto quello che ha combinato».
La mamma era sempre
più confusa. Ultimamente
lo era spesso, quando parlava con me. «Il
bastardo… ?»
«È
Alex» spiegò papà con un sorrisino a
stento trattenuto.
«L’idea
è di Jas, ma io approvo» aggiunsi
prendendo un biscotto al cioccolato dalla pila alta un metro che
c’era sulla
tavola.
«Jas pensa
che non
debba importarti più
niente di Alex?» ripetè la mamma.
«No, la cosa
del
"bastardo"» intervenne
nuovamente papà.
«Ah»
fece
lei, dubbiosa. Mi fissò
in silenzio per un attimo. «Sul serio non te ne
importa?»
«Certo»
risposi scrollando le spalle.
Bella
sospirò, scuotendo la tesa.
«Tesoro… Tu non le sai dire, le bugie. Hai
preso da me».
Mi irrigidii sulla
sedia nel
giro di un secondo. «Non
è una bugia» dissi a
denti stretti.
«Non puoi cancellare con un colpo di spugna
tutto quello che è successo» intervenne
papà,
la voce ancora più vellutata del solito, come se stesse
cercando di indorare la
pillola. «Lo vorresti, ma non è così
che funziona».
«Perché
no?» chiesi con aria di sfida.
Non
mi ero aspettata quella reazione, da loro. Dover convincere anche i
miei non
faceva parte del piano e senza il loro sostegno non ce
l’avrei fatta.
«Perché
le cose sono cambiate, tu sei
cambiata, e non si può tornare
indietro».
«Ma io non
sono
cambiata».
«Renesmee, quello che è successo con
Alex è stato un passo importante».
«Andiamo,
era solo un bacio!» protestai alzando gli
occhi al cielo.
«No, era il
tuo primo
bacio» ribattè
mio padre con decisione. «Non dirmi che per te non vale
niente
perchè non è così. Minimizzarlo non ti
aiuterà a stare meglio».
Sbuffai, infastidita.
Non
mi stavano rendendo le cose più facili, affatto.
«Be', ma per lui è come
se non fosse successo un bel niente, quindi credo che mi
toccherà adeguarmi».
Cosa si aspettavano
che facessi? Che gli corressi dietro scongiurandolo
di
mettersi con me? Ridicolo.
«Dagli un
po' di
tempo» disse la mamma con
convinzione. «Alex può anche sembrare spavaldo e
sicuro di sè, ma non è detto
che lo sia davvero. Ha avuto parecchi problemi negli ultimi due anni o
sbaglio? Magari non sei la sola ad essere stata scombussolata da quello
che è
successo».
Maledizione. Come al
solito,
il tatto di
papà veniva meno sempre nei momenti meno opportuni. Aveva
riferito alla mamma
tutto quello che Alex mi aveva raccontato, parola per parola?
Evidentemente sì.
«Lo so che
sta soffrendo, ha perso i suoi genitori! Lo
capisco, ma so anche che
non gli importa molto di me o ieri non si sarebbe comportato in quel
modo.
Forse era solo… in cerca di una distrazione».
«Ma la tua
sensazione non è stata questa
quando avete fatto amicizia, quando eravate insieme a La Push, quando
ti ha
baciata» proseguì la mamma, imperterrita.
«Accidenti,
ma
c’è qualcosa che non hai
tirato fuori?» sbottai all’indirizzo di Edward,
esasperata.
«Non
cambiare
argomento» ribattè lei «vuoi
sapere come la penso, come la pensiamo?»
«No,
grazie!»
Mi ignorò e
continuò. «È evidente che
questa storia che ad Alex non importa niente di te e a te non importa
niente di
lui è solo una scusa che hai messo in piedi
perché non vuoi affrontare la
situazione. E lo stesso vale per la storia "io sono una mezza vampira,
lui è un
umano e non possiamo stare insieme". Hai paura di soffrire, di mettere
a
rischio le nostre esistenze, e ti capiamo, è normale, ma
quando si mettono in
gioco i propri sentimenti bisogna sempre essere pronti anche a perdere.
E se
non vuoi correre questo rischio, ne corri un altro ancora
più grande: quello di
rinunciare a troppe cose belle». Fece un piccolo sospiro per
prendere fiato e
sorrise. «Insomma, stare con un ragazzo che ti piace
è meraviglioso e noi
vogliamo che tu sia libera e serena come le altre adolescenti. Tutto
qui».
Scese il silenzio al
termine
della filippica
materna. «Hai finito?» domandai con aria sostenuta,
giusto per accertarmene.
«Sì,
tranquilla». Incrociò le braccia e mi
fissò, forse preparandosi a una sfuriata.
Invece rimasi
perfettamente
calma. O
almeno ci provai. «Bene. Vi ringrazio per
l’interessamento, ma temo sia la mia
opinione a contare in questa situazione, non la vostra».
«Be', sei tu
che
decidi» convenne papà.
«Mi fa
piacere che
tu l'abbia notato». Lo fulminai con lo sguardo
prima di proseguire. «Allora sarete
d’accordo anche sul fatto che se decido di piantarla la cosa
non vi riguarda, e
niente di ciò che direte potrà farmi cambiare
idea. La "parentesi Alex" finisce
qui». Feci una breve pausa, guardandoli seriamente negli
occhi e lasciando che
il messaggio penetrasse. «E anche la seduta psicoanalitica
collettiva finisce
qui» aggiunsi in tono secco.
I miei si scambiarono
un’occhiata. «Non
siamo d’accordo» disse la mamma.
Oh, mio Dio! Avrei
voluto
prendere quello
stupido piatto di biscotti e lanciarlo contro il muro.
«Be’, me ne farò una
ragione» risposi a denti stretti, cercando di
controllarmi.
Afferrai il
bicchiere di succo d’arancia e lo vuotai tutto d’un
fiato, tanto per fare
qualcosa. Il vetro tintinnò contro il legno quando lo
poggiai nuovamente sul
tavolo con troppa forza. Edward e Bella erano lì, fermi come
statue, gli sguardi puntati in direzioni diverse. Sospettai
che volessero solo evitare di guardare me.
«Si sta
facendo tardi» mormorai.
«Certo. Ti
aspetto fuori, fai con
calma» disse papà. Prese le chiavi,
baciò la mamma
sulla bocca e uscì.
Io ero ansiosa di
sfuggire agli occhi
attenti di Bella e mi alzai subito. Ma lei mi richiamò
all'istante. «Non hai mangiato nulla»
esclamò.
«Non ho
fame»
borbottai.
Lavai velocemente i
denti,
presi la borsa e stavo per uscire quando la mamma mi
intercettò.
«Ehi,
tesoro,
aspetta!». Mi raggiunse mentre
già ero sulla porta, pronta a scappare. «Sei
arrabbiata?»
Alzai gli occhi al
cielo, ma
la sua aria
preoccupata mi fece sentire in colpa. Forse avevo esagerato
nell’esprimere con
fermezza i miei nuovi propositi. «No» mugugnai.
«È solo che voglio dimenticare
questa storia e andare avanti».
Bella annuì
lentamente. «D’accordo. Se
è davvero questo che vuoi, se ne sei assolutamente sicura...
noi
siamo con te. Sempre».
Mi sforzai di
sorriderle.
«Okay. Grazie».
«Buona
giornata, tesoro. Ci vediamo stasera».
Sembrava sollevata mentre si chinava per baciarmi i capelli.
«Stasera?»
ripetei, sorpresa.
La mamma sorrise,
divertita.
«Hai proprio la
testa da un’altra parte, eh? Oggi verranno a trovarci Peter e
Charlotte. Jacob viene a prenderti a scuola e ti porta a casa
sua.
Comunque non credo che si tratterranno oltre l’ora di
cena».
Mmm. La prospettiva di
trascorrere l’intero
pomeriggio con il mio licantropo mi risollevava decisamente il morale.
«A
stasera, allora. Ciao, mamma». La salutai con un rapido bacio
e corsi fuori.
Il viaggio verso la
scuola fu
silenzioso.
Papà aveva messo un disco di Debussy, probabilmente
perché sapeva che Clair de
lune aveva un effetto calmante su di me: quando ero piccola lui e la
mamma lo mettevano sempre
per farmi addormentare. Mi appoggiai allo schienale, mettendomi
comodca, aprii un po’ il finestrino per
sentire l’aria fresca sul viso, chiusi gli occhi e cercai di
non pensare a
niente. L’arrivo a scuola fu quasi traumatico: il cortile era
affollato e
rumoroso come al solito, ma per fortuna Alex non era in vista. A un
tratto
ricordai la mattina precedente, quando avevo chiamato Alex da
lontano ma
lui… A quel punto potevo pensare solo che avesse finto di
non sentirmi. Mi accorsi
che papà aveva spento il motore e mi fissava.
«È
dura,
vero?» chiese a bassa voce. «Far
finta di niente. Far finta che non ti importi». Sospirai,
tornando a guardare
fuori dal finestrino, e non risposi. «Non voglio che tu
soffra» aggiunse. Il
suo tono malinconico fu come un rimprovero per me: volevo cercare di
stare
bene e invece non solo stavo avendo scarso successo, ma facevo star
male anche
i miei.
Complimenti,
Renesmee.
«No, non
pensare a noi. Pensa a te stessa».
«Che
alternative ho?» sbottai con voce
amara. «Lui non vuole più stare con me,
è evidente. Cosa dovrei fare,
deprimermi per questo? Io non sono così. Io voglio essere
forte e non voglio
dargli la soddisfazione di avermi ferita tanto. Forse se faccio finta
che non
me ne importi niente, prima o poi sarà davvero
così».
Papà
esitò prima di rispondere.
«A volte
capita di far soffrire le persone a cui si tiene anche se non si
vorrebbe. A
volte fare la scelta giusta è difficile quando sono
coinvolti i
nostri
sentimenti e quelli di qualcuno che amiamo».
All’improvviso, distolse lo
sguardo da me e lo puntò fuori dal parabrezza, sulla
vegetazione
fradicia di
pioggia che circondava la scuola. Lo fissai, curiosa, ma i suoi occhi
erano
impenetrabili. Chissà se parlava anche di se stesso.
«Sono
sicuro che Alex non voleva ferirti» aggiunse dopo un attimo
di
silenzio.
«Non lo
so» ammisi, a disagio. «Secondo me
quando si tiene sul
serio
a qualcuno
è impossibile fargli del male, volontariamente o
involontariamente. Ed è
impossibile non sapere che decisione prendere. Io saprei cosa fare se
lui…». Non finii la frase e tacqui, imbarazzata.
«Alex
è
un ragazzino» sottolineò Edward con
un sorriso.
«Perché,
io no?»
Ridacchiò,
divertito. «Amore, tu leggevi
Tennyson a quattro settimane di vita. Tu
sei speciale».
«Anche Alex
è speciale» borbottai.
«Sai cosa
voglio
dire. Dagli tempo, Renesmee».
Dio, tutti non
facevano altro
che ripetermi la
stessa cosa dal giorno prima, anche Jacob. Come se Alex fosse un
elettrodomestico in prova o
qualcosa del genere. Edward rise ancora ascoltando i miei pensieri.
«Vado»
dissi. Aprii la portiera, poi
mi
venne in mente una cosa. «Ah, saluta Peter e Charlotte per
me.
Digli che mi
dispiace di non poterlo fare di persona e che questa stupida idea
di nascondermi non è stata mia». Gli
lanciai
un’occhiataccia eloquente.
Lui non smetteva di
sorridere
anche se aveva
l'aria leggermente colpevole. «Lo farò. Buona
giornata,
piccola». Mi accarezzò il
viso con una mano, poi la ritrasse per farmi scendere.
****
Quella
mattina fui più fortunata della
precedente e vidi l’oggetto delle mie ossessioni solo due
volte. La prima
durante la solita assemblea mensile. Era seduto accanto a Caroline e
quando li
notai ebbi l’impressione che il cuore mi si fermasse, in
barba a tutti i miei
buoni propositi. Lei chiacchierava a tutto spiano (forse per arrivare a
sedurlo
intendeva prima stordirlo, chissà) e a intervalli di circa
trenta secondi la
sua risata simile a un nitrito giungeva fino a me.
Mi
imposi di non guardarli,
ma ogni tanto gettavo una rapidissima occhiata in quella direzione per
accertarmi che non avessero cominciato a baciarsi e notai che lui non
guardava Caroline né sembrava troppo interessato ad
ascoltarla: i suoi occhi
vagavano per l’aula magna, come cercando qualcosa o qualcuno,
inquieti e
stranamente un po’ ansiosi; poi si voltava un istante verso
la sua compagna,
sorrideva e le diceva qualcosa sotto voce, e lei annuiva tutta
accalorata e
ricominciava a blaterare, mentre Alex tornava a girare gli occhi
tutt’intorno,
di nuovo distratto. Chissà che cavolo stavano combinando,
quei due. Io mi ero
sistemata in ultima fila, volutamente nascosta tra le mie amiche e un
rumoroso
gruppetto di cheerleaders chiacchierine, e mi parve che Alex non
guardasse mai
verso di me. Perfetto.
La
seconda volta che lo vidi
fu in mensa,
durante la pausa. Pranzò con i suoi amici e questa volta
Caroline si tenne alla larga, ma ogni tanto la sorprendevo a lanciargli
un’occhiata di sbieco.
Sembrava infastiditca, come se le cose non
stessero andando proprio secondo i suoi piani, questa volta.
L’arrivo di
Alex stava alterando gli equilibri della Forks High, nonché
quelli
della mia esistenza, ma lui sembrava non accorgersene affatto. O forse
non gli interessava.
Alex
guardava ovunque senza
soffermarsi su niente. Parlava con tutti, ma era sempre distratto e
lontano. Era seduto lì, ma la sua mente vagava altrove. Si
estraniava dalla realtà, ma era bravo a fingere che non
fosse
così. Era
sempre circondato da persone, ma si comportava come se fosse solo. Da
quando si era aperto
con me, sulla spiaggia, capivo i motivi di quella fuga. Capivo il suo
dolore, il suo desiderio di cose e luoghi lontani, la tentazione di
tornare con
la mente a un passato felice e sereno. E per quanto mi sforzassi, non
riuscivo
a non pensare a lui. Alex restava la mia ossessione, nel bene e nel
male.
E
le mie amiche lo capivano
perfettamente. Quella mattina, quando avevo annunciato che chiudevo la
"parentesi
Alex" e che non volevo più parlarne, dopo un attimo di
sorpresa si erano
dichiarate tutte d’accordo e avevano giurato e spergiurato di
non nominarlo mai
più. Danielle mi aveva guardata con aria perplessa, ma non
aveva detto nulla, e
Jas non aveva fatto che parlare a raffica di un sacco di argomenti
diversi per
tutto il tempo, anche se ogni tanto la maschera allegra si rompeva e mi
lanciava
un’occhiata triste.
Io
ci provavo davvero. A volte riuscivo a
distrarmi talmente da scordarmi di Alex per un po’, ma solo
un pochino:
bastava un niente che si collegasse a lui ed ecco che
ricominciavo a
rimuginare.
Fu
una mattina faticosa.
Fingere che andasse
tutto bene quando avrei voluto solo ficcare la testa sotto
la sabbia era molto più impegnativo di quanto credessi.
L’unica nota positiva fu che l’ultima campanella
suonò con un quarto d’ora di anticipo a causa di
un falso
allarme incendio. La
scolaresca si riversò in cortile, felice di avere quindici
minuti da passare senza fare nulla, e il mio gruppetto non faceva
eccezione.
Mentre
chiacchieravamo del più e del meno e guardavamo Tom
e Scott che dopo aver sottratto a Maggie il suo ipod si divertivano a
lanciarselo a vicenda, mentre la povera vittima dello scherzo strillava
infuriata
correndo dall’uno all’altro nel tentativo di
riprenderselo, riuscii a distrarmi
sul serio per un po’.
Quando
vidi arrivare la macchina di Jacob saltai impaziente
giù dallo schienale della panchina dove mi ero appollaiata e
salutai
velocemente gli altri. Jas mi diede un buffetto sulla testa e sorrise.
«Chiamami,
stasera.
Mi raccomando» disse
con tono quasi minaccioso.
Ricambiai
il suo sorrisino. «Agli ordini! Ciao, J».
Il
mio amico era sceso
dall’auto e mi
aspettava appoggiato allo sportello. Il solo vederlo mi diede una
scarica di energia, quasi corsi verso di lui e lo abbracciai con
slancio. Lui mi strinse affettuosamente tra le braccia, il
mio
rifugio sicuro dal mondo esterno.
«Ciao,
Raggio di Sole» sussurrò tra i
miei
capelli.
Girai
la testa con un sospiro
soddisfatto,
poggiando la tempia sul suo petto, e lo vidi: Alex, seduto sul bagagliaio
della sua
Audi luccicante, appoggiato su un gomito, una sigaretta accesa tra
le labbra, che mi fissava. Avrei
potuto
semplicemente ignorarlo e voltargli le spalle, se davvero avessi voluto
chiudere quella storia. Sarebbe stato come sbattergli la porta in
faccia. E invece qualcosa nel suo viso mi colpì,
costringendomi
ad osservarlo meglio. Aveva la fronte leggermente contratta e gli occhi
socchiusi, e l'espressione era così stranamente fredda che
ne
fui sconcertata. E ferita, soprattutto. Non mi aveva mai guardato con
quella gelida indifferenza. Sentii gli occhi che bruciavano e dovetti
sforzarmi di mantenere il controllo.
«Ehm…
sembra che abbiamo un pubblico» disse
Jake all’improvviso, la bocca accostata al mio orecchio.
Per
un attimo pensai che
avesse visto Alex,
ma quando seguii la direzione del suo sguardo capii che non si riferiva
a lui. Stava guardando il mio gruppo dietro di noi, a diversi metri di
distanza: Tom e Paul lo fissavano con una buffa mescolanza di astio e
ammirazione, Danielle e Maggie
avevano gli occhi sgranati e le guance arrossate, e Holly, lo sguardo
sconvolto
puntato su Jacob, sembrava la caricatura di una con la bava alla bocca.
Mi scappò un sorriso divertito misto ad imbarazzo.
Quando
il mio migliore amico era nelle vicinanze le loro
facce erano più o meno sempre quelle. Jas era la
più
abituata a Jacob, tra loro. Durante gli
innumerevoli pomeriggi che passava a casa mia lo aveva incontrato
tantissime
volte e qualche tempo prima gli aveva fatto una corte spietata. Era stato come
assistere a un
documentario intitolato "Cento e uno modi per conquistare un ragazzo".
Solo che
nessuna delle sue tattiche era andata in porto e dopo un po’
si
era rassegnata,
anche perché nel frattempo Tom aveva cominciato a
tormentarla
perché uscisse
con lui. Per quanto la mia amica fosse carina, brillante e disinvolta,
Jake non
si sarebbe mai messo con una tanto più piccola di lui, ed
era
rimasto
completamente indifferente alle magliette scollate, alle gonne corte,
agli sguardi
e ai sorrisi significativi di Jas. Sempre gentile e simpatico, ma
indifferente.
Per fortuna lei non c’era rimasta troppo male e l'aveva
dimenticato in fretta,
grazie a Tom.
Quanto
a me, ero rimasta
più o meno attonita
per tutta la fase del corteggiamento, poi avevo tirato un sospiro di
sollievo
quando finalmente il pericolo era scomparso all’orizzonte.
Non che volessi
separali, ma non ce li vedevo proprio insieme.
«Okay,
credo sia
meglio andare prima che
Holly ti salti addosso» mugugnai.
Jacob
sembrava estremamente
divertito. «Sali».
Mentre
lasciavamo il parcheggio evitai
accuratamente di guardare verso Alex e forse lui fece lo stesso.
«Allora…
Com’è stata la giornata?»
cominciò
Jacob. Aveva un tono tranquillo, ma anche piuttosto cauto.
«Passo»
risposi in fretta.
«Dai,
dimmi
qualcosa. Sto morendo
di curiosità».
«Be’,
se
proprio ci tieni è stata schifosa
da far paura».
«Vuoi
dire che il
nuovo arrivo
della Forks High continua a fare l’idiota?»
insistè. Cercava di mantenerla
sullo scherzo, ma avvertivo una leggera tensione.
«Eccome»
borbottai. «Fare l’idiota è la sua
specialità».
Il
suo sguardo si
indurì. «Ti ha
trattata male?» indagò.
Oddio,
ci mancava solo questa! Tra Jacob e
zio Emmett, Alex rischiava seriamente di non arrivare ai diciassette
anni. «No!»
esclamai, allarmata. «Mi ignora, tutto qui. Mi ignora e se ne
sta appiccicato a
quella squallida di Caroline Johnson. Il che forse è anche
peggio» aggiunsi con
voce mesta. «Se almeno mi parlasse
capirei cosa gli passa per la testa. Così è come
tirare a indovinare». Ripensai
al suo sguardo di poco prima: poteva significare tutto e niente.
«Brancolo nel
buio, Jake, e la cosa non mi piace. Io voglio certezze».
Ovviamente
eravamo finiti subito a parlare di lui, e tanti saluti ai
miei fermi propositi di voltare pagina. Fingere con il mio migliore
amico era impossibile.
«Forse
è
il caso che gli alieni lo rapiscano
di nuovo e poi lo rimandino qui. Magari torna com’era
prima».
Non
riuscii a trattenere una
risatina leggermente isterica, poi tirai un respiro profondo.
«Sai, in teoria
stamattina avevo preso una decisione».
«Bersagliarlo
con
uova marce?»
«No.
Avevo deciso di non parlarne
più e di dimenticarlo».
«Sì,
tua madre mi ha informato» rispose
con
aria tranquilla.
Ma
certo! Come avevo potuto
dimenticare che
i miei genitori e il mio migliore amico se l’intendevano
così bene da parlare
continuamente di me alle mie spalle?
«Non
mi va che voi
tre vi passiate
informazioni su di me come se foste una squadra di controllo o roba
simile» sibilai, infastidita.
«Non
cominciare con
questa storia. Comunque
non è una cattiva idea».
«No?»
Alzò
le spalle.
«Insomma, stare
continuamente a pensarci non ti fa bene, o sbaglio?»
Non
risposi, ma non
sbagliava. Quella precedente era stata una delle giornate
più tristi della mia breve esistenza ed io non ero
affatto abituata ad affrontare quegli stati d'animo. Le
mie giornate erano sempre state chiacchiere, affetto, scherzi e risate,
mai una
delusione o un dispiacere. Mi rendevo conto di essere una privilegiata,
ma non
mi andava che le cose cambiassero. Jacob interpretò
correttamente il mio
silenzio.
«Smettila
di tormentarti, non ha senso. È Alex ad
avere
qualche problema, non tu, quindi lascia che sia lui a risolverlo. E
quando si
sarà chiarito le idee, forse tornerà da te e ti
chiederà scusa».
Riflettei
un istante su quello
che aveva
detto e lo trovai giusto. «Non la reggi più,
questa storia, eh?» lo presi in
giro.
Be’,
se si fosse stufato l’avrei capito. Io e Jas
ci mandavamo
reciprocamente al diavolo parecchie volte al giorno, forse
anche la pazienza di Jacob aveva un limite, anche se fino ad allora non
l’avevo mai visto.
Sorrise,
ma quando
parlò la sua voce era
seria e intensa. «No, è che non sopporto di
vederti star male».
Il
mio Jacob… Non
potevo credere di essere
così fortunata da avere un amico del genere.
«Cambiamo argomento, allora. La tua
giornata com’è stata?»
Fece
una leggera smorfia.
«Stamattina presto
ho lavorato un po’, poi sono stato di ronda insieme a Tommy e
abbiamo
incrociato Paul e Jared che facevano un giro di controllo. Paul ha
attaccato
briga con Tommy per una sciocchezza e hanno cominciato a…
be’, puoi
immaginartelo».
Certo
che potevo. Qualche volta mi era
capitato di assistere a scene del genere prima che Jacob mi trascinasse
via,
iperprotettivo come al solito: un paio di enormi lupi che si
azzuffano in mezzo ai boschi. Paul e Tommy erano i protagonisti per
eccellenza di quegli episodi.
«Ancora?»
mormorai. «Si sono fatti male?»
Jacob
ridacchiò.
«No, figurati. Qualche
graffio, ma ormai sarà già andato via. Si sono
calmati subito, è solo che Paul è
sempre troppo su di giri e Tommy pensa ancora di essere diventato una
specie
di supereroe e non è facile fargli abbassare la
cresta».
«Immagino
che sia
stato così per
tutti, all’inizio».
«Certo,
certo.
È una fase, passerà. Mi
auguro che passi in fretta, però, o prima o poi quei due si
staccheranno la
testa a vicenda».
«Sam
farà
una delle sue strigliate a Paul
appena lo verrà a sapere» dissi.
«Ci
puoi giurare.
Loro due scherzano, è
vero, ma per Sam i rapporti tra i due branchi sono
fondamentali».
«In
teoria
dovrebbero esserlo anche per te.
Sei o non sei l’altro alfa di La Push?» lo provocai
sorridendo.
«Mi
piace pensare di
essere un alfa un po’
fuori dal comune» rispose, divertito. «Per fortuna
c’è Sam che fa la parte
dell’adulto».
Sapevo
che stava solo
scherzando: quando si
trattava del suo branco, Jacob diventava molto più
protettivo e maturo di quanto
sembrasse. Guardai la strada immersa nei boschi che stavamo
percorrendo.
«A
parte queste sciocchezze, però, le cose sono molto
pacifiche» esclamai
all’improvviso. «Insomma, capita spesso che ci
ritroviamo
tutti insieme, il tuo
branco, quello di Sam, i miei, ma non c’è mai
nessun
problema». A parte Leah che metteva il broncio, ma questo non
lo
dissi. «È bello».
Il
mio amico sorrise guardando
davanti a sè.
«È vero, ma è praticamente merito
tuo».
Mi
voltai a guardarlo,
sorpresa. «In che senso?»
«Be’,
tu
sei… adorabile, tutti ti vogliono
bene». Esitò, forse cercando le parole
più adatte. «È come se tu
fossi… la
colla che ci tiene insieme».
La
colla che li teneva
insieme? Cavolo, che
responsabilità. Imbarazzata, cercai di spostare la
conversazione altrove. «Ehm…
Sai, non ho mai capito bene com’è che si sono
formati due branchi».
Le
sue mani si irrigidirono
leggermente sul
volante. «È un po' complicato
da spiegare» disse dopo un attimo di silenzio. «Ma
lo sai già: è successo dopo
il matrimonio dei tuoi genitori, quando tua madre aspettava
te».
«Lei…
stava male, vero?» mormorai, esitando.
Detestavo
pensare a quello. Lo
evitavo sempre. E per i miei era la stessa cosa, infatti non ne avevamo
mai
parlato molto. Potevo capire che non fosse un bel ricordo.
«Sì,
è vero. Edward era
preoccupato per
lei e aveva deciso di trasformarla subito dopo la tua nascita,
come poi è
stato. Ma se l’avesse morsa e le avesse iniettato il suo
veleno
avrebbe
infranto il patto e questo avrebbe portato a una guerra».
Tacque. Sembrava
vagamente a disagio, ma non dissi nulla e aspettai che continuasse.
«Sam decise
che se questo fosse accaduto noi li avremmo attaccati, ma io non
volevo. Non
ero d’accordo. Insomma, tua madre era la mia migliore amica.
Nemmeno gli altri
erano felici all’idea di attaccarla, ma sai
com’è
fatto Sam: per lui il dovere
di proteggere la riserva viene prima di tutto. Così ho
lasciato
il branco e
uno alla volta gli altri si sono uniti a me. A quel punto tuo padre mi
chiese il permesso di trasformare Bella per
salvarla. Hai presente quella storia dell'erede di Ephraim Black, il
gene dell'alfa, eccetera eccetera? Io dissi di sì, e quando
tutto fu finito Sam dovette riconoscere che
ne avevo il diritto e non scoppiò nessuna guerra. Rinnovammo
il
patto con la
tua famiglia, e così eccoci qui».
Si
voltò e mi
rivolse un sorriso rapido. Io
lo ricambiai, riflettendo. «Non deve essere stato un periodo
facile per
nessuno di voi. Soprattutto per te» osservai. Potevo capire
il suo nervosismo, così
come capivo la tensione dei miei quando sfioravamo per caso
l’argomento.
«No,
non lo
è stato» mormorò.
«E
non vorresti mai
che le cose fossero
andate diversamente?» insistei, spinta dalla
curiosità. Mi sentivo meno in
colpa a parlarne con lui piuttosto che con i miei. Dopotutto, il suo
coinvolgimento in quella storia era limitato. «Insomma, ieri
mi hai detto che
pensi di aver sempre seguito il tuo cuore e che non ti penti di nulla:
vale
anche per questo?»
Lui
ci pensò un
istante. «Credo di
non aver
mai seguito il mio cuore come in quei giorni» rispose con
tono
molto serio. «E se c’è qualcosa che non
ho alcun
desiderio di cambiare è
proprio quello che è successo allora».
Non
avevo idea del
perché, eppure provavo
ancora una volta la familiare sensazione di essermi persa qualcosa,
come se
avessi saltato una puntata del mio telefilm preferito. «Ma la
mamma mi ha sempre detto
che tu non volevi fare il capo. Che non ti interessava».
Jacob
fece un sospiro lieve.
«Nessie, io non
ho scelto di essere un alfa. Quando me ne sono andato dal branco di Sam
non
volevo questo. Quello che volevo era impedire che attaccassero la tua
famiglia
perché non mi sembrava giusto. E poi avevo intenzione di
andarmene un po’ per conto
mio». Si interruppe di nuovo per qualche secondo come se
stesse riflettendo, e
di nuovo io attesi. «Sì, ecco cosa volevo: andare
via da qui. Insomma, attraversavo una specie di crisi
adolescenziale». Accennò un sorriso ironico e il
suo volto si
distese mentre lo fissavo con attenzione. «Ma poi sono
successe delle cose…
cose che non avevo previsto. Seth mi è venuto dietro, e poi
Leah, e poi Quil ed
Embry, ed io avevo il gene dell’alfa. Prima che me ne
rendessi conto
avevo il mio branco».
«È
successo e basta, quindi» aggiunsi,
tirando le somme del suo discorso.
«Fare
il capo non
è così male, comunque»
osservò dopo un istante di silenzio.
«Ci
credo»
esclamai. «Dare ordini a destra e
a manca deve essere forte. In compenso, però, devi tenere a
bada Tommy e
impedire che Paul lo trasformi nel tappeto di casa sua».
Jake
scosse la testa,
divertito. «A volte
non sai quanto mi piacerebbe essere un giovane licantropo appena
trasformato
che ha la giustificazione buona per andare fuori di testa».
«Eh,
sì,
l’anzianità ha anche i suoi
svantaggi, immagino» commentai con un sorrisino.
Lui
arricciò il
naso. «L’anzianità? È vero
che sono stato tra i primi a trasformarmi
ma non esageriamo».
All’improvviso
mi colpì un’idea. «Ehi, adesso che ci
penso» cominciai senza riflettere «tra
quelli che si sono trasformati prima tu sei l’unico che
ancora non ha trovato
la sua anima
gemella».
Accompagnai le
due ultime parole tracciando in aria delle virgolette immaginarie con
le mani.
«Che aspetti a farti venire
quest’imprinting?»
Ridevo
sotto i baffi e credevo
che anche lui
la prendesse come uno scherzo. In effetti sorrise, ma sembrava a
disagio.
«Be’,
lo
sai che non è una cosa volontaria».
«Sì,
ma
forse potresti… dargli una piccola
spinta, ecco. Non c’è nessuna ragazza che ti
piaccia? Non c’è nessuna con cui
vorresti uscire?»
Non
era un argomento che
affrontavamo spesso. Lui non sembrava mai interessato a nessuna e
quindi non
c’era mai l’occasione di affrontare la cosa
seriamente. In genere, io mi
limitavo a prenderlo in giro per la storia di Jas e per le occhiate
interessate che gli lanciavano le
ragazze della riserva. La sua espressione divenne seria
di colpo.
«No,
nessuna».
«Non
è
possibile!» esclamai, un po’
sconcertata. «Seth mi ha detto che ben due ragazze ti hanno
fatto una corte
spietata, negli ultimi mesi, e tu le hai ignorate completamente.
Perché? Non dico
che tu debba per forza avere l’imprinting, so che non succede
sempre, ma
intanto potresti cominciare a vederti con qualcuna. E
chissà, potresti anche
innamorarti semplicemente. Leah non ha avuto l’imprinting, ma
esce con un sacco
di ragazzi diversi».
Rimase
in silenzio per un
po’, tanto da
farmi sospettare che l’avesse presa male. Poi mi
lanciò un’occhiata maliziosa.
«A quanto pare le ragazze di La Push si danno da fare tanto
quanto quelle di
Forks» rispose.
Ebbi
la netta impressione che
stesse sviando
le mie domande, ma decisi di non insistere. Forse non gli andava di
parlarne e non volevo costringerlo.
«Molto
gentile,
quest’allusione ad Alex»
borbottai in tono acido.
Mi
voltai a guardare fuori dal
finestrino,
riflettendo sulle cose che mi aveva appena detto. Dalle parole di Jacob
sembrava proprio che non lo volesse, l’imprinting. Ma
perché no? Sembravano
tutti così felici: Sam ed Emily, Paul e Rachel, Jared e Kim,
persino Quil e
Claire erano inseparabili. A vederli sembrava che
l’imprinting
fosse la cosa migliore che
potesse succedere. Allora come mai Jacob sembrava quasi spaventato
dall’idea che arrivasse anche per lui? Se fosse successo
avrebbe trovato la sua perfetta metà, la persona fatta per
lui,
capace di
renderlo felice sempre…
In
quel momento fui colta da
un dubbio, un
dubbio atroce: se l’imprinting fosse finalmente arrivato, lui
mi avrebbe voluta
ancora accanto a sé? Sarei stata ancora la sua migliore
amica o mi avrebbe
sostituito con la
prescelta? E
se
avesse avuto l’imprinting con una bambina, come Quil? Non
avrebbe fatto altro
che correrle dietro, giocare con lei e farsi tiranneggiare in tutti i
modi
possibili e immaginabili, proprio
come Quil. Ed io? Sapevo quanto bene mi volesse, ma conoscevo anche la
potenza
del colpo di fulmine dei licantropi: dopo,
niente e nessuno avrebbe mai contato più di lei. Compresa me.
Ed io avrei perso il mio Jacob.
Alla
sola idea mi sentii mancare
il fiato e dovetti sforzarmi di respirare. Jake mi lanciò
un’occhiata, ma non
parlò. Forse anche lui si era posto quelle stesse domande,
ecco il motivo per
cui non voleva affrontare l’argomento con me. Non voleva
ferirmi. Eppure io ero la sua
migliore amica, e lo sarei
stata per sempre, anche se un giorno lui si fosse allontanato da me.
Avrei
trovato il modo di restargli vicino comunque. Se l’imprinting
doveva essere
parte della sua vita, io non volevo esserne tagliata fuori.
«Mi
fai una
promessa, Jake?» domandai a
bassa voce.
«Tutto
quello che
vuoi» rispose con
semplicità. Mi accorsi che il mio lungo silenzio lo aveva
preoccupato un po’.
«Quando
arriverà voglio saperlo» mormorai, ancora presa
dai miei pensieri.
«Quando
arriverà che cosa?»
«L’imprinting.
Insomma, non voglio che tu
pensi che io potrei non esserne felice per qualche motivo. Ti
capirò se dopo
che sarà successo avrai meno tempo da passare con me, meno
attenzione da
dedicarmi. Non importa, voglio solo che tu sia sempre sincero con
me».
Mentre
parlavo, vidi le sue
mani serrare la
presa sul volante e il suo colorito diventare più chiaro, il
suo sguardo farsi
di ghiaccio. Era di nuovo teso e non rispose subito, ed io vidi
confermate le
mie paure: avevo visto giusto, il problema era quello. Ma lui restava
zitto.
«Jacob?»
lo chiamai, perplessa.
«D’accordo»
disse all’improvviso con tono
rigido. «Va bene, te lo prometto, se vuoi. Ma… non
devi preoccuparti di questa
storia, Renesmee, credimi. Non cambierà mai niente tra
noi».
«Se
lo dici tu, mi
fido».
Gli
sorrisi e l’atmosfera si distese velocemente. Mi girai di
nuovo verso il
finestrino, ancora riflettendo sulla faccenda e chiedendomi se da quel
momento
avrei passato le mie giornate nel timore che il paventato evento si
verificasse, e mi resi conto di dov’eravamo. «Ehi,
mi sa che abbiamo passato
casa tua». Ci eravamo distratti un po’ troppo.
Jacob
sembrò trattenere a stento una risata,
l’aria vagamente colpevole. «Ehm… Lo
so».
Lo
guardai, sospettosa.
«E come mai?»
Sospirò.
«Prima che andiamo da me dovrò
lasciarti in un posto per un po'. Faccio un giro rapido di ronda e poi
voglio
organizzarmi con Sam per i turni di domani».
«Ma
il tuo turno
l’hai fatto stamattina»
obiettai.
Teneva
lo sguardo fisso sulla
strada, per
sfuggire ai miei occhi indagatori, ne ero certa. «Devo solo
sistemare un paio
di cosette. Ci metto poco, giuro».
Uhm.
D’accordo.
«E comunque dove vorresti…».
Prima che potessi finire da domanda, la strada che avevamo imboccato mi
fornì
la risposta. «Oh, no, Jake».
Non
si arrischiò a
guardarmi. «Leah non è in
casa, è di turno al lavoro oggi. Almeno
credo».
Da
un paio d'anni Leah lavorava part time in in negozio di
giardinaggio a Forks.
«Che
c’entra?» sbottai, infastidita.
«Non
sono un pacco postale! Già non mi va di dovermi nascondere
da due amici di
famiglia e di essere spedita di qua e di là! E per giunta devo essere spedita proprio dai Clearwater?»
«Primo:
non
è colpa mia se i due amici di
famiglia
sono potenziali
assassini. Secondo: Leah non c’è, ti ho
detto».
«Non
mi interessa!
Mi odia e non le fa
piacere quando sto a casa sua».
Incrociai
le braccia,
imbronciata. Ero consapevole
di comportarmi come una bambina piccola e capricciosa, ma…
be’, erano
sempre loro
a trattarmi per primi in questo modo, quindi tanto valeva fare sul
serio la bambina piccola e capricciosa.
«Non
dire
sciocchezze, non ti odia».
Sì,
come no. La sua
risposta era sempre
la stessa quando finivamo a discutere di Leah e del suo atteggiamento
da odio-il-mondo-intero. La capivo, sapevo cosa aveva
passato, ma ero convinta
che dovesse pur esserci un motivo particolare per guardarmi in quel modo: come se le avessi fatto un
grosso dispetto o a volte con un’irritante aria
interrogativa. Non che fosse
particolarmente sgarbata con me, ma il suo sguardo da solo era
sufficiente a
mettermi a disagio. Peccato che a Jake la cosa non importasse
granché.
«È
il
posto più vicino che mi è venuto in
mente e Seth è disponibile» continuò.
«Gli altri o sono di
ronda o se non lo sono chissà che diavolo stanno
facendo».
«Ma
perché non posso semplicemente stare a
casa tua?» chiesi a denti stretti.
«Da
me
c’è soltanto Billy».
«E
allora? Potremmo
finire la partita a
carte che abbiamo lasciato in sospeso l’altra
volta».
Quando
ero a casa di Jacob io e il vecchio Billy giocavamo spesso a carte
mentre lui mi raccontava vita, morte e
miracoli di
ogni singolo abitante di La Push. Ogni volta lasciavo
casa Black con
la testa intasata dai pettegolezzi, ma Billy mi viziava da fare schifo,
anche
più di tutti gli altri messi insieme. E in ogni caso
preferivo
di gran lunga
una mezz’ora di chiacchiere a tutto spiano alla
possibilità che Leah tornasse a casa da un momento all'altro
e
mi trovasse lì.
La
risposta di Jacob fu
categorica. «Non ti
lascio da sola: c’è una coppia di succhiasangue in
giro da queste
parti, anche se per te sono amici di
famiglia».
Il tono con cui pronunciò le
ultime parole, a metà fra lo
scherno e l’incredulità, mi infastidì
ancora di più. «Con Seth sarai al
sicuro»
aggiunse.
«Ancora
con questa
storia?» sbottai,
esasperata. «Peter e Charlotte mi conoscono benissimo, anche
se dovessi
incontrarli non mi farebbero mai niente!»
«E
vuoi che io mi
affidi all’umore di due
succhiasangue? Non se ne parla».
Era
così deciso che
mi vidi costretta a
rinunciare, sospirando. «Oddio, sei impossibile. Come i
miei» protestai a bassa
voce. «E comunque sarei io
a dovermi
affdare al loro umore, non tu».
«E
che differenza
fa?» chiese tranquillamente.
Voltai
la testa verso
l’esterno per nascondere
il mio sorriso e non fargli capire che con due semplici parole era
riuscito a
farsi perdonare. Giocava sempre fin troppo facile con me, grazie alla
sua
misteriosa capacità di dirmi sempre la cosa giusta. Scese il
silenzio; se
avessi parlato io per prima mi sarei tradita subito. Ma Jacob
poté resistere
solo pochi secondi.
«Ehi,
sei arrabbiata
sul serio?» chiese con
voce preoccupata. «Mi farò perdonare, te lo
prometto».
«Vedremo»
risposi con tono volutamente
scettico, come se non potessi pensare di perdonarlo davvero dopo un
torto simile, e gli lanciai
un’occhiata divertita.
Lui
ricambiò il
sorriso, sollevato, mentre
fermava la macchina davanti al vialetto dei Clearwater. «Ci
vediamo tra una
mezz’ora. Divertiti» disse con un lampo
d’ironia nello sguardo.
«Sarà
uno
spasso» esclamai, fingendo
entusiasmo. Scesi dall’auto, lanciando un’occhiata
alla casetta che mi
aspettava. Poi guardai significativamente Jacob, la mano ancora sullo
sportello. «Mezz’ora» ribadii, categorica.
Non
era tanto il fatto di
dover stare dai
Clearwater a scocciarmi, quanto il fatto di essere spostata da una
parte
all’altra, scaricata lì come un pacco e poi
ripresa. Già non sopportavo l’idea
di dovermi nascondere da Peter e Charlotte quando tutta la mia famiglia
li
avrebbe incontrati: era una delle occasioni in cui la distanza che ci
separava
mi appariva insuperabile.
«Lo
so che non puoi
stare senza di me»
esclamò Jake con il sorriso furbo simile a un ghigno che
sfoggiava quando
si faceva beffe di me.
«Sparisci»
sbottai fingendomi indispettita.
Chiusi
lo sportello con un tonfo e corsi lungo il vialetto, ascoltando
il rumore
di un tuono lontano. Si preparava un bel temporale a giudicare dal
cielo
grigio piombo e dai brontolii che ogni tanto si facevano sentire.
Bussai alla
porta, ansiosa di avere un tetto sulla testa (sì, persino
quello
dei Clearwater), mi voltai e vidi Jacob ancora lì ad
aspettare
che entrassi, come
sempre. Chissà, forse temeva che Peter e Charlotte
sbucassero
fuori da dietro
un cespuglio per saltarmi al collo. Gli dedicai una bella linguaccia,
certa che
avesse ancora quel sorriso sornione, anche se gli alberi circostanti,
le folte
chiome agitate dal vento, si riflettevano sul parabrezza impedendomi
di
scorgere il suo viso.
Sentii
lo scatto della porta
alle mie spalle. Mi voltai e… per poco non mi venne un
colpo.
«Ciao,
Leah» esclamai, cercando di conservare
un’espressione neutra.
Lei mi fissò un
istante, poi mi sorrise. Un sorriso un po' tirato, ma comunque un
sorriso. «Ciao.
Tutto okay?»
«Sì,
certo. Ehm... Credevo che tu fossi al lavoro»
buttai lì casualmente.
«Il
mio turno è cambiato all'ultimo momento, comincio
più tardi».
Si fece da parte per lasciarmi
passare. La solita, vecchia Leah. Gentile ed educata quel tanto che era
necessario, senza lasciar trapelare quasi mai il suo lato simpatico e
divertente che a detta di Jacob esisteva eccome, sepolto sotto una
valanga di sarcasmo e occhiatacce, nè quel sorriso luminoso
e bellissimo che ricordavo di averle visto, qualche volta.
Mentre varcavo la soglia con
la strana sensazione che fosse meglio tornare indietro, sentii l'auto
di Jacob che ripartiva. Se la dava a gambe, ovvio. Se fosse rimasto un
secondo di più, altro che una linguaccia... gli avrei
lanciato una scarpa.
Note.
1. Qui
la canzone.
Spazio autrice.
E allora, che ne pensate di
questo capitolo dieci? Non posso credere di essere già
arrivata fin qui, mi sembra di aver cominciato a pubblicare solo
qualche giorno fa.
Un piccolo chiarimento.
Leggendo la conversazione tra Jake e Renesmee a proposito degli eventi
durante la gravidanza di Bella, i contrasti tra i licantropi e la
famiglia Cullen, etc., sicuramente avrete notato che Jacob omette
parecchie cose. Renesmee conosce una versione "semplificata" della
verità perchè alcune cose le sono state nascoste
dalla sua famiglia. In parte cio è dovuto al fatto che lei
non sa dell'imprinting e questo le impedisce di essere a conoscenza di
molti altri dettagli collegati ad esso, ma in sostanza il desiderio di
Edward e Bella è sempre stato soltanto uno e cioè
nasconderle qualunque cosa potesse ferirla. E qui non mi riferisco
soltanto all'imprinting.
Forse questo discorso
sembrerà un po' sibillino, ma (piccolo spoiler!) nel
prossimo capitolo ci sarà una svolta significativa e da quel
momento in poi tutto inizierà a diventare più
chiaro, per Renesmee e spero anche per voi.
In ogni caso per qualunque
domanda, dubbio, incertezza o perplessità, sono a vostra
disposizione ^^. Ringrazio tutte le persone che seguono la storia e
recensiscono, e mi raccomando, fatevi sentire anche voi lettori
silenziosi! (Se ci siete! xd)
|
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Capitolo 11 *** Apocalypse please ***
Capitolo 1
Capitolo
11
Apocalypse please
Declare
this an emergency
come
on and spread a sense of urgency
and
pull us through
and this is the end
this
is the end
of
the world.
Apocalypse
please, Muse¹
La verità è sempre
disumana.
ALESSANDRO BARICCO, Oceano
mare
«Ehi, Raggio di
sole!»
Seth arrivò a passo svelto
nell’ingresso e si chinò per baciarmi sulla
guancia.
«Ciao, signor baby
sitter» risposi con tono
infastidito.
Scoppiò a ridere.
«Baby sitter? Con questo
soprannome strazierò i cuori delle ragazze
di La Push».
«Di sicuro non
strazierai il mio».
«Dai, non sono il
tuo baby sitter!» esclamò,
allegro, mettendomi un braccio intorno alle spalle. «Devo
solo tenerti d’occhio
per un po’ finchè Jacob non viene a riprenderti
per portarti a casa sua e…».
Si interruppe vedendo la mia espressione e riflettè un
secondo su
quello che aveva detto. «Okay. Sono il tuo baby
sitter» ammise con aria
vagamente colpevole.
«E io ti
odio» borbottai cercando di
scrollarmi di dosso il suo braccio caldo e muscoloso; sembrava di avere
appeso
alla spalla un sollevatore di pesi massimi con la febbre a quaranta.
«Uhm,
d’accordo. Allora non è il caso di offrirti la
merenda di muffin e limonata
che avevo preparato. Sai, non vorrei che tu ti sentissi una bambina
piccola» aggiunse lanciandomi un'occhiata furba mentre mi
trascinava verso la cucina.
Sul tavolo c'era una piccola montagna di muffin
ordinatamente impilati su un vassoio.
«Be', visto che devo stare
qui, tanto vale approfittarne» osservai, noncurante.
Seth ridacchiò.
«Accomodati pure. Ci occorreva giusto una mano per dare
fondo a tutto questo».
«Sembrano proprio
buoni» commentai sedendomi a tavola. «Li hai fatti
tu?»
Seth aveva scoperto di recente
una
passione per la cucina: si divertiva un mondo a mescolare, tagliuzzare,
frullare, infornare e spadellare, e la maggior parte delle volte i
risultati di
tutta questa attività culinaria non erano niente
male… A differenza di quelli
della sorella: Leah aveva rinunciato a mettere mano ai fornelli dopo
aver
carbonizzato quattro torte una dopo l’altra nel tentativo di
prepararne una per
il compleanno di Jacob, e ormai si limitava a ordinare le pizze per
telefono e servire pasta precotta.
«No, scherzi? Non ne
sarei capace… non
ancora. Li ha fatti la mamma e ce li ha portati stamattina, in
quantità
sufficienti a sfamare un piccolo esercito». Seth prese un
muffin e se l’infilò
in bocca tutto intero. «Allora, chi hai baciato,
oggi?»
Mi bloccai mentre assaggiavo
un pezzo di
muffin al cioccolato. La fame scivolò via di colpo,
sostituita da un vago senso
di nausea e da un tremendo imbarazzo. Un fruscio alle mie spalle mi
informò che
Leah ci aveva seguito in cucina, restando sulla porta.
«Lo sai» mugugnai. Non
era una domanda, ma un’affermazione.
«Ovvio che lo
so» rispose allegramente, a
bocca piena.
Purtroppo non potevo nemmeno
prendermela con
Jacob perché non era colpa sua. Posai il muffin sul tavolo e
sbuffai. «Odio
questa cosa che non esista privacy da nessuna parte!
Quand’è che la mia vita
privata
resterà tale?»
Seth non smetteva di ghignare,
e intanto già
allungava la mano verso il secondo dolce. «Devi rassegnarti,
Raggio di sole. Allora,
dicevamo: chi hai baciato oggi?»
Arrossii furiosamente.
«Nessuno!»
«Nessuno a parte
quel tipo appena arrivato,
vuoi dire? Quindi adesso sei fidanzata?» continuò.
Dalla sua faccia era
evidente che si stava divertendo un mondo, accidenti a lui.
«Basta. Smettila
subito» sibilai. Dio, che
imbarazzo… Avevo la sensazione che le mie guance stessero
prendendo fuoco.
Ma Seth non sembrava
intenzionato a cedere
tanto facilmente. «Uffa!» protestò.
«Almeno permettimi di complimentarmi per la
tua prima fuga da scuola. E saresti anche riuscita a non farti beccare
se non
fosse stato per tuo padre. Un’ottima prova, per essere la
prima volta».
Infilai in bocca il pezzo di
muffin che
avevo lasciato sul tavolo. «La prima e
l’ultima» specificai.
«Aspetta che si
avvicinino gli esami e cambierai idea, garantito».
Per tutta risposta feci una
smorfia, mentre
Leah lasciava la sua postazione sulla porta e si avvicinava al
fratello. Seth
colse al volo l’occasione di stuzzicarla.
«Ehi, spero proprio che non
diventerai come Leah! Come si chiama il tizio con cui esci questa
settimana?
Rick o James?» strinse gli occhi, fingendo di sforzarsi di
ricordare. «Ah, no,
aspetta. È lo studente australiano in vacanza».
Non potei trattenere una mezza
risata che
cercai di nascondere tossicchiando.
Dopo aver lasciato il branco
di Sam e aver
recuperato un briciolo di equilibrio interiore, Leah aveva abbracciato
un’efficace strategia per dimenticare il suo grande amore
perduto, quella del "chiodo scaccia chiodo". Solo che i chiodi erano
diventati un centinaio, o giù
di lì. Okay, forse non proprio un centinaio, ma che avesse
dietro un numero di
ragazzi impressionante era vero.
«Studente
australiano in vacanza?» ripetei,
curiosa.
Leah lanciò al
fratello un’occhiata da
mettere i brividi. «Non è australiano, ha origini
australiane, e studia a Yale».
«Oh,
giusto» fece Seth con aria divertita. «E
com’è che si chiama? Ken?»
Fui a un millimetro da
un’esplosione di
risate, ma mi trattenni.
«Cob»
corresse lei a denti stretti. «Si
chiama Cob».
«Ops, scusa. Non
volevo offenderlo» disse
Seth con aria molto poco convincente, e mi fece l’occhiolino.
In realtà la
reazione di Leah era stata
quasi inesistente: il fatto che non avesse subito consigliato al
fratello di
infilare la testa nel frullatore in funzione era quanto meno sospetto.
Chissà
cosa le passava per la mente. Sembrava distratta. Prese un muffin dal
vassoio,
ma invece di mangiarlo cominciò a giocarci.
Stavo per intervenire e impedire a Seth di stuzzicare ancora
sua
sorella (tutto sommato, era meglio evitare una rissa tra licantropi
nella piccola cucina dei Cleawater), quando all'improvviso un ululato,
basso e controllato, ma inconfondibile, si levò da qualche
parte
tra i fitti boschi della riserva. Era un segnale. Tutti e tre
sollevammo la testa di scatto e restammo in ascolto, zitti e immobili.
Trascorse qualche secondo, poi un nuovo ululato, leggermente
più
alto, fece eco al primo. Forse era soltanto un'impressione, ma mi parve
che suonasse più urgente e allarmato del precedente.
«Due» disse Leah
quando tornò il silenzio. «È
successo qualcosa». Guardò
Seth, che annuì con aria seria.
«Chi era? Tommy?»
domandai, aggrottando la fronte e spostando lo sguardo dall'una
all'altro, preoccupata.
Lei assentì. «Sembrerebbe
di sì. Vado a vedere».
Stava già per lanciarsi verso la porta, ma Seth tese un
braccio e la trattenne.
«No, aspetta. Vado io».
Ogni traccia di divertimento era sparita dal suo viso e adesso appariva
teso e concentrato. Leah lo guardò male.
«Perchè? Sono io la beta del branco,
spetta a me».
«Potrebbe essere pericoloso. Ci sono due
succhiasangue in giro da queste parti, oggi, ricordi?»
Mi sfuggì un singulto. «Peter
e Charlotte!» esclamai di
getto. «Ma non possono essere
loro. Non entrerebbero mai nella riserva, sanno che ci siete voi».
«Proprio per questo devo andare io»
rispose Leah, gelida. «Lo sai
che sono più forte, più esperta e più
veloce di te» aggiunse rivolta al fratello.
Seth sorrise, tranquillo. «Appunto. Preferisco che
tu rimanga qui con lei. Non si sa mai».
Lei? Ah, già, ero io. E aveva anche la faccia tosta di dire
che
non avevo dei baby sitter! Leah stava per ribattere ancora, con aria
piuttosto scocciata,ma lui la interruppe.
«Leah, stiamo perdendo tempo. Probabilmente non è
niente,
lo sai com'è fatto Tommy. Si agita senza motivo. Faccio
presto,
okay?»
«Sta' attento, Seth» esclamai, ansiosa.
«Non penso
che si tratti di Peter e Charlotte. Pare anche che stia per
piovere».
Come a sottolineare le mie
parole, in quel
momento udimmo un altro brontolio minaccioso. Il temporale doveva
essere ancora
lontano e forse non sarebbe nemmeno arrivato fin lì, ma era
impossibile saperlo.
Lui scrollò le
spalle. «Quando mai due gocce
di pioggia hanno fermato un licantropo?»
«Potrebbero essere
più di due gocce»
obiettai.
Seth alzò gli occhi
al cielo, scocciato.
«Che rottura, Nessie. Altro che mezza vampira, sei una
mollacciona». Prima che
potessi rispondergli per le rime, dal momento che avevo la bocca piena,
si
avviò verso l’ingresso. «Vado e
torno» gridò. «Fate le brave!»
La porta di casa sbattè e scese il silenzio.
Rimaste sole, io e Leah ci scambiammo un’occhiata.
«Tuo fratello è fuori di
testa» dissi.
Lei non rispose. Si limitò a fissarmi e nel giro di qualche
secondo non ressi più il suo sguardo. Abbassai subito gli
occhi,
a disagio, e desiderai che Seth non se ne fosse andato portando
via con sé la leggerezza e il buon umore. Non era certo la
prima
volta che io e lei ci
trovavamo da sole per un po’, ma non succedeva da parecchio
tempo: cercavo di
evitarlo, perché a volte i suoi occhi posati su di me mi
sembravano un peso
insostenibile. Mi schiarii la voce e mi agitai un po’ sulla
sedia. Lei
continuava a sbriciolare pezzi di muffin con aria assente. Cercai in
fretta qualcosa
da dire, mi sembrava che il silenzio intorno a noi si facesse pesante
come
piombo. Se una delle due non avesse aperto bocca di lì a
poco mi
sarei precipitata urlando fuori dalla stanza. E poi,
all’improvviso, fu lei a parlare.
«E così
ti vedi con un ragazzo» disse con tono noncurante.
Io, però, la conoscevo bene, e mi accorgevo che era solo
apparentemente tranquilla: covava
qualcosa, me lo sentivo. Ciò nonostante, le sue parole mi
colsero del tutto di
sorpresa.
«No!»
esclamai.
«Oddio, non so cosa vi abbia fatto capire Jacob, ma
non… non
è niente. Niente di importante». Eppure,
di quanto suonasse
triste la mia voce. Eh, sì: Alexander Hayden mi aveva
cucinato a puntino.
«Non vi siete
baciati?» insistè.
Era una
domande retorica, ovviamente, visto che lei aveva accesso ai pensieri
di Jacob
quanto Seth ed era impossibile che non lo sapesse. La
guardai, perplessa e imbarazzata. Non capivo come mai fosse
così interessata
alla questione: noi due non avevamo mai parlato molto, men che meno di
ragazzi.
«Sì»
risposi dopo un attimo di
esitazione. «Una volta sola, ma è bastata e
avanzata».
«Mm»
commentò, come se la cosa per lei non
avesse alcuna importanza. Rimase zitta per qualche secondo, poi fece un
sorriso
strano. «È incredibile. A quanto pare, le storie
di famiglia sono destinate a
ripetersi all’infinito».
Sollevai lo sguardo dal mio
muffin e lo
posai su di lei: il viso era impassibile, ma gli occhi, non
più assenti,
mandavano bagliori. «Cosa?»
«Niente»
rispose a voce bassissima.
«Non mi sembrava niente» protestai.
«Quali storie di famiglia?». Silenzio.
«Leah?»
Di colpo gettò sul
tavolo il muffin mezzo
sbriciolato con aria scocciata. «Ho detto che non
è niente, okay? Non ci
pensare». Si voltò, incrociando le braccia, e si
accostò alla finestra per
guardare fuori.
A quel punto non so cosa mi
prese. Avevo sempre
tollerato il suo atteggiamento, le occhiate accusatrici, le parole
brusche, le
volte in cui sembrava ignorarmi completamente, perché
conoscevo le sue
sofferenze e i suoi motivi, e avevo sempre cercato di capirla e
giustificarla.
Quel giorno, invece, per la prima volta reagii.
«Posso sapere perché ce l’hai
tanto con me? So che odi metà dei miei geni, ma non
è colpa mia se sono una
mezza vampira. Perché non provi a giudicarmi come una
persona e basta?»
Tacque per qualche secondo
prima di
rispondere. «I tuoi geni non c’entrano. So che non
è colpa tua, ma a volte si
mettono in moto dei meccanismi e…». Non
finì la frase.
«Meccanismi?»
mormorai, sconcertata.
«Non capisco
di che parli».
Si girò di nuovo e
mi guardò, quel sorriso
amaro ancora sulle labbra. «E come potresti?».
Scrollò le spalle. «Comunque non
servirebbe. Ormai è troppo tardi. Sembra che tutto sia
destinato ad andare
esattamente come è andato cinque anni fa» disse
lentamente. «Non c’è via di
scampo».
Quelle parole, e il tono con
cui le
pronunciò, duro e freddo, mi ferirono più di
qualunque altra cosa avesse mai
detto o fatto in passato; in quel momento capii che mi detestava sul
serio, anche se ancora non afferravo
il motivo.
«Ma insomma, che cosa ti ho fatto?» sbottai,
sentendo all'improvviso la gola gonfia e gli occhi umidi.
Mi alzai
da tavola e feci per raggiungere la porta sul retro. Volevo uscire da
lì,
andarmene prima che potesse dire altro e ferirmi ancora di
più. Ero convinta che stesse per arrivare qualcosa di molto
peggio. Il mio istinto
all’autoconservazione mi suggeriva di defilarmi subito.
Leah non me lo permise. Con
due passi
mi si avvicinò. «Non hai fatto niente a
me, ma c’è una persona che
finirà con lo star male per colpa tua, una persona a cui
dici di tenere
tantissimo, e tu non te ne accorgi!». Parlò con un
trasporto che raramente le
avevo sentito. La persona di cui parlava doveva essere importante, per
lei.
«Chi è?
Di chi stai parlando?» domandai,
esasperata. Ma lei si limitò a fissarmi, mordendosi un
labbro,
indecisa. «Voglio sapere chi è!» sbottai.
«La persona che
chiami il mio migliore amico»
rispose con aria di sfida.
Fu come se mi avesse
rovesciato addosso un
secchio di acqua gelida. «Jacob?» balbettai,
scioccata.
«Jacob sta soffrendo? Non è vero. Lui sta
bene».
Leah scosse la testa. «Forse non è
ancora
cominciata, ma io riconosco i segni perché li ho
già visti. Sai che ti dico?». Si
avvicinò ancora con fare aggressivo ed io
indietreggiai. «Ci ha già pensato tua madre a
fargli passare le
pene dell’inferno, tu puoi anche risparmiarti questo
compito».
Altra secchiata
d’acqua gelida. Sbattei le
palpebre, indecisa se essere più spaventata, arrabbiata o
semplicemente
stupita. «Mia madre ha fatto soffrire Jacob?»
ripetei lentamente.
Era
assurdo. Quello che stava dicendo era semplicemente assurdo,
un mucchio di frasi senza significato, eppure non riuscivo
a dirle di piantarla o ad andarmene, non riuscivo a staccare gli occhi
dai
suoi. Una parte di me mi gridava di scappare all’istante,
per non dover ascoltare qualcosa di terribile, ma l’altra
mi costringeva dov’ero, bruciante di curiosità. Mi
sembrava di essere vicina
alla soluzione di un enigma, senza sapere neppure di quale enigma si
trattasse.
La familiare sensazione di brancolare nel buio era fortissima, ma forse
stavolta una luce stava per accendersi.
«D’accordo,
basta» disse all’improvviso,
facendomi sobbalzare, e questa volta fu lei ad andare verso la porta.
«È
meglio che me ne vada».
Eh,
no!, pensai, e senza avere idea di cosa stessi facendo le
bloccai il
passaggio, mettendomi davanti alla porta. Strinsi forte i pugni per
farmi
coraggio. «No». Mi tremava la voce, ma cercai di
mantenerla salda. «Finalmente
apri bocca dopo quasi cinque anni di silenzi, strane occhiate e frasi
incomprensibili, adesso voglio sentire che cos’hai da
dire».
Sul suo viso comparve una vaga
sorpresa, ma
quel sorriso strano non andava via. «Non ti conviene
sentirlo. Non vorrei
rompere la tua perfetta bolla di sapone».
«Perché
dici questo?» esclamai, stupefatta.
Ma che cos’era? Che
diavolo era a
farla parlare così?
«Perché
la tua vita non è reale!» esplose,
allargando le braccia con gesto rabbioso, come se qualcosa che aveva
dentro da
tanto tempo finalmente fosse uscito. «Tu pensi che sia
perfetta, ma non è vero! La vita non è perfetta,
non lo è mai, è uno schifo!»
Capivo perché mi
stesse dicendo quelle
parole. Aveva i suoi buoni motivi per pensarla così. Quello
che non capivo era
perché me le gettasse contro con tanta rabbia.
«Se mi conoscessi
davvero sapresti che ci
sono tante cose che vorrei cambiare» ribattei con voce
tremante.
«Non è
questo! Oddio, tu sei… circondata da
persone che ti amano così tanto da tenerti lontana da
qualunque cosa potrebbe
causarti anche solo la minima sofferenza, e non ti rendi conto di
niente, non
ti rendi conto di quello che fai». Si interruppe di colpo, mi
fissò per un istante, poi
proseguì con più calma. «Tu non vedi la
realtà, ma solo il
riflesso. Vedi quello che gli altri vogliono che tu veda».
Indietreggiai ancora fino ad
appoggiarmi alla porta con le spalle, come per sostenermi,
perché
avevo la sensazione che tutto girasse intorno a me a una
velocità incredibile.
«Ti sbagli» sussurrai. «Non
è vero».
Parlavo
più a me stessa che a lei, ma in realtà sapevo
benissimo, lo sentivo, che le sue
parole erano intrise di verità. Non stava
mentendo. Leah parve capire cosa pensavo, e tornò quel
sorriso amaro, privo di
gioia ma carico di significati.
«E invece
sì» mi contraddisse, e sembrò che
provasse una soddisfazione immensa nel farlo. «Tu sai che
è così. Hai sempre
pensato che ci fosse qualcosa, vero? Avevi ragione».
Sentii il sangue ghiacciarsi
nelle vene
perché ancora una volta non stava bluffando. Come poteva
sapere del dubbio
che mi assillava da quando ero bambina? Non avevo mai confessato a nessuno quelle sensazioni, nemmeno a Jacob. Mio padre ne era a
conoscenza,
e forse
anche la mamma, ma non ne avevamo mai parlato. Edward si limitava a
tranquillizzarmi senza mai affrontare direttamente l'argomento. Ed ora
Leah mostrava di conoscere un pensiero segreto e profondo che non avevo
mai osato formulare ad alta voce, perché mi spaventava,
troppo. Se
papà non avesse avuto il suo dono, nemmeno lui ne avrebbe
mai
saputo niente. A lungo non riuscii ad emettere alcun suono e
rimasi lì a guardarla con gli occhi sbarrati, incredula.
Leah
ricambiava il mio sguardo
con aria di sfida.
«Allora dimmela tu la verità» farfugliai
con
un filo di voce.
Esitò a lungo prima
di parlare. Ero
convinta che stesse cercando di decidere se andare avanti o no,
perché almeno
di una cosa potevo essere abbastanza certa: non aveva programmato
niente. Quella situazione aveva colto di sorpresa lei quanto me.
«Non posso. Devi parlarne con la tua famiglia»
disse infine.
«No, voglio la
verità. Adesso!»
«Ma tu non senti
niente?» domandò
all’improvviso, osservandomi con gli occhi stretti, come se
si sforzasse di capire. «Sei
davvero così ingenua…»
«Cosa dovrei
sentire?» esclamai, frustrata.
«Non capisco, Leah. Perché hai detto che Jacob...
Che cos'ha che non va?»
Esitò ancora per un
istante, poi fece un pesante sospiro. Sembrava triste.
«Tua madre non mi è mai piaciuta, questo lo sai.
Quando ho capito
che stava morendo… mentre aspettava te… non ne
sono stata felice: era
un’altra vita strappata dai vampiri e noi non eravamo
riusciti a impedirlo. Per il branco era
un fallimento». Fece una breve pausa, mordendosi un labbro.
«Non
ne sono stata felice, ma ricordo di aver pensato che forse per Jacob
era una salvezza. La sofferenza sarebbe stata atroce,
all’inizio, sì, ma poi
se ne sarebbe fatto una ragione e l’avrebbe superata. Bella vampira, invece, sarebbe stato il suo
incubo per il resto dell’eternità. Forse ce
l’avrebbe fatta, se fosse andata
così. Ma poi sei arrivata tu».
«E ho messo in moto
dei meccanismi» aggiunsi a bassa voce, ripensando alle sue
parole di poco prima.
Lei annuì.
«Sì. E
allora ho pensato che forse eri tu la salvezza di Jacob. E invece, dopo
quasi
cinque anni, rieccoci di nuovo al punto di partenza».
«Non
capisco» ripetei con un filo di voce.
«Per favore, spiegami. Ti prego».
Di nuovo rimase in silenzio a
fissarmi per
un tempo che mi parve infinito, forse decidendo se parlare o meno.
Mentre
aspettavo, credetti che il mio cuore avesse smesso di battere. Credetti
di impazzire.
Mi avrebbe detto la verità? E se non l’avesse
fatto? Quando aprì bocca, per
poco non feci un salto.
«La prima volta che
Jacob ti ha vista»
cominciò con voce bassa e lenta «eri nata da pochi
minuti. Tua madre stava
morendo, mentre tuo padre cercava di salvarla. Lui ti ha guardato negli
occhi e
ha avuto l’imprinting».
L'imprinting.
L'imprinting?
Sentii lo
stupore investirmi in pieno, come un camion a tutta
velocità. Per un lunghissimo, interminabile istante non
provai altro che uno stupore assoluto. Concentrai tutte le mie forze
nell’unico
obiettivo di afferrare quella parola, capirla, mentre la sentivo
ripetersi dieci, cento,
mille volte nella mia testa e penetrare lentamente come di nave
rompighiaccio che si fa strada lasciando solo frammenti
dietro di sé.
«L’imprinting?»
ripetei, stupefatta. Il primo pensiero coerente che riuscii a formulare
fu che
mi stesse prendendo in giro. «No. Non è
possibile» sussurrai. Mi accorsi che
stavo trattenendo il fiato chissà da quanto, e dovetti
sforzarmi di respirare.
«È una bugia!»
Negli occhi scuri di Leah
comparve un velo
di compassione. «No, Renesmee» disse, e la sua voce
suonò infinitamente triste.
«Ti sto dicendo la verità e credo di essere
l’unica persona che l’abbia mai
fatto». Fece un altro respiro profondo e si passò
le mani sui capelli
con gesto stanco. «Jacob era il più agguerrito
nella lotta per Bella, tra noi. Tuo padre
non voleva trasformarla, questo lo sai, ma Jacob avrebbe fatto
qualunque cosa
per impedirlo. Ha fatto qualunque
cosa. Voleva a tutti i costi che si salvasse, che restasse umana e non
diventasse un mostro, una cosa contro natura. A qualunque
prezzo». Sembrava stanca, mentre parlava, come se continuare
a raccontare le costasse grande fatica.
Stranamente ero lucidissima: niente confusione, niente panico, nessuna
crisi
isterica, nessun sentimento particolare, solo meraviglia e un bisogno
spasmodico
di sentire il resto. Mi sforzavo di comprendere le sue parole,
attentissima, anche se non sembrava che avessero molto senso.
«Ovviamente le cose
si complicarono quando Bella rimase incinta e cominciò a
stare male. Jacob era
sul punto di impazzire… E sai un’altra cosa? Ti
odiava. Ti ha odiato per tutto
il tempo in cui sei stata dentro di lei, perché sapeva che
non avrebbe mai
potuto partorire te e sopravvivere. Lo sapeva, come tutti noi. E poi ti
ha
vista. Uno sguardo, e niente ha più avuto importanza a parte
te».
«Non è
vero» protestai, scuotendo la testa. «Non
è vero niente di quello che stai dicendo».
Stavo clamorosamente
bluffando, e lo sapevo
benissimo. Che motivo avrebbe avuto di mentirmi su una cosa del genere? Era sincera, lo leggevo nei
suoi occhi
tristi. Ma non potevo accettarlo. Non poteva essere.
«Non è
vero?» ripetè. «Ma non
capisci… Non
ti sei mai chiesta… come mai noi licantropi proteggiamo te e
la tua famiglia
anche se la nostra natura ci impone il contrario? Non ti sei mai
chiesta perché
ti abbiamo lasciata in vita, perché nessuno ti ha mai
toccato, anche se eri un
potenziale pericolo? Davvero credevi che fosse solo per amicizia?
Davvero
credevi che Jacob potesse essere amico
della persona che aveva ucciso la sua Bella? Come puoi pensare che
fosse tutto
lì?»
Niente. Non provai
assolutamente niente.
Neanche la sorpresa. Fu come un colpo di spada che ti mozza il fiato
all’improvviso e non ti lascia nemmeno il tempo di
accorgertene.
«Cosa?»
balbettai. «Io ho ucciso… cosa?»
Leah continuò da sola, senza che dovessi
incitarla. «Ma questo lo sai anche tu» disse
guardandomi quasi come se l’avessi
in qualche modo delusa. «Tutti sapevano benissimo che Bella
non ce l’avrebbe
fatta se avesse portato a termine la gravidanza, e perfino tuo
padre…»
Di colpo
si interruppe e mi guardò con aria colpevole, forse pensando
di aver detto
troppo, forse pensando di fare un passo indietro, ma ormai era troppo
tardi.
«Finisci la
frase» sibilai. Lei non rispose. Ma nel silenzio improvviso
mi parve di
riuscire a cogliere le parole non dette che vibravano
nell’aria intorno a noi. Non
importava che le pronunciasse: le aveva scritte in faccia. «A
qualunque
prezzo» mormorai, riflettendo. «La mia vita era il
prezzo, non è così? Papà
voleva che la mamma abortisse».
La guardai dritto negli occhi,
con
decisione. Ma certo. Certo che era così. Mi
sembrò talmente ovvio che mi sentii un'autentica stupida per
non averci mai pensato prima in tutti quegli anni.
«Renesmee, io… mi dispiace»
mormorò Leah, a testa china.
Intuii
che era sincera. Le dispiaceva davvero. Peccato che non fossa
abbastanza.
Sentii una valanga di orrore travolgermi, sommergermi, soffocarmi. No,
quello
era troppo. La testa mi girava come una trottola, lo stomaco si
contorceva in preda
a un terribile senso di nausea. Credetti di svenire, e invece
chissà come riuscii a restare in piedi. Senza riuscire a
staccare gli occhi da Leah, spinsi una mano dietro la schiena cercando
a
tentoni la maniglia, la abbassai e spalancai la porta. Quasi caddi
fuori,
letteralmente, feci appena qualche passo lungo il viale, poi mi
scontrai con
qualcosa che veniva nella direzione opposta. No, qualcuno, qualcuno di
grosso e
molto caldo. Spaventata, repressi a stento un grido e barcollai
all’indietro.
«Nessie, dove stai
andando?» esclamò una
voce meravigliata.
Mi ci volle un secondo per
riconoscere Seth,
sbattendo le palpebre, oltre le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo
guardai, ma non riuscivo a parlare: un grosso nodo mi ostruiva la
gola.
«Ho parlato con Tommy. Non era niente, soltanto un'impronta.
Un falso allarme» cominciò a spiegare, ma poi si
rese conto che qualcosa non andava.
«Ehi, stai bene? Che
succede?»
Tese una mano verso di me, ma
quasi senza
accorgermene indietreggiai. Tremavo così tanto che potevo
sentire i miei denti
battere. Non mi toccare, avrei
voluto
gridare. Ci provai, ma uscì solo un farfuglio
incomprensibile.
«Cosa?»
fece Seth, perplesso. «Renesmee?». Lo
superai e cominciai ad allontanarmi rapidamente.
«Sta arrivando il temporale, dove vai? Aspetta!
Renesmee!»
Mi voltai e presi a correre.
Corsi via come
una pazza, più veloce che potevo. Per fortuna mi parve che
Seth non mi
seguisse. Forse era entrato in casa e aveva chiesto spiegazioni a Leah.
Correvo
senza pensare a niente, un’unica meta in testa. Correvo per
non impazzire,
perché ero certa che se mi fossi fermata a prendere fiato,
anche solo per un
secondo, avrei cominciato a urlare. Non facevo caso alla strada, non
riuscivo a ripensare alle parole di Leah, a malapena respiravo. Potevo
solo correre, finchè non fossi arrivata.
All’improvviso un tremendo fragore mi riscosse e frenai di
colpo, inciampando in una grossa radice. Mi guardai intorno,
disorientata, e capii che ce l'avevo fatta. Ero arrivata. La villa dei
nonni si stagliava davanti a me, enorme e minacciosa. Ripresi a
correre, arrivai alle scale e
a quel punto non ce la feci più. Mi aggrappai al corrimano
un attimo prima di
cadere a terra e rimasi ferma solo per qualche secondo,
cercando di riprendere fiato, ma non potevo
aspettare. Dovevo farlo subito. Mi
lanciai su per i gradini e invece di usare il campanello colpii la
porta con i
pugni, più forte che potevo, facendomi male. Si
spalancò quasi subito e
comparve Alice, con Jasper che faceva capolino alle sue spalle.
«Nessie! Che
succede?» esclamò la zia,
stupita. Vidi i suoi occhi spalancarsi mentre studiavano il mio viso.
Dovevo
avere un aspetto tremendo. «Che ci fai qui?»
«Sei
sconvolta» intervenne Jasper, a voce
bassa. «Ti senti male?»
Non risposi. Entrai, respirando
affannosamente. «Mamma! Papà!» gridai
con il fiato che mi restava.
Arrancai su per le scale, anche se mi sembrava di essere sul punto di
stramazzare, e piombai in salotto. Gli altri erano tutti lì:
i miei genitori, i
miei nonni, Emmett e Rosalie, Alice e Jasper che mi avevano seguita.
Sette
sguardi sorpresi e vagamente preoccupati, uno assolutamente
impassibile: quello
di mio padre. Il suo volto era inespressivo come una maschera.
«Papà»
esalai, tenendomi una mano sul
fianco.
«Renesmee».
La sua voce morta mi spaventò.
«È vero?
È vero quello che ha detto?»
Ignorai gli altri e mi
concentrai su Edward.
Non sapevo cosa mi avrebbe risposto, se la verità o una
pietosa bugia, ma ogni
minimo cambiamento del suo viso avrebbe potuto rivelarmelo. Lui
deglutì, senza
cambiare espressione.
«Tesoro, sei sconvolta» disse con tono estremamente
controllato. «Siediti e cerca di calmarti, ne parliamo
dopo».
Cominciava sviando la mia domanda. Pessimo
segno. Presi un respiro rotto e pesante, cercando di mantenere un
briciolo di
controllo. «Non voglio sedermi, non voglio calmarmi e voglio
parlarne adesso!»
Lanciai un’occhiata
alla mamma: aveva
un’aria spaventata. Fece per venire verso di me, ma io
indietreggiai d'istinto e lei si fermò. Guardò
papà con aria disorientata.
«Che
succede, Edward?»
Lui le lanciò
un’occhiata, ma non osò
parlare.
«È
vero?» insistei, implacabile con loro e
con me stessa. Ero esausta, come se avessi corso per chilometri e
chilometri. Silenzio, solo silenzio. Un silenzio assordante che quasi
mi diede
alla testa. «Rispondimi!»
«Non
posso» proruppe all’improvviso, e la sua
espressione tormentata mi spaventò più di tutto
il resto.
«Perché?»
sussurrai, perfettamente
consapevole che la risposta mi avrebbe solo fatto ancora più
male.
«Non voglio
ferirti».
«Potresti
farlo?» sussurrai con voce rotta. Domanda
retorica, ovviamente. Non occorreva che dicesse nulla. Ormai avevo
capito. Ma volevo guardarlo in faccia e sentirla dalla sua bocca, la
verità. «Rispondimi»
implorai.
Sembrava che stesse lottando
con qualcosa
dentro di sè, ma infine parlò, e anche lui mi
parve infinitamente stanco. «Sì.
Sì, è vero: Jacob ha avuto l’imprinting
con te».
«Edward,
no!» gridò la mamma. Si voltò di
scatto verso di lui, sconvolta. «Sei impazzito?»
«Oh,
merda» fece Emmett, con un tono che non
gli avevo mai sentito usare prima.
Gli altri si limitavano a fissarmi a bocca
aperta, attoniti, immobili come statue, troppo increduli per dire o
fare
qualcosa.
Ebbi la sensazione
che una voragine si spalancasse ai miei piedi. Barcollai, in preda a
un'improvvisa vertigine. «Non è
possibile»
farfugliai. «Non è possibile».
«Renesmee,
tesoro…» disse la mamma.
Non volli nemmeno ascoltarla. «Non è
possibile» ripetei
con decisione.
«È la verità»
continuò Edward. La mamma si
voltò di nuovo verso di lui, sconvolta, senza dire nulla.
Scossi il capo, testarda come
sempre. No, mi
rifiutavo di accettarlo. Doveva esserci un’altra
spiegazione… qualcosa a cui
aggrapparmi…
«Ma io… io me ne sarei accorta se lui…
se
noi…» balbettai, cercando di controllare la voce.
«Io l’avrei capito…»
E poi, di colpo, senza nessuna
ragione
particolare, tutto divenne incredibilmente, spaventosamente chiaro:
gesti,
parole sguardi, ogni cosa volò al suo posto come i frammenti
di un
puzzle fino a un istante prima sparpagliati gli uni sugli altri, e
adesso
tutti incastrati alla perfezione. Per la prima volta la sensazione
che ci fosse qualcosa che non sapevo, qualcosa che mi sfuggiva,
finalmente
sparì.
«Oddio»
ansimai e subito dopo avvertii un
dolore al petto. Avevo trattenuto il respiro troppo a lungo.
«Tesoro, ti
prego» esclamò la mamma.
La guardai: aveva
un’espressione disperata.
Mi sforzai di inspirare ed espirare lentamente per mantenere la calma.
Non
era ancora finita. «Anche… anche il resto
è vero?»
«Perché
vuoi farti del male?» esclamò papà con
tono quasi arrabbiato.
«Voglio la
verità. È così? Tu volevi...
Tu...»
Era un pensiero così spaventoso, nella sua incredibile
ovvietà, che non riuscivo a pronunciare un'altra parola.
Dirlo ad alta voce lo avrebbe fatto diventare reale. Ed io non volevo
che accadesse. Guardai mio padre dritto negli occhi e la sua
espressione fu per me una risposta prima che aprisse bocca.
«Non volevo fare del male a te. Volevo
salvare lei» sussurrò con un filo di voce.
Fu allora che mi
sembrò di toccare il fondo,
finalmente. Sentii di nuovo un dolore tremendo nel petto,
all’altezza del
cuore, come se un coltello mi avesse trapassata da parte a parte. Per
un qualche istante non mi resi conto più di nulla. Non
vedevo niente, non sentivo niente, non provavo niente. Era come se
fossi uscita da me stessa. All’improvviso, arrivò
un
altro, violento capogiro che mi fece barcollare. Poi la voce di Bella
mi
tirò di nuovo dentro la realtà.
«No!» gridò, come se volesse fermare tutto. Aveva capito anche lei. «Renesmee,
ascolta! Tu non sai bene com’è
andata…»
«Che altro
c’è da dire?» sussurrai, la voce rauca.
«E invece ci sono
tante cose che non sai»
intervenne papà, avvicinandosi di qualche passo.
«Lasciami spiegare». Tese una
mano, ma io mi allontanai in fretta.
«Non toccarmi!
Sta’ lontano da me!»
Dovevo andarmene da
lì. Mentre mi precipitavo verso le scale sentii un
grido.
«Renesmee,
aspetta!»
«No,
Rosalie» intervenne mio padre in tono duro.
«Lasciala andare. Lasciatela andare».
Scesi correndo nell'ingresso e
quasi mi
scontrai con la porta. Dovetti tirare la maniglia più e
più volte prima
che si aprisse, terrorizzata al pensiero che potessero raggiungermi,
riportarmi
indietro, costringermi a parlare con loro. Finalmente riuscii a
spalancarla e
corsi fuori, sotto una pioggia fitta e violenta appena iniziata. Il
temporale era
arrivato. In un attimo mi ritrovai fradicia dalla testa ai piedi, i
capelli
intrisi d’acqua, la camicetta incollata al corpo.
Non ero diretta da nessuna
parte. Tutto quello che volevo era lasciarmi l’incubo alle
spalle. Ma per
quanto corressi più veloce che potevo, sembrava che mi
stesse inseguendo:
riuscivo solo a sentire il dolore, nel mio cuore, nella mia mente, in
ogni
parte di me.
Poi inciampai in qualcosa e
caddi a terra. Cercai di tirarmi subito su, ma mi accorsi che le gambe
non mi
reggevano, brucianti e doloranti per lo sforzo. Restai in ginocchio,
riprendendo fiato e togliendomi i capelli dal viso. Tra le fitte di
dolore,
reali e immaginarie, sentii la consapevolezza di quello che era
accaduto invadermi lentamente. Mio padre aveva cercato di uccidermi
prima che nascessi. Il mio migliore amico era legato a me solo da una
specie di incantesimo e me lo teneva nascosto da cinque anni. E gli
altri si erano resi
complici di tutto questo. Compresa la
mamma.
Fui travolta dalla
nausea e temetti di non riuscire a tenere nello stomaco il mezzo muffin
che
avevo mangiato. E invece riuscii a resistere, boccheggiando. Sembrava
un incubo, solo che non finiva
mai: non arrivava mai il momento in cui mi svegliavo di soprassalto e
trovavo
le fredde, rassicuranti braccia di papà ad
avvolgermi.
Mi alzai di scatto, ignorando le fitte alle
gambe e stringendo convulsamente le braccia al petto. Avevo paura di
finire in pezzi se le avessi lasciate cadere lungo i fianchi.
Guardandomi intorno, mi resi conto che avevo attraversato i fitti
boschi intorno a casa mia e adesso ero a pochi metri dalla 101, che
vedevo correre davanti a me. Non sapevo dove andare né cosa
fare, ed ero esausta, fisicamente ed emotivamente. Eppure non riuscivo
a stare ferma.
Ripresi a camminare accanto alla strada come un automa, lentamente,
tenendo gli occhi bassi, senza badare alla mia direzione. La pioggia
fitta continuava a cadere, nel cielo carico
di nuvoloni grigi risuonavano tuoni minacciosi, un vento freddo agitava
furiosamente le chiome degli alberi. Ero scossa da brividi continui e
nella mia mente non facevano che ripetersi e accavallarsi caoticamente
immagini e
parole. Avrei tanto voluto chiudere fuori tutto, ma
non ci riuscivo. Poi mi sembrò che un’altra voce
si sovrapponesse a quelle che
sentivo nella mia testa, ma più forte e più reale.
«Renesmee!
Renesmee!»
Qualcuno mi stava chiamando
sul serio? No, per favore. Chi mi aveva seguita? Non volevo vedere
nessuno di loro. Continuai a camminare senza
badarci, quando una mano mi afferrò per la spalla e mi
costrinse a
girarmi. Sollevai gli occhi, sorpresa, e attraverso il velo di lacrime
e pioggia apparve un volto dai contorni sfocati. Era Alex. Se
ne stava lì, senza dire nulla, a fissarmi sgomento. Osservai
quei tratti familiari e bellissimi ai quali avevo cercato di
pensare con distacco negli ultimi due giorni, e ora lui era
lì, di fronte a me, un
milione di gocce di
pioggia che scintillavano tra i suoi capelli scuri come piccoli
diamanti…
Era
solo una coincidenza che lui mi avesse trovata in quel momento? Era
solo una
coincidenza che io e Leah ci fossimo ritrovate insieme, da sole, e che
mi
avesse detto quelle cose? Oppure nell’universo esistono forze
sconosciute e imprevedibili che tramano nell'ombra per stabilire il
nostro destino?
Scattai
in avanti e lo abbracciai di slancio, singhiozzando violentemente. Alex
rimase paralizzato per un secondo, poi sentii
le sue
braccia intorno a me, le sue mani accarezzarmi piano la schiena, le
guance
e le labbra premere leggermente sui miei capelli.
«Portami
via» sussurrai con voce tremante e
scossa dai singhiozzi, quasi incomprensibile.
«Cosa?»
«Portami via, ti
prego. Ti prego, Alex,
andiamo via».
«Renesmee…»
mormorò, incerto e confuso.
Sicuramente si stava chiedendo se per caso non fossi evasa da un
manicomio.
«Ti
prego!» gridai, disperata.
Mi osservò ancora
per un momento, stupito e
un po’ spaventato. E poi decise. Mi prese per mano e mi
tirò verso la sua auto, ferma sul ciglio della strada, con
la portiera ancora
aperta. Mi fece sedere al posto del passeggero, poi salì al
mio fianco e
mise in moto.
«Dove…» chiese, leggermente affannato.
«Non importa,
solo… lontano da qui».
Non rispose. Con gesti abili e rapidi fece una
pericolosa inversione e partì a tutta velocità.
Note.
1. Qui la canzone.
Spazio autrice.
E così,
ecco il momento della verità, tutta la verità,
nient'altro che la verità xd. Adesso è tutto
più chiaro per la nostra Renesmee, e spero anche per voi. In
caso contrario, come sapete sono sempre a vostra disposizione per
rispondere a dubbi, domande, incertezze, perplessità, crisi
esistenziali, eccetera eccetera... Purchè io non sia
costretta a spoilerare per rispondere. In quel caso dovrete aspettare
^^.
Come potete leggere
voi stessi/e, Renesmee non ha preso molto bene la scoperta
dell'imprinting. In
questo momento è troppo sconvolta per riuscire ad analizzare
bene la faccenda, ma più avanti i suoi
pensieri e i suoi sentimenti in proposito saranno approfonditi (e anche
le motivazioni di Leah e il perchè abbia raccontato tutto
quanto così all'improvviso). Per giunta, questa rivelazione
ne ha portate con sè altre non meno sorprendenti e
spiacevoli per lei, a cominciare dal comportamento di suo padre durante
la gravidanza di Bella. Non credo ci siano molte fanfiction in giro che
affrontano questo argomento, o almeno a me non è mai
capitato di leggerne una, ma a mio parere si tratta di una questione
importante che avrebbe dovuto essere affrontata in modo più
approfondito già in Breaking
dawn. Ho sempre pensato che questa fosse una mancanza da
parte della Meyer. Insomma, noi lettrici capiamo le motivazioni di
Edward, anche se personalmente non posso approvarle: lui ama Bella e
farebbe di tutto per salvarla, anche uccidere il loro bambino. Quello
che mi stupisce è il fatto che Bella non abbia mai avuto
neanche una parola di rimprovero verso di lui, eppure quello che cerca
di fare è piuttosto grave: se Ed avesse avuto carta bianca,
senza Rosalie di mezzo a fare da guardia del corpo, avrebbe costretto
Bella ad abortire in barba alla sua volontà. E non esiste
nessun sentimento d'amore, per quanto intenso possa essere, che
giustifichi un comportamento simile. A me piace Edward, non
fraintendetemi. Ma in quel momento lui sbaglia dall'inizio alla fine.
Credo che in quelle pagine emerga il lato più oscuro del
loro amore.
Nel corso degli anni, quegli anni che seguono la parola "Fine"
e che la Meyer non ci racconta, può darsi che Edward e Bella
abbiano chiarito tra loro l'accaduto. Può darsi che Edward,
sinceramente pentito, le abbia chiesto scusa e che lei abbia capito e
dimenticato ogni cosa. Ma che Renesmee non ne sapesse nulla mi sembra
ovvio, naturale. Anche questa, come l'imprinting, fa parte di quelle
pericolose verità che se rivelate potrebbero essere molto
dure da affrontare. E adesso che è venuta fuori, quasi per
caso, è un altro colpo inferto alla patina di perfezione che
avvolge la vita di Renesmee. Anzi, dopo aver saputo che suo padre non
la voleva e che ha cercato di ucciderla prima che nascesse, credo che
le rimanga ben poco di "perfetto" nella sua esistenza. Anche questo
aspetto comunque sarà affrontato e approfondito nei prossimi
capitoli ;-).
Spero
siate felici di ritrovare Alex! Il prossimo capitolo sarà
interamente dedicato a lui e a Renesmee: parleranno, si chiariranno e forse... No,
basta così. Leggete e saprete, eh eh eh!
Scusate se il mio Spazio autrice è lungo quasi quanto il
capitolo xd, ma ho pensato che fosse meglio chiarire subito alcuni
punti. Spero di aver fatto bene :-). Alla prossima settimana!
|
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Capitolo 12 *** The scientist ***
Capitolo 1
Capitolo
12
The
scientist
Come
up to meet you
You
don’t know how lovely you are
I
had to find you
Tell
you I need you
Tell
you I set you apart
Tell
me your secrets and ask me
your questions
Oh
let’s go back to the start
Running
in circles, comin’ up
tails
Heads
on a science apart.
The
scientist, Coldplay¹
Il destino mescola le carte e noi giochiamo.
ARTHUR SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena
Per una volta fui felice che
Alex guidasse come un pilota di
Formula Uno. Si limitò a premere
sull’acceleratore,
rallentando solo quando rischiava di uccidere qualcuno, a guardare la
strada e
ad ascoltarmi piangere senza dire una parola. Forse aveva intuito che
non ero in
condizioni di raccontare nulla, o forse era semplicemente sopreso, e
potevo capirlo. A un certo punto probabilmente le lacrime si esaurirono
e mi calmai un po'.
Alex frugò nel vano porta oggetti e mi
allungò un fazzoletto. Lo presi senza riuscire a dirgli
grazie, mi asciugai gli occhi e per la prima volta guardai fuori dal
finestrino, chiedendomi
dove fossimo diretti.
«Perché
andiamo a Port Angeles?» chiesi con
voce spaventosamente roca, come se avessi mangiato detersivo in
polvere. Cercai
di schiarirla un po’.
«È
l’unico posto che io sappia raggiungere,
da queste parti» rispose tranquillamente. «Non
potevo certo guidare a caso o
ci saremmo persi tra mucche e covoni di fieno».
Provai quasi
l’impulso di ridere, ma non
riuscii ad assecondarlo. Le mie labbra si curvarono appena.
«Non
ci sono mucche a Forks. E neanche covoni di fieno».
«Questa sì che è una
sorpresa». Mi lanciò
una rapida occhiata, forse per controllare che la crisi isterica fosse
passata, e anche
lui sorrise appena. «Se Port Angeles non ti va bene possiamo
cambiare meta».
«No, è
perfetto. Il posto non importa, basta
che stiamo lontani da Forks».
Non commentò in
alcun modo, anche se le mie
parole dovevano suonargli piuttosto strane. Guidò in
silenzio nel traffico
finchè arrivammo sulla strada principale.
«Facciamo due
passi?» propose. «Magari
prendiamo qualcosa da bere».
Alzai le spalle. «Okay». Forse bere qualcosa
di caldo mi avrebbe fatto bene.
Parcheggiò con
destrezza tra un grosso SUV e
una moto ferma di traverso. Scesi lentamente dalla macchina,
frastornata. Alex
fece il giro dell’auto per raggiungermi e mi porse una massa
informe che
stringeva tra le mani. Guardai meglio e capii che era il suo giubbotto.
Mentre
mi fissava senza parlare, con aria molto seria, a un tratto
mi tornò in mente
come una valanga tutto quello che era successo tra noi. Che ci
trovassimo
insieme, da soli, a Port Angeles, io completamente fuori di testa,
senza che
avessimo parlato nemmeno una volta dopo il bacio, era veramente un
brutto
scherzo del destino. Presi il giubbotto e lo infilai, rabbrividendo.
«Grazie»
mormorai.
«Di
nulla».
Aveva smesso di piovere, anche
se ogni tanto cadeva
qualche solitaria goccia fredda. Cominciammo a camminare, vicini ma non
troppo. Quando la mia mano sfiorò accidentalmente la sua,
subito la ritrassi con un sussulto involontario. Alex non
reagì in alcun modo e continuammo a camminare in silenzio,
io a testa china, lui con lo sguardo fisso davanti a sè,
entrambi facendo finta di nulla. Poi successe di nuovo. Le nostre mani
si toccarono per la seconda volta, e poi un'altra, e un'altra ancora...
Come se si cercassero a vicenda. All'improvviso, d'istinto, afferrai la
sua e la strinsi. Forse non era una mossa saggia visto che la
situazione tra
noi era così strana e confusa, e forse non avrei mai osato
farlo, con il dubbio
di essere respinta, se in quel momento non mi fossi sentita
così sola… sola e
fragile come un calice di cristallo nel mezzo di un uragano. Alex ricambiò la
stretta con forza, senza un briciolo di esitazione. Per la prima volta
mi sentii un po’ meglio, più leggera. Mi chiesi
cosa avrei letto nei suoi occhi se avessi avuto il coraggio di
guardarlo. Un po’ mi incuriosiva, un po’ mi
spaventava, ma in ogni caso
mantenni lo sguardo fisso a terra.
«Che ne
dici?» esclamò all'improvviso, fermandosi. Dovetti
imitarlo e mi accorsi che eravamo di fronte a una grande
caffetteria. Alex mi fissava con aria interrogativa.
«Va bene»
risposi.
Mi
sentivo disorientata e fui
felice che lui non lasciasse la mia mano mentre entravamo e chiedeva un
tavolo. Seguimmo la cameriera attraverso il locale fino a un angolo
tranquillo e
sedemmo a un tavolino per due. A parte me ed Alex, una coppia di mezza
età e un
ragazzo seduto da solo a un tavolo davanti a un portatile, non
c’era nessun
altro.
«Che cosa vi porto,
ragazzi?» chiese la
cameriera, aprendo il blocco delle ordinazioni.
Alex mi fece cenno di ordinare
per prima ed
io sparai la prima cosa che mi venne in mente, ignorando il
menù poggiato sul
tavolo.
«Ehm… una cioccolata calda, grazie».
«Anche per me.
Fondente. E aggiunga un po’ di
peperoncino, per favore».
La ragazza finì di
scrivere sul suo blocco
e
si allontanò. Restammo da soli, e all’istante mi
sentii
investire da una nuova
ondata di imbarazzo. Il silenzio mi parve immediatamente troppo
pesante. Affannata, cercai in fretta qualcosa da dire. Per fortuna, il
mio stesso
interlocutore forniva sempre qualche interessante spunto per cominciare.
«Peperoncino?»
domandai, inarcando le
sopracciglia.
«Mi piacciono i
sapori particolari» rispose,
ostentando disinvoltura. «Ho perfino assaggiato il piccione,
sai».
Okay, questo era decisamente
strano. «Il
piccione?» ripetei, e inarcai le sopracciglia più
che potevo.
«Raffinata cucina
francese, hai
presente?»
Rivedere il suo sorriso era
così
bello che non potei non ricambiarlo, anche se forse mi uscì
solo una specie di
smorfia. Tornò il silenzio, e con esso
l’imbarazzo. E adesso di cosa avremmo parlato?
Ma che razza di situazione. Com’era potuto succedere tutto
questo?
Cercai di
ricostruire quell’assurda giornata: mi ero svegliata, avevo
passato un po’ di
tempo a rimuginare sotto le coperte, mi ero vestita, avevo discusso con
mamma e
papà a proposito della persona che adesso sedeva di fronte a
me, ero andata a
scuola, avevo nuovamente discusso della suddetta persona con le mie
amiche, poi
Jacob era venuto a prendermi… Lì mi fermai,
preferendo non ripensare al
seguito.
Sembrava tutto stranamente distante e irreale, come un sogno, o meglio,
un
incubo. Come se non fosse successo davvero. Quasi mi aspettavo di
svegliarmi
da un momento all’altro e ritrovarmi nel mio letto.
«Come
va?». Ancora una volta Alex mi
distrasse dalle mie fantasie. Il suo sguardo era preoccupato, anche se
in modo discreto.
«Ehm…». Cercai qualcosa da
dirgli, ma avevo
la testa vuota.
«Non bene,
vero?»
Sospirai, portandomi una
ciocca di capelli
dietro l’orecchio; era un gesto che facevo spesso e
involontariamente quando ero in difficoltà. «Si
vede così tanto?»
«No. È
solo che hai proprio la faccia di
una che ha bisogno di una bella cioccolata calda».
Non sapevo come rispondere. Mi strinsi il suo
giubbotto addosso. Continuavo a sentire un gran freddo anche
all’interno della
caffetteria.
«Ti va di dirmi
cos’è successo?» chiese a
bruciapelo.
Sorpresa, abbassai gli occhi
sul tavolo di
plastica rossa e non fiatai. Avevo la sensazione che qualcosa di molto
grosso si fosse incastrato in gola.
Alex interpretò il
mio silenzio a modo suo.
«Okay, non devo impicciarmi» esclamò, e
si allontanò un pochino dal tavolo. «Hai ragione.
Lo capisco se non vuoi parlare con me».
L’espressione era difficile da leggere come sempre, ma ora
che lo conoscevo
meglio mi parve di riuscire a cogliere un velo di tristezza nella sua
voce e nel
modo in cui abbassò gli occhi.
«Non sei
tu» mi affrettai a chiarire. «Non è
che non voglio parlare con te, ma… è una storia
molto complicata».
Annuì.
«Immagino. Be’, comunque, se ti
andasse di parlarne…»
Parlarne. Non avrei saputo da
dove
cominciare, cosa dire o come dirlo. Il dolore non era affatto scomparso
e
ripensarci era come una coltellata nello stomaco.
Alex taceva, ma vedevo l’ansia nei suoi occhi. No, parlare di
cosa
mi era successo sarebbe stato impossibile, e non solo perché
non ci avrebbe
capito nulla, ma anche perché non ce l’avrei mai
fatta. Però forse qualcosa
avrei dovuto dirgli. Dopotutto, era stato molto carino con me, quel
pomeriggio. Quasi un’altra persona rispetto al ragazzo che mi
aveva cortesemente e
freddamente ignorata nei due giorni precedenti. Meritava almeno che
continuassi
a recitare. Pensai velocemente a cosa avrei potuto raccontargli, e
intanto mi
schiarii la gola.
«Vedi,
io… ho discusso con la mia famiglia.
Con i miei zii» cominciai lentamente, e poi mi interruppi,
non sapendo come
continuare.
Ci fu un secondo di silenzio.
«Le
discussioni capitano» fece Alex con cautela.
«È stata
una brutta discussione».
Accennò un mezzo
sorriso. «Capitano anche
quelle brutte».
Abbassai la testa.
«Veramente io… non so se…
se sarà mai più la stessa cosa». Mi
affrettai ad asciugare una lacrima
solitaria, sperando che non ci facesse caso.
«È stato
così brutto?» chiese, con voce
bassa e molto dolce.
Riuscii solo ad annuire, le
mani e le labbra
che mi tremavano. Alex fece un sospiro lieve e distolse lo sguardo da
me con
delicatezza.
«Mi dispiace. Ma anche quando sembra che sia tutto distrutto,
prima o poi le cose si aggiustano. Forse non come prima, ma se si
vuole, si
trova il modo di sistemarle. Sembra solo un luogo comune, lo so.
Però a volte
anche i luoghi comuni nascondono qualche verità».
Riflettei sulle sue parole
mentre mi
concentravo per impedirmi di scoppiare in lacrime. «Tu sei
riuscito a sistemare tutto dopo… insomma, negli
ultimi mesi?»
Mi riferivo a quando aveva
smesso di fare il
pazzo tra alcool, fumo e feste scatenate per ricominciare a vivere in
modo
normale, ma non potevo dire quelle cose a voce alta, temendo di
irritarlo. Controllai la sua
espressione, ma non sembrò disturbato dalla mia domanda.
«Diciamo che sono riuscito a creare un nuovo equilibrio. Ci
riuscirai
anche tu, vedrai».
Non mi venne in mente una
risposta adeguata
e rimasi in silenzio, mordicchiandomi il labbro inferiore. Sapevo che
stava
cercando di consolarmi e avrei tanto voluto credergli, ma in quel
momento mi sembrava impossibile. Mi sforzai di
riempire in qualche modo il silenzio.
«Alex, ti ringrazio di avermi portato
qui» mormorai, a disagio. «Mi rendo conto che tutta
la situazione deve
sembrarti molto strana».
«Strana?»
ripetè, sorpreso. «No, per niente.
Hai litigato con la tua famiglia e li hai mollati per un po’.
Non so dirti
quante volte l’ho fatto io con Julie. Litigavo anche i miei
genitori, sì. Ma
dopo che sono morti, sentivo di continuo il bisogno di
andarmene. E lo assecondavo, sempre. Non ero capace di fermarmi un
secondo a pensare agli altri, all'effetto che le mie azioni potevano
avere su di loro. E poi Julie passava ore e ore a preoccuparsi da pazzi
e a cercarmi ovunque». Tacque per
un istante. «Non c’è niente di strano,
Renesmee».
«Spero di non averti
causato problemi».
«In che
senso?»
«Non avevi impegni,
qualcosa da fare? Non ti
ho rovinato la giornata?»
«Non basta questo a
rovinarmi la giornata»
esclamò. «Non hai fatto saltare nessun impegno,
tranquilla: stavo solo facendo
un giro in macchina. Sai, mi piace guidare: mi aiuta a pensare. Ti ho
visto lì,
sotto la pioggia, e fermarmi è stato…
istintivo». Pronunciò l’ultima parola
con
leggera esitazione, come se avesse deciso di cambiarla
all’ultimo secondo.
«Non eri costretto a
portarmi fin qui, però»
aggiunsi.
«No, ho voluto
farlo. In un certo senso te
lo dovevo».
«Che vuoi dire…» sussurrai,
sorpresa. In
quel momento fummo interrotti dall’arrivo della cameriera.
Sistemò due grosse tazze davanti a noi, ma non le guardai
nemmeno e rimasi concentrata su
Alex, chiedendomi cosa significassero quelle parole. «Che
vuoi dire?» ripetei a
voce più alta quando la ragazza si fu allontanata.
Lui abbassò lo
sguardo sulla sua tazza, la
prese tra le mani e ne mescolò lentamente il contenuto.
«Che non mi sono
comportato bene con te» rispose con tono estremamente serio.
«Scusami».
Restai di sasso. Mi aveva
chiesto scusa. Ne
fui così stupita che per un po’ non seppi cosa
dire. Non che lo giudicassi un
mostro, ma di sicuro non mi sarei mai aspettata che lo facesse
così,
spontaneamente, in modo semplice e diretto. Immaginavo che non fosse
una
persona molto abituata a chiedere scusa.
«Alex,
io… lo apprezzo, davvero. Ma non è
necessario. È tutto a posto» borbottai, a
disagio.
«Sì,
invece» disse con forza, senza
sollevare lo sguardo. «Sono stato un idiota. Non sapevo cosa
fare né cosa dire,
e ho deciso di non fare e non dire niente».
Sospirò, passandosi una mano tra i
capelli. All’improvviso sembrava arrabbiato. «Forse
non è nemmeno il momento
adatto per parlare di questo, tu avrai altre cose per la
testa». Prese la tazza
e bevve un po’ di cioccolata.
«No,
aspetta» intervenni. «Voglio dire, hai
ragione, adesso ho altre cose per la testa. Ma negli ultimi due giorni
ho avuto
solo questo, per la testa. Quindi
va
bene, parliamone».
Alex si appoggiò
allo schienale della sedia
e finalmente mi guardò con aria sorpresa e indagatrice.
«Anche tu hai passato
gli ultimi due giorni a pensare al nostro bacio?»
Spalancai gli occhi, sorpresa
da quell’anche tu««QQ.
«Perché, tu l'hai fatto?»
Accennò un sorriso, ma non rispose
direttamente alla domanda, sicuro che avessi già capito.
«Credevo che ce
l’avessi con me».
«Be’, non
mi ha fatto piacere che tu mi
abbia ignorato. Avrei preferito che parlassimo, ma non eri
costretto».
«Non mi riferivo a
questo. Intendevo dire…
per il bacio. Credevo che te la fossi presa perché ti ho
baciato» disse
lentamente.
Poco mancò che la
bocca mi si spalancasse
tanto da fare cadere la mascella sul tavolo. «Ah,
sì?» balbettai.
Lui si agitò un
po’ sulla sedia. Era chiaro che
ancora un volta, con la mia imbranataggine, non gli stavo rendendo le
cose
facili. Ma non l'avevo mai visto così teso
e incerto su cosa
dire.
«Insomma, io ti bacio e tu scappi via. Ho pensato che fossi
arrabbiata o offesa, perché forse non volevi che ti baciassi
o mi
consideravi solo un amico. Avrei voluto scusarmi, il giorno dopo, ma
non
sapevo come fare. Non volevo peggiorare la situazione, così
ho pensato che la
cosa migliore fosse starti alla larga, lasciarti in pace».
Parlò
così in fretta e con tanta agitazione
che ebbi qualche difficoltà a seguirlo, la mente ancora
stressata dagli
avvenimenti recenti. Tanto per fare qualcosa, mentre cercavo di
organizzare i
pensieri, presi la mia tazza e mandai giù di malavoglia un
sorso di cioccolata. Avevo lo stomaco chiuso, ma il calore della
bevanda mi fece sentire
sorprendentemente meglio.
Quindi, una delle mie
supposizioni si era
rivelata giusta. La mia stupida fuga aveva creato il problema, anche se
non nel
modo che credevo. Lui sembrava convinto che me la fossi data a
gambe perché non avevo gradito il suo bacio. La situazione
era a dir poco
paradossale: mentre io inondavo di lacrime il sudicio pavimento del
bagno della
scuola pensando che l’unico ragazzo che mi era mai piaciuto
non mi volesse
più, lui in mensa stava pensando esattamente la stessa cosa.
Che assurdità. Avevo ascoltato spesso le mie amiche parlare
della totale e drammatica incomunicabilità tra uomo e donna.
Holly
sosteneva che Paul avesse un talento particolare nel capire sempre
l’esatto
opposto di quello che intendeva lei. Forse avevano ragione.
«Renesmee?»
Di colpo tornai in me. Guardai
Alex: mi
stava fissando con un’aria strana, perplessa e preoccupata
insieme.
«Sì?»
risposi, e all’istante mi sentii un’autentica
idiota.
La confusione sul suo viso
aumentò. «Ti
prego, dì qualcosa. Qualunque cosa. Puoi anche rovesciarmi
la cioccolata in
testa, se ti va, ma fammi capire cosa pensi».
Le sue parole suonavano
incredibilmente
familiari. Non avevo fatto altro che chiedermi la stessa cosa su di lui
fino a quella mattina. Possibile che avessimo avuto tutti e due
lo stesso tormento senza accorgercene?
«Alex, tu non hai
sbagliato. Ho sbagliato
io. Quel momento, sulla spiaggia, è stato perfetto. Il
momento più bello che io
abbia mai vissuto» mormorai. Non era facile aprirsi tanto, ma
era
più importante che lui sapesse la verità.
A lungo mi fissò
incredulo, ed io mi persi
in quegli occhi profondi come piscine. «Sul
serio?». Annuii, certa di avere le
guance in fiamme, e dal momento che avevo anche gli occhi lucidi, il
viso
rigato di eyeliner nero, i capelli bagnati e in disordine, non dovevo
essere proprio
un bello spettacolo.
«Ma allora perché sei corsa via?»
Strinsi le mani intorno alla
mia tazza di
cioccolata quasi senza accorgermene, facendomi coraggio. «Non
c’è un
motivo preciso» balbettai. Ovviamente, ero costretta a tenere
per me il timore
di coinvolgermi troppo con un umano e mettere a rischio la mia
esistenza e
quella della mia famiglia. Così, ancora una volta, gli
raccontai solo una parte
della verità. «Il fatto è che non me
l'aspettavo. Non sapevo che cosa fare». Tirai un profondo
respiro, sentendomi quasi
soffocare per l’agitazione. Incredibile come ripetere quelle
cose a lui fosse
infinitamente più difficile che dirle a Jas e…
be’, insomma, ad altre persone. Come scalare una montagna.
Alex non staccava gli occhi da
me e il suo
sguardo intenso e dolce mi faceva tremare le gambe. Fortuna che ero
seduta.
«Non avevi mai baciato nessuno, vero?»
sussurrò.
Ecco, aveva centrato il
bersaglio e aveva
finalmente capito quanto fossi imbranata. Mi limitai a scuotere la
testa,
gli occhi bassi, troppo imbarazzata per riuscire a formulare una frase.
Anche Alex abbassò lo sguardo, a un tratto molto interessato
al piccolo distributore di tovaglioli di carta
poggiato sul tavolo in mezzo a noi. Mi ci vollero un paio di minuti per
riacquistare la calma e tornare a respirare normalmente. Quando ripresi
a
parlare, Alex mi guardò di nuovo, con una strana cautela.
«Andarmene
è stata la prima cosa che mi è
venuta in mente» confessai. «Mi dispiace. Non
pensavo di essere una persona
che scappa, e invece anche oggi…». La voce mi
morì in gola. Sentii arrivare
un’altra fitta di dolore e aspettai che passasse. Le mani mi
tremavano da morire, e mi aggrappai di nuovo alla tazza
perché non se ne
accorgesse. «Adesso mi rendo conto di aver preso una
cantonata colossale perché
ho dato per scontato che quel bacio dovesse significare
chissà cosa e invece
era solo un bacio. Gli ho dato troppa importanza. Mi dispiace, Alex,
davvero. Se ti va possiamo fare come se non fosse mai successo e
continuare la nostra amicizia… Se vuoi essere mio
amico, ovviamente».
«Ehi, frena,
frena!» esclamò, appoggiandosi
al tavolo e sporgendosi verso di me. «Un istante solo, tu
vuoi fare finta che
non sia successo?»
Sembrava sconvolto. Lo
guardai, disorientata
e confusa. «Be’, se tu sei pentito e preferisci
così non c’è nessun problema. Lo
capisco».
«Ma io non sono
pentito!» sbottò. «Non sono
pentito e non voglio far finta di niente. Pensi che quel momento sia
stato
speciale solo per te? Ti sbagli». E qui tacque di botto, il
volto cupo e
ombroso.
«Ah» fu
l’unico commento che mi uscì.
«Allora tu… per te va bene che noi… ci
siamo baciati?»
Alex teneva di nuovo gli occhi
incollati sul
tavolo e sembrava imbarazzato quanto me. «Sì,
diciamo di sì. Se va bene a te, è
ovvio».
«Certo»
risposi, un po’ precipitosamente. In
realtà non avevo la minima idea di cosa stessi farneticando
e forse nemmeno
lui. «Cioè, visto che a te sta bene…
credo che potremmo…»
«Cosa?» mi
sollecitò.
A quel punto andai
completamente in confusione. «Cosa?» ripetei,
perplessa.
«Credi che
potremmo... cosa? Finisci la frase».
Cominciai a sudare freddo,
sentendomi messa
alle strette. «Io… non lo so. Che stai dicendo,
Alex?»
«Tu
che stai dicendo» ribattè, impaziente.
Sospirò, sempre più agitato. «Prima hai
detto… che tu ed io potremmo… cosa?»
Credetti che le mie guance
stessero prendendo
fuoco, mentre cercavo disperatamente un modo per uscire dal casino in
cui ci
eravamo messi, balbettando una sciocchezza dietro l’altra.
«Io… ecco, volevo
dire… che noi…». In verità
cercare di spiegarglielo era impossibile dal
momento che io stessa non avevo idea di cosa stessi cercando di dire.
E poi sembrò
stufarsi di quei balbettii
privi di significato. «Scheggia!»
esclamò.
«Che
c’è?». Lo guardai e mi resi conto che
era sul punto di scoppiare a ridere.
«Che caspita stai
dicendo?»
«Non lo
so!» sbottai, stizzita. «E non
chiamarmi Scheggia!»
«Okay,
basta» disse con decisione, e tornò
serio in un lampo. «Renesmee, ascolta: tu mi piaci. Sul
serio, non sto
giocando, stavolta. Mi piaci un sacco. Molto più di
qualunque ragazza io abbia
mai conosciuto. Molto, molto di più». Fece una
piccola pausa. Io rimasi zitta a
guardarlo, senza fiato. Poi sorrise. «Sei bellissima,
divertente… riesci sempre
a farmi ridere, in un modo o nell’altro. Con te sto bene,
Scheggia, mi sento
sereno. Non so perchè, ma so che mi fai stare bene, e non
credevo che sarei
mai più riuscito a sentirmi così. Di questo avrei
dovuto esserti grato, e
invece mi sono comportato da schifo. Oggi ho cercato di rimediare,
ma… il punto
è che io voglio continuare a stare con te, perché
nessuna è mai stata tanto
importante per me quanto tu lo sei adesso. Insomma, la vita
è breve, noi due lo
sappiamo bene. Un anno fa avrei detto Un motivo in più per
spassarsela finchè
è possibile. Adesso invece dico Un motivo in più per
stare con le persone a
cui si tiene finchè è possibile. Non
pretendo
che tu decida niente adesso,
soprattutto non oggi. Questa deve
essere stata una giornata tremenda per te. Ti chiedo solo di restare
insieme,
come amici, perché è un inferno quando non ci
sei».
La dolcezza, la sollecitudine,
la sincerità,
il desiderio che trasparivano dalle sue parole mi avevano sorpresa,
ammutolita,
stregata. E commossa. Gli occhi ripresero a pizzicare pericolosamente.
Lui non
smise di fissarmi con quell’aria seria. Allungò
lentamente una mano verso di me,
sopra il tavolo. Ebbi solo un secondo di esitazione e mi chiesi se
fosse giusto farlo, ma il pensiero di tutto quello che avevo appena
perso e di ciò che mi
veniva offerto in quel momento, mi spinse a prendere la sua mano e a
stringerla. E per la prima volta dopo ore, sentii di non essere sola:
era rimasto
ancora qualcosa, o meglio qualcuno, a cui potessi aggrapparmi. Chinai
la testa,
sopraffatta dal sollievo e dalla tristezza al tempo stesso, per
nascondere le
lacrime brucianti che scivolavano sulle guance fredde, ma fu inutile.
«È colpa
mia?» domandò Alex a voce
bassissima.
«No»
sussurrai in un singhiozzo. «È solo
che…
vorrei non dover tornare a casa e restare qui… con
te».
Neppure io stessa avrei saputo
spiegare cosa
intendessi esattamente, cosa volessi sul serio da Alex, amicizia,
affetto o
qualcosa di più. In quel momento riuscivo solo a pensare a
quanto avessi
bisogno di lui. Alex forse lo capì, perchè non mi
chiese nulla. Le sue dita, ancora intrecciate alle mie, salirono fino
al mio viso e mi accarezzarono la guancia bagnata. Le strinsi con
calore e quasi mi appoggiai alla sua mano, per sostenermi.
Sentivo la testa insopportabilmente pesante e dolorante. Chiusi gli
occhi e un po’
dell’oppressione che mi serrava il petto sembrò
scivolare via.
****
«Qui va bene. Puoi
fermarti».
Alex rallentò e
fece come gli avevo chiesto,
ma non spense il motore, guardando con curiosità fuori dal
parabrezza. Eravamo
a non più di trenta metri dalla villa dei nonni, che
risaltava nel buio come un
grosso drago addormentato. E lui la stava fissando proprio come se lo
fosse,
vagamente preoccupato.
«Abiti
qui?»
«Non proprio, qui
abitano i miei nonni e i
miei zii… acquisiti. Casa mia è un cottage a un
centinaio di metri da qui».
Casa… ero sicura di
poterla ancora chiamare
così? Casa è il posto dove vivono le persone che
ti amano e che tu ami. Le
persone che ti conoscono profondamente e che tu conosci allo stesso
modo. Io
potevo essere ancora certa di questo?
«Ah» fece
Alex. «Allora lascia che ti
accompagni. Non vorrai camminare da sola per i boschi a
quest’ora».
Non riuscii a trattenere un
sorriso. Si
preoccupava per me. Gli piacevo e gli importava sul
serio di me. Nello stato di abbattimento in cui ero, quella
convinzione mi diede un sollievo incredibile.
«Sono solo le nove.
E poi io vado
sempre a piedi da qui a casa mia, anche di sera. Non
c’è nessun pericolo».
«Sicura?»
«Sicura. Hai
già fatto una deviazione di
mezz’ora per accompagnarmi».
Scrollò le spalle.
«Non ci pensare. E sei
sicura… sei proprio sicura di voler andare?»
«In che
senso?» domandai, confusa. Dopo
tutto lo stress fisico e mentale delle ultime ore, avevo la sensazione
di non
possedere più un briciolo di energia e non riuscivo a
concentrarmi su niente.
Lui mi fissava guardingo.
«Te la senti di
tornare?»
Finalmente afferrai il senso
della domanda.
Sapevo che voleva essere gentile, ma in quel momento era la domanda
peggiore
che potesse pormi. Se fosse dipeso da me, se ne avessi avuto la
possibilità,
sarei fuggita lontano e avrei messo più chilometri possibile
tra me e la mia
famiglia, tra me e Jacob. Avrei voluto non doverli guardare in faccia
mai più.
Risposte, spiegazioni e giustificazioni non m’interessavano.
Qualunque cosa mi
avessero detto non sarebbe mai stata sufficiente a motivare una vita di
bugie.
«No, per
niente» mormorai, guardando
l’oscurità fuori dal finestrino. «Ma
sono stata via per ore. Devo
tornare». Feci un sospiro pesante e
mi voltai verso di lui. «Grazie».
«No, non
ringraziarmi. Vorrei poter fare
qualcosa per aiutarti».
Gli sorrisi.
«L’hai già fatto: oggi sarei impazzita
se non ci fossi
stato tu».
Ricambiò con uno di
quei suoi sorrisi
aperti, luminosi e bellissimi. «Ci vediamo domani?»
«Sì»
risposi, anche se in tutta sincerità
non ne ero certa. Domani sarebbe accaduto qualcos’altro?
Meglio non chiederselo.
Feci per sfilarmi il giubbotto e restituirglielo, ma lui mi
fermò mettendomi
una mano sul braccio.
«No, tienilo.
Fà freddo». Assunse un’espressione
furba. «Domani lo rivoglio indietro,
però».
«D’accordo.
Ciao, Alex».
Rapidamente, si
allungò e mi sfiorò una
guancia con le labbra fresche e soffici. «Buonanotte,
Scheggia».
Probabilmente approfittava del
fatto che
fossi troppo frastornata ed esausta per rispondergli a tono. Mi limitai
a
scendere dall’auto, scuotendo la testa. Nella villa le luci
erano accese e con la
coda dell’occhio fui certa di vedere delle ombre che si
muovevano dietro le
ampie vetrate, ma la superai in fretta senza guardare e poco dopo
sentii il
rumore dell’auto di Alex che ripartiva. Il tragitto verso
casa mi parve stranamente breve, sebbene camminassi molto
più piano del solito.
Quando
giunsi in vista del cottage, una morsa di ansia improvvisa mi strinse
lo
stomaco. Cosa, o meglio chi, avrei
trovato lì dentro? Speravo con tutte le forze di non dover
incontrare Jacob.
Avrei preferito un lancio dai Monti Olimpici senza paracadute a un
faccia a faccia con lui. Feci
il giro della casa e mi avvicinai alla porta sul retro, ma non aprii
subito e
rimasi in ascolto. Le luci erano spente. C’era un silenzio
assoluto, rotto solo
dal fruscio delle chiome degli alberi e dall’inquietante
richiamo di una
civetta.
Facendomi coraggio, spinsi la
maniglia ed entrai nella cucina. Era vuota, buia e
silenziosa. Sembrava proprio che la casa fosse deserta. Sollevata,
passai in salotto e stavo puntando verso la mia stanza quando sentii la
porta principale aprirsi di botto e richiudersi subito dopo. Il cuore
mi balzò
in gola e mi voltai di scatto. La mamma piombò nella stanza
come una freccia scagliata a tutta velocità, i capelli in
disordine, gli occhi spalancati e un’espressione di ansia
allo stato puro.
«Bella,
aspetta!». Papà arrivo quasi di
corsa alle sue spalle, un braccio teso come per fermarla. Poi mi vide e
si
bloccò.
Erano lì, tutti e
due, immobili, a fissarmi.
Mi sentii morire. Era l’ultima cosa che volevo, e invece
eccoli lì.
«Renesmee»
sussurrò la mamma. Sembrava che
fosse senza fiato, ma ovviamente il suo lieve affanno era solo una
reazione
prodotta dall’ansia. «Finalmente! Eravamo
così preoccupati!»
«Preoccupati?»
ripetei, disorientata.
«Non sapevamo dove
fossi! Sei scomparsa per
ore senza dare nessuna notizia, ci siamo spaventati a morte. Ti avremmo
cercato, ma…». Lanciò
un’occhiata di sbieco a
papà, come se gli rimproverasse qualcosa, e non aggiunse
altro.
Non sapevo cosa rispondere. Esattamente come
era successo nel pomeriggio, con loro, non riuscivo a respirare e la
testa mi girava.
Avevo bisogno di allontanarmi. Feci per uscire dal salotto, ma la voce
della
mamma mi fermò.
«Dove sei
stata?» esclamò. Sembrava
sconvolta.
Edward non aveva avuto il
tempo di
informarla, quindi. «Non ha importanza» sussurrai.
«Sì,
invece!» esplose lei. «Non puoi sparire
in questo modo! So che adesso ce l’hai con noi, ma hai idea
di quanto io
mi sia preoccupata? Non avevo la minima di dove fossi!»
«Bella, ti
prego» intervenne papà a bassa
voce, afferrandola per un braccio. Il suo volto uscì
dall’ombra dell’ingresso e
vidi che i lineamenti perfetti fremevano. Si sforzava di mantenere la
calma, ma l'angoscia lo divorava come divorava la mamma.
«L’importante è che sia tornata,
possiamo parlarne domani».
«Domani? No,
dobbiamo farlo subito!»
Quelle parole mi scatenarono
dentro una
rabbia improvvisa e sorprendente, come una fiamma che divampa nel buio.
A
stento mi trattenni dal mettermi a strillare. Lei mi aveva mentito
spudoratamente, insieme a tutti gli altri. Non aveva il diritto di
chiedermi
nulla.
«Parlate senza di
me» sibilai.
Bella mi guardò in
silenzio per un istante,
troppo scioccata per rispondere subito. «Cosa?»
«Non mi va di
parlare, okay?»
Si riprese in un attimo e
assunse un
cipiglio severo. «Ma è importante!
Renesmee!»
«Bella,
no» esclamò papà e le
strattonò il
braccio. Lei non ci fece caso.
«Ma io non
voglio!» gridai, e la mia voce si
spezzò. «Non voglio, non ce la faccio! In questo
momento non riesco neanche a
guardarvi in faccia, non riesco a stare qui davanti a voi, vorrei
essere ovunque ma non
qui… Lasciatemi
in pace».
Tentai nuovamente di lasciare
la stanza, ma
la mamma parlò con voce talmente tormentata che mi
inchiodò sul posto. «Non
posso lasciarti andar via così! Voglio spiegarti... Ti
prego, tesoro!»
«Non me ne frega
niente delle tue
spiegazioni!». Erano sconvolti tutti e due. Sapevo che li
stavo ferendo, e ne
fui soddisfatta. Far provare a loro un briciolo di quello che provavo
io
era l’unica consolazione che potessi sperare di avere.
«Non c’è niente da spiegare.
Lasciatemi in pace» ripetei.
Non aggiunsero altro. Mi guardavano con
occhi sbarrati. Poi, lentamente, Bella indietreggiò e capii
che non avrebbe cercato di fermarmi ancora. Li superai camminando
rapidamente, stringendo le braccia al petto, raggiunsi la mia camera e
sbattei la porta, chiudendomi dentro a chiave. Sapevo che se avessero
voluto entrare una porta chiusa non li avrebbe fermati, ma forse
avevano capito che quella sera non sarei stata in grado di reggere un
confronto. Abbassai gli occhi, stringendo ancora la maniglia, e vidi
il bracciale intrecciato che Jacob mi aveva regalato per il mio primo
Natale. Sentii un nodo stringermi la gola. Cominciai ad armeggiare
frenetiamente per sfilarmelo e ci volle un bel po' a causa delle mie
dita deboli e tremanti. Poi passai al ciondolo con il ritratto che la
mamma mi aveva dato nella stessa occasione. La tristezza mi soffocava
sempre di più. Il tempo trascorso con Alex mi aveva aiutata
a stare meglio finchè era rimasto al mio dianco, ma adesso
ero sola e mi piombava di nuovo tutto addosso. Il peso era tale che mi
sembrava di non riuscire a stare in piedi. Mi liberai anche della collana e la gettai a terra insieme
al bracciale senza neanche guardarli, poi mi trascinai fino al letto,
nascosi il viso tra i cuscini e lasciai scorrere le lacrime.
Note.
1. Ecco la
canzone.
Spazio
autrice.
E finalmente la nostra coppietta è tornata! Cosa dire,
sapete già che li adoro. Questo capitolo è uno
dei miei preferiti, sono così dolci, teneri e imbarazzati...
Perfino Alex non riesce ad essere spavaldo e disinvolto come al solito.
Spero davvero che vi sia piaciuto. Stavolta chiudo qui, per farmi
perdonare il poema che ho scritto l'altra volta xd. A presto!
|
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Capitolo 13 *** I won't let you go ***
C 13
Capitolo
13
I won' t let you go
If
there’s love just feel it
And
if there’s life we’ll see it
This
is no time to be alone, alone, yeah
I
won’t let you go
If
your sky is falling
Just
take my hand and hold it
You
don’t have to be alone, alone, yeah
I won't let you go.
I
won’t let you go,
James Morrison¹
Amicizia. Raddoppia le gioie e
divide le angosce a metà.
FRANCIS BACON, Saggi
Mi
svegliai di colpo, all’improvviso, come se qualcuno mi avesse
scosso con violenza. Sollevai le palpebre ma la luce mi ferì
gli
occhi peggio di una stilettata e
dovetti richiuderle immediatamente. Rimasi ferma, sdraiata su un
fianco, per
non so quanto tempo. Se c’era luce allora dovevo essermi
addormentata, a un certo punto, senza accorgermene. Non che il sonno mi
avesse
fatto bene, comunque: avevo la spiacevole sensazione che la squadra di
baseball
della Forks High si stesse allenando contro le pareti del mio cranio.
Lentamente mi misi a sedere sul letto e riprovai ad aprire gli occhi
doloranti.
La sera prima non avevo chiuso le tende e la luce fredda e grigia,
perfettamente intonata all’umore, aveva invaso la stanza.
Due improvvisi colpi
alla porta, per quanto
delicati, mi fecero sobbalzare.
«Buongiorno
tesoro!» disse una voce
cristallina. La mamma. «Come stai?». Breve pausa. «Senti,
perché non te la
prendi comoda oggi? Non sei costretta ad andare a scuola se non ti
va».
Cercava di avere un tono normale, ma si percepiva benissimo la tensione.
Non
risposi, e poco dopo si
allontanò. Sarei andata a scuola, ovviamente. Non se ne
parlava
proprio di
rimanere a casa. Volevo vedere e ascoltare i miei genitori il meno
possibile.
Mi alzai dal letto barcollando e inciampai in qualcosa… gli
stivali, di cui mi
ero faticosamente liberata prima di
addormentarmi. Mi chiusi in bagno (non ce n'era motivo, ma mi
sembrava di essere più al sicuro chiusa da qualche parte) e
feci
una lunga doccia bollente,
cercando di rilassarmi e scrollarmi di dosso un po’ di
torpore. Mi sentivo
stranamente sporca e avevo un sapore disgustoso in bocca;
lavai
anche i denti due o tre volte per cercare di eliminarlo.
Dopo la doccia tornai
in camera e gli occhi
mi caddero sul bracciale e la catenina che avevo gettato sul pavimento.
Non
sopportavo di vederli. Li raccolsi, li chiusi in un cassetto e mi
sforzai di
non pensarci. Impiegai parecchio tempo per decidere cosa mettermi.
Tirai
fuori tutto l’armadio e non facevo che guardare e riguardare
gli stessi capi
senza vederli davvero. Ero confusa e disorientata: mi sembrava che i
colori fossero troppo accesi nonostante il grigiore
invernale del cielo,
la luce troppo intensa, i rumori
troppo forti, le
cose vicine troppo lontane e quelle
lontane apparivano vicine.
In qualche modo
riuscii a vestirmi, preparai
la borsa, presi il giubbotto di Alex per restituirglielo e poi rimasi
impalata
nel mezzo della stanza. E adesso? Dovevo uscire e incontrare i miei?
Per un
attimo considerai l’ipotesi di uscire dalla finestra, ma non
era una cosa
molto sensata. Prima o poi avrei dovuto affrontarli. Presi un bel
respiro,
spalancai la porta e marciai in cucina.
«Buongiorno!»
esordirono i miei
contemporaneamente.
Erano entrambi ai fornelli, impegnati a preparare la
colazione. Non avevo un briciolo di fame e mi limitai a versare un
bicchiere
d’acqua, evitando con decisione di guardarli. Papà
emise un sospiro
leggerissimo e spense il fuoco sotto la padella con le omelette. La
mamma
invece non mollò subito.
«Allora,
cosa vorresti
mangiare? Ci sono
biscotti, cereali, toast, marmellata… oh, ti abbiamo fatto
le
omelette! Non
sono buone come quelle di Jasper ma immagino che possano
andare».
Visto che non
rispondevo, abbandonò il tono forzatamente allegro e assunse
un'espressione preoccupata. «Tesoro, ti prego, parla con noi.
Questo silenzio non ti fa bene».
Non avevo intenzione di rispondere, ma non
potei fare a meno di rivolgerle un’occhiata profondamente
astiosa. Come poteva
credere che nel giro di una notte mi fosse passata ed io fossi
già pronta a
discutere con loro?
«È
inutile, Bella» disse papà in un
mormorio che afferrai a stento.
Be’, per una
volta la sua capacità extra mi
faceva proprio comodo. Uscii di casa senza aggiungere altro e loro mi
lasciarono andare, grazie al cielo. Camminavo a passo sostenuto, le
braccia incrociate,
e intanto rimuginavo. Ci avrei messo un bel po’ ad arrivare a
scuola a piedi, ma
avevo pensieri sufficienti a tenermi occupata per tutto il tragitto, e
anche
oltre. Ero così lontana dal mondo reale che quando superai
la casa dei nonni e
vidi ferma nel viale un'Audi nera, luccicante sotto il pallido sole
invernale come nel pieno di un pomeriggio estivo, e il suo proprietario
in
piedi appoggiato alla portiera, intento a fumare una sigaretta,
sussultai per la sospresa. Forse la stanchezza e lo
stress giocavano brutti scherzi. Provai a chiudere e riaprire
gli occhi, ma niente da fare:
erano ancora lì. Quando Alex si accorse del mio arrivo, i
suoi occhi si
illuminarono; si sfilò la sigaretta di bocca e sorrise.
«Ehilà»
mi salutò, con il tono di
chi saluta un compagno di bevute.
«Che ci fai
qui?»
«Sono venuto
a
riprendermi il giubbotto» rispose come se fosse stata la cosa
più ovvia del
mondo. «Volevo essere sicuro che non cercassi di
tenerlo».
«Perché
mai dovrei tenere il tuo
giubbotto?» indagai con cautela.
«Perché
sei pazza di me». Si
portò di nuovo la sigaretta alle
labbra e un attimo dopo la riabbassò con un gesto fluido ed
elegante.
«Sì,
come no. Il Grande Conquistatore ha
colpito ancora».
Annuì
gravemente come se stessimo affrontando un argomento della massima
serietà. «Eh
sì, l’effetto che ho sulle donne è molto
pericoloso, ma…». Alzò le spalle, come
per dire che non era colpa sua. «Dai,
sali».
Diede
un’ultima boccata alla
sigaretta, poi
la gettò a terra, la spense con la punta della scarpa e
salì in macchina. Io sedetti in fretta al posto del
passeggero,
sentendo un'improvvisa ondata di entusiasmo.
«È
un quarto d’ora che ti aspetto»
continuò mentre accendeva il motore. «Ci metti un
bel po’ a farti bella, eh?»
«Dove mi
porti, oggi?» domandai invece di
rispondergli. Quando cominciava a fare così era meglio
ignorarlo o non avrebbe
più smesso.
«Che ne dici
di Seattle? L’ho vista solo
dall’aereo, non mi dispiacerebbe fare un giro».
Niente male come idea.
Folle, certo, ma
davvero niente male. «Che ne dici della scuola?»
rilanciai.
«Sapevo che
avresti detto così. Vada
per la scuola, allora».
Ci fu silenzio per un
minuto, ma stranamente
la cosa non mi pesava. Forse dopo che avevo fatto una scenata da pazza
davanti a lui sarebbe stato sciocco provare imbarazzo solo
perché ce ne
stavamo zitti. All’improvviso lui parlò di nuovo,
con voce seria.
«Come
stai?»
«Bene»
risposi automaticamente, sistemando il suo giubbotto
piegato sul cruscotto. Ma non era la verità, lo sapevo, e
per qualche strana
ragione mentirgli mi parve strano. Inutile e sciocco anche questo dopo
che
avevo passato in sua compagnia i momenti peggiori della mia esistenza.
«No, non
lo so» ammisi.
«Senti,
mi dispiace di essere venuto qui così, di testa mia» disse dopo una breve pausa. «Ma vorrei sapere una cosa e non
sopportavo di aspettare che ci
incontrassimo a scuola. La pazienza non è la mia
specialità».
«Neanche la
mia» risposi con un sorrisino.
«Che cosa vuoi sapere?»
«Volevo
sapere se… se le cose sono ancora
come erano ieri sera. Cioè, se pensi ancora che tu ed io
potremmo essere amici».
Gli occhi erano impenetrabili, ma c’era una lieve tensione
nei suoi tratti.
«Certo»
mormorai. «Certo che siamo amici,
Alex».
Perché ne
dubitava? La sua spavalderia
veniva meno nei momenti più strani. Nel sentire le mie
parole si rilassò
visibilmente.
«Allora mi sento autorizzato a chiederti se per caso ti
andasse
di parlare».
Sembrava
così sinceramente premuroso che
avrei tanto voluto dirgli di sì. Ma era impossibile.
«Non credo. Non me la
sento, non ancora».
«Okay, nessun
problema. Comunque io ci sono».
«Va bene.
Grazie, Alex».
«Di
nulla». Mi rivolse un’occhiata rapida e
un sorriso brillante.
Restammo in silenzio
per il
resto del viaggio verso la scuola. Io non avevo voglia di
parlare e Alex sembrava preso da riflessioni proprie. Quando
parcheggiò
nel cortile e scendemmo, osservai l’insieme di bassi edifici
di fronte a noi con sguardo spento.
«Siamo ancora in tempo, se vuoi. Le fughe
dell’ultimo minuto sono la mia
specialità» disse Alex con voce suadente.
«Lo so
bene» commentai lanciandogli
un’occhiata di sbieco, mentre gli porgevo il giubbotto.
«Ma è tutto a posto,
tranquillo».
«Okay».
Prese la giacca e se la gettò su una
spalla. «Allora ci vediamo in mensa?»
«Certo. A
dopo. E grazie per il passaggio…
di nuovo».
Eravamo vicini e mi
bastò allungare appena
una mano per afferrare la sua e stringerla un momento. Lui parve un
po’
sorpreso, ma lieto di quel contatto spontaneo. «A
più tardi, Scheggia».
Mi
sorrise, lasciò la mia mano e si incamminò
lentamente verso la scuola.
Quanto a me, mi ci
vollero un paio di minuti
buoni per ricordare quale fosse la mia prima lezione e dove si tenesse.
Ero
così stanca e distratta che non mi sarei stupita affatto di
finire chissà dove.
Camminando lenta come una lumaca assonnata, raggiunsi l’aula
giusta appena in
tempo. I banchi erano già tutti occupati e il professor
Berty sarebbe arrivato
presto. Le mi amiche erano raggruppate in fondo all’aula: Jas
e Maggie
discutevano animatamente di qualcosa, Danielle sfogliava il libro di
letteratura e Holly si esaminava con attenzione in uno specchietto
sistemandosi
la frangia. Qualche banco più in là, Tom e Paul
giocavano a basket con altri
ragazzi usando il cestino della carta straccia come canestro e un
astuccio
delle penne come palla.
«Ciao
ragazze» le salutai, e quando mi resi
conto di quanto suonasse abbattuta la mia voce provai un brivido.
Jas mi
guardò e spalancò gli occhi.
«Renesmee! Era ora, stavi per fare tardi. Perché
non mi hai chiamato, ieri? Ho
provato a telefonare a casa tua ma non rispondeva nessuno…
Che cos’hai?»
Anche le altre mi
fissavano con curiosità,
adesso. Pensai affannata a cosa avrei mai potuto raccontare di tutta
quella
storia, ma non mi venne in mente granchè. «Niente.
Sto bene» mugugnai sbattendo
la borsa sul banco.
«Sei sicura?» indagò Danielle chiudendo
il
suo libro. Mentre la guardavo negli occhi, fui certa che non sarei
riuscita a mentirle
tanto facilmente; era troppo sensibile e perspicace.
«Sì,
è solo che… ieri ho litigato con i miei
zii».
«Ma tu non
litighi mai con i tuoi zii»
obiettò Holly.
Le sue parole mi
ferirono come una lametta
affilata. «Be’, ieri abbiamo litigato».
Speravo che la cosa finisse lì. E invece no.
«È
successo qualcosa di grave, vero?»
chiese ancora Danielle. Sembrava preoccupata.
Sospirai, passandomi
le mani sul viso.
«Sentite, so che vi sto facendo preoccupare, ma apprezzerei
se evitassimo di parlare
di questo, oggi» dissi stancamente.
Jas e Holly si
scambiarono un’occhiata.
«Okay»
fece Jas, un po’ esitante.
«Ma…»
Per fortuna il
professor Berty entrò in aula
in quel momento e troncò la conversazione.
Non seguii nemmeno una parola di
quella lezione, né di quelle successive. Passai tutta la
mattina con la testa
in una specie di nebbia. Forse qualche insegnante mi fece delle
domande, alle
quali forse risposi. Il giorno prima non avevo fatto i compiti e
probabilmente
mi beccai qualche ramanzina, ma credo che non la sentii nemmeno. Non
parlai con
nessuno, neanche con le mie amiche; mi camminavano accanto, ma quasi
non me ne
accorgevo. Non mi sentivo affatto bene, ero debole e stanca. Andavo da
un’aula
all’altra come un automa. Jas e le altre non
cercarono più di farmi parlare, forse perché
avevano capito che non ce l’avrei
fatta, o forse perché non sapevano che cosa dirmi.
Quando
suonò la campanella del pranzo non
me la sentii di affrontare la sala mensa, e poi non avevo un briciolo
di fame.
Sapevo che Alex mi stava aspettando, magari per pranzare insieme di
nuovo, ma
il pensiero del caos della mensa mi metteva addosso un’ansia
insopportabile. Dissi alle mie amiche che dovevo andare in
bagno e le avrei
raggiunte più tardi, e invece passai tutto
l’intervallo
seduta per terra a
fissare la fila di porte in plastica dei gabinetti davanti a me e a
sperare
di confondermi con la parete.
A un certo punto Jas venne a cercarmi per
verificare che fossi ancora viva. Cercò di convincermi a
uscire
e ad andare in
mensa con lei, si offrì di rimanere lì a tenermi
compagnia, ma le assicurai che
l’unica cosa che volevo era stare un po’ da sola.
Forse ci
rimase male,
ma prima di andarsene mi rivolse un piccolo sorriso incerto. Non ce
l’avevo
affatto con lei e le ero grata per quelle attenzioni, ma averla accanto
senza
poterle dire nulla, o peggio ancora raccontando qualche balla, sarebbe
stato
troppo difficile; non mi sentivo ancora in grado di affrontare qualcuno.
Mentre me ne stavo
lì, intenta ad ascoltare
il silenzio intorno a me, alternavo momenti di vuoto assoluto a momenti
in cui
la mia testa era così affollata di pensieri da sembrare un
palloncino sul punto
di scoppiare. Cercai di mettere un po’ d’ordine in
quella confusione e di
immaginare come poteva essere andata davvero la storia
della gravidanza della mamma.
I miei genitori si erano sposati ed erano
partiti per la luna di miele, convinti di non poter avere figli, e il
mio
arrivo era stata una sorpresa assoluta. Okay, fin qui ci arrivavo. E
dopo
cos’era successo? Sapevo che la mamma non aveva
cominciato
subito a star male, ma dopo qualche giorno dal rientro a casa.
Probabilmente era
stato allora che avevano cominciato a considerare la
possibilità di…
Chi era stato a proporlo? Papà? Carlisle? O era stata
proprio mia madre, quando
si era accorta di non poter sopportare le fratture, la febbre e
tutto il resto? Ero sicura che avesse provato a resistere,
all’inizio, se non
altro per ostinazione. Ma come si era arrivati fino a me? Avevano
cambiato
idea? E dopo… mentre la mamma si trasformava…
perché mi avevano tenuta? Perché
non si erano liberati del mostro che aveva fatto del male alla loro
Bella?
E Jacob? Aveva avuto l’imprinting, e poi? Aveva deciso
lui di non dirmi niente, oppure i miei? E chi altro sapeva di tutta
questa storia,
aborto compreso? Anche Billy, Sue, Emily, i licantropi… tutti, tranne me?
Sentii
una serie di fitte alle tempie. Troppi pezzi mancanti, ecco il
problema. Il
puzzle da ricostruire era enorme, e io disponevo solo di un mucchietto
di
tessere sparpagliate... Impossibile pensare di metterle nel giusto
ordine da sola.
C’erano
così tante cose che non sapevo.
L’unica certezza al momento era che la mia famiglia e il mio
migliore amico mi
avevano riempito di bugie ed io, stupida e ingenua, mi ero sempre
fidata
ciecamente. Sapevo fin da piccola che durante la gravidanza la mamma
era stata
molto male, eppure mai, nemmeno una volta, mi ero chiesta se avessero
pensato a
una soluzione drastica. Il fatto che i miei genitori mi avessero
desiderata mi
era sempre parso scontato. Ero talmente sicura del loro amore per me da
non
riuscire nemmeno a concepire quell’idea.
Ed erano anni che provavo quella
sensazione, la sensazione che tutti loro sapessero qualcosa di cui ero
all’oscuro, eppure mai avevo pensato che Jacob, il mio Jacob, potesse mentirmi
così a lungo e su una cosa così
importante, o che mio
padre
potesse
guardarmi negli occhi e dirmi una bugia. Avevo sempre creduto che fosse
solo
una sensazione sbagliata. E invece avrei dovuto darle ascolto.
Mi avevano mentito tutti. Mi
avevano ingannato. Mi sentivo tradita. Ingannata e tradita dalle
persone che
amavo di più al mondo. In un istante sentii montare
un’onda di rabbia tale che
avrei voluto distruggere a calci quelle stupide porte dei gabinetti una
a una…
Ma ero così debole da non riuscire neanche ad alzarmi da
terra, figuriamoci
mettermi a demolire i bagni della scuola.
Come avevano potuto farmi una cosa
del genere? Perché?
L’imprinting…
il colpo di fulmine attraverso
il quale i licantropi trovano la loro anima gemella, qualcosa di magico
e
misterioso di cui nemmeno gli anziani della tribù sapevano
molto. Davvero c’era
questo, tra noi? La nostra amicizia
non era affatto naturale, spontanea e meravigliosa come avevo sempre
creduto,
ma il frutto di una specie di incantesimo? Era per questo che Jacob mi
voleva
bene, che trascorreva tutto il suo tempo libero con me, che mi
ascoltava e mi
sosteneva, perché lo voleva l’imprinting?
Anima gemella. Rabbrividii.
Ma com’è possibile?, mi chiesi,
attonita. E
come ho potuto non
accorgermene?
Jacob era stato davvero così bravo a nascondere la
verità?
Oppure i segnali c’erano sempre stati ed io, cieca come una
talpa
e ingenua
come una bambina, non avevo saputo coglierli? Lasciai vagare la mente
tra i ricordi. Jacob che giocava con me senza mai stancarsi.
Jacob che mi faceva addormentare tra le sue braccia per scacciare gli
incubi. Jacob che parlava e scherzava con me, che mi confidava tutto,
che mi ascoltava come se ogni mia singola parola fosse di
un’enorme importanza.
Jacob che restava per ore a guardarmi mentre leggevo o facevo i
compiti. Jacob
l’apprensivo, che se mi perdeva di vista subito mi cercava
con
l’aria ansiosa
di un naufrago che ha perso il suo salvagente.
Okay, i segnali
c’erano eccome. Altra ondata
di rabbia, così improvvisa quasi da spaventarmi, tanto forte
quasi da urlare.
Accidenti a lui! Come
aveva potuto?
Come aveva osato? Aveva rovinato
tutto, per ben due volte: prima facendosi venire quel maledetto
imprinting, e
poi decidendo di non dirmelo. D’accordo, non era una cosa
volontaria, ma…
ma… sospirai con forza e a poco a poco mi calmai. Lui non
poteva farci niente, e lo
sapevo benissimo. Pensai all’assurdo triangolo tra Leah, Sam
ed Emily. Certo che non
poteva farci niente.
Però avrebbe povuto essere sincero con me e dirmi la
verità in nome dell’amicizia che ci legava. Io non
avevo segreti per Jacob, e
lui invece mi mentiva da anni. Mi resi conto che se anche un giorno
avessi
accettato l’idea dell’imprinting, e non ero affatto
sicura di riuscirci, le sue
bugie sarebbero sempre state un muro insormontabile, tra noi. Niente
sarebbe
più stato come prima, né con Jacob né
con la mia famiglia. Il mio mondo, che
avevo creduto perfetto fino a ventiquattr’ore prima, era
andato in pezzi ed io
non potevo fare niente per ricostruirlo. Avevo perso tutto.
Davvero
mio padre e gli altri avevano creduto che io fossi un mostro?
Il fatto che io
fossi soltanto una bambina, che fossi stata concepita anche da un’umana, non
aveva avuto importanza?
Ma forse
hanno avuto tutti i torti?,
sussurrò una vocina maligna dentro di me. Io
avevo fatto a pezzi mia madre. Non intenzionalmente, però
l’avevo fatto. Il suo cuore si era fermato mentre dava alla
luce
me, e se papà non le avesse iniettato il suo
veleno…
sarebbe morta per causa
mia. Anzi, lei era morta per causa
mia. L’avevo uccisa. Era ovvio che tutti avessero pensato che
solo un abominio
poteva fare questo… Un abominio. Fu come un ceffone in piena
faccia. Ecco
cos’ero: un abominio. Un ibrido. Qualcosa che non aveva
diritto di esistere,
ancor meno dei vampiri, perché loro almeno diventavano tali
senza uccidere le
proprie madri. Ovvio che la mia famiglia avesse cercato di eliminarmi.
Era così
ovvio che mi sentii davvero un’idiota per non esserci
arrivata prima.
Mi avevano sempre
detto che quello che era
successo alla mamma non era stata colpa mia, forse per mettere a tacere
le
proprie coscienze. Ma adesso mi rendevo conto che quel senso di colpa
era
sempre rimasto acquattato
dentro di me in tutti quegli anni, pronto a
risvegliarsi da un momento all’altro e a saltarmi alla gola
per distruggermi.
Basta. Non ne potevo
più. Quanto avrei
voluto spegnere i pensieri e trovare un briciolo di pace e di silenzio. Probabilmente Alex aveva
desiderato la stessa cosa nel suo periodo
di follie.
Ma io non avevo alcool, né erba, né una macchina
da guidare
senza patente a disposizione. Provai a smettere di pensare e lasciai
scorrere le lacrime, avvinta dalla
tristezza e dalla nausea che provavo verso me stessa e il resto del
mondo, fino a stordirmi completamente.
Fu il suono della
campanella a risvegliarmi
di botto da quel torpore. Con gran fatica mi tirai su dal pavimento del
bagno e mi
trascinai al lavandino più vicino. Quasi mi spaventai nel
vedere riflessa nello
specchio la mia faccia congestionata, con due lunghe e orrende tracce
di
mascara lungo le guance e i capelli in disordine. Bagnai un fazzoletto
di carta
e lo passai sul viso e agli angoli degli occhi, tentando di darmi una
sistemata; se mi fossi presentata in classe in quel modo sarebbe stato
un bel
problema.
Mentre mi fissavo allo
specchio e i miei
occhi color cioccolato al latte ricambiavano lo sguardo con espressione
triste,
la porta del bagno si aprì ed entrò una delle
persone che meno avrei desiderato vedere in quel
momento: Caroline Jhonson, in compagnia di due membri del suo clan di
oche,
Susan Taylor e Melissa Clark.
Caroline mi osservò, stupita di trovarmi in giro
quando avrei dovuto essere in classe, poi esaminò la mia
espressione e scoppiò
in una mezza risatina, lanciando a Susan un’occhiata
eloquente. Che stronza. Ci
mancava solo quello, per peggiorare la giornata. Afferrai la borsa con
rabbia e
la superai rapidamente, quasi di corsa; non la sfiorai nemmeno, ma lei
si
ritrasse d'istinto, sconcertata.
Ero parecchio in
ritardo per la lezione
successiva, francese, e quando entrai in aula la professoressa mi
lanciò
un’occhiataccia.
«Finalmente,
signorina Cullen» mi salutò.
«Le si è rotto l’orologio?»
«Mi
scusi» borbottai e raggiunsi in tutta
fretta il mio posto, sgradevolmente consapevole del fatto che circa
ventiquattro paia di occhi mi stavano osservando incuriositi.
Danielle, che era
seduta alle mie spalle, si
sporse per avvicinarsi il più possibile. «Ehi,
stai bene?» chiese a bassa
voce.
«Sto
bene» risposi automaticamente, senza
nemmeno pensarci. Sentii che tornava a sedersi, forse con un
po’ di esitazione.
Nella fila alla mia
destra e due
banchi
avanti al mio, Jas si voltava di continuo per lanciarmi occhiate
indagatrici.
Mi augurai che smettesse, aprii il libro di francese a una pagina a
caso e
finsi di ascoltare la professoressa, intenta a scrivere alla lavagna la
consegna di una tesina per la settimana successiva. Anche
quell’ora sembrò
passare in un attimo, mentre tornavo a farmi avvolgere dalla solita
nebbia protettiva, e quando suonò la campanella e tutti
cominciarono ad alzarsi mi sentii
confusa, come se mi fossi svegliata di colpo nel cuore della notte. Jas
mi
raggiunse rapida come un fulmine.
«Dov’eri
finita? Ci hai fatto preoccupare»
esclamò.
La guardai, cercando
di concentrarmi sul suo
viso. Sembrava stravolta. «Scusa, volevo stare un
po’ da sola» borbottai.
Non sembrò
del tutto convinta ma per fortuna
rinunciò a porre altre domande, e anzi cercò di
cambiare argomento, forse per
distrarmi, mostrando una delicatezza insolita in lei.
Danielle mi aveva
portato dalla mensa un
sacchetto di patatine e una lattina di Coca. La bevanda fresca e
dissetante mi
fece bene alla gola, secca e irritata dal pianto, ma mandare
giù le patatine mi
costò un certo sforzo. Non mangiavo dalla sera prima, eppure
non ricordavo di
aver mai avuto meno appetito in vita mia. Comunque vuotai il sacchetto
perché
non ci rimanesse male, anche se Jas fu ben lieta di darmi una mano, poi
ci
dirigemmo insieme in palestra per l’ora di ginnastica.
Partecipai a ben tre
partite di pallavolo, ma ero così distratta da lasciarmi
sfuggire una montagna
di palle e sbagliare tutte le battute. Probabilmente fu la mia
prestazione
peggiore, in palestra, e il professor Clapp mi osservava meravigliato,
chiedendosi come mai quel giorno l’atletica Renesmee Cullen
fosse responsabile
della perdita della sua squadra due volte su tre.
In un modo o nell’altro anche quella
lezione terminò. Suonò l’ultima
campanella, e a quel punto mi resi conto con un
sussulto interiore che era ora di tornare a casa. Ma non ne avevo
alcuna
voglia. No, non sarei tornata subito. Magari avrei potuto fare una
passeggiata. Sì, buona idea. Preferivo
di gran lunga passare qualche ora sotto la pioggia a bighellonare senza
meta
piuttosto che dover affrontare i miei.
Restai indietro per
aiutare il
professor
Clapp a raccogliere le palle e a smontare la rete di pallavolo,
poiché stava per
iniziare un allenamento della squadra di basket; ero sicura che fosse
una
specie di punizione per il modo schifoso in cui avevo giocato. Quando
raggiunsi
gli spogliatoi, trovai Holly e Jas ancora lì ad aspettarmi.
Mi
cambiai mentre
ascoltavo Holly raccontare tutta infervorata di un vestito che lei
voleva a tutti i costi e che sua madre si rifiutava di comprarle
perchè troppo costoso,
poi lasciammo insieme gli spogliatoi. Sulla soglia quasi rischiammo di
finire addosso a qualcuno: Alex, appoggiato al muro,
le braccia incrociate e l’espressione corrucciata. Portava
gli
occhiali da
sole, ma quando mi vide se li sfilò.
«Sei viva e
vegeta!» esclamò. «Bene, una grossa
preoccupazione in meno».
«Alex»
mormorai. «Scusami… So che dovevamo
vederci in mensa ma… non avevo fame e
così…»
Tacqui, consapevole del fatto che
la mia spiegazione suonava abbastanza penosa. Ero imbarazzata, ma anche
contenta e un po’ stupita di trovarlo ad aspettarmi per la
seconda volta
nell’arco di una giornata. Curioso come la situazione si
fosse ribaltata e ora
fosse lui a cercarmi, a guardarmi con ansia, a chiedersi se lo stessi
evitando
e perché.
Alzò le
spalle. «Fa niente». Lanciò
un’occhiata alle mie amiche. «Ciao
ragazze».
Jas fece una specie di
sorrriso ma
non
rispose, troppo occupata a guardare alternativamente me e lui con aria
interrogativa, come se si aspettasse una spiegazione. E solo allora
ricordai
che non avevo ancora informato le mie amiche di quello che era successo
il
pomeriggio precedente: Jas non aveva la minima idea dei recenti
sviluppi tra me ed Alex. Aveva un’espressione così
confusa
che era quasi divertente.
Holly fu
più veloce a riprendersi dalla
sorpresa. «Ciao Alex! Tutto bene? Come stanno andando i primi
giorni
nell’insulsa Forks?»
«Be’,
non ho ancora tentato il suicidio»
rispose lui con tono neutro. «Però devo ammettere
che forse le cose sono più
interessanti di quanto potessi immaginare».
Mi guardò
ed io arrossii nel giro di
un secondo. Alludeva a me?
Quelle parole
sembrarono rivelare ad Holly
scenari inquietanti, perché mi sorrise con l’aria
di chi ha finalmente
afferrato il concetto. «Allora noi vi lasciamo. Ciao
Renesmee!». Si girò verso
di me, dando le spalle ad Alex, e mi fece un occhiolino piuttosto
eloquente
prima di baciarmi sulla guancia.
Jas la
imitò, un po’
sconcertata. «Tutto
okay?» aggiunse sottovoce mentre la sua guancia sfiorava
la mia.
Le rivolsi un piccolo
sorriso che speravo
fosse rassicurante.
«Buon
divertimento!» fece Holly con
entusiasmo, prese Jas per un gomito e si allontanarono insieme.
Sapevo che prima o poi
mi sarebbe
toccato spiegargli tutto e a quel pensiero mi sentii esausta. Sospirai,
e mi
accorsi che Alex mi fissava con attenzione.
«Andiamo»
disse all’improvviso.
Si voltò e
prese a camminare.
Lo seguii, incerta.
«Andiamo dove?»
«Ti
accompagno a
casa» rispose come se fosse stata una cosa assolutamente
ovvia.
Chinai il
capo per nascondere un sorriso lieve. Non potevo credere che fosse
così pieno di
attenzioni verso di me. Ma ne ero felice. Forse perché mi
aveva
vista nel momento più
tremendo della mia esistenza e mi era stato vicino, avevo la
sensazione che tra me ed Alex fosse nato un legame speciale.
«Sei
gentile, ma non torno a casa».
«Ah, no? Che
programmi hai per il
pomeriggio, allora?»
«Niente di
particolare, pensavo di fare
un giro».
«Non hai
impegni?». Scossi il capo, e lui
rimase zitto per qualche secondo. L’ultima campanella era
suonata da un pezzo e
i corridoi erano deserti, a eccezione di qualche studente solitario.
«Neanche
io ho impegni. Potremmo non fare niente
di particolare
insieme, che ne dici?»
Esitai, cercando di
prendere tempo. Fino al
giorno prima, una proposta del genere mi avrebbe mandata su di giri, ma
adesso…
per quanto lui mi piacesse, non ero sicura che la sua compagnia fosse
la cosa
di cui avevo bisogno. Forse dovevo starmene da sola, pensare un
po’. Eppure…
forse per quel giorno avevo pensato abbastanza. Pensare faceva male, e
non ero
arrivata a nessuna conclusione significativa. A un tratto mi sentii
chiamare.
«Scheggia?»
Tornai bruscamente alla realtà e mi ricordai
di Alex che camminava al mio fianco. «Ehm, scusa»
farfugliai. «Ero distratta».
«Se non ti va puoi dirmelo. Non ci resterò
male o chissà cosa» disse, tranquillo.
«No, non
è questo» protestai. L’ultima cosa
che volevo era fargli credere che non mi andasse di stare con lui.
«È solo
che… non posso affrontare niente di impegnativo, in questo
momento. Ho troppe
cose per la testa».
«Trovi che stare con me sia impegnativo?» mi
chiese a bruciapelo, l’aria furba.
Mi scappò
un sorrisino. In un modo o
nell’altro, Alex finiva sempre a parlare di sé.
«Non sai quanto».
«Lo
prenderò come un complimento» disse,
serafico. «Comunque non pensavo a qualcosa di impegnativo.
Volevo invitarti
a casa mia».
Dal modo in cui mi
sorrise intuii quanto
desiderava che io accettassi. L’idea era allettante,
stuzzicava la mia
curiosità, ma non riuscivo a non provare un filo
d’ansia. Cosa si aspettava
esattamente da me? Forse Alex percepì la mia indecisione,
perché si fermò e mi
guardò con aria seria, bloccandomi il passo.
«Senti, io e te siamo amici, ricordi? Allora
permettimi di darti un consiglio da amico. So che stai male e che in
questo
momento vorresti solo rintanarti chissà dove e commiserarti
in piena solitudine....
Lo so, credimi, ci sono passato anch’io. Però non
dovresti stare da sola,
adesso, almeno non sempre. Dovresti sforzarti di stare con qualcuno che
ti
faccia sentire un po’ meglio. Forse non io,
d’accordo, ma… in due è più
facile.
Fidati».
Mi rivolse un sorriso molto dolce, che ricambiai istintivamente. E
decisi.
«Okay»
risposi. Lo superai e ripresi a
camminare.
«Wow…
convincerti è stato facile quasi quanto farti scappare da
scuola
con me, lunedì. Chissà, magari troveremo il modo
di rendere impegnativo il
pomeriggio anche stando semplicemente a casa»
commentò con aria maliziosa
mentre uscivamo nell’aria fredda del cortile.
Lo fulminai con lo
sguardo, tirando su la
cerniera del giubbotto. «Alex» borbottai
«non farmi pentire di aver preferito
casa tua a un giro per le strade con questo tempo».
Mentre parlavo, diedi
velocemente
un’occhiata al parcheggio e con sollievo non scorsi nessun
familiare fuori di
testa in attesa. Ne fui sorpresa. un po’ di tempo dopo
papà mi avrebbe
raccontato di aver faticato parecchio a convincere la mamma a non
presentarsi
fuori scuola e a lasciarmi i miei spazi, almeno per un pomeriggio.
«Non ci si
abitua mai alle temperature
polari, allora? Sai, non avrei mai pensato di rimpiangere gli inverni
newyorkesi».
«Credevo che
gli inverni a New York fossero
molto freddi» commentai, curiosa.
«Sì,
ma almeno non sembra di vivere
costantemente sott’acqua» brontolò,
scrollando via le gocce di pioggia dai
capelli.
Montammo sulla sua
auto e mise in moto.
«Mi dispiace
davvero di non aver pranzato
con te, oggi» aggiunsi. «Non l’ho
dimenticato, ma pensavo che mi
avrebbe fatto bene stare da sola a riflettere. E non mi andava di
affrontare…
sai, tutta quella gente, tutta insieme».
Temevo che potesse
giudicarmi insicura ed
esagerata, invece annuì con l’aria di chi la sa
lunga. «È normale, Scheggia.
Non stai impazzendo, sei solo in crisi».
Sbuffai, esasperata.
«Basta, Alex. Basta con
quel soprannome, mi hai davvero stufata» protestai, scandendo
bene le parole.
«Be’,
devi pazientare solo un altro po’: te
l’ho detto che prima o poi soccomberai al mio fascino e ti ci
abituerai».
Oddio. Qualcuno
gli tappi la bocca, adesso.
«Ma non ti stanchi mai di tutta questa ironia?
Non senti mai il bisogno di essere serio?» domandai,
sinceramente curiosa.
«Certo che
sì» esclamò, e parve quasi offeso
dalle mie parole. «Pensi che non fossi assolutamente serio
poco fa, quando ti
ho detto che avresti fatto meglio a non stare troppo da sola?»
Stavo per ribattere,
sebbene non sapessi
precisamente in che modo, ma mi venne in mente una cosa.
«È successo anche a
te, quando stavi male, di sentirti meglio accanto a qualcuno?»
Fuori aveva preso a
cadere una pioggia
sottile ma battente. Alex, tornato serio di colpo, azionò i
tergicristalli
mentre parlava.
«Sì. Non uno qualunque, però. Sai, a
volte capita che ci sia
una sola persona tra tutte quelle che tengono a te in grado di capirti
davvero. Anzi, è una fortuna trovarne anche solo una. Non
che gli altri non
vogliano aiutarti, ma quella persona
è l’unica che possa riuscirci, l’unica
che sappia come fare». Breve pausa.
«Era… anzi, è la mia migliore
amica».
Mi voltai a guardarlo
e scoprii che stava sorridendo. «Una
ragazza come migliore amica?» ripetei, un po’
scettica.
Non ce lo vedevo, Alex,
a parlare delle sue conquiste con un’amica. Lo avevo sempre
immaginato
circondato da un gruppo di modaioli compagni di scuola armati di
cellulari
ultimo modello, sigarette e gel per capelli. E poi nella mia mente
risuonò una
frase che aveva pronunciato mentre eravamo a La Push, sulla
spiaggia.
Se
non sono impazzito del tutto lo devo solo a Julie, che non mi
ha
mai
lasciato solo, nemmeno quando combinavo un guaio dietro
l’altro… E alla mia migliore amica: anche lei mi
è
rimasta vicino nonostante tutto.
Alex inarcò
un sopracciglio. «Il tuo
migliore amico non è un tizio di ventun'anni?»
rilanciò.
L’allusione
a Jacob mi provocò una fitta di
disagio. Dovevo avergliene parlato, durante una delle nostre
chiacchierate.
«Touchè»
mormorai e cercai di ridere, ma mi uscì una strana risatina
nervosa.
«Scusa, non volevo dire… Insomma, io credo che
ragazzi e ragazze possano essere
amici. È solo che da te non me
l’aspettavo, ecco. Non mi sembri il tipo che
considera le ragazze come possibili amiche».
«Prenderò
anche questo come un complimento»
esclamò. «Oggi sei veramente carina con me,
Scheggia».
«E tu forse
sei un po’ troppo ottimista».
Ridacchiò
mentre svoltava a sinistra in South Forks Ave².
«Ogni tanto bisogna pur esserlo, o non si arriverebbe a fine
giornata. E te lo
dice un pessimista cronico».
«Davvero?»
«Certo. Un
pessimista cronico che fino a
poco tempo fa sguazzava letteralmente nella depressione. E ogni tanto
ci
sguazza ancora, quando proprio non ha nient’altro da fare e
si annoia».
Ridacchiai spontaneamente, divertita. Lui mi guardò
sorridendo. «Il che è un
potenziale problema, dal momento che questa città sembra la
capitale della
Noia».
«Forse è il caso che tu fugga da Forks»
suggerii.
«Chi ha
detto che voglio andarmene?».
Aggrottò la fronte, fingendosi perplesso.
Okay, a quanto pare
non si stancava mai di scherzare.
«Rassegnati a
sopportare la noia, allora» conclusi alzando le spalle.
«Ah, no,
niente affatto. La
rassegnazione è un suicidio quotidiano,
parola di Honorè de Balzac. Toccherà a te tenermi
occupato» disse e mi lanciò
un’occhiata che mi fece arrossire.
Puntai lo sguardo
fuori dal finestrino,
imbarazzata, e per un po’ scese il silenzio.
«Stai
pensando a come fare, vero?» chiese
all’improvviso. Manteneva un tono ironico, ma ero sicura che
si preoccupasse
quando restavo zitta troppo a lungo.
«No»
risposi sinceramente. «Riflettevo su
una cosa. Anch’io tendo ad essere pessimista, a
volte» dissi lentamente. «L’ho
ereditato da mio padre…. Stando a quello che so di lui,
insomma. E in questo
momento vedo davvero tutto nero».
Mi sfuggì
un sospiro mentre tornavo a
guardare fuori. Il cielo ingombro di nuvole gonfie e grigie sembrava
rispecchiare il grigiore che sentivo dentro. Per un attimo credetti che
Alex
stesse per dire qualcosa, ma ci ripensò e tornò
il silenzio.
Per
distrarmi, mi concentrai sulla strada e mi accorsi che avevamo
imboccato
Bogachiel Way. La conoscevo bene perché nella parte iniziale
si trovava
l’ospedale di Forks, dove lavorava Carlisle, e più
avanti abitava Jas. Poco dopo aver
superato l’ospedale, Bogachiel Way diventava la strada
più elegante di Forks:
era fiancheggiata da alberi frondosi, ville e villette
immerse nel verde, con giardini ben curati e delineati da siepi; la
maggior
parte delle costruzioni poi godeva di una fantastica vista
sull’oceano. Dentro
di me sorrisi. Avrei dovuto immaginare che Alex abitasse
lì.
Superammo l’imponente villa di Jas, seminascosta dietro alte
siepi, e poco
dopo ci fermammo di fronte a una villetta di piccole dimensioni, ma
molto
graziosa, dipinta di bianco. Alex aprì il cancello elettrico
con un telecomando
e vidi che la casa era circondata da un giardinetto dall’aria
vagamente
selvaggia, con folte siepi, alberelli di varie specie, grossi cespugli
che in
primavera si sarebbero riempiti di rose. Nel complesso era tutto molto
più semplice
di quanto pensassi.
«E io che
immaginavo una specie di reggia»
esclamai per prenderlo un po’ in giro.
Alex fece un verso di
disappunto. «Una
reggia… In questa città il pregiudizio regna
sovrano»
borbottò.
Parcheggiò
nel viale d’ingresso dietro una
macchina color azzurro polvere dalle forme slanciate che riconobbi come
uno
degli ultimi modelli di Volvo. Alex le lanciò
un’occhiata e sorrise.
«Julie
è in casa, bene. Così puoi conoscerla».
Non feci commenti, ma
mi chiesi cosa avrebbe
pensato sua zia nel vedere Alex che le presentava una ragazza dopo solo
una
settimana di scuola.
«Alex» dissi mentre salivamo i gradini del portico.
«Cosa…
ehm… cosa sa esattamente tua zia?»
Mi rivolse un
sorrisetto furbo, un lampo di
denti candidi e regolari. «Non sa che ci siamo baciati. Non
è il genere di cose
che racconto in famiglia».
Un po’ più tranquilla, presi un bel respiro e
cercai di
mostrarmi disinvolta. Aprì con le sue chiavi e si fece da
parte per lasciarmi passare.
«Benvenuta nella mia reggia» esclamò.
L’ingresso,
che conteneva
solo due sedie, uno specchio e un appendiabiti, conduceva direttamente
in salotto, una stanza ampia e
luminosa, arredata in stile moderno e con colori tenui. Sulla parete di
fondo
una porta finestra dava sul retro, dove scorsi un’altalena e
un
piccolo gazebo
coperto di rampicanti. A sinistra una porta conduceva probabilmente
alla cucina. Sulle pareti
e in giro per la stanza erano collocate alcune opere d’arte
contemporanea, a
testimonianza degli interessi della zia di Alex. C’era
davvero
molto da vedere,
ma non volevo ficcare troppo il naso, così mi limitai a
lanciare
un’occhiata
generale.
«Allora? Che
ne pensi?» chiese Alex,
avvicinandosi. «All’altezza delle tue
aspettative?»
Stavo per rifilargli
una rispostaccia,
quando dalla porta a sinistra, quella che credevo conducesse alla
cucina,
sbucò una giovane donna.
«Ehi, sei tornato» disse ad Alex. «E sei
in compagnia»
aggiunse rivolgendomi un sorriso gentile.
La
primissima cosa che mi colpì fu
che non somigliava per niente ad Alex: aveva un volto un po’
spigoloso,
ma sottile e ben modellato, occhi color nocciola e capelli di un biondo
rossiccio lunghi e leggermente mossi. Era minuta e indossava abiti
molto semplici, ma dal taglio elegante,
sicuramente appartenenti a qualche grande firma.
«Zia, ti
presento Renesmee Cullen» fece
Alex. «Renesmee, Julianne Carraway».
Julie mi tese la mano
ed io allungai la mia.
Aveva una stretta molto decisa.
«Salve» mormorai e abbozzai un sorriso. Per quanto
sembrasse simpatica e alla mano, la mia estrema timidezza con gli
estranei
stava già trapelando in tutto il suo splendore.
«Piacere di
conoscerti, Renesmee»
rispose
Julie. Mi osservava con curiosità e una buona dose di
sorpresa. Sul
serio non aveva mai sentito parlare di me e probabilmente ero la prima
nuova conoscenza
che Alex portava a casa. Distolse lo sguardo quasi subito, forse per
non
sembrare maleducata. «Com’è andata a
scuola?»
Alex alzò
le spalle. «Il solito. Oggi ho
imparato a disegnare una giraffa».
Trattenni a malapena una risata.
«Piantala di
fare lo scemo» esclamò la zia
con un sorriso.
Sembrava divertita e
rilassata, ma
il suo sguardo non era tranquillo. Osservava Alex con
un’ansia
sottile
e penetrante. Non l’ansia normale di chi ha un nipote
adolescente
in affidamento, ma l’ansia di chi controlla che il nipote
adolescente sia perfettamente sobrio, che non abbia fumato altro a
parte le
sigarette, che non abbia combinato chissà quale casino. Lo
guardava come se si
aspettasse di vederselo saltare in aria sotto il naso da un momento
all’altro.
E probabilmente erano parecchie le persone a guardarlo in quel modo.
All’improvviso mi parve di capire molte delle cose che Alex
mi
aveva detto.
Potevo immaginare la preoccupazione di Julie, ma immaginavo anche che
non fosse
affatto piacevole avere quello sguardo addosso: doveva essere come
sentirsi
ricordare in un momento tutti i propri errori.
«Avete fame,
ragazzi?» chiese la zia.
Lui alzò
gli occhi al cielo. «Se abbiamo
fame ci pensiamo da soli, grazie. Non abbiamo sette anni»
rispose.
Stupita,
gli lanciai un'occhiata, ma mi accorsi che stava sorridendo, come
Julie. Forse quello era il loro modo consueto di interagire.
«Be’,
mi fa piacere sentirtelo dire! Te lo
farò presente la prossima volta che ti comporterai esattamente come un bambino di sette
anni…»
«Okay,
andiamo da sopra» borbottò Alex.
Julie ci
salutò con la mano. «Ciao ciao».
Alex mi guidò su per le scale che
conducevano al primo piano ed io attesi che ci fossimo allontanati un
po' prima di parlare. «È simpatica»
sussurrai.
«Sì,
ma non illuderti: sa essere un vero sergente se vuole».
Il corridoio era
ricoperto di soffice
moquette blu notte che contrastava con il bianco immacolato delle
pareti. Tutto
sembrava in perfetto ordine, come una casa abitata da anni e non da
pochi
giorni.
«Quando vi
siete trasferiti esattamente?»
chiesi.
«Circa due
settimane fa».
«Wow»
commentai, sorpresa.
Lui sembrò
intuire i miei pensieri. «Te l’ho
detto che Julie sa essere un sergente. Un sergente perfezionista,
aggiungerei. Ha costretto me e Phoebe a sgobbare finchè
anche l’ultimo granello
di polvere non è sparito». Aprì
l’ultima porta in fondo, e di nuovo mi lasciò
entrare per prima. «Ecco la mia stanza. Questa sì
che è la mia reggia».
Mi guardai intorno,
curiosa ma anche qui
cercando di non essere invadente. La camera non era molto grande, ma
luminosissima. Le pareti dipinte di un azzurro tenue, il parquet color
ciliegio,
le tende, il copriletto, il tappeto in vari toni dell’azzurro
e del blu, davano
l’impressione di trovarsi sott’acqua. Sulla parete
di fondo una porta a vetri scorrevole
come quella del salotto portava a un terrazzino di forma quadrata. La
stanza
doveva essere orientata perfettamente ad ovest perché
c’era una vista
meravigliosa: una verde distesa di boschi punteggiata da case qua e
là,
sulla sinistra si intravedeva il fiume Bogachiel e in lontananza
l’oceano
grigiastro e agitato. Mi sembrava persino di riuscire a scorgere la
sommità
coronata da alberi di James Island. Quel panorama catturò
immediatamente la
mia attenzione e rimasi a osservarlo a lungo, incantata.
«È
fantastico, vero?». La voce di Alex mi
fece sobbalzare; si era avvicinato senza che me ne accorgessi.
«Sai, quando
siamo arrivati qui ero di pessimo umore: nel tragitto da Port Angeles a
Forks
avevo visto solo alberi, una tavola calda che sembrava aspettare una
visita
dall’ufficio d’igiene e l’ospedale. Poi
sono salito al primo piano, ho aperto
una porta a caso e mi sono trovato davanti questa vista. Mi ha tolto il
fiato e
il cattivo umore è volato via».
Lo guardai e sorrisi.
«Ci credo»
mormorai.
Eravamo così vicini che la sua spalla sfiorava la mia.
Sentii una
vampata
d’imbarazzo e mi allontanai un po’, tornando a
studiare la stanza. Era
tutto in
perfetto ordine, al punto che mi vergognai pensando al caos che regnava
nella mia stanza, tranne la scrivania, ingombra di fogli; guardai
meglio e mi accorsi che
erano disegni. «Sono tuoi?»
Lui sembrò
a disagio. «Ehm… sì».
«Ti dispiace
se ne guardo qualcuno?». Alzò
le spalle. Andai alla scrivania e presi qualche foglio tra le mani.
Perlopiù erano
solo abbozzati e rappresentavano dei paesaggi, tra cui anche quello che
si
ammirava dalla finestra, e dei volti femminili. «Sono
belli» dissi sotto voce.
«E così sei un artista in erba».
Ridacchiò.
«No, per niente. Non ho mai
neanche preso lezioni. È solo che disegnare mi aiuta a
rilassarmi».
«Ti capisco.
A me è la musica che fa
quest’effetto».
«Che cosa
suoni?» domandò, interessato.
«Il
pianoforte. Me l’ha insegnato Edward Mio zio»
aggiunsi frettolosamente.
Alex mi fissava in silenzio. «È tua
sorella?» chiesi, prendendo in mano un
foglio: una bambina seduta su uno sgabello e intenta a suonare un
violino era
descritta da una serie di linee morbide e ondulate.
«Sì,
è lei». Mi raggiunse, guardando il
disegno con affetto. «Suona il violino da quando aveva cinque
anni. È una
specie di bambina prodigio» spiegò con
l’aria di un fratello maggiore molto
orgoglioso. «Be’, comunque la sua espressione
mentre suona mi ha sempre
affascinato: molto concentrata, ma allo stesso tempo incredibilmente
serena.
Questo non è venuto tanto bene, però».
Magari aveva ragione
lui, ma a me sembrava
che la ragazzina ritratta avesse proprio quell’espressione.
Alex si sfilò la
giacca e mi aiutò a togliere la mia, le lasciò su
una sedia, poi andò a buttarsi
sul letto a pancia in su. Incrociò le mani
all’altezza dello stomaco e rimase a
osservarmi. Il suo sguardo su di me mi metteva a disagio e trovai
difficile
concentrarmi sui disegni, così lasciai perdere. Lo raggiunsi e
sedetti a gambe incrociate sul pavimento, la
schiena appoggiata al bordo del letto, così eravamo alla
stessa altezza. Lo guardai:
aveva un’aria strana, seria, la fronte contratta, le labbra
increspate. Chissà
a cosa stava pensando. Non smetteva di fissarmi e per qualche motivo
nemmeno io
riuscivo a girare la testa e a staccare i miei occhi dai suoi. Ben
presto sentii ardere le
guance, neanche fossi stata su una graticola, ma non mi mossi di un
millimetro;
era come se una forza invisibile mi incatenasse lì.
Lentamente, Alex
sollevò il busto,
appoggiandosi al gomito, e si sporse verso di me. Ero così
ipnotizzata dal suo
sguardo concentrato che mi accorsi solo all’ultimo momento
delle sue labbra
appena dischiuse che si avvicinavano alle mie. Con uno scatto mi
allontanai,
mettendo qualche centimetro in più tra di noi. Lui si
bloccò e mi fissò con
aria interrogativa.
«Alex» borbottai. «Che fai?»
Alzò gli
occhi al cielo. «Secondo te? Stavo
per baciarti». Sbuffò mentre si lasciava ricadere
all’indietro.
Mi allontanai ancora
di più, inquieta.
«Avevamo detto niente di impegnativo».
«Un bacio
è impegnativo?»
Gli lanciai
un’occhiataccia. «Per te
evidentemente no» risposi a denti stretti. «Forse
è meglio che vada». In che
razza di situazione mi stavo cacciando? Avevo già abbastanza
problemi senza
aggiungerci anche lui.
«No!»
esclamò. Si tirò su a sedere.
«Aspetta, non voglio che tu te ne vada. Scusami, ho
sbagliato. Un’altra volta».
Sembrò arrabbiato con se stesso. «Non so che mi
è preso, davvero».
Era dispiaciuto, e si
vedeva. Sorrisi. «Sei pazzo,
lo sai? Va bene, tranquillo. Nessun problema».
Tornò ad
allungarsi sul letto, rilassato.
«Almeno sono riuscito a farti sorridere. Non lo facevi sul
serio da quando siamo stati alla spiaggia».
Sospirai.
«Hai ragione. Non sono una musona,
sul serio, ma… sono successe tante
cose…»
«Quali
cose?» domandò di getto.
Capii dal
suo tono che non intendeva impicciarsi, era sinceramente interessato ai
miei problemi. Ma non sapevo come rispondere. Puntai lo sguardo sulla
libreria
che avevo di fronte, riflettendo, nervosa. Che cosa dovevo fare?
Raccontargli
tutto era fuori discussione, ovviamente, ma prima o poi avrei dovuto
dare
qualche spiegazione all’umanità. Dentro di me
sentivo che sarei rimasta senza
sorridere ancora per un po’. Esitai, e lui se ne
accorse.
«Okay, ho afferrato.
Non devo ficcanasare» disse con tono definitivo.
«No, non
stai ficcanasando» ribattei. «Be’,
forse un pochino, ma sei mio amico e un amico ha il sacrosanto diritto
di
ficcanasare, come dice Jas».
«Una vera
perla di saggezza».
Ignorai la battutina e
presi un bel respiro.
Ero ancora assolutamente indecisa su cosa raccontargli, quando
all’improvviso
le parole giuste sgusciarono fuori da sole.
«Ho
scoperto delle cose. Ho le mie
buone ragioni per credere che i miei genitori adottivi non mi
volessero» dissi
lentamente. Quasi mi meravigliai di me stessa. Di solito ero una frana
con le
bugie, mi si leggeva in faccia quando ne dicevo una. L'unica con la
quale riuscivo a cavarmela era quella sulle mie origini
perchè mi ero
allenata a ripeterla da quando ero piccolissima e a volte mi sembrava
di crederci. Questa non era tanto
lontana dalla verità, però.
Sul suo volto comparve
lo stupore. Non aveva
immaginato una cosa così grossa. «Cosa te lo fa
pensare?»
«Ho una
fonte abbastanza attendibile».
«Ma
perché ti avrebbero
adottato, allora?»
Per poter rispondere
dovetti sforzarmi di
prendere aria. Quanto era difficile parlarne. «Non so. Per
senso del
dovere, immagino». Anche quello non era distante dalla
verità.
«Ne hai
parlato con loro? Hai provato a
chiedere spiegazioni?»
«Non c’è molto da spiegare. So quanto
basta». Okay, adesso stavo mentendo anche a me stessa. Non
sapevo quasi nulla
di quella faccenda. «C’è
dell’altro: mi hanno nascosto parecchie cose su…
sul
mio passato».
«Oh»
mormorò. «Perché l’hanno
fatto?»
Alzai le spalle.
«Codardia, suppongo»
risposi a denti stretti. «Non avevano il coraggio di dirmi
tutto».
«Capisco. E
anche su questo non hai chiesto
spiegazioni?»
«No. Ma non
ho nessuna voglia di parlare con
loro» mugugnai.
«Ah.
È per questo che sei venuta qui,
allora?» chiese con un sorriso lieve sulle labbra.
Accidenti, non
demordeva mai. Era come Claire
che cercava di arrampicarsi sull’albero nel giardino di casa
Uley.
«No. Sono
venuta qui perché mi andava di farlo» risposi
quasi con aria di sfida.
«Be’,
l’alternativa erano le gelide e
piovose strade di Forks» aggiunse. «Ma
è anche vero che ormai sono tuo amico e ho semplicemente
fatto il mio dovere».
Sorrisi, un
po’ a fatica. «Ecco, bravo. E
visto che siamo amici, fammi un altro favore: cambiamo
argomento».
Alex divenne subito
serio. «È brutto
parlarne, vero? Sì, ti capisco. Allora, per farmi perdonare
la svista di poco
fa, ti prometto che non parleremo mai più di questo, a meno
che non lo voglia
tu».
Annuii, sollevata. Era alquanto improbabile che in futuro mi mettessi a
parlare con lui del parto di mia madre o dell’imprinting di
Jacob, ma apprezzai la sua gentilezza.
«Però… se me lo permetterai, io ti
starò
vicino comunque. Non ti lascerò sola quando avrai bisogno di
un amico»
aggiunse a voce bassa, gli occhi fissi sul pavimento, un po’
in imbarazzo.
«Okay»
mormorai.
«Grazie, Alex. E… ehm, è lo stesso per
me. Anche io ci sarò se avrai
bisogno di qualcuno».
Sollevò lo
sguardo, mi fissò per qualche
istante, poi sorrise lentamente. «Grazie».
Mantenne la promessa.
Parlammo di tantissime
cose, praticamente di tutto: la sua vita a New York, la sua famiglia, i
suoi
amici, la sua scuola, le mie amiche, tutti i pettegolezzi sui nostri
compagni
di scuola che riuscii a ricordare. E per qualche ora mi
sembrò davvero di dimenticare il
resto. Ovviamente non potevo dimenticarlo davvero. Era solo rinchiuso
in un
angolo della mia mente, ma almeno non ci pensavo di continuo. E mi
sembrava di
sentirmi più leggera.
Quando mi accorsi che
si era fatto buio, mi
sorpresi di quanto tempo fosse trascorso. «Ehi, ma che ore
sono?» esclamai.
Alex, che aveva appena finito di descrivermi
una delle sue feste clandestine, organizzata nella casa di vacanza di
famiglia,
negli Hamptons³
sollevò il polso di malavoglia e gettò
un’occhiata all’orologio.
«Le sei e mezza».
«Mi sa che
devo andare». Sbuffai e mi passai le mani tra i capelli per
accertarmi che fossero a posto.
«Devi
andare?» ripetè, perplesso. «Credevo ci
fosse la peste a casa tua».
Ridacchiai, senza
troppo entusiasmo. «Più o meno,
ma se non torno entro l’ora di cena qualcuno
chiamerà la polizia».
Riflettè un
secondo, la fronte corrugata,
senza muoversi di un centimetro dal letto. «Il capo della
polizia non era tuo
nonno?»
Annuii mentre mi
alzavo dal pavimento e mi
stiracchiavo. «In realtà non è davvero
mio nonno: è il padre di mia zia Bella,
ma siamo molto legati. Comunque sì, è
lui».
Cambiò espressione, si tirò su
all’istante e
andò a recuperare la giacca. «Ti accompagno a
casa» borbottò.
Questa volta risi sul
serio, divertita. A
quanto pare, la figura del nonno ispettore capo lo spaventava
un poco. Trovammo Julie in salotto, intenta a leggere
un libro. Sembrava tranquilla, ma scrutava Alex sempre nello stesso
modo
mentre si informava su come avevamo passato il pomeriggio e mi
raccomandava di
tornare a trovarli, Mi chiesi se per caso non avesse trascorso quelle
ore
appostata sulle scale per controllare che io e suo nipote non
combinassimo
nulla. Phoebe era a lezione di violino e non era ancora
tornata.
«Mi dispiace che tu non l’abbia
conosciuta»
disse Alex mentre salivamo in auto. «Sono sicuro che ti
piacerà un sacco».
«La prossima
volta» risposi. Lui mi guardò e
sorrise, contento.
Lungo il tragitto, il
mio umore colò di
nuovo a picco. Ero combattuta tra il desiderio di sapere qualcosa in
più su
tutta quella storia e il terrore di ciò che avrei potuto
scoprire. Ma era il
pensiero di affrontare i miei, o Jacob, a farmi star peggio: non so se
avrei tollerato di stare accanto a loro, guardarli negli occhi,
ascoltarli… La
sera prima non ce l’avevo fatta. Come avrei potuto continuare
la mia vecchia
vita, stare insieme a loro, adesso che ero a conoscenza di tutte quelle
bugie?
Mi sentivo così invasa dalla tristezza e
dall’ansia da non riuscire nemmeno a
sollevare gli occhi.
Non aprii bocca, ma
non per questo il
viaggio fu silenzioso. Alex parlò quasi ininterrottamente
anche se non avrei saputo
dire di cosa perché ero troppo presa dai miei pensieri per
ascoltarlo.
Credo che volesse cercare di distrarmi, e ancora una volta apprezzai la
premura
che aveva nei miei confronti. Lui aveva sofferto molto più
di me perdendo i
suoi genitori quando era solo un ragazzino, ma proprio per questo
sembrava che
capisse perfettamente cosa significa avere un grosso problema per la
testa.
Forse era quello il motivo per cui avevo lasciato che Holly e Jas
andassero via
e avevo accettato di passare invece la giornata con lui: per quanto mi
volessero bene, sapevo che le mie amiche non riuscivano a capire cosa
potesse essermi
successo di tanto grave da farmi stare così male.
Mi accorsi con un
attimo di ritardo di non
sentire più il rumore del motore. Ci eravamo fermati nel
viale che
conduceva alla villa dei nonni, dove Alex mi aveva aspettato quella
mattina. Lui mi fissava.
«Siamo
arrivati» mi informò. Lanciò
un’occhiata al viale buio. Immaginai che per i suoi occhi
fosse davvero molto buio. Io invece vedevo
abbastanza bene, almeno fino a una certa distanza.
«Oh, scusa.
Ero distratta» mormorai
passandomi una mano sulla fronte, come per schiarirmi le idee.
«Sì,
ho notato» fece, ironico. Lo guardai
con espressione colpevole, ma lui sorrideva. «Tranquilla, non
ti sei persa
niente di importante. Ho parlato a vanvera, come al solito».
Annuii lentamente.
Non avevo nemmeno sentito la battuta. Alex alzò gli occhi al
cielo, a metà fra
l’esasperato e il divertito. «Se mi vestissi da
donna, mi tingessi i capelli di
rosa shocking e mi mettessi a fare salti mortali all’indietro
mi presteresti
più attenzione?»
Riuscì a
strapparmi un sorrisetto. «Forse
sì. Scusami» ripetei. «Mi sento davvero
strana».
«Che faccio,
mi giro? Non mi dispiacerebbe
un’altra puntatina a Port Angeles. In confronto a questo buco
di città sembra
Parigi».
«Magari»
sospirai. «Ma no, devo proprio
andare. Grazie di nuovo, Alex. Per tutto».
Scrollò le
spalle. «Non ho fatto niente.
Devi pur allenarti a sopportarmi, altrimenti quando ti innamorerai
perdutamente
di me non riuscirai a reggere la mia ironia micidiale e
impazzirai».
Okay, era il mio turno
di alzare gli occhi
al cielo. «Ciao, Alex. A domani».
«Vedi di non
farmi aspettare troppo»
aggiunse fingendosi scocciato. «Passo a prenderti
alle otto meno un quarto».
«Farò del
mio meglio» promisi.
Scesi dalla
macchina prima che potesse dire altro e mi incamminai lungo il viale.
Chissà se i miei erano tutti in casa.
Chissà se avrebbero voluto
parlarmi.
Chissà dov’era Jacob e cosa stava facendo. In quel
momento realizzai
che non ci
parlavamo dal pomeriggio precedente. Un giorno intero, e anche di
più,
senza
vederci né sentirci per telefono. Nonostante tutto mi parve
assurdo,
sbagliato.
Arrivai al cottege in pochi minuti. Tutto era
immobile e silenzioso, la casa buia. Non coglievo neppure un lievissimo
respiro. Sembrava proprio che non ci fosse nessuno. Mi feci coraggio ed
entrai
dalla porta principale. Nell’ingresso rimasi un secondo
ferma, in ascolto.
Niente. Forse potevo stare tranquilla. Quelle stanze scure comunque mi
spaventavano un po’. Ho sempre avuto paura del buio, fin da
piccola. Accesi la
luce in salotto, poi mi diressi in cucina. Stavo morendo di sete (sete
umana,
non sete vampira, come dicevo da bambina) e tracannai mezza bottiglia
d’acqua tutto d’un fiato.
Controllai il frigo, ma non c’era nessun messaggio fissato
con una calamita.
Forse erano andati a caccia. Uscii dalla cucina, percorsi il breve
corridoio,
ma mi fermai dopo pochi passi: attaccato alla porta della mia stanza
c’era un
post-it verde chiaro, uno di quelli che tenevo sulla scrivania.
Riconobbi
subito la grafia disordinata della mamma. Il testo diceva:
Non entrare. Devi parlare con
la tua famiglia.
Ti aspettiamo dai nonni.
Merda. Per qualche istante
fissai il
post-it, mordicchiandomi il labbro inferiore, indecisa. Be’,
prima o poi avrei
dovuto affrontarli. Quella sera avrei anche potuto barricarmi in camera
mia e
tenere il muso, ma l’indomani me li sarei trovati davanti
comunque. Che cosa
avrei fatto? Potevo fingere di non vederli per sempre?
Sbuffando, staccai il post-it
e lo
appallottolai nella mano. Prima di uscire di casa lo gettai nel secchio
della
spazzatura, in cucina, con gesto rabbioso. Camminai a passo di marcia
verso la casa dei nonni e trovai la porta aperta, come se
mi aspettasse. Salii le scale velocemente, decisa a farla finita prima
possibile, ed entrai in salotto. Erano tutti lì: mamma,
papà,
Rosalie ed Esme sul divano, Carlisle in poltrona, Alice seduta per
terra
accanto al divano ed Emmett e Jasper in piedi davanti alla vetrata;
erano
perfettamente zitti e immobili. Dalla parte opposta c’era una
poltrona
solitaria che supponevo fosse destinata a me, come l’imputato
in un tribunale.
Incrociai le braccia e puntai lo sguardo da qualche parte sopra le loro
teste,
ben decisa a non fissarli negli occhi.
«Decisamente
puerile, quel post-it» sbottai.
Ci fu un attimo di silenzio.
«È stata una
mia idea» disse la mamma, piano. Rimasi in silenzio. Non
avevo niente da dire a nessuno
di loro. Che facessero e dicessero quello che cavolo gli pareva.
«Com’è andata
a scuola?» chiese all’improvviso. Dal tono intuii
che sorrideva.
Incredula, abbassai gli occhi
e la guardai. Davvero mi faceva una domanda del genere in un momento
come quello? Era
impazzita, per caso? Il suo sorriso vacillò quando
capì che non le avrei
risposto.
Quel penoso silenzio fu
interrotto da Esme.
«Hai fame, cara? Posso prepararti
qualcosa…»
«Oddio, mi avete
fatto venire qui per
questo?»
esclamai, esasperata, e mi voltai per andarmene.
«Ti abbiamo fatto
venire per parlare»
intervenne papà con voce decisa. «Devi parlare con
noi, lo sai anche tu.
Siediti, ti prego».
Feci un respiro profondo, cercando di controllare l'impulso di correre
fuori. Sapevo che non sarebbe servito a niente. Raggiunsi la poltrona
con passo pesante e mi sedetti, rassegnata. Non avevo scelta.
Note. 1. Il link
della canzone.
2. Tutte le informazioni stradali da qui in poi sono prese da due mappe
che rappresentano la città di Forks e dintorni nella Guida ufficiale
della saga, a pagg. 396-397. Ma credo che possiate trovarle anche su
Google Maps se vi interessa.
3. Hamptons Bay, o semplicemente Hamptons, è una
località
di vacanza frequentata dall'alta società newyorkese. Si
trova
nella penisola di Long Island, a due ore e trenta minuti da Manhattan.
Chi guarda Gossip Girl sa di cosa parlo xd.
Spazio
autrice.
Non ho molto da dire su questo capitolo, se non il fatto che il legame
tra Alex e Renesmee diventa sempre più forte. Lei si
appoggia
moltissimo a lui e alla sua compagnia, e se prima era Renesmee a far
stare meglio Alex, adesso è Alex ad incaricarsi di tirarle
su il
morale.
Il prossimo capitolo sarà interamente dedicato a quelle
spiegazioni che la famiglia Cullen è così ansiosa
di dare
e che Renesmee ha ben poco desiderio di ascoltare... Questa volta
verrà fuori proprio tutto e ne vedremo delle belle! Alla
prossima settimana!
|
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Capitolo 14 *** Blinding ***
C 14
Capitolo
14
Blinding
And I could hear the thunder and see the lightning crack All around the world was waking, I never could go back Cos
all the walls of dreaming, they were torn right open And finally it seemed that the spell was spell was broken And all my bones began to shake, my eyes flew open.
Blinding, Florence and The Machine¹
Mentire non
è mai un bene. Presto o tardi salta fuori tutto.
E poi uno non sa mai
come uscire dai pasticci.
MONIKA PEETZ, La quinta
costellazione del cuore
Guardai
i loro volti e mi accorsi che sembravano intimoriti. Otto vampiri
spaventati da una mezza vampira. Assurdo.
«Allora»
cominciò papà. «Abbiamo delle questioni
in sospeso».
«E
allora?» mormorai con tono piatto.
«Non hai niente da
chiederci?» intervenne la
mamma, sorpresa. «Non vuoi sapere com’è
andata? Non vuoi sapere di Jacob?»
Scrollai le spalle, fissando
il pavimento.
«Renesmee, devi
parlare con noi» ripetè
Edward con voce ferma. «Ci dispiace molto per quello che
è successo. Non avresti dovuto sapere
tutto in questo modo. Ci rendiamo conto che è difficile, ma
hai avuto un po’ di
tempo per ammortizzare il colpo e adesso devi andare avanti».
Io non aprii bocca. Non
sollevai nemmeno gli occhi. «Se non hai nessuna domanda
cominciamo noi»
aggiunse papà. Ne avevo un milione, di domande, ma non
sapevo quale porre per
prima. Forse avrei preferito non ricevere alcuna risposta. Meglio
l’ignoranza o
gli incubi? Difficile decidere. Lui annuì.
«D’accordo, cominciamo noi». Prese
un respiro profondo, forse per calmarsi, sebbene non gli fosse
necessario;
immaginavo si trattasse di un riflesso istintivo. «Ci sono
parecchie cose da
chiarire, ma credo che sia meglio partire da quando è
cominciato tutto… da te.
Sai già che quando io e la mamma ci siamo sposati pensavamo
di non poter avere
figli. O meglio, pensavamo che io non
potessi averne. Credevamo che nessun vampiro, né maschio
né femmina, potesse
generare una nuova vita. Ma quando tua madre avvertì i primi
sintomi di una
gravidanza, dopo due settimane di viaggio di nozze, dovemmo arrenderci
all’evidenza. Perdonami se ti sto dicendo cose che
già sai» aggiunse, avvertendo
una certa impazienza nei miei pensieri «ma è molto
importante non trascurare
nulla. La sorpresa fu enorme. Non
avevamo idea di… cosa ci fosse dentro di lei».
Smise di parlare e mi fissò con
espressione ansiosa e addolorata. Capii che stava per arrivare la parte
peggiore e strinsi i denti. «Il mio primo pensiero, quando
fui certo che tua
madre era incinta, fu che doveva abortire»
proseguì, molto lentamente.
Sussultai e mi strinsi con
più forza le
braccia al petto, chiusi un attimo gli occhi, li riaprii, cercando di
continuare a seguirlo. Ascoltare quelle parole pronunciate dalla sua
bocca fu
forse la cosa più brutta. Mi sentii così ferita
che per un attimo mi mancò il
fiato. Chinai la testa e poggiai una mano tremante sulla fronte, per
nascondere
gli occhi lucidi. Edwars non parlò per qualche minuto, forse
per darmi il tempo di
riprendermi. Nella stanza c’era un silenzio tale che potevo
sentire i battiti
del mio cuore. Quando papà riprese a raccontare, mi colse di
sorpresa e
trasalii.
«Portare in grembo
il figlio di un vampiro
poteva essere pericolosissimo, per lei. E il fatto che fosse stato
concepito anche da
un’umana non costituiva alcuna
garanzia, poteva significare poco o niente. Decidemmo di rientrare
subito.
Stavamo per partire, quando arrivò la domestica che allora
si occupava della
nostra casa, una mezzosangue Ticuna di nome Kaure. La cultura del suo
popolo le aveva tramandato molte antiche leggende e si era fatta
un’idea piuttosto precisa di
cosa io fossi in realtà. Quando intuì cosa era
successo a tua madre, mi mise in
guardia: lei sarebbe morta».
A quella parola, pronunciata con voce impassibile,
abbassai di scatto la mano e lo guardai. Strinsi i pugni con tanta
forza da
conficcarmi le unghie nella carne. Lui proseguì, pacato ma
deciso, le labbra
strette.
«Questo
non fece che rafforzare ulteriormente il mio proposito.
Credevo di sapere cosa andasse fatto. Credevo di sapere chi fossi tu.
Credevo
di sapere tutto. Nella mia intera esistenza non sono mai stato
più
arrogante,
né più egoista: tutto ciò che volevo
era che tua madre si salvasse. Non
avrei mai sopportato di perderla per causa mia. Ma lei non era
d’accordo». Le sue labbra serrate si incurvarono
appena in un accenno
di mesto sorriso.
«Bella ti ha amato e ti ha desiderato dal primo istante in
cui ha
saputo di te.
Si rifiutò di prendere in considerazione l’idea
dell’aborto e chiese a
Rosalie
di… sostenerla. Proteggerla. Nemmeno lei era favorevole
a...»
Proteggerla?
Sentii
lo shock espandersi sul mio viso e
per un po’ riuscii solo a fissarlo a bocca aperta.
Probabilmente
avevo la
faccia di un pesce che nuota contro corrente. Mi costrinsi a parlare,
con
grande difficoltà. «Proteggerla? Ma cosa...
Come...
che bisogno aveva di essere protetta? Tu... lo avresti fatto senza il
suo consenso?» balbettai con un
filo di voce. «L’avresti costretta?»
Edward sembrava impietrito,
assolutamente
impassibile. Prima che potesse rispondere intervenne la mamma.
«No, non è così»
disse con forza. «Ascoltami: tuo padre non era in
sé, in quei giorni, ha detto
e ha fatto cose che…» non terminò la
frase. Gli lanciò un’occhiata strana, come
per rimproverarlo, ma poi gli prese una mano e la strinse tra le sue.
«È quasi
impazzito. Voleva proteggere me e credeva di essere pronto a pagare
qualunque
prezzo».
Qualunque prezzo. Le stesse
parole che aveva usato Leah. Ecco cos’ero stata, per mio
padre, per la mia
famiglia: un prezzo da pagare in cambio di qualcos’altro.
Sentii la gola
stringersi come se una mano grossa e forte l’avesse
circondata.
«Sì, non è mai stato tanto
arrogante» proseguì la mamma quasi con
rabbia «né più cieco. Ma io ho sempre
creduto che nel profondo, dentro di sé,
sapesse qual era la cosa giusta da fare e che si rifiutasse di
ascoltare la
ragione solo per salvarmi. Il senso di colpa lo avrebbe tormentato per
sempre,
ma era disposto a sopportarlo. Ed ero anche certa che prima o poi si
sarebbe
reso conto dell’amore che provava per te e mi avrebbe dato
ragione. Ecco perché
ho chiesto a Rosalie di aiutami: aspettavo che tuo padre aprisse gli
occhi e
capisse che stava commettendo un errore. E così è
stato».
«Un
errore?» ripetei, incredula. «Un errore
che avrebbe ucciso sua figlia? Pensi che queste siano delle
giustificazioni?»
«Non sono in cerca
di giustificazioni»
rispose papà con un filo di voce. «So bene di
non averne. Tutto ciò che posso fare è chiederti
di perdonarmi».
Mi concentrai di nuovo su di
lui, anche se
le lacrime mi offuscavano la vista. «Come puoi aspettarti il
mio perdono? Dite
di non voler essere dei mostri, ma avreste ucciso una bambina senza
nemmeno
pensarci».
«Certo che ci
abbiamo pensato!» esclamò
Carlisle. «Credi che sarebbe stato facile? Credi che
l’avremmo fatto a cuor
leggero? Ma Bella stava morendo sotto i nostri occhi, non
potevamo lasciare che accadesse senza fare nulla».
A quel punto non ce la feci
più. Scattai in piedi e corsi fuori dalla stanza.
«Dove
vai?» gridò zia Rosalie con voce densa
di preoccupazione.
Mentre scendevo le scale a
precipizio sentii
dietro di me uno scoppio di esclamazioni e borbottii, ma non ci capii
nulla.
Sedetti su uno degli ultimi gradini, nell’ingresso buio, mi
raggomitolai su me
stessa, le mani premute sul viso, e rimasi lì per un
po’, lasciando
scorrere le lacrime tra le dita,
riflettendo. Sentivo di detestare con forza le persone che fino a due
giorni prima avevo amato più di ogni altra cosa, eppure una
piccola
parte di me, quella vocina maligna e
martellante che mi aveva sussurrato all’orecchio per tutta la
mattina,
gli dava
ragione. Esattamente come era accaduto nel bagno della scuola, mi
trovai a fare
i conti con un pensiero che non riuscivo più a soffocare,
come in
passato: era
tutta colpa mia. La mamma, le sofferenze che aveva patito, la sua
trasformazione, i tormenti di papà, e ora questo
disastro… Ero stata io
stessa
a spingerli verso una decisione così estrema. Ero furiosa
con loro, ma
forse non
ne avevo alcun diritto: io non avrei fatto qualunque cosa pur di
salvare una
persona che amavo? Davvero potevo rimproverarli?
Mi sfogai ben bene, poi, non
avrei saputo
dire quanto tempo dopo, mi alzai e tornai lentamente in salotto,
rischiando di
inciampare a ogni passo. Erano ancora tutti lì, come li
avevo
lasciati, e mi guardavano ansiosi. Sedetti di nuovo al mio posto e dopo
un
attimo di silenzio mi lasciai sfuggire quella frase.
«Forse avreste
dovuto farlo».
Il volto di mio padre
mutò di colpo, come se
una folata di vento lo avesse investito e gli avesse strappato la
maschera
impassibile, e divenne furioso. «Non ti azzardare nemmeno a
pensarlo. Non
voglio sentire mai più una cosa del genere, è
chiaro?»
Gli altri parvero stupiti
dalla sua
reazione. Forse non avevano compreso fino in fondo il significato delle
mie parole.
«È per questo che il branco voleva
attaccarvi? Non è stato perché volevate
vampirizzare la mamma, è successo
prima, ed è successo perché avevano paura di
me» dissi. Non so da dove fosse
spuntata quell’idea. Il piccolo mostro non ancora nato che
terrorizza una
famiglia di vampiri e un branco di licantropi: sembrava un film
dell’orrore.
Ci fu un attimo di silenzio.
«Sì, è così»
rispose infine Bella, esitando.
«Un branco di
idioti!» sbottò zia Rosalie,
ed io trasalii, spaventata. Sembrava arrabbiata quanto papà.
«Il piano era far
fuori te uccidendo tua madre».
«Rosalie!»
esclamò Esme, sconvolta.
Spalancai occhi e bocca,
inorridita,
incapace di dire qualunque cosa. I licantropi volevano uccidere Bella?
Jacob
voleva uccidere Bella? Per un secondo mi sentii così confusa
che mi sembrò di
essere caduta dentro a un frullatore.
«Non devi giudicarli
male!» fece la mamma, e
mentre parlava lanciò un’occhiataccia alla zia.
«Sono i protettori della tribù,
hanno un compito preciso da svolgere e credevano che tu saresti stata
un
pericolo, dopo la nascita. Temevano che tu fossi come un vampiro
neonato, pericolosa
e incapace di controllarti. Nessuno poteva sapere che avresti avuto un
autocontrollo maggiore del nostro. Ma neanche loro avrebbero compiuto
una
simile scelta con leggerezza».
«Idioti»
borbottò ancora la zia, disgustata.
« Grazie,
Rosalie» sibilò papà a denti stretti, e
lei tacque.
Cercai di raccogliere le idee
e di capirci
qualcosa. «Ma… tu eri ancora umana»
balbettai. «Non avevi fatto nulla…»
«Proteggevo te, e
questo era sufficiente»
rispose la mamma con tono mesto.
La guardai, sconvolta.
«Anche Jacob?». Lei
sussultò quando pronunciai quel nome. «Anche Jacob
voleva ucciderci?»
Edward e Bella si scambiarono
uno sguardo
rapidissimo, e mi sembrò che lui le stringesse la mano con
più forza, come un
monito.
«No» disse la mamma con cautela. «No,
lui… lui non mi avrebbe mai fatto
del male, perché ero la sua più cara amica e mi
voleva bene. Si rifiutò di
attaccarci, lasciò il branco di Sam e venne qui a
difenderci. Però
sì, anche Jacob era convinto che tu fossi una
minaccia» aggiunse a bassa voce,
guardandomi come per scusarsi.
Non occorreva che andasse
oltre, avevo
afferrato il concetto: anche lui aveva cercato di convincerla. Mi parve
che lo
stomaco si rivoltasse, in preda a tremendi conati di vomito.
«Ma mamma, questa
è una follia» protestai.
«Se Jacob doveva proteggere la tribù
perché si è ribellato a Sam ed è
passato a
difendere dei succhiasangue e un piccolo mostro?»
«Jacob aveva il gene
dell’alfa, Renesmee, lo
sai» replicò la mamma. «Prima o poi
sarebbe successo, era solo questione di
tempo. E non avrebbe mai potuto farmi del male, te l’ho
detto».
«Ma se eravate amici
solo…» feci un rapido
calcolo a mente «... da poco più di un anno! Tutto
questo non ha senso!»
«Sì che
ce l’ha ma tu non conosci bene la
situazione». Si agitò sul divano, sempre
più tesa e a disagio. «Noi due eravamo
stati molto vicini, mi aveva aiutato in un periodo difficile
e…»
«Oh, andiamo,
Bella!» l’interruppe Rosalie,
esasperata. «Lo deve
sapere!»
La mamma le lanciò
un’occhiata da brivido.
«Rosalie» sibilò. In quel momento mi
fece davvero paura.
«Che cosa? Che
cos’è che devo sapere?»
domandai, guardandomi intorno freneticamente. Avevano tutti gli occhi
bassi, tranne Rose, che mi fissava con aria incerta.
Sentii un brivido scendere
lungo la mia schiena. Cosa c’era di tanto
brutto? Cos’altro sarei riuscita a sopportare?
La paura mi svuotò il cervello e mi
incollò la lingua al palato: non
riuscivo a emettere una sillaba né a immaginare cosa
stessero per dirmi.
«Non
c’è niente, Renesmee» rispose la mamma
al posto suo.
Non aveva ancora finito la
frase che papà
ringhiò: «Rose, no!»
«Quel cane schifoso
era innamorato di tua
madre!» sbottò la zia, sputando le parole con
rabbia e disgusto.
Nel salotto ci fu un grido
generale.
«Rosalie!» esclamarono tutti insieme
contemporaneamente. Ma ormai era troppo tardi.
La sorpresa mi
mozzò il fiato per un
secondo. Scattai in avanti, verso di loro, come se avessi le molle.
«Che
cosa?» gridai. « Che cosa?»
«Accidenti a te,
Rosalie!» esclamò la mamma,
furibonda, e parve che volesse liberarsi con uno strattone dalla presa
di papà.
Ero certa che se non fossimo stati nel bel mezzo di una crisi familiare
le sarebbe saltata al collo. Non era più una neonata, ma era
comunque una vampira molto giovane. Jasper non potè
resistere: si alzò,
così
rapido che quasi non me ne accorsi, volò accanto alla mamma
e le mise
una mano
sulla spalla.
«Controllati, Bella,
per favore. È pericoloso» disse guardandola
intensamente.
«Ma non capisci,
Bella?» replicò zia Rose,
infervorata. «Non possiamo più mentirle!
È a causa delle bugie che siamo
arrivati a questo punto!»
Provai la sgradevole
sensazione che qualcosa dentro di me fosse sul punto di esplodere in
mille
pezzi. Stavo per andare fuori di testa, lo sentivo. E probabilmente
stavo anche
per vomitare. C’era una sola cosa da fare. Mi alzai e mi
lanciai fuori.
Qualcuno mi chiamò, ci fu un’esplosione di grida
ed esclamazioni, su tutte le
voci della mamma e di Rosalie, ma li ignorai. Salii precipitosamente le
scale e
corsi al lavandino della cucina. Con una mano aggrappata al mobile,
l’altra a
coppa sulla bocca, passai diversi minuti cercando di contrastare i
conati di
vomito. Per fortuna non avevo nulla nello stomaco. Inspiravo ed
espiravo
lentamente e a poco a poco cominciai a sentirmi meglio.
Stavo giusto pensando
che forse non avrei vomitato, quando sentii qualcosa vibrare dentro la
mia
tasca e feci un salto di un metro; ero così in tensione che
anche la caduta di
una foglia mi avrebbe spaventato. Tastai con la mano: il cellulare. Lo
tirai
fuori e risposi senza pensarci, automaticamente.
«Pronto?»
Una voce a me ben nota prese a
strillare
dall’altra parte, quasi perforandomi il timpano.
«Renesmee? Oddio, Renesmee,
finalmente! È un’ora che provo a chiamare a casa
tua, ma dove diavolo sei? Lui è ancora con te?»
«Jas?»
sussurrai, completamente
disorientata. Portai una mano alla fronte. Scottavo. Perché
accidenti aveva
chiamato?
«Avete fatto pace,
vero? Ma quando è
successo, come? Perché non mi hai detto niente?
Cos’è successo oggi, ti ha
baciato ancora?»
Sospirai
pesantemente.«Jas, ti prego, non è
il momento. Parliamo domani, ciao».
«Aspetta, dimmi solo
se vi siete baciati…»
Chiusi la telefonata, poi
spensi il
cellulare prima di rimetterlo in tasca. Mi lasciai cadere su uno
sgabello del
bancone e mi presi la testa tra le mani. La fronte era caldissima,
probabilmente solo a causa dell’agitazione. La nausea non
voleva saperne di
andarsene e ogni tanto mi faceva contrarre lo stomaco. Non mi sentivo
affatto
bene, ma mi parve di percepire un piccolo cambiamento: era come se
quella
telefonata, per quanto assurda e del tutto fuori luogo in quel
frangente, mi
avesse ricordato l’esistenza di un mondo esterno oltre il mio
incasinatissimo
microcosmo. Provai un briciolo di sollievo: Jas, Alex, i miei amici,
c’erano
ancora. Non tutto intorno a me si stava sgretolando. Mi sentii in colpa
per
averla trattata in quel modo. L’indomani le avrei chiesto
scusa e avrei cercato
di aggiornarla un po’ sulla situazione con Alex.
Al piano di sotto sentivo
discutere piuttosto
animatamente. Di cosa parlavano? Stavano biasimando Rosalie per quello
che
aveva fatto? Be’, sinceramente non sapevo se essere comunque
arrabbiata con lei o
esserle grata per avermi rivelato un nuovo, raccapricciante frammento
di
verità. Anche se Rose mi aveva difeso, insieme alla mamma,
entrambe mi avevano mentito sull'imprinting come tutti gli altri.
Jacob innamorato della mamma? Il mio Jacob? Arrivò
l’ennesima fitta
allo stomaco e boccheggiai per prendere aria, sperando di non vomitare
sul
tavolo. Non so se sarei arrivata di nuovo fino al lavandino. Questo era
anche
peggio dell’imprinting… forse. Una parte di me
avrebbe voluto tornare indietro
nel tempo e non scoprire mai una cosa del genere, l’altra si
chiedeva come
accidenti avrei fatto ad andare avanti senza saperlo: come si
può vivere
ignorando la verità su ciò che si è,
su ciò che sono le persone che ti
circondano, sul tuo mondo? Mi tornarono in mente le parole di Leah. Tu non vedi la realtà, ma solo il
riflesso.
Non erano affatto frasi senza senso. Ce l’avevano eccome, un
senso, anche se
solo ora riuscivo ad afferrarlo pienamente.
Jacob Black…
innamorato di Bella Swan? No,
impossibile. Lui era mio, pensai
con
rabbia, il suo mondo ero io. Quante
volte l’aveva detto? Tu sei la
persona
più importante per me, Nessie. Ce
l’avevo a morte con lui, ma non potevo
tollerare l’idea che mi avesse mentito anche su questo. Mi
alzai con decisione
e marciai giù per le scale, pronta a tornare in campo. Era
come uno di quei
film in cui la vita del protagonista viene improvvisamente sconvolta
dall’apocalisse
che piomba dritta dritta in casa sua sotto forma di catastrofi
naturali,
invasioni aliene o zombie assetati di sangue.
Quando rientrai in salotto
tacquero tutti contemporaneamente e mi fissarono. Notai che Jasper era
ancora
in piedi accanto alla mamma, le braccia incrociate e
l’espressione concentrata.
Mi fermai un secondo sulla porta, respirando profondamente, poi
raggiunsi la mia poltrona con passo lento e mi
sedetti.
«Okay. Sono
calma» dissi, più a me stessa
che a loro.
La mamma mi guardava con occhi
spalancati.
«Bene» balbettò.
«Jacob era
innamorato di te» mormorai. Non
era una vera e propria domanda, bensì una semplice richiesta
di conferma.
«Sì».
La sua risposta suonò come una
confessione, l’ammissione di un imperdonabile delitto. Il suo
sguardo implorava
perdono.
Annuii lentamente. Continuava
a
sembrarmi impossibile, ma a quanto pare avrei dovuto arrendermi
all’evidenza. A pensarci bene, questo spiegava parecchie
cose, a cominciare dal
perché Jacob avesse abbandonato La Push e il proprio branco
per schierarsi con
i vampiri: non stava aiutando un’amica, stava proteggendo la
donna che amava.
Tentai di accettare e metabolizzare la notizia, ma proprio non riuscivo
a
mandarla giù. Era una specie di grosso nodo in gola.
«Come…
quando è successo?» domandai con un
filo di voce.
I miei si scambiarono
un’occhiata esitante.
Esme, seduta accanto alla mamma, le teneva un braccio intorno alle
spalle come
per sostenerla.
«Ricordi che un anno
prima di sposarci io e
papà… ci siamo separati per un
po’?»
Annuii in fretta, senza parlare. Non
conoscevo i dettagli, ma sapevo che zio Jasper aveva tentato di
uccidere Bella
in un momento di scarso autocontrollo e papà, preoccupato
per la sua
incolumità, aveva deciso di lasciarla e andare via da Forks.
Ma la sua scelta
non aveva funzionato per nessuno dei due e dopo qualche mese si erano
ricongiunti grazie a una rocambolesca avventura che coinvolgeva un
improvviso
viaggio in Italia e un incontro con i Volturi.
«I mesi successivi
sono stati molto duri per entrambi. Jacob era il mio
migliore amico, mi è stato vicino e mi ha aiutato ad andare
avanti. Anche per
lui era un momento difficile perché si è
trasformato per la prima volta proprio
in quel periodo. Cercavamo di darci una mano a vicenda e
così il nostro
rapporto si è fatto sempre più stretto e intimo.
Nessuno dei due ne aveva
previsto le conseguenze, però».
«E tu?»
«Io cosa?»
«Lo amavi anche
tu?». La guardai dritto
negli occhi, studiando la sua reazione. Avevo paura di ascoltare la
risposta,
ma dovevo sapere.
Lei sospirò. Non la
avevo mai vista così in
difficoltà, mai, neanche con Charlie quando diventava
indiscreto o con Renee
quando le parlava al telefono. «Ti mentirei ancora se ti
dicessi che per Jacob
non ho mai provato altro che affetto, e non voglio farlo».
Oddio. «Che
significa?». Con una mano
afferrai il bracciolo della poltrona e lo tenni stretto.
«Significa che un
po’ l’ho amato anch’io.
Non come lui amava me, ma c’era qualcosa tra noi. Ma
l’amore che provo per tuo padre è
infinitamente diverso, Renesmee. Forse ti sembrerà assurdo
perché sei ancora
molto giovane e ci sono ancora tante cose di cui non hai nessuna
esperienza, ma
è così. E da quando sei arrivata tu, io e Jacob
siamo come fratello e sorella.
Mi rendo conto che non è facile da accettare, ma…
volevi la verità. Be’, è
questa, la verità».
Aveva parlato con calma e
dolcezza, eppure
sentii una fitta di rabbia quasi dolorosa. E tanti saluti
all’autocontrollo.
«Non posso crederci» sbottai, asciugandomi le
guance bagnate con il dorso della
mano.
La mamma si agitò,
sporgendosi verso di me
come se avesse voluto abbracciarmi. «Tesoro, ti
prego» esclamò con voce
carica
di angoscia «è una cosa del passato e comunque non
è mai successo
niente tra me e lui. Ci siamo solo baciati. Capisco che tu ti senta
ferita e arrabbiata, ma…»
«Che stai
dicendo?» la interruppi con foga. Un
pensiero orribile si stava facendo strada dentro di me: che
impressione davo? Che
cosa credeva? «Pensi che sia gelosa?»
«No, non ho detto
questo…»
«Non sono arrabbiata
perché eravate…
innamorati o cosa diavolo eravate, ma perché nessuno ha mai
pensato di dirmi
niente di tutto questo!»
«Noi… te
l’avremmo detto, okay?» intervenne
mio padre, con tono quasi disperato tanto era intenso. «Ti
avremmo detto tutto,
anche dell’imprinting, volevamo solo aspettare che tu fossi
un po’ più grande.
Cercavamo di proteggerti».
Basta. Non volevo ascoltare
una parola di
più. Sentivo la testa così ingombra e pesante che
temetti potesse esplodere sul
serio, da un momento all’altro. Desideravo andarmene di
nuovo, ma le gambe non
mi avrebbero retto.
«Ma come ha potuto avere l’imprinting con
me… se era
innamorato di te?» balbettai con voce rotta. Era una domanda
stupida, ma non
riuscii a trattenerla.
«Dal momento in cui
ti ha vista non lo è più
stato, e io ne sono felice, perché non sai quanto ha
sofferto per colpa mia»
rispose Bella. «Sai, quando aspettavo te…
io e Jacob non riuscivamo a
separarci. Siamo stati molto legati fin dall’inizio, ma in
quei giorni stare
lontani era come…» fece una pausa e
sospirò, incerta. «Oddio, non so come spiegartelo.
Era un dolore fisico, ecco. Era impossibile, mi capisci? Be’,
eri tu». Mi
rivolse un piccolo sorriso. «Tu e lui dovevate stare insieme,
già allora».
Distolsi gli occhi dai suoi e
li fissai sul
fuoco nel caminetto. Non avrei saputo dire perché, ma mi
sentivo tremendamente a disagio.
Nella mia mente prendeva corpo un’immagine inquietante: Jacob
e la mamma, l’uno
accanto all’altra, così misteriosamente legati, ed
io in mezzo. Lo stomaco mi si rivoltò per la centesima
volta. Era orribile.
Jacob amava la mamma e io mi ero messa tra loro, avevo creato
quell’assurda
situazione. Il pensiero di quello che Jake doveva aver passato
guardando Bella
morire lentamente, senza poter fare nulla e senza riuscire ad
allontanarsi, era
spaventoso. La voce di mia madre mi riscosse da quelle cupe fantasie.
«L’imprinting non è solo affetto,
Renesmee. È molto di più. Quello che
Jacob provava per me era
insignificante, al confronto. Tu sai che è così,
pensa a Sam ed Emily».
Ci stavo già
pensando, altrochè. Ci pensavo
da quella mattina. La loro situazione mi era sempre sembrata strana, ma
finchè
non si vive qualcosa sulla propria pelle è impossibile
averne una percezione
esatta. E solo ora mi rendevo conto di quanto fosse assurdo…
assurdo e sbagliato. Forse l’imprinting univa due persone
destinate a stare insieme, ma con conseguenze disastrose: cancellava il
passato, annullava sentimenti e legami, sconvolgeva la vita di tutti,
lasciando
solo terra bruciata dietro di sé.
«Tesoro,
no» intervenne papà con voce
tormentata. Scosse piano la testa. «Non è
così. Jacob ti vuole bene ed è molto
felice al tuo fianco. Sei la cosa
migliore che gli sia mai capitata. Io conosco i suoi pensieri, devi
fidarti di
me. E di lui».
Mi sfuggì un verso
sarcastico. «Fidarmi di
te è l’ultima cosa che potrei fare
adesso» sibilai.
Lui mi fissò in
silenzio per qualche
istante. «Lo so» mormorò, muovendo
appena le labbra. Abbassò gli occhi sul
pavimento, come se si non riuscisse a reggere il mio sguardo.
La mamma era scioccata dalle
mie parole.
Lanciò un’occhiata a papà, incerta, poi
si girò di nuovo verso di me.
«Renesmee, tuo padre ha ragione».
«Ma non ha
assolutamente senso! Io avevo
appena ucciso la donna che amava e lui…»
«Che
cosa?» mi interruppe lei, con tono
improvvisamente gelido. «Che cosa hai detto?»
Focalizzai
l’attenzione sul suo viso, anche se
le lacrime che mi riempivano gli occhi rendevano tremolanti e confusi i
contorni della sua figura. «Sai benissimo quello che ti ho
fatto, mamma» dissi
a denti stretti.
Assolutamente sconvolta,
sgranò gli
occhi color topazio e sussultò come se l'avessi colpita con
qualcosa. «Non mi
hai fatto nulla! Eri solo una bambina! Non c’è
niente per cui tu debba sentirti
in colpa, niente!»
«Niente tranne
quello che è successo a te»
continuai, imperterrita, con voce rotta e tremante. «Io ti ho
fatto soffrire,
stavi morendo, papà ha dovuto trasformarti, ti sembra
abbastanza?»
«Sarebbe successo
comunque! Io volevo essere
trasformata per stare con tuo padre, tu hai solo... accelerato un
po’ le cose!»
Scossi piano la testa.
«Forse, ma questo non cambia quello che
ti ho fatto passare».
Bella stava per rispondermi,
sempre più
accalorata, quando papà sollevò gli occhi e
riprese a parlare.
«Poche ore prima
che tu nascessi» cominciò, la voce ferma e
controllata «sono riuscito ad
ascoltare la tua mente per la prima volta e mi sono reso conto che non
stavi
facendo nulla intenzionalmente. Anzi, in qualche modo tu…
capivi che tua madre
stava male. Quel momento ha cambiato qualcosa dentro di me».
Fece una
pausa, come cercando le parole giuste. «È stato
allora che finalmente ho
capito quanto ti desiderassi, e quanto tu fossi… innocente.
Già allora provavi
affetto per noi, in modo inconsapevole e spontaneo. Tu sei una persona
buona, Renesmee. Quello che è successo alla mamma non
è stata colpa tua. Non è
stata colpa di nessuno. Ma
tutti noi, in un modo o nell’altro… abbiamo il
potere di determinare gli eventi ,
a volte
senza accorgercene nemmeno. E le conseguenze delle nostre azioni sono
così
infinite e mutevoli che è impossibile prevederle».
Lanciò un’occhiata a zia
Alice, che accennò un mezzo sorriso verso di me.
«Non puoi passare la tua
esistenza a tormentarti per qualcosa che appartiene al passato e su cui
non
avevi alcun potere. Bisogna riuscire ad accettare anche quello che non
si
vorrebbe, anche quello che fa soffrire, altrimenti si diventa
pazzi».
Si
diventa pazzi. Mi parve che potessi diventarlo sul serio,
lì, in
quell’esatto istante. Troppe informazioni, troppe cose da
digerire tutte
insieme e troppo poco spazio nella testa, troppa poca energia per
farlo, troppa
voglia di andarsene, semplicemente. Il vaso era colmo e
l’acqua debordava da
tutte le parti.
«Basta»
ansimai, sconvolta. «Basta».
Mi alzai e me ne andai, senza correre ma a passo svelto. Nessuno mi
seguì nè cercò di fermarmi. Sentivo
una crisi di pianto in arrivo e mi costrinsi a trattenerla, sebbene
rischiassi di soffocare. Piangere mi faceva sentire vulnerabile e non
volevo suscitare la loro compassione. Solo quando ebbi superato il
fiume, ormai vicina a casa mia, mi sentii libera di lasciarmi andare.
Note.
1. Link.
Spazio autrice.
Eccomi qui ^^. Come avevo anticipato, adesso Renesmee sa proprio tutto.
Nel prossimo capitolo ci sarà un confronto con Jacob e
sarà altrettanto... vivace xd. Ammetto che non è
stato semplice gestire i sentimenti e i pensieri di Renesmee in questa
fase perchè sono molto caotici: passa dalla sorpresa al
dolore, dal desiderio di sapere tutto al timore di scoprire troppo e di non
riuscire a sopportarlo, dall'abbattimento alla rabbia, dalla collera
verso gli altri alla collera verso se stessa. Questo stato d'animo
confuso e addolorato continuerà ancora per un po', ma presto
ci saranno dei cambiamenti. Spero comunque di essere riuscita a
descriverlo in modo efficace. Aspetto di sentire il vostro parere ;-).
Grazie! |
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Capitolo 15 *** Shadow of the day ***
Capitolo
15
Shadow of the day
I close
both locks below the window
I
close both blinds and turn away
sometimes
solutions aren’t so simple
sometimes
goodbye’s the only way
and
the sun will set for you
the
sun will set for you
and
the shadow of the day
will
embrace the world in grey
and
the sun will set for you.
Shadow of the day,
Linkin Park¹
Di nient’altro
viviamo, se non dei nostri poveri, belli, splendidi sentimenti:
ogni
sentimento cui facciamo torto è una stella che spegniamo.
HERMAN
HESSE, L’ultima
estate di Klingsor
Passai una brutta notte. Mi
infilai nel letto appena arrivata a casa, sebbene fossero appena le
otto, ma mi girai e mi rigirai per un bel pezzo prima di addormentarmi.
Un paio d’ore più tardi sentii rientrare i miei
genitori, così silenziosi che me ne accorsi a malapena, ma
non vennero a bussare e non cercarono di parlarmi. Immaginavo che la
nostra discussione fosse stata pesante per me quanto per loro. E anche
i vampiri hanno bisogno di una tregua, a volte. Quando finalmente
scivolai nel sonno, non ebbi un vero e proprio incubo, ma i due volti
di mia madre, l’umana devastata dalle guance scavate ed
esangui, il mio primo ricordo di lei, e la bellissima immortale,
continuavano ad apparire, scomparire e sovrapporsi nella mia mente. Per
di più piovve a secchiate per tutta la notte, rendendo
ancora più inquieto il mio riposo.
Al suono della sveglia
mi tirai su contro voglia: ero ancora più stanca e
frastornata della sera prima e avrei tanto desiderato nascondermi sotto
le coperte e dormire per una settimana. Ma restare a casa significava
rischiare altre allegre chiacchierate in famiglia. Dal momento che era
venerdì avrei dovuto inventarmi qualcosa per tenermi
occupata e lontana da casa nel week end.
Feci la doccia e mi
preparai per la scuola lenta come una lumaca. L’unica cosa
che mi faceva stare meglio era il pensiero di rivedere Alex. Riuscivo a
immaginarlo perfettamente, in piedi ad aspettarmi accanto alla sua auto
ferma nel viale, gli occhiali da sole e la sigaretta tra le dita.
Sorrisi tra me e me, frizionando i capelli bagnati con un asciugamano.
Che spaccone. Chissà come avrebbe preso la proposta di un
altro giro a Port Angeles per il giorno seguente… Di sicuro
ne sarebbe stato entusiasta.
Appena fui pronta,
uscii dalla mia camera e mi fermai un secondo in ascolto. Non si
sentiva nessun rumore. Mi diressi cautamente in cucina e la trovai
deserta. Sul tavolo era disposta una ricca colazione e attaccato al
frigo con una calamita notai un messaggio scritto chiaramente dalla
mano della mamma. Mi avvicinai e lo staccai dal frigo.
Buongiorno, tesoro! Papà ed io siamo andati a caccia, ma non
ci allontaneremo. Se hai bisogno di qualcosa ci trovi nei dintorni.
Passa una bella giornata, ti vogliamo bene. Mamma.
Probabilmente avevano pensato di darmi un po’ di tregua e di
non impormi la loro presenza. Lo apprezzavo, ed ero sollevata di non
dover parlare ancora con loro, almeno per qualche ora. Non toccai la
colazione, per puro dispetto. Non mi andava di dar loro una
soddisfazione, seppure minima. Così presi dal freezer una
sacca di sangue animale, procurato da qualcuno dei miei durante la
caccia e messo da parte per me, la vuotai in una tazza e la misi nel
microonde perché si scaldasse, poi la mandai giù
in un minuto. Ero sempre più impaziente di incontrare Alex.
Volevo lasciarmi alle spalle il mio assurdo mondo per un po’
e distrarmi con lui, ridere delle sue battute, assaporare il suo
sorriso, studiare le luci e le ombre del suo volto, stringere la sua
mano fresca e forte.
Lavai i denti alla
velocità della luce, uscii e feci quasi di corsa il percorso
verso la casa dei nonni. Quando vidi la sua auto scintillante ferma al
solito posto, tirai un sospiro di sollievo e sorrisi. Sapevo che
l’avrei trovato lì. Non mi avrebbe lasciata sola,
l’aveva promesso.
Diversamente da come
immaginavo, era seduto al posto di guida, non indossava gli occhiali da
sole e non fumava, e una canzone veloce usciva
dall’abitacolo. Saltai svelta nel posto accanto al suo.
«Ciao»
lo salutai, un po’ affannata.
Mi rivolse un sorriso
a trentadue denti, così esagerato da farmi venire subito
qualche sospetto. «Buongiorno, cara».
Sollevò teatralmente il polso sinistro e gettò
un’occhiata all’orologio. «Venti minuti.
Cinque più di ieri».
Finsi
un’aria scocciata. «Non sapevo che fossi un maniaco
della puntualità».
«Lo divento
quando mi tocca aspettare venti minuti. Ma cosa fai la mattina per
prepararti? Voli a Parigi dal tuo parrucchiere personale?»
«Non
è affatto carino far pesare a una signora il suo
ritardo».
Fece un sospiro
pesante, rassegnato, alzando gli occhi al cielo.
«D’accordo… Passi anche per questa
volta. Sono un angelo, vero?». Mi lanciò un
sorrisetto.
«Altrochè.
Tra poco ti spunteranno le ali».
«Fantastico,
proprio quello che mi ci voleva per passare inosservato tra queste
lande desolate. Almeno dimmi se le tue occhiaie testimoniano una
baldoria notturna a cui non sono stato invitato».
Le aveva notate? Uffa.
«Nessuna baldoria notturna. Non ho dormito bene, tutto
qui».
Si fece serio in un
lampo. Il giorno prima si era impegnato a non accennare più
al mio problema a meno che non fossi io a farlo, ma per un istante
temetti che l’avesse dimenticato. Ed io speravo di non dover
più raccontare altre bugie, almeno per quel giorno.
«Eh,
sì» mormorò con tono austero.
«Hai pensato a me tutta la notte, vero?»
Sorrisi, un
po’ esasperata. «Certo, come no»
bofonchiai.
«Andiamo,
confessa».
«Adesso che
ci penso, ho avuto gli incubi, quindi… Sì, forse
hai ragione tu».
Alex
scoppiò a ridere di gusto. Stavamo tirando un po’
troppo la corda, noi due. Rischiavamo di spezzarla da un momento
all’altro e tutti i nostri propositi di essere solo amici per
un po’ si sarebbero dissolti come fumo nel vento. Eppure era
così facile e piacevole stare con lui. In pochi giorni era
diventato incredibilmente importante nella mia vita. Avevo bisogno
della sua fresce leggerezza. Ma allo stesso tempo, i miei problemi non
lo spaventavano affatto, anzi: sembrava disposto ad affrontarli con me
e questo mi faceva sentire più forte.
Il tragitto verso la
scuola sembrò brevissimo mentre Alex continuava a scherzare
e parlavamo del più e del meno. Quando ci fermammo nel
parcheggio mi sentivo decisamente meglio.
«Ci vediamo
a pranzo?» propose mentre scendevamo dalla macchina.
«Certo.
Nessun problema». Sorrisi, girando la testa
dall’altra parte perché non se ne accorgesse.
«Spero che
tu ti senta abbastanza forte psicologicamente da poter pranzare sola
con me» aggiunse con voce insinuante.
«Vedrò
di cavarmela» risposi ostentando disinvoltura.
«Ottimo».
Sembrava entusiasta. «Ciao, Scheggia». Mi
mandò un bacio da lontano con la punta delle labbra e si
voltò per andarsene.
Sempre lo stesso.
«A dopo» borbottai.
Mi avviai alla lezione
di francese, chiedendomi se parlare con Alex sarebbe stato sempre
così facile. La mia più grande paura, quando
immaginavo di uscire con un ragazzo, era sempre stata non avere niente
di cui parlare. Poi Jas spuntò all’improvviso
dalla folla. Venne verso di me a passo di marcia,
l’espressione determinata, e mi investì con un
fiume di parole. Era piuttosto seccata per come l’avevo
trattata la sera prima, ma anche così ansiosa di sapere di
Alex che la questione della telefonata passò subito in
secondo piano. Per farmi perdonare le domandai scusa un centinaio di
volte e le raccontai per fila e per segno tutto quello che era successo
con Alex. La storia era così lunga e lei pretendeva una tale
dovizia di particolari che per proseguire il racconto passai tutte le
due ore di francese a scriverle bigliettini fitti fitti e a lanciarli
sul suo banco. Quando le scrissi che Alex aveva riprovato a baciarmi, a
casa sua, sollevò la testa e mi guardò con
un’aria così trionfante che pensai sarebbe esplosa
per la soddisfazione. Finalmente vedeva confermate tutte le congetture
sue e di Holly sull’attrazione che lui provava per me.
Quando invece le
raccontai che avevo incontrato Alex per caso dopo aver litigato con i
miei ed essere scappata di casa, il mercoledì precedente,
spalancò gli occhi azzurri, sconvolta.
«Cioè…
davvero… sei scappata di casa?» domandò.
Le due ore di francese
erano finite e stavamo raggiungendo le aule delle lezioni successive,
biologia per me ed educazione civica per lei. Sospirai.
«Tecnicamente
sì».
«Oh».
Per qualche secondo rimuginò in silenzio.
«Perché? Cos’è
successo?»
Eccola lì.
Sapevo che ci saremmo arrivate, prima o poi. Be’, era la mia
migliore amica e una di quelle pochissime persone su cui mi sembrava di
poter contare, al momento. Non potevo continuare a non dirle nulla.
Rassegnata, le raccontai la stessa bugia che avevo rifilato ad Alex e
per fortuna era qualcosa di abbastanza grosso da giustificare la mia
reazione. Mentre parlavo mi spuntò un groppo in gola, la
voce tremò paurosamente, gli occhi divennero umidi. La mia
amica sembrava pronta a pormi un milione di domande, ma quando vide i
cambiamenti sul mio viso non chiese nulla e si limitò ad
abbracciarmi con slancio nel mezzo di un affollato corridoio.
Sollevata, ricambiai la stretta e mi sentii felice di averla al mio
fianco, sebbene a volte si comportasse da pazza isterica.
Per il resto della
giornata non tirò più in ballo
l’argomento, forse anche perché era troppo
occupata a ripetere alle altre tutto quello che le avevo raccontato. Io
la lasciai fare, felice che ci fosse qualcosa a distrarla dai miei
problemi più pressanti. E poi era divertente osservare le
reazioni delle ragazze: lo stupore ingenuo di Danielle, i consigli
pratici di Holly, le smorfie di Maggie (che considerava i maschi una
sorta di inutile sottoprodotto della specie umana).
Come il giorno
precedente, non mi concentrai affatto sulle lezioni. Non ci provai
nemmeno. Alla terza ora avevo un test di biologia che consegnai
completamente in bianco, un po’ perché non aprivo
un libro da due giorni, un po’ perché non avevo
alcuna voglia di mettermi a tracciare crocette. Per la prima volta da
quando avevo cominciato la scuola me ne fregavo del voto che avrei
preso. Passai tutta l’ora cercando di immaginare Jacob e la
mamma innamorati, che si tenevano per mano, che parlavano dei propri
sentimenti, che si baciavano… Bella aveva detto che non era
mai successo niente tra loro, il che per fortuna mi faceva escludere il
peggio. E poi, per quel che ne sapevo, lei era andata a letto solo con
papà, dopo il matrimonio. Ma potevo essere certa che fosse
proprio così? Come potevo fidarmi ancora di loro? Non ero
più sicura di nulla. E se Bella mi avesse mentito? E se tra
lei e Jacob fosse davvero successo qualcosa? A quel pensiero premetti
ferocemente la matita sul banco senza nessun motivo e spezzai la punta
di netto.
Quando consegnai il
compito immacolato al professor Morton, lui lo osservò a
lungo, sconcertato, poi guardò me a bocca aperta come se
dubitasse della mia sanità mentale: la studentessa migliore
della classe che consegnava un test in bianco doveva essere un evento
apocalittico per lui.
Più tardi,
quando suonò la campanella dell’intervallo,
informai le mie amiche che quel giorno non avrei pranzato con loro e
nessuna parve troppo sorpresa. Entrammo nella mensa e subito la
percorsi con gli occhi, in fretta, cercando Alex. Quando lo individuai
nella folla, seduto a un tavolo, il mio cuore fece un balzo di gioia, e
subito dopo sprofondò sotto i tacchi. Non era solo: in piedi
accanto a lui c’era Caroline, tutta presa a chiacchierare
animatamente. Jas seguì la direzione del mio sguardo e
inarcò le sopracciglia.
«Oh-oh. Guai
in vista» borbottò.
Io cercai di mostrarmi
sicura. «È solo Caroline, fa quello che sa fare.
Ci vediamo dopo».
«Buona
fortuna!» disse la mia amica, con aria leggermente dubbiosa.
Attraversai la mensa,
facendomi coraggio, e intanto cercavo di stabilire una strategia.
Caroline era di spalle, ma vedevo l’espressione di Alex, e
cercai di decifrarla: era strana, sembrava che si sforzasse di non
ridere. Ero ancora distante dal tavolo, ma mi concentrai per sentire
cosa stava dicendo Caroline.
«Insomma,
appena ti ho visto ho pensato che eri perfetto! E non è solo
una mia idea, ma anche delle altre cheerleaders e di tutta la squadra.
Dovresti pensarci, davvero».
Feci un respiro
profondo e la interruppi. «Ciao!»
Lei mi
lanciò un’occhiata rapida, l’espressione
infastidita. Okay, era felice del mio arrivo quanto sarebbe stata
felice di un brufolo sul naso. «Ciao!»
esclamò con un tono allegro che non combaciava per niente
con la sua faccia.
Alex mi rivolse un
sorrisetto, che io ricambiai, sinceramente contenta di vederlo.
Sembrava soddisfatto, chissà perché. Cercai di
porgli una muta domanda con gli occhi, ma lui si limitò a
fissarmi senza togliersi quello strano sorriso. Caroline
scrollò la testa facendo oscillare i suoi lunghi capelli
biondi fin quasi a colpirmi la faccia.
«Allora…
che ne pensi?»
Alex tornò
lentamente a concentrarsi su di lei. «Sei gentile, Caroline,
ma non credo di essere perfetto per la squadra: i giocatori di basket
non dovrebbero essere alti?»
«Tu non sei
basso» protestò Caroline ridacchiando. Potevo solo
immaginare come se lo stesse lavorando con gli occhi, sfoggiando la sua
vastissima gamma di sguardi maliziosi e insinuanti. Sperai che Alex non
fosse così tonto da cascarci.
«No, ma non
sono nemmeno particolarmente alto».
«L’altezza
è un pregiudizio ormai superato nel basket! Le
caratteristiche di un bravo giocatore sono ben altre, fidati».
Alex inarcò
appena le sopracciglia, quel sorriso ancora sulle labbra.
«Be’, comunque non sono mai stato molto interessato
all’attività fisica. Gioco solo un po' a tennis
ogni tanto. E del basket poi non so praticamente nulla».
«Sul serio
non pratichi uno sport?» esclamò Caroline,
stupita. «Non sembra proprio, sai? Come ti dicevo, Josh si
è infortunato e non potrà giocare almeno per un
paio di mesi. Forse potrebbe essere una buona occasione per cominciare.
Chissà, magari scoprirai una grande passione per il
canestro!»
Il sorriso di Alex
divenne ancora più ampio e il suo sguardo si
affilò mentre guardava Caroline da sotto in su.
«Ne dubito fortemente. Ti ringrazio per il pensiero, ma non
sono interessato. Davvero».
La sua voce aveva un
tono definitivo che sconcertò me quanto Caroline. Non potevo
vedere bene il suo viso, ma mi accorsi che si era irrigidita. Smise
immediatamente di sporgersi verso di lui, come stava facendo, e quando
parlò capii che aveva smesso di ridacchiare. «Oh.
Be’, se ne sei certo…»
«Assolutamente
certo».
Caroline fece un passo
indietro. «Capisco. Sarà per un’altra
volta, magari. Ci si vede». Mi lanciò
un’occhiata rapida e indagatrice, come se si stesse chiedendo
cosa diavolo c’era tra me e Alex. Onestamente, me lo chiedevo
anch’io.
«Ciao»
salutò lui con voce educata e formale.
Caroline ci volse le
spalle e si allontanò facendo un gran baccano con i tacchi
degli stivali, le spalle rigide, l’aria sostenuta. La seguii
con gli occhi finchè raggiunse il suo tavolo e sedette
accanto a Josh, il suo attuale ragazzo.
Io e Alex ci fissammo
in silenzio per un secondo.
«Sbaglio o
stava cercando di convincerti a entrare nella squadra di
basket?» domandai.
Quella ragazza
possedeva una miniera infinita di trucchi ed espedienti per attaccare
bottone con l’altro sesso e ne faceva uso con la massima
disinvoltura. Magari io fossi stata… be’, non
proprio come lei, un'oca ninfomane che cambiava fidanzato ogni due
settimane, ma non mi sarebbe dispiaciuto affatto avere un po’
della sua sicurezza.
Alex
sospirò mentre si alzava. «Sì. Ma come
ho già detto, la cosa non m’interessa. Andiamo,
muoio di fame».
Lasciammo le borse e
le giacche al tavolo e ci mettemmo in coda per il pranzo. In
realtà la tazza di sangue che avevo bevuto quella mattina mi
sarebbe stata più che sufficiente per saltare il pasto
perchè il sangue riusciva a saziarmi un po’
più a lungo del cibo umano, ma, fedele alla solita
messinscena, presi un vassoio e seguii Alex mentre tornavamo al tavolo.
Ascoltavo a malapena la sua sfilza di battute sullo sgradevole odore
delle tagliatelle alla panna con funghi che avevamo nel piatto.
Continuava a balenarmi davanti agli occhi quello che avevo visto il
martedì precedente durante l’assemblea mensile:
Alex e Caroline seduti vicini, intenti a chiacchierare e a ridere come
due buoni amici.
«Posso farti
una domanda?» dissi quando ci fummo seduti.
«Spara».
Ci pensai con cura,
mentre arrotolavo le tagliatelle intorno alla forchetta, cercando di
farmi venire un po’ di appetito. «Sei davvero
così indifferente come sembra a Caroline?»
«Indifferente…»
ripetè Alex. Aprì la sua lattina di Coca e ne
bevve un sorso. «Be’, è una bella
ragazza, non posso negarlo». Mi guardò con aria di
scuse, ma scoprii di non essere particolarmente infastidita dalle sue
parole. In fondo, lui mi aveva già detto chiaramente quanto
gli piacessi, e che Caroline fosse molto carina era un dato oggettivo
indiscutibile. «È sveglia, secondo me, molto
più sveglia di quanto possa sembrare. E determinata, anche.
Non mi risulta che le cheerleaders si interessino tanto alle selezioni
per la squadra». Tornò quel sorriso furbo e
sorrisi anch’io, divertita. «Però le
piace passare per stupida, a volte.. Forse ha capito che è
il modo più facile per ottenere certe cose».
Annuii, e la frase
successiva mi sfuggì prima che potessi pensarci.
«Sei tu ciò che vuole, al momento».
Alex fece una smorfia.
Prima di rispondere ingoiò un boccone di pasta e bevve
ancora un po’ di Coca. «Può darsi. Non
lasciarti ingannare, però. Non le piaccio più di
quanto le piacciano altri ragazzi, ma sono appena arrivato, vengo da
una grande città dall’altra parte del paese. Senza
dubbio possiedo una certa dose di sex appeal». Mi fece
l’occhiolino, sicuro del fatto suo, e il mio cuore fece una
capriola all’indietro. «E ormai si sarà
senz’altro diffusa la voce del mio passato turbolento.
Caroline non vuole me, vuole… quello che
c’è intorno a me».
Era tutto vero. Aveva
parlato solo un paio di volte con Caroline, eppure aveva capito
parecchie cose di lei.
«Sai,
martedì… all’assemblea
mensile… vi ho visti insieme» ripresi, gli occhi
bassi puntati nel mio piatto.
«Ah»
esclamò, compiaciuto. «Mi spiavi,
immagino».
«Non
proprio. In ogni caso, non mi sembrava che parlare con lei ti
dispiacesse».
Aggrottò la
fronte. «Non mi è dispiaciuto, infatti. Mi ha
raccontato un bel po’ di pettegolezzi divertenti, mi ha dato
qualche informazione utile. Ad esempio, dove nascondersi per saltare
un’ora di lezione senza farsi beccare. Non è una
stupida oca come sembra, te l’ho detto: sa bene come
catturare l’attenzione. Però credo di averle fatto
capire fin dall’inizio di non essere interessato a diventare
il suo prossimo trofeo».
«Credevo che
fosse il basket a non interessarti» scherzai.
«Il basket e
le altre cose» rispose disinvolto.
«Non
è una che si arrende facilmente».
Alzò le
spalle. «Forse dopo oggi si arrenderà».
«Sei il
primo ragazzo che dice no a Caroline Johnson» osservai, senza
riuscire a trattenere un sorriso. Era un pensiero sconcertante.
«Non credevo che avrei mai visto questo giorno».
Alex rise.
«Lo so, sono sorprendente, Scheggia».
L’ora di
pausa trascorse in fretta. Come sempre quando ero con Alex, ero
piuttosto tranquilla e serena. Ogni tanto però ecco qualcosa
di sgradevole pungolarmi il cervello come un’ape ronzante, un
pensiero, una frase, un’immagine, e tutto mi tornava alla
mente. Tornava il gelo nello stomaco, il senso di soffocamento, la
nausea, le vertigini. Durava solo un momento, prima che riuscissi a
controllarmi, ma era un momento infinito. Non potevo isolarmi troppo a
lungo dalla realtà.
Quando
l’intervallo terminò, decidemmo di incontrarci nel
parcheggio dopo le lezioni. Alex mi invitò di nuovo a casa
sua ed io rimasi sul vago, incerta. L’idea mi attirava,
eppure temevo che sua zia Julie, così attenta e
osservatrice, potesse farsi strane idee vedendomi con lui per il
secondo pomeriggio consecutivo. In una città così
piccola bastava pochissimo per mettere in piedi una storia. Il che non
escludeva però che trascorressimo ugualmente il pomeriggio
insieme lontano dagli occhi indagatori di Julie. Poiché casa
sua, casa mia e La Push erano bandite, non c’erano molti
altri posti dove potessimo pensare di andare, ma mi dissi che persino
rispolverare la vecchia idea di ascoltare cd in macchina era di gran
lunga preferibile a un immediato rientro.
In qualche modo
trascorsero anche le ultime due ore di lezione. Io e Jas uscimmo
insieme nel cortile e lei era praticamente più eccitata di
me.
«Ormai il
momento del secondo bacio si sta avvicinando»
dichiarò. Aveva un’aria grave e risoluta, come se
stesse annunciando un’imminente invasione aliena.
«Potrebbe succedere oggi. Anzi, no, sono sicura che
succederà oggi, quindi, ti prego, cerca di non rovinare
tutto anche stavolta, okay?»
«Caspita,
Jas, questa sì che è una bella iniezione di
autostima. Grazie».
Lei mi
guardò disorientata. «Che c’entra
l’autostima? Ho detto solo la verità. Ripetere il
colpo di genio che hai avuto lunedì in spiaggia non ti
aiuterà affatto ad arginare il "pericolo
Caroline"».
«Non
c’è nessun pericolo, Jas. Lui non è
interessato, ormai credo che Caroline abbia capito».
«E tu sei
davvero così ingenua da credere che quella lì si
sia tirata indietro?»
«Jas, ti
prego».
«D’accordo».
Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Vuol
dire che terrò io gli occhi aperti per te, come sempre. Vai,
adesso, c’è il tuo Straniero pronto per rapirti.
Oh, stasera ovviamente aspetto una telefonata» concluse
lanciandomi un’occhiataccia.
Le diedi un bacio
sulla guancia. «Promesso. Ciao!»
Mentre si allontanava
mi fece un linguaccia scherzosa. La guardai avviarsi alla fermata del
pulmino della scuola, che io non lo prendevo mai perché non
arrivava fino a casa mia, sperduta tra i boschi, poi mi voltai per
raggiungere Alex. Ma non feci nemmeno un altro passo. Di colpo il cuore
mi balzò in gola e mi si paralizzarono le gambe. Sbattei
più volte le palpebre, sperando di avere
un’allucinazione, ma quando li riaprii si
ripresentò la stessa scena. Seduto nella sua auto ancora
parcheggiata c’era Alex, impegnato ad armeggiare con dei cd;
quando alzò gli occhi, mi notò e mi sorrise. A
una trentina di metri da lui c’era Jacob, appoggiato al
fianco della sua motocicletta nera ferma sul ciglio della strada, le
braccia incrociate e lo sguardo impenetrabile fisso su di me; mi
aspettava.
Per diversi secondi
restai impalata a guardarlo, incapace di fare qualunque cosa, con un
fortissimo senso di déjà
vu al ricordo di come ci fossimo incontrati proprio fuori
scuola in quello stesso modo soltanto due giorni prima. Lui era venuto
a prendermi e poi… Mi riscossi di botto. Scrollai la testa,
cercando di darmi un tono, e presi a camminare verso la macchina di
Alex, decisa a fare come se non avessi visto nessuno. Alex aveva smesso
di sorridere e sembrava preoccupato.
«Renesmee!»
Feci un tale salto che
per poco non cacciai un urlo e finii sotto un’auto di
passaggio. Jacob mi aveva raggiunta in due secondi e teneva il mio
passo senza la minima difficoltà. Non risposi e accelerai,
tentando di seminarlo.
«Renesmee,
voglio soltanto parlare!»
Mi chiamava con il mio
nome per intero? Doveva essere preoccupato a morte, allora.
Lo faceva solo nei momenti di massima serietà.
«No!
Vattene!» sbottai. Mi uscì un tono velenoso degno
di Caroline Jhonson. Brava, Renesmee.
Ma se io non intendevo
fermarmi, lui non intendeva arrendersi. L’ostinazione era un
tratto fondamentale del suo carattere. «No, non me ne
vado» disse, deciso. «So che mi detesti, lo so
benissimo. Hai assolutamente ragione, io sarei incazzato a morte al
posto tuo. Ma dobbiamo parlare».
Mi sembrò
di essere tornata alla sera prima e a quell’orribile
conversazione con i miei. «No!» strillai,
furibonda. Che faccia tosta! Come osava presentarsi in quel modo e
aspettarsi che…
Jacob mi
afferrò il braccio, piano ma con fermezza, e mi costrinse a
fermarmi e a voltarmi verso di lui. «Non fare la bambina!
Solo cinque minuti, ti prego!»
Tenni gli occhi ben
fissi a terra per non rischiare di incrociare i suoi e cercai di
liberarmi, ma la sua presa era troppo forte per me. «Ho detto
di no! Vattene, lasciami stare! Jacob, lasciami!»
«Ehi, ehi!
Che sta succedendo?»
Alex piombò
all’improvviso accanto a noi, l’aria preoccupata.
Mi accorsi che nella fretta di correre da me non aveva neanche chiuso
la portiera dell’auto. Mi sentii pizzicare gli occhi. No, non
adesso! Respirai profondamente per calmarmi.
«Niente…
non sta succedendo niente» farfugliai, confusa. Probabilmente
non lo ingannai affatto. Alex abbassò lo sguardo sulla mano
di Jacob che mi teneva intrappolata, poi lanciò
un’occhiata al suo volto. Inarcò le sopracciglia
di fronte alla sua stazza, ma non si tirò indietro di un
centimetro. Anch’io guardai Jacob, seppur riluttante: in
fondo ai suoi occhi neri ardeva un fuoco che quasi mi
spaventò. Lentamente, mi lasciò andare. Alex
tornò a concentrarsi su di me.
«Tutto
bene?»
Non andava affatto
bene, ma ovviamente dovevo cercare di salvare la situazione.
«Sì, tranquillo. Lui
è…» cercai affannosamente un modo per
qualificare Jacob «… un amico. Vai pure, arrivo
subito».
«No,
dobbiamo parlare» intervenne Jacob sempre con lo stesso tono
perentorio.
Le sopracciglia di
Alex tornarono a sollevarsi pericolosamente. «Non mi sembra
che lei sia d’accordo. Forse sarebbe meglio
rimandare».
Jacob lo
ignorò. «Cinque minuti. Per favore»
sussurrò, continuando a fissarmi con quegli occhi in fiamme.
Non avrebbe
rinunciato, lo sapevo benissimo. Avrei dovuto affrontarlo. E forse era
più prudente allontanare Alex prima che captasse
nell’aria la parola "imprinting" e chiamasse la clinica
psichiatrica più vicina.
«Okay»
mi arresi. «Cinque minuti».
Jacob parve sollevato,
ma Alex era decisamente perplesso. «Sei sicura?»
Sospirai, facendomi
forza. «Sicura».
«Ti aspetto,
allora».
«Non ce
n’è bisogno, mi accompagnerà lui a
casa». Alex mi studiava con attenzione, accigliato e per
niente convinto. «È tutto a posto, sul serio.
Vai» aggiunsi a bassa voce, e accennai un piccolo sorriso,
cercando di rassicurarlo.
Annuì
lentamente. «Va bene. Allora… mi chiami?»
«Certo. Ci
sentiamo nel week end».
«Ciao,
Renesmee» mormorò.
Prima di andarsene,
afferrò la mia mano e la strinse, guardandomi con aria
seria. Poi lanciò una strana occhiata a Jacob, come di
avvertimento, si voltò e tornò con passo lento
alla macchina. Lo seguii con lo sguardo, preoccupata, finchè
non fu salito al posto di guida. E tanti saluti al nostro pomeriggio
insieme. Estremamente riluttante, mi rivolsi a Jacob.
«Che cosa
vuoi?»
«Parlare»
ripetè, con calma. «So che Edward e Bella ti hanno
già spiegato delle cose, ma… adesso tocca a
me».
«Che altro
c’è da dire, Jacob?» sibilai,
togliendomi con rabbia dal viso una ciocca di capelli spostata dal
vento freddo. In quell’istante udimmo la sgommata dell'Audi
di Alex che usciva dal parcheggio. Sussultai.
«Non hai
niente da chiedermi? Non ci credo».
«Anche se ci
fosse qualcosa non potrei mai fidarmi di te» ribattei.
Lui
spalancò gli occhi. «Che cavolo dici? Puoi fidarti
di me, lo sai!»
«No che non
lo so! Tu volevi uccidermi, Jacob» dissi lentamente,
guardandolo dritto negli occhi. I suoi tratti si irrigidirono e capii
di averlo ferito. Provai la stessa macabra soddisfazione che provavo
nel ferire i miei. «Come puoi chiedermi di fidarmi di
te?»
Scattò in
avanti, il suo viso vicinissimo al mio. «Ascoltami, ti prego:
se qualcuno o qualcosa facesse del male a te, credi che resterei a
guardare senza fare nulla? Credi che darei ascolto alla ragione o
all’onore o a qualunque altra cazzata del genere?
No». Il suo sguardo ardente, furioso, concentrato, aveva
catturato il mio. «Sarei pronto a uccidere per te. Capisci,
ora?»
Non potevo negare che
il paragone mi avesse colpito. Una parte di me comprendeva
perfettamente le sue ragioni e quelle di mio padre. Dopotutto, avevo
sempre saputo cos’era successo alla mamma. Quello era solo
colpa mia e ce l’avevo molto più con me stessa che
con loro. Ma la sofferenza non diminuiva affatto, in questo modo. Anzi,
era anche peggio.
Sfuggii alla sua
presa, senza difficoltà, questa volta, e mi allontanai.
Jacob mi chiamò, ma lo sentii a malapena mentre uscivo a
passo rapido dal parcheggio. Non sapevo nemmeno dove fossi diretta,
volevo solo un po’ di tempo per smaltire la rabbia e arginare
la crisi di pianto che faceva minacciosamente capolino. La voce di
Jacob mi giunse come da molto lontano.
«Renesmee,
aspetta! Fermati!»
A un tratto la sua
mano grande e calda mi afferrò il polso ed io tornai
bruscamente alla realtà. Dovetti smettere di camminare per
non cadergli addosso. Lo guardai, le guance rigate dalle lacrime, e le
parole sgorgarono da sole, senza che potessi pensarci.
«Eri
innamorato di lei» sussurrai. «Perché
non me l’hai detto?»
Jacob
deglutì. Sicuramente già sapeva che io sapevo, ma
mi resi conto che per lui quello doveva essere comunque un momento
difficilissimo. «Non lo so, io… dirtelo non aveva
senso, per me».
«Perché
no?»
Parlò
lentamente, come se soppesasse ogni parola, ma senza la minima
esitazione. «Ero un ragazzino quando m’innamorai di
lei. Quel sentimento appartiene al passato ed è cambiato
profondamente».
«Anche dirmi
dell’imprinting non aveva senso?» chiesi con aria
di sfida.
Trasalì,
colto di sorpresa. «No, è
diverso…»
Non lasciai che
finisse di parlare, troppo fuori di me per aspettare le sue stupide
spiegazioni. Ero stufa marcia dei loro perché, non volevo
più sentirne nemmeno uno. «Oddio, è
assurdo! Pensavate di dirmelo, prima o poi?»
«Certo,
ma…»
«Non posso
crederci! Tu, Jacob Black, proprio tu, il mio presunto migliore amico,
mi hai riempito di bugie! E osi ancora chiedermi di avere fiducia in
te?»
«Ti calmi,
per favore?» sbottò, la voce seria e ferma,
interrompendo le mie proteste. «Edward e Bella hanno deciso
di non dirti niente ed io ero d’accordo, è vero.
Sono sempre stato d’accordo. A volte odiavo mentirti e sono
sicuro che per la loro era la stessa cosa, ma lo rifarei e sai
perché? Perché ti ho visto crescere felice e
serena, spensierata, per quanto possibile. Questa era l’unica
cosa che io e i tuoi genitori desideravamo per te. Pensavamo di dirtelo
tra qualche anno, quando fossi stata pronta ad affrontarlo. Che senso
avrebbe avuto scaricarti addosso questa cosa quando eri una bambina?
Non avresti capito, sarebbe stato solo un peso per te». Si
interruppe e serrò le labbra, come incerto se continuare o
meno. «Ed io non volevo che ti sentissi in qualche
modo… condizionata dall’imprinting. Non volevo che
ti sentissi costretta a fare niente».
Abbassai gli occhi,
improvvisamente desiderosa di sfuggire ai suoi.
Dell’imprinting sapevo molto poco, ma vedendo Quil e Claire
mi ero fatta l’idea che non fosse per forza un rapporto
romantico, ma un legame così forte da sfuggire alle consuete
definizioni. Non era amore, ma chiamarlo amicizia sarebbe stato
riduttivo. Sapevo non doveva per forza conlcudersi con un matrimonio o
qualcosa del genere. Una volta mio padre mi aveva detto che se da
adulta Claire non si fosse mai innamorata di Quil, lui sarebbe
semplicemente rimasto il suo migliore amico, per sempre. Alla luce
delle ultime rivelazioni, le sue parole assumevano un significato ben
preciso: aveva cercato di dirmi qualcosa, in quel momento.
Però… Quil era la sua perfetta metà.
Perchè Claire avrebbe dovuto sceglierre qualcun altro? Era
in trappola, in un certo senso. Lo ero anch’io?
Jacob mi fissava
ansioso. «Claire non sa nulla
dell’imprinting» mi ricordò, come se
sapesse cosa stavo pensando.
Profondamente turbata,
gli rivolsi un’occhiata che sperai fosse feroce.
«Claire ha otto anni, Jacob. Io non sono più una
bambina da parecchio tempo».
«No, non sei
una bambina, hai ragione. Non sei nemmeno un’adulta,
però, e il modo in cui stai affrontando questa situazione lo
dimostra».
«E come
dovrei affrontarla, secondo te?» esclamai, incredula e
arrabbiata. Quello era un colpo basso. «Tu mi hai
ingannato…»
«No, non ti
ho ingannato!» ribattè quasi in un ringhio.
«Sai cosa significhi per me, sai che morirei piuttosto che
ferirti… Questo non è cambiato. Non volevo
ingannarti, volevo proteggerti». Ancora? Sbuffai e roteai gli
occhi verso il cielo. Non ne potevo più di sentire quella
parola, basta. Lui alzò la voce e parlò
più in fretta, temendo che volessi interromperlo.
«E visto come stai reagendo, mi sembra evidente che non eri
affatto pronta e forse neanche tra dieci anni lo saresti
stata… Ehi!»
Mi voltai con uno
scatto e ripresi a camminare, quasi a correre, lungo il marciapiedi.
Jacob mi tallonava tenendo il mio passo senza il minimo affanno.
«Sai, forse se tutti voi smetteste di cercare di proteggermi
starei molto meglio!»
«Cosa volevi
che facessi? Che spiegassi tutto questo casino a una bambina?»
Questa volta fui io a
fermarmi. Lo guardai, furiosa con lui e con me stessa perché
non riuscivo più a trattenere le lacrime. Detestavo
l’idea che mi vedesse piangere, detestavo l’idea di
apparire così fragile ai suoi occhi.
«Volevo che
tu fossi sincero con me!» gridai, la voce incrinata.
«Io avrei capito, ti avrei voluto bene lo stesso, non sarebbe
cambiato niente fra noi… Mi fidavo di te, Jake, mi fidavo di
te… Come hai potuto farmi una cosa del genere?»
Jacob sembrava
spaventato. Forse temeva che mi prendesse un colpo o qualcosa del
genere. Non mi sentivo bene, avevo il viso congestionato dalle lacrime,
tremavo, i respiri soffocati dai singhiozzi. Mi prese le spalle tra le
mani e strinse forte, inchiodandomi dov’ero.
«Avevo
paura» sussurrò. «Avevo paura di
raccontarti tutto questo e poi scoprire che era cambiato qualcosa, che
tu mi detestavi, che detestavi l’imprinting… Non
volevo perderti».
«Mi hai
persa adesso» singhiozzai. I miei occhi erano così
pieni di lacrime che potevo vedere a stento l’espressione
sconvolta di Jacob. Lui mi tirò di più a
sé, facendomi male.
«No, non
è vero! "Imprinting" è solo una parola,
dimenticala!»
«Non ci
riesco!»
«Ci
riuscirai! Quello che conta è il nostro legame, cosa importa
il modo in cui gli altri lo definiscono?»
«Quel legame
non esiste più, Jacob!»
«Sì
che esiste! Fa parte di noi, è nato con te, niente
può distruggerlo!»
«L’hai
distrutto tu con le tue bugie! Eri il mio migliore amico e mi hai
tradito: io non potrò mai, mai dimenticare questo. Come hai
potuto?». La mia voce soffocata dai singhiozzi di
spezzò all’improvviso. Quasi non riuscivo a
respirare. Cercai di divincolarmi, ma inutilmente. «Hai
rovinato tutto… hai rovinato tutto...»
Jacob mi strinse
ancora di più, ignorando i miei deboli tentativi di
allontanarlo, e in un istante mi ritrovai premuta contro il suo petto.
Serrai le braccia al corpo, tentando di erigere una barriera mentale
tra me e lui. Poi sentii il suo profumo: un buon odore di legno e
muschio. Quel profumo era una delle cose che più mi
ricordava la mia infanzia, quando mi arrampicavo sulle sue spalle
larghe e forti per farmi portare in giro e mi addormentavo tra le sue
braccia dopo una giornata passata a giocare sulla spiaggia…
Qualcosa di sciolse dentro di me e abbandonai la fronte sulla sua
spalla, piangendo a dirotto. Ero così stanca e triste da non
riuscire più a ragionare e seguii l’istinto, puro
e semplice istinto che mi spingeva contro di lui. Lo detestavo con
tutte le mie forze eppure ogni singola cellula del mio corpo urlava il
suo nome e desiderava averlo accanto. Jacob aumentò la
stretta, forse per consolarmi, e a quel punto, in un lampo,
tornò la ragione. Il dolore per quello che avevo perso, la
paura di cosa sarebbe venuto dopo, la rabbia verso Jacob, verso mio
padre, verso la mia famiglia, verso me stessa, tutto questo mi
colpì all'improvviso con la violenza di uno schiaffo e
tornai al presente. Mi divincolai con più forza per
allontanarlo da me. Lui cercò di trattenermi, e sentii la
sua voce tormentata sussurrare qualcosa al mio orecchio.
«Ti
prego!»
Lentamente
allentò la stretta, forse scioccato dalla mia reazione.
Barcollai all’indietro, confusa e strapazzata come se
avessimo sostenuto un corpo a corpo.
«Non
lasciarmi» mormorò, quasi supplicando.
Mi fissava come se gli
stessi strappando il cuore con le mie stesse mani, mi stringeva i polsi
cercando disperatamente di trattenermi. Mi sentivo lacerata tra
l’istinto di rimanere accanto a lui e il desiderio di
andarmene. Com’era possibile? Era questo
l’imprinting?
No. No, non potevo
sopportarlo. In quell’istante decisi cosa dovevo fare.
«I tuoi
cinque minuti sono scaduti» ansimai, sconvolta.
«Non mi seguire».
Gli voltai le spalle e
mi allontanai in fretta, nella testa un turbinio di pensieri simile a
un uragano. Basta. Era troppo. Non ce la facevo più. Non
c’era abbastanza spazio per contenere tutto. Ero a un passo
dal crollo. Mentre sfrecciavo lungo il marciapiedi bagnato e scivoloso,
mi accorsi che mi stavo dirigendo verso un luogo preciso, con passo
sicuro, come se avessi stabilito la mia meta prima ancora di rendermene
conto. Quando arrivai a destinazione, correvo.
Salii precipitosamente
i gradini e bussai alla porta con più forza di quanto avrei
voluto. Sentii dei passi, poi la porta si spalancò. Ci fu un
secondo di silenzio. Io tenevo gli occhi a terra, cercando di
controllarmi.
«Renesmee?
Che ci fai qui?»
La voce sbalordita di
Charlie mi fece trasalire. Non risposi. Non credevo davvero che sarei
riuscita a spiccicare parola. Tremavo così tanto da battere
i denti. Sollevai lo sguardo e incrociai il suo, e la sorpresa sul
volto di Charlie si tramutò in paura.
«Che
è successo?» boccheggiò.
A quel punto mi
arresi. Fu come lasciar crollare una diga che tentavo in tutti i modi
di tenere in piedi. «Nonno» sussurrai, la parola
quasi incomprensibile fra le lacrime.
Lo abbracciai con
slancio e piansi, piansi disperatamente. Lui restò immobile
e rigido per diversi secondi, forse troppo sconcertato per reagire.
Poi, lentamente, mi circondò con le braccia e mi strinse, un
po’ impacciato.
Mi aspettavo un
milione di domande, invece sembrò intuire che avevo un
drammatico bisogno di sfogarmi con qualcuno, qualcuno di cui potessi
fidarmi in tutto e per tutto, che mi abbracciasse con forza e
accogliesse il mio dolore, come avrebbe fatto mio padre. Quanto avrei
desiderato papà, in quel momento. Ma non quello degli ultimi
giorni, quello ambiguo e bugiardo che una volta mi aveva detestato, ma
quello di sempre, il papà dolce e affettuoso che mi faceva
addormentare tra le sue braccia e mi ricopriva di baci, sussurrandomi
di continuo quanto mi amasse… L’idea di averlo
perso era insopportabile. Mi sentivo immensamente sola. E mi sentivo
persa. Nessuno era morto e nessuno mi aveva abbandonato, ma era come se
fossi caduta in acqua da una barca, senza saper nuotare, senza
salvagente e senza nessuno che potesse aiutarmi. Charlie non diceva una
parola, limitandosi a stringermi sempre più forte in un
riflesso istintivo. Chissà quante domande gli frullavano in
testa.
Quando gli parve che
mi fossi calmata un po’, chiuse la porta di casa, mi
trascinò goffamente in salotto e mi fece sedere sul divano,
poi si mise accanto a me.
«Mi dispiace
di essere venuta così, senza avvisare, ma… non
sapevo dove andare» farfugliai, ancora scossa dai singhiozzi.
«Non dire
sciocchezze, tesoro» protestò, guardandomi
ansioso. Mi stringeva le mani intorno alle spalle, come se temesse che
potessi svenire da un momento all’altro. «Questa
è casa tua, non ti serve un permesso per venire qui.
Piuttosto, mi dici che è successo? Stai male?»
La richiesta mi
spiazzò, e prima di rispondere dovetti pensarci un secondo.
Stavo male? Stavo bene? Poi afferrai il reale senso della domanda e
scossi la testa. Fisicamente stavo bene, sì.
«È
successo qualcosa a scuola?»
Scossi di nuovo la
testa. Non riuscivo a emettere un suono. Charlie esitò prima
di porre la domanda successiva.
«Ci sono
problemi a casa?». Sembrava che già conoscesse la
risposta.
«Come lo
sai?» balbettai.
«Tua madre
mi ha telefonato stamattina alla centrale per annullare la cena di
stasera. Ha detto che c’è stato qualche problema
familiare e… non crede che tu sia dell’umore
adatto» spiegò, a disagio. «Non mi ha
dato nessun dettaglio, però. Immagino sia tutto top
secret». Quasi sputò le ultime due parole e il suo
viso si rabbuiò. «È per questo che sono
uscito prima dal lavoro, oggi: pensavo… non so, di venire a
dare una mano».
Giusto, era tornato
prima. Ecco perché lo avevo trovato a casa, ancora con la
divisa addosso, tra l’altro. Non avevo pensato che potesse
essere ancora al lavoro… Ero completamente fuori.
«Tua madre
sembrava molto preoccupata» aggiunse, esitando. Preoccupata?
Be’, era il minimo. Il nonno mi osservava con occhi
spalancati. «Neanche tu puoi dirmi cos’è
successo, vero?»
«È
una lunga storia» borbottai, cercando di sfuggire al suo
sguardo. «Abbiamo litigato».«Qualunque
cosa sia successa si sistemerà tutto, vedrai»
disse con tono premuroso, massaggiandomi la schiena.
Scossi automaticamente
la testa per la terza volta. «No, non si
sistemerà» sussurrai.
Charlie si
avvicintò per sentire cosa dicevo. «Sì,
invece» ribattè, sorpreso. «Insomma,
vedo che sei... piuttosto sconvolta... però loro sono la tua
famiglia e ti vogliono bene, anche se adesso avete qualche problema.
Troverete un modo per risolvere le cose».
Non avrei dovuto
parlare così tanto davanti a lui, ma trattenermi era
impossibile. Non ce la facevo da sola. «Non sono
più la mia famiglia. Non sono più
niente». Per un attimo mi sentii talmente sopraffatta da
temere un nuovo attacco isterico. Mi coprii il volto con le mani
tremanti, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Il nonno taceva.
Doveva essere spaventato a morte nel vedermi in quello stato. A un
tratto si alzò. «Che ne dici se chiamo Jacob?
Magari lui...»
Feci un salto sul
divano e tolsi le mani dal viso. «No!» strillai.
«Non voglio vederlo!»
Charlie
sobbalzò e mi fissò sgomento. La sua faccia
sarebbe stata comica, in un altro frangente. «Va
bene» disse precipitosamente, ansioso di tranquillizzarmi.
«Va bene, niente Jacob». Tacque di nuovo e rimase
in piedi a dondolarsi sui talloni, passandosi una mano sui capelli,
indeciso e confuso. Mi rendevo conto che rifiutarmi di vedere Jacob era
qualcosa di molto strano. Mi chiesi come avrebbe reagito se gli avessi
detto che ero arrivata fin lì per scappare da lui.
«Ehm... Posso... chiamare i tuoi, allora?»
«No»
protestai in un singhiozzo. «Non voglio vederli mai
più».
Mi si
avvicinò di nuovo, lentamente. «Tesoro»
cominciò con tono dolce ma deciso «qualcuno sa che
sei qui?»
Pensai di dire una
bugia, ma sicuramente Jacob aveva già riferito del nostro
colloquio. Se entro mezz'ora non avessi dato segni di vita sarebbe
iniziata una battuta di caccia e mi avrebbero trovata comunque. In
verità ero sorpresa che il mio cellulare non avesse
già cominciato a squillare a ripetizione. Optai per la
verità e scossi piano la testa. Il nonno fece un sospiro
pesante e denso di preoccupazione mentre sedeva di nuovo al mio fianco.
«Be', prima
o poi dovremo dirglielo, non credi, piccola?»
Ovviamente aveva
ragione. Prima o poi l'avrebbero saputo, sarebbe venuti a prendermi e
avrebbero ricominciato a parlare dell'imprinting, di Jacob, della
mamma, della gravidanza, e io avrei dovuto ascoltarli... Tirai qualche
respiro profondo per calmarmi, ma senza grandi risultati. Le mani di
Charlie scattarono subito intorno alle mie spalle.
«Nessie,
tesoro, ti prego... Non fare così...»
mormorò.
Mi strinsi
convulsamente a lui, tremando. «Non voglio tornare
in quella casa» farfugliai, disperata.
«Come?»
Tentai di alzare la
voce, ma i singhiozzi soffocavano le parole. «Non farmi
tornare in quella casa. Ti prego, non farmi tornare».
Rimase zitto per
qualche secondo, poi mi accarezzò la testa, piano e con
dolcezza. «Okay, tesoro. Va bene. Faremo come vuoi
tu».
****
Mi lasciò
sfogare ancora per un pezzo, stringendomi fra le braccia e balbettando
rassicurazioni, poi mi accompagnò nella vecchia stanza della
mamma al piano di sopra, senza mollarmi un istante lungo tutto il
percorso, e mi suggerì di riposare un poco. Mi sdraiai sul
letto, perchè Charlie si tranquillizzasse, ma anche
perchè ero esausta fisicamente e psicologicamente: ero
febbrecitante, la fronte scottava e avevo nausea e capogiri. Il
contatto con le coltri fresche e intatte, nel silenzio della camera, mi
fece bene dopo tutto quel trambusto.
Charlie mi disse di
chiamarlo per qualunque evenienza, accostò la porta e scese
le scale lentamente, facendo meno rumore possibile. Mi girai su un
fianco e piegai il braccio sotto la testa, la mia posizione preferita
per dormire. Chiusi gli occhi e cercai di rilassarmi. La cosa
risultò più facile di quanto immaginassi:
lì, in quella stanza, in quella casa, accanto a Charlie, mi
sentivo al sicuro.
Lasciai vagare
pigramente i pensieri tra ricordi vicini e lontani, tenendomi alla
larga da quelli brutti. La sensazione di spossatezza e malessere fisico
mi fece tornare in mente alcuni momenti della mia infanzia, quando
avevo la febbre e i miei genitri mi mettevano a dormire nel loro letto
e passavano la notte al mio fianco, muovendosi piano, bisbigliando tra
loro e ogni tanto sfiorandomi la fronte con le dita. E per quanto
stessi male, in quei momenti mi sentivo così perfettamente
al sicuro, così tranquilla, così amata... Sapevo
che mi avrebbero aiutata a stare meglio... I sussurri dei miei ricordi
si fecero più intensi, come se stessi tornando indietro nel
tempo, a quei momenti confusi eppure stranamente piacevoli... Che
cos'era? Mi ridestai lentamente dal dormiveglia, mi girai sulla schiena
e cercai di concentrarmi per ascoltare bene. Qualcuno bisbigliava al
piano di sotto. Charlie. Ogni tanto faceva una pausa. Doveva essere al
telefono.
«No,
è in camera tua. Credo che stia riposando un po', ne aveva
davvero bisogno». Silenzio. «Adesso?». La
sua voce parve contrariata. «Non so se è una buona
idea, Bella. Sì, me ne rendo conto, ma tu non l'hai vista
quando è arrivata qui: era fuori di sè, piangeva,
tremava. Ho creduto di dover chiamare Carlisle in ospedale. Forse
dovremmo darle un po' di tempo per calmarsi». Altra pausa.
«Be', qualunque cosa le abbiate detto fin'ora non le ha fatto
molto piacere» aggiunse in tono secco. Poi fece un sospiro.
«Senti, lasciamola riposare, adesso. Tu e Edward potreste
venire più tardi, che ne dici?»
Sentii una fitta
bruciante allo stomaco. L'incubo stava per ricominciare da dove si era
interrotto. Mi voltai di nuovo sul fianco, chiusi gli occhi e mi coprii
la testa con il cuscino per non dover ascoltare. Tornò il
silenzio e lentamente scivolai ancora in quella specie di torpore che
almeno mi dava sollievo. Solo un secondo più tardi, o
così mi parve, fui svegliata da un rumore di passi nella
stanza. Scattai a sedere, agitata, temendo che la mamma fosse arrivata,
poi osservai bene la figura ai piedi del letto e mi accorsi che era
troppo alta e robusta.
«Sue»
esclamai, annaspando.
Mi rivolse un sorriso
esitante. «Ehi, sei sveglia!»
Doveva essere appena
tornata dal lavoro. Era un'infermiera specializzata e si occupava
soprattutto di assistenza agli anziani. A volte diceva, scherzando, che
Charlie le aveva chiesto di sposarlo per garantirsi il suo aiuto a
tempo indeterminato. Sedette piano sul bordo del letto.
«Posso?»
domandò, poggiandomi una mano sulla fronte come per
controllarmi la temperatura. Poi prese il mio polso tra le dita e lo
tenne stretto per un paio di minuti. Probabilmente Charlie l'aveva
mandata ad accertarsi che non mi venisse un colpo o qualcosa del genere.
«Non so se i
parametri normali valgono per me» borbottai.
«Conosco i
tuoi parametri» rispose, tranquilla, lasciandomi il polso.
«Credo sia tutto a posto, devi solo stare buona per un
po'».
Mi
accarezzò i capelli e mise a posto una ciocca in disordine.
Mentre la guardavo, una domanda affiorò spontaneamente sulle
mie labbra. «Tu sapevi tutto, vero?» chiesi a voce
molto bassa. Non volevo che Charlie sentisse.
Il suo sorriso
rassicurante si congelò. Mi fissò in silenzio per
qualche secondo. «Sì. Sapevo tutto»
ammise con aria cauta. Annuii senza dire nulla e abbassai gli occhi.
«Sei arrabbiata anche con me?»
«No. Non
spettava a te dirmelo e poi... mi rendo conto che vivere con qualcuno
che non sa niente di niente deve essere complicato» mormorai.
Sue proteggeva Charlie, prima di ogni altra cosa; i suoi figli se la
cavavano da soli già da parecchio tempo.
Mi rivolse un altro
sorriso, come per scusarsi. «Chiama, se hai bisogno di
qualcosa» disse.
Si alzò e
uscì accostando la porta. Tornai a stendermi sul letto;
avrei voluto riaddormentarmi, ma appena chiudevo gli occhi rivedevo il
sorriso triste di Sue. Poi sentii bussare alla porta di casa. Erano
arrivati. Per la seconda volta mi tirai su a sedere di botto e restai
in ascolto. Potevo sentire chiaramente la voce cristallina della mamma
e quella grave di Charlie. Papà invece taceva. Forse non era
venuto? Non avevo alcuna intenzione di scendere spontaneamente. Magari
la casa sarebbe crollata o sarebbe scoppiato un incendio o... La testa
di Charlie fece all'improvviso capolino sulla soglia.
«Nessie?»
sussurrò. Si accorse che ero seduta e alzò la
voce. «Ah, bene , sei sveglia. Come va?». Scrollai
le spalle. Mi gettò uno sguardo cauto. «Ehm... I
tuoi sono arrivati» aggiunse.
Sospirai.
«Scendo subito». Rifiutarsi e perdere tempo non
avrebbe avuto senso. Se proprio dovevo tornare nella fossa dei leoni,
tanto valeva farlo e basta.
«Tesoro, sei
sicura... Insomma, se non te la senti...»
balbettò, a disagio.
«Scendo
subito» ripetei stancamente.
«D'accordo»
borbottò. Si allontanò e lo sentii scendere le
scale con passo pesante.
Mi passai le mani tra
i capelli, cercando di sistemarli un po', ma rinunciai quasi subito.
Feci un paio di respiri profondi, poi mi alzai e scesi al piano di
sotto, molto lentamente, quasi un gradino alla volta. Mi sembrava di
essere diretta al patibolo. Le luci erano tutte accese. Entrai nel
piccolo salotto e mi fermai qualche passo oltre la soglia. La mamma era
in piedi, al centro della stanza.
«Renesmee»
esclamò. Poi tacque di colpo, forse non sapendo cos'altro
dire.
Cercai mio padre con
gli occhi: era in piedi dietro la mamma, le mani nella tasche,
semigirato verso la parete; aveva un'espressione del tutto assente.
«Bene»
cominciò il nonno dopo qualche imbarazzante secondo di
silenzio. «Be', allora noi... ehm... vi lasciamo».
Cinse le spalle di Sue con un braccio, lanciò alla figlia
un'occhiata che mi parve di avvertimento e uscì dalla
stanza. Salirono di sopra e poco dopo sentii una porta che si chiudeva.
Scese un silenzio
così denso e opprimente che mi parve di non riuscire a
respirare. Annaspai, gli occhi puntati sul pavimento, a disagio, quando
la mamma si decise ad aprire bocca.
«Renesmee»
ripetè, dolcemente. «Come va?»
Aspettava una
risposta. Scrollai le spalle, con l'orrenda sensazione di camminare
sopra un filo sospeso su un fiume pieno di alligatori. «Alla
grande» dissi con aria di sfida.
Sollevai gli occhi,
facendomi coraggio, e la guardai: riconobbi all'istante l'abito che
indossava, bianco, lungo fino al ginocchio, con le maniche lunghe.
L'avevamo scelto io ed Alice l'ultima volta che eravamo uscite insieme
a fare shopping, a Olympia. Era accaduto solo una settimana prima, ma
sembrava un ricordo appartenente a un'altra vita. Portava i capelli
raccolti in uno chignon e mi osservava preoccupata dall'alto delle sue
decolletè nere con i tacchi a spillo. Non aveva un filo di
trucco, ma il suo volto splendeva, luminoso come una perla sotto i
riflessi del sole.
Mentre la guardavo,
sentii una fitta di dolore all'altezza del petto. Non mi era mai
sembrata così bella e perfetta, nè meno umana...
nè più diversa dall'unico, sbiadito ricordo che
possedevo di lei prima della trasformazione. Il dolore si
tramutò in nostalgia, strana e assurda nostalgia per quella
ragazza dal volto distrutto che aveva dato la vita per me. Lei e
l'essere perfetto che mi stava davanti non avevano nulla in comune.
Papà
voltò la testa all'improvviso, mi lanciò
un'occhiata, sempre con quell'espressione distante, poi distolse di
nuovo lo sguardo, come se non sopportasse di reggere il mio.
«Abbiamo
parlato con Jacob. Ci ha raccontato cos'è
successo» mormorò la mamma. Mi guardava con
timore, forse aspettandosi che partisse un'altra scenata, l'ennesima.
Be', eccola in arrivo. Una vampata d'irritazione mi percorse
all'istante da capo a piedi.
«Avete
parlato con Jacob» sibilai, incrociando le braccia.
«Grandioso. Tu leggi nella mia testa» feci un cenno
stizzito in direzione di papà, che non si mosse di un
millimetro «e tu hai parlato con Jacob» e con un
altro cenno indicai Bella «quindi sapete tutto quanto.
È perfetto, davvero, non avete nessun bisogno di ascoltare
me!»
«Ma che
dici?» protestò la mamma, stupita.
«Certo che vogliamo ascoltarti, siamo qui per questo. Jacob
sapeva che ci saremmo preoccupati non vedendoti tornare e ci ha
raccontato cos'è successo, ma...»
«Oh, certo,
perchè voi due parlate sempre con Jacob!» sbottai,
imperterrita. «Soprattutto tu, vero, mamma? Sei la sua
migliore amica, era innamorato di te, tu eri innamorata di lui, o
qualcosa del genere... Sei sicura che lui non lo sia ancora? O magari
è con te che ha avuto l'imprinting e non con me?»
Mi osservava con
quella che mi parve compassione. Compassione e una tristezza infinita.
«Non dire stupidaggini. Jacob non mi ama più da
anni, ti giuro che è la verità. È mio
amico, mi vuole bene come io ne voglio a lui. Si preoccupa per me, ma
tu... tu sei un'altra cosa».
«Basta con
questa solfa» borbottai a denti stretti.
«Ma
è la verità! Tu sei speciale, non
capisci...»
«Sì,
come no! Talmente speciale che non si è fatto il minimo
problema a raccontarmi un sacco di balle, proprio come voi! Siete stati
fantastici, davvero! Una gran bella interpretazione
collettiva!»
«Nessuno ha
mai finto nulla con te, Renesmee! Pensi che il nostro amore fosse una
finzione, davvero pensi questo? Ma com'è
possibile?» esclamò, accalorandosi. «Noi
siamo i tuoi genitori, Jacob ti è stato vicino dal giorno in
cui sei nata, come puoi credere che il nostro affetto non fosse
reale?»
Scossi la testa.
«E come posso credere che voi due mi amiate dopo quello che
ho fatto? Forse... forse mi avete accettata perchè dovevate
farlo, ma questo non è amore».
A quelle parole vidi
mio padre trasalire. Sul suo volto impassibile si aprì una
minuscola crepa da cui defluì un dolore sconcertante per la
sua intensità. Si sforzò di mantenere il
controllo, fissando il muro davanti a sè. La mamma rimase a
lungo in silenzio, attonita. Con un gesto lento e aggraziato, si
poggiò le mani sulle tempie. Pensai che avrebbe dato di
matto, e invece quando parlò fu estremamente calma.
«Renesmee»
mormorò. «Tu devi riuscire ad accettare come
stanno le cose. Non è facile, me ne rendo conto, ma
è l'unico modo per andare avanti».
Serrai le labbra che
tremavano, arrabbiata con lei e con me stessa. Avevo deciso di
mantenere il controllo, e invece ovviamente mi stava sfuggendo dopo
cinque minuti di conversazione. «Be', non ci riesco. Non puoi
chiedermi questo, io... non ce la faccio. Non puoi pretendere che
accetti l'imprinting o...»
Questa volta fu lei a
interrompermi. «Se vuoi non ne parleremo mai più.
Non pronunceremo mai più questa parola, la
dimeticheremo!»
La guardai, scioccata.
La stessa ridicola proposta di Jacob. «Cosa? E tu credi che
io possa far finta di niente?»
Fece un sospiro
pesante. Sembrava esausta. «Non voglio che tu faccia finta di
niente, ma.. devi capire perchè ti abbiamo mentito. Eri solo
una bambina e i tuoi primi mesi di vita sono stati molto difficili, con
i Volturi e tutto il resto... Volevamo solo aspettare che crescessi un
po' e poi ti avremmo raccontato tutto, davvero. Volevamo...»
«...
proteggermi, sì, ho capito!» sbottai, stizzita.
Non facevamo che ripetere le stesse cose da tre giorni: era come girare
continuamente in tondo su una giostra impazzita. «Gran bel
risultato, complimenti!»
«Forse
abbiamo sbagliato, abbiamo aspettato troppo, ma non volevamo farti
soffrire. Si è pronti a tutto per proteggere un
figlio» continuò Bella con tono molto serio e teso.
Probabilmente non era
nelle sue intenzioni, ma quella frase fu un colpo al cuore.
«Sì, lo immagino. Anche sacrificare la propria
stessa vita» sibilai a denti stretti.
«Smettila di
dirlo, Renesmee! Non è andata così, io non ho
sacrificato nulla...»
Una porta si
spalancò all'improvviso ed io feci un salto di un metro.
Poco dopo Charlie scese le scale e marciò in salotto con
aria decisa, seguito da sua moglie.
«Scusate»
borbottò. «Scusate l'interruzione, ma... forse
avete bisogno di una pausa».
La mamma lo
fissò per un istante, poi prese un bel respiro. Immaginai
l'inferno che doveva essere la sua gola in quel momento. «Mi
dispiace, non ci eravamo accorte di aver alzato la voce».
«Nessun
problema» la rassicurò Sue.
«Forse
è ora di tornare a casa» aggiunse Bella,
abbassando lo sguardo. «Grazie di tutto».
Il nonno
alzò le mani per fermarla. «Aspetta, Bells,
aspetta un secondo. Posso dire una cosa?»
«Certo»
rispose la mamma, un po' incuriosita. Papà era ancora
perfettamente immobile, come una statua.
Charlie sembrava a
disagio. Si agitò un po', forse impegnato a cercare le
parole giuste. «Senti, è evidente che voi tre
state attraversando una crisi familiare. Non voglio
impicciarmi...»
«Non dire
sciocchezze, papà. Fate entrambi parte di questa
famiglia».
Il nonno
accennò un sorriso. «Grazie, Bells. Ehm... Io e
Sue ne abbiamo parlato e forse... forse non sarebbe una cattiva idea...
se Nessie si fermasse per un po' qui da noi». Sollevai la
testa con uno scatto e li fissai, stupita. Che intendeva dire?
«Magari un periodo di separazione vi farebbe bene.
Può restare due giorni, due settimane o due mesi,
finchè lo vorrà. Se tu e Edward siete
d'accordo».
«Oh»
esclamò la mamma. «Oh, papà, grazie.
È davvero gentile da parte vostra, ma non mi sembra il
caso».
«Perchè
no? Insomma, Bella, vogliamo darvi una mano e non penso che questo sia
di grande utilità». Charlie lanciò una
rapida occhiata nella mia direzione, imbarazzato.
«Ne saremmo
davvero felici, Bella» aggiunse Sue con un sorriso caldo.
«Lo so, ma
non possiamo chiedervi una cosa del genere: avete una certa
età, ormai, e non siete più abituati ad avere
ragazzini per casa. E poi Renesmee deve stare con
noi». Pronunciò l'ultima frase come se per lei
fosse stata una certezza granitica.
Charlie
scambiò uno sguardo accorto con Sue. «Nessie
è come una seconda figlia, per me» disse con
semplicità. Sentii i miei occhi pizzicare e farsi umidi
all'istante. Oh, Charlie... Mi voleva bene sul serio, accidenti. Forse
ero un mostro, ma a lui non importava. Mi aveva sempre accettata per
quello che ero, bugie e stranezze comprese, senza troppe domande o una
recriminazione. «Tutto ciò che voglio è
fare la cosa migliore per lei».
Quelle parole
sembravano nascondere un doppio senso che non capii. La mamma
trasalì e guardò Charlie con espressione strana,
come se il suo viso si fosse congelato. A quel punto papà
aprì bocca.
«È
un'offerta molto generosa. Credo che accetteremo» disse a
bassa voce.
Bella si
girò con uno scatto verso di lui. «Cosa?»
«Charlie,
Sue, potreste lasciarci da soli ancora per qualche minuto, per
favore?» chiese papà.
«Ma
certo» rispose Sue. Prese per un braccio il nonno, che
esitava, e se lo tirò dietro verso la cucina, chiudendosi la
porta alle spalle. Mi dispiacque un po' per loro. Gli avevamo
praticamente invaso la casa con i nostri drammi.
«Sei
impazzito, Edward?» sibilò la mamma. Parlava
così velocemente che afferrai a stento le parole.
«Vuoi lasciarla qui? Non possiamo, siamo i suoi
genitori!»
Lui la raggiunse e le
prese le mani. Mi parve che le stringesse per farsi forza.
«Dobbiamo farlo proprio perchè siamo i suoi
genitori, Bella. Charlie ha ragione: bisogna prendere la decisione
più giusta per lei e costringerla a tornare se non vuole non
farebbe che peggiorare la situazione».
Si guardavano
intensamente negli occhi, come impegnati in un dialogo silenzioso di
cui le parole erano solo una pallida eco.
La mamma si
voltò verso di me. «Tu... tu non vuoi tornare a
casa?» sussurrò.
La domanda mi colse di
sorpresa, ma prima che potessi pensarci la risposta era già
sulle mie labbra. Il sollievo provato nell'ascoltare la proposta di
Charlie aveva deciso per me nello stesso istante in cui l'aveva
formulata, e anche per Edward, a quanto sembrava.
«No»
dissi con voce un po' incrinata ma ferma.
Bella mi
fissò a lungo in silenzio, a bocca aperta. Ero sicura che
non si aspettasse quella risposta.
«È
la cosa migliore» mormorò papà, non so
se a se stesso o alla mamma. Lo guardai: teneva gli occhi puntati sul
pavimento, di nuovo assenti. «È la cosa
migliore».
«Ma non puoi
chiedermi di lasciarla» balbettò la mamma con voce
acuta. «Non posso...»
Papà le
accarezzò il volto teso e angosciato con una mano.
«Bella, ascoltami. Qui starà bene, sarà
al sicuro. Charlie e Sue si prenderanno cura di lei. Ha bisogno di un
po' di tempo lontano da tutto questo».
«Ma possiamo
superarlo insieme...»
Lui scosse la testa.
«No, Bella. Non si fida più di noi. Non ha senso
costringerla a tornare, capisci?»
Bella era
perfettamente immobile, l'aria attonita. Forse stava cercando di
decidere. Mi guardò. «E Jacob?»
«Non ho
più niente da dire a Jacob» sbottai, risentita.
«Se pensa che io possa dimenticare quello che ha fatto si
sbaglia di grosso».
La mamma
lasciò andare le mani di papà. «Non
farlo, Renesmee!» esclamò.
«Non fare
che cosa?»
«Non
tagliarlo fuori dalla tua vita! Voi due avete bisogno l'uno dell'altra,
non vi siete mai separati in questo modo. Starai solo peggio se ti
ostini ad allontanarlo!»
«Ma che ne
sai tu» farfugliai, sconcertata.
«E invece lo
so. Ricordi quello che ti ho detto ieri? So cosa si prova a separarsi.
Puoi stare lontano da noi, se vuoi... Ti lasceremo in pace, davvero. Ma
ti prego, ti prego, promettimi che tu e Jake cercherete di parlare e di
chiarirvi».
«Che
cosa?» sbottai. «Non farò nessuna
promessa! Non voglio parlare con Jacob, va bene? Non voglio vederlo mai
più!». Mi stavo impuntando come una bambina, lo
sapevo benissimo, ma era più forte di me. Non intendevo
dargliela vinta.
Sembrava che la mamma
non riuscisse a credere a quello che usciva dalla mia bocca. Scosse la
testa. «Non è possibile»
sussurrò con voce incrinata. «Non è
possibile che ogni cosa sia andata distrutta. Io ho lottato tanto
perchè tu fossi felice e al sicuro, e adesso... non
è rimasto niente».
Mi irrigidii. Che
voleva dire? «Non ti ho chiesto io di combattere per me.
È stata una tua scelta e mi dispiace se le cose non sono
andate come volevi, ma forse avresti dovuto farne una
diversa» dissi a fatica, concentrandomi per non lasciar
uscire le lacrime.
Bella emise un
singulto. Lasciò cadere le braccia lungo il corpo, inerti, e
rimase a lungo in silenzio, così a lungo che quando
finalmente parlò ero sul punto di cacciare un urlo isterico.
«Quando hai
saputo che i Volturi stavano venendo per te, cinque anni fa, il tuo
primo pensiero non è stato "Ho paura" o "Non è
giusto", ma "È colpa mia"²»
mormorò lentamente. «Forse sono stata
superficiale, in quel momento, e non ho capito cosa poteva significare,
ma la verità è che tu ti porti dentro il senso di
colpa da quando eri piccola. Pensavi davvero di essere responsabile di
ciò che stava accadendo. Pensi davvero di avermi uccisa. Noi
sapevamo che per te non sarebbe stato semplice accettare alcune cose,
ma non avevamo idea che il senso di colpa fosse così forte.
Forse non te ne accorgevi neanche tu. Era rimasto sepolto dentro di te,
da qualche parte, e adesso è esploso. Mi dispiace tanto di
non averlo capito prima. Ma credo che fino a quando non sarai riuscita
a liberartene non potrai mai perdonarci. E non voglio che tu stia male.
L'unica cosa che posso fare adesso è cercare di risparmiarti
altra sofferenza». Sembrava che stesse piangendo, ma i suoi
occhi non potevano versare lacrime. Immaginavo che piangesse dentro di
sè, senza lasciar uscire nulla.
«Perciò... va bene, Renesmee. Resta qui, se lo
preferisci. Però sappi...». Per un attimo parve
che le mancasse il fiato. Si interruppe, abbassò gli occhi,
prese un respiro profondo, mi guardò di nuovo e
ricominciò a parlare con più forza.
«Però sappi che per noi non cambierà
nulla. Tu puoi odiarci, puoi andare via di casa, puoi non rivolgerci
più la parola, ma non pensare che per questo noi smetteremo
di amarti perchè non succederà mai».
Ascoltai il suo
discorso nel più assoluto silenzio. Non mossi neanche un
muscolo. Non sarei riuscita a spiccicare una parola neanche se avessi
avuto qualcosa da dire. La mamma distolse lo sguardo da me.
«Vado a casa
a prepararti le valigie. Charlie può passare a prenderle
più tardi».
Prese il soprabito,
che aveva lasciato sul divano, e lo infilò, poi mi
raggiunse. Esitando, come se temesse di essere respinta, mi
accarezzò la testa con una mano e si sporse per sfiorarmi
appena la fronte con le labbra fredde e dure. Mi sembrò che
reprimesse a stento un singhiozzo prima di lasciare la stanza con passo
svelto. Se n'era andata.
Guardai Edward. Il suo
volto fremeva sotto la maschera impassibile. Fece per avvicinarsi con
passo lento, ma istintivamente mi ritrassi. Temevo che se mi avesse
sfiorata non avrei resistito alla tentazione di abbandonarmi tra le sue
braccia e di poggiare la testa dolorante sulla sua spalla forte. Ma
sarebbe stato come dimenticare tutto quello che ormai sapevo, ed era
impossibile. Lui annuì, con calma.
«Sì,
lo capisco. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi».
Sospirò. «Per qualunque cosa, in qualunque
momento, chiamami». Mosse appena le labbra, mentre mi
guardava, in un accenno di sorriso. Ma non avevo mai visto un sorriso
così infinitamente triste. «Ciao, piccola
mia».
Chiusi gli occhi per
non vederlo andare via. Sentii i suoi passi leggeri, poi il rumore
della porta, infine il motore della Ferrari che prendeva vita. Scese il
silenzio. Attesi qualche secondo, poi riaprii lentamente gli occhi
offuscati dalle lacrime. Ero sola.
Note.
1. Link.
2. Il riferimento
è a Breaking
dawn, p. 524: mentre Edward, Bella, Jacob e Renesmee
aspettano l'arrivo del clan di Denali, i primi fra i testimoni che
dovranno aiutarli, Renesmee pensa ai suoi familiari preoccupati,
costretti a partire, e sostiene che sia tutta colpa sua. E per la prima
volta riflette sul fatto che lei non appartiene a nessuna delle
categorie che conosce, umani, vampiri e licantropi, ma è
qualcosa di diverso. Credo che l'ispirazione per questa storia sia nata
in parte leggendo quella pagina.
Spazio autrice.
Salve! Sarò
breve, promesso. Spero che il confronto tra Jacob e Renesmee vi sia
piaciuto. In alcuni momenti è stato difficile da scrivere,
perchè adoro Jake e mi dispiace da morire per il modo in cui
Renesmee si scaglia contro di lui... Però ha le sue ragioni.
E non poteva andare altrimenti, lei aveva bisogno di sfogarsi e dirgli
tutto quello che pensava.
Un'ultima nota. La settimana prossima non potrò pubblicare
il capitolo sedici perchè è tempo di vacanze e
non avrò il computer con me. L'aggiornamento
è rimandato al mercoledì successivo.
E appena avrò tempo risponderò a tutte le recensioni. Prima o poi rispondo sempre, tranquilli :-). Colgo
l'occasione per augurare buone vacanze a tutti i lettori di Midnight star ^^. A
presto! |
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Capitolo 16 *** Point of view ***
C 16
Capitolo
16
Point of view
Can't
you see, life's easy, if you conside things
From another point of view
Ahh yeah
In another way, from another point of view
Ahh yeah
In another way, from another point of view
In another way, from another
point of view
I see life and lights,
all the colours of the world
So beautiful
Won't you come with me?
Point of view, Db Boulevard feat Moony¹
L'origine del sentimento profondo dell'infelicità,
ossia lo sviluppo di quella che si chiama sensibilità,
ordinariamente procede dalla mancanza o perdita delle grandi e vive
illusioni.
GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone
Una volta mia madre mi
ha detto che il
tempo passa. Anche quando sembra impossibile. Anche quando il rintocco
di ogni secondo fa male come il sangue che pulsa nelle ferite. Passa in
maniera diseguale, tra strani scarti e bonacce prolungate, ma passa². E passò anche per
me.
Quando avevo accettato di trasferirmi da Charlie e Sue per
un po' di tempo avevo pensato che abituarmi alla nuova casa, alle nuove
abitudini, alla mia nuova stanza, perfino al mio nuovo letto, sarebbe
stata una sfida. Io non ho mai amato le novità. E nei primi
giorni
fu veramente difficile. Mi sentivo strappata da un mondo e catapultata
in un altro. A un tratto mi toccava stare costantemente attenta a un
mucchio di cose. Anche a scuola dovevo esserlo, certo, ma in quei primi
giorni in casa Swan mi sentivo come sotto esame. Charlie passava gran
parte del tempo a studiarmi con attenzione, credendo che io non me ne
accorgessi, probabilmente per controllare il mio stato mentale. Non
avevo mai trascorso così tanto tempo da sola in compagnia
esclusivamente umana e temevo che lo sguardo indagatore del nonno fisso
su di me ventiquattr'ore al giorno scorgesse prima o poi qualcosa di
strano. Invece scoprii presto, con mio grande sollievo, che vivere con
due umani fingendomi una di loro mi risultava piuttosto facile, una
volta stemperata la tensione iniziale.
Charlie e Sue erano due fantastici vice-genitori, come
loro stessi si definivano scherzando. Il nonno era
una persona che si faceva gli affari propri e non amava ficcare il naso
nelle
vite degli altri, e Sue era come lui. Probabilmente proprio grazie
a questa qualità il nonno riusciva a frequentare noi Cullen
senza crearci
problemi. Però doveva sentire una grande
responsabilità
nei miei confronti, dal momento che Edward e Bella mi avevano affidata
a lui in un momento critico, e tendeva ad essere più ansioso
e
opprimente di quanto lo sarebbe stato in una situazione normale.
Entrambi si impegnavano al massimo perchè io mi sentissi
proprio
come a casa mia. Mi ero sistemata nella vecchia stanza della mamma e il
nonno mi aveva detto di modificarla a mio piacimento, ma non toccai
nulla, limitandomi a riempire il mobilio con le mie cose. Mi piaceva
stare lì dentro, nella stanza della piccola, timida e
imbranata
Isabella Swan; mi faceva sentire più vicina a lei.
Per ricompensare Charlie e Sue dei loro sforzi, mi
impegnai a comportarmi più normalmente possibile: mangiavo
anche
se avevo lo stomaco chiuso, rispettavo orari e regole (poche,
per la
verità) e avevo insistito per essere inserita nei turni
delle
faccende domestiche. Mi abituai abbastanza presto alla nuova routine e
tutto sommato mi piaceva. Me la cavavo.
Non tutto filava
sempre liscio, però. A
volte mi
svegliavo di soprassalto nel cuore della notte, senza nessun motivo,
in preda a un'ansia sconvolgente, scossa da brividi e ondate di nausea,
la fronte sudata, la gola improvvisamente così stretta da
non lasciar
passare l'aria. In quei momenti mi sembrava di impazzire, nel silenzio
della casa addormentata. Avrei voluto gridare, ma la voce non usciva.
Solo dopo molti respiri profondi riuscivo a calmarmi.
Sapevo che era soltanto un problema di testa e mi sforzavo di
controllarmi; se Charlie avesse assistito a una di quelle crisi mi
avrebbe portato in ospedale. Ma durante la notte, quando le mie
difese si abbassavano e l'inconscio indugiava là dove non
avrebbe
dovuto, ero preda della paura, sebbene non sapessi dire esattamente di
cosa.
Mi
mancava casa mia. Ero fuggita da lì, non ero
nemmeno sicura di poterlo chiamare ancora così, quel posto,
eppure mi mancava. Mi mancava la mia famiglia. Forse se li
avessi incontrati non sarei risucita neanche a guardarli in faccia, ma
la consapevolezza di aver perso quel piccolo microcosmo perfetto che
eravamo stati in passato mi
faceva soffrire.
E mi mancava Jacob. Quella era la cosa più dura da
affrontare, forse, per quanto non fossi disposta ad ammetterlo neppure
con me stessa. Era già successo che ci separassimo per un
po',
durante le vacanze, ad esempio, ma in qualche modo ero sempre riuscita
a sentirlo vicino. Ora
invece mi sembrava che ci trovassimo su due pianeti diversi. Eravamo
lontani, sì, lontanissimi. Quel pensiero mi scatenava
un'angoscia incontenibile. Mi sentivo come
se fossi stata divisa in due e lui avesse tenuto con sè una
metà. Jacob mi aveva persa, sì. Ma anche io avevo
perso
lui. E insieme al mio migliore amico, avevo perso un pezzo di me stessa.
****
«Direi che
è giunto il momento che tu e Alex
definiate il vostro rapporto» sparò Jas
all'improvviso.
Eravamo al telefono, era giovedì ed erano passate
quasi due settimane esatte dal giorno in cui mi ero trasferita da
Charlie e Sue. Ero impegnata a raccogliere in giro la biancheria da
lavare dal momento che era il mio turno per il bucato, e
mi trovavo in equilibrio sulle punte dei piedi, cercando di afferrare
una mia t-shirt sporca finita chissà come sotto il letto.
Poco
mancò che cadessi a terra.
«Cosa?»
«Tu e Alex dovete definire il vostro rapporto»
ripetè tranquillamente.
Sbuffai e scivolai sulle ginocchia per allungarmi di
più sotto il letto. «Che c'entra questo con il
resto?». Fino a un attimo prima avevamo parlato dell'ultimo
test
di matematica.
«Niente, ma è una cosa molto più
interessante».
Finalmente riuscii ad acciuffare la t-shirt, la ficcai
nella cesta e mi alzai. «Possiamo tornare a parlare
del
test?»
«Eddai, tanto avrai preso la solita A!»
«E perchè lo dici come se fosse una brutta
cosa?» mugugnai mentre prendevo un mucchio di lenzuola
sporche
nella stanza di Charlie e Sue.
La sentii sospirare. «No, certo, è
meraviglioso, ma nella scala delle priorità Alex dovrebbe
venire
prima di uno stupido test».
«Aspetta» sussurrai a bassa voce. Scesi le
scale e passando davanti alla cucina vidi Sue intenta a riempire dei
sacchetti per congelare i cibi. «Ciao» la salutai.
Lei alzò la testa e mi sorrise. «Ciao,
Nessie».
«Non puoi parlare?» chiese Jas.
«Ora sì». Mi infilai nella minuscola
lavanderia e accostai la porta. «Okay, dicevamo?»
«Tu e Alex dovete decidere cosa c'è tra di
voi» insistè, imperterrita.
Alzai gli occhi al
cielo mentre
iniziavo a dividere il mucchio di panni sporchi in due parti per fare
due lavaggi, seguendo accuratamente le istruzioni che Sue mi aveva
scritto su post-it attaccato sulla lavatrice. Separare i capi neri dai
capi bianchi. Quelli bianchi dai colorati. Quelli da lavare a rovescio
da quelli da lavare con acqua fredda... Non
avevo mai
fatto il bucato nè altre faccende domestiche. Era il
risultato di vivere con due genitori vampiri sempre svegli che dovevano
pur impiegare in qualche modo le loro giornate e notti interminabili.
Non poteva essere una cosa difficile, però. Avevo
già messo a lavare un carico di roba nel pomeriggio ed ero
sicura che fosse andato tutto liscio. «Smetti di ripeterlo,
per
favore?»
«Mi sto preoccupando
per te, mostra un briciolo di gratitudine»
protestò, indignata.
Sospirai. «Come ti è venuta in mente questa
cosa?»
Forse colse un po' di curiosità perchè il
suo tono divenne profondamente soddisfatto. «Andiamo, non
bisogna
essere un genio per arrivarci. So che vi conoscete solo da tre
settimane e che avete deciso di non correre, ma questa situazione
indefinita è ridicola».
«Non è una situazione indefinita, siamo
amici».
Jas sbuffò sonoramente. «Per favore! Puoi darla a
bere a chi vuoi ma non a me. Ho visto come vi
guardate».
«Come ci guardiamo?» mi informai con tono
moderatamente curioso.
Lei ci pensò per qualche secondo. «Come se
ciascuno di voi si aspettasse qualcosa dall'altro».
«Mmm» fu il mio commento. «Tu dici...
ehm, dici che lui si aspetta qualcosa da me?»
«Forse si aspetta che tu gli faccia capire cosa vuoi
fare».
Provai una fitta d'ansia. Cercai di scacciarla, mentre
continuavo a dividere i vari capi in piccoli mucchi. «Gli ho
chiesto un
po' di tempo, Jas».
«Lo so, e capisco... insomma, capisco che tu abbia tante
cose per la testa, adesso» disse, a dasagio.
«Però secondo me
non ha senso continuare a fare gli amici se c'è una tale
attrazione fra voi. Non riuscite a togliervi gli occhi di dosso quando
siete insieme». Non potei trattenere un sorriso. Sapevo che
aveva
ragione. «Non capisco perchè tu debba ostinarti a
restare solo
un'amica lasciando a Caroline la possibilità
di...»
«Ancora con questa storia?» sbottai, scocciata.
«Renesmee, hai problemi di vista o cosa? Ogni volta che
non ci sei quella gli si attacca al giubbotto peggio di una
piattola!»
«Jas, ad Alex non
interessa.
Non vuole darle corda».
«Ah, non vuole?» esclamò, ironica.
«La
volontà di un ragazzo diventa gelatina quando c'è
in giro
Caroline Johnson».
«Okay, senti... forse hai ragione».
«Ma va'!» borbottò.
«Non su Caroline» aggiunsi in tono secco.
«Su me e Alex. Lui... mi ha chiesto di andare al cinema
insieme a
Port Angeles, questo week end».
«Ah!» strillò Jas, così forte
che dovetti allontanare un po' il cordless dall'orecchio. «Le
mie
intuizioni erano più che giuste, ovviamente».
«Ma quali intuizioni? Hai detto tu stessa che non
riusciamo a staccarci gli occhi di dosso, cosa c'è da
intuire?»
Mi ignorò completamente. «Questa potrebbe essere
una buona occasione per fare un passo avanti».
«Un passo avanti?»
La sentii sbuffare pesantemente. Mi sembrò
quasi di vederla alzare gli occhi al cielo. «Vuoi metterti
con Alex
sì o no?»
«Sì.... sarebbe bello» mormorai,
soprapensiero. «Ma non... non saprei... come fare».
«Certo, è normale per una novellina. Sai, quando
io
e Tom ci siamo messi insieme ufficialmente, due sabati fa...»
Oh, no.
Ecco l'incipit della storia che mi raccontava tutti i giorni da due
settimane. Dopo le prime sei o sette volte ascoltarla di nuovo era
più o meno come ascoltare il gradevole rumore di unghie su
una
lavagna. Lasciai vagare la mente, pensando ad Alex quando mi fissava
con quegli occhi, a Caroline che faceva la smorfiosa, ai compiti che mi
aspettavano dopo cena, a Jacob e a quello che avrebbe detto di Jas che
si metteva con Tom... Mi avrebbe fatto ridere, di sicuro...
Chissà come mi avrebbe consigliato di comportarmi con Alex...
«... e poi ci siamo baciati» fece Jas. Io sussultai
e
tornai a prestarle attenzione, sapendo che la fine del racconto si
avvicinava. «L'anellino che mi ha regalato è stato
un gesto
simbolico, capisci? Be', comunque tutto questo viene dopo. Tanto per
cominciare, devi organizzarti per sabato».
«Eh, già. Mi toccherà dirlo a
Charlie» brontolai.
«Perchè dovresti? Digli semplicemente che vieni a
casa mia».
«Sì, certo, così quando ci
incontrerà in auto mentre fa il suo giro di pattuglia
avrà proprio una bella sorpresa».
«Uffa. Diglielo prima possibile, allora. Via il dente,
via il dolore, giusto? Se ti risponde di no, cosa molto probabile, puoi
venire a fare shopping con me e mia madre».
«Grande consolazione! Sei un'amica fantastica, Jas».
«Figurati. Sono qui per questo».
«Comunque pensavo di affrontare il discorso stasera, a
cena».
«Bene, brava. Se sabato vieni con noi devi aiutarmi a
scegliere un nuovo lucidalabbra».
«Un altro? La tua camera rigurgita lucidalabbra,
Jas».
«Appunto. Uno in più non farà tanta
differenza».
Stavo per risponderle, poi aprii lo sportello della lavatrice per
tirare fuori i panni che avevo messo a lavare qualche ora prima, e mi
trovai fra le mani un mucchio di biancheria un tempo immacolata e
adesso tinta di un rosa pallido, comprese parecchie mutande di Charlie.
Mi uscì un gemito.
«Che
c'è?»
«Il bucato, ecco cosa c'è!» sbottai,
incredula. «Oggi
ho messo a lavare della biancheria e in lavatrice è
diventata rosa! Rosa!
Com'è possibile? Sue mi ucciderà, dannazione!».
Con uno sbuffo mi guardai intorno, affranta, come se sperassi di
trovare una soluzione a portata di mano. Gli occhi mi caddero sulla
confezione di detersivo lì accanto. «Secondo
te potrei provare a lavarli di nuovo senza che succeda qualcos'altro?
Il rosa andrà via, giusto? E quale programma dovrei
usare?». Aggrottando la fronte, premetti qualche pulsante
sulla
lavatrice, scorrendo le opzioni. Mi sembrava di avere a che fare con
una lingua straniera sconosciuta. «"Bianchi
molto sporchi"... "Risciacquo"... "Colorati"... "Colorati delicati"...»
«Eh?» fece
Jas, confusa.
«Che ne sai di bucato, tu?»
«Ehm... So che se ne occupa Louise».
Louise era la cameriera dei Williams.
«Capito» risposi. «Mi serve Sue, temo.
Meglio che
vada».
«Okay. Pensa a quello che ti ho detto su Alex. E buona
fortuna con Charlie!»
«Grazie. Ciao, Jas».
«Ciao ciao!»
Chiusi la conversazione, raccolsi i panni appena usciti dalla lavatrice
e
li ficcai tutti alla rinfusa nella cesta, poi andai in cucina.
«Chiedo lumi» sbottai.
Sue guardò
la mia espressione scocciata e sembrò trattenersi a stento
dallo
scoppiare a ridere. Poi frugò per qualche istante nella
cesta e
infine trasse fuori lentamente uno dei miei reggiseni di un intenso
rosa shocking, fissandomi con espressione eloquente. Io arrossii da
capo a piedi, imbarazzata, e farfugliai delle scuse miste a spiegazioni
incomprensibili. Invece di prendersela, lei scoppiò a ridere
e
mi disse di lasciare tutto com'era e di non preoccuparmi.
«Sono
proprio curiosa di vedere Charlie con una di queste addosso!» esclamò
allegramente agitando una delle mutande colorate di suo marito.
Scappò una risatina anche a me, mentre tornavo in
lavanderia,
pensando alla faccia che avrebbe avuto Charlie con un paio di mutande
rosa in mano. Riempii
la lavatrice
con un carico di panni sporchi e stavo versando il detersivo nel
cestello (dopo
aver controllato attentamente le dosi sul retro della confezione)
quando squillò il telefono, che avevo lasciato
sull'asciugatrice. Allungai la mano e risposi senza pensarci.
«Pronto?»
«Renesmee? Ciao, tesoro!»
La voce cristallina della mamma fluttuò nel
cordless, cogliendomi del tutto alla sprovvista. Merda. Avrei dovuto
controllare il numero sul display.
«Ciao mamma» la salutai con tono
rigido. Telefonava quasi tutti i giorni, con una certa
regolarità, e quando non lo faceva era il nonno che chiamava
lei. Proprio non capivo il senso di tutta quella attività
telefonica, a meno che la mamma non volesse essere informata di ogni
mio minimo spostamento. Io le avevo parlato solo due o tre volte. In
genere inventavo qualcosa per sfuggire, tipo chiudermi in
bagno o
fingere di essere troppo impegnata con lo studio per venire al telefono.
«Come stai?» chiese dolcemente.
«Bene» risposi in fretta. «Tu?»
«Bene, grazie, tesoro».
«E... ehm... gli altri... stanno... bene?» mi
informai
con il tono di chi chiede solo per educazione. Tanto per fare qualcosa,
aprii l'asciugatrice e cominciai a tirare fuori i panni asciutti e
puliti.
«Stiamo tutti benissimo, non preoccuparti per noi. Che cosa
fai?»
«Il bucato. Do una mano a Sue».
«Brava, piccola». Ci fu un attimo di silenzio. Gran
conversazione. Erano sempre così, le nostre brevi
telefonate.
Sembrava che chiamasse solo per sentire il suono della mia voce.
«La
scuola come va?»
«Non c'è male». Continuavo a parlare con
tono
piatto e rigido, senza alcuna intonazione. Cercai qualcosa da dire
prima che scendesse di nuovo il silenzio. Che assurdità. Non
ricordavo che fossimo mai rimaste a corto di argomenti, io e lei, e
adesso... adesso era tutto così diverso. «Oggi ho
avuto un test
di matematica».
Mi parve di sentirla sorridere. «Non preoccuparti,
sarà andato benissimo, come al solito».
«Sì... credo».
Altra pausa. Cominciavo a innervosirmi. Sbattevo i vestiti
puliti nella cesta facendo un sacco di rumore per rompere in qualche
modo quell'orrendo silenzio. Poi la mamma parlò ancora,
perfettamente tranquilla e
incurante del mio broncio.
«E allora... c'è qualche
novità?»
«Tom e Jas si sono messi insieme»
borbottai, sparando la prima cosa che mi passò per la mente.
«Sul serio? Sono contenta».
«Sì, anch'io».
«E con Alex come va?»
La domanda mi stupì. Perchè chiedeva di me e
Alex dopo aver saputo di Tom e Jas? «Tutto okay»
risposi, sbrigativa.
Proprio non mi andava di scambiare confidenze.
Restammo di nuovo in silenzio per qualche secondo, poi la
mamma fece un piccolo sospiro. «Sai, oggi ho parlato con
Jacob per
telefono» disse con tono incerto.
Nel sentire quel nome
ebbi un
sussulto involontario. A
giudicare dal tono della mamma, Jacob non stava affatto bene.
Probabilmente si tormentava e si sentiva in colpa. Eccellente. Provai
una certa macabra soddisfazione al pensiero che lui non se la passasse
meglio di me, ma anche qualcos'altro... una strana sensazione, come una
puntura fastidiosa. Acuta e fastidiosa. Mi ci volle un minuto per
capire cosa fosse: dolore. Il suo dolore stuzzicava il mio. Eravamo
così intimamente legati che i nostri sentimenti sembravano
interconnessi: se uno dei due stava male, si trascinava dietro anche
l'altro. Era sempre stato così ed evidentemente neppure la
lontananza fisica ed emotiva poteva cambiare le cose.
«Renesmee? Ci sei ancora?»
«Uhm, sì. Ci sono» borbottai.
«Scusa, devo andare. Ho un sacco di compiti. Ti passo
Sue».
Cinque minuti era la durata massima delle nostre
conversazioni telefoniche, poi iniziavo ad agitarmi e a sudare freddo.
«Come vuoi» rispose, improvvisamente triste.
«Ti salutano
tutti, Rose ti manda un grosso bacio e papà ti abbraccia
fortissimo».
«Okay».
«Ti voglio bene, piccola» aggiunse a voce bassa,
quasi avesse paura di pronunciare quelle parole.
«Ciao, mamma» la salutai frettolosamente. Andai
in cucina
e allungai il cordless a Sue, che stava infornando una teglia.
«È Bella» dissi, poi mi eclissai di
nuovo in
lavanderia.
Mentre svuotavo l'asciugatrice, piegavo i panni puliti e
li riportavo al loro posto in giro per casa sentivo Sue chiacchierare
in cucina, ma non mi impegnai per ascoltare cosa dicesse e le risposte
della mamma. Non mi interessava. Quando ebbi finito salii in camera mia
a studiare, ma non ci rimasi molto. Appena sentii sbattere la porta
d'ingresso tornai di sotto. Charlie era in cucina, ancora con la giacca
della divisa addosso e la pistola nella fondina, e parlava con sua
moglie a bassa voce della telefonata di poco prima. Entrai nella stanza
e loro si interruppero.
«Ciao, nonno» esclamai, alzandomi sulle punte dei
piedi per baciarlo sulla guancia.
«Ehi, Ness». Mi sorrise affettuosamente.
«Come va? La scuola?»
Alzai le spalle. «Il solito».
Annuì, poi abbassò lo sguardo, fingendo di
osservare le verdure da tagliare per la cena. «Ho saputo che
ha
chiamato la mamma» disse con tono noncurante.
«Avete parlato?»
«Certo» risposi, sforzandomi di apparire
tranquilla. «Sue, posso darti una mano?»
Mentre lei finiva di preparare la portata principale, lasagne vegetali,
io lavai, pulii e tagliai le verdure per l'insalata. Il
nonno mi aiutò un po', apparecchiò la tavola,
accese la
tv in salotto, ma per la maggior parte del tempo lui e Sue furono
impegnati in una specie di silenziosa conversazione di sguardi. Finsi
di non accorgermene.
Poco dopo eravamo a tavola. Tra la
telefonata della mamma e la questione del cinema con Alex avevo un bel
po' di cose per la testa, ma mi costrinsi a mangiare, mentre pensavo a
un buon modo per tirare in ballo Alex. Non me ne veniva in mente
neanche uno. Charlie parlava in sottofondo ai miei pensieri.
«Stavo facendo un giro di controllo, nel pomeriggio, e ho
incrociato la signora Marshall che sfrecciava lungo la Forks Ave come
una pazza, e non aveva nemmeno la cintura.
Naturalmente l'ho fermata e lei si è giustificata dicendo
che
stava accompagnando le figlie a lezione di danza, a Port Angeles, ed
era in ritardo. Le ho chiesto se preferiva che le sue figlie
perdessero la vita piuttosto che la lezione di danza, e avreste dovuto
vedere come mi ha guardato! Come se fossi un mostro o chissà
cosa».
«Assurdo» commentai sottovoce.
«Puoi dirlo forte, Nessie. Certa gente non ha un minimo di
giudizio».
«Mmm».
«Non oso neanche pensare a cosa si aggira per le strade di
Seattle».
Sospirai. Non era certo la miglior conversazione
preliminare alla mia richiesta, ma non potevo aspettare oltre. Mi
schiarii la voce. «Ehm... dovrei... dirvi una cosa».
«Sì, cara?» mi incitò Sue.
Feci un respiro profondo. Come aveva detto Jas? Via il
dente, via il dolore. «Sabato vorrei andare al cinema con un
ragazzo».
Charlie aveva appena preso un grosso boccone di carote e
per un secondo temetti che si strozzasse: arrossì,
tossicchiò, si agitò, mentre Sue lo fissava con
le
sopracciglia inarcate, poi si tuffò sul suo bicchiere
d'acqua e
mandò giù una bella sorsata. Quando
riemerse, si
schiarì la gola e mi lanciò un'occhiata strana.
«Un
ragazzo?»
«Sì» mormorai, un po' preoccupata.
«E chi sarebbe questo ragazzo?» indagò,
cincischiando nel piatto con la forchetta.
«Alexander
Hayden. Si
è appena trasferito».
«Hayden? La famiglia che viene da New York?» chiese
con
aria allarmata. Se Seattle lo spaventava, chissà qual era la
sua
opinione sulla Grande Mela.
«Sì, proprio loro. Conosco sua zia, Julianne
Callaway».
«E quando l'hai conosciuta?»
«Un paio di settimane fa sono stata a casa loro».
Charlie si schiarì di nuovo la gola e prese un
altro boccone. Masticò molto lentamente. «Mi pare
che questo...
ragazzo sia più grande di te» disse all'improvviso.
«Ha sedici anni» confermai con cautela.
Annuì. Aveva gli occhi stretti come due fessure.
«Sarebbe un appuntamento, quindi?»
«Una specie» borbottai, a disagio.
Sue mi sorrise. «Che bello, tesoro. È bello, vero,
Charlie?»
«Sì, è meraviglioso»
bofonchiò il
nonno con una certa dose di ironia. «Hai detto che andate al
cinema?»
«Questo è il programma».
«E come pensate di arrivare fino a Port Angeles?»
«Con la sua macchina» risposi tutto d'un fiato, e
attesi lo scoppio della bomba.
Per la seconda volta Charlie divenne rosso come un
semaforo e prese a tossire a ripetizione. Forse parlarne durante la
cena era stata una cattiva idea. «Non potete andare a Port
Angeles con
la sua auto!» balbettò quando la sua faccia
spuntò dal
tovagliolo.
«Perchè no?» protestai, stizzita.
«Be', c'è bisogno che te lo dica? La signora
Marshall ha quarant'anni e guida come una spostata, figuriamoci un
ragazzino di sedici! Non se ne parla nemmeno!»
«Charlie» intervenne Sue con tono di avvertimento.
«Andiamo, non è mica un evaso da
Alcatraz» sbottai.
«Ma certo che no» fece Sue.
«Ah, davvero? E come possiamo esserne sicuri?»
borbottò il nonno. Sua moglie lo fulminò con lo
sguardo e
lui parve imbarazzato.
Alzai gli occhi al cielo. «Ha compiuto sedici anni lo scorso
giugno e ha la patente da nove mesi. E sa guidare. È molto
prudente... sul serio». Incrociai le dita sotto il tavolo.
Diciamo che lo era quasi sempre.
«È così prudente che la mattina fa
sempre tardi a scuola» mentii con un sorrisetto.
«Magari è solo perchè non sente la
sveglia» brontolò il nonno.
«Charlie» lo richiamò Sue per la seconda
volta, sempre più spazientita.
Ignorai la battuta. «Sono già andata in macchina
con lui e guarda un po'? Sono ancora viva».
Lui sbuffò. Ormai aveva rinunciato a mangiare e si
limitava a pasticciare nel piatto con aria svogliata. «E i
tuoi
genitori lo sanno?». Probabilmente aveva parlato di getto,
senza
pensarci, e sembrò pentirsene: mi guardò di
sbieco,
timoroso della mia reazione.
«Sanno cosa?» domandai, tranquilla.
«Sanno di questo... ragazzo?»
specificò, inquieto. Sue continuava a fissarlo, imponendogli
cautela con gli occhi.
Respirai profondamente. «Sì, sanno di Alex. Non lo
hanno mai incontrato, però».
Anche il nonno fece un pesante sospiro. Riflettè
per un minuto e nella cucina scese il silenzio. Potevo quasi sentire
gli ingranaggi girare nella sua testa in cerca di una soluzione.
«Facciamo in questo modo» disse mentre si puliva la
bocca
con il tovagliolo. «Lo inviti a cena qui per
venerdì sera, così
lo conosciamo. E se tutto va bene...» non finì la
frase.
Sgranai gli occhi, completamente spiazzata. Eh?
«Buona idea» disse Sue.
«Preparerò una cena eccezionale».
Io ero senza parole. Wow. Mi aveva incastrato. Ero stata
incastrata da mio nonno. «Cosa? Stai scherzando?»
boccheggiai.
«No» rispose, meravigliato.
«Cioè, in altre parole, non potrò
uscire con lui se prima non avrà passato il tuo
esame?»
«Che parolone, Nessie! Esame... Voglio solo
conoscerlo, tutto qui. Mi sembra legittimo. I tuoi genitori farebbero
lo stesso» disse, e riprese tranquillamente a mangiare.
Ero più o meno sotto shock. Sapevo benissimo cosa
stava cercando di fare: contava sul fatto che Alex dicesse no a una
cena in famiglia per far saltare tutto quanto. Eh sì,
l'ispettore capo Swan mi aveva incastrata per bene. Mi
guardò e
mi sorrise, rilassato.
«Che c'è, tesoro? Non finisci di
mangiare?»
****
Non avevo la minima idea di
come spiegare ad Alex la situazione
in cui mi ero cacciata, anzi, in cui avevo cacciato entrambi,
senza che
scappasse a gambe levate. Lo conoscevo abbastanza da immaginare quale
sarebbe stata la sua reazione alla proposta di una cena con i miei
nonni. Temevo che la prendesse così male da scaricarmi o
qualcosa del genere, e in quei giorni mi ero resa conto di quanto la
sua presenza, con l'intero bagaglio di prese in giro e frecciatine,
fosse indispensabile per la mia sanità mentale. A volte mi
sembrava di mantenermi in piedi grazie a una manciata di persone e Alex
era tra queste. Ci pensai su per tutta la sera, buona parte della
notte, e tutta la mattina succesiva, e dopo tanto rimuginare finii con
il dirgli tutto alla prima occasione in cui ci trovammo da soli, senza
giri di parole.
Eravamo nella sua auto, durante l'intervallo per il
pranzo. Avevamo mangiato insieme e poi, visto che mancava ancora un po'
alla campanella, ci eravamo sistemati nel comodo abitacolo della sua
Audi con il riscaldamento a palla e un mucchio di cd. Parlavamo di
musica e la discussione era piuttosto accesa. I nostri rispettivi
gusti musicali erano molto vari, ma coincidevano poco.
«Non è possibile che non ti piaccia il
jazz» borbottò Alex, contrariato.
«Eppure
sei una musicista!»
«Non ho detto che non mi piace il jazz, ho detto che
preferisco la musica classica»
ribattei.
«Magra consolazione. Continuo a pensare che sia una
specie
di delitto non amare il jazz sopra ogni altro genere musicale».
«Sai, esiste una cosa chiamata rispetto per l'opinione altrui...»
«Sì, ma se l'opinione altrui è
ridicola...»
«A te non è piaciuto il Notturno³ di
Chopin che ti ho fatto ascoltare, che dovrei dire, io?»
Mi guardò, corrucciato. «Non è che non
mi piaccia Chopin. È tutta la musica classica che non mi fa
impazzire».
Sorrisi. «Ecco. Questo, per me, è ridicolo. Come
si fa a non amarla?»
Per tutta risposta lui mi lanciò un'occhiataccia. Non
gradiva
molto che qualcuno si appropriasse delle sue battute e gliele rigirasse
contro.
La canzone che stavamo ascoltando finì e scese
il silenzio; il cd doveva essere terminato. Parlare di musica classica
mi aveva fatto tornare in mente zio Emmett, che la sopportava a
malapena. Decisamente prediligeva altri generi. Eppure, ogni volta che
zia Rose sedeva
al pianoforte e iniziava a suonare, lui non riusciva a non ascoltarla,
rapito, fino all'ultima nota, gli occhi pieni d'amore.
«Mio padre adorava la musica classica, invece. Soprattutto
Beethoven» disse Alex
all'improvviso, distogliendomi dai ricordi. Fissava il lettore cd con
sguardo spento, la
voce intrisa di malinconia. Trasalii, sorpresa dalla scelta
dell'argomento. Era
molto raro che parlasse spontanemente dei suoi genitori.
«Diceva
che ascoltarlo riusciva a farlo sentire anche dopo la
più estenuante delle giornate». Le sua labbra
contratte si
rilassarono accennando un sorriso. «Quando ascolto la Sonata
al chiaro di luna⁴ e chiudo gli
occhi... mi sembra quasi di riuscire a vederlo, seduto nella sua
poltrona preferita, un bicchiere di vino in mano... poi solleva lo
sguardo, mi vede, mi
sorride...»
Sentii una stretta allo stomaco. Alex era perfettamente
immobile, ma mi parve che lottasse con tutte le sue forze per non
lasciar trapelare nulla oltre quel sottile velo di tristezza. Ed io
desiderai poter fare qualcosa, qualunque cosa, per interrompere quella
battaglia interiore e dargli anche solo un briciolo di sollievo. Senza
pensarci un secondo, dissi la prima cosa che mi passò per la
testa.
«Sei libero domani sera?» domandai, consapevole di
essere tremendamente fuori luogo in quel momento.
Mi guardò, confuso, come se avesse dimenticato che
ero lì seduta accanto a lui. «Domani sera? Credo
di
sì. Perchè?»
«Ti andrebbe di cenare con noi?». Tanto avrei
dovuto dirglielo, prima o poi. Incrociai le dita, ansiosa.
Alex inarcò le sopracciglia. «Noi chi?»
«Io, mio nonno e sua moglie».
Le sue sopracciglia si sollevarono fin quasi a sfiorare
l'attaccatura dei capelli. «Tuo nonno l'ispettore
capo?».
Annuii. Breve pausa. Non sembrava sconvolto come temevo, ma era
evidente che lo avevo colto impreparato. «A cosa devo
l'onore?» chiese con vaga ironia.
«A niente. È una cosa informale».
«Renesmee» cantilenò con aria divertita
e il tono di chi intende dire Non
me la dai a bere.
«Sul serio! Non è niente di particolare,
sanno che ho un nuovo amico e sono curiosi di conoscerti, tutto qui.
Prometto che non ti mangeranno. E poi... sabato potremmo uscire
insieme, come avevamo detto» azzardai, quasi morendo di
vergogna.
Quanto avrei desiderato strisciare nei boschi intorno alla scuola e
seppellirmi viva da
qualche parte per il resto dell'eternità.
«Che c'entra la cena con il nostro appuntamento?»
«Niente» ripetei.
Restammo a fissarci negli occhi per un minuto, poi Alex
sbuffò una risata a stento trattenuta.
«Oddio» disse
lentamente «la cena di domani e l'uscita di sabato sono
collegate, vero? Non si fidano di me».
Sospirai, scocciata, incrociando le braccia. «Non si fidano
di te al volante, più che altro».
«Immagino che in una città così
piccola le voci corrano in fretta, soprattutto quelle gustose. E un
poliziotto ci mette ancor meno a procurarsi le notizie
interessanti» aggiunse, senza smettere di sorridere.
«Di che parli?»
«Tuo nonno sa tutto quello che ho combinato negli
ultimi due anni, puoi scommetterci» spiegò,
tranquillo.
Mi resi conto che
probabilmente aveva ragione. «Be', non sei
costretto» mormorai. Rivedevo
perfettamente l'espressione di Julie quando lo guardava e immaginai
Charlie che lo scrutava allo stesso modo. Non volevo che lui stesse
male solo per assecondare la follia di mio nonno.
Mi lanciò un'occhiata strana. «Tu vuoi
farlo?» mi chiese a bruciapelo.
«Se fosse possibile lo eviterei, credimi.
Però non voglio rinunciare a Port Angeles. Vuol dire che
scapperò di casa».
«Mi piacerebbe vederti all'opera»
esclamò com aria furba. «Ma in fondo posso capire
tuo
nonno. Anch'io al suo posto sarei preoccupato dopo aver sentito certe
storie». Aggrottò la fronte, come faceva sempre
quando
pensava intensamente a qualcosa. Adoravo quell'espressione.
«D'accordo» concluse, alzando le spalle.
«Sul serio?»
«Ma sì, credo si possa fare. Non mi
mangeranno, giusto? E comunque mi pare di capire che non abbiamo molta
scelta».
Scossi la testa. «Purtroppo no. Ma in compenso, mia
nonna cucina benissimo».
«Ah, davvero?»
Fece un sorrisetto, poi si
avvicinò all'improvviso e mi sfiorò una guancia
con la
mano. Il mio cuore fece un balzo mentre le sue dita sembravano
lasciarmi
una scia infuocata sulla pelle. Automaticamente mi irrigidii un po',
intimorita dal suo gesto, ma allo stesso tempo provavo una strana
sensazione, del tutto nuova. Uno strano desiderio di abbandono, di
abbandonarmi al suo tocco
morbido e di toccarlo a mia volta. Lui
aggrottò di nuovo la fronte, pensieroso, il volto
vicinissimo al mio, le labbra piegate in un ghigno furbo.
«Ti sento tesa. Che c'è, Scheggia? Non
preoccuparti, è solo una cena: che potrà
succedere?»
Trassi un respiro tremante e cercai di sorridere a mia
volta. «Già... che potrà
succedere?»
Note.
1. Link.
2. Stephenie
Meyer, New moon,
pag. 85.
3. Precisamente è
il Notturno Op. 9 n. 2, uno dei miei preferiti. E Renesmee, da brava
pianista, lo adora xd. Eccolo qui.
4. Tutti ne avrete sentito parlare, è stupenda: link.
Spazio autrice.
Salve
a tutti! Come avevo anticipato, la pubblicazione del capitolo sedici
è stata rimandata di una settimana. Spero che vi piaccia!
Una
breve nota a proposito del comportamento del buon vecchio Charlie.
Senz'altro avrete notato che nei confronti di Renesmee è
molto
più apprensivo e protettivo di quanto sia mai stato nei
confronti di Bella. Le ragioni di questo comportamento saranno spiegate
nel prossimo capitolo, anche se tutto sommato penso siano facilmente
intuibili... Comunque non vi anticipo nulla xd. Grazie! |
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Capitolo 17 *** Halfway gone ***
C 17
Capitolo
17
Halfway
gone
If you want me out, then I'm on
my way
And I'm feelin, feelin, feelin this way
Cause you're halfway in, but don't take too long
Cause I'm halfway gone, I'm halfway gone
wohoww wohoww
I'm halfway gone, I'm halfway gone.
Halfway gone, Lifehouse¹
Ma Amore è cieco e
gli amanti non vedono le dolci follie che commettono.
WILLIAM SHAKESPEARE
Quando
gli comunicai che Alex aveva accettato l'invito, Charlie
reagì
con una specie di grugnito dal quale dedussi di aver avuto ragione fin
dall'inizio: aveva sperato che Alex mi dicesse di no, in modo da avere
un ottimo motivo per non farmi uscire con lui. A quanto pareva, il mio
nonnino giocava sporco.
Sue invece ne fu entusiasta e disse che avrebbe
preparato una cena speciale. La pregai di non esagerare per non
mettere Alex ulteriormente in imbarazzo, ma non ero sicura che mi
stesse ascoltando perchè la sua risposta si
limitò a un
sorriso distratto mentre compilava la lista della spesa. Non mi restava
che incrociare le dita e sperare che
filasse tutto liscio.
Alex sembrava tranquillo, o forse era soltanto
più abile di me nel nascondere l'agitazione. Per tutto il
venerdì mattina non fece che ridacchiare e fare allusioni
ambigue alla cena imminente ogni volta che ci incrociavamo nei corridoi
e durante l'intervallo. Ormai pranzavamo sempre insieme, a volte da
soli, altre con i
miei amici o con i suoi. Quel giorno eravamo al tavolo del suo gruppo,
tutti studenti del terzo anno che conoscevo solo di vista, tra cui
Brian e
Robbie, i due ragazzi che avevano parlato con Alex, in mensa, il primo
giorno in cui avevamo mangiato insieme. Ero seduta di fronte a una
certa Karen Wilson,
che alternava occhiate ammiccanti quando fissava Alex a occhiate
antipatiche quando fissava me. Sforzandomi di ignorarla, mi
strinsi un po' di più al suo fianco, nervosa.
«Allora... è tutto chiaro?» domandai.
Avevo appena
terminato di illustrare ad Alex la composizione della mia famiglia
allargata nel tentativo di ridurre al minimo le possibilità
di
momenti imbarazzanti durante la serata che ci aspettava.
Lui sorrise, perfettamente rilassato. «Certo. Adesso devi
solo disegnarmi un albero genalogico e tutto andrà a gonfie
vele. Hai una famiglia complicata, eh, Scheggia?». Prese una
patatina
dal sacchetto che condividevamo.
«Nessuno ti interrogherà, promesso»
dissi
velocemente e un attimo dopo dubitai della mia stessa affermazione.
Come potevo esserne certa con l'ispettore capo Swan nei paraggi?
«È solo per precauzione».
Si girò a guardarmi, un ghigno malizioso che gli
attraversava il volto. «Tu
puoi interrogarmi, se ti va. Anche qualche lezione privata sarebbe
gradita».
«Alex»
borbottai con tono di avvertimento. Quel giorno ero troppo stressata
per assecondarlo.
«Oppure potrei dare io
a te
qualche lezione privata»
proseguì, ignorando completamente la mia protesta.
Poggiò
il braccio sullo schienale della mia sedia e la sua mano
salì
impertinente a delinearmi il contorno dell'orecchio. Con uno scatto mi
allontanai un po', neanche avessi preso una scossa elettrica.
«La smetti, per favore?» sbottai sottovoce,
controllando
con una rapida occhiata che nessuno avesse visto nulla. Per fortuna
Karen si stava
controllando i capelli in uno specchietto e il resto della tavolata
discuteva a gran voce del campionato di baseball.
Alex abbassò il braccio e sospirò. «Non
potrai sfuggirmi per sempre» disse con calma, come se fosse
un
semplice dato di fatto, il sorrisino ironico ancora al suo posto.
«Siamo nel bel mezzo della mensa, ti pare il momento
per...» troncai la frase di botto,
inquieta.
«Prima o poi arriverà, il momento
giusto» aggiunse.
«Chissà, forse potrebbe essere proprio
stasera»
scherzai, adeguandomi al suo umore. «Mio nonno non aspetta
altro».
Alex scoppiò a ridere mentre beveva un sorso di
Coca Cola dalla lattina e poco mancò che inondasse chi gli
era
seduto davanti. «Caspita! Bella idea, Scheggia! Questo
sì che
sarebbe un modo per rendere la serata davvero
indimenticabile».
«Non te lo consiglio se tieni alla tua libertà
personale».
Lui rise ancora, incapace di trattenersi, e Karen e Robbie si voltarono
a guardarci. Fantastico. Non facevamo che
attirare l'attenzione e Alex non soltanto sembrava godersela, ma si
metteva di impegno per impedirci di passare inosservati. A volte
sospettavo che lo facesse soltanto per il gusto di vedermi arrossire
come un peperone quando mi stuzzicava in pubblico.
Al termine delle lezioni salutai Alex e salii sull'auto
della madre di Jas, che si era offerta di accompagnarmi a casa. Da
quando mi ero trasferita da Charlie Alex aveva smesso di "farmi da chauffuer",
come diceva lui, ma se tutto fosse andato bene dal lunedì
successivo avrebbe potuto ricominciare. La signora Williams
non veniva
quasi mai a prendere sua figlia a scuola, sempre troppo impegnata con
il
parrucchiere, la palestra, lo shopping e le amiche del bridge. Di
solito Jas prendeva il pulmino della scuola (che non arrivava fino a
casa mia, sperduta tra i boschi) oppure trovava ad aspettarla
l'autista di suo padre, che era un importante
imprenditore della zona e sindaco di Forks. Il signor Williams
trascorreva la
maggior parte del tempo fuori casa per lavoro, giocare a golf
o a biliardo, probabilmente per sottrarsi alla compagnia della moglie,
con la quale non aveva un gran rapporto. Jas lo vedeva soltanto durante
il pranzo della domenica.
Quel giorno la madre di Jas aveva annullato la sua lezione
quotidiana di pilates per venire a prenderci, ma entrambe avremmo
preferito che non lo facesse. Eleanor
Williams aveva
un'idea tutta sua del Codice stradale, idea che non prevedeva il
rispetto dei limiti di velocità, dei divieti di accesso, dei
semafori, eccetera. Non che trasgredisse volontariamente le regole. Era
solo troppo distratta e troppo presa dalla sua vita brillante
e indaffarata per prestare attenzione ai cartelli stradali. E la
pessima abitudine di chiacchierare a tutto spiano mentre era al volante
di certo non facilitava la sua concentrazione. Charlie poteva anche
lamentarsi della signora Marshall o essere preoccupato dalla guida di
Alex, ma la madre di Jas al volante era una specie di pericolo
pubblico. Le sue multe continue erano fonte di grossi litigi
con
suo marito e per ben tre volte lo scorso inverno le avevano sequestrato
la macchina lasciata in sosta vietata... Charlie aveva il suo bel
daffare, con
lei. Era opinione diffusa che avesse ottenuto la patente sborsando
chissà quale cifra (proveniva da una famiglia molto ricca di
Seattle) e adesso diffondeva il terrore sfrecciando per le strade di
Forks tra
un appuntamento alla beauty farm e una cena con le amiche.
«E così ho detto alla commessa: "Signorina, le ho
chiesto espressamente un
tailleur
Chanel. Se crede che io possa accontentarmi di una
qualunque gonna
abbinata a una giacca, si sbaglia di grosso. O si decide a fare il suo
lavoro o le garantisco che nessuna delle mie amiche del bridge
verrà mai più in questo negozio"»
raccontava con
tono indignato guidando la sua BMW color azzurro
polvere lanciata a folle velocità. Io ascoltavo a
malapena; preferivo concentrarmi sulla strada e tentare di evitarci un
orrendo
incindente. «E invece di seguire il mio consiglio ha avuto
anche il
coraggio di protestare, affermando che lei non vedeva poi tanta
differenza tra quell'orribile completo che voleva rifilarmi e un tailleur Chanel...
Ti rendi conto, Renesmee? Non trovi che io abbia ragione?»
«Assolutamente sì» concordai, gli occhi
fissi oltre il
parabrezza inondato dalla pioggia. A un tratto sterzò
bruscamente a sinistra per superare una macchina ferma a un semaforo
rosso e passò oltre con grande disinvoltura.
«Mamma! Quante volte ti ho detto che non devi
farlo!» protestò Jas, che si infuriava
puntualmente di fronte a
certi comportamenti della madre. Sebbene avesse ereditato un po' della
sua superficialità, era comunque molto più
giudiziosa di
lei.
Lanciai un'occhiata fuori dal finestrino, spinta da
un brutto presentimento. In piedi sul ciglio della strada, accanto alla
volante della polizia, c'era il vice di
Charlie, Mark, intento a controllare i documenti di un ragazzo in
motocicletta. Sollevò la testa giusto in tempo per vederci
sfrecciare via con il rosso.
Strabuzzò gli occhi, si sbracciò e si
agitò gridandole di fermarsi, ma la signora Williams
sembrò non notarlo
nemmeno e proseguì come se niente fosse
successo. Mark
smise di agitarsi e iniziò a scrivere sul suo blocco di
fogli,
imprecando a gran voce e scuotendo la testa.
«Credo che tu abbia appena preso un'altra multa,
mamma» mormorò Jas.
«Davvero?». La signora guardò nello
specchietto
retrovisore e probabilmente vide Mark che si allontanava rapidamente
all'orizzonte. «Ops» esclamò con una
risatina.
Jas le lanciò un'occhiataccia. «Prima o poi
finirai dietro le sbarre» brontolò, imbarazzata.
Grazie al cielo, di lì a poco inchiodammo con una frenata
stridente davanti a casa di Charlie.
«Eccoci arrivate!» squittì Eleanor.
Finalmente! «Grazie per il passaggio, signora
Williams».
Mi allungai per dare un bacio sulla guancia a Jas, che aveva un'aria
piuttosto arcigna.
«Di nulla, cara! Alla prossima!»
«Certo, certo» bofonchiai, incrociando le dita. Di
solito
non salivo nella sua auto se potevo evitarlo, ma quella volta tornare
presto a casa mi avrebbe
fatto comodo: dovevo finire subito i compiti e prepararmi per la
serata. «Arrivederci!»
Ero già scesa quando Jas mi richiamò
abbassando in fretta il finestrino. «Ehi, chiamami quando hai
deciso che cosa mettere!»
Voleva
esserne informata e dare la sua approvazione, ovviamente. Sorrisi.
«Okay. Ciao ciao!»
La signora Williams tentò per tre volte, senza
successo, di avviare il motore. Al quarto tentativo la sua BMW
sbandò, finendo contro il marciapiedi, e per poco non
colpì la macchina di Sue, parcheggiata di fronte a casa. Poi
con un balzo
in avanti partì a tutta velocità, come un
proiettile
impazzito. Trattenendo a stento una risata, aprii la porta in fretta,
ansiosa di ripararmi dalla pioggia. Appena entrata sentii armeggiare
in cucina. Sue era già all'opera? Nell'aria coglievo una
miriade
di aromi differenti, e quando era tanti non riuscivo a identificarli
bene: carne, verdure crude, rosmarino, formaggio, qualcosa di dolce...
«Ciao, Sue» esclamai, un po' affannata, entrando
nella
cucina. «Già a casa? Credevo fossi dalla signora
Cole».
La signora Cole era un'anziana signora malata di diabete; Sue
lavorava per lei da anni.
«Ehi, Nessie» rispose. Era occupata ad
impilare un mucchio di pentole e teglie l'una sull'altra. «Ci
sono
andata stamattina».
«Oh» mormorai, sorpresa. «Cosa cucini di
buono?»
«Roast beef con contorno di patate arrosto, piselli e
carote, insalata di lattuga con crostini di pane e sformato di zucchine
e peperoni. E poi il gran finale: dolce al caramello».
«Wow» commentai. «Una cena coi
fiocchi».
«Ah, puoi dirlo forte! Ad Alex piacerà,
vedrai».
Sospirai, sentendo una morsa stringermi la bocca dello
stomaco. «Magari la cena sarà la sua unica fonte
di
felicità, stasera».
Sue mi guardò con un sorriso gentile sul volto.
Aveva un viso piuttosto severo, ma quando sorrideva sembrava
trasformarsi e diventava incredibilmente dolce. Anche Leah era
così. Somigliava moltissimo a sua madre. Leah... Una piccola
fitta di tristezza mi costrinse ad abbassare gli occhi, come se
all'improvviso fossero diventati pesanti. Probabilmente Sue credette
che
stessi pensando a Charlie.
«Non preoccuparti, Nessie. Tuo nonno fa un sacco di
storie,ma non potrebbe mai dirti di no: andrà tutto
benissimo».
Mi sforzai di ricambiare il sorriso. «Lo spero. Grazie mille
per quello che stai facendo».
«Di nulla, tesoro».
Salii
in camera e iniziai a studiare. Avevo un bel po' di
compiti, ma non mi ci volle molto per capire che non sarei riuscita a
combinare granchè, ero troppo nervosa. Chissà
cosa stava
facendo Alex. Chissà se finalmente aveva ceduto allo stress
o
se invece restava imperturbabile e ridanciano. Avrei voluto chiamarlo,
ma resistetti all'impulso; non volevo sembrare paranoica.
Alle sei
chiusi i libri, rassegnata, e cominciai a prepararmi. Feci la doccia
mentre ascoltavo Sue sfaccendare in cucina, poi tornai nella stanza e
impiegai un'ora per decidere che cosa indossare. Feci tre
telefonate a Jas, due a Holly e una a Danielle, e dopo molte
discussioni, qualche crisi isterica e un'infinità di prove
alla
fine scelsi una gonna blu scuro al ginocchio, dritta e semplice, con
due file di bottoncini sul davanti, una camicetta a righe bianche e blu
decorata da ruches,
un cardigan rosso, calze rosse e ballerine blu: un completo
sufficientemente elegante per l'occasione, ma non troppo pretenzioso.
Dopotutto Alex era solo un amico, non il mio ragazzo. Non ancora,
mi corresse una vocina nella mia testa che suonava stranamente come la
voce di Jas.
Pettinai con cura i boccoli color bronzo sciolti sulle
spalle e mi truccai un po': una riga sottile di eye-liner sulle
palpebre, un tocco di mascara, un velo di lucidalabbra rosa perla.
Mentre
mi guardavo allo specchio, spruzzando del profumo sul collo e sui
polsi, pensai che zia Alice era sempre stata con me ogni volta che mi
preparavo per un evento particolare, dispensando consigli e
suggerimenti... fino ad allora. Mi sembrava quasi di riuscire a
vederla riflessa nella superficie cristallina dello specchio, in piedi
al mio fianco, intenta a studiarmi con quegli occhi attenti e
infallibili nel cogliere un filo scucito o una macchia microscopica...
Dall'altro lato zia Rosalie, con un sorriso carico di affetto e di
orgoglio, e la mamma che faceva capolino ogni tanto, incredula per il
tempo che noi tre riuscivamo a trascorrere insieme discutendo di
vestiti.
Rattristata, voltai le spalle allo specchio con uno scatto
e andai a sedermi sul letto. Mi guardai intorno, cercando di distrarmi.
Osservai le pareti
color azzurro chiaro, le tendine di pizzo, il soffitto a punta, la
vecchia cassettiera di abete, il punto di una parere in cui la piccola
Bella aveva segnato ogni estate la propria altezza, evidentemente
ansiosa di crescere, la scrivania con qualche scarabocchio sulla
superficie. La camera della mamma era rimasta perfettamente identica
all'ultimo giorno che aveva trascorso lì dentro, poche ore
prima
di sposarsi. Il nonno non aveva toccato nè spostato nulla,
in
quegli anni. E probabilmente non doveva essere poi tanto diversa dal
primo
giorno della mamma in quella stanza, da bambina. Era come una bolla al
di fuori del tempo e dello spazio, e stare lì dentro mi faceva sentire al
sicuro. Finalmente un posto in cui le cose restavano sempre
così
com'erano.
La malinconia si faceva sempre più opprimente,
quando sentii il rumore della porta d'ingresso che si apriva. Charlie
era tornato. Lieta del diversivo, saltai in piedi e corsi di sotto. Il
nonno era in cucina, appoggiato a un mobile e già impegnato
a
sgranocchiare delle noccioline.
«Cia,o Ness» disse a bocca piena. Mi
guardò da capo
a piedi, le sue labbra si tesero per un istante in una linea sottile,
infine si curvarono verso l'alto. «Stai benissimo,
tesoro».
«Grazie». Gli sorrisi. «Intendi
cambiarti, vero?». Naturalmente indossava la divisa.
Lui scrollò le spalle. «Pensavo di restare
così» rispose con tono noncurante.
Alzai un sopracciglio. «Per incutere timore?»
Sue lanciò un'occhiataccia al marito.
«Tranquilla, Renesmee, sarà pronto in
tempo».
Charlie arricciò il naso, ma sapevo che le avrebbe dato
retta. Come sempre. «A che ora arriva?»
«Alle sette e mezza».
«E... come
arriva?» insistè, sempre con quel fare tranquillo,
fissando il fondo della sua ciotola di noccioline. Ma era
chiarissimo dove volesse andare a parare.
«In macchina. La sua
macchina» risposi con un'occhiata di sbieco verso il nonno.
«Spero che non ci tocchi andare a recuperarlo a
metà
strada» borbottò a voce bassissima, ma non poteva
ingannare le
mie orecchie.
«Ti ho sentito» ribattei in tono secco. Sbuffai
nervosamente. «Senti, potresti cercare di comportarti bene,
per
favore?»
Charlie mi guardò con aria innocente. «Certo.
Perchè, cosa ho fatto?»
Sue ridacchiava sotto i baffi. Alzai gli occhi al cielo e
per ingannare il tempo iniziai a dare una mano con la cena. Sotto la
direzione di Sue pulii e tagliai le verdure, preparai l'insalata,
montai la panna per il dolce, apparecchiai la tavola. Charlie
andò a cambiarsi, con un muso lungo fino a terra, poi
tornò in cucina ad aiutarci. Ogni tanto lo sentivo
bofonchiare
qualcosa su un carro attrezzi e il ritiro di una patente, e nonostante
la tensione mi veniva da ridere. Nel frattempo drizzavo le orecchie
ogni volte che sentivo il rumore di un'auto sulla strada; quando colsi
il rombo potente dell'Audi di Alex, che ormai mi era familiare,
sollevai la testa di scatto.
«Eccolo. Sta arrivando» annunciai. Non mi resi
conto di aver fatto un piccolo passo falso.
Charlie spalancò
gli occhi, stupito. «Come fai a saperlo?»
Trasalii. Maledizione! Invece di rispondere, gli rivolsi un
altro ammonimento. «Mi raccomando» dissi,
accompagnando la parola con
uno sguardo eloquente.
Poi corsi fuori dalla cucina, sperando che
dimenticasse in fretta l'episodio; dopotutto aveva altri pensieri per
la testa, quella sera. Attesi un paio di minuti nell'ingresso,
ascoltando Alex fare manovra per parcheggiare; aprì e
sbattè la portiera, percorse il viale con passo sicuro.
Sentii un
improvviso impeto di emozione. Spalancai la porta e mi lanciai fuori
per coglierlo di sorpresa. Ma forse ero stata un
po' troppo entusiasta: lui era già sull'ultimo
gradino del portico e
quando mi vide piombargli incontro come una palla di cannone tese le
braccia con gesto automatico e mi prese per i fianchi, bloccandomi un
istante prima
che gli volassi addosso.
«Ehi!» esclamò, sorpreso ma anche
compiaciuto
mentre mi osservava. «Che accoglienza! Ansiosa di vedermi,
eh?»
Ridacchiai, scuotendo i capelli. «Non cominciare, Alex.
Stasera devi fare il bravo, lo sai». Che strano rivolgere la
stessa
raccomandazione a lui e a Charlie.
«Perfetto. Comincio subito» disse con tono serio.
Strinse
la presa sui miei fianchi e mi attirò a sè,
superò
l'ultimo gradino con un balzo e in un secondo mi ritrovai con le sue
braccia serrate intorno al corpo.
«Alex!» protestai, cercando di mantenere la voce
bassa e
divincolandomi. Ero scioccata, divertita e un tantino infastidita dal
suo comportamento. Mi scappò una mezza risata.
«Lasciami!»
Lui rise e avvicinò il viso al mio, come per
baciarmi. Le sue braccia erano forti, ma avrei potuto liberarmene con
facilità; ero sul punto di farlo, un po' intimorita da
quella
vicinanza improvvisa ed eccessiva, quando dall'interno della casa
giunse la voce di Charlie, bassa ma perfettamente udibile.
«Andiamo, solo un'occhiatina!»
«No,
Charlie!» disse Sue in tono secco.
La tenda della finestra della cucina oscillò come
se qualcuno l'avesse sollevata per un attimo e poi richiusa
con uno strattone.
Alex mi lasciò andare. «Sembra che abbiamo un
pubblico. Meglio rimandare» disse, tranquillo.
«Sì, decisamente» concordai. Avevo il
fiato corto
e il viso in fiamme.
Cercai di ricompormi mentre lo tiravo dentro casa
e chiudevo la porta. Per la prima volta notai com'era vestito: jeans,
camicia blu chiaro e cardigan abbottonato di un blu appena
più scuro. Le diverse sfumature esaltavano il colore dei
suoi
occhi. Tra le mani aveva una busta regalo argentata e un'elegante
confezione di cioccolatini.
«Cos'è questa roba?» domandai.
Prima che potesse rispondere Charlie e Sue uscirono dalla
cucina e ci raggiunsero; lei sorrideva, lui aveva l'aria di chi
progetta un omicidio.
«Eccovi» esclamai. «Bene, allora... Lui
è Alex» gli sfiorai il braccio casualmente e
subito
ritrassi la mano, imbarazzata. «Alex, ti presento mio nonno e
sua
moglie».
Alex sfoderò un sorriso smagliante.
«Buonasera, ispettore». Tese la mano a Charlie, il
quale la
fissò per un secondo prima di stringerla con una certa
riluttanza. «È un piacere conoscerla, signora
Swan».
La stretta di Sue fu molto più calorosa. «Il
piacere è nostro, Alex. Benvenuto».
«Ho portato qualcosa per ringraziarvi del vostro
invito» proseguì Alex porgendo a Charlie la busta
e a Sue
i cioccolatini. Sembrava perfettamente a proprio agio, mentre io avrei
voluto essere inghiottita dal pavimento. Non riuscivo a credere a
quanto fosse imbarazzante quella situazione.
Il nonno prese la busta con la stessa esitazione con cui
gli aveva stretto la mano, il viso contratto come se una mosca gli
stesse volando intorno a infastidirlo. Gettò un'occhiata al
contenuto della busta, poi spostò per un secondo lo sguardo
impassibile su Alex, infine ne trasse lentamente una bottiglia di
liquore. «Scotch» commentò.
«Precisamente, signore. È il famoso Clynelish
di Speyside², direttamente dalla Scozia. Dovrebbe
piacerle. Fa parte della collezione
di mio padre».
Charlie annuì. Mi parve un po' infastidito. Il
gesto di Alex lo coglieva di sorpresa e al tempo stesso lo
indispettiva. «È buono?» chiese a
bruciapelo, scrutando
Alex con espressione sospettosa.
Alzai gli occhi al cielo. Non era in casa
nemmeno da cinque minuti e già iniziava a tormentarlo.
«Non ne ho idea. Mai assaggiato» rispose Alex,
tranquillo. Ma io ero piuttosto certa che mentisse. «Ma sono
convinto
che sarà di suo gusto, signore».
«Un pensiero molto gentile» intervenne Sue.
«Andate a sedervi, intanto io sistemo queste cose».
Prese la bottiglia e scomparve in cucina. Il nonno
continuò a squadrare torvo Alex per qualche istante, poi ci
precedette nel piccolo salotto e prese posto in poltrona. Mentre mi
sedevo sul divano, accanto ad Alex, avevo la tremenda sensazione di
trovarmi in tribunale. Quanto tempo era già
passato? Quanto
ne restava ancora prima della fine della serata? Saremmo sopravvissuti?
Trascorremmo alcuni minuti immersi in un silenzio di tomba. Charlie
fissava la parete di fronte a sè, Alex si guardava intorno
tranquillo e rilassato, io fremevo e contavo i secondi. Finalmente Sue
tornò.
«Alex, vuoi bere qualcosa? Una Coca, una soda...»
«O qualcosa di più forte, magari?» aggiunse Charlie con tono
noncurante.
Gli lanciai un'occhiataccia.
«Charlie!» esclamò Sue, sbalordita.
«Che c'è? Cercavo di essere gentile» si
difese il nonno.
Alex sembrava divertito. «La ringrazio, ma non bevo niente di forte se devo guidare». Abbassai gli occhi sul
pavimento, agitata. Due bugie in meno di dieci minuti e ancora non ci
eravamo seduti a tavola. Sapevo che Alex reggeva
bene l'alcool ed era in grado di mandare giù un bicchiere e
mettersi al volante senza
rischiare la vita... Ma sospettavo che il nonno non avrebbe gradito
nessuna di queste informazioni.
«Sono lieto di saperlo» mormorò Charlie.
«Tranquillo, Alex, mio nonno ha un pessimo senso
dell'umorismo» intervenni, e lui parve imbarazzato.
«La cena è pronta» annunciò
Sue,
ansiosa di cambiare argomento. «Ti piace il roast beef,
Alex?»
Lui le rivolse un sorriso strepitoso. «Lo adoro».
«Bene! Sai, in questa casa
si cucina più spesso il pesce che la carne: mio marito
è un pescatore
accanito».
«Davvero?» fece Alex educatamente.
Charlie alzò le spalle, a disagio. Non amava essere
al centro dell'attenzione, proprio come sua figlia e sua nipote.
«È solo un
passatempo. Mio padre mi portava a pescare, quando ero bambino. Tu sei
mai stato a pesca?»
L'immagine del ragazzo che sedeva elegantemente al mio fianco
con stivali di plastica e canna da pesca era così ridicola
che
trattenni a stento una sonora risata.
Lui scosse il capo, sorridendo. «No, non ho mai avuto il
piacere».
«E... hai qualche hobby?» chiese ancora il nonno
con tono formale.
«Qualcuno. Un po' di questo, un po' di quello»
rispose Alex. Continuava a sorridere, ma intuii che preferiva non
approfondire l'argomento.
Scese di nuovo un silenzio carico di imbarazzo e Sue
intervenne per la terza volta. «Forza, a tavola»
esclamò
con entusiasmo, e si diresse in cucina.
Il nonno si alzò e la seguì lentamente
lanciando una strana occhiata ad Alex. Ci alzammo anche noi due, ma lo
trattenni per il braccio.
«Tutto bene?» domandai, un po' ansiosa.
«Certo. Ce la stiamo spassando, non trovi?»
Ignorai le sue stupide battute. Sentivo Charlie e Sue
parlottare in cucina, avevo solo pochi secondi. «Okay,
ascolta: gli
argomenti "auto", "bevande alcoliche" e "feste" sono assolutamente
tabù. Soprattutto se sono presenti tutti e tre nello stesso
discorso. Dobbiamo evitarli a ogni costo, chiaro?»
Lui spalancò gli occhi, fingendosi sorpreso. «Sul
serio? E le droghe pesanti che ho iniziato a prendere di
recente? Secondo te posso parlarne?»
«Smettila! Non è il momento!»
«E la povera vecchietta che ho investito mentre venivo qui?
Anche quella è tabù?»
«Alex!»
«Ehi, voi due». La voce di Charlie che si era
appena
affacciato in salotto vibrò come uno schiocco di frusta fino
a
noi. «Che state bisbigliando?»
«Parliamo di pesca» rispose Alex con voce seria.
Charlie ci osservò confuso, mentre io imprecavo mentalmente
contro la dannata linguaccia di quel ragazzo, poi scomparve in cucina
ed io mi affrettai a seguirlo tirandomi dietro Alex.
Fui tesa per tutta la durata della cena; mangiavo quasi
senza sentire i sapori tanto ero concentrata. Erano soprattutto Sue ed
Alex a chiacchierare, passando da un argomento all'altro con
facilità. Io ero troppo nervosa per parlare e Charlie
sembrava
molto impegnato con il roast-beef, ma ero certa che in
realtà
fosse attentissimo a ogni parola. Alex era in gamba nel gestire la
situazione, molto più bravo di me: educato, sorridente,
spiritoso, disponibile nel rispondere alla maggior parte delle domande,
anche a quelle che si avvicinavano ad argomenti che non gli andava di
sfiorare; allora serrava le labbra formando una linea, corrugava la
fronte, la sua espressione si induriva, ma erano
dettagli insignificanti per chi non era abituato a leggere il suo
volto.
Tutto proseguì bene, o almeno senza spargimenti di
sangue, fino al dolce. Sue aveva appena finito di sparecchiare, Alex
già pregustava la torta al caramello ed io la fine di quella
stramba serata, quando Charlie all'improvviso ritrovò la
voce,
approfittando di un attimo di silenzio.
«Allora, Alex» cominciò, quasi con fare
casuale, come se non avesse trascorso gli ultimi quaranta minuti
in un silenzio di tomba. «Posso chiederti quanti anni hai?»
«Sedici, signore. Diciassette il prossimo 21
giugno».
Charlie annuì, un'espressione grave e composta sul
viso. «Sai, devo dire che non invidio affatto voi
adolescenti. Quello
che state vivendo è un momento molto complicato...
così
pieno di novità, emozioni... a volte di follie e
incoscienza.
Molto intenso, senza dubbio».
Lo guardavo, perplessa, cercando di capire cosa gli
passasse per la testa. Che cavolo significava quel discorso? Da quando
discuteva delle emozioni degli adolescenti? Lanciai un'occhiata ad
Alex, che però non era confuso. Sembrava calmo e...
consapevole? Come se avesse capito qualcosa che a me sfuggiva.
«Ha ragione» concordò con un lieve cenno
del capo.
«Mi fa piacere che tu sia d'accordo con me» fece
Charlie,
bevendo un sorso di vino con aria indifferente.
Sul volto di Alex comparve un sorriso stretto e obliquo, gli occhi
fissi sul nonno senza timore.
«Soprattutto sulla parte che riguarda le follie. È
facile che
un ragazzo... dia ascolto agli istinti peggiori e combini qualche
guaio» proseguì.
Trasalii, inquieta. Ormai sospettavo quali fossero le intenzioni
di Charlie, ma Alex lo stava assecondando. Perchè? Osservai
il
suo viso con attenzione e l'improvvisa durezza dei suoi occhi mi
spaventò. Allungai una mano sotto il tavolo, trovai la sua,
la
sfiorai e immediatamente sentii le sue dita avvolgere e stringere le
mie. Charlie lo scrutava attento, la fronte aggrottata.
«Certo» mormorò.
«Però può succedere che un giorno il
ragazzo cresca e la smetta con le follie» aggiunse Alex.
Charlie abbassò lo sguardo sul suo bicchiere di
vino, agitandolo piano con un moto circolare per esaltarne il sapore.
«Può succedere, sì»
bofonchiò.
«Ma ci vuole tempo. E comunque è
difficile».
«Difficile, ma non impossibile. Si stupirebbe se sapesse
quanto può essere salda la volontà di un
adolescente...
in condizioni ottimali».
«In condizioni ottimali, appunto» ripetè
Charlie, scuro
in volto. Si agitò un po'. «A volte capita... che
le condizioni,
appunto, non siano... Insomma, possono esserci delle scusanti... delle
motivazioni per cui un adolescente fa determinate cose...»
«Lasci perdere scusanti e motivazioni» lo
interruppe
Alex. «Tutti possono sbagliare, ma un errore non condanna per
la vita».
Ero incredula. Incredula e tesa come una corda di violino
mentre guardavo la situazione sfuggirmi di mano un secondo
dopo l'altro. Alex e Charlie si stavano avviando su un terreno
pericoloso. Dovevo fare qualcosa, subito.
Lanciai a Sue un'occhiata di panico allo stato puro e lei, che sembrava
impensierita, si alzò in piedi.
«Basta chiacchiere» esclamò.
«È il momento
del dolce. Vado a prendere la torta. Spero che ti piaccia,
Alex».
Si allontanò verso il frigorifero. Forse avrei dovuto
aiutarla, ma non ci pensai nemmeno. Abbandonare Alex e il nonno a
cavarsela da soli era una pazzia. Per un attimo scese il silenzio, poi
Charlie tornò all'attacco.
«È vero, tutti sbagliamo e tutti dobbiamo avere la
possibilità di dimostrare che siamo cambiati.
Però a
volte ci sono dei segni da cui si capisce che un ragazzo è
ancora lontano dalla maturità».
«Per esempio?» chiese Alex con educata
curiosità.
Gli strinsi la mano sotto il tavolo, augurandomi che afferrasse il
messaggio.
Il nonno riflettè un po', incrociando le dita. «Tu
hai sedici anni, giusto? Ecco, sai a quanti anni ho avuto la mia prima
macchina?»
Sussultai nel sentire quella parola, e in modo piuttosto
evidente. Entrambi mi guardarono: il nonno perplesso, Alex come per
dirmi "Datti una calmata".
«No. Quanti?»
«Diciannove» rispose Charlie con un sorrisino.
«E sai
quanti ne aveva mia figlia Bella quando le ho regalato la sua prima
auto, un pick-up?». Alex scosse la testa senza fare una
piega. «Diciassette... e mezzo».
«Mentre sedici sono troppo pochi, giusto?» lo
provocò Alex, sempre tranquillissimo e con un amabile
sorriso
sulle labbra.
Charlie esitò un po' prima di parlare. «Non
è esattamente questo il punto. Se mia figlia non fosse stata
una
ragazza molto attenta e responsabile, non avrebbe ricevuto nessun
puck-up. Forse ti sembrerò troppo severo sull'argomento, ma
un
poliziotto ne vede tante, anche un poliziotto di provincia, ed
è
normale che la sicurezza sia sempre il suo primo pensiero».
«Sicuro che c'entri solo quello?» sbottai,
rifilandogli un'occhiataccia.
Lui ostentò un'aria stupita molto poco convincente.
«Certo, tesoro. Stiamo soltanto parlando del più e
del
meno».
«Sì, come no».
«Non c'è problema, Renesmee» intervenne
Alex, vagamente
accigliato. «Capisco il suo punto di vista, ispettore,
davvero.
Ma se io non avessi
dimostrato di essere almeno un po' responsabile
e attento, adesso non avrei nessuna macchina.
Può parlarne con mia zia, la mia tutrice, se
vuole».
«Oh, no, Alex, io... non voglio mettere in dubbio le scelte
di
tua zia, nè il fatto che tu sia un bravo ragazzo»
borbottò Charlie, chiaramente a disagio. La situazione lo
stava
mettendo parecchio in imbarazzo: come poteva fare la predica ad un
adolescente che aveva perso i genitori a quattordici anni?
«Però
è un dato di fatto che il tuo passato non sia esattamente
immacolato da questo punto di vista».
Okay, sapeva tutto per davvero. Alex aveva indovinato. Maledizione.
«È soltanto una macchina, non un aereo
privato» esclamai, sempre più allarmata, cercando
disperatamente di interromperli.
Grazie al cielo, in quell'istante Sue tornò rapida
al tavolo stringendo un piatto circolare tra le mani. «Ecco
il dolce!»
disse. Mi sfuggì un sospiro di sollievo, ma il diversivo non
ebbe l'effetto sperato.
«Il passato è passato, credevo che su questo
fossimo d'accordo. Io tengo molto a sua nipote e non la metterei mai in
pericolo» proseguì Alex, la voce ferma e decisa,
fissando
Charlie senza un briciolo di timore o incertezza. Quella frase mi
spiazzò. Arrossii di botto e abbassai gli occhi, guardando
il
dolce senza vederlo davvero, imbarazzata a morte. Pronunciate davanti a
mio nonno, le sue parole suonavano tremendamente ufficiali.
«Certo» balbettò Charlie. Non osai
controllare che
faccia avesse. «Ma... se solo io potessi esserne certo,
allora
forse...»
Alex emise un sospiro di impazienza e le sue dita bianche
e sottili tamburellarono velocemente sul tavolo; lo faceva sempre
quando qualcosa lo irritava. «Signore, io sono cambiato. Sul
serio.
Il ragazzino che ero due anni fa non esiste più».
Parlò
con forza tale che mi parve impossibile dubitare della
verità di
ciò che stava affermando; ma quello davanti a noi era pur
sempre
Charlie Swan.
«E io dovrei crederti sulla parola?»
domandò, tranquillo ma con aria vagamente di sfida.
«Charlie!» lo richiamò sua moglie,
brandendo a
mezz'aria il coltello per il dolce come se avesse intenzione di usarlo
per tagliargli la lingua. A quel punto non potevo
più restare zitta a guardare. Aprii la bocca, furente,
pronta a dare
battaglia, ma fu Alex stesso a impedirmelo.
«No, certo» mormorò, pefettamente calmo.
Mi voltai
a guardarlo, le nostre mani ancora intrecciate sotto il tavolo.
Sembrava riflettesse con intensità. «Mi rendo
conto che la
parola di uno sconosciuto non può avere grande
valore». Fece un
respiro profondo e guardò Charlie dritto in faccia.
«Mi permetta
di dimostrarglielo».
Charlie inarcò le sopracciglia. «E
come?» chiese con cautela.
«Già, come?» ripetei ansiosamente.
Alex fece uno dei suoi sorrisi ampi e bellissimi. «Le
propongo un giro sulla mia Audi. Sono sicuro che le piacerà.
Le europee sono fantastiche, vanno che è una
meraviglia».
«Cosa?» esclamò il nonno, sbalordito.
Sembrava sul punto di scoppiare a ridere.
«Cosa?» gli feci eco subito dopo, con
un'intonazione ben
più drammatica. Alex stava dando i numeri, per caso?
Lui alzò le spalle. «Così
potrà testare di persona la mia guida e verificare che non
sono
un pirata della strada» spiegò, una certa dose di
ironia nella
voce vellutata.
Charlie lo fissò in silenzio per un po', forse
cercando di capire se scherzasse o meno, poi sorrise.
«D'accordo»
rispose, e si alzò.
Trattenni rumorosamente il fiato, sconvolta. No. No, non poteva essere.
Alex poggiò il tovagliolo e si alzò a sua
volta, lasciando la mia mano. «Se preferisce può
seguirmi con la
sua auto».
Charlie fece un sorrisino. «No, tranquillo. Sono un
ispettore di polizia. Sono abituato a rischiare la vita».
«Ah! Buona questa, signore» commentò
Alex, divertito.
Si avviarono verso l'ingresso. Mi alzai precipitosamente e
li seguii, Sue alle mie spalle. «Cosa?» ripetei.
«Alex! Non
è assolutamente necessario!»
«Rilassati, Renesmee. È solo un giro in
macchina» mi tranquillizzò infilandosi la giacca.
«Ma tu non sai con chi hai a che fare!» protestai.
Stavo
valutando seriamente la possibilità di attaccarmi al suo
giubbotto firmato e impedirgli di uscire di casa.
«Mi piacciono le sfide» rispose, e mi fece
l'occhiolino.
Charlie gli aprì la porta e lui uscì per primo,
dirigendosi alla macchina.
«Nonno, non puoi farmi questo!» gemetti.
«Non è stata una mia idea!»
«Sue, ti prego, fa' qualcosa!»
«Charlie, non mi sembra il caso» intervenne lei con
aria grave. «È un ragazzino».
Charlie era già per metà fuori dalla porta. Si
girò e mi rivolse un sorriso che mi parve diabolico.
«Tranquilla, Ness. Te lo riporto tutto intero». E
uscì
sbattendo la porta.
****
Venti minuti più tardi non erano ancora rientrati.
Sue iniziò a sparecchiare e a riempire la lavastoviglie,
mentre
io, del tutto incapace di aiutarla, non facevo che camminare avanti e
indietro dal salotto alla cucina e viceversa. Stringevo il cellulare
tra le mani, certa che da di lì a poco avrei ricevuto una
telefonata delirante di Alex che mi scongiurava di andare a salvarlo da
mio nonno.
«Ma perchè ci mettono così
tanto?» chiesi ad alta voce per l'ennesima volta, disperata.
Sue fece un sospiro armeggiando con le stoviglie.
«Conoscendo Charlie, direi che l'avrà costretto ad
arrivare fino
a Seattle».
Mandai un gemito e crollai sui gradini della scala,
affranta. «Povero Alex. Se Charlie lo uccide giuro che non
gli
rivolgerò mai più la parola».
Sue uscì dalla cucina, mi
raggiunse e mi osservò per qualche secondo. Aveva una strana
espressione. «Nessie» cominciò
lentamente «so che adesso ti
sembrerà difficile crederlo, ma ha delle motivazioni valide
per il suo comportamento».
Le scoccai uno sguardo indignato, completamente in disaccordo.
«Nemmeno se Alex fosse stato arrestato per omicidio potrei
giustificarlo per aver rovinato questa serata» sibilai.
Sorrise nell'ascoltare quell'esagerazione. Fece un piccolo
sospiro e sedette accanto a me, sulle scale. «Le ha, invece,
credimi»
disse con l'aria di chi la sa lunga. «Io non credo che tuo
nonno
abbia mai amato nessuno tanto quanto ama te. Naturalmente vuole molto
bene a Bella, ma lei è sempre stata più matura
e indipendente rispetto alla sua età. Non era abituato a
prendersi cura di lei. Poi si è
sposata così giovane e ha avuto te subito dopo, e ora lui la
sente così... distante».
Abbassai gli occhi e deglutii nervosamente. «Cosa
c'entra questo con me?» bisbigliai.
«Forse non ti rendi conto di quanto tu sia importante per
lui» aggiunse Sue con dolcezza. «È come
se tu fossi la sua
nuova bambina. In questi anni sei cresciuta sotto i suoi occhi e
Charlie lo ha accettato senza nessuna domanda. Ha cercato di starti
vicino comunque, ogni giorno». Sollevò la mano e
mi
accarezzò i capelli, sistemandomi un ricciolo in disordine
dietro
l'orecchio. «Ti vuole davvero un gran bene e non è
soltanto
preoccupato che Alex ti ferisca o che non sia prudente al volante. Ha
paura di perderti. Ecco perchè sta
facendo tutte queste scenate». Sorrise, leggermente
divertita. «Cerca
di non avercela troppo con lui».
«Ma la situazione è molto diversa»
protestai,
sorpresa. «La mamma ha sposato un vampiro, Alex è
umano ed è soltanto un amico».
«Certo, ma questo Charlie non lo sa. E il fatto che si senta
in colpa per quello che è successo a tua madre non
aiuta».
«Come? In colpa?» esclamai.
Sue parve vagamente a disagio. «Be', è evidente
che lei non è
più stata la stessa dal giorno del suo matrimonio. Charlie
se n'è accorto, anche se ovviamente non ha mai capito bene
cosa sia successo, e ha tentato di accettarla come ha accettato te. Ma
la
vecchia Bella gli manca. E a volte non può fare a meno di
pensare
che se fosse stato più attento, se avesse capito cosa stava
per succedere, se avesse cercato di parlare e farsi raccontare tutto
prima che fosse tardi, sua figlia sarebbe ancora la stessa. E
così tu
sei... la sua seconda occasione. Capisci quello che voglio
dire?»
«Credo di sì» risposi lentamente.
«Ma non è stata colpa sua».
«Questo lui non lo sa» ripetè Sue.
«E non potrà saperlo
mai».
Riflettei in silenzio per qualche istante. Potevo capire
che Charlie sentisse la mancanza di sua figlia com'era prima. Capivo
che il suo cambiamento l'avesse disorientato e che si
interrogasse su cosa potesse averlo scatenato. Ma che si ritenesse colpevole era
a dir poco assurdo. Io ero infinitamente più colpevole di
lui,
eppure non ci avevo mai pensato, in tutti quegli anni, fino a quando
Leah non mi aveva gettato addosso la verità.
«È totalmente irrazionale» sbottai, incredula, scuotendo
la testa. «Come
può credere che sia colpa sua? Lui non c'entra, non avrebbe
potuto impedire in alcun modo quello che è successo».
Sue mi rivolse un sorriso enigmatico. Aveva un'aria saggia
che all'improvviso mi ricordò la posizione di anziano che
rivestiva
all'interno del Consiglio della
tribù. «Non sempre le persone riescono ad
essere
razionali quando c'è di mezzo qualcuno che amano molto.
Giusto,
Renesmee?»
Ricambiai il suo sguardo sbalordita,
punta sul vivo. Scese il silenzio, mentre continuavamo a fissarci, poi
voltai la testa di scatto,
sentendomi tremendamente a disagio. Che cavolo di situazione. La mamma
riempiva Charlie di bugie, lui era convinto che fosse colpa sua ed
io... Anche io gli mentivo. A quel pensiero trasalii come se una goccia
d'acqua fredda mi fosse piombata di colpo sul collo. Gli mentivo da
sempre e avrei dovuto continuare a mentirgli finchè non
fossi
uscita completamente dalla sua vita, quando avrebbe cominciato ad
accorgersi che non cambiavo mai. Prima che la tristezza potesse
invadermi e sopraffarmi, sentii un'auto avvicinarsi in lontananza.
«Sono tornati!» esclamai, agitata.
Sue inarcò le sopracciglia, improvvisamente tesa.
Un'auto si fermò fuori a casa, poi sentimmo sbattere una
portiera. Balzai in piedi e corsi nell'ingresso. Passi pesanti
percorsero il viale. Doveva essere Charlie. La
porta si aprì e comparve proprio lui. Ci osservò
per un
attimo, sorpreso di trovarci lì, poi assunse
un'espressione indecifrabile.
«Ehi» salutò, togliendosi la giacca.
«Allora? Ha superato l'esame?» chiesi con aria di
sfida.
Charlie rispose con una smorfia e un suono indistinto prima di
eclissarsi in cucina. Sue lo seguì con aria decisa. Un
secondo
dopo, Alex varcò la soglia ed entrò. Mi
precipitai verso
di lui.
«Allora?» ripetei. «Com'è
andata?»
Alzò le spalle mentre richiudeva la porta.
«Direi bene» rispose. Sembrava piuttosto
tranquillo.
«Cioè, siamo
entrambi ancora vivi, quindi direi che il bilancio è
positivo».
«Ah ah» sbottai, e lo guardai male. Non capiva mai
quando
era il momento di smettere di scherzare. «Che ridere. Vuoi
darmi una
risposta seria o vado a chiederlo a lui?»
Mi guardò con aria divertita. «Non credo proprio
che ne farà parola finchè non me ne
sarò andato». Si sfilò il giubbotto e
lo lasciò
sull'appendiabiti.
«Ma... cosa avete fatto? Solo un giro in macchina?»
insistei. Ero troppo curiosa per aspettare.
«Sì, principalmente sì».
«E poi?»
«Abbiamo... parlato un po»'.
«Di cosa?»
«Tante cose. Niente in particolare».
Sembrava disinvolto, ma non ero sicura di potergli
credere. On quel momento Charlie fece capolino sulla porta della
cucina, bloccando una nuova domanda che mi stava sorgendo sulla punta
della
lingua.
«Ehi, la cena non è finita. C'è il
dolce»
annunciò. «Ti fermi ancora un po', vero, Alex? Sue
ci resta male se non lo assaggi».
Alex ed io ci scambiammo un'occhiata fugace, leggermente sbalorditi.
Cos'era tutta quella cordialità?
«Certo» rispose lui, sorridendo.
Charlie fece un cenno col capo e si ritirò di nuovo in
cucina.
«Che hai fatto, l'hai corrotto?» bisbigliai.
Alex ridacciò, compiaciuto, mi prese per mano e mi
tirò verso la cucina. Ma appena entrammo mi
lasciò subito. Il
resto della serata trascorse tranquillamente. Il dolce fornì
ad
Alex un'altra occasione per riempire Sue di complimenti e la
conversazione si concentrò su argomenti banali e sicuri.
Charlie cercò ancora per un po' di tempo di fingere di
ignorare Alex, ma più di una volta lo beccai ad osservarlo
attentamente, con un'aria da esaminatore alquanto fastidiosa.
Però ricordavo benissimo le parole di Sue e mi sforzai di
non farci troppo caso. Dopo il dolce restammo ancora un po' a
chiacchierare, e per quanto la situazione sembrasse tranquilla non
riuscii a rilassarmi del tutto neanche per un minuto. C'era sempre la
possibilità che Charlie ripartisse all'attacco per il
secondo round, che Alex
facesse una battuta di troppo o in qualche modo si finisse a
parlare di argomenti off limits.
Quando lui si alzò annunciando
che era ora di andare, balzai in piedi all'istante, sollevata. Sue lo
salutò con calore e lo invitò a tornare presto.
Charlie
se ne stava ancora un po' sulle sue e si limitò a
stringergli la
mano con una specie di sorriso tirato, ma ero piuttosto convinta che
prima o poi si sarebbe abituato alla sua presenza... O almeno me lo
auguravo. Lo accompagnai fuori, lasciando la porta di casa accostata.
«Mi spieghi che diavolo è successo?»
esclamai, cercando di mantenere la voce bassa. «Prima che
usciste
ti stava praticamente processando e quando siete tornati...»
Alex mi bloccò alzando una mano. «Frena,
frena, Scheggia. Forse il nonno ispettore si è
tranquillizzato
un po', ma non penso che sia diventato il mio fan numero uno. Non
cantiamo vittoria troppo presto»
Sorrisi. «Temo che non sarà mai il tuo fan
numero uno, ma tutto sommato credo che non cercherà di
attentare
alla tua vita se dovesse vederci in giro insieme».
Ricambiò il sorriso, mentre mi prendeva per mano.
«Perfetto! Finalmente possiamo darci alla pazza gioia per le
strade di Forks» esclamò.
«Certo, il nostro obiettivo era questo fin
dall'inizio. Perchè chiuderci in un cinema se possiamo dare
spettacolo?»
Lui scoppiò a ridere, e in quel momento mi venne
un'idea. Un'idea fantastica.
Perchè non ci avevo pensato prima?
«Ehi, Scheggia! Sei ancora qui?»
«Uhm» mormorai. «Sì, ci sono.
Scusa, stavo pensando...»
«... a come potremmo dare spettacolo, spero».
«No, a quello che potremmo fare domani, visto che a quanto
pare riusciremo ad uscire senza problemi».
«Il cinema non ti va più?»
«Ho un'idea migliore: c'è un posto, fuori
città, nel bosco...». La sua espressione curiosa
mi fece
ridere, e decisi di prendermi un piccolo vantaggio.
«Sarà
una sorpresa. Che ne dici?»
«Okay, vada per la gita nel bosco. In ogni caso
sarà una giornata interessante, ne sono sicuro».
Ignorai la provocazione, ma anch'io immaginavo che ormai
fossimo a una svolta. Eppure, mentre lui sembrava piuttosto sicuro di
come sarebbero andate le cose, troppo
sicuro, mentre io ero ancora parecchio confusa e tremendamente
indecisa. Una
mezza vampira che si fidanza con un umano. Una mezza vampira molto
incasinata, tra l'altro. Sembrava la brutta copia della storia di mamma
e papà.
«A che ora passi a prendermi?»
«Va bene alle due?»
«Okay».
Le sue mani lasciarono andare le mie, si spostarono sui
miei fianchi, e si avvicinò con aria seria. Mi
posò un
bacio rapido sui capelli. «Ciao, Scheggia»
sussurrò.
Sentii le sue labbra sfiorarmi l'orecchio e rabbrividii. Capii dal suo
sorriso che Alex se ne era accorto. «Sogni
d'oro».
Non riuscii a rispondere, avevo la bocca secca. Scese i
gradini con due balzi, poi per un attimo si voltò di nuovo
verso di me,
lanciandomi un'occhiata divertita e un sorriso ammiccante, l'aria di
chi sa bene il fatto suo, prima di raggiungere
la macchina.
Leggermente frastornata, tornai in casa con passi lenti e
richiusi la porta. Trovai Charlie in piedi nell'ingresso con
le braccia incrociate, come se mi stesse aspettando. Sospirai. Ma di
cosa aveva paura, che scappassi con Alex?
«Allora» cominciò con fare casuale
«serata interessante».
«Eh già» commentai con il suo stesso
tono.
«E così... ehm... domani uscite
insieme?» borbottò, gli occhi fissi sul pavimento.
Era
chiaramente molto imbarazzato e a un tratto mi fece una gran
tenerezza. Povero vecchio Charlie.
«L'idea è quella, sì».
Annuì. Tacque per qualche secondo. «Guida
interessante, la sua. Un po' troppo sportiva, forse, ma... tutto
sommato... sa quello che fa. O almeno così
sembra».
Alzò le spalle, come ammettendo un certo inevitabile margine
di
errore.
Sentii un gran sorriso sbocciarmi sul volto. Ce l'avevamo
fatta! Mi avvicinai e gli diedi un bacio sulla guancia.
«Sapevo
che saresti stato contento di conoscerlo» esclamai, allegra.
Charlie sbuffò una risatina nervosa, mentre le sue
guance si coloravano un po'. «Sì, certo. Non
aspettavo
altro».
Note.
1. Qui la canzone. Meravigliosa.
2. Se qualcuno/a si
sta chiedendo da dove ho preso questo nome impronunciabile, la risposta
è qui. Giusto per far vedere che
non l'ho inventato, ma credo che non interessi a nessuno approfondire
l'argomento xd.
Spazio autrice.
Salve, lettori di Midnight
star!
Dovete sapere che questo capitolo è uno dei miei preferiti
in assoluto perchè adoro da morire tutte le scenette tra
Charlie che fa il terzo grado ad Alex e Renesmee che cerca di fermarlo
xd. Di solito non sono per niente brava con le scene divertenti, ma
spero di avervi strappato almeno un sorriso ^^. Come avevo accennato,
il comportamento ansioso e protettivo di Charlie ha i suoi
perchè. Li avevate già intuiti oppure no?
Comunque da qui in poi si darà una calmata xd. A
mercoledì prossimo!
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Capitolo 18 *** Breathe ***
C 18
Capitolo
18
Breathe
Cause I can feel you breathe
It's washing over me
Suddenly I'm melting
into you
There's nothing left to
prove
Baby all we need is just
to be
Caught up in the touch
The slow and steady rush
Baby, isn't that the way
that love's supposed to be
I can feel you breathe
Just breathe.
Breathe, Faith Hill¹
Oggi lasciate che sia felice, io e basta,
con o senza tutti, essere felice con l’erba
e la sabbia, essere felice con l’aria e la terra,
essere felice con te, con la tua bocca,
essere felice.
PABLO NERUDA, Ode al giorno felice²
La
mattina successiva mi svegliai di soprassalto, agitata, ma allo stesso
tempo perfettamente lucida, con la sensazione di aver pensato a una
cosa sola per tutta la notte, nel sonno. Finalmente era arrivato il giorno;
forse il rapporto tra me ed Alex avrebbe trovato il suo
perchè.
E mi sembrava che fosse tutto nelle mie mani. Lui mi mostrava in ogni
momento quello che avrebbe voluto. Toccava a me decidere.
Lo stomaco
mi si contorse di colpo come se fosse stato pieno di rane saltellanti.
Balzai giù dal letto e corsi alla finestra, ansiosa. Le
previsioni avevano garantito bel tempo, il che a Forks significava
soltanto niente pioggia a catinelle, ma poichè non
potevo
più contare sull'insindacabile onniscienza di zia Alice, mi
toccava la suspense dell'incertezza. Spalancai le tende e potei tirare
un sospiro di sollievo: il cielo era coperto, ma negli spazi tra le
nuvole si infilavano qua e là dei tenui raggi luminosi;
sicuramente il sole sarebbe comparso, prima o poi. Con un'occhiata mi
accorsi che la macchina della polizia non c'era, Charlie doveva
essere uscito.
In cucina trovai Sue occupata a disporre su un piatto una pila di
frittelle dorate e profumate.
«Buongiorno. Dormito bene?» mi salutò
sorridendo.
«Abbastanza, grazie. Charlie non c'è?»
«È andato a pesca, è uscito verso le
cinque».
Rabbrividii, mentre mi versavo del succo d'arancia.
C'erano ben poche cose che detestassi quanto alzarmi troppo presto al
mattino. E così era andato a pesca? Quindi avrebbe trascorso
la giornata alla riserva e sicuramente avrebbe avuto compagnia.
«Ci
va da solo?» domandai a bassa voce, guardando nel mio
bicchiere.
Ci fu un attimo di silenzio. «Oh, ehm, no... Non credo.
Deve esserci Billy con lui» rispose Sue, esitante. Mise il
piatto
sul tavolo. «Frittelle?»
«Certo».
Il mio stomaco brontolava, nonostante le
rane. Ne assaggiai un boccone. Erano deliziose, ma quelle di zio Jasper
erano imbattibili. Mi tornò in mente l'ultima volta che le
aveva
preparate, qualche giorno prima del disastro: la cucina super
tecnologica di Esme, le chiacchiere incessanti di Alice, Emmett che
controllava la lunghezza della mia gonna... Sentii un nodo alla gola e
cercai di mandarlo giù insieme alla frittella. I ricordi
tristi
non dovevano rovinare quella giornata.
«Ti dispiace riempire la lavastoviglie, quando hai
finito? Vado un po' di fretta» disse Sue, togliendosi il
grembiule.
Notai che era già vestita.
«Nessun problema. Stai uscendo?»
Abbassò gli occhi e iniziò ad armeggiare con
un paio di teglie da forno, chiaramente in imbarazzo. «Vado a
trovare i ragazzi, pranzo con loro e poi faccio un salto da
Emily»
disse in fretta. «Non ti dispiace restare sola,
vero?»
Arrossii, scuotendo precipitosamente la testa. I ragazzi.
Seth e Leah. Da quando vivevo lì non si erano più
fatti
vedere, così era Sue che andava da loro. Mi dispiaceva aver
praticamente spaccato la famiglia in due, ma non sarei mai riuscita ad
incontrarli fingendo che tutto andasse bene. Non ancora, almeno.
«No, no, figurati. Vai pure» balbettai.
E così, Charlie avrebbe passato la giornata con
Billy, e Sue in compagnia di Seth, Leah ed Emily. Fantastico.
Prevedevo una quantità industriale di pettegolezzi. Grazie
al
cielo io non ne avrei ascoltato nessuno, e se le cose fossero andate
secondo i piani, tra qualche ora sarei stata troppo presa da altre
questioni per pensarci.
«Perfetto»
esclamò Sue. Sembrava sollevata. «Allora io vado.
Ti ho
lasciato il
pranzo in forno». Prese le teglie impacchettate (ovviamente
aveva
cucinato lei) e mi rivolse un sorriso. «Divertiti con Alex, e
se
hai bisogno di qualcosa
chiamami pure».
«Certo, certo. Buona giornata» risposi gentilmente,
pensando che neanche se fosse scoppiato un incendio l'avrei mai
cercata a La Push.
Era già sulla porta, ma poi si voltò di
nuovo. «Ehm... Visto che sto andando alla riserva... vuoi che
recapiti un messaggio da parte tua, per caso?» chiese con
tono
forzatamente normale.
Come? Per poco non mi andò un boccone di traverso.
Feci un respiro profondo e cercai di sorriderle. «Nessun
messaggio» risposi a denti stretti.
«Ok, d'accordo». Sue mi guardò
preoccupata
per un istante, poi annuì tra sè.
«Allora... ciao».
«Ciao».
Rimasi immobile, tesa, finchè sentii sbattere la
porta di casa. Era andata. Sbuffai e infilzai una frittellina con la
forchetta, di malumore. Pessimo modo di cominciare una giornata che
avrebbe dovuto essere perfetta. Sul serio credeva che avessi un
messaggio per Jacob? Sapevo che aveva le migliori intenzioni, ma
l'unico messaggio che avrei voluto mandargli al momento era Vai al
diavolo, razza di bugiardo.
Dopo colazione misi i piatti in lavastoviglie e riordinai
la cucina, poi tornai in camera e trascorsi diverse ore praticamente
immersa nel guardaroba per decidere che cosa mettere. Volevo essere
carina e sexy, ma mi aspettava pur sempre una lunga camminata nei
boschi; era essenziale indossare qualcosa che fosse anche comodo e
pratico.
Mentre tiravo fuori, esaminavo, scartavo e riprendevo in mano ogni
singolo capo, circa un milione di domande mi affollavano la testa. Non
solo se sarebbe stata più adatta una camicia a maniche
lunghe o una a
maniche corte, e se sarebbe stato meglio fare la coda o lasciare i
capelli
sciolti, ma anche... Ci saremmo baciati ancora? Ed io sarei stata
all'altezza della situazione, stavolta? Holly e Jas mi avevano dato
qualche suggerimento, ma dubitavo che sarei stata in grado di
ricordarmene con le labbra di Alex a un centimetro dalle mie. Mi
avrebbe chiesto di metterci insieme? E cosa gli avrei risposto? Sì,
ovviamente... Era quello che volevo.
E se poi me ne fossi pentita? E se non avesse funzionato a causa mia e
di ciò che ero? Se
lo avessi messo in qualche modo in pericolo? Per un umano la vicinanza
eccessiva ad un vampiro costituiva sempre un rischio, e solo una parte
del pericolo era dovuta all'eventualità che il vampiro non
riuscisse a controllarsi. Se standomi così vicino avesse
notato qualcosa di diverso in me? Forse quello era un tipo di rapporto
troppo rischioso da stringere. Ero già abbastanza fortunata
a
poter frequentare la scuola, avere degli amici, stare con Charlie.
Forse avere anche un ragazzo sarebbe stato troppo. Nella mia mente
balenò il ricordo sbiadito di una lunga fila di mantelli
neri
che avanzava lentamente sulla neve nella foschia di un'alba invernale.
Trasalii, mentre un brivido di paura mi percorreva la schiena. Cercai
di scrollarmi di dosso quell'immagine, ma era come marchiata a fuoco
dentro di me.
Quando decisi finalmente cosa indossare, mi preparai in
gran fretta, agitata, buttai giù qualcosa per pranzo,
sebbene
avessi lo stomaco chiuso e le rane fossero più vivaci che
mai, e
per l'una e mezza ero pronta. Fu un bene, perchè di
lì a
poco sentii una macchina avvicinarsi e la riconobbi subito. Con un
tuffo al cuore, afferrai il giubbotto e il cellulare, mi controllai
un'ultima volta allo specchio, e corsi nell'ingresso. In quel momento
qualcuno bussò ed io corsi ad aprire con un gran
sorriso.
«Sei in anticipo» dissi a mo' di saluto.
«Ciao anche a te» esclamò Alex. Aveva la
sua
solita espressione scanzonata. «Sì, lo so. Speravo
di
beccarti mezza nuda, ovviamente». Scoppiai a ridere, e mi
sentii
subito più rilassata. La sua presenza aveva lo strano,
duplice effetto
di elettrizzarmi e rasserenarmi al tempo stesso. «Be', la
verità è che ero piuttosto impaziente,
ecco».
«Ah, lo immaginavo! Ci aspetta una bella passeggiata,
oggi, ma temo che dopo non vorrai mai più uscire con
me»
scherzai, chiudendomi la porta alle spalle.
«Tu mettemi alla prova, poi ne parliamo».
Chiacchierammo quasi
ininterrottamente, e degli argomenti
più svariati, per tutto il lungo tragitto verso la nostra
meta.
Io gli parlai dei compagni di scuola, dei professori, delle mie amiche.
Lui scherzò come al solito sulla
pioggia e sul fatto che quella giornata di sole doveva essere un
avvenimento unico. Giunti allo stretto sentiero segnalato solo da un
ceppo d'albero, mi sentivo incredibilmente rilassata. Alex
parcheggiò nel poco spazio a disposizione sul ciglio della
strada e scendemmo in silenzio. Eravamo a pochi passi dal bosco, un
fitto intrico di verde e marrone, tronchi altissimi, enormi massi,
cespugli di rovi e fronde lussureggianti.
«Non ci perderemo, lì dentro?» chiese
Alex
all'improvviso. Si era avvicinato e scrutava il bosco con la fronte
aggrottata. Il suo tono preoccupato mi fece sorridere.
Scossi il capo. «No, tranquillo. Sono stata qui tantissime
volte, non potrei mai perdermi».
«Davvero? Non ti facevo una ragazza da escursioni nei boschi,
sai?»
Mi sfuggì un piccolo sospiro. «Con i miei zii...
facevamo delle passeggiate» spiegai.
Lui si voltò a osservarmi, mentre io combattevo
silenziosamente contro l'attacco di malinconia che minacciava di
sopraffarmi. Quando lo guardai a mia volta, la sua espressione
accigliata si distese in un sorriso, mi prese per mano e mi
tirò
con se verso gli alberi.
«Forza, Scheggia, è ora di andare! C'è
un
posto che ci aspetta! Anche se non so esattamente che cosa
sia».
Non lasciò la mia mano neanche per un secondo
durante la camminata. Mi stringeva forte quando dovevamo scavalcare un
tronco caduto, superare un masso scivoloso o un groviglio di erbacce,
dichiarando con una certa dose di malizia di essere il mio cavaliere senza macchia.
Forse voleva soltanto evitarmi di cadere, ma in cuor mio
speravo e immaginavo che quella stretta significasse anche qualcosa di
più. Non mi avrebbe lasciato cadere, in nessun senso, e quel
pensiero mi riempiva di sollievo. Proprio come in quei giorni, quando
il mio mondo era crollato e Alex era una delle poche persone su cui
potessi ancora contare. Lui stesso mi aveva detto quanto fosse
importante avere qualcuno accanto in un momento difficile.
Improvvisamente ricordai un dettaglio, una cosa a cui non pensavo da
parecchio tempo.
«Alex» cominciai lentamente, incerta se parlarne
fosse appropriato o meno «ricordi quando sono venuta a casa
tua, un
paio di settimane fa?». Lui annuì. «Hai
accennato ad
una persona... un'amica... la tua migliore amica, a New York. Ma non
mi hai detto nulla di lei. Ti andrebbe di parlarmene?»
Lanciai una rapida occhiata al suo viso. Spesso parlare
della sua vita prima di Forks lo rendeva malinconico, ma in quel
momento sembrava tranquillo. «Certo. Come
mai me lo chiedi proprio adesso, mentre scarpiniamo per il
bosco?»
Alzai le spalle. «Non so, mi è venuto in mente
all'improvviso. Pensavo... a quando mi hai detto che sono poche le
persone che ti capiscono veramente. La tua amica è una di
quelle, giusto?»
Il suo sorriso si allargò. Attese per qualche
istante prima di parlare. «Sì, lo è. Io
e Madison
ci conosciamo da bambini. Siamo molto simili». Sorrise.
«Da piccoli ci riempivamo di
dispetti a vicenda. Le nostre tate ci portavano a passeggiare a Central
Park tutti i pomeriggi e quello era il momento più bello
della giornata. Quante ne combinavamo... Eravamo delle pesti, tutti e
due.
Forse è per questo che stavamo così bene insieme.
Ma anche
quando l'epoca dei giochi e degli scherzi è passata, abbiamo
continuato a stare sempre insieme. E... be', questo è
quanto». Si interruppe di colpo e abbassò lo
sguardo.
Però non sembrava triste, e pensai di poter approfondire
l'argomento.
«Amici del cuore, insomma» osservai.
«Se proprio vuoi usare questa definizione da prima
elementare, sì».
«Dovete sentire molto la mancanza l'uno dell'altra».
Lui abbozzò un sorriso e rispose indirettamente
alla domanda. «Sai com'è, ogni tanto ci vorrebbe
proprio
qualcuno che semplicemente ti guarda negli occhi e capisce cosa ti
passa per la testa».
«Eh già, ci vorrebbe» assentii a bassa
voce.
Scese il silenzio, rotto solo dai tipici rumori del bosco: il
cinguettio degli uccelli, il fruscìo delle chiome degli
alberi, i
nostri passi sui rami spezzati. Gli alberi alti e folti impedivano ai
raggi del sole di penetrare nella penombra, solo qua e là
c'era
qualche chiazza di luce. Pensai immediatamente a Jacob e alla sua
misteriosa
capacità di comprendermi meglio di chiunque altro. Soltanto
papà poteva batterlo. La
nostalgia mi prese completamente e per un po' mi lasciai avvolgere dai
ricordi, come una coperta in una fredda notte d'inverno.
«Ehi, Scheggia? Sei ancora qui?»
«Sì, ci sono» borbottai, scrollando la
testa. «Scusami, ero distratta».
«Male» commentò Alex, e mi
lanciò uno
sguardo malizioso. «Se tu ti distrai, per trovare qualcun altro
che
comprenda i turbamenti del mio animo dovrò spostarmi di
nuovo
sulla costa Est».
«Non me lo dire: io comprendo i turbamenti del
tuo animo».
Eravamo giunti a un grosso tronco ricoperto di muschio da
scavalcare; Alex mi aiutò con attenzione e intanto guardava
a
terra per nascondersi da me, poi riprese a camminare, tirandomi per la
mano. «Ti ho già detto che sei molto meglio di
qualunque
insulsa psicologa scolastica. Tanto per cominciare, sei
molto più sexy».
Scoppiai a ridere e gli diedi una botta sul braccio.
«Buon per te, allora! Ma come ha fatto la tua amica a
sopportare te e le tue battute per tutti questi anni? Povera
Madison».
«Non sai
quante volte si
è lamentata di dovermi
fare da baby sitter» esclamò, divertito. Fece una
piccola
pausa. «Il fatto è che con il tempo
lei è diventata matura e responsabile, mentre
io sono rimasto quello che ero ad otto anni, più o meno: il
bambino irrequieto e disubbidiente che rischiava di rompersi l'osso del
collo almeno un paio di volte al giorno» aggiunse, mentre un
ghigno gli nasceva sul viso. «Era naturale che le toccasse la
parte
della balia».
«E tu che parte avevi?» domandai, con tono
scherzoso.
«Uhm... La parte di quello che si ubriaca fino a
dimenticare
il suo stesso nome e ha bisogno che qualcuno si preoccupi di farlo
tornare a casa vivo e vegeto» rispose tranquillamente. Io
risi
senza
riuscire a trattenermi e lui mi lanciò un'occhiata di
sbieco.
«Non è una mossa saggia ridere di chi guida la
macchina
con
cui tornerai alla civiltà, sai».
«Tanto non potresti mai fare a meno di me per ritrovare la
strada» risposi, facendo spallucce.
«Sottovaluti le mie potenzialità. Se non mi sono
mai perso a Central Park, senz'altro prima o poi uscirò vivo
da
qui».
«Ma a Central Park non c'è il
rischio di incontrare orsi, per quel che ne so» buttai
lì con
fare casuale. Lasciai la sua mano e affrettai il passo. La luce intorno
a noi si era fatta più intensa già da tempo e gli
alberi
cominciavano a diradarsi, segno che eravamo vicini alla meta.
Alex mi fissava stupefatto, gli occhi spalancati, mentre lo superavo.
«Orsi?» ripetè.
«Sbrigati, siamo arrivati» annunciai invece di
rispondergli.
Percorsi in fretta
un'altra ventina
di metri, Alex alle mie
spalle, in direzione di una familiare macchia di luce, e finalmente mi
fermai. Davanti a noi c'era una piccola radura dalla forma circolare,
rivestita da un tappeto multicolore di erba e fiori; lungo il perimetro
alcuni alberi secolari gettavano la loro ombra sui margini del prato.
Il sole ancora non si decideva a spuntare del tutto, ma ogni tanto
faceva capolino e i suoi raggi luminosi e caldi sembravano
trasfigurare tutto, come un incantesimo. C'era un silenzio assoluto, a
parte il delicato scrosciare di un corso d'acqua nelle vicinanze. Per
un bel po' restai immobile, in contemplazione. Al mio fianco, Alex
sembrava incantato.
«Non
è
magnifico?» bisbigliai, timorosa di
turbare quella quiete. «E resta sempre uguale. Gli anni
passano,
le cose cambiano, ma... alcune restano esattamente
così
come sono. Non è un'idea consolante? Dovrebbe essere
così
anche per tutto il resto».
Guardai Alex: aveva un sorriso mesto sulle labbra. Non rispose, ma non
ce n'era alcun bisogno.
****
«La tua pelle
è meravigliosa».
La voce di Alex ruppe il silenzio all'improvviso. Ce ne
stavamo zitti da un bel po', io seduta sull'erba con le braccia tese
all'indietro, lui sdraiato su un fianco, appoggiato al gomito. Abbassai
la testa per guardarlo e mi accorsi che non stava ammirando il
paesaggio. Fissava me con gli occhi leggermente socchiusi, come se
avesse davanti una luce accecante.
Sorrisi. «Merito dei miei trattamenti di bellezza».
Rimase perfettamente serio. Abbassò lo sguardo,
l'espressione accigliata, e le sue dita volarono in un istante a
sfiorare la mia mano. Ne accarezzò a lungo il dorso, poi
prese a
salire piano, percorse l'avambraccio fin dove glielo permise la manica
della mia camicetta azzurro chiaro, infine scendendo
lentamente
tornò alla mano, toccò l'interno del polso. Fui
scossa da
un brivido e sperai che non se ne accorgesse, ma era
impossibile. Le sue dita si fermarono qualche secondo sul mio polso,
poi risalirono nuovamente lungo il braccio e scesero, ripetendo lo
stesso percorso con estrema delicatezza. Sembrava che assaporasse il
contatto fisico centimetro per centimetro. Rabbrividii ancora, quasi
sussultando, e mi sfuggì un sospiro. I suoi occhi saettarono
verso il mio viso e bloccò le dita sul polso,
stringendolo
appena.
«Ti metto in imbarazzo?» chiese, la voce ferma ma
cauta.
Accennai un sorriso. «Non più del
solito».
Gli angoli della sua bocca si curvarono un po' verso
l'alto. «Basta scherzi, Scheggia. Adesso facciamo sul serio.
Ti da
fastidio se ti tocco?»
«No» balbettai, scuotendo il capo. «No,
assolutamente. Mi piace. È bello».
«Però sembri preoccupata» aggiunse,
osservandomi intensamente.
«No, è solo che... a volte,
quando sei con me... sono nervosa» spiegai, a disagio. Non
era
affatto semplice parlarne ad alta voce, accidenti.
Alex inarcò le sopracciglia. «Io ti rendo
nervosa?». Annuii. «Nel senso che vorresti saltarmi
al collo e
strangolarmi o in senso buono?»
Trattenni a stento una risata. Non gli riusciva proprio di
essere serio fino in fondo, nemmeno quando lui stesso ne sosteneva la
necessità. «In senso buono» ammisi.
«Ah» fu la sua unica reazione immediata. Tacque per
un po', poi sorrise, guardandomi di sotto in su. «Allora io
ti
piaccio».
«Questo lo sai già. Perchè passerei
tanto
tempo con te, se no? Non sono così masochista».
«Hai capito cosa intendo: non solo come amico, ma come
ragazzo».
Le mie guance si scaldarono così in fretta che
pensai di aver stabilito un nuovo record. Non osavo guardarlo dritto in
faccia e rimasi zitta e immobile, paralizzata. Le rane salterine
che abitavano il mio stomaco erano molto impegnate ad andare su e
giù, neanche stessero festeggiando.
«Sai già anche questo» sussurrai con un
filo di voce. «Non dirmi che non l'hai capito».
Ci fu un'altra lunga pausa. Il mio respiro era diventato
affannoso, il cuore batteva con forza tale che lo sentivo rimbombare
nelle orecchie, i miei muscoli erano irriggiditi per la tensione.
«Be', io do troppe cose per scontate, a volte. Tu
stessa me l'hai fatto notare con quello che è successo sulla
spiaggia» disse in tono molto serio.
Presi fiato per parlare. «Stavolta hai ragione».
Lo guardai, incuriosita dalla sua reazione. Continuava a
fissarmi con un'espressione seria e intensa, ed era così
affascinante che quando parlò di nuovo dovetti concentrarmi
per
ascoltarlo. «Ricordi quello che ti ho detto quando
siamo
andati insieme a Port Angeles?»
La domanda mi spiazzò. Annuii, un po' confusa.
«Mi hai detto che io sono una persona molto
importante, per te, in questo momento» risposi lentamente. Il
ricordo di quella serata mi imbarazzava e mi intristiva al tempo
stesso.
«Sì, esatto. E poi ti ho detto che non c'era
bisogno di correre, che potevamo prendercela con calma, visto che tu
avevi tante cose per la testa. Che potevamo essere amici e basta,
per un po'» proseguì Alex, con molta calma.
«Io... credevo
veramente che fosse possibile, allora, ma... non ce la faccio
più».
«Non ce la fai più a fare cosa?»
«A starti accanto solo come amico» disse, e il mio
cuore fece un balzo. «So che mi hai chiesto del tempo e io ti
ho
detto che avrei aspettato. L'ho giurato a me stesso, ma non hai idea di
quanto sia... difficile. Ogni volta che siamo insieme, ogni volta che
ti parlo, che ti sfioro, che ti guardo, io vorrei qualcosa di
più. E non è onesto nei tuoi confronti. Devi
sapere
chiaramente quello che provo per te. Sono giorni che penso di dirtelo,
ma non trovavo mai l'occasione giusta. Io ti voglio, Renesmee, e non
come amica. Voglio che tu sia la mia ragazza».
Nella radura scese il silenzio, un silenzio così
profondo che mi veniva spontaneo trattenere il respiro, per non
disturbarlo. Ecco, ci eravamo arrivati. Era il momento di prendere una
decisione, di dirgli qualcosa, qualunque cosa, ma non riuscivo a
spiccicare una parola. La lingua sembrava incollata al palato. Me
ne stavo lì, immobile, a fissarlo negli occhi, probabilmente
con
un'aria molto poco intelligente, nella testa un unico, martellante
pensiero.
Che
cosa faccio?
Sapevo
quello che il mio cuore avrebbe desiderato,
ma forse non era la cosa giusta. Che senso avrebbe avuto dirgli di
sì? Che senso ha costruire una storia sulla menzogna e
sull'inganno? Non vuol dire condannarla fin dal principio al
fallimento?
Che
cosa faccio?
A un
tratto mi resi conto di quanto fossimo
vicini. Troppo vicini. Ebbi un flash improvviso di noi due in quella
stessa posizione, nella sua stanza, appena due settimane prima, e
credetti di intuire cosa stava per succedere. D'istinto mi spostai e mi
lasciai cadere all'indietro sull'erba, a pancia in su. Non potevo
lasciare che accadesse: baciarlo in quel momento sarebbe stato come
dirgli di sì, ma ancora non riuscivo a decidere. La sua
espressione divenne esasperata, mentre mi guardava. Sorrise e
sospirò d'impazienza.
«Non potrai sfuggirmi per sempre» disse quasi
canticchiando. La stessa frase che mi aveva rivolto il giorno prima, in
mensa, mentre discutevamo della cena dai nonni.
«Non sto scappando. Sono qui, ho solo cambiato
posizione» borbottai.
Lui ridacchiò. «Immagino sia già un
passo avanti».
«Scommetto che nessuna delle tue ragazze è mai
scappata dopo un bacio» aggiunsi dopo qualche secondo,
divertita da
quell'idea.
«Le mie
ragazze?»
ripetè, con tono sconvolto. «Oddio, ma cosa dicono
di me in quella scuola? Quali ragazze?»
Aggrottai la fronte, interdetta. «Le tue ragazze. Ex
ragazze o... attuali ragazze... Io che ne so, scusa?»
Scosse la testa, evidentemente seccato, ma anche piuttosto
divertito. «Renesmee, io ho avuto una sola ragazza»
dichiarò. «Ne ho baciata qualcuna in
più, è
vero, ma la maggior parte delle volte non ero perfettamente sobrio e
non ricordo granchè, quindi in sostanza è come se
non le
avessi mai baciate. Ho avuto soltanto una storia. Una, non un milione».
«Oh» esclamai. Ero così confusa e
sopresa da
quella rivelazione che non trovai altro da dire. Era la
verità?
O cercava solo di tranquillizzarmi? Ci pensai un po' su. «Una
sola
ragazza?» ripetei, e il mio tono suonò ben
più
scettico di quanto avrei desiderato.
Alex alzò gli occhi al cielo, quasi ridendo.
«Una sola. Giuro. Non raccontarlo in giro, però.
Potrebbe nuocere alla mia fama di Don Giovanni».
«Oh. Okay. Ehm... Dimmi qualcosa di lei, allora».
Mi guardò e scoppiò a ridere. «Sei
gelosa, Scheggia!»
«Cosa? No!» protestai, indignata. «Che
c'entra la
gelosia? Tu sai tutto di me, da quel punto di vista».
«Ma se non c'era niente da raccontare!»
esclamò, ancora scosso da quelle sciocche risate senza
ragione.
«Be', ora tu sai che non c'è niente da raccontare,
ma anche io ho il diritto di sapere, non trovi? E basta con quel
soprannome!»
Finalmente si calmò. Si allungò meglio
sull'erba, la testa appoggiata al palmo della mano. «Ok, ok,
hai
ragione. Vuoi sapere di questa ragazza?». Annuii. Lui fece un
respiro profondo. «In realtà ti ho già
parlato di lei. È Madison».
Caddi dalle nuvole. Sgranai gli occhi, mentre Alex mi
fissava attentamente, così sorpresa che per circa un minuto
non
riuscii a formulare alcun pensiero coerente. Cercai di ripescare dalla
memoria le poche cose che mi aveva raccontato di lei. Forse avrei
dovuto capirlo prima, da come ne parlava.
«Madison? La tua migliore amica?»
A un tratto era diventato molto serio. «Sì.
Più o meno un anno fa, ho smesso di... fare il pazzo,
diciamo.
In quel periodo lei mi era stata molto vicino, più di
chiunque
altro, e il nostro legame era diventato ancora più forte.
Così, quando mi sono dato una calmata, ci siamo accorti che
c'era qualcosa di più. Anzi, prima ancora che ce ne
accorgessimo c'era già. All'inizio... be', eravamo troppo
sorpresi per pensarci su, farci delle domande e... trovare delle
risposte». Accennò un piccolo sorriso che si
spense
subito. «Ma poi la cosa è diventata seria. O
almeno,
avrebbe potuto
diventarlo».
Rimase zitto, e attesi a lungo che riprendesse a parlare,
ma inutilmente. «Cos'è successo?»
domandai, timorosa, a
voce bassissima.
«Ci siamo lasciati» rispose con uno strano tono,
quasi noncurante.
«Chi lo ha deciso?»
«È stata lei, quando Julie ha cominciato a
parlare del trasferimento. Verso Natale. Disse che mantenere in piedi
una storia da una parte all'altra del paese era ridicolo». Di
nuovo
accennò un mezzo sorriso, anche se un po' amaro. Forse in
quel
racconto c'era qualcosa di buffo che io non potevo sapere.
«Così abbiamo chiuso».
«Siete rimasti amici?»
«Abbiamo deciso di provarci. Io le voglio ancora
un bene incredibile e immagino che per Madison sia la stessa cosa. In
fondo siamo cresciuti insieme, e questo non si può
cancellare». Mentre parlava, prese a giocare con un
fiorellino
giallo in mezzo a noi. «Però la lontananza... e
quello che
è successo tra me e te... sono cose che hanno il
loro peso, credo.
Se ora tornassi a casa e riprendessi la mia vita di prima, non so che
situazione troverei. Le cose cambiano».
«Già» risposi in un sussurro appena
udibile,
ed entrambi tacemmo per qualche istante. Avevo la sensazione che un
velo di tristezza fosse sceso su di noi. All'improvviso mi venne in
mente una cosa. «Madison sa di me?»
Alex mi lanciò un'occhiata rapidissima, poi tornò
a concentrarsi sul fiore. «Anche se io non le raccontassi
tutto
spontaneamente, lo capirebbe comunque. A lei non posso mentire, nemmeno
a distanza. Non ci sono mai riuscito».
La risposta era ambigua, ma mi parve di capire che Madison
non fosse del tutto all'oscuro della mia esistenza. Cercai di
immaginarla, senza grande successo. Senz'altro doveva essere
bellissima. Provai una fitta di disagio, e tentai di distrarmi per
scacciarla.
«Tu avresti voluto restare con lei?» domandai.
Lui sospirò appena. «Sinceramente non lo so.
Se me lo avessi chiesto un mese fa ti avrei detto di sì,
però... forse doveva andare così e basta. Forse
non era
destino. Sai, mia madre diceva che da una cosa che finisce ne nasce
sempre un'altra» aggiunse, con un improvviso scatto di
vivacità. Mi rivolse un sorriso insinuante. «Forse
aveva
ragione».
Arrossii sotto il peso del suo sguardo intenso. Che fosse
allegro o triste, concentrato o distratto, aspro o gentile, era uno
sguardo che non dava scampo.
«Ogni cosa è destinata a finire, anche quelle
più belle. Me l'hai detto tu, ricordi?»
«Certo. Ma questo non significa che non valga la pena
di viverle, anzi. Forse è proprio la loro
fugacità che
le rende così preziose. Così incredibilmente
belle».
Abbassai lo sguardo, a disagio. Alludeva a noi, lo sapevo.
Voleva spronarmi a decidere, e a decidere di dirgli di sì.
Dentro di me ascoltavo le sue parole rapita e
una voce mi spingeva ad assecondarlo, mi sussurrava all'orecchio di
scivolare
tra le sue braccia, di lasciarmi baciare e accarezzare, di sentire la
sua pelle fresca sotto le mie dita, i suoi capelli sottili, le sue
labbra morbide e sensuali.
All'improvviso mi resi conto che stavo trattenendo il respiro e che
fissavo Alex come ipnotizzata. Inquieta, cercai di riprendere il
controllo. Mi sollevai, scivolando sulle ginocchia e poggiando le mani
sull'erba soffice.
«E se neanche per noi fosse destino?» chiesi,
sforzandomi di sembrare tranquilla.
Alex ridacchiò. «Ehi, forse ho esagerato con
questa storia del destino.
Insomma, io ho sedici anni, tu quindici. È un po' presto per
fare questi discorsi, non
ti pare? E comunque non puoi saperlo, Renesmee. Non puoi sapere in
anticipo se funzionerà o meno. Possiamo solo provarci e fare
del
nostro meglio». Anche lui parlava con tono leggero, ma
sentivo che
era estremamente serio e concentrato.
Rimuginai sulle sue parole. Lasciarsi andare, provarci e
basta, non pensare al futuro... Sì, questo avrebbe fatto una
quindicenne qualunque. Ma io non ero una quindicenne qualunque, io
non potevo farlo. Ero una Cullen e una mezza vampira. Non potevo
permettermi di agire senza pensare alle conseguenze: avevo un segreto
da proteggere, una famiglia da proteggere. Per quanto fossi
arrabbiata con loro, non avrei mai, mai dimenticato chi
ero. E Alex... Alex sembrava capirmi così a fondo. Se
fossimo
stati così vicini, sarei riuscita a nascondere la vera me
stessa
a quegli occhi intensi e penetranti? Una storia con un essere umano...
Non era
ridicolo, una follia? Dovevo fermare la nostra corsa e tornare indietro
prima che fosse troppo tardi?
«Smettila di chiamarmi Scheggia» dissi lentamente,
scandendo una parola dopo l'altra. Ormai mi ero abituata a quello
stupido soprannome, tanto che spesso non ci facevo nemmeno
più
caso, ma ogni tanto protestavo per puro spirito di contraddizione. E in
quel caso specifico, per prendere tempo.
Alex fece un ghigno perfido. «Mai. Rassegnati»
rispose con aria trionfante. Sapeva che alla fine avrebbe vinto lui,
sul soprannome e su tutto il resto.
Forse non potevo più tornare indietro. Forse
avevamo passato il confine già da tempo. Forse quella che
stavamo percorrendo era sempre stata l'unica strada, per noi due, fin
dall'inizio. Forse era destino. Un destino che avevo
scelto io, però. Io, non una
stupida magia. Feci un profondo respiro.
«Non dovresti prendere in giro così la tua
ragazza» sussurrai, gli occhi fissi a terra. Non osavo
sollevarli
per scoprire che espressione avesse.
Alex si tirò su a sedere, avvicinandosi a me, la testa un
po' inclinata da un lato. «Però tu non sei la mia
ragazza,
giusto?». Dalla voce mi sembrò che stesse
sorridendo. «Eh,
Scheggia?» aggiunse piano, con incredibile dolcezza. Quella
dolcezza
improvvisa e spiazzante che mi aveva incantata dal primo momento.
Avrei voluto rispondere, ma sentivo la lingua
attorcigliata, la gola secca, il cuore a mille, il fiato corto, quelle
dannate rane nello stomaco... Sollevai gli occhi e lo guardai, in
silenzio, senza pronunciare nemmeno una sillaba, eppure lui
sembrò cogliere tutto ciò che avrei voluto
dirgli. Il suo
sorriso si spense e il volto tornò accigliato, come se
stesse
affrontando una questione della massima serietà.
Chissà
come mai mi veniva da ridere, ma mi trattenni; avevo il sospetto che
ridergli in faccia in quel momento sarebbe stata una grande idea.
Lentamente, molto lentamente, prese ad avvicinarsi a me,
senza distogliere lo sguardo dal mio. Ecco, stava per farlo di nuovo.
Una scarica di adrenalina mi incendiò le vene e quasi tremai
per
l'eccitazione improvvisa. Forse Alex scambiò quel sussulto
per
timore, fastidio o indecisione. Si bloccò di colpo.
«Non vorrai scappare di nuovo, vero?» chiese, la
voce talmente bassa che era appena udibile.
Percepii un filo d'ansia sotto la consueta ironia, sottile, ma
penetrante. La cosa mi sorprese.
Alexander-Don-Giovanni-Hayden era nervoso? Accennai appena un sorriso.
«Non scappo» bisbigliai.
I nostri volti erano vicinissimi. Aveva delle ciglia
così lunghe, curve e perfette da sembrare disegnate. E se il
bacio non gli fosse piaciuto? E se non fossi stata all'altezza? Cercai
in fretta di ricordare i suggerimenti di Jas, ma senza successo. La
mia mente era come svuotata. Tesa, spaventata e felice al tempo stesso,
chiusi gli occhi quasi nell'esatto istante in cui le sue labbra
toccavano le mie.
Questo
sarà un bel problema, fu l'ultimo pensiero
razionale prima di arrendermi.
Note.
1. Link.
2. Questa poesia è meravigliosa, vi consiglio di
leggerla qui.
Avrei voluto citarla per intero, ma è troppo lunga.
Spazio autrice.
Finalmente Renesmee e Alex sono una coppia! Questo capitolo mi
è sempre sembrato molto dolce e tenero, in particolare
durante la scena della radura, che è stata pensata come un
piccolo omaggio a Edward e Bella; la loro storia giunge ad una svolta
fondamentale proprio mentre sono insieme alla radura, in Twilight, e mi
piaceva immaginare che per Renesmee e la sua relazione con Alex fosse
accaduta la stessa cosa. Mi fa sempre sorridere la lunga conversazione
tra i due e il modo in cui finalmente arrivano alla stessa conclusione,
un passo dopo l'altro. Be', insomma, spero che sia piaciuto anche a
voi. So che alcune lettrici aspettano questo momento da diciotto,
lunghissimi capitoli, e spero che non vi abbia deluse. Come al solito,
se avete domande, dubbi, curiosità o riflessioni da
condividere con me e gli altri lettori, sarò molto felice di
ascoltarvi. Grazie, a mercoledì prossimo!
|
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Capitolo 19 *** Stop crying your heart out ***
C 19
Capitolo
19
Stop
crying your heart out
Get up (get up)
Come on (come on)
Why you're scared? (I'm
not scared)
You'll never change
What's been and gone.
Cos all of the stars
Are fading away
Just try not to worry
You'll see them some day
And be on your way
And stop crying your
heart out.
Stop
crying your heart out, Oasis¹
Chi
guarda un vero amico, in realtà, è come se si
guardasse in uno specchio.
MARCO TULLIO CICERONE, Sull'amicizia
Nei primi giorni dopo quel
sabato alla radura, passai la maggior
parte del mio tempo con Alex. Jas e Holly mi bersagliavano di battutine
e frecciatine
all'impazzata dicendo che ormai non avevo più tempo per
loro, ma in quel momento nulla sarebbe riuscito a scalfire il
mio entusiasmo. Il contrasto tra l'abbattimento che mi aveva
accompagnato nell'ultimo periodo e il mio nuovo stato d'animo era
sorprendente: mi sembrava di
camminare a due metri da terra e quando Alex era nelle vicinanze
arrivavo anche a tre metri. In quella situazione, perchè mai
non
avrei dovuto vederlo ogni volta che era possibile?
Oltre le
ore scolastiche, ci incontravamo a casa sua o a
casa mia. Julie si abituò in fretta alla mia presenza:
occhiate
indagatrici a parte, era simpatica, sveglia e disponibile, e l'evidente
miglioramento nell'umore di Alex, il fatto che si stesse finalmente
costruendo una nuova vita, la rendeva soddisfatta. Era divertente
trascorrere le serata a cena da loro, e poi guardare un film o fare
giochi di società tutti e quattro insieme, noi tre e Phoebe,
che era una ragazzina adorabile. Le piaceva stare con i grandi, sebbene
le sue giornate fossero sempre piene di impegni: studiava, leggeva,
suonava il violino, disegnava, dipingeva acquerelli, guardava
documentari scientifici in televisione e seguiva un mucchio di corsi
extra scolastici. Era una specie di genietto, ma così dolce
e
affettuosa che era sempre un piacere stare con lei.
Mentre
nella loro villetta immersa nel verde trascorrevamo
ore allegre e spensierate, stare a casa mia era un altro paio di
maniche. Charlie era ormai rassicurato sul fatto che Alex non fosse una
specie di criminale e riusciva addirittura a sorridergli e a scambiare
qualche parola quando si incontravano, ma ciò non
significava
affatto che avesse abbassato la guardia: il cipiglio da
investigatore con cui accoglieva il mio ragazzo era quasi comico,
sbirciava dalle finestre quando
io ed Alex eravamo sotto il portico convinto che non lo vedessimo, e se
ci chiudevamo nella mia stanza trovava ogni genere di scusa per entrare
a intervalli di dieci minuti e controllare le nostre
attività.
Non avevo avuto il fegato di dirgli chiaro e tondo che mi ero messa con
Alex, ma non ci voleva tanto ad arrivarci, e la cosa evidentemente lo
terrorizzava.
Se non avessi saputo che si comportava così solo
perchè
spinto dall'ansia e dal desiderio di prendersi cura della sua nipotina,
e se non fossi già stata abituata agli atteggiamenti
asfissianti della mia
famiglia, forse non l'avrei sopportato e gli avrei fatto una scenata. Per giunta, ero piuttosto
sicura che avesse raccontato ogni cosa alla
mamma, compresa la storia della cena, sebbene lei non ne facesse parola
durante le nostre brevi conversazioni telefoniche.
Questa
situazione costringeva me ed Alex a stare all'erta:
quando Charlie era nei paraggi, badavamo a sfiorarci il meno possibile.
Nella villetta di sua zia potevamo goderci un po' più di
libertà, perchè Julie era piuttosto tollerante da
questo
punto di vista e Phoebe era sempre troppo presa dalle sue faccende per
venire
a curiosare nella stanza di Alex.
Ciò nonostante, non facevamo assolutamente nulla che
confermasse
le paure di Charlie. Per la maggior parte del tempo eravamo impegnati
in lunghe, intense sedute di baci, ma non andavamo oltre. Spesso parlavamo oppure io
leggevo mentre lui disegnava. Stare insieme mi faceva bene, qualunque
cosa facessimo.
A volte la tentazione di prenderlo a schiaffi e chiudergli
in qualche modo quella boccaccia era più forte della
tentazione
di baciarlo, eppure non avrei mai potuto fare a meno di lui. Non che
avessi dimenticato i miei problemi, ma anche semplicemente ridere delle
sue battute, o stare chiusi insieme in una stanza ad ascoltare musica
era di grande aiuto.
Non avevo
mai pensato che gioia e tristezza
potessero convivere fiano a fianco nel cuore di una persona, eppure mi
sentivo esattamente così. Ogni tanto qualcosa faceva pendere
l'ago della bilancia un po' più verso uno dei due estremi,
come
se fossi stata su un'altalena; ma quando ero con Alex l'ago tendeva a
bloccarsi in zona felicità, ecco perchè cercavo
spontaneamente di trascorrere insieme a lui tutto il tempo che potevo. Dopo i primi giorni,
però, mi sforzai di creare un
equilibrio. L'ultima cosa che volevo era trascurare le mie amiche e che
loro ci restassero male sul serio.
Il sabato
successivo alla gita alla radura, quando ero
ancora piuttosto su di giri ma cominciavo a riacquistare il controllo,
trascorsi tutta la mattina a casa di Maggie per lavorare con lei a un
progetto di biologia. A un certo punto si unì a noi anche
Tom,
che frequentava il nostro stesso corso di biologia, affermando che
tre teste sarebbero state meglio di due, ma poi si limitò a
copiare i nostri compiti, guardare la tv sgranocchiando patatine e
lamentarsi di Jas, che a suo dire lo maltrattava
perchè pretendeva che lui la accompagnasse al cinema il
giorno dopo invece di lasciarlo giocare a calcio. Finimmo con il
pranzare entrambi da Maggie, dal momento che i suoi genitori erano
via, poi tornai a casa in tutta fretta; quella sera ero stata invitata
a cena da Jas, ma sua madre sarebbe stata presente, e ormai sapevo
benissimo che le cene della signora Williams finivano sempre con il
trasformarsi in una specie di evento
mondano. Mi occorreva un po' di tempo per prepararmi e prima di
uscire volevo chiamare Alex per un saluto veloce.
Entrai in
casa, leggermente trafelata, e mi affacciai
sulla soglia della cucina, sentendo delle voci. Sue era seduta al
tavolo, impegnata a scrivere qualcosa, Charlie in piedi alle
sue
spalle.
«Ciao!»
«Ehi,
piccola» esclamò il nonno.
«Com'è andato lo studio?»
«Tutto
okay. Abbiamo finito la ricerca».
«Bene,
bene». Si diresse verso il frigo, aprì
lo sportello e gettò un'occhiata all'interno.
«Sue, che ne
dici del salmone al forno? È un po' che non lo
mangiamo».
Lei fece
un sorriso ampio e divertito. «L'ho preparato domenica
scorsa, Charlie».
«Davvero?
Ehm... Be', allora vogliamo provare quella vecchia ricetta di mia
madre?»
Sua
moglie lo fissò inarcando le sopracciglia.
«Charlie, non
possiamo
mangiare salmone tutti i week-end» disse, con il tono di chi
si rivolge a un bambino che fa i capricci.
Sorridendo, mi
versai un bicchierone d'acqua. Non era la prima volta che li sentivo
discutere per via di divergenze culinarie.
«Noi
non mangiamo salmone tutti i week-end»
protestò il nonno con aria innocente, ma poi l'espressione
di Sue
lo costrinse a ripensarci. «Che c'è di male,
scusa? La
ricetta del salmone gratinato con
funghi e patate è in famiglia da... quante generazioni,
Ness?»
«Tre»
risposi diligentemente prima di
attaccarmi al mio bicchiere e mandarlo giù tutto d'un fiato;
stavo morendo di sete.
Il nonno
mi rivolse un sorriso compiaciuto. «Brava la mia
nipotina».
«Ma
non possiamo mangiarlo tutti i week-end»
protestò Sue con un'occhiata eloquente e l'aria esasperata.
«Sono
d'accordo» intervenni, divertita dal
bettibecco. «Forse dovresti trovarti un nuovo hobby invece di
andare a pesca ogni settimana: il trekking, il
birdwatching...»
Il nonno
sospirò. «Be', vedo che siete
più forti di me. Ma Seth non mangia il tuo salmone da un bel
po', sono sicuro che gli avrebbe fatto piacere».
Sollevai
la testa di scatto. «Seth?»
«Sì,
viene a cena da noi, stasera» spiegò Charlie,
continuando a sbirciare nel frigo.
Lo fissai
a bocca aperta, sconvolta dalla notizia, ma lui
non poteva vedermi, chino dietro lo sportello del frigo. Seth?
Seth a cena da noi? Quella sera? Come? Perchè?
«È
stata una sua idea». La voce di Sue mi
fece sobbalzare. La guardai, e mi accorsi che era vagamente
preoccupata. «Ha insistito molto» aggiunse,
esitante.
Cosa? E
perchè mai? Che intenzioni aveva?
«Nessie?
Nessie!». Mi resi conto che Charlie mi
stava chiamando e lentamente tornai a prestare attenzione alla
realtà. Lui mi osservava con aria interrogativa, una
confezione
di olive snocciolate tra le mani. «Nessie? Tutto
bene?»
«Sì»
borbottai. «Ehm... Il fatto è che... avevo un
impegno, stasera».
Charlie
affilò lo sguardo. «Ti vedi con Alex?»
Sospirai,
alquanto seccata dal suo modo di fare. «No, vado a cena da
Jas, ricordi?»
Annuì,
visibilmente rilassato; prese un'oliva e se
l'infilò in bocca. «Credo che dovresti rimandare,
piccola.
Sarebbe molto scortese se Seth non ti trovasse qui. E comunque non vi
vedete da una vita, non ti fa piacere stare un po' con lui?»
Gli
rivolsi un sorriso tirato. Certo, come no. Non
desideravo altro che una bella chiacchierata con Seth. Sarebbe stato
fantastico. Prima che potessi pensare a cosa dire, intervenne Sue.
«Charlie,
Nessie non deve rinunciare ai suoi impegni
se non le va» disse con cautela. «Può
benissimo andare da
Jas, vedrà Seth un'altra volta».
Lui mi
guardò con aria perplessa, incerta, e fu
quell'espressione a convincermi. Charlie non sapeva che il litigio con
i miei includeva in qualche modo anche Jacob e gli altri miei amici di
La Push. Io non avevo mai accennato alla cosa e se la mamma lo aveva
fatto era senz'altro rimasta sul vago. Però non era uno
stupido
e tre settimane senza neanche una telefonata tra me e Jacob, quando
eravamo sempre stati inseparabili, lo avevano sicuramente insospettito.
Aggiungere alla lunga lista di cose strane con cui doveva fare i conti
una mia fuga da casa per non incontrare Seth sarebbe stato troppo. Non
potevo rischiare che si mettesse a fare domande solo per colpa di un
mio capriccio. In fondo era soltanto una cena. Potevo resistere e
fingere che andasse tutto bene per un paio d'ore, giusto?
«No»
mormorai, guardando il pavimento. «No, non fa niente, Sue.
Resto
qui, non è un problema».
Uscii
velocemente dalla cucina per evitare che ricominciassero a
parlarne e mi chiusi nella mia stanza, piuttosto agitata. Questo
improvviso desiderio di Seth di cenare con noi era incomprensibile: non
era certo il momento migliore per una cenetta in famiglia, vedeva sua
madre quasi ogni giorno a La Push e se avesse voluto parlare
con
Charlie gli sarebbe bastato andare in centrale, informarsi sulla sua
prossima visita a Billy o semplicemente fargli una telefonata.
Doveva esserci qualcosa sotto, ne ero sicura. Ma cosa?
Che diavolo stava architettando? Era una sua iniziativa oppure
c'entrava Jacob? Sentii un'improvvisa fitta di ansia allo stomaco. Non
ero pronta. Non ero pronta ad affrontare di nuovo la situazione che mi
ero lasciata alle spalle. Ero riuscita a chiuderla fuori dalla porta,
ma ecco che rientrava prepotentemente dalla finestra, proprio adesso
che mi sembrava di aver ritrovato un po' di tranquillità.
Eppure
dovevo farcela, superare quella serata... per Charlie.
Chiamai
Jas per informarla che il nostro incontro era
cancellato e all'inizio non credette alla faccenda della cena in
famiglia. Era convinta che la stessi bidonando per vedermi con Alex.
Solo quando mi offrii di passarle Charlie per sentire la storia dalla
sua bocca finalmente si arrese: figurarsi se lui avrebbe mai raccontato
una bugia per permettermi di incontrare il mio ragazzo.
«È
odioso che tu abbia dato buca alla tua
migliore amica» disse con tono ostentatamente seccato,
«ma
sostituire la
mia cena
con una
cena in famiglia
è ancora più imperdonabile».
Sbuffai
mentre aprivo l'armadio e gettavo uno sguardo al
contenuto nel tentativo di decidere che cosa indossare. «Se
potessi
la eviterei più che volentieri, credimi».
«Tu
e Seth non eravate amici?»
Certo.
Amiconi, come no. A parte il piccolo dettaglio che
anche lui aveva tranquillamente preso parte alla messinscena di
famiglia. «Sì, be'... lo siamo, ma... non ci
sentiamo da
un po'» brontolai, tamburellando nervosamente con le unghie
sull'anta dell'armadio.
«Mm,
capisco. E la festa di Holly? Non abbiamo ancora
organizzato niente, ti rendi conto?» continuò con
tono
leggermente isterico. Tra due settimane Holly avrebbe compiuto sedici
anni, voleva a tutti i costi una festa originale e dopo
un'infinità di discussioni, idee scartate e riprese in
continuazione, aveva deciso per una serata a tema anni Cinquanta.
«Sì,
lo so» mugugnai.
«Facciamo
così: domani niente
scuse, ti voglio qui. Puoi pranzare a casa mia,
così parliamo dei
vestiti, okay? Dobbiamo lavorarci con attenzione, Renesmee. Voglio
sembrare la sosia di Olivia Newton-John in "Grease"², non la
sua brutta copia».
«Okay»
risposi con un sospiro. «Sosia, non brutta
copia, capito. Ne
parliamo domani, allora».
«Perfetto»
esclamò, decisamente soddisfatta. Fece
una breve pausa. «Be', senti, visto che sono la tua migliore
amica... in fondo è meglio che tu non venga,
stasera».
«Come
mai?»
«Mia
madre ha ordinato una cena a base di tofu».
«Bleah»
commentai, storcendo il naso. «Ancora? Pensavo che la fase
del tofu fosse passata».
«E
invece no. È tutta colpa del suo istruttore
di pilates se le vengono queste manie alimentari. E per giunta si
aspetta che io la segua! Ricordi quando pretendeva che a colazione
bevessi soltanto succo di pomodoro?».
Eccome se
lo ricordavo: per
giorni e giorni Jas aveva fatto colazione grazie a me e alle altre, che
le portavamo ogni mattina qualcosa da mangiare a scuola.
Scoppiai a
ridere e un po' del malumore sembrò andarsene. Ma
avrei preferito mangiare tofu per un mese piuttosto che dover
affrontare quella serata.
Salutai Jas e feci una rapida telefonata ad Alex, poi
iniziai a prepararmi, con così scarso entusiasmo che se
qualcuno
mi avesse visto avrebbe pensato che ero diretta a una veglia
funebre. Ogni tanto mi gettavo un'occhiata nello specchio e mi dicevo
che fingere di essere tranquilla e serena sarebbe stata una bella
impresa. Charlie non ci sarebbe cascato, stavolta. In realtà
non ci
cascava quasi mai. Il sospetto che io e sua figlia gli raccontassimo un
sacco di bugie lo sfiorava più spesso di quanto lasciasse
trapelare... Il punto non era se avrebbe capito, ma se avrebbe deciso di affrontare
la questione con me.
Ero
seduta davanti allo specchio, impegnata a legarmi i
capelli in una mezza coda, quando sentii un'auto avvicinarsi e
parcheggiare. Rimasi dov'ero, tesa e immobile, guardando il mio
riflesso allo specchio. Le labbra rosse, gli occhi castani, i boccoli
ramati, risaltavano contro il volto stranamente pallido; solo sulle
guance un tocco di colore.
Seth
bussò alla porta, qualcuno aprì e una
serie di allegri saluti e convenevoli giunse fino a me. Il nonno mi
chiamò, ma io non mi mossi. Speravo che il mio ritardo
facesse
intuire a Seth quale fosse il mio umore, quella sera, e cosa pensassi
della sua visita. Passò qualche secondo, Seth fece una
battuta e
Charlie scoppiò a ridere.
«Nessie!»
chiamò di nuovo, tra le risate. «Ehi, Ness, scendi
o no?»
Non
potevo più aspettare. Scattai in piedi e uscii
dalla stanza. In cima alle scale mi fermai un istante, feci un bel
respiro profondo. Un intenso odore di licantropo, che non sentivo da
settimane, mi colpì all'improvviso.
Avanti,
Renesmee. Dov'è finita la mezza vampira che è in
te?
Scrollai
la testa e con passo calmo, ma spedito, scesi le
scale, saldamente attaccata al corrimano come a una specie
di sostegno. Erano tutti e tre nel salottino. Seth, che torreggiava
sugli altri due, mi guardò e sorrise.
«Ehi,
Nessie!» esclamò. «È bello
rivederti».
«Ciao»
risposi.
Okay. Prima prova: bocciata. Non ero
riuscita nemmeno a salutarlo senza attirarmi uno sguardo perplesso da
parte di Charlie. Grandioso. Ero seriamente tentata di girarmi e
correre di nuovo di sopra. Il sorriso di Seth si spense lentamente
davanti alla mia espressione, come le braci di un fuoco muoiono
con una secchiata di acqua fredda.
«Sei
cresciuta» constatò, un po' esitante.
«Succede»
risposi, sforzandomi di sembrare più naturale.
Seguì
qualche secondo di silenzio di tomba, poi Sue
si decisa a dire qualcosa. «Allora... andiamo a tavola?
Forza, la
cena si raffredda».
Il nonno
le cinse le spalle con un braccio. «Sì, andiamo.
Venite, ragazzi».
Uscirono
dal salotto. Feci per seguirli, ma la voce di
Seth mi fermò. «Nessie, aspetta!»
esclamò, la voce
leggermente ansiosa. «Aspetta... Sei arrabbiata, vero? Posso
capirlo, sai? Ti capisco, davvero, ma...»
Interruppi
il suo discorso voltandomi di scatto a
guardarlo. «Senti, chiariamo subito
una cosa. Questa è casa di tua madre e hai tutto il diritto
di
venire qui. Non so che intenzioni tu abbia, ma sappi che l'unico motivo
per cui partecipo a questa stupida cena è Charlie: non
voglio
che pensi che ci sia qualcosa di strano. Ma non è cambiato
niente ed io e te non dobbiamo fare gli amici».
Mi aveva
ascoltato in silenzio, gli occhi grandi e scuri
carichi di tristezza fissi nei miei. «Non lo siamo
più,
allora? Amici, intendo dire».
Mentre ci
fissavamo, mi parve che la sua tristezza contagiasse
anche me. Eravamo stati così uniti, io e lui. Tra i
licantropi,
era il mio migliore amico dopo Jacob. Avevo sempre amato la sua
dolcezza, la sua spontaneità, la sua lealtà, e
adesso...
riuscivo soltanto a pensare alle bugie che mi aveva raccontato, come
tutti gli altri. Se un'amicizia nasce tra le menzogne, può
essere definita tale?
«Sinceramente,
Seth... non so se lo siamo mai stati davvero».
Mi girai
e uscii dalla
stanza a passo svelto, sperando che non
insistesse. Non lo fece. Poco dopo mi seguì in cucina e si
unì a me mentre apparecchiavo la tavola senza più
rivolgermi la parola, lo sguardo basso e grave.
Forse lo avevo ferito con le mie parole, ma quando iniziammo a cenare
il suo umore tornò improvvisamente allegro e tranquillo;
anche
lui si rendeva conto di quanto
fosse importante la facciata da mantenere in presenza di Charlie.
Badavo a guardare nella sua direzione il meno possibile, ma un paio di
volte lo sorprendevo a fissarmi, con quella stessa espressione
addolorata, e la cosa mi infastidiva da morire.
Ma che
diavolo voleva da me? Era venuto solo per verificare che fossi ancora
arrabbiata? Impossibile. Doveva
esserci un secondo fine, ma quale? Ero così impegnata a
pensarci da prestare pochissima attenzione alle chiacchiere punteggiate
da risate degli altri tre, ma a un tratto afferrai il nome di Claire, e
subito mi sforzai di ascoltare, incuriosita.
«Ormai
passa quasi tutto il tempo a La Push e ogni
volta che sua madre viene a riprenderla è una specie di
dramma!
Credo che Sam ed Emily dovranno adottarla» stava raccontando
Seth, con tono palesemente divertito.
Charlie
rise.
«Be', a quanto pare alla riserva c'è qualcosa che
le
interessa molto» esclamò.
Sollevai
gli occhi di
scatto, turbata dalla conversazione,
e incrociai quelli di Seth. Mi stava fissando con espressione seria.
«Sì, a quanto pare sì»
rispose, tranquillo.
Ressi il
suo sguardo per diversi secondi, poi mi sentii
arrossire rapidamente, come se fossi stata accanto a un fuoco, e tornai
a fissare il mio piatto, ancora quasi pieno. Presi di nuovo la
forchetta e iniziai a giocherellare distrattamente con il cibo. Seth
ricominciò a parlare.
«Ultimamente
è ossessionata dai cartoni animati. Li guarda di continuo,
in dvd, e
costringe chiunque si trovi a passare di lì a tenerle
compagnia.
Non sapete quante volte Quil è rimasto
incastrato!». Risero
di nuovo. Lo vedevo fin troppo bene, davanti ai miei occhi, Quil che
passava interi pomeriggi a guardare i cartoni in tv; mi ricordava
qualcuno. «Mi sa che tra un po' Emily brucerà quei
dvd... non
ne può più delle canzoni della
Sirenetta!»
«Accidenti!»
commentò Charlie, mentre ancora rideva.
«Penso
sia solo una fase» disse Sue.
«Immagino
di sì» rispose Seth. Poi fece una
breve pausa. «Ci sei passata, Nessie, te lo
ricordi?».
Sussultai
e la mia forchetta tintinnò contro il
piatto. Non risposi, ma gli piantai di nuovo gli occhi in faccia,
irritata e confusa, cercando di capire a quale gioco stesse giocando.
Lui proseguì. «E anche tu volevi
sempre che Jake li guardasse con te.
Però è durata poco, vero? Non ti è mai
piaciuto
tanto guardare la tv. Preferivi mille volte di più giocare
con
Jacob. E non lo mollavi mai. Ogni sera doveva aspettare che tu ti
addormentassi per andarsene; prima non sarebbe stato possibile. Eravate
sempre incollati. Te lo ricordi?»
Quando
tacque, nella cucina scese il silenzio. Continuavo
a guardarlo senza riuscire a spiccicare una parola, e lui mi guardava a
sua volta. Non potevo credere che dopo il modo in cui si era comportato
con me fosse venuto lì a stuzzicarmi e a ferirmi con quel
tuffo nel passato... Era troppo. Non avrei sopportato di stare
lì seduta un secondo di più.
«Scusatemi»
sibilai.
Colsi di sfuggita l'espressione
sgomenta di Charlie mentre gettavo via il tovagliolo, scattavo in
piedi e mi precipitavo fuori dalla cucina. Alle mie spalle sentii uno
mormorio indistinto e una sedia che si spostava. Seth mi stava
seguendo.
Maledizione! In cima alle scale mi voltai ad affrontarlo, furiosa.
«Che
cosa vuoi?» sbottai e il mio tono sorprese perfino
me stessa. Non ero mai stata una persona aggressiva in tutta la mia
vita, ma quella sera ero davvero fuori dai gangheri. Lui
aprì la
bocca per rispondere, ma non glielo permisi. «Ero stata
chiara,
Seth! Io avrei fatto finta di nulla se
tu
avessi fatto finta di nulla! Che cavolo significa... Che cosa pensi di
ottenere...». Ero così arrabbiata che non riuscivo
a trovare
le parole.
«Niente,
Nessie, io... non volevo ferirti, mi dispiace,
speravo solo... Volevo capire che diamine ti passa per la
testa» si
difese Seth, pacato.
Quella
frase mi prese in contropiede. Restai disorientata per un attimo.
«Non sono affari tuoi».
«Ti
sbagli» ribattè con decisione. «Sono tuo
amico, ti
voglio bene e mi preoccupo per te, quindi sì, sono affari miei».
«Ti
ha mandato Jacob?». Caspita, quanto ero acida. Ovvio che l'avesse mandato Jacob,
per convincermi a perdonarlo o chissà cosa.
Scosse il
capo. «No, giuro. Nessuno sa che sono qui,
tanto meno Jacob: sono ore che non mi trasformo. Certo, prima o poi
dovrò farlo e a quel punto Jake mi staccherà la
testa a
morsi... Ma non ha importanza, se riuscirò ad ottenere
qualcosa».
«E
io dovrei crederti?»
Seth fece
un sospiro leggermente esasperato. «Okay, senti. Chiariamo un
paio di cose. Primo: io non ho mai, mai
pensato di fare del male a te o alla tua famiglia. Non sono mai stato
d'accordo con quello che avevano deciso Sam e il branco e questa è
la verità.
Secondo: l'imprinting. Ce l'hai con me perchè non te l'ho
detto,
ma i tuoi genitori hanno deciso così e Jacob era d'accordo.
Che
cosa avrei dovuto fare? La decisione spettava a loro, non a me
nè a nessun altro... E se proprio vuoi saperlo, anch'io
credevo
che fosse la cosa migliore, all'epoca. Forse hanno aspettato troppo,
avrebbero dovuto dirtelo già da un po', ma...»
«Che
cosa vuoi, Seth?» chiesi per la seconda
volta, ritrovando la voce. Mi sforzai di non gridare. Charlie e Sue
erano ancora di sotto e non volevo allarmarli.
«Che
diavolo stai combinando? I tuoi genitori sono a
pezzi!» esclamò con forza, facendo un passo verso
di me.
Sobbalzai violentemente; le sue parole ebbero l'impatto di una pesante
scure calata all'improvviso su di me. «So che senti Bella per
telefono, non puoi non essertene accorta! Eri arrabbiata, okay. Volevi
del tempo, l'hai avuto. Ma è arrivato il momento di
comportarsi
da persona matura. Devi parlare con loro, Renesmee... parlare sul
serio, non quelle stupide telefonate. Questa situazione li sta
distruggendo e puoi fingere quanto ti pare che la cosa non ti
interessi, a me non la dai a bere. E Jacob...» un sorriso
triste gli
incurvò appena le labbra «... come pensi che stia
senza di
te?»
Mi
sentivo oppressa da
un peso insostenibile, come se le sue parole fossero pezzi di cemento
che mi piombavano addosso uno dopo l'altro. Respirai profondamente.
«Nemmeno
questi sono affari tuoi» borbottai, fissando la parete per
non
dover
sostenere il suo sguardo. L'espressione accusatoria che temevo di
scorgervi mi spaventava troppo.
«Ti sbagli. Sono miei amici, gli voglio bene e mi preoccupo
per loro, quindi sì,
anche questi sono affari miei» mi corresse, ripetendo parola
per
parola la stessa frase di poco prima. Dio, com'era irritante quando
sapeva di essere nel giusto. «Il fatto che soffrano quanto te
ti fa
stare meglio, per caso? Non mi sembra proprio. So che nella vostra
famiglia c'è una certa tendenza al masochismo... ma qui si
sfiora l'assurdo, davvero».
«Sto benissimo».
«Dai, Renesmee! Con chi credi di parlare, con il vicino
di casa? Ti conosco da quando sei nata, ragazzina, non me
la dai a bere» ribattè, ostinato e sicuro di
sé.
«Ma che diavolo pretendi da me?» esplosi,
esasperata. «Se anche... se anche volessi, io... non posso
cambiare
le cose. Non posso tornare indietro».
«Non devi tornare indietro, devi andare avanti!»
Stavo per rispondere, quando il mio sguardo
incrociò casualmente il suo e le parole mi morirono in gola.
Mi
stava fissando con espressione dolce e dispiaciuta, senza la minima
traccia di accusa. Era davvero
preoccupato per me ed io lo stavo trattando malissimo. Mi
sentii schifosamente in colpa. E confusa, anche. Aveva ragione. Che
cavolo stavo combinando? La domanda che rivolsi a me stessa mi
investì in pieno, con la violenza di un treno in corsa. Da
settimane me ne andavo in giro inveendo contro la mia famiglia e Jacob,
ma... io ero forse migliore di loro? No, per niente. Anzi, ero molto
peggio. Io li stavo ferendo deliberatamente. Ero una persona orribile.
Mi girava la testa e mi appoggiai alla parete, temendo di non avere un
equilibrio saldo. Ero così stanca. Stanca di pensare, stanca
di tutta quella storia.
«È facile a dirsi» mormorai. Senz'altro
Seth
colse un cambiamento, ma fece finta di nulla. «La mia vecchia
vita
non esiste più. E mi manca».
«Puoi sempre costruirtene una nuova»
mormorò dolcemente.
«Ma se tornassi sarebbe tutto diverso. Sono cambiate
così tante cose ed io... non so se riuscirei ad
affrontarlo».
Voltai la testa per nascondergli i miei occhi umidi. Non volevo
piangere davanti a lui.
Seth mi si avvicinò e per un attimo pensai che
volesse abbracciarmi, ma non lo fece. «Nessuno dice che sia
facile. Ma tu sei più forte di quanto immagini, molto
più
forte, e ce la puoi fare. Andiamo... dov'è finita la bambina
coraggiosa che ha
affrontato quei succhiasangue italiani guardandoli dritti in
faccia?»
«Non lo so» ammisi. «Forse si
è persa».
«E tu ritrovala. Sono sicuro che è lì
dentro, da qualche parte».
Scossi il capo. Le lacrime scivolarono lungo le guance, ma
non me ne preoccupai. «Non è la stessa
cosa».
«È vero» mormorò,
pensieroso. «Affrontare le persone che ami non è
mai
facile. Ma a volte
è necessario».
«Stai cercando di fare l'amico?» lo provocai,
ironica.
«Ti sto dicendo quello che penso, Renesmee. Vedila
così, se preferisci». La sua voce suonò
incredibilmente triste.
Ecco, adesso mi sentivo ancora più colpevole.
Prendermela con qualcuno, con Seth o chiunque altro, era infinitamente
più facile che cercare di capire e accettare. Eppure,
sembrava
che neppure questo avesse più senso, ormai. Non avrebbe
portato
a nulla. Ma allora cosa dovevo fare?
Dio, che mal di testa. Era come se stesse per scoppiare.
«Okay, adesso me ne vado e ti lascio in pace» disse
all'improvviso.
«No, non andartene. Fammi un favore, torna giù e
finisci di cenare».
«E tu?»
«Dì a Charlie che ero stanca e sono andata a
letto».
«Non sei costretta a rintanarti qui dentro solo
perchè ci sono io. Me ne vado subito, se vuoi».
«No, voglio stare da sola» protestai a denti
stretti. Non ne potevo davvero più.
«Ma...»
«Per favore, Seth!»
Marciai fino alla mia stanza e mi chiusi la porta alle
spalle con un tonfo più violento di quanto volessi. Mi parve
che
Seth esitasse un poco, poi lo sentii allontanarsi e scendere le scale.
Mi augurai che Charlie non pensasse di venire a controllare come stavo,
non avrei saputo giustificare in alcun modo le mie lacrime. Mi gettai
sul letto, coprendomi la testaa con il cuscino. Non avevo intenzione di
addormentarmi subito, ma scivolai presto in un
sonno inquieto e leggero.
A un tratto, non avrei saputo dire esattamente quando, mi
risvegliai di colpo e schizzai a sedere nel letto, agitata e confusa.
Avevo la strana sensazione di non essere sola. Perlustrai la stanza con
lo sguardo (dalla luce fredda e grigia capii che era appena
l'alba), ma era perfettamente vuota e silenziosa. Tesi le orecchie e
colsi solo il respiro di Sue e il russare del nonno nella camera
accanto alla mia. Non c'era nessuno, eppure... mi era sembrato di
sentire... Che strana sensazione. Cercai di scrollarmela di dosso.
Ero ancora vestita, ma qualcuno, probabilmente Charlie,
mi aveva sfilato le scarpe e sistemato addosso la vecchia coperta di
pizzo della bisnonna Marie, la madre di Renee. Mentre mi liberavo
dell'elastico per capelli e scioglievo la mia mezza coda, feci un
respiro profondo e a quel punto la sentii: una scia, non molto forte
ma abbastanza chiara. Una scia conosciuta. Anzi, era così
familiare che sarei stata in grado di distinguerla anche in mezzo a una
folla. Che ci faceva lì?
Mi alzai, all'improvviso completamente sveglia, e raggiunsi la
finestra, un po' barcollante. Guardai fuori. Il giardinetto di Charlie
e la strada
erano deserti. Chi aveva lasciato quella traccia
era già scomparso. Ma la sensazione che mi aveva svegliato
era
giusta: qualcuno era entrato nella mia camera, quella notte. E sapevo
anche chi. La domanda era... perchè?
Note.
1. Qui
la canzone. La adoro!
2. Immagino che la conosciate tutti, comunque eccola qui.
Jas è una ragazza ambiziosa xd.
Spazio autrice.
E allora, non
c'è molto da dire su questo capitolo, mi sembra. Spero che
vi sia piaciuto e come al solito vi invito a farmi sapere cosa ne
pensate. So che alcune di voi già sentono la mancanza di
Alex (ogni riferimento a Bianca Lyra Petrova è puramente
casuale... xd), ma non preoccupatevi, perchè presto tornerà e ci sarà una montagna di fluff! Nel frattempo, vi anticipo che il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di Bella.
Alla prossima!
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Capitolo 20 *** Lullaby ***
C 20
Capitolo
20
Lullaby
Send a question in the wind
It's hard to know where
to begin
So send the question in
the wind
And give an answer to a
friend
Place your past into a
book
Put in everything you ever took
Place your past into a book
Burn the pages, let them cook
And you
stood tall
Now you will fall
Don't break the spell
Of a life spent trying
to do well.
Lullaby, Sia¹
Non esiste notte tanto lunga da impedire al sole di risorgere.
Anonimo
[BELLA]
L'eternità.
Un concetto complesso e interessante. Da quando ero diventata una
vampira ci riflettevo su spesso.
All'inizio mi era sembrato un dato puramente oggettivo:
sarei vissuta per sempre, un numero di giorni, ore, minuti, secondi
infinitamente lungo e impossibile da calcolare, punto. Ma con il
passare del tempo mi ero resa conto di quanto la percezione
dell'eternità fosse tutt'altro che oggettiva, e anzi
soggetta agli avvenimenti e alle situazioni che mi circondavano.
Quando la mia vita era stata perfetta, quel tempo
interminabile che si stendeva davanti a me non mi era sembrato comunque
sufficiente per godermi tutto ciò che avevo. Adesso..
Mi sfuggì un sospiro. Le cose erano cambiate.
Lontana da mia figlia, mi sembrava che le giornate si trascinassero con
esasperante lentezza, affastellandosi una sull'altra senza nessun
significato; da ricca e appagante, la mia vita era diventata
improvvisamente buia e vuota. Sapevo che un giorno Renesmee sarebbe
tornata. Il tempo guarisce ogni ferita, anche quelle più
profonde. Ma era già trascorso un mese. Per quanto tempo
ancora
avrei dovuto resistere? Un altro mese? Due? Un anno? Di più?
Respirai profondamente, un semplice riflesso istintivo per
calmarmi, e lanciai un'occhiata all'orologio della cucina. Le nove e
mezza. Si prospettava un'altra serata interminabile e una notte
altrettanto lunga e difficile. Sentivo perfino la mancanza delle
più banali occupazioni quotidiane, quelle che riempiono una
vita
umana, come mangiare e dormire. Forse avere delle esigenze pressanti
sarebbe stata una piccola distrazione. Ero sempre in cerca di qualcosa
da fare per tenermi impegnata, sebbene una parte della mia mente non
smettesse mai di pensare a Renesmee, mai, neppure per un istante.
Così quando avevo visto Esme
prepararsi a pulire l'argenteria, quella sera, le avevo immediatamente
tolto di mano lo straccio e il prodotto detergente e mi ero messa al
lavoro.
Sapevo che Edward stava vivendo la mia stessa situazione,
ma forse per lui era più semplice distrarsi, costantemente
immerso nel flusso di pensieri di altre persone. Sollevai gli occhi dal
vaso d'argento che stavo lucidando e li puntai su di lui: era seduto al
bancone della cucina, accanto a me, il mento appoggiato a una mano, lo
sguardo assente che si perdeva fuori dalle ampie finestre. Fin
dall'inizio avevamo stabilito il tacito accordo di non parlare di
Renesmee e di quello che era successo. Come tutti gli altri, fingevamo
che si fosse solo presa una breve vacanza e che sarebbe tornata presto.
Parlarne e renderci conto di quanto fossimo impotenti davanti alla sua
rabbia e alla sua tristezza sarebbe stato solo peggio.
Non solo non parlavamo di Renesmee, ma praticamente non
ci dicevamo più nulla che avesse importanza, solo cose
sciocche e
banali, per cercare di far passare il tempo. Ciascuno dei due teneva
per sé i propri pensieri. In fondo, non avevamo bisogno di
parlare
per capirci.
E insieme alla nostra capacità di dialogare, era
scomparsa anche la nostra intimità. Era esattamente un mese
che
quasi non ci toccavamo. Un vero record. Non avevamo smesso di
desiderarci, ma era come
se avessimo congelato le nostre vite in attesa del suo
ritorno. Nulla di importante poteva essere fatto o detto, tutto doveva
fermarsi insieme a noi e aspettare.
Edward stava male quanto me, anche se riusciva a darlo a
vedere molto meno; forse quando si hanno centodieci anni si impara ad
essere pazienti. Ma ce la saremmo cavata, io e lui. C'era solo un'altra
persona, al momento, che mi preoccupava quanto Renesmee. Una persona
che si era data alla macchia da un paio di settimane. Se non fosse
stato
per Seth, che veniva spesso a trovarci, non avrei avuto la certezza che
fosse ancora tra noi.
Sospirai di nuovo, sentendomi all'improvviso mortalmente
stanca. Edward mi guardò, incuriosito da tutta
quella superflua attività polmonare. Cercai di sorridergli,
ma
mi uscì una smorfia.
«Ehi, Rose! Che ne diresti del sud della Francia? Sono
secoli che non vediamo Saint Tropez» esclamò in
quel momento
la voce possente di Emmett. Era in soggiorno, seduto sul divano con il
computer portatile
davanti, impegnato nella ricerca di una meta interessante per un
viaggetto che lui e Rosalie stavano progettando per l'estate. Ne
parlava da tempo e aveva già proposto alcuni bellissimi
itinerari. Peccato che per la partecipazione
mostrata da Rosalie avrebbe potuto anche decidere da solo.
«Non sono secoli,
Emmett, sono ventun'anni» lo corresse Jasper, seduto in
poltrona con un libro tra le mani.
«Non andare tanto per il sottile, tu. Rose, che ne
pensi?»
«Sì, non è male» rispose lei
con voce
palesemente molto annoiata. Guardava la tv senza staccare gli occhi
dallo schermo nè battere le palpebre, ma sospettavo che non
avesse la minima idea di cosa stavano trasmettendo.
«Sud della Francia in estate?
Gran bella vacanza, chiusi in albergo tutto il giorno»
commentò Alice. Era seduta accanto a Rose, nella zona tv, le
gambe piegate da un lato, ma non osservava lo schermo; da giorni e
giorni cercava continuamente di concentrarsi e vedere qualcosa che
riguardasse Renesmee, ma senza risultati.
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, sorellina»
brontolò Emmett aggrottando la fronte.
«Hai mai sentito la storia del Grande Gigante
Gentile²?»
Emmett la ignorò e continuò a smanettare sul
computer. «E l'Italia? Che ne pensi dell'Italia, Rose? Non ci
siamo mai stati... mi sembra».
«Italia? Tanto vale andare nel sud della Francia»
disse Alice.
«State alla larga dalla Toscana» suggerì
Jasper a bassa voce, ancora immerso nel suo libro.
Emmett emise uno sbuffo di esasperazione. «Va bene!
L'Islanda, allora».
«Okay» fece Rosalie.
«Diresti okay
anche se ti proponessi un giro all'inferno?» chiese Emmett in
tono ironico.
Questa volta lei non rispose e nessuno commentò.
Emmett fissò Rosalie con la fronte contratta per un po', poi
tornò al computer, scuotendo la testa. Sapevamo che la
storia
del viaggio era soprattutto un tentativo di distrarla, ma lei non
collaborava, testarda come sempre; da settimane ormai si era chiusa in
uno stato di apatia, quasi di sospensione. Aspettava, anche lei, come
me e Edward. Tutti sentivano la mancanza di Renesmee ed erano
preoccupati per lei, ma per Rosalie era più difficile ed io
la
capivo perfettamente. Sospirai per l'ennesima volta.
«Tutto bene, Bella?» chiese Esme, sollevando gli
occhi dalla rivista di arredamento che stava sfogliando.
Stavo per rispondere, ma un rumore improvviso catturò la mia
attenzione: qualcuno si stava avvicinando a casa nostra. E a giudicare
dai pesanti tonfi sul terreno, potevo anche indovinare chi. Lanciai
un'occhiata a Edward, che a un tratto era teso e
concentrato.
«Sta arrivando...» iniziò.
«Sì» esclamai, agitata.
«Come... come sta?»
Edward non rispose, ma la sua espressione mi
provocò una fitta allo stomaco. Merda. Mi alzai e
scivolai giù per le scale, Edward alle mie spalle. Sentivo
nell'aria un fremito familiare, poi sostituito dal rumore di passi
veloci. Aprii la porta d'ingresso giusto in tempo.
«Ciao, ragazzi» ci salutò Jacob. Aveva
appena
salito l'ultimo gradino della scala. «Tempismo
perfetto».
«Jacob!»
Feci un passo avanti e gli gettai le
braccia al collo. Lui restò fermo per un secondo, forse
colto di
sopresa, poi ricambiò lentamente l'abbraccio. Strano come,
anche
dopo la mia trasformazione, il contatto fisico con Jacob mi sembrasse
ancora perfettamente naturale. Non saremmo mai stati nemici mortali, io
e lui. Eravamo soltanto Bella e Jacob e questo non sarebbe mai
cambiato.
Deglutii per scacciare il nodo che mi stava nascendo in gola mentre ci
separavamo.
«Finalmente ti sei deciso a venire a trovare la tua
migliore amica» dissi in tono di rimprovero. Non potei farne
a meno;
se avevo trascorso gli ultimi giorni a macerarmi tra cupe riflessioni e
pensieri angosciosi era anche a causa sua.
«Sì, be'... ho avuto parecchio da fare»
rispose, evasivo, fissando il pavimento.
«Parecchio da fare per un mese?» insistei.
«Neanche
una telefonata, Jake! Mi sono preoccupata a morte!»
Non ebbe alcuna reazione e non sollevò nemmeno gli
occhi. Sembrava molto stanco, come me. «Mi
dispiace»
mormorò.
«Va bene, non fa niente» intervenne Edward.
«L'importante è che tu sia venuto».
Fummo interrotti dall'arrivo di Carlisle, che uscì
dalla biblioteca alle nostre spalle. «Jacob! Che piacere
rivederti» esclamò con un gran sorriso, genuino e
caldo.
«Carlisle» rispose Jacob, impassibile.
Il suo volto era in ombra, ma riuscivo ugualmente a
coglierne ogni dettaglio: le labbra tese, la fronte contratta,
l'espressione dura. Non c'era bisogno di indagare o saper leggere nel
pensiero per capire che se la passava male quanto noi.
«Come va?» chiese Carlisle. Lui scrollò
le
spalle, in silenzio. Carlisle annuì con fare pensieroso e
lanciò un'occhiata verso me ed Edward. «Vieni,
saliamo»
aggiunse, e ci precedette su per le scale.
Ovviamente gli altri ci stavano aspettando.
«Jacob! Bentornato!» esclamò Esme appena
mettemmo piede in cucina.
«Ehilà!» fu il saluto di
Emmett, ancora tutto preso dalle sue ricerche al computer.
«Ciao, lupo» trillò Alice, alzandosi e
venendoci incontro. Jasper ci passò accanto per raggiungerla
e
diede una leggera pacca sulla spalla al mio amico.
Rosalie non disse una parola. Voltò un po' la testa verso
Jacob e i due si squadrarono in silenzio, lei con
astio, lui con profonda indifferenza. Poi Rose tornò di
scatto a
fissare la tv. Ne fui scioccata. Quei due che si incontravano senza un
insulto o una presa in giro? Gran brutto segno. Jacob le
voltò
le spalle e si lasciò cadere in una poltrona del soggiorno.
Lo
raggiunsi e sedetti di fronte a lui.
«Allora... che impegni hai avuto in questi giorni?»
chiesi,
ripartendo all'attacco. Edward mi lanciò un'occhiata di
avvertimento, ma finsi di non accorgermene. Dovevo sapere.
«Il solito. Il branco, il lavoro».
«Parecchie cose da fare, quindi» dissi,
rigirandogli le sue stesse parole con tono un po' acido.
Alzò gli occhi al cielo e mi parve che sul suo
volto apparisse l'ombra di un sorriso, ma un istante dopo era
già scivolata via.
«Santo Dio, Bella. Da quando ti dedichi a monitorare i miei
impegni?»
«Non voglio controllarti, ero solo preoccupata».
«Non ne hai motivo».
«Tu dici?». Inarcai un sopracciglio mentre lo
fissavo.
Lui spostò lentamente lo sguardo su di me con
espressione indecifrabile. «E tu cos'hai fatto
ultimamente?»
chiese, provocatorio.
«Il solito» mormorai.
«Siamo in due, allora» commentò. Era
rigido e sulla difensiva.
Feci un piccolo sospiro. «Eh già».
All'improvviso mi sentivo a disagio. Avrei tanto desiderato aiutarlo,
ma mi
rendevo conto di non sapere come. Non ne avevo la minima idea. Non
sapevo neanche aiutare me stessa. «Senti, Jake... forse
è del
tutto inutile, ma... volevo dirti che io ci sono. Per qualunque cosa.
Se ti andasse di
parlare...»
«Lo so, Bella» mi interruppe in tono secco.
«Ti ringrazio, ma non c'è niente di cui
parlare».
Esitai, incerta. Forse non dovevo insistere, ma Jacob era
il mio migliore amico. Era lì, davanti a me, e soffriva. Non
ero
stata in grado di proteggere mia figlia, ma forse mi rimaneva
ancora un'occasione per dimostrare a me stessa di non essere
completamente inutile. Mi costrinsi ad andare avanti.
«Capisco quello che provi, davvero. So che in questo
momento ti sembra tutto senza senso. È lo stesso per me. Ma
mi
fa male vederti così».
«Be', non posso farci niente» rispose a denti
stretti. «Non mi sembra che tu te la stia passando
meglio».
Colpita e affondata. Aveva ragione, eccome. «Okay, va bene.
Basta, cambiamo argomento».
«Io credo che dovremmo parlarne, invece» intervenne
Rosalie. Spense la tv con un tasto del telecomando e si
alzò.
«Rose» mormorò Edward. Il suo viso era
tirato, contratto. Evidentemente leggeva nei pensieri di sua sorella
qualcosa di molto preoccupante.
Lei non gli badò e venne verso di noi, nel
soggiorno. «È un mese che facciamo finta di nulla,
non si
può andare avanti così. È ridicolo.
Che intendi
fare, Bella?». Incrociò le braccia, guardandomi
con aria
decisa.
Io non avevo il coraggio di ricambiare lo sguardo. «Per
cosa?» domandai, con calma, fissando il tappeto.
Eccola, finalmente, l'esplosione che tutti stavamo aspettando.
L'atmosfera si era congelata di colpo.
«Lo sai
per cosa».
«Niente».
«Oh, andiamo! Intendi lasciarla lì per
sempre?»
Sentivo la gola e la bocca secche, come se non cacciassi
da mesi. Cercai di deglutire. «No... certo che no. Ma non
vedo come
potrei cambiare la situazione».
«Sei sua madre, certo che puoi cambiare la
situazione!»
«No, Rosalie, purtroppo no. Renesmee è
arrabbiata e ferita. Non tornerà finchè non
l'avrà
superato. E ci vorrà del tempo. Non so se un mese sia
sufficiente». Mentre parlavo lanciai un'occhiata a Jacob,
preoccupata dalla sua reazione, ma lui sembrava ancora perfettamente
impassibile.
Rosalie tacque per qualche secondo, mordendosi il labbro. «E
se
le occorresse molto più di un mese?» disse a voce
bassa. «Qual è il tuo programma? Abituarti alla
sua
assenza?»
Le sue parole evocavano i miei peggiori timori e li
rendevano reali, concreti, minacciosi, come se fossero accanto a me e
incombessero sulla mia vita. Sopportavo a malapena di ascoltarla e
questa volta non riuscii a rispondere.
«Rosalie» la chiamò ancora Edward, con
più forza, e di nuovo lei fece come se non avesse
sentito.
«Renesmee è una bambina e noi siamo la sua
famiglia: non possiamo abbandonarla».
Sollevai la testa di scatto. «Non l'abbiamo abbandonata,
noi... non avevamo altra scelta».
«Sì, invece, e avete fatto quella
sbagliata» sibilò tra i denti.
La sofferenza sul suo viso perfetto era evidente. Sapevo
benissimo cosa Renesmee significasse per lei, ma si sbagliava. Davvero non avevo
avuto altra scelta.
«Cioè avremmo dovuto costringerla a tornare
contro la sua volontà e farla stare ancora
peggio?»
intervenne Edward alzando la voce. «Non ti rendi
conto di quello che
dici».
«Sei tu che non ti rendi conto. Lasciarla a cavarsela
da sola ti sembra una buona idea? Non so come abbiate potuto fare una
cosa del genere».
«Era la decisione migliore per lei, non per noi
stessi» ribattè Edward. Mi accorsi che si stava
arrabbiando.
Rosalie fece un passo avanti. «Cosa vorresti insinuare?
Sai benissimo che è Renesmee il mio primo pensiero, in ogni
momento» ribatté, inviperita.
«Sì. Ma se tornasse ora, staresti meglio tu, non
lei».
«Se tornasse
ora, saresti tu ad avere troppe cose da farti perdonare,
non io».
«Ehi!» intervenne Carlisle con tono fermo, tentanto
di fermare la discussione prima che degenerasse.
«Basta, piantatela!» esplosi quasi nello stesso
istante. Mi alzai in piedi di scatto. «Siete impazziti?
Litigare non
ci aiuterà a risolvere il problema!»
«Stare con le mani in mano ad aspettare gli eventi invece
sì?» ribattè Rosalie, provocatoria.
«Ma cosa vuoi che faccia?»
«Devi riportare tua figlia a casa! È questo il
suo posto! Ha bisogno di noi e non importa se adesso non riesce a
capirlo!»
«No, Rosalie!» ringhiò Jacob
all'improvviso, alzandosi a sua volta.
«Perchè no?» strillò lei,
fuori di se.
La sua espressione ferita si caricò d'odio quando
posò
gli occhi su Jacob.
«Perchè non è quello che
vuole!». Il
mio amico guardò Edward, che stava zitto e immobile.
«Tu sai cos'è successo, spiegaglielo».
«Come? Cos'è successo?» esclamai,
sopresa. Lo guardai a mia volta, ma lui non parlava.
«Edward!»
Sospirò pesantemente. «Lo scorso sabato Seth... ha
preso un'iniziativa».
«Che genere di iniziativa?» domandai sotto voce, a
denti stretti. Cercavo di controllarmi, ma non era per niente facile;
la tentazione di sfogare la rabbia e la frustrazione su qualcosa o
qualcuno era fortissima.
«È andato a cena da Charlie. Voleva parlare con
Renesmee» rispose Edward in tono piatto. «Lei...
non
l'ha presa tanto bene».
Mi sentii morire. Merda. «Oh, no. Si è
arrabbiata? Cosa... come...» farfugliai. Non sapevo bene
nemmeno io
cosa volessi chiedere.
«L'hai mandato tu» sibilò Rosalie, con
una voce che grondava veleno, all'indirizzo di Jacob.
«Non farei mai una cosa del genere»
ribattè
Jake. «Dobbiamo lasciarla in pace finchè non
sarà lei
a decidere di tornare».
«Sai, ne ho le scatole piene di te che credi sempre di
sapere cos'è meglio per Renesmee! Di te e del tuo branco di
idioti che si intromettono nelle faccende della nostra famiglia!
È tutta colpa tua, è scappata dopo aver parlato
con te!
È il tuo dannato imprinting che ha provocato questo
disastro! Tu
non saresti mai dovuto entrare nella sua vita, mai! Ho sempre saputo
che questa storia ci avrebbe creato dei problemi!»
«Rosalie, smettila!» esclamò Esme,
sconvolta.
Emmett la raggiunse e le mise le mani sulla spalle, ma lei
se lo scrollò di dosso. Sembrava fuori di sé per
la furia.
Ricordavo di averla vista così solo una volta, in passato.
Sei anni prima, quando aveva protetto Renesmee dagli insani
propositi degli altri. Ed era quello che stava facendo anche adesso:
lottava per Renesmee, con la stessa forza, la stessa
ostinazione,
lo stesso coraggio.
«Ha ragione» intervenne Jacob. La sua voce era
bassa, ferma, amara. «È colpa mia. Ho sbagliato
tutto con
lei».
«No, Jake...» esclamai, ma non riuscii a finire.
«Certo che ho ragione!» proseguì
Rosalie,
imperterrita. «Dovresti uscire da questa casa e non metterci
mai
più piede, e lasciarla in pace!»
«Non spetta a te decidere» scattò
Edward. «Non è tua figlia».
Rosalie lo guardò. «Non sarebbe venuta al mondo senza di me. Mi sono presa cura di lei
quando Bella non poteva» rispose, all'improvviso
spaventosamente
calma.
«Renesmee non è il premio per quello che hai
fatto! Lei non è tua, è nostra!»
ribattè Edward con forza impressionante, lo sguardo furioso
fisso sulla sorella.
Gli occhi di Rosalie divennero due fessure. «Non la pensavi
così quando volevi che Bella abortisse».
Sussultai, scioccata. Era impazzita, per caso?
«Rosalie!» esclamò Carlisle.
Edward rimase impassibile. Aveva smesso perfino di
respirare. Serrava i pugni con tanta forza che mi stupii di non
sentirli scricchiolare. «Non ti permetto di dire
questo» rispose,
glaciale.
«Basta» ripetei. Raggiunsi Edward e gli
afferrai un braccio, ansiosa di trattenerlo; temevo che saltasse al
collo di Rose da un momento all'altro.
Scese un silenzio carico di tensione, poi, all'improvviso,
Jacob parlò. «Non smetterai mai di essere
così
maledettamente egoista, vero?» disse con un filo di voce,
guardando
Rosalie.
Lei ricambiò con uno sguardo di disgusto allo stato
puro. «Sarò egoista, ma quello che è
successo è tutta colpa tua. Soltanto colpa tua»
rispose lentamente, scandendo
bene ogni parola come se fosse un pugnale affilato da lanciargli contro.
Aprii la bocca per intervenire ancora, ma questa volta non
riuscii a spiccicare parola. Lo shock mi aveva
congelato il cervello. Jacob lasciò vagare lo sguardo nella
stanza, come se cercasse di sfuggire a un peso insostenibile,
l'espressione carica di amarezza, dolore e rabbia. Poi fece un respiro
profondo.
«Ciao, Bella» mormorò, e si diresse
velocemente alle scale.
«Jake, aspetta!»
Mi lanciai dietro di lui, ma un istante dopo sentii
sbattere la porta d'ingresso e poi quella vibrazione familiare che
riempiva l'aria. Si stava trasformando. Avrei potuto seguirlo e
bloccarlo con facilità, ma mi fermai. Avevo la netta
sensazione
che riportarlo fra noi fosse una pessima idea e che al momento volesse
semplicemente starsene da solo, a rimuginare, deprimersi e
tormentarsi nei sensi di colpa. La situazione era questa e non potevo
cambiarla. Non potevo costringerlo a stare meglio o a parlarne con me.
Avrei dovuto rassegnarmi e lasciare che affrontasse il proprio dolore
come preferiva.
Risalii lentamente le scale e tornai in soggiorno. Rosalie
ostentava ancora quella furibonda aria di sfida e non cedette di un
millimetro mentre ci guardavamo negli occhi. Era una combattente, forte
e ostinata; lo sapevo benissimo. Avevo scelto lei anche per questo, sei
anni prima. Ma ora stava combattendo la battaglia sbagliata.
«Questa volta hai davvero esagerato, Rosalie» dissi
con voce ferma. «So cosa provi in questo momento. Lo capisco,
credimi, e mi dispiace. Ma Jacob è il mio migliore amico,
è a pezzi per quello che è successo e non posso
permettere che tu lo faccia stare ancora peggio».
Lei fece un passo avanti, verso di me. «È proprio
questo il problema. Sei accecata dall'affetto
che provi per lui e non ti accorgi di tutto il male che ha fatto a
Renesmee fino adesso e di quanto ancora potrebbe fargliene. Non ti
accorgi che il desiderio di allontanarsi da lui, quando se
n'è
andata, è stato più forte di quello di restare
con i suoi
genitori. Lui ha un peso troppo grande nella sua vita, non lo capisci?
Conta più di te e Edward». Dio, stare ad
ascoltarla era
insopportabile. L'atroce dubbio che avesse perfettamente ragione e che
io stessi sbagliando tutto si faceva strada dentro di me, artigliandomi
la gola e le viscere. Guardai mio marito: era del tutto immobile, come
pietrificato. «La soffocherà, la sta
già soffocando, e
noi restiamo a guardare» aggiunse Rosalie, quasi con voce
rotta.
Con uno scatto tesi la mano verso Edward; lui la prese
lentamente, senza guardarmi. «Andiamo a casa»
sussurrai. «Buonanotte a tutti».
Lasciammo in fretta la casa senza che nessuno tentasse di
fermarci. Uscire nella notte buia e fredda, allontanarmi da Rosalie e
dalle sue parole, non mi diede il sollievo
che avevo sperato. Al mio fianco, Edward continuava a tacere;
chissà a cosa stava pensando. Cercai più volte di
dire qualcosa,
ma le parole rimanevano incastrate in gola. Raggiungemmo il cottage
dopo pochi minuti. Da quando Renesmee era andata via sembrava
sempre
troppo silenzioso, troppo vuoto, troppo grande. Stavamo lì
il meno
possibile. Entrammo nella nostra camera. Edward si diresse con passi
lenti verso la grande
portafinestra che dava sul giardinetto sul retro e si
appoggiò
alla parete, guardando fuori.
Per qualche secondo restai impalata in mezzo alla stanza.
Mi sentivo stranamente intorpidita e al tempo stesso provavo una
specie di frenesia, un bisogno spasmodico di fare qualcosa, di agire.
Di tornare da Rosalie e darle una bella scrollata, o di raggiungere
Jacob e costringerlo a parlare con me, o di andare dritta a casa di
Charlie e riprendermi mia figlia. Qualunque cosa, pur di non sentirmi
più così inutile e impotente.
Mi sfilai nervosamente le scarpe e sedetti sul letto a
gambe incrociate. Per un po' osservai la sagoma di Edward nel buio,
poi, all'improvviso, non ressi più.
«Edward» esclamai. «Edward, ti prego, di'
qualcosa!»
«Cosa posso dire?» mormorò, continuando
a guardare fuori.
Quell'apatia era più preoccupante di tutto il resto messo
insieme.
«Qualunque cosa!» sbottai, e subito dopo mi pentii
di aver alzato la voce. Dovevo restare calma. Abbassai gli occhi e con
un dito presi a seguire il disegno del ricamo sul copriletto.
«Sei bellissima» mormorò all'improvviso.
La sua voce vellutata e malinconica sembrava appartenere
alla notte stessa, così buia che solo i miei occhi di
vampiro
erano in grado di cogliere i contorni del suo corpo. Sollevai la testa
e mi accorsi che mi stava fissando.
D'istinto mi alzai, lo raggiunsi e gli circondai il petto
con le braccia. Lui ricambiò la stretta e con la mano mi
accarezzò il viso. Era un po' rigido, teso, probabilmente
ancora
sovrappensiero. Il suo delizioso profumo si mischiava agli odori della
notte, del bosco, del nostro piccolo giardino, legno, erba, fiori,
terra, caprifoglio... Accostai il volto al suo e lo baciai. Un bacio a
timbro, casto e delicato, che divenne lentamente più deciso.
La
mia lingua percorse le sue labbra delineandone il contorno,
entrò nella sua bocca. Sentii un
brivido lungo la schiena, le gambe, le braccia, mi avvinghiai di
più al suo corpo e una mano salì a intrecciarsi
ai suoi
capelli, mentre con l'altra afferravo il colletto della sua camicia con
una mezza idea di strapparla via... Immaginai che le mani che
stringevano i miei fianchi mi spogliassero e accarezzassero ogni
centimetro del mio corpo, e mi sfuggì un gemito di desiderio
tra
le labbra dischiuse.
Poi Edward interruppe il bacio, allontanandosi appena, e
restò immobile. L'energia vibrante che c'era tra noi, che
aveva
percorso ed elettrizzato i nostri corpi, sembrò dissolversi
di
colpo, come fumo nel vento. Eravamo ancora allacciati contro la
parete, così vicini che l'uno poteva sentire il respiro
freddo
dell'altro sulla pelle.
«Vuoi fare l'amore?» mi chiese in un sussurro.
Non seppi cosa rispondere. Il desiderio ancora aleggiava dentro di me,
ma era solo una pallida eco.
«Tu vuoi farlo?» domandai a mia volta, esitante.
Lui rimase in silenzio, ma non occorreva che parlasse. Con
un sospiro gli poggiai la fronte sul mento, aspirando l'odore del suo
collo.
«Pensavo di andare a caccia» disse dopo qualche
minuto. «Ti va oppure... hai altri progetti per
stanotte?»
Una fitta d'ansia particolarmente acuta mi
colpì lo stomaco. «Veramente non lo so. Non ci ho
ancora
pensato» mormorai. La nostalgia di cui la mia voce era
intrisa era
così evidente da farmi sentire in imbarazzo.
«Capisco».
«Non sono abbastanza forte da rinunciare» sospirai.
Da giorni e giorni ormai mi dibattevo tra i dubbi: era
giusto o meno cedere a quella tentazione? Edward mi
accarezzò il
viso con una mano, poi mi costrinse a sollevarlo per potermi guardare
negli occhi.
«Ed io ho troppo da farmi perdonare. Qui Rosalie ha
ragione» rispose con tono triste.
Il suo dolore era talmente intenso che sembrò
risuonare dentro di me. Mi ci volle un minuto prima di riuscire a
parlare. «Da quando sei d'accordo con tua sorella?»
protestai,
cercando di apparire tranquilla e di rasserenarlo. Non
funzionò. Sorrise per un attimo, poi tornò serio
e cupo.
Forse una corsa nei boschi gli avrebbe fatto bene. «Vai a
caccia, allora» aggiunsi, desiderosa di cambiare
argomento. Poggiai le mani sul suo petto e studiai i suoi occhi scuri.
«Ne hai bisogno, non ci vai da più tempo di
me».
«E tu?»
«Io... non ho ancora deciso che cosa fare»
sussurrai, abbassando lo sguardo. «Metto un po' in ordine,
sbrigo
qualche faccenda... poi vedremo».
Pensai che si sarebbe opposto all'idea di separarci,
mentre giocava con una ciocca dei miei capelli, ma poi
lasciò
cadere la mano con un sospiro. «D'accordo, come vuoi. Torno
presto».
«A dopo, amore mio» risposi con voce appena udibile.
Si chinò per sfiorare ancora una volta le mie
labbra con le sue, mi baciò la fronte e in un lampo era
fuori
dalla finestra. Rimasta sola, lanciai un'occhiata alla sveglia sul
comodino, che non veniva mai programmata. Era troppo presto per...
mettere in atto altri progetti. Mi toccava aspettare un po', ma non
sarei stata con le mani in mano. Nelle ultime settimane avevo passato
così tanto tempo a fare le pulizie che il nostro piccolo
cottage
era lucido e spledente in ogni angolo, ma dovevo pur fare qualcosa o
sarei impazzita. Mi misi al lavoro.
Lavai due volte la cucina immacolata, lucidai ogni
specchio, ogni quadro e ogni fotografia, sbattei inutilmente i cuscini
del divano, cambiai le lenzuola del letto, spolverai dappertutto senza
scovare un solo granellino di polvere, trascorsi mezz'ora a lottare
contro una microscopica macchia sul tappeto del soggiorno, spostai i
mobili per modificare l'assetto della stanza seguendo un suggerimento
che mi aveva dato Esme, poi ci ripensai e li rimisi al loro posto.
Quando ebbi finito, restava soltanto la camera di
Renesmee. Per un po' rimasi impalata davanti alla porta chiusa, senza
sapere cosa fare. Non ci mettevo piede da quando le avevo preparato le
valigie, il giorno in cui se n'era andata. Probabilmente c'era bisogno
di una spolverata, ma non avevo ancora racimolato coraggio a
sufficienza per entrarci. Con uno sbuffo soffiai via dagli occhi una
ciocca di capelli in disordine, avanzai e aprii la porta con decisione.
La stanza era esattamente come l'avevo lasciata: il letto
freddo e intatto, i libri coperti da un dito di polvere, qualche
peluches e qualche giocattolo di quando era piccola, i vestiti che non
le avevo messo in valigia, i poster e le foto che tappezzavano le
pareti, un vecchio post-it con un appunto abbandonato sulla scrivania,
un rossetto dimenticato sul
tavolino da toeletta... Sentii un nodo alla gola mentre mi guardavo
intorno. Scattai verso la finestra e la spalancai perchè
entrasse un po' d'aria fresca.
Lì dentro lavorai più freneticamente che nel
resto della casa. Forse ero preda di una crisi ossessivo-compulsiva, ma
non riuscivo a fermarmi. Quando riemersi da sotto il letto, dove mi ero
infilata per acciuffare un elastico per capelli, controllai la stanza
percorrendola con lo sguardo e realizzai di aver finito. Era
così pulita e ordinata da sembrare il set di una
pubblicità di mobili. Era assolutamente perfetta. Mancava
solo
la sua proprietaria. Una perfetta e inutile camera vuota.
A quel punto crollai.
Di colpo mi sentivo esausta, debole e affranta.
Naturalmente non lo ero davvero, il mio corpo non aveva bisogno di
riposo, ma la mia mente era così provata da condizionare il
fisico. Mi trascinai fino alla poltroncina accanto al letto, mi sedetti
e mi
rannichiai, stringendo contro il viso l'elastico di Renesmee. Ne
aspirai il profumo, avida, desiderando disperatamente averla accanto a
me. La mia bambina. La mia piccola brontolona.
Cosa stavo facendo? Cosa avevo fatto fino a quel momento?
Era tutto inutile. Renesmee era andata via con il cuore a pezzi ed io
me ne stavo lì, in quella stanza vuota e fredda, senza poter
fare nulla. Non potevo neanche
piangere. Avrei voluto scoppiare in lacrime con tutta me stessa, ma non
ne ero capace.
Non so quanto tempo passai in quella condizione,
raggomitolata su me stessa, la mente annebbiata, oppressa dal
dolore, ma a un tratto sentii dei passi che si avvicinavano. Lentamente
riemersi da quello stato di trance, tornai alla realtà, e mi
accorsi che ormai era quasi l'alba; il cielo fuori dalla finestra
iniziava a tingersi di grigio e rosa e un uccello cantava nel giardino.
«Bella?» chiamò piano Edward, fermo
sulla porta. «Credevo... credevo fossi andata...»
Non terminò la frase. Mi sforzai di parlare. «Che
senso ha?» sussurrai, il viso chino sulle ginocchia.
Breve pausa. «Bella» ripetè, dolcemente,
questa volta. Attraversò la stanza e si
inginocchiò sul
pavimento, accanto a me. Posò un bacio sul dorso della mia
mano,
poi la strinse forte. «Da quanto
tempo sei qui dentro? Cos'è successo, perchè sei
rimasta
qui?»
«Che senso ha?» ripetei. Raddrizzai il capo e lo
guardai. I suoi occhi erano carichi di tristezza.
«Se ti fa star meglio, ha senso».
«Chi se ne importa di quello che fa stare meglio me? Nostra
figlia ci odia!»
Prima di rispondere mi fissò a lungo, in silenzio.
«No,
lei non è capace di odiare qualcuno»
mormorò.
Come sempre quando parlava di Renesmee, sembrava accarezzare ogni
parola. «Si sente tradita, ma la verità
è che ce l'ha soprattutto con se
stessa,
perchè crede di avere delle colpe. E non possiamo fare nulla
per
convincerla del contrario, deve arrivarci da sola».
«Ma non doveva andare così!» esplosi,
disperata, la voce rotta da singhiozzi che non potevano liberarsi in
alcun modo. Mi sembrava di soffocare. «Avremmo dovuto
proteggerla, io
avrei dovuto proteggerla!»
«Hai fatto del tuo meglio, Bella».
«Non è stato abbastanza! Ho sbagliato
tutto!». Scossi la testa, fissando il
letto di Renesmee. Quella stanza vuota simboleggiava il mio fallimento.
Sì, avevo fallito. «Rosalie ha ragione. Come ho
potuto
permettere che accadesse? Come ho potuto lasciare che l'imprinting si
mettesse tra noi e lei? Perchè non sono riuscita ad
affrontarlo e a dirglielo
prima? E perchè non ho
saputo trovare il modo di riportarla a casa?» proruppi,
disperata e
incapace di frenare le parole.
«Bella...» sussurrò Edward,
accarezzandomi i capelli con gesti sempre più ansiosi.
«Volevo essere una brava madre, lo desideravo con tutta me
stessa! E invece ho fallito!»
«Ehi!» esclamò con più forza.
Cercò di catturare il mio sguardo. «Cosa stai
dicendo?
Davvero pensi questo? Le mie colpe sono infinitamente più
gravi
delle tue, Bella. Credi che Renesmee avrebbe reagito diversamente se
non avesse saputo dell'imprinting e se avesse scoperto soltanto che suo
padre, suo padre,
ha cercato
di porre fine alla sua vita prima che nascesse?»
ringhiò,
furioso. «Ah, sì, Rosalie ha ragione, eccome se ne
ha. Quello
che hai fatto tu non è nulla in confronto a quello che io ho cercato di
fare».
«Ma non ti rendi conto che lei è come
te?»
sussurrai, colta all'improvviso da quella certezza. Avevo sempre
pensato che Renesmee somigliasse molto a suo padre, nell'aspetto come
nel
carattere, ma non avevo mai compreso davvero fino a che punto. Edward
restò impassibile, mentre gli sfioravo piano con le dita il
contorno della fronte. «Tu ti tormenti nei sensi di colpa da
un
secolo, per un motivo o per un altro... E Renesmee fa la stessa cosa:
si è convinta di avere delle responsabilità in
tutto
questo, quando invece è l'unica persona a non averne...
Non riuscirà mai a liberarsi dal senso di colpa».
Tacqui un
istante. «L'abbiamo persa» farfugliai con voce
spezzata.
«No, non è vero!»
«Se n'è andata, Edward!»
«Non l'abbiamo persa!». Mi afferrò il
mento,
costringendomi a guardarlo dritto negli occhi. Era determinato come non
lo vedevo da settimane, e fu questo, forse, più di qualunque
altra cosa, a restituirmi un briciolo di
speranza. «Ha bisogno di tempo per accettare tutto questo, ma
tornerà. Devi avere fiducia in lei».
Quanto avrei desiderato poter credere con tutta me stessa
alle sue parole, ma il dubbio strisciava dentro di me, annientava le
mie certezze, mi sfidava ad arrendermi. Eppure dovevo tenere duro. Era
l'unica cosa che
potevo fare per mia figlia, adesso.
«Lo spero tanto» mormorai.
Poggiai la fronte sulle nostre mani intrecciate, esausta,
e lui si strinse a me, affondando il viso tra i miei capelli.
Fuori sorgeva un nuovo giorno.
Note.
1. Link.
2. Il
GGG (Il Grande Gigante Gentile) è un libro per
bambini dello scrittore inglese Roal Dahl. Protagonista è un
gigante che terrorizza i bambini di un orfanatrofio e che poi si rivela
essere buono e gentile, addirittura impegnato a combattere i giganti
cattivi che si nutrono di bambini, mentre lui è vegetariano.
È una storia bellissima, adoro Roal Dahl. E penso che il
significato della battuta di Alice sia chiaro ;-).
Spazio autrice.
Salve! Allora, so che questo è un capitolo di passaggio e
spero di non avervi annoiato, ma a mio avviso questa incursione nella
mente di Bella poteva essere interessante per comprendere meglio il
punto di vista suo, di Edward e degli altri in questa faccenda, i loro
pensieri, le loro motivazioni, le loro opinioni. E ho pensato che forse
qualcuno di voi si stava chiedendo cosa succede nel frattempo in casa
Cullen. Insomma, mi auguro che sia stato interessante comunque, almeno
un pochino.
Adesso un paio di comunicazioni. Innanzitutto, vi avviso che la fine si
avvicina, perchè mancano ancora tre capitoli. Forse vi
sembreranno pochi per concludere la storia, ma non era nelle mie
intenzioni che fosse troppo lunga. Non rimarranno grossi punti in
sospeso, tutto sarà chiarito, però vi anticipo
che ci sarà un sequel. Quindi, se non proprio tutte le
domande dovessero trovare una risposta completa, sappiate che la storia
continua ;-). Comunque ne riparlerò più avanti e
vi darò informazioni più precise.
Grazie per l'attenzione e scusate se l'ho fatta tanto lunga, a presto!
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Capitolo 21 *** Fix you ***
C 21
Capitolo
21
Fix you
When you
try your best but don't succeed
When you get what you want but not what you need
When you feel so tired but you can't sleep
Stuck in reverse
And the tears come streaming down your face
When you lose something you can't replace
When you love someone but it goes to waste
Could it be worse?
Lights will guide you home
And ignite your bones
And I will try to fix you.
Fix you, Coldplay¹
La vita, con tutti i suoi dolori e le sue tristezze, con tutti i suoi
contrattempi e le sfide che reca in sè, resta sempre
una faccenda meravigliosa. Provare qualcosa, nel bene o nel male,
è sempre meglio che non provare niente.
Sergio Bambarén, Il
guardiano del faro
«Alex, ti
dispiacerebbe smettere di giocare e deciderti a
darmi una mano?» sbottai, profondamente seccata ed esasperata.
Alex sobbalzò ed
una
delle due penne che si stava divertendo a lanciare e a riprendere al
volo contemporaneamente cadde a terra, quasi subito seguita dalla
seconda. Ci fu un secondo di silenzio, mentre lui mi fissava con occhi
stretti, poi mi sfuggì una risata.
«Però...
che campione! Potresti partecipare alle Olimpiadi del lancio delle
penne».
«È colpa
tua, sei tu che mi hai fatto perdere la concentrazione»
protestò, indignato.
«In teoria saresti
qui per aiutarmi» gli feci notare con un'occhiata eloquente.
«Ti sto aiutando,
infatti».
«Ah,
davvero? E
come, di grazia? Siamo qui da un'ora e sono a quota dieci canzoni: me
ne servono almeno tre volte tanto. In cosa consisterebbe il
tuo aiuto?»
Alex mi guardò
in silenzio, la fronte e le labbra corrugate, come se non riuscisse a
credere che io fossi così irritante. «Sei
insopportabile,
Scheggia. Lo sai, vero?»
Sbuffai, passandomi le mani
tra i capelli, e mi sistemai
più comodamente sui cuscini del mio letto, dove me ne stavo
seduta con il computer portatile sulle ginocchia e un block notes
accanto; ero ferma nella stessa posizione da tanto di quel tempo che mi
formicolavano le gambe.
«E tu sei la persona
più immatura ed inutile dell'universo,
lo sai, vero? La festa di Holly è questo venerdì,
mancano
solo tre giorni, sono in alto mare con la playlist della serata, non
ho ancora deciso che cosa mettermi e Jas mi sta dando il tormento
perchè non riesce a cotonarsi i capelli come vorrebbe e
abbiamo
fatto tante di quelle prove che credo di avere un'intossicazione da
lacca per capelli» sbottai. «Come
se tutto questo non bastasse, Tom viene a lamentarsi da me almeno un
paio di volte al giorno, perchè Jas vuole a tutti i costi
che
si vesta come John Travolta in "Grease", così i
loro abiti
saranno perfettamente coordinati. Ti rendi conto?»
Lui sorrise, uno di quei suoi
sorrisini sardonici e
maliziosi, lo sguardo affilato. «Sai, Scheggia, adoro questo
tono da maestrina. Mi eccita» disse, incrociando le braccia.
«Alex. Non
è il momento» sibilai, stizzita.
Eravamo nella mia
camera con la porta socchiusa. Sue era al piano di
sotto, Charlie sarebbe tornato da un momento all'altro e lui lo sapeva
benissimo. Ma se la spassava troppo a prendermi in giro in quel modo.
«Non
smettere di arrossire, ti prego. Non c'è niente che riesca a
stuzzicarmi più di due guance rosso fuoco».
Alzai gli occhi al cielo.
«Okay. Farò finta che tu
non sia qui». Afferrai penna e block notes con
determinazione, senza degnarlo di un'altra occhiata.
Lo sentii sospirare, poi si
alzò dalla sedia accanto alla scrivania e mi raggiunse sul
letto.
«E va bene... La
situazione deve essere davvero
drammatica se non riesci a distrarti neanche per rispondermi a tono.
Dai,
spara».
Ero
sollevata, ma mantenni un'espressione neutra per non darlo a vedere;
era fin troppo veloce nel montarsi la testa. Scorsi la lista di titoli
che avevo trascritto, piena di correzioni, scarabocchi e
disegnini. Ero seriamente preoccupata di scegliere le canzoni
più brutte della storia e rovinare il compleanno della mia
amica. «Allora... Cominciamo con Rock around the clock
di
Bill Haley: veloce, bella e conosciuta, piacerà senz'altro.
Tutti
Frutti, Little Richard: ritmo fantastico. Crazy moon crazy,
direi che
non è male. Poi Elvis,
Jailhouse
rock. Penso che con
Elvis andiamo sul sicuro, sei d'accordo? Metterei
anche Only you
dei Platters... Io non la sopporto, ma è un
classico e non può mancare». Alex fece una smorfia
e intuii
che concordava in pieno. «E poi ho appena ascoltato Summertime, Ella
Fitzgerald e Louis Armstrong: secondo me sarebbe perfetta per il
momento della torta».
Alex annuì, pensieroso, incrociando di nuovo le
braccia. «Be', è una buona base. Io ci metterei
ancora un po'
di Elvis. Cerca Blue
moon of Kentucky e That's
alright (Mama)».
Mentre parlava, aggiunsi i titoli alla mia lista, contenta di avere
altre opzioni. «I suoi due primi successi, sono sicuro che ad
Holly
piaceranno. Ah, aggiungi anche Heartbreak
Hotel. E poi, vediamo...
vediamo...». Riflettendo, si portò un dito alla
bocca,
picchiettando leggermente il labbro inferiore, ed io lo osservai come
ipnotizzata. Quando un gesto tanto banale riesce ad incantarti, allora
capisci che sei completamente andata.
«Però...
sei ferrato sull'argomento» mormorai, costringendomi a
smettere
di fissarlo per annotare gli ultimi titoli. «Ritiro
tutto quello che ho detto sulla tua presunta
inutilità».
«Mio
padre adorava la musica degli anni Cinquanta,
soprattutto gli esordi di Elvis. Sono praticamente cresciuto con queste
canzoni. Aggiungi anche I
only have eyes for you dei
Flamingos, 1959: un altro grande classico. E poi... ah, questa non
può mancare: Can't
help falling in love, Elvis, 1962... Finiamo
un po' nei Sessanta, è vero, però è
bellissima».
«Mi
sembra di conoscerla».
Lui sorrise.
«Be', sarebbe una grave mancanza se non la conoscessi, signorina Perfettina».
Allungò
una mano sulla tastiera del computer,
digitò il titolo nella casella di ricerca, cliccò
sul
primo risultato e dopo qualche secondo la canzone iniziò.
Ah, era quella.
Fu come ricevere un pugno allo stomaco. Certo che la conoscevo, la
conoscevo benissimo. L'avevo ascoltata chissà quante volte,
da
bambina, quando papà tirava fuori i vecchi dischi in vinile
della sua collezione, faceva partire il giradischi, afferrava la mano
della mamma e se la tirava dietro, costringendola a ballare nel nostro
piccolo salotto, incurante delle sue proteste e dei suoi sbuffi. Io li
guardavo seduta sul divano, incantata e divertita. E poi
toccava a me: a un certo punto papà lasciava la sua
scontrosa e
poco collaborativa ballerina con un bacio sulla bocca, mi sollevava tra
le braccia e iniziavamo a volteggiare per la stanza, all'inizio
velocissimi, poi sempre più lenti; io strillavo e ridevo,
felice, poggiavo la testa sulla sua spalla e lo ascoltavo cantare
sottovoce...
«Scheggia?
Scheggia... ? Ehi, Bell'Addormentata!»
Tornai di colpo
al presente. La canzone era
finita e con la sua ultima nota anche i miei ricordi scivolarono via.
«Uhm... ? Sì, Alex, dimmi».
«Allora, ti piace?». Mi guardava con aria alquanto
divertita.
«È bellissima. Ti ringrazio». Gli
sorrisi,
felice di non trovarmi da sola in quel momento; ricordare era sempre
doloroso, ma la sua vicinanza riusciva a farmi stare meglio.
«Posso suggerire un ringraziamento adeguato?»
Mi accarezzò il viso con la mano, poi si sporse verso di me
e mi
baciò. Sentii all'istante un fremito che dal punto esatto in
cui
i nostri
corpi si toccavano si espandeva sull'intera superficie della mia pelle.
Era una sensazione incredibile. All'inizio avevo creduto che dopo i
primi baci, una volta scemata l'emozione violenta della
novità,
sarebbe svanita, e invece sembrava farsi sempre più intensa.
Poggiò un ginocchio sul letto, girandosi completamente verso
di
me, e la sua presa sul mio viso si fece più forte. Mi spinse
piano all'indietro, sui cuscini del letto, e sentii la sua
lingua
insinuarsi tra le mie labbra, aprirle
delicatamente, esplorando,
cercando la mia, sfiorandone la punta... Ero così presa,
così concentrata su quello che stava facendo, che forse
neanche un terremoto avrebbe potuto distrarmi. Tuttavia il mio
subconscio doveva essere all'erta, consapevole del fatto che potevamo
rilassarci solo fino a un certo punto, perchè a un tratto
udii
sbattere la porta di casa.
«Alex... ehm... credo... Forse sarebbe meglio...»
balbettai, tirandomi un po' indietro per riuscire a parlare.
Lui spostò la bocca sul mio collo e sbuffò. Il
suo fiato
caldo sulla pelle mi provocò un piccolo brivido.
«E dai,
Scheggia... Lasciati andare» borbottò.
«È tornato mio nonno».
Si bloccò all'istante. Subito schizzò
all'indietro e si
catapultò nuovamente sulla sedia, con una
rapidità tale
da strapparmi una risata. Sistemai un po' i capelli con le mani,
sperando di avere un aspetto innocente, quando sentii dei passi sulle
scale e la porta si aprì. Appena in tempo!
«Ciao!» esclamai con un gran sorriso.
«Ehi, Ness» salutò Charlie, ricambiando
il sorriso. Poi
vide Alex e tornò serio di colpo. «Ciao»
borbottò.
«Buonasera, signore» rispose lui, perfettamente
tranquillo
e
disinvolto, come se fino a un attimo prima non fosse stato sul letto
insieme a me, molto impegnato a baciarmi con la lingua. Sentii il viso
ardere come se fossi stata su una graticola e Charlie scelse il momento
perfetto
per indagare sulle nostra attività.
«Che state facendo?»
Dovetti sforzarmi di
non scoppiare
a ridere come una matta. «Scegliamo la musica per la festa di
Holly.
È questo venerdì, ricordi?»
Lui annì. «Ah, sì. Come sta
andando?»
«Ce la caviamo. Il tema sono gli anni Cinquanta, quindi
dobbiamo
scegliere solo canzoni di quel periodo. Hai qualche
suggerimento?»
Charlie fece un sorrisetto. «Spiacente, signorina, sono nato
nel 1964. E comunque non sono un esperto di musica».
Ridacchiai anch'io. Il nonno non aveva chissà quale grande
senso
dell'umorismo, ma con me era sempre pronto a scherzare. Una volta Sue
mi aveva detto che da quando ero nata io le sembrava ringiovanito di
anni.
«Ti dispiace scendere di sotto? C'è una cosa per
te» aggiunse.
«Davvero? Cos'è?»
«Una sorpresa. Scendi e lo vedrai». Mi fece
l'occhiolino e uscì.
Incuriosita, mi alzai e passai il computer ad Alex. «Continua
a cercare, torno subito».
Prima che mi allontanassi, lui mi trattenne per la mano, mi
tirò
verso di sé e mi diede un altro bacio, rapidissimo, ma
sufficiente a
farmi girare la testa. Scesi le scale saltellando e in soggiorno trovai
Charlie e Sue ad aspettarmi. Sul tavolino c'era una scatola di seta
nera decorata da un nastro, di dimensioni piuttosto grandi. Sotto il
nastro era infilato un cartoncino bianco che sopra recava il mio nome.
Riconobbi subito la calligrafia: era quella di zia Rosalie.
«Eccoti qui» disse Charlie, sorridendo.
Mi fermai accanto al tavolino, fissando la scatola senza toccarla.
«È questa la sopresa?»
«Sì. Vedi, stamattina ho parlato al telefono con
tua madre
e... mi è sembrata molto giù di morale»
raccontò. Guardava la scatola con aria grave e
compunta, come se contenesse chissà quale grande segreto.
«Così dopo il lavoro sono passato a trovarla e
abbiamo parlato un po'... del più e del meno. Mentre stavo
andando
via, Rosalie mi ha visto, è
uscita di casa e mi ha fermato per chiedermi di portarti questa.
Sembrava
importante, per lei, e quando mi ha detto di cosa si trattava...
Insomma, sono sicuro che ti piacerà. Su, aprila».
Con gesti lenti e incerti, sollevai il coperchio della scatola. Zia
Rose mi aveva mandato un regalo? Non le rivolgevo la parola da
più di un mese e lei mi mandava un regalo? Scostai con
cautela
due fogli di carta velina e, dopo un attimo di perplessità,
tirai fuori il contenuto: un abito di seta color grigio acciaio, lungo
fino al
ginocchio e senza spalline, la gonna elegantemente drappeggiata
sul davanti; era accompagnato da lunghi guanti neri, scarpe nere con il
tacco alto, una borsetta e una stola di chiffon grigio. In una
scatolina, anch'essa rivestita di seta nera, c'erano una collana e due
orecchini di perle. Ero stupita.
Accarezzai il tessuto dell'abito, incantata dai suoi riflessi, e tra le
pieghe notai un altro cartoncino. Lo presi e lessi in silenzio.
Indossavo questo vestito una sera di maggio del 1954. Ero a Nizza, con
Emmett, per la nostra prima luna di miele. Trascorremmo una notte
intera passeggiando sulla Promenade
des Anglais, il lungomare, ballando
al suono della musica che usciva dai bistrot.
Fu la notte più bella della mia esistenza. Spero che questo
abito ti porti un po' di quella magia. È tuo, in caso ti
serva.
Ti voglio bene.
Rosalie
«Nei giorni scorsi ho accennato
a tua madre della festa a tema anni Cinquanta, e lei ne ha parlato a
Rosalie» proseguì Charlie. Io lo ascoltavo a
malapena. «E
tua zia mi ha detto che se non sapevi cosa indossare avresti potuto
mettere questo. L'ha comprato in uno
di quei negozi di vestiti vecchi».
«Vintage»
lo corresse Sue con un sorriso divertito.
Il nonno alzò le spalle. «Sì,
quelli» mormorò, imbarazzato.
Io rimasi in silenzio, stringendo il cartoncino tra le dita. Sentivo un
grosso nodo in gola, un misto di nostalgia e senso di colpa, il
bizzarro desiderio di sorridere e piangere contemporaneamente. Ed ero
in preda ad una terribile confusione.
«È bellissimo, vero, Renesmee?» disse
Sue, rompendo il
silenzio. «Bisognerà accorciarlo e stringerlo un
po', ma
posso occuparmene io. Ti starà una favola, vedrai».
«Dovresti
chiamare
Rosalie e ringraziarla» aggiunse Charlie a mezza voce,
lanciandomi un'occhiata fugace.
«Certo, certo» borbottai, sebbene non avessi
affatto deciso che
cosa fare. Rimisi tutto nella scatola e tornai di sopra. «Ho
risolto
il problema di cosa indossare alla festa» annunciai ad Alex
entrando
nella mia stanza.
«Fantastico» commentò distrattamente.
Era incollato al
computer e sembrava molto preso dalla sua ricerca, ma quando gli
mostrai il vestito sgranò gli occhi. «Cosa
dovrò mettermi per essere alla tua altezza,
venerdì?»
esclamò, prendendo in mano un lungo guanto nero.
«Ottima domanda. Ti consiglio di lavorarci seriamente. Se non
sarai abbastanza elegante, potrei sempre sostituirti con un altro
cavaliere».
Infilai la scatola
con tutto
il suo contenuto nell'armadio e cercai di non pensarci. Ero confusa,
non avevo idea di come interpretare il gesto di Rosalie. Potevo solo
immaginare a quali preziosi ricordi fosse legato quel vestito: darlo a
me significava, per lei, darmi una parte di se stessa.
Perchè
l'aveva fatto? Conoscevo i suoi difetti e il suo carattere difficile,
ma ero anche a conoscenza di quale profondo affetto provasse
nei miei confronti. E ora che sapevo anche cosa aveva fatto per
proteggermi... No, non potevo restare indifferente a questo. Una
parte di me era ancora arrabbiata con lei, come con tutti gli altri,
per avermi nascosto l'imprinting, eppure in quelle settimane avevo
imparato che l'affetto autentico sopravvive a tutto, anche alla rabbia
e al dolore; e il suo amore per me sembrava non essere minimamente
mutato dal giorno in cui me n'ero andata.
Quella sera cenai a
casa di Alex
con lui, Julie e Phoebe, poi tutti e quattro insieme giocammo a
Scrabble², il gioco da tavolo
preferito di Phoebe. Era così brava da riuscire a metterci
tutti
in difficoltà, mentre Alex insisteva nell'inventare parole
senza
senso e cercava di convincerci della loro esistenza, scatenando risate
a non finire. Più tardi Phoebe e Julie andarono a
letto ed
io e Alex facemmo un paio di partite a backgammon³, mentre
parlavamo
della festa di venerdì. Verso le undici mi
riaccompagnò a
casa.
Nella mia stanza, mi cambiai e mi preparai per la notte con gesti
meccanici, i pensieri fissi sulla scatola nera chiusa nell'armadio,
chiedendomi e richiedendomi cosa avrei dovuto fare. Il gesto di Rosalie
sembrava aver creato un varco nel muro che avevo accuratamente messo in
piedi tra loro e me, tra la mia vecchia vita e quella attuale,
e ora temevo che crollasse da un momento all'altro e mi
costringesse
a un passo decisivo, un passo per il quale forse non ero pronta.
Quando ebbi finito,
ripresi la
scatola e la portai sul letto per
esaminare meglio il contenuto. Ero sveglissima e decisa a restarlo il
più a lungo possibile. Da quando avevo sentito quella scia
nella mia stanza, la mattina successiva alla
visita di Seth, ogni
notte cercavo di restare in piedi il più a lungo possibile
per
verificare i miei sospetti. Di solito resistevo più o meno
fino
all'una del mattino, poi crollavo. E avendo il sonno pesante, non c'era
speranza di essere svegliata da un rumore... soprattutto se la
persona
che entrava nella mia stanza era ben attenta a non produrre il minimo
scricchiolio. Neanche studiare, leggere un libro o la nostalgia di
Jacob, che a volte mi ricordava la mancanza d'aria nei polmoni, mi
tenevano
sveglia più di tanto. Ero pur sempre una mezza umana.
Stesi il vestito sul copriletto e lo ammirai a lungo. Senz'altro aveva
un valore notevole, ed era perfetto per l'occasione, come tutti gli
accessori. Provai i guanti neri e le scarpe scintillanti di vernice,
accostai le perle al viso davanti allo specchio per
osservare l'effetto. Mentre mi chiedevo come avrei sistemato i capelli,
presi la borsetta, piccola e rivestita di seta grigia, e feci
scattare il fermaglio di brillanti che ne bloccava la chiusura,
studiandone i riflessi luminosi. La borsetta si aprì e
qualcosa
di bianco scivolò fuori. Era una semplice busta da lettera
chiusa. Perplessa, la aprii velocemente. Conteneva un'altra busta
chiusa, un po' più piccola, e un bigliettino, sul quale
ancora
una volta riconobbi la calligrafia di Rosalie.
Un messaggio segreto nella borsetta? Ma cos'era, un film di spionaggio?
Lessi il cartoncino.
L'altra
busta contiene
una lettera che fu scritta per te sei anni fa. I tuoi genitori non
sanno che te l'ho mandata: sono entrata in casa vostra mentre erano a
caccia e l'ho presa. E non ci vediamo da qualche giorno,
quindi tuo padre ha potuto ascoltare i miei pensieri.
Non sono sicura che sia la cosa giusta da fare. Una parte di me teme di
peggiorare la situazione, ma forse non può andare peggio di
così.
Non l'ho letta e non ne conosco il contenuto, ma spero che possa
esserti di aiuto.
Lessi e rilessi il
biglietto varie
volte, in silenzio, con la continua sensazione che mi sfuggisse
qualcosa. Una lettera per me? Presi l'altra busta e vi gettai
un'occhiata. Sul retro qualcuno aveva scritto il mio nome con una
grafia piuttosto sgraziata. No, non qualcuno.
La mamma. Era la sua scrittura, quella. Sempre più confusa,
con
le mani tremanti e la testa affollata di domande, aprii la busta e ne
estrassi due fogli vergati a mano. Trovai il primo rigo e iniziai a
leggere.
30 dicembre 2006
Mia
piccola Renesmee,
mentre
scrivo sono seduta nella tua cameretta e ti guardo dormire.
È una delle cose che amo di più al mondo,
osservarti
mentre ti perdi nel mondo dei sogni. Mi piacerebbe perdermi con te, ma
non posso più farlo. Allora sogna anche per me, bambina mia.
Me
ne sto qui già da un bel po' di tempo. Quando ho preso in
mano carta e penna non avevo idea di cosa scrivere e speravo che tu
stessa potessi essere un'ispirazione, che il tuo incantevole visino
addormentato mi suggerisse le parole giuste.
Sono giorni che penso e ripenso al contenuto di questa lettera, che la
scrivo nella mia mente, per poi cancellarla e riscriverla daccapo.
Tutto mi sembra stupido, inutile, sbagliato. Ma ora credo di aver
finalmente capito che non esistono le parole giuste per dire addio a
tua figlia, perchè una cosa simile non dovrebbe mai accadere.
Nessun
genitore dovrebbe mai lasciare il proprio figlio. Ma noi non
abbiamo scelta: è l'unico modo per salvarti. A volte l'amore
ci
costringe a prendere decisioni tremende, ma se ci tirassimo indietro
per paura non sarebbe vero amore, il nostro. Quando sarai grande e
amerai qualcuno con tutte le tue forze, che sia un compagno di vita, un
figlio o un amico, capirai fino in fondo il significato di queste
parole. Le paure vanno affrontate, Renesmee. Nascondersi non serve, ci
rende soltanto più deboli; e prima o poi arriva il giorno in
cui
ci rendiamo conto che abbiamo permesso alla paura di dominare la nostra
vita, di toglierci il libero arbitrio, di portarci via
chissà
quante cose, belle e brutte.
Vorrei tanto vederti crescere e diventare donna. Scoprire i tuoi gusti
in fatto di libri, film e musica; chissà se saranno almeno
un
po' simili ai miei. Mi piacerebbe scoprire se il tuo carattere
somiglierà di più al mio o a quello di tuo padre.
Chissà se ti ho trasmesso la mia allergia allo shopping o se
Alice ti ha già irrimediabilmente plagiata. Vorrei esserci
al
tuo prima compleanno, il tuo primo giorno di scuola, quando darai il
tuo primo bacio, quando imparerai a guidare la macchina, quando
camminerai verso l'altare.
Non sai quanto vorrei poterti stare vicino giorno dopo
giorno, come
ogni madre dovrebbe fare. Ma non potrò esserci. Ancora poche
ore e dovrò lasciare tutto ciò che amo, te per
prima.
Non possiamo farcela. Stavolta il destino non è
dalla
nostra parte. È per questo che ti scrivo, Renesmee.
Affinchè un giorno, quando ti sembrerà di essere
sola,
quando sarai triste o in difficoltà e sentirai di aver
bisogno
di noi, tu possa ricordare quanto è grande il nostro amore
per
te e questo ti sia di aiuto. Non importa se fisicamente non
saremo più al tuo fianco. Le persone che ci hanno amato non
ci
lasciano mai veramente. Vivono dentro di noi, mia piccola brontolona.
È così che ti chiamavo quando eri ancora dentro
di me,
sai? La mia piccola brontolona.
I giorni passati ad aspettare te sono stati i più
incredibili, i
più difficili e i più belli della mia vita.
Voglio che tu sappia che
rifarei tutto daccapo, altre dieci, cento, mille volte. Tu hai dato un
senso a tutto, Renesmee, quando sembrava che niente fosse
più
destinato ad averne. Io, tuo padre e Jacob ci eravamo cacciati in un
bel guaio. Non ho il coraggio di raccontarti nel dettaglio come sono
andate le cose. Per questo conto su Jake. Ma eravamo nel caos,
intrappolati in un tunnel buio senza riuscire a scorgerne la fine.
Eravamo a pezzi. Soprattutto Jacob. Non puoi immaginare quanto male gli
ho fatto. Poi sei arrivata tu, come una stella che illumina il buio di
mezzanotte, e tutto è andato magicamente a posto. Finalmente
abbiamo un equilibrio, anche se non sopravviverà a lungo.
Le sole due cose a darmi la forza di tenere la penna in mano, in questo
momento, sono il pensiero che tu sopravviverai e che Jacob
sarà
con te. Conta su di lui, per qualsiasi cosa: per aiuto, affetto,
consolazione. Lui sarà per te tutto quello che saremmo stati
tuo
padre ed io, e anche di più, se un giorno vorrai che sia
così.
Fa' le tue scelte senza timore, ma con gli occhi ben
aperti, e non potrai sbagliare.
L'amore può essere complicato, a
volte, ma una vita senza amore non è vita.
Il destino fa paura,
ma affrontalo a testa alta e non lasciare che ti domini: ricorda che
tu puoi scegliere, sempre.
Impara il valore del perdono: può dare grande gioia.
Saper
aspettare è importante, ma il tempo lo è di
più,
anche quando vivi per sempre: non sprecarlo mai.
Se un giorno ti sarà possibile, cerca di stare vicino a
Charlie,
in qualunque modo, e di dargli tutto l'affetto che avrebbe meritato di
ricevere da me per il resto della sua vita. E vorrei che un giorno
tu vedessi Renee, una volta soltanto, e da lontano, in silenzio, le
dicessi addio da parte mia.
Ho ancora così tante cose da dirti, e così
poco tempo. Vorrei disperatamente non essere costretta a lasciarti, ma
non c'è altro modo, non c'è altro modo, se voglio
che tu
viva. Posso solo prometterti che ovunque saremo, qualunque cosa ci sia
dopo la morte, io e tuo padre continueremo ad amarti e a starti vicino
con i nostri cuori e le nostre menti. E quando ti capiterà
di
sentirti sola, triste o confusa, quando vorresti averci al tuo fianco,
fa' un respiro profondo, chiudi gli occhi e ascolta dentro di te,
ascolta
con attenzione: noi saremo lì.
Con amore, mamma
****
«Sei pensierosa,
stasera. Qualcosa non va?»
La voce di Alex mi riscosse e mi resi conto di essermi completamente
estraniata dalla realtà. Di nuovo. Lanciai un'occhiata
tutt'intorno, confusa. Eravamo nella sua auto, era buio e ci stavamo
dirigendo verso casa mia. Da quanto tempo ero distratta? Andava avanti
così dall'inizio della serata. Anzi, da tre giorni, ormai.
Da
quando avevo letto la lettera.
«Ehm... No, tutto bene» risposi, cercando di
apparire
disivolta. «È solo che... è stata una
serata
intensa».
La festa di compleanno di Holly era stata
indimenticabile, proprio come aveva desiderato lei. Alcuni ospiti, tra
cui Alex e
Jas, avevano portato bottiglie di vino, birra e qualche liquore,
sgraffignate in modi più o meno illegali, e la baldoria si
era
fatta particolarmente sfrenata, grazie anche all'opportuna assenza dei
genitori di Holly, partiti per un week end in campagna. Un bel po' di
gente si
era data alla pazza gioia; mentre Holly improvvisava una lap dance sul
tavolo della cucina, con Paul che tentava senza successo di
costringerla a scendere, Tom e Jas si erano esibiti in una versione un
po' stonata di You're
the one that I want e qualcuno aveva fatto un video della
loro performance che dopo mezz'ora era già su Internet.
Prima di andarmene ero
riuscita a trascinare Holly in camera sua e a metterla a letto con
l'aiuto di Maggie e Danielle. Poi insieme ad Alex avevo accompagnato a
casa Jas, che per tutto il tempo si era divertita a fare l'idiota:
aveva cercato di improvvisare uno spogliarello in macchina, cantato a
squarciagola I will
always love you,
lanciato una scarpa col tacco contro il parabrezza (per fortuna senza
gravi conseguenze), aveva quasi strangolato Alex dal sedile posteriore
con la tracolla della sua borsetta e infine aveva cercato di uscire
dall'auto attraverso il finestrino. Giunti a casa sua, avevamo aperto
la porta con le sue chiavi ed eravamo riusciti a portarla di sopra
senza troppi incidenti, inciampando solo un paio di volte nei tappeti.
Appena raggiunto il letto, Jas era crollata.
«Personalmente non ho ancora deciso quale sia stato il
momento
migliore... Tom che vagava in giardino "in cerca del suo dinosauro"
o Jas che stava per bussare alla porta della stanza da letto dei
suoi» disse Alex, divertito. «Impossibile
scegliere».
«Eh già» commentai. «Io
voterei per Jas; stava per farmi venire un infarto».
«Dai, Scheggia, qualche brivido rende la vita più
gustosa».
«Direi che ne abbiamo avuti a sufficienza per un bel
po'».
Cercavo di apparire serena, ma suonavo falsa anche a me stessa. Di
sicuro non lo stavo ingannando. Mi accorsi che mi fissava, ed io
guardavo a mia volta fuori dal finestrino, per non dover incontrare i
suoi occhi.
«Lo stai rifacendo» mi informò
all'improvviso.
«Che cosa?»
«Ti stai isolando».
Merda. «Scusa, è che... sono preoccupata per gli
esami»
buttai lì, sperando di prendere tempo. Non avevo la minima
idea
di cosa dirgli.
Tacque un istante. «Okay» rispose, e capii subito
che non potevo fargliela.
Sospirai mentre l'auto si fermava davanti a casa di Charlie.
«E va bene, hai ragione. Qualcosa c'è».
«Non devi dirmelo per forza, Renesmee».
«No, voglio dirtelo, davvero. Ma a volte è
difficile parlare di certe cose».
Fece un mezzo sorriso, un lampo di denti bianchi e regolari.
«Lo so».
Ci fu una lunga pausa. Lui aspettava, io cercavo disperatamente le
parole giuste. «Forse dovrei tornare» dissi infine.
«A casa tua?» chiese. Non lo avevo colto di
sorpresa, allora.
Conosceva il mio problema e i miei pensieri, per quanto solo
parzialmente, ma soprattutto conosceva me. E mi capiva, come poche
altre persone al mondo. Annuii. «Dovresti o
vorresti?»
«Entrambe le cose, credo. Il fatto è che...
è passato
più di un mese. Io sono andata via perchè avevo
bisogno
di tempo per calmarmi, per pensare e schiarirmi le idee, e adesso...
adesso mi sembra senza senso continuare a nascondermi.
Perchè
è questo che sto facendo: mi nascondo dalla
verità. Ma
non è possibile sfuggirle».
«Be', allora torna dalla tua famiglia. Tu hai la fortuna di
poterlo fare».
«Ho paura» confessai a bassa voce.
«Di cosa?»
Serrai le labbra, sentendo l'angoscia stringermi la gola.
«Sarà tutto diverso, Alex. Le cose non potranno
mai
più tornare come prima. E se fosse troppo difficile? E se
non
riuscissimo a superarlo?»
«Non lo saprai mai se non ci provi» rispose con
semplicità.
Non commentai in nessun modo, ma dentro di me sapevo che aveva ragione.
Restammo nuovamente in silenzio per qualche minuto. Io riflettevo,
cercavo di immaginare, decidevo, ci ripensavo. A un tratto mi venne in
mente una cosa.
«Ricordi
quello che ti ho detto
quando ci eravamo appena conosciuti, la prima volta che abbiamo
pranzato insieme? Parlavamo delle nostre vite ed io ti ho detto che la
mia era perfetta. E invece mi sbagliavo». Che strano
ripensare a
quella giornata dopo tanto tempo; quel ricordo portava con
sé un miscuglio di rimpianto,
gioia e amarezza. «Nel mio mondo perfetto si sono aperte
delle
crepe. So che era soltanto un'illusione, però... mi rendeva
felice. E vorrei poterci credere ancora».
«E tu ricordi cosa ti ho detto io?»
ribattè con aria
decisa, l'espressione intensa. Non risposi, ma lo ricordavo benissimo:
aveva messo in dubbio le mie certezze, sostenendo tranquillamente che
le cose troppo perfette non durano mai. Allora avevo creduto che si
sbagliasse. Adesso, invece, non potevo che riconoscere la semplice,
banale, ma assoluta verità delle sue parole, e biasimare la
mia
ingenuità. «La vita perfetta non esiste, Renesmee,
semplicemente perchè le
persone
non lo sono. Anzi, sbagliano di continuo e combinano dei gran casini.
Guarda me,
sono un casino vivente». Ammiccò nella mia
direzione. «Io... non
sono uno che perdona con facilità. È uno dei miei
peggiori difetti. Però credo che adesso
predicherò bene e
razzolerò male e ti dirò che a volte bisogna
perdonare. È l'unico modo per andare avanti. E prima o poi
la
felicità si ritrova» concluse, serio
e dolce al tempo stesso, un sorriso tenue sulle labbra.
Lo avevo ascoltato attentamente. Lasciai andare la testa all'indietro,
appoggiandomi al sedile dell'auto,
sentendola pesante e dolorante. Ero molto stanca. «Non eri un
pessimista cronico, tu?» domandai scherzosamente, aggrottando
la
fronte.
Il suo sorriso si allargò mentre ci guardavamo.
«Solo ogni tanto, Scheggia. Solo ogni tanto».
Mentre parlava, mi circondò la vita con un braccio,
attirandomi
a sé. Chiusi gli occhi e sentii la sua lingua sfiorarmi le
labbra,
disegnarne il contorno, accarezzare il labbro inferiore, esercitando
una lieve pressione. Scossa da tremiti, dischiusi appena la bocca e la
sua lingua accompagnò il mio movimento, all'improvviso avida
e
veloce. Poggiai una mano sulla sua spalla e con l'altra gli toccai i
capelli, morbidi, lisci, sottili. Mi baciò, ancora, e
ancora, e
ancora, e per un po' mi parve di riuscire a cancellare tutto, mentre mi
abbandonavo
a quelle meravigliose sensazioni. Mi sentivo come una piuma che fluttua
leggera nell'aria, sospinta da una dolce, calda brezza primaverile. Ma
quando lui dovette interrompere il
bacio per prendere fiato, tornai lentamente con i piedi per terra.
«Devo rientrare» ansimai. Sentivo un gran caldo,
sebbene fuori si gelasse.
«Mmm» protestò Alex, il viso ancora
vicinissimo al mio;
aveva gli occhi chiusi. «No, Scheggia... Ancora un
po'».
«È mezzanotte e mezza, Charlie mi starà
aspettando».
Sospirò, senza muoversi di un millimetro. «Un
giorno ti
rapirò e non potrai più andare via»
sussurrò.
Sorrisi. Che stupido. «Be', in attesa di quel
giorno...». Mi
sottrassi piano alla sua stretta, e Alex, sconfitto, si
allontanò.
«Sei perfida» mugugnò.
Recuperai la borsetta e la stola di chiffon dai sedili posteriori.
«Buonanotte, Alex. E grazie».
In casa trovai Charlie sdraiato sul divano in uno stato di dormiveglia;
la tv era accesa a basso volume, ma probabilmente aveva smesso di
guardarla già da un pezzo. Spensi il televisore e lo
svegliai.
Riuscì a restare vigile quel poco che bastava per capire che
ero
tornata, poi barcollò al piano di sopra. Io lo seguii,
stanca
morta, eppure avevo così tante cose a cui pensare che
dubitavo
di riuscire ad addormentarmi. E poi speravo ancora di scoprire chi
accidenti si divertiva ad entrare e uscire dalla mia stanza in piena
notte.
Quando fui pronta, mi infilai nel letto, la lettera della mamma, che
ormai avevo a memoria, sul comodino e il libro di grammatica
francese tra le mani; il lunedì successivo ci sarebbe stata
una
verifica e fino ad allora non avevo studiato un granché.
Lessi un paio
di paragrafi, ma ben presto iniziai a sospettare di avere ancor meno
resistenza di quanto immaginassi: le palpebre si abbassavano da sole,
le parole erano sfocate e quasi si confondevano tra loro, il mal di
testa era peggiorato e mi sentivo intorpidita. Accidenti, che sonno...
Non dormivo bene da giorni e giorni... Forse se avessi chiuso gli occhi
solo per cinque minuti...
Senza neanche accorgermene scivolai nel
dormiveglia. Mi ero appena assopita, quando all'improvviso qualcosa mi
riscosse; non un rumore, ma semplicemente una sensazione, la sensazione
di non essere sola nella stanza. Spalancai gli occhi, a un tratto
vigile, e mi tirai su a sedere nel letto, il cuore che batteva forte e
il fiato corto. Le luci erano
ancora accese come le avevo lasciate, il libro di francese era
scivolato a
terra. Sembrava tutto normale, ma la finestra era socchiusa e la fredda
brezza notturna muoveva
appena le tende. In piedi al centro della stanza c'era mia madre.
«Mamma» esclamai.
Lei aveva gli occhi spalancati per la sopresa e l'aria spaventata. Mi
fissò in silenzio per un tempo che mi parve interminabile.
«Renesmee» mormorò.
Note.
1. Link.
Perfetta, assolutamente perfetta. Se i Coldplay non esistessero,
bisognerebbe inventarli. Le loro canzoni sono la colonna portante di
questa storia, oltre che un'eccellente fonte di ispirazione. Trovo
che questa canzone si adatti bene sia alla lettera di Bella e al suo
significato, sia alla conversazione tra Alex e Renesmee e in generale
al loro rapporto in tutto l'arco della storia. In una parola...
è perfetta.
2. Scrabble.
3. Backgammon.
Spazio autrice.
Qualche chiarimento e poi chiudo.
Come si può intuire dalla data e dal contenuto, la lettera
di
Bella è quella che lei dice di aver scritto per Renesmee in Breaking dawn,
quando era convinta che lei e Edward non sarebbero sopravvissuti allo
scontro con i Volturi. Il testo è stato completamente
inventato
da me.
Le canzoni che cito nel capitolo possono essere ascoltate tutte su
youtube, se per caso vi piace la musica dei Cinquanta quanto piace a
me... Sì, io e Edduccio abbiamo gli stessi gusti.
La data di nascita di Charlie, 1964, è scritta nella Guida ufficiale
della saga.
Ultima nota a proposito del viaggio di nozze di Emmett e Rosalie a
Nizza, nel 1954. Ho inventato tutto di sana pianta. Sappiamo che Emmett
viene trasformato nel 1935 e immagino che per i primi anni, da neonato,
non sarà stato in grado di pensare al matrimonio. Inoltre,
sappiamo che all'inizio della loro storia erano molto passionali e
Edward ci informa che dovettero passare circa dieci anni prima che il
resto della famiglia riuscisse a sopportarne la vicinanza, quindi non
è strano pensare che negli anni Cinquanta fossero in giro
per
l'Europa, da soli, magari impegnati in un viaggio di nozze
particolarmente lungo.
E anche stavolta ho scritto un sacco. Va be', alla prossima!
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Capitolo 22 *** Redemption ***
C 22
Capitolo
22
Redemption
For everyone lost in the silence
For everyone missing
piece
For every will that is
broken
No matter how dark it
may be
There is redemtion
Redemption, The Strange Familiar¹
La casa è quel posto dove, quando ci andate, vi accolgono
sempre.
David Frost
Era lei, dunque.
Era lei, come avevo sempre pensato. Non avrei mai potuto non
riconoscere la sua scia; il suo profumo, dolce e delicato, non era tra
i miei primissimi ricordi, ma era comunque uno dei più forti
che
avessi. Non mi ero sbagliata, e adesso era lì, davanti a me,
con
quell'espressione preoccupata, come se si fosse accorta di aver
commesso un terribile errore.
Restammo in silenzio a fissarci per non
so quanto tempo. Avrei tanto voluto parlare, dire qualcosa, qualsiasi
cosa, chiederle che diamine ci facesse nella mia stanza, tanto per
cominciare, ma mi sembrava di non avere più fiato. Quando
finalmente la mamma parlò, sussultai.
«Renesmee» ripetè con tono ansioso.
«Scusami, io... non sapevo che tu... non immaginavo di
trovarti...». Si passò le mani tra i capelli,
agitata come
se
fosse stata in trappola. Distolse lo sguardo da me. «Me ne
vado»
farfugliò e fece per voltarsi e lasciare la stanza.
«Aspetta!» esclamai, scendendo in
tutta fretta dal letto. Bella si bloccò e si girò
di
nuovo, molto lentamente. Era incredula. «Aspetta, non
andartene. Io... devo farti
vedere...»
Non sapevo bene neppure io cosa volessi fare e cosa
stessi cercando di dire, ma con mani tremanti presi la lettera piegata
dal comodino, mi avvicinai e gliela porsi. Lei tese la mano, sempre
più stupita, prese la
lettera, l'aprì con gesti lenti e vi gettò
un'occhiata.
Restai in trepidante attesa, chiedendomi come avrebbe reagito. Si
sarebbe arrabbiata? Sarebbe stata felice di sapere che l'avevo letta? E
io che cavolo dovevo fare, adesso? Tutta l'ansia che accumulavo da
giorni mi piombò addosso all'improvviso, come una valanga.
Respirai profondamente. Bella lesse le
prime righe e senz'altro riconobbe all'istante le parole tracciate
dalla sua stessa mano. Sollevò lo sguardo su di me, ancora
più stupita di prima.
«Come fai ad averla?» sussurrò.
«Ricordi... ricordi che stasera c'era la festa di
compleanno di Holly, in stile anni Cinquanta? Te l'ha detto Charlie, e
tu devi averne parlato con Rosalie e lei... mi ha mandato un vestito
della sua prima luna di miele con Emmett, insieme alle scarpe e tutto
il resto, perchè Charlie deve averle detto che non
sapevo cosa mettere» spiegai affannosamente, le parole che
inciampavano l'una sull'altra. Mi auguravo che non se la prendesse con
zia Rose. «E nella borsetta ho trovato questa. Mi ha scritto
in un
biglietto di essere entrata in casa nostra quando tu e... quando tu e
papà non c'eravate e di averla presa, e poi... l'ha mandata
a
me. L'ho letta».
La mamma abbassò nuovamente gli occhi sulla
lettera, accigliata. «Accidenti a Rosalie, non
si fa mai gli affari suoi» borbottò.
«Be', questa è una caratteristica piuttosto
diffusa nella famiglia Cullen, o sbaglio?» dissi, in un
coraggioso
tentativo di scherzare.
La sua espressione divenne al limite dello shock. Potevo
capirla. In fondo, non le rivolgevo la parola in modo così
amichevole e tranquillo da... cinque settimane, in effetti. Cinque
settimane. Davvero eravamo state lontane per tutto quel tempo,
tenendoci in contatto soltanto con brevi e inutili telefonate? Che fine
avevano fatto l'amore, la sintonia, il legame che ci univano? Che cosa
avevamo combinato? Che cosa avevo
combinato? Sentivo gli occhi gonfi e umidi, un nodo in gola, e
temetti di scoppiare in lacrime. La mamma, ancora occupata a studiare
la lettera, non se ne accorse subito.
«Perchè Rosalie ha fatto
questo?» domandò a
bassa voce; mi parve che parlasse con se stessa più che con
me.
Alzai le spalle, mordendomi il labbro inferiore. «Non lo
so». Be', se per caso voleva cercare di farmi sentire
schifosamente
in colpa, c'era riuscita in pieno. La mia voce incrinata la spinse a
sollevare lo sguardo.
«Mi dispiace, Renesmee» sussurrò, e il
suo tono era ricco di sincero, profondo rammarico.
Presi un altro respiro profondo e deglutii; piangere non
sarebbe servito a nulla, non dovevo lasciare che accadesse.
«A me
no. È bellissima. Sono contenta di averla letta».
Sul suo volto si aprì un piccolo sorriso,
leggermente esitante. «Grazie, tesoro». Con gesti
lenti ripiegò la lettera.
Per un po' scese il silenzio, pesante come un macigno. Avevo qualcosa
di importante da dirle e mi sforzai di parlare, ma quando infine
riuscii ad aprire bocca, dopo molti tentativi, non ebbi il coraggio di
affrontare subito e direttamente l'argomento.
«L'hai scritta mentre aspettavamo i Volturi, vero?»
mormorai.
Lei mi fissò con le sopracciglia inarcate e quella piccola
ruga sulla fronte che appariva sempre quando qualcosa la
preoccupava. «Sì. Io e tuo padre...
credevamo che non ci fosse alcuna speranza». Tacque per un
attimo e deglutì con forza prima di andare
avanti. «Volevo lasciarti qualcosa. Qualcosa a cui
potessi aggrapparti, se noi...»
Lasciò la frase in sospeso. Annuii, gli occhi bassi, le
labbra serrate e la tristezza nel cuore. Ero sempre più
arrabbiata con me stessa: ogni sua
dimostrazione di affetto suonava alle mie orecchie come un rimprovero
per come mi ero comportata con lei.
Di nuovo restammo in silenzio per qualche secondo, entrambe prese dai
nostri
pensieri, poi, all'improvviso, parlaii ancora, d'impulso.
«Vieni
spesso, vero? Voglio dire... qui... di notte. Ho sentito una traccia,
qualche giorno fa. Per questo mi hai trovato... quasi sveglia,
stanotte: ti aspettavo».
Dalla sua espressione capii che, se ne fosse stata in
grado, sarebbe arrossita fino alla radice dei capelli. La stavo
mettendo in difficoltà, ma volevo capire. Più
volte
aprì la bocca per rispondere e la richiuse, probabilmente
senza
trovare le parole adatte. «Mi dispiace»
ripetè.
«So che ci hai chiesto di rispettare i tuoi spazi, ma... era
l'unico modo per vederti» ammise, e
abbassò rapida il viso, per non essere costretta a reggere
il
mio sguardo. «Non avresti dovuto accorgertene.
Perdonami».
Scossi la testa. «No, mamma... Sono io che devo
chiederti scusa. A te e... a papà... a tutti voi»
sussurrai.
Sapere che le mancavo al punto da spingerla a venire a
trovarmi di
notte, nascondendosi, senza poter parlare con me, come se fosse stata
colpevole di chissà quale delitto, non mi aiutò a
controllarmi. In un istante mi si riempirono gli
occhi di lacrime e non riuscii più a vedere bene il viso
della
mamma.
«Perchè dovresti scusarti?»
domandò cautamente, come se la mia risposta la preoccupasse.
Era il mio turno di restare senza parole, adesso. Cercai
di spiegarmi, ma mi sembrava di soffocare. «Per quello che ho
fatto» sussurrai. «Per tutte le cose orribili che
ho
detto.
Per essere andata via e avervi lasciato così. Io...
è
assurdo, come ho potuto farlo? Come ho potuto essere così
cattiva?». Mi lasciai cadere sul letto e scoppiai
in
lacrime disperate,
senza la minima possibilità di frenarle. Sentii uno
spostamento d'aria rapidissimo e un millesimo di secondo più
tardi la mamma mi stringeva tra le braccia, mi accarezzava i capelli,
mi sussurrava parole sottovoce nell'orecchio, ma singhiozzavo troppo
forte per riuscire a sentirle. «Mi dispiace tanto, mamma, mi
dispiace tanto...»
Trascorse un bel po' di tempo prima che riuscissi a calmarmi un
pochino; quella specie di crisi isterica mi
fece vergognare, ma non piangevo da quando avevo lasciato casa e tutta
la tensione, la paura, il dolore che albergavano in me da giorni e
giorni sembravano essersi sciolti di colpo. Mi sentivo meglio,
però, e non ero sicura se fosse grazie al pianto liberatorio
o
alla presenza della mamma. A un tratto mi prese per le spalle,
allontanandomi appena da sé per guardarmi in faccia.
«Ascolta, Renesmee» esclamò con tono
deciso,
quasi rabbioso, «non puoi continuare a sentirti in colpa per
tutto
quello che succede intorno a te, non
puoi, capisci? Devi smetterla o questa cosa ti
ucciderà! Sei come
tuo padre: anche lui non fa che tormentarsi nelle sue colpe o presunte
tali, e spesso finisce con il rovinarsi l'esistenza da solo. Ci sono
cose che sfuggono al tuo controllo e vanno
come devono andare, senza che tu possa fare nulla per fermarle o
cambiarle. E questo vale anche per i tuoi sentimenti».
«Però stavolta ho sbagliato davvero» la
interruppi. « Io
ho deciso di andarmene, io
vi ho trattato in modo orribile, io
vi ho detto delle cose che...». Portai
istintivamente le
mani al viso, come per coprirmi. «Papà non mi
perdonerà mai... Jacob non mi perdonerà
mai...»
Lei spalancò gli occhi per un istante, come se
qualcosa l'avesse sorpresa profondamente. «Non c'è
niente da
perdonare. Avevi tutto il diritto di essere furiosa»
mormorò
con un filo di voe.
Scossi il capo. «Forse, ma... non avevo il diritto di
dimenticare che siamo una famiglia, di dimenticare quello che avete
fatto per me. Tu mi hai salvato la vita due volte ed io ti ho
trattata da schifo perchè non mi hai detto di... di
Jacob»
balbettai tutto d'un fiato, agitatissima; era la seconda volta che mi
sfuggiva quel nome dalle labbra ed ero certa che la mamma avesse
notato la mia difficoltà. Dannazione. «Non so cosa
mi sia
successo. Credevo che quello che Leah mi aveva detto avesse
cancellato tutto il resto, ma non è possibile».
Scossi di
nuovo la testa, sgomenta davanti all'enormità dei miei
errori.
Continuare a parlare era tremendamente difficile, ma ripensai a
ciò che mi aveva detto Alex, poco prima, sulla
felicità e sull'importanza del perdono, e mi parve di
sentirmi
un po' più forte. «Non avevo capito che esistono
cose che non
possono essere cancellate. Credevo che andarmene mi avrebbe aiutato a
stare meglio, ma come potrei stare meglio così lontana da
tutti
quelli che amo di più? Qualunque cosa succeda, con voi non
cambia nulla. Come potrebbe? Siete la mia famiglia e questo
è
infinitamente più importante di qualunque segreto abbiate
nascosto, di qualsiasi errore abbiate commesso... Come ho
potuto credere il contrario? Come ho potuto giudicarvi così
duramente? Dio, sono stata una stupida».
«Tesoro, ti calmi, per favore?» intervenne la
mamma;
non smetteva di accarezzarmi e aveva l'aria preoccupata. «Hai
fatto
quello che sentivi di dover fare. Se in quel momento pensavi che andare
via
per un po' fosse la scelta migliore per te, allora hai fatto
bene».
«Lo era allora, forse, ma... adesso non lo è
più» risposi, esitando leggermente. Una piccola e
stupida
parte di me temeva che la mia richiesta non venisse accolta
troppo bene. Quella stessa piccola e stupida parte subito
pronta a credere che suo padre non l'avesse mai amata davvero
perchè in un momento difficilissimo, probabilmente il
più
critico della sua esistenza, era stato sul punto di commettere un
errore. Lui
aveva sbagliato, certo. Ma dubitare del suo affetto per me, affetto che
mi dimostrava ogni giorno da cinque anni, mi sembrava sempre
più
una follia. E se non riuscivo a perdonarlo, ero io a sbagliare, questa
volta. Mi feci coraggio e andai avanti. Bella mi fissava intensamente,
aspettando. «Io... vorrei tornare... se... se per voi va
bene»
balbettai.
«Oh» esclamò e capii di averla spiazzata
totalmente. Non se l'aspettava. «Non sei costretta,
Renesmee»
disse subito. «Non devi sentirti obbligata, non ci devi
nulla. Quello che
io e tuo padre abbiamo fatto... l'abbiamo fatto perchè ti
amiamo e sono contenta che tu riesca a sentirlo di nuovo, ma non
costringerti a fare qualcosa che non vuoi. Se ancora non te la senti,
aspetteremo tutto il tempo che sarà necessario».
«Ma io non voglio aspettare. Voglio tornare adesso. Voglio
stare con voi, mamma» sussurrai.
Mentre Bella mi fissava, il suo viso perfetto
sembrò illuminarsi lentamente di pura gioia. Così
rapidamente che
neanche me ne accorsi, mi prese di nuovo tra le braccia, stringendomi
con delicatezza, ed io abbandonai la testa sulla sua spalla, piangendo
e sorridendo al tempo stesso, provando di nuovo, finalmente, quella
meravigliosa sensazione di sicurezza che avevo temuto di non riuscire più a provare. E in
quell'istante, l'istante in cui ci riunimmo davvero, mi resi
conto di non averla mai persa, e
nemmeno papà. Erano sempre stati con me. Avevano mantenuto
la loro promessa.
Note.
1. Qui
la canzone.
Spazio
autrice.
Eccoci arrivati al penultimo capitolo. Questi mesi sono passati in un
attimo, accidenti.
Penso che già alla fine dello scorso capitolo abbiate capito
che era Bella il misterioso visitatore notturno di Renesmee. Per la
verità, qualche piccolo indizio lo avevo inserito nel
capitolo venti, quello narrato dal punto di vista di Bella; infatti
mentre parla con Edward si intuisce che lei vorrebbe andare in un
posto, però esita e non è sicura che sia la cosa
giusta... Va be', comunque ormai lo sapete ^^. E pace è stata fatta, finalmente.
Credo non ci sia nulla da aggiungere. Alla prossima settimana! |
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Capitolo 23 *** Please don't stop the rain ***
C 23
Capitolo
23
Please don'
t stop the rain
If
it's gonna be a rainy day
There's nothing we can do to make it change
We
can pray for sunny weather
But
that won't stop the rain
Feeling
like you got no place to run
I
can be your shelter 'til it's done
We
can make this last forever
So
please don't stop the rain.
Please
don't stop the rain, James Morrison¹
Siamo esseri
umani, meravigliosamente complicati, assurdamente speciali...
Anton Vanlight, Mai
troppo folle
Toc toc.
Qualcuno
bussava alla porta. Fui bruscamente strappata alla lettura di
un lungo e noioso capitolo di storia moderna e sollevai la testa.
«Avanti» borbottai, di malavoglia.
La porta
si aprì e comparve Esme. Mi fece uno dei suoi sorrisi capaci
di
sciogliere un iceberg e mi sentii subito in colpa.
«Tesoro, stai ancora studiando?» disse, guardandomi
con
aria preoccupata. «Perchè non fai una
pausa?»
Le sorrisi, sforzandomi di non lasciar trapelare uno sbuffo di
esasperazione. Era la settima volta che mi poneva quella stessa domanda
nell'arco della giornata ed erano appena le quattro del pomeriggio.
«No, tranquilla. Oggi non ho combinato un
granchè».
«Be', comunque non stancarti troppo. Non è
necessario, vedrai che gli esami andranno benissimo».
Lo stomaco
mi si contrasse. Afferrai convulsamente la matita e quasi mi
aggrappai al bordo del libro come a un'ancora di salvezza. Meglio
riprendere subito a studiare. «Sì...
Grazie» risposi,
ostentando una tranquillità che ero ben lontana dal provare.
«Hai fame?» aggiunse, ancora sulla porta.
«Ho preparato i brownies, vuoi assaggiarli?»
«Magari più tardi. Ora non mi va».
Esme annuì con un piccolo sospiro. Vedermi rifiutare del
cibo la
gettava sempre in un profondo stato di agitazione, come se fossi
un'abitante denutrita del terzo mondo.
«D'accordo. Ti lascio
studiare, allora». E se ne andò con un ultimo
sorriso.
Ricominciai a leggere, prendendo nel frattempo appunti su un quaderno,
e ogni tanto facevo una breve
ricerca al computer per avere qualche informazione in più.
Ma la
mia tranquillità durò solo qualche minuto; il
silenzio
che regnava nell'ampio studio-libreria di Carlisle, dove mi ero
rifugiata nella speranza di sfuggire alla mia famiglia ansiosa e
impicciona, fu rotto da un'improvvisa esclamazione a voce
alta.
«Renesmee!»
Per la sopresa feci un tale salto sulla sedia che la matita mi cadde di
mano e rotolò sul pavimento. Quasi cacciai un urlo.
«Mamma!» esclamai, senza fiato.
Lei e papà erano appena entrati attravero la grande
portafinestra che dava sul retro, tenendosi abbracciati e sfoggiando
due identiche espressioni allegre e soddisfatte.
«Oh scusa, non volevo spaventarti». La mamma
raccolse la matita e me la restituì.
«Be', l'hai fatto, invece» dissi a denti stretti;
ripresi la
matita con un gesto nervoso. «Perchè siete qui?
Non dovevate
essere a caccia?»
«Siamo appena tornati»
rispose papà. «Pensavamo di passare a prenderti,
perchè è un bel po' che non vai a caccia, ma sta
arrivando un temporale e a te non piace correre sotto la
pioggia».
«Davvero?» mugugnai, scocciata. Lanciai un'occhiata
fuori e mi
accorsi che il cielo era stato rapidamente oscurato da nuvoloni grigi,
grossi e minacciosi. Tanto per cambiare. Sebbene fossimo in maggio, non
c'era quasi il minimo segnale dell'arrivo della primavera.
Edward lasciò la mano della mamma, si avvicinò e
mi
accarezzò piano i capelli; percepiva benissimo la mia ansia
e
sapeva che quel gesto aveva sempre un effetto calmante su di me.
«Come prosegue lo studio?»
«Proseguirebbe molto meglio se avessi un po' di
pace».
Lui fece un sorriso divertito.
«Perchè, non ce l'hai?» si
informò la mamma, aggrottando la fronte.
«No che non ce l'ho!» sbottai alzando la voce.
Avevo
scoperto che quando ero sotto pressione mal sopportavo di essere
circondata da persone assolutamente tranquille. Il mio nervosismo
peggiorava. Non riuscivo neanche a stare bene con Alex, che
prendeva la faccenda degli esami come una specie di scherzo, sicuro del
fatto suo. Quasi preferivo la compagnia di Jas, che in quei giorni era
più
isterica di me. «Sono stata costretta e lasciare la stanza di
papà perchè Emmett non la finiva più
di cantare la
sigla di Happy days
nel
corridoio, Alice mi sta letteralmente inseguendo per costringermi a
provare un suo nuovo modello ed Esme è gia venuta tre volte
da
quando sono qui a chiedermi se voglio i suoi brownies!»
«Ah» commentò la mamma. Mi fissava
accigliata, come se non
sapesse bene che cosa dirmi. «Capisco. Allora, uhm... noi ti
lasciamo. E diremo a tutti di non disturbarti più,
okay?»
«Per quello che può servire» borbottai,
sconsolata.
«Tentar non nuoce» rispose allegramente.
Afferrò di nuovo la mano di papà.
Lui mi baciò rapidamente sulla testa. «Chiama se
hai bisogno di una mano».
Uscirono, e finalmente avevo di nuovo la stanza tutta per me. Non ero
più abituata a stare in una casa con tante persone, ecco il
problema. Charlie e Sue trascorrevano buona parte del tempo fuori casa
per lavoro e non erano certo paragonabili ai miei otto vampiri
ficcanaso, sempre svegli, sempre attivi e sempre desiderosi di
utilizzarmi come strumento di intrattenimento. Ero tornata soltanto da
una settimana e alcuni aspetti del periodo passato da Charlie mi
mancavano; sapevo che per riappropriarmi della solita, vecchia routine
sarebbe servito un po' di tempo.
Non avevo ancora ritrovato il punto in cui la mia lettura si era
interrotta, che la porta si spalancò di colpo ed Alice,
Rosalie
e Jasper fecero irruzione in gruppo nella stanza. Saltai di nuovo sulla
sedia per lo spavento, ma stavolta riuscii a tenere stretta la matita.
«Ehi!» protestai, al massimo dell'indignazione.
«Ciao, Raggio di sole!» trillò Alice,
saltellando verso di me. «Sei ancora qui?»
«Alice» intervenne zia Rose con un'occhiata
significativa, «siamo passati solo per un saluto
veloce, ricordalo».
«Ma certo. Per chi mi hai preso? So benissimo che Nessie sta
studiando e non dobbiamo fare confusione».
Jasper si insinuò tra loro guardandomi con aria di scuse.
«Prendo un libro e me ne vado, giuro» disse, e si
diresse
verso
gli scaffali di filosofia.
Io li fissavo in silenzio, troppo sbalordita per parlare. Zia Alice
sedette comodamente sul tavolo, accavallò le gambe,
afferrò il mio quaderno degli appunti e lo
esaminò. «Allora, dicevamo: sei ancora
qui?»
«Sono ancora qui» farfugliai, arrabbiata. Avrei
volentieri
ripreso a leggere, ma lei non aveva alcuna intenzione di tacere.
«Piuttosto noiosa questa roba, non trovi?»
«Già, ma mi tocca saperla, questa roba, se non
voglio essere bocciata».
«Bocciata? Tu? Impossibile» decretò zia
Rose con una
risata. «Tranquilla, tesoro, andrà tutto
benissimo».
Ricambiai il suo sguardo affettuoso cercando di sorriderle. La sua
presenza non mi dava mai davvero fastidio. In quei giorni avevo
scoperto con piacere che il nostro legame sembrava essersi rafforzato
durante la lontananza. Da quando ero tornata non
avevamo parlato molto, ma non ce n'era bisogno. Era stata lei, mandandomi la
lettera della
mamma, a scatenare con forza il desiderio di tornare, ad aprirmi gli
occhi, a farmi sentire che forse sarebbe stato possibile ricominciare
daccapo; anche questa volta, come quando ero venuta al mondo, le
dovevo tutto, ed eravamo più vicine che mai. Questo non era
cambiato affatto.
«Be', comunque, se mai a un certo dovessi stufarti, sappi che
ho un
compito per te ben più interessante della... dinastia
Tudor»
proseguì Alice, imperterrita, sbirciando sul mio quaderno.
«Stare ore ed ore in piedi a farti da manichino secondo te
è
interessante?». Mi allungai per strapparle il quaderno di
mano. «Vai a tormentare qualcun altro».
Lei mi fissò, perplessa, come se non riuscisse a
capire il motivo della mia reazione. «Okay, Raggio di sole.
Capisco lo
stress degli esami, capisco la crisi adolescenziale, ma non starai
diventando un po' troppo acida?»
«D'accordo, è il momento di andare»
intervenne Jazz, stringendo il suo libro tra le mani.
Aveva appena concluso la frase che Emmett entrò nello
studio, unendosi al gruppo. Di bene in meglio.
«Vi stavo cercando» disse con tono annoiato.
Focalizzò
l'attenzione su di me, che lo fissavo truce, e accennò un
sorrisetto. «Ehilà! Ancora qui?»
«Vai a quel paese» sibilai.
Il suo sorriso divenne ancora più ampio mentre aggrottava
le sopracciglia. «Nervosa, eh? Dimmi, sei così
gentile anche
con il tuo bamboccio? Di questo passo non durerà molto, tra
voi».
«Non chiamarlo
bamboccio!»
Afferrai il temperamatite con una mezza idea di lanciarglielo, ma
Rosalie intervenne.
«Emmett» sbottò, rivolgendogli
un'occhiataccia.
«Che c'è?» protestò lui.
«Mi annoio a morte,
devo pur fare qualcosa!». Aveva l'aria di un bambino a cui
era stato
sottratto il suo giocattolo preferito.
«Basta!» esplosi, al massimo dell'irritazione.
«Fuori di qui, tutti
quanti!»
Ci volle ancora del bello e del buono per trascinare Emmett ed Alice
fuori dallo studio, ma a un certo punto, finalmente, ero di nuovo in
tranquilla solitudine, sebbene così nervosa che faticai a
recuperare un briciolo di concentrazione. Forse gli altri non avevano
tutti i torti a ripetermi che me la prendevo troppo per quei dannati
esami. Sarei morta piuttosto che ammetterlo, ma forse Alex non aveva
tutti i torti quando mi chiamava "Miss Perfettina".
Be', magari non erano solo gli esami a preoccuparmi, pensai, mentre
giocherellavo con la matita invece di riprendere la lettura. C'era
dell'altro, qualcosa che mi tormentava da quando ero tornata a casa,
unica ombra su quell'evento che mi aveva reso così felice.
Un
pensiero costante, martellante, che mi teneva sveglia di notte e mi
distraeva di continuo.
Jacob.
Tra noi non c'era ancora stato alcun
contatto. Senz'altro sapeva che ero tornata, vista la
rapidità
con cui circolavano le notizie tra mia madre, Charlie e Billy, ma con
lui era come se non fosse cambiato nulla. Mamma e papà non
avevano mai neanche fatto il suo nome, sebbene probabilmente tra loro
ne parlassero spesso; volevano lasciarmi il tempo per decidere con
calma, senza fretta, senza nessuna pressione. Ma la pressione veniva da
dentro di
me. Ogni giorno mi svegliavo con l'insopportabile desiderio di
alzare il telefono e chiamarlo soltanto per sentire la sua voce. Ma
poi ripensavo alla nostra situazione, a come ci eravamo lasciati, e
cambiavo idea; non avrei saputo che cosa dirgli.
Una parte di me
desiderava soltanto poterlo riabbracciare, ma l'altra non faceva che
chiedersi a ripetizione che accidenti ne sarebbe stato, di noi, se
avessi provato a riallacciare il rapporto, adesso che sapevo come
stavano le cose, adesso che sapevo dell'imprinting... Non riuscivo a
darmi una risposta e quell'incertezza mi spaventava a morte.
Scrollai la testa con decisione, cercando di allontare quelle scomode
riflessioni, e tornai al mio libro. Ma poco dopo mi resi conto che
avevo riletto la stessa frase per tre volte senza capirci un bel
niente. Fantastico. Di questo passo mi aspettava una bocciatura
assicurata.
A un tratto udii un certo trambusto fuori dalla porta: voci concitate
che salivano e scendevano di tono, esclamazioni improvvise, porte che
sbattevano. Cercai di non prestarvi attenzione, ma ero incuriosita. Poi
dei passi veloci lungo le scale. Che stava succedendo? Un secondo
più tardi la porta si spalancò con veemenza,
senza alcun
preavviso, e la mamma entrò quasi di corsa, seguita a ruota
da
papà. Ancora? Eh, no, quello era troppo.
«Insomma, volete lasciarmi in pace?» esclamai,
esasperata.
«Devo memorizzare una montagna di nomi e date entro stasera e
non
sta andando affatto bene!»
«Renesmee» esordì la mamma nervosamente,
senza
badare a ciò che dicevo, un'espressione allarmata sul volto
perfetto, «che ne diresti di uscire?
Facciamo una passeggiata, ti va?»
La guardai incredula. «Una passeggiata?»
«Sì! Ti accompagnamo a caccia, ti va? Su, andiamo,
prima che cominci a piovere».
Rapida come un fulmine, mi prese per un braccio e mi tirò in
piedi. Riuscii a non farmi trascinare via solo divincolandomi con
decisione.
«Per caso state dando i numeri, tutti quanti?»
sbottai, alzando la voce.
In quel momento Carlisle e Rosalie ci raggiunsero e subito notai che
avevano un'aria strana.
«Ehm... Scusate, ma... sta arrivando» disse il
nonno a mezza voce, come se sperasse di non farsi sentire.
«Chi? Chi sta arrivando?» domandai, stupita. Tutta
quell'agitazione mi spaventava. E se fosse stato...
«Non è lui» rispose subito
papà. Attese un
istante prima di proseguire, esitando. «È
Leah».
«Leah?» sussurrai con un filo di voce, incredula.
«Leah sta venendo qui? Perchè?»
«Vuole parlare con te» aggiunse papà,
osservandomi guardingo.
Ero così sorpresa da non riuscire a spiccicare una parola.
Fissavo Edward e Bella con gli occhi spalancati e, ne ero certa,
un'espressione sconvolta. Qualcuno bussò con
forza alla porta di casa.
«Che facciamo?» chiese Carlisle, e mi
fissò come se si aspettasse una risposta da me. Io aprii la
bocca,
ma non ne uscì alcun suono. Che cosa voleva Leah, adesso?
«Ci penso io» fece zia Rose, e con aria determinata
marciò
fuori dallo studio. Carlisle le andò subito dietro.
«Tesoro, sta' tranquilla, okay? Non sei costretta a parlarle.
Resta qui, tranquilla» disse velocemente la mamma, e
uscì a
sua volta dalla stanza.
Papà mi lanciò un'ultima occhiata preoccupata
prima di
andarsene, chiudendosi la porta alle spalle. Rimasi sola, immobile e
scioccata, senza sapere che cosa fare. Guardai la porta finestra e per
un attimo considerai la possibilità di fuggira da
lì, ma
poi sentii la voce di Leah risuonare in casa, decisa, sicura come
sempre, come la ricordavo, e all'improvviso mi travolse un'onda di
rabbia. Non me l'ero mai presa con lei, in quelle settimane; mi aveva
soltanto detto la verità, e di questo, forse, avrei dovuto
esserle grata. Certo, non era stata molto gentile nell'aprirmi gli
occhi, ma lei era fatta così e non potevo ritenerla
responsabile di quello che la mia famiglia aveva deciso. Ma che si
presentasse di colpo a casa mia, pretendendo di parlarmi, come se fosse
stata la cosa più naturale del mondo... quello era
inaccettabile.
Spalancai la porta dello studio e marciai nell'ingresso. Trovai tutti
schierati davanti alla porta, e Leah mezza nascosta a qualche passo di
distanza.
«Devo parlare con lei, Edward» stava dicendo.
«Sai anche tu che qualcuno deve farlo».
Mi infilai tra gli altri, facendomi strada, e mi ritrovai davanti alla
nostra ospite inattesa. Quando mi vide, stranamente parve sollevata.
«Certo che hai davvero una bella faccia tosta per presentarti
qui» dissi, la voce rotta dalla tensione.
Una mano fredda si chiuse sul mio polso, forse per fermarmi o calmarmi,
ma io la ritrassi con forza, senza capire a chi appartenesse.
«Ce ne vuole anche per continuare ad interpretare la
principessa
offesa dopo tutto questo tempo, come stai facendo tu» rispose
Leah,
diretta e spavalda.
Principessa offesa?
Ma chi
diavolo si credeva di essere, quella lì, per giudicarmi?
Sentii
la rabbia crescere alla velocità della luce e pensai fosse
meglio allontanarmi. «Non voglio parlare con te. Vattene, per
favore» sibilai, e mi avviai vero le scale per
salire di
sopra.
«Sai, poco fa mio fratello era al telefono con
Charlie»
continuò Leah, ignorando completamente le mie parole e
venendomi
dietro, «e lui parlava di te, e non faceva che dire quanto
sei stata
male in questo periodo, e quanto sei stata forte e coraggiosa... Tutte
stronzate! Forte e coraggiosa un cavolo! Sei soltanto una bambina
immatura e viziata che gioca a fare la piccola principessa sdegnata che
si rifugia nel suo castello, ignorando tutto ciò che non le
sta bene e che non va come lei aveva previsto...»
«Insomma, la pianti? Che cosa vuoi da me?» gridai,
voltandomi di
scatto verso di lei, nel mezzo della cucina. Gli altri erano ancora di
sotto e ci ascoltavano, la mamma, papà e Rosalie a
metà
delle scale; sembravano pronti a lanciarsi verso di noi per impedire
che ci
azzuffassimo.
«Voglio che tu cresca
una buona volta! È ora che succeda, sai?»
«Penso che la cosa non ti riguardi affatto!»
«Sì che mi riguarda, ragazzina, perchè
il tuo
comportamento riguarda Jacob, che sta impazzendo, e se uno di noi
impazzisce, il resto del branco lo segue a ruota, compresa me,
capisci?»
Il nome di Jacob fu come uno schiaffo. Trasalii e le parole che stavo
per pronunciare mi morirono in gola. A quel punto zia Rose
partì
all'attacco.
«Va bene, basta così»
ringhiò. Salì i
gradini e si parò davanti a Leah con aria minacciosa.
«Renesmee vuole che tu te ne vada. Se non ci pensi da sola ti
do
una
mano io».
«Rosalie, non ti immischiare» fece papà
a denti stretti, come se avesse ripetuto quella stessa frase almeno
cento volte, ma lei non si mosse.
Leah le lanciò un'occhiata scocciata. «Vuoi fare a
botte?
Nessun problema, ma potremmo rimandare a un altro momento? Non so se
hai notato, ma sto cercando di mettere a posto questo casino».
«Un casino creato da te»
sbottò la zia, velenosa.
Leah fece una smorfia amara. «Non hai pensato che
forse
sono qui ora proprio per questo motivo? Caspita, so che i vampiri non
brillano per intelligenza, ma tu sei di gran lunga la più
sveglia».
Rosalie fece un mezzo passo avanti con l'aria di chi si prepara ad una
rissa epica e istintivamente mi misi in mezzo.
«Si può sapere che sei venuta a fare?»
intervenni,
guardando Leah dritto negli occhi. «Quello che dovevi dirmi
l'hai
già detto l'ultima volta che ci siamo viste, e non mi
interessa
sapere cosa pensi di me e dei miei comportamenti. Se è tutto
qui
puoi anche andartene».
Mi tremavano le mani per l'agitazione, anche se cercavo di mostrarmi
sicura e sprezzante. Le girai di nuovo le spalle e salii in tutta
fretta le scale, ma lei mi seguì, ostinata. Gli altri
rimasero di sotto, parlando animatamente tra loro.
«Non ti interessa neanche Jacob?»
esclamò con tono provocatorio.
«Che cavolo c'entra Jacob, adesso?» sbottai a denti
stretti.
«Lui sta male, Renesmee. E... la bionda psicopatica ha
ragione:
buona parte di questo disastro è colpa mia»
ammise,
visibilmente a disagio. Abbassò lo sguardo. «Devo
rimediare
in qualche modo».
«Trovati una macchina del tempo, allora».
«Non mi pento di quello che ho fatto»
ribattè con
forza. «Ho sempre pensato che questa cosa di nasconderti
l'imprinting fosse
ridicola. Poteva funzionare quando eri piccola, forse, ma... Tutti
aspettavano che tu crescessi prima di parlartene e non si rendevano
conto che finchè avessero continuato a tenerti dentro una
bolla
di sapone non saresti mai cresciuta. Dovevi
sapere. Ma non spettava a me dirtelo, e soprattutto... non in quel
modo». Il suo imbarazzo era evidente, eppure non esitava
neanche un
poco. Doveva credere sul serio in quello che stava dicendo. Ne fui
stupita. «Non ho usato le parole giuste. Sono stata odiosa,
lo
ammetto. Mi dispiace. Ma tu eri lì a parlarmi di quel
ragazzo che ti aveva baciata e che ti piaceva, con le guance rosse e
gli occhi luccicanti, e ho pensato... Non
è così che deve andare. Se lei si innamora di un
altro,
Jacob dovrà ancora una volta essere soltanto un amico,
tirarsi
indietro e stare a guardare. E non è giusto,
non dopo
tutto quello che ha passato. E qui ho commesso un altro errore, lo so:
questi sono affari vostri, non posso pretendere il finale che vorrei.
Ma Jacob è mio amico, mi è stato vicino in un
momento in
cui nessun altro c'era ed io volevo fare qualcosa per lui. Invece
l'unico risultato che ho ottenuto è stato quello di
allontanarvi».
«Non voglio parlare di Jacob» sussurrai. Il
pensiero che l'intera
famiglia fosse in ascolto al piano di sotto era intollerabile.
Ancora una volta Leah proseguì come se non avessi parlato.
«Ma c'è di più. Non mi sono mai
comportata
bene,
con te, lo so» disse tutto d'un fiato. «Non ho
mai sopportato il fatto che tu avessi un esercito di persone impegnate
a proteggerti, mentre nessuno era riuscito a proteggere me».
Tacque
un secondo, serrando le labbra. «Tu rifiuti l'imprinting e
non
vuoi
più saperne di Jacob, ma io... io darei qualunque cosa
perchè una persona tenesse a me in modo così
incondizionato. E tu l'avevi al tuo fianco, quella persona, e non te ne
accorgevi! Ero furiosa e ti ho rovesciato addosso tutta la mia rabbia,
come se fosse colpa tua. Non avrei dovuto farlo. Ti ho
ferita, e per questo ti chiedo scusa. Mi
dispiace».
Quando finalmente smise di parlare, rimasi a fissarla per un minuto, le
braccia incrociate. Alcune cose che aveva detto mi avevano colpita, ma
altre mi irritavano ancora di più. Non ero disposta a
dargliela vinta facilmente.
«Hai finito?». Prima che potesse rispondere, la
interruppi.
«Interessante, il monologo, ma ancora mi sfugge il senso di
questa
visita».
«Non è possibile che non te ne importi
nulla»
esclamò, accorata, facendo un passo verso di me.
«Jacob è a pezzi e se davvero gli vuoi bene, se
davvero
è la persona più importante per te, come sostieni
da
sempre, non è possibile che non te ne importi. È
come che
se tu gli stessi facendo del male con le tue stesse mani».
«Ho detto che non
voglio parlare di Jacob!»
«Stai facendo del male anche a te stessa, pensi che non si
veda? Che senso ha? Ha sbagliato a mentirti, d'accordo, ma tu sai
cosa significhi per lui. Non credi che la sua punizione possa
terminare, adesso?»
Non ne potevo più di ascoltare quelle cose. Mi sarei messa a
strillare come una matta pur di coprire la sua voce. «Mi
spiace, ma
ho già sentito questa predica. Tuo fratello è
arrivato
prima di te».
«Seth non c'entra, non sa nemmeno che sono qui...»
«Certo, come no!» esplosi, e al piano di sotto sentii
distintamente qualcuno trattenere il fiato. «Pensi che non
sappia che è stato Jacob a mandarvi, tutti e
due? Mi hai preso per stupida? Sarò anche una ragazzina
immatura
e viziata, ma non sono
una stupida!»
«No, Renesmee...»
«È semplicemente ridicolo! Seth ci
ha già provato una volta e ora tu... ma che diavolo crede di
fare? Pensa di convincermi così? Allora non mi conosce
proprio!»
«Vuoi ascoltarmi, per favore? Non mi ha mandato Jacob, non mi
ha
mandato nessuno, te lo giuro! È stata una mia
iniziativa!»
Scossi la testa, troppo arrabbiata per ragionare. «Sai che
c'è? Forse è il momento che anch'io prenda
un'iniziativa» sbottai, beffarda. La superai rapidamente,
scesi le
scale e mi ritrovai davanti il resto della famiglia. Erano tutti
zitti e immobili e mi fissavano con vari gradi di preoccupazione,
ansia e stupore stampati in viso.
«Dove stai andando?» chiese la mamma con cautela,
come se temesse la risposta.
«Vado da Jacob».
Lei spalancò gli occhi, incredula. «Cosa? Ma...
perchè?»
«Perchè quella sua testaccia dura non recepisce
nessun messaggio se non ci sbatte contro!»
Scesi a precipizio le scale per raggiungere l'ingresso, ma dopo pochi
scalini dovetti fermarmi: la mamma mi aveva superato in un lampo e mi
bloccava il passo; per poco non andai a sbatterle contro.
«Aspetta, aspetta!» esclamò,
concitata e
allarmatissima. «Sei sicura che sia una buona idea? Adesso
sei
arrabbiata, non sei lucida, potresti fare o dire qualcosa di cui poi ti
pentiresti. Non trattarlo male, per favore».
«Che cosa?» strillai. «Che cosa? Stai
dalla sua parte?»
«No! Cioè, non sto dalla parte di nessuno, voglio
solo che
stiate bene entrambi... Renesmee, ti prego, fermati!»
Aggirai l'ostacolo, marciai impettita nell'ingresso, afferrai la mia
giacca dall'appendiabiti e uscii, decisa a non ascoltare nessuno. Alle
mie spalle percepii una certa agitazione, ma feci finta di nulla. Ero
talmente furiosa, con Leah, che pretendeva di dirmi che cosa fare, con
Jacob, che non riuscivo ad eliminare dalla mia vita, con la mamma, che
in un modo o nell'altro pensava sempre a lui, con tutti gli altri,
così insopportabilmente invadenti, con me stessa, per aver
rimuginato su quella faccenda fino ad allora senza prendere nessuna
decisione, che giunsi in vista di
casa Black a tempo di record, senza neanche accorgermi delle nuvole che
si gonfiavano, sempre più scure e minacciose, e del
rumoreggiare
di tuoni in lontananza.
Ritrovarmi in quel posto così familiare e
così importante per il mio passato avrebbe dovuto farmi un
certo
effetto, ma allontanai i ricordi con decisione, sapendo che se mi
avessero sommersa, senz'altro avrei ceduto. E in quel momento non
potevo cedere. Non prima di aver fatto una bella ramanzina a qualcuno.
Bussai alla porta con energia e poco dopo Billy venne ad
aprire. Dalla faccia che fece sembrò avesse davanti un
fantasma
o un alieno verde con tanto di antenne.
«Ehi» mi salutò, dopo un interminabile
minuto di silenzio
di tomba. Il suo sguardo era perfettamente impenetrabile, come lo
ricordavo. E riusciva anche a mettermi a disagio proprio come
ricordavo.
«Ciao, Billy» dissi in tono rigido.
«Jacob è in casa?»
«No. Cioè, sì» rispose
lentamente. «È in garage, sta lavorando».
Annuii con aria sostenuta. «Grazie».
Senza aggiungere altro, mi voltai e mi diressi al garage, certa di
avere i suoi occhi puntati addosso. Mentre mi avvicinavo, sentivo i
familiari rumori metallici tipici di chi sta riparando una macchina.
Quante volte avevo trascorso interi pomeriggi accanto a Jacob,
guardandolo lavorare e chiacchierando di tutto? Impossibile contarle.
Un'improvvisa folata di vento freddo mi portò il suo odore,
un
profumo che non sentivo da settimane, ma inciso a fuoco nella mia
memoria;
avrei potuto riconoscerlo ovunque. Mi sembrava di essere tornata
indietro nel tempo. Sulla soglia del garage mi fermai, un po' esitante.
Non ero più certa che fosse una buona idea, ma ormai ero
lì.
Tra me e Jacob c'era una macchina con il cofano aperto e sollevato, ma
non era sufficiente a nascondermi. Gli bastò alzare gli
occhi e
mi vide. Nell'istante in cui ci guardammo, fu come se qualcuno mi
facesse lo sgambetto.
«Renesmee» mormorò. Il suo tono mi fece
pensare a un uomo
che sta morendo di sete nel deserto e finalmente riceve una goccia
d'acqua fresca sulle labbra.
A un tratto dimenticai tutto, perchè ero lì, cosa
stavo
per dire, e provai l'assurdo impulso di fare un passo verso di
lui, un altro, e un altro ancora... Poi il violento rombo di un
tuono, seguito dallo scrosciare della pioggia che iniziava a cadere, mi
riscosse di colpo. Con uno sforzo immenso,
riuscii a raccattare da qualche parte i miei pensieri e un briciolo di
determinazione.
«Smettila immediatamente di fare quello che stai
facendo!» dissi tutto d'un fiato, ansimante.
Con aria molto confusa, Jacob abbassò per un attimo lo
sguardo sull'aggeggio metallico che aveva in mano, poi tornò
a
fissarmi. «Cosa sto facendo?» domandò,
con calma.
«Lo sai benissimo! Prima Seth, poi Leah... Chi
sarà il
prossimo? Smettila di spedire da me tutte le persone
che conosciamo per convincermi a parlarti di nuovo, va bene? Basta,
altrimenti scateno Rosalie contro il prossimo che si
presenterà
a farmi la predica, è chiaro?». Dovetti
interrompere la
tirata per prendere fiato, e stavo per ricominciare, quando lui
parlò.
«Ehi, ehi, aspetta. So che Seth è venuto a parlare
con te, un paio di settimane fa. Ma cosa c'entra Leah?»
Sbuffai. «È appena piombata in casa mia per farmi
un discorso
assurdo e... lei voleva... voleva che io... Oh, insomma! Non fingere
di non saperlo!»
Jacob annuì lentamente, l'espressione grave.
«Porca
miseria» borbottò sotto voce. Fece un sospiro.
«Renesmee, io davvero
non
lo sapevo. Leah non si trasforma da ieri, deve averlo deciso
all'improvviso. Mi dispiace, è colpa mia. Dopo quello che ha
fatto Seth avrei dovuto imporre al branco di lasciarti in pace, ma
speravo di non essere costretto a farlo. E non avrei mai pensato di
dovermi preoccupare proprio di lei, fra tutti». Scosse il
capo,
meravigliato e contrariato al tempo stesso. «Ma ora lo
farò.
Nessuno verrà più a disturbarti, te lo
prometto».
La sua voce morbida e carezzevole, calda e decisa, mi aveva quasi
ipnotizzata. Dio, quanto mi era mancato. Vederlo lì davanti
a me
sembrava quasi un sogno. «Davvero non gliel'hai chiesto
tu?»
chiesi in un sussurro.
Lui scosse di nuovo la testa, fissandomi con aria seria, e in quel
momento mi resi conto di due cose. Primo, gli credevo. Secondo, avevo
sempre saputo, dentro di me, che lui non c'entrava. Gli avevo chiesto
del tempo, gli avevo chiesto una pausa, e il mio Jacob non mi avrebbe
mai detto di no, non avrebbe mai potuto forzarmi a fare niente. Anche
questa volta lui aveva capito. Ed io, invece... io non avevo capito un
accidenti.
Mi girai piano e mi diressi verso l'uscita, ma a un tratto
sentii le ginocchia cedere. Barcollando, mi appoggiai al muro e
scoppiai a piangere, senza poter fare nulla per impedirlo. Mi sembrava
di soffocare, mentre mi coprivo il viso con le mani, infastidita e
arrabbiata. Mi vergognavo da morire al pensiero che Jacob assistesse a
quello sfogo così violento e infantile.
«Renesmee!» gridò, angosciato, e corse
da me. Pensai
che
volesse abbracciarmi, ma si fermò appena in tempo,
titubante.
«Che ti succede? È per qualcosa che ha detto
Leah?»
Cercai di frenare le lacrime per riuscire a parlare. «Non...
non
è per Leah. Mi ha solo detto la verità.
E anche stavolta io non sono stata in grado di accettarla.
Perchè non riesco ad affrontare le cose? Che c'è
di
sbagliato in me?» singhiozzai, disperata.
Jacob esitò a lungo prima di rispondere. Forse voleva che mi
sfogassi un po', o forse stava cercando di decidere che cosa dirmi.
Non doveva essere semplice neanche per lui.
«Non hai niente di sbagliato» mormorò a
un tratto,
lentamente. «Questa è una cosa grossa e tu sei...
molto giovane. Non è semplice».
Feci diversi respiri profondi per calmarmi e con le mani mi asciugai le
guance bagnate. «Parli come se tu fossi vecchio»
borbottai. Avevo
paura di sollevare gli occhi e incontrare i suoi, così li
tenevo
ben fissi a terra.
Lo sentii sorridere. «Non sarò vecchio, ma ho
qualche anno più di te».
Bambina immatura e
viziata. Ero proprio così, accidenti.
Perchè quella ragazza aveva sempre ragione? Perchè?
Mentre mi scostavo i capelli dal viso con un gesto automatico, guardai
Jacob. Mi stava fissando con un'espressione così dolce e
preoccupata che avrebbe potuto sciogliere un iceberg. Provai la
fortissima tentazione di chinare la testa sul suo petto e lasciarmi
stringere dalle sue braccia forti... Sarebbe stato così
bello...
Finalmente mi sarei sentita di nuovo al sicuro... O forse no? Mi tirai
bruscamente indietro.
«È insopportabile!» sussurrai, senza
fiato.
Feci per uscire, ma qualcosa mi bloccò il passaggio: Jacob
aveva
allungato il braccio sinistro, quasi intrappolandomi contro la parete.
Stupita, indietreggiai subito più che potevo, cercando di
mettere un po' di spazio fra noi, e lo guardai con occhi spalancati. E
adesso?
«Aspetta, ti prego. Aspetta un istante» disse, e il
suo tono
tormentato mi ferì al cuole come una stilettata.
Perchè, perchè
ero andata da lui, dannazione? Già inizavo ad intuire come
sarebbe finita. Era inevitabile, e io ero stata una stupida. Avrei
dovuto sapere che non potevo rivederlo senza arrendermi.
«Ascoltami. Se vuoi che me ne vada, che sparisca dalla tua
vita e ti lasci in pace
per sempre, lo farò. Devi soltanto chiedermelo».
«Ma io non voglio questo» balbettai, arrossendo,
spaventata
dalla serietà con cui aveva parlato. Faceva sul serio?
«E allora che cosa vuoi? Te lo sei mai chiesto? Non pensare
al
passato, non pensare a quello che dicono gli altri, a quello che
pensano, dimentica l'imprinting, cancella tutto: tu che cosa
vuoi?»
Te.
Quel pensiero affiorò spontaneo da chissà dove,
lasciandomi senza fiato, ma riuscii a trattenerlo prima che mi
scivolasse
tra le labbra. Mi ci volle un
minuto per riprendermi.
«Vorrei poter riavere tutto indietro» risposi in un
sussurro spaventato.
«Se potessi ridartelo, lo farei, credimi» disse
Jacob
lentamente, lo sguardo fisso che incatenava il mio. «Ma non
è possibile. Non si torna indietro. E
allora... credo che tu abbia due opzioni: puoi decidere di cancellare
dalla tua vita quello che non ti va bene, far finta che non esista,
oppure puoi decidere di accettarlo. La scelta sta a te».
«E tu?». Lo guardai senza capire. Lui cosa voleva?
«Non ha importanza. Io voglio quello che vuoi tu».
«Sì che ne ha! Ne ha per me! Jake, io ti voglio
bene!» esclamai tutto d'un fiato. All'improvviso mi importava
solo che lui capisse cosa provavo, e al diavolo la prudenza, al diavolo
l'indecisione, al diavolo la paura, al diavolo tutto il resto.
«Ti voglio bene, e mi sei mancato da morire, e... non ce l'ho
con
te, non più. All'inizio era furiosa, ma mi è
passata,
ormai, da tanto tempo. Non voglio, non posso cancellarti dalla mia
vita. Sei troppo importante. Ma...»
«Ma cosa?» mi incalzò, teso.
«E se scoprissimo che tra noi è cambiato tutto?
Che non
riusciamo più a stare bene insieme, che non riusciamo
più
ad essere amici?» domandai con aria di sfida, la voce che a
poco
a poco si tingeva di panico nel prospettare quelle orribili
possibilità. «Ricordi quello che mi hai detto
l'ultima
volta che ci siamo parlati, dopo la scuola? Anche tu avevi paura che
dirmi dell'imprinting e farlo diventare reale potesse cambiare le cose,
alterare il nostro rapporto... Che cosa faremmo se accadesse
davvero?»
«Non è detto che vada così. Potremmo
provarci. Insieme».
«E se non funzionasse?»
Jacob tacque per qualche secondo. A un tratto sembrava spaventato
quanto me.
«Qual è l'alternativa?» disse, la voce
impregnata di
tristezza. «Ci separiamo adesso e non ci vediamo
più? Devi soltanto chiederlo».
Sembrava talmente determinato a farmi del male con quell'assurda
proposta che per un attimo ebbi paura. Non c'era alcun bisogno di
pensarci per dargli una risposta. Sei settimane di separazione erano
state intollerabili: avevo sentito la sua mancanza in ogni momento di
ogni stupido giorno passato lontano da lui. E da quando ero tornata a
casa, una settimana prima, sebbene non avessi fatto il suo nome neanche
una volta, Jacob era diventato la mia ossessione: avevo trascorso notti
su notti sveglia a tormentarmi, divisa tra il desiderio di rivederlo e
la paura che il nostro legame fosse andato distrutto. Rinunciare a lui
per sempre era impensabile.
«Non te lo chiederò mai» mormorai con
voce rotta.
«Non posso stare lontano da te. Sarebbe come... voler fermare
la
pioggia che cade. Non c'è altra scelta». Scossi la
testa.
Sentivo le guance umide e mi resi conto che le lacrime avevano ripreso
a scorrere, come la pioggia fuori dal garage. «Io non ho altra
scelta e la cosa peggiore è che non riesco ad accettarlo.
Non ci riesco».
Fui costretta a smettere di parlare, sopraffatta dalle lacrime. Chinai
il viso, così disperatamente triste da non riuscire
più a
provare imbarazzo. Jacob taceva, ma a un tratto sentii la sua mano
sfiorarmi delicatamente la guancia, accarezzarla con estrema lentezza,
asciugando le lacrime con il pollice. Il suo tocco era una sensazione
familiare e tremendamente piacevole. Scatenò una
marea di ricordi, talmente reali e vividi che mi parve di essere
tornata indietro davvero, a quando niente avrebbe mai potuto mettersi
tra di noi. E all'improvviso mi colpì una consapevolezza
fulminea. Non c'era niente di diverso, in quello. Lui era accanto a me,
mi accarezzava, mi rassicurava e mi face sentire
bene. Protetta. Come sempre. E se quello non era cambiato, allora
forse...
Dio, che confusione! Dovevo andarmene da lì se volevo
provare a
ragionare con lucidità. Mi sottrassi alla sua mano, passai
sotto
il suo braccio teso, uscii dal garage e mi allontanai di qualche passo,
incurante degli enormi e gelidi goccioloni di pioggia che mi
bersagliavano. Lui non mi seguì. Chissà come
avrebbero
reagito, a casa, vedendomi tornare in quello stato. Chissà
cosa avrebbe detto la mamma. Senz'altro si sarebbe preoccupata per
Jacob e i suoi sentimenti... La mamma. All'improvviso mi
sembrò
di sentire la sua voce sussurrare qualcosa dentro di me, e
istintivamente mi fermai per ascoltare.
Le
paure vanno affrontate, Renesmee. Nascondersi non serve, ci
rende soltanto più deboli; e prima o poi arriva il giorno in
cui
ci rendiamo conto che abbiamo permesso alla paura di dominare la nostra
vita, di toglierci il libero arbitrio, di portarci via
chissà
quante cose, belle e brutte.
Per
non so quanto tempo rimasi perfettamente immobile, come paralizzata, ad
inzupparmi. Perchè quelle parole mi tornavano in mente
proprio
adesso? Era solo un caso, una coincidenza, o era un segno? Ma che
importanza aveva, in fondo? Era proprio quello che stavo facendo.
Scappavo e mi nascondevo, ancora una volta, come quando mi ero
trasferita da Charlie, come in quei sei anni, quando avevo ignorato
tanti piccoli dettagli che forse avrebbero potuto mostrarmi la
verità. Come Jacob, come i miei genitori, che avevano
costruito
una vita di menzogne per proteggermi e avevano finito con il farmi
ancora più male. Loro avevano sbagliato, io avevo sbagliato,
e
adesso stavo sbagliando di nuovo. Era ora che qualcuno rompesse
quell'infinita catena di errori, uno dietro l'altro. Che qualcuno
provasse a fare la cosa giusta. Non sapevo se sarei stata abbastanza
forte, però dovevo provarci, perchè l'alternativa
era dire addio alla persona più importante della mia
esistenza.
Lentamente, abbandonandomi all'impulso interiore che mi supplicava di
tornare indietro, mi voltai. Feci un mezzo passo avanti, insicura sulle
gambe come se dubitassi di riuscire a stare in piedi, e un attimo dopo
mi ritrovai a correre verso Jacob.
Lui mi venne incontro sotto il temporale. Le sue braccia mi accolsero,
mi strinsero, e finalmente, finalmente
mi sentii di nuovo completa. Di nuovo me stessa. Mi fece volteggiare
nell'aria, come quando ero bambina, ed io risi di gioia, tra le
lacrime, pensando a quanto il cuore umano sappia essere pazzo e
stupido, a volte. Perchè, semplicemente, la pioggia non si
può fermare.
Note.
1. Qui
la
canzone. La adoro, sembra scritta apposta per questo momento. Sapevo
fin dall'inizio che avrebbe accompagnato l'ultimo capitolo.
Spazio autrice.
E siamo arrivati alla fine. Spero con tutto il cuore di non aver deluso
nessuno. Quest'ultimo capitolo è forse quello al quale ho
lavorato di più e anche se la conclusione, tutto sommato,
era
prevedibile, mi auguro di non essere stata troppo scontata. Come avrete
già notato, la vicenda principale della fanfiction si
è
chiusa: Renesmee è tornata a casa, ha ritrovato Jacob, ha
ritrovato se stessa ed è cresciuta attraverso le esperienze
che
ha vissuto. Ma ci sono anche domande rimaste in sospeso. Come andranno
le cose tra Alex e Renesmee? Resteranno insieme? Jacob sarà
sempre e soltanto un amico o avrà la sua occasione? Renesmee
riuscirà a continuare la sua vita "normale" da ragazza umana
o
un giorno questo fragile equilibrio rischierà di spezzarsi?
Le
risposte a queste domande, e molto altro ancora, nel sequel ;-).
Sì, lo so, sono ruffiana, ahahahahah!
Una parte di me è felice di aver raggiunto questo piccolo
traguardo. L'altra è tristissima, perchè
già sento
che arriva la nostalgia. È stato molto bello vivere questa
avventura ed è merito vostro, perchè siete state
voi a
renderla speciale. Un enorme grazie ad Aniasolary e Bianca Lyra
Petrova, le mie adorabili "sorelline", per il loro sostegno e i loro
preziosissimi pareri. Grazie anche ad Astrid Romanova, AlbionMay,
Ariadnae, marta_cr_cullen92, blonde985, BabyMe, thatsfrancy,
StarryEyed, NikyStellina, bluerose95, Lollola, IRE86, Mary_Withlock.
Spero di non aver dimenticato nessuna, siete più numerose di
quanto mi sarei mai aspettata xd. Grazie infinitamente per aver seguito
la storia e per i vostri commenti sempre gentili, interessanti e
strapieni di complimenti ^^.
Per quanto riguarda il sequel, vi ho già accennato
qualcosina.
Il lavoro praticamente è quasi concluso, ma ha bisogno di
parecchie revisioni e correzioni. Inoltre, a giorni
riprenderò
l'università e almeno per qualche
settimana sarò costretta a dare
meno spazio alla scrittura. Ma non preoccupatevi, la storia
è
già scritta ed io sono impaziente di condividerla con voi.
Non
faccio promesse sui tempi di pubblicazione, perchè
rischierei di
non mantenerle, ma farò di tutto per iniziare il prima
possibile. Se vi va di tenervi aggiornate, date un'occhiata ogni tanto
alla mia pagina Facebook (Aurore Cathy Efp) e appena potrò
vi
farò sapere come procedono le cose.
Be', penso sia tutto. Vi ho annoiate abbastanza xd. Grazie ancora, e a
presto! |
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