Midnight star

di Aurore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Brick by boring brick ***
Capitolo 2: *** Talk ***
Capitolo 3: *** Unwritten ***
Capitolo 4: *** It's time ***
Capitolo 5: *** Breathless ***
Capitolo 6: *** Secrets ***
Capitolo 7: *** Kiss me ***
Capitolo 8: *** Storm ***
Capitolo 9: *** When will you see ***
Capitolo 10: *** Torn ***
Capitolo 11: *** Apocalypse please ***
Capitolo 12: *** The scientist ***
Capitolo 13: *** I won't let you go ***
Capitolo 14: *** Blinding ***
Capitolo 15: *** Shadow of the day ***
Capitolo 16: *** Point of view ***
Capitolo 17: *** Halfway gone ***
Capitolo 18: *** Breathe ***
Capitolo 19: *** Stop crying your heart out ***
Capitolo 20: *** Lullaby ***
Capitolo 21: *** Fix you ***
Capitolo 22: *** Redemption ***
Capitolo 23: *** Please don't stop the rain ***



Capitolo 1
*** Brick by boring brick ***


Capitolo 1
Capitolo 1
Brick by boring brick



She lives in a fairy tale

somewhere too far for us to find
forgotten the taste and smell
of the world that she lefts behind.

Brick by boring brick, Paramore¹



Qualsiasi idiota può superare una crisi; è il quotidiano che ti logora.

Anton Checov




«Voglio arrampicarmi sull’albero!» esclamò una vocina petulante.
Fui bruscamente distolta dai miei giochi di abilità con le carte della Carica dei 101 e guardai la bambina che stava in piedi sul prato davanti alla veranda. Aveva otto anni, ma sembrava più piccola, con i codini castano ramato, gli occhioni scuri spalancati e quella tenera espressione di curiosità. Dubitai di aver capito.
«Cosa?»
«Voglio salire sull’albero» ripetè in tono deciso e indicò il melo ritorto che campeggiava nel piccolo giardino di casa Uley.
Osservai l’albero per un istante, incerta. E adesso cosa avrei dovuto inventarmi per distrarla?
«Claire, sarebbe meglio di no».
«Perché?»
«Be’, perché… è pericoloso: potresti cadere e farti male».
Ci pensò su per un attimo. «Quanto male?»
Okay, forse ero sulla buona strada. «Un po’. Anzi, direi parecchio».
«Ma se tu mi aiuti non mi faccio niente».
O forse no. Sospirai. «Tesoro, credo che impedire che tu salga sugli alberi faccia parte dei miei compiti di baby sitter».
«Sei proprio sicura, Nessie?»
«Sì».
Inclinò la testina da un lato mentre mi fissava. Probabilmente stava valutando fino a che punto avrebbe potuto disubbidire. «Lo voglio fare lo stesso».
Tentai un’ultima volta. «Non ti va di sederti qui con me a giocare a Memory?» le chiesi con il tono più invitante che mi riuscì di tirare fuori.
«No».
Risposta secca e decisa. Claire studiò il melo con attenzione, poi indietreggiò di qualche metro, corse verso il tronco e saltò. Niente da fare. Non arrivava nemmeno al ramo più basso. La bimba non si diede per vinta: indietreggiò di nuovo e riprovò.
«La perseveranza non le manca» commentai sotto voce.
Mi chiesi come avrei potuto distrarla: ovviamente non sarebbe mai riuscita a salire sull’albero e non volevo che ci rimanesse male. Purtroppo i cartoni in tv erano appena finiti ed essendo solo in prima elementare Claire non aveva compiti per casa. Sbirciai il mio orologio da polso, chiedendomi quando Emily sarebbe rientrata.
Emily insegnava tessitura e altri lavori artigianali di tradizione indigena nella scuola superiore di La Push e in alcune scuole professionali dei dintorni, ma spesso lavorava anche in casa filando al telaio e realizzando splendidi lavori che poi vendeva. La sua nipotina Claire trascorreva tantissimo tempo a La Push e quando Emily era impegnata e le serviva qualcuno che si occupasse per qualche ora della bambina e del suo piccolo Levi, che aveva due anni e tre mesi, chiamava me. Mi piaceva fare la baby-sitter, adoravo quei bambini e non mi andava che mi pagassero per stare con loro, ma Emily aveva sempre insistito. Qualche volta cercavo di scappare prima che mi si parasse davanti per allungarmi i soldi, ma fino ad allora non c’ero mai riuscita.
Ero sicura che nella sua testolina arruffata Claire stesse immaginando di saltare molto più in alto di quanto facesse in realtà. Sorrisi mentre la osservavo provare per la terza volta e lasciai che la mente tornasse ai miei giochi d’infanzia: riuscivo perfettamente a visualizzare me stessa bambina al posto di Claire, anche se per me non sarebbe stato affatto un problema arrampicarmi su un albero.
La mia assurda crescita accelerata mi aveva impedito fin dalla nascita di frequentare chiunque altro al di fuori della mia famiglia e di mettere il naso fuori di casa, dunque non ero mai andata nemmeno a scuola. Per quattro anni avevo studiato a casa, da sola, con la supervisione del mio fantastico nonno Carlisle e a volte del mio ancor più fantastico papà. Avevo un bel ricordo di quel periodo: loro sembravano avere una risposta per ogni mia domanda e, sebbene vivessi quasi come una reclusa, mi avevano aperto gli orizzonti del mondo. Eppure avevo sempre avuto la sensazione che mi stessi perdendo qualcosa. E le scorrazzate per i boschi tra casa mia e la riserva di La Push, con tanto di tuffi nell’oceano, arrampicate sugli alberi e corse a ostacoli, erano tra le poche occasioni in cui potessi uscire e vedere qualcosa di diverso dalle pareti di casa, a parte le visite al nonno Charlie.
Solo nel corso dell’estate precedente al mio quarto compleanno la mia crescita aveva cominciato finalmente a rallentare e ad essere meno evidente, soprattutto per l’occhio umano, in conseguenza del fatto che la mia dieta era ormai un perfetto equilibrio tra quella di un umano e quella di un vampiro… anzi, più simile a quella degli esseri umani, in realtà, visto che cacciavo di rado, e ciò sembrava aver rallentato il mio sviluppo. Così mi ero iscritta al mio primo anno di liceo, dopo che mia madre si era procurata dei falsi certificati di licenza elementare e media dal nostro avvocato di fiducia… il fido Jenks, così lo chiamavamo quando eravamo tra noi.
L'idea di andare a scuola mi aveva resa felice: finalmente avrei avuto un'esistenza più simile a quella di una ragazzina normale e meno simile a quella di una lebbrosa  o di una ricercata che non può mettere il naso fuori di casa. Mi aveva anche causato parecchia ansia, però. Dopotutto, i miei futuri compagni avevano più di dieci anni di vantaggio su di me... E se non fossi stata all'altezza della situazione? E se non gli fossi piaciuta? E se gli fossi sembrata strana? E se non fossi riuscita a farmi neanche un amico? Per fortuna queste paure si erano rivelate infondate: ormai frequentavo il secondo anno e potevo dire di essere perfettamente felice e integrata nella mia scuola.
Le mie riflessioni furono interrotte da una vocina assonnata proveniente dalla casetta color mattone.
«Levi si è svegliato». Mi alzai da terra. «Claire, torno tra qualche minuto, okay? Non ti muovere da qui». 
Lei si limitò ad annuire in risposta, ancora tutta concentrata sul suo obiettivo.
Entrai, corsi al piano di sopra e spinsi con delicatezza la porta della stanzetta del piccolo. Levi, seduto nel suo lettino, mi fissò attentamente con quegli occhi color carbone che, insieme ai riccioli scuri, aveva ereditato dal papà.
«Mami!» strillò.
«Ehi, ciao piccolo» lo salutai con dolcezza mentre mi avvicinavo alla culla. «Come va? La mamma non c’è, ma adesso ci penso io a te».
Iniziai a muovermi piano per la stanza, preparando il fasciatoio e canticchiando a bassa voce una canzoncina. Ogni tanto mi accostavo alla finestra per controllare la bambina nel giardino: Claire sembrava aver rinunciato all’albero e si era distesa sul prato. Quando lo presi in braccio, Levi finalmente mi sorrise.
Lo cambiai e scendemmo di sotto, dove versai del succo di mela nella sua tazza con due manici. Mentre beveva lentamente sentii il rumore di un’auto che parcheggiava davanti a casa, una portiera che sbatteva e poi gli strilli di Claire. Era troppo presto perché Emily fosse già di ritorno dalle sue commissioni, ma non aspettavamo nessun altro. Uscii in veranda e sul prato vidi l’enorme figura di Jacob che rideva tenendo la bambina sotto il braccio.
«Jake!» esclamai e subito mi sentii invadere da quella sensazione di calore e benessere che provavo quando lo vedevo. 
Il mio Jacob, il mio sole personale, la mia roccia, il mio migliore amico in assoluto… Adoravo Jacob, probabilmente da sempre. Non avrei saputo dire né come né quando fosse nato il mio affetto per lui. Per quel che potevo ricordare, era sempre stato dentro di me. Dal momento che avevo le braccia occupate non gli saltai addosso per farmi prendere al volo, come di consueto, ma mi limitai ad allungarmi per baciarlo sulla guancia mentre mi raggiungeva sotto il portico con due passi, continuando a tenere Claire.
«Che ci fai qui?» domandai.
«Ho appena finito il mio turno di ronda e sapevo che oggi avresti fatto la baby-sitter, così sono venuto a vedere come va».
Mentre parlava tese una mano per fare il solletico sotto il mento a Levi, che ridacchiò entusiasta. Sospirai. Il solito, apprensivo Jake. L’unica cosa che avrei potuto recriminare nel nostro rapporto era il modo in cui a volte mi trattava, come se fossi stata una bambina piccola. Sì, avevo soltanto quattro anni e mezzo, ma in realtà ne avevo quindici a tutti gli effetti, dal punto di vista fisico e psicologico. Ero perfettamente in grado di badare a me stessa e di fare una cosa semplice come tenere due bambini per un paio d’ore senza che lui andasse in iperventilazione… Ma non si può essere perfetti sotto tutti i punti di vista.
«Quil non c’è?» chiese Claire, la testina che spuntava da sotto il braccio di Jacob.
«No, tesoro, è dovuto restare al negozio per aiutare la mamma di Embry». 
Quil lavorava nel piccolo negozio di gadget per turisti di La Push da circa un anno, poiché aveva finito il liceo ma non era intenzionato a continuare gli studi.
La piccola sbuffò sonoramente e corse di nuovo in mezzo al piccolo prato. Jacob ed io ci sedemmo sui gradini della veranda. «Com’è andata la ronda?» domandai mentre Levi si agitava tra le mie braccia.
«Bene. Ero insieme a Tommy».
«Ancora non ti fidi a mandarlo da solo?»
Tommy aveva sedici anni ed era l’ultimo acquisto del branco di Jacob, che con lui saliva a sei membri: Leah, Seth, Quil, Embry, Chris e Tommy, arrivato solo da qualche settimana.
«Non ancora, ma non dipende da me, dipende solo da lui: se la piantasse di fare il bambino e si decidesse a maturare un po’, sarei ben felice di liberarmene».
«Perché non lo affidi a qualcun altro, ogni tanto? Magari Seth può darti una mano, oppure Leah».
Sul suo viso comparve un’espressione strana, divertita e inorridita al tempo stesso. «Seth già se lo porta sempre dietro, non posso lasciare questo compito solo a lui. E Leah… be’ non posso mandarlo con lei se ci tengo a rivederlo vivo».
«Cosa? Come mai?» esclamai, incuriosita. Leah non aveva un carattere facile, ma Tommy era appena arrivato nel branco e non poteva già averla fatta arrabbiare.
«Non lo sopporta. O meglio, non sopporta l’idea di dovergli fare da baby-sitter. Pensa che sia solo un moccioso incapace e infantile, una scocciatura per il branco, insomma».
«Ah». Ci pensai un po’ su. «Povero Tommy… Potrebbe anche dargli una possibilità, in fondo è appena arrivato».
Jacob fece una smorfia. «Lo sai che non è facile stare con lei, anche se è migliorata molto da quando… da quando ha lasciato il branco di Sam».
«Wow, non oso immaginare com’era prima» mormorai.
Jacob ridacchiò. «Tanto non ci riusciresti. Non hai tutta questa immaginazione. O forse sì. Dopotutto, vivi con Rosalie».
Gli tirai un pugnetto sul braccio, ma non potei trattenere una risata. «Dai, lasciala stare! Non mi va che tu la prenda in giro».
Lui rise ancora più forte. Prima che potessi protestare ancora, fummo interrotti da Levi che mi agitò il suo bicchiere vuoto sotto il naso.
«Ne vuoi ancora, piccolino?» 
Lui fece di si con la testa.
«Jake mi guardi la bambina, per favore? Torno presto».
«Certo». 
Mentre rientravo in casa mi accorsi che si alzava anche lui per raggiungere Claire sul prato. In cucina riempii il bicchiere con un altro po’ di succo di frutta e Levi bevve tutto d’un fiato. Misi la tazza nel lavandino, poi portai il piccolo in salotto, con l’intenzione di accendere per qualche minuto la tv. Si era appena ripreso da un brutto raffreddore ed era meglio che non stesse troppo all’aperto. Sedetti sul divano tenendolo in braccio e feci un po’ di zapping cercando qualcosa di adatto. A un certo punto sentii aprire la porta d’ingresso, che avevo lasciato accostata.
«Ehi, Nessie» chiamò Jacob «tutto bene?»
Sospirai. Il solito, apprensivo Jacob… Sorrisi, leggermente divertita. «Sì, tranquillo. Stiamo guardando la tv».
«Ah, okay. Allora noi siamo qui fuori».
«Certo».
Finalmente trovai un programma di cartoni animati e lì mi fermai. Mi rilassai contro lo schienale del divanetto un po’ sgangherato e fissai lo schermo senza vederlo sul serio, presa da altre riflessioni, mentre Levi ridacchiava divertito osservando degli omini colorati che ballavano una musichetta vivace. Stavo giusto pensando con raccapriccio alla montagna di compiti che mi aspettavano a casa quando sentii delle grida festose provenire da fuori. C’era una sola spiegazione.
«Levi è tornata la mamma!» esclamai. «Andiamo a salutarla?»
«Mami!» trillò con entusiasmo.
Spensi la tv e uscimmo sotto il portico. Emily era sul prato, letteralmente assediata da Claire che strillava e saltava intorno a lei. Jacob salì di corsa le scale tenendo due buste della spesa che doveva aver preso dalle mani di Emi, mi fece l’occhiolino e schizzò dentro.
«Claire, tesoro, sta' buona... Oh, ciao, Nessie».
«Ciao. Come sono andate le tue commissioni?»
«Tutto bene. E questi bimbi come sono stati?» chiese prendendo in braccio Levi.
«Buonissimi» risposi con un sorriso indulgente. La povera e ignara Emily non avrebbe mai saputo dello yogurt che Claire aveva rovesciato sul pavimento o del suo prezioso profumo che aveva spruzzato qua e là. Rientrammo tutte insieme. In cucina, Jacob aveva lasciato le buste sul tavolo e stava già attaccando a morsi una mela, appoggiato al bancone da lavoro. Sedetti al tavolo e Claire si sistemò subito sulle mie ginocchia mentre Emily sistemava il piccolo nel seggiolone, iniziava a preparare la cena e intanto ci raccontava del grosso ordine di gilet e maglie i lana che aveva ricevuto da un negozio proprio quella mattina. Chiacchieravamo del più e del meno, quando mi resi conto dell’ora e scattai in piedi mettendo giù Claire.
«Accidenti, è tardi! Devo andare». 
Già immaginavo mia madre intenta a protestare per la cena che si raffreddava e mio padre che guardava l’orologio ogni minuto, mentre zio Emmett borbottava in sottofondo contro i genitori troppo permissivi.
«Ti aspetto in macchina» disse subito Jacob con un sorriso. «Ciao Emily, ciao Claire, ciao piccolino!»
Distribuendo baci e carezze sulla testa uscì di casa.
«Aspetta, Renesmee» disse Emily, asciugandosi le mani sul grembiule e correndo fuori dalla stanza.
Okay, era il momento di filarsela. Baciai velocemente i bambini, andai in punta di piedi nell’ingresso buio e infilai il giubbotto che avevo lasciato su una sedia. Per fortuna Jake non aveva richiuso la porta.
«Ehi, Emi, mi dispiace ma vado di fretta!» gridai verso l’interno della casa. «Ci si vede, ciao».
Avevo un piede fuori dalla porta e già stavo congratulandomi con me stessa quando un’ombra emerse all’improvviso nell’ingresso e corse verso di me. Feci un salto di un metro e a stento mi trattenni dal cacciare un urlo.
«Dove credi di andare? Non provarci, sai!» sbottò l’ombra. Era Emily.
«A fare cosa?» domandai con tono innocente, ma non ci cascò.
«A svignartela così!» rispose in tono secco e poi addolcì di colpo la voce. «Ecco qui, cara. Grazie per l’aiuto». E mi allungò i miei sette dollari.
Rassegnata, li presi e la baciai sulle guance. «Di niente. Alla prossima».
«Saluti a casa».
Corsi fino alla Golf dove Jacob mi aspettava seduto al posto di guida, salii e sbattei la portiera.
«Allora, ci sei riuscita?» si informò con tono divertito.
Sbuffai. «No. Ovviamente mi ha pagato».
Lui rise. «Sei proprio una frana».
Lo colpii sul braccio, arrabbiata e offesa.
«Ahi!» protestò, sbuffando una risata. Tanto sapevo che la sua era tutta scena e che difficilmente sarei riuscita a strappargli un ahi sincero. «Sto guidando, ti pare il caso di picchiarmi? Guarda che se facciamo un incidente e ti riporto a casa a pezzettini non mi salvo neanche se lascio il paese».
«Allora ti conviene tenere gli occhi ben incollati sulla strada» risposi, acida.
«Che c'è? Hai dimenticato di prendere la pillola del buon umore, stamattina?»
Sospirai. Detestavo essere cattiva con il mio Jacob. «Scusa, sono un po' nervosa. Lo sai quanto si agitano i miei se faccio dieci minuti di ritardo... sicuramente staranno già pensando che sono morta sul ciglio della strada o qualcosa del genere. E poi devo fare ancora un sacco di compiti e domani ho una verifica di matematica».
«Mm… Insomma, un’altra monotona giornata di scuola».
«Sembra anche che pioverà» aggiunsi in tono tetro.
«Be’, questa non è una novità! Comunque sappi che le giornate più belle, quelle perfette, capitano quando meno te lo aspetti».
Lo guardai, dubbiosa. «Sul serio? Parli per esperienza personale?»
«Certo». All'improvviso divenne serio. «La giornata più brutta della mia vita si è conclusa con il tuo arrivo».
Mi girai di nuovo a guardarlo: fissava la strada, ma sembrava perso in qualche lontano ricordo. Jacob era il mio migliore amico e avrei potuto dire di conoscerlo come le mie tasche, eppure c’erano dei momenti in cui avevo l’impressione che mi nascondesse qualcosa, che ci fosse dell’altro. A volte ne avevo parlato con i miei, ma a sentire loro ero paranoica, il che suonava piuttosto buffo detto da due che non avevano idea di cosa fosse la normalità, a cominciare dal fatto che erano vampiri.
Per riempire quell’imbarazzante silenzio iniziò a raccontarmi dei progressi fatti con la macchina che stava aggiustando al momento.
Quando ancora frequentava il liceo, aveva cominciato a lavorare part-time come meccanico, all’inizio solo per La Push e poi anche per Forks, quando la voce della sua bravura e dei suoi prezzi si era diffusa. Due anni prima si era brillantemente diplomato nella scuola della riserva, ma aveva deciso di non frequentare il college e di continuare a lavorare, ormai quasi a tempo pieno. Questa scelta aveva provocato qualche discussione, soprattutto con suo padre Billy, ma Jacob aveva sempre portato delle motivazioni indiscutibili a proprio sostegno. Prima di tutto, era un licantropo, un alfa e un membro del consiglio della tribù: le sue responsabilità ormai erano tali da non consentirgli di allontanarsi da La Push per un impegno così gravoso come frequentare il college e qui nessuno avrebbe osato protestare perché queste responsabilità per lui venivano prima di tutto. L’altro motivo per cui aveva deciso di rinunciare era proprio Billy: lasciarlo vivere da solo per un periodo di tempo indeterminato, viste le sue difficili condizioni fisiche, era impensabile per Jake. Billy non era mai stato d’accordo, ma Jacob, come al solito, aveva fatto di testa sua.
Nemmeno Bella era mai stata d’accordo e per mesi e mesi aveva cercato di convincerlo a cambiare idea, ma senza successo e ormai doveva aver rinunciato… A volte riprendeva l’argomento, ma la risposta era sempre la stessa. Jacob era davvero deciso, in due anni non c’era mai stato un tentennamento.
Quanto a me, non avevo mai espresso un vero parere al riguardo: tutto quello che volevo era che fosse felice, come non importava. Ol pensiero che potesse andarsene da La Push era doloroso, la sua lontananza insopportabile, ma se avesse voluto questo non avrei cercato di trattenerlo. Eppure, forse in cuor mio ero inconsapevolmente ed egoisticamente felice della sua decisione, perché l’avrebbe fatto restare al mio fianco, e sospettavo che lui l’avesse intuito, come tutti gli altri. Be’, non potevo farci niente. Fin dai miei primi momenti di vita, stando a quello che mi avevano raccontato, Jacob era stato con me e c’era rimasto in quei cinque anni: ci separavamo solo durante le vacanze estive, quando andavo con i miei sull’Isola Esme o a Denali a trovare il clan di Tanya, al massimo per qualche settimana. Eravamo talmente abituati a stare insieme da essere ormai inseparabili.
Poco dopo fermò la macchina di fronte alla grande casa bianca dei miei nonni. Mi slacciai la cintura di sicurezza e tirai su la cerniera del giubbotto. Eravamo nel pieno di marzo, ormai la primavera avrebbe dovuto essere vicina, ma a Forks le stagioni non seguivano il loro corso normale e faceva ancora un gran freddo.
«Entri e ceni con me?»
Scosse la testa. «Stasera no: ho promesso a Billy che sarei tornato per cena».
Jacob passava tanto di quel tempo a casa nostra che probabilmente suo padre doveva sentirsi parecchio trascurato. «Va bene. Allora ci vediamo domani?»
Mi sorrise. «Certo». Mi accarezzò appena la guancia e poi si chinò per baciarla. «Buona fortuna per la verifica».
«Grazie. Notte, Jake». 
«Notte, piccola». 
Scesi dall'auto e presi le chiavi. Mentre aprivo la porta, mi girai a salutarlo con la mano, ma solo quando fui entrata sentii che riaccendeva il motore e si allontanava. Scossi la testa, divertita e seccata in ugual misura, mentre mi sfilavo il giubbotto. Il solito apprensivo... come se avesse mai potuto capitarmi qualcosa fuori alla porta di una casa piena di Cullen.







Note.
1. Ecco il link della canzone:
http://www.youtube.com/watch?v=rzZf8PNZmmQ.








Spazio autrice.

Ciao a tutti/e! Questa è la prima long che pubblico ed è anche la prima long alla quale abbia lavorato proprio con l'intenzione di renderla pubblica. I capitoli che compongono la prima metà di questa fanfiction sono stati scritti circa tre anni fa. Per motivi di tempo, infatti, la sua stesura è stata piuttosto lenta. Nel frattempo, ho scritto e pubblicato dell'altro e credo che il mio modo di scrivere sia leggermente cambiato... se in meglio o in peggio, questo non spetta a me dirlo xd, però mi sembra di riscontrare qualche piccola differenza rispetto al mio stile attuale. Ciò nonostante, ho deciso di pubblicarli così come sono, senza grosse modifiche. Forse non saranno perfetti (anzi, sicuramente non lo sono), ma è questa la storia che ho scritto tre anni fa e alla quale ho dedicato tutta me stessa per molto tempo. Modificarla non mi sembrava giusto.
A mercoledì prossimo per il secondo capitolo, grazie!

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Capitolo 2
*** Talk ***


Capitolo 2

Talk


Are you lost or incomplete?

Do you feel like a puzzle, you can't find your missing piece?
Tell me how do you feel?
Well I feel they're talking in a language I don't speake.
And they're talking it to me.
Talk, Coldplay¹


L'amicizia è un tormento in più.
Soren Kierkegaard


 

Entrai in casa e mi sfilai la giacca, l'ombra del sorriso ancora sulle labbra. Seguendo il rumore e il vociare di quella che sembrava una partita di baseball in tv, salii le scale e subito mi sentii apostrofare dal vocione di zio Emmett. 
«Ehi, peste! Dov’eri finita? Tua madre si farebbe venire un infarto, se potesse».
Lui e zia Rosalie erano allungati sul divano, nella zona tv. Lo zio teneva il telecomando, come sempre, e mi scrutava con aria indagatrice. Alzai gli occhi al cielo. 
«Ho cercato di scappare a Las Vegas per fare la ballerina in una discoteca, ma Jacob mi ha fermata».
Rosalie ridacchiò, ma Emmett mi fissò con cipiglio minaccioso per qualche istante. Questo genere di battute non gli andava per niente a genio. Gli feci una linguaccia ed entrai nella cucina, che era piuttosto affollata: mamma e papà erano alle prese con la mia cena, mentre Esme metteva in ordine.
«Ciao a tutti» esordii.
Mia madre sollevò gli occhi dalla pentola che stava estraendo dal forno e mi guardò storto. «Finalmente! Sei in ritardo di mezz’ora».
Montai su uno degli sgabelli del bancone da lavoro e papà, che detestava farmi le ramanzine perché poi gli toccava ascoltare i miei commenti non espressi a voce alta, mi diede un bacio sulla fronte senza dire nulla. «Ero da Emily, lo sai. Quando è tornata abbiamo chiacchierato un po’, non mi ero accorta che fosse ora di cena».
La mamma sospirò. «Okay, magari la prossima volta telefona. Per fortuna ti ha accompagnato Jacob».
Dovevano aver sentito la sua voce. Nessuno si chiese cosa ci facesse con me a casa Uley: lui era sempre dove ero io. «E gli altri?» chiesi, cercando di cambiare argomento.
«Alice e Jasper sono a caccia e Carlisle è ancora a lavoro» rispose papà.
Di lì a poco sentimmo sbattere la porta d’ingresso.
«Carlisle» ci informò Edward. 
A conferma della sua infallibilità, dopo un minuto sentimmo dei passi veloci sulle scale e il nonno entrò nella cucina tirandosi su le maniche del maglione.
«Ciao famiglia!» esclamò. Era il suo modo tipico di salutarci e ogni volta mi faceva sorridere. 
Ci fu un coro di ciao in risposta e per un qualche minuto nella cucina regnò una certa confusione, mentre tutti parlavano contemporaneamente.
«Spero che Jacob non abbia trascurato il lavoro, oggi, per passare da te» disse la mamma a un tratto, a mezza voce.
«Certo che no, sai quant’è preciso su queste cose» risposi, prendendo una forchettata di insalata di patate. Stavo morendo di fame.
«So anche che quando siete insieme avete una strana tendenza a perdere il senso del tempo e staccarvi l’uno dall’altra è impossibile, neanche foste attaccati con la colla» borbottò, il tono leggermente acido.
La guardai, un po’ stupita. «Be’, è anche il mio migliore amico, non solo il tuo. E da quando questo ti dà fastidio?»
Mentre parlavo, papà si accostò alla mamma e le passò un braccio intorno alla vita. Sembrava un gesto disinvolto, ma a me parve una specie di avvertimento. Bella fece un respiro profondo e mi sorrise. «Non mi dà fastidio, è solo che Jacob ha già rinunciato al college e non voglio che cominci anche a disertare il suo lavoro».
Ero perplessa: avevo la sensazione di essermi persa qualcosa. «Ma che dici? Lo conosci, non lo farebbe mai. E poi sai benissimo perché ha dovuto rinunciare. Non è come per Embry e Quil, che si sono diplomati per il rotto della cuffia».
Lei rimase a guardarmi mordendosi un labbro, incerta. Prima che potesse rispondere, sentimmo una voce annoiata provenire dalla porta. «Oh, sì, è un autentico genio, il tuo cane da compagnia. Perché non lo spediamo in qualche laboratorio per farlo studiare?». Era zia Rose che faceva capolino.
Sospirai. «Zia, potresti per favore smettere di insultare il mio migliore amico?» domandai con tono forzatamente cortese. «Te ne sarei molto grata».
Lei mi fissò con aria inespressiva, come se avessi fatto una battuta per niente divertente. «Renesmee, tesoro, sai quanto bene ti voglio e sai che per te farei qualsiasi cosa… ma questo no».
Si voltò e fece per uscire, ma papà la richiamò. «Come va la partita?» chiese, ironico.
«Cosa vuoi che me ne importi» borbottò la zia per tutta risposta e tornò sul divano. 
Edward e Carlisle si scambiarono uno sguardo divertito ed io non riuscii a trattenere una mezza risata. La mamma mi fissò e subito dopo rise anche lei, scrollando i lunghi capelli castani raccolti in una coda.
«Prima o poi le passerà» disse Carlisle a bassa voce «dopotutto, ormai sono quasi cinque anni che Jacob entra ed esce da questa casa. Ci farà l’abitudine».
Mmm. Secondo me Carlisle era fin troppo fiducioso, a volte. Finito di cenare, aiutai Esme a caricare la lavastoviglie, poi salii di sopra, nella vecchia stanza di papà, e iniziai a studiare. Avevo già fatto qualcosa nel pomeriggio, mentre Levi dormiva e Claire guardava la tv, ma avevo ancora una montagna di esercizi di matematica da fare, dovevo leggere due capitoli di storia e scrivere la bozza di una tesina sul ciclo bretone. Ero al lavoro da mezz’ora, quando qualcuno bussò piano alla porta e fece capolino: era zia Alice.
«Ehi, siete tornati» la salutai.
«Ciao Nessie» disse dolcemente, allungandomi il cordless che stringeva in mano. «C’è Jas al telefono per te». 
Ero talmente concentrata da non aver sentito il telefono. Sospirai. Naturale… Erano le nove e mezza e ancora non si era fatta sentire. Accidenti a Jas, Jas Williams. Era la mia migliore amica e le volevo bene, ma aveva la straordinaria capacità di chiamare sempre nei momenti meno opportuni, mentre facevo la doccia o ero presa dallo studio, alle undici e mezza di sera o alle sette meno un quarto di mattina… Presi il telefono, feci un respiro profondo e...
«Pronto?»
«Renesmee? Accidenti, finalmente ti trovo! Lo sai che ho chiamato tre volte a casa tua, oggi? Dov’eri finita?»
«Stavo facendo la baby-sitter». Non avevo nemmeno avuto il tempo di dirle ciao e non avrei avuto il tempo di dirle nient’altro.
«La baby-sitter? Ancora? Non la capirò mai, questa... Che ci trovi di così divertente a passare il pomeriggio con dei marmocchi? Be', lasciamo stare, ci sono cose più urgenti di cui parlare» continuò Jas e la sua voce divenne di colpo eccitata. «Ci sono novità!»
Sospirai di nuovo. La mia amica era sempre stata un po' scocciatrice, ma da quando aveva cominciato a frequentare Tom Evans era diventata insopportabile: da ben tre settimane mi toccava ascoltare ogni giorno il resoconto di tutto quello che succedeva tra loro... resoconto dettagliato, molto dettagliato, che andava dal numero di volte in cui Tom l'aveva guardata adorante al numero di minuti che avevano passato tenendosi per mano. 
«Oggi, mentre tornavamo a casa da scuola, mi ha quasi invitata ad uscire insieme di nuovo, sabato!» esordì.
«Jas, come si fa a invitare qualcuno quasi ad uscire?»
«Sono sicura che ci stava pensando perché non ha fatto altro che parlare dell’ultimo film che è uscito, quello sulla fine del mondo».
«Be’, ne parlavano tutti, stamattina» obiettai con cautela. Ovvio, visto che era l’unico film che veniva proiettato al momento nel minuscolo cinema di Port Angeles.
«Sì, ma tu non hai sentito il tono con cui me ne ha parlato! Insomma, era evidente che voleva chiedermi di andarci con lui».
«E perché non l’ha fatto, allora?»
Rimase in silenzio per un attimo. «Credo che si senta… spaventato e intimorito da quello che prova per me».
«Sul serio?»
«Sì! Lui è il mio primo ragazzo, io sono la sua prima ragazza, ma deve aver capito quanto è importante per me e magari non sa bene come gestire la situazione».
Ne dubitavo fortemente, ma non volevo che ci restasse male. «Non pensi che forse proprio perché siete tutti e due alla prima esperienza e vi frequentate da poco, è un po' presto per sentire… un tale coinvolgimento emotivo?»
A quel punto assunse il suo tipico tono da sto parlando con una tonta, che usava piuttosto spesso quando parlava con me. Anche troppo spesso. «Dici così perché non ci hai mai visti insieme sul serio! Tom è più timido di quanto sembri, con le ragazze, e ancora non vuole baciarmi in pubblico, ma ti garantisco che tra noi c’è qualcosa di travolgente! Magari se tu gli dicessi che io muoio dalla voglia di vedere quel film…»
«Eh?» sbottai.
«Ma sì! In questo modo sarà certo di poterlo fare».
«Di poter fare cosa, esattamente?»
«Di potermi invitare! Forse ha paura che io pensi che stiamo correndo troppo se mi invita ad uscire due volte in una settimana, ma se tu gli dici che può farlo tutto andrà liscio!»
E con questo, Jas aveva definitivamente perso il cervello. «Senti, perché non lo inviti tu e basta?»
«Non posso!»
«Perché, J?» sbottai, usando inconsapevolmente il suo nomignolo.
«Magari è lui che pensa che stiamo correndo troppo, per questo non m’invita di nuovo! Ma se fosse così e tu parlassi con Tom, te lo direbbe, così tu poi lo diresti a me ed io saprei che non c’è niente di cui preoccuparsi e devo solo aspettare che lui sia pronto».
A quel punto avevo perso il filo. «Senti, secondo me gli stai troppo addosso... Rischi di farlo innervosire. Tra poco penserà che vuoi sposarlo entro la fine dell’anno scolastico». Lei rispose con una risata. «Sul serio, Jas: se la darà a gambe».
«Parli per esperienza personale?»
Esitai. «In che senso?»
«Voglio dire, ti è mai capitato che un ragazzo scappasse perché si sentiva oppresso da te?»
Breve pausa. Avevo capito dove voleva andare a parare. «No. Lo sai che non ho mai avuto un ragazzo».
A un tratto cambiò completamente e diventò "la dolce Jas". Dopo un po' di tempo che la frequentavo, mi ero resa conto che la mia amica soffriva a volte di un vero e proprio sdoppiamento della personalità. «Accidenti! Renesmee, mi dispiace! Scusami, sono stata odiosa».
Sorrisi. «Non ti preoccupare. Però secondo me dovresti… Aspetta un attimo». In quel momento papà si era infilato silenziosamente dentro la stanza.
«Tesoro, sono le nove e mezza passate: dovresti finire i compiti. Vi vedrete domani a scuola».
«Capito. Dammi un minuto». Si dileguò silenzioso come era apparso e io tornai al telefono. «Jas? Devo andare, è tardi».
«Sì, anche per me. Ci vediamo domani, allora».
«Certo. Notte, J. E cerca di non cadere in qualche bel sogno insieme a Tom».
Lei ridacchiò. «Sta' zitta! Notte!»
Chiusi la comunicazione con un sorrisino e ripresi a studiare. Mezz’ora più tardi, quando cominciavo a sentire che la testa minacciava di staccarsi dal corpo, misi di nuovo i libri nella borsa e scesi al piano di sotto. Per il resto della sera dimenticai la mia chiacchierata con Jas mentre guardavo la tv e giocavo a carte con gli zii, ma più tardi, tornata al cottage con Edward e Bella, quel pensiero si impose alla mia attenzione. Mentre mi preparavo per andare a letto, rimuginai sulle parole di Jas e a quello che non aveva detto, ma che aveva pensato: non avevo nessuna esperienza con i ragazzi. Stavo continuamente con Jacob, sì, ma lui era il mio migliore amico, quasi un fratello, non un ragazzo e basta… Lui era il mio Jacob. Lui era speciale. Cosa significasse davvero stare con un ragazzo normale, cosa si provasse, non lo sapevo. 
Eppure, non ero una sprovveduta completa. Avevo letto abbastanza libri e guardato abbastanza film da nutrire la mia immaginazione, avevo ben quattro, innamoratissime coppie da osservare a casa e delle amiche con una vita sentimentale ben più movimentata della mia... e, sebbene non potessi vantare alcuna esperienza diretta, ero a conoscenza di un paio di cosette fondamentali.
Tanto per cominciare, grazie alle confidenze delle mie amiche sapevo che la maggior parte degli studenti del secondo anno delle superiori non erano altro che ragazzini immaturi ossessionati da sport, videogiochi e spalline del reggiseno in bella mostra, che uscivano con le compagne di classe soltanto per passare un pomeriggio a pomiciare da qualche parte e poi raccontarlo ai loro amici il giorno dopo... Ecco perchè ogni volta che qualcuno mi osservava o si faceva avanti, chi spavaldo e disinvolto, chi timido e impacciato, puntualmente lo respingevo. Non avevo alcuna intenzione di finire sulla lista delle loro conquiste e poi... nessuno di quei ragazzi mi era mai piaciuto davvero. Eppure, questo non mi impediva di avvertire un vuoto, dentro di me, quando pensavo a Tom e Jas e a quanto fossero carini insieme mentre passeggiavano nel cortile della scuola mano nella mano. Desideravo quello che avevano loro e allo stesso tempo mi sembrava irrealizzabile, troppo distante da me... Una mezza vampira con il fidanzatino del liceo? Troppo complicato. Solo a pensarci mi scoppiava la testa. Finchè si trattava di frequentare delle amiche, potevo anche farcela, ma avere una storia con qualcuno... sì, decisamente troppo complicato. Anche se, a rifletterci bene, niente avrebbe mai potuto essere più complicato delle vicende sentimentali di Jas, pensai, sorridendo tra me e me, appena prima di scivolare nel sonno.







Note.
1. Il link della canzone: http://www.youtube.com/watch?v=_SE4zuXEEXE.








Spazio autrice.
Eccomi di ritorno con il secondo capitolo! Anche questo, come il primo, è un po' introduttivo, lo so, non succede niente di che... Ma i primi capitoli sono sempre introduttivi, non trovate? Nel prossimo capitolo cominciano gli avvenimenti ;-). A presto!

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Capitolo 3
*** Unwritten ***


Capitolo 1
Capitolo 3
Unwritten


Feel the rain on your skin

no one else can feel it for you
only you can let it in
no one else, no one else
can speak the words on your lips
drench yourself in words unspoken
live your life with arms wide open
today is where your book begins
the rest is still unwritten.
Unwritten, Natasha Bedingfield¹




A volte il destino gioca scherzi piacevoli.

STEPHENIE MEYER, New moon

                                                    

«Renesmee? È ora di alzarsi».
Come ogni mattina fu papà a svegliarmi, accarezzandomi piano la fronte. Mugugnai qualche protesta e mi rigirai nel letto, ma lui insistè finchè non mi fui tirata su, poi se ne andò. Barcollai fuori dal letto, infilai nello stereo il primo cd che trovai sul comodino e alzai il volume, giusto per svegliarmi completamente. Aprii le tende e osservai scocciata il cielo grigio. Visto Jake?, pensai tra me e me, un’altra giornata come tante.
«Renesmee! Sbrigati o farai tardi» chiamò la mamma dalla cucina.
Feci una doccia lampo e mi vestii. Mentre mi truccavo davanti allo specchio, papà fece capolino sulla porta. «Alice ha appena telefonato, lei e Jasper ti hanno preparato la colazione. Ti va bene o vuoi mangiare qui?»
«No, va bene» bofonchiai, concentrata nel tracciare delle linee perfette con l’eyeliner sulle palpebre. Non era insolito che mangiassi a casa dei nonni: quando proprio non c'era nient'altro da fare per riempire le loro giornate senza fine, cucinare per me era una gradita attività per i membri della famiglia Cullen. Finito di truccarmi, corsi in camera per prendere giacca, sciarpa e borsa.
«Ciao mamma, ciao papà» strillai mentre correvo verso la porta.
«Ciao!» mi risposero in coro.
Cinque minuti dopo ero a casa dei nonni. Aprii con le mie chiavi e puntai subito verso le scale. In cucina trovai solo Alice e Jasper, occupati a preparare la colazione.
«Buongiorno» esordii.
«Buongiorno, Raggio di Sole» esclamò la zia. 
La incenerii con lo sguardo: ormai ero decisamente troppo grande per quel vecchio nomignolo che mi aveva affibbiato nonno Charlie, ma lei sembrava non farci caso. Fece un gesto verso il tavolo dove stava disponendo cereali, succo d’arancia e biscotti al cioccolato. «Spero che tu abbia fame… La colazione è pronta».
«Grazie… Wow, le frittelline!»
Proprio in quel momento zio Jazz aveva lasciato i fornelli e stava facendo scivolare in un piatto due frittelle dorate e profumate. Uno dei grandi misteri della vita, per me, era come accidenti riuscissero i vampiri a cucinare così bene senza assaggiare mai nulla. Papà era il cuoco migliore, secondo me, ma le frittelline di zio Jasper erano imbattibili.
«Figurati, è divertente» rispose la zia, mentre mi scrutava da capo a piedi. «E complimenti per l’abbinamento».
La ringraziai ricambiando il sorriso perché avevo già la bocca piena. Zia Alice si era autoeletta consulente di moda ufficiale dell’intera famiglia e non permetteva a nessuno di uscire di casa senza prima aver superato un'attenta ispezione. Per fortuna io avevo ereditato la sua passione per la moda e sapevo di riuscire a vestirmi piuttosto bene anche da sola, ma questo non le impediva di esaminarmi come un sergente ogni volta che la incrociavo.
In quel momento zio Emmett entrò in cucina fischiettando. «Ciao, Nessie». Mi lanciò un’occhiata penetrante, le sopracciglia che sciabolavano minacciosamente. «Quella gonna non è un po’ troppo corta per andare a scuola?»
«Lasciala stare, Emm» intervenne Alice. «Se è uscita di casa così vuol dire che a Edward e Bella sta bene e, se sta bene a  loro, a te non deve interessare».
«Certo che mi deve interessare!» protestò, indignato. «Sono suo zio e ho il preciso dovere di intervenire se va a scuola con una minigonna che sembra un francobollo».
Nessuno gli diede retta. «Nessie» continuò la zia «stamattina Carlisle non può accompagnarti perché il suo turno inizia alle dieci». 
Annuii. Carlisle era l’unico che uscisse di casa tutte le mattine, così in genere mi portava lui a scuola.
«Ti porto io» fece zio Jasper. «In moto». E mi sorrise da lontano, i denti affilati che luccicavano come piccoli diamanti.
«Fantastico!» esclamai. Adoravo andare in moto con lui, soprattutto perché non capitava tanto spesso. Esitai un poco. «Solo… ehm, non ho chiesto ai miei». Ecco una cosa che proprio non sopportavo: per andare in moto dovevo avere il permesso di Edward e Bella, come se fossi stata una bimbetta.
«Tranquilla, l’ho fatto io» rispose la zia. «Ho parlato con tua madre».
«Perfetto» gongolai, soddisfatta. 
Probabilmente la mamma aveva detto di sì solo perché discutere con zia Alice la stressava parecchio e tanto non la spuntava mai. Finii in fretta la colazione ed io e Jazz scendemmo in garage. Reagii con una smorfia quando mi porse il casco.
«Non ci metteremo neanche dieci minuti, è inutile» provai a protestare. Non aggiunsi il vero motivo: il casco mi avrebbe rovinato i capelli. Meglio lasciarseli scompigliare dal vento che appiattirli dentro il casco. Lui non rispose, limitandosi a fissarmi, ma fu sufficiente: rassegnata, lo presi e lo indossai.
Mentre sfrecciavamo verso la scuola, pensai che quel dannato casco non sarebbe stato poi così indispensabile senza la guida da folli che caratterizzava tutti i Cullen quando si trovavano su di un qualunque mezzo di trasporto… tranne la mamma: sembrava che la trasformazione in vampira non avesse scatenato in lei il minimo interesse per le auto veloci. Probabilmente era l’unica al mondo a possedere una Ferrari e a guidare tenendosi sotto i sessanta all’ora. Quando Jasper inchiodò la moto argentata nel cortile della scuola, scesi, un po’ barcollante, mi sfilai il casco e cominciai subito a rimettere in sesto i capelli con le mani. Jasper alzò gli occhi al cielo. 
«Renesmee, smettila. Stai benissimo».
«Lo so» risposi con tono scherzoso e un sorrisetto sulle labbra. «Grazie del passaggio, a dopo».
«Ciao, buona giornata».
Mentre mi avviavo verso la scuola, sentii alle mie spalle il rombo della moto che ripartiva. Avevo fatto solo pochi passi quando…
«Renesmee! Ehi, Renesmee!»
La mia amica Danielle Warner mi venne incontro di corsa, i capelli castani e lo zaino che le ballavano sulle spalle. La salutai con la mano e attesi che mi raggiungesse.
«Ciao» ansimò.
«Ehi! Come mai così di fretta?»
«È tardi» mi fece notare mentre mi prendeva sotto braccio e ci incamminavamo nel cortile.
Alzai gli occhi al cielo. «È tardi solo dal tuo punto di vista, Danielle. Dubito che assistere ai primi tre minuti della lezione del professor Flowers cambierà le nostre vite».
Mi lanciò un’occhiata di disapprovazione e lasciò cadere l'argomento.
«Ieri sera ho provato a chiamarti per mezz’ora a casa dei tuoi nonni, perché Jas mi aveva già detto che da te non c’era nessuno, ma era sempre occupato. Con chi eri al telefono?»
Sospirai. «Lascia perdere, per favore».
Fece un sorrisino furbo. «Ho capito… Solita storia?». Annuii con espressione tragica e lei ridacchiò. «Si frequentano solo da tre settimane e già non ne puoi più? Pensa quante cose Jas avrà da raccontare quando staranno insieme da cinque anni… le telefonate serali dureranno tutta la notte!»
Ridacchiamo insieme, mentre attraversavamo la strada per raggiungere l’edificio cinque. In quel preciso istante, il rumore di una frenata brusca e stridente squarciò l'aria. Mi guardai intorno con un sussulto di sorpresa, mentre Danielle cacciava un urletto spaventato, e vidi una bellissima auto nera e sfavillante che inchiodava sull’asfalto giusto in tempo per non investirci in pieno.
«Ehi…» protestò Danielle, indignata. Sbuffò. «Ma che diavolo… Vieni, andiamo». Mi prese per un braccio e mi tirò via dal centro della strada.
Allungai un po’ il collo per capire chi ci fosse nell’abitacolo. I finestrini erano oscurati, ma quello del guidatore era parzialmente abassato e scorsi il profilo di un ragazzo con i capelli neri e gli occhiali da sole. Non lo riconobbi. D’altra parte, non avevo mai visto neppure quella macchina. Il ragazzo al volante attese che Danielle ed io fossimo in salvo sull’altro marciapiedi, girando un po' la testa per seguirci con lo sguardo, poi ripartì e si allontanò verso il parcheggio.
«Chi era quello?» sussurrai.
Lei alzò le spalle. «Non ne ho idea, non l’ho visto bene. Accidenti a Jas, per parlare di lei stavamo per farci investire!» esclamò, un po' irritata, un po' divertita. «Ma guarda » disse all’improvviso appena entrammo nell’edificio. «Parli del diavolo…»
Jas ci venne incontro quasi di corsa, strillando come un’isterica. «Ragazze! Ragazze, non indovinerete mai cosa succede oggi!»
Danielle ed io ci scambiammo un’occhiata e un sorrisino d’intesa. «Finalmente ti degnerai di prendere appunti durante letteratura invece di copiare i miei prima del prossimo test?» fece lei.
Jas le dedicò un’occhiataccia e un furioso battito di ciglia. «Lo sai che questo va al di là delle mie capacità scolastiche. Comunque, se cominciate a prendermi in giro di prima mattina non vi dirò niente e vi abbandonerò nelle tenebre dell’ignoranza» dichiarò con aria offesa.
Sospirai. «Dai, che tanto non resisti! Allora, che succede oggi?» chiesi mentre camminavamo vicine nel corridoio degli armadietti.
Nei suoi occhi azzurri luccicò qualcosa che conoscevo fin troppo bene: l’eccitazione del pettegolezzo. «Okay, visto che insistete: arriva uno studente nuovo!»
La guardai, stupita: e se fosse stato… Prima che potessi parlare Danielle intervenne. «Tu sai sempre tutto! Come fai a sapere sempre tutto?» chiese con tono leggermente stizzito.
Jas sorrise. «Ho le mie fonti».
Danielle sospirò, rassegnata. «Voglio vederlo… Speriamo che abbia qualche corso insieme a noi».
«Non riusciremo a vederlo facilmente» rispose Jas. «È più grande, credo che sia al terzo anno».
Ecco perché era al volante, pensai. Doveva essere proprio lui. «Be’, noi l’abbiamo visto».
Jas sgranò gli occhi con espressione sconvolta. «Cosa? E quando?»
«Già, quando?» le fece eco Danielle, occupata a riempire lo zainetto di libri e quaderni.
«Poco fa, nel parcheggio: ci ha quasi investite».
A quella rivelazione Danielle trattenne il fiato e spalancò gli occhi. «Cioè vuoi dire… Era lui
«Per forza, nessuno ha una macchina del genere, qui. E poi non mi è sembrato per niente familiare».
«L’avete visto sul serio?» esclamò Jas. Sembrava sconvolta.
Le feci un sorrisino. «Sì! Questa volta ti abbiamo battuta».
«Non credo, mia cara» ribattè, trionfante. «Io so un’altra cosa che voi non sapete!»
«Cioè?» la incalzò Danielle. Era abbastanza ingenua e curiosa da essere l’ascoltatrice perfetta per Jas.
«Viene da New York» squittì Jas. «Me l’ha detto Susie Finch appena cinque minuti fa, dopo che l’ho staccata da Simon Brown».
«E perché hai dovuto staccarla da Simon Brown?» chiese Danielle.
«Perché si stavano baciando» le risposi. Non che lo sapessi, ma non era difficile da immaginare.
«Ah» fece lei e arrossì un po’. «Come mai si è trasferito, comunque?»
«Questo non lo so. Non ancora. Non sono mica l’FBI» disse Jas e a quelle parole scoppiammo a ridere tutte e tre.
Non avevamo ancora smesso, quando suonò la campanella e fummo costrette ad abbandonare i pettegolezzi per correre nell'aula di letteratura inglese.



****



Fu una mattina decisamente fuori dal comune. Nei corridoi tra una lezione e l’altra, dentro le aule in assenza dei professori, nei bagni delle ragazze, fuori alla mensa, negli angoli del cortile, dappertutto un unico, incessante mormorio: non si faceva che parlare di lui, il nuovo arrivato, il ragazzo del mistero, e fin dalla prima ora avevano cominciato a circolare le poche notizie divulgate da chi frequentava i suoi stessi corsi, talmente scarse che non facevano che incrementare la curiosità generale. E in un posto dove non succedeva mai nulla, quello era solo l’inizio.
Quanto a me, ero curiosa, ma non così tanto da non riuscire a pensare ad altro o a parlare d’altro. Era altamente improbabile che lo incrociassi a una delle mie lezioni, visto che frequentava il terzo anno, e nei corridoi affollati e caotici cercai invano un volto che mi risultasse del tutto nuovo.
Durante la terza ora il test di matematica mi fece uscire dalla mente tutto il resto finchè non ebbi finito. Dopo aver consegnato il compito, uscii dall’aula con Jas, che era troppo impegnata a lamentarsi della crudeltà del professor Peters, il nostro docente di matematica, e ad insultare la goniometria per ricominciare a spettegolare. 
Raggiungemmo l’aula della lezione successiva, geografia, e prima ancora di sederci fummo raggiunte da Holly Matthews, decisa invece a riprendere il solito argomento, e Danielle. Holly e Jas si immersero subito in una fitta conversazione punteggiata da risatine e piccoli scoppi d’isteria (a quanto pareva, una del terzo anno aveva diffuso la voce che il ragazzo nuovo avesse un fondoschiena fantastico), mentre Danielle mi chiedeva del test di matematica, ma fummo interrotte presto dall’arrivo del professor Redmont, occupato a trascinarsi dietro un televisore e un videoregistratore su un mobile dotato di rotelline. Sospirai, afflitta: era già la terza lezione in una settimana che ci propinava quel dannato documentario su uragani, trombe d’aria e il loro impatto ambientale… Per fortuna, quel giorno ci sarebbe toccato ascoltare l’ultima parte.
«Oh santo cielo» si lamentò Jas, seduta nel posto accanto al mio, con voce bassa ma perfettamente udibile. «Ma non finisce mai questo documentario?»
Il professore la fulminò con lo sguardo e tornò ad armeggiare con la videocassetta. Magari l’avrebbe rimproverata, se solo non fosse stato lui stesso così profondamente annoiato dalla sua materia. Fece partire il documentario e nel giro di cinque minuti ero sprofondata nel torpore, complici le imposte delle finestre abbassate per migliorare la visuale. Fissavo lo schermo senza interesse, prendendo svogliatamente qualche appunto, e lasciavo che i miei pensieri vagassero qua e là senza mete precise.
A un tratto, nel bel mezzo del documentario, accadde qualcosa: un piccolo fascio di luce comparve sulla destra, dove si trovava la porta, accompagnato da un lievissimo cigolio, e un istante dopo era scomparso. Qualcuno doveva essere entrato. Prima che potessi girare la testa e guardare, un’ombra scura raggiunse con due passi l'ultima fila, dove ero seduta, e si infilò nel posto vuoto accanto al mio. Era un ragazzo. Gli lanciai un'occhiata sorpresa, cercando di capire chi fosse. Non lo conoscevo. Non era sicuramente qualcuno della mia classe di geografia. Lo guardai meglio e quel ciuffo di capelli neri sulla fronte fu una folgorazione. Oddio, poteva essere... In quel momento, il ragazzo notò che lo stavo fissando a bocca aperta. Mi sorrise. 
«Ehi, Scheggia» sussurrò.
Non afferrai. Scheggia? Guardai velocemente in direzione di Redmont: era seduto alla cattedra, ma dava le spalle alle spalle, la sedia girata in modo da poter vedere il documentario, e a giudicare dalla strana pendenza della sua testa quasi pelata non era tanto più sveglio di noi. Potevo rischiare. Mi sporsi un poco verso di lui. 
«Come, scusa?»
«Ma sì… Sei la ragazza del parcheggio. Quella che stamattina ho quasi investito. Ti ho soprannominato Scheggia... Sembravi parecchio di fretta, tanto da non guardare prima di attraversare la strada».
Il suo tono ironico non mi piacque affatto. 
«E tu hai mai sentito parlare di limiti di velocità? Forse pensavi di essere su un circuito di auto da corsa e non nel parcheggio di una scuola» ribattei, piccata.
Inarcò appena un sopracciglio, poi gli scappò una risatina soffocata. Lanciai un’altra occhiata a Redmont, tesa, ma lui era perfettamente immobile. «Okay, hai ragione» disse. «Scusa. Ho esagerato, stamattina. Mi sono fatto prendere la mano... Volevo provare la macchina. È nuova».
«Buon per te». Mi raddrizzai e mi accorsi che Jas, seduta dall’altro lato a qualche banco di distanza, mi fissava con occhi e bocca spalancati, come se avesse visto un fantasma. Mi augurai che si ricomponesse.
«Allora, sei ancora arrabbiata?» continuò il ragazzo con voce leggermente maliziosa.
«Arrabbiata?» ripetei. «No… Sono un po’ sorpresa, veramente».
«Perché?»
Feci un respiro profondo e per la prima volta sentii il suo profumo. Sapeva di dopobarba, bagnoschiuma e... un vago sentore di rose. Lo assaporai per qualche istante, in silenzio, prima di rispondergli.
«Che ci fai qui? Pensavo frequentassi il terzo anno».
Corrugò la fronte, chiaramente sorpreso del fatto che sapessi di avere di fronte il nuovo arrivato. Forse doveva ancora entrare nella modalità "vita in una cittadina di provincia". «Le voci corrono così in fretta? È vero, sono del terzo anno. Ho avuto solo un piccolo problema».
Un piccolo problema? Che razza di risposta era? Mi voltai per guardarlo di nuovo, stupita. Aveva un viso molto bello: lineamenti fini e regolari, occhi di un azzurro intenso e luminoso, capelli lisci e neri che ricadevano in ciocche morbide sulla fronte ampia e chiara.
«Capisco» sussurrai. «Ma sarebbe meglio se adesso tornassi in classe o ci metterai nei guai, tutti e due». In realtà, probabilmente avremmo potuto continuare a parlare per tutta l’ora visto che Redmont sembrava ormai collassato, ma non mi andava che stesse lì, seduto accanto a me, a parlarmi con quel tono, come se fossimo stati vecchi amici, e a rivolgermi quel sorriso presuntuoso. Mi infastidiva un po'.
Lui annuì, fingendosi serio. «Sì, sarebbe meglio: devo ancora farmi perdonare per stamattina, l’ultima cosa che voglio è metterti nei guai».
«E tu non ti preoccupi di finire nei guai? Vuoi solo salvare me?»
«Nah… Lo vorrei proprio, qualche guaio: scaccerebbe la noia… e il resto».
Okay, era ora di piantarla. «Be’, io non mi stavo annoiando».
«Ah, no?». Lanciò un’occhiata veloce allo schermo della televisione e ridacchiò.
Mi sta prendendo in giro, pensai, stizzita. «Stai bluffando, secondo me» ribattei con tono di superiorità.
Inarcò un sopracciglio, senza smettere di sorridere. «Accidenti Scheggia, mi hai smascherato».
D’accordo, basta. «Non stavi andando via? Per non mettermi nei guai?»
«Hai ragione. E poi credo che il pericolo sia passato». Non capii cosa intendeva dire, ma prima che potessi aprire bocca, controllò velocemente Redmont e si alzò in piedi con cautela, per non far rumore. «Ciao Scheggia, buon divertimento» sussurrò, chinandosi verso di me, poi si diresse alla porta e uscì silenziosamente. Lo seguii con gli occhi finchè potei, perplessa da quello strano incontro, quando la faccia sconvolta di Jas comparve all’improvviso nella mia visuale.
«Era lui?» sussurrò, concitata. «Era quello nuovo? Che faceva qui? Che ti ha detto?». Si sporgeva tanto da sembrare in procinto di saltare sul mio banco.
«Ssh» la rimproverai. «Ne parliamo dopo».
Riuscii a tenerla buona per il resto dell’ora, ma appena suonò la campanella del pranzo non aspettò nemmeno che fossimo uscite e quasi mi si avventò addosso per avere i particolari. Le altre non ci misero tanto a capire cos’era successo e nel giro di due minuti mi ritrovai letteralmente bersagliata di domande, mentre ci dirigevamo verso la mensa. Purtroppo non fui in grado di rispondere alla maggior parte dei loro quesiti: non avevo potuto soffermarmi sul fondoschiena del nuovo arrivato e quindi non sapevo dire niente ad Holly sull’argomento, nonostante le sue ansiose richieste.
Quando entrammo nella mensa mi parve che tutti stessero parlando della stessa, identica cosa. Tutti comprese le mie amiche. Lasciammo le borse al nostro solito tavolo, dove si erano già sistemati Tom Evans, Paul Davis e Scott Green e ci mettemmo in coda al banco delle vivande, senza che loro cambiassero argomento. Si interruppero solo per fare qualche battuta disgustata sul pranzo: il menù del giorno prevedeva tagliatelle alla panna con funghi, ma a me sembrava colla e basta.
Tornammo al tavolo e mi ero appena seduta, quando Paul mi chiamò dall’altro lato del tavolo. «Ehi, Renesmee! Di' un po', è vero che quello nuovo ha un’auto da sballo?»
Lo guardai aggrottando la fronte. Holly, che usciva con lui da qualche mese, se ne stava abbarbicata alle sue spalle come una naufraga a un salvagente. «Non ne ho idea. Le sedie ne sanno più di me in fatto di macchine».
«Ho sentito che è un'Audi coupè» intervenne Tom con aria interessata.
«Nello spogliatoio un ragazzo mi ha detto che è una Mercedes» fece Scott. 
Paul aveva la bocca piena e non aggiunse nulla, si limitò ad annuire calorosamente.
«Oh, ma chi se ne importa della sua macchina!» esclamò Jas. «Pare che abbia degli occhi fantastici, vero, Renesmee?»
Sospirai. «Jas, gli ho parlato per due minuti ed eravamo quasi al buio: non ne ho idea». La verità era che quel discorso mi metteva un po' a disagio. Ripensare a quel ragazzo e al nostro singolare incontro mi causava una strana sensazione... come un formicolio lungo la schiena. E non ne capivo il perchè.
«Chi se ne importa degli occhi» rincarò Holly mentre apriva la sua lattina di Coca. «Sarah Richardson mi ha detto che il suo fondoschiena è da urlo».
«Ah, sì? È solo la trentesima volta che lo dici» fece Danielle con tono esasperato. Holly le dedicò una linguaccia.
«Scusa, vorresti dire che il suo è meglio del mio?» esclamò Paul girandosi verso Holly, indignato.
«Non c’è paragone» rispose Tom imitando l’aria sognante di Holly e scoppiammo tutti a ridere. 
Prima che qualcuno aggiungesse qualcos’altro di stupido, fummo raggiunti da Maggie Smith, ultima componente del nostro solito gruppo, che piombò come una folata di vento accanto al tavolo.
«Alexander Christopher Hayden» annaspò ancora prima di occupare il suo solito posto.
«Cosa?» chiese Jas con aria distratta, prendendo una forchettata di tagliatelle.
«Ciao anche a te» disse Scott, ironico.
«Alexander Christopher Hayden» ripetè Maggie, imperturbabile.
«Ma di che parli?» domandai.
«Di quello di cui parlate anche voi, ci scommetto tutta la paghetta settimanale!» esclamò con tono deciso. Sedette di fronte a me, scostandosi i ricci castani disordinati dalla fronte. «È lui, il ragazzo nuovo, si chiama così».
Holly la guardò, sconvolta. «E tu come lo sai?»
«Me l’hanno detto Jordan e la sua ragazza, li ho incontrati due minuti fa» spiegò Maggie. Jordan era suo fratello maggiore e frequentava proprio il terzo anno. Forse aveva qualche corso in comune con il nuovo arrivato.
«Alexander Christopher Hayden» ripetè Jas, gongolando. «Wow, perfino il suo nome è da sballo». Tom le lanciò un’occhiataccia che lei ignorò.
«È incredibile» esclamò Danielle, guardando Maggie con occhi sgranati. «Non comincerai anche tu, adesso! Bastano già Holly e Jas con il loro telegiornale quotidiano».
«Non preoccuparti, Danielle» la consolò Jas con un sorrisino malizioso. «Oggi Renesmee ci ha battute tutte». Si girò verso Maggie. «Durante l’ora di Redmont, Alexander Christopher Hayden si è intrufolato nella nostra classe e le ha parlato per due minuti!»
«Cosa?» trillò Maggie, girandosi di scatto verso di me. «Racconta! Voglio sapere tutto!»
Sospirai. Sarebbe stata una giornata ancora molto lunga.




****

 

Quando sentii suonare l’ultima campanella, mi trattenni a stento dal fare i salti di gioia. Non mi piaceva essere al centro dell’attenzione e non riuscivo a sentirmi così eccitata da quell’ incontro come sembravano esserlo le mie amiche: era stato tutto troppo veloce e improvviso perché potessi già essermi fatta un’idea.
In cortile salutai le ragazze con un bacio e mi diressi verso la moto metallizzata di zio Jasper, ferma poco lontano. Stavo per attraversare la strada, con più cautela, questa volta, quando con una sgommata una macchina si fermò accanto a me, bloccandomi dov’ero. La riconobbi all’istante.
«Ehi, Scheggia! Com’era il documentario?»
Fissai il profilo dentro l’abitacolo, inorridita. «Allora mi perseguiti» farfugliai.
Lui gettò indietro la testa e rise. «No, giuro! Voglio solo darti un passaggio».
«Cosa?». Non c’era una risposta adeguata a una proposta come quella. «Io nemmeno ti conosco» dissi, sorpresa.
«Sì, ma devo ancora farmi perdonare per averti quasi uccisa, stamattina, e poi per averti quasi messa nei guai… Ah, e devo anche ringraziarti per avermi coperto con quel professore. Andiamo, salta su».
Per un istante, un unico, folle istante, fui tentata di balzare sul posto accanto a lui e scappare come una fuggitiva da zio Jazz e da quello che mi attendeva a casa… la solita, vecchia, noiosa vita di tutti i giorni. Ma l’istante passò e la ragione ebbe la meglio. Ricambiai il sorriso impertinente.
«No, grazie. Voglio vivere ancora un po'. E se proprio vuoi scusarti o ringraziarmi o tutte e due le cose, impara ad usare i freni. Ciao, straniero».








Note.

1. Il  link della canzone:  http://www.youtube.com/watch?v=wJgjyDFfJuU.  Io la adoro e la trovo perfetta per il capitolo, e voi? E poi questo video è molto carino ;-).








 

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Capitolo 4
*** It's time ***


Capitolo 1
Capitolo 4
It's time

It' time to begin, isn't it?

I get a little big bigger, but then I'll admit
I'm just the same as I was
Now don't you understand
I'm never changing who I am.
It's time, Imagine Dragons¹

Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?

WILLIAM SHAKESPEARE


 

«Ciao, piccola» mi salutò Jasper quando raggiunsi la moto. Mi passò il casco. «Chi era quello?»
«Nessuno» risposi mentre salivo dietro di lui. Ed era la pura verità.
Non indagò oltre e mise in moto. «Com’è andata? Il test di matematica?»
Mi imposi di non guardarmi indietro mentre uscivamo dal parcheggio. «Bene, credo. Saprò il voto la prossima settimana».
«Un’altra A in arrivo per la signorina Cullen» disse in tono scherzoso, strappandomi una mezza risata.
Il tragitto verso casa durò pochissimo, sebbene zio Jazz rallentasse di parecchio la propria andatura abituale perché c’ero io. Per fortuna non pioveva. Ripensai all’espressione incredula del ragazzo misterioso quando gli avevo dato quella rispostaccia e mi ero allontanata senza aggiungere altro… Oh, dimenticavo, non era più il ragazzo misterioso, adesso aveva un nome: Alexander Hayden. Sembrava perfetto per lui. Un nome così elegante e snob calzava a pennello ad un tizio che si comportava come se avesse il mondo ai suoi piedi per divertirlo e se ne andava in giro con una Mercedes o un'Audi o quello che era.
Scesi dalla moto prima che Jasper la parcheggiasse nel garage al coperto e corsi in casa, infreddolita. Lasciai la giacca e la borsa nell’ingresso e salii in cucina. Lì trovai Esme e Rose, sedute al tavolo ingombro di disegni e progetti. Mi chiesero della mia giornata ed io glissai sui particolari più strampalati.
«Stai lavorando a qualcosa di nuovo?» chiesi ad Esme mentre mi preparavo un sandwich.
«Sì» rispose con gli occhi che le brillavano. «Un professore universitario di Seattle mi ha chiesto di restaurare una villa in campagna costruita all’inizio del ventesimo secolo».
«Sembra impegnativo» dissi, dando un’occhiata ai fogli sparsi sul ripiano.
«Certo, ma anche molto interessante».
Diedi il primo morso al sandwich e presi in mano un progetto per guardare meglio. In quel momento zia Alice entrò nella stanza.
«Nessie!» trillò, entusiasta. «Finalmente sei tornata, devo parlarti! Io e Rose abbiamo programmato una giornata di shopping a Olympia, questo sabato, puoi venire?»
Ci pensai un attimo. «Sì, credo di sì. Ho giusto bisogno di scarpe nuove».
«Perfetto! Si ha sempre bisogno di scarpe nuove» sentenziò Alice.
«Dovrò dirlo alla mamma, però» aggiunsi con tono mesto.
«Oh, sta' tranquilla» disse la zia. «Se ti crea problemi ci penso io. E comunque dovrebbe ricordare che la tua cabina armadio è stata un mio regalo e dunque ti autorizzo a riempirla come ti pare e piace».
Nei confronti della moda e dello shopping Bella aveva più o meno la stessa reazione che aveva verso il cibo umano, quindi parlare con lei di queste cose era fuori discussione. Un paio di volte mi aveva accompagnato a fare spese, ma aveva aperto bocca solo per protestare contro i miei acquisti mentre per il resto del tempo si era annoiata a morte, quindi non le avevo più chiesto di venire. Ormai Alice aveva preso l'abitudine di fare acquisti anche per lei e poi farglieli trovare già al loro posto dentro la cabina armadio… E poiché la mamma detestava gli sprechi di soldi almeno quanto detestava lo shopping, dopo una bella sfuriata si rassegnava ad indossare quello che le aveva comprato la sua troppo intraprendente cognata come se fosse stata una punizione.
«A proposito, dove sono i miei? A casa?» chiesi all'improvviso.
L’atmosfera si fece tesa nel giro di un secondo: Esme ricominciò a tratteggiare con la matita su un progetto, Rosalie girò la testa verso le finestre ed Alice prese a studiarsi le unghie perfette con attenzione. «Che succede? Dove sono andati?» domandai, sospettosa. Silenzio. «Pronto?» sbottai, sempre più stizzita.
«Ehm… Non lo so, tesoro, mi dispiace» si scusò zia Alice.
La guardai male. «È impossibile che tu non lo sappia! Dove sono?»
Rose sospirò. «E va bene: sono andati a caccia».
Trattenni rumorosamente il fiato. «Che cosa?» esclamai, indignata e sconvolta. «Non ci credo, l’hanno fatto di nuovo! Mi avevano promesso di portarmi con loro, la prossima volta, e invece… Che bugiardi!»
Erano solo due settimane che non cacciavo e per me, che ero vampira solo per metà e riuscivo a mantenermi anche solo con il cibo umano, era un periodo piuttosto breve. Trattenere la sete non era mai stato un problema, era una sorta di riflesso istintivo e inconsapevole. Mi era successo varie volte di non andare a caccia per un paio di settimane, ma la cosa non mi causava problemi. Tuttavia, avevo bisogno anche del sangue per tenermi in forze: se ne facevo a meno per troppo tempo, mi indebolivo. E poi era divertente. I miei genitori, invece, erano sempre preoccupati quando cacciavo, anche se non lo facevo mai da sola, e mille paure li spingevano a starmi con il fiato sul collo dall’inizio alla fine: paura che cadessi e mi rompessi qualcosa, che non fossi abbastanza forte e veloce, che incontrassimo qualche nomade non vegetariano mentre era a caccia e che fosse attirato dalla mia scia e via di questo passo. Ecco perché, in linea di massima, preferivo cacciare con Jacob: non perché fosse meno apprensivo, ma perché essendo in forma di lupo non poteva intasarmi le orecchie con un milione di raccomandazioni e di divieti… Al massimo poteva ululare un po’, ma senza esagerare, per non farsi sentire.
L’ultima volta ero stata lasciata a casa con la scusa del mio raffreddore e adesso quale avrebbero usato? Zia Rosalie mi rivolse un sorriso paziente.
«Tesoro, avevano sete e lo sai che noi non possiamo aspettare quanto te. Non è prudente, soprattutto per la mamma, che è ancora giovane. Non ti preoccupare, ti accompagneranno quando vorrai».
Mi stizzii ancora di più. «Non mi servono i baby-sitter quando vado a caccia! Posso andarci anche da sola!»
«Certo che sì!» disse subito zia Rose con aria colpevole ed esitante. «Ma… sarebbe meglio di no».
La fissai in silenzio per un minuto. Non trovavo le parole per risponderle. Alla fine pensai che i compiti fossero il modo migliore per farmi passare l’arrabbiatura e comunque mi sarebbe toccato farli lo stesso.
Andai nella stanza di papà e a parte una breve pausa per chiamare Jas, che era in piena crisi isterica, alle prese con una valanga di capitoli di matematica da recuperare, non uscii da lì e nessuno venne a disturbarmi. Jacob aveva del lavoro da sbrigare e preferii non fargli perdere tempo. Forse pensavano che fossi ancora troppo arrabbiata. In realtà, avevo in testa pensieri ben più interessanti dei miei genitori e le loro assurde fobie… Fingere di essere incavolata a morte li avrebbe fatti sentire in colpa, però, quindi tenni il muso per tutto il pomeriggio.
Stavo scrivendo una relazione sul documentario di geografia, anche se più che uragani e problemi ambientali avevo in mente occhi azzurri scintillanti e sorrisi impertinenti, quando sentii bussare e mi riscossi.
«Avanti» farfugliai. Lanciai un’occhiata alla stanza ormai quasi immersa nel buio. Doveva essere più tardi di quello che pensavo. I miei fecero capolino dalla porta uno dopo l’altro.
«Tesoro» esordì la mamma con aria dispiaciuta «Esme e Rose ci hanno detto... non essere arrabbiata, per favore. Scusaci, ma ne avevamo proprio bisogno. Abbiamo incontrato Seth e Quil di ronda e c'è mancato poco che diventassero lo spuntino pomeridiano!». Il suo tentativo di battuta non mi fece ridere. Li fissai con espressione truce dal divano di pelle, senza dire una parola. Bella ricambiò lo sguardo per un attimo, poi si girò verso papà. «Su, dammi una mano» lo incitò a voce bassa.
Lui sospirò. «Nessie, lo sai che per noi è una necessità primaria. Quando vorrai andare a caccia non avremo problemi ad accompagnarti… Oppure puoi andare con Jacob, se preferisci».
«Non è per questo» feci a denti stretti «il problema è un altro: so benissimo che evitate sempre di portarmi con voi perché pensate che io non sia in grado di starvi dietro».
La mamma spalancò gli occhi. «Cosa… Non essere ridicola! Certo che ne sei in grado, lo fai da sempre. Devi solo… essere un po’ più attenta di noi».
Aprii la bocca per rispondere qualcosa di irripetibile, ma lo sguardo di papà mi fece cambiare idea. Sbuffai. «Va bene. Fa niente».
«Come possiamo farci perdonare?» chiese la mamma, sedendosi sul divano accanto a me.
«Uhm, vedremo. Sono certa che mi verrà in mente qualcosa» mugugnai.
«Ti serve una mano?». Si allungò e sbirciò il mio blocco per appunti.
Scrollai le spalle. «No, non potete aiutarmi: la relazione deve essere intrisa di tutta la profonda noia del documentario, se no non vale. È scritto nella consegna. E dal momento che non l'avete visto...»
Loro risero, io no.
«È così noioso? Avrei giurato che fino a un minuto fa stessi pensando a… luminosi occhi azzurri…» disse papà, con aria vagamente maliziosa e la fronte aggrottata come per concentrarsi, poi rise di nuovo.
La mamma era stupita. «Come? Chi ha dei luminosi occhi azzurri?»
Alzai gli occhi al cielo, seccata. «Nessuno».
«Scusa piccola, non volevo metterti in imbarazzo» esclamò papà, sforzandosi di frenare la sua risata. «Credevo non fosse importante».
«Non lo è, infatti, e non sono imbarazzata!» sbottai, cercando di controllare il rossore delle mie guance.
«Qualcuno mi spiega che succede?» intervenne la mamma, confusa.
«Te lo spiegherà papà fuori di qui» borbottai.
Lui sembrò sorpreso. «Sul serio? Posso?»
«Certo che sì, tanto ormai lo saprà di sicuro tutta la città».
Continuava a guardarmi in modo strano ed io a mia volta lo fissavo con le sopracciglia inarcate. Bella si alzò e lo prese per mano. «D’accordo, leviamo le tende. Parliamo di sotto».
Se lo tirò dietro e uscirono. Non avevo idea di cosa papà avrebbe raccontato e a dirla tutta nemmeno m’importava. Ero un po' infastidita dal fatto che Edward mi avesse beccata a pensare a lui. Sicuramente ora avrebbe creduto che quel ragazzo mi piacesse, ma non era così. Insomma, senza dubbio era piuttosto bello... affascinante... e anche simpatico, sebbene sembrasse molto pieno di sè e a volte decisamente sfacciato. Ma non c'era nient'altro. Non sapevo nulla di lui, conoscevo a stento il suo nome. Con ogni probabilità, il nostro strano incontro continuava a tornermi alla mente solo perchè si trattava del primo evento che si presentasse a rompere la monotona routine quotidiana da parecchio tempo. Era stato qualcosa di nuovo e di particolare, tutto qui. E se Alexander Hayden aveva degli occhi di un azzurro impossibile da dimenticare, non era certo colpa mia. Ma conoscendo la mia famiglia e la loro abilità nell'impicciarsi degli affari altrui, e in particolare nei miei affari, temevo che la storia non sarebbe finita lì.
Tuttavia, quando scesi per la cena, una mezz’ora più tardi, fui costretta a dire a me stessa che forse avevo lavorato troppo di fantasia: nessuno sembrava occupato a pensare a me o al ragazzo nuovo, tanto meno papà e mamma. Se ne avevano parlato, la cosa doveva essergli sembrata poco interessante. Quando entrai in cucina, Bella rideva e scherzava con Esme mentre cucinavano uno dei miei piatti preferiti, lasagne vegetali. 
«Eccoti! La cena è pronta» disse, tranquilla.
«Bene, muoio di fame» esclamai, ostentando a mia volta disinvoltura.
Mangiai le lasagne lentamente, quasi senza sentirne il sapore, perché troppo concentrata ad ascoltare cosa succedeva intorno a me. Esme illustrava alla mamma e a zia Rose i suoi progetti per la villa inizio secolo. Emmett e Jasper programmavano una partita a poker con Charlie, Jacob e Seth per il sabato successivo. Papà e Carlisle seguivano il notiziario in tv e commentavano l’andamento di alcune azioni che avevano acquistato da poco. Zia Alice trasportava su e giù delle enormi buste da riempire di abiti vecchi (ovvero praticamente quasi nuovi) destinati alla beneficenza. 
Sembrava proprio una serata come tutte le altre, senza niente di speciale. D’altra parte, perché mai mi ero aspettata che fosse diversa? Come se quello che era accaduto durante la mattina avesse cambiato qualcosa. Niente avrebbe potuto influenzare ciò che trovavo lì, nella mia casa, ciò che avrei sempre trovato lì, senza limiti di tempo… Quello non sarebbe mai cambiato, loro non sarebbero mai cambiati, e quel pensiero riusciva a rassicurarmi come nient'altro. La mia famiglia e Jacob erano le due certezze granitiche della mia esistenza e sapere che non sarebbero mai venute a mancare neanche per l'azione del tempo mi faceva sentire sicura.
Il resto della serata trascorse tranquillo come al solito: guardammo tutti insieme un film in tv, poi giocai a scacchi con Jasper e Carlisle. Quando io, Edward e Bella decidemmo di rientrare gli altri stavano uscendo per una battuta di caccia notturna. 
Mentre camminavamo verso casa chiacchierammo del più e del meno: raccontai del test di matematica e mi lamentai per la mostruosa quantità di compiti per me e di lavoro per lui che aveva impedito a me e a Jacob di vederci, quel giorno. Loro mi raccontarono di aver preso due grizzly giganteschi a testa e che la mamma aveva quasi fatto un bagno nel fiume Calawah mentre tornavano indietro.
Arrivati a casa, puntai subito verso il telefono perché volevo fare un saluto rapido al mio Jacob e aggiornarlo sulle ultime novità. Stavo già schizzando nella mia stanza, quando sentii dei passi leggeri dietro di me e la mamma mi chiamò.
«Renesmee, aspetta un secondo, per favore» disse, avvicinandosi. Aveva un sorriso tenero sul volto. «Non abbiamo parlato per niente, oggi».
«Be', non c'è un granchè da raccontare. Il solito» risposi con un'alzata di spalle. 
«Veramente mi era sembrato che fosse successo qualcosa. Qualcosa di particolare».
Ci pensai su per un attimo e quando intuii dove voleva arrivare, sussultai. «Ah, sì! Vuoi dire... il ragazzo nuovo?». Mentre parlavo avvampai senza neanche sapere il motivo. 
«Già. Com'è? Interessante?»
Okay. Ecco la fine di ogni speranza che la mia nuova conoscenza passasse inosservata. «Ehm... Sì, diciamo di sì. In realtà, abbiamo parlato pochissimo».
Lei annuì con aria compunta, come se stessimo affrontando un discorso importante, ma senza smettere di sorridere. «Però sembra carino, non trovi? Deve avere degli occhi molto belli».
Arrossii ancora di più e abbassai il viso, cercando di nasconderlo. «Carino... Sì... Dovrebbe soltanto abbassare un po' la cresta e poi sarebbe fantastico». Ma che stavo dicendo?! Accidenti a me! Perchè quando ero nervosa parlavo a vanvera? Cercai di ricompormi con un respiro profondo. «Okay, se è tutto... Stavo per chiamare Jacob» borbottai, a disagio.
«Certo. Scusa se ti ho trattenuta, lo sai come sono fatte le madri: sempre fastidiosamente impiccione» rispose, ridendo. Scosse un po' la testa e i lunghi, fluenti capelli castani danzarono sulle sue spalle minute. Sembrava particolarmente allegra e anche se me ne sfuggiva il motivo era bello vederla così.
Sorrisi anch'io. «Nessun problema. Vado».
«Salutami Jake» aggiunse mentre sparivo nella mia stanza.
«Okay!» risposi, chiudendo la porta.
Per un attimo rimasi ferma, in piedi, pensando al suo comportamento. Era decisamente un po' strano: prima tutto quell'interesse verso il nuovo studente della Forks High e poi quell'improvviso buon umore... Sì, doveva esserci qualcosa sotto. Eppure, mi dissi subito dopo con un sorrisino, i miei genitori non erano mai stati del tutto sani di mente. Secondo Jas nessun genitore lo era, per una sorta di legge di natura. Forse mi stavo preoccupando per niente.
Presi il cordless, mi sdraiai sul letto e digitai il numero di casa Black. Jacob rispose al terzo squillo.
«Ehi, Jake!» esclamai. «Non sai quante cose ho da raccontarti...»







Note.
1. Qui la canzone: http://www.youtube.com/watch?v=r0idI4WiGSg.








Spazio autrice.
Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno inserito Midnight star tra le Storie seguite, Preferite e Da ricordare. Sono felice che la storia vi piaccia e spero di leggere presto i vostri pareri. Ringrazio di nuovo anche le persone che hanno recensito :-). Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Breathless ***


Capitolo 1
Capitolo 5
Breathless

     
So go on, go on, come on, leave me
breathless

   tempt me, tease me
until I can' deny

this lovin' feeling
make me long for your kiss, go on, go on, yeah
come on.
Breathless, The Corrs¹

 

    È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo,
ma è anche vero che
non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
PAOLO COELHO


                                                                                                                                      

«Francese, francese, studi sociali, inglese, ginnastica, algebra: non credo che potrò resistere ancora per molto e sono solo le dieci e mezza. Tutto questo ha un senso, secondo voi?» sospirò Jas con aria teatrale mentre, davanti allo specchio del bagno delle ragazze, si passava sulle labbra il terzo strato di rossetto.
«Sì che ce l’ha, un senso, se vuoi diplomarti, andare al college e mollare questo buco piovoso di Forks» ribattè Danielle. 
«Oh, giusto!» esclamò Jas. «Ritiro quello che ho detto. Amo la scuola, se servirà a portarmi via di qui. E comunque devo ammettere che la scuola ha anche i suoi lati positivi» disse Jas.
«Ah, sì? E uno di questi lati positivi è per caso il fatto che tu e Tom continuate ad imboscarvi nello stanzino delle scope vicino alla palestra ogni volta che vi incontrate nei corridoi?» chiesi, ironica, mentre stendevo un sottile velo di mascara sulle ciglia.
Danielle scoppiò a ridere. «Ecco perché tutto il rossetto era andato via, prima!»
Jas mi fulminò con gli occhi. «Non c’è niente da ridere. Fate così solo perché ancora non capite i turbamenti dell’amore».
Danielle ed io ci scambiammo un’occhiata e scoppiammo a ridere di nuovo. Jas sbuffò. «Siete così immature! D’accordo, dal momento che vi ostinate a prendermi in giro non vi racconterò cosa ho visto stamattina, quando sono arrivata».
Sospirai. Credevo di sapere dove sarebbe andata a parare dopo i fatti del giorno prima. «Per caso abbiamo a che fare con il nostro Straniero?»
La mia amica mi guardò con gli occhi ridotti a fessure. «Hai parlato con Holly, stamattina?»
«Ho tirato a indovinare» mugugnai.
«Perché lo chiami così? Ce l’ha, un nome, e sappiamo anche qual è» osservò Danielle.
«Sappiamo solo quello, di lui, quindi in sostanza è un perfetto sconosciuto».
«Mi sembri un po' acida, Renesmee. Come mai? Non sarà che lui non ti piace?» sentenziò Jas. Mi guardò nello specchio con aria furba. «Insomma, è vero che ti ha quasi uccisa, poi ti ha quasi messa nei guai con Redmont, ha cercato di rapirti all’uscita di scuola e per giunta ti ha appioppato un soprannome che ti fa sembrare una psicopatica o qualcosa del genere... Però devi ammettere che è carino».
«Non è che non mi piaccia» spiegai. «Si è comportato in modo un po' strano, sì, ma è un dato di fatto che non lo conosco». Tacqui per un istante. «E dopo quello che ho visto ieri, preferirei continuare a non conoscerlo».
«Davvero? E perchè?» esclamò Danielle, osservandomi con aria stupita.
Riflettei per un po' mentre prendevo la spazzola di Jas dalla sua borsa e sistemavo una ciocca di capelli ribelle.
Alzai le spalle. «Sembra... uno di quei tipi che attirano soltanto guai. E io non voglio guai».
«Secondo me ti piace eccome» disse Jas dopo un attimo di silenzio.
«Cosa?» sbottai, sconcertata. «Hai sentito quello che ho appena detto? E poi ci siamo parlati soltanto due volte».
«I guai sono affascinanti, Renesmee. E perché un ragazzo ti piaccia non devi conoscere il suo albero genealogico».
«Il punto è che lui non mi piace» ripetei, con calma. «Sarà anche carino, ma non fa per me. Dovrebbe piacermi un tizio che mi ha quasi investita?»
Jas alzò le mani come per arrendersi. «Okay, okay! Non ti piace. Ho afferrato».
Danielle esitò prima di parlare. «Comunque non ci sarebbe niente di strano, Renesmee».
«Niente affatto, anzi!» esclamò Jas prima che potessi rispondere. «Stamattina l’ho visto nel parcheggio con la sua macchina: è un'Audi²! Deve essere costosissima! È normale perdere la testa di fronte a una macchina del genere».
Danielle ed io ci scambiammo l’ennesima occhiata d’intesa. «Be’, hai ragione…» fece lei. «E allora tu come hai potuto perdere la testa per Tom? Mi risulta che non abbia nemmeno una bicicletta o sbaglio?»
Jas sospirò, togliendomi la spazzola dalle mani e iniziando a pettinarsi i lunghi, fluenti capelli biondi. «Come siete superficiali, ragazze mie. Nella vita non ci sono solo le Audi Coupè, sapete. Certo, una bella macchina non guasterebbe affatto, ma anche le passeggiate mano nella mano hanno il loro fascino» disse con aria di superiorità.
«Giusto» risposi, divertita, e mi voltai verso Danielle. «Deve essere stata la sua personalità a farla impazzire, allora».
Per un attimo pensai che Jas mi sarebbe saltata al collo e invece ridemmo tutte e tre insieme.
«Muoviamoci, ragazze, non voglio fare tardi» intervenne Danielle riportandoci all’ordine. 
Uscimmo dai bagni e in quell'istante vedemmo la professoressa Campbell venire a passo svelto verso di noi, i capelli biondi permanentati svolazzanti insieme al caftano dai colori vivaci che indossava.
«Maledizione» sussurrò Jas. 
La Campbell insegnava teatro e contemporaneamente gestiva molti laboratori, corsi e strane iniziative: se la vedevi venire verso di te in quel modo, di sicuro stava per appiopparti qualche noiosissimo compito. Tuttavia, la mia amica non aveva motivo di preoccuparsi: quel giorno il bersaglio della professoressa non era lei.
«Signorina Cullen!» esclamò, un po’ ansimante. «Bene, lei fa proprio al caso mio».
«Ehm… davvero? Veramente stavo andando in classe».
«Be', trattenga la sua impazienza, ci andrà tra un minuto: certamente saprà che ieri si è unito a noi un nuovo studente, il signor Alexander Hayden». Oh, no. Ancora lui! Mandai un gemito, ma la Campbell non se ne accorse, o forse lasciò perdere, e proseguì. «Dovrebbe essere il Comitato di benvenuto che ho fondato tre anni fa ad occuparsi di queste cose, ma purtroppo ne fanno parte solo studenti dell’ultimo anno e sono tutti via per una vacanza studio: serve qualcuno che li sostituisca e lei sarebbe perfetta».
Trattenni il fiato, inorridita, e accanto a me sentii Jas e Danielle fare altrettanto.
No. Tutto, ma questo no

«Oh, ma… sono sicura che i membri del Comitato di benvenuto svolgeranno alla perfezione il loro compito quando saranno tornati».
«Torneranno tra una settimana, non possiamo aspettare tanto» ribattè la professoressa con tono scocciato. «Il signor Hayden potrebbe perdersi e non tornare mai più a casa».
Be', tutta la Forks High School sapeva che la Campbell non aveva tutte le rotelle a posto, ma quello era troppo anche per lei. Stava cercando di incastrarmi.
«Questa scuola non è così grande» protestai. 
Tutto inutile.
«Non discuta con me, signorina Cullen!» sbottò, stizzita. «Lo aspetterà alla fine della quarta ora fuori all’aula C1, edificio sei, lo accompagnerà a fare un giro per la scuola, risponderà alle sue domande, eccetera eccetera. Oh, ovviamente questo non è nel modo più assoluto una scusa per saltare la quinta ora. Verificherò che lei e il signor Hayden facciate regolamente lezione per il resto della giornata».
Sospirai, sconsolata. A quanto pareva, non avevo scelta. «Devo farlo da sola?» borbottai.
«Be'… se proprio ci tiene, la signorina Williams e la signorina Warner possono aiutarla». Percepii nuovi sospiri al mio fianco, questa volta sognanti. A stento mi trattenni dal mettermi a strillare. «Mi raccomando, conto su di lei per tenere alto il nome della nostra scuola. Ricordi, quarta ora, aula C1, edificio sei. Buona giornata, signorine». Ci salutò con un gesto distratto e scomparve lungo il corridoio.
Per un secondo rimasi in silenzio, ammutolita, poi sparai un’imprecazione così grossa che Jas scoppiò a ridere e Danielle mi guardò con aria sconvolta. Loro non potevano sapere che a casa zio Emmett ne sfornava una ogni cinque minuti, facendo arrabbiare parecchio la mamma se io mi trovavo nei paraggi. «Non ci posso credere!» sbottai. «Mi ha incastrata! Quella vecchia bacucca mi ha incastrata!»
Jas mi passò un braccio intorno alle spalle. «Su, dai… Non è così terribile».
La fulminai con lo sguardo. «Ah, no? Sono soltanto costretta a passare il resto della giornata con un tizio che... che...». Non seppi come finire la frase e non aggiunsi nulla.
Per tutta risposta, Jas ridacchiò.
«Secondo me è un tipo simpatico. E tu sei perfettamente in grado di tenerti alla larga dai guai» osservò Danielle con la sua solita calma e razionalità. «Comunque non sarai sola».
Già, l’avevo momentaneamente dimenticato. Mi sentii un po' meglio.
«A proposito, grazie tante per averci coinvolte!» sbottò Jas all’improvviso. «Quando lo vedrò non potrò resistere e gli salterò addosso per baciarlo, Tom mi lascerà e sarà tutta colpa tua, Scheggia».
«Non chiamarmi in quel modo! Mettiti un sacco della spazzatura in testa, allora, così non vedrai un bel niente e non cadrai in tentazione». Jas mi lanciò un'occhiata offesa e divertita insieme, ma non le lasciai il tempo di dire altro. «Ho biologia con Morton, adesso, meglio che mi sbrighi. Voi cos’avete?»
«Studi sociali» rispose Danielle.
Dovevamo separarci. «Allora ci vediamo tra un’ora nell'edificio sei… Non fate tardi, mi raccomando». 
Io invece ero già in ritardo e dovetti precipitarmi in classe. Maggie, la mia compagna di laboratorio, era già seduta, come anche la maggior parte dei ragazzi, e mi fece un cenno da lontano. Oltrepassai Tom, seduto davanti a lei, e schizzai al mio posto. 
«Ciao» la salutai un po’ affannata.
«Ehi, Renesme». Lanciò un’occhiata alla porta da cui era appena entrato il professor Morton. «Ce l’hai fatta per un pelo. Dov’eri finita?»
Mi raccolsi i capelli in disordine dietro le spalle. Accidenti a quei riccioli. «In bagno con Jas e Danielle e poi siamo state fermate dalla Campbell».
«Perché? Che voleva?»
Le spiegai qualcosa sotto voce, ma fummo interrotte dal professore che si schiarì rumorosamente la voce.
«Cosa? Sul serio? Tu, Jas e Danielle dovete portare in giro quel tizio?» esclamò Tom girandosi di colpo verso di noi. Sulla sua fronte sembrava quasi lampeggiare una scritta al neon: Gelosia mortale e odio per gli occhi azzurri. Prima che potessi trovare una risposta decente, Morton richiamò la classe all’ordine e Tom tornò con uno scatto a guardare davanti.
Passai tutta l’ora a rimuginare su quello che mi aspettava e cercando freneticamente un modo per scamparla, dal fingere uno svenimento a una fuga in piena regola. Non ne trovai nessuno che fosse sufficiente. Conoscendo la Campbell ero sicura che se avessi cercato di fregarla non mi avrebbe più dato tregua fino a giugno. Era dall’inizio dell’anno che cercava di convincermi a frequentare quel suo stupido corso di teatro e di certo non intendevo fornirle un’ottima scusa per obbligarmi a partecipare. 
Ma la prospettiva di trascorrere del tempo con quel ragazzo mi metteva in agitazione. Di solito ero una frana, timida e imbranata, con le persone che non conoscevo bene. Lui, invece, sembrava così tranquillo e sicuro di sè, spiritoso, sfacciato e rilassato. Il tipo di persona che non si sente mai a disagio. L'esatto opposto di me. Probabilmente gli avrei fornito dieci motivi per prendermi in giro entro i primi cinque minuti. Eppure... non mi andava giù l'idea di dargliela vinta. Forse Alexander non avrebbe mai saputo dei miei timori, però l'avrei saputo io. In fondo avrei dovuto solo portarlo un po’ in giro e dargli qualche informazione. Potevo ignorare le sue battute e i suoi modi provocatori e magari anche evitare guardare quegli irritanti occhi azzurri... Potevo farcela.
Non ascoltai quasi nulla della spiegazione di Morton e se non avessi avuto accanto Maggie, che era una specie di mostro nelle materie scientifiche, avrei distrutto un mucchio di provette, il plastico che riproduceva la struttura delle cellule e la mia media in biologia beccandomi una bella C. Al suono della campanella schizzai in piedi, facendo un gran baccano con la sedia e guadagnandomi un’occhiataccia dal professore, raccolsi le mie cose e salutai Maggie. 
«Ciao, ci vediamo a pranzo».
Lei annuì. «Sì, buona fortuna». Sembrava un po’ preoccupata.
Mentre mi avviavo alla porta sentii la voce di Tom che mi chiamava. 
«Renesmee! Renesmee, aspetta…». 
Accelerai e uscii dalla classe prima che potesse fermarmi e chiedermi di sorvegliare Jas e tenerla alla larga da Alexander "Rubacuori" Hayden… Quello sarebbe stato davvero troppo, visto che già dovevo tenere me stessa alla larga da lui. Corsi al mio armadietto, che per fortuna era lì accanto, lo spalancai, svuotai lo zaino e ci infilai dentro altri due libri a tempo di record. Stavo per richiudere l’armadietto quando notai qualcosa: un bigliettino rosa piegato in quattro e infilato tra le griglie di aerazione dello sportello. Mi alzai in punta di piedi per prenderlo e lo aprii, riconoscendo all’istante la scrittura di Jas.


Ciao R! Io e D abbiamo altro da fare che star dietro allo Straniero: te lo lasciamo. Divertitevi! Baci. J

R, io non ero d’accordo, ma J mi ha minacciata. Prenditela con lei. D

R, se spifferi alla C. giuro che sostituisco la tua sfilza di A con una sfilza di F. Tanto lo sai che ci riesco. J


Fissai quelle parole a bocca aperta per un secondo, scioccata.
Cosa? Cosa?! Mi stavano mollando? Mi lasciavano a vedermela da sola con quello? Al panico si sostituì la furia e per un secondo pensai di correre a cercarle e fare una bella scenata a tutte e due, al diavolo Alexander e al diavolo la Campbell! 
Ma fu solo un istante, poi la ragione ebbe la meglio. Dovevo andarci, anche da sola. Non avevo scelta. Volevo forse scambiare un paio d’ore di battutine con quattro mesi di persecuzioni della Campbell? Decisi in un lampo. E quelle due perfide me l’avrebbero pagata più tardi: Jas poteva anche scordarsi i miei appunti d’inglese per il resto dell’anno, altrochè. 
Mi diedi un’occhiata veloce allo specchio che tenevo appeso nell’armadietto, giusto per accertarmi di essere in ordine, non per altro, e mi accorsi di avere le guance rosse e accaldate e il fiato corto… Ma solo perché ero di fretta, tutto qui. Chiusi la porta dell’armadietto e corsi via con il cuore che stranamente mi batteva forte.
Per raggiungere l’edificio sei dovetti uscire e attraversare mezzo cortile sotto la pioggia. Correndo per non fare tardi, entrai e percorsi in fretta i corridoi scivolosi e gremiti di studenti più grandi. Ero a pochi passi dall’aula C1 quando da un gruppetto di ragazzi spuntò lui. Mi bloccai con una frenata al centro del corridoio e per poco non investii in pieno due innocenti studentesse di passaggio.
Alexander stava parlando con un ragazzo. Sembrava calmo, tranquillo e padrone della situazione. Non aveva per niente l'aria di uno appena arrivato. Chiacchierava e si guardava intorno come se avesse parlato con quelle persone e percorso quel corridoio da tutta una vita. A un tratto si girò e mi vide. Smise di parlare e per qualche secondo, una manciata di lunghissimi secondi, mi guardò da lontano, fermo, con aria seria. Poi salutò il suo amico con un cenno della mano e venne verso di me camminando lentamente. 
Cercai di scuotermi e di parlare, ignorando il fiato corto, il cuore a mille e la bocca secca, ma lui mi anticipò. «Ehi, Scheggia! Che ci fai da queste parti?» esclamò, sfoderando un sorriso fantastico. Ne fui abbagliata per un istante, ma il pensiero delle sue prese in giro del giorno prima bastò a raffreddarmi. Dovevo mantenere le distanze o chissà quali strane idee si sarebbe fatto.
«Ciao» cominciai con tono piuttosto freddo e subito dopo rimasi in silenzio. Avevo la sensazione che la mia testa si fosse svuotata. Mi ci volle un po' per riordinare le idee e tirare fuori una spiegazione. «Io... sono... Ehm... devo farti da guida» farfugliai, affannata.
Alexander sgranò gli occhi mentre io mi maledicevo silenziosamente per essermi resa ridicola la prima volta che avevo aperto bocca. Devo farti da guida? Dove credevo di essere, in un museo? Quella storia del Comitato di benvenuto sembrava ridicola anche a me, che avevo a che fare con le stramberie della Campbell da due anni, figurarsi a lui che era appena arrivato in quel mondo di matti.
«Wow» commentò sottovoce. Gli brillavano gli occhi. «Allora guidami» aggiunse con uno strano tono suadente. «Sono tutto tuo, bellezza».
Ma che razza di idiota! Fui a un millimetro dal tirargli uno schiaffo: ero forte abbastanza da fargli saltare un dente, così il suo sorriso sarebbe stato di sicuro meno perfetto. Peccato che una cosa del genere andasse un tantino contro la politica di mimetizzazione della famiglia Cullen: stendere un ragazzo che era il doppio di me avrebbe attirato troppo l’attenzione. La tentazione, però, era fortissima: già sentivo ruggire la vampira che era in me. Meglio andarsene. Mi voltai di scatto, ma lui mi trattenne per il polso, costringendomi a voltarmi di nuovo. Il fiato mi si mozzò in gola. Mi stava toccando.
«Aspetta. Scusa, non volevo prenderti in giro». Riuscii a riprendermi abbastanza da inarcare le sopracciglia, mentre lo fissavo. Alexander ridacchiò, cercando di trattenersi. «Be', forse un pochino, ma stavo scherzando. Giuro». Adesso sembrava serio. Almeno un po'. Sospirai e feci un cenno con la testa. Mi lasciò il braccio ed io ricominciai a respirare. «Cos'è questa storia della guida?»
«C’è un Comitato d’accoglienza, qui a scuola, che si occupa dei nuovi studenti, ma tutti quelli che ne fanno parte sono via per una vacanza studio. Serviva qualcuno che li sostituisse e hanno chiesto a me» spiegai cercando di avere una voce normale.
Un altro sorrisino. «Per caso devi scontare una punizione o qualcosa del genere?»
Idiota. «No» sbottai. «È solo che… la professoressa che gestisce queste cose è una specie di squalo travestito da donna e mi ha incastrata».
Mi fissò per un attimo, poi scoppiò a ridere. «È anche peggio! Se avessi combinato qualcosa almeno adesso potresti vantartene».
Che razza di logica!
«Sì, certo, è un vero peccato che io non mi sia messa nei guai! Comunque devo farlo e basta». Ci tenevo a sottolineare che non ero stata io a propormi perché nutrivo un qualche interesse nei suoi confronti.
«Insomma, è come se io fossi un compito a casa» concluse.
Scrollai le spalle. «Più o meno sì».
«D’accordo. Allora forza, guidami!» e accennò al corridoio davanti a noi.
Gli lanciai un’occhiataccia. «La smetti di dirlo, per favore? Mi fai sentire una guida turistica. E smettila anche di chiamarmi Scheggia».
«Come faccio se non so il tuo vero nome? Come dovrei chiamarti? Dolce fanciulla dagli occhi color cioccolato…?». Mi guardò con aria beffarda, ma la mia espressione gli fece in qualche modo cambiare atteggiamento. «È meglio se ci presentiamo, non credi?» disse subito e mi tese la mano. «Alexander Hayden, ma preferisco Alex… anche se probabilmente lo sai già».
Gli fissai la mano per un istante prima di ricambiare la stretta. «Renesmee Cullen».
Strabuzzò gli occhi. «Renesmee? Non era meglio Scheggia? Decisamente più breve e più facile da pronunciare».
«Il mio nome è difficile solo per te» mentii, seccata, e gli strappai dalle mani il suo orario delle lezioni. «Cos’hai adesso?»
«Spagnolo» rispose prima che potessi leggere. «In effetti non so dove sia quest’aula».
«Quando sei arrivato non ti hanno dato una mappa o qualcosa del genere?»
Nei suoi stupefacenti occhi azzurri guizzò un lampo che non compresi, ma un secondo dopo era scomparso. «Sì, ma… l’ho persa».
«Fantastico» commentai, ironica. «Su, andiamo, ti accompagno. E ti faccio vedere anche l’aula magna per le assemblee, è nello stesso edificio».
Gli restituii l’orario e ci incamminammo lungo il corridoio. Dopo circa trenta secondi di silenzio di tomba stavo già annegando nell’imbarazzo più totale. Annaspai, cercando disperatamente qualcosa da dire, e intanto insultavo tra me e me la Campbell per avermi messa in quella situazione e Jas e Danielle per avermi abbandonata, quando lui parlò. 
«Io non ti piaccio, vero?»
La sua domanda mi paralizzò e mi fece arrossire di botto mentre ne valutavo i possibili significati… ma ovviamente poteva intendere solo piacere in senso lato. «N-non ci conosciamo affatto» balbettai.
«Diciamo allora che mi conosci abbastanza da trovarmi insopportabile».
Sospirai. «No… È quel soprannome che non sopporto». 
Di certo non avrei potuto rispondere semplicemente che la sua vicinanza mi metteva a disagio. Come bugiarda facevo pena, lo sapevo. Potevo sperare di mentirgli soltanto adesso che ci eravamo appena incontrati. Ben presto mi avrebbe conosciuta abbastanza da smascherarmi al minimo tentativo. L'unica bugia che fossi capace di raccontare con un minimo di credibilità era quella sulle mie origini e la mia famiglia³, ma solo perchè ci avevo fatto l'abitudine: mi ero allenata ad utilizzarla da tanto di quel tempo che ormai non me ne accorgevo quasi più.
«Però devi ammettere che è perfetto per te… ti sei vista, prima? Ma vai sempre così di fretta? O forse eri solo impaziente di vedermi!» esclamò e rise di gusto.
Lo fulminai con lo sguardo. «Come no! Quando ti sei intrufolato di nascosto nella mia aula ho passato i tre minuti più eccitanti della mia vita… A parte l’attimo fugace in cui mi hai quasi schiacciata sull’asfalto, ovvio».
Fu il suo turno di sospirare. «Okay, è evidente che io e te abbiamo cominciato con il piede sbagliato. Ti va di stipulare una tregua?» disse e sollevò gli occhi verso di me con un’espressione irresistibile. Mi mancò il fiato.
«Una tregua? Okay» balbettai. Cercai di riprendere il controllo del mio respiro. «Niente più Scheggia, però».
«Uffa! Va bene». Sogghignò. «Tanto prima o poi sarai tu stessa a darmi il permesso di chiamarti così». Sembrava certo del fatto suo.
«Non credo proprio» risposi a denti stretti.
«Dai, è in corso una tregua, ricordi? Pace». 
Mi prese per il gomito e fui costretta a fermarmi. Eravamo nel bel mezzo del cortile, sotto una pioggerellina battente. Il mio cuore fece un tuffo mentre mi fissava con uno sguardo serio che non gli avevo mai visto, ma era bello: rendeva i suoi occhi ancora più intensi.
Avanti, Renesmee, piantala
. Non fare la stupida.
Sbuffai. «Pace».
Alex mi fissò ancora per un secondo, poi sorrise e mi lasciò andare. «Bene! Muoviamoci, sono proprio curioso di vedere quest’aula magna».
Quel tono ironicamente emozionato mi strappò una risata. «Resterai impressionato, te lo garantisco!» scherzai. Lo precedetti dentro l’edificio fino a una porta a vetri a doppio battente. «Ecco qui. Le assemblee si tengono ogni primo lunedì del mese, un quarto d’ora prima dell’inizio delle lezioni. Di solito il preside parla dei problemi della scuola, ma tanto nessuno lo sta mai a sentire. In teoria la partecipazione è obbligatoria, salvo giustificazioni, ma è impossibile che riescano a controllare sempre tutte le classi… Se ti beccano, però, ti tocca un doposcuola punitivo. Conoscerai un sacco di persone se partecipi alla prossima assemblea».
Alex sbirciò oltre i vetri. «Credo che l’aula magna della mia vecchia scuola potrebbe contenere tutta la Forks High School».
Alzai le spalle. «Be', è una scuola di provincia».
«Quanti sono gli iscritti?»
«Trecentoquarantanove».
Fece un fischio modulato. «A New York frequentavo una scuola privata, ma eravamo comunque di più».
«Una scuola privata, eh?» mormorai lanciandogli un’occhiata curiosa.
In effetti, adesso che potevo osservarlo meglio mi rendevo conto che aveva proprio l’aria, l’abbigliamento e il modo di fare di un ragazzo iscritto a una scuola privata di New York. Tra gli studenti del liceo di Forks spiccava come una rosa rossa sulla neve. Riuscivo ad immaginarmelo fin troppo bene con indosso una di quelle uniformi perfettamente stirate, nel suo costosissimo attico all’ultimo piano di un grattacielo di Manhattan, mentre discuteva al cellulare ultimissimo modello con il suo avvocato personale del conto in banca di milioni di dollari che i genitori gli avevano intestato alla nascita… Be’, in teoria anch’io avevo un conto in banca che Carlisle mi aveva intestato da poco, ma non c’entrava nulla. Io non avevo quell’atteggiamento… la soggezione che tutti sembravano provare verso me e la mia famiglia era solo un fatto istintivo per gli umani. Oppure no? Alex mi rivolse uno sguardo divertito.
«Non lo sapevi? Vuoi dire che tutti gli studenti di questa scuola non stanno parlando di me da due giorni?». Esitai, ripensando a certi discorsi delle mie amiche. Alex prese quell'attimo di silenzio come una risposta positiva. «Lo vedi?» esclamò con aria trionfante. «Su, raccontami tutti i pettegolezzi che hai sentito».
E adesso? Come ne sarei uscita? Stavo già per scappare urlando, quando un pensiero mi venne in aiuto. «Magari dopo! Faccio tardi a lezione se non mi sbrigo e anche tu. La tua aula è subito dopo l’angolo del corridoio, la prima a destra». Non gli lasciai il tempo di parlare. «Se ti servisse qualcosa cercami pure, sono nell’edificio uno, aula A3, okay? Ciao!»
Mi girai e corsi via, allontanandomi il più in fretta possibile. Quando fui di nuovo in cortile, mi resi conto che era andata: ce l'avevo fatta. Trassi un sospiro di sollievo, convinta che non l’avrei rivisto almeno per il resto della giornata: la nostra scuola era così piccola che perdersi o non trovare un’aula sarebbe stato quasi impossibile… Quel Comitato di benvenuto era pressoché inutile, l’ennesima sciocchezza messa in piedi dalla Campbell. Quindi era parecchio improbabile che Alex avesse bisogno del mio aiuto per qualcosa e non aveva nessun altro motivo per cercarmi.
Quando entrai nell’aula di letteratura, la lezione successiva, individuai subito chi stavo cercando: Jas e Danielle facevano capannello con Holly e Maggie parlottando sotto voce. Le raggiunsi a passo di marcia. 
«Siete le peggiori amiche che potessi avere» sbottai.
«Renesmee, mi dispiace!» esclamò Danielle. «Io non volevo, Jas mi ha costretta, lo giuro…»
Fu interrotta proprio da Jas, che alzò gli occhi al cielo. «Oddio, quante storie per niente! Non capisci che l’abbiamo fatto per te? Su, raccontaci com’è andata».
«Sì, raccontaci!» squittì Holly, eccitata come una bimba la mattina di Natale. Maggie non disse nulla, ma il suo sguardo curioso implorava notizie. Fui costretta a soddisfare la loro curiosità per evitare di essere assediata per il resto del tempo.
«Wow» fece Holly sottovoce quando ebbi terminato. «Secondo me gli piaci».
Anche lei? Sentii un tuffo al cuore. «Ma che cavolo dici?»
«Sì» ripetè, imperturbabile. «E anche parecchio».
Danielle strillò e battè le mani, facendo in modo che mezza classe si girasse a guardarci. Che imbarazzo. «È meraviglioso!»
«E tu come fai a dirlo se non ci hai mai visti insieme?» protestai rivolta ad Holly, ma lei non ebbe il tempo di rispondere: il professor Berty entrò in aula e furono costrette a tacere. Grazie al cielo. 
Andai al mio posto, ma un attimo dopo Holly, seduta dietro di me, si sporse in avanti. «Sì, gli piaci!» sussurrò.
Ancora? Adesso la uccido
«Piantala!» ripetei a bassa voce, esasperata.
Consegnammo le tesine sul ciclo bretone e cercai di concentrarmi per seguire la lezione sul poeta di Gawain, ma senza molto successo: continuavano a balenarmi in mente due occhi azzurri. Quegli occhi. Erano davvero incredibili. Non avevo mai visto un colore simile, un blu chiaro e luminoso: era l’esatto colore della sottile linea dell’orizzonte in cui mare e cielo s’incontrano in un giorno d’estate. 
Ogni tanto riuscivo a seguire il professor Berty, ma solo per qualche minuto. Il viso di Alex faceva continuamente capolino nei miei pensieri, imponendosi ostinato alla mia attenzione. Non potevo negare di essere... attratta da lui, anche se non ero pronta a volare di fantasia come le mie amiche, che senza alcun dubbio già immaginavano uscite a quattro e baci al chiaro di luna. Era la prima volta che non riuscivo a togliermi dalla testa un ragazzo e cercai di capire cosa fosse ad attirarmi tanto. Forse proprio quegli aspetti che, all'inizio, mi avevano un po' indispettita: la disinvoltura, la sfrontatezza, l'ironia, il sorriso scanzonato... l'espressione dei suoi occhi. C'era sempre un lieve scintillio ad animare quell'azzurro, come se una lucina ci ballasse dentro. Quando mi fissava avevo la sensazione che il suo sguardo, a volte serio e intenso, altre ridente e malizioso, volesse comunicare un segreto, ma non sapevo quale.
Il suono della campanella mi colse talmente di sorpresa che feci un salto di un metro. Incrociai gli occhi di Jas, seduta al mio fianco, l'espressione compiaciuta e divertita che mi rivolse mi suggerì che i miei pensieri dovevano essere piuttosto evidenti per lei. Arrossii un po' e fui grata ad Holly che iniziò subito a parlare del prossimo compito in classe di letteratura. A quanto sembrava, Berty ci aveva comunicato la data durante la lezione, sebbene io non me ne fossi accorta.
«Non ci credo, ho il test di matematica e quello di letteratura nello stesso giorno… Che strazio» si lamentò mentre ci avviavamo tutte insieme verso la porta.
«E qual è il problema?» esclamò Maggie con aria furba. «Insomma, non ti cambia nulla: tanto non avresti studiato comunque per nessuno dei due».
Holly le rivolse una delle sue occhiate gelide che avrebbero tramortito anche un sasso, ma Maggie si limitò a sorriderle e ad alzare le spalle come per scusarsi. Precedendo il resto del gruppo, uscii nel corridoio e mi bloccai senza fare un altro passo: in piedi, appoggiato al muro, c’era Alexander Hayden che mi fissava.
«Ehi, Scheggia» mi salutò e tirò fuori il solito sorriso smaliziato.
Per un secondo mi limitai a fissarlo, troppo scioccata persino per prendermela per il nomignolo. «Che ci fai qui?» balbettai quando mi riuscì di tirar fuori la voce. «Come… come sapevi dov’ero?»
Alle mie spalle potevo percepire lo shock delle ragazze come se fosse stato una presenza reale. Non era mai accaduto che restassero senza parole tutte insieme contemporaneamente, nemmeno quella volta in cui Tom aveva minacciato, urlando in mensa durante la pausa pranzo, di lanciarsi giù dal tetto dell’edificio scolastico se Jas non avesse accettato di uscire con lui.
«Me l’hai detto tu» fece Alex tranquillamente. «Quando te ne sei andata, ricordi? Hai detto che potevo cercarti».
Ops. Ah sì, l’avevo detto. «Certo» risposi, cercando di sembrare naturale e tirando un respiro profondo. Le mie amiche mi stavano così addosso che sembrava volessero spingermi direttamente tra le braccia di Alex e mi sentivo un tantino oppressa. «Ti serve una mano? Dimmi pure».
Per la prima volta da quando lo conoscevo parve leggermente imbarazzato. «Sì, ehm… Potresti farmi vedere dov’è la mensa?»
Caddi dalle nuvole. «La mensa?». Ero confusa. «Non ci sei già stato ieri? Dovresti saperla, la strada».
Aveva un’espressione strana, come se si stesse sforzando di trattenere una risata. «Infatti ieri ci sono andato, ma… l’ho dimenticata».
Eh? Dubitai di aver capito. «Hai… dimenticato la strada per andare in mensa?» ripetei, accigliata. 
Lui annuì. Okay, era troppo. Ero stufa che ridesse di me, non ero il suo clown. E niente poteva giustificare quell’umiliazione… nemmeno l’azzurro dei suoi dannatissimi occhi. Holly e Jas si sbagliavano di grosso: come potevo piacergli se continuava a spassarsela alle mie spalle?
«E va bene» sbottai, scocciata. «È evidente che io non ti sono simpatica e ovviamente puoi pensare quello che ti pare, ma io non ho il dovere di stare a sentire un tizio che mi prende in giro, quindi facciamo così: vado subito a cercare la Campbell e le chiederò di trovare qualcun altro che ti faccia da guida».
Feci per andarmene ma lui me lo impedì, mettendosi davanti a me e bloccandomi la strada. Senza volerlo i miei occhi finirono sul suo viso: sembrava sbalordito. «No, aspetta! Non volevo prenderti in giro, sul serio… Okay, forse un po’, ma non lo faccio perché mi sei antipatica».
I geni vampireschi di mio padre riaffiorarono di botto in superficie e fu un bene, per Alex, che io riuscissi a controllarli perfettamente. «Ma fai sul serio?» ringhiai, inviperita. «Ho dimenticato la strada per la mensa? Ti ha colpito un’amnesia, per caso?»
Alex sospirò pesantemente come se fosse stato costretto ad arrendersi a qualcosa, senza smettere di sorridere. «Okay, ecco la verità: vorrei che pranzassimo insieme, oggi. Che ne dici… ti va?»
Subii uno shock per la seconda volta in meno di tre minuti. Alle mie spalle sentii tutto il gruppo trattenere rumorosamente il fiato in attesa della mia risposta. Per un attimo mi trovai nell'indecisione più totale. Una parte di me era affascinata dall'idea di stare con lui, l'altra un po' spaventata. Ero sul punto di dire di no, ma poi ci guardammo negli occhi e fu come se qualcosa si sciogliesse all'improvviso dentro di me.
«Vuoi che pranziamo insieme?» ripetei, leggermente divertita all’idea che fosse solo quello l’obiettivo delle sue manovre. «Tutto qui? Certo».
Si rilassò subito e fece un sorriso trionfante. «Fantastico. Andiamo, allora?»
Mi sentii contagiata da quell’entusiasmo sincero. Era davvero felice che gli avessi detto di sì. «Va bene». Avevo fatto appena un passo quando sentii qualcuno che si schiariva rumorosamente la voce. Riconobbi subito quel timbro inconfondibile: Holly. Con un sospiro mi bloccai e mi rivolsi al gruppetto di pazze furiose che stazionava ancora sulla porta. Alex mi guardò, in attesa. «Ehm… prima di andare vorrei presentarti le mie amiche» dissi e le indicai una per una. «Loro sono Holly Matthews, Jas Williams, Maggie Smith e Danielle Warner».
Alex fu perfetto: sorrise a tutte e strinse loro le mani, e riuscì persino ad ignorare lo sguardo affamato di Holly e quello allucinato di Maggie (sembrava che avesse visto un fantasma). «Piacere di conoscervi, ragazze».
«Il piacere è tutto nostro» squittì Holly. «Benvenuto alla Forks High».
La fissavo con un crescente senso d’orrore: se avesse continuato a mulinare i capelli color noce moscata e a sbattere le ciglia in quel modo Alex mi avrebbe sostituita all’istante con lei. 
«Okay» dissi con voce un po' acuta. «Allora noi… andiamo. A dopo, ragazze».
«Ciao» le salutò Alex. 
Ci avviammo lentamente lungo il corridoio. Prima che potessimo allontanarci più di tre metri, sentimmo un'esplosione di strilli, esclamazioni e risate dietro di noi. Che imbarazzo. Avrei voluto essere inghiottita dal pavimento seduta stante. 
«Ehm… scusa» farfugliai verso Alex. Sentivo le guance in fiamme, quindi probabilmente sembravo un pomodoro con i capelli. «Non fanno sempre così».
Lui non sembrava seccato. «No, tranquilla. Evidentemente erano impazienti di vederti andare a pranzo con me» disse con tono malizioso.
Mi scappò una risatina isterica. «Ma se fino a ieri non sapevamo nemmeno della tua esistenza».
«Già, e le vostre vite erano grigie e noiose, vero?» 
Mi era appena venuto in mente un nuovo soprannome per lui, "Faccia da schiaffi". Chissà se gli sarebbe piaciuto. «Non sai quanto» sbuffai, lanciandogli un’occhiataccia.
«Allora confermi che tutti stanno parlando di me da quando avete saputo del mio arrivo?» insistè. Sembrava una domanda retorica.
Fui incerta per un attimo poi sollevai le spalle. «Be’… siamo in un piccolo centro, te l’ho detto: non succede mai niente da queste parti e l’arrivo di un nuovo studente rappresenta sempre un bel diversivo».
«Quindi sono circolati parecchi pettegolezzi?»
Feci un sorrisino. «Qualcuno».
«E anche tu e le tue amiche avete spettegolato?»
Non sopportavo quel suo tono malizioso… e allo stesso tempo lo adoravo. Decisi di ricambiarlo un po’ con la stessa moneta che aveva usato con me. «Certo. Ovvio. Ad esempio, è probabile che appena ci siamo allontanati la mia amica Holly abbia detto a tutti che sei un agente della CIA in incognito».
Scoppiò a ridere di gusto. «Touchè!» esclamò. 
Mentre percorrevamo il corridoio che conduceva alla mensa, mi accorsi che parecchie persone si giravano a guardarci con espressioni curiose. Due omini verdi scesi da una navicella spaziale che si fossero messi a passeggiare tra gli studenti avrebbero attirato meno l’attenzione. Provai imbarazzo, ma anche un certo piacere. Ero sempre stata oggetto di sguardi curiosi, dappertutto e fin da piccolisiima, per quel che potevo ricordare. Era il prezzo di essere una Cullen. Ma quella volta era diverso perché sapevo che non era per me. Era per lui. Era perché un ragazzo fantastico e sconosciuto mi camminava accanto… Perché lui era fantastico… Holly doveva avermi attaccato qualcosa, accidenti!
Quando entrammo in mensa fu ancora peggio: forse era solo la mia immaginazione, ma mi parve che tutti si fermassero un istante, un istante quasi inesistente tanto passò in fretta, per osservarci e registrare il nostro arrivo, insieme. Stavamo facendo colpo. O forse stavo solo diventando paranoica.
«Che ne dici?» propose Alex indicando un tavolo con cinque sedie un po' isolato dagli altri.
«Va bene» risposi.
Sembrava proprio che Alex volesse stare un po’ tranquillo e da solo con me. A quel pensiero mi si contrasse lo stomaco. Possibile che gli piacessi davvero? Ci stavamo liberando di giacche, sciarpe e borse quando qualcuno piombò accanto a noi. Sollevai lo sguardo e per poco non mi cadde la mascella. Ecco chi ci voleva per rovinare la mia pausa pranzo in compagnia del ragazzo più bello che avessi mai visto: Caroline Johnson, capo delle cheerleader e Ape Regina della Forks High. Tutti i maschi presenti nel raggio di venti metri cominciarono a sbavare, a ridacchiare e a darsi di gomito. Penosi. Tutti tranne Alex, che si limitò a guardarla in modo del tutto normale.
«Ciao Alex!» squittì Sua Altezza.
«Ciao» la salutò lui con un mezzo sorriso. A quel punto la mia mascella era piombata a terra con un tonfo. Si conoscevano? Cosa? Come? Quando?
«Come va?» continuò Caroline con il solito tono che usava per accalappiare i ragazzi. Gliel’avevo sentito usare così spesso che ormai non mi suscitava più le risate a non finire delle prime volte. Ah, bei vecchi tempi!
«Sono contenta di rivederti».
«Sì, anche… anche a me fa piacere».
«Spero che tu ti stia trovando bene. Ti stai ambientando?»
«Abbastanza» fece Alex rivolgendomi un’occhiata eloquente e il mio cuore fece una capriola su se stesso. 
Caroline continuò ad ignorarmi beatamente, concentrata sulla sua preda.
«Bene! Ma in fondo... sei qui solo da due giorni e capisco se non hai nessuno con cui pranzare… Se vuoi puoi sederti con me e i miei amici».
Fu come una doccia d’acqua gelata. La stupida oca aveva ragione, accidenti. Alex era appena arrivato e probabilmente non aveva ancora fatto amicizia con nessuno. Quella mattina, quando ero andata a cercarlo, mi era sembrato abbastanza inserito tra i compagni di classe, sì... Però era risaputo che nessuno accettava volentieri i novellini a tavola durante il pranzo. Forse voleva evitare di rimanere da solo portandosi dietro qualcuno... qualcuno tipo me. 
Che stupida, Renesmee
Avevo costruito un castello in aria basandomi solo su un paio di sorrisi e sulle elucubrazioni delle mie amiche psicopatiche, e per giunta Alex se ne era reso conto perfettamente. Dio, che imbarazzo. Avrei voluto morire. Avrei voluto strisciare sotto il tavolo e morire.
Alex le dedicò uno strano sorriso. «Ti ringrazio, sei molto gentile. Forse non ci hai fatto caso, ma stavo per pranzare con Renesmee. Vi conoscete?» disse, e fece un cenno nella mia direzione. Finalmente Caroline puntò i suoi occhi color ghiaccio su di me.
«Oh, sei qui! Non ti avevo vista!»
Le rivolsi un sorriso acido che avevo appreso da zia Rose in persona. «Ciao. Neanch’io ti avevo vista».
Alex abbassò la testa per celare un sorriso mentre lei mi guardava con aria confusa. «Sul serio?» disse distrattamente, poi tornò ad Alex. «Be’, allora… rimandiamo a domani?»
Lui alzò le spalle. «Si vedrà» fu l’enigmatica risposta, e stavolta toccò a me non scoppiare a ridere.
Caroline
scosse con aria stizzita la lunga chioma bionda. «Bene! A domani… Baci baci!» 
Salutò Alex con la mano, mi ignorò con decisione ancora una volta e poi marciò verso il suo tavolo. Dopo che si fu allontanata ci fu un attimo di silenzio.
«Prendiamo il pranzo?» propose Alex in tono leggero.
Mi sforzai di apparire tranquilla, anche se l'idea che lui mi avesse cercata solo perché non aveva nessun altro con cui stare e non perchè gli piacevo faceva male. Come avevo fatto a non pensarci prima? Proprio io che rimproveravo le mie amiche di fantasticare troppo, avevo fantasticato anche più di loro. E in fondo perché era così importante per me piacergli? Sapevo che c’erano parecchi ragazzi a scuola che avrebbero fatto carte false per uscire con me, ma nessuno di loro mi aveva mai interessato, così come non mi aveva mai fatto né caldo né freddo essere guardata da loro. Perchè l’idea che ad Alex non piacessi in quel modo era così... deprimente? Non ha senso, pensai, arrabbiata, mentre facevamo la fila al banco delle vivande.
«Ehi, va tutto bene?» 
La voce dell’oggetto delle mie riflessioni mi riscosse. Misi di nuovo a fuoco il suo viso. 
«Sì, tranquillo». Gli sorrisi e sentii svanire l'espressione contratta del mio viso.
«Accidenti, ma qui c’è sempre quest’odore?» chiese storcendo il naso.
«Be’, immagino che nella tua scuola privata a New York ci fosse un cuoco Cordon Bleu o qualcosa del genere».
«Non saprei, ma di sicuro non c’era quest’odore». All’improvviso cambiò espressione. «A casa mia ne avevamo uno, però». Il suo tono leggermente amaro mi stupì. Aveva uno sguardo indecifrabile. «Gaston. E non era solo un grande cuoco, ma anche un brav’uomo».
Sembrava che parlarne lo addolorasse. Cercai di alleggerire l’atmosfera. «Scommetto che la cucina di Gaston è la cosa che più ti manca di New York» scherzai.
Non funzionò. Anzi, il suo bel viso si rabbuiò in un attimo e non rispose. Ero sempre più a disagio. Ma che gli prendeva?
«Ehi, Alex» esclamò una voce. Ci voltammo entrambi, io segretamente sollevata che fosse arrivato un diversivo, e forse anche lui. Accanto a noi si erano fermati due ragazzi che non riconobbi.
Alex sorrise e finalmente si rilassò di nuovo, come se fosse stato un gesto automatico per lui cambiare espressione così velocemente.
«Ciao ragazzi».
«Che ti è preso, prima? Sei letteralmente fuggito via dall’aula» disse uno dei due, biondino e smilzo. «Non che mi interessi la letteratura spagnola del Cinquecento, ma alla professoressa non deve aver fatto molto piacere. E comunque pensavamo che saresti venuto in mensa con noi anche oggi».
E così era fuggito via dalla lezione dell’ultima ora? E perché mai? Per… correre da me? Sbirciai l'espressione di Alex: sembrava abbastanza rilassato.
«Scusate, è che… dovevo fare una cosa» rispose e mi fece l’occhiolino.
I due tipi si lanciarono uno sguardo d’intesa. «Ah…» disse il biondo. «Sembra una cosa piuttosto interessante». Il modo in cui mi guardava era così insinuante che ricambiai con un’occhiataccia.
«Ehi, lasciali in pace» intervenne l’altro con un ghigno. «A dopo, Alex… e buona fortuna!»
Si allontanarono ridendo e bisbigliando tra loro
«Scusa» disse Alex, sospirando, dopo un minuto di silenzio. «Li ho appena conosciuti, non sapevo che fossero due completi idioti».
«Non preoccuparti. Sono tuoi amici?»
«Frequentiamo qualche lezione insieme e ieri mi hanno invitato a pranzare con loro».
A quel punto realizzai una cosa: Alex conosceva delle persone. Non erano ancora amici veri e propri, ma avrebbe avuto qualcuno con cui stare, e invece di pranzare con loro aveva scelto me. Non ero solo una specie di ripiego, allora. Quel pensiero mi fece sentire tanto bene che quando presi il mio vassoio avevo un gran sorriso sul volto.
Alex mi guardò stranito mentre, dopo aver preso il suo vassoio, afferrava anche il mio per togliermelo di mano. «Che c’è? La visione di un piatto di pasta al formaggio puzzolente ti rende felice?»
«Adoro la pasta al formaggio… anche quella puzzolente».
Mi guardò con aria stupita, ma capì che stavo scherzando. Scrollò la testa e poggiò entrambi i vassoi sul tavolo. Ci sedemmo.
«Allora, dove eravamo rimasti?» ricominciò lui. «Ah, sì: i pettegolezzi. E così sarei un agente della CIA, eh?»
Annuii, seria. «Secondo Holly sì».
«E secondo te?»
«Secondo me sei un serial killer» lo provocai.
«Davvero? E l’idea che io possa essere una persona normale non piace a nessuno?»
«Ma se non hai l’aspetto di una persona normale. Solo i jeans che porti costeranno un occhio della testa».
«Perché, i tuoi no?». Mi guardava con aria di sfida. «Nemmeno tu hai l’aspetto di una persona normale. Ho visto come ti fissano gli altri».
«Come mi fissano?» domandai con calma.
«Come se fossi un alieno o qualcosa del genere. Ma un alieno che sembra perfettamente inserito».
Le sue parole mi fecero sorridere. «Be', ti giuro che non sono un alieno» esclamai, disinvolta. Tanto era la verità. Non avevo detto Ti giuro che sono umana.
«Però scommetto che spettegolano anche su di te, o quanto meno l’hanno fatto in passato. Ho ragione?»
Questa volta pensai con cura la risposta. Lui sembrava fin troppo perspicace. «Vivere in provincia ha i suoi lati negativi».
«Non passeresti inosservata nemmeno nelle affollatissime e caotiche strade newyorkesi, te lo garantisco» rispose Alex, accompagnando le sue parole con un'occhiata decisamente lusinghiera. Imbarazzata, cercai di cambiare argomento.
«Ma scusa, ti preoccupi dei pettegolezzi e poi frequenti Caroline Johnson?» lo provocai.
«Uhm, è anche peggio di quello che sembrava» mugugnò dopo aver assaggiato una forchettata di pasta. «Io non frequento Caroline Johnson, mi ha cercato lei il primo giorno e si è presentata, tutto qui».
«Lo sai chi è quella?»
«Un alieno?»
Sorrisi. «Peggio. È l’Ape Regina della Forks High».
«L’avevo intuito» disse e sospirò. «Non c’è bisogno che tu mi istruisca, conosco perfettamente il tipo. Nella mia vecchia scuola ce n’erano a bizzeffe di ragazze così».
«Non ti piacciono molto, vero?»
Storse il naso. «Le sopportavo a malapena. A quanto pare, qui mi toccherà sopportare Caroline».
«Be’, sei in buona compagnia: non piacciono nemmeno a me».
Fece un ghigno. «In effetti la scenetta di poco fa è stata davvero divertente. Non c’è un grande affetto tra voi, eh?»
Cercai le parole giuste. «Non possiamo proprio definirci nemiche, anche se sono abbastanza sicura che nella sua testa succeda spesso, ma nemmeno amiche. Siamo sempre state molto in competizione».
«Su cosa?»
Ingoiai un boccone di pasta prima di rispondere. «Oh, su tutto: lo studio, le amicizie…». Mi bloccai prima di inserire nell’elenco qualcosa di cui avrei potuto pentirmi. Ma Alex intuì come avrebbe continuato il mio discorso. Era decisamente troppo intuitivo, questo ragazzo.
«E…?» disse. «Cos’altro?». Io rimasi zitta. «I ragazzi, forse?»
«No» risposi, così precipitosamente che suonai falsa anche a me stessa. 
Ridacchiò. «Chi ruba i ragazzi a chi? Racconta» esclamò, divertito, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
«Io non le ruberei mai un ragazzo perché tutti quelli che sceglie sono stupidi e insulsi. È stata con l’intera squadra di football, e non aggiungo altro».
«Allora è lei la ladra» insinuò, e si sporse un po’ sul tavolo verso di me.
Il suo profumo dolce e fresco, al vago sapore di lavanda, mi colpì con forza per la seconda volta. Era delizioso e mi solleticava la gola, ma testai la mia forza e mi resi conto di essere perfettamente in grado di resistere. Come sempre. Sorrisi soddisfatta e scossi la testa. Notai che osservava i boccoli che mi rimbalzavano allegri sulle spalle. «Non è mai successo, fin’ora… Intendo dire che non mi ha mai portato via nessun ragazzo».
«E come mai? Sei riuscita a tenerteli stretti?» scherzò.
Feci un piccolo sospiro. Lo conoscevo appena e gli dicevo una cosa simile? Dovevo essere impazzita. «La verità è che non c’è mai stato nessuno che m’interessasse sul serio, quindi Caroline non ha mai avuto l’occasione, in un certo senso. Ma basta che qualcuno guardi un’altra ragazza al posto suo e subito scatta la necessità di conquistarlo».
Alex era stupito. «Sul serio non ti è mai piaciuto nessuno?». Avevo il viso in fiamme, ne ero sicura, e mi limitai ad annuire. Mi fissò in silenzio per un attimo, poi schizzò all’indietro, come se avesse voluto ristabilire le distanze. «Scusa, non volevo metterti in imbarazzo» mormorò.
Feci un respiro profondo e cercai di cambiare argomento. «Ma se è questo che stai facendo da quando ci siamo conosciuti».
«Non è vero» protestò.
«E mi hai presa in giro a non finire» aggiunsi, giocherellando con la pasta che avevo nel piatto.
Roteò gli occhi, esasperato. «D’accordo, ma solo un pochino! Scusa, non hai nessuno che ti prende in giro a casa?»
Per un attimo rimasi senza parole. Nessuno che mi prendeva in giro? Magari.
«Fin troppe persone, direi».
«Allora dovresti esserci abituata. E comunque mi pare di essere stato ampiamente ricambiato, visto che tu e le tue amiche mi accusate di essere un agente della CIA».
«Giusto! Ecco perchè ti sei intrufolato nella mia aula, ieri: ti nascondevi durante una missione in incognito».
Sghignazzò e allargò un po' le braccia. «Beccato! Adesso dovrò ucciderti e poi cercare un’altra copertura».
«Dai! Sul serio, che stavi facendo? Perché quella scena?»
Alex esitava. «Come faccio a dirti che stavo facendo se era una missione segreta… Vuoi darmi un altro motivo per farti fuori?»
Lo ignorai. «Stavi saltando qualche lezione, è ovvio, la domanda è perché
«Avevo scienze» bofonchiò. «Io odio scienze».
Non sapevo se credergli o meno, ma bersagliarlo di domande avrebbe potuto indurlo a sospettare l’interesse che, ormai inutile negarlo, avevo per lui. «Incredibile. Il primo giorno di scuola già salti le lezioni! Non dovrei stare con te, mi porterai sulla cattiva strada».
«Già…» mormorò. «Lasciami indovinare, Scheggia: media altissima, mai una punizione o una nota di demerito, mai un colpo di testa, nessun ragazzo all'orizzonte o alle tue spalle, poche amiche fidate… mai uno sgarro, mai un'uscita dai ranghi. Allora, ho ragione?». Aveva un’aria sorniona e divertita.
Sorrisi anch’io. «Che c’è di male in tutto questo?»
«Niente, è solo che... sembra tutto troppo perfetto».
«Non è perfetto... È perfetto per me. Insomma, è forse sbagliato essere felici? Io lo sono, tutto qui». 
Ed era la pura verità. Non che non ci fossero piccole zone d’ombra, a volte, ma la mia vita era perfetta, lo era davvero. Avevo tutto quello che si potesse desiderare: due genitori meravigliosi, sempre attenti e presenti, mai stanchi di darmi tutto il loro amore; una famiglia fantastica, a dir poco unica; un migliore amico che adoravo; delle amiche fuori di testa a cui volevo un mondo di bene.
Lanciai istintivamente un’occhiata al tavolo che occupavo ogni giorno: il mio gruppo era lì come sempre e al momento tutti e sette si stavano sbellicando dalle risate. Guardai meglio e mi accorsi che Maggie, una gran pasticciona, aveva rovesciato a terra qualcosa, forse un budino al cioccolato, ed era talmente rossa in viso che pensai avrebbe preso fuoco. Ridacchiai anch’io, scuotendo la testa, ma quando tornai a guardare Alex il sorriso morì all’istante: aveva di nuovo quell’aria sofferente, lo sguardo fisso su un punto lontano, proprio com’era successo poco prima.
«Sai» cominciò con tono un po' amaro «una volta, parecchio tempo fa, avrei detto la stessa cosa anch'io».
«Davvero?» sussurrai.
«Sì, perché anche la mia vita è stata perfetta. Ma non poteva durare per sempre… Come tutte le cose troppo belle, secondo me».
Quelle parole mi trasmisero una sottile inquietudine. Mi agitai sulla sedia, improvvisamente nervosa. «Tu credi? Insomma, non pensi che le cose belle siano destinate a durare?»
Alzò le spalle. «Il mio mondo perfetto è esploso, ma non è detto che vada sempre così».
«Vorresti dirmi cos’è successo?» 
Avevo parlato di getto, senza pensarci, ma Alex si ritirò precipitosamente da quell’attimo di intimità e tirò fuori di nuovo il solito sorriso sardonico.
«Che ingenua! Hai appena chiesto a un misterioso agente della CIA di raccontarti la sua vita?»
Okay, forse non gli andava di parlarne. Lo assecondai. «Ti ho confessato che adoro la pasta al formaggio puzzolente, ormai non ho più segreti per te» protestai. «E poi sbaglio o devi ancora farti perdonare un paio di cose?»
«Ah, sì? Non ricordo, al momento».
Riecco Faccia da schiaffi. «Lascia che ti rinfreschi la memoria, allora: una macchina nuova fiammante lanciata a tutta velocità nel parcheggio di una scuola, un pazzo agente della CIA al volante e una povera ragazza che giace sanguinante sul ciglio della strada… Ti dice niente?»
Sbuffò con aria scocciata. «Ancora con questa storia? Gli incidenti capitano».
«Certo, anche quelli mortali».
«Be', mettiamola così: se ti avessi ucciso saresti stata autorizzata a non venire a pranzo con me».
Risi. «Cosa? La tua logica ha qualche falla, sai?»
«Tu dici, Scheggia?». Aggrottò la fronte.
«Io dico! E non chiamarmi Scheggia se non vuoi che ti rifili un bis di pasta al formaggio».
Ridevamo ancora a crepapelle quando suonò la campanella. 
«Uffa, è già ora» borbottai, scocciata.
«Caspita, mi frequenti da appena due giorni e hai già imboccato la strada della perdizione». Scuoteva la testa fingendosi scandalizzato.
«Che vuoi, io imparo in fretta».
«O forse sono un maestro eccellente» ribattè e mi fece un occhiolino da infarto. Fui costretta a tirare un paio di respiri profondi per non svenire. Ma come diavolo faceva? Come? Raccogliemmo le nostre cose, gettammo i vassoi e uscimmo unendoci alla fiumana di studenti.
«Allora, è stato così male?» chiese all’improvviso.
«Che cosa?». Ero distratta, stavo ancora chiedendomi se per caso avesse qualche potere occulto in grado di abbagliarmi completamente e farmi sembrare, a volte, una stupida fatta e finita.
«Pranzare con me. A parte la storia della perdizione, eccetera eccetera».
Sorrisi, cercando una risposta non troppo compromettente. «Ehm… meglio questo che rompersi una gamba».
Fece una smorfia. «Però… Gentile. Grazie».
«Prego, figurati».
«Dai, io ti piaccio… almeno un po'. Ammettilo».
Sentii le guance imporporarsi e girai la testa di lato perché non se ne accorgesse. «E tu devi ammettere che la modestia non è proprio la tua principale qualità».
«Scusa ma non dovevi sostituire quelli del Comitato di Benvenuto? Che razza di benvenuto mi stai dando?»
«Ehi, ho pranzato con te, non ti basta?»
«Voglio che diventiamo amici, Renesmee». 
All’improvviso il suo tono divenne serio e mi si parò davanti, impedendomi di camminare. Sembrava sincero, stavolta. 
«Be'… direi che si può fare» borbottai cercando di apparire disinvolta e noncurante quando invece quell’improvvisa vicinanza mi stava mandando il cuore a mille. «Okay». 
Lo superai e ripresi a camminare e lui mi affiancò.
«Ottimo! Ah, ovviamente mi impegno a non cercare mai più di investirti o di metterti nei guai con un professore o qualcosa del genere». 
«Mi fa piacere».
«Quindi… ora siamo amici?»
Ci pensai un po'. «Uhm... Forse sì» risposi con una scrollata di spalle, come se la cosa non avesse alcuna importanza. Stavo scherzando e lui lo capì al volo.
«Questo significa che sono perdonato?»
Scossi con decisione la testa. «Certo che no. Dovrai impegnarti molto di più per questo». 
«Se camminassi in ginocchio per il resto del pomeriggio?»
«Divertente ma… no. Qualcosa di più utile».
«Ci penserò durante matematica, promesso». Mi sorrise allegro e mi superò di qualche passo, poi si voltò di nuovo. «Ciao Scheggia!» gridò a beneficio dei presenti che ovviamente si fecero una bella risata. Se solo non fosse corso via a razzo, gli avrei lanciato dietro lo zaino.
Mentre mi dirigevo verso la palestra per l'ora di ginnastica cercai di fare un bilancio degli ultimi tre quarti d’ora, ma mi resi conto di non esserne in grado. Ero su di giri e non riuscivo a riflettere con calma su tutto quello che era successo. Forse avrei dovuto aspettare di essere a casa, nella mia stanza, e di essermi rilassata un po' prima di trarre qualche conclusione. 
Raggiunsi gli spogliatoi per cambiarmi e prima ancora che di varcare la soglia due mani spuntarono fuori dal nulla, mi afferrarono e mi trascinarono dentro.
«Eccola! Finalmente!» strillò una voce a me ben nota. «Ma quanto ci hai messo? Cominciavo a pensare che fossi scappata con lui!»
«La mensa è dall’altra parte della scuola, Jas» protestai stancamente. Niente da fare. Non mi sentì nemmeno, o se lo fece mi ignorò.
«Voglio sapere tutto! E non azzardarti a tralasciare una virgola!». Era emozionata come se qualcuno le avesse appena detto che le vacanze estive erano arrivate in anticipo. 
E non era l’unica, purtroppo: Holly sbucò all’improvviso da dietro la fila di armadietti con la t-shirt infilata a metà e il reggiseno in bella mostra e si precipitò verso di noi.
«È arrivata?» chiese ansiosamente. «Uffa, non ci vedo!»
Mi affrettai a chiudere la porta prima che si mettesse a dare spettacolo nel corridoio. «Siete due squilibrate, lo sapete?» sbottai.
«Sì sì, quello che ti pare, ma adesso racconta» ordinò Jas saltellando sul posto.
Mi tolsi la giacca e pensai a cosa avrei potuto dire. Esattamente come prima, mi sembrava che le idee mi sfuggissero di mano. «Be’… Non c’è molto da raccontare, in verità».
Mi fissarono come se fossi stata pazza, compresa Holly, che era riuscita a tirare giù la maglietta. 
«Che c’è, fai la furba?» esclamò Jas, indignata. «Non vuoi raccontarci cos'è successo? A noi che siamo le tue migliori amiche? Vi siete baciati, vero? E tu non vuoi dircelo!»
«Ehi, calma!». Sembrava che stessero per venirle le convulsioni. «Non ci siamo baciati».
«Non ci credo» disse subito Holly.
La guardai male. «Ve lo giuro!» protestai, esasperata.
Jas sembrava parecchio confusa. «E quindi che avete fatto?»
Sospirai mentre mi spogliavo per infilare la tuta.  «Secondo te cosa avremmo dovuto fare in mensa durante la pausa pranzo?»
«Cioè avete solo mangiato?»
«Mangiato e parlato» la corressi.
«Avete parlato?» ripetè Holly. Sembrava sconvolta, come se per lei fosse inconcepibile parlare e mangiare senza baciarsi. Ed era proprio così. «E di cosa?»
«Ehm… di tutto e di niente. Insomma, non ci siamo detti nulla di importante, in fondo la nostra è una conoscenza ancora superficiale».
«Se vi foste baciati non lo sarebbe più» fece Holly. Non sapevo in che modo risponderle qualcosa di sensato e rimasi in silenzio.
«Be', che abbiate parlato un po' è già qualcosa» disse Jas. «E poi?»
«Mi ha chiesto di diventare amici» sussurrai.
Ci fu un attimo di silenzio, seguito quasi subito da un coro di urletti eccitati.
«Oh mio Dio!» strillò Jas. «Oh mio Dio, ma questa è chiaramente solo una scusa per continuare a vederti!»
«Sentite, non so ancora se gli piaccio così tanto da…»
Jas sbuffò sonoramente. «Uffa! Non cominciare a fare la guastafeste, Renesmee! Te l’ha chiesto lui, no? Quindi almeno un po' dovrai piacergli, giusto?»
«Sì, ma forse gli piaccio solo come amica, non è detto che…»
Holly alzò gli occhi al cielo con aria scocciata. «Dai, abbiamo visto tutte come ti guarda! Perché ti ostini a negare? Ti sembra impossibile che tu piaccia a un ragazzo?»
«No, non è impossibile, è solo che...».
Esitai. Sapevo che Holly aveva ragione, ma ammetterlo mi spaventava un po'. Forse c'era qualcosa di sbagliato in me.
«Se vuoi possiamo fornirti un elenco di tutti quelli che ci hanno provato con te, o che avrebbero voluto provarci, dall’inizio dell’anno» aggiunse Jas mentre si pettinava i capelli. «Ci vorrà una vita, ma è per una buona causa».
Mi sfuggì una risata. Era troppo divertente vederle affannarsi così per quella storia. «Okay, okay, avete ragione! Ma nessuno di loro...;
«... ti è mai piaciuto fino ad oggi» terminò Jas al posto mio. Mi guardò con l’aria di chi la sa lunga. «Non succederebbe niente se lo ammettessi, sai».
Ci pensai un istante, poi feci un sospiro pesante e deciso. Le guardai dalla panca dove mi ero seduta per infilarmi le scarpe. «Oh, al diavolo! Va bene, d’accordo, lo ammetto: io... penso che Alex mi piaccia sul serio» dissi tutto d’un fiato.
La stanza fu invasa di nuovo da strilli spacca timpani. Grazie al cielo eravamo sole, altrimenti sarebbe stato un bel problema. «Finalmente!» esclamò Jas. «Sei grande, Scheggia!»
Cosa? Mi augurai di aver sentito male. «Jas! Non comincerai anche tu!»
«Ma è carino! E poi meglio se ti ci abitui se dovete mettervi insieme… non ti pare, Scheggia?». 
Lei e Holly scoppiarono a ridere a crepapelle. Che simpatiche!
«Okay, continuate pure» dissi, tranquilla. «Vuol dire che non saprete mai cos’è successo quando Caroline Johnson è venuta da noi e ha chiesto ad Alex di sedersi con lei e i suoi amici». 
Feci per uscire dagli spogliatoi diretta in palestra, ma loro due mi si pararono davanti all’istante.
«Cosa?» esclamò Holly. «No, adesso devi parlare». Scossi la testa, perfidamente divertita. «Ma io ho bisogno di sapere!» protestò, fissandomi con gli occhioni scuri spalancati. Sembrava disperata.
«Non puoi sparare una bomba simile e poi andare a giocare a badminton come se niente fosse» rincarò Jas. «Parla!»
Finsi di pensarci un po' su per tenerle sulle spine. «Ehm… no, mi spiace, non ho tempo. Il badminton mi chiama». 
Scrollai le spalle e marciai fuori dallo spogliatoio.



****

 

Se le reazioni di Holly e Jas erano state allucinanti, quelle del resto del gruppo non furono da meno. Per il resto delle lezioni non ascoltai altro che battutine e risatine, al punto che quando giunse l'ultima ora non ne potevo più. Perfino Maggie, che di solito era abbastanza matura da non lasciarsi coinvolgere in queste cose, non faceva che chiedermi altri particolari sulla mia pausa pranzo. 
Quando suonò l’ultima campanella mi precipitai al mio armadietto, riempii la borsa alla velocità della luce e corsi fuori come se fossi stata inseguita da un drago. Sapevo che quel giorno sarebbe venuta a prendermi la mamma, ma non la trovai ad aspettare in macchina come al solito, cosa strana perché i vampiri non erano mai in ritardo, mai. La puntualità e la precisione micidiali dovevano essere due caratteristiche che si acquisivano con la trasformazione insieme alla velocità, alla forza, eccetera. 
Trovai un angolino tranquillo dove aspettare, sedetti su una panchina e tirai fuori l’i-pod per sentire un po’ di musica. Me ne stavo da sola da appena cinque minuti quando una sgommata accanto a me mi fece sobbalzare. Purtroppo la riconobbi all’istante.

«Oh, no» mormorai mentre la macchina nera tirata a lucido si fermata davanti alla mia panchina con una frenata. Il conducente abbassò il finestrino dal lato del passeggero.
«Ciao, Scheggia!» esclamò Alex. In quel momento indossava la sua faccia da schiaffi, quella che non sopportavo e allo stesso tempo adoravo perché lo faceva sembrare ancora più carino.
«Sparisci» fu la mia risposta, mentre mi sforzavo di trattenere un sorriso.
La faccia da schiaffi mutò in un’espressione offesa. «Andiamo… è questo il modo di trattare un amico? Guarda che sono venuto per farmi perdonare».
«Ancora? Non fai altro, ormai».
Mi ignorò. «Capisco che ieri tu non abbia accettato il passaggio, in fondo non mi conoscevi e avrei anche potuto essere uno strangolatore, un maniaco o tutte e due le cose, ma oggi lo accetteresti?»
Ebbi un tuffo al cuore. Sì, sì, sì!, avrei voluto strillare. Invece mi limitai a rivolgergli un sorrisino. «Abbiamo solo pranzato, come faccio a sapere che non sei sul serio uno strangolatore, un maniaco o tutte e due le cose?»
«Be', provare per credere! Giuro che ti riporterò a casa sana e salva».
Mi venne da tremare al pensiero della faccia di zio Emmett se fossi tornata a casa in auto con un ragazzo sconosciuto. In quel momento vidi con la coda dell’occhio la Ferrari della mamma che si avvicinava. 
«Ehm… ti ringrazio, Alex, sul serio, ma… un’altra volta, magari». Mi alzai in piedi.

Seguì la direzione del mio sguardo e lo vidi spalancare la bocca, ammirato. «E quella? Sei sicura che non sia la macchina di uno strangolatore, di un maniaco o tutti e due?»
Sorrisi. «No, è solo... mia zia».
Era chiaramente molto sorpreso, ma ancora una volta non reagì come mi aspettavo. Fece un fischio modulato. «Tua zia? Caspita, già mi presenti alla famiglia? È un po’ presto, ma insomma, se ti piaccio così tanto…»
Risi e alzai gli occhi al cielo. «Sì, certo. Ciao, Alex».
«Ehi!» mi chiamò mentre mi allontanavo sporgendosi dal finestrino. «Domani non accetterò scuse!»
Gli feci un cenno con la mano e camminai verso la macchina della mamma, sorridendo. Che egocentrico! Si aspettava sempre che tutto il mondo svenisse ai suoi piedi? Okay, un paio di volte io ero quasi svenuta, ma non intendevo dargliela vinta così in fretta.
Ero così presa dalle mie riflessioni che quasi non mi accorsi di essere salita in macchina. Mi risvegliò la voce squillante e cristallina della mamma. 
«Ciao tesoro» squittì. «Com’è andata?»

La guardai, sospettosa. Di solito non parlava mai con quel tono eccitato, nè tantomeno mi rivolgeva occhiate così in tralice. 
«Ciao» risposi a mezza voce. «Tutto bene».

«Ottimo!». Continuava a squittire mentre metteva in moto. «Allora… sbaglio o quel tipo con cui stavi parlando aveva gli occhi azzurri? O meglio, luminosi occhi azzurri
Feci un tale salto sul sediolino che per poco non sbattei la testa contro il tettuccio della Ferrari. «Cosa? Mi hai spiato?» strillai. Ne bastava già uno di genitore che ficcava il naso.
Strabuzzò gli occhi. «Assolutamente no! Lo sai che non posso fare a meno di vedere e ascoltare un sacco di cose! Non te la prendere, tesoro, se quel ragazzo ti piace è una cosa bella».
Incrociai le braccia, imbarazzata e infastidita da morire, e mi lasciai andare con uno sbuffo contro lo schienale. «Spero proprio che non incontri Holly e Jas, se no tutte e tre insieme sareste capaci di organizzarmi il matrimonio».








Note.
1. Qui la canzone.
2. Siete curiosi/e di vedere la famosa macchina di Alex? Eccola: qui e qui. È un'Audi TT Coupè. Stupenda, vero?
3. Se per caso vi state chiedendo in cosa consista questa bugia e soprattutto che cosa raccontino i Cullen al mondo per giustificare l'esistenza di Renesmee, non preoccupatevi: tutto sarà spiegato nel prossimo capitolo ;-).










Spazio autrice.

E allora, che ne pensate di questo capitolo? So che è piuttosto lungo, spero che non risulti pesante. Per quanto mi riguarda è uno dei miei preferiti perchè adoro far interagire Alex e Renesmee, e poi questa incursione nei pensieri, nei timori e nelle paranoie di una teenager è divertentissima... Mi sembra di essere di nuovo al liceo xd. Grazie, alla prossima!

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Capitolo 6
*** Secrets ***


Capitolo 1
Capitolo 6
Secrets

                                                                                                                                                             

Tell me what you want to here 

Something that were like those years 

Sick of all the insincere 

So I'm gonna give all my secrets away.

Secrets, One Republic¹

                                                                    

La felicità è avere una famiglia grande, amorevole, affettuosa e unita, in un'altra città.
George Burne

                                                                
 

«Così sei perfetta!» esclamò zia Alice allontanandosi per guardarmi meglio. «Devi solo ritoccare un po' l'eyeliner. Dov’è quel braccialetto d’argento che ti hanno regalato Emmett e Rose per Natale?»
Le indicai il portagioie e corsi in bagno per controllare il trucco allo specchio. In effetti l’eyeliner era leggermente sbavato. Riparai il danno, poi mi diedi un’occhiata d’insieme: indossavo un vestito rosa corto con il bordo decorato di pizzo nero, calze bianche e ballerine nere. Feci una giravolta su me stessa per controllare da ogni angolatura e i capelli che avevo lisciato con la piastra si sollevarono, ricadendo poi dolcemente sulle spalle. 
Soddisfatta, tornai in camera mia dove trovai anche la mamma, intenta a mettere ordine con aria contrariata. Non potevo darle torto: sembrava che un turbine di trucchi e vestiti si fosse abbattuto con violenza su tutte le superfici d'appoggio. Quando entrai, mi agitò contro un mucchio di top e camicette che aveva raccolto dal pavimento.

«Renesmee, stiamo solo andando da Charlie e Sue per la solita cena settimanale, non è affatto necessario fare tutto questo!». Smise di sbraitare e mi fissò con attenzione, poi sospirò. «Però stai benissimo» ammise.
Sorrisi, raggiante. «Grazie, mamma! E scusa per il disordine».
Alice saltellò verso di me e mi allacciò al polso il braccialetto. «Ecco… così sei davvero perfetta». Poi si girò verso la mamma che aveva ricominciato a borbottare innervosita. «Ah, Bella, domani pomeriggio io e Rose avevamo pensato di andare a Olympia a fare shopping, e vorremmo portare Nessie con noi».
Lei si tirò su molto lentamente da sotto il letto, dove si era infilata per recuperare una scarpa da ginnastica. «E cosa vorreste acquistare, con esattezza?»
La zia alzò gli occhi al cielo. «Vestiti, è ovvio».
«Che cosa? Alice, ma ti rendi conto di quanti ne ha?» sbottò la mamma indicando la stanza devastata. «Se ne compra ancora degli altri, qui dentro non ci sarà più spazio per lei e dovrà accamparsi in giardino!»
Scoppiai a ridere mentre rovistavo tra i lucidalabbra per trovarne uno adatto.
«Lo sai che alla velocità a cui cresce niente le va bene per più di qualche mese!» esclamò Alice.
«Verissimo» concordai, ignorando le occhiatacce della mamma. «Mi servono un nuovo paio di scarpe da ginnastica, almeno due maglioni, una felpa, delle camicette e poi una minigonna colorata…»

«Visto?» fece Alice rivolta alla cognata con aria di superiorità.
«Non hai affatto bisogno di tutta questa roba, Renesmee!» sibilò Bella. 
«Oh, dai! Che razza di zia sarei se non viziassi nemmeno un po' la mia nipotina?» disse Alice. Fu al mio fianco in un battito di ciglia, controllò il colore del lucidalabbra che avevo scelto e me lo restituì con un sorriso: approvava. «Comunque se la cosa ti preoccupa tanto perché non vieni con noi? Così potrai controllare che non facciamo acquisti troppo pazzi» propose e mi fece di nascosto un occhiolino.
La mamma la guardò con espressione inorridita. «Ti ringrazio del gentile pensiero, ma ne farò a meno». Mise le mani sui fianchi e lanciò un’occhiata tutt’intorno alla stanza in disordine, poi fece un sospirone e allargò le braccia. Conoscevo la sua espressione: era quella di quando si arrendeva a zia Alice. «Che posso dire? Andate e divertitevi».
La zia fece un saltello di felicità. «Fantastico! Adesso però basta riordinare, Bella, devi prepararti anche tu. Sono le sei passate, non vorrete fare tardi».
«Sono già pronta» borbottò la mamma.
Alice osservò con aria disgustata i jeans e la camicetta che indossava. «Stai scherzando, vero?»
Era il momento della solita scena!
«Niente affatto, questi vestiti vanno benissimo» rispose la mamma con una specie di ringhio.
Alice sembrava sconvolta. «Non permetterò a mia cognata di uscire di casa per una cena conciata come una barbona».

«Scordatelo, Alice. Non sono la tua bambola».
«Dai, ci vorrà solo un minuto!» pregò la zia. «L’ultima volta che sono stata a Port Angeles ti ho preso un meraviglioso abito da cocktail…» 
Corse fuori dalla stanza, probabilmente diretta verso la cabina armadio della mamma.
Lei lanciò in aria tutti i vestiti che aveva raccolto e le sfrecciò dietro, furibonda. 
«Alice! Lascia stare la mia roba!»

Pensai di seguirle per assistere alla seconda parte della scena, ma volevo evitare di ridere fino alle lacrime e sciogliere di nuovo il trucco. Invece presi il cappotto e la borsa e mi diedi un’ultima occhiata allo specchio. Poi uscii dalla mia camera.
«Ehi, io vado!» gridai in direzione della stanza dei miei. Non ricevetti risposta, ma sentii solo una serie di tonfi e strilli.

«Smettila, Alice! Non provare a sfilarmi i jeans!»
«E tu smettila di fare la bambina!»
Ridacchiando, mi precipitai fuori casa perché sapevo che non sarei riuscita a trattenermi ancora per molto. Camminando nel bosco lungo il vialetto che conduceva alla casa dei nonni, i miei pensieri volarono inevitabilmente verso le mille cose che erano successe quella mattina.
Durante il pomeriggio, mentre facevo i compiti e mi preparavo per la cena, mi ero resa conto di un paio di cose. Primo, che più mi sforzavo di controllare i miei pensieri più mi sfuggivano di mano, per cui nel giro di mezz’ora dopo che ero tornata da scuola papà era già a conoscenza di ogni singola parola e ogni singolo sguardo che avevo scambiato con Alex. La seconda cosa che avevo capito era che mi ero presa una Cotta Gigante per Alexander Hayden e questo fatto così imbarazzante era ormai di pubblico dominio: a parte mio padre, che non era responsabile della sua onniscienza, e la mamma, alla quale avevo raccontato qualcosa io per tenerla buona, gli altri avevano inspiegabilmente capito tutta la situazione senza che io aprissi bocca una sola volta. O papà aveva spifferato, oppure erano dannatamente troppo perspicaci per me. 
E così mi era toccato sopportare un intero pomeriggio di battutine e risatine alternate a minacce nei confronti di Alex
se non avesse tenuto le mani a posto, per citare testualmente zio Emmett. Gli unici ad avere un comportamento più normale e ad ignorare la cosa erano Esme e Carlisle, mentre gli zii si erano letteralmente scatenati. Sapevo grazie all’esperienza di mia madre che l’unico modo per costringerli a tacere sarebbe stato batterli in uno scontro fisico, ma in quel caso io non potevo che perdere, quindi la situazione sarebbe solo peggiorata. Mi toccava rassegnarmi, cercare di ascoltarli il meno possibile e sperare che si stancassero presto e trovassero qualcos'altro da fare per ammazzare il tempo.
Il comportamento dei miei invece era stato abbastanza normale: avevo temuto che potessero andare fuori di testa e trasformarsi in Genitori Gelosi, Severi e Iperprotettivi ma non era accaduto. Anzi sembravano quasi contenti della mia nuova amicizia. Si erano limitati a raccomandarmi di non correre troppo, e l’unica cosa su cui avevano posto il divieto più assoluto, trasformandosi per un momento proprio in Genitori Gelosi, Severi e Iperprotettivi, erano le passeggiate in macchina con Alex fino a quando non avessero avuto modo di accertare le sue capacità al volante. In realtà era piuttosto difficile mi succedesse qualcosa di grave in un eventuale incidente d'auto, ma su certe cose Edward e Bella sembravano incapaci di ragionare. Tuttavia su quel punto non avevo protestato: di certo non sarei stata proprio entusiasta di trovarmi in macchina da sola con lui, e non perché temessi per la mia vita, ma per la mia sanità mentale, che in una situazione del genere sarebbe senz’altro andata a farsi friggere…
Le mie riflessioni si interruppero quando arrivai all’enorme casa bianca. Salii saltellando i gradini della veranda, sentendomi di buon umore, e suonai al campanello. La porta si aprì e comparve zia Rosalie.
«Eccola qui, la nostra Conquistatrice!» esclamò con aria divertita.
«Sai perché le bionde si lavano i capelli nel lavandino?» ribattei prontamente con un amabile sorriso. «Perché è lì che si lava la verdura».
Dall'altro lato del muro esplose uno scoppio di risate, tra cui quella particolarmente fragorosa di Emmett. La zia mi guardò storto. «Tu passi troppo tempo con quel licantropo» sibilò.
«E tu dovresti essere un po' più matura, considerando quanti anni hai».

«Come sei noiosa, oggi» commentò, poi si fece da parte ed io entrai, soddisfatta di aver vinto quel match.
La seguii in salotto, dove era riunito il resto della famiglia.

«Ciao!» salutai con un gran sorriso.
«Finalmente, è ora di andare» esclamò papà, sollevato. Poi mi guardò e gli sfuggì un sospiro. «No, a quanto pare dovremo aspettare ancora».
«Dove sono Alice e Bella?» chiese zia Rose.
«Le ho lasciate che si azzuffavano nella cabina armadio della mamma».
«Solita storia, eh?» fece Esme con un sospiro.
Annuii mentre mi sistemavo sul bracciolo della poltrona dove sedeva Carlisle.
«Allora, come mai ci hai messo tutto questo tempo?» cominciò Emmett con aria sorniona. «Sognavi ad occhi aperti, forse?». Diede una gomitata a zia Rose, seduta accanto a lui, e ridacchiarono come deficienti.
Li guardai male. «Oh, sto morendo dal ridere!» esclamai, scocciata. «Non avete niente di meglio da fare che prendermi in giro?»
Emmett lanciò un’occhiata maliziosa verso Rosalie. «Certo che c’è qualcosa di meglio, cara nipotina, ma ogni tanto bisogna pur fare una pausa» rispose, e poi scoppiarono a ridere di nuovo. 
«Maniaci» borbottai sotto voce, sperando di non farmi sentire. Tentativo inutile.
Rosalie alzò gli occhi al cielo. «Oh, andiamo… Come se tu non avessi passato l’intero pomeriggio pensando ad Alex!»
«Secondo me ha sospirato così tanto che i vetri nella sua stanza sono tutti appannati» rincarò zio Emmett. 
Altro scoppio di risatine convulse.

«Se avessi la possibilità di minacciarvi la smettereste, vero?» domandai per pura curiosità.
«Ehm… Non saprei, è troppo divertente» rispose zia Rose.
Okay, ne avevo abbastanza. «E domani io dovrei sorbirmi tutto questo per una giornata intera? Non se ne parla proprio! Lo shopping è annullato». Incrociai le braccia con aria decisa.
Rosalie alzò le spalle, forse troppo sicura del fatto suo. «Va bene… ma lo dici tu ad Alice».
«A proposito di shopping» intervenne Emmett con tono minaccioso «basta minigonne, okay? E solo maglie a collo alto» ordinò puntando un dito verso di me.
«Ma voi siete pazzi?» sbottai, inviperita. 
La nostra fantastica chiacchierata fu interrotta dall’ingresso della mamma, che indossava un vaporoso vestito nero in stile anni Cinquanta, sandali con il tacco a spillo e un’espressione da omicidio di massa.
«Bella, cara, stai benissimo!» esclamò la nonna sorridendo.
«Grazie» sibilò lei per tutta risposta e nessuno si azzardò ad aggiungere altro.
In quell’istante Alice entrò quasi volando dalla porta di casa e in un quarto di secondo me la ritrovai a un palmo di naso da me. «Perché mai dovresti annullare lo shopping?» indagò con voce squillante.
Feci un salto di un metro e se Carlisle non mi avesse afferrato il braccio sarei caduta dalla poltrona. Oh, merda. «Scherzavo!», esclamai subito, senza fiato, spaventata a morte. Rosalie mi lanciò un’occhiata divertita.
«Controllerò tutti gli acquisti» aggiunse zio Emmett con tono deciso, come se avesse seguito le proprie riflessioni senza prestare attenzione al resto.
Alice lo guardò perplessa e stizzita, e credo che avrebbe risposto qualcosa di irripetibile a chi limitava il suo shopping se papà non fosse intervenuto. «D’accordo, basta, è ora di parlare di una cosa».
«Ah, sì?» continuai. «Emmett ha deciso di fare un favore all’umanità ed emigrare in Antartide, per caso?»
«Ti piacerebbe, ragazzina, così potresti darti alla pazza gioia con quel bamboccio del tuo ragazzo» sbottò lo zio.
«Non è il mio ragazzo e non chiamarlo bamboccio
«Ehi!» esclamò papà con aria esasperata. «Ho detto time out, okay?» e mi rivolse un’occhiata eloquente.
Sbuffai alzando gli occhi al cielo. «Okay».
«Allora, c’è una cosa importante di cui dobbiamo parlarti» cominciò.
Notai che sembrava teso. «È successo qualcosa?»
«No, tesoro, non preoccuparti. Alice ha avuto una visione, tutto qui» disse Carlisle.

La guardai: se ne stava in piedi a braccia incrociate e fissava Emmett con aria truce. «Cos’hai visto?»

Alzò le spalle. «Tra poco riceveremo visite».
Mi spaventai all’istante. «Dall’Italia?» esalai, temendo la risposta con tutta me stessa. Era il mio incubo peggiore.
«No!» esclamò subito papà. «Non sono i Volturi, sono Peter e Charlotte».
Peter e Charlotte! Sospirai di sollievo e sorrisi. «Ah! Bene, mi fa piacere. È una vita che non li vediamo, magari ci racconteranno qualcosa di interessante».
Nel salotto cadde un silenzio innaturale. Tautti puntavano accuratamente gli occhi altrove per non incrociare i miei. Brutto segno.
Papà si schiarì un po’ la voce. «Ehm… Renesmee, noi crediamo che sarebbe meglio se tu non li incontrassi» disse a voce bassa e attenta.

«Cosa?» sbottai. «E perché?»
«Be’, mi sembra ovvio: loro non sono vegetariani. Potrebbe essere pericoloso per te» rispose zia Rosalie al posto di papà.
«Ma che sciocchezza!» esclamai. Quasi mi scappava da ridere. «Quando i Volturi stavano venendo a ucciderci ho passato un intero mese in compagnia di vampiri non vegetariani e non è mai successo niente». 
«Sì, ma quella volta era necessario» intervenne zio Jasper. «Perché dovresti esporti inutilmente a questo rischio?»
Lo guardai, indignata. Da lui non me lo sarei aspettato, sempre così calmo e razionale. Non era di certo Jazz, in casa, quello che perdeva la testa per un nonnulla. «Perché li ho già incontrati e non hanno mai cercato di farmi del male! Le vostre sono solo paranoie!»
Papà alzò appena le spalle. «Forse l’altra volta siamo stati solo fortunati. Tu non hai idea di quanto sia difficile controllarsi».
Sollevai gli occhi per guardarlo. «Anche per voi?» lo provocai. 
Per un istante mi fissò in silenzio e mi parve che esitasse un poco
. Infine sorrise. «È diverso. Noi ti amiamo».
Mmm. Risposta sensata, ma non del tutto soddisfacente. Sapevo che il mio profumo li tentava da quasi cinque anni, ma mi sarebbe piaciuto sapere quanto, anche se forse era solo una curiosità morbosa. Edward sembrò ignorare queste riflessioni. 
«E dal momento che verranno qui come pensate di impedire che io li veda?»

Di nuovo silenzio di tomba. Poi Jasper parlò lentamente. «Non verranno qui: io ed Alice gli andremo incontro non appena saranno abbastanza vicini e ci fermeremo nei boschi, così nessuno sarà in pericolo».
Strabuzzai gli occhi. «Non gli permetterete di venire in questa casa? Sono i tuoi più vecchi amici!»
Lui mi rivolse un'occhiata dolce e carica di affetto. «E tu sei la mia adorata nipotina, non permetterei mai che ti succedesse qualcosa. Sono certo che Peter e Charlotte capiranno».
«Ma loro ci hanno aiutati!» esclamai, sempre più sconvolta. «Cinque anni fa ci hanno salvato la vita, mi hanno salvato la vita, non mi farebbero mai del male! Avrebbero combattuto al nostro fianco! Non possiamo dimenticare quanto gli dobbiamo».
«Cara, nessuno lo dimentica» disse Carlisle con voce calma e serena. Mi sarebbe piaciuto sapere come riusciva a mantenere sempre il controllo. Forse era una qualità innata. «Gli siamo molto grati e lo saremo per sempre, ma tu e la tua sicurezza venite prima di tutto».
Sospirai. «Lo so e vi ringrazio, ma questa è una paranoia e un’ingiustizia».
«Be', ormai è deciso» sentenziò zia Rosalie scrollando la sua cascata di capelli d’oro.
«Non sono d’accordo» ribadii, ostinata.
«Renesmee, siamo sempre felici di ascoltare la tua opinione, ma stavolta no» intervenne la mamma, ancora un po’ irritata per aver perso l'ultimo round con Alice.
Rimasi in silenzio per un paio di minuti, a braccia incrociate e fissando il tappeto con aria truce. All’improvviso mi si accese una lampadina. «E se io avessi un’idea migliore?»
Emmett emise un verso di scetticismo mentre papà al mio fianco sospirò appena. «Lo immaginavo» mormorò.
«Cioè?» chiese la mamma.
«Peter e Charlotte verranno qui, ma io non ci sarò: Jacob può venire a prendermi a scuola e passerò la giornata con lui a La Push… e quando il pericolo si sarà allontanato tornerò a casa».
Nessuno commentò il mio sarcasmo. 
«Non è una cattiva idea. Lì saresti al sicuro» fece Bella soprapensiero.

«Non ti chiedo cosa preferisci fare» mi disse papà con tono ironico.
«Odio avere un baby sitter, ma se si tratta di Jake almeno posso fingere di passare solo un pomeriggio con il mio migliore amico invece di essere sotto sorveglianza speciale» risposi, acida.

Lui annuì. Sembrava stranamente rassegnato a qualcosa di inevitabile e molto sgradevole. «Allora è deciso».
«Hai ereditato le rotelle fuori posto di tua madre, Renesmee, lasciatelo dire» borbottò Emmett.
La mamma scoppiò a ridere di gusto. «Grazie mille, la tua bontà mi commuove» esclamò.
Soddisfatta, scattai in piedi con entusiasmo. «Bene, ora che questa faccenda è sistemata possiamo andare da Charlie. Comincio ad avere fame».

Per fortuna io avevo già superato l’ispezione di zia Alice e la mamma era appena stata agghindata dalle sue stesse mani, quindi riuscimmo ad uscire di casa in un tempo ragionevolmente breve. Durante il tragitto in macchina nessuno parlò ed io mi persi nei miei pensieri su Alex, i compiti che avevo per il week-end, Alex, le stupide battute degli zii, Alex, gli acquisti che progettavo per la gita a Olympia, Alex, Alex e ancora Alex, mentre mi allungavo tra i due sedili anteriori per cambiare i cd e mettere le mie canzoni preferite.
«C’è una sorpresa» disse a un tratto papà. A giudicare dalla voce stava sorridendo. 
Alzai gli occhi e mi accorsi che eravamo arrivati a destinazione. Parcheggiata di fronte a casa di Charlie, insieme alla volante della polizia e alla macchina della sua seconda moglie Sue, c’era una Golf rossa a me ben nota. Cacciai un gridolino di gioia, lanciai in aria un cd e mi precipitai fuori dalla Aston Martin prima ancora che papà cominciasse le manovre per infilarsi in fondo alla fila di auto. Corsi alla porta e suonai energicamente il campanello, e un istante dopo mi ritrovai davanti Jacob con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.

«Guarda un po' chi si vede» disse a mo' di saluto.
Gli saltai al collo e lui mi strinse tra le braccia forti, ridendo. «Ehi! Che entusiasmo!».
«Jake! Pensavo che fossi di turno!» dissi, senza fiato e ancora attaccata a lui.
«Mi sono fatto sostituire. Dopotutto è una cena in famiglia».
Fummo interrotti dall’ingresso, in contemporanea, dei miei genitori e di Charlie. 
«Ah, siete arrivati» borbottò il nonno. «Mi pareva di aver sentito un gran fracasso».

«Ciao papà» lo salutò Bella con voce allegra.
«Ehi, Bells. 'Sera, Edward», rispose lui distrattamente, continuando a fissare me e Jacob come se fossimo stati due alieni piombati in casa sua direttamente dallo spazio. 
Per un secondo la sua espressione mi stupì, poi mi resi conto che me ne stavo ancora abbarbicata al mio amico come a un’ancora di salvezza. Mi lasciai sfuggire un sospiro impercettibile. Per continuare a vedere me e la mamma, Charlie era stato costretto ad accettare tante cose. Per citare la più eclatante, aveva accettato il mistero del mio arrivo e in quei cinque anni aveva assistito alla mia assurda crescita senza mai fare domande. In parte riusciva a far finta di niente perché poteva contare sul supporto psicologico di Sue, in parte perché ci amava e non voleva perderci.

L’unica cosa per cui riservava l’espressione che aveva in quel momento dipinta in faccia, gli occhi stretti e le labbra serrate, eravamo io e Jacob. O meglio, io e Jacob quando ci appiccicavamo in quel modo, come diceva la mamma. Già da tempo avevo notato che Charlie reagiva con disappunto alla nostra amicizia, al nostro modo di stare insieme, sempre abbracciati o mano nella mano, sempre riducendo al minimo la lontananza. Era come se ci trovasse qualcosa di strano, quando invece per me niente era più naturale di quello. Non sapevo come fosse avere un fratello gemello, ma probabilmente sarebbe stato così.
Alle domande che gli rivolgevo in proposito, la risposta di mio padre era più o meno sempre la stessa. 
«Chiunque guarderebbe sua nipote con quella faccia se lei frequentasse un tizio che si trasforma in lupo». 
Ecco l’unico punto dolente della situazione: Charlie sapeva che Jacob era un licantropo perchè, subito dopo la mia nascita, Jacob aveva
parzialmente introdotto mio nonno nel mondo del sovrannaturale, facendogli sospettare quel tanto che gli bastava per avere un’idea di cose fosse successo a sua figlia, ma non per capirci effettivamente qualcosa. Il tutto allo scopo di permettere a Bella, la sua migliore amica, di continuare a vederlo ed evitarle di trasferirsi dall’altra parte del mondo.
In effetti, quando pensavo che Charlie aveva assistito alla trasformazione di Jacob in lupo, mi meravigliavo che riuscisse ancora a stare nella stessa stanza con lui senza avere una crisi isterica, quindi il fatto che non gli rivolgesse sorrisi smaglianti era tutto sommato perfettamente comprensibile… Ma c’era una differenza tra il modo in cui guardava Jacob quando era solo e il modo in cui lo guardava quando era con me. Sì, una differenza c’era, e tutte le rassicurazioni dei miei non potevano impedirmi di notarla, non potevano dissipare i miei dubbi e la sensazione che Charlie vedesse qualcosa che a me sfuggiva.
Ma non era il momento di pensarci. Mi sforzai di sorridere mentre mi avvicinavo al nonno per baciarlo sulla guancia. 
«Ciao piccola» mi salutò, squadrandomi da capo e piedi. «Sei cresciuta ancora dall’ultima volta che ti ho vista?»

La mamma fece una risatina. «Ma no, Charlie, sono passate solo due settimane». 
Insieme alla battuta di caccia, il mio raffreddore aveva fatto slittare anche la visita ai nonni. Avevamo l'abitudine di incontrarci una volta a settimana per cena, solitamente di venerdì perchè il giorno dopo non dovevo andare a scuola e potevo fare più tardi. Il nonno si limitò ad annuire, pensieroso. Mi voltai con un sorriso per incrociare lo sguardo di Jacob. Lui mi tese la mano, io la presi e schizzai di nuovo al suo fianco come una specie di calamita. Be’, mi dispiaceva per Charlie e i suoi tormenti interiori, ma non riuscivo a farne a meno. 
«Meno male che sei venuto, ho una montagna di cose da raccontarti» esclamai.

«È proprio per questo che sono qui, figurati: la mia giornata non ha senso se tu non mi arroventi le orecchie per un paio d’ore».
«Lasciatemi indovinare, da quant’è che non si vedono? Ventiquattr’ore?» borbottò Charlie, infastidito.
«Più o meno» rispose la mamma quasi con lo stesso tono.
Charlie bofonchiò qualcos’altro di incomprensibile, poi alzò la voce. «Su, venite, la cena è quasi pronta».
Lo seguimmo in cucina, dove trovammo Sue ai fornelli e Seth alle prese con una pila di piatti sporchi. Andai ad abbracciare anche lui, un po’ per rabbonire il nonno, un po’ perché ero sinceramente felice di vederlo. Dopo il mio Jacob, era il licantropo che mi piaceva di più e con il quale avevo più confidenza. Sua madre lasciò i fornelli per salutarmi con un bacio, poi mi prese il viso tra le mani e mi osservò attentamente. 
«Sei cresciuta» disse con semplicità. «E sei uno splendore». 
Arrossii, imbarazzata, e la ringraziai. Intanto la mamma si era già infilata un grembiule per aiutare con la cena. 
«Bella, non se ne parla proprio» esclamò Sue con tono deciso «sei un'ospite». 
Sorrisi. Ecco un’altra delle scene tipiche a cui assistevo in occasioni come questa.

«Un'ospite? Ma no, siamo in famiglia. Sono contenta di darti una mano, e poi penso che Charlie non resisterà ancora a lungo».
Alla fine la mamma ottenne una piccola montagna di carote, zucchine e cipolle da affettare, ma Sue non le permise di accostarsi alle pentole per non macchiare il suo bel vestito. Charlie e papà aprirono una bottiglia di vino e si spostarono in salotto a vedere una partita di baseball ed io, approfittando dell’assenza dei controlli del capo Swan, sedetti al tavolo in braccio a Jacob piegando i tovaglioli per la cena.
«Che bello avervi qui tutti insieme» disse Sue aprendo il forno per controllare qualcosa.
«Per fortuna Leah ci ha dato buca anche stavolta, altrimenti avresti dovuto accontentarti degli avanzi» fece Seth a Jacob con un sorrisetto. 
Probabilmente Leah si era proposta per la ronda al posto di Jake, perché preferiva mille volte starsene nei boschi al freddo che passare una serata in famiglia. Si univa alle nostre cene solo a Natale e a Pasqua con un muso lungo fino a terra e lo sguardo disgustato che riservava ai succhiasangue, compresa me. Lei era l’unica in entrambi i branchi che nutriva ancora tutto quel risentimento verso di noi.

«Allora, Jacob» cominciò la mamma storcendo un po’ il naso per via del cibo crudo «spero che tu non abbia trascurato il lavoro per essere qui».
«Per fortuna non sono solo. Stasera ho delegato i compiti».
«Non mi riferivo a questo. Pensavo che avessi una macchina di cui occuparti per la cugina di Emily».
«Avrò tutto il tempo di finirla domani e la consegno lunedì».
«Certo» disse la mamma. Teneva lo sguardo incollato sulla carota che stava tagliando. «È solo che… insomma, naturalmente sono felice che tu sia qui, ma devi dare la precedenza a ciò che è davvero importante».
«Lo faccio, credimi» rispose Jake con tranquillità. Mi sfiorò il dorso della mano con il pollice, un gesto che adoravo. Mi rilassava da morire. «È tutto sotto controllo, Bells. Ho lavorato un sacco, questo mese, e ho guadagnato un bel po'».

«Mi fa piacere» fu la risposta a denti stretti. «Allora ritengo che non manchi più molto alla tua partenza per il college. Alcune università accettano ancora le domande di iscrizione, non è troppo tardi. Perchè non provi? Così non dovresti aspettare l’anno prossimo».
Sollevai la testa e guardai mia madre, perplessa. Continuava a tenere gli occhi bassi, ma nel suo viso c’era qualcosa di strano. Che voleva fare? Ricominciare la sua piccola crociata personale? Ormai erano mesi che non si toccava l’argomento.
«Grazie del pensiero, ma non m’interessa. Non penso che il mio futuro sia nel mondo accademico».
«A chi lo dici» borbottò Seth con un’occhiata furtiva a sua madre.
Bella smise di affettare e lo fissò con espressione indecifrabile. «Potresti sbagliarti. Sei un ragazzo in gamba, Jake. Ti sei diplomato con dei buoni voti e potresti avere facilmente una borsa di studio».
«Forse potrei, ma non mi interessa» rispose Jacob con lo stesso tono pacato.
«Allora ti accontenti di questo, per tutta la vita?» lo provocò la mamma. Non capii se si riferisse al suo lavoro di meccanico o al suo ruolo di alfa.
«Accontentarmi? Non mi sto accontentando, è una mia scelta».
Seth e sua madre tenevano gli occhi bassi e non fiatavano. Io ero sempre più sbalordita e seguivo quell’acceso scambio di battute spostando la testa da mia madre a Jacob, come se stessi seguendo una partita di ping pong. Avevo la sensazione di essermi persa qualcosa. 
Bella fissò Jake ancora per un secondo, poi afferrò una cipolla e ricominciò a tagliare. «Dovresti lasciare La Push, vedere un po’ il mondo…»
«Sai che non ci sono solo il mio lavoro e... le altre cose: non posso lasciare mio padre».
«Billy non ha bisogno del tuo aiuto, e se anche fosse sono sicura che preferirebbe fare a meno di te piuttosto che vederti rinunciare alla tua vita».
«Io non rinuncio a niente, Bella» rispose Jacob con forza. «È una mia scelta restare e sono felice di farlo».
Il coltello della mamma si bloccò a mezz’aria e lei gli puntò di nuovo lo sguardo addosso. «Sei sicuro, Jake?»
Lui rimase perfettamente calmo, come prima. «Certo. Cosa ti fa pensare che non lo sia?»
Con un piccolo tonfo la lama cadde di nuovo sul tagliere. «Be’, io credo solo che non dovresti restare così attaccato a…» di colpo tacque e sul suo viso si dipinse un’espressione sconvolta, come se non potesse credere a quello che stava per dire «... a casa tua» farfugliò, correggendo la frase in extremis.
Jacob scoppiò a ridere. «Rassegnati, Bells. Non vi libererete tanto presto di me». 

«Scusate l’intromissione» disse una voce sulla porta. Mi girai: papà era entrato tenendo tra le mani un bicchiere di vino. «Bella, devi assaggiare questo, è squisito». La raggiunse con passo tranquillo e le tese il bicchiere. 
Non potevo vedere il viso di papà, ma quello della mamma si distese a poco a poco mentre si guardavano.
Buttò giù un sorso di vino sforzandosi di non lasciar trapelare una smorfia di disgusto e restituì il bicchiere a papà. 
«Delizioso» disse, e tornò al suo lavoro.

«Spero che non manchi molto, non so per quanto ancora potrò trattenere Charlie» aggiunse Edward.

«È quasi pronto» rispose Sue. 
Papà uscì dalla cucina rivolgendomi uno dei suoi fantastici sorrisi mentre passava, e sembrò portare via con sé la tensione che avevo percepito fino a un minuto prima.

Mentre gli umani e i semiumani si godevano la fantastica cena preparata da Sue, e i non umani mandavano giù qualche boccone cercando di mantenere delle espressioni normali, Jacob raccontò che Paul e Rachel, sua sorella, avevano deciso di sposarsi entro la fine dell’estate e mi anticipò che la sposa avrebbe voluto me tra le damigelle. Notizia buona e cattiva allo stesso tempo: se da un lato l’affetto della sorella di Jacob mi faceva piacere, dall’altro detestavo essere al centro dell’attenzione e avendo già fatto quell’esperienza al matrimonio di Charlie e Sue, quattro anni prima, avevo un’idea piuttosto precisa di cosa aspettarmi.
Fui preoccupata per tutta la cena: temevo che la mamma e Jacob ricominciassero a battibeccare, e anche se mi sarebbe piaciuto dare un senso alla scena cui avevo assistito in cucina, sentivo che non erano né il luogo né il momento adatti per mettersi a discutere.
Dopo cena aiutammo tutti Bella e Sue a sparecchiare, lavare i piatti e mettere in ordine, e grazie alla super velocità della prima e all’abilità della seconda, finimmo in un quarto d’ora. Poi Charlie tirò fuori il vecchio Cluedo che era appartenuto alla mamma, infilato insieme ad altri giochi nello sgabuzzino sotto le scale, e cominciammo una partita. 
A poco a poco mi rilassai di nuovo, litigando scherzosamente con Seth che pretendeva di indovinare sempre tutto, progettando strategie con Jacob (ovviamente giocavamo in squadra), prendendo in giro il nonno che dopo pochi minuti tra tutti quei potenziali assassini e tutte quelle potenziali armi del delitto non si raccapezzava più. 
E poi, all’improvviso, un nuovo momento di tensione. Dopo essere rimasto zitto e con il viso contratto per un po’, Charlie sparò una piccola bomba.

«Ehi, Bells, indovina chi mi ha telefonato due giorni fa» disse con tono forzatamente noncurante.
«Chi?» chiese lei, distratta, osservando le carte che aveva in mano.
Charlie le scoccò un’occhiata furtiva prima di rispondere. «Tua madre».
Lei si irrigidì appena, ma non lasciò trasparire nessuna particolare emozione. «Mmm» fu il suo commento.
Ci fu un minuto di silenzio, poi il nonno tornò alla carica. «È preoccupata per te. Si è lamentata perché non ti fai mai sentire, deve lasciarti decine di messaggi prima che ti decida a richiamarla, ti manda valanghe di email a cui a stento rispondi… Così ha chiamato qui per sapere come stavate, se c'è qualche problema e se… se per caso ce l’hai con lei». Il discorsetto terminò in un bisbiglio.
La mamma fece un sospiro pesante. «Oh, no, certo che non ce l’ho con lei. Perché dovrei? Ho sempre tanto da fare e tu sai che Renee ha un modo tutto suo di vedere le cose. Basta un niente per farle costruire un castello di carta».
La mia nonna materna, Renee, e il suo secondo marito Phil, vivevano a Jacksonville, in Florida, ed erano a conoscenza di quella che chiamavamo "la versione ufficiale": secondo questa versione, io ero la figlia del fratello maggiore di Edward, morto con la moglie in un incidente stradale quando io ero molto piccola. Per un po' di tempo avevo vissuto con la famiglia di mia madre, poi il mio presunto zio si era sposato e aveva deciso di adottarmi insieme alla sua seconda moglie, Bella, e così ero arrivata a Forks.
Quando la mamma le aveva comunicato tutto questo per telefono, con il pericolo dei Volturi ormai scomparso all’orizzonte, Renee era quasi impazzita e aveva subito cominciato a smaniare per venire a Forks a vedermi. Bella era stata costretta ad accampare un mucchio di scuse per evitare il disastro, finchè l’estate precedente, quando la mia crescita era rallentata e aveva smesso di essere evidente per gli occhi umani, lei e Phil erano corsi a trovarci. 
Le due settimane della loro visita erano state probabilmente le più stressanti nella vita di mia madre, poiché Renee l’aveva talmente subissata di domande che subito dopo la sua partenza l’intera famiglia aveva decretato, sconvolta da tutta quella tensione, che non era più il caso che mi vedesse. Passata l’estate, dunque, la mamma aveva sempre ostacolato qualsiasi possibilità di un nuovo incontro, limitandosi a scambiare con Renee alcune email e sporadiche telefonate, come me. 
Mi rattristava tenerla così a distanza: mi era piaciuta fin da subito quella nonna giovanile, allegra e un po’ svampita, che perdeva di continuo il cellulare e le chiavi della macchina, indossava orecchini spaiati e si vestiva come una ragazzina. Le giornate trascorse con lei erano state divertentissime e interessanti: mi aveva raccontato tante cose sull’infanzia della mamma, e tra noi due non c’era mai stata molta tensione dal momento che non osava, per il timore di turbarmi, rivolgere a me le domande con cui invece assillava sua figlia. Ripensando a lei, sorrisi istintivamente.

«Lo so, ma… sarebbe comunque meglio se domani tu le telefonassi e la tranquillizzassi un po’», insistè Charlie con tono serio e grave. «Era davvero preoccupata e non è bello, ti vuole molto bene e voi due eravate così legate, fino a…». Tacque di colpo, consapevole di aver detto troppo, mentre l’atmosfera nella stanza si congelava. «Chiamerà l’FBI se continui così» aggiunse.
«Proprio quello di cui abbiamo bisogno» commentò Jacob a bassa voce, e mi strappò un sorrisetto.
La mamma era visibilmente tormentata da quelle parole. «D’accordo, ti prometto che la chiamerò».
«Bells…»
«Ehi, ti ho detto che lo farò!» esclamò, esasperata.
Charlie alzò le mani. «Okay, okay! Era mio dovere avvertirti, tutto qui».
E la cosa finì lì, per fortuna.
Quando ci fummo stancati di giocare, era ora di tornare a casa. Mentre salutavo tutti e infilavo il cappotto, di colpo mi sentii stanca morta. Charlie disse che sarebbe venuto a trovarci la sera successiva per una specie di torneo di poker che avevano organizzato Carlisle e gli zii, e feci promettere a Jacob che ci sarebbe stato anche lui. 
Appena salii in auto, mi sdraiai sul sedile posteriore e scivolai nel dormiveglia. Dopo un po’ mi accorsi di un bisbiglio appena udibile nell’abitacolo: i miei stavano parlando sottovoce. Cercai di ascoltare, incuriosita.

«Non era affatto necessario che intervenissi, prima. La situazione era sotto controllo» stava dicendo la mamma con tono leggermente stizzito.

«Tu dici? Jacob ha sempre saputo perché lo fai e anche se ti capisce non potrà mai essere d’accordo. È davvero una sua scelta, Bella, ed è davvero felice» ribattè papà.
«Forse, ma io continuo a pensare che sarebbe la cosa migliore per tutti. In fondo si tratterebbe solo di seguire qualche corso alla Washington State, per esempio. Non deve trasferirsi in Australia o chissà dove. E poi sarebbe meglio anche per…». Di colpo abbassò di più la voce e mi persi qualche parola. «Non è giusto, non mi va che cresca con questa... spada di Damocle sulla testa».
«Ne parliamo dopo» rispose papà troncando bruscamente la discussione. Doveva essersi accorto che ascoltavo. «Piuttosto, quando chiami tua madre? È peggio se la ignori così, lo sai. Non è una stupida».
«Lo farò domani. È solo che… è dura doverle sempre rispondere di no quando mi chiede di andare a Jacksonville e portarle la bambina». La tristezza nelle sue parole mi colpì. Davanti agli altri aveva cercato di mantenere un tono neutro, ma ora sembrava sfuggirle il solito controllo.
«Be', magari quest'estate…» disse papà. 
Non sentii altro. Troppo stanca anche per farmi domande, chiusi gli occhi e lasciai che i loro sussurri mi cullassero nel mondo dei sogni.









Note.

1. Qui la canzone.










Spazio autrice.
Okay, anche questo capitolo è abbastanza lungo! xd Spero che non vi dispiaccia, personalmente non amo i capitoli troppo brevi perchè non danno proprio soddisfazione xd. Resto in attesa dei vostri pareri ^^. Fatevi sentire, gente!

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Capitolo 7
*** Kiss me ***


Capitolo 1

 Capitolo 7

Kiss me



Oh, kiss me beneath the milky twilight

lead me out on the morning floor
lift your open hand
strike up the band and make the fireflies dance
silvers' moon sparkling
so kiss me...
Kiss me, Sixpence none the richer¹

                                                                                                                                                       


Nel primo bacio d'amore rivive il paradiso terrestre.

George Byron


 


Il lunedì mattina mi svegliai di ottimo umore. Ero euforica mentre facevo la doccia, mi vestivo, battibeccavo con la mamma che protestava per i miei acquisti durante lo shopping di sabato pomeriggio… Sentivo che sarebbe stata una giornata fantastica, anche se non c’era nessun motivo particolare per farmi pensare questo. Anzi, avrei avuto un compito di biologia a sorpresa che ormai tanto a sorpresa non era dal momento che io e i miei compagni eravamo riusciti a scoprire la data. Mentre papà mi accompagnava a scuola in auto, alzai la musica a tutto volume e iniziai a cantare sotto voce. Lui aveva il sorrisone di chi la sa lunga.

«A cosa è dovuto tutto questo entusiasmo?» domandò a un certo punto. «Non che mi dispiaccia, sei uno splendore stamattina».
«Nessun motivo in particolare. C’è bisogno per forza di una ragione per essere felici?» ribattei.
«Posso chiedere se questo nessun motivo si chiama Alex?» buttò lì come se niente fosse.
Mi scappò
una risata mentre arrossivo un po'. «Be’, sì, è anche per quello» ammisi. Lui già lo sapeva, ovviamente. Voleva solo farmi uscire allo scoperto. «Ho un nuovo amico».
«Non devi sentirti tanto in imbarazzo, Renesmee» replicò. «È assolutamente normale che ti piaccia un ragazzo. Alla tua età… o meglio, in questa fase della tua vita è giusto prendersi una cotta. L’importante è non correre troppo ed essere sempre consapevoli dei propri sentimenti». Fece una piccola pausa mentre io lo fissavo, sorpresa da tutta quella tolleranza. In famiglia erano sempre così gelosi e paranoici quando si trattava di me. «E soprattutto non devi legarti subito a una persona sola» aggiunse un attimo dopo.
«Che vuoi dire?» esclamai, meravigliata. «Io non sono legata a nessuno». Alex lo conoscevo appena, e per quanto mi piacesse era decisamente troppo presto per parlare di fidanzamenti e roba del genere.
«Certo» mormorò, ma il suo volto divenne scuro di colpo, come se in una giornata di primavera un banco di nuvole grigie avesse offuscato il sole luccicante. «Voglio solo che tu abbia una vita normale».
«Papà, sono una mezza vampira di quattro anni che ne dimostra quindici, vivrà per sempre e proietta i propri pensieri nelle teste altrui: come potrò mai essere normale?»
Dopo un attimo di esitazione lui sorrise di nuovo e le nuvole scivolarono via. «Intendevo nei limiti del possibile».
«Be’, questa è una specificazione molto utile!» esclamai, divertita.
In quel momento eravamo arrivati al parcheggio della scuola. 
«Passa una bella giornata, tesoro» mi disse papà.

«Ah, non so perché ma penso che lo sarà!» risposi in tono allegro, su di giri.
Edward spense il motore e mi guardò in silenzio per un attimo. «Ti voglio bene, lo sai vero? Sì che lo sai». Un grosso vantaggio di avere un padre che ti legge nel pensiero è che tre volte su quattro ti risparmia la fatica di rispondere.
«Anch’io papà. A dopo. E divertitevi con il nostro J» esclamai con un sorrisino.

Quella mattina i miei avevano un appuntamento a Seattle con il fido Jenks. In realtà era sempre la mamma a trattare con lui per conto dell’intera famiglia, ma papà la accompagnava spesso. Saltai giù e mi incamminai a passo svelto, pensando che anche se il summenzionato padre che legge nel pensiero ha centodieci anni ed è un vampiro terrificante, sa essere la persona più dolce dell’universo. 
Entrai nel cortile, affollato ma non troppo perché era già tardi... Colpa della mamma e delle sue prediche. Stavo rimuginando sul test di biologia, quando mi sentii chiamare.

«Renesmee! Ehi, Renesmee!» 
Era Alex, comodamente seduto sul cofano della sua auto, le cuffiette dell’i-pod che spuntavano dalle orecchie. Gli sorrisi, rispondendo al saluto con la mano, e lo osservai da lontano per qualche secondo: gli occhi luminosi, la carnagione chiara e delicata, le labbra perfette, il sorriso smagliante stile pubblicità del dentifricio, i capelli scuri elegantemente scompigliati dal vento… sentii lo stomaco contrarsi per l’eccitazione e il nervosismo. Mentre mi avvicinavo, cercai di darmi un contegno.

«Ehi! Come stai?»
«Alla grande, adesso» rispose con tono insinuante. «E tu?»
«Non c’è male. Che fai ancora qui? Si sta facendo tardi».
«Ero impegnato a convincere me stesso ad entrare e andare a matematica».
«Ah, sì? E stai avendo successo?»
Scrollò le spalle. «Non molto. Sai, la matematica non mi piace un granchè. E poi avrò un test di storia, ma io l’ho saputo venerdì, quindi ho avuto solo il week end per ripassare tutto il programma».
Feci una smorfia. «Che bella sfortuna. Io avrò un test di biologia a sorpresa».
«Non dovresti sapere che è oggi, allora» obiettò sollevando un sopracciglio.
«Se è per questo non avrei nemmeno dovuto guardare nell’agendina del professore per scoprire la data» ribattei con aria orgogliosa e imbarazzata al tempo stesso.
Lui scoppiò a ridere di gusto. «Non posso crederci! Miss Perfettina che imbroglia un insegnante… non l’avrei mai detto». 
Mi piantò in faccia quegli occhi incredibili ed io mi ci persi per un istante. Faticai a tirare un bel respiro e a parlare di nuovo.

«Ci sono tante cose che non sai di me. In fondo ci conosciamo solo da qualche giorno».
Schizzò in piedi con agilità. «È il caso di approfondire, allora! Potrebbe essere interessante, soprattutto se hai altre simili prodezze da confessare! Forza, andiamo». Si diresse verso il posto di guida della sua macchina.
Lo guardai, disorientata. «Dove?»
Anche lui si fermò per guardarmi. «A fare un giro! A scuola non potremmo parlare comodamente, no?»
Sbattei le palpebre, ancora perplessa. «Un giro? Stai scherzando, vero?»
«Mai stato più serio di così».
«Come?» sbottai. «Alex, se oggi perdo quel test potrei avere dei problemi e ne avrai anche tu se perdi il tuo. Muoviamoci».
Stavo per girarmi verso l’edificio, ma lui mi fermò. «Oh, dai, so che vuoi farlo, Scheggia! Solo un giro! Sarai qui fuori alla solita ora e nessuno lo saprà mai».
Questo era quello che credeva lui, che non sapeva delle abilità extra di mio padre. Per un attimo provai ad immaginare la sua reazione, e quella della mamma, se avessi saltato le lezioni. Non avevo mai fatto una cosa del genere, quindi non sapevo con certezza come l'avrebbero presa. Sicuramente non ne sarebbero stati entusiasti, ma non erano tipi da scenate, loro due. Poi immaginai di passare la mattina lì dentro, a scuola, a fare le stesse cose di tutti i giorni, e immaginai invece la mattinata con lui: un’incognita, era vero, perché avevo la sensazione che con Alex potesse succedere qualsiasi cosa… ma forse valeva la pena di vedere cosa sarebbe successo. Forse era il caso di assecondare lo strano impulso che avvertivo di seguirlo. Forse era arrivato il momento che Miss Perfettina desse una bella scossa alla sua vita.
«Muoviamoci» sibilai, e lo raggiunsi di corsa.
Alex scoppiò a ridere, raggiante. «Sì! Vittoria! Evvai, Scheggia!» esclamò, salendo in macchina. 
Io mi infilai rapidamente al suo fianco, guardandomi in giro con attenzione per verificare che non ci fossero professori nella vicinanze.

«Forza, sbrigati! Parti!» strillai mentre inseriva la chiave nel quadro. 
Accese il motore e diede gas, con una sgommata la macchina balzò in avanti, accelerò e un minuto più tardi eravamo fuori dal parcheggio, ma io non abbassai la guardia finchè non fummo a qualche chilometro dalla scuola, terrorizzata al pensiero che qualcuno ci vedesse. E se papà era ancora nelle vicinanze? E se il preside Green era in ritardo e proprio in quel momento stava arrivando a scuola? Quando finalmente fui certa che l’avevamo fatta franca, potei tirare un sospiro di sollievo e, trascinata dall’entusiasmo di Alex che continuava a gridare come se stesse facendo il tifo in uno stadio, mi unii a lui. Ci volle un po' prima che ci calmassimo abbastanza da poter parlare di nuovo.

«Oh mio Dio, sono scappata da scuola!» strillai saltellando sul sedile come una bambina. «Non l’avevo mai fatto! È fortissimo!»
«E così, ormai Miss Perfettina ha imboccato la strada della perdizione…» disse con un ghigno. «E ci ho messo anche poco per convincerti a seguirmi!». Scosse la testa, divertito.
«Eh, già… Mi avrai sulla coscienza per il resto della vita».
«Questo è solo l’inizio, Scheggia. Abbiamo un’intera mattina davanti a noi».
«Non chiamarmi Scheggia, e qualunque piano criminale tu stia ideando, sappi che qui a Forks combinare qualcosa di interessante, come diresti tu, è assolutamente impossibile».
Ignorò le mie proteste su quello stupido soprannome, come al solito. «Ho notato che è tutto molto tranquillo, da queste parti, ma non è detto che non si riesca a movimentare un po’ le cose. Ci sarà pure qualche posto dove andare, a parte il supermercato».
«Certo» risposi con tranquillità «c’è il fantastico Museo del Legname dove ammirare tutte cose interessanti come gli attrezzi dei boscaioli di due secoli fa. Oppure, se ti va di fare qualche chilometro in più, nel Tillicum Park è conservata una vecchia locomotiva del 1930 e ti assicuro che guardarla è la cosa più emozionante che si possa fare senza uscire dalla penisola olimpica²».
Alex rise di gusto nel sentire le mie proposte. «Non puoi fare sul serio!»

«Bene, verifica di persona, se non mi credi! Ah, e poi c'è il supermercato, certo: potremmo andarci, comprare qualcosa di trasgressivo come una lattina di Coca e sorseggiarla di fronte all’ingresso. Sarà uno spasso».
Questa volta lo shock fu più forte. «Tutto qui? E che cavolo… saltare la scuola non ha senso se non si combina qualcosa di divertente nel frattempo».
«E allora che si fa, torniamo indietro?» sbottai, delusa. Avevo sperato in qualcosa di meglio per la mia prima fuga da scuola che dieci minuti in macchina lungo la Forks Ave.
«Neanche per idea! Perfino restare in auto ad ascoltare dei cd sarebbe meglio delle tue proposte… ne ho un mucchio, possiamo ammazzare almeno un paio d’ore».
«Sarebbe carino, ma è meglio non passare troppo tempo in giro: mio nonno potrebbe beccarci, o comunque visto che lo conoscono tutti qualcuno potrebbe vederci e riferirglielo» mugugnai.
«E allora?» esclamò, un po' sconcertato, lanciandomi un'occhiata rapida. Probabilmente nella sua testa un nonno impiccione non rappresentava un grosso problema.
«È il capo della polizia» risposi con un’occhiata eloquente.
«Merda» fu il suo commento sparato tra i denti.
Riflettei in silenzio per un minuto. La sua idea non era male, ma comunque non abbastanza eccitante, anche senza il pericolo incombente di Charlie. Nell’esatto momento in cui lo formulavo, quel pensiero stesso mi stupì, come tutto il resto. Avevo saltato la scuola, ero in macchina con un ragazzo appena conosciuto e mi stavo scervellando per trovare qualcosa di divertente da fare in barba ai duecento divieti e regole di famiglia che mi risuonavano nelle orecchie e alla minaccia dell’ispettore capo Swan. Che mi stava succedendo? A quel punto mi venne un’idea.
«Credi che il tempo reggerà?» domandai sbirciando fuori dal finestrino. Il cielo era coperto, anche se non pioveva, ma stando alle previsioni di zia Alice in mattinata sarebbe uscito un po’ di sole.
«Sembrerebbe di sì. Perché?»
«Perché mi è appena venuto in mente un posto fantastico, ma sarebbe meglio se non piovesse. È abbastanza isolato, sarà difficile incontrare qualche problema... Siamo pur sempre due fuggitivi, dobbiamo stare all'erta» dissi con un sorriso malizioso.

«Bene. Di che posto parli?»
«Lo vedrai. Quando te lo dico svolta a sinistra».
«Allora il comando della giornata passa a te? Mi sa che mi toccherà fidarmi».
«Tu fidati» risposi, e l’occhiata successiva che mi lanciò, stranamente seria e tenera allo stesso tempo, mi fece arrossire di confuso piacere. Mi ero appena resa conto di amare quello sguardo.
Ero certa che quel posto gli sarebbe piaciuto un sacco. Alex non aggiunse altro, si limitò a frugare un po’ nel vano cd, ne scelse uno, lo infilò nel lettore e lo fece partire. La prima traccia, a volume non troppo alto, era una canzone degli anni Novanta, romantica e piuttosto famosa. L’avevo già sentita perché era una delle preferite di tutte le coppie in amore di casa mia: quante volte li avevo guardati ammirata mentre ballavano al ritmo di quelle note, di quelle parole? Un’infinità. Ma quella volta, seduta in macchina accanto ad Alex, mi parve che avesse un suono del tutto nuovo, le parole del testo un significato sconosciuto, come una dolce promessa.
A parte le mie indicazioni stradali, che lui seguiva in silenzio, non parlammo mentre proseguivamo verso la nostra meta, con la musica che riempiva l’abitacolo, la vegetazione che diventava sempre più fitta fuori dai finestrini. Eppure quel silenzio non mi pesava e a giudicare dalla sua aria rilassata nemmeno a lui. Forse adesso che cominciavamo a conoscerci meglio avevamo superato l’imbarazzo dei primi giorni… Ma io ancora non lo conoscevo bene, mi resi conto di colpo con un sussulto interiore. Non sapevo quasi nulla di Alex, solo il suo nome. Com’era possibile allora che con lui mi sentissi sempre così bene, nonostante l’imbarazzo, le prese in giro… come se fossimo stati due spiriti affini. Mi era già capitato di pensare qualcosa del genere, con il mio Jacob. Ma con lui era tanto diverso: lo conoscevo dalla nascita, era come un fratello… per Alex invece sentivo che avrei potuto provare qualcosa di più. Proprio lui interruppe bruscamente i miei pensieri con una risatina.
«Avrei dovuto arrivarci. Non era poi così difficile».
Tornai alla realtà e mi resi conto che avevamo appena passato il cartello stradale che indicava l’ingresso nella riserva dei Quileutes. Sorrisi. «Eh sì, un agente segreto molto scadente, direi».
«Ma si potrà entrare? Non serve un permesso o qualcosa del genere?»
«Nessun permesso. Già conoscevi la riserva, allora?»
«Ne ho sentito parlare. È un gran bel posto».
«Unico al mondo! Ma io sono di parte, passo qui un sacco di tempo».
«Sul serio? E come mai?»
«Ho molti amici tra i Quileutes». 
«E non c’è il pericolo che qualcuno ci veda?»
«Hai paura?» lo provocai.
«Io non chiedo di meglio che un gran casino a casa e a scuola. Dicevo per te».
Il suo tono mi stupì. Non era noncurante o spavaldo come mi sarei aspettata, ma semplicemente sincero. «Tranquillo, i miei amici non sono mai in giro a quest’ora». 
Era una mezza verità: i licantropi che erano di ronda di giorno non si spingevano mai troppo vicino alla spiaggia per non rischiare di essere visti, e quelli che in mattinata non erano di turno di solito erano appena rientrati dalle ronde notturne, per cui erano a casa a dormire. E anche se qualcuno fosse stato nei paraggi e mi avesse visto, non sarebbe stato un gran problema. I miei l'avrebbero scoperto comunque. Tanto valeva non pensarci e godersi il momento. Cinque minuti più tardi eravamo nel parcheggio sterrato attiguo a First Beach. Da lì si poteva già vedere la spiaggia.
«Forza, andiamo» dissi, emozionata. 
Alex parcheggiò in fretta e mi seguì mentre correvo lungo il sentiero di terra battuta. Giunta alla spiaggia mi fermai e osservai il panorama spettacolare: la distesa di sassi e tronchi
dai colori tenui portati a riva dal mare, il cielo plumbeo solcato da candidi gabbiani, l’oceano grigio e inquieto. Il vento freddo increspava la superficie dell'acqua, mi scompigliava i capelli portandomeli sul viso e agitava le folte chiome degli alberi che circondavano la mezzaluna. Conoscevo quel posto come le mie tasche. Avrei potuto chiudere gli occhi e descriverlo fin nei minimi dettagli, eppure ogni volta che tornavo riusciva a stupirmi con la sua bellezza.
«È meraviglioso, vero?» esclamai, senza fiato. 
Mi voltai di scatto per cercare Alex convinta che fosse rimasto indietro e me lo ritrovai a pochi centimetri di distanza. Era immobile e non guardava il paesaggio. Guardava me con espressione intensa.
«Sì» sussurrò e il mio cuore fece un balzo. Ma nemmeno un secondo dopo, era scoppiato a ridere e si era allontanato. «Sì, direi che non è male per passare una giornata in clandestinità! Complimenti, Scheggia».

Tirai un respiro profondo e ripresi il controllo totale, approfittando del fatto che non poteva vedermi in viso. «Ancora non ti ha stufato questo stupido soprannome?»
Si girò a guardarmi con aria perfida mentre saltellava su dei sassi molto grandi. «Ehm… no. E non credo che succederà tanto presto, sai. La tua faccia ogni volta che ti chiamo così è un tale spasso». 
«Conosci il mio nome, ormai, usa quello» ribattei acida, troppo stizzita per cercare di non dargli soddisfazione.
Scrollò le spalle. «Anche tu conosci il mio».

Ancora una volta le sue risposte impertinenti mi lasciavano a bocca aperta. Ma invece di ribattere a tono, colsi al volo l'occasione. «Certo, ed è praticamente l’unica cosa che so di te» buttai lì mentre lo raggiungevo. «Se vogliamo davvero diventare amici, è il momento di fare qualche passo avanti, non ti pare?»
Era di spalle. Si fermò in bilico su un grosso sasso e si irrigidì appena. Tacque per un secondo, poi parlò con tono allegro, forzatamente allegro. «Naturale. Che vuoi sapere?»
Storsi il naso. «Così lo fai sembrare un interrogatorio» sbottai. Mi avvicinai e mi sedetti sul tronco rovesciato che io e Jake usavamo come postazione per le nostre eterne chiacchierate in spiaggia. Era una strana coincidenza che ci trovassimo proprio lì vicino. «Raccontami qualcosa di te, quello che vuoi… Perché non cominci dal nostro primo incontro? Come mai eri in fuga?»
Mi sorrise. «Be’, avevo geometria e ti ho già detto che odio la geometria… per giunta, la professoressa mi aveva costretto a presentarmi davanti a tutta la classe: un supplizio atroce. Così sono uscito dall’aula con una scusa qualunque e ho fatto una bella passeggiata per il campus. Stavo giusto pensando di filarmela, quando ho visto il preside Green sbucare da un corridoio e venire dritto verso di me. A quel punto mi sono buttato nella prima aula che ho trovato ed eccoci qui» allargò le braccia come per concludere il racconto. «Come vedi, è molto più banale di quanto potessi immaginare».
«Devi essere stato molto veloce per non farti beccare» mormorai. «Green vede tutto. Probabilmente ha un paio di occhi anche dietro la testa, nascosti dai capelli. Ho l’impressione che tu faccia spesso cose del genere».
Ci fu un attimo di silenzio. «Direi che spesso è un eufemismo» rispose con aria furba.
«Eppure la tua media è altissima. Al momento batte perfino la mia». Mi scappò un sorrisetto.
«E tu lo sai perché…» aggiunse, sbalordito, le sopracciglia inarcate.
«La mia amica Holly ha sbirciato nei tuoi documenti approfittando di un attimo di distrazione della segretaria» risposi noncurante.
Sul suo volto si disegnò un sorriso ammirato. «Caspita».
«Allora, com’è possibile che un ragazzo così sveglio e in gamba passi poi la maggior parte del suo tempo a scappare da scuola e a saltare le lezioni? Ad andare in cerca di guai, insomma» domandai, curiosa, ma cercando di non essere invadente.
Di nuovo non rispose subito, ma rimase zitto per un po’. Guardava verso l’oceano con aria indecifrabile. In quel momento, con lo sguardo perso in lontananza e i capelli scompigliati dal vento che sapeva di mare, in piedi su quel sasso, era così bello da togliermi il fiato. Sentii il mio cuore battere più forte, e desiderai con tutte le mie forze sapere cosa aveva in testa. 
«Se è troppo difficile passo alla prossima domanda» lo stuzzicai. Non volevo vederlo triste, e nemmeno pensieroso, per quanto potesse affascinarmi. Volevo vedere il suo sorriso e sentire che era felice.
«Non è questo, è che non voglio… annoiarti» rispose, e sembrò che avesse cambiato parola all’ultimo istante. 
«Be’, anche io potrei annoiarti quando ti racconterò qualcosa di me, ma non importa: mi hai chiesto di essere amici ed io voglio esserlo, davvero, ma dovremmo conoscerci meglio, non trovi?». Alex annuì appena, mentre mi fissava con aria seria, ed io mi sentii incoraggiata e proseguire. «Bene. Allora, come mai ti sei trasferito dalla fantastica New York alla sperduta Forks?» cominciai. Era una delle prime domande che mi era venuta in mente e non troppo personale.
«È stata mia zia a volerlo».
«Tua zia?» 
«Sì, la mia tutrice. Mia e di mia sorella minore. Vedi, i miei genitori sono… sono morti». 
Saltò giù dal sasso gigante e venne a sedersi accanto a me.

«Oh» mormorai, colta totalmente di sorpresa. «Mi dispiace».
«Un anno e mezzo fa hanno avuto un incidente d’auto, mentre andavano ad una festa, e sono morti sul colpo» continuò senza badare al mio commento. «Nel testamento zia Julie, la sorella minore di mia madre, è stata nominata tutrice legale e si è trasferita a casa nostra».
«Hai una sorella?». Mi sforzavo di mantenere un tono normale, ma sentivo gli occhi pungere stranamente, forse perchè stavo pensando a cosa avrei dovuto raccontargli dopo. Per la prima volta da quando ero uscita dal bozzolo di casa Cullen ed ero entrata nel mondo reale, desiderai con tutte le mie forze non dover mentire a chi avevo di fronte.
«Si chiama Phoebe. Ha dieci anni». Fece una breve pausa ed io rimasi in silenzio, lasciandogli il tempo di cui aveva bisogno. «So che può sembrarti una frase retorica, ma da quel giorno, dal giorno in cui ho visto i miei per l’ultima volta, è cambiato tutto. Julie ha solo ventotto anni... è una persona intelligente e comprensiva. Si è sforzata di rendere tutto il più semplice possibile, ma anche se cercava di non darlo a vedere, per lei è stata molto dura, almeno quanto lo è stato per noi».
«Ti capisco» sussurrai con voce roca. E iniziai la messinscena. «Anche i miei genitori sono morti». Spalancò gli occhi, incredulo, ma non disse una parola. Feci un respiro profondo. «Ero piccolissima, non li ricordo affatto. Per parecchi anni ho vissuto con i miei nonni materni, a Seattle. Poi qualche anno fa ho conosciuto zio Edward, il fratello minore di mio padre».
«Lo conosci solo da qualche anno?»
«Sì. Vedi, anche mio padre e mio zio erano stati adottati, ma da famiglie diverse. E non si sono mai più visti finchè Edward non ha saputo della morte di mio padre. A quel punto mi ha cercata e ha deciso di adottarmi insieme a sua moglie Bella».
Continuava a guardarmi meravigliato. Sarebbe stata davvero una strana coincidenza che le nostre storie fossero così simili… se solo io avessi detto la verità. «E perché sei andata a vivere con loro? Non li conoscevi affatto».
«No, li conoscevo. Prima che decidessero di adottarmi sono venuti a trovarmi molte volte, e fin da subito mi sono trovata benissimo con loro. E poi, i miei nonni ormai erano anziani ed era diventato difficile per loro prendersi cura di me. Allora ho detto di sì, e due anni fa mi sono trasferita a Forks».
«E adesso vivi con loro?»
«Con loro e la famiglia di mio zio Edward: il dottor Cullen e sua moglie, che oltre a mio zio hanno adottato altri quattro ragazzi».

«E per te cosa sarebbero? Zii e nonni acquisiti?». Sembrava leggermente confuso, e potevo capirlo: era la stessa reazione di tutti quelli che sentivano la mia storia per la prima volta.
«Praticamente sì».
Alex riflettè in silenzio, corrugando la fronte. «Devono essere tutti molto giovani».
«Zio Edward e zia Bella hanno solo ventitré anni. Si sono sposati subito dopo aver finito il liceo».
«E com’è vivere con due ragazzi che ti fanno da genitori? A me a volte sembra strano che Julie sia la mia tutrice perché ha solo ventotto anni, ma ventitrè…»
«Non è affatto male, sai. Insomma, a volte è fantastico parlare con loro, capiscono i tuoi problemi perché ci sono passati da poco e non fanno tante storie per niente… ma sono anche in grado di scoprire tutti i tuoi trucchi e le bugie perché sono gli stessi che hanno usato anche loro, e sanno cose che i genitori normali non immaginerebbero nemmeno perché fino a poco tempo fa la scuola, gli amici, erano il loro mondo, come adesso sono il nostro. Ad esempio, è quasi impossibile che non si accorgano della mia bravata di stamattina» ammisi.
Alex annuiva, stupito. «Wow» esalò lentamente. «E io che pensavo che la mia storia fosse troppo in stile Oliver Twist».
Anche se forse il momento non era adatto, per via degli argomenti che stavamo affrontando, mi venne da ridere e non riuscii a trattenermi. «Già, potremmo scriverci un romanzo» esclamai.
«Almeno siamo in due» aggiunse, e mi rivolse un sorriso intenso e bellissimo.
Per un attimo mi sentii stordita, ma cercai subito di riprendermi e fare finta di niente. Forse, se mi ci mettevo, potevo ancora sperare di non fargli capire l’effetto che aveva su di me… soprattutto quando sorrideva in quel modo. «E come mai vi siete trasferiti in questo buco sperduto?»
«È successo poco dopo Natale. Il fidanzato di mia zia, Andrew, che è un giornalista, ha ottenuto un posto al Vancouver Gazette, quindi avrebbe dovuto trasferirsi da queste parti. Lei ha pensato di seguirlo, visto che vorrebbero sposarsi. Julie lavora nel mercato dell'arte, così ha cominciato a spulciare su Internet e ha trovato una vecchia galleria d’arte da ristrutturare a Port Angeles, che è molto vicino a Forks, se non sbaglio». Confermai annuendo. «Be’, la vendevano a un prezzo eccellente e lei aspettava da una vita un’occasione del genere. Così qualche mese fa ha deciso per il trasferimento». Fece una piccola pausa e fissò a terra per un minuto con espressione seria. Poi, all’improvviso, accennò uno strano sorriso obliquo, dal sapore amaro. «Ti sembrano ragioni sufficienti?»
«Che vuoi dire?» chiesi a bassa voce.

«Voglio dire che sono questi i motivi che Julie ha elencato a me e a mia sorella per spiegarci la sua decisione, ma non ci ho messo molto a capire che c’era dell’altro, a farle confessare il vero motivo per cui ci trasferivamo: voleva portarci via. Via dalla nostra vita, o meglio, da quello che ne rimaneva, dai nostri ricordi, dal nostro dolore, da tutto quello a cui ci eravamo aggrappati per andare avanti». Parlava abbastanza velocemente e con voce tranquilla, misurata. Sembrava che quella storia non lo toccasse più di tanto, come se non fosse stata la sua. Ma se guardavo i suoi occhi, se li fissavo con attenzione, potevo scorgere la sofferenza che accompagnava quelle riflessioni. «Dopo la morte dei nostri genitori, Phoebe ed io abbiamo avuto… qualche problema».
Lo guardai, imbarazzata. «Anche… anche tua sorella?» mormorai.
Si limitò ad annuire. Fece un respiro profondo come per sforzarsi di continuare. Era evidentemente in difficoltà.

«Alex» intervenni posandogli una mano sul braccio «aspetta. Non devi dirmi per forza tutte queste cose se non vuoi, se non te la senti». La conversazione si stava facendo davvero troppo personale, e poi potevo lasciare che si aprisse in quel modo con me senza che io potessi fare altrettanto con lui? L’avevo appena riempito di bugie, santo cielo.
Lui scosse la testa. «Ma io me la sento. Non so perché, ma voglio farlo. Vedi, Phoebe... da quel giorno lei si è come... svuotata. È sempre stata una ragazzina sveglia e intelligentissima, sempre la prima in tutto, e all’improvviso Julie faticava perfino a convincerla ad andare a scuola. Passava tutto il tempo chiusa nella sua stanza e aveva perso interesse per qualsiasi cosa. È stata veramente dura per lei. Io, invece…» fece un sorriso triste «... due giorni ti fa ti ho detto che un tempo la mia vita era perfetta, e finchè lo è stata, l’ho vissuta al massimo della felicità. Poi è andata distrutta all’improvviso ed io… non so perché, ma ho deciso che tutto doveva andare alla deriva, tutto doveva morire, insieme ai miei genitori. 
Ho cominciato a frequentare brutte compagnie. Saltavo le lezioni per andare con queste persone a bere e a fumare. Un giorno ho preso la macchina di mia zia e l’ho distrutta perché guidavo ubriaco e senza patente. La polizia mi ha beccato e lei è dovuta venire a prendermi… per fortuna ero minorenne. Ho organizzato una festa notturna a scuola, in palestra, ma il custode ha sorpreso me e un altro paio di imbecilli, ubriachi fino al midollo, mentre cercavamo di entrare nell'ufficio della preside. Sono stato sospeso per due settimane. E quante volte sono tornato a casa da una festa conciato così male che per giorni non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto…
». Scosse il capo mentre parlava, come se lui stesso non credesse fino in fondo a quello che stava raccontando. «Povera Julie, quante gliene ho fatte passare. E anche a Phoebe, per la verità: allora non me ne rendevo conto, ma lei soffriva con me, e per me». 
Interruppe il racconto per un attimo, ma non mi guardò. Continuava a fissare le pietre della spiaggia con aria tesa e concentrata, e allo stesso tempo assente. Sembrava all'improvviso lontanissimo da me, come se stesse viaggiando tra i suoi ricordi. Io rimasi in silenzio, immobile e rigida, osando a malapena respirare, troppo dispiaciuta e troppo sorpresa per dire una parola. Avevo intuito che ci fosse qualcosa di triste nel suo passato, ma quella storia superava di gran lunga le mie congetture. Alex fece un sospiro.
«Ero davvero fuori, in quel periodo. Ripensandoci adesso, con un briciolo di maturità e di serenità in più, capisco che stavo solo cercando qualcosa che fosse più forte del dolore. Qualcosa che lo cancellasse, che mi aiutasse a fuggire… Per me era come se avessi preso un aereo e avessi cambiato paese: stavo scappando a gambe levate. Adesso so, e forse lo sapevo anche allora, che era un modo stupido e infantile di affrontare i problemi, ma mi sembrava che non potesse esisterne un altro. 
E a un certo punto ho del tutto perso la bussola: una sera, a una festa, ho esagerato e sono stato male. I miei amici hanno chiamato un’ambulanza e sono stato ricoverato. Ricordo che a quel punto pensai di aver toccato il fondo e di poter finalmente cominciare a risalire. Zia Julie era disperata e mi pose un ultimatum: se non avessi smesso di fare cose del genere mi avrebbe mandato in un centro di recupero. Anche Phoebe mi chiese si smettere, lo fece per la prima volta: voleva che tornassi quello di prima. Allora decisi sul serio che era il momento di piantarla. Cercai di tornare a una vita normale… non quella che avevo perso, ma almeno una vita normale. Non è stato facile. Se non sono impazzito del tutto lo devo solo a Julie, che non mi ha mai lasciato solo, nemmeno quando combinavo un guaio dietro l’altro… E alla mia migliore amica: anche lei mi è rimasta vicino nonostante tutto.

Ho smesso di comportarmi da idiota, ma a quel punto il dolore che avevo lasciato fuori mi è piombato addosso all’improvviso. Ed io non ero abituato ad affrontarlo da sobrio. È stato allora che Julie ha cominciato a parlare del trasferimento. Capisci ora perché l’ha fatto, qual è stato il vero motivo?»
«Cercava di aiutarti» mormorai, la voce roca dopo essere rimasta zitta per tutto quel tempo. «Voleva portare te e tua sorella lontano da un posto dove avevate sofferto così tanto».
Mi guardò per un attimo, poi annuì lentamente. «Certo. All’inizio aveva paura che noi ci opponessimo, ma a Phoebe non interessava ed io… il sollievo che provavo al pensiero di andarmene mi sorprese. Certo, tante cose e tante persone che ho lasciato mi sarebbero mancate da morire, mi mancano da morire, ma forse in cambio avrei potuto guadagnare un po’ di pace. Così ho dato l’okay».
«E… l’hai trovata, un po’ di pace?» domandai in un sussurro, esitante. Non ero certa di potergli rivolgere delle domande su un argomento così personale, ma dopotutto era stato lui a insistere per parlarne. E poi il desiderio di capire cosa provava era fortissimo.
Fece una strana smorfia, a metà tra un ghigno e una risata. «Devo dire che sta andando meglio di quanto pensassi. Immaginavo che trasferirsi in una cittadina di provincia con una storia come questa alle spalle, dove non conosci nessuno e dove tutti ti guarderanno come un mostro e sparleranno di te, sarebbe stato un incubo».
«Cavolo, hai dipinto un quadro da brivido! Quasi mi viene voglia di fare i bagagli e puntare verso una grande città» esclamai leggermente divertita.
«Diciamo che per ora è solo un mezzo incubo, grazie a un paio di cose».
«Scommetto che il tempo mite e soleggiato è la prima della lista» scherzai lanciando un’occhiata alle minacciose nuvole grigie che solcavano il cielo.
«Ovvio. E subito dopo c’è la qualità eccellente del cibo della mensa a scuola».
Scoppiammo a ridere insieme e finalmente l'atmosfera si distese. Era strano che dopo avermi raccontato una storia tanto dolorosa, sembrasse di colpo così tranquillo e spensierato. Quando ci calmammo, restammo entrambi in silenzio per un po’ a guardare l’oceano e le onde che si infrangevano sugli scogli.
«E tua zia come ha preso… ehm, tutto questo?» domandai all’improvviso.
Alex alzò le spalle. «Julie è una persona molto forte. Ce l'ha fatta da sola. Non so dove trovi questo coraggio, ma ha superato tutto molto prima e molto meglio di quanto abbia fatto io. Anche se… be’, perfino Phoebe, che è soltanto una bambina, l’ha affrontato meglio di me».

«Non dire così. Ognuno ha i suoi tempi e i suoi modi».
«Ho scelto il modo più idiota che potessi trovare, allora» esclamò. «E chi lo sa, magari se non ci fossimo trasferiti avrei anche ricominciato, prima o poi… che vigliacco sono stato». Il suo tono tornò amaro, e anche se dal viso perfetto non traspariva nulla, nei suoi occhi scorsi una nuova ondata di dolore… un’ondata fulminea, che un istante dopo era già passata. Mi sorrise di nuovo mentre lo fissavo preoccupata.
«Vuoi smetterla di giudicarti?» sbottai. «Non è giusto. Hai vissuto un’esperienza terribile, e non sei tenuto a giustificare ciò che hai fatto».
«La stessa esperienza che hai vissuto anche tu e chissà quante altre persone… ma non mi risulta che tu ti stia comportando da pazza».
Ops. «È vero» risposi lentamente, scegliendo con cura le parole «ma io ero piccolissima quando i miei genitori sono morti, praticamente non li ricordo affatto… e con il tempo delle persone meravigliose hanno preso il loro posto e hanno sostituito con il loro amore quello che i miei non hanno potuto darmi. E sono stata felice, malgrado tutto». Ero convincente? Lo speravo proprio. Presi aria e proseguii. «Hai una sorella che ti ama abbastanza da soffrire quando soffri tu e stare bene quando stai bene tu, e una zia che per aiutarti è stata disposta a trasferirsi dall’altra parte del paese... e hai soltanto sedici anni: forse adesso non riesci a crederci, ma un giorno smetterai di soffrire e potrai essere di nuovo felice. Devi solo superare questo momento».
Mi fissava con un'aria così attenta e così intensa che sotto il suo sguardo arrossii, imbarazzata. Poi annuì lentamente. «Wow, Scheggia… sei molto meglio di tutti i consulenti scolastici e gli psicologi con cui ho parlato fino a qualche mese fa».

Ancora una volta il dolore che c’era nel suo passato mi stupì, ma mi sforzai di assumere un tono scherzoso. «Ah, sì?»
«Certo. Sei l’unica che è riuscita a parlarmi di queste cose senza farmi venire la voglia di tagliarmi le vene».
Il tono rilassato con cui pronunciò quelle parole orribili fu come una doccia fredda. «Adesso sei veramente un idiota, Alex» sbottai.
Gettò indietro la testa e la sua risata riempì l’aria. «Allora ci tieni un po’ a me, Scheggia! Ammettilo!»
Sentii tutto il dispiacere e la comprensione che avevo provato per lui fino a un istante prima svanire, dissolversi di colpo… peccato che non fosse lo stesso per l’attrazione fisica. «Come no! Fatti dare qualche lezione di umiltà, Narciso». 
Scattai in piedi e mi diressi verso la battigia, ma lui si alzò e mi raggiunse in un secondo.

«Narciso? Però, niente male! Avevi ragione, impari in fretta».
«Ti riferisci anche al fatto che per causa tua avrò un sacco di guai, oggi?» dissi. 
«Per causa mia? Sì, è vero, la proposta indecente è partita da me» rispose e sottolineò quelle due parole tracciando in aria due virgolette con le mani «ma non ho dovuto faticare affatto per convincerti a seguirmi». Il suo tono malizioso non mi piaceva neanche un po'. Cercai di ignorarlo e tenni lo sguardo fisso davanti a me, mentre camminavamo vicino all’acqua. «E poi ho riconosciuto subito quella luce nei tuoi occhi: sei venuta perché lo volevi, perché in quel momento non eri Miss Perfettina ma la ragazza che ha frugato tra i documenti di un suo insegnante per scoprire la data di un compito in classe a sorpresa». Sbuffai. Già mi pentivo di avergli raccontato quella storia! Forse avrei dovuto aggiungere che ero stata praticamente costretta da Jas e Holly. Alex proseguì imperterrito nel suo monologo. «Ma avrei dovuto saperlo che nel corso della giornata Miss Perfettina sarebbe rispuntata a tratti».
«Perché hai chiesto a me di venire, allora, e non a uno dei tuoi compagni di classe? Avresti faticato ancora meno che con me, te lo garantisco».
Restò in silenzio per un secondo, e quando parlò sembrava quasi a disagio. «Non lo so» rispose con il tono di chi si sta confessando «mi andava di chiederlo a te». 
Cadde di nuovo il silenzio, questa volta carico di tensione, mentre mi scervellavo per trovare il modo di romperlo.

«Tua zia come credi che prenderà quello che hai fatto oggi, se dovesse accorgersene? Da quello che mi hai raccontato sembra una tipa tosta» dissi in fretta.
Alex sospirò. «Più che arrabbiarsi, si spaventerà a morte».
«Davvero?»
«Penserà che io stia ricominciando a fare… quello che facevo prima, e probabilmente minaccerà a tutto spiano con la storia del centro di recupero».
«E avrebbe ragione?» mormorai, preoccupata. Mi sentivo in colpa: se avessi saputo del suo passato, avrei fatto di tutto per convincerlo ad andare a scuola.
«No, si sbaglierebbe di grosso» rispose dopo un attimo, a voce bassa ma con decisione. «Non ho nessuna intenzione di ricominciare. Stamattina è stato… non voglio dire uno sbaglio perché non lo è, ma una specie di colpo di testa, tutto qui. È come un addio: un addio a ciò che sono stato e che non voglio essere mai più, perché prima credevo di non avere nulla da perdere e non avevo capito che invece potevo perdere tutto, anche la vita. Ho dovuto andarci vicinissimo per capirlo, ma… meglio tardi che mai».
Solo quando finì di parlare mi resi conto che lo stavo fissando a bocca aperta, camminando meccanicamente senza fare caso a dove andavo. «Dovresti dirgliele, queste cose» balbettai. «Cioè, a tua zia, se venisse a sapere di oggi. Credo che sarebbe contenta di sentirle. E vedrai che non parlerà di nessun centro di recupero».
Mi lanciò un’occhiata furba. «Grazie del consiglio, Scheggia».
Uffa! Possibile che dovesse sempre tirare fuori quella cosa? E possibile che riuscisse a farsi adorare e detestare alternativamente nel giro di due minuti? Mi chiusi in un silenzio risentito e accelerai il passo più che potevo restando nei limiti umani.
«Se c’è una cosa che Miss Perfettina non ha ancora imparato, però, è stare al gioco» continuò con voce beffarda. Incredibile! Riusciva a starmi dietro senza la minima difficoltà! Di nuovo non risposi, sempre più stizzita. «Che fai, tieni il broncio, adesso?»
«Buttati nell’oceano, Alexander Hayden» sibilai senza riuscire a resistere.
Si fermò. «Okay» fece con tono noncurante.
Sentii un tonfo alle mie spalle. Mi voltai di scatto: aveva appena gettato sui sassi della spiaggia la sua borsa a tracolla firmata e ora si stava sfilando la giacca. Lo guardai a bocca aperta.

«Alex, potrei sapere che diamine stai facendo?»
«Faccio come mi hai detto» rispose con la massima tranquillità, lanciandomi un’occhiata sconcertata come se lo stessi prendendo in giro. «Sai, questa fantastica massa d’acqua agitata e gelida mi attirava da morire già da un po’».
«Stai scherzando, spero» farfugliai, sconvolta.
Mi dedicò un sorrisetto e scrollò le spalle. «Non stavamo cercando qualche brivido, stamattina? L’occasione è perfetta, no? Unisciti a me, Scheggia, se hai coraggio!»
«Cosa? No, Alex!» gridai, ma non mi badò e invece salì agilmente sulle rocce appuntite che si inoltravano in acqua. 
Un’onda si infranse sugli scogli e investì le sue sneakers nuove di zecca e il bordo dei jeans, e lui rise, cercando di restare in equilibrio. Fui colta dal panico: era abbastanza fuori di testa da tuffarsi veramente, non appena fosse arrivato dove l’acqua era abbastanza alta, e a quel punto cosa avrei dovuto fare? Seguirlo? Non potevo certo restare a guardare mentre lui sguazzava nell’oceano, poteva essere pericoloso… pensavo di riuscire a tirarlo fuori se la corrente non fosse stata troppo violenta, ma se per aiutarlo avessi fatto poca attenzione e lui avesse notato, ad esempio, che ero un po’ troppo forte per una ragazzina di quindici anni? 

«Non fare l’idiota, torna indietro!» strillai e gli corsi incontro, avvicinandomi più che potevo senza toccare l’acqua. «È pericoloso, Alex!». Lui mi ignorava completamente, continuando a saltellare da un masso all'altro con la stessa aria spensierata che avrebbe avuto passeggiando sul lungomare di Port Angeles. Fece una giravolta su se stesso per voltarsi verso di me, quasi perse l’equilibrio e barcollò sulle rocce affilate. Il mio cuore perse un paio di battiti. «Alexander Christopher Hayden! Scendi subito da lì!»
«Ma scusa, me l’hai chiesto tu di buttarmi nell’oceano!» esclamò con voce beffarda. «Sto solo eseguendo i tuoi ordini, sperando che il sacrificio della mia giovane vita ti faccia passare l’arrabbiatura».
E così, rieccomi di nuovo ad interpretare il suo zimbello personale. Sbuffai. «Che cavolo stai dicendo? Va bene, non sono più arrabbiata, ma adesso piantala. Non mi va di venire a ripescarti».
«Scendo solo se mi prometti che sono perdonato» esclamò tutto d’un fiato.
«Sì, d’accordo! Non sono arrabbiata e tu sei perdonato» risposi in fretta, ansiosa di vederlo di nuovo con i piedi sulla terra ferma. «Ora torna qui
Mi osservò in silenzio, divertito, probabilmente chiedendosi se sarebbe valsa la pena di continuare quella scena e vedermi dare di matto ancora un po’. Colsi un bagliore nel blu dei suoi occhi che per qualche motivo mi fece rabbrividire. Non era paura, divertimento, rabbia o dolore, ma qualcos’altro che non riconobbi. Saltò giù dagli scogli e spruzzando acqua salata ovunque mi raggiunse. Prima che potessi rendermene conto, mi prese per le spalle, si chinò su di me e posò dolcemente le sue labbra sulle mie.










Note.
1.  Ecco il link della canzone. Scommetto che appena letto il titolo del capitolo avete indovinato cosa sarebbe successo xd. È semplicemente perfetta, ho sempre associato questa canzone al primo bacio di Alex e Renesme... perfetta!
2. Queste interessantissime notizie sono state prese da Wikipedia.









Spazio autrice.

In realtà non c'è nulla da dire, se non che amo follemente Alex e Renesmee quando sono insieme. Davvero! Scrivere di loro due è una delle cose più divertenti che abbia mai fatto, e anche se è passato del tempo ricordo benissimo l'entusiasmo che mi trasmettevano questi due personaggi. Fin dall'inizio il loro rapporto è venuto fuori in modo così semplice e spontaneo da farmi pensare che fossero davvero nati per stare insieme. Be', vedremo come andrà... Chissà cosa può succedere! xd *scappa via di corsa prima che cominci il lancio di frutta e verdura* A mercoledì prossimo!

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Capitolo 8
*** Storm ***


C 8
Capitolo 8
Storm

If I could just see you
Everything would be all right
If I'd to see you
This darkness would turn to light
And I will walk on water
And you will catch me if I fall
And I will get lost into your eyes
I know everything would be alright
I know everythin is alright
Storm, Lifehouse¹



Le gioie dei genitori sono segrete, e così i loro dispiaceri e timori;

le prime non le sanno e i secondi non li vogliono esprimere.
 Francis Bacon

                                                                                                                                                                                                                                                                                   

                                                                                                                  

                                                                     
Rimasi perfettamente immobile, come paralizzata, gli occhi spalancati, senza riuscire a formulare un pensiero o programmare  un’azione. Non so quanto durò il bacio. Nella mia testa fu un’eternità.
Quando Alex si staccò, lentamente, si tirò un po’ indietro e mi guardò con una buffa espressione. Non avrei saputo dire se si aspettasse che gli mollassi una sberla o che gli saltassi al collo per un altro bacio. In ogni caso lo delusi, perché dopo averlo fissato per un secondo, sempre in silenzio e ad occhi sgranati per la sorpresa, mi voltai e scappai. Letteralmente. Non so cosa fece Alex, ma non mi seguì. 
Corsi come una pazza lungo la spiaggia, imboccai il viottolo sterrato che conduceva al parcheggio, sfrecciai accanto alla sua auto ferma e mi tuffai tra la fitta vegetazione della riserva che ormai grazie alle battute di caccia e ai continui giri con Jacob conoscevo come le mie tasche. Presi una serie di scorciatoie senza fermarmi nemmeno un istante, sebbene avessi il respiro affaticato e sentissi tutti i muscoli bruciare, finchè non fui in vista del cottage. Quasi mi lanciai contro la porta sul retro, mi precipitai nella mia stanza e lì finalmente frenai un attimo prima di schiantarmi contro la cabina armadio. Mi buttai sul letto, ansimante, il cuore che sembrava sul punto di scoppiare, tutti i muscoli doloranti. Ecco uno degli inconvenienti di essere solo una mezza vampira: potevo correre molto velocemente e far mangiare la polvere a un essere umano, ma mi stancavo subito.
Mi coprii la testa con un cuscino e cercai di rimuovere quello che era appena successo, ma non ci riuscii. Serravo gli occhi, ma continuavo a vedere il volto di Alex che si abbassava verso di me… il divertimento nei suoi occhi mentre mi prendeva in giro e fingeva di tuffarsi, poi quello strano lampo, come un fulmine in mare aperto… e poi la sensazione delle sue labbra fresche sulle mie… Non avevo mai provato niente del genere, mai. Era stato solo un attimo, ma aveva cambiato qualcosa. Lo sentivo. Era come se qualcuno, all'improvviso, avesse voltato la pagina di un libro rimasto aperto nello stesso punto per molto, molto tempo. 
E poi ancora… non potevo fare a meno neanche di pensare a cos’era successo dopo, o meglio, a cosa non era successo. Avevo assistito ad abbastanza scene appassionate tra i miei genitori, i miei zii e i miei nonni, avevo ascoltato abbastanza resoconti da Jas sul numero di minuti che passava incollata alla bocca di Tom e avevo visto abbastanza film da sapere con esattezza cosa avrei dovuto fare e che ovviamente non avevo fatto. Ripensarci mi dava la nausea, così cercai di svuotare la mente e di rilassarmi, mentre ascoltavo il mio respiro e il battito del mio cuore rallentare a poco a poco.
Pensai di distrarmi in qualche modo ma non mi veniva in mente nulla che fosse abbastanza efficace, tranne forse la caduta di un meteorite dritto nel nostro giardino. Con un sospiro mi tolsi il cuscino dalla testa e mi girai a pancia in su, ascoltando il silenzio della casa, il cinguettio di un uccellino tra i fiori, il rumore del vento che agitava le fronde degli alberi. 
Ma che accidenti mi era preso? Va bene che mi aveva colta di sorpresa, anzi, mi aveva a dir poco fulminata, ma scappare in quel modo! Non avevo forse fantasticato un sacco di volte sul mio primo bacio? Non avevo forse sperato che fosse proprio con lui? Non avevo forse immaginato una cornice romantica come la spiaggia deserta durante una burrascosa mattina d’inverno? E quando era arrivato il momento, invece di cogliere l’occasione e far capire ad Alex quanto mi piacesse, me l’ero data a gambe come un’idiota, o peggio come una bambina piccola. 
Cosa avrebbe pensato lui che sicuramente aveva già baciato chissà quante ragazze? Avrebbe cambiato idea su di me, avrebbe pensato che ero troppo infantile per stare con lui? A quel pensiero sentii lo stomaco torcersi sgradevolmente e schizzai a sedere di colpo. Ero stata una vera stupida. Immaginai le parole e le espressioni delle mie amiche non appena avessero saputo ogni cosa: Holly e Jas avrebbero riso a non finire, ne ero certa. Pensandoci bene, forse era meglio tenere per me quello che avevo combinato, sperare che Alex non raccontasse tutto ai compagni di classe e che Emmett non venisse mai a sapere niente… avrebbe fatto una sfuriata di gelosia e sarebbe corso a cercare Alex per staccargli la testa. Decisamente, meglio tacere.
All'improvviso mi sentii soffocare. No, impossibile, non ce l’avrei mai fatta. Dovevo parlare con qualcuno, sfogarmi, forse piangere o strillare, forse tutte e due le cose, ma a qualcuno dovevo dirlo o sarei impazzita. Mi alzai dal letto e andai in cucina per telefonare a Jacob. Lui non si sarebbe sicuramente arrabbiato per la storia della fuga da scuola, anzi, ci avrebbe riso sopra, e poi mi avrebbe ascoltata come al solito. Era sempre lui la prima persona che mi veniva in mente quando avevo voglia di parlare con qualcuno. 
Però, forse… Rallentai un po’ mentre percorrevo il corridoio, riflettendo. Per la prima volta nella mia vita mi chiesi se fosse il caso di raccontare qualcosa a Jacob. Con lui non esistevano segreti, e non solo perché gli avevo sempre detto tutto, ma perché gli bastava uno sguardo per capire se mi era successo qualcosa, se ero triste o allegra, se avevo voglia di un abbraccio, di fare due chiacchiere o di stare semplicemente in silenzio, e anche questa volta avrebbe capito che c’era qualcosa di nuovo nel mio universo. Avrei potuto non confidargli una cosa così importante? Sarebbe stato un insulto alla sua amicizia, e lo sapevo bene. Allora cos’era quell’esitazione? 
Ancora un po' incerta, presi il cordless mentre salivo su uno sgabello della cucina e composi lentamente il numero di casa sua, chiedendomi se l’avrei trovato. Scombussolata com’ero, non ricordavo se quella mattina sarebbe stato di ronda o se sarebbe rimasto a casa a lavorare. Lasciai squillare a lungo il telefono prima di rassegnarmi e chiudere. Inspiegabilmente provai un po’ di sollievo. Irritata, scacciai quella sensazione e mi convinsi a riprovare… Ma quella faccenda era davvero così importante da doverlo disturbare, poi? Stavo per caso diventando come Jas, che si sentiva in dovere di riferire alle sue amiche tutte le singole volte che lei e Tom si tenevano per mano, si abbracciavano o si baciavano? Pensierosa, composi di nuovo il numero e portai il cordless all’orecchio. Presi a mangiucchiarmi nervosamente un’unghia, chiedendomi quale fosse il modo migliore per dare la notizia. 
Non era finito il primo squillo che sentii una chiave infilarsi nella serratura e la porta di casa si spalancò. Feci un tale salto che per poco non caddi dallo sgabello, chiusi immediatamente il cordless e lo gettai sul bancone. Accidenti, ero così distratta da non aver sentito il rumore dell’auto? La mamma piombò in cucina guardandosi intorno con aria perplessa, come se cercasse qualcosa o qualcuno... me. Era vestita elegantemente con una gonna a tubino, una deliziosa camicetta blu, scarpe blu con tacco a spillo e uno spolverino grigio, i capelli scuri legati in una coda perfetta. Doveva essere stata Alice a decidere gli abbinamenti.
«Che ci fai qui?» esclamò.
Un secondo dopo papà varcò lentamente la porta chiudendosela alle spalle. Lo guardai, ansiosa: aveva un’aria indecifrabile, non avrei saputo dire se turbata, sopresa, preoccupata o leggermente divertita. La mamma aspettava una risposta fissandomi con occhi spalancati. Aprii la bocca ma non riuscii ad emettere alcun suono. Come avrei potuto spiegare tutto quello che era successo? Ci pensò papà al posto mio.
«Ha saltato la scuola» disse con voce neutra. Sembrava quasi che cercasse di mascherare una risata.
Di solito Edward teneva per sè la maggior parte dei miei pensieri e la sua delicatezza al riguardo mi permetteva di convivere abbastanza tranquillamente con il talento di cui era dotato. D'altra parte, ormai era sua abitudine ignorare quasi completamente i pensieri altrui. Diceva che a volte era una necessità, per non impazzire nell'ascoltare tutte quelle voci. Quando si trattava di faccende del genere, però, dimenticava il suo solito tatto e raccontava ogni cosa alla mamma. Non lo faceva per mettermi in difficoltà, ma perché non le avrebbe mai nascosto qualcosa che riguardava me e che secondo lui avrebbe dovuto sapere. Tuttavia non aggiunse altro, forse sapendo che se avesse continuato sarei andata a fuoco per l’imbarazzo. Se papà sembrava divertito, la mamma invece non trovava niente da ridere in tutto questo. Più che altro era scioccata. 
«Che cosa… Che cosa? Sul serio?» boccheggiò.
Di nuovo cercai di parlare, ma mi sembrava di avere qualcosa impigliato in gola. «S-sì» balbettai alla fine.
Lei era sempre più sbalordita. «Ma… perché? Che ti è successo?»
Sapevo cosa intendeva dire. Io non facevo cose del genere. Non sembravo affatto un’adolescente da quel punto di vista. Io ero precisa, attenta e responsabile. Non sapevo cosa rispondere. «Non… non lo so» mormorai. Forse ero impazzita. Lei non mi toglieva gli occhi increduli di dosso.
«C'è altro?» chiese all’improvviso voltandosi verso di lui.
Papà esitò. «Questo deve dirtelo lei, amore».
La sua esitazione bastò a spaventarla. «Renesmee che è successo?» sbottò tornando a concentrarsi su di me.
Oddio, e adesso? A quel punto il fiume in piena straripò. «E va bene!». Scattai in piedi. «Vuoi sapere cos’è successo? Io ed Alex siamo scappati da scuola, siamo andati sulla spiaggia e lui mi ha baciata ed io sono corsa via, così ora penserà che sono una vera idiota! Soddisfatta? Fine della storia!» 
Mi precipitai fuori dalla cucina inseguita dalla voce della mamma.
«Ehi! Renesmee? Renesmee!» strillò.
Mi infilai a razzo nella mia stanza, chiusi la porta con un tonfo e sedetti sul pavimento in parquet color miele, la schiena appoggiata al letto, sperando di mimetizzarmi con la trapunta. Ci fu un attimo di silenzio, poi sentii i tacchi della mamma avvicinarsi precipitosamente accompagnati da un bisbiglio acceso e concitato. La porta si spalancò di botto ed eccoli lì, lei con aria incredula e arrabbiata insieme, lui ancora con quella buffa espressione a metà tra la preoccupazione e il riso.
«Potreste lasciarmi in pace, per favore?» sbraitai.
«No!» rispose subito la mamma. «Non puoi sparare una cosa del genere e aspettarti che noi tiriamo dritto come se niente fosse!»
Papà la strattonò un po’ per il braccio. «Bella, forse…»
«No, Edward! Voglio sapere cos’è successo».
«Lo sai già cos’è successo!» risposi senza riuscire ad abbandonare il tono isterico «e se vuoi altri dettagli c’è qui Edward-mi-ficco-nelle-teste-altrui-Cullen a tua disposizione!»
Bella si voltò rapida verso di lui, ma papà aveva un’aria decisa. «Non posso farlo. Non posso e sai che non lo farò» rispose con calma.
Lei sembrò gonfiarsi per la stizza. «Cosa? Credevo che avessimo deciso che sulle questioni importanti non doveva esistere il concetto di privacy! Questa è una cosa importante, ha marinato la scuola, per la miseria!»
«Hai assolutamente ragione, tesoro: questa è la cosa importante e la sai già. Vuoi metterla in punizione? Fai pure, ma il resto…». Si interruppe e per un attimo parve che non trovasse le parole. In quel brevissimo spazio di tempo mi chiesi improvvisamente come dovesse apparire ai suoi occhi quello che era successo, e tutto mi parve di colpo così stupido e imbarazzante che desiderai potermi nascondere in fondo a una grotta o qualcosa del genere. «Non posso farlo» aggiunse alla fine.
«Edward!» esclamò la mamma sdegnata.
A quel punto non ne potevo più. «Insomma, piantatela!». Schizzai in piedi mentre loro si giravano a guardarmi sconcertati. «Avete finito di decidere se la mia vita privata può essere spiattellata pubblicamente oppure no? Perché non sparite? Dannazione!» 
Sapevo di essere un tantino melodrammatica ma non mi importava. Mi rifugiai nella cabina armadio, sbattei di nuovo la porta alle mie spalle e sedetti per terra a gambe incrociate, la testa tra le mani. Avevo il fiato corto come chi ha appena fatto una maratona. Nella stanza accanto ci fu un altro scoppio di esclamazioni, proteste e bisbigli, seguì un attimo di silenzio, poi i tacchi della mamma si diressero a velocità supersonica verso di me e la porta della cabina armadio si aprì. 
Bella fece capolino sulla soglia, questa volta un po’ meno agitata e un po’ più preoccupata, con papà alle sue spalle che sembrava un cane da guardia. Lei mi osservò in silenzio mentre io mantenevo lo sguardo ostinatamente puntato a terra.
«Temo che sparire sia una capacità che non rientra nei poteri di nessuno di noi. Spiacente» disse a un tratto.
«Ah-ah» sbottai, acida, in una parodia di risata. Non l’avrei assecondata così facilmente.
La mamma parve intuirlo perché sospirò. «Senti» disse con tono pacato avanzando di qualche passo nella stanza «la mia reazione è stata eccessiva prima, e mi dispiace, è solo che… tu sei sempre così assennata e precisa e tieni così tanto alla scuola che mi è sembrato assurdo. Tutto qui. Però...». Fece un altro sospiro roteando gli occhi. «Insomma, non è così grave. Non ci sarà nessuna punizione o roba del genere. Anche se sei andata in macchina con Alex quando ti era stato espressamente proibito... Non importa. Però facciamo in modo che non succeda di nuovo o la mia testa esploderà». Terminò con un sorrisetto al mio indirizzo. Secondo, penoso tentativo di battuta andato a vuoto. «Sei d’accordo?» chiese a papà. Lui alzò le spalle senza smettere di fissarmi. «Bene» continuò Bella. «Adesso che ne dici di lasciare da parte la fuga da scuola e passare al resto?»
Oh, merda. «Cosa? No» sbottai con decisione. «No. Accetto volentieri qualunque punizione ma non voglio mai più parlare del… resto».
Lei parve confusa. «Ti ho appena detto che non ci saranno punizioni».
«Non m’interessa! Niente cellulare, niente computer, niente televisione, niente uscite extra per un settimana, un mese o il resto dell’anno, va bene tutto, ma non voglio parlare di quello!»
Lo stato confusionale della mamma peggiorò. «Ma che stai dicendo?»
«Esattamente quello che ho detto!». Avevo ricominciato a fare l’isterica, ma non me ne importava nulla.
«Cioè preferisci essere messa in punizione per una sciocchezza piuttosto che parlare di…»
«Ah!» strillai sobbalzando, e la mamma strabuzzò gli occhi, sconvolta. Probabilmente si stava chiedendo se avevo perso la ragione. «Non ti azzardare a finire la frase!»
Bella mi fissò in silenzio per un attimo, poi si inginocchiò lentamente sul pavimento vicino a me. «Tesoro… Prima o poi dovrò saperlo».
«Non da me» sibilai tra i denti, senza sollevare lo sguardo.
«Sai che papà non mi racconterà un bel niente, e comunque preferirei che fossi tu a dirmelo. Insomma, noi due siamo amiche, non siamo solo madre e figlia, giusto? Abbiamo sempre parlato di tutto. Che ti succede oggi?». Il suo tono era dolce e preoccupato. Volevo risponderle ma non ce la facevo, ero troppo imbarazzata. Avrei preferito essere inghiottita da una voragine del pavimento piuttosto che raccontare nei dettagli cos’avevo combinato. Lei aspettava, paziente, e a un tratto le scappò un mezzo sorriso. «È andata così male?» chiese.
Sospirai e chiusi gli occhi, profondamente seccata e ancora più imbarazzata di prima. Ma sapevo anch’io che avrei dovuto affrontarla, prima o poi. «Non puoi nemmeno immaginare quanto» borbottai.
«Andiamo… cosa può essere successo?»
Feci una pausa prima di rispondere, ascoltando il silenzio intorno a me. Loro due erano assolutamente immobili, non respiravano nemmeno. «Sono scappata» confessai.
«Mi hai già detto della fuga da scuola» rispose la mamma, di nuovo confusa.
Oh, mio Dio. Sospirai di nuovo alzando gli occhi al cielo. Era una tortura!
«No, sto parlando del resto! Alex mi ha baciata all’improvviso ed io sono corsa via!» 
Dirlo ad alta voce era ancora peggio di quanto avessi pensato.
«Ah» fece lei per tutta risposta, e poi tacque. Anche papà taceva e per qualche istante di suspense, mentre sperimentavo a pieno il significato della frase morire di vergogna, mi sembrò quasi di riuscire a percepire i loro sforzi congiunti per non scoppiare a ridere. Finalmente la mamma parlò di nuovo. «Be’, tesoro, pensa che sarebbe potuta andare molto peggio».
«Tu dici?» esclamai in tono scettico. «E come? Neanche se fossi svenuta sarebbe stato peggio di così».
«E invece avresti anche potuto ucciderlo» mi corresse, sorridendo.
Ci mancava solo che si mettessero a scherzare!
«Mamma! Ti prego, per favore, è una cosa seria! Ho fatto la figura dell’idiota!»
«Ma no» rispose papà, anche lui un sorrisino a metà fra la presa in giro e la compassione stampato in faccia.
«Sì, invece! Tu hai visto cos’è successo, dovresti capirmi! Un attimo prima stavamo scherzando come al solito e un attimo dopo mi stava baciando e … e io sono stata travolta dal panico, non sapevo che fare... E lui ci sarà rimasto male, avrà pensato che non volevo che mi baciasse o che io sia una bambina e adesso non mi vorrà più! Ho rovinato tutto!»
La mamma, che mi guardava con attenzione come se stesse cercando di capire cosa le dicevo, sospirò senza smettere di sorridere. «Renesmee, calmati e ascolta, okay? Quel che è successo è successo, non ha senso rimuginarci sopra. Che ne dici di pensare alla prossima mossa?»
«Quale prossima mossa?»
«Perché non chiami Alex e non ne parlate?»
La proposta era così assurda che per poco non saltai in aria. «Sei matta? Chiamarlo? Non esiste, non voglio vederlo né parlarci mai più! Come potrei guardarlo in faccia dopo stamattina? Voglio cambiare scuola. Anzi, no, voglio cambiare città».
Il sorriso di mio padre divenne ancora più largo di fronte a quelle parole insensate. «Renesmee, sii razionale, per favore. So che ti sembra una tragedia, ma non è così grave».
Ma io non ero ancora pronta ad ascoltare la voce della ragione. Meglio fare la pazza ancora per un po’ e sfogarsi ben bene. «Alex non vorrà saperne più niente di me, oppure diventerò un simpatico aneddoto su cui farsi quattro risate con quei deficienti dei suoi compagni di classe! Non è una tragedia secondo te?»
«La tragedia sarà quando Emmett verrà a saperlo» disse improvvisamente la mamma, seguendo il filo dei propri pensieri. «Se Alex vuole vivere abbastanza a lungo da raccontare a qualcuno cos’è successo oggi gli toccherà entrare nel Programma Protezione Testimoni».
«Nel Programma Protezione Fidanzati, vuoi dire» corresse papà con una risata.
«Siete la famiglia più insensibile che potessi avere la sfortuna di ritrovarmi» fu il mio commento.

                                                              
       

****


[BELLA]



Quella sera, suonate le undici, spedii Edward a compiere una missione che a me non era riuscita nonostante innumerevoli tentativi: costringere Renesmee a chiudere il telefono e andare a dormire, visto che la mattina successiva avrebbe dovuto svegliarsi alle sette e andare a scuola come al solito. Nel suo piccolo mondo interiore quella poteva anche essere stata una giornata straordinaria, segnata da un avvenimento così eccezionale da eclissare qualunque altro pensiero e dare una svolta alla sua vita, ma nel mondo esterno le cose proseguivano al solito ritmo, del tutto indifferenti a quello che le era successo. 
Il suo primo bacio. Continuavo a pensarci mentre pulivo la cucina e mettevo in ordine il salotto, e non potevo fare a meno di sorridere tra me e me. Che strano miscuglio di sensazioni provavo: eccitazione, gioia, sollievo, malinconia. Sembrava quasi che anche per me fosse stata una giornata particolare, ma avevo imparato da tempo che le gioie, le sofferenze, le speranze, le delusioni di una figlia che ami più di qualunque altra cosa al mondo le vivi anche tu, come se lei fosse ancora parte di te.

Ormai era quasi mezzanotte e la missione di Edward probabilmente aveva avuto successo. Già da un po’ non sentivo più chiacchiere e risatine isteriche, ma un silenzio quasi innaturale tanto era profondo riempiva la nostra casetta. Chissà dov’era finito Edward.
Raccolsi dal salotto una manciata di cd, un paio di libri, una sciarpa e un tubetto di mascara, tutte cose di Renesmee che come al solito ritrovavo in giro per casa, e mi avviai in camera sua. Aprii con cautela la porta ed entrai. La stanza immersa nel buio, ma la pallida luce lunare filtrava dalle tende chiuse creando una pozza di luce madreperlacea sul pavimento ai piedi della finestra. 
Misi a posto cd, libri, sciarpa e mascara, poi mi avvicinai al letto e diedi una sbirciatina. Renesmee dormiva profondamente distesa sul fianco sinistro, il braccio piegato sotto la testa, i capelli color bronzo sparsi sul cuscino bianco, le labbra appena dischiuse, il respiro lento e profondo. Sorrisi mentre la osservavo. Quando dormiva sembrava  tornare bambina. Era così bella che spesso Edward ed io restavamo a guardarla per ore. Lei lo sapeva e trovava la cosa abbastanza seccante, ma non potevamo farne a meno. Forse era solo la mia immaginazione che andava a briglia sciolta, ma in quei momenti mi sembrava una principessa addormentata in attesa del bacio del suo principe. Be’, un bacio era arrivato… ma riguardo al principe, meglio non azzardarsi a fare previsioni.

E come sempre quando posavo gli occhi sul suo viso, che fosse addormentata o meno, anche quella volta fui colpita dallo stesso pensiero: avevo fatto bene. Avevo fatto bene a combattere per lei. Immaginare ora la mia esistenza, da umana o da vampira, con Edward o senza di lui, priva della gioia della presenza di mia figlia era impensabile. Mi chinai verso di lei e posai per un istante le labbra sulla sua fronte liscia, sperando che il mio tocco gelido non la svegliasse. Renesmee si mosse appena ma continuò a dormire mentre le sistemavo meglio le coperte, poi uscii silenziosamente dalla stanza e seguendo una dolce scia a me ben nota uscii nel piccolo giardinetto del cottage, passando per la camera matrimoniale. 
Edward era lì, seduto su una panchina di ferro, lo sguardo rivolto allo spicchio di luna nel cielo. Lo raggiunsi e sedetti al suo fianco, e subito intrecciò le sue dita alle mie senza abbassare gli occhi. L’aria fredda di una notte di inizio marzo mi sembrava una carezza delicata sulla mia pelle di marmo. Sollevai la mano di Edward portandomela alle labbra e vi posai un bacio.

«Finalmente si è addormentata» dissi. «Credevo che il telefono avrebbe preso fuoco, stasera».
Lo sentii sorridere. «Lei e Jas avevano cose importanti di cui discutere».
Sospirai. «Eh, già. Il primo bacio. Non si dimentica mai. Il nostro è ancora stampato nella mia mente, anche se è solo un ricordo umano».

«Come dimenticarlo» commentò sotto voce. Coglievo una strana rigidità nella sua mano e nella postura, e un’intonazione malinconica nelle sue parole, ma non vi feci troppo caso. Forse anche lui, come me, aveva semplicemente un bel po’ di cose per la testa.
«Probabilmente Alex le chiederà di mettersi con lui… Lei non lo farebbe mai! È così imbarazzata che mi stupirebbe davvero se domani si presentasse a scuola».
«È solo un po’ scombussolata. È normale, le passerà» rispose Edward sempre con lo stesso tono mesto.
Gli lanciai un’occhiata guardinga. «Credo che dovremmo essere felici di quello che è successo oggi. Insomma, nostra figlia ha ricevuto il primo bacio da un ragazzo che le piace da impazzire, forse diventeranno una coppia. Tutto assolutamente nella norma. Presto potrebbe scoprire quanto è meraviglioso essere innamorati. Era quello che volevamo per lei, quello per cui abbiamo lottato».
«E per cui abbiamo deciso di mentirle. Di nasconderle l'imprinting» aggiunse.
Tacqui per un momento soppesando le sue parole. «Sì, anche. Ma lei oggi è serena, la sua è una vita normale… per quanto può essere normale una mezza vampira. Era questo il nostro obiettivo. L’abbiamo deciso cinque anni fa, dopo che siamo riusciti a salvarla dai Volturi» gli rammentai, anche se ovviamente non poteva aver dimenticato quella conversazione, la notte successiva alla giornata più difficile della nostra vita. Avevamo fatto l’amore a lungo, senza mai riuscire a saziarci l’uno dell’altra, fino all’alba, e poi avevo mormorato quelle parole, stretta tra le sua braccia.
Non dobbiamo dirglielo, Edward. Non adesso. Quando sarà cresciuta, quando sarà pronta.
Lo sentii sospirare appena. «In quel momento decidere di non dirle nulla è stato facile, quasi immediato: ne aveva già passate tante ed era così piccola. Volevamo che fosse spensierata e serena, ancora bambina, per un altro po’ prima di dover affrontare…». Non finì la frase e rimase in silenzio per un attimo, poi proseguì. «Ma Renesmee sta crescendo, Bella. L’episodio di stamattina ne è una prova. Io… non so se i motivi per cui cinque anni fa abbiamo deciso di tacere tengono ancora».
Infine aveva esternato il pensiero che evidentemente lo assillava. Ma quasi non potevo credere alle sue parole. «Certo che sì» esclamai con convinzione. «Noi siamo i suoi genitori, dobbiamo proteggerla».
«La stiamo tradendo, Bella» mormorò.
«No!». Ero perplessa. Che gli prendeva? Non eravamo sempre stati d’accordo su quel punto? Non avevo forse scoperto, la notte che gli avevo chiesto di nasconderle la verità, che la pensava come me?
Lo so.
Queste erano state le sue parole, pronunciate con timore e preoccupazione. Ed io mi ero convinta ancora di più che fosse la cosa giusta.
«Sì, invece. Ci penso continuamente: ogni volta che mi guarda con quegli occhi, che si addormenta tra le mie braccia o che si affida completamente a me, penso che la stiamo tradendo. E questo non è giusto, lei si fida di noi».
La sua voce seria e grave era carica di preoccupazione. Lo capivo, ma quello che stava dicendo era comunque sbagliato. «Che vorresti fare, allora? Andiamo a svegliarla e le diciamo dell’imprinting, così probabilmente impazzirà?»
Sospirò di nuovo. «Non intendevo questo. Ma non possiamo andare avanti così per sempre, prima o poi dovrà saperlo».
Meglio 
poi che prima. «Certo, ma non adesso! È cresciuta, sì, ma non è un’adulta. È ancora una ragazzina, e ora che c’è Alex…»
«Già, Alex» mi interruppe con tono tetro. «E se un giorno si innamorasse di lui? E se dopo arrivasse qualcun altro? Come la mettiamo con Jacob?»
«Jacob non ha nessuna fretta, lo sai meglio di me» risposi leggermente stizzita. Non era mai stato semplice discutere di quella faccenda, neanche tra noi. E soltanto immaginare la reazione di Renesmee mi metteva i brividi. «Vuole solo che Renesmee sia felice e se lei è felice lo è anche lui. E poi non è detto che... che debba finire così. L'imprinting non è solo quello».
«Bella, stiamo girando intorno al problema» disse Edward bruscamente. «Noi siamo liberi di non dirle niente, ma nostra figlia un giorno potrebbe innamorarsi di lui. È il suo migliore amico, sì, ma è anche la persona che più la rende felice nell'universo. Non serve a niente mentire a noi stessi o convincere Jacob ad andare al college. Potrebbe succedere e sarebbe semplice, spontaneo, naturale come respirare» mormorò con voce appena udibile. Sembrava che parlasse a se stesso e non con me. «Credo che dovremmo prepararla a questo».
«Ma anche Jake pensa che sia troppo presto, che Renesmee non sia pronta» protestai.
«Lui rispetta soprattutto la nostra decisione, ma odia mentirle e non ti nascondo che a volte si chiede se non sia il caso di tirare fuori la verità. In questo momento pensa ancora che sia la cosa migliore per lei, ma potrebbe cambiare idea. E allora le confesserebbe tutto». Fece una breve pausa. «D’altra parte, se non le parliamo noi prima o poi ci arriverà da sola, e sarebbe ancora peggio».
«Lo so» risposi, e in quell’istante mi sentii tormentata dall’angoscia. Proteggerla, tenerla al sicuro da ogni sofferenza, da ogni dispiacere… Era l’unica cosa che volevo. Come potevo fare?
«È troppo presto» ripetei quasi a me stessa. «Non è ancora pronta».
Esitò prima di rispondere. «Forse no. Ma il problema è se noi saremo mai pronti».
Assorbii in silenzio l’impatto di quelle parole. Sapevo che aveva ragione ma avrei tanto voluto che non fosse così: se noi non eravamo pronti a dirle dell’imprinting, come avrebbe mai potuto lei essere pronta ad accettarlo? Che disastro. 
«Non saprei neanche da dove cominciare» mormorai «Jacob è il suo migliore amico… Sarà come strapparle la terra da sotto i piedi».

«Non dico che sarà facile, Bella. Ma il loro legame è così forte. A volte riescono a comunicare in un modo che non comprendo neanche leggendo le loro menti. È come se fossero una cosa sola. Sono sicuro che Renesmee capirà, prima o poi».
«Spero che basti. Lo spero davvero».
«Basterà. E qualunque cosa accada, in ogni caso... la affronteremo insieme. E ne verremo fuori».
Restammo in silenzio a lungo, lui continuando a osservare la luna nel cielo, io con gli occhi fissi sull’intricata macchia scura della foresta di fronte a noi, chiedendomi cosa avremmo dovuto aspettarci dal futuro. Ormai eravamo perfettamente felici da anni, da quando i Volturi avevano smesso di tormentarci. Era durata troppo, forse? Incombeva una tempesta all’orizzonte e in quel momento eravamo troppo abbagliati dal sole per accorgercene? All’improvviso lui parlò di nuovo.
«Permettimi di dirti grazie ancora una volta» sussurrò.
Mi voltai per guardarlo, perplessa. La sua espressione era indecifrabile. «Perché?»
«Perché se tu non fossi stata così forte e così coraggiosa lei non sarebbe qui, ora, e noi avremmo perso tutto. Io avrei perso tutto. Anche te» rispose.
Il suo tono infinitamente triste mi commosse. Era sempre così quando toccavamo quell’argomento, non spesso, per la verità. A nessuno dei due piaceva rievocare i momenti tristi del nostro passato. Strinsi con più forza la sua mano tra le mie. «Non devi ringraziarmi. Ho fatto quello che ho fatto perché lo volevo io, e perché ero sicura che un giorno saresti stato d'accordo con me».
Cadde di nuovo il silenzio per un po’. Continuai a fissarlo, timorosa. Non sopportavo l’idea che stesse male, ma in fondo era tipico di Edward tormentarsi per qualcosa che apparteneva al passato. Per quanto glielo ripetessi, non riusciva a smettere di sentirsi in colpa.
«Grazie» ripetè in un soffio.









Note.
1. Il link della canzone. Stupenda, vero? Malinconica, dolce, romantica...









Spazio autrice.

Soltanto una breve nota "musicale" e poi chiudo. Sicuramente avrete notato che ogni capitolo è accompagnato da una canzone che gli dà il titolo. Vorrei specificare, anche se senza dubbio è piuttosto chiaro, che la scelta della canzone ovviamente non è casuale ma è sempre legata a quello che succede nel capitolo. In alcuni casi il testo può fare riferimento a un episodio preciso, in altri il rapporto canzone/capitolo può essere un po' più generico, ma comunque c'è sempre. Molto spesso queste canzoni sono state fondamentali nel processo di stesura della storia. Ecco perchè nelle Note inserisco sempre il link per ascoltarle e vi invito, se per caso foste interessati/e ad approfondire questo aspetto, a leggere i testi, le cui traduzioni sono sempre facilmente reperibili in rete (ad eccezione di un paio di casi, quindi se non riuscite a trovare una traduzione in particolare fatemelo sapere e ve la passerò in qualche modo). A volte il testo della canzone potrebbe rivelarsi utile per capire meglio lo stato d'animo di un personaggio o il significato di un certo episodio. E adesso probabilmente scoprirò che queste spiegazioni non interessano a nessuno e che sono del tutto superflue! xd Vabe', se vi ho annoiato potete sempre vendicarvi nelle recensioni... xd. Alla prossima!

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Capitolo 9
*** When will you see ***


Capitolo 1
Capitolo 9
When will you see


You're the one and you don't realize
Yes it's true
This was meant to be
You and me
No, there's no help, we lost our way
I made a wish and watched it fade
I wanna speak but I am afraid
When will you see it's you and me?

When will you see, Isabelle Yardley¹



È più facile conoscere l'uomo in generale che conoscere un uomo in particolare.
FRANCOIS DE LA ROCHEFOUCAULD, Massime





Credevo che avrei trascorso una notte completamente insonne, e invece quando mi infilai nel letto, dopo che papà era entrato in camera mia e mi aveva imposto di chiudere il telefono, mi addormentai quasi subito. L’intero pomeriggio trascorso a discutere con le mie amiche una dopo l’altra, insieme a ben due tentativi falliti di conversazione a tre con Holly e Jas, dovevano avermi sfinita. Non appena aprii gli occhi mi sembrò di averli appena chiusi, e mi sarebbe piaciuto richiuderli nuovamente quando sentii una voce acuta e cristallina a me ben nota diffondersi per la casa: zia Alice mi stava dando il buongiorno nel suo personalissimo, insopportabile modo.
«I come home in the morning light, my mother says "When you gonna live your life right?", oh mother dear we’re not the fortunate ones, and girls just want to have fun²»
Mandai un gemito, ficcai la testa sotto il cuscino e sperai che per una qualche sconosciuta legge della fisica, un buco nero si aprisse all’improvviso nella piccola Forks e inghiottisse tutti i vampiri dei dintorni. Purtroppo non accadde. Sentii una folata di vento levarsi di colpo accanto al mio letto e un istante dopo le coperte in cui ero avvolta furono bruscamente strappate via.
«Girls they want to have fun… Oh girls just want to have fun
«Vattene!» mugugnai, la faccia premuta contro il letto, rabbrividendo per il traumatico passaggio dal caldo delle coperte all’aria fredda del primo mattino.
«Andiamo, Raggio di sole, è ora di sorgere e splendere!» esclamò la zia. Per chissà quale motivo, il suo tono era sempre entusiasta anche senza nessuna ragione particolare.
«Non mi va» ribattei, imbronciata. Sarebbe stato meglio alzarsi e arrendersi subito: non avevo nemmeno finito di parlare che anche il cuscino mi fu tirato via dalla testa. Schizzai a sedere nel letto, furibonda. «Vattene, Alice!»
Per tutta risposta, sollevò la mano destra davanti alla bocca a mo' di microfono e ricominciò. «That’s all they really want, some fun
«Basta!» protestai con un gemito, tappandomi inutilmente le orecchie. Era come essere svegliati da un trapano elettrico. Non che lei cantasse male, tutt’altro, ma cominciava a farsi sentire un atroce mal di testa.
«Non ti piace?» disse con aria imbronciata e dispiaciuta. Tutta scena. «Preferisci Madonna, forse?». Si illuminò di colpo e brandì nuovamente il suo immaginario microfono a mezz’aria. «Like a virgin! Touched for the very first time! Like a virgin, when your heart beats next to mine³…»
Okay, ne avevo abbastanza. Scesi dal letto con un balzo e cominciai a spingerla in direzione della porta. «Fuori! Fuori dalla mia stanza!»
Lei si lasciò trascinare senza opporre resistenza, sfoggiando un’assurda espressione a metà tra il pianto e il riso. «Dai, Raggio di sole, questo non è carino da parte tua» protestò con voce imbronciata.
«Diventerò ancora meno carina se uccido brutalmente mia zia prima di colazione!» sbraitai.
«Ma io volevo aiutarti a decidere cosa indossare» continuò stazionando sulla porta spalancata. «Oggi Alex ti chiederà di diventare ufficialmente la sua ragazza, il modo in cui ti vedrà stamattina a scuola condizionerà tutto il vostro rapporto…»
Non attesi nemmeno che finisse la sua stupida frase. «Vai a tormentare qualcun altro» sibilai e finalmente riuscii a chiuderla fuori.
Mi appoggiai alla porta, chiusi un momento gli occhi e tirai un respiro profondo portandomi le mani alle tempie. Mi aspettava una giornata incerta e difficile e lo stressante risveglio opera di Alice non era certo il modo migliore di cominciarla. Meglio cercare di riprendermi se volevo evitare una crisi isterica entro l’ora di pranzo. Feci una rapida doccia e mi vestii con cura continuando a ripetere a me stessa che il sacro comandamento di lì alle prossime ore doveva essere stare calma. E quando uscii dalla mia stanza potevo dire di sentirmi abbastanza tranquilla. In cucina trovai la zia seduta al tavolo con Edward e Bella.
Alice mi scrutò da capo a piedi. «Credo che tu non abbia più tanto bisogno di me» ammise a malincuore. «Sei stata un’allieva fin troppo zelante. L’unica cosa che proprio non va è quest’espressione».
«Quale espressione?» domandai con blando interesse versando latte e cereali in una tazza e cercando di ignorare gli sguardi insistenti dei miei genitori. Cosa avevano tanto da fissare? I capelli erano in disordine, forse? D'istinto li sfiorai con una mano e mi sembrarono a posto.
«Questa espressione». Alice si sporse sul tavolo per prendere delicatamente il mio viso tra le dita di ghiaccio. «Sembra che tu stia andando al patibolo o qualcosa del genere. Vuoi rilassarti? Ricevere un bacio improvviso e tremendamente romantico da un bel ragazzo dovrebbe essere motivo di entusiasmo, non di terrore».
Quasi mi affogai con una cucchiaiata di cereali. Avevo una faccia da patibolo? I miei tentativi di apparire normale erano miseramente falliti? 
«Non sono affatto terrorizzata» sbottai. «Sono solo… preoccupata. E comunque sarebbero cose personali».
Alice mi guardò come se avessi appena raccontato una barzelletta che non faceva ridere. «Cose personali? Non esistono cose personali nella famiglia Cullen».
«Ah, no? Da sempre o solo da quando hai scoperto che non puoi vedermi?» la provocai. Ero certa che la storia del niente privacy, che ultimamente veniva tirata fuori un po’ troppo spesso, fosse solo un’idea sua e di Emmett all’unico scopo di impicciarsi dei fatti altrui. O meglio, dei fatti miei.
«Alex non ti vorrà più con quella faccia» continuò lei, imperturbabile, poi scrollò la testa. «Be’, vedrò di fartela passare mentre ti porto a scuola». Si allungò, prese una rivista dal banco da lavoro e cominciò a sfogliarla distrattamente.
Rischiai di strozzarmi per la seconda volta. Afferrai il bicchiere d’acqua e mandai giù un sorso, lanciando un'occhiata dubbiosa oltre i vetri della finestra. Davanti a casa era parcheggiata la Porsche giallo canarino della zia.
«Non dirmi che andiamo con la tua macchina» mugugnai.
«Certo che sì. Io guido solo la mia Porsche, lo sai».
Guardai papà, scocciata. «Una Porsche giallo canarino? Ma come ti è venuto in mente di regalarle una Porsche giallo canarino?»
Tutti e tre sorrisero misteriosamente scambiandosi occhiate divertite come se condividessero un segreto. Sollevai un sopracciglio, incuriosita, ma Edward si limitò a scrollare le spalle.
«È una lunga storia» rispose.
E io non avevo tempo, quella mattina. Terminai in fretta la colazione, corsi a lavarmi i denti e saltai nella Porsche, dove Alice già mi aspettava al volante, facendo ringhiare il motore e cantando a squarciagola un’orrenda canzone anni Ottanta che usciva dal lettore cd. A volte il fatto che i membri della famiglia avessero svariati decenni, e talvolta secoli, di gusti musicali alle spalle rappresentava un serio problema: avevo perso il conto delle volte che mi ero ritrovata ad ascoltare canzoni da brivido solo perché ricordavano qualcosa a qualcuno di loro. Che strazio. 
Quella volta però riuscii a non ascoltare quasi nulla mentre sfrecciavamo verso la scuola attirando occhiate curiose e clacson infuriati da parte dei passanti. Pensavo a cosa avrei dovuto aspettarmi da quella giornata e dal momento che non ne avevo la minima idea era davvero assurdo che riuscissi a rimuginarci su per tutto quel tempo. Nella mia testa c’era un insieme confuso di spiegazioni, risate, prese in giro (dirette a me, ovviamente), dichiarazioni appassionate e baci rubati nel parcheggio della scuola. Quando Alice inchiodò a terra con una frenata stridente feci un salto di un metro e cacciai uno strillo. Mi scoccò un’occhiata a metà tra il divertimento e la sorpresa. 
«Ehi! Calma, piccola, non ti faccio volare fuori dal parabrezza. Promesso» disse con un sorrisino.
«Sicura?» chiesi mentre con uno sguardo mi accertavo di essere arrivata a destinazione. Feci per aprire la portiera.
«Ah! Aspetta!» strillò Alice, facendomi sobbalzare di nuovo.
«Cosa?» sbottai, infastidita.
Mi prese il mento tra le mani, scrutandomi attentamente il volto. Fece una smorfia di disappunto. «No, sempre uguale. Andiamo, Raggio di sole!». E si esibì in un assurdo sorriso forzato. Sembrava il gatto di Alice nel paese delle meraviglie. Oh, mio Dio.
«Grazie del passaggio» borbottai e saltai giù dall’auto prima che potesse acciuffarmi di nuovo.
«Sorridi!» esclamò sopra il tonfo della portiera. La ignorai e un attimo dopo sentii la Porsche sgommare via.
Mentre camminavo nel cortile della scuola, salutando di tanto in tanto qualcuno che conoscevo, mi guardavo nervosamente attorno cercando un viso specifico. Niente. Feci il giro due volte, come una scema, senza incontrarlo. Avevo sperato di chiarire al di fuori degli edifici scolastici, dove anche i muri avevano occhi e orecchie. Mi resi conto appena in tempo che stavo facendo tardi alla prima lezione, smisi di gironzolare e mi diressi verso l’edificio due. E poi, all’improvviso, eccolo lì, a pochi metri da me: stava entrando nello stesso edificio. Il mio cuore fece un balzo. 
«Alex!» esclamai di getto, senza pensarci. Se l’avessi fatto probabilmente sarei fuggita, da brava codarda. Lui sembrò non aver sentito: non si fermò e non si girò. «Alex!» chiamai di nuovo, saltellando ansiosa in mezzo alla piccola folla che si dirigeva verso l’entrata e che sembrava sovrapporsi perfettamente tra me e chi volevo raggiungere. Quando riuscii ad entrare ormai non lo vedevo più. Chissà in quale corridoio si era infilato… Non conoscevo il suo orario, maledizione.
«Chi stai cercando?» 
Qualcuno sbucò di colpo dal nulla accanto a me, e poco mancò che cacciassi un gridolino. Ovviamente era lei.
«Jas!» sbottai. «Ti dispiacerebbe non farmi venire un infarto, per favore?»
Lei mi guardò offesa. «Non è colpa mia se tu sei così distratta! Allora, chi stavi cercando?»
«Nessuno» risposi in fretta continuando a sbirciare oltre la sua testa, nel corridoio, sperando di vederlo riapparire.
«Penso che tu abbia perso il tuo signor Nessuno» rispose maliziosa. Le lanciai un’occhiataccia senza dire nulla e Jas sbuffò. «Dai! Ieri ho passato tutto il pomeriggio a telefono con te per parlare del signor Nessuno, ti prego di non insultare la mia intelligenza».
Mi arresi con un sospiro. «L’ho chiamato, ma… non mi ha sentita».
Jas stralunò gli occhi e lanciò uno sguardo al corridoio affollato di studenti. Fuori il cielo era grigio e gonfio e tutti erano ansiosi di mettersi al riparo dalla pioggia che sarebbe arrivata di lì a poco. Aveva un’aria perplessa e un po' preoccupata. «Che… che c’è?» balbettai.
«Niente». Sorrise prendendomi sotto braccio. «Tranquilla, prima o poi lo rivedi. O se preferisci durante la pausa ti accompagno a cercarlo».
Stavo per proporle di andarci subito ma in quell’esatto istante suonò la campanella ed io emisi un verso di sconforto. Jas mi strinse la mano. 
«Ehi, hai tutta la giornata davanti! Perché nel frattempo non pensi a cosa vorresti dirgli?»
Buona idea, ma sarebbe stato più semplice affrontare un’orda di vampiri assetati. Passai tutta la mattina a progettare un piano o un discorso, ma niente di ciò che elaborai mi sembrava avere una parvenza di razionalità. Al contrario, qualsiasi iniziativa sembrava decisamente stupida e sbagliata.
«È solo perché hai paura» mi informò Jas quando esternai le mie sensazioni, mentre ci dirigevamo in palestra per la lezione di ginnastica. Eravamo già alla quarta ora e Alex non si faceva sentire nè vedere. Stavo iniziando a preoccuparmi sul serio.
«Non sapevo che fossi diventata una psicologa» commentai sotto voce.
Lei proseguì come se non avessi aperto bocca. «Allora. Primo: lui ti piace e penso che questo lo abbiamo chiarito anche se con un po’ di difficoltà. Secondo: tu piaci a lui e anche questo è chiaro, ormai, altrimenti non ti avrebbe perseguitata per due giorni, non avrebbe saltato la scuola con te, non ti avrebbe baciata. Ora, se tu piaci a lui e lui piace a te, ci sarà un motivo, giusto? Anzi, anche più di uno, probabilmente. Sono sicura che troverete un modo per chiarirvi. Te lo sto dicendo da ieri e anche Holly era d’accordo con me» disse con aria di superiorità.
«Sul serio?» esclamai con tono brusco. «Forse non sono riuscita ad afferrare questi concetti visto che durante i nostri patetici tentativi di conversazione a tre di ieri non avete fatto altro che starnazzare contemporaneamente».
«Caspita, quanto sei acida stamattina!» si lamentò con un sospiro.
«Se non sbaglio tu sei la mia migliore amica, quindi ti tocca sopportarmi anche se ti faccio venir voglia di dare la testa contro il muro, esattamente come io, la tua migliore amica, faccio con te quando passi ore ed ore a raccontarmi nel dettaglio tutto quello che tu e Tom vi siete detti e tutto quello che avete fatto!» sbottai con tono leggermente isterico. Ma solo un pochino.
Jas mi osservò perplessa per un attimo. «Vuoi che andiamo a cercare Alex?» propose.
Ci pensai un secondo. Chissà come mai, mi sentivo sempre più nervosa. «No» risposi seccamente. 
Il mio umore non migliorò quando raggiungemmo lo spogliatoio dove c’era Holly intenta a prepararsi. Lei e Jas cominciarono subito a discutere dell’argomento del giorno. Non intendevo in alcun modo unirmi a loro e me ne restai in silenzio ad ascoltarle battibeccare mentre mi cambiavo, scocciata.
«È assurdo che Alex non l’abbia ancora cercata» sentenziò Holly con aria decisa. «Insomma, che gli è preso? Era pazzo di lei!» e qui mi lanciò di soppiatto un’occhiata dispiaciuta, credendo che non la vedessi. Provai l’orrenda sensazione che lo stomaco mi scivolasse sotto i tacchi.
«Perché usi l’imperfetto? È ancora pazzo di lei!» ribattè Jas incrociando le braccia. Non potevo vedere il suo viso, ma ero certa che stesse cercando di sparare fulmini e saette dagli occhi per incenerire Holly. Peccato che lei fosse troppo occupata ad esaminarsi nello specchietto che aveva in mano per accorgersene.
«Ma avrebbe dovuto almeno chiamarla. Il bacio è partito da lui, doveva essere lui a farsi sentire».
«Be', in fondo non è passato neanche un giorno, forse stiamo correndo troppo».
Io le ascoltavo a malapena, presa com'ero dalle mie riflessioni. A dispetto delle elucubrazioni di Holly e Jas, sapevo perfettamente il motivo per cui Alex non mi aveva ancora cercata, il motivo per cui non mi avrebbe cercata mai: non ero stata all’altezza delle aspettative. La mia reazione era stata del tutto fuori luogo e avevo reagito in quel modo perché una paura folle si era impossessata di me.
Dannazione, perché dovevo essere così? Perché non ero più sicura di me? In teoria la metà vampiresca dei miei geni avrebbe dovuto darmi qualche piccolo vantaggio sugli esseri umani e invece niente. La verità stentavo a confessarla persino a me stessa: non mi sentivo mai veramente a mio agio né con i vampiri né con gli umani. Ero ormai abituata a stare con i vampiri ma ero consapevole della distanza che ci separava, consapevole che non sarei mai stata forte, veloce, bellissima, invincibile come uno di loro. Eravamo divisi da una barriera sottile, ma impenetrabile. La stessa identica barriera che mi separava da Charlie e dai miei compagni di scuola: con loro stavo bene, eppure a volte mi sentivo diversa… abbastanza diversa da avere costantemente paura di apparire strana ai loro occhi, di spaventarli e farli allontanare da me, ma non da sentire di avere qualche carta in più da giocare rispetto a loro. 
Ero un maledetto ibrido, capace di vivere in entrambi i mondi tra cui ero divisa ma senza sentirmi veramente in armonia in nessuno dei due. A volte mi sembrava di essere una pallina da ping pong che viene lanciata continuamente da un capo all’altro del tavolo da gioco. A casa mi sforzavo di essere il più possibile simile alla mia famiglia, a scuola e da Charlie esattamente il contrario. E non avevo idea di quale fosse il mio posto. Nè da una parte nè dall'altra riuscivo a sentirmi pienamente a casa, a sentirmi davvero me stessa. Era come se fossi sempre in attesa di tornare nell'altra metà dell'universo, e allo stesso tempo sapevo che una volta passata dall'altro lato dopo un po' avrei avvertito di nuovo quella sensazione... la sensazione di essere in parte estranea a tutto e a tutti. E una persona non riesce ad essere sicura di sè, di ciò che è e di quello che vuole se non riesce neanche a trovarsi un posto nel mondo. Ecco perchè ero sempre così maledettemente insicura e timida e imbranata. Il mio carattere c'entrava solo in parte.
Come potevo pensare di avere una storia normale con un ragazzo normale in mezzo a questo casino? Era giusto legarmi tanto a delle persone a cui mentivo spudoratamente? Come poteva una mezza vampira, o una mezza umana, a seconda dei punti di vista, mettere in piedi una storia con un ragazzo? 
E poi c’era il nostro segreto, la cosa più importante di tutte, mi era stato insegnato quando ero piccolissima. Gestire Charlie e le mie amiche era già abbastanza complicato, a volte. La possibilità di coinvolgere un’altra persona mi aveva spaventata, anche se forse me ne rendevo conto solo adesso. Così ero scappata. Era il prezzo per condurre un’esistenza quasi normale: se un ramo della vita che conduci mette a rischio il tuo segreto e la tua famiglia, quel ramo va troncato. Quante volte in passato i miei erano stati costretti a mollare tutto e trasferirsi di punto in bianco per via di una parola, un gesto, uno sguardo di troppo?
La storia dei miei genitori mi era stata raccontata tante volte, da loro, dal resto della famiglia, da Jake, da Charlie, da fotografie, ricordi, frasi e sguardi. Sapevo quant’era stato difficile, quanto avevano dovuto lottare. Non intendevo paragonare quello che c’era tra me e Alex, qualunque cosa fosse, alla forza devastante che aveva travolto le vite dei miei genitori e le aveva rivoltate da cima a fondo: non osavo pensare che fosse amore. D’altronde non avrei nemmeno saputo spiegarmi con esattezza il significato della parola, sebbene ne avessi visto tanto intorno a me da quando ero venuta al mondo.
Ma non era solo una cotta, per usare quell’orribile parola. Nessuno era mai riuscito ad affascinarmi così. 
No, Alex non era solo una cotta adolescenziale. Sarebbe diventato qualcosa di speciale, se solo avessi lasciato che accadesse. Non ero sicura di averne la possibilità, ma non potevo nemmeno lasciarlo in quel modo. Non lo meritava. In quei pochi giorni insieme a lui avevo vissuto le emozioni più strane, potenti e meravigliose dei miei cinque anni e mezzo di vita. Avrei tanto voluto parlargli.
Quando suonò la campanella corsi a cambiarmi con Jas alle calcagna; forse si sentiva in dovere di controllare che non facessi qualcosa di stupido. Mentre Holly si infilava con Paul nello stanzino accanto alla palestra per divertirsi in pace, come diceva lei, ci cambiammo in fretta e ci avviammo verso l’aula di letteratura. 
Rimuginavo tra me e me mentre Jas si lamentava ad alta voce dell’ultima tesina che il professor Berty ci aveva assegnato, probabilmente solo per cercare di distrarmi visto che io l’avevo già finita e lei lo sapeva benissimo. Svoltammo l'angolo di un corridoio affollato e mi scontrai con qualcuno. Ero così distratta che non riuscii ad afferrare uno solo dei libri appena presi dall’armadietto e caddero tutti a terra. Ma io non me ne curai affatto, e nemmeno Jas. Davanti a noi c’era…
«Alex!» esclamai. 
Fantastico! Avevo proprio sperato di incontrarlo per spiegargli che non ero una ragazzina imbranata e invece gli ero appena caduta addosso. Assolutamente perfetto! Alex sollevò gli occhi, mi vide e per un istante mi parve di cogliere un lampo di panico.
«Ehi» fece un attimo dopo con voce del tutto normale, e mi sorrise. Alle sue spalle un gruppetto di ragazzi del terzo anno che conoscevo di vista ci osservavano con aria curiosa. Lui non lasciò a lungo gli occhi blu fissi nei miei: si accorse dei libri ancora sparpagliati sul pavimento. «Ops. Scusa, è stata colpa mia». 
Si chinò, li raccolse e me li porse. Automaticamente, senza riuscire a smettere di fissarlo sbalordita o di articolare una sillaba, li afferrai. Alex mi lanciò un'occhiata rapida, gli occhi sfuggenti che faticavano a fermarsi su di me, e accennò un altro sorriso. 
«Ci si vede» disse, e si allontanò lungo il corridoio seguito dai suoi amici. 
Scese il silenzio mentre cercavo di realizzare cosa era appena accaduto. Doveva essere passato soltanto un minuto, ma nella mia testa quel minuto era durato un’eternità, esattamente com’era successo sulla spiaggia quando mi aveva baciata. Lentamente, molto lentamente, ricominciai a respirare.
«Hai… hai sentito anche tu?» balbettai. «Ha detto ci si vede? Ha veramente detto ci si vede?» 
Dalla mia migliore amica non giunse alcuna risposta. Mi voltai per accertarmi che non fosse svenuta: Jas aveva l’espressione più assurda che le avessi mai visto, occhi e bocca spalancati come chi ha appena assistito a un cataclisma di proporzioni epiche, e non sembrava in grado di dire nulla di intellegibile. Era buffissima. Se solo non fossi stata così sconvolta e se non avessi creduto di avere io stessa un’espressione molto simile, quel momento sarebbe stato consacrato da una risata senza precedenti.



****

 

Non so come riuscii ad affrontare il resto della mattina, ad andare in classe di letteratura e poi alla lezione successiva fingendo che non fosse accaduto niente, che Alex non mi avesse appena trattata come un’estranea, una qualunque ragazza conosciuta da poco della quale non gli importava granchè. Non come una che gli piaceva e alla quale aveva dato un bacio. O meglio, cercavo di far finta di niente ma probabilmente non stavo avendo molto successo. Lo intuivo da come ogni tanto Jas si voltava a fissarmi, preoccupata, da come mi guidava nell’aula giusta tenendomi sotto braccio perché io non facevo caso a dove andavo, da come mi scuoteva con un calcio sotto il banco quando un insegnante mi interpellava ed io non rispondevo. Forse aspettava un’esplosione che per fortuna non arrivò. 
Quando suonò la campanella del pranzo mi stupii che la mattina fosse già passata. Seguii Jas nella mensa, presi il vassoio e sedetti al solito tavolo meccanicamente, senza pensare a ciò che facevo. Riuscii ad accorgermi, però, degli sguardi che si posavano su di me e mi resi conto che nel nostro gruppetto la voce doveva già essere circolata. Per fortuna nessuno tirò in ballo la questione, forse per pietà, o forse perché Tom e Paul avevano troppa paura delle rispettive fidanzate per potersela spassare in tutta tranquillità.
A un tratto uno scoppio di risate particolarmente rumorose, al nostro tavolo, mi riscosse e sollevai gli occhi dallo stufato con cui stavo giocherellando: Scott e Paul avevano improvvisato una partita a basket con i resti del pranzo e la mela che stavano usando a mo' di palla era appena rimbalzata e finita dritta nel piatto di Maggie, invece di cadere nel cestino del pane che fungeva da canestro, schizzandole la camicetta. Tutti ridevano mentre Maggie cercava di smacchiarsi la camicetta con un fazzoletto umido e intanto lanciava insulti verso Paul e Ryan. Forse era divertente, ma non mi venne affatto da ridere. 
Mi guardai intorno, disorientata dalla confusione che all’improvviso sembrava esplodermi nelle orecchie dopo ore di isolamento, come se qualcuno avesse rapidamente alzato al massimo il volume di una tv. Percorsi con lo sguardo la mensa e la folla vociante e rumorosa che la occupava, e lo vidi: Alex era seduto a un tavolo accanto all’ingresso con gli amici, tra i quali riconobbi quelli che erano con lui quando ci eravamo scontrati. Sembrava assolutamente rilassato: parlava, rideva, si passava una mano tra i capelli per scompigliarli un po’, assaggiava un boccone dal piatto e poi con espressione disgustata si voltava verso gli altri dicendo qualcosa, probabilmente una battuta, scatenando le risate della tavolata. Non sembrava nemmeno un nuovo studente tanto riusciva ad essere naturale, disinvolto, come se si trovasse in mezzo a persone che conosceva da una vita. E soprattutto sembrava che non fosse successo niente. Gli ultimi giorni non erano mai esistiti.
Poi qualcuno attirò la sua attenzione: Caroline Johnson si avvicinò ancheggiando al suo tavolo e lo salutò dedicandogli uno dei suoi agghiaccianti sorrisini da pescatrice che lancia la rete. Alex sorrise di rimando mentre lei gli domandava qualcosa con voce squillante, lui rispose e Caroline fece una risata civettuola prima di sedersi con disinvoltura sulla sedia vuota al suo fianco, gettandosi i capelli oltre le spalle. E per quanto solo qualche giorno prima Alex avesse assicurato di non sopportare quel tipo di ragazza, non parve particolarmente infastidito dalla situazione.
Okay, quello era troppo. Potevo anche accettare che mi ignorasse e si comportasse in modo strano, ma che se la spassasse con quell’oca mangia uomini mentre io mi tormentavo per cercare di capire i suoi sbalzi d’umore era davvero troppo. 
Mi alzai di botto, lasciai al tavolo tutte le mie cose e attraversai in fretta la mensa a passo sostenuto, probabilmente attirando un bel po’ di sguardi curiosi. Tenni gli occhi fissi davanti a me senza incrociare quelli di nessuno, facendo appello a tutte le mie forze per non scoppiare in lacrime davanti a un centinaio di persone, superai il tavolo di Alex e uscii nel corridoio. Sentivo che stavo per cedere. 
Mi diressi al bagno delle ragazze e controllai rapidamente che non ci fosse nessuno. Quando ne fui certa, mi fermai un istante. Tirai un profondo respiro, cercando di calmarmi, ma gli occhi bruciavano minacciosamente. E poi, all’improvviso, qualcosa si sciolse dentro di me e le lacrime sgorgarono. Scivolai lungo la parete, sedetti sul pavimento e poggiai la testa sulle ginocchia, singhiozzando disperatamente. Era come se avessi tenuto ben stretto un rubinetto per l’intera mattina e ora lo avessi aperto tutto di botto e ne uscisse un fiume in piena.
Pensai che per quanto mi sentissi molto sciocca e infantile ad avere un simile sfogo per una questione così futile e che fino a qualche giorno prima avrei definito assolutamente indegna di tutta quell’attenzione, allo stesso tempo mi rendevo conto che era qualcosa con cui avrei dovuto fare i conti, prima o poi. Ed era meglio che avvenisse in una condizione di totale solitudine. Quando Jas litigava con Tom e Holly litigava con Paul, strillavano e si agitavano per un po’ di tempo e poi sembrava tutto passato. Forse l’isterismo era una specie di passaggio obbligatorio quando perdevi la testa per un ragazzo e magari dopo avrei ricominciato a ragionare usando il cervello.
Non durò molto, però, quella solitudine: solo un paio di minuti più tardi la porta del bagno si aprì e sulla soglia comparve Jas. Ero sicura che sarebbe venuta a cercarmi. Mi guardò in silenzio per un attimo ed io ricambiai lo sguardo, senza riuscire a smettere di frignare. Sospirò pesantemente con aria dispiaciuta e venne a sedersi accanto a me. Non parlò, limitandosi ad accarezzarmi la testa, ma sapevo che dentro di sè stava lanciando ad Alex gli insulti più cattivi del suo vocabolario. Certo, Jas sapeva essere una gran scocciatrice quando voleva e tre volte su quattro diceva la cosa sbagliata nel momento sbagliato, ma era un sollievo averla con me.
«Lui non mi vuole» singhiozzai. Sentivo la gola gonfia e dovetti sforzarmi di parlare. «Ed è colpa mia. Ho sbagliato tutto e lui non mi vuole più».
Jas mi scoccò una delle sue occhiate da meno male che ci sono io. «Ho un piano» disse.
Tirai su col naso e cercai di frenare le cascate del Niagara. «Sarebbe?»
«Convochiamo Alex, da qui in avanti "Il bastardo", in un bel posticino tranquillo come il parcheggio del supermercato dopo la chiusura, con una scusa qualsiasi, e dico a Tom e Paul di portarsi le loro vecchie mazze da hockey: lo faremo pentire di essere venuto a Forks».
Mi scappò un mezzo sorriso. «Jas» protestai con voce roca «ti prego, sii seria». Feci una pausa e tirai un respiro profondo. «Ho combinato un disastro».
Alzò gli occhi al cielo. «Ancora con questa storia? Senti, non voglio dire che darsela a gambe dopo il suo bacio sia stata una bella idea, okay? Capisco che Alex possa essere confuso ma il suo comportamento di oggi non ha giustificazioni! Insomma, ti ha trattato malissimo, è… è stato un vero bastardo! Prima fa finta che tu non esista e poi si mette a flirtare con quella stupida vacca davanti a te, davanti a tutti… Dovresti fargliela pagare!»
A quel punto interruppe la sua filippica per prendere fiato. Caspita, era veramente indignata. Sentendola descrivere da un’altra persona quella situazione faceva davvero schifo. «E come? Torno di là e lo decapito con un vassoio?» dissi stancamente.
Jas si calmò un po’ e assunse un’espressione meditabonda. «Questo potrebbe crearti qualche problema» ammise.
«Giusto qualcuno» aggiunsi con tono piatto e ironico.
Lei sbuffò, contrariata, e restammo in silenzio per un po’. Forse Jas meditava qualche tremenda vendetta, io invece pensavo a come organizzare la mia seconda fuga da scuola in due giorni. A un tratto parlò di nuovo. 
«Be’, c’è sempre la mia idea. Non era tanto male, ti pare? Almeno, se gli facciamo un occhio nero sarà di sicuro meno affascinante».


****


Fu dura arrivare alla fine delle lezioni. Oltre al dispiacere e al senso di umiliazione che provavo, nel pomeriggio si aggiunse un mal di testa perforante a rendermi le cose ancora più facili. Fantastico. Non so per quale miracolo non incontrai più Alex dopo la pausa pranzo, ma in compenso vidi Caroline in un’aula vuota in compagnia delle sue stupide amiche con l’aria tronfia di chi si è appena aggiudicato un bel bottino. Strillavano e ridacchiavano a un tale livello di decibel che non mi fu difficile cogliere l’argomento delle loro chiacchiere. Non so come, soffocai l’istinto di ucciderla e passai oltre. 
Jas sembrava molto preoccupata e mi riempiva di insistenti attenzioni. Le ero grata, ma allo stesso tempo mi sentivo soffocare. Non desideravo essere trattata come una stupida che si era lasciata prendere in giro dal nuovo arrivato. Avrei voluto soltanto tornare indietro nel tempo per impedirmi di prendere una stratosferica cotta per un ragazzo che era così palesemente un… bastardo. Presa com’ero da queste riflessioni, il suono dell’ultima campanella mi colse del tutto di sorpresa. Fortunatamente la Ferrari della mamma era già nel parcheggio ad aspettarmi. Saltai dentro e il sorriso un po’ incerto ma carico di aspettative che mi rivolse si congelò all’istante quando vide la mia faccia.
«Che è successo?» esclamò con l’aria di chi preferirebbe invece non ricevere una risposta.
«Non ne voglio parlare» borbottai, un po' brusca. Lei esitò un attimo. Mi toccò ribadire il concetto. «Non ne voglio parlare». 
Stavolta afferrò e si limitò a mettere in moto senza aggiungere altro, ma per tutto il tragitto non fece che sospirare e gettarmi rapide occhiate ansiose a intervalli di circa trenta secondi. Feci del mio meglio per ignorarla, anche se essere continuamente perforata dai suoi occhi ambrati che sembravano scongiurarmi di parlarle mi rendeva ansiosa.
Arrivate a casa, corsi dentro prima ancora che la mamma potesse parcheggiare. 
«Non voglio parlare» ripetei per la terza volta all’indirizzo di mio padre, seduto in salotto, che mi guardava con le sopracciglia inarcate. 
Mi chiusi in camera mia con l’intenzione di restarci e passai più o meno un’ora così, allungata sul letto a pancia in giù, un cuscino stretto fra le braccia, ripassando nella mia mente tutti i momenti più brutti della giornata e guardando avvilita la pioggerellina che cadeva fuori dalla finestra.
«Tesoro, possiamo?»
La mia solitudine fu a un tratto disturbata dalla voce incerta della mamma. Mi riscossi e fui costretta a scrollarmi di dosso un po’ di torpore.
«Non posso impedirvelo» mugugnai. 
Comparvero tutti e due nella mia visuale, tenendosi per mano e fissandomi con occhi ansiosi.
«Renesmee» cominciò papà dolcemente «senti, sappiamo che vuoi restare sola, ma… sicura che non ti andrebbe di parlare un po’? Staresti meglio, dopo».
Forse, ma io non volevo stare meglio. Non desideravo altro che crogiolarmi nell'autocommiserazione e disperarmi e sospirare e piagnucolare da brava quindicenne quale mostravo di essere. «No».
Ci fu un attimo di silenzio. Li vidi con la coda dell’occhio scambiarsi uno sguardo accorto. A loro bastava questo per comunicare.
«Come preferisci» rispose la mamma in un sussurro. «Noi andiamo a caccia, vuoi venire?»
«No». La sete era l’ultimo dei miei pensieri, al momento. Altro silenzioso scambio di sguardi.
«D’accordo» fece Bella, rassegnata. «Allora ci vediamo più tardi dai nonni, okay?»
Avevo completamente dimenticato che per quella sera era in programma un torneo di poker con Charlie, una specie di tradizione di famiglia, ormai. Non sapevo se mi andasse di partecipare o meno, ma di sicuro in quel momento non mi andava di intavolare una discussione con i miei. Per tutta risposta alzai le spalle.
Bella esitava, poi papà la strattonò per farle capire che era meglio allontanarsi. «Su, andiamo» mormorò. 
Uscirono accostando la porta della mia stanza e in casa scese il silenzio. Finalmente ero sola, ma per me cambiava ben poco e rimasi sul letto nella stessa identica posizione. Speravo che a un certo punto arrivasse il sonno a troncare le mie cupe riflessioni, ma non accadde. Continuavo a fissare fuori dalla finestra il cielo che si faceva scuro, quando a un tratto sentii il cigolio della porta della mia stanza. Edward e Bella erano tornati e non me ne ero accorta? Sbuffai alzando gli occhi al cielo. 
«Ho detto che non mi va di parlare!» sbottai, arrabbiata. Ma quanto ci metteva un vampiro super intelligente a recepire un messaggio preciso?
«Nemmeno con il sottoscritto?» fece una voce ironica.
Mi rianimai all’istante e schizzai su dal letto come una molla. «Jake!» 
Con uno strillo mi lanciai tra le sue braccia tese dimenticando all'istante tutto il resto.
«Vuoi che me ne vada?» chiese, ridacchiando.
«Non ti azzardare! Meno male che sei qui!»
Il giorno prima gli avevo raccontato della fuga da scuola e di tutto il resto per telefono perché aveva un impegno di lavoro e poi la solita ronda, quindi non ci eravamo visti. Parlarsi di persona era tutta un’altra cosa. E in quel momento di profonda depressione non avrei potuto desiderare di meglio per consolarmi che la presenza del mio licantropo preferito. 
Ci sedemmo per terra appoggiati al mio lettone e gli raccontai di getto le ultime novità. Lui mi ascoltò con attenzione fino alla fine, senza fare commenti. 
«Per lui è come se non fosse successo assolutamente niente» sussurrai quando ebbi terminato. «Mi ha baciata, e ora… sembra che non gliene importi. Ma perché fa così?»
«Non hai pensato che potrebbe essere stato rapito dagli alieni e aver subito un trapianto di personalità?»
Alzai gli occhi al cielo, ma non potei frenare un sorriso. «Jacob».
«Be’, che c’è? Non credi negli alieni? Esistono i vampiri, esistono i licantropi, perché non possono esistere anche omini verdi con le antenne che rapiscono i ragazzi e li rimandano sulla Terra completamente alterati?» continuò.
«Un rapimento alieno sarebbe una giustificazione» continuai, decisa a non permettergli di distrarmi.
Jacob sospirò e battè delicatamente una mano sul mio ginocchio. «Senti, secondo me avete bisogno di un po' di tempo, tutti e due. Sono tanti i ragazzi che sembrano spavaldi e poi si portano dietro un sacco di problemi. Magari Alex è tra questi. E anche tu hai bisogno di tempo: è successo tutto così in fretta, e tu odi quando le cose ti piombano addosso all'improvviso, vero?». Era una domanda retorica. Jake mi conosceva così bene che a volte parlare con lui era quasi un po’ inquietante. Sembrava che potesse leggermi dentro come papà.
«Tempo» ripetei, soprapensiero. «Il fatto è che Alex ha sul serio un sacco di problemi. Me ne ha parlato ieri in spiaggia. Si è aperto completamente, mi ha raccontato tutto del suo passato, o almeno credo che sia tutto, ed io ero sorpresa: gli ho detto che non era costretto a farlo e che avremmo potuto parlarne più avanti, ma lui ha insistito mi ha raccontato cose molto, molto personali. Ed io credevo che lo avesse fatto perché gli piacevo davvero. Insomma, non avrebbe parlato tanto con una persona che per lui non fosse almeno un po’… importante». La mia voce tremò, sentii gli occhi inumidirsi e la stretta di Jacob aumentare. «Credevo di aver visto il suo cuore».
Lui non rispose subito, continuò a stringermi il ginocchio e intanto fissava il pavimento per darmi il tempo di riprendermi. Feci un paio di respiri profondi e riacquistai il controllo. «Nessie» cominciò lentamente «io credo che tu gli piaccia. E credo che Alex sia diventato tuo amico e ti abbia baciata perché lo voleva, perché in quel momento ne sentiva il bisogno. Sono sicuro che gli importa di te. Non ti sei sbagliata».
«Avrebbe potuto… che so, avvisarmi» borbottai tirando su col naso. «Non avevo capito che stava per succedere. Che stava per baciarmi». Ah, che sollievo ammetterlo con qualcuno! Era una liberazione.
Lui rise piano, non in modo offensivo. «Non si può avvertire quando sta accadendo una cosa del genere».
«Perché?»
«Perché è impossibile. Non si può mandare un avviso scritto, si perderebbe tutta la magia. Certe emozioni vivono nello spazio di un attimo e l’attimo passa. Bisogna coglierlo prima che svanisca. Non avercela con lui per questo».
«Be’, avrebbe potuto essere un attimo perfetto se solo mi fossi resa conto…»
Non mi lasciò finire. Mi prese una mano e me la strinse forte, guardandomi con espressione seria e dolce. «Basta, Renesmee. Tu sei importante per Alex, non puoi dubitarne, perché hai sentito di esserlo quando eravate insieme e devi sempre fidarti di te stessa e delle tue sensazioni. Niente deve contare più di quello che ti dice il tuo cuore, mai».
Mi accorsi che lo stavo fissando con occhi sgranati. Era uno di quei momenti, momenti in cui Jacob cessava di essere il mio compagno di giochi, di passeggiate e cacce nei boschi e si mostrava per quello che in effetti era, un giovane uomo. Aveva ventun’anni, ma non avvertivo quasi mai la differenza d’età: era sempre pronto a ridere e scherzare come uno dei miei compagni di scuola, e poi di colpo, quando ne avevo bisogno, si tramutava in un uomo maturo e responsabile che accoglieva e frenava le mie crisi isteriche, mi stringeva e mi faceva sentire sempre al sicuro. Diventava la mia roccia. 
«Tu hai sempre seguito il tuo cuore?» domandai all'improvviso.
Ci pensò un istante, un mezzo sorriso sulle labbra. «Credo di averlo sempre fatto».
«E non ti sei mai pentito?»
Aveva ancora quel sorriso, il sorriso di chi contempla ricordi lontani con serenità. «No. Rifarei tutto. Non butto via niente».
Feci un piccolo sospiro. Mi sentivo incredibilmente stanca, come se avessi corso per chilometri e chilometri. «Sai, forse è meglio così: non potrebbe mai funzionare».
«Che cosa?»
«Io ed Alex».
«Perché?»
«Anche se si sistemasse e noi… ci mettessimo insieme… insomma, te lo immagini?». All’improvviso ero infastidita. Non riuscivo a trovare le parole giuste. Era strano come passavo di colpo da un sentimento all’altro, da un umore all’altro. «Come potrei avere una storia con lui?»
«Con un tizio rapito dagli alieni, vuoi dire?» mi provocò con un sorrisino furbo. Ecco che ogni tanto l’uomo maturo scompariva e tornava il ragazzino.
«Con un umano» lo corressi senza scompormi. «A volte fatico a tenere a bada Charlie e le mie amiche, avere un ragazzo sarebbe allucinante. Si accorgerebbe subito che c’è qualcosa che non va». 
Al solo pensiero, tremai. Davvero potevo rischiare di dover mollare tutto all’improvviso e trasferirmi chissà dove, di perdere il nonno, la casa dove ero nata e che amavo tanto, i ragazzi della riserva, le mie compagne di scuola, Jas, soltanto per lui, il signor Alexander Hayden appena sbucato dal nulla?
Jacob aggrottò la fronte. «Io non la vedo così complicata. Però tu devi volerlo, certo». Lo guardai, colpita dalle sue parole. Lui continuò con aria tranquilla. «Se hai paura non funzionerà mai».
Ancora una volta aveva colpito nel segno. Mi morsi il labbro, incerta su cosa rispondere, quando fummo interrotti da un trillo proveniente dal mio cellulare. Mi sporsi per prenderlo dal comodino e controllai il display. Avevo ricevuto un sms da Emmett, che per quanto ne sapevo era a casa a preparare tutto per la serata:

  
Ehi, Raggio di sole, il cane ci serve per la partita. Se non lo porti subito qui vengo a prendervi io.
   

Sbuffai mentre cancellavo in fretta quel ridicolo messaggio. «Emmett. È a casa, vuole che tu vada subito lì o verrà a prenderti lui».
Jacob rise di gusto, scuotendo la testa. «Sono tutti matti nella tua famiglia. Che vuoi fare, andiamo?»
«Tu devi andare di sicuro: non ho voglia che Emmett venga qui a rompere le scatole».
«Non ci vado senza di te» disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Riflettei un istante. «Be’… Tanto devo venire per forza. Se Charlie non mi trova sarà lui a venire qui. Ultimamente è diventato un gran seccatore, mi sta sempre addosso».
«È perché si è accorto che stai crescendo» rispose Jake in tono dolce, e mi accarezzò un attimo la guancia. 
D'istinto gli afferrai la mano e me la premetti contro la pelle: aveva un profumo buonissimo, fresco, di aghi di pino.

«Jake» sussurrai «grazie di avermi ascoltata. Sento di poterti dire qualunque cosa. È come se tu fossi mio fratello» dissi di getto, senza pensarci. Sentivo il bisogno di fargli sapere quanto mi avesse fatto bene, anche in una giornata triste come quella, semplicemente parlare con lui e averlo accanto. Non avevamo di certo trovato una soluzione al mio problema, ma era come se un tenue raggio di sole fosse spuntato tra le nuvole.
Lui rimase a fissarmi per un minuto, senza dire nulla, poi si alzò e mi tirò su con sè. Mi baciò la testa con aria divertita. «Per fortuna non è così! Se fossi un Cullen sarei pazzo anch’io e qui serve una mente lucida, ogni tanto. Dammi retta».
Ci avviammo insieme verso la casa dei nonni tenendoci per mano. Appena arrivati Jacob fu subito coinvolto da Emmett in una rapida partitina di riscaldamento con Jazz e Carlisle, che aveva cambiato il proprio turno in ospedale appositamente per l’occasione. Di lì a poco arrivarono anche i miei e ne approfittarono per raccontare della caccia pomeridiana prima che arrivassero orecchie indiscrete, ed Emmett e Rose si lanciarono in una valanga di strane battute che facevano sbellicare Jacob e irritavano la mamma, ma io non li ascoltavo per davvero. 
Me ne stavo seduta sulle scale in silenzio e per quanto cercassi di concentrarmi su altre cose, i miei pensieri tornavano inevitabilmente ad analizzare i fatti della mattina. Mi sembrava di essere un uccellino chiuso dentro una stanza che sbatte di continuo contro la finestra cercando di uscire. L’arrivo di Charlie in compagnia di Seth, che aveva pranzato con lui e Sue, pose fine ai resoconti di caccia e alle risate sguaiate, ma non alle battute di Emmett. In presenza del nonno tendeva a scatenarsi particolarmente e solo le occhiate assassine della mamma, alla millesima battutaccia oscena, riuscivano a contenerlo un po'.
Cominciò la partita ed io cercai di seguirla. Papà, ovviamente bandito dal gioco per le sue capacità extra (a Charlie raccontava di detestare il poker),  gironzolava intorno a me come un pianeta attratto dalla forza di gravità, lanciandomi occhiate preoccupate. Faceva sempre così quando ero presa da pensieri tristi, non riusciva a non starmi vicino: voleva farmi sapere che lui c’era, se ne avessi avuto bisogno, senza farmi sentire oppressa. A un tratto fui distratta da Charlie.

«Ness, tesoro» disse all’improvviso, approfittando di una breve sosta nel gioco mentre Emmett e Jacob erano impegnati a litigare per le rispettive carte e un presunto tentativo di imbroglio «ti senti bene? Sei così pallida e silenziosa». Mi lanciò un lungo sguardo indagatore.
Gli rivolsi un sorriso che speravo non apparisse troppo forzato. «Sto bene, sì… Tutto bene». 
Non se la bevve affatto e continuò a scrutarmi, la fronte aggrottata e gli occhi attenti. Lo scambio di battute distolse Emmett e Jacob dalla loro discussione o forse avevano trovato un compromesso, chissà. Sul volto dello zio si dipinse un sorriso assassino che prometteva guai. 
«Andiamo, Raggio di sole, cos’è quella faccia? Che succede, ci sono lacrime su in paradiso?» interloquì con voce vellutata e ironica, trasudando malizia da tutti i pori della sua pelle liscia e perfetta.

Gli rivolsi lo sguardo più cattivo del mio repertorio. «Vai all’inferno» sibilai.
Charlie assunse un’aria scioccata per la mia risposta velenosa. Senza aggiungere altro mi alzai e salii le scale a passo di marcia, inseguita dalle risate di zio Emmett. Piombai in cucina come un fulmine. Esme, che stava preparando degli spuntini tutti per Charlie, mi lanciò un’occhiata guardinga ed io mi sforzai di sorriderle, incrociando le braccia con gesto nervoso. 
Restai lì un istante a guardarla armeggiare con piatti, sandwich e confezioni di noccioline, poi uscii di colpo sulla terrazza assecondando l’impulso asociale del momento. Preferivo stare da sola. Anche i dolci sorrisi della nonna riuscivano ad irritarmi perché dietro vi leggevo il suo dispiacere per me. 
Tirava una brezza piuttosto fredda ma grazie alla mia temperatura più elevata della media potevo resistere un po’ prima di dover indossare una giacca. L’aria fresca riuscì a schiarirmi le idee e pian piano la rabbia improvvisa che l’odiosa battuta di Emmett aveva scatenato si dissolse. In compenso tornò la familiare sensazione di delusione che mi accompagnava da ore. Ero sola da un paio di minuti, quando mi accorsi che qualcuno mi aveva seguita.

«Disturbo?» chiese una voce dolce. Era zia Rose. Non usava quel tono con nessun altro.
Mi girai e le sorrisi. Un sorriso sincero, questa volta. «No, vieni. Non ho intenzione di suicidarmi, papà dovrebbe saperlo» dissi con tono ironico. Chissà se una caduta da lassù avrebbe ucciso una mezza vampira. Magari avrebbe fatto soltanto un gran male e basta. Meglio non provare.
Si appoggiò alla ringhiera, accanto a me. «Non è per questo che sono qui. Mi chiedevo solo se magari ti andava di parlare». Esitò un istante. «Edward e Bella mi hanno detto cos’è successo».
Fantastico. «Discrezione è il loro secondo nome» commentai.
La zia fece un sorriso imbarazzato. «No, non te la prendere. Sono preoccupati per te. E anch’io». Breve pausa. «Lo è anche Emmett, per quanto non sia in grado di dimostrarlo. Siamo tutti preoccupati per te».
Sospirai, osservando il fiume Sol Duc luccicare leggermente nel buio. «Non c’è molto di cui parlare, ormai. Credo che sia finita».
«Cosa?»
«Quello che c’era con Alex, qualunque cosa fosse».
«Tesoro, mi dipiace» mormorò la zia dopo un breve silenzio.
Scrollai le spalle. «Non fa niente. Quello che non sopporto è che sia riuscito a farmi
questo». Sentii un moto di rabbia invadermi per un istante. No, non lo sopportavo. Era la cosa peggiore. Molto peggio che vederlo ridere e parlare con la stupida oca mangia uomini.
«Cosa ti ha fatto?»
«È riuscito a ferirmi! Mi ha ridotta così!» sbottai. «Come una di quelle insulse ragazzine che cambiano completamente quando incontrano il primo tizio che gli piace e poi finiscono in pezzi da un giorno all’altro solo perché quel tizio non le considera più!». Dirle a voce alta, quelle cose, le fece sembrare ancora peggio, come già era successo con Jas.
«Ma tu non sei un’insulsa ragazzina» ribattè Rosalie, perplessa.
«Ah, no?» la provocai. Mi voltai di scatto, appoggiandomi alla ringhiera di schiena, e incrociai le braccia nervosamente. «Due giorni fa avresti mai pensato che io potessi saltare la scuola il giorno di un test importante con uno appena conosciuto? Non dovevo andare in macchina con lui, mi era stato proibito, e invece l'ho fatto». 
La guardai con aria di sfida. Scappare da scuola in auto con un ragazzo non era forse una gran cosa, Holly l’aveva fatto chissà quante volte. Ma non io. Renesmee Cullen non faceva mai niente del genere. Era ubbidiente, posata e assennata e metteva la scuola e lo studio prima di molte altre cose. A pensarci bene, Miss Perfettina era davvero un soprannome adeguato, per quanto lo odiassi. Sapevo di possedere una certa vena ribelle, ma l’avevo sempre messa a tacere e controllata nel continuo timore di mostrare troppo di me stessa, di espormi eccessivamente e compromettere il mio segreto.

Rosalie esitava. «Be’, no, non l’avrei mai detto, ma a volte si cambia. È il prezzo di crescere».
Sul serio? Crescere significava perdere la testa, allora? Buono a sapersi. «Ma non così! Sono giorni che mi comporto in modo assurdo per colpa sua. Nel giro di una settimana è riuscito a sconvolgere la mia vita. Ho sempre pensato che in generale i ragazzi  non fossero molto interessanti, a parte poche eccezioni, e non mi è mai importato un accidenti di quanto fossero carini. Invece stamattina ero buttata sul pavimento del bagno della scuola a piangere per uno di loro». Sentivo la mia voce incrinarsi pericolosamente. Zia Rose si avvicinò mettendomi una mano sulla spalla. «Mi ha illusa» continuai dopo aver preso fiato, cercando di non scoppiare a piangere. Avevo già dato, almeno per quella giornata. «Ha costruito un castello di sabbia e poi l’ha distrutto di colpo, adesso mi ignora e… ed io vorrei andare avanti, vorrei superarla come mi sembra che abbia fatto lui, ma non ci riesco». Tirai un altro respiro profondo per calmarmi un po' e feci una breve pausa. Rosalie rimase in silenzio a guardarmi, senza parlare. «Eppure» continuai a bassa voce «se domani all’improvviso tornasse com’era prima e volesse ancora stare con me, senza nemmeno chiedermi scusa o darmi una motivazione per il suo comportamento, non mi importerebbe niente di quanto oggi mi abbia fatto stare male né di quanto potrebbe essere complicato e pericoloso stare con lui». Abbassai gli occhi, imbarazzata.
La zia mi osservava con attenzione, la fronte aggrottata. «Forse devi solo accettare l’idea che Alex ti piaccia più di quanto pensassi» disse lentamente, come se temesse che scoppiassi in lacrime da un momento all’altro. 
All'improvviso sentii una fitta acuta e dolorosa alla tempia destra. Stava per scoppiarmi un bel mal di testa. Ero stanca, triste, arrabbiata e non riuscivo a spiegarmi come avrei voluto. Rosalie era il membro della famiglia con cui mi confidavo di più, dopo Jacob e i miei genitori, ma in quel momento non mi era di alcun aiuto. Volevo solo mettermi a letto, anche se erano le sette di sera, e dormire per una settimana intera. 
«Me ne vado a casa» dissi all’improvviso, e la mia voce suonò incredibilmente stanca. «Saluta Charlie da parte mia, per favore, e digli che ho un sacco di compiti da fare». Be’, questo era vero. Se non mi sbrigavo a smettere di rimuginare e a combinare qualcosa, l’indomani avrei avuto problemi a scuola.
Rose annuì. «D’accordo, ma… tu stai bene?»
Non sapevo cosa rispondere. «Sono solo stanca. Forse è meglio dormirci su. Magari domani mi sarò schiarita le idee».

«Certo» mormorò la zia. Dalla piega della sua bocca capii che era ansiosa, ma non aggiunse altro.
La abbracciai, baciandola su una guancia di pietra. «Grazie. Ti voglio bene».
«Anch’io. Buonanotte, piccola».
Andai a prendere la giacca e uscii velocemente di casa senza essere fermata da nessuno, per fortuna. Mi avviai verso il cottage a passo svelto. All’improvviso sentivo un gran freddo e mi strinsi la giacca addosso, sforzandomi almeno per un po’ di dimenticare le ultime ore, di pensare ad altro, a qualcosa che non fosse lui. Ma mi stavo rendendo conto che a volte più ci si sforza di ottenere qualcosa, più ci si allontana da essa. Arrivata a casa cercai di studiare sul serio, ma non avevo la concentrazione sufficiente. Rinunciai poco dopo e quando i miei rientrarono ero già a letto. 
A un tratto sentii squillare il telefono. Papà rispose e poi entrò nella mia stanza. 
«Tesoro, è Jas» disse a bassa voce. Non mi presi neanche la briga di rispondere, era fatica sprecata. Lo sentii sospirare mentre usciva e si chiudeva la porta alle spalle. «Jas? Renesmee non si sente molto bene, è a letto. Parlerete domani a scuola. Nessun disturbo. Buonanotte».

I suoi passi leggeri si allontanarono lungo il corridoio. Mi tirai le coperte fin sopra la testa, chiusi gli occhi e mi lasciai avvolgere dalla tanto desiderata incoscienza.









Note.
1. Qui la canzone. Non è semplicemente meravigliosa? <3
2. Link.
3. Link.









Spazio autrice.
Okay, è un capitolo sterminato, lo so. Ho cercato di dividerlo in due parti ma mi sembrava di spezzare un'unità narrativa. Meglio un capitolo un po' più lungo del solito che due capitoli brevi ma con un'interruzione che distrugge la continuità, non vi pare? Comunque spero che la divisione in paragrafi renda la lettura abbastanza scorrevole. Come al solito, vi invito a farmi sapere cosa ne pensate. Critiche costruttive e consigli sono sempre ben accetti. Grazie! :-)

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Capitolo 10
*** Torn ***


Capitolo 10
Torn



Well you couldn't be the man I adored
you don't seem to know or seem to care what your heart is for
I don't know him anymore
there's nothing where he use to lie
my conversation has run dry
that's going on, nothing's fine
I'm torn.

Torn, Natalie Imbruglia¹


L'esperienza non è che la somma delle nostre delusioni.

HENRI FRÉDÉRIC AMIEL, Diario intimo




Il giorno seguente mi svegliai prima del solito e rimasi per un bel po’ distesa nel letto, a riflettere. Dovevo pensare ad una strategia per affrontare la nuova giornata. La mia parte razionale mi spingeva ad essere mentalmente pronta ad affrontare ogni situazione, compresa la possibilità di vedere Alex e Caroline che si sbaciucchiavano nei corridoi della scuola. Conoscevo quella strega abbastanza bene da sapere che quando ci si metteva era in grado di stendere il soggetto maschile prescelto nel giro di poche ore, e nonostante le sue dichiarazioni di odio nei confronti delle reginette bionde e starnazzanti, Alex aveva già dimostrato di non sapersi comportare di conseguenza. La mia parte irrazionale, invece, mi urlava di non presentarmi mai più a scuola proprio per non dover affrontare situazioni come quella. 
Tuttavia alla fine fu la parte razionale a vincere, pur con qualche difficoltà: progettai un piano mentre mi alzavo, facevo la doccia, mi vestivo, mi truccavo, e quando uscii diretta in cucina per la colazione avevo preso una decisione.

«Eccoti qui!» esclamò la mamma con aria festosa. «Buongiorno, tesoro! Dormito bene?»
Non so come, intuii che dovevano aver parlato di me fino a un attimo prima, ma feci finta di nulla. «Non c’è male» risposi mentre sedevo al tavolo osservando la montagna di cibo che i miei avevano preparato per colazione. Doveva essere un tentativo di tirarmi su di morale, ma dubitavo fortemente che una montagna di dolcetti al cioccolato potesse curare una delusione di quel genere. «Wow… Non mi ero accorta di essermi svegliata in un hotel a cinque stelle, stamattina».
«Tesoro, non so se è una buona idea» cominciò papà.
«Che cosa?» domandò subito Bella, l’aria un po’ preoccupata. Si liberò del grembiule che indossava e lo lanciò sul bancone da lavoro.
Feci un profondo respiro e mi preparai a dare la notizia. «Ho deciso che non mi importa più niente di questa storia» annunciai.
«Quale storia?»
«"Il bastardo" e tutto quello che ha combinato».
La mamma era sempre più confusa. Ultimamente lo era spesso, quando parlava con me. «Il bastardo… ?»
«È Alex» spiegò papà con un sorrisino a stento trattenuto.
«L’idea è di Jas, ma io approvo» aggiunsi prendendo un biscotto al cioccolato dalla pila alta un metro che c’era sulla tavola.
«Jas pensa che non debba importarti più niente di Alex?» ripetè la mamma.
«No, la cosa del "bastardo"» intervenne nuovamente papà.
«Ah» fece lei, dubbiosa. Mi fissò in silenzio per un attimo. «Sul serio non te ne importa?»
«Certo» risposi scrollando le spalle.
Bella sospirò, scuotendo la tesa. «Tesoro… Tu non le sai dire, le bugie. Hai preso da me».
Mi irrigidii sulla sedia nel giro di un secondo. «Non è una bugia» dissi a denti stretti.
«Non puoi cancellare con un colpo di spugna tutto quello che è successo» intervenne papà, la voce ancora più vellutata del solito, come se stesse cercando di indorare la pillola. «Lo vorresti, ma non è così che funziona».

«Perché no?» chiesi con aria di sfida. 
Non mi ero aspettata quella reazione, da loro. Dover convincere anche i miei non faceva parte del piano e senza il loro sostegno non ce l’avrei fatta.
«Perché le cose sono cambiate, tu sei cambiata, e non si può tornare indietro».
«Ma io non sono cambiata».
«Renesmee, quello che è successo con Alex è stato un passo importante». 

«Andiamo, era solo un bacio!» protestai alzando gli occhi al cielo.
«No, era il tuo primo bacio» ribattè mio padre con decisione. «Non dirmi che per te non vale niente perchè non è così. Minimizzarlo non ti aiuterà a stare meglio».
Sbuffai, infastidita. Non mi stavano rendendo le cose più facili, affatto. «Be', ma per lui è come se non fosse successo un bel niente, quindi credo che mi toccherà adeguarmi». 
Cosa si aspettavano che facessi? Che gli corressi dietro scongiurandolo di mettersi con me? Ridicolo.
«Dagli un po' di tempo» disse la mamma con convinzione. «Alex può anche sembrare spavaldo e sicuro di sè, ma non è detto che lo sia davvero. Ha avuto parecchi problemi negli ultimi due anni o sbaglio? Magari non sei la sola ad essere stata scombussolata da quello che è successo».
Maledizione. Come al solito, il tatto di papà veniva meno sempre nei momenti meno opportuni. Aveva riferito alla mamma tutto quello che Alex mi aveva raccontato, parola per parola? Evidentemente sì. 
«Lo so che sta soffrendo, ha perso i suoi genitori! Lo capisco, ma so anche che non gli importa molto di me o ieri non si sarebbe comportato in quel modo. Forse era solo… in cerca di una distrazione».
«Ma la tua sensazione non è stata questa quando avete fatto amicizia, quando eravate insieme a La Push, quando ti ha baciata» proseguì la mamma, imperterrita.
«Accidenti, ma c’è qualcosa che non hai tirato fuori?» sbottai all’indirizzo di Edward, esasperata.
«Non cambiare argomento» ribattè lei «vuoi sapere come la penso, come la pensiamo
«No, grazie!»
Mi ignorò e continuò. «È evidente che questa storia che ad Alex non importa niente di te e a te non importa niente di lui è solo una scusa che hai messo in piedi perché non vuoi affrontare la situazione. E lo stesso vale per la storia "io sono una mezza vampira, lui è un umano e non possiamo stare insieme". Hai paura di soffrire, di mettere a rischio le nostre esistenze, e ti capiamo, è normale, ma quando si mettono in gioco i propri sentimenti bisogna sempre essere pronti anche a perdere. E se non vuoi correre questo rischio, ne corri un altro ancora più grande: quello di rinunciare a troppe cose belle». Fece un piccolo sospiro per prendere fiato e sorrise. «Insomma, stare con un ragazzo che ti piace è meraviglioso e noi vogliamo che tu sia libera e serena come le altre adolescenti. Tutto qui».
Scese il silenzio al termine della filippica materna. «Hai finito?» domandai con aria sostenuta, giusto per accertarmene.
«Sì, tranquilla». Incrociò le braccia e mi fissò, forse preparandosi a una sfuriata.
Invece rimasi perfettamente calma. O almeno ci provai. «Bene. Vi ringrazio per l’interessamento, ma temo sia la mia opinione a contare in questa situazione, non la vostra».
«Be', sei tu che decidi» convenne papà.
«Mi fa piacere che tu l'abbia notato». Lo fulminai con lo sguardo prima di proseguire. «Allora sarete d’accordo anche sul fatto che se decido di piantarla la cosa non vi riguarda, e niente di ciò che direte potrà farmi cambiare idea. La "parentesi Alex" finisce qui». Feci una breve pausa, guardandoli seriamente negli occhi e lasciando che il messaggio penetrasse. «E anche la seduta psicoanalitica collettiva finisce qui» aggiunsi in tono secco.
I miei si scambiarono un’occhiata. «Non siamo d’accordo» disse la mamma.
Oh, mio Dio! Avrei voluto prendere quello stupido piatto di biscotti e lanciarlo contro il muro. «Be’, me ne farò una ragione» risposi a denti stretti, cercando di controllarmi. 
Afferrai il bicchiere di succo d’arancia e lo vuotai tutto d’un fiato, tanto per fare qualcosa. Il vetro tintinnò contro il legno quando lo poggiai nuovamente sul tavolo con troppa forza. Edward e Bella erano lì, fermi come statue, gli sguardi puntati in direzioni diverse. Sospettai che volessero solo evitare di guardare me
«Si sta facendo tardi» mormorai.
«Certo. Ti aspetto fuori, fai con calma» disse papà. Prese le chiavi, baciò la mamma sulla bocca e uscì.
Io ero ansiosa di sfuggire agli occhi attenti di Bella e mi alzai subito. Ma lei mi richiamò all'istante. «Non hai mangiato nulla» esclamò.
«Non ho fame» borbottai. 
Lavai velocemente i denti, presi la borsa e stavo per uscire quando la mamma mi intercettò.
«Ehi, tesoro, aspetta!». Mi raggiunse mentre già ero sulla porta, pronta a scappare. «Sei arrabbiata?»
Alzai gli occhi al cielo, ma la sua aria preoccupata mi fece sentire in colpa. Forse avevo esagerato nell’esprimere con fermezza i miei nuovi propositi. «No» mugugnai. «È solo che voglio dimenticare questa storia e andare avanti».
Bella annuì lentamente. «D’accordo. Se è davvero questo che vuoi, se ne sei assolutamente sicura... noi siamo con te. Sempre».
Mi sforzai di sorriderle. «Okay. Grazie».
«Buona giornata, tesoro. Ci vediamo stasera». Sembrava sollevata mentre si chinava per baciarmi i capelli.
«Stasera?» ripetei, sorpresa.
La mamma sorrise, divertita. «Hai proprio la testa da un’altra parte, eh? Oggi verranno a trovarci Peter e Charlotte. Jacob viene a prenderti a scuola e ti porta a casa sua. Comunque non credo che si tratterranno oltre l’ora di cena».
Mmm. La prospettiva di trascorrere l’intero pomeriggio con il mio licantropo mi risollevava decisamente il morale. «A stasera, allora. Ciao, mamma». La salutai con un rapido bacio e corsi fuori.
Il viaggio verso la scuola fu silenzioso. Papà aveva messo un disco di Debussy, probabilmente perché sapeva che Clair de lune aveva un effetto calmante su di me: quando ero piccola lui e la mamma lo mettevano sempre per farmi addormentare. Mi appoggiai allo schienale, mettendomi comodca, aprii un po’ il finestrino per sentire l’aria fresca sul viso, chiusi gli occhi e cercai di non pensare a niente. L’arrivo a scuola fu quasi traumatico: il cortile era affollato e rumoroso come al solito, ma per fortuna Alex non era in vista. A un tratto ricordai la mattina precedente, quando avevo chiamato Alex da lontano ma lui… A quel punto potevo pensare solo che avesse finto di non sentirmi. Mi accorsi che papà aveva spento il motore e mi fissava.
«È dura, vero?» chiese a bassa voce. «Far finta di niente. Far finta che non ti importi». Sospirai, tornando a guardare fuori dal finestrino, e non risposi. «Non voglio che tu soffra» aggiunse. Il suo tono malinconico fu come un rimprovero per me: volevo cercare di stare bene e invece non solo stavo avendo scarso successo, ma facevo star male anche i miei. 
Complimenti, Renesmee. 
«No, non pensare a noi. Pensa a te stessa».
«Che alternative ho?» sbottai con voce amara. «Lui non vuole più stare con me, è evidente. Cosa dovrei fare, deprimermi per questo? Io non sono così. Io voglio essere forte e non voglio dargli la soddisfazione di avermi ferita tanto. Forse se faccio finta che non me ne importi niente, prima o poi sarà davvero così».
Papà esitò prima di rispondere. «A volte capita di far soffrire le persone a cui si tiene anche se non si vorrebbe. A volte fare la scelta giusta è difficile quando sono coinvolti i nostri sentimenti e quelli di qualcuno che amiamo». All’improvviso, distolse lo sguardo da me e lo puntò fuori dal parabrezza, sulla vegetazione fradicia di pioggia che circondava la scuola. Lo fissai, curiosa, ma i suoi occhi erano impenetrabili. Chissà se parlava anche di se stesso. «Sono sicuro che Alex non voleva ferirti» aggiunse dopo un attimo di silenzio.
«Non lo so» ammisi, a disagio. «Secondo me quando si tiene sul serio a qualcuno è impossibile fargli del male, volontariamente o involontariamente. Ed è impossibile non sapere che decisione prendere. Io saprei cosa fare se lui…». Non finii la frase e tacqui, imbarazzata.
«Alex è un ragazzino» sottolineò Edward con un sorriso.
«Perché, io no?»
Ridacchiò, divertito. «Amore, tu leggevi Tennyson a quattro settimane di vita. Tu sei speciale».
«Anche Alex è speciale» borbottai.
«Sai cosa voglio dire. Dagli tempo, Renesmee».
Dio, tutti non facevano altro che ripetermi la stessa cosa dal giorno prima, anche Jacob. Come se Alex fosse un elettrodomestico in prova o qualcosa del genere. Edward rise ancora ascoltando i miei pensieri.
«Vado» dissi. Aprii la portiera, poi mi venne in mente una cosa. «Ah, saluta Peter e Charlotte per me. Digli che mi dispiace di non poterlo fare di persona e che questa stupida idea di nascondermi non è stata mia». Gli lanciai un’occhiataccia eloquente.
Lui non smetteva di sorridere anche se aveva l'aria leggermente colpevole. «Lo farò. Buona giornata, piccola». Mi accarezzò il viso con una mano, poi la ritrasse per farmi scendere.



****


Quella mattina fui più fortunata della precedente e vidi l’oggetto delle mie ossessioni solo due volte. La prima durante la solita assemblea mensile. Era seduto accanto a Caroline e quando li notai ebbi l’impressione che il cuore mi si fermasse, in barba a tutti i miei buoni propositi. Lei chiacchierava a tutto spiano (forse per arrivare a sedurlo intendeva prima stordirlo, chissà) e a intervalli di circa trenta secondi la sua risata simile a un nitrito giungeva fino a me. 
Mi imposi di non guardarli, ma ogni tanto gettavo una rapidissima occhiata in quella direzione per accertarmi che non avessero cominciato a baciarsi e notai che lui non guardava Caroline né sembrava troppo interessato ad ascoltarla: i suoi occhi vagavano per l’aula magna, come cercando qualcosa o qualcuno, inquieti e stranamente un po’ ansiosi; poi si voltava un istante verso la sua compagna, sorrideva e le diceva qualcosa sotto voce, e lei annuiva tutta accalorata e ricominciava a blaterare, mentre Alex tornava a girare gli occhi tutt’intorno, di nuovo distratto. Chissà che cavolo stavano combinando, quei due. Io mi ero sistemata in ultima fila, volutamente nascosta tra le mie amiche e un rumoroso gruppetto di cheerleaders chiacchierine, e mi parve che Alex non guardasse mai verso di me. Perfetto.
La seconda volta che lo vidi fu in mensa, durante la pausa. Pranzò con i suoi amici e questa volta Caroline si tenne alla larga, ma ogni tanto la sorprendevo a lanciargli un’occhiata di sbieco. Sembrava infastiditca, come se le cose non stessero andando proprio secondo i suoi piani, questa volta. L’arrivo di Alex stava alterando gli equilibri della Forks High, nonché quelli della mia esistenza, ma lui sembrava non accorgersene affatto. O forse non gli interessava.
Alex guardava ovunque senza soffermarsi su niente. Parlava con tutti, ma era sempre distratto e lontano. Era seduto lì, ma la sua mente vagava altrove. Si estraniava dalla realtà, ma era bravo a fingere che non fosse così. Era sempre circondato da persone, ma si comportava come se fosse solo. Da quando si era aperto con me, sulla spiaggia, capivo i motivi di quella fuga. Capivo il suo dolore, il suo desiderio di cose e luoghi lontani, la tentazione di tornare con la mente a un passato felice e sereno. E per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non pensare a lui. Alex restava la mia ossessione, nel bene e nel male.
E le mie amiche lo capivano perfettamente. Quella mattina, quando avevo annunciato che chiudevo la "parentesi Alex" e che non volevo più parlarne, dopo un attimo di sorpresa si erano dichiarate tutte d’accordo e avevano giurato e spergiurato di non nominarlo mai più. Danielle mi aveva guardata con aria perplessa, ma non aveva detto nulla, e Jas non aveva fatto che parlare a raffica di un sacco di argomenti diversi per tutto il tempo, anche se ogni tanto la maschera allegra si rompeva e mi lanciava un’occhiata triste. 
Io ci provavo davvero. A volte riuscivo a distrarmi talmente da scordarmi di Alex per un po’, ma solo un pochino: bastava un niente che si collegasse a lui ed ecco che ricominciavo a rimuginare. 
Fu una mattina faticosa. Fingere che andasse tutto bene quando avrei voluto solo ficcare la testa sotto la sabbia era molto più impegnativo di quanto credessi. L’unica nota positiva fu che l’ultima campanella suonò con un quarto d’ora di anticipo a causa di un falso allarme incendio. La scolaresca si riversò in cortile, felice di avere quindici minuti da passare senza fare nulla, e il mio gruppetto non faceva eccezione. 
Mentre chiacchieravamo del più e del meno e guardavamo Tom e Scott che dopo aver sottratto a Maggie il suo ipod si divertivano a lanciarselo a vicenda, mentre la povera vittima dello scherzo strillava infuriata correndo dall’uno all’altro nel tentativo di riprenderselo, riuscii a distrarmi sul serio per un po’. 
Quando vidi arrivare la macchina di Jacob saltai impaziente giù dallo schienale della panchina dove mi ero appollaiata e salutai velocemente gli altri. Jas mi diede un buffetto sulla testa e sorrise.
«Chiamami, stasera. Mi raccomando» disse con tono quasi minaccioso.
Ricambiai il suo sorrisino. «Agli ordini! Ciao, J».
Il mio amico era sceso dall’auto e mi aspettava appoggiato allo sportello. Il solo vederlo mi diede una scarica di energia, quasi corsi verso di lui e lo abbracciai con slancio. Lui mi strinse affettuosamente  tra le braccia, il mio rifugio sicuro dal mondo esterno. 
«Ciao, Raggio di Sole» sussurrò tra i miei capelli.
Girai la testa con un sospiro soddisfatto, poggiando la tempia sul suo petto, e lo vidi: Alex, seduto sul bagagliaio della sua Audi luccicante, appoggiato su un gomito, una sigaretta accesa tra le labbra, che mi fissava. Avrei potuto semplicemente ignorarlo e voltargli le spalle, se davvero avessi voluto chiudere quella storia. Sarebbe stato come sbattergli la porta in faccia. E invece qualcosa nel suo viso mi colpì, costringendomi ad osservarlo meglio. Aveva la fronte leggermente contratta e gli occhi socchiusi, e l'espressione era così stranamente fredda che ne fui sconcertata. E ferita, soprattutto. Non mi aveva mai guardato con quella gelida indifferenza. Sentii gli occhi che bruciavano e dovetti sforzarmi di mantenere il controllo.
«Ehm… sembra che abbiamo un pubblico» disse Jake all’improvviso, la bocca accostata al mio orecchio.
Per un attimo pensai che avesse visto Alex, ma quando seguii la direzione del suo sguardo capii che non si riferiva a lui. Stava guardando il mio gruppo dietro di noi, a diversi metri di distanza: Tom e Paul lo fissavano con una buffa mescolanza di astio e ammirazione, Danielle e Maggie avevano gli occhi sgranati e le guance arrossate, e Holly, lo sguardo sconvolto puntato su Jacob, sembrava la caricatura di una con la bava alla bocca. Mi scappò un sorriso divertito misto ad imbarazzo. 
Quando il mio migliore amico era nelle vicinanze le loro facce erano più o meno sempre quelle. Jas era la più abituata a Jacob, tra loro. Durante gli innumerevoli pomeriggi che passava a casa mia lo aveva incontrato tantissime volte e qualche tempo prima gli aveva fatto una corte spietata. Era stato come assistere a un documentario intitolato "Cento e uno modi per conquistare un ragazzo". Solo che nessuna delle sue tattiche era andata in porto e dopo un po’ si era rassegnata, anche perché nel frattempo Tom aveva cominciato a tormentarla perché uscisse con lui. Per quanto la mia amica fosse carina, brillante e disinvolta, Jake non si sarebbe mai messo con una tanto più piccola di lui, ed era rimasto completamente indifferente alle magliette scollate, alle gonne corte, agli sguardi e ai sorrisi significativi di Jas. Sempre gentile e simpatico, ma indifferente. Per fortuna lei non c’era rimasta troppo male e l'aveva dimenticato in fretta, grazie a Tom.
Quanto a me, ero rimasta più o meno attonita per tutta la fase del corteggiamento, poi avevo tirato un sospiro di sollievo quando finalmente il pericolo era scomparso all’orizzonte. Non che volessi separali, ma non ce li vedevo proprio insieme.
«Okay, credo sia meglio andare prima che Holly ti salti addosso» mugugnai.
Jacob sembrava estremamente divertito. «Sali».
Mentre lasciavamo il parcheggio evitai accuratamente di guardare verso Alex e forse lui fece lo stesso.
«Allora… Com’è stata la giornata?» cominciò Jacob. Aveva un tono tranquillo, ma anche piuttosto cauto.
«Passo» risposi in fretta.
«Dai, dimmi qualcosa. Sto morendo di curiosità».
«Be’, se proprio ci tieni è stata schifosa da far paura».
«Vuoi dire che il nuovo arrivo della Forks High continua a fare l’idiota?» insistè. Cercava di mantenerla sullo scherzo, ma avvertivo una leggera tensione.
«Eccome» borbottai. «Fare l’idiota è la sua specialità».
Il suo sguardo si indurì. «Ti ha trattata male?» indagò.
Oddio, ci mancava solo questa! Tra Jacob e zio Emmett, Alex rischiava seriamente di non arrivare ai diciassette anni. «No!» esclamai, allarmata. «Mi ignora, tutto qui. Mi ignora e se ne sta appiccicato a quella squallida di Caroline Johnson. Il che forse è anche peggio» aggiunsi con voce mesta. «Se almeno mi parlasse capirei cosa gli passa per la testa. Così è come tirare a indovinare». Ripensai al suo sguardo di poco prima: poteva significare tutto e niente. «Brancolo nel buio, Jake, e la cosa non mi piace. Io voglio certezze».
Ovviamente eravamo finiti subito a parlare di lui, e tanti saluti ai miei fermi propositi di voltare pagina. Fingere con il mio migliore amico era impossibile.
«Forse è il caso che gli alieni lo rapiscano di nuovo e poi lo rimandino qui. Magari torna com’era prima».
Non riuscii a trattenere una risatina leggermente isterica, poi tirai un respiro profondo. «Sai, in teoria stamattina avevo preso una decisione».
«Bersagliarlo con uova marce?»
«No. Avevo deciso di non parlarne più e di dimenticarlo».
«Sì, tua madre mi ha informato» rispose con aria tranquilla.
Ma certo! Come avevo potuto dimenticare che i miei genitori e il mio migliore amico se l’intendevano così bene da parlare continuamente di me alle mie spalle?
«Non mi va che voi tre vi passiate informazioni su di me come se foste una squadra di controllo o roba simile» sibilai, infastidita.
«Non cominciare con questa storia. Comunque non è una cattiva idea».
«No?»
Alzò le spalle. «Insomma, stare continuamente a pensarci non ti fa bene, o sbaglio?» 
Non risposi, ma non sbagliava. Quella precedente era stata una delle giornate più tristi della mia breve esistenza ed io non ero affatto abituata ad affrontare quegli stati d'animo. Le mie giornate erano sempre state chiacchiere, affetto, scherzi e risate, mai una delusione o un dispiacere. Mi rendevo conto di essere una privilegiata, ma non mi andava che le cose cambiassero. Jacob interpretò correttamente il mio silenzio. 
«Smettila di tormentarti, non ha senso. È Alex ad avere qualche problema, non tu, quindi lascia che sia lui a risolverlo. E quando si sarà chiarito le idee, forse tornerà da te e ti chiederà scusa».
Riflettei un istante su quello che aveva detto e lo trovai giusto. «Non la reggi più, questa storia, eh?» lo presi in giro. 
Be’, se si fosse stufato l’avrei capito. Io e Jas ci mandavamo reciprocamente al diavolo parecchie volte al giorno, forse anche la pazienza di Jacob aveva un limite, anche se fino ad allora non l’avevo mai visto.
Sorrise, ma quando parlò la sua voce era seria e intensa. «No, è che non sopporto di vederti star male».
Il mio Jacob… Non potevo credere di essere così fortunata da avere un amico del genere. «Cambiamo argomento, allora. La tua giornata com’è stata?»
Fece una leggera smorfia. «Stamattina presto ho lavorato un po’, poi sono stato di ronda insieme a Tommy e abbiamo incrociato Paul e Jared che facevano un giro di controllo. Paul ha attaccato briga con Tommy per una sciocchezza e hanno cominciato a… be’, puoi immaginartelo».
Certo che potevo. Qualche volta mi era capitato di assistere a scene del genere prima che Jacob mi trascinasse via, iperprotettivo come al solito: un paio di enormi lupi che si azzuffano in mezzo ai boschi. Paul e Tommy erano i protagonisti per eccellenza di quegli episodi.
«Ancora?» mormorai. «Si sono fatti male?»
Jacob ridacchiò. «No, figurati. Qualche graffio, ma ormai sarà già andato via. Si sono calmati subito, è solo che Paul è sempre troppo su di giri e Tommy pensa ancora di essere diventato una specie di supereroe e non è facile fargli abbassare la cresta».
«Immagino che sia stato così per tutti, all’inizio».
«Certo, certo. È una fase, passerà. Mi auguro che passi in fretta, però, o prima o poi quei due si staccheranno la testa a vicenda».
«Sam farà una delle sue strigliate a Paul appena lo verrà a sapere» dissi.
«Ci puoi giurare. Loro due scherzano, è vero, ma per Sam i rapporti tra i due branchi sono fondamentali».
«In teoria dovrebbero esserlo anche per te. Sei o non sei l’altro alfa di La Push?» lo provocai sorridendo.
«Mi piace pensare di essere un alfa un po’ fuori dal comune» rispose, divertito. «Per fortuna c’è Sam che fa la parte dell’adulto».
Sapevo che stava solo scherzando: quando si trattava del suo branco, Jacob diventava molto più protettivo e maturo di quanto sembrasse. Guardai la strada immersa nei boschi che stavamo percorrendo. 
«A parte queste sciocchezze, però, le cose sono molto pacifiche» esclamai all’improvviso. «Insomma, capita spesso che ci ritroviamo tutti insieme, il tuo branco, quello di Sam, i miei, ma non c’è mai nessun problema». A parte Leah che metteva il broncio, ma questo non lo dissi. «È bello».
Il mio amico sorrise guardando davanti a sè. «È vero, ma è praticamente merito tuo».
Mi voltai a guardarlo, sorpresa. «In che senso?»
«Be’, tu sei… adorabile, tutti ti vogliono bene». Esitò, forse cercando le parole più adatte. «È come se tu fossi… la colla che ci tiene insieme».
La colla che li teneva insieme? Cavolo, che responsabilità. Imbarazzata, cercai di spostare la conversazione altrove. «Ehm… Sai, non ho mai capito bene com’è che si sono formati due branchi».
Le sue mani si irrigidirono leggermente sul volante. «È un po' complicato da spiegare» disse dopo un attimo di silenzio. «Ma lo sai già: è successo dopo il matrimonio dei tuoi genitori, quando tua madre aspettava te».
«Lei… stava male, vero?» mormorai, esitando. 
Detestavo pensare a quello. Lo evitavo sempre. E per i miei era la stessa cosa, infatti non ne avevamo mai parlato molto. Potevo capire che non fosse un bel ricordo.
«Sì, è vero. Edward era preoccupato per lei e aveva deciso di trasformarla subito dopo la tua nascita, come poi è stato. Ma se l’avesse morsa e le avesse iniettato il suo veleno avrebbe infranto il patto e questo avrebbe portato a una guerra». Tacque. Sembrava vagamente a disagio, ma non dissi nulla e aspettai che continuasse. «Sam decise che se questo fosse accaduto noi li avremmo attaccati, ma io non volevo. Non ero d’accordo. Insomma, tua madre era la mia migliore amica. Nemmeno gli altri erano felici all’idea di attaccarla, ma sai com’è fatto Sam: per lui il dovere di proteggere la riserva viene prima di tutto. Così ho lasciato il branco e uno alla volta gli altri si sono uniti a me. A quel punto tuo padre mi chiese il permesso di trasformare Bella per salvarla. Hai presente quella storia dell'erede di Ephraim Black, il gene dell'alfa, eccetera eccetera? Io dissi di sì, e quando tutto fu finito Sam dovette riconoscere che ne avevo il diritto e non scoppiò nessuna guerra. Rinnovammo il patto con la tua famiglia, e così eccoci qui».
Si voltò e mi rivolse un sorriso rapido. Io lo ricambiai, riflettendo. «Non deve essere stato un periodo facile per nessuno di voi. Soprattutto per te» osservai. Potevo capire il suo nervosismo, così come capivo la tensione dei miei quando sfioravamo per caso l’argomento.
«No, non lo è stato» mormorò.
«E non vorresti mai che le cose fossero andate diversamente?» insistei, spinta dalla curiosità. Mi sentivo meno in colpa a parlarne con lui piuttosto che con i miei. Dopotutto, il suo coinvolgimento in quella storia era limitato. «Insomma, ieri mi hai detto che pensi di aver sempre seguito il tuo cuore e che non ti penti di nulla: vale anche per questo?»
Lui ci pensò un istante. «Credo di non aver mai seguito il mio cuore come in quei giorni» rispose con tono molto serio. «E se c’è qualcosa che non ho alcun desiderio di cambiare è proprio quello che è successo allora».
Non avevo idea del perché, eppure provavo ancora una volta la familiare sensazione di essermi persa qualcosa, come se avessi saltato una puntata del mio telefilm preferito. «Ma la mamma mi ha sempre detto che tu non volevi fare il capo. Che non ti interessava».
Jacob fece un sospiro lieve. «Nessie, io non ho scelto di essere un alfa. Quando me ne sono andato dal branco di Sam non volevo questo. Quello che volevo era impedire che attaccassero la tua famiglia perché non mi sembrava giusto. E poi avevo intenzione di andarmene un po’ per conto mio». Si interruppe di nuovo per qualche secondo come se stesse riflettendo, e di nuovo io attesi. «Sì, ecco cosa volevo: andare via da qui. Insomma, attraversavo una specie di crisi adolescenziale». Accennò un sorriso ironico e il suo volto si distese mentre lo fissavo con attenzione. «Ma poi sono successe delle cose… cose che non avevo previsto. Seth mi è venuto dietro, e poi Leah, e poi Quil ed Embry, ed io avevo il gene dell’alfa. Prima che me ne rendessi conto avevo il mio branco».
«È successo e basta, quindi» aggiunsi, tirando le somme del suo discorso.
«Fare il capo non è così male, comunque» osservò dopo un istante di silenzio.
«Ci credo» esclamai. «Dare ordini a destra e a manca deve essere forte. In compenso, però, devi tenere a bada Tommy e impedire che Paul lo trasformi nel tappeto di casa sua».
Jake scosse la testa, divertito. «A volte non sai quanto mi piacerebbe essere un giovane licantropo appena trasformato che ha la giustificazione buona per andare fuori di testa».
«Eh, sì, l’anzianità ha anche i suoi svantaggi, immagino» commentai con un sorrisino.
Lui arricciò il naso. «L’anzianità? È vero che sono stato tra i primi a trasformarmi ma non esageriamo».
All’improvviso mi colpì un’idea. «Ehi, adesso che ci penso» cominciai senza riflettere «tra quelli che si sono trasformati prima tu sei l’unico che ancora non ha trovato la sua anima gemella». Accompagnai le due ultime parole tracciando in aria delle virgolette immaginarie con le mani. «Che aspetti a farti venire quest’imprinting?»
Ridevo sotto i baffi e credevo che anche lui la prendesse come uno scherzo. In effetti sorrise, ma sembrava a disagio.
«Be’, lo sai che non è una cosa volontaria».
«Sì, ma forse potresti… dargli una piccola spinta, ecco. Non c’è nessuna ragazza che ti piaccia? Non c’è nessuna con cui vorresti uscire?»
Non era un argomento che affrontavamo spesso. Lui non sembrava mai interessato a nessuna e quindi non c’era mai l’occasione di affrontare la cosa seriamente. In genere, io mi limitavo a prenderlo in giro per la storia di Jas e per le occhiate interessate che gli lanciavano le ragazze della riserva. La sua espressione divenne seria di colpo. 
«No, nessuna».
«Non è possibile!» esclamai, un po’ sconcertata. «Seth mi ha detto che ben due ragazze ti hanno fatto una corte spietata, negli ultimi mesi, e tu le hai ignorate completamente. Perché? Non dico che tu debba per forza avere l’imprinting, so che non succede sempre, ma intanto potresti cominciare a vederti con qualcuna. E chissà, potresti anche innamorarti semplicemente. Leah non ha avuto l’imprinting, ma esce con un sacco di ragazzi diversi».
Rimase in silenzio per un po’, tanto da farmi sospettare che l’avesse presa male. Poi mi lanciò un’occhiata maliziosa. «A quanto pare le ragazze di La Push si danno da fare tanto quanto quelle di Forks» rispose.
Ebbi la netta impressione che stesse sviando le mie domande, ma decisi di non insistere. Forse non gli andava di parlarne e non volevo costringerlo.
«Molto gentile, quest’allusione ad Alex» borbottai in tono acido.
Mi voltai a guardare fuori dal finestrino, riflettendo sulle cose che mi aveva appena detto. Dalle parole di Jacob sembrava proprio che non lo volesse, l’imprinting. Ma perché no? Sembravano tutti così felici: Sam ed Emily, Paul e Rachel, Jared e Kim, persino Quil e Claire erano inseparabili. A vederli sembrava che l’imprinting fosse la cosa migliore che potesse succedere. Allora come mai Jacob sembrava quasi spaventato dall’idea che arrivasse anche per lui? Se fosse successo avrebbe trovato la sua perfetta metà, la persona fatta per lui, capace di renderlo felice sempre…
In quel momento fui colta da un dubbio, un dubbio atroce: se l’imprinting fosse finalmente arrivato, lui mi avrebbe voluta ancora accanto a sé? Sarei stata ancora la sua migliore amica o mi avrebbe sostituito con la prescelta? E se avesse avuto l’imprinting con una bambina, come Quil? Non avrebbe fatto altro che correrle dietro, giocare con lei e farsi tiranneggiare in tutti i modi possibili e immaginabili, proprio come Quil. Ed io? Sapevo quanto bene mi volesse, ma conoscevo anche la potenza del colpo di fulmine dei licantropi: dopo, niente e nessuno avrebbe mai contato più di lei. Compresa me. Ed io avrei perso il mio Jacob. 
Alla sola idea mi sentii mancare il fiato e dovetti sforzarmi di respirare. Jake mi lanciò un’occhiata, ma non parlò. Forse anche lui si era posto quelle stesse domande, ecco il motivo per cui non voleva affrontare l’argomento con me. Non voleva ferirmi. Eppure io ero la sua migliore amica, e lo sarei stata per sempre, anche se un giorno lui si fosse allontanato da me. Avrei trovato il modo di restargli vicino comunque. Se l’imprinting doveva essere parte della sua vita, io non volevo esserne tagliata fuori.
«Mi fai una promessa, Jake?» domandai a bassa voce.
«Tutto quello che vuoi» rispose con semplicità. Mi accorsi che il mio lungo silenzio lo aveva preoccupato un po’.
«Quando arriverà voglio saperlo» mormorai, ancora presa dai miei pensieri.
«Quando arriverà che cosa?»
«L’imprinting. Insomma, non voglio che tu pensi che io potrei non esserne felice per qualche motivo. Ti capirò se dopo che sarà successo avrai meno tempo da passare con me, meno attenzione da dedicarmi. Non importa, voglio solo che tu sia sempre sincero con me».
Mentre parlavo, vidi le sue mani serrare la presa sul volante e il suo colorito diventare più chiaro, il suo sguardo farsi di ghiaccio. Era di nuovo teso e non rispose subito, ed io vidi confermate le mie paure: avevo visto giusto, il problema era quello. Ma lui restava zitto.
«Jacob?» lo chiamai, perplessa.
«D’accordo» disse all’improvviso con tono rigido. «Va bene, te lo prometto, se vuoi. Ma… non devi preoccuparti di questa storia, Renesmee, credimi. Non cambierà mai niente tra noi».
«Se lo dici tu, mi fido». 
Gli sorrisi e l’atmosfera si distese velocemente. Mi girai di nuovo verso il finestrino, ancora riflettendo sulla faccenda e chiedendomi se da quel momento avrei passato le mie giornate nel timore che il paventato evento si verificasse, e mi resi conto di dov’eravamo. «Ehi, mi sa che abbiamo passato casa tua». Ci eravamo distratti un po’ troppo.
Jacob sembrò trattenere a stento una risata, l’aria vagamente colpevole. «Ehm… Lo so».
Lo guardai, sospettosa. «E come mai?»
Sospirò. «Prima che andiamo da me dovrò lasciarti in un posto per un po'. Faccio un giro rapido di ronda e poi voglio organizzarmi con Sam per i turni di domani».
«Ma il tuo turno l’hai fatto stamattina» obiettai.
Teneva lo sguardo fisso sulla strada, per sfuggire ai miei occhi indagatori, ne ero certa. «Devo solo sistemare un paio di cosette. Ci metto poco, giuro».
Uhm. D’accordo. «E comunque dove vorresti…». Prima che potessi finire da domanda, la strada che avevamo imboccato mi fornì la risposta. «Oh, no, Jake».
Non si arrischiò a guardarmi. «Leah non è in casa, è di turno al lavoro oggi. Almeno credo». 
Da un paio d'anni Leah lavorava part time in in negozio di giardinaggio a Forks.
«Che c’entra?» sbottai, infastidita. «Non sono un pacco postale! Già non mi va di dovermi nascondere da due amici di famiglia e di essere spedita di qua e di là! E per giunta devo essere spedita proprio dai Clearwater?»
«Primo: non è colpa mia se i due amici di famiglia sono potenziali assassini. Secondo: Leah non c’è, ti ho detto».
«Non mi interessa! Mi odia e non le fa piacere quando sto a casa sua».
Incrociai le braccia, imbronciata. Ero consapevole di comportarmi come una bambina piccola e capricciosa, ma… be’, erano sempre loro a trattarmi per primi in questo modo, quindi tanto valeva fare sul serio la bambina piccola e capricciosa.
«Non dire sciocchezze, non ti odia».
Sì, come no. La sua risposta era sempre la stessa quando finivamo a discutere di Leah e del suo atteggiamento da odio-il-mondo-intero. La capivo, sapevo cosa aveva passato, ma ero convinta che dovesse pur esserci un motivo particolare per guardarmi in quel modo: come se le avessi fatto un grosso dispetto o a volte con un’irritante aria interrogativa. Non che fosse particolarmente sgarbata con me, ma il suo sguardo da solo era sufficiente a mettermi a disagio. Peccato che a Jake la cosa non importasse granché.
«È il posto più vicino che mi è venuto in mente e Seth è disponibile» continuò. «Gli altri o sono di ronda o se non lo sono chissà che diavolo stanno facendo».
«Ma perché non posso semplicemente stare a casa tua?» chiesi a denti stretti.
«Da me c’è soltanto Billy».
«E allora? Potremmo finire la partita a carte che abbiamo lasciato in sospeso l’altra volta».
Quando ero a casa di Jacob io e il vecchio Billy giocavamo spesso a carte mentre lui mi raccontava vita, morte e miracoli di ogni singolo abitante di La Push. Ogni volta lasciavo casa Black con la testa intasata dai pettegolezzi, ma Billy mi viziava da fare schifo, anche più di tutti gli altri messi insieme. E in ogni caso preferivo di gran lunga una mezz’ora di chiacchiere a tutto spiano alla possibilità che Leah tornasse a casa da un momento all'altro e mi trovasse lì.
La risposta di Jacob fu categorica. «Non ti lascio da sola: c’è una coppia di succhiasangue in giro da queste parti, anche se per te sono amici di famiglia». Il tono con cui pronunciò le ultime parole, a metà fra lo scherno e l’incredulità, mi infastidì ancora di più. «Con Seth sarai al sicuro» aggiunse.
«Ancora con questa storia?» sbottai, esasperata. «Peter e Charlotte mi conoscono benissimo, anche se dovessi incontrarli non mi farebbero mai niente!»
«E vuoi che io mi affidi all’umore di due succhiasangue? Non se ne parla».
Era così deciso che mi vidi costretta a rinunciare, sospirando. «Oddio, sei impossibile. Come i miei» protestai a bassa voce. «E comunque sarei io a dovermi affdare al loro umore, non tu».
«E che differenza fa?» chiese tranquillamente.
Voltai la testa verso l’esterno per nascondere il mio sorriso e non fargli capire che con due semplici parole era riuscito a farsi perdonare. Giocava sempre fin troppo facile con me, grazie alla sua misteriosa capacità di dirmi sempre la cosa giusta. Scese il silenzio; se avessi parlato io per prima mi sarei tradita subito. Ma Jacob poté resistere solo pochi secondi.
«Ehi, sei arrabbiata sul serio?» chiese con voce preoccupata. «Mi farò perdonare, te lo prometto».
«Vedremo» risposi con tono volutamente scettico, come se non potessi pensare di perdonarlo davvero dopo un torto simile, e gli lanciai un’occhiata divertita.
Lui ricambiò il sorriso, sollevato, mentre fermava la macchina davanti al vialetto dei Clearwater. «Ci vediamo tra una mezz’ora. Divertiti» disse con un lampo d’ironia nello sguardo.
«Sarà uno spasso» esclamai, fingendo entusiasmo. Scesi dall’auto, lanciando un’occhiata alla casetta che mi aspettava. Poi guardai significativamente Jacob, la mano ancora sullo sportello. «Mezz’ora» ribadii, categorica.
Non era tanto il fatto di dover stare dai Clearwater a scocciarmi, quanto il fatto di essere spostata da una parte all’altra, scaricata lì come un pacco e poi ripresa. Già non sopportavo l’idea di dovermi nascondere da Peter e Charlotte quando tutta la mia famiglia li avrebbe incontrati: era una delle occasioni in cui la distanza che ci separava mi appariva insuperabile.
«Lo so che non puoi stare senza di me» esclamò Jake con il sorriso furbo simile a un ghigno che sfoggiava quando si faceva beffe di me.
«Sparisci» sbottai fingendomi indispettita. 
Chiusi lo sportello con un tonfo e corsi lungo il vialetto, ascoltando il rumore di un tuono lontano. Si preparava un bel temporale a giudicare dal cielo grigio piombo e dai brontolii che ogni tanto si facevano sentire. Bussai alla porta, ansiosa di avere un tetto sulla testa (sì, persino quello dei Clearwater), mi voltai e vidi Jacob ancora lì ad aspettare che entrassi, come sempre. Chissà, forse temeva che Peter e Charlotte sbucassero fuori da dietro un cespuglio per saltarmi al collo. Gli dedicai una bella linguaccia, certa che avesse ancora quel sorriso sornione, anche se gli alberi circostanti, le folte chiome agitate dal vento, si riflettevano sul parabrezza impedendomi di scorgere il suo viso.
Sentii lo scatto della porta alle mie spalle. Mi voltai e… per poco non mi venne un colpo. 
«Ciao, Leah» esclamai, cercando di conservare un’espressione neutra.
Lei mi fissò un istante, poi mi sorrise. Un sorriso un po' tirato, ma comunque un sorriso. «Ciao. Tutto okay?»
«Sì, certo. Ehm... Credevo che tu fossi al lavoro» buttai lì casualmente.
«Il mio turno è cambiato all'ultimo momento, comincio più tardi».
Si fece da parte per lasciarmi passare. La solita, vecchia Leah. Gentile ed educata quel tanto che era necessario, senza lasciar trapelare quasi mai il suo lato simpatico e divertente che a detta di Jacob esisteva eccome, sepolto sotto una valanga di sarcasmo e occhiatacce, nè quel sorriso luminoso e bellissimo che ricordavo di averle visto, qualche volta.
Mentre varcavo la soglia con la strana sensazione che fosse meglio tornare indietro, sentii l'auto di Jacob che ripartiva. Se la dava a gambe, ovvio. Se fosse rimasto un secondo di più, altro che una linguaccia... gli avrei lanciato una scarpa.







Note.

1. Qui la canzone.









Spazio autrice.

E allora, che ne pensate di questo capitolo dieci? Non posso credere di essere già arrivata fin qui, mi sembra di aver cominciato a pubblicare solo qualche giorno fa.
Un piccolo chiarimento. Leggendo la conversazione tra Jake e Renesmee a proposito degli eventi durante la gravidanza di Bella, i contrasti tra i licantropi e la famiglia Cullen, etc., sicuramente avrete notato che Jacob omette parecchie cose. Renesmee conosce una versione "semplificata" della verità perchè alcune cose le sono state nascoste dalla sua famiglia. In parte cio è dovuto al fatto che lei non sa dell'imprinting e questo le impedisce di essere a conoscenza di molti altri dettagli collegati ad esso, ma in sostanza il desiderio di Edward e Bella è sempre stato soltanto uno e cioè nasconderle qualunque cosa potesse ferirla. E qui non mi riferisco soltanto all'imprinting.
Forse questo discorso sembrerà un po' sibillino, ma (piccolo spoiler!) nel prossimo capitolo ci sarà una svolta significativa e da quel momento in poi tutto inizierà a diventare più chiaro, per Renesmee e spero anche per voi.
In ogni caso per qualunque domanda, dubbio, incertezza o perplessità, sono a vostra disposizione ^^. Ringrazio tutte le persone che seguono la storia e recensiscono, e mi raccomando, fatevi sentire anche voi lettori silenziosi! (Se ci siete! xd)

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Capitolo 11
*** Apocalypse please ***


Capitolo 1

Capitolo 11
Apocalypse please
 


Declare this an emergency
come on and spread a sense of urgency

and pull us through
and this is the end

this is the end
of the world.

Apocalypse please, Muse¹



La verità è sempre disumana.
ALESSANDRO BARICCO, Oceano mare




«Ehi, Raggio di sole!»
Seth arrivò a passo svelto nell’ingresso e si chinò per baciarmi sulla guancia.

«Ciao, signor baby sitter» risposi con tono infastidito.
Scoppiò a ridere. «Baby sitter? Con questo soprannome strazierò i cuori delle ragazze di La Push».
«Di sicuro non strazierai il mio».
«Dai, non sono il tuo baby sitter!» esclamò, allegro, mettendomi un braccio intorno alle spalle. «Devo solo tenerti d’occhio per un po’ finchè Jacob non viene a riprenderti per portarti a casa sua e…». Si interruppe vedendo la mia espressione e riflettè un secondo su quello che aveva detto. «Okay. Sono il tuo baby sitter» ammise con aria vagamente colpevole.
«E io ti odio» borbottai cercando di scrollarmi di dosso il suo braccio caldo e muscoloso; sembrava di avere appeso alla spalla un sollevatore di pesi massimi con la febbre a quaranta.
«Uhm, d’accordo. Allora non è il caso di offrirti la merenda di muffin e limonata che avevo preparato. Sai, non vorrei che tu ti sentissi una bambina piccola» aggiunse lanciandomi un'occhiata furba mentre mi trascinava verso la cucina.
Sul tavolo c'era una piccola montagna di muffin ordinatamente impilati su un vassoio. 
«Be', visto che devo stare qui, tanto vale approfittarne» osservai, noncurante.
Seth ridacchiò. «Accomodati pure. Ci occorreva giusto una mano per dare fondo a tutto questo».
«Sembrano proprio buoni» commentai sedendomi a tavola. «Li hai fatti tu?»
Seth aveva scoperto di recente una passione per la cucina: si divertiva un mondo a mescolare, tagliuzzare, frullare, infornare e spadellare, e la maggior parte delle volte i risultati di tutta questa attività culinaria non erano niente male… A differenza di quelli della sorella: Leah aveva rinunciato a mettere mano ai fornelli dopo aver carbonizzato quattro torte una dopo l’altra nel tentativo di prepararne una per il compleanno di Jacob, e ormai si limitava a ordinare le pizze per telefono e servire pasta precotta.
«No, scherzi? Non ne sarei capace… non ancora. Li ha fatti la mamma e ce li ha portati stamattina, in quantità sufficienti a sfamare un piccolo esercito». Seth prese un muffin e se l’infilò in bocca tutto intero. «Allora, chi hai baciato, oggi?»
Mi bloccai mentre assaggiavo un pezzo di muffin al cioccolato. La fame scivolò via di colpo, sostituita da un vago senso di nausea e da un tremendo imbarazzo. Un fruscio alle mie spalle mi informò che Leah ci aveva seguito in cucina, restando sulla porta. 
«Lo sai» mugugnai. Non era una domanda, ma un’affermazione.
«Ovvio che lo so» rispose allegramente, a bocca piena.
Purtroppo non potevo nemmeno prendermela con Jacob perché non era colpa sua. Posai il muffin sul tavolo e sbuffai. «Odio questa cosa che non esista privacy da nessuna parte! Quand’è che la mia vita privata resterà tale
Seth non smetteva di ghignare, e intanto già allungava la mano verso il secondo dolce. «Devi rassegnarti, Raggio di sole. Allora, dicevamo: chi hai baciato oggi?»
Arrossii furiosamente. «Nessuno!»
«Nessuno a parte quel tipo appena arrivato, vuoi dire? Quindi adesso sei fidanzata?» continuò. Dalla sua faccia era evidente che si stava divertendo un mondo, accidenti a lui.
«Basta. Smettila subito» sibilai. Dio, che imbarazzo… Avevo la sensazione che le mie guance stessero prendendo fuoco.
Ma Seth non sembrava intenzionato a cedere tanto facilmente. «Uffa!» protestò. «Almeno permettimi di complimentarmi per la tua prima fuga da scuola. E saresti anche riuscita a non farti beccare se non fosse stato per tuo padre. Un’ottima prova, per essere la prima volta».
Infilai in bocca il pezzo di muffin che avevo lasciato sul tavolo. «La prima e l’ultima» specificai.
«Aspetta che si avvicinino gli esami e cambierai idea, garantito».
Per tutta risposta feci una smorfia, mentre Leah lasciava la sua postazione sulla porta e si avvicinava al fratello. Seth colse al volo l’occasione di stuzzicarla. 
«Ehi, spero proprio che non diventerai come Leah! Come si chiama il tizio con cui esci questa settimana? Rick o James?» strinse gli occhi, fingendo di sforzarsi di ricordare. «Ah, no, aspetta. È lo studente australiano in vacanza».
Non potei trattenere una mezza risata che cercai di nascondere tossicchiando.
Dopo aver lasciato il branco di Sam e aver recuperato un briciolo di equilibrio interiore, Leah aveva abbracciato un’efficace strategia per dimenticare il suo grande amore perduto, quella del "chiodo scaccia chiodo". Solo che i chiodi erano diventati un centinaio, o giù di lì. Okay, forse non proprio un centinaio, ma che avesse dietro un numero di ragazzi impressionante era vero.
«Studente australiano in vacanza?» ripetei, curiosa.
Leah lanciò al fratello un’occhiata da mettere i brividi. «Non è australiano, ha origini australiane, e studia a Yale».
«Oh, giusto» fece Seth con aria divertita. «E com’è che si chiama? Ken?»
Fui a un millimetro da un’esplosione di risate, ma mi trattenni.
«Cob» corresse lei a denti stretti. «Si chiama Cob».
«Ops, scusa. Non volevo offenderlo» disse Seth con aria molto poco convincente, e mi fece l’occhiolino.
In realtà la reazione di Leah era stata quasi inesistente: il fatto che non avesse subito consigliato al fratello di infilare la testa nel frullatore in funzione era quanto meno sospetto. Chissà cosa le passava per la mente. Sembrava distratta. Prese un muffin dal vassoio, ma invece di mangiarlo cominciò a giocarci.
Stavo per intervenire e impedire a Seth di stuzzicare ancora sua sorella (tutto sommato, era meglio evitare una rissa tra licantropi nella piccola cucina dei Cleawater), quando all'improvviso un ululato, basso e controllato, ma inconfondibile, si levò da qualche parte tra i fitti boschi della riserva. Era un segnale. Tutti e tre sollevammo la testa di scatto e restammo in ascolto, zitti e immobili. Trascorse qualche secondo, poi un nuovo ululato, leggermente più alto, fece eco al primo. Forse era soltanto un'impressione, ma mi parve che suonasse più urgente e allarmato del precedente.
«Due» disse Leah quando tornò il silenzio. «È successo qualcosa». Guardò Seth, che annuì con aria seria.
«Chi era? Tommy?» domandai, aggrottando la fronte e spostando lo sguardo dall'una all'altro, preoccupata.
Lei assentì. 
«Sembrerebbe di sì. Vado a vedere».
Stava già per lanciarsi verso la porta, ma Seth tese un braccio e la trattenne.

«No, aspetta. Vado io».
Ogni traccia di divertimento era sparita dal suo viso e adesso appariva teso e concentrato. Leah lo guardò male.

«Perchè? Sono io la beta del branco, spetta a me».
«Potrebbe essere pericoloso. Ci sono due succhiasangue in giro da queste parti, oggi, ricordi?»
Mi sfuggì un singulto. «Peter e Charlotte!» esclamai di getto. «Ma non possono essere loro. Non entrerebbero mai nella riserva, sanno che ci siete voi».
«Proprio per questo devo andare io» rispose Leah, gelida. «Lo sai che sono più forte, più esperta e più veloce di te» aggiunse rivolta al fratello.
Seth sorrise, tranquillo. «Appunto. Preferisco che tu rimanga qui con lei. Non si sa mai».
Lei? Ah, già, ero io. E aveva anche la faccia tosta di dire che non avevo dei baby sitter! Leah stava per ribattere ancora, con aria piuttosto scocciata,ma lui la interruppe.
«Leah, stiamo perdendo tempo. Probabilmente non è niente, lo sai com'è fatto Tommy. Si agita senza motivo. Faccio presto, okay?»
«Sta' attento, Seth» esclamai, ansiosa. «Non penso che si tratti di Peter e Charlotte. Pare anche che stia per piovere».
Come a sottolineare le mie parole, in quel momento udimmo un altro brontolio minaccioso. Il temporale doveva essere ancora lontano e forse non sarebbe nemmeno arrivato fin lì, ma era impossibile saperlo.
Lui scrollò le spalle. «Quando mai due gocce di pioggia hanno fermato un licantropo?»
«Potrebbero essere più di due gocce» obiettai.
Seth alzò gli occhi al cielo, scocciato. «Che rottura, Nessie. Altro che mezza vampira, sei una mollacciona». Prima che potessi rispondergli per le rime, dal momento che avevo la bocca piena, si avviò verso l’ingresso. «Vado e torno» gridò. «Fate le brave!»
La porta di casa sbattè e scese il silenzio. Rimaste sole, io e Leah ci scambiammo un’occhiata. «Tuo fratello è fuori di testa» dissi.
Lei non rispose. Si limitò a fissarmi e nel giro di qualche secondo non ressi più il suo sguardo. Abbassai subito gli occhi, a disagio, e desiderai che Seth non se ne fosse andato portando via con sé la leggerezza e il buon umore. Non era certo la prima volta che io e lei ci trovavamo da sole per un po’, ma non succedeva da parecchio tempo: cercavo di evitarlo, perché a volte i suoi occhi posati su di me mi sembravano un peso insostenibile. Mi schiarii la voce e mi agitai un po’ sulla sedia. Lei continuava a sbriciolare pezzi di muffin con aria assente. Cercai in fretta qualcosa da dire, mi sembrava che il silenzio intorno a noi si facesse pesante come piombo. Se una delle due non avesse aperto bocca di lì a poco mi sarei precipitata urlando fuori dalla stanza. E poi, all’improvviso, fu lei a parlare.
«E così ti vedi con un ragazzo» disse con tono noncurante. 
Io, però, la conoscevo bene, e mi accorgevo che era solo apparentemente tranquilla: covava qualcosa, me lo sentivo. Ciò nonostante, le sue parole mi colsero del tutto di sorpresa.
«No!» esclamai. «Oddio, non so cosa vi abbia fatto capire Jacob, ma non… non è niente. Niente di importante».  Eppure, di quanto suonasse triste la mia voce. Eh, sì: Alexander Hayden mi aveva cucinato a puntino.
«Non vi siete baciati?» insistè. 
Era una domande retorica, ovviamente, visto che lei aveva accesso ai pensieri di Jacob quanto Seth ed era impossibile che non lo sapesse. La guardai, perplessa e imbarazzata. Non capivo come mai fosse così interessata alla questione: noi due non avevamo mai parlato molto, men che meno di ragazzi.
«Sì» risposi dopo un attimo di esitazione. «Una volta sola, ma è bastata e avanzata».
«Mm» commentò, come se la cosa per lei non avesse alcuna importanza. Rimase zitta per qualche secondo, poi fece un sorriso strano. «È incredibile. A quanto pare, le storie di famiglia sono destinate a ripetersi all’infinito».
Sollevai lo sguardo dal mio muffin e lo posai su di lei: il viso era impassibile, ma gli occhi, non più assenti, mandavano bagliori. «Cosa?»
«Niente» rispose a voce bassissima.
«Non mi sembrava niente» protestai. «Quali storie di famiglia?». Silenzio. «Leah?»
Di colpo gettò sul tavolo il muffin mezzo sbriciolato con aria scocciata. «Ho detto che non è niente, okay? Non ci pensare». Si voltò, incrociando le braccia, e si accostò alla finestra per guardare fuori.
A quel punto non so cosa mi prese. Avevo sempre tollerato il suo atteggiamento, le occhiate accusatrici, le parole brusche, le volte in cui sembrava ignorarmi completamente, perché conoscevo le sue sofferenze e i suoi motivi, e avevo sempre cercato di capirla e giustificarla. Quel giorno, invece, per la prima volta reagii. 
«Posso sapere perché ce l’hai tanto con me? So che odi metà dei miei geni, ma non è colpa mia se sono una mezza vampira. Perché non provi a giudicarmi come una persona e basta?»
Tacque per qualche secondo prima di rispondere. «I tuoi geni non c’entrano. So che non è colpa tua, ma a volte si mettono in moto dei meccanismi e…». Non finì la frase.
«Meccanismi?» mormorai, sconcertata. «Non  capisco di che parli».
Si girò di nuovo e mi guardò, quel sorriso amaro ancora sulle labbra. «E come potresti?». Scrollò le spalle. «Comunque non servirebbe. Ormai è troppo tardi. Sembra che tutto sia destinato ad andare esattamente come è andato cinque anni fa» disse lentamente. «Non c’è via di scampo».
Quelle parole, e il tono con cui le pronunciò, duro e freddo, mi ferirono più di qualunque altra cosa avesse mai detto o fatto in passato; in quel momento capii che mi detestava sul serio, anche se ancora non afferravo il motivo.
«Ma insomma, che cosa ti ho fatto?» sbottai, sentendo all'improvviso la gola gonfia e gli occhi umidi. 
Mi alzai da tavola e feci per raggiungere la porta sul retro. Volevo uscire da lì, andarmene prima che potesse dire altro e ferirmi ancora di più. Ero convinta che stesse per arrivare qualcosa di molto peggio. Il mio istinto all’autoconservazione mi suggeriva di defilarmi subito.
Leah non me lo permise. Con due passi mi si avvicinò. «Non hai fatto niente a me, ma c’è una persona che finirà con lo star male per colpa tua, una persona a cui dici di tenere tantissimo, e tu non te ne accorgi!». Parlò con un trasporto che raramente le avevo sentito. La persona di cui parlava doveva essere importante, per lei.
«Chi è? Di chi stai parlando?» domandai, esasperata. Ma lei si limitò a fissarmi, mordendosi un labbro, indecisa. «Voglio sapere chi è!» sbottai.
«La persona che chiami il mio migliore amico» rispose con aria di sfida.
Fu come se mi avesse rovesciato addosso un secchio di acqua gelida. «Jacob?» balbettai, scioccata. «Jacob sta soffrendo? Non è vero. Lui sta bene».
Leah scosse la testa. «Forse non è ancora cominciata, ma io riconosco i segni perché li ho già visti. Sai che ti dico?». Si avvicinò ancora con fare aggressivo ed io indietreggiai. «Ci ha già pensato tua madre a fargli passare le pene dell’inferno, tu puoi anche risparmiarti questo compito».
Altra secchiata d’acqua gelida. Sbattei le palpebre, indecisa se essere più spaventata, arrabbiata o semplicemente stupita. «Mia madre ha fatto soffrire Jacob?» ripetei lentamente.
Era assurdo. Quello che stava dicendo era semplicemente assurdo, un mucchio di frasi senza significato, eppure non riuscivo a dirle di piantarla o ad andarmene, non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi. Una parte di me mi gridava di scappare all’istante, per non dover ascoltare qualcosa di terribile, ma l’altra mi costringeva dov’ero, bruciante di curiosità. Mi sembrava di essere vicina alla soluzione di un enigma, senza sapere neppure di quale enigma si trattasse. La familiare sensazione di brancolare nel buio era fortissima, ma forse stavolta una luce stava per accendersi.
«D’accordo, basta» disse all’improvviso, facendomi sobbalzare, e questa volta fu lei ad andare verso la porta. «È meglio che me ne vada».
Eh, no!, pensai, e senza avere idea di cosa stessi facendo le bloccai il passaggio, mettendomi davanti alla porta. Strinsi forte i pugni per farmi coraggio. «No». Mi tremava la voce, ma cercai di mantenerla salda. «Finalmente apri bocca dopo quasi cinque anni di silenzi, strane occhiate e frasi incomprensibili, adesso voglio sentire che cos’hai da dire».
Sul suo viso comparve una vaga sorpresa, ma quel sorriso strano non andava via. «Non ti conviene sentirlo. Non vorrei rompere la tua perfetta bolla di sapone».
«Perché dici questo?» esclamai, stupefatta. Ma che cos’era? Che diavolo era a farla parlare così?
«Perché la tua vita non è reale!» esplose, allargando le braccia con gesto rabbioso, come se qualcosa che aveva dentro da tanto tempo finalmente fosse uscito. «Tu pensi che sia perfetta, ma non è vero! La vita non è perfetta, non lo è mai, è uno schifo!»
Capivo perché mi stesse dicendo quelle parole. Aveva i suoi buoni motivi per pensarla così. Quello che non capivo era perché me le gettasse contro con tanta rabbia.
«Se mi conoscessi davvero sapresti che ci sono tante cose che vorrei cambiare» ribattei con voce tremante.
«Non è questo! Oddio, tu sei… circondata da persone che ti amano così tanto da tenerti lontana da qualunque cosa potrebbe causarti anche solo la minima sofferenza, e non ti rendi conto di niente, non ti rendi conto di quello che fai». Si interruppe di colpo, mi fissò per un istante, poi proseguì con più calma. «Tu non vedi la realtà, ma solo il riflesso. Vedi quello che gli altri vogliono che tu veda».
Indietreggiai ancora fino ad appoggiarmi alla porta con le spalle, come per sostenermi, perché avevo la sensazione che tutto girasse intorno a me a una velocità incredibile. 
«Ti sbagli» sussurrai. «Non è vero». 
Parlavo più a me stessa che a lei, ma in realtà sapevo benissimo, lo sentivo, che le sue parole erano intrise di verità. Non stava mentendo. Leah parve capire cosa pensavo, e tornò quel sorriso amaro, privo di gioia ma carico di significati.
«E invece sì» mi contraddisse, e sembrò che provasse una soddisfazione immensa nel farlo. «Tu sai che è così. Hai sempre pensato che ci fosse qualcosa, vero? Avevi ragione».
Sentii il sangue ghiacciarsi nelle vene perché ancora una volta non stava bluffando. Come poteva sapere del dubbio che mi assillava da quando ero bambina? Non avevo mai confessato a nessuno quelle sensazioni, nemmeno a Jacob. Mio padre ne era a conoscenza, e forse anche la mamma, ma non ne avevamo mai parlato. Edward si limitava a tranquillizzarmi senza mai affrontare direttamente l'argomento. Ed ora Leah mostrava di conoscere un pensiero segreto e profondo che non avevo mai osato formulare ad alta voce, perché mi spaventava, troppo. Se papà non avesse avuto il suo dono, nemmeno lui ne avrebbe mai saputo niente. A lungo non riuscii ad emettere alcun suono e rimasi lì a guardarla con gli occhi sbarrati, incredula. Leah ricambiava il mio sguardo con aria di sfida.
«Allora dimmela tu la verità» farfugliai con un filo di voce.
Esitò a lungo prima di parlare. Ero convinta che stesse cercando di decidere se andare avanti o no, perché almeno di una cosa potevo essere abbastanza certa: non aveva programmato niente. Quella situazione aveva colto di sorpresa lei quanto me.
«Non posso. Devi parlarne con la tua famiglia» disse infine.
«No, voglio la verità. Adesso!» 
«Ma tu non senti niente?» domandò all’improvviso, osservandomi con gli occhi stretti, come se si sforzasse di capire. «Sei davvero così ingenua…»
«Cosa dovrei sentire?» esclamai, frustrata. «Non capisco, Leah. Perché hai detto che Jacob... Che cos'ha che non va?»
Esitò ancora per un istante, poi fece un pesante sospiro. Sembrava triste. «Tua madre non mi è mai piaciuta, questo lo sai. Quando ho capito che stava morendo… mentre aspettava te… non ne sono stata felice: era un’altra vita strappata dai vampiri e noi non eravamo riusciti a impedirlo. Per il branco era un fallimento». Fece una breve pausa, mordendosi un labbro. «Non ne sono stata felice, ma ricordo di aver pensato che forse per Jacob era una salvezza. La sofferenza sarebbe stata atroce, all’inizio, sì, ma poi se ne sarebbe fatto una ragione e l’avrebbe superata. Bella vampira, invece, sarebbe stato il suo incubo per il resto dell’eternità. Forse ce l’avrebbe fatta, se fosse andata così. Ma poi sei arrivata tu».
«E ho messo in moto dei meccanismi» aggiunsi a bassa voce, ripensando alle sue parole di poco prima.
Lei annuì. «Sì. E allora ho pensato che forse eri tu la salvezza di Jacob. E invece, dopo quasi cinque anni, rieccoci di nuovo al punto di partenza».
«Non capisco» ripetei con un filo di voce. «Per favore, spiegami. Ti prego».
Di nuovo rimase in silenzio a fissarmi per un tempo che mi parve infinito, forse decidendo se parlare o meno. Mentre aspettavo, credetti che il mio cuore avesse smesso di battere. Credetti di impazzire. Mi avrebbe detto la verità? E se non l’avesse fatto? Quando aprì bocca, per poco non feci un salto.
«La prima volta che Jacob ti ha vista» cominciò con voce bassa e lenta «eri nata da pochi minuti. Tua madre stava morendo, mentre tuo padre cercava di salvarla. Lui ti ha guardato negli occhi e ha avuto l’imprinting».
L'imprinting. 
L'imprinting? 
Sentii lo stupore investirmi in pieno, come un camion a tutta velocità. Per un lunghissimo, interminabile istante non provai altro che uno stupore assoluto. Concentrai tutte le mie forze nell’unico obiettivo di afferrare quella parola, capirla, mentre la sentivo ripetersi dieci, cento, mille volte nella mia testa e penetrare lentamente come di nave rompighiaccio che si fa strada lasciando solo frammenti dietro di sé.
«L’imprinting?» ripetei, stupefatta. Il primo pensiero coerente che riuscii a formulare fu che mi stesse prendendo in giro. «No. Non è possibile» sussurrai. Mi accorsi che stavo trattenendo il fiato chissà da quanto, e dovetti sforzarmi di respirare. «È una bugia!»
Negli occhi scuri di Leah comparve un velo di compassione. «No, Renesmee» disse, e la sua voce suonò infinitamente triste. «Ti sto dicendo la verità e credo di essere l’unica persona che l’abbia mai fatto». Fece un altro respiro profondo e si passò le mani sui capelli con gesto stanco. «Jacob era il più agguerrito nella lotta per Bella, tra noi. Tuo padre non voleva trasformarla, questo lo sai, ma Jacob avrebbe fatto qualunque cosa per impedirlo. Ha fatto qualunque cosa. Voleva a tutti i costi che si salvasse, che restasse umana e non diventasse un mostro, una cosa contro natura. A qualunque prezzo». Sembrava stanca, mentre parlava, come se continuare a raccontare le costasse grande fatica. Stranamente ero lucidissima: niente confusione, niente panico, nessuna crisi isterica, nessun sentimento particolare, solo meraviglia e un bisogno spasmodico di sentire il resto. Mi sforzavo di comprendere le sue parole, attentissima, anche se non sembrava che avessero molto senso. «Ovviamente le cose si complicarono quando Bella rimase incinta e cominciò a stare male. Jacob era sul punto di impazzire… E sai un’altra cosa? Ti odiava. Ti ha odiato per tutto il tempo in cui sei stata dentro di lei, perché sapeva che non avrebbe mai potuto partorire te e sopravvivere. Lo sapeva, come tutti noi. E poi ti ha vista. Uno sguardo, e niente ha più avuto importanza a parte te».
«Non è vero» protestai, scuotendo la testa. «Non è vero niente di quello che stai dicendo».
Stavo clamorosamente bluffando, e lo sapevo benissimo. Che motivo avrebbe avuto di mentirmi su una cosa del genere? Era sincera, lo leggevo nei suoi occhi tristi. Ma non potevo accettarlo. Non poteva essere.
«Non è vero?» ripetè. «Ma non capisci… Non ti sei mai chiesta… come mai noi licantropi proteggiamo te e la tua famiglia anche se la nostra natura ci impone il contrario? Non ti sei mai chiesta perché ti abbiamo lasciata in vita, perché nessuno ti ha mai toccato, anche se eri un potenziale pericolo? Davvero credevi che fosse solo per amicizia? Davvero credevi che Jacob potesse essere amico della persona che aveva ucciso la sua Bella? Come puoi pensare che fosse tutto lì?»
Niente. Non provai assolutamente niente. Neanche la sorpresa. Fu come un colpo di spada che ti mozza il fiato all’improvviso e non ti lascia nemmeno il tempo di accorgertene.
«Cosa?» balbettai. «Io ho ucciso… cosa?»
Leah continuò da sola, senza che dovessi incitarla. «Ma questo lo sai anche tu» disse guardandomi quasi come se l’avessi in qualche modo delusa. «Tutti sapevano benissimo che Bella non ce l’avrebbe fatta se avesse portato a termine la gravidanza, e perfino tuo padre…» 
Di colpo si interruppe e mi guardò con aria colpevole, forse pensando di aver detto troppo, forse pensando di fare un passo indietro, ma ormai era troppo tardi.
«Finisci la frase» sibilai. Lei non rispose. Ma nel silenzio improvviso mi parve di riuscire a cogliere le parole non dette che vibravano nell’aria intorno a noi. Non importava che le pronunciasse: le aveva scritte in faccia. «A qualunque prezzo» mormorai, riflettendo. «La mia vita era il prezzo, non è così? Papà voleva che la mamma abortisse».
La guardai dritto negli occhi, con decisione. Ma certo. Certo che era così. Mi sembrò talmente ovvio che mi sentii un'autentica stupida per non averci mai pensato prima in tutti quegli anni. 
«Renesmee, io… mi dispiace» mormorò Leah, a testa china. 
Intuii che era sincera. Le dispiaceva davvero. Peccato che non fossa abbastanza. Sentii una valanga di orrore travolgermi, sommergermi, soffocarmi. No, quello era troppo. La testa mi girava come una trottola, lo stomaco si contorceva in preda a un terribile senso di nausea. Credetti di svenire, e invece chissà come riuscii a restare in piedi. Senza riuscire a staccare gli occhi da Leah, spinsi una mano dietro la schiena cercando a tentoni la maniglia, la abbassai e spalancai la porta. Quasi caddi fuori, letteralmente, feci appena qualche passo lungo il viale, poi mi scontrai con qualcosa che veniva nella direzione opposta. No, qualcuno, qualcuno di grosso e molto caldo. Spaventata, repressi a stento un grido e barcollai all’indietro.
«Nessie, dove stai andando?» esclamò una voce meravigliata.
Mi ci volle un secondo per riconoscere Seth, sbattendo le palpebre, oltre le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo guardai, ma non riuscivo a parlare: un grosso nodo mi ostruiva la gola. 
«Ho parlato con Tommy. Non era niente, soltanto un'impronta. Un falso allarme» cominciò a spiegare, ma poi si rese conto che qualcosa non andava.
«Ehi, stai bene? Che succede?»
Tese una mano verso di me, ma quasi senza accorgermene indietreggiai. Tremavo così tanto che potevo sentire i miei denti battere. Non mi toccare, avrei voluto gridare. Ci provai, ma uscì solo un farfuglio incomprensibile.
«Cosa?» fece Seth, perplesso. «Renesmee?». Lo superai e cominciai ad allontanarmi rapidamente. «Sta arrivando il temporale, dove vai? Aspetta! Renesmee!»
Mi voltai e presi a correre. Corsi via come una pazza, più veloce che potevo. Per fortuna mi parve che Seth non mi seguisse. Forse era entrato in casa e aveva chiesto spiegazioni a Leah. Correvo senza pensare a niente, un’unica meta in testa. Correvo per non impazzire, perché ero certa che se mi fossi fermata a prendere fiato, anche solo per un secondo, avrei cominciato a urlare. Non facevo caso alla strada, non riuscivo a ripensare alle parole di Leah, a malapena respiravo. Potevo solo correre, finchè non fossi arrivata. 
All’improvviso un tremendo fragore mi riscosse e frenai di colpo, inciampando in una grossa radice. Mi guardai intorno, disorientata, e capii che ce l'avevo fatta. Ero arrivata. La villa dei nonni si stagliava davanti a me, enorme e minacciosa. Ripresi a correre, arrivai alle scale e a quel punto non ce la feci più. Mi aggrappai al corrimano un attimo prima di cadere a terra e rimasi ferma solo per qualche secondo, cercando di riprendere fiato, ma non potevo aspettare. Dovevo farlo subito. Mi lanciai su per i gradini e invece di usare il campanello colpii la porta con i pugni, più forte che potevo, facendomi male. Si spalancò quasi subito e comparve Alice, con Jasper che faceva capolino alle sue spalle.
«Nessie! Che succede?» esclamò la zia, stupita. Vidi i suoi occhi spalancarsi mentre studiavano il mio viso. Dovevo avere un aspetto tremendo. «Che ci fai qui?»
«Sei sconvolta» intervenne Jasper, a voce bassa. «Ti senti male?»
Non risposi. Entrai, respirando affannosamente. «Mamma! Papà!» gridai con il fiato che mi restava.
Arrancai su per le scale, anche se mi sembrava di essere sul punto di stramazzare, e piombai in salotto. Gli altri erano tutti lì: i miei genitori, i miei nonni, Emmett e Rosalie, Alice e Jasper che mi avevano seguita. Sette sguardi sorpresi e vagamente preoccupati, uno assolutamente impassibile: quello di mio padre. Il suo volto era inespressivo come una maschera.
«Papà» esalai, tenendomi una mano sul fianco.
«Renesmee». La sua voce morta mi spaventò.
«È vero? È vero quello che ha detto?»
Ignorai gli altri e mi concentrai su Edward. Non sapevo cosa mi avrebbe risposto, se la verità o una pietosa bugia, ma ogni minimo cambiamento del suo viso avrebbe potuto rivelarmelo. Lui deglutì, senza cambiare espressione. 
«Tesoro, sei sconvolta» disse con tono estremamente controllato. «Siediti e cerca di calmarti, ne parliamo dopo».
Cominciava sviando la mia domanda. Pessimo segno. Presi un respiro rotto e pesante, cercando di mantenere un briciolo di controllo. «Non voglio sedermi, non voglio calmarmi e voglio parlarne adesso
Lanciai un’occhiata alla mamma: aveva un’aria spaventata. Fece per venire verso di me, ma io indietreggiai d'istinto e lei si fermò. Guardò papà con aria disorientata. 
«Che succede, Edward?»
Lui le lanciò un’occhiata, ma non osò parlare.
«È vero?» insistei, implacabile con loro e con me stessa. Ero esausta, come se avessi corso per chilometri e chilometri. Silenzio, solo silenzio. Un silenzio assordante che quasi mi diede alla testa. «Rispondimi!»
«Non posso» proruppe all’improvviso, e la sua espressione tormentata mi spaventò più di tutto il resto.
«Perché?» sussurrai, perfettamente consapevole che la risposta mi avrebbe solo fatto ancora più male.
«Non voglio ferirti».
«Potresti farlo?» sussurrai con voce rotta. Domanda retorica, ovviamente. Non occorreva che dicesse nulla. Ormai avevo capito. Ma volevo guardarlo in faccia e sentirla dalla sua bocca, la verità. «Rispondimi» implorai.
Sembrava che stesse lottando con qualcosa dentro di sè, ma infine parlò, e anche lui mi parve infinitamente stanco. «Sì. Sì, è vero: Jacob ha avuto l’imprinting con te».
«Edward, no!» gridò la mamma. Si voltò di scatto verso di lui, sconvolta. «Sei impazzito?»
«Oh, merda» fece Emmett, con un tono che non gli avevo mai sentito usare prima. 
Gli altri si limitavano a fissarmi a bocca aperta, attoniti, immobili come statue, troppo increduli per dire o fare qualcosa.
Ebbi la sensazione che una voragine si spalancasse ai miei piedi. Barcollai, in preda a un'improvvisa vertigine. «Non è possibile» farfugliai. «Non è possibile».
«Renesmee, tesoro…» disse la mamma. 
Non volli nemmeno ascoltarla. «Non è possibile» ripetei con decisione.
«È la verità» continuò Edward. La mamma si voltò di nuovo verso di lui, sconvolta, senza dire nulla.
Scossi il capo, testarda come sempre. No, mi rifiutavo di accettarlo. Doveva esserci un’altra spiegazione… qualcosa a cui aggrapparmi… 
«Ma io… io me ne sarei accorta se lui… se noi…» balbettai, cercando di controllare la voce. «Io l’avrei capito…»
E poi, di colpo, senza nessuna ragione particolare, tutto divenne incredibilmente, spaventosamente chiaro: gesti, parole sguardi, ogni cosa volò al suo posto come i frammenti di un puzzle fino a un istante prima sparpagliati gli uni sugli altri, e adesso tutti incastrati alla perfezione. Per la prima volta la sensazione che ci fosse qualcosa che non sapevo, qualcosa che mi sfuggiva, finalmente sparì.
«Oddio» ansimai e subito dopo avvertii un dolore al petto. Avevo trattenuto il respiro troppo a lungo.
«Tesoro, ti prego» esclamò la mamma.
La guardai: aveva un’espressione disperata. Mi sforzai di inspirare ed espirare lentamente per mantenere la calma. Non era ancora finita. «Anche… anche il resto è vero?»
«Perché vuoi farti del male?» esclamò papà con tono quasi arrabbiato.
«Voglio la verità. È così? Tu volevi... Tu...» 
Era un pensiero così spaventoso, nella sua incredibile ovvietà, che non riuscivo a pronunciare un'altra parola. Dirlo ad alta voce lo avrebbe fatto diventare reale. Ed io non volevo che accadesse. Guardai mio padre dritto negli occhi e la sua espressione fu per me una risposta prima che aprisse bocca.
«Non volevo fare del male a te. Volevo salvare lei» sussurrò con un filo di voce.
Fu allora che mi sembrò di toccare il fondo, finalmente. Sentii di nuovo un dolore tremendo nel petto, all’altezza del cuore, come se un coltello mi avesse trapassata da parte a parte. Per un qualche istante non mi resi conto più di nulla. Non vedevo niente, non sentivo niente, non provavo niente. Era come se fossi uscita da me stessa. All’improvviso, arrivò un altro, violento capogiro che mi fece barcollare. Poi la voce di Bella mi tirò di nuovo dentro la realtà.
«No!» gridò, come se volesse fermare tutto. Aveva capito anche lei. «Renesmee, ascolta! Tu non sai bene com’è andata…»
«Che altro c’è da dire?» sussurrai, la voce rauca.
«E invece ci sono tante cose che non sai» intervenne papà, avvicinandosi di qualche passo. «Lasciami spiegare». Tese una mano, ma io mi allontanai in fretta.
«Non toccarmi! Sta’ lontano da me!»
Dovevo andarmene da lì. Mentre mi precipitavo verso le scale sentii un grido.
«Renesmee, aspetta!»
«No, Rosalie» intervenne mio padre in tono duro. «Lasciala andare. Lasciatela andare».
Scesi correndo nell'ingresso e quasi mi scontrai con la porta. Dovetti tirare la maniglia più e più volte prima che si aprisse, terrorizzata al pensiero che potessero raggiungermi, riportarmi indietro, costringermi a parlare con loro. Finalmente riuscii a spalancarla e corsi fuori, sotto una pioggia fitta e violenta appena iniziata. Il temporale era arrivato. In un attimo mi ritrovai fradicia dalla testa ai piedi, i capelli intrisi d’acqua, la camicetta incollata al corpo. 
Non ero diretta da nessuna parte. Tutto quello che volevo era lasciarmi l’incubo alle spalle. Ma per quanto corressi più veloce che potevo, sembrava che mi stesse inseguendo: riuscivo solo a sentire il dolore, nel mio cuore, nella mia mente, in ogni parte di me. 
Poi inciampai in qualcosa e caddi a terra. Cercai di tirarmi subito su, ma mi accorsi che le gambe non mi reggevano, brucianti e doloranti per lo sforzo. Restai in ginocchio, riprendendo fiato e togliendomi i capelli dal viso. Tra le fitte di dolore, reali e immaginarie, sentii la consapevolezza di quello che era accaduto invadermi lentamente. Mio padre aveva cercato di uccidermi prima che nascessi. Il mio migliore amico era legato a me solo da una specie di incantesimo e me lo teneva nascosto da cinque anni. E gli altri si erano resi complici di tutto questo. Compresa la mamma.
Fui travolta dalla nausea e temetti di non riuscire a tenere nello stomaco il mezzo muffin che avevo mangiato. E invece riuscii a resistere, boccheggiando. Sembrava un incubo, solo che non finiva mai: non arrivava mai il momento in cui mi svegliavo di soprassalto e trovavo le fredde, rassicuranti braccia di papà ad avvolgermi. 
Mi alzai di scatto, ignorando le fitte alle gambe e stringendo convulsamente le braccia al petto. Avevo paura di finire in pezzi se le avessi lasciate cadere lungo i fianchi. Guardandomi intorno, mi resi conto che avevo attraversato i fitti boschi intorno a casa mia e adesso ero a pochi metri dalla 101, che vedevo correre davanti a me. Non sapevo dove andare né cosa fare, ed ero esausta, fisicamente ed emotivamente. Eppure non riuscivo a stare ferma. 
Ripresi a camminare accanto alla strada come un automa, lentamente, tenendo gli occhi bassi, senza badare alla mia direzione. La pioggia fitta continuava a cadere, nel cielo carico di nuvoloni grigi risuonavano tuoni minacciosi, un vento freddo agitava furiosamente le chiome degli alberi. Ero scossa da brividi continui e nella mia mente non facevano che ripetersi e accavallarsi caoticamente immagini e parole. Avrei tanto voluto chiudere fuori tutto, ma non ci riuscivo. Poi mi sembrò che un’altra voce si sovrapponesse a quelle che sentivo nella mia testa, ma più forte e più reale.
«Renesmee! Renesmee!»
Qualcuno mi stava chiamando sul serio? No, per favore. Chi mi aveva seguita? Non volevo vedere nessuno di loro. Continuai a camminare senza badarci, quando una mano mi afferrò per la spalla e mi costrinse a girarmi. Sollevai gli occhi, sorpresa, e attraverso il velo di lacrime e pioggia apparve un volto dai contorni sfocati. Era Alex. Se ne stava lì, senza dire nulla, a fissarmi sgomento. Osservai quei tratti familiari e bellissimi ai quali avevo cercato di pensare con distacco negli ultimi due giorni, e ora lui era lì, di fronte a me, un milione di gocce di pioggia che scintillavano tra i suoi capelli scuri come piccoli diamanti… 
Era solo una coincidenza che lui mi avesse trovata in quel momento? Era solo una coincidenza che io e Leah ci fossimo ritrovate insieme, da sole, e che mi avesse detto quelle cose? Oppure nell’universo esistono forze sconosciute e imprevedibili che tramano nell'ombra per stabilire il nostro destino? 
Scattai in avanti e lo abbracciai di slancio, singhiozzando violentemente. Alex rimase paralizzato per un secondo, poi sentii le sue braccia intorno a me, le sue mani accarezzarmi piano la schiena, le guance e le labbra premere leggermente sui miei capelli.
«Portami via» sussurrai con voce tremante e scossa dai singhiozzi, quasi incomprensibile.
«Cosa?»
«Portami via, ti prego. Ti prego, Alex, andiamo via».
«Renesmee…» mormorò, incerto e confuso. Sicuramente si stava chiedendo se per caso non fossi evasa da un manicomio.
«Ti prego!» gridai, disperata.
Mi osservò ancora per un momento, stupito e un po’ spaventato. E poi decise. Mi prese per mano e mi tirò verso la sua auto, ferma sul ciglio della strada, con la portiera ancora aperta. Mi fece sedere al posto del passeggero, poi salì al mio fianco e mise in moto.
«Dove…» chiese, leggermente affannato.
«Non importa, solo… lontano da qui».
Non rispose. Con gesti abili e rapidi fece una pericolosa inversione e partì a tutta velocità.









Note.

1. Qui la canzone.











Spazio autrice.

E così, ecco il momento della verità, tutta la verità, nient'altro che la verità xd. Adesso è tutto più chiaro per la nostra Renesmee, e spero anche per voi. In caso contrario, come sapete sono sempre a vostra disposizione per rispondere a dubbi, domande, incertezze, perplessità, crisi esistenziali, eccetera eccetera... Purchè io non sia costretta a spoilerare per rispondere. In quel caso dovrete aspettare ^^.
Come potete leggere voi stessi/e, Renesmee non ha preso molto bene la scoperta dell'imprinting. In questo momento è troppo sconvolta per riuscire ad analizzare bene la faccenda, ma più avanti i suoi pensieri e i suoi sentimenti in proposito saranno approfonditi (e anche le motivazioni di Leah e il perchè abbia raccontato tutto quanto così all'improvviso). Per giunta, questa rivelazione ne ha portate con sè altre non meno sorprendenti e spiacevoli per lei, a cominciare dal comportamento di suo padre durante la gravidanza di Bella. Non credo ci siano molte fanfiction in giro che affrontano questo argomento, o almeno a me non è mai capitato di leggerne una, ma a mio parere si tratta di una questione importante che avrebbe dovuto essere affrontata in modo più approfondito già in Breaking dawn. Ho sempre pensato che questa fosse una mancanza da parte della Meyer. Insomma, noi lettrici capiamo le motivazioni di Edward, anche se personalmente non posso approvarle: lui ama Bella e farebbe di tutto per salvarla, anche uccidere il loro bambino. Quello che mi stupisce è il fatto che Bella non abbia mai avuto neanche una parola di rimprovero verso di lui, eppure quello che cerca di fare è piuttosto grave: se Ed avesse avuto carta bianca, senza Rosalie di mezzo a fare da guardia del corpo, avrebbe costretto Bella ad abortire in barba alla sua volontà. E non esiste nessun sentimento d'amore, per quanto intenso possa essere, che giustifichi un comportamento simile. A me piace Edward, non fraintendetemi. Ma in quel momento lui sbaglia dall'inizio alla fine. Credo che in quelle pagine emerga il lato più oscuro del loro amore.
Nel corso degli anni, quegli anni che seguono la parola "Fine" e che la Meyer non ci racconta, può darsi che Edward e Bella abbiano chiarito tra loro l'accaduto. Può darsi che Edward, sinceramente pentito, le abbia chiesto scusa e che lei abbia capito e dimenticato ogni cosa. Ma che Renesmee non ne sapesse nulla mi sembra ovvio, naturale. Anche questa, come l'imprinting, fa parte di quelle pericolose verità che se rivelate potrebbero essere molto dure da affrontare. E adesso che è venuta fuori, quasi per caso, è un altro colpo inferto alla patina di perfezione che avvolge la vita di Renesmee. Anzi, dopo aver saputo che suo padre non la voleva e che ha cercato di ucciderla prima che nascesse, credo che le rimanga ben poco di "perfetto" nella sua esistenza. Anche questo aspetto comunque sarà affrontato e approfondito nei prossimi capitoli ;-).
Spero siate felici di ritrovare Alex! Il prossimo capitolo sarà interamente dedicato a lui e a Renesmee: parleranno, si chiariranno e forse... No, basta così. Leggete e saprete, eh eh eh! 
Scusate se il mio Spazio autrice è lungo quasi quanto il capitolo xd, ma ho pensato che fosse meglio chiarire subito alcuni punti. Spero di aver fatto bene :-). Alla prossima settimana!

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Capitolo 12
*** The scientist ***


Capitolo 1

 Capitolo 12
The scientist

Come up to meet you

You don’t know how lovely you are

I had to find you

Tell you I need you

Tell you I set you apart

Tell me your secrets and ask me your questions

Oh let’s go back to the start

Running in circles, comin’ up tails 

Heads on a science apart.

The scientist, Coldplay¹



Il destino mescola le carte e noi giochiamo.

ARTHUR SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena




Per una volta fui felice che Alex guidasse come un pilota di Formula Uno. Si limitò a premere sull’acceleratore, rallentando solo quando rischiava di uccidere qualcuno, a guardare la strada e ad ascoltarmi piangere senza dire una parola. Forse aveva intuito che non ero in condizioni di raccontare nulla, o forse era semplicemente sopreso, e potevo capirlo. A un certo punto probabilmente le lacrime si esaurirono e mi calmai un po'. Alex frugò nel vano porta oggetti e mi allungò un fazzoletto. Lo presi senza riuscire a dirgli grazie, mi asciugai gli occhi e per la prima volta guardai fuori dal finestrino, chiedendomi dove fossimo diretti.
«Perché andiamo a Port Angeles?» chiesi con voce spaventosamente roca, come se avessi mangiato detersivo in polvere. Cercai di schiarirla un po’.
«È l’unico posto che io sappia raggiungere, da queste parti» rispose tranquillamente. «Non potevo certo guidare a caso o ci saremmo persi tra mucche e covoni di fieno».
Provai quasi l’impulso di ridere, ma non riuscii ad assecondarlo. Le mie labbra si curvarono appena. «Non ci sono mucche a Forks. E neanche covoni di fieno».
«Questa sì che è una sorpresa». Mi lanciò una rapida occhiata, forse per controllare che la crisi isterica fosse passata, e anche lui sorrise appena. «Se Port Angeles non ti va bene possiamo cambiare meta».
«No, è perfetto. Il posto non importa, basta che stiamo lontani da Forks».
Non commentò in alcun modo, anche se le mie parole dovevano suonargli piuttosto strane. Guidò in silenzio nel traffico finchè arrivammo sulla strada principale.
«Facciamo due passi?» propose. «Magari prendiamo qualcosa da bere».
Alzai le spalle. «Okay». Forse bere qualcosa di caldo mi avrebbe fatto bene.
Parcheggiò con destrezza tra un grosso SUV e una moto ferma di traverso. Scesi lentamente dalla macchina, frastornata. Alex fece il giro dell’auto per raggiungermi e mi porse una massa informe che stringeva tra le mani. Guardai meglio e capii che era il suo giubbotto. Mentre mi fissava senza parlare, con aria molto seria, a un tratto mi tornò in mente come una valanga tutto quello che era successo tra noi. Che ci trovassimo insieme, da soli, a Port Angeles, io completamente fuori di testa, senza che avessimo parlato nemmeno una volta dopo il bacio, era veramente un brutto scherzo del destino. Presi il giubbotto e lo infilai, rabbrividendo.
«Grazie» mormorai.
«Di nulla».
Aveva smesso di piovere, anche se ogni tanto cadeva qualche solitaria goccia fredda. Cominciammo a camminare, vicini ma non troppo. Quando la mia mano sfiorò accidentalmente la sua, subito la ritrassi con un sussulto involontario. Alex non reagì in alcun modo e continuammo a camminare in silenzio, io a testa china, lui con lo sguardo fisso davanti a sè, entrambi facendo finta di nulla. Poi successe di nuovo. Le nostre mani si toccarono per la seconda volta, e poi un'altra, e un'altra ancora... Come se si cercassero a vicenda. All'improvviso, d'istinto, afferrai la sua e la strinsi. Forse non era una mossa saggia visto che la situazione tra noi era così strana e confusa, e forse non avrei mai osato farlo, con il dubbio di essere respinta, se in quel momento non mi fossi sentita così sola… sola e fragile come un calice di cristallo nel mezzo di un uragano. Alex ricambiò la stretta con forza, senza un briciolo di esitazione. Per la prima volta mi sentii un po’ meglio, più leggera. Mi chiesi cosa avrei letto nei suoi occhi se avessi avuto il coraggio di guardarlo. Un po’ mi incuriosiva, un po’ mi spaventava, ma in ogni caso mantenni lo sguardo fisso a terra.
«Che ne dici?» esclamò all'improvviso, fermandosi. Dovetti imitarlo e mi accorsi che eravamo di fronte a una grande caffetteria. Alex mi fissava con aria interrogativa.
«Va bene» risposi.
Mi sentivo disorientata e fui felice che lui non lasciasse la mia mano mentre entravamo e chiedeva un tavolo. Seguimmo la cameriera attraverso il locale fino a un angolo tranquillo e sedemmo a un tavolino per due. A parte me ed Alex, una coppia di mezza età e un ragazzo seduto da solo a un tavolo davanti a un portatile, non c’era nessun altro.
«Che cosa vi porto, ragazzi?» chiese la cameriera, aprendo il blocco delle ordinazioni.
Alex mi fece cenno di ordinare per prima ed io sparai la prima cosa che mi venne in mente, ignorando il menù poggiato sul tavolo.
«Ehm… una cioccolata calda, grazie».
«Anche per me. Fondente. E aggiunga un po’ di peperoncino, per favore».
La ragazza finì di scrivere sul suo blocco e si allontanò. Restammo da soli, e all’istante mi sentii investire da una nuova ondata di imbarazzo. Il silenzio mi parve immediatamente troppo pesante. Affannata, cercai in fretta qualcosa da dire. Per fortuna, il mio stesso interlocutore forniva sempre qualche interessante spunto per cominciare.
«Peperoncino?» domandai, inarcando le sopracciglia.
«Mi piacciono i sapori particolari» rispose, ostentando disinvoltura. «Ho perfino assaggiato il piccione, sai».
Okay, questo era decisamente strano. «Il piccione?» ripetei, e inarcai le sopracciglia più che potevo.
«Raffinata cucina francese, hai presente?»
Rivedere il suo sorriso era così bello che non potei non ricambiarlo, anche se forse mi uscì solo una specie di smorfia. Tornò il silenzio, e con esso l’imbarazzo. E adesso di cosa avremmo parlato? Ma che razza di situazione. Com’era potuto succedere tutto questo? 
Cercai di ricostruire quell’assurda giornata: mi ero svegliata, avevo passato un po’ di tempo a rimuginare sotto le coperte, mi ero vestita, avevo discusso con mamma e papà a proposito della persona che adesso sedeva di fronte a me, ero andata a scuola, avevo nuovamente discusso della suddetta persona con le mie amiche, poi Jacob era venuto a prendermi… Lì mi fermai, preferendo non ripensare al seguito. 
Sembrava tutto stranamente distante e irreale, come un sogno, o meglio, un incubo. Come se non fosse successo davvero. Quasi mi aspettavo di svegliarmi da un momento all’altro e ritrovarmi nel mio letto.
«Come va?». Ancora una volta Alex mi distrasse dalle mie fantasie. Il suo sguardo era preoccupato, anche se in modo discreto.
«Ehm…». Cercai qualcosa da dirgli, ma avevo la testa vuota.
«Non bene, vero?»
Sospirai, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio; era un gesto che facevo spesso e involontariamente quando ero in difficoltà. «Si vede così tanto?»
«No. È solo che hai proprio la faccia di una che ha bisogno di una bella cioccolata calda».
Non sapevo come rispondere. Mi strinsi il suo giubbotto addosso. Continuavo a sentire un gran freddo anche all’interno della caffetteria.
«Ti va di dirmi cos’è successo?» chiese a bruciapelo.
Sorpresa, abbassai gli occhi sul tavolo di plastica rossa e non fiatai. Avevo la sensazione che qualcosa di molto grosso si fosse incastrato in gola.
Alex interpretò il mio silenzio a modo suo. «Okay, non devo impicciarmi» esclamò, e si allontanò un pochino dal tavolo. «Hai ragione. Lo capisco se non vuoi parlare con me». L’espressione era difficile da leggere come sempre, ma ora che lo conoscevo meglio mi parve di riuscire a cogliere un velo di tristezza nella sua voce e nel modo in cui abbassò gli occhi.
«Non sei tu» mi affrettai a chiarire. «Non è che non voglio parlare con te, ma… è una storia molto complicata».
Annuì. «Immagino. Be’, comunque, se ti andasse di parlarne…» 
Parlarne. Non avrei saputo da dove cominciare, cosa dire o come dirlo. Il dolore non era affatto scomparso e ripensarci era come una coltellata nello stomaco. 
Alex taceva, ma vedevo l’ansia nei suoi occhi. No, parlare di cosa mi era successo sarebbe stato impossibile, e non solo perché non ci avrebbe capito nulla, ma anche perché non ce l’avrei mai fatta. Però forse qualcosa avrei dovuto dirgli. Dopotutto, era stato molto carino con me, quel pomeriggio. Quasi un’altra persona rispetto al ragazzo che mi aveva cortesemente e freddamente ignorata nei due giorni precedenti. Meritava almeno che continuassi a recitare. Pensai velocemente a cosa avrei potuto raccontargli, e intanto mi schiarii la gola.
«Vedi, io… ho discusso con la mia famiglia. Con i miei zii» cominciai lentamente, e poi mi interruppi, non sapendo come continuare.
Ci fu un secondo di silenzio. «Le discussioni capitano» fece Alex con cautela.
«È stata una brutta discussione».
Accennò un mezzo sorriso. «Capitano anche quelle brutte».
Abbassai la testa. «Veramente io… non so se… se sarà mai più la stessa cosa». Mi affrettai ad asciugare una lacrima solitaria, sperando che non ci facesse caso.
«È stato così brutto?» chiese, con voce bassa e molto dolce.
Riuscii solo ad annuire, le mani e le labbra che mi tremavano. Alex fece un sospiro lieve e distolse lo sguardo da me con delicatezza. 
«Mi dispiace. Ma anche quando sembra che sia tutto distrutto, prima o poi le cose si aggiustano. Forse non come prima, ma se si vuole, si trova il modo di sistemarle. Sembra solo un luogo comune, lo so. Però a volte anche i luoghi comuni nascondono qualche verità».
Riflettei sulle sue parole mentre mi concentravo per impedirmi di scoppiare in lacrime. «Tu sei riuscito a sistemare tutto dopo… insomma, negli ultimi mesi?»
Mi riferivo a quando aveva smesso di fare il pazzo tra alcool, fumo e feste scatenate per ricominciare a vivere in modo normale, ma non potevo dire quelle cose a voce alta, temendo di irritarlo. Controllai la sua espressione, ma non sembrò disturbato dalla mia domanda.
«Diciamo che sono riuscito a creare un nuovo equilibrio. Ci riuscirai anche tu, vedrai».
Non mi venne in mente una risposta adeguata e rimasi in silenzio, mordicchiandomi il labbro inferiore. Sapevo che stava cercando di consolarmi e avrei tanto voluto credergli, ma in quel momento mi sembrava impossibile. Mi sforzai di riempire in qualche modo il silenzio. 
«Alex, ti ringrazio di avermi portato qui» mormorai, a disagio. «Mi rendo conto che tutta la situazione deve sembrarti molto strana».
«Strana?» ripetè, sorpreso. «No, per niente. Hai litigato con la tua famiglia e li hai mollati per un po’. Non so dirti quante volte l’ho fatto io con Julie. Litigavo anche i miei genitori, sì. Ma dopo che sono morti, sentivo di continuo il bisogno di andarmene. E lo assecondavo, sempre. Non ero capace di fermarmi un secondo a pensare agli altri, all'effetto che le mie azioni potevano avere su di loro. E poi Julie passava ore e ore a preoccuparsi da pazzi e a cercarmi ovunque». Tacque per un istante. «Non c’è niente di strano, Renesmee».
«Spero di non averti causato problemi».
«In che senso?»
«Non avevi impegni, qualcosa da fare? Non ti ho rovinato la giornata?»
«Non basta questo a rovinarmi la giornata» esclamò. «Non hai fatto saltare nessun impegno, tranquilla: stavo solo facendo un giro in macchina. Sai, mi piace guidare: mi aiuta a pensare. Ti ho visto lì, sotto la pioggia, e fermarmi è stato… istintivo». Pronunciò l’ultima parola con leggera esitazione, come se avesse deciso di cambiarla all’ultimo secondo.
«Non eri costretto a portarmi fin qui, però» aggiunsi.
«No, ho voluto farlo. In un certo senso te lo dovevo».
«Che vuoi dire…» sussurrai, sorpresa. In quel momento fummo interrotti dall’arrivo della cameriera. Sistemò due grosse tazze davanti a noi, ma non le guardai nemmeno e rimasi concentrata su Alex, chiedendomi cosa significassero quelle parole. «Che vuoi dire?» ripetei a voce più alta quando la ragazza si fu allontanata.
Lui abbassò lo sguardo sulla sua tazza, la prese tra le mani e ne mescolò lentamente il contenuto. «Che non mi sono comportato bene con te» rispose con tono estremamente serio. «Scusami».
Restai di sasso. Mi aveva chiesto scusa. Ne fui così stupita che per un po’ non seppi cosa dire. Non che lo giudicassi un mostro, ma di sicuro non mi sarei mai aspettata che lo facesse così, spontaneamente, in modo semplice e diretto. Immaginavo che non fosse una persona molto abituata a chiedere scusa.
«Alex, io… lo apprezzo, davvero. Ma non è necessario. È tutto a posto» borbottai, a disagio.
«Sì, invece» disse con forza, senza sollevare lo sguardo. «Sono stato un idiota. Non sapevo cosa fare né cosa dire, e ho deciso di non fare e non dire niente». Sospirò, passandosi una mano tra i capelli. All’improvviso sembrava arrabbiato. «Forse non è nemmeno il momento adatto per parlare di questo, tu avrai altre cose per la testa». Prese la tazza e bevve un po’ di cioccolata.
«No, aspetta» intervenni. «Voglio dire, hai ragione, adesso ho altre cose per la testa. Ma negli ultimi due giorni ho avuto solo questo, per la testa. Quindi va bene, parliamone».
Alex si appoggiò allo schienale della sedia e finalmente mi guardò con aria sorpresa e indagatrice. «Anche tu hai passato gli ultimi due giorni a pensare al nostro bacio?»
Spalancai gli occhi, sorpresa da quell’anche tu««QQ. «Perché, tu l'hai fatto?»
Accennò un sorriso, ma non rispose direttamente alla domanda, sicuro che avessi già capito. «Credevo che ce l’avessi con me».
«Be’, non mi ha fatto piacere che tu mi abbia ignorato. Avrei preferito che parlassimo, ma non eri costretto».
«Non mi riferivo a questo. Intendevo dire… per il bacio. Credevo che te la fossi presa perché ti ho baciato» disse lentamente.
Poco mancò che la bocca mi si spalancasse tanto da fare cadere la mascella sul tavolo. «Ah, sì?» balbettai.
Lui si agitò un po’ sulla sedia. Era chiaro che ancora un volta, con la mia imbranataggine, non gli stavo rendendo le cose facili. Ma non l'avevo mai visto così teso e incerto su cosa dire. 
«Insomma, io ti bacio e tu scappi via. Ho pensato che fossi arrabbiata o offesa, perché forse non volevi che ti baciassi o mi consideravi solo un amico. Avrei voluto scusarmi, il giorno dopo, ma non sapevo come fare. Non volevo peggiorare la situazione, così ho pensato che la cosa migliore fosse starti alla larga, lasciarti in pace».
Parlò così in fretta e con tanta agitazione che ebbi qualche difficoltà a seguirlo, la mente ancora stressata dagli avvenimenti recenti. Tanto per fare qualcosa, mentre cercavo di organizzare i pensieri, presi la mia tazza e mandai giù di malavoglia un sorso di cioccolata. Avevo lo stomaco chiuso, ma il calore della bevanda mi fece sentire sorprendentemente meglio.
Quindi, una delle mie supposizioni si era rivelata giusta. La mia stupida fuga aveva creato il problema, anche se non nel modo che credevo. Lui sembrava convinto che me la fossi data a gambe perché non avevo gradito il suo bacio. La situazione era a dir poco paradossale: mentre io inondavo di lacrime il sudicio pavimento del bagno della scuola pensando che l’unico ragazzo che mi era mai piaciuto non mi volesse più, lui in mensa stava pensando esattamente la stessa cosa. Che assurdità. Avevo ascoltato spesso le mie amiche parlare della totale e drammatica incomunicabilità tra uomo e donna. Holly sosteneva che Paul avesse un talento particolare nel capire sempre l’esatto opposto di quello che intendeva lei. Forse avevano ragione.
«Renesmee?»
Di colpo tornai in me. Guardai Alex: mi stava fissando con un’aria strana, perplessa e preoccupata insieme. 
«Sì?» risposi, e all’istante mi sentii un’autentica idiota.
La confusione sul suo viso aumentò. «Ti prego, dì qualcosa. Qualunque cosa. Puoi anche rovesciarmi la cioccolata in testa, se ti va, ma fammi capire cosa pensi».
Le sue parole suonavano incredibilmente familiari. Non avevo fatto altro che chiedermi la stessa cosa su di lui fino a quella mattina. Possibile che avessimo avuto tutti e due lo stesso tormento senza accorgercene?
«Alex, tu non hai sbagliato. Ho sbagliato io. Quel momento, sulla spiaggia, è stato perfetto. Il momento più bello che io abbia mai vissuto» mormorai. Non era facile aprirsi tanto, ma era più importante che lui sapesse la verità.
A lungo mi fissò incredulo, ed io mi persi in quegli occhi profondi come piscine. «Sul serio?». Annuii, certa di avere le guance in fiamme, e dal momento che avevo anche gli occhi lucidi, il viso rigato di eyeliner nero, i capelli bagnati e in disordine, non dovevo essere proprio un bello spettacolo. 
«Ma allora perché sei corsa via?»
Strinsi le mani intorno alla mia tazza di cioccolata quasi senza accorgermene, facendomi coraggio. «Non c’è un motivo preciso» balbettai. Ovviamente, ero costretta a tenere per me il timore di coinvolgermi troppo con un umano e mettere a rischio la mia esistenza e quella della mia famiglia. Così, ancora una volta, gli raccontai solo una parte della verità. «Il fatto è che non me l'aspettavo. Non sapevo che cosa fare». Tirai un profondo respiro, sentendomi quasi soffocare per l’agitazione. Incredibile come ripetere quelle cose a lui fosse infinitamente più difficile che dirle a Jas e… be’, insomma, ad altre persone. Come scalare una montagna.
Alex non staccava gli occhi da me e il suo sguardo intenso e dolce mi faceva tremare le gambe. Fortuna che ero seduta. «Non avevi mai baciato nessuno, vero?» sussurrò.
Ecco, aveva centrato il bersaglio e aveva finalmente capito quanto fossi imbranata. Mi limitai a scuotere la testa, gli occhi bassi, troppo imbarazzata per riuscire a formulare una frase. Anche Alex abbassò lo sguardo, a un tratto molto interessato al piccolo distributore di tovaglioli di carta poggiato sul tavolo in mezzo a noi. Mi ci vollero un paio di minuti per riacquistare la calma e tornare a respirare normalmente. Quando ripresi a parlare, Alex mi guardò di nuovo, con una strana cautela.
«Andarmene è stata la prima cosa che mi è venuta in mente» confessai. «Mi dispiace. Non pensavo di essere una persona che scappa, e invece anche oggi…». La voce mi morì in gola. Sentii arrivare un’altra fitta di dolore e aspettai che passasse. Le mani mi tremavano da morire, e mi aggrappai di nuovo alla tazza perché non se ne accorgesse. «Adesso mi rendo conto di aver preso una cantonata colossale perché ho dato per scontato che quel bacio dovesse significare chissà cosa e invece era solo un bacio. Gli ho dato troppa importanza. Mi dispiace, Alex, davvero. Se ti va possiamo fare come se non fosse mai successo e continuare la nostra amicizia… Se vuoi essere mio amico, ovviamente».
«Ehi, frena, frena!» esclamò, appoggiandosi al tavolo e sporgendosi verso di me. «Un istante solo, tu vuoi fare finta che non sia successo?»
Sembrava sconvolto. Lo guardai, disorientata e confusa. «Be’, se tu sei pentito e preferisci così non c’è nessun problema. Lo capisco».
«Ma io non sono pentito!» sbottò. «Non sono pentito e non voglio far finta di niente. Pensi che quel momento sia stato speciale solo per te? Ti sbagli». E qui tacque di botto, il volto cupo e ombroso.
«Ah» fu l’unico commento che mi uscì. «Allora tu… per te va bene che noi… ci siamo baciati?»
Alex teneva di nuovo gli occhi incollati sul tavolo e sembrava imbarazzato quanto me. «Sì, diciamo di sì. Se va bene a te, è ovvio».
«Certo» risposi, un po’ precipitosamente. In realtà non avevo la minima idea di cosa stessi farneticando e forse nemmeno lui. «Cioè, visto che a te sta bene… credo che potremmo…»
«Cosa?» mi sollecitò.
A quel punto andai completamente in confusione. «Cosa?» ripetei, perplessa.
«Credi che potremmo... cosa? Finisci la frase».
Cominciai a sudare freddo, sentendomi messa alle strette. «Io… non lo so. Che stai dicendo, Alex?»
«Tu che stai dicendo» ribattè, impaziente. Sospirò, sempre più agitato. «Prima hai detto… che tu ed io potremmo… cosa
Credetti che le mie guance stessero prendendo fuoco, mentre cercavo disperatamente un modo per uscire dal casino in cui ci eravamo messi, balbettando una sciocchezza dietro l’altra. «Io… ecco, volevo dire… che noi…». In verità cercare di spiegarglielo era impossibile dal momento che io stessa non avevo idea di cosa stessi cercando di dire.
E poi sembrò stufarsi di quei balbettii privi di significato. «Scheggia!» esclamò.
«Che c’è?». Lo guardai e mi resi conto che era sul punto di scoppiare a ridere.
«Che caspita stai dicendo?»
«Non lo so!» sbottai, stizzita. «E non chiamarmi Scheggia!»
«Okay, basta» disse con decisione, e tornò serio in un lampo. «Renesmee, ascolta: tu mi piaci. Sul serio, non sto giocando, stavolta. Mi piaci un sacco. Molto più di qualunque ragazza io abbia mai conosciuto. Molto, molto di più». Fece una piccola pausa. Io rimasi zitta a guardarlo, senza fiato. Poi sorrise. «Sei bellissima, divertente… riesci sempre a farmi ridere, in un modo o nell’altro. Con te sto bene, Scheggia, mi sento sereno. Non so perchè, ma so che mi fai stare bene, e non credevo che sarei mai più riuscito a sentirmi così. Di questo avrei dovuto esserti grato, e invece mi sono comportato da schifo. Oggi ho cercato di rimediare, ma… il punto è che io voglio continuare a stare con te, perché nessuna è mai stata tanto importante per me quanto tu lo sei adesso. Insomma, la vita è breve, noi due lo sappiamo bene. Un anno fa avrei detto Un motivo in più per spassarsela finchè è possibile. Adesso invece dico Un motivo in più per stare con le persone a cui si tiene finchè è possibile. Non pretendo che tu decida niente adesso, soprattutto non oggi. Questa deve essere stata una giornata tremenda per te. Ti chiedo solo di restare insieme, come amici, perché è un inferno quando non ci sei».
La dolcezza, la sollecitudine, la sincerità, il desiderio che trasparivano dalle sue parole mi avevano sorpresa, ammutolita, stregata. E commossa. Gli occhi ripresero a pizzicare pericolosamente. Lui non smise di fissarmi con quell’aria seria. Allungò lentamente una mano verso di me, sopra il tavolo. Ebbi solo un secondo di esitazione e mi chiesi se fosse giusto farlo, ma il pensiero di tutto quello che avevo appena perso e di ciò che mi veniva offerto in quel momento, mi spinse a prendere la sua mano e a stringerla. E per la prima volta dopo ore, sentii di non essere sola: era rimasto ancora qualcosa, o meglio qualcuno, a cui potessi aggrapparmi. Chinai la testa, sopraffatta dal sollievo e dalla tristezza al tempo stesso, per nascondere le lacrime brucianti che scivolavano sulle guance fredde, ma fu inutile.
«È colpa mia?» domandò Alex a voce bassissima.
«No» sussurrai in un singhiozzo. «È solo che… vorrei non dover tornare a casa e restare qui… con te».
Neppure io stessa avrei saputo spiegare cosa intendessi esattamente, cosa volessi sul serio da Alex, amicizia, affetto o qualcosa di più. In quel momento riuscivo solo a pensare a quanto avessi bisogno di lui. Alex forse lo capì, perchè non mi chiese nulla. Le sue dita, ancora intrecciate alle mie, salirono fino al mio viso e mi accarezzarono la guancia bagnata. Le strinsi con calore e quasi mi appoggiai  alla sua mano, per sostenermi. Sentivo la testa insopportabilmente pesante e dolorante. Chiusi gli occhi e un po’ dell’oppressione che mi serrava il petto sembrò scivolare via.




****

 

 

«Qui va bene. Puoi fermarti».
Alex rallentò e fece come gli avevo chiesto, ma non spense il motore, guardando con curiosità fuori dal parabrezza. Eravamo a non più di trenta metri dalla villa dei nonni, che risaltava nel buio come un grosso drago addormentato. E lui la stava fissando proprio come se lo fosse, vagamente preoccupato.
«Abiti qui?»
«Non proprio, qui abitano i miei nonni e i miei zii… acquisiti. Casa mia è un cottage a un centinaio di metri da qui».
Casa… ero sicura di poterla ancora chiamare così? Casa è il posto dove vivono le persone che ti amano e che tu ami. Le persone che ti conoscono profondamente e che tu conosci allo stesso modo. Io potevo essere ancora certa di questo?
«Ah» fece Alex. «Allora lascia che ti accompagni. Non vorrai camminare da sola per i boschi a quest’ora».
Non riuscii a trattenere un sorriso. Si preoccupava per me. Gli piacevo e gli importava sul serio di me. Nello stato di abbattimento in cui ero, quella convinzione mi diede un sollievo incredibile.
«Sono solo le nove. E poi io vado sempre a piedi da qui a casa mia, anche di sera. Non c’è nessun pericolo».
«Sicura?»
«Sicura. Hai già fatto una deviazione di mezz’ora per accompagnarmi».
Scrollò le spalle. «Non ci pensare. E sei sicura… sei proprio sicura di voler andare?»
«In che senso?» domandai, confusa. Dopo tutto lo stress fisico e mentale delle ultime ore, avevo la sensazione di non possedere più un briciolo di energia e non riuscivo a concentrarmi su niente.
Lui mi fissava guardingo. «Te la senti di tornare?»
Finalmente afferrai il senso della domanda. Sapevo che voleva essere gentile, ma in quel momento era la domanda peggiore che potesse pormi. Se fosse dipeso da me, se ne avessi avuto la possibilità, sarei fuggita lontano e avrei messo più chilometri possibile tra me e la mia famiglia, tra me e Jacob. Avrei voluto non doverli guardare in faccia mai più. Risposte, spiegazioni e giustificazioni non m’interessavano. Qualunque cosa mi avessero detto non sarebbe mai stata sufficiente a motivare una vita di bugie.
«No, per niente» mormorai, guardando l’oscurità fuori dal finestrino. «Ma sono stata via per ore. Devo tornare». Feci un sospiro pesante e mi voltai verso di lui. «Grazie».
«No, non ringraziarmi. Vorrei poter fare qualcosa per aiutarti».
Gli sorrisi. «L’hai già fatto: oggi sarei impazzita se non ci fossi stato tu».
Ricambiò con uno di quei suoi sorrisi aperti, luminosi e bellissimi. «Ci vediamo domani?»
«Sì» risposi, anche se in tutta sincerità non ne ero certa. Domani sarebbe accaduto qualcos’altro? Meglio non chiederselo. 
Feci per sfilarmi il giubbotto e restituirglielo, ma lui mi fermò mettendomi una mano sul braccio.
«No, tienilo. Fà freddo». Assunse un’espressione furba. «Domani lo rivoglio indietro, però».
«D’accordo. Ciao, Alex».
Rapidamente, si allungò e mi sfiorò una guancia con le labbra fresche e soffici. «Buonanotte, Scheggia».
Probabilmente approfittava del fatto che fossi troppo frastornata ed esausta per rispondergli a tono. Mi limitai a scendere dall’auto, scuotendo la testa. Nella villa le luci erano accese e con la coda dell’occhio fui certa di vedere delle ombre che si muovevano dietro le ampie vetrate, ma la superai in fretta senza guardare e poco dopo sentii il rumore dell’auto di Alex che ripartiva. Il tragitto verso casa mi parve stranamente breve, sebbene camminassi molto più piano del solito. 
Quando giunsi in vista del cottage, una morsa di ansia improvvisa mi strinse lo stomaco. Cosa, o meglio chi, avrei trovato lì dentro? Speravo con tutte le forze di non dover incontrare Jacob. Avrei preferito un lancio dai Monti Olimpici senza paracadute a un faccia a faccia con lui. Feci il giro della casa e mi avvicinai alla porta sul retro, ma non aprii subito e rimasi in ascolto. Le luci erano spente. C’era un silenzio assoluto, rotto solo dal fruscio delle chiome degli alberi e dall’inquietante richiamo di una civetta.
Facendomi coraggio, spinsi la maniglia ed entrai nella cucina. Era vuota, buia e silenziosa. Sembrava proprio che la casa fosse deserta. Sollevata, passai in salotto e stavo puntando verso la mia stanza quando sentii la porta principale aprirsi di botto e richiudersi subito dopo. Il cuore mi balzò in gola e mi voltai di scatto. La mamma piombò nella stanza come una freccia scagliata a tutta velocità, i capelli in disordine, gli occhi spalancati e un’espressione di ansia allo stato puro.
«Bella, aspetta!». Papà arrivo quasi di corsa alle sue spalle, un braccio teso come per fermarla. Poi mi vide e si bloccò.
Erano lì, tutti e due, immobili, a fissarmi. Mi sentii morire. Era l’ultima cosa che volevo, e invece eccoli lì.
«Renesmee» sussurrò la mamma. Sembrava che fosse senza fiato, ma ovviamente il suo lieve affanno era solo una reazione prodotta dall’ansia. «Finalmente! Eravamo così preoccupati!»
«Preoccupati?» ripetei, disorientata.
«Non sapevamo dove fossi! Sei scomparsa per ore senza dare nessuna notizia, ci siamo spaventati a morte. Ti avremmo cercato, ma…». Lanciò un’occhiata di sbieco a papà, come se gli rimproverasse qualcosa, e non aggiunse altro. 
Non sapevo cosa rispondere. Esattamente come era successo nel pomeriggio, con loro, non riuscivo a respirare e la testa mi girava. Avevo bisogno di allontanarmi. Feci per uscire dal salotto, ma la voce della mamma mi fermò.
«Dove sei stata?» esclamò. Sembrava sconvolta.
Edward non aveva avuto il tempo di informarla, quindi. «Non ha importanza» sussurrai.
«Sì, invece!» esplose lei. «Non puoi sparire in questo modo! So che adesso ce l’hai con noi, ma hai idea di quanto io mi sia preoccupata? Non avevo la minima di dove fossi!»
«Bella, ti prego» intervenne papà a bassa voce, afferrandola per un braccio. Il suo volto uscì dall’ombra dell’ingresso e vidi che i lineamenti perfetti fremevano. Si sforzava di mantenere la calma, ma l'angoscia lo divorava come divorava la mamma. «L’importante è che sia tornata, possiamo parlarne domani».
«Domani? No, dobbiamo farlo subito!»
Quelle parole mi scatenarono dentro una rabbia improvvisa e sorprendente, come una fiamma che divampa nel buio. A stento mi trattenni dal mettermi a strillare. Lei mi aveva mentito spudoratamente, insieme a tutti gli altri. Non aveva il diritto di chiedermi nulla.
«Parlate senza di me» sibilai.
Bella mi guardò in silenzio per un istante, troppo scioccata per rispondere subito. «Cosa?»
«Non mi va di parlare, okay?»
Si riprese in un attimo e assunse un cipiglio severo. «Ma è importante! Renesmee!»
«Bella, no» esclamò papà e le strattonò il braccio. Lei non ci fece caso.
«Ma io non voglio!» gridai, e la mia voce si spezzò. «Non voglio, non ce la faccio! In questo momento non riesco neanche a guardarvi in faccia, non riesco a stare qui davanti a voi, vorrei essere ovunque ma non qui… Lasciatemi in pace».
Tentai nuovamente di lasciare la stanza, ma la mamma parlò con voce talmente tormentata che mi inchiodò sul posto. «Non posso lasciarti andar via così! Voglio spiegarti... Ti prego, tesoro!»
«Non me ne frega niente delle tue spiegazioni!». Erano sconvolti tutti e due. Sapevo che li stavo ferendo, e ne fui soddisfatta. Far provare a loro un briciolo di quello che provavo io era l’unica consolazione che potessi sperare di avere. «Non c’è niente da spiegare. Lasciatemi in pace» ripetei.
Non aggiunsero altro. Mi guardavano con occhi sbarrati. Poi, lentamente, Bella indietreggiò e capii che non avrebbe cercato di fermarmi ancora. Li superai camminando rapidamente, stringendo le braccia al petto, raggiunsi la mia camera e sbattei la porta, chiudendomi dentro a chiave. Sapevo che se avessero voluto entrare una porta chiusa non li avrebbe fermati, ma forse avevano capito che quella sera non sarei stata in grado di reggere un confronto.
Abbassai gli occhi, stringendo ancora la maniglia, e vidi il bracciale intrecciato che Jacob mi aveva regalato per il mio primo Natale. Sentii un nodo stringermi la gola. Cominciai ad armeggiare frenetiamente per sfilarmelo e ci volle un bel po' a causa delle mie dita deboli e tremanti. Poi passai al ciondolo con il ritratto che la mamma mi aveva dato nella stessa occasione. La tristezza mi soffocava sempre di più. Il tempo trascorso con Alex mi aveva aiutata a stare meglio finchè era rimasto al mio dianco, ma adesso ero sola e mi piombava di nuovo tutto addosso. Il peso era tale che mi sembrava di non riuscire a stare in piedi. Mi liberai anche della collana e la gettai a terra insieme al bracciale senza neanche guardarli, poi mi trascinai fino al letto, nascosi il viso tra i cuscini e lasciai scorrere le lacrime. 









Note.
1. Ecco la canzone.







Spazio autrice.
E finalmente la nostra coppietta è tornata! Cosa dire, sapete già che li adoro. Questo capitolo è uno dei miei preferiti, sono così dolci, teneri e imbarazzati... Perfino Alex non riesce ad essere spavaldo e disinvolto come al solito. Spero davvero che vi sia piaciuto. Stavolta chiudo qui, per farmi perdonare il poema che ho scritto l'altra volta xd. A presto!

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Capitolo 13
*** I won't let you go ***


C 13

Capitolo 13
I won' t let you go

 

If there’s love just feel it
And if there’s life we’ll see it
This is no time to be alone, alone, yeah
I won’t let you go

If your sky is falling
Just take my hand and hold it
You don’t have to be alone, alone, yeah
I won't let you go.
 
I won’t let you go,  James Morrison¹


Amicizia. Raddoppia le gioie e divide le angosce a metà.

FRANCIS BACON, Saggi

 


Mi svegliai di colpo, all’improvviso, come se qualcuno mi avesse scosso con violenza. Sollevai le palpebre ma la luce mi ferì gli occhi peggio di una stilettata e dovetti richiuderle immediatamente. Rimasi ferma, sdraiata su un fianco, per non so quanto tempo. Se c’era luce allora dovevo essermi addormentata, a un certo punto, senza accorgermene. Non che il sonno mi avesse fatto bene, comunque: avevo la spiacevole sensazione che la squadra di baseball della Forks High si stesse allenando contro le pareti del mio cranio. Lentamente mi misi a sedere sul letto e riprovai ad aprire gli occhi doloranti. La sera prima non avevo chiuso le tende e la luce fredda e grigia, perfettamente intonata all’umore, aveva invaso la stanza.

Due improvvisi colpi alla porta, per quanto delicati, mi fecero sobbalzare.
«Buongiorno tesoro!» disse una voce cristallina. La mamma. «Come stai?». Breve pausa. «Senti, perché non te la prendi comoda oggi? Non sei costretta ad andare a scuola se non ti va». Cercava di avere un tono normale, ma si percepiva benissimo la tensione.
Non risposi, e poco dopo si allontanò. Sarei andata a scuola, ovviamente. Non se ne parlava proprio di rimanere a casa. Volevo vedere e ascoltare i miei genitori il meno possibile. Mi alzai dal letto barcollando e inciampai in qualcosa… gli stivali, di cui mi ero faticosamente liberata prima di addormentarmi. Mi chiusi in bagno (non ce n'era motivo, ma mi sembrava di essere più al sicuro chiusa da qualche parte) e feci una lunga doccia bollente, cercando di rilassarmi e scrollarmi di dosso un po’ di torpore. Mi sentivo stranamente sporca e avevo un sapore disgustoso in bocca; lavai anche i denti due o tre volte per cercare di eliminarlo.
Dopo la doccia tornai in camera e gli occhi mi caddero sul bracciale e la catenina che avevo gettato sul pavimento. Non sopportavo di vederli. Li raccolsi, li chiusi in un cassetto e mi sforzai di non pensarci. Impiegai parecchio tempo per decidere cosa mettermi. Tirai fuori tutto l’armadio e non facevo che guardare e riguardare gli stessi capi senza vederli davvero. Ero confusa e disorientata: mi sembrava che i colori fossero troppo accesi nonostante il grigiore invernale del cielo, la luce troppo intensa, i rumori troppo forti, le cose vicine troppo lontane e quelle lontane apparivano vicine.
In qualche modo riuscii a vestirmi, preparai la borsa, presi il giubbotto di Alex per restituirglielo e poi rimasi impalata nel mezzo della stanza. E adesso? Dovevo uscire e incontrare i miei? Per un attimo considerai l’ipotesi di uscire dalla finestra, ma non era una cosa molto sensata. Prima o poi avrei dovuto affrontarli. Presi un bel respiro, spalancai la porta e marciai in cucina.
«Buongiorno!» esordirono i miei contemporaneamente. 
Erano entrambi ai fornelli, impegnati a preparare la colazione. Non avevo un briciolo di fame e mi limitai a versare un bicchiere d’acqua, evitando con decisione di guardarli. Papà emise un sospiro leggerissimo e spense il fuoco sotto la padella con le omelette. La mamma invece non mollò subito.

«Allora, cosa vorresti mangiare? Ci sono biscotti, cereali, toast, marmellata… oh, ti abbiamo fatto le omelette! Non sono buone come quelle di Jasper ma immagino che possano andare». Visto che non rispondevo, abbandonò il tono forzatamente allegro e assunse un'espressione preoccupata. «Tesoro, ti prego, parla con noi. Questo silenzio non ti fa bene».
Non avevo intenzione di rispondere, ma non potei fare a meno di rivolgerle un’occhiata profondamente astiosa. Come poteva credere che nel giro di una notte mi fosse passata ed io fossi già pronta a discutere con loro? 

«È inutile, Bella» disse papà in un mormorio che afferrai a stento.
Be’, per una volta la sua capacità extra mi faceva proprio comodo. Uscii di casa senza aggiungere altro e loro mi lasciarono andare, grazie al cielo. Camminavo a passo sostenuto, le braccia incrociate, e intanto rimuginavo. Ci avrei messo un bel po’ ad arrivare a scuola a piedi, ma avevo pensieri sufficienti a tenermi occupata per tutto il tragitto, e anche oltre. Ero così lontana dal mondo reale che quando superai la casa dei nonni e vidi ferma nel viale un'Audi nera, luccicante sotto il pallido sole invernale come nel pieno di un pomeriggio estivo, e il suo proprietario in piedi appoggiato alla portiera, intento a fumare una sigaretta, sussultai per la sospresa. Forse la stanchezza e lo stress giocavano brutti scherzi. Provai a chiudere e riaprire gli occhi, ma niente da fare: erano ancora lì. Quando Alex si accorse del mio arrivo, i suoi occhi si illuminarono; si sfilò la sigaretta di bocca e sorrise.
«Ehilà» mi salutò, con il tono di chi saluta un compagno di bevute.
«Che ci fai qui?»
«Sono venuto a riprendermi il giubbotto» rispose come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo. «Volevo essere sicuro che non cercassi di tenerlo».
«Perché mai dovrei tenere il tuo giubbotto?» indagai con cautela.
«Perché sei pazza di me». Si portò di nuovo la sigaretta alle labbra e un attimo dopo la riabbassò con un gesto fluido ed elegante.
«Sì, come no. Il Grande Conquistatore ha colpito ancora».
Annuì gravemente come se stessimo affrontando un argomento della massima serietà. «Eh sì, l’effetto che ho sulle donne è molto pericoloso, ma…». Alzò le spalle, come per dire che non era colpa sua. «Dai, sali».
Diede un’ultima boccata alla sigaretta, poi la gettò a terra, la spense con la punta della scarpa e salì in macchina. Io sedetti in fretta al posto del passeggero, sentendo un'improvvisa ondata di entusiasmo.
«È un quarto d’ora che ti aspetto» continuò mentre accendeva il motore. «Ci metti un bel po’ a farti bella, eh?»
«Dove mi porti, oggi?» domandai invece di rispondergli. Quando cominciava a fare così era meglio ignorarlo o non avrebbe più smesso.
«Che ne dici di Seattle? L’ho vista solo dall’aereo, non mi dispiacerebbe fare un giro».
Niente male come idea. Folle, certo, ma davvero niente male. «Che ne dici della scuola?» rilanciai.
«Sapevo che avresti detto così. Vada per la scuola, allora».
Ci fu silenzio per un minuto, ma stranamente la cosa non mi pesava. Forse dopo che avevo fatto una scenata da pazza davanti a lui sarebbe stato sciocco provare imbarazzo solo perché ce ne stavamo zitti. All’improvviso lui parlò di nuovo, con voce seria.
«Come stai?»
«Bene» risposi automaticamente, sistemando il suo giubbotto piegato sul cruscotto. Ma non era la verità, lo sapevo, e per qualche strana ragione mentirgli mi parve strano. Inutile e sciocco anche questo dopo che avevo passato in sua compagnia i momenti peggiori della mia esistenza. «No, non lo so» ammisi.
«Senti, mi dispiace di essere venuto qui così, di testa mia» disse dopo una breve pausa. «Ma vorrei sapere una cosa e non sopportavo di aspettare che ci incontrassimo a scuola. La pazienza non è la mia specialità».
«Neanche la mia» risposi con un sorrisino. «Che cosa vuoi sapere?»
«Volevo sapere se… se le cose sono ancora come erano ieri sera. Cioè, se pensi ancora che tu ed io potremmo essere amici». Gli occhi erano impenetrabili, ma c’era una lieve tensione nei suoi tratti.
«Certo» mormorai. «Certo che siamo amici, Alex».
Perché ne dubitava? La sua spavalderia veniva meno nei momenti più strani. Nel sentire le mie parole si rilassò visibilmente. 
«Allora mi sento autorizzato a chiederti se per caso ti andasse di parlare».

Sembrava così sinceramente premuroso che avrei tanto voluto dirgli di sì. Ma era impossibile. «Non credo. Non me la sento, non ancora».
«Okay, nessun problema. Comunque io ci sono».

«Va bene. Grazie, Alex».
«Di nulla». Mi rivolse un’occhiata rapida e un sorriso brillante.
Restammo in silenzio per il resto del viaggio verso la scuola. Io non avevo voglia di parlare e Alex sembrava preso da riflessioni proprie. Quando parcheggiò nel cortile e scendemmo, osservai l’insieme di bassi edifici di fronte a noi con sguardo spento.
«Siamo ancora in tempo, se vuoi. Le fughe dell’ultimo minuto sono la mia specialità» disse Alex con voce suadente.

«Lo so bene» commentai lanciandogli un’occhiata di sbieco, mentre gli porgevo il giubbotto. «Ma è tutto a posto, tranquillo».
«Okay». Prese la giacca e se la gettò su una spalla. «Allora ci vediamo in mensa?»
«Certo. A dopo. E grazie per il passaggio… di nuovo».
Eravamo vicini e mi bastò allungare appena una mano per afferrare la sua e stringerla un momento. Lui parve un po’ sorpreso, ma lieto di quel contatto spontaneo. «A più tardi, Scheggia». 
Mi sorrise, lasciò la mia mano e si incamminò lentamente verso la scuola.

Quanto a me, mi ci vollero un paio di minuti buoni per ricordare quale fosse la mia prima lezione e dove si tenesse. Ero così stanca e distratta che non mi sarei stupita affatto di finire chissà dove. Camminando lenta come una lumaca assonnata, raggiunsi l’aula giusta appena in tempo. I banchi erano già tutti occupati e il professor Berty sarebbe arrivato presto. Le mi amiche erano raggruppate in fondo all’aula: Jas e Maggie discutevano animatamente di qualcosa, Danielle sfogliava il libro di letteratura e Holly si esaminava con attenzione in uno specchietto sistemandosi la frangia. Qualche banco più in là, Tom e Paul giocavano a basket con altri ragazzi usando il cestino della carta straccia come canestro e un astuccio delle penne come palla.
«Ciao ragazze» le salutai, e quando mi resi conto di quanto suonasse abbattuta la mia voce provai un brivido.
Jas mi guardò e spalancò gli occhi. «Renesmee! Era ora, stavi per fare tardi. Perché non mi hai chiamato, ieri? Ho provato a telefonare a casa tua ma non rispondeva nessuno… Che cos’hai?»
Anche le altre mi fissavano con curiosità, adesso. Pensai affannata a cosa avrei mai potuto raccontare di tutta quella storia, ma non mi venne in mente granchè. «Niente. Sto bene» mugugnai sbattendo la borsa sul banco.
«Sei sicura?» indagò Danielle chiudendo il suo libro. Mentre la guardavo negli occhi, fui certa che non sarei riuscita a mentirle tanto facilmente; era troppo sensibile e perspicace.

«Sì, è solo che… ieri ho litigato con i miei zii».
«Ma tu non litighi mai con i tuoi zii» obiettò Holly.
Le sue parole mi ferirono come una lametta affilata. «Be’, ieri abbiamo litigato».
Speravo che la cosa finisse lì. E invece no.

«È successo qualcosa di grave, vero?» chiese ancora Danielle. Sembrava preoccupata.
Sospirai, passandomi le mani sul viso. «Sentite, so che vi sto facendo preoccupare, ma apprezzerei se evitassimo di parlare di questo, oggi» dissi stancamente.
Jas e Holly si scambiarono un’occhiata. 
«Okay» fece Jas, un po’ esitante. «Ma…»

Per fortuna il professor Berty entrò in aula in quel momento e troncò la conversazione. 
Non seguii nemmeno una parola di quella lezione, né di quelle successive. Passai tutta la mattina con la testa in una specie di nebbia. Forse qualche insegnante mi fece delle domande, alle quali forse risposi. Il giorno prima non avevo fatto i compiti e probabilmente mi beccai qualche ramanzina, ma credo che non la sentii nemmeno. Non parlai con nessuno, neanche con le mie amiche; mi camminavano accanto, ma quasi non me ne accorgevo. Non mi sentivo affatto bene, ero debole e stanca. Andavo da un’aula all’altra come un automa. Jas e le altre non cercarono più di farmi parlare, forse perché avevano capito che non ce l’avrei fatta, o forse perché non sapevano che cosa dirmi.

Quando suonò la campanella del pranzo non me la sentii di affrontare la sala mensa, e poi non avevo un briciolo di fame. Sapevo che Alex mi stava aspettando, magari per pranzare insieme di nuovo, ma il pensiero del caos della mensa mi metteva addosso un’ansia insopportabile. Dissi alle mie amiche che dovevo andare in bagno e le avrei raggiunte più tardi, e invece passai tutto l’intervallo seduta per terra a fissare la fila di porte in plastica dei gabinetti davanti a me e a sperare di confondermi con la parete. 
A un certo punto Jas venne a cercarmi per verificare che fossi ancora viva. Cercò di convincermi a uscire e ad andare in mensa con lei, si offrì di rimanere lì a tenermi compagnia, ma le assicurai che l’unica cosa che volevo era stare un po’ da sola. Forse ci rimase male, ma prima di andarsene mi rivolse un piccolo sorriso incerto. Non ce l’avevo affatto con lei e le ero grata per quelle attenzioni, ma averla accanto senza poterle dire nulla, o peggio ancora raccontando qualche balla, sarebbe stato troppo difficile; non mi sentivo ancora in grado di affrontare qualcuno.

Mentre me ne stavo lì, intenta ad ascoltare il silenzio intorno a me, alternavo momenti di vuoto assoluto a momenti in cui la mia testa era così affollata di pensieri da sembrare un palloncino sul punto di scoppiare. Cercai di mettere un po’ d’ordine in quella confusione e di immaginare come poteva essere andata davvero la storia della gravidanza della mamma. 
I miei genitori si erano sposati ed erano partiti per la luna di miele, convinti di non poter avere figli, e il mio arrivo era stata una sorpresa assoluta. Okay, fin qui ci arrivavo. E dopo cos’era successo?
Sapevo che la mamma non aveva cominciato subito a star male, ma dopo qualche giorno dal rientro a casa. Probabilmente era stato allora che avevano cominciato a considerare la possibilità di… Chi era stato a proporlo? Papà? Carlisle? O era stata proprio mia madre, quando si era accorta di non poter sopportare le fratture, la febbre e tutto il resto? Ero sicura che avesse provato a resistere, all’inizio, se non altro per ostinazione. Ma come si era arrivati fino a me? Avevano cambiato idea? E dopo… mentre la mamma si trasformava… perché mi avevano tenuta? Perché non si erano liberati del mostro che aveva fatto del male alla loro Bella? 
E Jacob? Aveva avuto l’imprinting, e poi? Aveva deciso lui di non dirmi niente, oppure i miei? E chi altro sapeva di tutta questa storia, aborto compreso? Anche Billy, Sue, Emily, i licantropi… tutti, tranne me
Sentii una serie di fitte alle tempie. Troppi pezzi mancanti, ecco il problema. Il puzzle da ricostruire era enorme, e io disponevo solo di un mucchietto di tessere sparpagliate... Impossibile pensare di metterle nel giusto ordine da sola.

C’erano così tante cose che non sapevo. L’unica certezza al momento era che la mia famiglia e il mio migliore amico mi avevano riempito di bugie ed io, stupida e ingenua, mi ero sempre fidata ciecamente. Sapevo fin da piccola che durante la gravidanza la mamma era stata molto male, eppure mai, nemmeno una volta, mi ero chiesta se avessero pensato a una soluzione drastica. Il fatto che i miei genitori mi avessero desiderata mi era sempre parso scontato. Ero talmente sicura del loro amore per me da non riuscire nemmeno a concepire quell’idea. 
Ed erano anni che provavo quella sensazione, la sensazione che tutti loro sapessero qualcosa di cui ero all’oscuro, eppure mai avevo pensato che Jacob,
il mio Jacob, potesse mentirmi così a lungo e su una cosa così importante, o che mio padre potesse guardarmi negli occhi e dirmi una bugia. Avevo sempre creduto che fosse solo una sensazione sbagliata. E invece avrei dovuto darle ascolto. 
Mi avevano mentito tutti. Mi avevano ingannato. Mi sentivo tradita. Ingannata e tradita dalle persone che amavo di più al mondo. In un istante sentii montare un’onda di rabbia tale che avrei voluto distruggere a calci quelle stupide porte dei gabinetti una a una… Ma ero così debole da non riuscire neanche ad alzarmi da terra, figuriamoci mettermi a demolire i bagni della scuola. 
Come avevano potuto farmi una cosa del genere?
Perché?
L’imprinting… il colpo di fulmine attraverso il quale i licantropi trovano la loro anima gemella, qualcosa di magico e misterioso di cui nemmeno gli anziani della tribù sapevano molto. Davvero c’era questo, tra noi? La nostra amicizia non era affatto naturale, spontanea e meravigliosa come avevo sempre creduto, ma il frutto di una specie di incantesimo? Era per questo che Jacob mi voleva bene, che trascorreva tutto il suo tempo libero con me, che mi ascoltava e mi sosteneva, perché lo voleva l’imprinting? 
Anima gemella. Rabbrividii.
Ma com’è possibile?,
mi chiesi, attonita. E come ho potuto non accorgermene? 
Jacob era stato davvero così bravo a nascondere la verità? Oppure i segnali c’erano sempre stati ed io, cieca come una talpa e ingenua come una bambina, non avevo saputo coglierli? Lasciai vagare la mente tra i ricordi. Jacob che giocava con me senza mai stancarsi. Jacob che mi faceva addormentare tra le sue braccia per scacciare gli incubi. Jacob che parlava e scherzava con me, che mi confidava tutto, che mi ascoltava come se ogni mia singola parola fosse di un’enorme importanza. Jacob che restava per ore a guardarmi mentre leggevo o facevo i compiti. Jacob l’apprensivo, che se mi perdeva di vista subito mi cercava con l’aria ansiosa di un naufrago che ha perso il suo salvagente.

Okay, i segnali c’erano eccome. Altra ondata di rabbia, così improvvisa quasi da spaventarmi, tanto forte quasi da urlare. Accidenti a lui! Come aveva potuto? Come aveva osato? Aveva rovinato tutto, per ben due volte: prima facendosi venire quel maledetto imprinting, e poi decidendo di non dirmelo. D’accordo, non era una cosa volontaria, ma… ma… sospirai con forza e a poco a poco mi calmai. Lui non poteva farci niente, e lo sapevo benissimo. Pensai all’assurdo triangolo tra Leah, Sam ed Emily. Certo che non poteva farci niente. 
Però avrebbe povuto essere sincero con me e dirmi la verità in nome dell’amicizia che ci legava. Io non avevo segreti per Jacob, e lui invece mi mentiva da anni. Mi resi conto che se anche un giorno avessi accettato l’idea dell’imprinting, e non ero affatto sicura di riuscirci, le sue bugie sarebbero sempre state un muro insormontabile, tra noi. Niente sarebbe più stato come prima, né con Jacob né con la mia famiglia. Il mio mondo, che avevo creduto perfetto fino a ventiquattr’ore prima, era andato in pezzi ed io non potevo fare niente per ricostruirlo. Avevo perso tutto.

Davvero mio padre e gli altri avevano creduto che io fossi un mostro? Il fatto che io fossi soltanto una bambina, che fossi stata concepita anche da un’umana, non aveva avuto importanza?
Ma
forse hanno avuto tutti i torti?, sussurrò una vocina maligna dentro di me. Io avevo fatto a pezzi mia madre. Non intenzionalmente, però l’avevo fatto. Il suo cuore si era fermato mentre dava alla luce me, e se papà non le avesse iniettato il suo veleno… sarebbe morta per causa mia. Anzi, lei era morta per causa mia. L’avevo uccisa. Era ovvio che tutti avessero pensato che solo un abominio poteva fare questo… Un abominio. Fu come un ceffone in piena faccia. Ecco cos’ero: un abominio. Un ibrido. Qualcosa che non aveva diritto di esistere, ancor meno dei vampiri, perché loro almeno diventavano tali senza uccidere le proprie madri. Ovvio che la mia famiglia avesse cercato di eliminarmi. Era così ovvio che mi sentii davvero un’idiota per non esserci arrivata prima.
Mi avevano sempre detto che quello che era successo alla mamma non era stata colpa mia, forse per mettere a tacere le proprie coscienze. Ma adesso mi rendevo conto che quel senso di colpa era sempre rimasto acquattato dentro di me in tutti quegli anni, pronto a risvegliarsi da un momento all’altro e a saltarmi alla gola per distruggermi.
Basta. Non ne potevo più. Quanto avrei voluto spegnere i pensieri e trovare un briciolo di pace e di silenzio. Probabilmente Alex aveva desiderato la stessa cosa nel suo periodo di follie. Ma io non avevo alcool, né erba, né una macchina da guidare senza patente a disposizione. Provai a smettere di pensare e lasciai scorrere le lacrime, avvinta dalla tristezza e dalla nausea che provavo verso me stessa e il resto del mondo, fino a stordirmi completamente.
Fu il suono della campanella a risvegliarmi di botto da quel torpore. Con gran fatica mi tirai su dal pavimento del bagno e mi trascinai al lavandino più vicino. Quasi mi spaventai nel vedere riflessa nello specchio la mia faccia congestionata, con due lunghe e orrende tracce di mascara lungo le guance e i capelli in disordine. Bagnai un fazzoletto di carta e lo passai sul viso e agli angoli degli occhi, tentando di darmi una sistemata; se mi fossi presentata in classe in quel modo sarebbe stato un bel problema.
Mentre mi fissavo allo specchio e i miei occhi color cioccolato al latte ricambiavano lo sguardo con espressione triste, la porta del bagno si aprì ed entrò una delle persone che meno avrei desiderato vedere in quel momento: Caroline Jhonson, in compagnia di due membri del suo clan di oche, Susan Taylor e Melissa Clark. Caroline mi osservò, stupita di trovarmi in giro quando avrei dovuto essere in classe, poi esaminò la mia espressione e scoppiò in una mezza risatina, lanciando a Susan un’occhiata eloquente. Che stronza. Ci mancava solo quello, per peggiorare la giornata. Afferrai la borsa con rabbia e la superai rapidamente, quasi di corsa; non la sfiorai nemmeno, ma lei si ritrasse d'istinto, sconcertata.
Ero parecchio in ritardo per la lezione successiva, francese, e quando entrai in aula la professoressa mi lanciò un’occhiataccia.
«Finalmente, signorina Cullen» mi salutò. «Le si è rotto l’orologio?»
«Mi scusi» borbottai e raggiunsi in tutta fretta il mio posto, sgradevolmente consapevole del fatto che circa ventiquattro paia di occhi mi stavano osservando incuriositi.
Danielle, che era seduta alle mie spalle, si sporse per avvicinarsi il più possibile. «Ehi, stai bene?» chiese a bassa voce.
«Sto bene» risposi automaticamente, senza nemmeno pensarci. Sentii che tornava a sedersi, forse con un po’ di esitazione.
Nella fila alla mia destra e due banchi avanti al mio, Jas si voltava di continuo per lanciarmi occhiate indagatrici. Mi augurai che smettesse, aprii il libro di francese a una pagina a caso e finsi di ascoltare la professoressa, intenta a scrivere alla lavagna la consegna di una tesina per la settimana successiva. Anche quell’ora sembrò passare in un attimo, mentre tornavo a farmi avvolgere dalla solita nebbia protettiva, e quando suonò la campanella e tutti cominciarono ad alzarsi mi sentii confusa, come se mi fossi svegliata di colpo nel cuore della notte. Jas mi raggiunse rapida come un fulmine.
«Dov’eri finita? Ci hai fatto preoccupare» esclamò.
La guardai, cercando di concentrarmi sul suo viso. Sembrava stravolta. «Scusa, volevo stare un po’ da sola» borbottai.
Non sembrò del tutto convinta ma per fortuna rinunciò a porre altre domande, e anzi cercò di cambiare argomento, forse per distrarmi, mostrando una delicatezza insolita in lei.
Danielle mi aveva portato dalla mensa un sacchetto di patatine e una lattina di Coca. La bevanda fresca e dissetante mi fece bene alla gola, secca e irritata dal pianto, ma mandare giù le patatine mi costò un certo sforzo. Non mangiavo dalla sera prima, eppure non ricordavo di aver mai avuto meno appetito in vita mia. Comunque vuotai il sacchetto perché non ci rimanesse male, anche se Jas fu ben lieta di darmi una mano, poi ci dirigemmo insieme in palestra per l’ora di ginnastica. Partecipai a ben tre partite di pallavolo, ma ero così distratta da lasciarmi sfuggire una montagna di palle e sbagliare tutte le battute. Probabilmente fu la mia prestazione peggiore, in palestra, e il professor Clapp mi osservava meravigliato, chiedendosi come mai quel giorno l’atletica Renesmee Cullen fosse responsabile della perdita della sua squadra due volte su tre.
In un modo o nell’altro anche quella lezione terminò. Suonò l’ultima campanella, e a quel punto mi resi conto con un sussulto interiore che era ora di tornare a casa. Ma non ne avevo alcuna voglia. No, non sarei tornata subito. Magari avrei potuto fare una passeggiata. Sì, buona idea. Preferivo di gran lunga passare qualche ora sotto la pioggia a bighellonare senza meta piuttosto che dover affrontare i miei.

Restai indietro per aiutare il professor Clapp a raccogliere le palle e a smontare la rete di pallavolo, poiché stava per iniziare un allenamento della squadra di basket; ero sicura che fosse una specie di punizione per il modo schifoso in cui avevo giocato. Quando raggiunsi gli spogliatoi, trovai Holly e Jas ancora lì ad aspettarmi. Mi cambiai mentre ascoltavo Holly raccontare tutta infervorata di un vestito che lei voleva a tutti i costi e che sua madre si rifiutava di comprarle perchè troppo costoso, poi lasciammo insieme gli spogliatoi. Sulla soglia quasi rischiammo di finire addosso a qualcuno: Alex, appoggiato al muro, le braccia incrociate e l’espressione corrucciata. Portava gli occhiali da sole, ma quando mi vide se li sfilò.
«Sei viva e vegeta!» esclamò. «Bene, una grossa preoccupazione in meno».
«Alex» mormorai. «Scusami… So che dovevamo vederci in mensa ma… non avevo fame e così…» 
Tacqui, consapevole del fatto che la mia spiegazione suonava abbastanza penosa. Ero imbarazzata, ma anche contenta e un po’ stupita di trovarlo ad aspettarmi per la seconda volta nell’arco di una giornata. Curioso come la situazione si fosse ribaltata e ora fosse lui a cercarmi, a guardarmi con ansia, a chiedersi se lo stessi evitando e perché.

Alzò le spalle. «Fa niente». Lanciò un’occhiata alle mie amiche. «Ciao ragazze».
Jas fece una specie di sorrriso ma non rispose, troppo occupata a guardare alternativamente me e lui con aria interrogativa, come se si aspettasse una spiegazione. E solo allora ricordai che non avevo ancora informato le mie amiche di quello che era successo il pomeriggio precedente: Jas non aveva la minima idea dei recenti sviluppi tra me ed Alex. Aveva un’espressione così confusa che era quasi divertente.
Holly fu più veloce a riprendersi dalla sorpresa. «Ciao Alex! Tutto bene? Come stanno andando i primi giorni nell’insulsa Forks?»
«Be’, non ho ancora tentato il suicidio» rispose lui con tono neutro. «Però devo ammettere che forse le cose sono più interessanti di quanto potessi immaginare».
Mi guardò ed io arrossii nel giro di un secondo. Alludeva a me?
Quelle parole sembrarono rivelare ad Holly scenari inquietanti, perché mi sorrise con l’aria di chi ha finalmente afferrato il concetto. «Allora noi vi lasciamo. Ciao Renesmee!». Si girò verso di me, dando le spalle ad Alex, e mi fece un occhiolino piuttosto eloquente prima di baciarmi sulla guancia.
Jas la imitò, un po’ sconcertata. «Tutto okay?» aggiunse sottovoce mentre la sua guancia sfiorava la mia.
Le rivolsi un piccolo sorriso che speravo fosse rassicurante.
«Buon divertimento!» fece Holly con entusiasmo, prese Jas per un gomito e si allontanarono insieme.
Sapevo che prima o poi mi sarebbe toccato spiegargli tutto e a quel pensiero mi sentii esausta. Sospirai, e mi accorsi che Alex mi fissava con attenzione.
«Andiamo» disse all’improvviso.
Si voltò e prese a camminare.

Lo seguii, incerta. «Andiamo dove?»
«Ti accompagno a casa» rispose come se fosse stata una cosa assolutamente ovvia.
Chinai il capo per nascondere un sorriso lieve. Non potevo credere che fosse così pieno di attenzioni verso di me. Ma ne ero felice. Forse perché mi aveva vista nel momento più tremendo della mia esistenza e mi era stato vicino, avevo la sensazione che tra me ed Alex fosse nato un legame speciale.
«Sei gentile, ma non torno a casa».
«Ah, no? Che programmi hai per il pomeriggio, allora?»
«Niente di particolare, pensavo di fare un giro».
«Non hai impegni?». Scossi il capo, e lui rimase zitto per qualche secondo. L’ultima campanella era suonata da un pezzo e i corridoi erano deserti, a eccezione di qualche studente solitario. «Neanche io ho impegni. Potremmo non fare niente di particolare insieme, che ne dici?»
Esitai, cercando di prendere tempo. Fino al giorno prima, una proposta del genere mi avrebbe mandata su di giri, ma adesso… per quanto lui mi piacesse, non ero sicura che la sua compagnia fosse la cosa di cui avevo bisogno. Forse dovevo starmene da sola, pensare un po’. Eppure… forse per quel giorno avevo pensato abbastanza. Pensare faceva male, e non ero arrivata a nessuna conclusione significativa. A un tratto mi sentii chiamare.
«Scheggia?»
Tornai bruscamente alla realtà e mi ricordai di Alex che camminava al mio fianco. «Ehm, scusa» farfugliai. «Ero distratta».
«Se non ti va puoi dirmelo. Non ci resterò male o chissà cosa» disse, tranquillo. 

«No, non è questo» protestai. L’ultima cosa che volevo era fargli credere che non mi andasse di stare con lui. «È solo che… non posso affrontare niente di impegnativo, in questo momento. Ho troppe cose per la testa».
«Trovi che stare con me sia impegnativo?» mi chiese a bruciapelo, l’aria furba.
Mi scappò un sorrisino. In un modo o nell’altro, Alex finiva sempre a parlare di sé. «Non sai quanto».
«Lo prenderò come un complimento» disse, serafico. «Comunque non pensavo a qualcosa di impegnativo. Volevo invitarti a casa mia».
Dal modo in cui mi sorrise intuii quanto desiderava che io accettassi. L’idea era allettante, stuzzicava la mia curiosità, ma non riuscivo a non provare un filo d’ansia. Cosa si aspettava esattamente da me? Forse Alex percepì la mia indecisione, perché si fermò e mi guardò con aria seria, bloccandomi il passo.
«Senti, io e te siamo amici, ricordi? Allora permettimi di darti un consiglio da amico. So che stai male e che in questo momento vorresti solo rintanarti chissà dove e commiserarti in piena solitudine.... Lo so, credimi, ci sono passato anch’io. Però non dovresti stare da sola, adesso, almeno non sempre. Dovresti sforzarti di stare con qualcuno che ti faccia sentire un po’ meglio. Forse non io, d’accordo, ma… in due è più facile. Fidati». 
Mi rivolse un sorriso molto dolce, che ricambiai istintivamente. E decisi.

«Okay» risposi. Lo superai e ripresi a camminare.
«Wow… convincerti è stato facile quasi quanto farti scappare da scuola con me, lunedì. Chissà, magari troveremo il modo di rendere impegnativo il pomeriggio anche stando semplicemente a casa» commentò con aria maliziosa mentre uscivamo nell’aria fredda del cortile.
Lo fulminai con lo sguardo, tirando su la cerniera del giubbotto. «Alex» borbottai «non farmi pentire di aver preferito casa tua a un giro per le strade con questo tempo».
Mentre parlavo, diedi velocemente un’occhiata al parcheggio e con sollievo non scorsi nessun familiare fuori di testa in attesa. Ne fui sorpresa. un po’ di tempo dopo papà mi avrebbe raccontato di aver faticato parecchio a convincere la mamma a non presentarsi fuori scuola e a lasciarmi i miei spazi, almeno per un pomeriggio.
«Non ci si abitua mai alle temperature polari, allora? Sai, non avrei mai pensato di rimpiangere gli inverni newyorkesi».
«Credevo che gli inverni a New York fossero molto freddi» commentai, curiosa.
«Sì, ma almeno non sembra di vivere costantemente sott’acqua» brontolò, scrollando via le gocce di pioggia dai capelli.
Montammo sulla sua auto e mise in moto.
«Mi dispiace davvero di non aver pranzato con te, oggi» aggiunsi. «Non l’ho dimenticato, ma pensavo che mi avrebbe fatto bene stare da sola a riflettere. E non mi andava di affrontare… sai, tutta quella gente, tutta insieme».
Temevo che potesse giudicarmi insicura ed esagerata, invece annuì con l’aria di chi la sa lunga. «È normale, Scheggia. Non stai impazzendo, sei solo in crisi».
Sbuffai, esasperata. «Basta, Alex. Basta con quel soprannome, mi hai davvero stufata» protestai, scandendo bene le parole.
«Be’, devi pazientare solo un altro po’: te l’ho detto che prima o poi soccomberai al mio fascino e ti ci abituerai».
Oddio. Qualcuno gli tappi la bocca, adesso. «Ma non ti stanchi mai di tutta questa ironia? Non senti mai il bisogno di essere serio?» domandai, sinceramente curiosa.
«Certo che sì» esclamò, e parve quasi offeso dalle mie parole. «Pensi che non fossi assolutamente serio poco fa, quando ti ho detto che avresti fatto meglio a non stare troppo da sola?»
Stavo per ribattere, sebbene non sapessi precisamente in che modo, ma mi venne in mente una cosa. «È successo anche a te, quando stavi male, di sentirti meglio accanto a qualcuno?»
Fuori aveva preso a cadere una pioggia sottile ma battente. Alex, tornato serio di colpo, azionò i tergicristalli mentre parlava. 
«Sì. Non uno qualunque, però. Sai, a volte capita che ci sia una sola persona tra tutte quelle che tengono a te in grado di capirti davvero. Anzi, è una fortuna trovarne anche solo una. Non che gli altri non vogliano aiutarti, ma
quella persona è l’unica che possa riuscirci, l’unica che sappia come fare». Breve pausa. «Era… anzi, è la mia migliore amica».
Mi voltai a guardarlo e scoprii che stava sorridendo. «Una ragazza come migliore amica?» ripetei, un po’ scettica. 
Non ce lo vedevo, Alex, a parlare delle sue conquiste con un’amica. Lo avevo sempre immaginato circondato da un gruppo di modaioli compagni di scuola armati di cellulari ultimo modello, sigarette e gel per capelli. E poi nella mia mente risuonò una frase che aveva pronunciato mentre eravamo a La Push, sulla spiaggia. 

Se non sono impazzito del tutto lo devo solo a Julie, che non mi ha mai lasciato solo, nemmeno quando combinavo un guaio dietro l’altro… E alla mia migliore amica: anche lei mi è rimasta vicino nonostante tutto.
Alex inarcò un sopracciglio. «Il tuo migliore amico non è un tizio di ventun'anni?» rilanciò.
L’allusione a Jacob mi provocò una fitta di disagio. Dovevo avergliene parlato, durante una delle nostre chiacchierate. 
«Touchè» mormorai e cercai di ridere, ma mi uscì una strana risatina nervosa. «Scusa, non volevo dire… Insomma, io credo che ragazzi e ragazze possano essere amici. È solo che da te non me l’aspettavo, ecco. Non mi sembri il tipo che considera le ragazze come possibili amiche».

«Prenderò anche questo come un complimento» esclamò. «Oggi sei veramente carina con me, Scheggia».
«E tu forse sei un po’ troppo ottimista».
Ridacchiò mentre svoltava a sinistra in South Forks Ave². «Ogni tanto bisogna pur esserlo, o non si arriverebbe a fine giornata. E te lo dice un pessimista cronico».
«Davvero?»
«Certo. Un pessimista cronico che fino a poco tempo fa sguazzava letteralmente nella depressione. E ogni tanto ci sguazza ancora, quando proprio non ha nient’altro da fare e si annoia». Ridacchiai spontaneamente, divertita. Lui mi guardò sorridendo. «Il che è un potenziale problema, dal momento che questa città sembra la capitale della Noia».
«Forse è il caso che tu fugga da Forks» suggerii.

«Chi ha detto che voglio andarmene?». Aggrottò la fronte, fingendosi perplesso.
Okay, a quanto pare non si stancava mai di scherzare. «Rassegnati a sopportare la noia, allora» conclusi alzando le spalle.
«Ah, no, niente affatto. La rassegnazione è un suicidio quotidiano, parola di Honorè de Balzac. Toccherà a te tenermi occupato» disse e mi lanciò un’occhiata che mi fece arrossire.
Puntai lo sguardo fuori dal finestrino, imbarazzata, e per un po’ scese il silenzio.
«Stai pensando a come fare, vero?» chiese all’improvviso. Manteneva un tono ironico, ma ero sicura che si preoccupasse quando restavo zitta troppo a lungo.
«No» risposi sinceramente. «Riflettevo su una cosa. Anch’io tendo ad essere pessimista, a volte» dissi lentamente. «L’ho ereditato da mio padre…. Stando a quello che so di lui, insomma. E in questo momento vedo davvero tutto nero».
Mi sfuggì un sospiro mentre tornavo a guardare fuori. Il cielo ingombro di nuvole gonfie e grigie sembrava rispecchiare il grigiore che sentivo dentro. Per un attimo credetti che Alex stesse per dire qualcosa, ma ci ripensò e tornò il silenzio. 
Per distrarmi, mi concentrai sulla strada e mi accorsi che avevamo imboccato Bogachiel Way. La conoscevo bene perché nella parte iniziale si trovava l’ospedale di Forks, dove lavorava Carlisle, e più avanti abitava Jas. Poco dopo aver superato l’ospedale, Bogachiel Way diventava la strada più elegante di Forks: era fiancheggiata da alberi frondosi, ville e villette immerse nel verde, con giardini ben curati e delineati da siepi; la maggior parte delle costruzioni poi godeva di una fantastica vista sull’oceano. Dentro di me sorrisi. Avrei dovuto immaginare che Alex abitasse lì. 
Superammo l’imponente villa di Jas, seminascosta dietro alte siepi, e poco dopo ci fermammo di fronte a una villetta di piccole dimensioni, ma molto graziosa, dipinta di bianco. Alex aprì il cancello elettrico con un telecomando e vidi che la casa era circondata da un giardinetto dall’aria vagamente selvaggia, con folte siepi, alberelli di varie specie, grossi cespugli che in primavera si sarebbero riempiti di rose. Nel complesso era tutto molto più semplice di quanto pensassi.

«E io che immaginavo una specie di reggia» esclamai per prenderlo un po’ in giro.
Alex fece un verso di disappunto. «Una reggia… In questa città il pregiudizio regna sovrano» borbottò.
Parcheggiò nel viale d’ingresso dietro una macchina color azzurro polvere dalle forme slanciate che riconobbi come uno degli ultimi modelli di Volvo. Alex le lanciò un’occhiata e sorrise. 
«Julie è in casa, bene. Così puoi conoscerla».

Non feci commenti, ma mi chiesi cosa avrebbe pensato sua zia nel vedere Alex che le presentava una ragazza dopo solo una settimana di scuola. 
«Alex» dissi mentre salivamo i gradini del portico. «Cosa… ehm… cosa sa esattamente tua zia?»

Mi rivolse un sorrisetto furbo, un lampo di denti candidi e regolari. «Non sa che ci siamo baciati. Non è il genere di cose che racconto in famiglia». 
Un po’ più tranquilla, presi un bel respiro e cercai di mostrarmi disinvolta. Aprì con le sue chiavi e si fece da parte per lasciarmi passare. 
«Benvenuta nella mia reggia» esclamò.

L’ingresso, che conteneva solo due sedie, uno specchio e un appendiabiti, conduceva direttamente in salotto, una stanza ampia e luminosa, arredata in stile moderno e con colori tenui. Sulla parete di fondo una porta finestra dava sul retro, dove scorsi un’altalena e un piccolo gazebo coperto di rampicanti. A sinistra una porta conduceva probabilmente alla cucina. Sulle pareti e in giro per la stanza erano collocate alcune opere d’arte contemporanea, a testimonianza degli interessi della zia di Alex. C’era davvero molto da vedere, ma non volevo ficcare troppo il naso, così mi limitai a lanciare un’occhiata generale.
«Allora? Che ne pensi?» chiese Alex, avvicinandosi. «All’altezza delle tue aspettative?»
Stavo per rifilargli una rispostaccia, quando dalla porta a sinistra, quella che credevo conducesse alla cucina, sbucò una giovane donna. 
«Ehi, sei tornato» disse ad Alex. «E sei in compagnia» aggiunse rivolgendomi un sorriso gentile. 
La primissima cosa che mi colpì fu che non somigliava per niente ad Alex: aveva un volto un po’ spigoloso, ma sottile e ben modellato, occhi color nocciola e capelli di un biondo rossiccio lunghi e leggermente mossi. Era minuta e indossava abiti molto semplici, ma dal taglio elegante, sicuramente appartenenti a qualche grande firma.

«Zia, ti presento Renesmee Cullen» fece Alex. «Renesmee, Julianne Carraway».
Julie mi tese la mano ed io allungai la mia. Aveva una stretta molto decisa. 
«Salve» mormorai e abbozzai un sorriso. Per quanto sembrasse simpatica e alla mano, la mia estrema timidezza con gli estranei stava già trapelando in tutto il suo splendore.

«Piacere di conoscerti, Renesmee» rispose Julie. Mi osservava con curiosità e una buona dose di sorpresa. Sul serio non aveva mai sentito parlare di me e probabilmente ero la prima nuova conoscenza che Alex portava a casa. Distolse lo sguardo quasi subito, forse per non sembrare maleducata. «Com’è andata a scuola?»
Alex alzò le spalle. «Il solito. Oggi ho imparato a disegnare una giraffa».
Trattenni a malapena una risata.
«Piantala di fare lo scemo» esclamò la zia con un sorriso.
Sembrava divertita e rilassata, ma il suo sguardo non era tranquillo. Osservava Alex con un’ansia sottile e penetrante. Non l’ansia normale di chi ha un nipote adolescente in affidamento, ma l’ansia di chi controlla che il nipote adolescente sia perfettamente sobrio, che non abbia fumato altro a parte le sigarette, che non abbia combinato chissà quale casino. Lo guardava come se si aspettasse di vederselo saltare in aria sotto il naso da un momento all’altro. E probabilmente erano parecchie le persone a guardarlo in quel modo. All’improvviso mi parve di capire molte delle cose che Alex mi aveva detto. Potevo immaginare la preoccupazione di Julie, ma immaginavo anche che non fosse affatto piacevole avere quello sguardo addosso: doveva essere come sentirsi ricordare in un momento tutti i propri errori. 
«Avete fame, ragazzi?» chiese la zia.
Lui alzò gli occhi al cielo. «Se abbiamo fame ci pensiamo da soli, grazie. Non abbiamo sette anni» rispose.
Stupita, gli lanciai un'occhiata, ma mi accorsi che stava sorridendo, come Julie. Forse quello era il loro modo consueto di interagire.

«Be’, mi fa piacere sentirtelo dire! Te lo farò presente la prossima volta che ti comporterai esattamente come un bambino di sette anni…»
«Okay, andiamo da sopra» borbottò Alex.
Julie ci salutò con la mano. «Ciao ciao».
Alex mi guidò su per le scale che conducevano al primo piano ed io attesi che ci fossimo allontanati un po' prima di parlare. «È simpatica» sussurrai.

«Sì, ma non illuderti: sa essere un vero sergente se vuole».
Il corridoio era ricoperto di soffice moquette blu notte che contrastava con il bianco immacolato delle pareti. Tutto sembrava in perfetto ordine, come una casa abitata da anni e non da pochi giorni.
«Quando vi siete trasferiti esattamente?» chiesi.
«Circa due settimane fa».
«Wow» commentai, sorpresa.
Lui sembrò intuire i miei pensieri. «Te l’ho detto che Julie sa essere un sergente. Un sergente perfezionista, aggiungerei. Ha costretto me e Phoebe a sgobbare finchè anche l’ultimo granello di polvere non è sparito». Aprì l’ultima porta in fondo, e di nuovo mi lasciò entrare per prima. «Ecco la mia stanza. Questa sì che è la mia reggia».
Mi guardai intorno, curiosa ma anche qui cercando di non essere invadente. La camera non era molto grande, ma luminosissima. Le pareti dipinte di un azzurro tenue, il parquet color ciliegio, le tende, il copriletto, il tappeto in vari toni dell’azzurro e del blu, davano l’impressione di trovarsi sott’acqua. Sulla parete di fondo una porta a vetri scorrevole come quella del salotto portava a un terrazzino di forma quadrata. La stanza doveva essere orientata perfettamente ad ovest perché c’era una vista meravigliosa: una verde distesa di boschi punteggiata da case qua e là, sulla sinistra si intravedeva il fiume Bogachiel e in lontananza l’oceano grigiastro e agitato. Mi sembrava persino di riuscire a scorgere la sommità coronata da alberi di James Island. Quel panorama catturò immediatamente la mia attenzione e rimasi a osservarlo a lungo, incantata.
«È fantastico, vero?». La voce di Alex mi fece sobbalzare; si era avvicinato senza che me ne accorgessi. «Sai, quando siamo arrivati qui ero di pessimo umore: nel tragitto da Port Angeles a Forks avevo visto solo alberi, una tavola calda che sembrava aspettare una visita dall’ufficio d’igiene e l’ospedale. Poi sono salito al primo piano, ho aperto una porta a caso e mi sono trovato davanti questa vista. Mi ha tolto il fiato e il cattivo umore è volato via».
Lo guardai e sorrisi. «Ci credo» mormorai. Eravamo così vicini che la sua spalla sfiorava la mia. Sentii una vampata d’imbarazzo e mi allontanai un po’, tornando a studiare la stanza. Era tutto in perfetto ordine, al punto che mi vergognai pensando al caos che regnava nella mia stanza, tranne la scrivania, ingombra di fogli; guardai meglio e mi accorsi che erano disegni. «Sono tuoi?»
Lui sembrò a disagio. «Ehm… sì».
«Ti dispiace se ne guardo qualcuno?». Alzò le spalle. Andai alla scrivania e presi qualche foglio tra le mani. Perlopiù erano solo abbozzati e rappresentavano dei paesaggi, tra cui anche quello che si ammirava dalla finestra, e dei volti femminili. «Sono belli» dissi sotto voce. «E così sei un artista in erba».
Ridacchiò. «No, per niente. Non ho mai neanche preso lezioni. È solo che disegnare mi aiuta a rilassarmi».
«Ti capisco. A me è la musica che fa quest’effetto».
«Che cosa suoni?» domandò, interessato.
«Il pianoforte. Me l’ha insegnato Edward Mio zio» aggiunsi frettolosamente. Alex mi fissava in silenzio. «È tua sorella?» chiesi, prendendo in mano un foglio: una bambina seduta su uno sgabello e intenta a suonare un violino era descritta da una serie di linee morbide e ondulate.
«Sì, è lei». Mi raggiunse, guardando il disegno con affetto. «Suona il violino da quando aveva cinque anni. È una specie di bambina prodigio» spiegò con l’aria di un fratello maggiore molto orgoglioso. «Be’, comunque la sua espressione mentre suona mi ha sempre affascinato: molto concentrata, ma allo stesso tempo incredibilmente serena. Questo non è venuto tanto bene, però».
Magari aveva ragione lui, ma a me sembrava che la ragazzina ritratta avesse proprio quell’espressione. Alex si sfilò la giacca e mi aiutò a togliere la mia, le lasciò su una sedia, poi andò a buttarsi sul letto a pancia in su. Incrociò le mani all’altezza dello stomaco e rimase a osservarmi. Il suo sguardo su di me mi metteva a disagio e trovai difficile concentrarmi sui disegni, così lasciai perdere. Lo raggiunsi e  sedetti a gambe incrociate sul pavimento, la schiena appoggiata al bordo del letto, così eravamo alla stessa altezza. Lo guardai: aveva un’aria strana, seria, la fronte contratta, le labbra increspate. Chissà a cosa stava pensando. Non smetteva di fissarmi e per qualche motivo nemmeno io riuscivo a girare la testa e a staccare i miei occhi dai suoi. Ben presto sentii ardere le guance, neanche fossi stata su una graticola, ma non mi mossi di un millimetro; era come se una forza invisibile mi incatenasse lì. 
Lentamente, Alex sollevò il busto, appoggiandosi al gomito, e si sporse verso di me. Ero così ipnotizzata dal suo sguardo concentrato che mi accorsi solo all’ultimo momento delle sue labbra appena dischiuse che si avvicinavano alle mie. Con uno scatto mi allontanai, mettendo qualche centimetro in più tra di noi. Lui si bloccò e mi fissò con aria interrogativa.
«Alex» borbottai. «Che fai?»

Alzò gli occhi al cielo. «Secondo te? Stavo per baciarti». Sbuffò mentre si lasciava ricadere all’indietro.
Mi allontanai ancora di più, inquieta. «Avevamo detto niente di impegnativo».
«Un bacio è impegnativo?»
Gli lanciai un’occhiataccia. «Per te evidentemente no» risposi a denti stretti. «Forse è meglio che vada». In che razza di situazione mi stavo cacciando? Avevo già abbastanza problemi senza aggiungerci anche lui.
«No!» esclamò. Si tirò su a sedere. «Aspetta, non voglio che tu te ne vada. Scusami, ho sbagliato. Un’altra volta». Sembrò arrabbiato con se stesso. «Non so che mi è preso, davvero».
Era dispiaciuto, e si vedeva. Sorrisi. «Sei pazzo, lo sai? Va bene, tranquillo. Nessun problema».
Tornò ad allungarsi sul letto, rilassato. «Almeno sono riuscito a farti sorridere. Non lo facevi sul serio da quando siamo stati alla spiaggia».
Sospirai. «Hai ragione. Non sono una musona, sul serio, ma… sono successe tante cose…»
«Quali cose?» domandò di getto. 
Capii dal suo tono che non intendeva impicciarsi, era sinceramente interessato ai miei problemi. Ma non sapevo come rispondere. Puntai lo sguardo sulla libreria che avevo di fronte, riflettendo, nervosa. Che cosa dovevo fare? Raccontargli tutto era fuori discussione, ovviamente, ma prima o poi avrei dovuto dare qualche spiegazione all’umanità. Dentro di me sentivo che sarei rimasta senza sorridere ancora per un po’. Esitai, e lui se ne accorse. 
«Okay, ho afferrato. Non devo ficcanasare» disse con tono definitivo.

«No, non stai ficcanasando» ribattei. «Be’, forse un pochino, ma sei mio amico e un amico ha il sacrosanto diritto di ficcanasare, come dice Jas».
«Una vera perla di saggezza».
Ignorai la battutina e presi un bel respiro. Ero ancora assolutamente indecisa su cosa raccontargli, quando all’improvviso le parole giuste sgusciarono fuori da sole. 
«Ho scoperto delle cose. Ho le mie buone ragioni per credere che i miei genitori adottivi non mi volessero» dissi lentamente. Quasi mi meravigliai di me stessa. Di solito ero una frana con le bugie, mi si leggeva in faccia quando ne dicevo una. L'unica con la quale riuscivo a cavarmela era quella sulle mie origini perchè mi ero allenata a ripeterla da quando ero piccolissima e a volte mi sembrava di crederci. Questa non era tanto lontana dalla verità, però.

Sul suo volto comparve lo stupore. Non aveva immaginato una cosa così grossa. «Cosa te lo fa pensare?»
«Ho una fonte abbastanza attendibile».
«Ma perché ti avrebbero adottato, allora?»
Per poter rispondere dovetti sforzarmi di prendere aria. Quanto era difficile parlarne. «Non so. Per senso del dovere, immagino». Anche quello non era distante dalla verità.
«Ne hai parlato con loro? Hai provato a chiedere spiegazioni?»
«Non c’è molto da spiegare. So quanto basta». Okay, adesso stavo mentendo anche a me stessa. Non sapevo quasi nulla di quella faccenda. «C’è dell’altro: mi hanno nascosto parecchie cose su… sul mio passato».

«Oh» mormorò. «Perché l’hanno fatto?»
Alzai le spalle. «Codardia, suppongo» risposi a denti stretti. «Non avevano il coraggio di dirmi tutto». 
«Capisco. E anche su questo non hai chiesto spiegazioni?»
«No. Ma non ho nessuna voglia di parlare con loro» mugugnai.
«Ah. È per questo che sei venuta qui, allora?» chiese con un sorriso lieve sulle labbra.
Accidenti, non demordeva mai. Era come Claire che cercava di arrampicarsi sull’albero nel giardino di casa Uley. 
«No. Sono venuta qui perché mi andava di farlo» risposi quasi con aria di sfida.

«Be’, l’alternativa erano le gelide e piovose strade di Forks» aggiunse. «Ma è anche vero che ormai sono tuo amico e ho semplicemente fatto il mio dovere».
Sorrisi, un po’ a fatica. «Ecco, bravo. E visto che siamo amici, fammi un altro favore: cambiamo argomento».
Alex divenne subito serio. «È brutto parlarne, vero? Sì, ti capisco. Allora, per farmi perdonare la svista di poco fa, ti prometto che non parleremo mai più di questo, a meno che non lo voglia tu». 
Annuii, sollevata. Era alquanto improbabile che in futuro mi mettessi a parlare con lui del parto di mia madre o dell’imprinting di Jacob, ma apprezzai la sua gentilezza. 
«Però… se me lo permetterai, io ti starò vicino comunque. Non ti lascerò sola quando avrai bisogno di un amico» aggiunse a voce bassa, gli occhi fissi sul pavimento, un po’ in imbarazzo.

«Okay» mormorai. «Grazie, Alex. E… ehm, è lo stesso per me. Anche io ci sarò se avrai bisogno di qualcuno».
Sollevò lo sguardo, mi fissò per qualche istante, poi sorrise lentamente. «Grazie».
Mantenne la promessa. Parlammo di tantissime cose, praticamente di tutto: la sua vita a New York, la sua famiglia, i suoi amici, la sua scuola, le mie amiche, tutti i pettegolezzi sui nostri compagni di scuola che riuscii a ricordare. E per qualche ora mi sembrò davvero di dimenticare il resto. Ovviamente non potevo dimenticarlo davvero. Era solo rinchiuso in un angolo della mia mente, ma almeno non ci pensavo di continuo. E mi sembrava di sentirmi più leggera.
Quando mi accorsi che si era fatto buio, mi sorpresi di quanto tempo fosse trascorso. «Ehi, ma che ore sono?» esclamai.
Alex, che aveva appena finito di descrivermi una delle sue feste clandestine, organizzata nella casa di vacanza di famiglia, negli Hamptons³ sollevò il polso di malavoglia e gettò un’occhiata all’orologio. 
«Le sei e mezza».

«Mi sa che devo andare». Sbuffai e mi passai le mani tra i capelli per accertarmi che fossero a posto.
«Devi andare?» ripetè, perplesso. «Credevo ci fosse la peste a casa tua».
Ridacchiai, senza troppo entusiasmo. «Più o meno, ma se non torno entro l’ora di cena qualcuno chiamerà la polizia».
Riflettè un secondo, la fronte corrugata, senza muoversi di un centimetro dal letto. «Il capo della polizia non era tuo nonno?»
Annuii mentre mi alzavo dal pavimento e mi stiracchiavo. «In realtà non è davvero mio nonno: è il padre di mia zia Bella, ma siamo molto legati. Comunque sì, è lui».
Cambiò espressione, si tirò su all’istante e andò a recuperare la giacca. «Ti accompagno a casa» borbottò.

Questa volta risi sul serio, divertita. A quanto pare, la figura del nonno ispettore capo lo spaventava un poco. Trovammo Julie in salotto, intenta a leggere un libro. Sembrava tranquilla, ma scrutava Alex sempre nello stesso modo mentre si informava su come avevamo passato il pomeriggio e mi raccomandava di tornare a trovarli, Mi chiesi se per caso non avesse trascorso quelle ore appostata sulle scale per controllare che io e suo nipote non combinassimo nulla. Phoebe era a lezione di violino e non era ancora tornata.
«Mi dispiace che tu non l’abbia conosciuta» disse Alex mentre salivamo in auto. «Sono sicuro che ti piacerà un sacco».

«La prossima volta» risposi. Lui mi guardò e sorrise, contento.
Lungo il tragitto, il mio umore colò di nuovo a picco. Ero combattuta tra il desiderio di sapere qualcosa in più su tutta quella storia e il terrore di ciò che avrei potuto scoprire. Ma era il pensiero di affrontare i miei, o Jacob, a farmi star peggio: non so se avrei tollerato di stare accanto a loro, guardarli negli occhi, ascoltarli… La sera prima non ce l’avevo fatta. Come avrei potuto continuare la mia vecchia vita, stare insieme a loro, adesso che ero a conoscenza di tutte quelle bugie? Mi sentivo così invasa dalla tristezza e dall’ansia da non riuscire nemmeno a sollevare gli occhi.
Non aprii bocca, ma non per questo il viaggio fu silenzioso. Alex parlò quasi ininterrottamente anche se non avrei saputo dire di cosa perché ero troppo presa dai miei pensieri per ascoltarlo. Credo che volesse cercare di distrarmi, e ancora una volta apprezzai la premura che aveva nei miei confronti. Lui aveva sofferto molto più di me perdendo i suoi genitori quando era solo un ragazzino, ma proprio per questo sembrava che capisse perfettamente cosa significa avere un grosso problema per la testa. Forse era quello il motivo per cui avevo lasciato che Holly e Jas andassero via e avevo accettato di passare invece la giornata con lui: per quanto mi volessero bene, sapevo che le mie amiche non riuscivano a capire cosa potesse essermi successo di tanto grave da farmi stare così male.
Mi accorsi con un attimo di ritardo di non sentire più il rumore del motore. Ci eravamo fermati nel viale che conduceva alla villa dei nonni, dove Alex mi aveva aspettato quella mattina. Lui mi fissava.
«Siamo arrivati» mi informò. Lanciò un’occhiata al viale buio. Immaginai che per i suoi occhi fosse davvero molto buio. Io invece vedevo abbastanza bene, almeno fino a una certa distanza.
«Oh, scusa. Ero distratta» mormorai passandomi una mano sulla fronte, come per schiarirmi le idee.
«Sì, ho notato» fece, ironico. Lo guardai con espressione colpevole, ma lui sorrideva. «Tranquilla, non ti sei persa niente di importante. Ho parlato a vanvera, come al solito». Annuii lentamente. Non avevo nemmeno sentito la battuta. Alex alzò gli occhi al cielo, a metà fra l’esasperato e il divertito. «Se mi vestissi da donna, mi tingessi i capelli di rosa shocking e mi mettessi a fare salti mortali all’indietro mi presteresti più attenzione?»
Riuscì a strapparmi un sorrisetto. «Forse sì. Scusami» ripetei. «Mi sento davvero strana».
«Che faccio, mi giro? Non mi dispiacerebbe un’altra puntatina a Port Angeles. In confronto a questo buco di città sembra Parigi».
«Magari» sospirai. «Ma no, devo proprio andare. Grazie di nuovo, Alex. Per tutto».
Scrollò le spalle. «Non ho fatto niente. Devi pur allenarti a sopportarmi, altrimenti quando ti innamorerai perdutamente di me non riuscirai a reggere la mia ironia micidiale e impazzirai».
Okay, era il mio turno di alzare gli occhi al cielo. «Ciao, Alex. A domani».
«Vedi di non farmi aspettare troppo» aggiunse fingendosi scocciato. «Passo a prenderti alle otto meno un quarto».
«Farò del mio meglio» promisi.
Scesi dalla macchina prima che potesse dire altro e mi incamminai lungo il viale. Chissà se i miei erano tutti in casa. Chissà se avrebbero voluto parlarmi. Chissà dov’era Jacob e cosa stava facendo. In quel momento realizzai che non ci parlavamo dal pomeriggio precedente. Un giorno intero, e anche di più, senza vederci né sentirci per telefono. Nonostante tutto mi parve assurdo, sbagliato. 
Arrivai al cottege in pochi minuti. Tutto era immobile e silenzioso, la casa buia. Non coglievo neppure un lievissimo respiro. Sembrava proprio che non ci fosse nessuno. Mi feci coraggio ed entrai dalla porta principale. Nell’ingresso rimasi un secondo ferma, in ascolto. Niente. Forse potevo stare tranquilla. Quelle stanze scure comunque mi spaventavano un po’. Ho sempre avuto paura del buio, fin da piccola. Accesi la luce in salotto, poi mi diressi in cucina. Stavo morendo di sete (sete umana, non sete vampira, come dicevo da bambina) e tracannai mezza bottiglia d’acqua tutto d’un fiato. Controllai il frigo, ma non c’era nessun messaggio fissato con una calamita. Forse erano andati a caccia. Uscii dalla cucina, percorsi il breve corridoio, ma mi fermai dopo pochi passi: attaccato alla porta della mia stanza c’era un post-it verde chiaro, uno di quelli che tenevo sulla scrivania. Riconobbi subito la grafia disordinata della mamma. Il testo diceva:

  
Non entrare. Devi parlare con la tua famiglia. Ti aspettiamo dai nonni.

 
Merda. Per qualche istante fissai il post-it, mordicchiandomi il labbro inferiore, indecisa. Be’, prima o poi avrei dovuto affrontarli. Quella sera avrei anche potuto barricarmi in camera mia e tenere il muso, ma l’indomani me li sarei trovati davanti comunque. Che cosa avrei fatto? Potevo fingere di non vederli per sempre?

Sbuffando, staccai il post-it e lo appallottolai nella mano. Prima di uscire di casa lo gettai nel secchio della spazzatura, in cucina, con gesto rabbioso. Camminai a passo di marcia verso la casa dei nonni e trovai la porta aperta, come se mi aspettasse. Salii le scale velocemente, decisa a farla finita prima possibile, ed entrai in salotto. Erano tutti lì: mamma, papà, Rosalie ed Esme sul divano, Carlisle in poltrona, Alice seduta per terra accanto al divano ed Emmett e Jasper in piedi davanti alla vetrata; erano perfettamente zitti e immobili. Dalla parte opposta c’era una poltrona solitaria che supponevo fosse destinata a me, come l’imputato in un tribunale. Incrociai le braccia e puntai lo sguardo da qualche parte sopra le loro teste, ben decisa a non fissarli negli occhi.
«Decisamente puerile, quel post-it» sbottai.
Ci fu un attimo di silenzio. «È stata una mia idea» disse la mamma, piano. Rimasi in silenzio. Non avevo niente da dire a nessuno di loro. Che facessero e dicessero quello che cavolo gli pareva. «Com’è andata a scuola?» chiese all’improvviso. Dal tono intuii che sorrideva.
Incredula, abbassai gli occhi e la guardai. Davvero mi faceva una domanda del genere in un momento come quello? Era impazzita, per caso? Il suo sorriso vacillò quando capì che non le avrei risposto.  
Quel penoso silenzio fu interrotto da Esme. «Hai fame, cara? Posso prepararti qualcosa…»
«Oddio, mi avete fatto venire qui per questo?» esclamai, esasperata, e mi voltai per andarmene.
«Ti abbiamo fatto venire per parlare» intervenne papà con voce decisa. «Devi parlare con noi, lo sai anche tu. Siediti, ti prego». 
Feci un respiro profondo, cercando di controllare l'impulso di correre fuori. Sapevo che non sarebbe servito a niente. Raggiunsi la poltrona con passo pesante e mi sedetti, rassegnata. Non avevo scelta.








Note.
1. Il link della canzone.
2. Tutte le informazioni stradali da qui in poi sono prese da due mappe che rappresentano la città di Forks e dintorni nella Guida ufficiale della saga, a pagg. 396-397. Ma credo che possiate trovarle anche su Google Maps se vi interessa.
3. Hamptons Bay, o semplicemente Hamptons, è una località di vacanza frequentata dall'alta società newyorkese. Si trova nella penisola di Long Island, a due ore e trenta minuti da Manhattan. Chi guarda Gossip Girl sa di cosa parlo xd.








Spazio autrice.
Non ho molto da dire su questo capitolo, se non il fatto che il legame tra Alex e Renesmee diventa sempre più forte. Lei si appoggia moltissimo a lui e alla sua compagnia, e se prima era Renesmee a far stare meglio Alex, adesso è Alex ad incaricarsi di tirarle su il morale. 
Il prossimo capitolo sarà interamente dedicato a quelle spiegazioni che la famiglia Cullen è così ansiosa di dare e che Renesmee ha ben poco desiderio di ascoltare... Questa volta verrà fuori proprio tutto e ne vedremo delle belle! Alla prossima settimana!


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Capitolo 14
*** Blinding ***


C 14

Capitolo 14
Blinding


And I could hear the thunder and see the lightning
crack
All around the world was waking, I never could go
back
 
Cos all the walls  of dreaming, they were torn right
open

And finally it seemed that the spell  was spell  was broken
And all my bones began to shake, my eyes flew
open.

Blinding, Florence and The Machine¹



Mentire non è mai un bene. Presto o tardi salta fuori tutto.
E poi uno non sa mai come uscire dai pasticci.

MONIKA PEETZ, La quinta costellazione del cuore

                                                                                                                                                                                                                                                                                                


Guardai i loro volti e mi accorsi che sembravano intimoriti. Otto vampiri spaventati da una mezza vampira. Assurdo.

«Allora» cominciò papà. «Abbiamo delle questioni in sospeso».
«E allora?» mormorai con tono piatto.
«Non hai niente da chiederci?» intervenne la mamma, sorpresa. «Non vuoi sapere com’è andata? Non vuoi sapere di Jacob?»
Scrollai le spalle, fissando il pavimento.
«Renesmee, devi parlare con noi» ripetè Edward con voce ferma. «Ci dispiace molto per quello che è successo. Non avresti dovuto sapere tutto in questo modo. Ci rendiamo conto che è difficile, ma hai avuto un po’ di tempo per ammortizzare il colpo e adesso devi andare avanti». Io non aprii bocca. Non sollevai nemmeno gli occhi. «Se non hai nessuna domanda cominciamo noi» aggiunse papà. Ne avevo un milione, di domande, ma non sapevo quale porre per prima. Forse avrei preferito non ricevere alcuna risposta. Meglio l’ignoranza o gli incubi? Difficile decidere. Lui annuì. 
«D’accordo, cominciamo noi». Prese un respiro profondo, forse per calmarsi, sebbene non gli fosse necessario; immaginavo si trattasse di un riflesso istintivo. «Ci sono parecchie cose da chiarire, ma credo che sia meglio partire da quando è cominciato tutto… da te. Sai già che quando io e la mamma ci siamo sposati pensavamo di non poter avere figli. O meglio, pensavamo che io non potessi averne. Credevamo che nessun vampiro, né maschio né femmina, potesse generare una nuova vita. Ma quando tua madre avvertì i primi sintomi di una gravidanza, dopo due settimane di viaggio di nozze, dovemmo arrenderci all’evidenza. Perdonami se ti sto dicendo cose che già sai» aggiunse, avvertendo una certa impazienza nei miei pensieri «ma è molto importante non trascurare nulla. La sorpresa fu enorme. Non avevamo idea di… cosa ci fosse dentro di lei». Smise di parlare e mi fissò con espressione ansiosa e addolorata. Capii che stava per arrivare la parte peggiore e strinsi i denti. «Il mio primo pensiero, quando fui certo che tua madre era incinta, fu che doveva abortire» proseguì, molto lentamente.
Sussultai e mi strinsi con più forza le braccia al petto, chiusi un attimo gli occhi, li riaprii, cercando di continuare a seguirlo. Ascoltare quelle parole pronunciate dalla sua bocca fu forse la cosa più brutta. Mi sentii così ferita che per un attimo mi mancò il fiato. Chinai la testa e poggiai una mano tremante sulla fronte, per nascondere gli occhi lucidi. Edwars non parlò per qualche minuto, forse per darmi il tempo di riprendermi. Nella stanza c’era un silenzio tale che potevo sentire i battiti del mio cuore. Quando papà riprese a raccontare, mi colse di sorpresa e trasalii.
«Portare in grembo il figlio di un vampiro poteva essere pericolosissimo, per lei. E il fatto che fosse stato concepito anche da un’umana non costituiva alcuna garanzia, poteva significare poco o niente. Decidemmo di rientrare subito. Stavamo per partire, quando arrivò la domestica che allora si occupava della nostra casa, una mezzosangue Ticuna di nome Kaure. La cultura del suo popolo le aveva tramandato molte antiche leggende e si era fatta un’idea piuttosto precisa di cosa io fossi in realtà. Quando intuì cosa era successo a tua madre, mi mise in guardia: lei sarebbe morta». 
A quella parola, pronunciata con voce impassibile, abbassai di scatto la mano e lo guardai. Strinsi i pugni con tanta forza da conficcarmi le unghie nella carne. Lui proseguì, pacato ma deciso, le labbra strette. 
«Questo non fece che rafforzare ulteriormente il mio proposito. Credevo di sapere cosa andasse fatto. Credevo di sapere chi fossi tu. Credevo di sapere tutto. Nella mia intera esistenza non sono mai stato più arrogante, né più egoista: tutto ciò che volevo era che tua madre si salvasse. Non avrei mai sopportato di perderla per causa mia. Ma lei non era d’accordo». Le sue labbra serrate si incurvarono appena in un accenno di mesto sorriso. «Bella ti ha amato e ti ha desiderato dal primo istante in cui ha saputo di te. Si rifiutò di prendere in considerazione l’idea dell’aborto e chiese a Rosalie di… sostenerla. Proteggerla. Nemmeno lei era favorevole a...»
Proteggerla? Sentii lo shock espandersi sul mio viso e per un po’ riuscii solo a fissarlo a bocca aperta. Probabilmente avevo la faccia di un pesce che nuota contro corrente. Mi costrinsi a parlare, con grande difficoltà. «Proteggerla? Ma cosa... Come... che bisogno aveva di essere protetta? Tu... lo avresti fatto senza il suo consenso?» balbettai con un filo di voce. «L’avresti costretta
Edward sembrava impietrito, assolutamente impassibile. Prima che potesse rispondere intervenne la mamma. 
«No, non è così» disse con forza. «Ascoltami: tuo padre non era in sé, in quei giorni, ha detto e ha fatto cose che…» non terminò la frase. Gli lanciò un’occhiata strana, come per rimproverarlo, ma poi gli prese una mano e la strinse tra le sue. «È quasi impazzito. Voleva proteggere me e credeva di essere pronto a pagare qualunque prezzo». 
Qualunque prezzo. Le stesse parole che aveva usato Leah. Ecco cos’ero stata, per mio padre, per la mia famiglia: un prezzo da pagare in cambio di qualcos’altro. Sentii la gola stringersi come se una mano grossa e forte l’avesse circondata. 
«Sì, non è mai stato tanto arrogante» proseguì la mamma quasi con rabbia «né più cieco. Ma io ho sempre creduto che nel profondo, dentro di sé, sapesse qual era la cosa giusta da fare e che si rifiutasse di ascoltare la ragione solo per salvarmi. Il senso di colpa lo avrebbe tormentato per sempre, ma era disposto a sopportarlo. Ed ero anche certa che prima o poi si sarebbe reso conto dell’amore che provava per te e mi avrebbe dato ragione. Ecco perché ho chiesto a Rosalie di aiutami: aspettavo che tuo padre aprisse gli occhi e capisse che stava commettendo un errore. E così è stato».
«Un errore?» ripetei, incredula. «Un errore che avrebbe ucciso sua figlia? Pensi che queste siano delle giustificazioni?»
«Non sono in cerca di giustificazioni» rispose papà con un filo di voce. «So bene di non averne. Tutto ciò che posso fare è chiederti di perdonarmi».
Mi concentrai di nuovo su di lui, anche se le lacrime mi offuscavano la vista. «Come puoi aspettarti il mio perdono? Dite di non voler essere dei mostri, ma avreste ucciso una bambina senza nemmeno pensarci».
«Certo che ci abbiamo pensato!» esclamò Carlisle. «Credi che sarebbe stato facile? Credi che l’avremmo fatto a cuor leggero? Ma Bella stava morendo sotto i nostri occhi, non potevamo lasciare che accadesse senza fare nulla».
A quel punto non ce la feci più. Scattai in piedi e corsi fuori dalla stanza.
«Dove vai?» gridò zia Rosalie con voce densa di preoccupazione.
Mentre scendevo le scale a precipizio sentii dietro di me uno scoppio di esclamazioni e borbottii, ma non ci capii nulla. Sedetti su uno degli ultimi gradini, nell’ingresso buio, mi raggomitolai su me stessa, le mani premute sul viso, e rimasi lì per un po’, lasciando scorrere le lacrime tra le dita, riflettendo. Sentivo di detestare con forza le persone che fino a due giorni prima avevo amato più di ogni altra cosa, eppure una piccola parte di me, quella vocina maligna e martellante che mi aveva sussurrato all’orecchio per tutta la mattina, gli dava ragione. Esattamente come era accaduto nel bagno della scuola, mi trovai a fare i conti con un pensiero che non riuscivo più a soffocare, come in passato: era tutta colpa mia. La mamma, le sofferenze che aveva patito, la sua trasformazione, i tormenti di papà, e ora questo disastro… Ero stata io stessa a spingerli verso una decisione così estrema. Ero furiosa con loro, ma forse non ne avevo alcun diritto: io non avrei fatto qualunque cosa pur di salvare una persona che amavo? Davvero potevo rimproverarli?
Mi sfogai ben bene, poi, non avrei saputo dire quanto tempo dopo, mi alzai e tornai lentamente in salotto, rischiando di inciampare a ogni passo. Erano ancora tutti lì, come li avevo lasciati, e mi guardavano ansiosi. Sedetti di nuovo al mio posto e dopo un attimo di silenzio mi lasciai sfuggire quella frase.
«Forse avreste dovuto farlo».
Il volto di mio padre mutò di colpo, come se una folata di vento lo avesse investito e gli avesse strappato la maschera impassibile, e divenne furioso. «Non ti azzardare nemmeno a pensarlo. Non voglio sentire mai più una cosa del genere, è chiaro?» 
Gli altri parvero stupiti dalla sua reazione. Forse non avevano compreso fino in fondo il significato delle mie parole. 
«È per questo che il branco voleva attaccarvi? Non è stato perché volevate vampirizzare la mamma, è successo prima, ed è successo perché avevano paura di me» dissi. Non so da dove fosse spuntata quell’idea. Il piccolo mostro non ancora nato che terrorizza una famiglia di vampiri e un branco di licantropi: sembrava un film dell’orrore.
Ci fu un attimo di silenzio. «Sì, è così» rispose infine Bella, esitando.
«Un branco di idioti!» sbottò zia Rosalie, ed io trasalii, spaventata. Sembrava arrabbiata quanto papà. «Il piano era far fuori te uccidendo tua madre».
«Rosalie!» esclamò Esme, sconvolta.
Spalancai occhi e bocca, inorridita, incapace di dire qualunque cosa. I licantropi volevano uccidere Bella? Jacob voleva uccidere Bella? Per un secondo mi sentii così confusa che mi sembrò di essere caduta dentro a un frullatore.
«Non devi giudicarli male!» fece la mamma, e mentre parlava lanciò un’occhiataccia alla zia. «Sono i protettori della tribù, hanno un compito preciso da svolgere e credevano che tu saresti stata un pericolo, dopo la nascita. Temevano che tu fossi come un vampiro neonato, pericolosa e incapace di controllarti. Nessuno poteva sapere che avresti avuto un autocontrollo maggiore del nostro. Ma neanche loro avrebbero compiuto una simile scelta con leggerezza».
«Idioti» borbottò ancora la zia, disgustata.
«Grazie, Rosalie» sibilò papà a denti stretti, e lei tacque.
Cercai di raccogliere le idee e di capirci qualcosa. «Ma… tu eri ancora umana» balbettai. «Non avevi fatto nulla…»
«Proteggevo te, e questo era sufficiente» rispose la mamma con tono mesto.
La guardai, sconvolta. «Anche Jacob?». Lei sussultò quando pronunciai quel nome. «Anche Jacob voleva ucciderci?»
Edward e Bella si scambiarono uno sguardo rapidissimo, e mi sembrò che lui le stringesse la mano con più forza, come un monito. 
«No» disse la mamma con cautela. «No, lui… lui non mi avrebbe mai fatto del male, perché ero la sua più cara amica e mi voleva bene. Si rifiutò di attaccarci, lasciò il branco di Sam e venne qui a difenderci. Però sì, anche Jacob era convinto che tu fossi una minaccia» aggiunse a bassa voce, guardandomi come per scusarsi.
Non occorreva che andasse oltre, avevo afferrato il concetto: anche lui aveva cercato di convincerla. Mi parve che lo stomaco si rivoltasse, in preda a tremendi conati di vomito.
«Ma mamma, questa è una follia» protestai. «Se Jacob doveva proteggere la tribù perché si è ribellato a Sam ed è passato a difendere dei succhiasangue e un piccolo mostro?»
«Jacob aveva il gene dell’alfa, Renesmee, lo sai» replicò la mamma. «Prima o poi sarebbe successo, era solo questione di tempo. E non avrebbe mai potuto farmi del male, te l’ho detto».
«Ma se eravate amici solo…» feci un rapido calcolo a mente «... da poco più di un anno! Tutto questo non ha senso!»
«Sì che ce l’ha ma tu non conosci bene la situazione». Si agitò sul divano, sempre più tesa e a disagio. «Noi due eravamo stati molto vicini, mi aveva aiutato in un periodo difficile e…»
«Oh, andiamo, Bella!» l’interruppe Rosalie, esasperata. «Lo deve sapere!»
La mamma le lanciò un’occhiata da brivido. «Rosalie» sibilò. In quel momento mi fece davvero paura.
«Che cosa? Che cos’è che devo sapere?» domandai, guardandomi intorno freneticamente. Avevano tutti gli occhi bassi, tranne Rose, che mi fissava con aria incerta.
Sentii un brivido scendere lungo la mia schiena. Cosa c’era di tanto brutto? Cos’altro sarei riuscita a sopportare?  La paura mi svuotò il cervello e mi incollò la lingua al palato: non riuscivo a emettere una sillaba né a immaginare cosa stessero per dirmi.
«Non c’è niente, Renesmee» rispose la mamma al posto suo.
Non aveva ancora finito la frase che papà ringhiò: «Rose, no!»
«Quel cane schifoso era innamorato di tua madre!» sbottò la zia, sputando le parole con rabbia e disgusto.
Nel salotto ci fu un grido generale. «Rosalie!» esclamarono tutti insieme contemporaneamente. Ma ormai era troppo tardi.
La sorpresa mi mozzò il fiato per un secondo. Scattai in avanti, verso di loro, come se avessi le molle. «Che cosa?» gridai. «Che cosa
«Accidenti a te, Rosalie!» esclamò la mamma, furibonda, e parve che volesse liberarsi con uno strattone dalla presa di papà. Ero certa che se non fossimo stati nel bel mezzo di una crisi familiare le sarebbe saltata al collo. Non era più una neonata, ma era comunque una vampira molto giovane. Jasper non potè resistere: si alzò, così rapido che quasi non me ne accorsi, volò accanto alla mamma e le mise una mano sulla spalla.
«Controllati, Bella, per favore. È pericoloso» disse guardandola intensamente.
«Ma non capisci, Bella?» replicò zia Rose, infervorata. «Non possiamo più mentirle! È a causa delle bugie che siamo arrivati a questo punto!»
Provai la sgradevole sensazione che qualcosa dentro di me fosse sul punto di esplodere in mille pezzi. Stavo per andare fuori di testa, lo sentivo. E probabilmente stavo anche per vomitare. C’era una sola cosa da fare. Mi alzai e mi lanciai fuori. Qualcuno mi chiamò, ci fu un’esplosione di grida ed esclamazioni, su tutte le voci della mamma e di Rosalie, ma li ignorai. Salii precipitosamente le scale e corsi al lavandino della cucina. Con una mano aggrappata al mobile, l’altra a coppa sulla bocca, passai diversi minuti cercando di contrastare i conati di vomito. Per fortuna non avevo nulla nello stomaco. Inspiravo ed espiravo lentamente e a poco a poco cominciai a sentirmi meglio. 
Stavo giusto pensando che forse non avrei vomitato, quando sentii qualcosa vibrare dentro la mia tasca e feci un salto di un metro; ero così in tensione che anche la caduta di una foglia mi avrebbe spaventato. Tastai con la mano: il cellulare. Lo tirai fuori e risposi senza pensarci, automaticamente.
«Pronto?»
Una voce a me ben nota prese a strillare dall’altra parte, quasi perforandomi il timpano. «Renesmee? Oddio, Renesmee, finalmente! È un’ora che provo a chiamare a casa tua, ma dove diavolo sei? Lui è ancora con te?»
«Jas?» sussurrai, completamente disorientata. Portai una mano alla fronte. Scottavo. Perché accidenti aveva chiamato?
«Avete fatto pace, vero? Ma quando è successo, come? Perché non mi hai detto niente? Cos’è successo oggi, ti ha baciato ancora?»
Sospirai pesantemente.«Jas, ti prego, non è il momento. Parliamo domani, ciao».
«Aspetta, dimmi solo se vi siete baciati…»
Chiusi la telefonata, poi spensi il cellulare prima di rimetterlo in tasca. Mi lasciai cadere su uno sgabello del bancone e mi presi la testa tra le mani. La fronte era caldissima, probabilmente solo a causa dell’agitazione. La nausea non voleva saperne di andarsene e ogni tanto mi faceva contrarre lo stomaco. Non mi sentivo affatto bene, ma mi parve di percepire un piccolo cambiamento: era come se quella telefonata, per quanto assurda e del tutto fuori luogo in quel frangente, mi avesse ricordato l’esistenza di un mondo esterno oltre il mio incasinatissimo microcosmo. Provai un briciolo di sollievo: Jas, Alex, i miei amici, c’erano ancora. Non tutto intorno a me si stava sgretolando. Mi sentii in colpa per averla trattata in quel modo. L’indomani le avrei chiesto scusa e avrei cercato di aggiornarla un po’ sulla situazione con Alex.
Al piano di sotto sentivo discutere piuttosto animatamente. Di cosa parlavano? Stavano biasimando Rosalie per quello che aveva fatto? Be’, sinceramente non sapevo se essere comunque arrabbiata con lei o esserle grata per avermi rivelato un nuovo, raccapricciante frammento di verità. Anche se Rose mi aveva difeso, insieme alla mamma, entrambe mi avevano mentito sull'imprinting come tutti gli altri.
Jacob innamorato della mamma? Il mio Jacob? Arrivò l’ennesima fitta allo stomaco e boccheggiai per prendere aria, sperando di non vomitare sul tavolo. Non so se sarei arrivata di nuovo fino al lavandino. Questo era anche peggio dell’imprinting… forse. Una parte di me avrebbe voluto tornare indietro nel tempo e non scoprire mai una cosa del genere, l’altra si chiedeva come accidenti avrei fatto ad andare avanti senza saperlo: come si può vivere ignorando la verità su ciò che si è, su ciò che sono le persone che ti circondano, sul tuo mondo? Mi tornarono in mente le parole di Leah. Tu non vedi la realtà, ma solo il riflesso. Non erano affatto frasi senza senso. Ce l’avevano eccome, un senso, anche se solo ora riuscivo ad afferrarlo pienamente.
Jacob Black… innamorato di Bella Swan? No, impossibile. Lui era mio, pensai con rabbia, il suo mondo ero io. Quante volte l’aveva detto? Tu sei la persona più importante per me, Nessie. Ce l’avevo a morte con lui, ma non potevo tollerare l’idea che mi avesse mentito anche su questo. Mi alzai con decisione e marciai giù per le scale, pronta a tornare in campo. Era come uno di quei film in cui la vita del protagonista viene improvvisamente sconvolta dall’apocalisse che piomba dritta dritta in casa sua sotto forma di catastrofi naturali, invasioni aliene o zombie assetati di sangue. 
Quando rientrai in salotto tacquero tutti contemporaneamente e mi fissarono. Notai che Jasper era ancora in piedi accanto alla mamma, le braccia incrociate e l’espressione concentrata. Mi fermai un secondo sulla porta, respirando profondamente, poi raggiunsi la mia poltrona con passo lento e mi sedetti.
«Okay. Sono calma» dissi, più a me stessa che a loro.
La mamma mi guardava con occhi spalancati. «Bene» balbettò.
«Jacob era innamorato di te» mormorai. Non era una vera e propria domanda, bensì una semplice richiesta di conferma.
«Sì». La sua risposta suonò come una confessione, l’ammissione di un imperdonabile delitto. Il suo sguardo implorava perdono.
Annuii lentamente. Continuava a sembrarmi impossibile, ma a quanto pare avrei dovuto arrendermi all’evidenza. A pensarci bene, questo spiegava parecchie cose, a cominciare dal perché Jacob avesse abbandonato La Push e il proprio branco per schierarsi con i vampiri: non stava aiutando un’amica, stava proteggendo la donna che amava. Tentai di accettare e metabolizzare la notizia, ma proprio non riuscivo a mandarla giù. Era una specie di grosso nodo in gola.
«Come… quando è successo?» domandai con un filo di voce.
I miei si scambiarono un’occhiata esitante. Esme, seduta accanto alla mamma, le teneva un braccio intorno alle spalle come per sostenerla.
«Ricordi che un anno prima di sposarci io e papà… ci siamo separati per un po’?» 
Annuii in fretta, senza parlare. Non conoscevo i dettagli, ma sapevo che zio Jasper aveva tentato di uccidere Bella in un momento di scarso autocontrollo e papà, preoccupato per la sua incolumità, aveva deciso di lasciarla e andare via da Forks. Ma la sua scelta non aveva funzionato per nessuno dei due e dopo qualche mese si erano ricongiunti grazie a una rocambolesca avventura che coinvolgeva un improvviso viaggio in Italia e un incontro con i Volturi.  
«I mesi successivi sono stati molto duri per entrambi. Jacob era il mio migliore amico, mi è stato vicino e mi ha aiutato ad andare avanti. Anche per lui era un momento difficile perché si è trasformato per la prima volta proprio in quel periodo. Cercavamo di darci una mano a vicenda e così il nostro rapporto si è fatto sempre più stretto e intimo. Nessuno dei due ne aveva previsto le conseguenze, però».
«E tu?»
«Io cosa?»
«Lo amavi anche tu?». La guardai dritto negli occhi, studiando la sua reazione. Avevo paura di ascoltare la risposta, ma dovevo sapere.
Lei sospirò. Non la avevo mai vista così in difficoltà, mai, neanche con Charlie quando diventava indiscreto o con Renee quando le parlava al telefono. «Ti mentirei ancora se ti dicessi che per Jacob non ho mai provato altro che affetto, e non voglio farlo».
Oddio. «Che significa?». Con una mano afferrai il bracciolo della poltrona e lo tenni stretto.
«Significa che un po’ l’ho amato anch’io. Non come lui amava me, ma c’era qualcosa tra noi. Ma l’amore che provo per tuo padre è infinitamente diverso, Renesmee. Forse ti sembrerà assurdo perché sei ancora molto giovane e ci sono ancora tante cose di cui non hai nessuna esperienza, ma è così. E da quando sei arrivata tu, io e Jacob siamo come fratello e sorella. Mi rendo conto che non è facile da accettare, ma… volevi la verità. Be’, è questa, la verità».
Aveva parlato con calma e dolcezza, eppure sentii una fitta di rabbia quasi dolorosa. E tanti saluti all’autocontrollo. 
«Non posso crederci» sbottai, asciugandomi le guance bagnate con il dorso della mano.
La mamma si agitò, sporgendosi verso di me come se avesse voluto abbracciarmi. «Tesoro, ti prego» esclamò con voce carica di angoscia «è una cosa del passato e comunque non è mai successo niente tra me e lui. Ci siamo solo baciati. Capisco che tu ti senta ferita e arrabbiata, ma…»
«Che stai dicendo?» la interruppi con foga. Un pensiero orribile si stava facendo strada dentro di me: che impressione davo? Che cosa credeva? «Pensi che sia gelosa?»
«No, non ho detto questo…»
«Non sono arrabbiata perché eravate… innamorati o cosa diavolo eravate, ma perché nessuno ha mai pensato di dirmi niente di tutto questo!»
«Noi… te l’avremmo detto, okay?» intervenne mio padre, con tono quasi disperato tanto era intenso. «Ti avremmo detto tutto, anche dell’imprinting, volevamo solo aspettare che tu fossi un po’ più grande. Cercavamo di proteggerti».
Basta. Non volevo ascoltare una parola di più. Sentivo la testa così ingombra e pesante che temetti potesse esplodere sul serio, da un momento all’altro. Desideravo andarmene di nuovo, ma le gambe non mi avrebbero retto. 
«Ma come ha potuto avere l’imprinting con me… se era innamorato di te?» balbettai con voce rotta. Era una domanda stupida, ma non riuscii a trattenerla.
«Dal momento in cui ti ha vista non lo è più stato, e io ne sono felice, perché non sai quanto ha sofferto per colpa mia» rispose Bella. «Sai, quando aspettavo te… io e Jacob non riuscivamo a separarci. Siamo stati molto legati fin dall’inizio, ma in quei giorni stare lontani era come…» fece una pausa e sospirò, incerta. «Oddio, non so come spiegartelo. Era un dolore fisico, ecco. Era impossibile, mi capisci? Be’, eri tu». Mi rivolse un piccolo sorriso. «Tu e lui dovevate stare insieme, già allora».
Distolsi gli occhi dai suoi e li fissai sul fuoco nel caminetto. Non avrei saputo dire perché, ma mi sentivo tremendamente a disagio. Nella mia mente prendeva corpo un’immagine inquietante: Jacob e la mamma, l’uno accanto all’altra, così misteriosamente legati, ed io in mezzo. Lo stomaco mi si rivoltò per la centesima volta. Era orribile. Jacob amava la mamma e io mi ero messa tra loro, avevo creato quell’assurda situazione. Il pensiero di quello che Jake doveva aver passato guardando Bella morire lentamente, senza poter fare nulla e senza riuscire ad allontanarsi, era spaventoso. La voce di mia madre mi riscosse da quelle cupe fantasie.
«L’imprinting non è solo affetto, Renesmee. È molto di più. Quello che Jacob provava per me era insignificante, al confronto. Tu sai che è così, pensa a Sam ed Emily».
Ci stavo già pensando, altrochè. Ci pensavo da quella mattina. La loro situazione mi era sempre sembrata strana, ma finchè non si vive qualcosa sulla propria pelle è impossibile averne una percezione esatta. E solo ora mi rendevo conto di quanto fosse assurdo… assurdo e sbagliato. Forse l’imprinting univa due persone destinate a stare insieme, ma con conseguenze disastrose: cancellava il passato, annullava sentimenti e legami, sconvolgeva la vita di tutti, lasciando solo terra bruciata dietro di sé.
«Tesoro, no» intervenne papà con voce tormentata. Scosse piano la testa. «Non è così. Jacob ti vuole bene ed è molto felice al tuo fianco. Sei la cosa migliore che gli sia mai capitata. Io conosco i suoi pensieri, devi fidarti di me. E di lui».
Mi sfuggì un verso sarcastico. «Fidarmi di te è l’ultima cosa che potrei fare adesso» sibilai.
Lui mi fissò in silenzio per qualche istante. «Lo so» mormorò, muovendo appena le labbra. Abbassò gli occhi sul pavimento, come se si non riuscisse a reggere il mio sguardo.
La mamma era scioccata dalle mie parole. Lanciò un’occhiata a papà, incerta, poi si girò di nuovo verso di me. «Renesmee, tuo padre ha ragione».
«Ma non ha assolutamente senso! Io avevo appena ucciso la donna che amava e lui…»
«Che cosa?» mi interruppe lei, con tono improvvisamente gelido. «Che cosa hai detto?»
Focalizzai l’attenzione sul suo viso, anche se le lacrime che mi riempivano gli occhi rendevano tremolanti e confusi i contorni della sua figura. «Sai benissimo quello che ti ho fatto, mamma» dissi a denti stretti.
Assolutamente sconvolta, sgranò gli occhi color topazio e sussultò come se l'avessi colpita con qualcosa. «Non mi hai fatto nulla! Eri solo una bambina! Non c’è niente per cui tu debba sentirti in colpa, niente!»
«Niente tranne quello che è successo a te» continuai, imperterrita, con voce rotta e tremante. «Io ti ho fatto soffrire, stavi morendo, papà ha dovuto trasformarti, ti sembra abbastanza?»
«Sarebbe successo comunque! Io volevo essere trasformata per stare con tuo padre, tu hai solo... accelerato un po’ le cose!»
Scossi piano la testa. «Forse, ma questo non cambia quello che ti ho fatto passare».
Bella stava per rispondermi, sempre più accalorata, quando papà sollevò gli occhi e riprese a parlare. 
«Poche ore prima che tu nascessi» cominciò, la voce ferma e controllata «sono riuscito ad ascoltare la tua mente per la prima volta e mi sono reso conto che non stavi facendo nulla intenzionalmente. Anzi, in qualche modo tu… capivi che tua madre stava male. Quel momento ha cambiato qualcosa dentro di me». Fece una pausa, come cercando le parole giuste. «È stato allora che finalmente ho capito quanto ti desiderassi, e quanto tu fossi… innocente. Già allora provavi affetto per noi, in modo inconsapevole e spontaneo. Tu sei una persona buona, Renesmee. Quello che è successo alla mamma non è stata colpa tua. Non è stata colpa di nessuno. Ma tutti noi, in un modo o nell’altro… abbiamo il potere di determinare gli eventi, a volte senza accorgercene nemmeno. E le conseguenze delle nostre azioni sono così infinite e mutevoli che è impossibile prevederle». Lanciò un’occhiata a zia Alice, che accennò un mezzo sorriso verso di me. «Non puoi passare la tua esistenza a tormentarti per qualcosa che appartiene al passato e su cui non avevi alcun potere. Bisogna riuscire ad accettare anche quello che non si vorrebbe, anche quello che fa soffrire, altrimenti si diventa pazzi».
Si diventa pazzi. Mi parve che potessi diventarlo sul serio, lì, in quell’esatto istante. Troppe informazioni, troppe cose da digerire tutte insieme e troppo poco spazio nella testa, troppa poca energia per farlo, troppa voglia di andarsene, semplicemente. Il vaso era colmo e l’acqua debordava da tutte le parti.
«Basta» ansimai, sconvolta. «Basta».
Mi alzai e me ne andai, senza correre ma a passo svelto. Nessuno mi seguì nè cercò di fermarmi. Sentivo una crisi di pianto in arrivo e mi costrinsi a trattenerla, sebbene rischiassi di soffocare. Piangere mi faceva sentire vulnerabile e non volevo suscitare la loro compassione. Solo quando ebbi superato il fiume, ormai vicina a casa mia, mi sentii libera di lasciarmi andare.







Note.
1. Link.








Spazio autrice.
Eccomi qui ^^. Come avevo anticipato, adesso Renesmee sa proprio tutto. Nel prossimo capitolo ci sarà un confronto con Jacob e sarà altrettanto... vivace xd. Ammetto che non è stato semplice gestire i sentimenti e i pensieri di Renesmee in questa fase perchè sono molto caotici: passa dalla sorpresa al dolore, dal desiderio di sapere tutto al timore di scoprire troppo e di non riuscire a sopportarlo, dall'abbattimento alla rabbia, dalla collera verso gli altri alla collera verso se stessa. Questo stato d'animo confuso e addolorato continuerà ancora per un po', ma presto ci saranno dei cambiamenti. Spero comunque di essere riuscita a descriverlo in modo efficace. Aspetto di sentire il vostro parere ;-). Grazie!

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Capitolo 15
*** Shadow of the day ***


Capitolo 15
Shadow of the day




I close both locks below the window
I close both blinds and turn away
sometimes solutions aren’t so simple
sometimes goodbye’s the only way
and the sun will set for you
the sun will set for you
and the shadow of the day
will embrace the world in grey
and the sun will set for you.
Shadow of the day, Linkin Park¹


Di nient’altro viviamo, se non dei nostri poveri, belli, splendidi sentimenti:

ogni sentimento cui facciamo torto è una stella che spegniamo.
 HERMAN HESSE, L’ultima estate di Klingsor

 

 

Passai una brutta notte. Mi infilai nel letto appena arrivata a casa, sebbene fossero appena le otto, ma mi girai e mi rigirai per un bel pezzo prima di addormentarmi. Un paio d’ore più tardi sentii rientrare i miei genitori, così silenziosi che me ne accorsi a malapena, ma non vennero a bussare e non cercarono di parlarmi. Immaginavo che la nostra discussione fosse stata pesante per me quanto per loro. E anche i vampiri hanno bisogno di una tregua, a volte. Quando finalmente scivolai nel sonno, non ebbi un vero e proprio incubo, ma i due volti di mia madre, l’umana devastata dalle guance scavate ed esangui, il mio primo ricordo di lei, e la bellissima immortale, continuavano ad apparire, scomparire e sovrapporsi nella mia mente. Per di più piovve a secchiate per tutta la notte, rendendo ancora più inquieto il mio riposo.
Al suono della sveglia mi tirai su contro voglia: ero ancora più stanca e frastornata della sera prima e avrei tanto desiderato nascondermi sotto le coperte e dormire per una settimana. Ma restare a casa significava rischiare altre allegre chiacchierate in famiglia. Dal momento che era venerdì avrei dovuto inventarmi qualcosa per tenermi occupata e lontana da casa nel week end.
Feci la doccia e mi preparai per la scuola lenta come una lumaca. L’unica cosa che mi faceva stare meglio era il pensiero di rivedere Alex. Riuscivo a immaginarlo perfettamente, in piedi ad aspettarmi accanto alla sua auto ferma nel viale, gli occhiali da sole e la sigaretta tra le dita. Sorrisi tra me e me, frizionando i capelli bagnati con un asciugamano. Che spaccone. Chissà come avrebbe preso la proposta di un altro giro a Port Angeles per il giorno seguente… Di sicuro ne sarebbe stato entusiasta.
Appena fui pronta, uscii dalla mia camera e mi fermai un secondo in ascolto. Non si sentiva nessun rumore. Mi diressi cautamente in cucina e la trovai deserta. Sul tavolo era disposta una ricca colazione e attaccato al frigo con una calamita notai un messaggio scritto chiaramente dalla mano della mamma. Mi avvicinai e lo staccai dal frigo.


Buongiorno, tesoro! Papà ed io siamo andati a caccia, ma non ci allontaneremo. Se hai bisogno di qualcosa ci trovi nei dintorni. Passa una bella giornata, ti vogliamo bene. Mamma.

 

Probabilmente avevano pensato di darmi un po’ di tregua e di non impormi la loro presenza. Lo apprezzavo, ed ero sollevata di non dover parlare ancora con loro, almeno per qualche ora. Non toccai la colazione, per puro dispetto. Non mi andava di dar loro una soddisfazione, seppure minima. Così presi dal freezer una sacca di sangue animale, procurato da qualcuno dei miei durante la caccia e messo da parte per me, la vuotai in una tazza e la misi nel microonde perché si scaldasse, poi la mandai giù in un minuto. Ero sempre più impaziente di incontrare Alex. Volevo lasciarmi alle spalle il mio assurdo mondo per un po’ e distrarmi con lui, ridere delle sue battute, assaporare il suo sorriso, studiare le luci e le ombre del suo volto, stringere la sua mano fresca e forte.

Lavai i denti alla velocità della luce, uscii e feci quasi di corsa il percorso verso la casa dei nonni. Quando vidi la sua auto scintillante ferma al solito posto, tirai un sospiro di sollievo e sorrisi. Sapevo che l’avrei trovato lì. Non mi avrebbe lasciata sola, l’aveva promesso.
Diversamente da come immaginavo, era seduto al posto di guida, non indossava gli occhiali da sole e non fumava, e una canzone veloce usciva dall’abitacolo. Saltai svelta nel posto accanto al suo.
«Ciao» lo salutai, un po’ affannata.
Mi rivolse un sorriso a trentadue denti, così esagerato da farmi venire subito qualche sospetto. «Buongiorno, cara». Sollevò teatralmente il polso sinistro e gettò un’occhiata all’orologio. «Venti minuti. Cinque più di ieri».
Finsi un’aria scocciata. «Non sapevo che fossi un maniaco della puntualità».
«Lo divento quando mi tocca aspettare venti minuti. Ma cosa fai la mattina per prepararti? Voli a Parigi dal tuo parrucchiere personale?»
«Non è affatto carino far pesare a una signora il suo ritardo».
Fece un sospiro pesante, rassegnato, alzando gli occhi al cielo. «D’accordo… Passi anche per questa volta. Sono un angelo, vero?». Mi lanciò un sorrisetto.
«Altrochè. Tra poco ti spunteranno le ali».
«Fantastico, proprio quello che mi ci voleva per passare inosservato tra queste lande desolate. Almeno dimmi se le tue occhiaie testimoniano una baldoria notturna a cui non sono stato invitato».
Le aveva notate? Uffa. «Nessuna baldoria notturna. Non ho dormito bene, tutto qui».
Si fece serio in un lampo. Il giorno prima si era impegnato a non accennare più al mio problema a meno che non fossi io a farlo, ma per un istante temetti che l’avesse dimenticato. Ed io speravo di non dover più raccontare altre bugie, almeno per quel giorno.
«Eh, sì» mormorò con tono austero. «Hai pensato a me tutta la notte, vero?»
Sorrisi, un po’ esasperata. «Certo, come no» bofonchiai.
«Andiamo, confessa».
«Adesso che ci penso, ho avuto gli incubi, quindi… Sì, forse hai ragione tu».
Alex scoppiò a ridere di gusto. Stavamo tirando un po’ troppo la corda, noi due. Rischiavamo di spezzarla da un momento all’altro e tutti i nostri propositi di essere solo amici per un po’ si sarebbero dissolti come fumo nel vento. Eppure era così facile e piacevole stare con lui. In pochi giorni era diventato incredibilmente importante nella mia vita. Avevo bisogno della sua fresce leggerezza. Ma allo stesso tempo, i miei problemi non lo spaventavano affatto, anzi: sembrava disposto ad affrontarli con me e questo mi faceva sentire più forte.
Il tragitto verso la scuola sembrò brevissimo mentre Alex continuava a scherzare e parlavamo del più e del meno. Quando ci fermammo nel parcheggio mi sentivo decisamente meglio.
«Ci vediamo a pranzo?» propose mentre scendevamo dalla macchina.
«Certo. Nessun problema». Sorrisi, girando la testa dall’altra parte perché non se ne accorgesse.
«Spero che tu ti senta abbastanza forte psicologicamente da poter pranzare sola con me» aggiunse con voce insinuante.
«Vedrò di cavarmela» risposi ostentando disinvoltura.
«Ottimo». Sembrava entusiasta. «Ciao, Scheggia». Mi mandò un bacio da lontano con la punta delle labbra e si voltò per andarsene.
Sempre lo stesso. «A dopo» borbottai.  
Mi avviai alla lezione di francese, chiedendomi se parlare con Alex sarebbe stato sempre così facile. La mia più grande paura, quando immaginavo di uscire con un ragazzo, era sempre stata non avere niente di cui parlare. Poi Jas spuntò all’improvviso dalla folla. Venne verso di me a passo di marcia, l’espressione determinata, e mi investì con un fiume di parole. Era piuttosto seccata per come l’avevo trattata la sera prima, ma anche così ansiosa di sapere di Alex che la questione della telefonata passò subito in secondo piano. Per farmi perdonare le domandai scusa un centinaio di volte e le raccontai per fila e per segno tutto quello che era successo con Alex. La storia era così lunga e lei pretendeva una tale dovizia di particolari che per proseguire il racconto passai tutte le due ore di francese a scriverle bigliettini fitti fitti e a lanciarli sul suo banco. Quando le scrissi che Alex aveva riprovato a baciarmi, a casa sua, sollevò la testa e mi guardò con un’aria così trionfante che pensai sarebbe esplosa per la soddisfazione. Finalmente vedeva confermate tutte le congetture sue e di Holly sull’attrazione che lui provava per me.
Quando invece le raccontai che avevo incontrato Alex per caso dopo aver litigato con i miei ed essere scappata di casa, il mercoledì precedente, spalancò gli occhi azzurri, sconvolta.
«Cioè… davvero… sei scappata di casa?» domandò.
Le due ore di francese erano finite e stavamo raggiungendo le aule delle lezioni successive, biologia per me ed educazione civica per lei. Sospirai.
«Tecnicamente sì».
«Oh». Per qualche secondo rimuginò in silenzio. «Perché? Cos’è successo?»
Eccola lì. Sapevo che ci saremmo arrivate, prima o poi. Be’, era la mia migliore amica e una di quelle pochissime persone su cui mi sembrava di poter contare, al momento. Non potevo continuare a non dirle nulla. Rassegnata, le raccontai la stessa bugia che avevo rifilato ad Alex e per fortuna era qualcosa di abbastanza grosso da giustificare la mia reazione. Mentre parlavo mi spuntò un groppo in gola, la voce tremò paurosamente, gli occhi divennero umidi. La mia amica sembrava pronta a pormi un milione di domande, ma quando vide i cambiamenti sul mio viso non chiese nulla e si limitò ad abbracciarmi con slancio nel mezzo di un affollato corridoio. Sollevata, ricambiai la stretta e mi sentii felice di averla al mio fianco, sebbene a volte si comportasse da pazza isterica.
Per il resto della giornata non tirò più in ballo l’argomento, forse anche perché era troppo occupata a ripetere alle altre tutto quello che le avevo raccontato. Io la lasciai fare, felice che ci fosse qualcosa a distrarla dai miei problemi più pressanti. E poi era divertente osservare le reazioni delle ragazze: lo stupore ingenuo di Danielle, i consigli pratici di Holly, le smorfie di Maggie (che considerava i maschi una sorta di inutile sottoprodotto della specie umana).
Come il giorno precedente, non mi concentrai affatto sulle lezioni. Non ci provai nemmeno. Alla terza ora avevo un test di biologia che consegnai completamente in bianco, un po’ perché non aprivo un libro da due giorni, un po’ perché non avevo alcuna voglia di mettermi a tracciare crocette. Per la prima volta da quando avevo cominciato la scuola me ne fregavo del voto che avrei preso. Passai tutta l’ora cercando di immaginare Jacob e la mamma innamorati, che si tenevano per mano, che parlavano dei propri sentimenti, che si baciavano… Bella aveva detto che non era mai successo niente tra loro, il che per fortuna mi faceva escludere il peggio. E poi, per quel che ne sapevo, lei era andata a letto solo con papà, dopo il matrimonio. Ma potevo essere certa che fosse proprio così? Come potevo fidarmi ancora di loro? Non ero più sicura di nulla. E se Bella mi avesse mentito? E se tra lei e Jacob fosse davvero successo qualcosa? A quel pensiero premetti ferocemente la matita sul banco senza nessun motivo e spezzai la punta di netto.
Quando consegnai il compito immacolato al professor Morton, lui lo osservò a lungo, sconcertato, poi guardò me a bocca aperta come se dubitasse della mia sanità mentale: la studentessa migliore della classe che consegnava un test in bianco doveva essere un evento apocalittico per lui.
Più tardi, quando suonò la campanella dell’intervallo, informai le mie amiche che quel giorno non avrei pranzato con loro e nessuna parve troppo sorpresa. Entrammo nella mensa e subito la percorsi con gli occhi, in fretta, cercando Alex. Quando lo individuai nella folla, seduto a un tavolo, il mio cuore fece un balzo di gioia, e subito dopo sprofondò sotto i tacchi. Non era solo: in piedi accanto a lui c’era Caroline, tutta presa a chiacchierare animatamente. Jas seguì la direzione del mio sguardo e inarcò le sopracciglia.
«Oh-oh. Guai in vista» borbottò.
Io cercai di mostrarmi sicura. «È solo Caroline, fa quello che sa fare. Ci vediamo dopo».
«Buona fortuna!» disse la mia amica, con aria leggermente dubbiosa.
Attraversai la mensa, facendomi coraggio, e intanto cercavo di stabilire una strategia. Caroline era di spalle, ma vedevo l’espressione di Alex, e cercai di decifrarla: era strana, sembrava che si sforzasse di non ridere. Ero ancora distante dal tavolo, ma mi concentrai per sentire cosa stava dicendo Caroline.
«Insomma, appena ti ho visto ho pensato che eri perfetto! E non è solo una mia idea, ma anche delle altre cheerleaders e di tutta la squadra. Dovresti pensarci, davvero».
Feci un respiro profondo e la interruppi. «Ciao!»
Lei mi lanciò un’occhiata rapida, l’espressione infastidita. Okay, era felice del mio arrivo quanto sarebbe stata felice di un brufolo sul naso. «Ciao!» esclamò con un tono allegro che non combaciava per niente con la sua faccia.
Alex mi rivolse un sorrisetto, che io ricambiai, sinceramente contenta di vederlo. Sembrava soddisfatto, chissà perché. Cercai di porgli una muta domanda con gli occhi, ma lui si limitò a fissarmi senza togliersi quello strano sorriso. Caroline scrollò la testa facendo oscillare i suoi lunghi capelli biondi fin quasi a colpirmi la faccia.
«Allora… che ne pensi?»
Alex tornò lentamente a concentrarsi su di lei. «Sei gentile, Caroline, ma non credo di essere perfetto per la squadra: i giocatori di basket non dovrebbero essere alti?»
«Tu non sei basso» protestò Caroline ridacchiando. Potevo solo immaginare come se lo stesse lavorando con gli occhi, sfoggiando la sua vastissima gamma di sguardi maliziosi e insinuanti. Sperai che Alex non fosse così tonto da cascarci.
«No, ma non sono nemmeno particolarmente alto».
«L’altezza è un pregiudizio ormai superato nel basket! Le caratteristiche di un bravo giocatore sono ben altre, fidati».
Alex inarcò appena le sopracciglia, quel sorriso ancora sulle labbra. «Be’, comunque non sono mai stato molto interessato all’attività fisica. Gioco solo un po' a tennis ogni tanto. E del basket poi non so praticamente nulla».
«Sul serio non pratichi uno sport?» esclamò Caroline, stupita. «Non sembra proprio, sai? Come ti dicevo, Josh si è infortunato e non potrà giocare almeno per un paio di mesi. Forse potrebbe essere una buona occasione per cominciare. Chissà, magari scoprirai una grande passione per il canestro!»
Il sorriso di Alex divenne ancora più ampio e il suo sguardo si affilò mentre guardava Caroline da sotto in su. «Ne dubito fortemente. Ti ringrazio per il pensiero, ma non sono interessato. Davvero».
La sua voce aveva un tono definitivo che sconcertò me quanto Caroline. Non potevo vedere bene il suo viso, ma mi accorsi che si era irrigidita. Smise immediatamente di sporgersi verso di lui, come stava facendo, e quando parlò capii che aveva smesso di ridacchiare. «Oh. Be’, se ne sei certo…»
«Assolutamente certo».
Caroline fece un passo indietro. «Capisco. Sarà per un’altra volta, magari. Ci si vede». Mi lanciò un’occhiata rapida e indagatrice, come se si stesse chiedendo cosa diavolo c’era tra me e Alex. Onestamente, me lo chiedevo anch’io.
«Ciao» salutò lui con voce educata e formale.
Caroline ci volse le spalle e si allontanò facendo un gran baccano con i tacchi degli stivali, le spalle rigide, l’aria sostenuta. La seguii con gli occhi finchè raggiunse il suo tavolo e sedette accanto a Josh, il suo attuale ragazzo.
Io e Alex ci fissammo in silenzio per un secondo.
«Sbaglio o stava cercando di convincerti a entrare nella squadra di basket?» domandai.
Quella ragazza possedeva una miniera infinita di trucchi ed espedienti per attaccare bottone con l’altro sesso e ne faceva uso con la massima disinvoltura. Magari io fossi stata… be’, non proprio come lei, un'oca ninfomane che cambiava fidanzato ogni due settimane, ma non mi sarebbe dispiaciuto affatto avere un po’ della sua sicurezza.
Alex sospirò mentre si alzava. «Sì. Ma come ho già detto, la cosa non m’interessa. Andiamo, muoio di fame».
Lasciammo le borse e le giacche al tavolo e ci mettemmo in coda per il pranzo. In realtà la tazza di sangue che avevo bevuto quella mattina mi sarebbe stata più che sufficiente per saltare il pasto perchè il sangue riusciva a saziarmi un po’ più a lungo del cibo umano, ma, fedele alla solita messinscena, presi un vassoio e seguii Alex mentre tornavamo al tavolo. Ascoltavo a malapena la sua sfilza di battute sullo sgradevole odore delle tagliatelle alla panna con funghi che avevamo nel piatto. Continuava a balenarmi davanti agli occhi quello che avevo visto il martedì precedente durante l’assemblea mensile: Alex e Caroline seduti vicini, intenti a chiacchierare e a ridere come due buoni amici.
«Posso farti una domanda?» dissi quando ci fummo seduti.
«Spara».
Ci pensai con cura, mentre arrotolavo le tagliatelle intorno alla forchetta, cercando di farmi venire un po’ di appetito. «Sei davvero così indifferente come sembra a Caroline?»
«Indifferente…» ripetè Alex. Aprì la sua lattina di Coca e ne bevve un sorso. «Be’, è una bella ragazza, non posso negarlo». Mi guardò con aria di scuse, ma scoprii di non essere particolarmente infastidita dalle sue parole. In fondo, lui mi aveva già detto chiaramente quanto gli piacessi, e che Caroline fosse molto carina era un dato oggettivo indiscutibile. «È sveglia, secondo me, molto più sveglia di quanto possa sembrare. E determinata, anche. Non mi risulta che le cheerleaders si interessino tanto alle selezioni per la squadra». Tornò quel sorriso furbo e sorrisi anch’io, divertita. «Però le piace passare per stupida, a volte.. Forse ha capito che è il modo più facile per ottenere certe cose».
Annuii, e la frase successiva mi sfuggì prima che potessi pensarci. «Sei tu ciò che vuole, al momento».
Alex fece una smorfia. Prima di rispondere ingoiò un boccone di pasta e bevve ancora un po’ di Coca. «Può darsi. Non lasciarti ingannare, però. Non le piaccio più di quanto le piacciano altri ragazzi, ma sono appena arrivato, vengo da una grande città dall’altra parte del paese. Senza dubbio possiedo una certa dose di sex appeal». Mi fece l’occhiolino, sicuro del fatto suo, e il mio cuore fece una capriola all’indietro. «E ormai si sarà senz’altro diffusa la voce del mio passato turbolento. Caroline non vuole me, vuole… quello che c’è intorno a me».
Era tutto vero. Aveva parlato solo un paio di volte con Caroline, eppure aveva capito parecchie cose di lei.
«Sai, martedì… all’assemblea mensile… vi ho visti insieme» ripresi, gli occhi bassi puntati nel mio piatto.
«Ah» esclamò, compiaciuto. «Mi spiavi, immagino».
«Non proprio. In ogni caso, non mi sembrava che parlare con lei ti dispiacesse».
Aggrottò la fronte. «Non mi è dispiaciuto, infatti. Mi ha raccontato un bel po’ di pettegolezzi divertenti, mi ha dato qualche informazione utile. Ad esempio, dove nascondersi per saltare un’ora di lezione senza farsi beccare. Non è una stupida oca come sembra, te l’ho detto: sa bene come catturare l’attenzione. Però credo di averle fatto capire fin dall’inizio di non essere interessato a diventare il suo prossimo trofeo».
«Credevo che fosse il basket a non interessarti» scherzai.
«Il basket e le altre cose» rispose disinvolto.
«Non è una che si arrende facilmente».
Alzò le spalle. «Forse dopo oggi si arrenderà».
«Sei il primo ragazzo che dice no a Caroline Johnson» osservai, senza riuscire a trattenere un sorriso. Era un pensiero sconcertante. «Non credevo che avrei mai visto questo giorno».
Alex rise. «Lo so, sono sorprendente, Scheggia».
L’ora di pausa trascorse in fretta. Come sempre quando ero con Alex, ero piuttosto tranquilla e serena. Ogni tanto però ecco qualcosa di sgradevole pungolarmi il cervello come un’ape ronzante, un pensiero, una frase, un’immagine, e tutto mi tornava alla mente. Tornava il gelo nello stomaco, il senso di soffocamento, la nausea, le vertigini. Durava solo un momento, prima che riuscissi a controllarmi, ma era un momento infinito. Non potevo isolarmi troppo a lungo dalla realtà.
Quando l’intervallo terminò, decidemmo di incontrarci nel parcheggio dopo le lezioni. Alex mi invitò di nuovo a casa sua ed io rimasi sul vago, incerta. L’idea mi attirava, eppure temevo che sua zia Julie, così attenta e osservatrice, potesse farsi strane idee vedendomi con lui per il secondo pomeriggio consecutivo. In una città così piccola bastava pochissimo per mettere in piedi una storia. Il che non escludeva però che trascorressimo ugualmente il pomeriggio insieme lontano dagli occhi indagatori di Julie. Poiché casa sua, casa mia e La Push erano bandite, non c’erano molti altri posti dove potessimo pensare di andare, ma mi dissi che persino rispolverare la vecchia idea di ascoltare cd in macchina era di gran lunga preferibile a un immediato rientro.
In qualche modo trascorsero anche le ultime due ore di lezione. Io e Jas uscimmo insieme nel cortile e lei era praticamente più eccitata di me.
«Ormai il momento del secondo bacio si sta avvicinando» dichiarò. Aveva un’aria grave e risoluta, come se stesse annunciando un’imminente invasione aliena. «Potrebbe succedere oggi. Anzi, no, sono sicura che succederà oggi, quindi, ti prego, cerca di non rovinare tutto anche stavolta, okay?»
«Caspita, Jas, questa sì che è una bella iniezione di autostima. Grazie».
Lei mi guardò disorientata. «Che c’entra l’autostima? Ho detto solo la verità. Ripetere il colpo di genio che hai avuto lunedì in spiaggia non ti aiuterà affatto ad arginare il "pericolo Caroline"».
«Non c’è nessun pericolo, Jas. Lui non è interessato, ormai credo che Caroline abbia capito».
«E tu sei davvero così ingenua da credere che quella lì si sia tirata indietro?»
«Jas, ti prego».
«D’accordo». Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Vuol dire che terrò io gli occhi aperti per te, come sempre. Vai, adesso, c’è il tuo Straniero pronto per rapirti. Oh, stasera ovviamente aspetto una telefonata» concluse lanciandomi un’occhiataccia.
Le diedi un bacio sulla guancia. «Promesso. Ciao!»
Mentre si allontanava mi fece un linguaccia scherzosa. La guardai avviarsi alla fermata del pulmino della scuola, che io non lo prendevo mai perché non arrivava fino a casa mia, sperduta tra i boschi, poi mi voltai per raggiungere Alex. Ma non feci nemmeno un altro passo. Di colpo il cuore mi balzò in gola e mi si paralizzarono le gambe. Sbattei più volte le palpebre, sperando di avere un’allucinazione, ma quando li riaprii si ripresentò la stessa scena. Seduto nella sua auto ancora parcheggiata c’era Alex, impegnato ad armeggiare con dei cd; quando alzò gli occhi, mi notò e mi sorrise. A una trentina di metri da lui c’era Jacob, appoggiato al fianco della sua motocicletta nera ferma sul ciglio della strada, le braccia incrociate e lo sguardo impenetrabile fisso su di me; mi aspettava.
Per diversi secondi restai impalata a guardarlo, incapace di fare qualunque cosa, con un fortissimo senso di déjà vu al ricordo di come ci fossimo incontrati proprio fuori scuola in quello stesso modo soltanto due giorni prima. Lui era venuto a prendermi e poi… Mi riscossi di botto. Scrollai la testa, cercando di darmi un tono, e presi a camminare verso la macchina di Alex, decisa a fare come se non avessi visto nessuno. Alex aveva smesso di sorridere e sembrava preoccupato.
«Renesmee!»
Feci un tale salto che per poco non cacciai un urlo e finii sotto un’auto di passaggio. Jacob mi aveva raggiunta in due secondi e teneva il mio passo senza la minima difficoltà. Non risposi e accelerai, tentando di seminarlo.
«Renesmee, voglio soltanto parlare!»
Mi chiamava con il mio nome per intero? Doveva essere preoccupato a  morte, allora. Lo faceva solo nei momenti di massima serietà.
«No! Vattene!» sbottai. Mi uscì un tono velenoso degno di Caroline Jhonson. Brava, Renesmee.
Ma se io non intendevo fermarmi, lui non intendeva arrendersi. L’ostinazione era un tratto fondamentale del suo carattere. «No, non me ne vado» disse, deciso. «So che mi detesti, lo so benissimo. Hai assolutamente ragione, io sarei incazzato a morte al posto tuo. Ma dobbiamo parlare».
Mi sembrò di essere tornata alla sera prima e a quell’orribile conversazione con i miei. «No!» strillai, furibonda. Che faccia tosta! Come osava presentarsi in quel modo e aspettarsi che…
Jacob mi afferrò il braccio, piano ma con fermezza, e mi costrinse a fermarmi e a voltarmi verso di lui. «Non fare la bambina! Solo cinque minuti, ti prego!»
Tenni gli occhi ben fissi a terra per non rischiare di incrociare i suoi e cercai di liberarmi, ma la sua presa era troppo forte per me. «Ho detto di no! Vattene, lasciami stare! Jacob, lasciami!»
«Ehi, ehi! Che sta succedendo?»
Alex piombò all’improvviso accanto a noi, l’aria preoccupata. Mi accorsi che nella fretta di correre da me non aveva neanche chiuso la portiera dell’auto. Mi sentii pizzicare gli occhi. No, non adesso! Respirai profondamente per calmarmi.
«Niente… non sta succedendo niente» farfugliai, confusa. Probabilmente non lo ingannai affatto. Alex abbassò lo sguardo sulla mano di Jacob che mi teneva intrappolata, poi lanciò un’occhiata al suo volto. Inarcò le sopracciglia di fronte alla sua stazza, ma non si tirò indietro di un centimetro. Anch’io guardai Jacob, seppur riluttante: in fondo ai suoi occhi neri ardeva un fuoco che quasi mi spaventò. Lentamente, mi lasciò andare. Alex tornò a concentrarsi su di me.
«Tutto bene?»
Non andava affatto bene, ma ovviamente dovevo cercare di salvare la situazione. «Sì, tranquillo. Lui è…» cercai affannosamente un modo per qualificare Jacob «… un amico. Vai pure, arrivo subito».
«No, dobbiamo parlare» intervenne Jacob sempre con lo stesso tono perentorio.
Le sopracciglia di Alex tornarono a sollevarsi pericolosamente. «Non mi sembra che lei sia d’accordo. Forse sarebbe meglio rimandare».
Jacob lo ignorò. «Cinque minuti. Per favore» sussurrò, continuando a fissarmi con quegli occhi in fiamme.
Non avrebbe rinunciato, lo sapevo benissimo. Avrei dovuto affrontarlo. E forse era più prudente allontanare Alex prima che captasse nell’aria la parola "imprinting" e chiamasse la clinica psichiatrica più vicina.
«Okay» mi arresi. «Cinque minuti».
Jacob parve sollevato, ma Alex era decisamente perplesso. «Sei sicura?»
Sospirai, facendomi forza. «Sicura».
«Ti aspetto, allora».
«Non ce n’è bisogno, mi accompagnerà lui a casa». Alex mi studiava con attenzione, accigliato e per niente convinto. «È tutto a posto, sul serio. Vai» aggiunsi a bassa voce, e accennai un piccolo sorriso, cercando di rassicurarlo.
Annuì lentamente. «Va bene. Allora… mi chiami?»
«Certo. Ci sentiamo nel week end».
«Ciao, Renesmee» mormorò.
Prima di andarsene, afferrò la mia mano e la strinse, guardandomi con aria seria. Poi lanciò una strana occhiata a Jacob, come di avvertimento, si voltò e tornò con passo lento alla macchina. Lo seguii con lo sguardo, preoccupata, finchè non fu salito al posto di guida. E tanti saluti al nostro pomeriggio insieme. Estremamente riluttante, mi rivolsi a Jacob.
«Che cosa vuoi?»
«Parlare» ripetè, con calma. «So che Edward e Bella ti hanno già spiegato delle cose, ma… adesso tocca a me».
«Che altro c’è da dire, Jacob?» sibilai, togliendomi con rabbia dal viso una ciocca di capelli spostata dal vento freddo. In quell’istante udimmo la sgommata dell'Audi di Alex che usciva dal parcheggio. Sussultai.
«Non hai niente da chiedermi? Non ci credo».
«Anche se ci fosse qualcosa non potrei mai fidarmi di te» ribattei.
Lui spalancò gli occhi. «Che cavolo dici? Puoi fidarti di me, lo sai!»
«No che non lo so! Tu volevi uccidermi, Jacob» dissi lentamente, guardandolo dritto negli occhi. I suoi tratti si irrigidirono e capii di averlo ferito. Provai la stessa macabra soddisfazione che provavo nel ferire i miei. «Come puoi chiedermi di fidarmi di te?»
Scattò in avanti, il suo viso vicinissimo al mio. «Ascoltami, ti prego: se qualcuno o qualcosa facesse del male a te, credi che resterei a guardare senza fare nulla? Credi che darei ascolto alla ragione o all’onore o a qualunque altra cazzata del genere? No». Il suo sguardo ardente, furioso, concentrato, aveva catturato il mio. «Sarei pronto a uccidere per te. Capisci, ora?»
Non potevo negare che il paragone mi avesse colpito. Una parte di me comprendeva perfettamente le sue ragioni e quelle di mio padre. Dopotutto, avevo sempre saputo cos’era successo alla mamma. Quello era solo colpa mia e ce l’avevo molto più con me stessa che con loro. Ma la sofferenza non diminuiva affatto, in questo modo. Anzi, era anche peggio.
Sfuggii alla sua presa, senza difficoltà, questa volta, e mi allontanai. Jacob mi chiamò, ma lo sentii a malapena mentre uscivo a passo rapido dal parcheggio. Non sapevo nemmeno dove fossi diretta, volevo solo un po’ di tempo per smaltire la rabbia e arginare la crisi di pianto che faceva minacciosamente capolino. La voce di Jacob mi giunse come da molto lontano.
«Renesmee, aspetta! Fermati!»
A un tratto la sua mano grande e calda mi afferrò il polso ed io tornai bruscamente alla realtà. Dovetti smettere di camminare per non cadergli addosso. Lo guardai, le guance rigate dalle lacrime, e le parole sgorgarono da sole, senza che potessi pensarci.
«Eri innamorato di lei» sussurrai. «Perché non me l’hai detto?»
Jacob deglutì. Sicuramente già sapeva che io sapevo, ma mi resi conto che per lui quello doveva essere comunque un momento difficilissimo. «Non lo so, io… dirtelo non aveva senso, per me».
«Perché no?»
Parlò lentamente, come se soppesasse ogni parola, ma senza la minima esitazione. «Ero un ragazzino quando m’innamorai di lei. Quel sentimento appartiene al passato ed è cambiato profondamente».
«Anche dirmi dell’imprinting non aveva senso?» chiesi con aria di sfida.
Trasalì, colto di sorpresa. «No, è diverso…»
Non lasciai che finisse di parlare, troppo fuori di me per aspettare le sue stupide spiegazioni. Ero stufa marcia dei loro perché, non volevo più sentirne nemmeno uno. «Oddio, è assurdo! Pensavate di dirmelo, prima o poi?»
«Certo, ma…»
«Non posso crederci! Tu, Jacob Black, proprio tu, il mio presunto migliore amico, mi hai riempito di bugie! E osi ancora chiedermi di avere fiducia in te?»
«Ti calmi, per favore?» sbottò, la voce seria e ferma, interrompendo le mie proteste. «Edward e Bella hanno deciso di non dirti niente ed io ero d’accordo, è vero. Sono sempre stato d’accordo. A volte odiavo mentirti e sono sicuro che per la loro era la stessa cosa, ma lo rifarei e sai perché? Perché ti ho visto crescere felice e serena, spensierata, per quanto possibile. Questa era l’unica cosa che io e i tuoi genitori desideravamo per te. Pensavamo di dirtelo tra qualche anno, quando fossi stata pronta ad affrontarlo. Che senso avrebbe avuto scaricarti addosso questa cosa quando eri una bambina? Non avresti capito, sarebbe stato solo un peso per te». Si interruppe e serrò le labbra, come incerto se continuare o meno. «Ed io non volevo che ti sentissi in qualche modo… condizionata dall’imprinting. Non volevo che ti sentissi costretta a fare niente».
Abbassai gli occhi, improvvisamente desiderosa di sfuggire ai suoi. Dell’imprinting sapevo molto poco, ma vedendo Quil e Claire mi ero fatta l’idea che non fosse per forza un rapporto romantico, ma un legame così forte da sfuggire alle consuete definizioni. Non era amore, ma chiamarlo amicizia sarebbe stato riduttivo. Sapevo non doveva per forza conlcudersi con un matrimonio o qualcosa del genere. Una volta mio padre mi aveva detto che se da adulta Claire non si fosse mai innamorata di Quil, lui sarebbe semplicemente rimasto il suo migliore amico, per sempre. Alla luce delle ultime rivelazioni, le sue parole assumevano un significato ben preciso: aveva cercato di dirmi qualcosa, in quel momento. Però… Quil era la sua perfetta metà. Perchè Claire avrebbe dovuto sceglierre qualcun altro? Era in trappola, in un certo senso. Lo ero anch’io?
Jacob mi fissava ansioso. «Claire non sa nulla dell’imprinting» mi ricordò, come se sapesse cosa stavo pensando.
Profondamente turbata, gli rivolsi un’occhiata che sperai fosse feroce. «Claire ha otto anni, Jacob. Io non sono più una bambina da parecchio tempo».
«No, non sei una bambina, hai ragione. Non sei nemmeno un’adulta, però, e il modo in cui stai affrontando questa situazione lo dimostra».
«E come dovrei affrontarla, secondo te?» esclamai, incredula e arrabbiata. Quello era un colpo basso. «Tu mi hai ingannato…»
«No, non ti ho ingannato!» ribattè quasi in un ringhio. «Sai cosa significhi per me, sai che morirei piuttosto che ferirti… Questo non è cambiato. Non volevo ingannarti, volevo proteggerti». Ancora? Sbuffai e roteai gli occhi verso il cielo. Non ne potevo più di sentire quella parola, basta. Lui alzò la voce e parlò più in fretta, temendo che volessi interromperlo. «E visto come stai reagendo, mi sembra evidente che non eri affatto pronta e forse neanche tra dieci anni lo saresti stata… Ehi!»
Mi voltai con uno scatto e ripresi a camminare, quasi a correre, lungo il marciapiedi. Jacob mi tallonava tenendo il mio passo senza il minimo affanno. «Sai, forse se tutti voi smetteste di cercare di proteggermi starei molto meglio!»
«Cosa volevi che facessi? Che spiegassi tutto questo casino a una bambina?»
Questa volta fui io a fermarmi. Lo guardai, furiosa con lui e con me stessa perché non riuscivo più a trattenere le lacrime. Detestavo l’idea che mi vedesse piangere, detestavo l’idea di apparire così fragile ai suoi occhi.
«Volevo che tu fossi sincero con me!» gridai, la voce incrinata. «Io avrei capito, ti avrei voluto bene lo stesso, non sarebbe cambiato niente fra noi… Mi fidavo di te, Jake, mi fidavo di te… Come hai potuto farmi una cosa del genere?»
Jacob sembrava spaventato. Forse temeva che mi prendesse un colpo o qualcosa del genere. Non mi sentivo bene, avevo il viso congestionato dalle lacrime, tremavo, i respiri soffocati dai singhiozzi. Mi prese le spalle tra le mani e strinse forte, inchiodandomi dov’ero.
«Avevo paura» sussurrò. «Avevo paura di raccontarti tutto questo e poi scoprire che era cambiato qualcosa, che tu mi detestavi, che detestavi l’imprinting… Non volevo perderti».
«Mi hai persa adesso» singhiozzai. I miei occhi erano così pieni di lacrime che potevo vedere a stento l’espressione sconvolta di Jacob. Lui mi tirò di più a sé, facendomi male.
«No, non è vero! "Imprinting" è solo una parola, dimenticala!»
«Non ci riesco!»
«Ci riuscirai! Quello che conta è il nostro legame, cosa importa il modo in cui gli altri lo definiscono?»
«Quel legame non esiste più, Jacob!»
«Sì che esiste! Fa parte di noi, è nato con te, niente può distruggerlo!»
«L’hai distrutto tu con le tue bugie! Eri il mio migliore amico e mi hai tradito: io non potrò mai, mai dimenticare questo. Come hai potuto?». La mia voce soffocata dai singhiozzi di spezzò all’improvviso. Quasi non riuscivo a respirare. Cercai di divincolarmi, ma inutilmente. «Hai rovinato tutto… hai rovinato tutto...»
Jacob mi strinse ancora di più, ignorando i miei deboli tentativi di allontanarlo, e in un istante mi ritrovai premuta contro il suo petto. Serrai le braccia al corpo, tentando di erigere una barriera mentale tra me e lui. Poi sentii il suo profumo: un buon odore di legno e muschio. Quel profumo era una delle cose che più mi ricordava la mia infanzia, quando mi arrampicavo sulle sue spalle larghe e forti per farmi portare in giro e mi addormentavo tra le sue braccia dopo una giornata passata a giocare sulla spiaggia… Qualcosa di sciolse dentro di me e abbandonai la fronte sulla sua spalla, piangendo a dirotto. Ero così stanca e triste da non riuscire più a ragionare e seguii l’istinto, puro e semplice istinto che mi spingeva contro di lui. Lo detestavo con tutte le mie forze eppure ogni singola cellula del mio corpo urlava il suo nome e desiderava averlo accanto. Jacob aumentò la stretta, forse per consolarmi, e a quel punto, in un lampo, tornò la ragione. Il dolore per quello che avevo perso, la paura di cosa sarebbe venuto dopo, la rabbia verso Jacob, verso mio padre, verso la mia famiglia, verso me stessa, tutto questo mi colpì all'improvviso con la violenza di uno schiaffo e tornai al presente. Mi divincolai con più forza per allontanarlo da me. Lui cercò di trattenermi, e sentii la sua voce tormentata sussurrare qualcosa al mio orecchio.
«Ti prego!»
Lentamente allentò la stretta, forse scioccato dalla mia reazione. Barcollai all’indietro, confusa e strapazzata come se avessimo sostenuto un corpo a corpo.
«Non lasciarmi» mormorò, quasi supplicando.
Mi fissava come se gli stessi strappando il cuore con le mie stesse mani, mi stringeva i polsi cercando disperatamente di trattenermi. Mi sentivo lacerata tra l’istinto di rimanere accanto a lui e il desiderio di andarmene. Com’era possibile? Era questo l’imprinting?
No. No, non potevo sopportarlo. In quell’istante decisi cosa dovevo fare.
«I tuoi cinque minuti sono scaduti» ansimai, sconvolta. «Non mi seguire».
Gli voltai le spalle e mi allontanai in fretta, nella testa un turbinio di pensieri simile a un uragano. Basta. Era troppo. Non ce la facevo più. Non c’era abbastanza spazio per contenere tutto. Ero a un passo dal crollo. Mentre sfrecciavo lungo il marciapiedi bagnato e scivoloso, mi accorsi che mi stavo dirigendo verso un luogo preciso, con passo sicuro, come se avessi stabilito la mia meta prima ancora di rendermene conto. Quando arrivai a destinazione, correvo.
Salii precipitosamente i gradini e bussai alla porta con più forza di quanto avrei voluto. Sentii dei passi, poi la porta si spalancò. Ci fu un secondo di silenzio. Io tenevo gli occhi a terra, cercando di controllarmi.
«Renesmee? Che ci fai qui?»
La voce sbalordita di Charlie mi fece trasalire. Non risposi. Non credevo davvero che sarei riuscita a spiccicare parola. Tremavo così tanto da battere i denti. Sollevai lo sguardo e incrociai il suo, e la sorpresa sul volto di Charlie si tramutò in paura.
«Che è successo?» boccheggiò.
A quel punto mi arresi. Fu come lasciar crollare una diga che tentavo in tutti i modi di tenere in piedi. «Nonno» sussurrai, la parola quasi incomprensibile fra le lacrime.
Lo abbracciai con slancio e piansi, piansi disperatamente. Lui restò immobile e rigido per diversi secondi, forse troppo sconcertato per reagire. Poi, lentamente, mi circondò con le braccia e mi strinse, un po’ impacciato.
Mi aspettavo un milione di domande, invece sembrò intuire che avevo un drammatico bisogno di sfogarmi con qualcuno, qualcuno di cui potessi fidarmi in tutto e per tutto, che mi abbracciasse con forza e accogliesse il mio dolore, come avrebbe fatto mio padre. Quanto avrei desiderato papà, in quel momento. Ma non quello degli ultimi giorni, quello ambiguo e bugiardo che una volta mi aveva detestato, ma quello di sempre, il papà dolce e affettuoso che mi faceva addormentare tra le sue braccia e mi ricopriva di baci, sussurrandomi di continuo quanto mi amasse… L’idea di averlo perso era insopportabile. Mi sentivo immensamente sola. E mi sentivo persa. Nessuno era morto e nessuno mi aveva abbandonato, ma era come se fossi caduta in acqua da una barca, senza saper nuotare, senza salvagente e senza nessuno che potesse aiutarmi. Charlie non diceva una parola, limitandosi a stringermi sempre più forte in un riflesso istintivo. Chissà quante domande gli frullavano in testa.
Quando gli parve che mi fossi calmata un po’, chiuse la porta di casa, mi trascinò goffamente in salotto e mi fece sedere sul divano, poi si mise accanto a me.
«Mi dispiace di essere venuta così, senza avvisare, ma… non sapevo dove andare» farfugliai, ancora scossa dai singhiozzi.
«Non dire sciocchezze, tesoro» protestò, guardandomi ansioso. Mi stringeva le mani intorno alle spalle, come se temesse che potessi svenire da un momento all’altro. «Questa è casa tua, non ti serve un permesso per venire qui. Piuttosto, mi dici che è successo? Stai male?»  
La richiesta mi spiazzò, e prima di rispondere dovetti pensarci un secondo. Stavo male? Stavo bene? Poi afferrai il reale senso della domanda e scossi la testa. Fisicamente stavo bene, sì.
«È successo qualcosa a scuola?»
Scossi di nuovo la testa. Non riuscivo a emettere un suono. Charlie esitò prima di porre la domanda successiva.
«Ci sono problemi a casa?». Sembrava che già conoscesse la risposta.
«Come lo sai?» balbettai.
«Tua madre mi ha telefonato stamattina alla centrale per annullare la cena di stasera. Ha detto che c’è stato qualche problema familiare e… non crede che tu sia dell’umore adatto» spiegò, a disagio. «Non mi ha dato nessun dettaglio, però. Immagino sia tutto top secret». Quasi sputò le ultime due parole e il suo viso si rabbuiò. «È per questo che sono uscito prima dal lavoro, oggi: pensavo… non so, di venire a dare una mano».
Giusto, era tornato prima. Ecco perché lo avevo trovato a casa, ancora con la divisa addosso, tra l’altro. Non avevo pensato che potesse essere ancora al lavoro… Ero completamente fuori.
«Tua madre sembrava molto preoccupata» aggiunse, esitando. Preoccupata? Be’, era il minimo. Il nonno mi osservava con occhi spalancati. «Neanche tu puoi dirmi cos’è successo, vero?»
«È una lunga storia» borbottai, cercando di sfuggire al suo sguardo. «Abbiamo litigato».«Qualunque cosa sia successa si sistemerà tutto, vedrai» disse con tono premuroso, massaggiandomi la schiena.   
Scossi automaticamente la testa per la terza volta. «No, non si sistemerà» sussurrai.
Charlie si avvicintò per sentire cosa dicevo. «Sì, invece» ribattè, sorpreso. «Insomma, vedo che sei... piuttosto sconvolta... però loro sono la tua famiglia e ti vogliono bene, anche se adesso avete qualche problema. Troverete un modo per risolvere le cose».
Non avrei dovuto parlare così tanto davanti a lui, ma trattenermi era impossibile. Non ce la facevo da sola. «Non sono più la mia famiglia. Non sono più niente». Per un attimo mi sentii talmente sopraffatta da temere un nuovo attacco isterico. Mi coprii il volto con le mani tremanti, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Il nonno taceva. Doveva essere spaventato a morte nel vedermi in quello stato. A un tratto si alzò. «Che ne dici se chiamo Jacob? Magari lui...»
Feci un salto sul divano e tolsi le mani dal viso. «No!» strillai. «Non voglio vederlo!»
Charlie sobbalzò e mi fissò sgomento. La sua faccia sarebbe stata comica, in un altro frangente. «Va bene» disse precipitosamente, ansioso di tranquillizzarmi. «Va bene, niente Jacob». Tacque di nuovo e rimase in piedi a dondolarsi sui talloni, passandosi una mano sui capelli, indeciso e confuso. Mi rendevo conto che rifiutarmi di vedere Jacob era qualcosa di molto strano. Mi chiesi come avrebbe reagito se gli avessi detto che ero arrivata fin lì per scappare da lui. «Ehm... Posso... chiamare i tuoi, allora?»
«No» protestai in un singhiozzo. «Non voglio vederli mai più».
Mi si avvicinò di nuovo, lentamente. «Tesoro» cominciò con tono dolce ma deciso «qualcuno sa che sei qui?»
Pensai di dire una bugia, ma sicuramente Jacob aveva già riferito del nostro colloquio. Se entro mezz'ora non avessi dato segni di vita sarebbe iniziata una battuta di caccia e mi avrebbero trovata comunque. In verità ero sorpresa che il mio cellulare non avesse già cominciato a squillare a ripetizione. Optai per la verità e scossi piano la testa. Il nonno fece un sospiro pesante e denso di preoccupazione mentre sedeva di nuovo al mio fianco.
«Be', prima o poi dovremo dirglielo, non credi, piccola?»
Ovviamente aveva ragione. Prima o poi l'avrebbero saputo, sarebbe venuti a prendermi e avrebbero ricominciato a parlare dell'imprinting, di Jacob, della mamma, della gravidanza, e io avrei dovuto ascoltarli... Tirai qualche respiro profondo per calmarmi, ma senza grandi risultati. Le mani di Charlie scattarono subito intorno alle mie spalle.  
«Nessie, tesoro, ti prego... Non fare così...» mormorò.
Mi strinsi convulsamente a lui, tremando.  «Non voglio tornare in quella casa» farfugliai, disperata.
«Come?»
Tentai di alzare la voce, ma i singhiozzi soffocavano le parole. «Non farmi tornare in quella casa. Ti prego, non farmi tornare».
Rimase zitto per qualche secondo, poi mi accarezzò la testa, piano e con dolcezza.  «Okay, tesoro. Va bene. Faremo come vuoi tu».



****


   
Mi lasciò sfogare ancora per un pezzo, stringendomi fra le braccia e balbettando rassicurazioni, poi mi accompagnò nella vecchia stanza della mamma al piano di sopra, senza mollarmi un istante lungo tutto il percorso, e mi suggerì di riposare un poco. Mi sdraiai sul letto, perchè Charlie si tranquillizzasse, ma anche perchè ero esausta fisicamente e psicologicamente: ero febbrecitante, la fronte scottava e avevo nausea e capogiri. Il contatto con le coltri fresche e intatte, nel silenzio della camera, mi fece bene dopo tutto quel trambusto.
Charlie mi disse di chiamarlo per qualunque evenienza, accostò la porta e scese le scale lentamente, facendo meno rumore possibile. Mi girai su un fianco e piegai il braccio sotto la testa, la mia posizione preferita per dormire. Chiusi gli occhi e cercai di rilassarmi. La cosa risultò più facile di quanto immaginassi: lì, in quella stanza, in quella casa, accanto a Charlie, mi sentivo al sicuro.
Lasciai vagare pigramente i pensieri tra ricordi vicini e lontani, tenendomi alla larga da quelli brutti. La sensazione di spossatezza e malessere fisico mi fece tornare in mente alcuni momenti della mia infanzia, quando avevo la febbre e i miei genitri mi mettevano a dormire nel loro letto e passavano la notte al mio fianco, muovendosi piano, bisbigliando tra loro e ogni tanto sfiorandomi la fronte con le dita. E per quanto stessi male, in quei momenti mi sentivo così perfettamente al sicuro, così tranquilla, così amata... Sapevo che mi avrebbero aiutata a stare meglio... I sussurri dei miei ricordi si fecero più intensi, come se stessi tornando indietro nel tempo, a quei momenti confusi eppure stranamente piacevoli... Che cos'era? Mi ridestai lentamente dal dormiveglia, mi girai sulla schiena e cercai di concentrarmi per ascoltare bene. Qualcuno bisbigliava al piano di sotto. Charlie. Ogni tanto faceva una pausa. Doveva essere al telefono.
«No, è in camera tua. Credo che stia riposando un po', ne aveva davvero bisogno». Silenzio. «Adesso?». La sua voce parve contrariata. «Non so se è una buona idea, Bella. Sì, me ne rendo conto, ma tu non l'hai vista quando è arrivata qui: era fuori di sè, piangeva, tremava. Ho creduto di dover chiamare Carlisle in ospedale. Forse dovremmo darle un po' di tempo per calmarsi». Altra pausa. «Be', qualunque cosa le abbiate detto fin'ora non le ha fatto molto piacere» aggiunse in tono secco. Poi fece un sospiro. «Senti, lasciamola riposare, adesso. Tu e Edward potreste venire più tardi, che ne dici?»
Sentii una fitta bruciante allo stomaco. L'incubo stava per ricominciare da dove si era interrotto. Mi voltai di nuovo sul fianco, chiusi gli occhi e mi coprii la testa con il cuscino per non dover ascoltare. Tornò il silenzio e lentamente scivolai ancora in quella specie di torpore che almeno mi dava sollievo. Solo un secondo più tardi, o così mi parve, fui svegliata da un rumore di passi nella stanza. Scattai a sedere, agitata, temendo che la mamma fosse arrivata, poi osservai bene la figura ai piedi del letto e mi accorsi che era troppo alta e robusta.
«Sue» esclamai, annaspando.
Mi rivolse un sorriso esitante. «Ehi, sei sveglia!»
Doveva essere appena tornata dal lavoro. Era un'infermiera specializzata e si occupava soprattutto di assistenza agli anziani. A volte diceva, scherzando, che Charlie le aveva chiesto di sposarlo per garantirsi il suo aiuto a tempo indeterminato. Sedette piano sul bordo del letto.
«Posso?» domandò, poggiandomi una mano sulla fronte come per controllarmi la temperatura. Poi prese il mio polso tra le dita e lo tenne stretto per un paio di minuti. Probabilmente Charlie l'aveva mandata ad accertarsi che non mi venisse un colpo o qualcosa del genere.
«Non so se i parametri normali valgono per me» borbottai.
«Conosco i tuoi parametri» rispose, tranquilla, lasciandomi il polso. «Credo sia tutto a posto, devi solo stare buona per un po'».
Mi accarezzò i capelli e mise a posto una ciocca in disordine. Mentre la guardavo, una domanda affiorò spontaneamente sulle mie labbra. «Tu sapevi tutto, vero?» chiesi a voce molto bassa. Non volevo che Charlie sentisse.
Il suo sorriso rassicurante si congelò. Mi fissò in silenzio per qualche secondo. «Sì. Sapevo tutto» ammise con aria cauta. Annuii senza dire nulla e abbassai gli occhi. «Sei arrabbiata anche con me?»
«No. Non spettava a te dirmelo e poi... mi rendo conto che vivere con qualcuno che non sa niente di niente deve essere complicato» mormorai. Sue proteggeva Charlie, prima di ogni altra cosa; i suoi figli se la cavavano da soli già da parecchio tempo.
Mi rivolse un altro sorriso, come per scusarsi. «Chiama, se hai bisogno di qualcosa» disse.
Si alzò e uscì accostando la porta. Tornai a stendermi sul letto; avrei voluto riaddormentarmi, ma appena chiudevo gli occhi rivedevo il sorriso triste di Sue. Poi sentii bussare alla porta di casa. Erano arrivati. Per la seconda volta mi tirai su a sedere di botto e restai in ascolto. Potevo sentire chiaramente la voce cristallina della mamma e quella grave di Charlie. Papà invece taceva. Forse non era venuto? Non avevo alcuna intenzione di scendere spontaneamente. Magari la casa sarebbe crollata o sarebbe scoppiato un incendio o... La testa di Charlie fece all'improvviso capolino sulla soglia.
«Nessie?» sussurrò. Si accorse che ero seduta e alzò la voce. «Ah, bene , sei sveglia. Come va?». Scrollai le spalle. Mi gettò uno sguardo cauto. «Ehm... I tuoi sono arrivati» aggiunse.
Sospirai. «Scendo subito». Rifiutarsi e perdere tempo non avrebbe avuto senso. Se proprio dovevo tornare nella fossa dei leoni, tanto valeva farlo e basta.
«Tesoro, sei sicura... Insomma, se non te la senti...» balbettò, a disagio.
«Scendo subito» ripetei stancamente.
«D'accordo» borbottò. Si allontanò e lo sentii scendere le scale con passo pesante.
Mi passai le mani tra i capelli, cercando di sistemarli un po', ma rinunciai quasi subito. Feci un paio di respiri profondi, poi mi alzai e scesi al piano di sotto, molto lentamente, quasi un gradino alla volta. Mi sembrava di essere diretta al patibolo. Le luci erano tutte accese. Entrai nel piccolo salotto e mi fermai qualche passo oltre la soglia. La mamma era in piedi, al centro della stanza.
«Renesmee» esclamò. Poi tacque di colpo, forse non sapendo cos'altro dire.
Cercai mio padre con gli occhi: era in piedi dietro la mamma, le mani nella tasche, semigirato verso la parete; aveva un'espressione del tutto assente.
«Bene» cominciò il nonno dopo qualche imbarazzante secondo di silenzio. «Be', allora noi... ehm... vi lasciamo». Cinse le spalle di Sue con un braccio, lanciò alla figlia un'occhiata che mi parve di avvertimento e uscì dalla stanza. Salirono di sopra e poco dopo sentii una porta che si chiudeva.
Scese un silenzio così denso e opprimente che mi parve di non riuscire a respirare. Annaspai, gli occhi puntati sul pavimento, a disagio, quando la mamma si decise ad aprire bocca.
«Renesmee» ripetè, dolcemente. «Come va?»
Aspettava una risposta. Scrollai le spalle, con l'orrenda sensazione di camminare sopra un filo sospeso su un fiume pieno di alligatori. «Alla grande» dissi con aria di sfida.
Sollevai gli occhi, facendomi coraggio, e la guardai: riconobbi all'istante l'abito che indossava, bianco, lungo fino al ginocchio, con le maniche lunghe. L'avevamo scelto io ed Alice l'ultima volta che eravamo uscite insieme a fare shopping, a Olympia. Era accaduto solo una settimana prima, ma sembrava un ricordo appartenente a un'altra vita. Portava i capelli raccolti in uno chignon e mi osservava preoccupata dall'alto delle sue decolletè nere con i tacchi a spillo. Non aveva un filo di trucco, ma il suo volto splendeva, luminoso come una perla sotto i riflessi del sole.
Mentre la guardavo, sentii una fitta di dolore all'altezza del petto. Non mi era mai sembrata così bella e perfetta, nè meno umana... nè più diversa dall'unico, sbiadito ricordo che possedevo di lei prima della trasformazione. Il dolore si tramutò in nostalgia, strana e assurda nostalgia per quella ragazza dal volto distrutto che aveva dato la vita per me. Lei e l'essere perfetto che mi stava davanti non avevano nulla in comune.
Papà voltò la testa all'improvviso, mi lanciò un'occhiata, sempre con quell'espressione distante, poi distolse di nuovo lo sguardo, come se non sopportasse di reggere il mio.
«Abbiamo parlato con Jacob. Ci ha raccontato cos'è successo» mormorò la mamma. Mi guardava con timore, forse aspettandosi che partisse un'altra scenata, l'ennesima. Be', eccola in arrivo. Una vampata d'irritazione mi percorse all'istante da capo a piedi.
«Avete parlato con Jacob» sibilai, incrociando le braccia. «Grandioso. Tu leggi nella mia testa» feci un cenno stizzito in direzione di papà, che non si mosse di un millimetro «e tu hai parlato con Jacob» e con un altro cenno indicai Bella «quindi sapete tutto quanto. È perfetto, davvero, non avete nessun bisogno di ascoltare me!»
«Ma che dici?» protestò la mamma, stupita. «Certo che vogliamo ascoltarti, siamo qui per questo. Jacob sapeva che ci saremmo preoccupati non vedendoti tornare e ci ha raccontato cos'è successo, ma...»
«Oh, certo, perchè voi due parlate sempre con Jacob!» sbottai, imperterrita. «Soprattutto tu, vero, mamma? Sei la sua migliore amica, era innamorato di te, tu eri innamorata di lui, o qualcosa del genere... Sei sicura che lui non lo sia ancora? O magari è con te che ha avuto l'imprinting e non con me?»
Mi osservava con quella che mi parve compassione. Compassione e una tristezza infinita. «Non dire stupidaggini. Jacob non mi ama più da anni, ti giuro che è la verità. È mio amico, mi vuole bene come io ne voglio a lui. Si preoccupa per me, ma tu... tu sei un'altra cosa».
«Basta con questa solfa» borbottai a denti stretti.
«Ma è la verità! Tu sei speciale, non capisci...»
«Sì, come no! Talmente speciale che non si è fatto il minimo problema a raccontarmi un sacco di balle, proprio come voi! Siete stati fantastici, davvero! Una gran bella interpretazione collettiva!»
«Nessuno ha mai finto nulla con te, Renesmee! Pensi che il nostro amore fosse una finzione, davvero pensi questo? Ma com'è possibile?» esclamò, accalorandosi. «Noi siamo i tuoi genitori, Jacob ti è stato vicino dal giorno in cui sei nata, come puoi credere che il nostro affetto non fosse reale?»
Scossi la testa. «E come posso credere che voi due mi amiate dopo quello che ho fatto? Forse... forse mi avete accettata perchè dovevate farlo, ma questo non è amore».
A quelle parole vidi mio padre trasalire. Sul suo volto impassibile si aprì una minuscola crepa da cui defluì un dolore sconcertante per la sua intensità. Si sforzò di mantenere il controllo, fissando il muro davanti a sè. La mamma rimase a lungo in silenzio, attonita. Con un gesto lento e aggraziato, si poggiò le mani sulle tempie. Pensai che avrebbe dato di matto, e invece quando parlò fu estremamente calma.
«Renesmee» mormorò. «Tu devi riuscire ad accettare come stanno le cose. Non è facile, me ne rendo conto, ma è l'unico modo per andare avanti».
Serrai le labbra che tremavano, arrabbiata con lei e con me stessa. Avevo deciso di mantenere il controllo, e invece ovviamente mi stava sfuggendo dopo cinque minuti di conversazione. «Be', non ci riesco. Non puoi chiedermi questo, io... non ce la faccio. Non puoi pretendere che accetti l'imprinting o...»
Questa volta fu lei a interrompermi. «Se vuoi non ne parleremo mai più. Non pronunceremo mai più questa parola, la dimeticheremo!»
La guardai, scioccata. La stessa ridicola proposta di Jacob. «Cosa? E tu credi che io possa far finta di niente?»
Fece un sospiro pesante. Sembrava esausta. «Non voglio che tu faccia finta di niente, ma.. devi capire perchè ti abbiamo mentito. Eri solo una bambina e i tuoi primi mesi di vita sono stati molto difficili, con i Volturi e tutto il resto... Volevamo solo aspettare che crescessi un po' e poi ti avremmo raccontato tutto, davvero. Volevamo...»
«... proteggermi, sì, ho capito!» sbottai, stizzita. Non facevamo che ripetere le stesse cose da tre giorni: era come girare continuamente in tondo su una giostra impazzita. «Gran bel risultato, complimenti!»
«Forse abbiamo sbagliato, abbiamo aspettato troppo, ma non volevamo farti soffrire. Si è pronti a tutto per proteggere un figlio» continuò Bella con tono molto serio e teso.
Probabilmente non era nelle sue intenzioni, ma quella frase fu un colpo al cuore. «Sì, lo immagino. Anche sacrificare la propria stessa vita» sibilai a denti stretti.
«Smettila di dirlo, Renesmee! Non è andata così, io non ho sacrificato nulla...»
Una porta si spalancò all'improvviso ed io feci un salto di un metro. Poco dopo Charlie scese le scale e marciò in salotto con aria decisa, seguito da sua moglie.
«Scusate» borbottò. «Scusate l'interruzione, ma... forse avete bisogno di una pausa».
La mamma lo fissò per un istante, poi prese un bel respiro. Immaginai l'inferno che doveva essere la sua gola in quel momento. «Mi dispiace, non ci eravamo accorte di aver alzato la voce».
«Nessun problema» la rassicurò Sue.
«Forse è ora di tornare a casa» aggiunse Bella, abbassando lo sguardo. «Grazie di tutto».
Il nonno alzò le mani per fermarla. «Aspetta, Bells, aspetta un secondo. Posso dire una cosa?»
«Certo» rispose la mamma, un po' incuriosita. Papà era ancora perfettamente immobile, come una statua.
Charlie sembrava a disagio. Si agitò un po', forse impegnato a cercare le parole giuste. «Senti, è evidente che voi tre state attraversando una crisi familiare. Non voglio impicciarmi...»
«Non dire sciocchezze, papà. Fate entrambi parte di questa famiglia».
Il nonno accennò un sorriso. «Grazie, Bells. Ehm... Io e Sue ne abbiamo parlato e forse... forse non sarebbe una cattiva idea... se Nessie si fermasse per un po' qui da noi». Sollevai la testa con uno scatto e li fissai, stupita. Che intendeva dire? «Magari un periodo di separazione vi farebbe bene. Può restare due giorni, due settimane o due mesi, finchè lo vorrà. Se tu e Edward siete d'accordo».
«Oh» esclamò la mamma. «Oh, papà, grazie. È davvero gentile da parte vostra, ma non mi sembra il caso».
«Perchè no? Insomma, Bella, vogliamo darvi una mano e non penso che questo sia di grande utilità». Charlie lanciò una rapida occhiata nella mia direzione, imbarazzato.
«Ne saremmo davvero felici, Bella» aggiunse Sue con un sorriso caldo.
«Lo so, ma non possiamo chiedervi una cosa del genere: avete una certa età, ormai, e non siete più abituati ad avere ragazzini  per casa. E poi Renesmee deve stare con noi». Pronunciò l'ultima frase come se per lei fosse stata una certezza granitica.
Charlie scambiò uno sguardo accorto con Sue. «Nessie è come una seconda figlia, per me» disse con semplicità. Sentii i miei occhi pizzicare e farsi umidi all'istante. Oh, Charlie... Mi voleva bene sul serio, accidenti. Forse ero un mostro, ma a lui non importava. Mi aveva sempre accettata per quello che ero, bugie e stranezze comprese, senza troppe domande o una recriminazione. «Tutto ciò che voglio è fare la cosa migliore per lei».
Quelle parole sembravano nascondere un doppio senso che non capii. La mamma trasalì e guardò Charlie con espressione strana, come se il suo viso si fosse congelato. A quel punto papà aprì bocca.
«È un'offerta molto generosa. Credo che accetteremo» disse a bassa voce.
Bella si girò con uno scatto verso di lui. «Cosa?»
«Charlie, Sue, potreste lasciarci da soli ancora per qualche minuto, per favore?» chiese papà.
«Ma certo» rispose Sue. Prese per un braccio il nonno, che esitava, e se lo tirò dietro verso la cucina, chiudendosi la porta alle spalle. Mi dispiacque un po' per loro. Gli avevamo praticamente invaso la casa con i nostri drammi.
«Sei impazzito, Edward?» sibilò la mamma. Parlava così velocemente che afferrai a stento le parole. «Vuoi lasciarla qui? Non possiamo, siamo i suoi genitori!»
Lui la raggiunse e le prese le mani. Mi parve che le stringesse per farsi forza. «Dobbiamo farlo proprio perchè siamo i suoi genitori, Bella. Charlie ha ragione: bisogna prendere la decisione più giusta per lei e costringerla a tornare se non vuole non farebbe che peggiorare la situazione».
Si guardavano intensamente negli occhi, come impegnati in un dialogo silenzioso di cui le parole erano solo una pallida eco.
La mamma si voltò verso di me. «Tu... tu non vuoi tornare a casa?» sussurrò.
La domanda mi colse di sorpresa, ma prima che potessi pensarci la risposta era già sulle mie labbra. Il sollievo provato nell'ascoltare la proposta di Charlie aveva deciso per me nello stesso istante in cui l'aveva formulata, e anche per Edward, a quanto sembrava.
«No» dissi con voce un po' incrinata ma ferma.
Bella mi fissò a lungo in silenzio, a bocca aperta. Ero sicura che non si aspettasse quella risposta.
«È la cosa migliore» mormorò papà, non so se a se stesso o alla mamma. Lo guardai: teneva gli occhi puntati sul pavimento, di nuovo assenti. «È la cosa migliore».
«Ma non puoi chiedermi di lasciarla» balbettò la mamma con voce acuta. «Non posso...»
Papà le accarezzò il volto teso e angosciato con una mano. «Bella, ascoltami. Qui starà bene, sarà al sicuro. Charlie e Sue si prenderanno cura di lei. Ha bisogno di un po' di tempo lontano da tutto questo».
«Ma possiamo superarlo insieme...»
Lui scosse la testa. «No, Bella. Non si fida più di noi. Non ha senso costringerla a tornare, capisci?»
Bella era perfettamente immobile, l'aria attonita. Forse stava cercando di decidere. Mi guardò. «E Jacob?»
«Non ho più niente da dire a Jacob» sbottai, risentita. «Se pensa che io possa dimenticare quello che ha fatto si sbaglia di grosso».
La mamma lasciò andare le mani di papà. «Non farlo, Renesmee!» esclamò.
«Non fare che cosa?»
«Non tagliarlo fuori dalla tua vita! Voi due avete bisogno l'uno dell'altra, non vi siete mai separati in questo modo. Starai solo peggio se ti ostini ad allontanarlo!»
«Ma che ne sai tu» farfugliai, sconcertata.
«E invece lo so. Ricordi quello che ti ho detto ieri? So cosa si prova a separarsi. Puoi stare lontano da noi, se vuoi... Ti lasceremo in pace, davvero. Ma ti prego, ti prego, promettimi che tu e Jake cercherete di parlare e di chiarirvi».
«Che cosa?» sbottai. «Non farò nessuna promessa! Non voglio parlare con Jacob, va bene? Non voglio vederlo mai più!». Mi stavo impuntando come una bambina, lo sapevo benissimo, ma era più forte di me. Non intendevo dargliela vinta.
Sembrava che la mamma non riuscisse a credere a quello che usciva dalla mia bocca. Scosse la testa. «Non è possibile» sussurrò con voce incrinata. «Non è possibile che ogni cosa sia andata distrutta. Io ho lottato tanto perchè tu fossi felice e al sicuro, e adesso... non è rimasto niente».
Mi irrigidii. Che voleva dire? «Non ti ho chiesto io di combattere per me. È stata una tua scelta e mi dispiace se le cose non sono andate come volevi, ma forse avresti dovuto farne una diversa» dissi a fatica, concentrandomi per non lasciar uscire le lacrime.
Bella emise un singulto. Lasciò cadere le braccia lungo il corpo, inerti, e rimase a lungo in silenzio, così a lungo che quando finalmente parlò ero sul punto di cacciare un urlo isterico.
«Quando hai saputo che i Volturi stavano venendo per te, cinque anni fa, il tuo primo pensiero non è stato "Ho paura" o "Non è giusto", ma "È colpa mia"²» mormorò lentamente. «Forse sono stata superficiale, in quel momento, e non ho capito cosa poteva significare, ma la verità è che tu ti porti dentro il senso di colpa da quando eri piccola. Pensavi davvero di essere responsabile di ciò che stava accadendo. Pensi davvero di avermi uccisa. Noi sapevamo che per te non sarebbe stato semplice accettare alcune cose, ma non avevamo idea che il senso di colpa fosse così forte. Forse non te ne accorgevi neanche tu. Era rimasto sepolto dentro di te, da qualche parte, e adesso è esploso. Mi dispiace tanto di non averlo capito prima. Ma credo che fino a quando non sarai riuscita a liberartene non potrai mai perdonarci. E non voglio che tu stia male. L'unica cosa che posso fare adesso è cercare di risparmiarti altra sofferenza». Sembrava che stesse piangendo, ma i suoi occhi non potevano versare lacrime. Immaginavo che piangesse dentro di sè, senza lasciar uscire nulla. «Perciò... va bene, Renesmee. Resta qui, se lo preferisci. Però sappi...». Per un attimo parve che le mancasse il fiato. Si interruppe, abbassò gli occhi, prese un respiro profondo, mi guardò di nuovo e ricominciò a parlare con più forza. «Però sappi che per noi non cambierà nulla. Tu puoi odiarci, puoi andare via di casa, puoi non rivolgerci più la parola, ma non pensare che per questo noi smetteremo di amarti perchè non succederà mai».
Ascoltai il suo discorso nel più assoluto silenzio. Non mossi neanche un muscolo. Non sarei riuscita a spiccicare una parola neanche se avessi avuto qualcosa da dire. La mamma distolse lo sguardo da me.
«Vado a casa a prepararti le valigie. Charlie può passare a prenderle più tardi».
Prese il soprabito, che aveva lasciato sul divano, e lo infilò, poi mi raggiunse. Esitando, come se temesse di essere respinta, mi accarezzò la testa con una mano e si sporse per sfiorarmi appena la fronte con le labbra fredde e dure. Mi sembrò che reprimesse a stento un singhiozzo prima di lasciare la stanza con passo svelto. Se n'era andata.
Guardai Edward. Il suo volto fremeva sotto la maschera impassibile. Fece per avvicinarsi con passo lento, ma istintivamente mi ritrassi. Temevo che se mi avesse sfiorata non avrei resistito alla tentazione di abbandonarmi tra le sue braccia e di poggiare la testa dolorante sulla sua spalla forte. Ma sarebbe stato come dimenticare tutto quello che ormai sapevo, ed era impossibile. Lui annuì, con calma.
«Sì, lo capisco. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi». Sospirò. «Per qualunque cosa, in qualunque momento, chiamami». Mosse appena le labbra, mentre mi guardava, in un accenno di sorriso. Ma non avevo mai visto un sorriso così infinitamente triste. «Ciao, piccola mia».
Chiusi gli occhi per non vederlo andare via. Sentii i suoi passi leggeri, poi il rumore della porta, infine il motore della Ferrari che prendeva vita. Scese il silenzio. Attesi qualche secondo, poi riaprii lentamente gli occhi offuscati dalle lacrime. Ero sola.



 








Note.

1. Link.
2. Il riferimento è a Breaking dawn, p. 524: mentre Edward, Bella, Jacob e Renesmee aspettano l'arrivo del clan di Denali, i primi fra i testimoni che dovranno aiutarli, Renesmee pensa ai suoi familiari preoccupati, costretti a partire, e sostiene che sia tutta colpa sua. E per la prima volta riflette sul fatto che lei non appartiene a nessuna delle categorie che conosce, umani, vampiri e licantropi, ma è qualcosa di diverso. Credo che l'ispirazione per questa storia sia nata in parte leggendo quella pagina.










Spazio autrice.
Salve! Sarò breve, promesso. Spero che il confronto tra Jacob e Renesmee vi sia piaciuto. In alcuni momenti è stato difficile da scrivere, perchè adoro Jake e mi dispiace da morire per il modo in cui Renesmee si scaglia contro di lui... Però ha le sue ragioni. E non poteva andare altrimenti, lei aveva bisogno di sfogarsi e dirgli tutto quello che pensava. 
Un'ultima nota. La settimana prossima non potrò pubblicare il capitolo sedici perchè è tempo di vacanze e non avrò il computer con me. L'aggiornamento è rimandato al mercoledì successivo. E appena avrò tempo risponderò a tutte le recensioni. Prima o poi rispondo sempre, tranquilli :-). Colgo l'occasione per augurare buone vacanze a tutti i lettori di Midnight star ^^. A presto!

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Capitolo 16
*** Point of view ***


C 16
Capitolo 16
Point of view



Can't you see, life's easy, if you conside things
From another point of view
Ahh yeah
In another way, from another point of view
Ahh yeah
In another way, from another point of view
In another way, from another point of view
I see life and lights, all the colours of the world
So beautiful
Won't you come with me?
Point of view, Db Boulevard feat Moony¹


L'origine del sentimento profondo dell'infelicità,
ossia lo sviluppo di quella che si chiama sensibilità,
ordinariamente procede dalla mancanza o perdita delle grandi e vive illusioni.
GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone



   

   
Una volta mia madre mi ha detto che il tempo passa. Anche quando sembra impossibile. Anche quando il rintocco di ogni secondo fa male come il sangue che pulsa nelle ferite. Passa in maniera diseguale, tra strani scarti e bonacce prolungate, ma passa
². E passò anche per me.
Quando avevo accettato di trasferirmi da Charlie e Sue per un po' di tempo avevo pensato che abituarmi alla nuova casa, alle nuove abitudini, alla mia nuova stanza, perfino al mio nuovo letto, sarebbe stata una sfida. Io non ho mai amato le novità. E nei primi giorni fu veramente difficile. Mi sentivo strappata da un mondo e catapultata in un altro. A un tratto mi toccava stare costantemente attenta a un mucchio di cose. Anche a scuola dovevo esserlo, certo, ma in quei primi giorni in casa Swan mi sentivo come sotto esame. Charlie passava gran parte del tempo a studiarmi con attenzione, credendo che io non me ne accorgessi, probabilmente per controllare il mio stato mentale. Non avevo mai trascorso così tanto tempo da sola in compagnia esclusivamente umana e temevo che lo sguardo indagatore del nonno fisso su di me ventiquattr'ore al giorno scorgesse prima o poi qualcosa di strano. Invece scoprii presto, con mio grande sollievo, che vivere con due umani fingendomi una di loro mi risultava piuttosto facile, una volta stemperata la tensione iniziale.
Charlie e Sue erano due fantastici vice-genitori, come loro stessi si definivano scherzando. Il nonno era una persona che si faceva gli affari propri e non amava ficcare il naso nelle vite degli altri, e Sue era come lui. Probabilmente proprio grazie a questa qualità il nonno riusciva a frequentare noi Cullen senza crearci problemi. Però doveva sentire una grande responsabilità nei miei confronti, dal momento che Edward e Bella mi avevano affidata a lui in un momento critico, e tendeva ad essere più ansioso e opprimente di quanto lo sarebbe stato in una situazione normale.
Entrambi si impegnavano al massimo perchè io mi sentissi proprio come a casa mia. Mi ero sistemata nella vecchia stanza della mamma e il nonno mi aveva detto di modificarla a mio piacimento, ma non toccai nulla, limitandomi a riempire il mobilio con le mie cose. Mi piaceva stare lì dentro, nella stanza della piccola, timida e imbranata Isabella Swan; mi faceva sentire più vicina a lei.

Per ricompensare Charlie e Sue dei loro sforzi, mi impegnai a comportarmi più normalmente possibile: mangiavo anche se avevo lo stomaco chiuso, rispettavo orari e regole (poche, per la verità) e avevo insistito per essere inserita nei turni delle faccende domestiche. Mi abituai abbastanza presto alla nuova routine e tutto sommato mi piaceva. Me la cavavo.
Non tutto filava sempre liscio, però. A volte mi svegliavo di soprassalto nel cuore della notte, senza nessun motivo, in preda a un'ansia sconvolgente, scossa da brividi e ondate di nausea, la fronte sudata, la gola improvvisamente così stretta da non lasciar passare l'aria. In quei momenti mi sembrava di impazzire, nel silenzio della casa addormentata. Avrei voluto gridare, ma la voce non usciva. Solo dopo molti respiri profondi riuscivo a calmarmi. Sapevo che era soltanto un problema di testa e mi sforzavo di controllarmi; se Charlie avesse assistito a una di quelle crisi mi avrebbe portato in ospedale. Ma durante la notte, quando le mie difese si abbassavano e l'inconscio indugiava là dove non avrebbe dovuto, ero preda della paura, sebbene non sapessi dire esattamente di cosa.
Mi mancava casa mia. Ero fuggita da lì, non ero nemmeno sicura di poterlo chiamare ancora così, quel posto, eppure mi mancava. Mi mancava la mia famiglia. Forse se li avessi incontrati non sarei risucita neanche a guardarli in faccia, ma la consapevolezza di aver perso quel piccolo microcosmo perfetto che eravamo stati in passato mi faceva soffrire.
E mi mancava Jacob. Quella era la cosa più dura da affrontare, forse, per quanto non fossi disposta ad ammetterlo neppure con me stessa. Era già successo che ci separassimo per un po', durante le vacanze, ad esempio, ma in qualche modo ero sempre riuscita a sentirlo vicino. Ora invece mi sembrava che ci trovassimo su due pianeti diversi. Eravamo lontani, sì, lontanissimi. Quel pensiero mi scatenava un'angoscia incontenibile. Mi sentivo come se fossi stata divisa in due e lui avesse tenuto con sè una metà. Jacob mi aveva persa, sì. Ma anche io avevo perso lui. E insieme al mio migliore amico, avevo perso un pezzo di me stessa.



****


«Direi che è giunto il momento che tu e Alex definiate il vostro rapporto» sparò Jas all'improvviso.
Eravamo al telefono, era giovedì ed erano passate quasi due settimane esatte dal giorno in cui mi ero trasferita da Charlie e Sue. Ero impegnata a raccogliere in giro la biancheria da lavare dal momento che era il mio turno per il bucato, e mi trovavo in equilibrio sulle punte dei piedi, cercando di afferrare una mia t-shirt sporca finita chissà come sotto il letto. Poco mancò che cadessi a terra.
«Cosa?»
«Tu e Alex dovete definire il vostro rapporto» ripetè tranquillamente.

Sbuffai e scivolai sulle ginocchia per allungarmi di più sotto il letto. «Che c'entra questo con il resto?». Fino a un attimo prima avevamo parlato dell'ultimo test di matematica.
«Niente, ma è una cosa molto più interessante».
Finalmente riuscii ad acciuffare la t-shirt, la ficcai nella cesta e mi alzai. «Possiamo tornare a parlare del test?»
«Eddai, tanto avrai preso la solita A!»
«E perchè lo dici come se fosse una brutta cosa?» mugugnai mentre prendevo un mucchio di lenzuola sporche nella stanza di Charlie e Sue.
La sentii sospirare. «No, certo, è meraviglioso, ma nella scala delle priorità Alex dovrebbe venire prima di uno stupido test».
«Aspetta» sussurrai a bassa voce. Scesi le scale e passando davanti alla cucina vidi Sue intenta a riempire dei sacchetti per congelare i cibi. «Ciao» la salutai.
Lei alzò la testa e mi sorrise. «Ciao, Nessie».
«Non puoi parlare?» chiese Jas.
«Ora sì». Mi infilai nella minuscola lavanderia e accostai la porta. «Okay, dicevamo?»
«Tu e Alex dovete decidere cosa c'è tra di voi» insistè, imperterrita.
Alzai gli occhi al cielo mentre iniziavo a dividere il mucchio di panni sporchi in due parti per fare due lavaggi, seguendo accuratamente le istruzioni che Sue mi aveva scritto su post-it attaccato sulla lavatrice. Separare i capi neri dai capi bianchi. Quelli bianchi dai colorati. Quelli da lavare a rovescio da quelli da lavare con acqua fredda... Non avevo mai fatto il bucato nè altre faccende domestiche. Era il risultato di vivere con due genitori vampiri sempre svegli che dovevano pur impiegare in qualche modo le loro giornate e notti interminabili. Non poteva essere una cosa difficile, però. Avevo già messo a lavare un carico di roba nel pomeriggio ed ero sicura che fosse andato tutto liscio. «Smetti di ripeterlo, per favore?»
«Mi sto preoccupando per te, mostra un briciolo di gratitudine» protestò, indignata.
Sospirai. «Come ti è venuta in mente questa cosa?»
Forse colse un po' di curiosità perchè il suo tono divenne profondamente soddisfatto. «Andiamo, non bisogna essere un genio per arrivarci. So che vi conoscete solo da tre settimane e che avete deciso di non correre, ma questa situazione indefinita è ridicola».

«Non è una situazione indefinita, siamo amici».
Jas sbuffò sonoramente. «Per favore! Puoi darla a bere a chi vuoi ma non a me. Ho visto come vi guardate».
«Come ci guardiamo?» mi informai con tono moderatamente curioso.
Lei ci pensò per qualche secondo. «Come se ciascuno di voi si aspettasse qualcosa dall'altro».
«Mmm» fu il mio commento. «Tu dici... ehm, dici che lui si aspetta qualcosa da me?»
«Forse si aspetta che tu gli faccia capire cosa vuoi fare».
Provai una fitta d'ansia. Cercai di scacciarla, mentre continuavo a dividere i vari capi in piccoli mucchi. «Gli ho chiesto un po' di tempo, Jas».
«Lo so, e capisco... insomma, capisco che tu abbia tante cose per la testa, adesso» disse, a dasagio. «Però secondo me non ha senso continuare a fare gli amici se c'è una tale attrazione fra voi. Non riuscite a togliervi gli occhi di dosso quando siete insieme». Non potei trattenere un sorriso. Sapevo che aveva ragione. «Non capisco perchè tu debba ostinarti a restare solo un'amica lasciando a Caroline la possibilità di...»
«Ancora con questa storia?» sbottai, scocciata.

«Renesmee, hai problemi di vista o cosa? Ogni volta che non ci sei quella gli si attacca al giubbotto peggio di una piattola!»
«Jas, ad Alex non interessa. Non vuole darle corda».
«Ah, non vuole?» esclamò, ironica. «La volontà di un ragazzo diventa gelatina quando c'è in giro Caroline Johnson».
«Okay, senti... forse hai ragione».
«Ma va'!» borbottò.

«Non su Caroline» aggiunsi in tono secco. «Su me e Alex. Lui... mi ha chiesto di andare al cinema insieme a Port Angeles, questo week end».

«Ah!» strillò Jas, così forte che dovetti allontanare un po' il cordless dall'orecchio. «Le mie intuizioni erano più che giuste, ovviamente».
«Ma quali intuizioni? Hai detto tu stessa che non riusciamo a staccarci gli occhi di dosso, cosa c'è da intuire?»

Mi ignorò completamente. «Questa potrebbe essere una buona occasione per fare un passo avanti».
«Un passo avanti?»

La sentii sbuffare pesantemente. Mi sembrò quasi di vederla alzare gli occhi al cielo. «Vuoi metterti con Alex sì o no?»
«Sì.... sarebbe bello» mormorai, soprapensiero. «Ma non... non saprei... come fare».
«Certo, è normale per una novellina. Sai, quando io e Tom ci siamo messi insieme ufficialmente, due sabati fa...»
Oh, no. Ecco l'incipit della storia che mi raccontava tutti i giorni da due settimane. Dopo le prime sei o sette volte ascoltarla di nuovo era più o meno come ascoltare il gradevole rumore di unghie su una lavagna. Lasciai vagare la mente, pensando ad Alex quando mi fissava con quegli occhi, a Caroline che faceva la smorfiosa, ai compiti che mi aspettavano dopo cena, a Jacob e a quello che avrebbe detto di Jas che si metteva con Tom... Mi avrebbe fatto ridere, di sicuro... Chissà come mi avrebbe consigliato di comportarmi con Alex...

«... e poi ci siamo baciati» fece Jas. Io sussultai e tornai a prestarle attenzione, sapendo che la fine del racconto si avvicinava. «L'anellino che mi ha regalato è stato un gesto simbolico, capisci? Be', comunque tutto questo viene dopo. Tanto per cominciare, devi organizzarti per sabato».
«Eh, già. Mi toccherà dirlo a Charlie» brontolai.
«Perchè dovresti? Digli semplicemente che vieni a casa mia».
«Sì, certo, così quando ci incontrerà in auto mentre fa il suo giro di pattuglia avrà proprio una bella sorpresa».
«Uffa. Diglielo prima possibile, allora. Via il dente, via il dolore, giusto? Se ti risponde di no, cosa molto probabile, puoi venire a fare shopping con me e mia madre».
«Grande consolazione! Sei un'amica fantastica, Jas».
«Figurati. Sono qui per questo».
«Comunque pensavo di affrontare il discorso stasera, a cena».
«Bene, brava. Se sabato vieni con noi devi aiutarmi a scegliere un nuovo lucidalabbra».
«Un altro? La tua camera rigurgita lucidalabbra, Jas».
«Appunto. Uno in più non farà tanta differenza».
Stavo per risponderle, poi aprii lo sportello della lavatrice per tirare fuori i panni che avevo messo a lavare qualche ora prima, e mi trovai fra le mani un mucchio di biancheria un tempo immacolata e adesso tinta di un rosa pallido, comprese parecchie mutande di Charlie. Mi uscì un gemito.
«Che c'è?»
«Il bucato, ecco cosa c'è!» sbottai, incredula. «Oggi ho messo a lavare della biancheria e in lavatrice è diventata rosa! Rosa! Com'è possibile? Sue mi ucciderà, dannazione!». Con uno sbuffo mi guardai intorno, affranta, come se sperassi di trovare una soluzione a portata di mano. Gli occhi mi caddero sulla confezione di detersivo lì accanto. «Secondo te potrei provare a lavarli di nuovo senza che succeda qualcos'altro? Il rosa andrà via, giusto? E quale programma dovrei usare?». Aggrottando la fronte, premetti qualche pulsante sulla lavatrice, scorrendo le opzioni. Mi sembrava di avere a che fare con una lingua straniera sconosciuta. «"Bianchi molto sporchi"... "Risciacquo"... "Colorati"... "Colorati delicati"...»
«Eh?» fece Jas, confusa.
«Che ne sai di bucato, tu?»

«Ehm... So che se ne occupa Louise».
Louise era la cameriera dei Williams. «Capito» risposi. «Mi serve Sue, temo. Meglio che vada».
«Okay. Pensa a quello che ti ho detto su Alex. E buona fortuna con Charlie!»
«Grazie. Ciao, Jas».
«Ciao ciao!»
Chiusi la conversazione, raccolsi i panni appena usciti dalla lavatrice e li ficcai tutti alla rinfusa nella cesta, poi andai in cucina.
«Chiedo lumi» sbottai.
Sue guardò la mia espressione scocciata e sembrò trattenersi a stento dallo scoppiare a ridere. Poi frugò per qualche istante nella cesta e infine trasse fuori lentamente uno dei miei reggiseni di un intenso rosa shocking, fissandomi con espressione eloquente. Io arrossii da capo a piedi, imbarazzata, e farfugliai delle scuse miste a spiegazioni incomprensibili. Invece di prendersela, lei scoppiò a ridere e mi disse di lasciare tutto com'era e di non preoccuparmi.
«Sono proprio curiosa di vedere Charlie con una di queste addosso!» esclamò allegramente agitando una delle mutande colorate di suo marito.
Scappò una risatina anche a me, mentre tornavo in lavanderia, pensando alla faccia che avrebbe avuto Charlie con un paio di mutande rosa in mano.
 Riempii la lavatrice con un carico di panni sporchi e stavo versando il detersivo nel cestello (dopo aver controllato attentamente le dosi sul retro della confezione) quando squillò il telefono, che avevo lasciato sull'asciugatrice. Allungai la mano e risposi senza pensarci.
«Pronto?»
«Renesmee? Ciao, tesoro!»
La voce cristallina della mamma fluttuò nel cordless, cogliendomi del tutto alla sprovvista. Merda. Avrei dovuto controllare il numero sul display.
«Ciao mamma» la salutai con tono rigido. Telefonava quasi tutti i giorni, con una certa regolarità, e quando non lo faceva era il nonno che chiamava lei. Proprio non capivo il senso di tutta quella attività telefonica, a meno che la mamma non volesse essere informata di ogni mio minimo spostamento. Io le avevo parlato solo due o tre volte. In genere inventavo qualcosa per sfuggire, tipo chiudermi in bagno o fingere di essere troppo impegnata con lo studio per venire al telefono.

«Come stai?» chiese dolcemente.
«Bene» risposi in fretta. «Tu?»
«Bene, grazie, tesoro».
«E... ehm... gli altri... stanno... bene?» mi informai con il tono di chi chiede solo per educazione. Tanto per fare qualcosa, aprii l'asciugatrice e cominciai a tirare fuori i panni asciutti e puliti.
«Stiamo tutti benissimo, non preoccuparti per noi. Che cosa fai?»
«Il bucato. Do una mano a Sue».

«Brava, piccola». Ci fu un attimo di silenzio. Gran conversazione. Erano sempre così, le nostre brevi telefonate. Sembrava che chiamasse solo per sentire il suono della mia voce. «La scuola come va?»
«Non c'è male». Continuavo a parlare con tono piatto e rigido, senza alcuna intonazione. Cercai qualcosa da dire prima che scendesse di nuovo il silenzio. Che assurdità. Non ricordavo che fossimo mai rimaste a corto di argomenti, io e lei, e adesso... adesso era tutto così diverso. «Oggi ho avuto un test di matematica».

Mi parve di sentirla sorridere. «Non preoccuparti, sarà andato benissimo, come al solito».
«Sì... credo».
Altra pausa. Cominciavo a innervosirmi. Sbattevo i vestiti puliti nella cesta facendo un sacco di rumore per rompere in qualche modo quell'orrendo silenzio. Poi la mamma parlò ancora, perfettamente tranquilla e incurante del mio broncio.
«E allora... c'è qualche novità?»

«Tom e Jas si sono messi insieme» borbottai, sparando la prima cosa che mi passò per la mente.
«Sul serio? Sono contenta».
«Sì, anch'io».
«E con Alex come va?»
La domanda mi stupì. Perchè chiedeva di me e Alex dopo aver saputo di Tom e Jas? «Tutto okay» risposi, sbrigativa. Proprio non mi andava di scambiare confidenze.
Restammo di nuovo in silenzio per qualche secondo, poi la mamma fece un piccolo sospiro. «Sai, oggi ho parlato con Jacob per telefono» disse con tono incerto.
Nel sentire quel nome ebbi un sussulto involontario. A giudicare dal tono della mamma, Jacob non stava affatto bene. Probabilmente si tormentava e si sentiva in colpa. Eccellente. Provai una certa macabra soddisfazione al pensiero che lui non se la passasse meglio di me, ma anche qualcos'altro... una strana sensazione, come una puntura fastidiosa. Acuta e fastidiosa. Mi ci volle un minuto per capire cosa fosse: dolore. Il suo dolore stuzzicava il mio. Eravamo così intimamente legati che i nostri sentimenti sembravano interconnessi: se uno dei due stava male, si trascinava dietro anche l'altro. Era sempre stato così ed evidentemente neppure la lontananza fisica ed emotiva poteva cambiare le cose. 
«Renesmee? Ci sei ancora?»
«Uhm, sì. Ci sono» borbottai. «Scusa, devo andare. Ho un sacco di compiti. Ti passo Sue».
Cinque minuti era la durata massima delle nostre conversazioni telefoniche, poi iniziavo ad agitarmi e a sudare freddo.
«Come vuoi» rispose, improvvisamente triste. «Ti salutano tutti, Rose ti manda un grosso bacio e papà ti abbraccia fortissimo».

«Okay».
«Ti voglio bene, piccola» aggiunse a voce bassa, quasi avesse paura di pronunciare quelle parole.
«Ciao, mamma» la salutai frettolosamente. Andai in cucina e allungai il cordless a Sue, che stava infornando una teglia. «È Bella» dissi, poi mi eclissai di nuovo in lavanderia.
Mentre svuotavo l'asciugatrice, piegavo i panni puliti e li riportavo al loro posto in giro per casa sentivo Sue chiacchierare in cucina, ma non mi impegnai per ascoltare cosa dicesse e le risposte della mamma. Non mi interessava. Quando ebbi finito salii in camera mia a studiare, ma non ci rimasi molto. Appena sentii sbattere la porta d'ingresso tornai di sotto. Charlie era in cucina, ancora con la giacca della divisa addosso e la pistola nella fondina, e parlava con sua moglie a bassa voce della telefonata di poco prima. Entrai nella stanza e loro si interruppero.
«Ciao, nonno» esclamai, alzandomi sulle punte dei piedi per baciarlo sulla guancia.
«Ehi, Ness». Mi sorrise affettuosamente. «Come va? La scuola?»
Alzai le spalle. «Il solito».
Annuì, poi abbassò lo sguardo, fingendo di osservare le verdure da tagliare per la cena. «Ho saputo che ha chiamato la mamma» disse con tono noncurante. «Avete parlato?»

«Certo» risposi, sforzandomi di apparire tranquilla. «Sue, posso darti una mano?»

Mentre lei finiva di preparare la portata principale, lasagne vegetali, io lavai, pulii e tagliai le verdure per l'insalata. Il nonno mi aiutò un po', apparecchiò la tavola, accese la tv in salotto, ma per la maggior parte del tempo lui e Sue furono impegnati in una specie di silenziosa conversazione di sguardi. Finsi di non accorgermene.
Poco dopo eravamo a tavola. Tra la telefonata della mamma e la questione del cinema con Alex avevo un bel po' di cose per la testa, ma mi costrinsi a mangiare, mentre pensavo a un buon modo per tirare in ballo Alex. Non me ne veniva in mente neanche uno. Charlie parlava in sottofondo ai miei pensieri.

«Stavo facendo un giro di controllo, nel pomeriggio, e ho incrociato la signora Marshall che sfrecciava lungo la Forks Ave come una pazza, e non aveva nemmeno la cintura. Naturalmente l'ho fermata e lei si è giustificata dicendo che stava accompagnando le figlie a lezione di danza, a Port Angeles, ed era in ritardo. Le ho chiesto se preferiva che le sue figlie perdessero la vita piuttosto che la lezione di danza, e avreste dovuto vedere come mi ha guardato! Come se fossi un mostro o chissà cosa».
«Assurdo» commentai sottovoce.

«Puoi dirlo forte, Nessie. Certa gente non ha un minimo di giudizio».
«Mmm».

«Non oso neanche pensare a cosa si aggira per le strade di Seattle».
Sospirai. Non era certo la miglior conversazione preliminare alla mia richiesta, ma non potevo aspettare oltre. Mi schiarii la voce. «Ehm... dovrei... dirvi una cosa».
«Sì, cara?» mi incitò Sue.
Feci un respiro profondo. Come aveva detto Jas? Via il dente, via il dolore. «Sabato vorrei andare al cinema con un ragazzo».
Charlie aveva appena preso un grosso boccone di carote e per un secondo temetti che si strozzasse: arrossì, tossicchiò, si agitò, mentre Sue lo fissava con le sopracciglia inarcate, poi si tuffò sul suo bicchiere d'acqua e mandò giù una bella sorsata. Quando riemerse, si schiarì la gola e mi lanciò un'occhiata strana.
«Un ragazzo?»

«Sì» mormorai, un po' preoccupata.
«E chi sarebbe questo ragazzo?» indagò, cincischiando nel piatto con la forchetta.
«Alexander Hayden. Si è appena trasferito».
«Hayden? La famiglia che viene da New York?» chiese con aria allarmata. Se Seattle lo spaventava, chissà qual era la sua opinione sulla Grande Mela.
«Sì, proprio loro. Conosco sua zia, Julianne Callaway».
«E quando l'hai conosciuta?»
«Un paio di settimane fa sono stata a casa loro».
Charlie si schiarì di nuovo la gola e prese un altro boccone. Masticò molto lentamente. «Mi pare che questo... ragazzo sia più grande di te» disse all'improvviso.
«Ha sedici anni» confermai con cautela.
Annuì. Aveva gli occhi stretti come due fessure. «Sarebbe un appuntamento, quindi?»
«Una specie» borbottai, a disagio.
Sue mi sorrise. «Che bello, tesoro. È bello, vero, Charlie?»
«Sì, è meraviglioso» bofonchiò il nonno con una certa dose di ironia. «Hai detto che andate al cinema?»
«Questo è il programma».
«E come pensate di arrivare fino a Port Angeles?»
«Con la sua macchina» risposi tutto d'un fiato, e attesi lo scoppio della bomba.

Per la seconda volta Charlie divenne rosso come un semaforo e prese a tossire a ripetizione. Forse parlarne durante la cena era stata una cattiva idea. «Non potete andare a Port Angeles con la sua auto!» balbettò quando la sua faccia spuntò dal tovagliolo.

«Perchè no?» protestai, stizzita.
«Be', c'è bisogno che te lo dica? La signora Marshall ha quarant'anni e guida come una spostata, figuriamoci un ragazzino di sedici! Non se ne parla nemmeno!»

«Charlie» intervenne Sue con tono di avvertimento.
«Andiamo, non è mica un evaso da Alcatraz» sbottai.
«Ma certo che no» fece Sue.
«Ah, davvero? E come possiamo esserne sicuri?» borbottò il nonno. Sua moglie lo fulminò con lo sguardo e lui parve imbarazzato.
Alzai gli occhi al cielo. «Ha compiuto sedici anni lo scorso giugno e ha la patente da nove mesi. E sa guidare. È molto prudente... sul serio». Incrociai le dita sotto il tavolo. Diciamo che lo era quasi sempre. «È così prudente che la mattina fa sempre tardi a scuola» mentii con un sorrisetto.
«Magari è solo perchè non sente la sveglia» brontolò il nonno.
«Charlie» lo richiamò Sue per la seconda volta, sempre più spazientita.
Ignorai la battuta. «Sono già andata in macchina con lui e guarda un po'? Sono ancora viva».
Lui sbuffò. Ormai aveva rinunciato a mangiare e si limitava a pasticciare nel piatto con aria svogliata. «E i tuoi genitori lo sanno?». Probabilmente aveva parlato di getto, senza pensarci, e sembrò pentirsene: mi guardò di sbieco, timoroso della mia reazione.

«Sanno cosa?» domandai, tranquilla.
«Sanno di questo... ragazzo?» specificò, inquieto. Sue continuava a fissarlo, imponendogli cautela con gli occhi.
Respirai profondamente. «Sì, sanno di Alex. Non lo hanno mai incontrato, però».
Anche il nonno fece un pesante sospiro. Riflettè per un minuto e nella cucina scese il silenzio. Potevo quasi sentire gli ingranaggi girare nella sua testa in cerca di una soluzione.
«Facciamo in questo modo» disse mentre si puliva la bocca con il tovagliolo. «Lo inviti a cena qui per venerdì sera, così lo conosciamo. E se tutto va bene...» non finì la frase.

Sgranai gli occhi, completamente spiazzata. Eh?
«Buona idea» disse Sue. «Preparerò una cena eccezionale».

Io ero senza parole. Wow. Mi aveva incastrato. Ero stata incastrata da mio nonno. «Cosa? Stai scherzando?» boccheggiai.
«No» rispose, meravigliato.
«Cioè, in altre parole, non potrò uscire con lui se prima non avrà passato il tuo esame?»
«Che parolone, Nessie!
Esame... Voglio solo conoscerlo, tutto qui. Mi sembra legittimo. I tuoi genitori farebbero lo stesso» disse, e riprese tranquillamente a mangiare.
Ero più o meno sotto shock. Sapevo benissimo cosa stava cercando di fare: contava sul fatto che Alex dicesse no a una cena in famiglia per far saltare tutto quanto. Eh sì, l'ispettore capo Swan mi aveva incastrata per bene. Mi guardò e mi sorrise, rilassato.
«Che c'è, tesoro? Non finisci di mangiare?»




****



Non avevo la minima idea di come spiegare ad Alex la situazione in cui mi ero cacciata, anzi, in cui avevo cacciato entrambi, senza che scappasse a gambe levate. Lo conoscevo abbastanza da immaginare quale sarebbe stata la sua reazione alla proposta di una cena con i miei nonni. Temevo che la prendesse così male da scaricarmi o qualcosa del genere, e in quei giorni mi ero resa conto di quanto la sua presenza, con l'intero bagaglio di prese in giro e frecciatine, fosse indispensabile per la mia sanità mentale. A volte mi sembrava di mantenermi in piedi grazie a una manciata di persone e Alex era tra queste. Ci pensai su per tutta la sera, buona parte della notte, e tutta la mattina succesiva, e dopo tanto rimuginare finii con il dirgli tutto alla prima occasione in cui ci trovammo da soli, senza giri di parole.
Eravamo nella sua auto, durante l'intervallo per il pranzo. Avevamo mangiato insieme e poi, visto che mancava ancora un po' alla campanella, ci eravamo sistemati nel comodo abitacolo della sua Audi con il riscaldamento a palla e un mucchio di cd. Parlavamo di musica e la discussione era piuttosto accesa. I nostri rispettivi gusti musicali erano molto vari, ma coincidevano poco.
«Non è possibile che non ti piaccia il jazz» borbottò Alex, contrariato. «Eppure sei una musicista!» 
«Non ho detto che non mi piace il jazz, ho detto che preferisco la musica classica» ribattei.
«Magra consolazione. Continuo a pensare che sia una specie di delitto non amare il jazz sopra ogni altro genere musicale».
«Sai, esiste una cosa chiamata rispetto per l'opinione altrui...»
«Sì, ma se l'opinione altrui è ridicola...»
«A te non è piaciuto il Notturno³ di Chopin che ti ho fatto ascoltare, che dovrei dire, io?»
Mi guardò, corrucciato. «Non è che non mi piaccia Chopin. È tutta la musica classica che non mi fa impazzire».
Sorrisi. «Ecco. Questo, per me, è ridicolo. Come si fa a non amarla?»
Per tutta risposta lui mi lanciò un'occhiataccia. Non gradiva molto che qualcuno si appropriasse delle sue battute e gliele rigirasse contro.
La canzone che stavamo ascoltando finì e scese il silenzio; il cd doveva essere terminato. Parlare di musica classica mi aveva fatto tornare in mente zio Emmett, che la sopportava a malapena. Decisamente prediligeva altri generi. Eppure, ogni volta che zia Rose sedeva al pianoforte e iniziava a suonare, lui non riusciva a non ascoltarla, rapito, fino all'ultima nota, gli occhi pieni d'amore.  
«Mio padre adorava la musica classica, invece. Soprattutto Beethoven
» disse Alex all'improvviso, distogliendomi dai ricordi. Fissava il lettore cd con sguardo spento, la voce intrisa di malinconia. Trasalii, sorpresa dalla scelta dell'argomento. Era molto raro che parlasse spontanemente dei suoi genitori. «Diceva che ascoltarlo riusciva a farlo sentire anche dopo la più estenuante delle giornate». Le sua labbra contratte si rilassarono accennando un sorriso. «Quando ascolto la Sonata al chiaro di luna e chiudo gli occhi... mi sembra quasi di riuscire a vederlo, seduto nella sua poltrona preferita, un bicchiere di vino in mano... poi solleva lo sguardo, mi vede, mi sorride...»
Sentii una stretta allo stomaco. Alex era perfettamente immobile, ma mi parve che lottasse con tutte le sue forze per non lasciar trapelare nulla oltre quel sottile velo di tristezza. Ed io desiderai poter fare qualcosa, qualunque cosa, per interrompere quella battaglia interiore e dargli anche solo un briciolo di sollievo. Senza pensarci un secondo, dissi la prima cosa che mi passò per la testa.
«Sei libero domani sera?» domandai, consapevole di essere tremendamente fuori luogo in quel momento.
Mi guardò, confuso, come se avesse dimenticato che ero lì seduta accanto a lui. «Domani sera? Credo di sì. Perchè?»
«Ti andrebbe di cenare con noi?». Tanto avrei dovuto dirglielo, prima o poi. Incrociai le dita, ansiosa.
Alex inarcò le sopracciglia. «Noi chi?»
«Io, mio nonno e sua moglie».
Le sue sopracciglia si sollevarono fin quasi a sfiorare l'attaccatura dei capelli. «Tuo nonno l'ispettore capo?». Annuii. Breve pausa. Non sembrava sconvolto come temevo, ma era evidente che lo avevo colto impreparato. «A cosa devo l'onore?» chiese con vaga ironia.
«A niente. È una cosa informale».
«Renesmee» cantilenò con aria divertita e il tono di chi intende dire Non me la dai a bere.
«Sul serio! Non è niente di particolare, sanno che ho un nuovo amico e sono curiosi di conoscerti, tutto qui. Prometto che non ti mangeranno. E poi... sabato potremmo uscire insieme, come avevamo detto» azzardai, quasi morendo di vergogna. Quanto avrei desiderato strisciare nei boschi intorno alla scuola e seppellirmi viva da qualche parte per il resto dell'eternità.
«Che c'entra la cena con il nostro appuntamento?»
«Niente» ripetei.
Restammo a fissarci negli occhi per un minuto, poi Alex sbuffò una risata a stento trattenuta. «Oddio» disse lentamente «la cena di domani e l'uscita di sabato sono collegate, vero? Non si fidano di me».
Sospirai, scocciata, incrociando le braccia. «Non si fidano di te al volante, più che altro».
«Immagino che in una città così piccola le voci corrano in fretta, soprattutto quelle gustose. E un poliziotto ci mette ancor meno a procurarsi le notizie interessanti» aggiunse, senza smettere di sorridere.
«Di che parli?»
«Tuo nonno sa tutto quello che ho combinato negli ultimi due anni, puoi scommetterci» spiegò, tranquillo.
Mi resi conto che probabilmente aveva ragione. «Be', non sei costretto» mormorai. Rivedevo perfettamente l'espressione di Julie quando lo guardava e immaginai Charlie che lo scrutava allo stesso modo. Non volevo che lui stesse male solo per assecondare la follia di mio nonno.
Mi lanciò un'occhiata strana. «Tu vuoi farlo?» mi chiese a bruciapelo.
«Se fosse possibile lo eviterei, credimi. Però non voglio rinunciare a Port Angeles. Vuol dire che scapperò di casa».
«Mi piacerebbe vederti all'opera» esclamò com aria furba. «Ma in fondo posso capire tuo nonno. Anch'io al suo posto sarei preoccupato dopo aver sentito certe storie». Aggrottò la fronte, come faceva sempre quando pensava intensamente a qualcosa. Adoravo quell'espressione. «D'accordo» concluse, alzando le spalle.
«Sul serio?»
«Ma sì, credo si possa fare. Non mi mangeranno, giusto? E comunque mi pare di capire che non abbiamo molta scelta».
Scossi la testa. «Purtroppo no. Ma in compenso, mia nonna cucina benissimo».
«Ah, davvero?»
Fece un sorrisetto, poi si avvicinò all'improvviso e mi sfiorò una guancia con la mano. Il mio cuore fece un balzo mentre le sue dita sembravano lasciarmi una scia infuocata sulla pelle. Automaticamente mi irrigidii un po', intimorita dal suo gesto, ma allo stesso tempo provavo una strana sensazione, del tutto nuova. Uno strano desiderio di abbandono, di abbandonarmi al suo tocco morbido e di toccarlo a mia volta. Lui aggrottò di nuovo la fronte, pensieroso, il volto vicinissimo al mio, le labbra piegate in un ghigno furbo.
«Ti sento tesa. Che c'è, Scheggia? Non preoccuparti, è solo una cena: che potrà succedere?»
Trassi un respiro tremante e cercai di sorridere a mia volta. «Già... che potrà succedere?»


   
 
   
   



Note.

1. Link.
2. Stephenie Meyer, New moon, pag. 85.
3. Precisamente è il Notturno Op. 9 n. 2, uno dei miei preferiti. E Renesmee, da brava pianista, lo adora xd. Eccolo qui.
4. Tutti ne avrete sentito parlare, è stupenda: link.







Spazio autrice.
Salve a tutti! Come avevo anticipato, la pubblicazione del capitolo sedici è stata rimandata di una settimana. Spero che vi piaccia!
Una breve nota a proposito del comportamento del buon vecchio Charlie. Senz'altro avrete notato che nei confronti di Renesmee è molto più apprensivo e protettivo di quanto sia mai stato nei confronti di Bella. Le ragioni di questo comportamento saranno spiegate nel prossimo capitolo, anche se tutto sommato penso siano facilmente intuibili... Comunque non vi anticipo nulla xd. Grazie!

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Capitolo 17
*** Halfway gone ***


C 17
Capitolo 17
Halfway gone


If you want me out, then I'm on my way
And I'm feelin, feelin, feelin this way
Cause you're halfway in, but don't take too long
Cause I'm halfway gone, 
I'm halfway gone
wohoww wohoww
I'm halfway gone, I'm halfway gone.
Halfway gone, Lifehouse¹



Ma Amore è cieco e gli amanti non vedono le dolci follie che commettono.
WILLIAM SHAKESPEARE




Quando gli comunicai che Alex aveva accettato l'invito, Charlie reagì con una specie di grugnito dal quale dedussi di aver avuto ragione fin dall'inizio: aveva sperato che Alex mi dicesse di no, in modo da avere un ottimo motivo per non farmi uscire con lui. A quanto pareva, il mio nonnino giocava sporco.
Sue invece ne fu entusiasta e disse che avrebbe preparato una cena speciale. La pregai di non esagerare per non mettere Alex ulteriormente in imbarazzo, ma non ero sicura che mi stesse ascoltando perchè la sua risposta si limitò a un sorriso distratto mentre compilava la lista della spesa. Non mi restava che incrociare le dita e sperare che filasse tutto liscio.
Alex sembrava tranquillo, o forse era soltanto più abile di me nel nascondere l'agitazione. Per tutto il venerdì mattina non fece che ridacchiare e fare allusioni ambigue alla cena imminente ogni volta che ci incrociavamo nei corridoi e durante l'intervallo. Ormai pranzavamo sempre insieme, a volte da soli, altre con i miei amici o con i suoi. Quel giorno eravamo al tavolo del suo gruppo, tutti studenti del terzo anno che conoscevo solo di vista, tra cui Brian e Robbie, i due ragazzi che avevano parlato con Alex, in mensa, il primo giorno in cui avevamo mangiato insieme. Ero seduta di fronte a una certa Karen Wilson, che alternava occhiate ammiccanti quando fissava Alex a occhiate antipatiche quando fissava me. Sforzandomi di ignorarla, mi strinsi un po' di più al suo fianco, nervosa.
«Allora... è tutto chiaro?» domandai. Avevo appena terminato di illustrare ad Alex la composizione della mia famiglia allargata nel tentativo di ridurre al minimo le possibilità di momenti imbarazzanti durante la serata che ci aspettava.
Lui sorrise, perfettamente rilassato. «Certo. Adesso devi solo disegnarmi un albero genalogico e tutto andrà a gonfie vele. Hai una famiglia complicata, eh, Scheggia?». Prese una patatina dal sacchetto che condividevamo.
«Nessuno ti interrogherà, promesso» dissi velocemente e un attimo dopo dubitai della mia stessa affermazione. Come potevo esserne certa con l'ispettore capo Swan nei paraggi? «È solo per precauzione».
Si girò a guardarmi, un ghigno malizioso che gli attraversava il volto. «Tu puoi interrogarmi, se ti va. Anche qualche lezione privata sarebbe gradita».
«Alex» borbottai con tono di avvertimento. Quel giorno ero troppo stressata per assecondarlo.
«Oppure potrei dare io a te qualche lezione privata» proseguì, ignorando completamente la mia protesta. Poggiò il braccio sullo schienale della mia sedia e la sua mano salì impertinente a delinearmi il contorno dell'orecchio. Con uno scatto mi allontanai un po', neanche avessi preso una scossa elettrica.
«La smetti, per favore?» sbottai sottovoce, controllando con una rapida occhiata che nessuno avesse visto nulla. Per fortuna Karen si stava controllando i capelli in uno specchietto e il resto della tavolata discuteva a gran voce del campionato di baseball.
Alex abbassò il braccio e sospirò. «Non potrai sfuggirmi per sempre» disse con calma, come se fosse un semplice dato di fatto, il sorrisino ironico ancora al suo posto.
«Siamo nel bel mezzo della mensa, ti pare il momento per...» troncai la frase di botto, inquieta.
«Prima o poi arriverà, il momento giusto» aggiunse.
«Chissà, forse potrebbe essere proprio stasera» scherzai, adeguandomi al suo umore. «Mio nonno non aspetta altro».
Alex scoppiò a ridere mentre beveva un sorso di Coca Cola dalla lattina e poco mancò che inondasse chi gli era seduto davanti. «Caspita! Bella idea, Scheggia! Questo sì che sarebbe un modo per rendere la serata davvero indimenticabile».
«Non te lo consiglio se tieni alla tua libertà personale».
Lui rise ancora, incapace di trattenersi, e Karen e Robbie si voltarono a guardarci. Fantastico. Non facevamo che attirare l'attenzione e Alex non soltanto sembrava godersela, ma si metteva di impegno per impedirci di passare inosservati. A volte sospettavo che lo facesse soltanto per il gusto di vedermi arrossire come un peperone quando mi stuzzicava in pubblico.
Al termine delle lezioni salutai Alex e salii sull'auto della madre di Jas, che si era offerta di accompagnarmi a casa. Da quando mi ero trasferita da Charlie Alex aveva smesso di "farmi da chauffuer", come diceva lui, ma se tutto fosse andato bene dal lunedì successivo avrebbe potuto ricominciare. La signora Williams non veniva quasi mai a prendere sua figlia a scuola, sempre troppo impegnata con il parrucchiere, la palestra, lo shopping e le amiche del bridge. Di solito Jas prendeva il pulmino della scuola (che non arrivava fino a casa mia, sperduta tra i boschi) oppure trovava ad aspettarla l'autista di suo padre, che era un importante imprenditore della zona e sindaco di Forks. Il signor Williams trascorreva la maggior parte del tempo fuori casa per lavoro, giocare a golf o a biliardo, probabilmente per sottrarsi alla compagnia della moglie, con la quale non aveva un gran rapporto. Jas lo vedeva soltanto durante il pranzo della domenica.
Quel giorno la madre di Jas aveva annullato la sua lezione quotidiana di pilates per venire a prenderci, ma entrambe avremmo preferito che non lo facesse. Eleanor Williams aveva un'idea tutta sua del Codice stradale, idea che non prevedeva il rispetto dei limiti di velocità, dei divieti di accesso, dei semafori, eccetera. Non che trasgredisse volontariamente le regole. Era solo troppo distratta e troppo presa dalla sua vita brillante e indaffarata per prestare attenzione ai cartelli stradali. E la pessima abitudine di chiacchierare a tutto spiano mentre era al volante di certo non facilitava la sua concentrazione. Charlie poteva anche lamentarsi della signora Marshall o essere preoccupato dalla guida di Alex, ma la madre di Jas al volante era una specie di pericolo pubblico. Le sue multe continue erano fonte di grossi litigi con suo marito e per ben tre volte lo scorso inverno le avevano sequestrato la macchina lasciata in sosta vietata... Charlie aveva il suo bel daffare, con lei. Era opinione diffusa che avesse ottenuto la patente sborsando chissà quale cifra (proveniva da una famiglia molto ricca di Seattle) e adesso diffondeva il terrore sfrecciando per le strade di Forks tra un appuntamento alla beauty farm e una cena con le amiche.
«E così ho detto alla commessa: "Signorina, le ho chiesto espressamente un tailleur Chanel. Se crede che io possa accontentarmi di una qualunque gonna abbinata a una giacca, si sbaglia di grosso. O si decide a fare il suo lavoro o le garantisco che nessuna delle mie amiche del bridge verrà mai più in questo negozio"» raccontava con tono indignato guidando la sua BMW color azzurro polvere lanciata a folle velocità. Io ascoltavo a malapena; preferivo concentrarmi sulla strada e tentare di evitarci un orrendo incindente. «E invece di seguire il mio consiglio ha avuto anche il coraggio di protestare, affermando che lei non vedeva poi tanta differenza tra quell'orribile completo che voleva rifilarmi e un tailleur Chanel... Ti rendi conto, Renesmee? Non trovi che io abbia ragione?»
«Assolutamente sì» concordai, gli occhi fissi oltre il parabrezza inondato dalla pioggia. A un tratto sterzò bruscamente a sinistra per superare una macchina ferma a un semaforo rosso e passò oltre con grande disinvoltura.
«Mamma! Quante volte ti ho detto che non devi farlo!» protestò Jas, che si infuriava puntualmente di fronte a certi comportamenti della madre. Sebbene avesse ereditato un po' della sua superficialità, era comunque molto più giudiziosa di lei.
Lanciai un'occhiata fuori dal finestrino, spinta da un brutto presentimento. In piedi sul ciglio della strada, accanto alla volante della polizia, c'era il vice di Charlie, Mark, intento a controllare i documenti di un ragazzo in motocicletta. Sollevò la testa giusto in tempo per vederci sfrecciare via con il rosso. Strabuzzò gli occhi, si sbracciò e si agitò gridandole di fermarsi, ma la signora Williams sembrò non notarlo nemmeno e proseguì come se niente fosse successo. Mark smise di agitarsi e iniziò a scrivere sul suo blocco di fogli, imprecando a gran voce e scuotendo la testa.
«Credo che tu abbia appena preso un'altra multa, mamma» mormorò Jas.
«Davvero?». La signora guardò nello specchietto retrovisore e probabilmente vide Mark che si allontanava rapidamente all'orizzonte. «Ops» esclamò con una risatina.
Jas le lanciò un'occhiataccia. «Prima o poi finirai dietro le sbarre» brontolò, imbarazzata.
Grazie al cielo, di lì a poco inchiodammo con una frenata stridente davanti a casa di Charlie.
«Eccoci arrivate!» squittì Eleanor.
Finalmente! «Grazie per il passaggio, signora Williams». Mi allungai per dare un bacio sulla guancia a Jas, che aveva un'aria piuttosto arcigna.
«Di nulla, cara! Alla prossima!»
«Certo, certo» bofonchiai, incrociando le dita. Di solito non salivo nella sua auto se potevo evitarlo, ma quella volta tornare presto a casa mi avrebbe fatto comodo: dovevo finire subito i compiti e prepararmi per la serata. «Arrivederci!»
Ero già scesa quando Jas mi richiamò abbassando in fretta il finestrino. «Ehi, chiamami quando hai deciso che cosa mettere!
»
Voleva esserne informata e dare la sua approvazione, ovviamente. Sorrisi. «Okay. Ciao ciao!»
La signora Williams tentò per tre volte, senza successo, di avviare il motore. Al quarto tentativo la sua BMW sbandò, finendo contro il marciapiedi, e per poco non colpì la macchina di Sue, parcheggiata di fronte a casa. Poi con un balzo in avanti partì a tutta velocità, come un proiettile impazzito. Trattenendo a stento una risata, aprii la porta in fretta, ansiosa di ripararmi dalla pioggia. Appena entrata sentii armeggiare in cucina. Sue era già all'opera? Nell'aria coglievo una miriade di aromi differenti, e quando era tanti non riuscivo a identificarli bene: carne, verdure crude, rosmarino, formaggio, qualcosa di dolce...
«Ciao, Sue» esclamai, un po' affannata, entrando nella cucina. «Già a casa? Credevo fossi dalla signora Cole». La signora Cole era un'anziana signora malata di diabete; Sue lavorava per lei da anni.
«Ehi, Nessie» rispose. Era occupata ad impilare un mucchio di pentole e teglie l'una sull'altra. «Ci sono andata stamattina».
«Oh» mormorai, sorpresa. «Cosa cucini di buono?»
«Roast beef con contorno di patate arrosto, piselli e carote, insalata di lattuga con crostini di pane e sformato di zucchine e peperoni. E poi il gran finale: dolce al caramello».
«Wow» commentai. «Una cena coi fiocchi».
«Ah, puoi dirlo forte! Ad Alex piacerà, vedrai».
Sospirai, sentendo una morsa stringermi la bocca dello stomaco. «Magari la cena sarà la sua unica fonte di felicità, stasera».
Sue mi guardò con un sorriso gentile sul volto. Aveva un viso piuttosto severo, ma quando sorrideva sembrava trasformarsi e diventava incredibilmente dolce. Anche Leah era così. Somigliava moltissimo a sua madre. Leah... Una piccola fitta di tristezza mi costrinse ad abbassare gli occhi, come se all'improvviso fossero diventati pesanti. Probabilmente Sue credette che stessi pensando a Charlie.
«Non preoccuparti, Nessie. Tuo nonno fa un sacco di storie,ma non potrebbe mai dirti di no: andrà tutto benissimo».
Mi sforzai di ricambiare il sorriso. «Lo spero. Grazie mille per quello che stai facendo».
«Di nulla, tesoro».
Salii in camera e iniziai a studiare. Avevo un bel po' di compiti, ma non mi ci volle molto per capire che non sarei riuscita a combinare granchè, ero troppo nervosa. Chissà cosa stava facendo Alex. Chissà se finalmente aveva ceduto allo stress o se invece restava imperturbabile e ridanciano. Avrei voluto chiamarlo, ma resistetti all'impulso; non volevo sembrare paranoica.
Alle sei chiusi i libri, rassegnata, e cominciai a prepararmi. Feci la doccia mentre ascoltavo Sue sfaccendare in cucina, poi tornai nella stanza e impiegai un'ora per decidere che cosa indossare. Feci tre telefonate a Jas, due a Holly e una a Danielle, e dopo molte discussioni, qualche crisi isterica e un'infinità di prove alla fine scelsi una gonna blu scuro al ginocchio, dritta e semplice, con due file di bottoncini sul davanti, una camicetta a righe bianche e blu decorata da ruches, un cardigan rosso, calze rosse e ballerine blu: un completo sufficientemente elegante per l'occasione, ma non troppo pretenzioso. Dopotutto Alex era solo un amico, non il mio ragazzo. Non ancora, mi corresse una vocina nella mia testa che suonava stranamente come la voce di Jas.
Pettinai con cura i boccoli color bronzo sciolti sulle spalle e mi truccai un po': una riga sottile di eye-liner sulle palpebre, un tocco di mascara, un velo di lucidalabbra rosa perla. Mentre mi guardavo allo specchio, spruzzando del profumo sul collo e sui polsi, pensai che zia Alice era sempre stata con me ogni volta che mi preparavo per un evento particolare, dispensando consigli e suggerimenti... fino ad allora. Mi sembrava quasi di riuscire a vederla riflessa nella superficie cristallina dello specchio, in piedi al mio fianco, intenta a studiarmi con quegli occhi attenti e infallibili nel cogliere un filo scucito o una macchia microscopica... Dall'altro lato zia Rosalie, con un sorriso carico di affetto e di orgoglio, e la mamma che faceva capolino ogni tanto, incredula per il tempo che noi tre riuscivamo a trascorrere insieme discutendo di vestiti.
Rattristata, voltai le spalle allo specchio con uno scatto e andai a sedermi sul letto. Mi guardai intorno, cercando di distrarmi. Osservai le pareti color azzurro chiaro, le tendine di pizzo, il soffitto a punta, la vecchia cassettiera di abete, il punto di una parere in cui la piccola Bella aveva segnato ogni estate la propria altezza, evidentemente ansiosa di crescere, la scrivania con qualche scarabocchio sulla superficie. La camera della mamma era rimasta perfettamente identica all'ultimo giorno che aveva trascorso lì dentro, poche ore prima di sposarsi. Il nonno non aveva toccato nè spostato nulla, in quegli anni. E probabilmente non doveva essere poi tanto diversa dal primo giorno della mamma in quella stanza, da bambina. Era come una bolla al di fuori del tempo e dello spazio, e stare lì dentro mi faceva sentire al sicuro. Finalmente un posto in cui le cose restavano sempre così com'erano.
La malinconia si faceva sempre più opprimente, quando sentii il rumore della porta d'ingresso che si apriva. Charlie era tornato. Lieta del diversivo, saltai in piedi e corsi di sotto. Il nonno era in cucina, appoggiato a un mobile e già impegnato a sgranocchiare delle noccioline.
«Cia,o Ness» disse a bocca piena. Mi guardò da capo a piedi, le sue labbra si tesero per un istante in una linea sottile, infine si curvarono verso l'alto. «Stai benissimo, tesoro».
«Grazie». Gli sorrisi. «Intendi cambiarti, vero?». Naturalmente indossava la divisa.
Lui scrollò le spalle. «Pensavo di restare così» rispose con tono noncurante.
Alzai un sopracciglio. «Per incutere timore?»
Sue lanciò un'occhiataccia al marito. «Tranquilla, Renesmee, sarà pronto in tempo».
Charlie arricciò il naso, ma sapevo che le avrebbe dato retta. Come sempre. «A che ora arriva?»
«Alle sette e mezza».
«E... come arriva?» insistè, sempre con quel fare tranquillo, fissando il fondo della sua ciotola di noccioline. Ma era chiarissimo dove volesse andare a parare.
«In macchina. La sua macchina» risposi con un'occhiata di sbieco verso il nonno.
«Spero che non ci tocchi andare a recuperarlo a metà strada» borbottò a voce bassissima, ma non poteva ingannare le mie orecchie.
«Ti ho sentito» ribattei in tono secco. Sbuffai nervosamente. «Senti, potresti cercare di comportarti bene, per favore?»
Charlie mi guardò con aria innocente. «Certo. Perchè, cosa ho fatto?»
Sue ridacchiava sotto i baffi. Alzai gli occhi al cielo e per ingannare il tempo iniziai a dare una mano con la cena. Sotto la direzione di Sue pulii e tagliai le verdure, preparai l'insalata, montai la panna per il dolce, apparecchiai la tavola. Charlie andò a cambiarsi, con un muso lungo fino a terra, poi tornò in cucina ad aiutarci. Ogni tanto lo sentivo bofonchiare qualcosa su un carro attrezzi e il ritiro di una patente, e nonostante la tensione mi veniva da ridere. Nel frattempo drizzavo le orecchie ogni volte che sentivo il rumore di un'auto sulla strada; quando colsi il rombo potente dell'Audi di Alex, che ormai mi era familiare, sollevai la testa di scatto.
«Eccolo. Sta arrivando» annunciai. Non mi resi conto di aver fatto un piccolo passo falso. 
 Charlie spalancò gli occhi, stupito. «Come fai a saperlo?»
Trasalii. Maledizione! Invece di rispondere, gli rivolsi un altro ammonimento. «Mi raccomando» dissi, accompagnando la parola con uno sguardo eloquente.
Poi corsi fuori dalla cucina, sperando che dimenticasse in fretta l'episodio; dopotutto aveva altri pensieri per la testa, quella sera. Attesi un paio di minuti nell'ingresso, ascoltando Alex fare manovra per parcheggiare; aprì e sbattè la portiera, percorse il viale con passo sicuro. Sentii un improvviso impeto di emozione. Spalancai la porta e mi lanciai fuori per coglierlo di sorpresa. Ma forse ero stata un po' troppo entusiasta: lui era già sull'ultimo gradino del portico e quando mi vide piombargli incontro come una palla di cannone tese le braccia con gesto automatico e mi prese per i fianchi, bloccandomi un istante prima che gli volassi addosso.
«Ehi!» esclamò, sorpreso ma anche compiaciuto mentre mi osservava. «Che accoglienza! Ansiosa di vedermi, eh?»
Ridacchiai, scuotendo i capelli. «Non cominciare, Alex. Stasera devi fare il bravo, lo sai». Che strano rivolgere la stessa raccomandazione a lui e a Charlie.
«Perfetto. Comincio subito» disse con tono serio. Strinse la presa sui miei fianchi e mi attirò a sè, superò l'ultimo gradino con un balzo e in un secondo mi ritrovai con le sue braccia serrate intorno al corpo.
«Alex!» protestai, cercando di mantenere la voce bassa e divincolandomi. Ero scioccata, divertita e un tantino infastidita dal suo comportamento. Mi scappò una mezza risata. «Lasciami!»
Lui rise e avvicinò il viso al mio, come per baciarmi. Le sue braccia erano forti, ma avrei potuto liberarmene con facilità; ero sul punto di farlo, un po' intimorita da quella vicinanza improvvisa ed eccessiva, quando dall'interno della casa giunse la voce di Charlie, bassa ma perfettamente udibile.
«Andiamo, solo un'occhiatina!»
«No, Charlie!» disse Sue in tono secco.
La tenda della finestra della cucina oscillò come se qualcuno l'avesse sollevata per un attimo e poi richiusa con uno strattone.
Alex mi lasciò andare. «Sembra che abbiamo un pubblico. Meglio rimandare» disse, tranquillo.
«Sì, decisamente» concordai. Avevo il fiato corto e il viso in fiamme.
Cercai di ricompormi mentre lo tiravo dentro casa e chiudevo la porta. Per la prima volta notai com'era vestito: jeans, camicia blu chiaro e cardigan abbottonato di un blu appena più scuro. Le diverse sfumature esaltavano il colore dei suoi occhi. Tra le mani aveva una busta regalo argentata e un'elegante confezione di cioccolatini.
«Cos'è questa roba?» domandai.
Prima che potesse rispondere Charlie e Sue uscirono dalla cucina e ci raggiunsero; lei sorrideva, lui aveva l'aria di chi progetta un omicidio.
«Eccovi» esclamai. «Bene, allora... Lui è Alex» gli sfiorai il braccio casualmente e subito ritrassi la mano, imbarazzata. «Alex, ti presento mio nonno e sua moglie».
Alex sfoderò un sorriso smagliante. «Buonasera, ispettore». Tese la mano a Charlie, il quale la fissò per un secondo prima di stringerla con una certa riluttanza. «È un piacere conoscerla, signora Swan».
La stretta di Sue fu molto più calorosa. «Il piacere è nostro, Alex. Benvenuto».
«Ho portato qualcosa per ringraziarvi del vostro invito» proseguì Alex porgendo a Charlie la busta e a Sue i cioccolatini. Sembrava perfettamente a proprio agio, mentre io avrei voluto essere inghiottita dal pavimento. Non riuscivo a credere a quanto fosse imbarazzante quella situazione.
Il nonno prese la busta con la stessa esitazione con cui gli aveva stretto la mano, il viso contratto come se una mosca gli stesse volando intorno a infastidirlo. Gettò un'occhiata al contenuto della busta, poi spostò per un secondo lo sguardo impassibile su Alex, infine ne trasse lentamente una bottiglia di liquore. «Scotch» commentò.
«Precisamente, signore. È il famoso Clynelish di Speyside², direttamente dalla Scozia. Dovrebbe piacerle. Fa parte della collezione di mio padre».
Charlie annuì. Mi parve un po' infastidito. Il gesto di Alex lo coglieva di sorpresa e al tempo stesso lo indispettiva. «È buono?» chiese a bruciapelo, scrutando Alex con espressione sospettosa.
Alzai gli occhi al cielo. Non era in casa nemmeno da cinque minuti e già iniziava a tormentarlo.
«Non ne ho idea. Mai assaggiato» rispose Alex, tranquillo. Ma io ero piuttosto certa che mentisse. «Ma sono convinto che sarà di suo gusto, signore».
«Un pensiero molto gentile» intervenne Sue. «Andate a sedervi, intanto io sistemo queste cose».
Prese la bottiglia e scomparve in cucina. Il nonno continuò a squadrare torvo Alex per qualche istante, poi ci precedette nel piccolo salotto e prese posto in poltrona. Mentre mi sedevo sul divano, accanto ad Alex, avevo la tremenda sensazione di trovarmi in tribunale. Quanto tempo era già passato? Quanto ne restava ancora prima della fine della serata? Saremmo sopravvissuti?
Trascorremmo alcuni minuti immersi in un silenzio di tomba. Charlie fissava la parete di fronte a sè, Alex si guardava intorno tranquillo e rilassato, io fremevo e contavo i secondi. Finalmente Sue tornò.
«Alex, vuoi bere qualcosa? Una Coca, una soda...»
«O qualcosa di più forte, magari?» aggiunse Charlie con tono noncurante.
Gli lanciai un'occhiataccia.
«Charlie!» esclamò Sue, sbalordita.
«Che c'è? Cercavo di essere gentile» si difese il nonno.
Alex sembrava divertito. «La ringrazio, ma non bevo niente di forte se devo guidare». Abbassai gli occhi sul pavimento, agitata. Due bugie in meno di dieci minuti e ancora non ci eravamo seduti a tavola. Sapevo che Alex reggeva bene l'alcool ed era in grado di mandare giù un bicchiere e mettersi al volante senza rischiare la vita... Ma sospettavo che il nonno non avrebbe gradito nessuna di queste informazioni.
«Sono lieto di saperlo» mormorò Charlie.
«Tranquillo, Alex, mio nonno ha un pessimo senso dell'umorismo» intervenni, e lui parve imbarazzato.
«La cena è pronta» annunciò Sue, ansiosa di cambiare argomento. «Ti piace il roast beef, Alex?»
Lui le rivolse un sorriso strepitoso. «Lo adoro».
«Bene! Sai, in questa casa si cucina più spesso il pesce che la carne: mio marito è un pescatore accanito».
«Davvero?» fece Alex educatamente.
Charlie alzò le spalle, a disagio. Non amava essere al centro dell'attenzione, proprio come sua figlia e sua nipote. «È solo un passatempo. Mio padre mi portava a pescare, quando ero bambino. Tu sei mai stato a pesca?»
L'immagine del ragazzo che sedeva elegantemente al mio fianco con stivali di plastica e canna da pesca era così ridicola che trattenni a stento una sonora risata.
Lui scosse il capo, sorridendo. «No, non ho mai avuto il piacere».
«E... hai qualche hobby?» chiese ancora il nonno con tono formale.
«Qualcuno. Un po' di questo, un po' di quello» rispose Alex. Continuava a sorridere, ma intuii che preferiva non approfondire l'argomento.
Scese di nuovo un silenzio carico di imbarazzo e Sue intervenne per la terza volta. «Forza, a tavola» esclamò con entusiasmo, e si diresse in cucina.
Il nonno si alzò e la seguì lentamente lanciando una strana occhiata ad Alex. Ci alzammo anche noi due, ma lo trattenni per il braccio.
«Tutto bene?» domandai, un po' ansiosa.
«Certo. Ce la stiamo spassando, non trovi?»
Ignorai le sue stupide battute. Sentivo Charlie e Sue parlottare in cucina, avevo solo pochi secondi. «Okay, ascolta: gli argomenti "auto", "bevande alcoliche" e "feste" sono assolutamente tabù. Soprattutto se sono presenti tutti e tre nello stesso discorso. Dobbiamo evitarli a ogni costo, chiaro?»
Lui spalancò gli occhi, fingendosi sorpreso. «Sul serio? E le droghe pesanti che ho iniziato a prendere di recente? Secondo te posso parlarne?»
«Smettila! Non è il momento!»
«E la povera vecchietta che ho investito mentre venivo qui? Anche quella è tabù?»
«Alex!»
«Ehi, voi due». La voce di Charlie che si era appena affacciato in salotto vibrò come uno schiocco di frusta fino a noi. «Che state bisbigliando?»
«Parliamo di pesca» rispose Alex con voce seria. Charlie ci osservò confuso, mentre io imprecavo mentalmente contro la dannata linguaccia di quel ragazzo, poi scomparve in cucina ed io mi affrettai a seguirlo tirandomi dietro Alex.
Fui tesa per tutta la durata della cena; mangiavo quasi senza sentire i sapori tanto ero concentrata. Erano soprattutto Sue ed Alex a chiacchierare, passando da un argomento all'altro con facilità. Io ero troppo nervosa per parlare e Charlie sembrava molto impegnato con il roast-beef, ma ero certa che in realtà fosse attentissimo a ogni parola. Alex era in gamba nel gestire la situazione, molto più bravo di me: educato, sorridente, spiritoso, disponibile nel rispondere alla maggior parte delle domande, anche a quelle che si avvicinavano ad argomenti che non gli andava di sfiorare; allora serrava le labbra formando una linea, corrugava la fronte, la sua espressione si induriva, ma erano dettagli insignificanti per chi non era abituato a leggere il suo volto.
Tutto proseguì bene, o almeno senza spargimenti di sangue, fino al dolce. Sue aveva appena finito di sparecchiare, Alex già pregustava la torta al caramello ed io la fine di quella stramba serata, quando Charlie all'improvviso ritrovò la voce, approfittando di un attimo di silenzio.
«Allora, Alex» cominciò, quasi con fare casuale, come se non avesse trascorso gli ultimi quaranta minuti in un silenzio di tomba. «Posso chiederti quanti anni hai?»
«Sedici, signore. Diciassette il prossimo 21 giugno».
Charlie annuì, un'espressione grave e composta sul viso. «Sai, devo dire che non invidio affatto voi adolescenti. Quello che state vivendo è un momento molto complicato... così pieno di novità, emozioni... a volte di follie e incoscienza. Molto intenso, senza dubbio».
Lo guardavo, perplessa, cercando di capire cosa gli passasse per la testa. Che cavolo significava quel discorso? Da quando discuteva delle emozioni degli adolescenti? Lanciai un'occhiata ad Alex, che però non era confuso. Sembrava calmo e... consapevole? Come se avesse capito qualcosa che a me sfuggiva.
«Ha ragione» concordò con un lieve cenno del capo.
«Mi fa piacere che tu sia d'accordo con me» fece Charlie, bevendo un sorso di vino con aria indifferente.
Sul volto di Alex comparve un sorriso stretto e obliquo, gli occhi fissi sul nonno senza timore. «Soprattutto sulla parte che riguarda le follie. È facile che un ragazzo... dia ascolto agli istinti peggiori e combini qualche guaio» proseguì.  
Trasalii, inquieta. Ormai sospettavo quali fossero le intenzioni di Charlie, ma Alex lo stava assecondando. Perchè? Osservai il suo viso con attenzione e l'improvvisa durezza dei suoi occhi mi spaventò. Allungai una mano sotto il tavolo, trovai la sua, la sfiorai e immediatamente sentii le sue dita avvolgere e stringere le mie. Charlie lo scrutava attento, la fronte aggrottata.
«Certo» mormorò.
«Però può succedere che un giorno il ragazzo cresca e la smetta con le follie» aggiunse Alex.
Charlie abbassò lo sguardo sul suo bicchiere di vino, agitandolo piano con un moto circolare per esaltarne il sapore. «Può succedere, sì» bofonchiò. «Ma ci vuole tempo. E comunque è difficile».
«Difficile, ma non impossibile. Si stupirebbe se sapesse quanto può essere salda la volontà di un adolescente... in condizioni ottimali».
«In condizioni ottimali, appunto» ripetè Charlie, scuro in volto. Si agitò un po'. «A volte capita... che le condizioni, appunto, non siano... Insomma, possono esserci delle scusanti... delle motivazioni per cui un adolescente fa determinate cose...»
«Lasci perdere scusanti e motivazioni» lo interruppe Alex. «Tutti possono sbagliare, ma un errore non condanna per la vita».
Ero incredula. Incredula e tesa come una corda di violino mentre guardavo la situazione sfuggirmi di mano un secondo dopo l'altro. Alex e Charlie si stavano avviando su un terreno pericoloso. Dovevo fare qualcosa, subito. Lanciai a Sue un'occhiata di panico allo stato puro e lei, che sembrava impensierita, si alzò in piedi.
«Basta chiacchiere» esclamò. «È il momento del dolce. Vado a prendere la torta. Spero che ti piaccia, Alex».
Si allontanò verso il frigorifero. Forse avrei dovuto aiutarla, ma non ci pensai nemmeno. Abbandonare Alex e il nonno a cavarsela da soli era una pazzia. Per un attimo scese il silenzio, poi Charlie tornò all'attacco.
«È vero, tutti sbagliamo e tutti dobbiamo avere la possibilità di dimostrare che siamo cambiati. Però a volte ci sono dei segni da cui si capisce che un ragazzo è ancora lontano dalla maturità».
«Per esempio?» chiese Alex con educata curiosità. Gli strinsi la mano sotto il tavolo, augurandomi che afferrasse il messaggio.
Il nonno riflettè un po', incrociando le dita. «Tu hai sedici anni, giusto? Ecco, sai a quanti anni ho avuto la mia prima macchina?»
Sussultai nel sentire quella parola, e in modo piuttosto evidente. Entrambi mi guardarono: il nonno perplesso, Alex come per dirmi "Datti una calmata".
«No. Quanti?»
«Diciannove» rispose Charlie con un sorrisino. «E sai quanti ne aveva mia figlia Bella quando le ho regalato la sua prima auto, un pick-up?». Alex scosse la testa senza fare una piega. «Diciassette... e mezzo».
«Mentre sedici sono troppo pochi, giusto?» lo provocò Alex, sempre tranquillissimo e con un amabile sorriso sulle labbra.
Charlie esitò un po' prima di parlare. «Non è esattamente questo il punto. Se mia figlia non fosse stata una ragazza molto attenta e responsabile, non avrebbe ricevuto nessun puck-up. Forse ti sembrerò troppo severo sull'argomento, ma un poliziotto ne vede tante, anche un poliziotto di provincia, ed è normale che la sicurezza sia sempre il suo primo pensiero».
«Sicuro che c'entri solo quello?» sbottai, rifilandogli un'occhiataccia.
Lui ostentò un'aria stupita molto poco convincente. «Certo, tesoro. Stiamo soltanto parlando del più e del meno».
«Sì, come no».
«Non c'è problema, Renesmee» intervenne Alex, vagamente accigliato. «Capisco il suo punto di vista, ispettore, davvero. Ma se io non avessi dimostrato di essere almeno un po' responsabile e attento, adesso non avrei nessuna macchina. Può parlarne con mia zia, la mia tutrice, se vuole».
«Oh, no, Alex, io... non voglio mettere in dubbio le scelte di tua zia, nè il fatto che tu sia un bravo ragazzo» borbottò Charlie, chiaramente a disagio. La situazione lo stava mettendo parecchio in imbarazzo: come poteva fare la predica ad un adolescente che aveva perso i genitori a quattordici anni? «Però è un dato di fatto che il tuo passato non sia esattamente immacolato da questo punto di vista».
Okay, sapeva tutto per davvero. Alex aveva indovinato. Maledizione.
«È soltanto una macchina, non un aereo privato» esclamai, sempre più allarmata, cercando disperatamente di interromperli.
Grazie al cielo, in quell'istante Sue tornò rapida al tavolo stringendo un piatto circolare tra le mani. «Ecco il dolce!» disse. Mi sfuggì un sospiro di sollievo, ma il diversivo non ebbe l'effetto sperato.
«Il passato è passato, credevo che su questo fossimo d'accordo. Io tengo molto a sua nipote e non la metterei mai in pericolo» proseguì Alex, la voce ferma e decisa, fissando Charlie senza un briciolo di timore o incertezza. Quella frase mi spiazzò. Arrossii di botto e abbassai gli occhi, guardando il dolce senza vederlo davvero, imbarazzata a morte. Pronunciate davanti a mio nonno, le sue parole suonavano tremendamente ufficiali.
«Certo» balbettò Charlie. Non osai controllare che faccia avesse. «Ma... se solo io potessi esserne certo, allora forse...»
Alex emise un sospiro di impazienza e le sue dita bianche e sottili tamburellarono velocemente sul tavolo; lo faceva sempre quando qualcosa lo irritava. «Signore, io sono cambiato. Sul serio. Il ragazzino che ero due anni fa non esiste più». Parlò con forza tale che mi parve impossibile dubitare della verità di ciò che stava affermando; ma quello davanti a noi era pur sempre Charlie Swan.
«E io dovrei crederti sulla parola?» domandò, tranquillo ma con aria vagamente di sfida.
«Charlie!» lo richiamò sua moglie, brandendo a mezz'aria il coltello per il dolce come se avesse intenzione di usarlo per tagliargli la lingua.  A quel punto non potevo più restare zitta a guardare. Aprii la bocca, furente, pronta a dare battaglia, ma fu Alex stesso a impedirmelo.
«No, certo» mormorò, pefettamente calmo. Mi voltai a guardarlo, le nostre mani ancora intrecciate sotto il tavolo. Sembrava riflettesse con intensità. «Mi rendo conto che la parola di uno sconosciuto non può avere grande valore». Fece un respiro profondo e guardò Charlie dritto in faccia. «Mi permetta di dimostrarglielo».
Charlie inarcò le sopracciglia. «E come?» chiese con cautela.
«Già, come?» ripetei ansiosamente.
Alex fece uno dei suoi sorrisi ampi e bellissimi. «Le propongo un giro sulla mia Audi. Sono sicuro che le piacerà. Le europee sono fantastiche, vanno che è una meraviglia».
«Cosa?» esclamò il nonno, sbalordito. Sembrava sul punto di scoppiare a ridere.
«Cosa?» gli feci eco subito dopo, con un'intonazione ben più drammatica. Alex stava dando i numeri, per caso?
Lui alzò le spalle. «Così potrà testare di persona la mia guida e verificare che non sono un pirata della strada» spiegò, una certa dose di ironia nella voce vellutata.
Charlie lo fissò in silenzio per un po', forse cercando di capire se scherzasse o meno, poi sorrise. «D'accordo» rispose, e si alzò.
Trattenni rumorosamente il fiato, sconvolta. No. No, non poteva essere.
Alex poggiò il tovagliolo e si alzò a sua volta, lasciando la mia mano. «Se preferisce può seguirmi con la sua auto».
Charlie fece un sorrisino. «No, tranquillo. Sono un ispettore di polizia. Sono abituato a rischiare la vita».
«Ah! Buona questa, signore» commentò Alex, divertito.
Si avviarono verso l'ingresso. Mi alzai precipitosamente e li seguii, Sue alle mie spalle. «Cosa?» ripetei. «Alex! Non è assolutamente necessario!»
«Rilassati, Renesmee. È solo un giro in macchina» mi tranquillizzò infilandosi la giacca.
«Ma tu non sai con chi hai a che fare!» protestai. Stavo valutando seriamente la possibilità di attaccarmi al suo giubbotto firmato e impedirgli di uscire di casa.
«Mi piacciono le sfide» rispose, e mi fece l'occhiolino.
Charlie gli aprì la porta e lui uscì per primo, dirigendosi alla macchina.
«Nonno, non puoi farmi questo!» gemetti.
«Non è stata una mia idea!»
«Sue, ti prego, fa' qualcosa!»
«Charlie, non mi sembra il caso» intervenne lei con aria grave. «È un ragazzino».
Charlie era già per metà fuori dalla porta. Si girò e mi rivolse un sorriso che mi parve diabolico. «Tranquilla, Ness. Te lo riporto tutto intero». E uscì sbattendo la porta.



****



Venti minuti più tardi non erano ancora rientrati. Sue iniziò a sparecchiare e a riempire la lavastoviglie, mentre io, del tutto incapace di aiutarla, non facevo che camminare avanti e indietro dal salotto alla cucina e viceversa. Stringevo il cellulare tra le mani, certa che da di lì a poco avrei ricevuto una telefonata delirante di Alex che mi scongiurava di andare a salvarlo da mio nonno.
«Ma perchè ci mettono così tanto?» chiesi ad alta voce per l'ennesima volta, disperata.
Sue fece un sospiro armeggiando con le stoviglie. «Conoscendo Charlie, direi che l'avrà costretto ad arrivare fino a Seattle».
Mandai un gemito e crollai sui gradini della scala, affranta. «Povero Alex. Se Charlie lo uccide giuro che non gli rivolgerò mai più la parola».

Sue uscì dalla cucina, mi raggiunse e mi osservò per qualche secondo. Aveva una strana espressione. «Nessie» cominciò lentamente «so che adesso ti sembrerà difficile crederlo, ma ha delle motivazioni valide per il suo comportamento».

Le scoccai uno sguardo indignato, completamente in disaccordo. «Nemmeno se Alex fosse stato arrestato per omicidio potrei giustificarlo per aver rovinato questa serata» sibilai.
Sorrise nell'ascoltare quell'esagerazione. Fece un piccolo sospiro e sedette accanto a me, sulle scale. «Le ha, invece, credimi» disse con l'aria di chi la sa lunga. «Io non credo che tuo nonno abbia mai amato nessuno tanto quanto ama te. Naturalmente vuole molto bene a Bella, ma lei è sempre stata più matura e indipendente rispetto alla sua età. Non era abituato a prendersi cura di lei. Poi si è sposata così giovane e ha avuto te subito dopo, e ora lui la sente così... distante».
Abbassai gli occhi e deglutii nervosamente. «Cosa c'entra questo con me?» bisbigliai.
«Forse non ti rendi conto di quanto tu sia importante per lui» aggiunse Sue con dolcezza. «È come se tu fossi la sua nuova bambina. In questi anni sei cresciuta sotto i suoi occhi e Charlie lo ha accettato senza nessuna domanda. Ha cercato di starti vicino comunque, ogni giorno». Sollevò la mano e mi accarezzò i capelli, sistemandomi un ricciolo in disordine dietro l'orecchio. «Ti vuole davvero un gran bene e non è soltanto preoccupato che Alex ti ferisca o che non sia prudente al volante. Ha paura di perderti. Ecco perchè sta facendo tutte queste scenate». Sorrise, leggermente divertita. «Cerca di non avercela troppo con lui».
«Ma la situazione è molto diversa» protestai, sorpresa. «La mamma ha sposato un vampiro, Alex è umano ed è soltanto un amico».
«Certo, ma questo Charlie non lo sa. E il fatto che si senta in colpa per quello che è successo a tua madre non aiuta».
«Come? In colpa?» esclamai.
Sue parve vagamente a disagio. «Be', è evidente che lei non è più stata la stessa dal giorno del suo matrimonio. Charlie se n'è accorto, anche se ovviamente non ha mai capito bene cosa sia successo, e ha tentato di accettarla come ha accettato te. Ma la vecchia Bella gli manca. E a volte non può fare a meno di pensare che se fosse stato più attento, se avesse capito cosa stava per succedere, se avesse cercato di parlare e farsi raccontare tutto prima che fosse tardi, sua figlia sarebbe ancora la stessa. E così tu sei... la sua seconda occasione. Capisci quello che voglio dire?»
«Credo di sì» risposi lentamente. «Ma non è stata colpa sua».
«Questo lui non lo sa» ripetè Sue. «E non potrà saperlo mai».
Riflettei in silenzio per qualche istante. Potevo capire che Charlie sentisse la mancanza di sua figlia com'era prima. Capivo che il suo cambiamento l'avesse disorientato e che si interrogasse su cosa potesse averlo scatenato. Ma che si ritenesse
colpevole era a dir poco assurdo. Io ero infinitamente più colpevole di lui, eppure non ci avevo mai pensato, in tutti quegli anni, fino a quando Leah non mi aveva gettato addosso la verità.
«È totalmente irrazionale
» sbottai, incredula, scuotendo la testa. «Come può credere che sia colpa sua? Lui non c'entra, non avrebbe potuto impedire in alcun modo quello che è successo».
Sue mi rivolse un sorriso enigmatico. Aveva un'aria saggia che all'improvviso mi ricordò la posizione di anziano che rivestiva all'interno del Consiglio della tribù. «Non sempre le persone riescono ad essere razionali quando c'è di mezzo qualcuno che amano molto. Giusto, Renesmee?
»
Ricambiai il suo sguardo sbalordita, punta sul vivo. Scese il silenzio, mentre continuavamo a fissarci, poi voltai la testa di scatto, sentendomi tremendamente a disagio. Che cavolo di situazione. La mamma riempiva Charlie di bugie, lui era convinto che fosse colpa sua ed io... Anche io gli mentivo. A quel pensiero trasalii come se una goccia d'acqua fredda mi fosse piombata di colpo sul collo. Gli mentivo da sempre e avrei dovuto continuare a mentirgli finchè non fossi uscita completamente dalla sua vita, quando avrebbe cominciato ad accorgersi che non cambiavo mai. Prima che la tristezza potesse invadermi e sopraffarmi, sentii un'auto avvicinarsi in lontananza.
«Sono tornati!» esclamai, agitata.
Sue inarcò le sopracciglia, improvvisamente tesa. Un'auto si fermò fuori a casa, poi sentimmo sbattere una portiera. Balzai in piedi e corsi nell'ingresso. Passi pesanti percorsero il viale. Doveva essere Charlie. La porta si aprì e comparve proprio lui. Ci osservò per un attimo, sorpreso di trovarci lì, poi assunse un'espressione indecifrabile.
«Ehi» salutò, togliendosi la giacca.
«Allora? Ha superato l'esame?» chiesi con aria di sfida.
Charlie rispose con una smorfia e un suono indistinto prima di eclissarsi in cucina. Sue lo seguì con aria decisa. Un secondo dopo, Alex varcò la soglia ed entrò. Mi precipitai verso di lui.

«Allora?» ripetei. «Com'è andata?»
Alzò le spalle mentre richiudeva la porta. «Direi bene» rispose. Sembrava piuttosto tranquillo. «Cioè, siamo entrambi ancora vivi, quindi direi che il bilancio è positivo».
«Ah ah» sbottai, e lo guardai male. Non capiva mai quando era il momento di smettere di scherzare. «Che ridere. Vuoi darmi una risposta seria o vado a chiederlo a lui?»
Mi guardò con aria divertita. «Non credo proprio che ne farà parola finchè non me ne sarò andato». Si sfilò il giubbotto e lo lasciò sull'appendiabiti.
«Ma... cosa avete fatto? Solo un giro in macchina?» insistei. Ero troppo curiosa per aspettare.
«Sì, principalmente sì».
«E poi?»
«Abbiamo... parlato un po»'.
«Di cosa?»
«Tante cose. Niente in particolare».
Sembrava disinvolto, ma non ero sicura di potergli credere. On quel momento Charlie fece capolino sulla porta della cucina, bloccando una nuova domanda che mi stava sorgendo sulla punta della lingua.
«Ehi, la cena non è finita. C'è il dolce» annunciò. «Ti fermi ancora un po', vero, Alex? Sue ci resta male se non lo assaggi».
Alex ed io ci scambiammo un'occhiata fugace, leggermente sbalorditi. Cos'era tutta quella cordialità?
«Certo» rispose lui, sorridendo.
Charlie fece un cenno col capo e si ritirò di nuovo in cucina.
«Che hai fatto, l'hai corrotto?» bisbigliai.
Alex ridacciò, compiaciuto, mi prese per mano e mi tirò verso la cucina. Ma appena entrammo mi lasciò subito. Il resto della serata trascorse tranquillamente. Il dolce fornì ad Alex un'altra occasione per riempire Sue di complimenti e la conversazione si concentrò su argomenti banali e sicuri. Charlie cercò ancora per un po' di tempo di fingere di ignorare Alex, ma più di una volta lo beccai ad osservarlo attentamente, con un'aria da esaminatore alquanto fastidiosa. Però ricordavo benissimo le parole di Sue e mi sforzai di non farci troppo caso. Dopo il dolce restammo ancora un po' a chiacchierare, e per quanto la situazione sembrasse tranquilla non riuscii a rilassarmi del tutto neanche per un minuto. C'era sempre la possibilità che Charlie ripartisse all'attacco per il secondo round, che Alex facesse una battuta di troppo o in qualche modo si finisse a parlare di argomenti off limits.
Quando lui si alzò annunciando che era ora di andare, balzai in piedi all'istante, sollevata. Sue lo salutò con calore e lo invitò a tornare presto. Charlie se ne stava ancora un po' sulle sue e si limitò a stringergli la mano con una specie di sorriso tirato, ma ero piuttosto convinta che prima o poi si sarebbe abituato alla sua presenza... O almeno me lo auguravo. Lo accompagnai fuori, lasciando la porta di casa accostata.

«Mi spieghi che diavolo è successo?» esclamai, cercando di mantenere la voce bassa. «Prima che usciste ti stava praticamente processando e quando siete tornati...»
Alex mi bloccò alzando una mano. «Frena, frena, Scheggia. Forse il nonno ispettore si è tranquillizzato un po', ma non penso che sia diventato il mio fan numero uno. Non cantiamo vittoria troppo presto»
Sorrisi. «Temo che non sarà mai il tuo fan numero uno, ma tutto sommato credo che non cercherà di attentare alla tua vita se dovesse vederci in giro insieme».
Ricambiò il sorriso, mentre mi prendeva per mano. «Perfetto! Finalmente possiamo darci alla pazza gioia per le strade di Forks» esclamò.
«Certo, il nostro obiettivo era questo fin dall'inizio. Perchè chiuderci in un cinema se possiamo dare spettacolo?»
Lui scoppiò a ridere, e in quel momento mi venne un'idea. Un'idea fantastica. Perchè non ci avevo pensato prima?
«Ehi, Scheggia! Sei ancora qui?»
«Uhm» mormorai. «Sì, ci sono. Scusa, stavo pensando...»
«... a come potremmo dare spettacolo, spero».
«No, a quello che potremmo fare domani, visto che a quanto pare riusciremo ad uscire senza problemi».
«Il cinema non ti va più?»
«Ho un'idea migliore: c'è un posto, fuori città, nel bosco...». La sua espressione curiosa mi fece ridere, e decisi di prendermi un piccolo vantaggio. «Sarà una sorpresa. Che ne dici?»
«Okay, vada per la gita nel bosco. In ogni caso sarà una giornata interessante, ne sono sicuro».
Ignorai la provocazione, ma anch'io immaginavo che ormai fossimo a una svolta. Eppure, mentre lui sembrava piuttosto sicuro di come sarebbero andate le cose, troppo sicuro, mentre io ero ancora parecchio confusa e tremendamente indecisa. Una mezza vampira che si fidanza con un umano. Una mezza vampira molto incasinata, tra l'altro. Sembrava la brutta copia della storia di mamma e papà.
«A che ora passi a prendermi?»
«Va bene alle due?»
«Okay».
Le sue mani lasciarono andare le mie, si spostarono sui miei fianchi, e si avvicinò con aria seria. Mi posò un bacio rapido sui capelli. «Ciao, Scheggia» sussurrò. Sentii le sue labbra sfiorarmi l'orecchio e rabbrividii. Capii dal suo sorriso che Alex se ne era accorto. «Sogni d'oro».
Non riuscii a rispondere, avevo la bocca secca. Scese i gradini con due balzi, poi per un attimo si voltò di nuovo verso di me, lanciandomi un'occhiata divertita e un sorriso ammiccante, l'aria di chi sa bene il fatto suo, prima di raggiungere la macchina.
Leggermente frastornata, tornai in casa con passi lenti e richiusi la porta. Trovai Charlie in piedi nell'ingresso con le braccia incrociate, come se mi stesse aspettando. Sospirai. Ma di cosa aveva paura, che scappassi con Alex?
«Allora» cominciò con fare casuale «serata interessante».
«Eh già» commentai con il suo stesso tono.
«E così... ehm... domani uscite insieme?» borbottò, gli occhi fissi sul pavimento. Era chiaramente molto imbarazzato e a un tratto mi fece una gran tenerezza. Povero vecchio Charlie.
«L'idea è quella, sì».
Annuì. Tacque per qualche secondo. «Guida interessante, la sua. Un po' troppo sportiva, forse, ma... tutto sommato... sa quello che fa. O almeno così sembra». Alzò le spalle, come ammettendo un certo inevitabile margine di errore.
Sentii un gran sorriso sbocciarmi sul volto. Ce l'avevamo fatta! Mi avvicinai e gli diedi un bacio sulla guancia. «Sapevo che saresti stato contento di conoscerlo» esclamai, allegra.
Charlie sbuffò una risatina nervosa, mentre le sue guance si coloravano un po'. «Sì, certo. Non aspettavo altro».









Note.
1. Qui la canzone. Meravigliosa.
2. Se qualcuno/a si sta chiedendo da dove ho preso questo nome impronunciabile, la risposta è qui. Giusto per far vedere che non l'ho inventato, ma credo che non interessi a nessuno approfondire l'argomento xd.








Spazio autrice.

Salve, lettori di Midnight star! Dovete sapere che questo capitolo è uno dei miei preferiti in assoluto perchè adoro da morire tutte le scenette tra Charlie che fa il terzo grado ad Alex e Renesmee che cerca di fermarlo xd. Di solito non sono per niente brava con le scene divertenti, ma spero di avervi strappato almeno un sorriso ^^. Come avevo accennato, il comportamento ansioso e protettivo di Charlie ha i suoi perchè. Li avevate già intuiti oppure no? Comunque da qui in poi si darà una calmata xd. A mercoledì prossimo!

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Capitolo 18
*** Breathe ***


C 18
Capitolo 18
Breathe

Cause I can feel you breathe
It's washing over me
Suddenly I'm melting into you
There's nothing left to prove
Baby all we need is just to be
Caught up in the touch
The slow and steady rush
Baby, isn't that the way that love's supposed to be
I can feel you breathe
Just breathe.
Breathe, Faith Hill¹




Oggi lasciate che sia felice, io e basta,
con o senza tutti, essere felice con l’erba
e la sabbia, essere felice con l’aria e la terra,
essere felice con te, con la tua bocca,
essere felice.

       PABLO NERUDA, Ode al giorno felice²






La mattina successiva mi svegliai di soprassalto, agitata, ma allo stesso tempo perfettamente lucida, con la sensazione di aver pensato a una cosa sola per tutta la notte, nel sonno. Finalmente era arrivato il giorno; forse il rapporto tra me ed Alex avrebbe trovato il suo perchè. E mi sembrava che fosse tutto nelle mie mani. Lui mi mostrava in ogni momento quello che avrebbe voluto. Toccava a me decidere.
Lo stomaco mi si contorse di colpo come se fosse stato pieno di rane saltellanti. Balzai giù dal letto e corsi alla finestra, ansiosa. Le previsioni avevano garantito bel tempo, il che a Forks significava soltanto niente pioggia  a catinelle, ma poichè non potevo più contare sull'insindacabile onniscienza di zia Alice, mi toccava la suspense dell'incertezza. Spalancai le tende e potei tirare un sospiro di sollievo: il cielo era coperto, ma negli spazi tra le nuvole si infilavano qua e là dei tenui raggi luminosi; sicuramente il sole sarebbe comparso, prima o poi. Con un'occhiata mi accorsi che la macchina della polizia non c'era, Charlie doveva essere uscito.

In cucina trovai Sue occupata a disporre su un piatto una pila di frittelle dorate e profumate.
«Buongiorno. Dormito bene?» mi salutò sorridendo.
«Abbastanza, grazie. Charlie non c'è?»
«È andato a pesca, è uscito verso le cinque».
Rabbrividii, mentre mi versavo del succo d'arancia. C'erano ben poche cose che detestassi quanto alzarmi troppo presto al mattino. E così era andato a pesca? Quindi avrebbe trascorso la giornata alla riserva e sicuramente avrebbe avuto compagnia.
«Ci va da solo?» domandai a bassa voce, guardando nel mio bicchiere.

Ci fu un attimo di silenzio. «Oh, ehm, no... Non credo. Deve esserci Billy con lui» rispose Sue, esitante. Mise il piatto sul tavolo. «Frittelle?»
«Certo».
Il mio stomaco brontolava, nonostante le rane. Ne assaggiai un boccone. Erano deliziose, ma quelle di zio Jasper erano imbattibili. Mi tornò in mente l'ultima volta che le aveva preparate, qualche giorno prima del disastro: la cucina super tecnologica di Esme, le chiacchiere incessanti di Alice, Emmett che controllava la lunghezza della mia gonna... Sentii un nodo alla gola e cercai di mandarlo giù insieme alla frittella. I ricordi tristi non dovevano rovinare quella giornata.

«Ti dispiace riempire la lavastoviglie, quando hai finito? Vado un po' di fretta» disse Sue, togliendosi il grembiule. Notai che era già vestita.
«Nessun problema. Stai uscendo?»
Abbassò gli occhi e iniziò ad armeggiare con un paio di teglie da forno, chiaramente in imbarazzo. «Vado a trovare i ragazzi, pranzo con loro e poi faccio un salto da Emily» disse in fretta. «Non ti dispiace restare sola, vero?»
Arrossii, scuotendo precipitosamente la testa. I ragazzi. Seth e Leah. Da quando vivevo lì non si erano più fatti vedere, così era Sue che andava da loro. Mi dispiaceva aver praticamente spaccato la famiglia in due, ma non sarei mai riuscita ad incontrarli fingendo che tutto andasse bene. Non ancora, almeno.
«No, no, figurati. Vai pure» balbettai.

E così, Charlie avrebbe passato la giornata con Billy, e Sue in compagnia di Seth, Leah ed Emily. Fantastico. Prevedevo una quantità industriale di pettegolezzi. Grazie al cielo io non ne avrei ascoltato nessuno, e se le cose fossero andate secondo i piani, tra qualche ora sarei stata troppo presa da altre questioni per pensarci.
«Perfetto» esclamò Sue. Sembrava sollevata. «Allora io vado. Ti ho lasciato il pranzo in forno». Prese le teglie impacchettate (ovviamente aveva cucinato lei) e mi rivolse un sorriso. «Divertiti con Alex, e se hai bisogno di qualcosa chiamami pure».
«Certo, certo. Buona giornata» risposi gentilmente, pensando che neanche se fosse scoppiato un incendio l'avrei mai cercata a La Push.
Era già sulla porta, ma poi si voltò di nuovo. «Ehm... Visto che sto andando alla riserva... vuoi che recapiti un messaggio da parte tua, per caso?» chiese con tono forzatamente normale.

Come? Per poco non mi andò un boccone di traverso. Feci un respiro profondo e cercai di sorriderle. «Nessun messaggio» risposi a denti stretti.
«Ok, d'accordo». Sue mi guardò preoccupata per un istante, poi annuì tra sè. «Allora... ciao».
«Ciao».
Rimasi immobile, tesa, finchè sentii sbattere la porta di casa. Era andata. Sbuffai e infilzai una frittellina con la forchetta, di malumore. Pessimo modo di cominciare una giornata che avrebbe dovuto essere perfetta. Sul serio credeva che avessi un messaggio per Jacob? Sapevo che aveva le migliori intenzioni, ma l'unico messaggio che avrei voluto mandargli al momento era Vai al diavolo, razza di bugiardo.
Dopo colazione misi i piatti in lavastoviglie e riordinai la cucina, poi tornai in camera e trascorsi diverse ore praticamente immersa nel guardaroba per decidere che cosa mettere. Volevo essere carina e sexy, ma mi aspettava pur sempre una lunga camminata nei boschi; era essenziale indossare qualcosa che fosse anche comodo e pratico.
Mentre tiravo fuori, esaminavo, scartavo e riprendevo in mano ogni singolo capo, circa un milione di domande mi affollavano la testa. Non solo se sarebbe stata più adatta una camicia a maniche lunghe o una a maniche corte, e se sarebbe stato meglio fare la coda o lasciare i capelli sciolti, ma anche... Ci saremmo baciati ancora? Ed io sarei stata all'altezza della situazione, stavolta? Holly e Jas mi avevano dato qualche suggerimento, ma dubitavo che sarei stata in grado di ricordarmene con le labbra di Alex a un centimetro dalle mie. Mi avrebbe chiesto di metterci insieme? E cosa gli avrei risposto?
, ovviamente... Era quello che volevo.
E se poi me ne fossi pentita? E se non avesse funzionato a causa mia e di ciò che ero? Se lo avessi messo in qualche modo in pericolo? Per un umano la vicinanza eccessiva ad un vampiro costituiva sempre un rischio, e solo una parte del pericolo era dovuta all'eventualità che il vampiro non riuscisse a controllarsi. Se standomi così vicino avesse notato qualcosa di diverso in me? Forse quello era un tipo di rapporto troppo rischioso da stringere. Ero già abbastanza fortunata a poter frequentare la scuola, avere degli amici, stare con Charlie. Forse avere anche un ragazzo sarebbe stato troppo. Nella mia mente balenò il ricordo sbiadito di una lunga fila di mantelli neri che avanzava lentamente sulla neve nella foschia di un'alba invernale. Trasalii, mentre un brivido di paura mi percorreva la schiena. Cercai di scrollarmi di dosso quell'immagine, ma era come marchiata a fuoco dentro di me.

Quando decisi finalmente cosa indossare, mi preparai in gran fretta, agitata, buttai giù qualcosa per pranzo, sebbene avessi lo stomaco chiuso e le rane fossero più vivaci che mai, e per l'una e mezza ero pronta. Fu un bene, perchè di lì a poco sentii una macchina avvicinarsi e la riconobbi subito. Con un tuffo al cuore, afferrai il giubbotto e il cellulare, mi controllai un'ultima volta allo specchio, e corsi nell'ingresso. In quel momento qualcuno bussò ed io corsi ad aprire con un gran sorriso.
«Sei in anticipo» dissi a mo' di saluto.
«Ciao anche a te» esclamò Alex. Aveva la sua solita espressione scanzonata. «Sì, lo so. Speravo di beccarti mezza nuda, ovviamente». Scoppiai a ridere, e mi sentii subito più rilassata. La sua presenza aveva lo strano, duplice effetto di elettrizzarmi e rasserenarmi al tempo stesso. «Be', la verità è che ero piuttosto impaziente, ecco».
«Ah, lo immaginavo! Ci aspetta una bella passeggiata, oggi, ma temo che dopo non vorrai mai più uscire con me» scherzai, chiudendomi la porta alle spalle.
«Tu mettemi alla prova, poi ne parliamo».
Chiacchierammo quasi ininterrottamente, e degli argomenti più svariati, per tutto il lungo tragitto verso la nostra meta. Io gli parlai dei compagni di scuola, dei professori, delle mie amiche. Lui scherzò come al solito sulla pioggia e sul fatto che quella giornata di sole doveva essere un avvenimento unico. Giunti allo stretto sentiero segnalato solo da un ceppo d'albero, mi sentivo incredibilmente rilassata. Alex parcheggiò nel poco spazio a disposizione sul ciglio della strada e scendemmo in silenzio. Eravamo a pochi passi dal bosco, un fitto intrico di verde e marrone, tronchi altissimi, enormi massi, cespugli di rovi e fronde lussureggianti.
«Non ci perderemo, lì dentro?» chiese Alex all'improvviso. Si era avvicinato e scrutava il bosco con la fronte aggrottata. Il suo tono preoccupato mi fece sorridere.
Scossi il capo. «No, tranquillo. Sono stata qui tantissime volte, non potrei mai perdermi».
«Davvero? Non ti facevo una ragazza da escursioni nei boschi, sai?»
Mi sfuggì un piccolo sospiro. «Con i miei zii... facevamo delle passeggiate» spiegai.
Lui si voltò a osservarmi, mentre io combattevo silenziosamente contro l'attacco di malinconia che minacciava di sopraffarmi. Quando lo guardai a mia volta, la sua espressione accigliata si distese in un sorriso, mi prese per mano e mi tirò con se verso gli alberi.
«Forza, Scheggia, è ora di andare! C'è un posto che ci aspetta! Anche se non so esattamente che cosa sia».
Non lasciò la mia mano neanche per un secondo durante la camminata. Mi stringeva forte quando dovevamo scavalcare un tronco caduto, superare un masso scivoloso o un groviglio di erbacce, dichiarando con una certa dose di malizia di essere il mio cavaliere senza macchia. Forse voleva soltanto evitarmi di cadere, ma in cuor mio speravo e immaginavo che quella stretta significasse anche qualcosa di più. Non mi avrebbe lasciato cadere, in nessun senso, e quel pensiero mi riempiva di sollievo. Proprio come in quei giorni, quando il mio mondo era crollato e Alex era una delle poche persone su cui potessi ancora contare. Lui stesso mi aveva detto quanto fosse importante avere qualcuno accanto in un momento difficile. Improvvisamente ricordai un dettaglio, una cosa a cui non pensavo da parecchio tempo.
«Alex» cominciai lentamente, incerta se parlarne fosse appropriato o meno «ricordi quando sono venuta a casa tua, un paio di settimane fa?». Lui annuì. «Hai accennato ad una persona... un'amica... la tua migliore amica, a New York. Ma non mi hai detto nulla di lei. Ti andrebbe di parlarmene?»
Lanciai una rapida occhiata al suo viso. Spesso parlare della sua vita prima di Forks lo rendeva malinconico, ma in quel momento sembrava tranquillo. «Certo. Come mai me lo chiedi proprio adesso, mentre scarpiniamo per il bosco?»
Alzai le spalle. «Non so, mi è venuto in mente all'improvviso. Pensavo... a quando mi hai detto che sono poche le persone che ti capiscono veramente. La tua amica è una di quelle, giusto?»
Il suo sorriso si allargò. Attese per qualche istante prima di parlare. «Sì, lo è. Io e Madison ci conosciamo da bambini. Siamo molto simili». Sorrise. «Da piccoli ci riempivamo di dispetti a vicenda. Le nostre tate ci portavano a passeggiare a Central Park tutti i pomeriggi e quello era il momento più bello della giornata. Quante ne combinavamo... Eravamo delle pesti, tutti e due. Forse è per questo che stavamo così bene insieme. Ma anche quando l'epoca dei giochi e degli scherzi è passata, abbiamo continuato a stare sempre insieme. E... be', questo è quanto». Si interruppe di colpo e abbassò lo sguardo. Però non sembrava triste, e pensai di poter approfondire l'argomento.
«Amici del cuore, insomma» osservai.
«Se proprio vuoi usare questa definizione da prima elementare, sì».
«Dovete sentire molto la mancanza l'uno dell'altra».
Lui abbozzò un sorriso e rispose indirettamente alla domanda. «Sai com'è, ogni tanto ci vorrebbe proprio qualcuno che semplicemente ti guarda negli occhi e capisce cosa ti passa per la testa».
«Eh già, ci vorrebbe» assentii a bassa voce.
Scese il silenzio, rotto solo dai tipici rumori del bosco: il cinguettio degli uccelli, il fruscìo delle chiome degli alberi, i nostri passi sui rami spezzati. Gli alberi alti e folti impedivano ai raggi del sole di penetrare nella penombra, solo qua e là c'era qualche chiazza di luce. Pensai immediatamente a Jacob e alla sua misteriosa capacità di comprendermi meglio di chiunque altro. Soltanto papà poteva batterlo. La nostalgia mi prese completamente e per un po' mi lasciai avvolgere dai ricordi, come una coperta in una fredda notte d'inverno.

«Ehi, Scheggia? Sei ancora qui?»
«Sì, ci sono» borbottai, scrollando la testa. «Scusami, ero distratta».
«Male» commentò Alex, e mi lanciò uno sguardo malizioso. «Se tu ti distrai, per trovare qualcun altro che comprenda i turbamenti del mio animo dovrò spostarmi di nuovo sulla costa Est».
«Non me lo dire: io comprendo i turbamenti del tuo animo».
Eravamo giunti a un grosso tronco ricoperto di muschio da scavalcare; Alex mi aiutò con attenzione e intanto guardava a terra per nascondersi da me, poi riprese a camminare, tirandomi per la mano. «Ti ho già detto che sei molto meglio di qualunque insulsa psicologa scolastica. Tanto per cominciare, sei molto più sexy».
Scoppiai a ridere e gli diedi una botta sul braccio. «Buon per te, allora! Ma come ha fatto la tua amica a sopportare te e le tue battute per tutti questi anni? Povera Madison».
«Non sai quante volte si è lamentata di dovermi fare da baby sitter» esclamò, divertito. Fece una piccola pausa. «Il fatto è che con il tempo lei è diventata matura e responsabile, mentre io sono rimasto quello che ero ad otto anni, più o meno: il bambino irrequieto e disubbidiente che rischiava di rompersi l'osso del collo almeno un paio di volte al giorno» aggiunse, mentre un ghigno gli nasceva sul viso. «Era naturale che le toccasse la parte della balia».
«E tu che parte avevi?» domandai, con tono scherzoso.
«Uhm... La parte di quello che si ubriaca fino a dimenticare il suo stesso nome e ha bisogno che qualcuno si preoccupi di farlo tornare a casa vivo e vegeto» rispose tranquillamente. Io risi senza riuscire a trattenermi e lui mi lanciò un'occhiata di sbieco. «Non è una mossa saggia ridere di chi guida la macchina con cui tornerai alla civiltà, sai».
«Tanto non potresti mai fare a meno di me per ritrovare la strada» risposi, facendo spallucce.
«Sottovaluti le mie potenzialità. Se non mi sono mai perso a Central Park, senz'altro prima o poi uscirò vivo da qui».
«Ma a Central Park non c'è il rischio di incontrare orsi, per quel che ne so» buttai lì con fare casuale. Lasciai la sua mano e affrettai il passo. La luce intorno a noi si era fatta più intensa già da tempo e gli alberi cominciavano a diradarsi, segno che eravamo vicini alla meta.
Alex mi fissava stupefatto, gli occhi spalancati, mentre lo superavo. «Orsi?» ripetè.
«Sbrigati, siamo arrivati» annunciai invece di rispondergli.
Percorsi in fretta un'altra ventina di metri, Alex alle mie spalle, in direzione di una familiare macchia di luce, e finalmente mi fermai. Davanti a noi c'era una piccola radura dalla forma circolare, rivestita da un tappeto multicolore di erba e fiori; lungo il perimetro alcuni alberi secolari gettavano la loro ombra sui margini del prato. Il sole ancora non si decideva a spuntare del tutto, ma ogni tanto faceva capolino e i suoi raggi luminosi e caldi sembravano trasfigurare tutto, come un incantesimo. C'era un silenzio assoluto, a parte il delicato scrosciare di un corso d'acqua nelle vicinanze. Per un bel po' restai immobile, in contemplazione. Al mio fianco, Alex sembrava incantato.
«Non è magnifico?» bisbigliai, timorosa di turbare quella quiete. «E resta sempre uguale. Gli anni passano, le cose cambiano, ma... alcune restano esattamente così come sono. Non è un'idea consolante? Dovrebbe essere così anche per tutto il resto».
Guardai Alex: aveva un sorriso mesto sulle labbra. Non rispose, ma non ce n'era alcun bisogno.




****



«La tua pelle è meravigliosa».
La voce di Alex ruppe il silenzio all'improvviso. Ce ne stavamo zitti da un bel po', io seduta sull'erba con le braccia tese all'indietro, lui sdraiato su un fianco, appoggiato al gomito. Abbassai la testa per guardarlo e mi accorsi che non stava ammirando il paesaggio. Fissava me con gli occhi leggermente socchiusi, come se avesse davanti una luce accecante.
Sorrisi. «Merito dei miei trattamenti di bellezza».

Rimase perfettamente serio. Abbassò lo sguardo, l'espressione accigliata, e le sue dita volarono in un istante a sfiorare la mia mano. Ne accarezzò a lungo il dorso, poi prese a salire piano, percorse l'avambraccio fin dove glielo permise la manica della mia camicetta azzurro chiaro, infine scendendo lentamente tornò alla mano, toccò l'interno del polso. Fui scossa da un brivido e  sperai che non se ne accorgesse, ma era impossibile. Le sue dita si fermarono qualche secondo sul mio polso, poi risalirono nuovamente lungo il braccio e scesero, ripetendo lo stesso percorso con estrema delicatezza. Sembrava che assaporasse il contatto fisico centimetro per centimetro. Rabbrividii ancora, quasi sussultando, e mi sfuggì un sospiro. I suoi occhi saettarono verso il mio viso e bloccò le dita sul polso, stringendolo appena.
«Ti metto in imbarazzo?» chiese, la voce ferma ma cauta.

Accennai un sorriso. «Non più del solito».
Gli angoli della sua bocca si curvarono un po' verso l'alto. «Basta scherzi, Scheggia. Adesso facciamo sul serio. Ti da fastidio se ti tocco?»
«No» balbettai, scuotendo il capo. «No, assolutamente. Mi piace. È bello».
«Però sembri preoccupata» aggiunse, osservandomi intensamente.
«No, è solo che... a volte, quando sei con me... sono nervosa» spiegai, a disagio. Non era affatto semplice parlarne ad alta voce, accidenti.
Alex inarcò le sopracciglia. «Io ti rendo nervosa?». Annuii. «Nel senso che vorresti saltarmi al collo e strangolarmi o in senso buono?»
Trattenni a stento una risata. Non gli riusciva proprio di essere serio fino in fondo, nemmeno quando lui stesso ne sosteneva la necessità. «In senso buono» ammisi.
«Ah» fu la sua unica reazione immediata. Tacque per un po', poi sorrise, guardandomi di sotto in su. «Allora io ti piaccio».

«Questo lo sai già. Perchè passerei tanto tempo con te, se no? Non sono così masochista».
«Hai capito cosa intendo: non solo come amico, ma come ragazzo».
Le mie guance si scaldarono così in fretta che pensai di aver stabilito un nuovo record. Non osavo guardarlo dritto in faccia e rimasi zitta e immobile, paralizzata. Le rane salterine che abitavano il mio stomaco erano molto impegnate ad andare su e giù, neanche stessero festeggiando.
«Sai già anche questo» sussurrai con un filo di voce. «Non dirmi che non l'hai capito».
Ci fu un'altra lunga pausa. Il mio respiro era diventato affannoso, il cuore batteva con forza tale che lo sentivo rimbombare nelle orecchie, i miei muscoli erano irriggiditi per la tensione.

«Be', io do troppe cose per scontate, a volte. Tu stessa me l'hai fatto notare con quello che è successo sulla spiaggia» disse in tono molto serio.
Presi fiato per parlare. «Stavolta hai ragione».

Lo guardai, incuriosita dalla sua reazione. Continuava a fissarmi con un'espressione seria e intensa, ed era così affascinante che quando parlò di nuovo dovetti concentrarmi per ascoltarlo. «Ricordi quello che ti ho detto quando siamo andati insieme a Port Angeles?»
La domanda mi spiazzò. Annuii, un po' confusa.

«Mi hai detto che io sono una persona molto importante, per te, in questo momento» risposi lentamente. Il ricordo di quella serata mi imbarazzava e mi intristiva al tempo stesso.
«Sì, esatto. E poi ti ho detto che non c'era bisogno di correre, che potevamo prendercela con calma, visto che tu avevi tante cose per la testa. Che potevamo essere amici e basta, per un po'» proseguì Alex, con molta calma. «Io... credevo veramente che fosse possibile, allora, ma... non ce la faccio più».
«Non ce la fai più a fare cosa?»
«A starti accanto solo come amico» disse, e il mio cuore fece un balzo. «So che mi hai chiesto del tempo e io ti ho detto che avrei aspettato. L'ho giurato a me stesso, ma non hai idea di quanto sia... difficile. Ogni volta che siamo insieme, ogni volta che ti parlo, che ti sfioro, che ti guardo, io vorrei qualcosa di più. E non è onesto nei tuoi confronti. Devi sapere chiaramente quello che provo per te. Sono giorni che penso di dirtelo, ma non trovavo mai l'occasione giusta. Io ti voglio, Renesmee, e non come amica. Voglio che tu sia la mia ragazza».
Nella radura scese il silenzio, un silenzio così profondo che mi veniva spontaneo trattenere il respiro, per non disturbarlo. Ecco, ci eravamo arrivati. Era il momento di prendere una decisione, di dirgli qualcosa, qualunque cosa, ma non riuscivo a spiccicare una parola. La lingua sembrava incollata al palato. Me ne stavo lì, immobile, a fissarlo negli occhi, probabilmente con un'aria molto poco intelligente, nella testa un unico, martellante pensiero.
Che cosa faccio?
Sapevo quello che il mio cuore avrebbe desiderato, ma forse non era la cosa giusta. Che senso avrebbe avuto dirgli di sì? Che senso ha costruire una storia sulla menzogna e sull'inganno? Non vuol dire condannarla fin dal principio al fallimento?
Che cosa faccio?
A un tratto mi resi conto di quanto fossimo vicini. Troppo vicini. Ebbi un flash improvviso di noi due in quella stessa posizione, nella sua stanza, appena due settimane prima, e credetti di intuire cosa stava per succedere. D'istinto mi spostai e mi lasciai cadere all'indietro sull'erba, a pancia in su. Non potevo lasciare che accadesse: baciarlo in quel momento sarebbe stato come dirgli di sì, ma ancora non riuscivo a decidere. La sua espressione divenne esasperata, mentre mi guardava. Sorrise e sospirò d'impazienza.
«Non potrai sfuggirmi per sempre» disse quasi canticchiando. La stessa frase che mi aveva rivolto il giorno prima, in mensa, mentre discutevamo della cena dai nonni.
«Non sto scappando. Sono qui, ho solo cambiato posizione» borbottai.
Lui ridacchiò. «Immagino sia già un passo avanti».
«Scommetto che nessuna delle tue ragazze è mai scappata dopo un bacio» aggiunsi dopo qualche secondo, divertita da quell'idea.
«Le mie ragazze?» ripetè, con tono sconvolto. «Oddio, ma cosa dicono di me in quella scuola? Quali ragazze?»
Aggrottai la fronte, interdetta. «Le tue ragazze. Ex ragazze o... attuali ragazze... Io che ne so, scusa?»
Scosse la testa, evidentemente seccato, ma anche piuttosto divertito. «Renesmee, io ho avuto una sola ragazza» dichiarò. «Ne ho baciata qualcuna in più, è vero, ma la maggior parte delle volte non ero perfettamente sobrio e non ricordo granchè, quindi in sostanza è come se non le avessi mai baciate. Ho avuto soltanto una storia. Una, non un milione».
«Oh» esclamai. Ero così confusa e sopresa da quella rivelazione che non trovai altro da dire. Era la verità? O cercava solo di tranquillizzarmi? Ci pensai un po' su. «Una sola ragazza?» ripetei, e il mio tono suonò ben più scettico di quanto avrei desiderato.
Alex alzò gli occhi al cielo, quasi ridendo. «Una sola. Giuro. Non raccontarlo in giro, però. Potrebbe nuocere alla mia fama di Don Giovanni».
«Oh. Okay. Ehm... Dimmi qualcosa di lei, allora».
Mi guardò e scoppiò a ridere. «Sei gelosa, Scheggia!»
«Cosa? No!» protestai, indignata. «Che c'entra la gelosia? Tu sai tutto di me, da quel punto di vista».
«Ma se non c'era niente da raccontare!» esclamò, ancora scosso da quelle sciocche risate senza ragione.
«Be', ora tu sai che non c'è niente da raccontare, ma anche io ho il diritto di sapere, non trovi? E basta con quel soprannome!»
Finalmente si calmò. Si allungò meglio sull'erba, la testa appoggiata al palmo della mano. «Ok, ok, hai ragione. Vuoi sapere di questa ragazza?». Annuii. Lui fece un respiro profondo. «In realtà ti ho già parlato di lei. È Madison».
Caddi dalle nuvole. Sgranai gli occhi, mentre Alex mi fissava attentamente, così sorpresa che per circa un minuto non riuscii a formulare alcun pensiero coerente. Cercai di ripescare dalla memoria le poche cose che mi aveva raccontato di lei. Forse avrei dovuto capirlo prima, da come ne parlava. 
«Madison? La tua migliore amica?»
A un tratto era diventato molto serio. «Sì. Più o meno un anno fa, ho smesso di... fare il pazzo, diciamo. In quel periodo lei mi era stata molto vicino, più di chiunque altro, e il nostro legame era diventato ancora più forte. Così, quando mi sono dato una calmata, ci siamo accorti che c'era qualcosa di più. Anzi, prima ancora che ce ne accorgessimo c'era già. All'inizio... be', eravamo troppo sorpresi per pensarci su, farci delle domande e... trovare delle risposte». Accennò un piccolo sorriso che si spense subito. «Ma poi la cosa è diventata seria. O almeno, avrebbe potuto diventarlo».
Rimase zitto, e attesi a lungo che riprendesse a parlare, ma inutilmente. «Cos'è successo?» domandai, timorosa, a voce bassissima.
«Ci siamo lasciati» rispose con uno strano tono, quasi noncurante.
«Chi lo ha deciso?»
«È stata lei, quando Julie ha cominciato a parlare del trasferimento. Verso Natale. Disse che mantenere in piedi una storia da una parte all'altra del paese era ridicolo». Di nuovo accennò un mezzo sorriso, anche se un po' amaro. Forse in quel racconto c'era qualcosa di buffo che io non potevo sapere. «Così abbiamo chiuso».

«Siete rimasti amici?»
«Abbiamo deciso di provarci. Io le voglio ancora un bene incredibile e immagino che per Madison sia la stessa cosa. In fondo siamo cresciuti insieme, e questo non si può cancellare». Mentre parlava, prese a giocare con un fiorellino giallo in mezzo a noi. «Però la lontananza... e quello che è successo tra me e te... sono cose che hanno il loro peso, credo. Se ora tornassi a casa e riprendessi la mia vita di prima, non so che situazione troverei. Le cose cambiano».
«Già» risposi in un sussurro appena udibile, ed entrambi tacemmo per qualche istante. Avevo la sensazione che un velo di tristezza fosse sceso su di noi. All'improvviso mi venne in mente una cosa. «Madison sa di me?»
Alex mi lanciò un'occhiata rapidissima, poi tornò a concentrarsi sul fiore. «Anche se io non le raccontassi tutto spontaneamente, lo capirebbe comunque. A lei non posso mentire, nemmeno a distanza. Non ci sono mai riuscito».
La risposta era ambigua, ma mi parve di capire che Madison non fosse del tutto all'oscuro della mia esistenza. Cercai di immaginarla, senza grande successo. Senz'altro doveva essere bellissima. Provai una fitta di disagio, e tentai di distrarmi per scacciarla.
«Tu avresti voluto restare con lei?» domandai.
Lui sospirò appena. «Sinceramente non lo so. Se me lo avessi chiesto un mese fa ti avrei detto di sì, però... forse doveva andare così e basta. Forse non era destino. Sai, mia madre diceva che da una cosa che finisce ne nasce sempre un'altra» aggiunse, con un improvviso scatto di vivacità. Mi rivolse un sorriso insinuante. «Forse aveva ragione».
Arrossii sotto il peso del suo sguardo intenso. Che fosse allegro o triste, concentrato o distratto, aspro o gentile, era uno sguardo che non dava scampo.
«Ogni cosa è destinata a finire, anche quelle più belle. Me l'hai detto tu, ricordi?»
«Certo. Ma questo non significa che non valga la pena di viverle, anzi. Forse è proprio la loro fugacità che le rende così preziose. Così incredibilmente belle».
Abbassai lo sguardo, a disagio. Alludeva a noi, lo sapevo. Voleva spronarmi a decidere, e a decidere di dirgli di sì.
Dentro di me ascoltavo le sue parole rapita e una voce mi spingeva ad assecondarlo, mi sussurrava all'orecchio di scivolare tra le sue braccia, di lasciarmi baciare e accarezzare, di sentire la sua pelle fresca sotto le mie dita, i suoi capelli sottili, le sue labbra morbide e sensuali. All'improvviso mi resi conto che stavo trattenendo il respiro e che fissavo Alex come ipnotizzata. Inquieta, cercai di riprendere il controllo. Mi sollevai, scivolando sulle ginocchia e poggiando le mani sull'erba soffice.
«E se neanche per noi fosse destino?» chiesi, sforzandomi di sembrare tranquilla.
Alex ridacchiò. «Ehi, forse ho esagerato con questa storia del destino. Insomma, io ho sedici anni, tu quindici. È un po' presto per fare questi discorsi, non ti pare? E comunque non puoi saperlo, Renesmee. Non puoi sapere in anticipo se funzionerà o meno. Possiamo solo provarci e fare del nostro meglio». Anche lui parlava con tono leggero, ma sentivo che era estremamente serio e concentrato.
Rimuginai sulle sue parole. Lasciarsi andare, provarci e basta, non pensare al futuro... Sì, questo avrebbe fatto una quindicenne qualunque. Ma io non ero una quindicenne qualunque, io non potevo farlo. Ero una Cullen e una mezza vampira. Non potevo permettermi di agire senza pensare alle conseguenze: avevo un segreto da proteggere, una famiglia da proteggere. Per quanto fossi arrabbiata con loro, non avrei mai, mai dimenticato chi ero. E Alex... Alex sembrava capirmi così a fondo. Se fossimo stati così vicini, sarei riuscita a nascondere la vera me stessa a quegli occhi intensi e penetranti? Una storia con un essere umano... Non era ridicolo, una follia? Dovevo fermare la nostra corsa e tornare indietro prima che fosse troppo tardi?
«Smettila di chiamarmi Scheggia» dissi lentamente, scandendo una parola dopo l'altra. Ormai mi ero abituata a quello stupido soprannome, tanto che spesso non ci facevo nemmeno più caso, ma ogni tanto protestavo per puro spirito di contraddizione. E in quel caso specifico, per prendere tempo.
Alex fece un ghigno perfido. «Mai. Rassegnati» rispose con aria trionfante. Sapeva che alla fine avrebbe vinto lui, sul soprannome e su tutto il resto.
Forse non potevo più tornare indietro. Forse avevamo passato il confine già da tempo. Forse quella che stavamo percorrendo era sempre stata l'unica strada, per noi due, fin dall'inizio. Forse era destino. Un destino che avevo scelto io, però. Io, non una stupida magia. Feci un profondo respiro.
«Non dovresti prendere in giro così la tua ragazza» sussurrai, gli occhi fissi a terra. Non osavo sollevarli per scoprire che espressione avesse.
Alex si tirò su a sedere, avvicinandosi a me, la testa un po' inclinata da un lato. «Però tu non sei la mia ragazza, giusto?». Dalla voce mi sembrò che stesse sorridendo. «Eh, Scheggia?» aggiunse piano, con incredibile dolcezza. Quella dolcezza improvvisa e spiazzante che mi aveva incantata dal primo momento.

Avrei voluto rispondere, ma sentivo la lingua attorcigliata, la gola secca, il cuore a mille, il fiato corto, quelle dannate rane nello stomaco... Sollevai gli occhi e lo guardai, in silenzio, senza pronunciare nemmeno una sillaba, eppure lui sembrò cogliere tutto ciò che avrei voluto dirgli. Il suo sorriso si spense e il volto tornò accigliato, come se stesse affrontando una questione della massima serietà. Chissà come mai mi veniva da ridere, ma mi trattenni; avevo il sospetto che ridergli in faccia in quel momento sarebbe stata una grande idea.
Lentamente, molto lentamente, prese ad avvicinarsi a me, senza distogliere lo sguardo dal mio. Ecco, stava per farlo di nuovo. Una scarica di adrenalina mi incendiò le vene e quasi tremai per l'eccitazione improvvisa. Forse Alex scambiò quel sussulto per timore, fastidio o indecisione. Si bloccò di colpo.
«Non vorrai scappare di nuovo, vero?» chiese, la voce talmente bassa che era appena udibile.
Percepii un filo d'ansia sotto la consueta ironia, sottile, ma penetrante. La cosa mi sorprese. Alexander-Don-Giovanni-Hayden era nervoso? Accennai appena un sorriso.

«Non scappo» bisbigliai.
I nostri volti erano vicinissimi. Aveva delle ciglia così lunghe, curve e perfette da sembrare disegnate. E se il bacio non gli fosse piaciuto? E se non fossi stata all'altezza? Cercai in fretta di ricordare i suggerimenti di Jas, ma senza successo. La mia mente era come svuotata. Tesa, spaventata e felice al tempo stesso, chiusi gli occhi quasi nell'esatto istante in cui le sue labbra toccavano le mie.
Questo sarà un bel problema, fu l'ultimo pensiero razionale prima di arrendermi.








Note.

1. Link.
2. Questa poesia è meravigliosa, vi consiglio di leggerla qui. Avrei voluto citarla per intero, ma è troppo lunga.











Spazio autrice.
Finalmente Renesmee e Alex sono una coppia! Questo capitolo mi è sempre sembrato molto dolce e tenero, in particolare durante la scena della radura, che è stata pensata come un piccolo omaggio a Edward e Bella; la loro storia giunge ad una svolta fondamentale proprio mentre sono insieme alla radura, in Twilight, e mi piaceva immaginare che per Renesmee e la sua relazione con Alex fosse accaduta la stessa cosa. Mi fa sempre sorridere la lunga conversazione tra i due e il modo in cui finalmente arrivano alla stessa conclusione, un passo dopo l'altro. Be', insomma, spero che sia piaciuto anche a voi. So che alcune lettrici aspettano questo momento da diciotto, lunghissimi capitoli, e spero che non vi abbia deluse. Come al solito, se avete domande, dubbi, curiosità o riflessioni da condividere con me e gli altri lettori, sarò molto felice di ascoltarvi. Grazie, a mercoledì prossimo!





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Capitolo 19
*** Stop crying your heart out ***


C 19
Capitolo 19
Stop crying your heart out


Get up (get up)

Come on (come on)
Why you're scared? (I'm not scared)
You'll never change
What's been and gone.
Cos all of the stars
Are fading away
Just try not to worry
You'll see them some day
And be on your way
And stop crying your heart out.
Stop crying your heart out, Oasis¹



Chi guarda un vero amico, in realtà, è come se si guardasse in uno specchio.
MARCO TULLIO CICERONE, Sull'amicizia





Nei primi giorni dopo quel sabato alla radura, passai la maggior parte del mio tempo con Alex. Jas e Holly mi bersagliavano di battutine e frecciatine all'impazzata dicendo che ormai non avevo più tempo per loro, ma in quel momento nulla sarebbe riuscito a scalfire il mio entusiasmo. Il contrasto tra l'abbattimento che mi aveva accompagnato nell'ultimo periodo e il mio nuovo stato d'animo era sorprendente: mi sembrava di camminare a due metri da terra e quando Alex era nelle vicinanze arrivavo anche a tre metri. In quella situazione, perchè mai non avrei dovuto vederlo ogni volta che era possibile?
Oltre le ore scolastiche, ci incontravamo a casa sua o a casa mia. Julie si abituò in fretta alla mia presenza: occhiate indagatrici a parte, era simpatica, sveglia e disponibile, e l'evidente miglioramento nell'umore di Alex, il fatto che si stesse finalmente costruendo una nuova vita, la rendeva soddisfatta. Era divertente trascorrere le serata a cena da loro, e poi guardare un film o fare giochi di società tutti e quattro insieme, noi tre e Phoebe, che era una ragazzina adorabile. Le piaceva stare con i grandi, sebbene le sue giornate fossero sempre piene di impegni: studiava, leggeva, suonava il violino, disegnava, dipingeva acquerelli, guardava documentari scientifici in televisione e seguiva un mucchio di corsi extra scolastici. Era una specie di genietto, ma così dolce e affettuosa che era sempre un piacere stare con lei.
Mentre nella loro villetta immersa nel verde trascorrevamo ore allegre e spensierate, stare a casa mia era un altro paio di maniche. Charlie era ormai rassicurato sul fatto che Alex non fosse una specie di criminale e riusciva addirittura a sorridergli e a scambiare qualche parola quando si incontravano, ma ciò non significava affatto che avesse abbassato la guardia: il cipiglio da investigatore con cui accoglieva il mio ragazzo era quasi comico, sbirciava dalle finestre quando io ed Alex eravamo sotto il portico convinto che non lo vedessimo, e se ci chiudevamo nella mia stanza trovava ogni genere di scusa per entrare a intervalli di dieci minuti e controllare le nostre attività. Non avevo avuto il fegato di dirgli chiaro e tondo che mi ero messa con Alex, ma non ci voleva tanto ad arrivarci, e la cosa evidentemente lo terrorizzava. Se non avessi saputo che si comportava così solo perchè spinto dall'ansia e dal desiderio di prendersi cura della sua nipotina, e se non fossi già stata abituata agli atteggiamenti asfissianti della mia famiglia, forse non l'avrei sopportato e gli avrei fatto una scenata. Per giunta, ero piuttosto sicura che avesse raccontato ogni cosa alla mamma, compresa la storia della cena, sebbene lei non ne facesse parola durante le nostre brevi conversazioni telefoniche.
Questa situazione costringeva me ed Alex a stare all'erta: quando Charlie era nei paraggi, badavamo a sfiorarci il meno possibile. Nella villetta di sua zia potevamo goderci un po' più di libertà, perchè Julie era piuttosto tollerante da questo punto di vista e Phoebe era sempre troppo presa dalle sue faccende per venire a curiosare nella stanza di Alex.
Ciò nonostante, non facevamo assolutamente nulla che confermasse le paure di Charlie. Per la maggior parte del tempo eravamo impegnati in lunghe, intense sedute di baci, ma non andavamo oltre. 
Spesso parlavamo oppure io leggevo mentre lui disegnava. Stare insieme mi faceva bene, qualunque cosa facessimo. A volte la tentazione di prenderlo a schiaffi e chiudergli in qualche modo quella boccaccia era più forte della tentazione di baciarlo, eppure non avrei mai potuto fare a meno di lui. Non che avessi dimenticato i miei problemi, ma anche semplicemente ridere delle sue battute, o stare chiusi insieme in una stanza ad ascoltare musica era di grande aiuto.
Non avevo mai pensato che gioia e tristezza potessero convivere fiano a fianco nel cuore di una persona, eppure mi sentivo esattamente così. Ogni tanto qualcosa faceva pendere l'ago della bilancia un po' più verso uno dei due estremi, come se fossi stata su un'altalena; ma quando ero con Alex l'ago tendeva a bloccarsi in zona felicità, ecco perchè cercavo spontaneamente di trascorrere insieme a lui tutto il tempo che potevo. Dopo i primi giorni, però, mi sforzai di creare un equilibrio. L'ultima cosa che volevo era trascurare le mie amiche e che loro ci restassero male sul serio.
Il sabato successivo alla gita alla radura, quando ero ancora piuttosto su di giri ma cominciavo a riacquistare il controllo, trascorsi tutta la mattina a casa di Maggie per lavorare con lei a un progetto di biologia. A un certo punto si unì a noi anche Tom, che frequentava il nostro stesso corso di biologia, affermando che tre teste sarebbero state meglio di due, ma poi si limitò a copiare i nostri compiti, guardare la tv sgranocchiando patatine e lamentarsi di Jas, che a suo dire lo maltrattava perchè pretendeva che lui la accompagnasse al cinema il giorno dopo invece di lasciarlo giocare a calcio. Finimmo con il pranzare entrambi da Maggie, dal momento che i suoi genitori erano via, poi tornai a casa in tutta fretta; quella sera ero stata invitata a cena da Jas, ma sua madre sarebbe stata presente, e ormai sapevo benissimo che le cene della signora Williams finivano sempre con il trasformarsi in una specie di evento mondano. Mi occorreva un po' di tempo per prepararmi e prima di uscire volevo chiamare Alex per un saluto veloce.
Entrai in casa, leggermente trafelata, e mi affacciai sulla soglia della cucina, sentendo delle voci. Sue era seduta al tavolo, impegnata a scrivere qualcosa, Charlie in piedi alle sue spalle.
«Ciao!» 
«Ehi, piccola» esclamò il nonno. «Com'è andato lo studio?»
«Tutto okay. Abbiamo finito la ricerca».
«Bene, bene». Si diresse verso il frigo, aprì lo sportello e gettò un'occhiata all'interno. «Sue, che ne dici del salmone al forno? È un po' che non lo mangiamo».
Lei fece un sorriso ampio e divertito. «L'ho preparato domenica scorsa, Charlie».
«Davvero? Ehm... Be', allora vogliamo provare quella vecchia ricetta di mia madre?»
Sua moglie lo fissò inarcando le sopracciglia. «Charlie, non possiamo mangiare salmone tutti i week-end» disse, con il tono di chi si rivolge a un bambino che fa i capricci.
Sorridendo, mi versai un bicchierone d'acqua. Non era la prima volta che li sentivo discutere per via di divergenze culinarie.
«Noi non mangiamo salmone tutti i week-end» protestò il nonno con aria innocente, ma poi l'espressione di Sue lo costrinse a ripensarci. «Che c'è di male, scusa? La ricetta  del salmone gratinato con funghi e patate è in famiglia da... quante generazioni, Ness?»
«Tre» risposi diligentemente prima di attaccarmi al mio bicchiere e mandarlo giù tutto d'un fiato; stavo morendo di sete.
Il nonno mi rivolse un sorriso compiaciuto. «Brava la mia nipotina».
«Ma non possiamo mangiarlo tutti i week-end» protestò Sue con un'occhiata eloquente e l'aria esasperata.
«Sono d'accordo» intervenni, divertita dal bettibecco. «Forse dovresti trovarti un nuovo hobby invece di andare a pesca ogni settimana: il trekking, il birdwatching...»
Il nonno sospirò. «Be', vedo che siete più forti di me. Ma Seth non mangia il tuo salmone da un bel po', sono sicuro che gli avrebbe fatto piacere».
Sollevai la testa di scatto. «Seth?»
«Sì, viene a cena da noi, stasera» spiegò Charlie, continuando a sbirciare nel frigo.
Lo fissai a bocca aperta, sconvolta dalla notizia, ma lui non poteva vedermi, chino dietro lo sportello del frigo. Seth? Seth a cena da noi? Quella sera? Come? Perchè?
«È stata una sua idea». La voce di Sue mi fece sobbalzare. La guardai, e mi accorsi che era vagamente preoccupata. «Ha insistito molto» aggiunse, esitante.
Cosa? E perchè mai? Che intenzioni aveva?
«Nessie? Nessie!». Mi resi conto che Charlie mi stava chiamando e lentamente tornai a prestare attenzione alla realtà. Lui mi osservava con aria interrogativa, una confezione di olive snocciolate tra le mani. «Nessie? Tutto bene?»
«Sì» borbottai. «Ehm... Il fatto è che... avevo un impegno, stasera».
Charlie affilò lo sguardo. «Ti vedi con Alex?»
Sospirai, alquanto seccata dal suo modo di fare. «No, vado a cena da Jas, ricordi?»
Annuì, visibilmente rilassato; prese un'oliva e se l'infilò in bocca. «Credo che dovresti rimandare, piccola. Sarebbe molto scortese se Seth non ti trovasse qui. E comunque non vi vedete da una vita, non ti fa piacere stare un po' con lui?»
Gli rivolsi un sorriso tirato. Certo, come no. Non desideravo altro che una bella chiacchierata con Seth. Sarebbe stato fantastico. Prima che potessi pensare a cosa dire, intervenne Sue.
«Charlie, Nessie non deve rinunciare ai suoi impegni se non le va» disse con cautela. «Può benissimo andare da Jas, vedrà Seth un'altra volta».
Lui mi guardò con aria perplessa, incerta, e fu quell'espressione a convincermi. Charlie non sapeva che il litigio con i miei includeva in qualche modo anche Jacob e gli altri miei amici di La Push. Io non avevo mai accennato alla cosa e se la mamma lo aveva fatto era senz'altro rimasta sul vago. Però non era uno stupido e tre settimane senza neanche una telefonata tra me e Jacob, quando eravamo sempre stati inseparabili, lo avevano sicuramente insospettito. Aggiungere alla lunga lista di cose strane con cui doveva fare i conti una mia fuga da casa per non incontrare Seth sarebbe stato troppo. Non potevo rischiare che si mettesse a fare domande solo per colpa di un mio capriccio. In fondo era soltanto una cena. Potevo resistere e fingere che andasse tutto bene per un paio d'ore, giusto?
«No» mormorai, guardando il pavimento. «No, non fa niente, Sue. Resto qui, non è un problema».
Uscii velocemente dalla cucina per evitare che ricominciassero a parlarne e mi chiusi nella mia stanza, piuttosto agitata. Questo improvviso desiderio di Seth di cenare con noi era incomprensibile: non era certo il momento migliore per una cenetta in famiglia, vedeva sua madre quasi ogni giorno a La Push e se avesse voluto parlare con Charlie gli sarebbe bastato andare in centrale, informarsi sulla sua prossima visita a Billy o semplicemente fargli una telefonata.
Doveva esserci qualcosa sotto, ne ero sicura. Ma cosa? Che diavolo stava architettando? Era una sua iniziativa oppure c'entrava Jacob? Sentii un'improvvisa fitta di ansia allo stomaco. Non ero pronta. Non ero pronta ad affrontare di nuovo la situazione che mi ero lasciata alle spalle. Ero riuscita a chiuderla fuori dalla porta, ma ecco che rientrava prepotentemente dalla finestra, proprio adesso che mi sembrava di aver ritrovato un po' di tranquillità. Eppure dovevo farcela, superare quella serata... per Charlie.

Chiamai Jas per informarla che il nostro incontro era cancellato e all'inizio non credette alla faccenda della cena in famiglia. Era convinta che la stessi bidonando per vedermi con Alex. Solo quando mi offrii di passarle Charlie per sentire la storia dalla sua bocca finalmente si arrese: figurarsi se lui avrebbe mai raccontato una bugia per permettermi di incontrare il mio ragazzo.
«È odioso che tu abbia dato buca alla tua migliore amica» disse con tono ostentatamente seccato, «ma sostituire la mia cena con una cena in famiglia è ancora più imperdonabile».
Sbuffai mentre aprivo l'armadio e gettavo uno sguardo al contenuto nel tentativo di decidere che cosa indossare. «Se potessi la eviterei più che volentieri, credimi».
«Tu e Seth non eravate amici?»
Certo. Amiconi, come no. A parte il piccolo dettaglio che anche lui aveva tranquillamente preso parte alla messinscena di famiglia. «Sì, be'... lo siamo, ma... non ci sentiamo da un po'» brontolai, tamburellando nervosamente con le unghie sull'anta dell'armadio.
«Mm, capisco. E la festa di Holly? Non abbiamo ancora organizzato niente, ti rendi conto?» continuò con tono leggermente isterico. Tra due settimane Holly avrebbe compiuto sedici anni, voleva a tutti i costi una festa originale e dopo un'infinità di discussioni, idee scartate e riprese in continuazione, aveva deciso per una serata a tema anni Cinquanta.
«Sì, lo so» mugugnai.
«Facciamo così: domani niente scuse, ti voglio qui. Puoi pranzare a casa mia, così parliamo dei vestiti, okay? Dobbiamo lavorarci con attenzione, Renesmee. Voglio sembrare la sosia di Olivia Newton-John in "Grease"², non la sua brutta copia».
«Okay» risposi con un sospiro. «Sosia, non brutta copia, capito. Ne parliamo domani, allora».
«Perfetto» esclamò, decisamente soddisfatta. Fece una breve pausa. «Be', senti, visto che sono la tua migliore amica... in fondo è meglio che tu non venga, stasera».
«Come mai?»
«Mia madre ha ordinato una cena a base di tofu».
«Bleah» commentai, storcendo il naso. «Ancora? Pensavo che la fase del tofu fosse passata».
«E invece no. È tutta colpa del suo istruttore di pilates se le vengono queste manie alimentari. E per giunta si aspetta che io la segua! Ricordi quando pretendeva che a colazione bevessi soltanto succo di pomodoro?».
Eccome se lo ricordavo: per giorni e giorni Jas aveva fatto colazione grazie a me e alle altre, che le portavamo ogni mattina qualcosa da mangiare a scuola. Scoppiai a ridere e un po' del malumore sembrò andarsene. Ma avrei preferito mangiare tofu per un mese piuttosto che dover affrontare quella serata.
Salutai Jas e feci una rapida telefonata ad Alex, poi iniziai a prepararmi, con così scarso entusiasmo che se qualcuno mi avesse visto avrebbe pensato che ero diretta a una veglia funebre. Ogni tanto mi gettavo un'occhiata nello specchio e mi dicevo che fingere di essere tranquilla e serena sarebbe stata una bella impresa. Charlie non ci sarebbe cascato, stavolta. In realtà non ci cascava quasi mai. Il sospetto che io e sua figlia gli raccontassimo un sacco di bugie lo sfiorava più spesso di quanto lasciasse trapelare... Il punto non era
se avrebbe capito, ma se avrebbe deciso di affrontare la questione con me.
Ero seduta davanti allo specchio, impegnata a legarmi i capelli in una mezza coda, quando sentii un'auto avvicinarsi e parcheggiare. Rimasi dov'ero, tesa e immobile, guardando il mio riflesso allo specchio. Le labbra rosse, gli occhi castani, i boccoli ramati, risaltavano contro il volto stranamente pallido; solo sulle guance un tocco di colore.
Seth bussò alla porta, qualcuno aprì e una serie di allegri saluti e convenevoli giunse fino a me. Il nonno mi chiamò, ma io non mi mossi. Speravo che il mio ritardo facesse intuire a Seth quale fosse il mio umore, quella sera, e cosa pensassi della sua visita. Passò qualche secondo, Seth fece una battuta e Charlie scoppiò a ridere.
«Nessie!» chiamò di nuovo, tra le risate. «Ehi, Ness, scendi o no?»
Non potevo più aspettare. Scattai in piedi e uscii dalla stanza. In cima alle scale mi fermai un istante, feci un bel respiro profondo. Un intenso odore di licantropo, che non sentivo da settimane, mi colpì all'improvviso.
Avanti, Renesmee. Dov'è finita la mezza vampira che è in te?
Scrollai la testa e con passo calmo, ma spedito, scesi le scale, saldamente attaccata al corrimano come a una specie di sostegno. Erano tutti e tre nel salottino. Seth, che torreggiava sugli altri due, mi guardò e sorrise.
«Ehi, Nessie!» esclamò. «È bello rivederti».
«Ciao» risposi.
Okay. Prima prova: bocciata. Non ero riuscita nemmeno a salutarlo senza attirarmi uno sguardo perplesso da parte di Charlie. Grandioso. Ero seriamente tentata di girarmi e correre di nuovo di sopra. Il sorriso di Seth si spense lentamente davanti alla mia espressione, come le braci di un fuoco muoiono con una secchiata di acqua fredda.

«Sei cresciuta» constatò, un po' esitante.
«Succede» risposi, sforzandomi di sembrare più naturale.
Seguì qualche secondo di silenzio di tomba, poi Sue si decisa a dire qualcosa. «Allora... andiamo a tavola? Forza, la cena si raffredda».
Il nonno le cinse le spalle con un braccio. «Sì, andiamo. Venite, ragazzi».
Uscirono dal salotto. Feci per seguirli, ma la voce di Seth mi fermò. «Nessie, aspetta!» esclamò, la voce leggermente ansiosa. «Aspetta... Sei arrabbiata, vero? Posso capirlo, sai? Ti capisco, davvero, ma...»
Interruppi il suo discorso voltandomi di scatto a guardarlo. «Senti, chiariamo subito una cosa. Questa è casa di tua madre e hai tutto il diritto di venire qui. Non so che intenzioni tu abbia, ma sappi che l'unico motivo per cui partecipo a questa stupida cena è Charlie: non voglio che pensi che ci sia qualcosa di strano. Ma non è cambiato niente ed io e te non dobbiamo fare gli amici».
Mi aveva ascoltato in silenzio, gli occhi grandi e scuri carichi di tristezza fissi nei miei. «Non lo siamo più, allora? Amici, intendo dire».
Mentre ci fissavamo, mi parve che la sua tristezza contagiasse anche me. Eravamo stati così uniti, io e lui. Tra i licantropi, era il mio migliore amico dopo Jacob. Avevo sempre amato la sua dolcezza, la sua spontaneità, la sua lealtà, e adesso... riuscivo soltanto a pensare alle bugie che mi aveva raccontato, come tutti gli altri. Se un'amicizia nasce tra le menzogne, può essere definita tale?
«Sinceramente, Seth... non so se lo siamo mai stati davvero».
Mi girai e uscii dalla stanza a passo svelto, sperando che non insistesse. Non lo fece. Poco dopo mi seguì in cucina e si unì a me mentre apparecchiavo la tavola senza più rivolgermi la parola, lo sguardo basso e grave. Forse lo avevo ferito con le mie parole, ma quando iniziammo a cenare il suo umore tornò improvvisamente allegro e tranquillo; anche lui si rendeva conto di quanto fosse importante la facciata da mantenere in presenza di Charlie. Badavo a guardare nella sua direzione il meno possibile, ma un paio di volte lo sorprendevo a fissarmi, con quella stessa espressione addolorata, e la cosa mi infastidiva da morire.
Ma che diavolo voleva da me? Era venuto solo per verificare che fossi ancora arrabbiata? Impossibile. Doveva esserci un secondo fine, ma quale? Ero così impegnata a pensarci da prestare pochissima attenzione alle chiacchiere punteggiate da risate degli altri tre, ma a un tratto afferrai il nome di Claire, e subito mi sforzai di ascoltare, incuriosita.
«Ormai passa quasi tutto il tempo a La Push e ogni volta che sua madre viene a riprenderla è una specie di dramma! Credo che Sam ed Emily dovranno adottarla» stava raccontando Seth, con tono palesemente divertito.
Charlie rise. «Be', a quanto pare alla riserva c'è qualcosa che le interessa molto» esclamò.
Sollevai gli occhi di scatto, turbata dalla conversazione, e incrociai quelli di Seth. Mi stava fissando con espressione seria. «Sì, a quanto pare sì» rispose, tranquillo.
Ressi il suo sguardo per diversi secondi, poi mi sentii arrossire rapidamente, come se fossi stata accanto a un fuoco, e tornai a fissare il mio piatto, ancora quasi pieno. Presi di nuovo la forchetta e iniziai a giocherellare distrattamente con il cibo. Seth ricominciò a parlare.
«Ultimamente è ossessionata dai cartoni animati. Li guarda di continuo, in dvd, e costringe chiunque si trovi a passare di lì a tenerle compagnia. Non sapete quante volte Quil è rimasto incastrato!». Risero di nuovo. Lo vedevo fin troppo bene, davanti ai miei occhi, Quil che passava interi pomeriggi a guardare i cartoni in tv; mi ricordava qualcuno. «Mi sa che tra un po' Emily brucerà quei dvd... non ne può più delle canzoni della Sirenetta!»
«Accidenti!» commentò Charlie, mentre ancora rideva.
«Penso sia solo una fase» disse Sue.
«Immagino di sì» rispose Seth. Poi fece una breve pausa. «Ci sei passata, Nessie, te lo ricordi?». Sussultai e la mia forchetta tintinnò contro il piatto. Non risposi, ma gli piantai di nuovo gli occhi in faccia, irritata e confusa, cercando di capire a quale gioco stesse giocando. Lui proseguì. «E anche tu volevi sempre che Jake li guardasse con te. Però è durata poco, vero? Non ti è mai piaciuto tanto guardare la tv. Preferivi mille volte di più giocare con Jacob. E non lo mollavi mai. Ogni sera doveva aspettare che tu ti addormentassi per andarsene; prima non sarebbe stato possibile. Eravate sempre incollati. Te lo ricordi?»
Quando tacque, nella cucina scese il silenzio. Continuavo a guardarlo senza riuscire a spiccicare una parola, e lui mi guardava a sua volta. Non potevo credere che dopo il modo in cui si era comportato con me fosse venuto lì a stuzzicarmi e a ferirmi con quel tuffo nel passato... Era troppo. Non avrei sopportato di stare lì seduta un secondo di più.
«Scusatemi» sibilai.
Colsi di sfuggita l'espressione sgomenta di Charlie mentre gettavo via il tovagliolo, scattavo in piedi e mi precipitavo fuori dalla cucina. Alle mie spalle sentii uno mormorio indistinto e una sedia che si spostava. Seth mi stava seguendo. Maledizione! In cima alle scale mi voltai ad affrontarlo, furiosa.

«Che cosa vuoi?» sbottai e il mio tono sorprese perfino me stessa. Non ero mai stata una persona aggressiva in tutta la mia vita, ma quella sera ero davvero fuori dai gangheri. Lui aprì la bocca per rispondere, ma non glielo permisi. «Ero stata chiara, Seth! Io avrei fatto finta di nulla se tu avessi fatto finta di nulla! Che cavolo significa... Che cosa pensi di ottenere...». Ero così arrabbiata che non riuscivo a trovare le parole.
«Niente, Nessie, io... non volevo ferirti, mi dispiace, speravo solo... Volevo capire che diamine ti passa per la testa» si difese Seth, pacato.
Quella frase mi prese in contropiede. Restai disorientata per un attimo. «Non sono affari tuoi».
«Ti sbagli» ribattè con decisione. «Sono tuo amico, ti voglio bene e mi preoccupo per te, quindi , sono affari miei».
«Ti ha mandato Jacob?». Caspita, quanto ero acida. Ovvio che l'avesse mandato Jacob, per convincermi a perdonarlo o chissà cosa.
Scosse il capo. «No, giuro. Nessuno sa che sono qui, tanto meno Jacob: sono ore che non mi trasformo. Certo, prima o poi dovrò farlo e a quel punto Jake mi staccherà la testa a morsi... Ma non ha importanza, se riuscirò ad ottenere qualcosa».
«E io dovrei crederti?»
Seth fece un sospiro leggermente esasperato. «Okay, senti. Chiariamo un paio di cose. Primo: io non ho mai, mai pensato di fare del male a te o alla tua famiglia. Non sono mai stato d'accordo con quello che avevano deciso Sam e il branco e questa è la verità. Secondo: l'imprinting. Ce l'hai con me perchè non te l'ho detto, ma i tuoi genitori hanno deciso così e Jacob era d'accordo. Che cosa avrei dovuto fare? La decisione spettava a loro, non a me nè a nessun altro... E se proprio vuoi saperlo, anch'io credevo che fosse la cosa migliore, all'epoca. Forse hanno aspettato troppo, avrebbero dovuto dirtelo già da un po', ma...»
«Che cosa vuoi, Seth?» chiesi per la seconda volta, ritrovando la voce. Mi sforzai di non gridare. Charlie e Sue erano ancora di sotto e non volevo allarmarli.
«Che diavolo stai combinando? I tuoi genitori sono a pezzi!» esclamò con forza, facendo un passo verso di me. Sobbalzai violentemente; le sue parole ebbero l'impatto di una pesante scure calata all'improvviso su di me. «So che senti Bella per telefono, non puoi non essertene accorta! Eri arrabbiata, okay. Volevi del tempo, l'hai avuto. Ma è arrivato il momento di comportarsi da persona matura. Devi parlare con loro, Renesmee... parlare sul serio, non quelle stupide telefonate. Questa situazione li sta distruggendo e puoi fingere quanto ti pare che la cosa non ti interessi, a me non la dai a bere. E Jacob...» un sorriso triste gli incurvò appena le labbra «... come pensi che stia senza di te?»
Mi sentivo oppressa da un peso insostenibile, come se le sue parole fossero pezzi di cemento che mi piombavano addosso uno dopo l'altro. Respirai profondamente. «Nemmeno questi sono affari tuoi» borbottai, fissando la parete per non dover sostenere il suo sguardo. L'espressione accusatoria che temevo di scorgervi mi spaventava troppo.
«Ti sbagli. Sono miei amici, gli voglio bene e mi preoccupo per loro, quindi , anche questi sono affari miei» mi corresse, ripetendo parola per parola la stessa frase di poco prima. Dio, com'era irritante quando sapeva di essere nel giusto. «Il fatto che soffrano quanto te ti fa stare meglio, per caso? Non mi sembra proprio. So che nella vostra famiglia c'è una certa tendenza al masochismo... ma qui si sfiora l'assurdo, davvero».
«Sto benissimo».
«Dai, Renesmee! Con chi credi di parlare, con il vicino di casa? Ti conosco da quando sei nata, ragazzina, non me la dai a bere» ribattè, ostinato e sicuro di sé.
«Ma che diavolo pretendi da me?» esplosi, esasperata. «Se anche... se anche volessi, io... non posso cambiare le cose. Non posso tornare indietro».
«Non devi tornare indietro, devi andare avanti!»
Stavo per rispondere, quando il mio sguardo incrociò casualmente il suo e le parole mi morirono in gola. Mi stava fissando con espressione dolce e dispiaciuta, senza la minima traccia di accusa. Era davvero preoccupato per me ed io lo stavo trattando malissimo. Mi sentii schifosamente in colpa. E confusa, anche. Aveva ragione. Che cavolo stavo combinando? La domanda che rivolsi a me stessa mi investì in pieno, con la violenza di un treno in corsa. Da settimane me ne andavo in giro inveendo contro la mia famiglia e Jacob, ma... io ero forse migliore di loro? No, per niente. Anzi, ero molto peggio. Io li stavo ferendo deliberatamente. Ero una persona orribile. Mi girava la testa e mi appoggiai alla parete, temendo di non avere un equilibrio saldo. Ero così stanca. Stanca di pensare, stanca di tutta quella storia.
«È facile a dirsi» mormorai. Senz'altro Seth colse un cambiamento, ma fece finta di nulla. «La mia vecchia vita non esiste più. E mi manca».
«Puoi sempre costruirtene una nuova» mormorò dolcemente.
«Ma se tornassi sarebbe tutto diverso. Sono cambiate così tante cose ed io... non so se riuscirei ad affrontarlo». Voltai la testa per nascondergli i miei occhi umidi. Non volevo piangere davanti a lui.
Seth mi si avvicinò e per un attimo pensai che volesse abbracciarmi, ma non lo fece. «Nessuno dice che sia facile. Ma tu sei più forte di quanto immagini, molto più forte, e ce la puoi fare. Andiamo... dov'è finita la bambina coraggiosa che ha affrontato quei succhiasangue italiani guardandoli dritti in faccia?»
«Non lo so» ammisi. «Forse si è persa».
«E tu ritrovala. Sono sicuro che è lì dentro, da qualche parte».
Scossi il capo. Le lacrime scivolarono lungo le guance, ma non me ne preoccupai. «Non è la stessa cosa».
«È vero» mormorò, pensieroso. «Affrontare le persone che ami non è mai facile. Ma a volte è necessario».
«Stai cercando di fare l'amico?» lo provocai, ironica.
«Ti sto dicendo quello che penso, Renesmee. Vedila così, se preferisci». La sua voce suonò incredibilmente triste.
Ecco, adesso mi sentivo ancora più colpevole. Prendermela con qualcuno, con Seth o chiunque altro, era infinitamente più facile che cercare di capire e accettare. Eppure, sembrava che neppure questo avesse più senso, ormai. Non avrebbe portato a nulla. Ma allora cosa dovevo fare?
Dio, che mal di testa. Era come se stesse per scoppiare.
«Okay, adesso me ne vado e ti lascio in pace» disse all'improvviso.
«No, non andartene. Fammi un favore, torna giù e finisci di cenare».
«E tu?»
«Dì a Charlie che ero stanca e sono andata a letto».
«Non sei costretta a rintanarti qui dentro solo perchè ci sono io. Me ne vado subito, se vuoi».
«No, voglio stare da sola» protestai a denti stretti. Non ne potevo davvero più.
«Ma...»
«Per favore, Seth!»
Marciai fino alla mia stanza e mi chiusi la porta alle spalle con un tonfo più violento di quanto volessi. Mi parve che Seth esitasse un poco, poi lo sentii allontanarsi e scendere le scale. Mi augurai che Charlie non pensasse di venire a controllare come stavo, non avrei saputo giustificare in alcun modo le mie lacrime. Mi gettai sul letto, coprendomi la testaa con il cuscino. Non avevo intenzione di addormentarmi subito, ma scivolai presto in un sonno inquieto e leggero.
A un tratto, non avrei saputo dire esattamente quando, mi risvegliai di colpo e schizzai a sedere nel letto, agitata e confusa. Avevo la strana sensazione di non essere sola. Perlustrai la stanza con lo sguardo (dalla luce fredda e grigia capii che era appena l'alba), ma era perfettamente vuota e silenziosa. Tesi le orecchie e colsi solo il respiro di Sue e il russare del nonno nella camera accanto alla mia. Non c'era nessuno, eppure... mi era sembrato di sentire... Che strana sensazione. Cercai di scrollarmela di dosso.
Ero ancora vestita, ma qualcuno, probabilmente Charlie, mi aveva sfilato le scarpe e sistemato addosso la vecchia coperta di pizzo della bisnonna Marie, la madre di Renee. Mentre mi liberavo dell'elastico per capelli e scioglievo la mia mezza coda, feci un respiro profondo e a quel punto la sentii: una scia, non molto forte ma abbastanza chiara. Una scia conosciuta. Anzi, era così familiare che sarei stata in grado di distinguerla anche in mezzo a una folla. Che ci faceva lì? Mi alzai, all'improvviso completamente sveglia, e raggiunsi la finestra, un po' barcollante. Guardai fuori. Il giardinetto di Charlie e la strada erano deserti. Chi aveva lasciato quella traccia era già scomparso. Ma la sensazione che mi aveva svegliato era giusta: qualcuno era entrato nella mia camera, quella notte. E sapevo anche chi. La domanda era... perchè?








Note.
1. Qui la canzone. La adoro!
2. Immagino che la conosciate tutti, comunque eccola qui. Jas è una ragazza ambiziosa xd.

   
   
   
   





Spazio autrice.

E allora, non c'è molto da dire su questo capitolo, mi sembra. Spero che vi sia piaciuto e come al solito vi invito a farmi sapere cosa ne pensate. So che alcune di voi già sentono la mancanza di Alex (ogni riferimento a Bianca Lyra Petrova è puramente casuale... xd), ma non preoccupatevi, perchè presto tornerà e ci sarà una montagna di fluff! Nel frattempo, vi anticipo che il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di Bella. Alla prossima!

   
   

 

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Capitolo 20
*** Lullaby ***


C 20
Capitolo 20
Lullaby


Send a question in the wind
It's hard to know where to begin
So send the question in the wind
And give an answer to a friend
Place your past into a book
Put in everything you ever took
Place your past into a book
Burn the pages, let them cook
And you stood tall
Now you will fall
Don't break the spell
Of a life spent trying to do well.
Lullaby, Sia¹


Non esiste notte tanto lunga da impedire al sole di risorgere.

Anonimo



[BELLA]


   

L'eternità.
Un concetto complesso e interessante. Da quando ero diventata una vampira ci riflettevo su spesso.
All'inizio mi era sembrato un dato puramente oggettivo: sarei vissuta per sempre, un numero di giorni, ore, minuti, secondi infinitamente lungo e impossibile da calcolare, punto. Ma con il passare del tempo mi ero resa conto di quanto la percezione dell'eternità fosse tutt'altro che oggettiva, e anzi soggetta agli avvenimenti e alle situazioni che mi circondavano.
Quando la mia vita era stata perfetta, quel tempo interminabile che si stendeva davanti a me non mi era sembrato comunque sufficiente per godermi tutto ciò che avevo. Adesso..
Mi sfuggì un sospiro. Le cose erano cambiate. Lontana da mia figlia, mi sembrava che le giornate si trascinassero con esasperante lentezza, affastellandosi una sull'altra senza nessun significato; da ricca e appagante, la mia vita era diventata improvvisamente buia e vuota. Sapevo che un giorno Renesmee sarebbe tornata. Il tempo guarisce ogni ferita, anche quelle più profonde. Ma era già trascorso un mese. Per quanto tempo ancora avrei dovuto resistere? Un altro mese? Due? Un anno? Di più?
Respirai profondamente, un semplice riflesso istintivo per calmarmi, e lanciai un'occhiata all'orologio della cucina. Le nove e mezza. Si prospettava un'altra serata interminabile e una notte altrettanto lunga e difficile. Sentivo perfino la mancanza delle più banali occupazioni quotidiane, quelle che riempiono una vita umana, come mangiare e dormire. Forse avere delle esigenze pressanti sarebbe stata una piccola distrazione. Ero sempre in cerca di qualcosa da fare per tenermi impegnata, sebbene una parte della mia mente non smettesse mai di pensare a Renesmee, mai, neppure per un istante. Così quando avevo visto Esme prepararsi a pulire l'argenteria, quella sera, le avevo immediatamente tolto di mano lo straccio e il prodotto detergente e mi ero messa al lavoro.
Sapevo che Edward stava vivendo la mia stessa situazione, ma forse per lui era più semplice distrarsi, costantemente immerso nel flusso di pensieri di altre persone. Sollevai gli occhi dal vaso d'argento che stavo lucidando e li puntai su di lui: era seduto al bancone della cucina, accanto a me, il mento appoggiato a una mano, lo sguardo assente che si perdeva fuori dalle ampie finestre. Fin dall'inizio avevamo stabilito il tacito accordo di non parlare di Renesmee e di quello che era successo. Come tutti gli altri, fingevamo che si fosse solo presa una breve vacanza e che sarebbe tornata presto. Parlarne e renderci conto di quanto fossimo impotenti davanti alla sua rabbia e alla sua tristezza sarebbe stato solo peggio.
Non solo non parlavamo di Renesmee, ma praticamente non ci dicevamo più nulla che avesse importanza, solo cose sciocche e banali, per cercare di far passare il tempo. Ciascuno dei due teneva per sé i propri pensieri. In fondo, non avevamo bisogno di parlare per capirci.
E insieme alla nostra capacità di dialogare, era scomparsa anche la nostra intimità. Era esattamente un mese che quasi non ci toccavamo. Un vero record. Non avevamo smesso di desiderarci, ma era come se avessimo congelato le nostre vite in attesa del suo ritorno. Nulla di importante poteva essere fatto o detto, tutto doveva fermarsi insieme a noi e aspettare.
Edward stava male quanto me, anche se riusciva a darlo a vedere molto meno; forse quando si hanno centodieci anni si impara ad essere pazienti. Ma ce la saremmo cavata, io e lui. C'era solo un'altra persona, al momento, che mi preoccupava quanto Renesmee. Una persona che si era data alla macchia da un paio di settimane. Se non fosse stato per Seth, che veniva spesso a trovarci, non avrei avuto la certezza che fosse ancora tra noi.
Sospirai di nuovo, sentendomi all'improvviso mortalmente stanca. Edward mi guardò, incuriosito da tutta quella superflua attività polmonare. Cercai di sorridergli, ma mi uscì una smorfia.
«Ehi, Rose! Che ne diresti del sud della Francia? Sono secoli che non vediamo Saint Tropez» esclamò in quel momento la voce possente di Emmett. Era in soggiorno, seduto sul divano con il computer portatile davanti, impegnato nella ricerca di una meta interessante per un viaggetto che lui e Rosalie stavano progettando per l'estate. Ne parlava da tempo e aveva già proposto alcuni bellissimi itinerari. Peccato che per la partecipazione mostrata da Rosalie avrebbe potuto anche decidere da solo.
«Non sono secoli, Emmett, sono ventun'anni» lo corresse Jasper, seduto in poltrona con un libro tra le mani.
«Non andare tanto per il sottile, tu. Rose, che ne pensi?»
«Sì, non è male» rispose lei con voce palesemente molto annoiata. Guardava la tv senza staccare gli occhi dallo schermo nè battere le palpebre, ma sospettavo che non avesse la minima idea di cosa stavano trasmettendo.
«Sud della Francia in estate? Gran bella vacanza, chiusi in albergo tutto il giorno» commentò Alice. Era seduta accanto a Rose, nella zona tv, le gambe piegate da un lato, ma non osservava lo schermo; da giorni e giorni cercava continuamente di concentrarsi e vedere qualcosa che riguardasse Renesmee, ma senza risultati.
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, sorellina» brontolò Emmett aggrottando la fronte.
«Hai mai sentito la storia del Grande Gigante Gentile²?»
Emmett la ignorò e continuò a smanettare sul computer. «E l'Italia? Che ne pensi dell'Italia, Rose? Non ci siamo mai stati... mi sembra».
«Italia? Tanto vale andare nel sud della Francia» disse Alice.
«State alla larga dalla Toscana» suggerì Jasper a bassa voce, ancora immerso nel suo libro.
Emmett emise uno sbuffo di esasperazione. «Va bene! L'Islanda, allora».
«Okay» fece Rosalie.
«Diresti okay anche se ti proponessi un giro all'inferno?» chiese Emmett in tono ironico.
Questa volta lei non rispose e nessuno commentò. Emmett fissò Rosalie con la fronte contratta per un po', poi tornò al computer, scuotendo la testa. Sapevamo che la storia del viaggio era soprattutto un tentativo di distrarla, ma lei non collaborava, testarda come sempre; da settimane ormai si era chiusa in uno stato di apatia, quasi di sospensione. Aspettava, anche lei, come me e Edward. Tutti sentivano la mancanza di Renesmee ed erano preoccupati per lei, ma per Rosalie era più difficile ed io la capivo perfettamente. Sospirai per l'ennesima volta.
«Tutto bene, Bella?» chiese Esme, sollevando gli occhi dalla rivista di arredamento che stava sfogliando.
Stavo per rispondere, ma un rumore improvviso catturò la mia attenzione: qualcuno si stava avvicinando a casa nostra. E a giudicare dai pesanti tonfi sul terreno, potevo anche indovinare chi. Lanciai un'occhiata a Edward, che a un tratto era teso e concentrato.
«Sta arrivando...» iniziò.
«Sì» esclamai, agitata. «Come... come sta?»
Edward non rispose, ma la sua espressione mi provocò una fitta allo stomaco. Merda. Mi alzai e scivolai giù per le scale, Edward alle mie spalle. Sentivo nell'aria un fremito familiare, poi sostituito dal rumore di passi veloci. Aprii la porta d'ingresso giusto in tempo.
«Ciao, ragazzi» ci salutò Jacob. Aveva appena salito l'ultimo gradino della scala. «Tempismo perfetto».
«Jacob!»
Feci un passo avanti e gli gettai le braccia al collo. Lui restò fermo per un secondo, forse colto di sopresa, poi ricambiò lentamente l'abbraccio. Strano come, anche dopo la mia trasformazione, il contatto fisico con Jacob mi sembrasse ancora perfettamente naturale. Non saremmo mai stati nemici mortali, io e lui. Eravamo soltanto Bella e Jacob e questo non sarebbe mai cambiato. Deglutii per scacciare il nodo che mi stava nascendo in gola mentre ci separavamo.
«Finalmente ti sei deciso a venire a trovare la tua migliore amica» dissi in tono di rimprovero. Non potei farne a meno; se avevo trascorso gli ultimi giorni a macerarmi tra cupe riflessioni e pensieri angosciosi era anche a causa sua.
«Sì, be'... ho avuto parecchio da fare» rispose, evasivo, fissando il pavimento.
«Parecchio da fare per un mese?» insistei. «Neanche una telefonata, Jake! Mi sono preoccupata a morte!»
Non ebbe alcuna reazione e non sollevò nemmeno gli occhi. Sembrava molto stanco, come me. «Mi dispiace» mormorò.
«Va bene, non fa niente» intervenne Edward. «L'importante è che tu sia venuto».
Fummo interrotti dall'arrivo di Carlisle, che uscì dalla biblioteca alle nostre spalle. «Jacob! Che piacere rivederti» esclamò con un gran sorriso, genuino e caldo.
«Carlisle» rispose Jacob, impassibile.
Il suo volto era in ombra, ma riuscivo ugualmente a coglierne ogni dettaglio: le labbra tese, la fronte contratta, l'espressione dura. Non c'era bisogno di indagare o saper leggere nel pensiero per capire che se la passava male quanto noi.
«Come va?» chiese Carlisle. Lui scrollò le spalle, in silenzio. Carlisle annuì con fare pensieroso e lanciò un'occhiata verso me ed Edward. «Vieni, saliamo» aggiunse, e ci precedette su per le scale.
Ovviamente gli altri ci stavano aspettando.
«Jacob! Bentornato!» esclamò Esme appena mettemmo piede in cucina.
«Ehilà!» fu il saluto di Emmett, ancora tutto preso dalle sue ricerche al computer.
«Ciao, lupo» trillò Alice, alzandosi e venendoci incontro. Jasper ci passò accanto per raggiungerla e diede una leggera pacca sulla spalla al mio amico.
Rosalie non disse una parola. Voltò un po' la testa verso Jacob e i due si squadrarono in silenzio, lei con astio, lui con profonda indifferenza. Poi Rose tornò di scatto a fissare la tv. Ne fui scioccata. Quei due che si incontravano senza un insulto o una presa in giro? Gran brutto segno. Jacob le voltò le spalle e si lasciò cadere in una poltrona del soggiorno. Lo raggiunsi e sedetti di fronte a lui.
«Allora... che impegni hai avuto in questi giorni?» chiesi, ripartendo all'attacco. Edward mi lanciò un'occhiata di avvertimento, ma finsi di non accorgermene. Dovevo sapere.
«Il solito. Il branco, il lavoro».
«Parecchie cose da fare, quindi» dissi, rigirandogli le sue stesse parole con tono un po' acido.
Alzò gli occhi al cielo e mi parve che sul suo volto apparisse l'ombra di un sorriso, ma un istante dopo era già scivolata via.
«Santo Dio, Bella. Da quando ti dedichi a monitorare i miei impegni?»
«Non voglio controllarti, ero solo preoccupata».
«Non ne hai motivo».
«Tu dici?». Inarcai un sopracciglio mentre lo fissavo.
Lui spostò lentamente lo sguardo su di me con espressione indecifrabile. «E tu cos'hai fatto ultimamente?» chiese, provocatorio.
«Il solito» mormorai.
«Siamo in due, allora» commentò. Era rigido e sulla difensiva.
Feci un piccolo sospiro. «Eh già». All'improvviso mi sentivo a disagio. Avrei tanto desiderato aiutarlo, ma mi rendevo conto di non sapere come. Non ne avevo la minima idea. Non sapevo neanche aiutare me stessa. «Senti, Jake... forse è del tutto inutile, ma... volevo dirti che io ci sono. Per qualunque cosa. Se ti andasse di parlare...»
«Lo so, Bella» mi interruppe in tono secco. «Ti ringrazio, ma non c'è niente di cui parlare».
Esitai, incerta. Forse non dovevo insistere, ma Jacob era il mio migliore amico. Era lì, davanti a me, e soffriva. Non ero stata in grado di proteggere mia figlia, ma forse mi rimaneva ancora un'occasione per dimostrare a me stessa di non essere completamente inutile. Mi costrinsi ad andare avanti.
«Capisco quello che provi, davvero. So che in questo momento ti sembra tutto senza senso. È lo stesso per me. Ma mi fa male vederti così».
«Be', non posso farci niente» rispose a denti stretti. «Non mi sembra che tu te la stia passando meglio».
Colpita e affondata. Aveva ragione, eccome. «Okay, va bene. Basta, cambiamo argomento».
«Io credo che dovremmo parlarne, invece» intervenne Rosalie. Spense la tv con un tasto del telecomando e si alzò.
«Rose» mormorò Edward. Il suo viso era tirato, contratto. Evidentemente leggeva nei pensieri di sua sorella qualcosa di molto preoccupante.
Lei non gli badò e venne verso di noi, nel soggiorno. «È un mese che facciamo finta di nulla, non si può andare avanti così. È ridicolo. Che intendi fare, Bella?». Incrociò le braccia, guardandomi con aria decisa.
Io non avevo il coraggio di ricambiare lo sguardo. «Per cosa?» domandai, con calma, fissando il tappeto.
Eccola, finalmente, l'esplosione che tutti stavamo aspettando. L'atmosfera si era congelata di colpo.
«Lo sai per cosa».
«Niente».
«Oh, andiamo! Intendi lasciarla lì per sempre?»
Sentivo la gola e la bocca secche, come se non cacciassi da mesi. Cercai di deglutire. «No... certo che no. Ma non vedo come potrei cambiare la situazione».
«Sei sua madre, certo che puoi cambiare la situazione!»
«No, Rosalie, purtroppo no. Renesmee è arrabbiata e ferita. Non tornerà finchè non l'avrà superato. E ci vorrà del tempo. Non so se un mese sia sufficiente». Mentre parlavo lanciai un'occhiata a Jacob, preoccupata dalla sua reazione, ma lui sembrava ancora perfettamente impassibile.
Rosalie tacque per qualche secondo, mordendosi il labbro. «E se le occorresse molto più di un mese?» disse a voce bassa. «Qual è il tuo programma? Abituarti alla sua assenza?»
Le sue parole evocavano i miei peggiori timori e li rendevano reali, concreti, minacciosi, come se fossero accanto a me e incombessero sulla mia vita. Sopportavo a malapena di ascoltarla e questa volta non riuscii a rispondere.
«Rosalie» la chiamò ancora Edward, con più forza, e di nuovo lei fece come se non avesse sentito.
«Renesmee è una bambina e noi siamo la sua famiglia: non possiamo abbandonarla».
Sollevai la testa di scatto. «Non l'abbiamo abbandonata, noi... non avevamo altra scelta».
«Sì, invece, e avete fatto quella sbagliata» sibilò tra i denti.
La sofferenza sul suo viso perfetto era evidente. Sapevo benissimo cosa Renesmee significasse per lei, ma si sbagliava. Davvero non avevo avuto altra scelta.
«Cioè avremmo dovuto costringerla a tornare contro la sua volontà e farla stare ancora peggio?» intervenne Edward alzando la voce. «Non ti rendi conto di quello che dici».
«Sei tu che non ti rendi conto. Lasciarla a cavarsela da sola ti sembra una buona idea? Non so come abbiate potuto fare una cosa del genere».
«Era la decisione migliore per lei, non per noi stessi» ribattè Edward. Mi accorsi che si stava arrabbiando.
Rosalie fece un passo avanti. «Cosa vorresti insinuare? Sai benissimo che è Renesmee il mio primo pensiero, in ogni momento» ribatté, inviperita.
«Sì. Ma se tornasse ora, staresti meglio tu, non lei».
«Se tornasse ora, saresti tu ad avere troppe cose da farti perdonare, non io».
«Ehi!» intervenne Carlisle con tono fermo, tentanto di fermare la discussione prima che degenerasse.
«Basta, piantatela!» esplosi quasi nello stesso istante. Mi alzai in piedi di scatto. «Siete impazziti? Litigare non ci aiuterà a risolvere il problema!»
«Stare con le mani in mano ad aspettare gli eventi invece sì?» ribattè Rosalie, provocatoria.
«Ma cosa vuoi che faccia?»
«Devi riportare tua figlia a casa! È questo il suo posto! Ha bisogno di noi e non importa se adesso non riesce a capirlo!»
«No, Rosalie!» ringhiò Jacob all'improvviso, alzandosi a sua volta.
«Perchè no?» strillò lei, fuori di se. La sua espressione ferita si caricò d'odio quando posò gli occhi su Jacob.
«Perchè non è quello che vuole!». Il mio amico guardò Edward, che stava zitto e immobile. «Tu sai cos'è successo, spiegaglielo».
«Come? Cos'è successo?» esclamai, sopresa. Lo guardai a mia volta, ma lui non parlava. «Edward!»
Sospirò pesantemente. «Lo scorso sabato Seth... ha preso un'iniziativa».
«Che genere di iniziativa?» domandai sotto voce, a denti stretti. Cercavo di controllarmi, ma non era per niente facile; la tentazione di sfogare la rabbia e la frustrazione su qualcosa o qualcuno era fortissima.
«È andato a cena da Charlie. Voleva parlare con Renesmee» rispose Edward in tono piatto. «Lei... non l'ha presa tanto bene».
Mi sentii morire. Merda. «Oh, no. Si è arrabbiata? Cosa... come...» farfugliai. Non sapevo bene nemmeno io cosa volessi chiedere.
«L'hai mandato tu» sibilò Rosalie, con una voce che grondava veleno, all'indirizzo di Jacob.
«Non farei mai una cosa del genere» ribattè Jake. «Dobbiamo lasciarla in pace finchè non sarà lei a decidere di tornare».
«Sai, ne ho le scatole piene di te che credi sempre di sapere cos'è meglio per Renesmee! Di te e del tuo branco di idioti che si intromettono nelle faccende della nostra famiglia! È tutta colpa tua, è scappata dopo aver parlato con te! È il tuo dannato imprinting che ha provocato questo disastro! Tu non saresti mai dovuto entrare nella sua vita, mai! Ho sempre saputo che questa storia ci avrebbe creato dei problemi!»
«Rosalie, smettila!» esclamò Esme, sconvolta.
Emmett la raggiunse e le mise le mani sulla spalle, ma lei se lo scrollò di dosso. Sembrava fuori di sé per la furia. Ricordavo di averla vista così solo una volta, in passato. Sei anni prima, quando aveva protetto Renesmee dagli insani propositi degli altri. Ed era quello che stava facendo anche adesso: lottava per Renesmee, con la stessa forza, la stessa ostinazione, lo stesso coraggio.
«Ha ragione» intervenne Jacob. La sua voce era bassa, ferma, amara. «È colpa mia. Ho sbagliato tutto con lei».
«No, Jake...» esclamai, ma non riuscii a finire.
«Certo che ho ragione!» proseguì Rosalie, imperterrita. «Dovresti uscire da questa casa e non metterci mai più piede, e lasciarla in pace!»
«Non spetta a te decidere» scattò Edward. «Non è tua figlia».
Rosalie lo guardò. «Non sarebbe venuta al mondo senza di me. Mi sono presa cura di lei quando Bella non poteva» rispose, all'improvviso spaventosamente calma.
«Renesmee non è il premio per quello che hai fatto! Lei non è tua, è nostra!» ribattè Edward con forza impressionante, lo sguardo furioso fisso sulla sorella.
Gli occhi di Rosalie divennero due fessure. «Non la pensavi così quando volevi che Bella abortisse».
Sussultai, scioccata. Era impazzita, per caso?
«Rosalie!» esclamò Carlisle.
Edward rimase impassibile. Aveva smesso perfino di respirare. Serrava i pugni con tanta forza che mi stupii di non sentirli scricchiolare. «Non ti permetto di dire questo» rispose, glaciale.
«Basta» ripetei. Raggiunsi Edward e gli afferrai un braccio, ansiosa di trattenerlo; temevo che saltasse al collo di Rose da un momento all'altro.
Scese un silenzio carico di tensione, poi, all'improvviso, Jacob parlò. «Non smetterai mai di essere così maledettamente egoista, vero?» disse con un filo di voce, guardando Rosalie.
Lei ricambiò con uno sguardo di disgusto allo stato puro. «Sarò egoista, ma quello che è successo è tutta colpa tua. Soltanto colpa tua» rispose lentamente, scandendo bene ogni parola come se fosse un pugnale affilato da lanciargli contro.
Aprii la bocca per intervenire ancora, ma questa volta non riuscii a spiccicare parola. Lo shock mi aveva congelato il cervello. Jacob lasciò vagare lo sguardo nella stanza, come se cercasse di sfuggire a un peso insostenibile, l'espressione carica di amarezza, dolore e rabbia. Poi fece un respiro profondo.
«Ciao, Bella» mormorò, e si diresse velocemente alle scale.
«Jake, aspetta!»
Mi lanciai dietro di lui, ma un istante dopo sentii sbattere la porta d'ingresso e poi quella vibrazione familiare che riempiva l'aria. Si stava trasformando. Avrei potuto seguirlo e bloccarlo con facilità, ma mi fermai. Avevo la netta sensazione che riportarlo fra noi fosse una pessima idea e che al momento volesse semplicemente starsene da solo, a rimuginare, deprimersi e tormentarsi nei sensi di colpa. La situazione era questa e non potevo cambiarla. Non potevo costringerlo a stare meglio o a parlarne con me. Avrei dovuto rassegnarmi e lasciare che affrontasse il proprio dolore come preferiva.
Risalii lentamente le scale e tornai in soggiorno. Rosalie ostentava ancora quella furibonda aria di sfida e non cedette di un millimetro mentre ci guardavamo negli occhi. Era una combattente, forte e ostinata; lo sapevo benissimo. Avevo scelto lei anche per questo, sei anni prima. Ma ora stava combattendo la battaglia sbagliata.
«Questa volta hai davvero esagerato, Rosalie» dissi con voce ferma. «So cosa provi in questo momento. Lo capisco, credimi, e mi dispiace. Ma Jacob è il mio migliore amico, è a pezzi per quello che è successo e non posso permettere che tu lo faccia stare ancora peggio».
Lei fece un passo avanti, verso di me. «È proprio questo il problema. Sei accecata dall'affetto che provi per lui e non ti accorgi di tutto il male che ha fatto a Renesmee fino adesso e di quanto ancora potrebbe fargliene. Non ti accorgi che il desiderio di allontanarsi da lui, quando se n'è andata, è stato più forte di quello di restare con i suoi genitori. Lui ha un peso troppo grande nella sua vita, non lo capisci? Conta più di te e Edward». Dio, stare ad ascoltarla era insopportabile. L'atroce dubbio che avesse perfettamente ragione e che io stessi sbagliando tutto si faceva strada dentro di me, artigliandomi la gola e le viscere. Guardai mio marito: era del tutto immobile, come pietrificato. «La soffocherà, la sta già soffocando, e noi restiamo a guardare» aggiunse Rosalie, quasi con voce rotta.
Con uno scatto tesi la mano verso Edward; lui la prese lentamente, senza guardarmi. «Andiamo a casa» sussurrai. «Buonanotte a tutti».
Lasciammo in fretta la casa senza che nessuno tentasse di fermarci. Uscire nella notte buia e fredda, allontanarmi da Rosalie e dalle sue parole, non mi diede il sollievo che avevo sperato. Al mio fianco, Edward continuava a tacere; chissà a cosa stava pensando. Cercai più volte di dire qualcosa, ma le parole rimanevano incastrate in gola. Raggiungemmo il cottage dopo pochi minuti. Da quando Renesmee era andata via sembrava sempre troppo silenzioso, troppo vuoto, troppo grande. Stavamo lì il meno possibile. Entrammo nella nostra camera. Edward si diresse con passi lenti verso la grande portafinestra che dava sul giardinetto sul retro e si appoggiò alla parete, guardando fuori.
Per qualche secondo restai impalata in mezzo alla stanza. Mi sentivo stranamente intorpidita e al tempo stesso provavo una specie di frenesia, un bisogno spasmodico di fare qualcosa, di agire. Di tornare da Rosalie e darle una bella scrollata, o di raggiungere Jacob e costringerlo a parlare con me, o di andare dritta a casa di Charlie e riprendermi mia figlia. Qualunque cosa, pur di non sentirmi più così inutile e impotente.
Mi sfilai nervosamente le scarpe e sedetti sul letto a gambe incrociate. Per un po' osservai la sagoma di Edward nel buio, poi, all'improvviso, non ressi più.
«Edward» esclamai. «Edward, ti prego, di' qualcosa!»
«Cosa posso dire?» mormorò, continuando a guardare fuori.
Quell'apatia era più preoccupante di tutto il resto messo insieme.
«Qualunque cosa!» sbottai, e subito dopo mi pentii di aver alzato la voce. Dovevo restare calma. Abbassai gli occhi e con un dito presi a seguire il disegno del ricamo sul copriletto.
«Sei bellissima» mormorò all'improvviso.
La sua voce vellutata e malinconica sembrava appartenere alla notte stessa, così buia che solo i miei occhi di vampiro erano in grado di cogliere i contorni del suo corpo. Sollevai la testa e mi accorsi che mi stava fissando.
D'istinto mi alzai, lo raggiunsi e gli circondai il petto con le braccia. Lui ricambiò la stretta e con la mano mi accarezzò il viso. Era un po' rigido, teso, probabilmente ancora sovrappensiero. Il suo delizioso profumo si mischiava agli odori della notte, del bosco, del nostro piccolo giardino, legno, erba, fiori, terra, caprifoglio... Accostai il volto al suo e lo baciai. Un bacio a timbro, casto e delicato, che divenne lentamente più deciso. La mia lingua percorse le sue labbra delineandone il contorno, entrò nella sua bocca. Sentii un brivido lungo la schiena, le gambe, le braccia, mi avvinghiai di più al suo corpo e una mano salì a intrecciarsi ai suoi capelli, mentre con l'altra afferravo il colletto della sua camicia con una mezza idea di strapparla via... Immaginai che le mani che stringevano i miei fianchi mi spogliassero e accarezzassero ogni centimetro del mio corpo, e mi sfuggì un gemito di desiderio tra le labbra dischiuse.
Poi Edward interruppe il bacio, allontanandosi appena, e restò immobile. L'energia vibrante che c'era tra noi, che aveva percorso ed elettrizzato i nostri corpi, sembrò dissolversi di colpo, come fumo nel vento. Eravamo ancora allacciati contro la parete, così vicini che l'uno poteva sentire il respiro freddo dell'altro sulla pelle.
«Vuoi fare l'amore?» mi chiese in un sussurro.
Non seppi cosa rispondere. Il desiderio ancora aleggiava dentro di me, ma era solo una pallida eco.
«Tu vuoi farlo?» domandai a mia volta, esitante.
Lui rimase in silenzio, ma non occorreva che parlasse. Con un sospiro gli poggiai la fronte sul mento, aspirando l'odore del suo collo.
«Pensavo di andare a caccia» disse dopo qualche minuto. «Ti va oppure... hai altri progetti per stanotte?»
Una fitta d'ansia particolarmente acuta mi colpì lo stomaco. «Veramente non lo so. Non ci ho ancora pensato» mormorai. La nostalgia di cui la mia voce era intrisa era così evidente da farmi sentire in imbarazzo.
«Capisco».
«Non sono abbastanza forte da rinunciare» sospirai.
Da giorni e giorni ormai mi dibattevo tra i dubbi: era giusto o meno cedere a quella tentazione? Edward mi accarezzò il viso con una mano, poi mi costrinse a sollevarlo per potermi guardare negli occhi.
«Ed io ho troppo da farmi perdonare. Qui Rosalie ha ragione» rispose con tono triste.
Il suo dolore era talmente intenso che sembrò risuonare dentro di me. Mi ci volle un minuto prima di riuscire a parlare. «Da quando sei d'accordo con tua sorella?» protestai, cercando di apparire tranquilla e di rasserenarlo. Non funzionò. Sorrise per un attimo, poi tornò serio e cupo. Forse una corsa nei boschi gli avrebbe fatto bene. «Vai a caccia, allora» aggiunsi, desiderosa di cambiare argomento. Poggiai le mani sul suo petto e studiai i suoi occhi scuri. «Ne hai bisogno, non ci vai da più tempo di me».
«E tu?»
«Io... non ho ancora deciso che cosa fare» sussurrai, abbassando lo sguardo. «Metto un po' in ordine, sbrigo qualche faccenda... poi vedremo».
Pensai che si sarebbe opposto all'idea di separarci, mentre giocava con una ciocca dei miei capelli, ma poi lasciò cadere la mano con un sospiro. «D'accordo, come vuoi. Torno presto».
«A dopo, amore mio» risposi con voce appena udibile.
Si chinò per sfiorare ancora una volta le mie labbra con le sue, mi baciò la fronte e in un lampo era fuori dalla finestra. Rimasta sola, lanciai un'occhiata alla sveglia sul comodino, che non veniva mai programmata. Era troppo presto per... mettere in atto altri progetti. Mi toccava aspettare un po', ma non sarei stata con le mani in mano. Nelle ultime settimane avevo passato così tanto tempo a fare le pulizie che il nostro piccolo cottage era lucido e spledente in ogni angolo, ma dovevo pur fare qualcosa o sarei impazzita. Mi misi al lavoro.
Lavai due volte la cucina immacolata, lucidai ogni specchio, ogni quadro e ogni fotografia, sbattei inutilmente i cuscini del divano, cambiai le lenzuola del letto, spolverai dappertutto senza scovare un solo granellino di polvere, trascorsi mezz'ora a lottare contro una microscopica macchia sul tappeto del soggiorno, spostai i mobili per modificare l'assetto della stanza seguendo un suggerimento che mi aveva dato Esme, poi ci ripensai e li rimisi al loro posto.
Quando ebbi finito, restava soltanto la camera di Renesmee. Per un po' rimasi impalata davanti alla porta chiusa, senza sapere cosa fare. Non ci mettevo piede da quando le avevo preparato le valigie, il giorno in cui se n'era andata. Probabilmente c'era bisogno di una spolverata, ma non avevo ancora racimolato coraggio a sufficienza per entrarci. Con uno sbuffo soffiai via dagli occhi una ciocca di capelli in disordine, avanzai e aprii la porta con decisione.
La stanza era esattamente come l'avevo lasciata: il letto freddo e intatto, i libri coperti da un dito di polvere, qualche peluches e qualche giocattolo di quando era piccola, i vestiti che non le avevo messo in valigia, i poster e le foto che tappezzavano le pareti, un vecchio post-it con un appunto abbandonato sulla scrivania, un rossetto dimenticato sul tavolino da toeletta... Sentii un nodo alla gola mentre mi guardavo intorno. Scattai verso la finestra e la spalancai perchè entrasse un po' d'aria fresca.
Lì dentro lavorai più freneticamente che nel resto della casa. Forse ero preda di una crisi ossessivo-compulsiva, ma non riuscivo a fermarmi. Quando riemersi da sotto il letto, dove mi ero infilata per acciuffare un elastico per capelli, controllai la stanza percorrendola con lo sguardo e realizzai di aver finito. Era così pulita e ordinata da sembrare il set di una pubblicità di mobili. Era assolutamente perfetta. Mancava solo la sua proprietaria. Una perfetta e inutile camera vuota.
A quel punto crollai.
Di colpo mi sentivo esausta, debole e affranta. Naturalmente non lo ero davvero, il mio corpo non aveva bisogno di riposo, ma la mia mente era così provata da condizionare il fisico. Mi trascinai fino alla poltroncina accanto al letto, mi sedetti e mi rannichiai, stringendo contro il viso l'elastico di Renesmee. Ne aspirai il profumo, avida, desiderando disperatamente averla accanto a me. La mia bambina. La mia piccola brontolona.
Cosa stavo facendo? Cosa avevo fatto fino a quel momento? Era tutto inutile. Renesmee era andata via con il cuore a pezzi ed io me ne stavo lì, in quella stanza vuota e fredda, senza poter fare nulla. Non potevo neanche piangere. Avrei voluto scoppiare in lacrime con tutta me stessa, ma non ne ero capace.
Non so quanto tempo passai in quella condizione, raggomitolata su me stessa, la mente annebbiata, oppressa dal dolore, ma a un tratto sentii dei passi che si avvicinavano. Lentamente riemersi da quello stato di trance, tornai alla realtà, e mi accorsi che ormai era quasi l'alba; il cielo fuori dalla finestra iniziava a tingersi di grigio e rosa e un uccello cantava nel giardino.
«Bella?» chiamò piano Edward, fermo sulla porta. «Credevo... credevo fossi andata...»
Non terminò la frase. Mi sforzai di parlare. «Che senso ha?» sussurrai, il viso chino sulle ginocchia.
Breve pausa. «Bella» ripetè, dolcemente, questa volta. Attraversò la stanza e si inginocchiò sul pavimento, accanto a me. Posò un bacio sul dorso della mia mano, poi la strinse forte. «Da quanto tempo sei qui dentro? Cos'è successo, perchè sei rimasta qui?»
«Che senso ha?» ripetei. Raddrizzai il capo e lo guardai. I suoi occhi erano carichi di tristezza.
«Se ti fa star meglio, ha senso».
«Chi se ne importa di quello che fa stare meglio me? Nostra figlia ci odia!»
Prima di rispondere mi fissò a lungo, in silenzio. «No, lei non è capace di odiare qualcuno» mormorò. Come sempre quando parlava di Renesmee, sembrava accarezzare ogni parola. «Si sente tradita, ma la verità è che ce l'ha soprattutto con se stessa, perchè crede di avere delle colpe. E non possiamo fare nulla per convincerla del contrario, deve arrivarci da sola».
«Ma non doveva andare così!» esplosi, disperata, la voce rotta da singhiozzi che non potevano liberarsi in alcun modo. Mi sembrava di soffocare. «Avremmo dovuto proteggerla, io avrei dovuto proteggerla!»
«Hai fatto del tuo meglio, Bella».
«Non è stato abbastanza! Ho sbagliato tutto!». Scossi la testa, fissando il letto di Renesmee. Quella stanza vuota simboleggiava il mio fallimento. Sì, avevo fallito. «Rosalie ha ragione. Come ho potuto permettere che accadesse? Come ho potuto lasciare che l'imprinting si mettesse tra noi e lei? Perchè non sono riuscita ad affrontarlo e a dirglielo prima? E perchè non ho saputo trovare il modo di riportarla a casa?» proruppi, disperata e incapace di frenare le parole.
«Bella...» sussurrò Edward, accarezzandomi i capelli con gesti sempre più ansiosi.
«Volevo essere una brava madre, lo desideravo con tutta me stessa! E invece ho fallito!»
«Ehi!» esclamò con più forza. Cercò di catturare il mio sguardo. «Cosa stai dicendo? Davvero pensi questo? Le mie colpe sono infinitamente più gravi delle tue, Bella. Credi che Renesmee avrebbe reagito diversamente se non avesse saputo dell'imprinting e se avesse scoperto soltanto che suo padre, suo padre, ha cercato di porre fine alla sua vita prima che nascesse?» ringhiò, furioso. «Ah, sì, Rosalie ha ragione, eccome se ne ha. Quello che hai fatto tu non è nulla in confronto a quello che io ho cercato di fare».
«Ma non ti rendi conto che lei è come te?» sussurrai, colta all'improvviso da quella certezza. Avevo sempre pensato che Renesmee somigliasse molto a suo padre, nell'aspetto come nel carattere, ma non avevo mai compreso davvero fino a che punto. Edward restò impassibile, mentre gli sfioravo piano con le dita il contorno della fronte. «Tu ti tormenti nei sensi di colpa da un secolo, per un motivo o per un altro... E Renesmee fa la stessa cosa: si è convinta di avere delle responsabilità in tutto questo, quando invece è l'unica persona a non averne... Non riuscirà mai a liberarsi dal senso di colpa». Tacqui un istante. «L'abbiamo persa» farfugliai con voce spezzata.
«No, non è vero!»
«Se n'è andata, Edward!»
«Non l'abbiamo persa!». Mi afferrò il mento, costringendomi a guardarlo dritto negli occhi. Era determinato come non lo vedevo da settimane, e fu questo, forse, più di qualunque altra cosa, a restituirmi un briciolo di speranza. «Ha bisogno di tempo per accettare tutto questo, ma tornerà. Devi avere fiducia in lei».
Quanto avrei desiderato poter credere con tutta me stessa alle sue parole, ma il dubbio strisciava dentro di me, annientava le mie certezze, mi sfidava ad arrendermi. Eppure dovevo tenere duro. Era l'unica cosa che potevo fare per mia figlia, adesso.
«Lo spero tanto» mormorai.
Poggiai la fronte sulle nostre mani intrecciate, esausta, e lui si strinse a me, affondando il viso tra i miei capelli.
Fuori sorgeva un nuovo giorno.









Note.
1. Link.
2. Il GGG (Il Grande Gigante Gentile) è un libro per bambini dello scrittore inglese Roal Dahl. Protagonista è un gigante che terrorizza i bambini di un orfanatrofio e che poi si rivela essere buono e gentile, addirittura impegnato a combattere i giganti cattivi che si nutrono di bambini, mentre lui è vegetariano. È una storia bellissima, adoro Roal Dahl. E penso che il significato della battuta di Alice sia chiaro ;-).








Spazio autrice.
Salve! Allora, so che questo è un capitolo di passaggio e spero di non avervi annoiato, ma a mio avviso questa incursione nella mente di Bella poteva essere interessante per comprendere meglio il punto di vista suo, di Edward e degli altri in questa faccenda, i loro pensieri, le loro motivazioni, le loro opinioni. E ho pensato che forse qualcuno di voi si stava chiedendo cosa succede nel frattempo in casa Cullen. Insomma, mi auguro che sia stato interessante comunque, almeno un pochino.
Adesso un paio di comunicazioni. Innanzitutto, vi avviso che la fine si avvicina, perchè mancano ancora tre capitoli. Forse vi sembreranno pochi per concludere la storia, ma non era nelle mie intenzioni che fosse troppo lunga. Non rimarranno grossi punti in sospeso, tutto sarà chiarito, però vi anticipo che ci sarà un sequel. Quindi, se non proprio tutte le domande dovessero trovare una risposta completa, sappiate che la storia continua ;-). Comunque ne riparlerò più avanti e vi darò informazioni più precise.
Grazie per l'attenzione e scusate se l'ho fatta tanto lunga, a presto!

 

   

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Capitolo 21
*** Fix you ***


C 21
Capitolo 21
Fix you


When you try your best but don't succeed
When you get what you want but not what you need
When you feel so tired but you can't sleep
Stuck in reverse
And the tears come streaming down your face
When you lose something you can't replace
When you love someone but it goes to waste
Could it be worse?
Lights will guide you home
And ignite your bones
And I will try to fix you.

Fix you, Coldplay¹



La vita, con tutti i suoi dolori e le sue tristezze, con tutti i suoi contrattempi e le sfide che reca in sè, resta sempre
una faccenda meravigliosa. Provare qualcosa, nel bene o nel male, è sempre meglio che non provare niente.
Sergio Bambarén, Il guardiano del faro




«Alex, ti dispiacerebbe smettere di giocare e deciderti a darmi una mano?» sbottai, profondamente seccata ed esasperata.
Alex sobbalzò ed una delle due penne che si stava divertendo a lanciare e a riprendere al volo contemporaneamente cadde a terra, quasi subito seguita dalla seconda. Ci fu un secondo di silenzio, mentre lui mi fissava con occhi stretti, poi mi sfuggì una risata.
«Però... che campione! Potresti partecipare alle Olimpiadi del lancio delle penne».
«È colpa tua, sei tu che mi hai fatto perdere la concentrazione» protestò, indignato.
«In teoria saresti qui per aiutarmi» gli feci notare con un'occhiata eloquente.
«Ti sto aiutando, infatti».
«Ah, davvero? E come, di grazia? Siamo qui da un'ora e sono a quota dieci canzoni: me ne servono almeno tre volte tanto. In cosa consisterebbe il tuo aiuto?»
Alex mi guardò in silenzio, la fronte e le labbra corrugate, come se non riuscisse a credere che io fossi così irritante. «Sei insopportabile, Scheggia. Lo sai, vero?»
Sbuffai, passandomi le mani tra i capelli, e mi sistemai più comodamente sui cuscini del mio letto, dove me ne stavo seduta con il computer portatile sulle ginocchia e un block notes accanto; ero ferma nella stessa posizione da tanto di quel tempo che mi formicolavano le gambe.
«E tu sei la persona più immatura ed inutile dell'universo, lo sai, vero? La festa di Holly è questo venerdì, mancano solo tre giorni, sono in alto mare con la playlist della serata, non ho ancora deciso che cosa mettermi e Jas mi sta dando il tormento perchè non riesce a cotonarsi i capelli come vorrebbe e abbiamo fatto tante di quelle prove che credo di avere un'intossicazione da lacca per capelli» sbottai. «Come se tutto questo non bastasse, Tom viene a lamentarsi da me almeno un paio di volte al giorno, perchè Jas vuole a tutti i costi che si vesta come John Travolta in "Grease", così i loro abiti saranno perfettamente coordinati. Ti rendi conto?»
Lui sorrise, uno di quei suoi sorrisini sardonici e maliziosi, lo sguardo affilato. «Sai, Scheggia, adoro questo tono da maestrina. Mi eccita» disse, incrociando le braccia.
«Alex. Non è il momento» sibilai, stizzita.
Eravamo nella mia camera con la porta socchiusa. Sue era al piano di sotto, Charlie sarebbe tornato da un momento all'altro e lui lo sapeva benissimo. Ma se la spassava troppo a prendermi in giro in quel modo.
«Non smettere di arrossire, ti prego. Non c'è niente che riesca a stuzzicarmi più di due guance rosso fuoco».
Alzai gli occhi al cielo. «Okay. Farò finta che tu non sia qui». Afferrai penna e block notes con determinazione, senza degnarlo di un'altra occhiata.
Lo sentii sospirare, poi si alzò dalla sedia accanto alla scrivania e mi raggiunse sul letto.
«E va bene... La situazione deve essere davvero drammatica se non riesci a distrarti neanche per rispondermi a tono. Dai, spara».
Ero sollevata, ma mantenni un'espressione neutra per non darlo a vedere; era fin troppo veloce nel montarsi la testa. Scorsi la lista di titoli che avevo trascritto, piena di correzioni, scarabocchi e disegnini. Ero seriamente preoccupata di scegliere le canzoni più brutte della storia e rovinare il compleanno della mia amica. «Allora... Cominciamo con Rock around the clock di Bill Haley: veloce, bella e conosciuta, piacerà senz'altro. Tutti Frutti, Little Richard: ritmo fantastico. Crazy moon crazy, direi che non è male. Poi Elvis,  Jailhouse rock. Penso che con Elvis andiamo sul sicuro, sei d'accordo? Metterei anche Only you dei Platters... Io non la sopporto, ma è un classico e non può mancare». Alex fece una smorfia e intuii che concordava in pieno. «E poi ho appena ascoltato Summertime, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong: secondo me sarebbe perfetta per il momento della torta».
Alex annuì, pensieroso, incrociando di nuovo le braccia. «Be', è una buona base. Io ci metterei ancora un po' di Elvis. Cerca Blue moon of Kentucky e That's alright (Mama)». Mentre parlava, aggiunsi i titoli alla mia lista, contenta di avere altre opzioni. «I suoi due primi successi, sono sicuro che ad Holly piaceranno. Ah, aggiungi anche Heartbreak Hotel. E poi, vediamo... vediamo...». Riflettendo, si portò un dito alla bocca, picchiettando leggermente il labbro inferiore, ed io lo osservai come ipnotizzata. Quando un gesto tanto banale riesce ad incantarti, allora capisci che sei completamente andata.
«Però... sei ferrato sull'argomento» mormorai, costringendomi a smettere di fissarlo per annotare gli ultimi titoli. «Ritiro tutto quello che ho detto sulla tua presunta inutilità».
«Mio padre adorava la musica degli anni Cinquanta, soprattutto gli esordi di Elvis. Sono praticamente cresciuto con queste canzoni. Aggiungi anche I only have eyes for you dei Flamingos, 1959: un altro grande classico. E poi... ah, questa non può mancare: Can't help falling in love, Elvis, 1962... Finiamo un po' nei Sessanta, è vero, però è bellissima».
«Mi sembra di conoscerla».
Lui sorrise. «Be', sarebbe una grave mancanza se non la conoscessi, signorina Perfettina».
Allungò una mano sulla tastiera del computer, digitò il titolo nella casella di ricerca, cliccò sul primo risultato e dopo qualche secondo la canzone iniziò. Ah, era quella. Fu come ricevere un pugno allo stomaco. Certo che la conoscevo, la conoscevo benissimo. L'avevo ascoltata chissà quante volte, da bambina, quando papà tirava fuori i vecchi dischi in vinile della sua collezione, faceva partire il giradischi, afferrava la mano della mamma e se la tirava dietro, costringendola a ballare nel nostro piccolo salotto, incurante delle sue proteste e dei suoi sbuffi. Io li guardavo seduta sul divano, incantata e divertita. E poi toccava a me: a un certo punto papà lasciava la sua scontrosa e poco collaborativa ballerina con un bacio sulla bocca, mi sollevava tra le braccia e iniziavamo a volteggiare per la stanza, all'inizio velocissimi, poi sempre più lenti; io strillavo e ridevo, felice, poggiavo la testa sulla sua spalla e lo ascoltavo cantare sottovoce...
«Scheggia? Scheggia... ? Ehi, Bell'Addormentata!»
Tornai di colpo al presente. La canzone era finita e con la sua ultima nota anche i miei ricordi scivolarono via.
«Uhm... ? Sì, Alex, dimmi».
«Allora, ti piace?». Mi guardava con aria alquanto divertita.
«È bellissima. Ti ringrazio». Gli sorrisi, felice di non trovarmi da sola in quel momento; ricordare era sempre doloroso, ma la sua vicinanza riusciva a farmi stare meglio.
«Posso suggerire un ringraziamento adeguato?»
Mi accarezzò il viso con la mano, poi si sporse verso di me e mi baciò. Sentii all'istante un fremito che dal punto esatto in cui i nos
tri corpi si toccavano si espandeva sull'intera superficie della mia pelle. Era una sensazione incredibile. All'inizio avevo creduto che dopo i primi baci, una volta scemata l'emozione violenta della novità, sarebbe svanita, e invece sembrava farsi sempre più intensa. Poggiò un ginocchio sul letto, girandosi completamente verso di me, e la sua presa sul mio viso si fece più forte. Mi spinse piano all'indietro, sui cuscini del letto, e sentii la sua lingua insinuarsi tra le mie labbra, aprirle delicatamente, esplorando, cercando la mia, sfiorandone la punta... Ero così presa, così concentrata su quello che stava facendo, che forse neanche un terremoto avrebbe potuto distrarmi. Tuttavia il mio subconscio doveva essere all'erta, consapevole del fatto che potevamo rilassarci solo fino a un certo punto, perchè a un tratto udii sbattere la porta di casa.
«Alex... ehm... credo... Forse sarebbe meglio...» balbettai, tirandomi un po' indietro per riuscire a parlare.
Lui spostò la bocca sul mio collo e sbuffò. Il suo fiato caldo sulla pelle mi provocò un piccolo brivido. «E dai, Scheggia... Lasciati andare» borbottò.
«È tornato mio nonno».
Si bloccò all'istante. Subito schizzò all'indietro e si catapultò nuovamente sulla sedia, con una rapidità tale da strapparmi una risata. Sistemai un po' i capelli con le mani, sperando di avere un aspetto innocente, quando sentii dei passi sulle scale e la porta si aprì. Appena in tempo!
«Ciao!» esclamai con un gran sorriso.
«Ehi, Ness» salutò Charlie, ricambiando il sorriso. Poi vide Alex e tornò serio di colpo. «Ciao» borbottò.
«Buonasera, signore» rispose lui, perfettamente tranquillo e disinvolto, come se fino a un attimo prima non fosse stato sul letto insieme a me, molto impegnato a baciarmi con la lingua. Sentii il viso ardere come se fossi stata su una graticola e Charlie scelse il momento perfetto per indagare sulle nostra attività.
«Che state facendo?»
Dovetti sforzarmi di non scoppiare a ridere come una matta. «Scegliamo la musica per la festa di Holly. È questo venerdì, ricordi?»
Lui annì. «Ah, sì. Come sta andando?»
«Ce la caviamo. Il tema sono gli anni Cinquanta, quindi dobbiamo scegliere solo canzoni di quel periodo. Hai qualche suggerimento?»
Charlie fece un sorrisetto. «Spiacente, signorina, sono nato nel 1964. E comunque non sono un esperto di musica».
Ridacchiai anch'io. Il nonno non aveva chissà quale grande senso dell'umorismo, ma con me era sempre pronto a scherzare. Una volta Sue mi aveva detto che da quando ero nata io le sembrava ringiovanito di anni.
«Ti dispiace scendere di sotto? C'è una cosa per te» aggiunse.
«Davvero? Cos'è?»
«Una sorpresa. Scendi e lo vedrai». Mi fece l'occhiolino e uscì.
Incuriosita, mi alzai e passai il computer ad Alex. «Continua a cercare, torno subito».
Prima che mi allontanassi, lui mi trattenne per la mano, mi tirò verso di sé e mi diede un altro bacio, rapidissimo, ma sufficiente a farmi girare la testa. Scesi le scale saltellando e in soggiorno trovai Charlie e Sue ad aspettarmi. Sul tavolino c'era una scatola di seta nera decorata da un nastro, di dimensioni piuttosto grandi. Sotto il nastro era infilato un cartoncino bianco che sopra recava il mio nome. Riconobbi subito la calligrafia: era quella di zia Rosalie.
«Eccoti qui» disse Charlie, sorridendo.
Mi fermai accanto al tavolino, fissando la scatola senza toccarla. «È questa la sopresa?»
«Sì. Vedi, stamattina ho parlato al telefono con tua madre e... mi è sembrata molto giù di morale» raccontò. Guardava la scatola con aria grave e compunta, come se contenesse chissà quale grande segreto. «Così dopo il lavoro sono passato a trovarla e abbiamo parlato un po'... del più e del meno. Mentre stavo andando via, Rosalie mi ha visto, è uscita di casa e mi ha fermato per chiedermi di portarti questa. Sembrava importante, per lei, e quando mi ha detto di cosa si trattava... Insomma, sono sicuro che ti piacerà. Su, aprila».
Con gesti lenti e incerti, sollevai il coperchio della scatola. Zia Rose mi aveva mandato un regalo? Non le rivolgevo la parola da più di un mese e lei mi mandava un regalo? Scostai con cautela due fogli di carta velina e, dopo un attimo di perplessità, tirai fuori il contenuto: un abito di seta color grigio acciaio, lungo fino al ginocchio e senza spalline, la gonna elegantemente drappeggiata sul davanti; era accompagnato da lunghi guanti neri, scarpe nere con il tacco alto, una borsetta e una stola di chiffon grigio. In una scatolina, anch'essa rivestita di seta nera, c'erano una collana e due orecchini di perle. Ero stupita. Accarezzai il tessuto dell'abito, incantata dai suoi riflessi, e tra le pieghe notai un altro cartoncino. Lo presi e lessi in silenzio.


Indossavo questo vestito una sera di maggio del 1954. Ero a Nizza, con Emmett, per la nostra prima luna di miele. Trascorremmo una notte intera passeggiando sulla Promenade des Anglais, il lungomare, ballando al suono della musica che usciva dai bistrot. Fu la notte più bella della mia esistenza. Spero che questo abito ti porti un po' di quella magia. È tuo, in caso ti serva. Ti voglio bene.
Rosalie

 


«Nei giorni scorsi ho accennato a tua madre della festa a tema anni Cinquanta, e lei ne ha parlato a Rosalie» proseguì Charlie. Io lo ascoltavo a malapena. «E tua zia mi ha detto che se non sapevi cosa indossare avresti potuto mettere questo. L'ha comprato in uno di quei negozi di vestiti vecchi».
«Vintage» lo corresse Sue con un sorriso divertito.
Il nonno alzò le spalle. «Sì, quelli» mormorò, imbarazzato.
Io rimasi in silenzio, stringendo il cartoncino tra le dita. Sentivo un grosso nodo in gola, un misto di nostalgia e senso di colpa, il bizzarro desiderio di sorridere e piangere contemporaneamente. Ed ero in preda ad una terribile confusione.
«È bellissimo, vero, Renesmee?» disse Sue, rompendo il silenzio. «Bisognerà accorciarlo e stringerlo un po', ma posso occuparmene io. Ti starà una favola, vedrai».

«Dovresti
chiamare Rosalie e ringraziarla» aggiunse Charlie a mezza voce, lanciandomi un'occhiata fugace.
«Certo, certo» borbottai, sebbene non avessi affatto deciso che cosa fare. Rimisi tutto nella scatola e tornai di sopra. «Ho risolto il problema di cosa indossare alla festa» annunciai ad Alex entrando nella mia stanza.
«Fantastico» commentò distrattamente. Era incollato al computer e sembrava molto preso dalla sua ricerca, ma quando gli mostrai il vestito sgranò gli occhi. «Cosa dovrò mettermi per essere alla tua altezza, venerdì?» esclamò, prendendo in mano un lungo guanto nero.
«Ottima domanda. Ti consiglio di lavorarci seriamente. Se non sarai abbastanza elegante, potrei sempre sostituirti con un altro cavaliere».

Infilai la scatola con tutto il suo contenuto nell'armadio e cercai di non pensarci. Ero confusa, non avevo idea di come interpretare il gesto di Rosalie. Potevo solo immaginare a quali preziosi ricordi fosse legato quel vestito: darlo a me significava, per lei, darmi una parte di se stessa. Perchè l'aveva fatto? Conoscevo i suoi difetti e il suo carattere difficile, ma ero anche a conoscenza di quale profondo affetto provasse nei miei confronti. E ora che sapevo anche cosa aveva fatto per proteggermi... No, non potevo restare indifferente a questo. Una parte di me era ancora arrabbiata con lei, come con tutti gli altri, per avermi nascosto l'imprinting, eppure in quelle settimane avevo imparato che l'affetto autentico sopravvive a tutto, anche alla rabbia e al dolore; e il suo amore per me sembrava non essere minimamente mutato dal giorno in cui me n'ero andata.
Quella sera cenai a casa di Alex con lui, Julie e Phoebe, poi tutti e quattro insieme giocammo a Scrabble², il gioco da tavolo preferito di Phoebe. Era così brava da riuscire a metterci tutti in difficoltà, mentre Alex insisteva nell'inventare parole senza senso e cercava di convincerci della loro esistenza, scatenando risate a non finire. Più tardi Phoebe e Julie andarono a letto ed io e Alex facemmo un paio di partite a backgammon³, mentre parlavamo della festa di venerdì. Verso le undici mi riaccompagnò a casa.
Nella mia stanza, mi cambiai e mi preparai per la notte con gesti meccanici, i pensieri fissi sulla scatola nera chiusa nell'armadio, chiedendomi e richiedendomi cosa avrei dovuto fare. Il gesto di Rosalie sembrava aver creato un varco nel muro che avevo accuratamente messo in piedi tra loro e me, tra la mia vecchia vita e quella attuale, e ora temevo che crollasse da un momento all'altro e mi costringesse a un passo decisivo, un passo per il quale forse non ero pronta.
Quando ebbi finito, ripresi la scatola e la portai sul letto per esaminare meglio il contenuto. Ero sveglissima e decisa a restarlo il più a lungo possibile. Da quando avevo sentito quella scia nella mia stanza,
la mattina successiva alla visita di Seth, ogni notte cercavo di restare in piedi il più a lungo possibile per verificare i miei sospetti. Di solito resistevo più o meno fino all'una del mattino, poi crollavo. E avendo il sonno pesante, non c'era speranza di essere svegliata da un rumore... soprattutto se la persona che entrava nella mia stanza era ben attenta a non produrre il minimo scricchiolio. Neanche studiare, leggere un libro o la nostalgia di Jacob, che a volte mi ricordava la mancanza d'aria nei polmoni, mi tenevano sveglia più di tanto. Ero pur sempre una mezza umana.
Stesi il vestito sul copriletto e lo ammirai a lungo. Senz'altro aveva un valore notevole, ed era perfetto per l'occasione, come tutti gli accessori. Provai i guanti neri e le scarpe scintillanti di vernice, accostai le perle al viso davanti allo specchio per osservare l'effetto. Mentre mi chiedevo come avrei sistemato i capelli, presi la borsetta, piccola e rivestita di seta grigia, e feci scattare il fermaglio di brillanti che ne bloccava la chiusura, studiandone i riflessi luminosi. La borsetta si aprì e qualcosa di bianco scivolò fuori. Era una semplice busta da lettera chiusa. Perplessa, la aprii velocemente. Conteneva un'altra busta chiusa, un po' più piccola, e un bigliettino, sul quale ancora una volta riconobbi la calligrafia di Rosalie.
Un messaggio segreto nella borsetta? Ma cos'era, un film di spionaggio? Lessi il cartoncino.


L'altra busta contiene una lettera che fu scritta per te sei anni fa. I tuoi genitori non sanno che te l'ho mandata: sono entrata in casa vostra mentre erano a caccia e l'ho presa. E non ci vediamo da qualche giorno, quindi tuo padre ha potuto ascoltare i miei pensieri.
Non sono sicura che sia la cosa giusta da fare. Una parte di me teme di peggiorare la situazione, ma forse non può andare peggio di così.
Non l'ho letta e non ne conosco il contenuto, ma spero che possa esserti di aiuto.


Lessi e rilessi il biglietto varie volte, in silenzio, con la continua sensazione che mi sfuggisse qualcosa. Una lettera per me? Presi l'altra busta e vi gettai un'occhiata. Sul retro qualcuno aveva scritto il mio nome con una grafia piuttosto sgraziata. No, non qualcuno. La mamma. Era la sua scrittura, quella. Sempre più confusa, con le mani tremanti e la testa affollata di domande, aprii la busta e ne estrassi due fogli vergati a mano. Trovai il primo rigo e iniziai a leggere.



30 dicembre 2006


Mia piccola Renesmee,
mentre scrivo sono seduta nella tua cameretta e ti guardo dormire. È una delle cose che amo di più al mondo, osservarti mentre ti perdi nel mondo dei sogni. Mi piacerebbe perdermi con te, ma non posso più farlo. Allora sogna anche per me, bambina mia.
Me ne sto qui già da un bel po' di tempo. Quando ho preso in mano carta e penna non avevo idea di cosa scrivere e speravo che tu stessa potessi essere un'ispirazione, che il tuo incantevole visino addormentato mi suggerisse le parole giuste. Sono giorni che penso e ripenso al contenuto di questa lettera, che la scrivo nella mia mente, per poi cancellarla e riscriverla daccapo. Tutto mi sembra stupido, inutile, sbagliato. Ma ora credo di aver finalmente capito che non esistono le parole giuste per dire addio a tua figlia, perchè una cosa simile non dovrebbe mai accadere.
Nessun genitore dovrebbe mai lasciare il proprio figlio. Ma noi non abbiamo scelta: è l'unico modo per salvarti. A volte l'amore ci costringe a prendere decisioni tremende, ma se ci tirassimo indietro per paura non sarebbe vero amore, il nostro. Quando sarai grande e amerai qualcuno con tutte le tue forze, che sia un compagno di vita, un figlio o un amico, capirai fino in fondo il significato di queste parole. Le paure vanno affrontate, Renesmee. Nascondersi non serve, ci rende soltanto più deboli; e prima o poi arriva il giorno in cui ci rendiamo conto che abbiamo permesso alla paura di dominare la nostra vita, di toglierci il libero arbitrio, di portarci via chissà quante cose, belle e brutte.
Vorrei tanto vederti crescere e diventare donna. Scoprire i tuoi gusti in fatto di libri, film e musica; chissà se saranno almeno un po' simili ai miei. Mi piacerebbe scoprire se il tuo carattere somiglierà di più al mio o a quello di tuo padre. Chissà se ti ho trasmesso la mia allergia allo shopping o se Alice ti ha già irrimediabilmente plagiata. Vorrei esserci al tuo prima compleanno, il tuo primo giorno di scuola, quando darai il tuo primo bacio, quando imparerai a guidare la macchina, quando camminerai verso l'altare.

Non sai quanto vorrei poterti stare vicino giorno dopo giorno, come ogni madre dovrebbe fare. Ma non potrò esserci. Ancora poche ore e dovrò lasciare tutto ciò che amo, te per prima. Non possiamo farcela. Stavolta il destino  non è dalla nostra parte. È per questo che ti scrivo, Renesmee. Affinchè un giorno, quando ti sembrerà di essere sola, quando sarai triste o in difficoltà e sentirai di aver bisogno di noi, tu possa ricordare quanto è grande il nostro amore per te e questo ti sia di aiuto. Non importa se fisicamente non saremo più al tuo fianco. Le persone che ci hanno amato non ci lasciano mai veramente. Vivono dentro di noi, mia piccola brontolona. È così che ti chiamavo quando eri ancora dentro di me, sai? La mia piccola brontolona.
I giorni passati ad aspettare te sono stati i più incredibili, i più difficili e i più belli della mia vita. Voglio che tu sappia che rifarei tutto daccapo, altre dieci, cento, mille volte. Tu hai dato un senso a tutto, Renesmee, quando sembrava che niente fosse più destinato ad averne. Io, tuo padre e Jacob ci eravamo cacciati in un bel guaio. Non ho il coraggio di raccontarti nel dettaglio come sono andate le cose. Per questo conto su Jake. Ma eravamo nel caos, intrappolati in un tunnel buio senza riuscire a scorgerne la fine. Eravamo a pezzi. Soprattutto Jacob. Non puoi immaginare quanto male gli ho fatto. Poi sei arrivata tu, come una stella che illumina il buio di mezzanotte, e tutto è andato magicamente a posto. Finalmente abbiamo un equilibrio, anche se non sopravviverà a lungo.
Le sole due cose a darmi la forza di tenere la penna in mano, in questo momento, sono il pensiero che tu sopravviverai e che Jacob sarà con te. Conta su di lui, per qualsiasi cosa: per aiuto, affetto, consolazione. Lui sarà per te tutto quello che saremmo stati tuo padre ed io, e anche di più, se un giorno vorrai che sia così.
Fa' le tue scelte senza timore, ma con gli occhi ben aperti, e non potrai sbagliare.
L'amore può essere complicato, a volte, ma una vita senza amore non è vita.
Il destino fa paura, ma affrontalo a testa alta e non lasciare che ti domini: ricorda che tu puoi scegliere, sempre.
Impara il valore del perdono: può dare grande gioia.
Saper aspettare è importante, ma il tempo lo è di più, anche quando vivi per sempre: non sprecarlo mai.
Se un giorno ti sarà possibile, cerca di stare vicino a Charlie, in qualunque modo, e di dargli tutto l'affetto che avrebbe meritato di ricevere da me per il resto della sua vita. E vorrei che un giorno tu vedessi Renee, una volta soltanto, e da lontano, in silenzio, le dicessi addio da parte mia.
Ho ancora così tante cose da dirti, e così poco tempo. Vorrei disperatamente non essere costretta a lasciarti, ma non c'è altro modo, non c'è altro modo, se voglio che tu viva. Posso solo prometterti che ovunque saremo, qualunque cosa ci sia dopo la morte, io e tuo padre continueremo ad amarti e a starti vicino con i nostri cuori e le nostre menti. E quando ti capiterà di sentirti sola, triste o confusa, quando vorresti averci al tuo fianco, fa' un respiro profondo, chiudi gli occhi e ascolta dentro di te, ascolta con attenzione: noi saremo lì.


Con amore, mamma




****



«Sei pensierosa, stasera. Qualcosa non va?»
La voce di Alex mi riscosse e mi resi conto di essermi completamente estraniata dalla realtà. Di nuovo. Lanciai un'occhiata tutt'intorno, confusa. Eravamo nella sua auto, era buio e ci stavamo dirigendo verso casa mia. Da quanto tempo ero distratta? Andava avanti così dall'inizio della serata. Anzi, da tre giorni, ormai. Da quando avevo letto la lettera.
«Ehm... No, tutto bene» risposi, cercando di apparire disivolta. «È solo che... è stata una serata intensa».
La festa di compleanno di Holly era stata indimenticabile, proprio come aveva desiderato lei. Alcuni ospiti, tra cui Alex e Jas, avevano portato bottiglie di vino, birra e qualche liquore, sgraffignate in modi più o meno illegali, e la baldoria si era fatta particolarmente sfrenata, grazie anche all'opportuna assenza dei genitori di Holly, partiti per un week end in campagna. Un bel po' di gente si era data alla pazza gioia; mentre Holly improvvisava una lap dance sul tavolo della cucina, con Paul che tentava senza successo di costringerla a scendere, Tom e Jas si erano esibiti in una versione un po' stonata di You're the one that I want e qualcuno aveva fatto un video della loro performance che dopo mezz'ora era già su Internet.
Prima di andarmene ero riuscita a trascinare Holly in camera sua e a metterla a letto con l'aiuto di Maggie e Danielle. Poi insieme ad Alex avevo accompagnato a casa Jas, che per tutto il tempo si era divertita a fare l'idiota: aveva cercato di improvvisare uno spogliarello in macchina, cantato a squarciagola I will always love you, lanciato una scarpa col tacco contro il parabrezza (per fortuna senza gravi conseguenze), aveva quasi strangolato Alex dal sedile posteriore con la tracolla della sua borsetta e infine aveva cercato di uscire dall'auto attraverso il finestrino. Giunti a casa sua, avevamo aperto la porta con le sue chiavi ed eravamo riusciti a portarla di sopra senza troppi incidenti, inciampando solo un paio di volte nei tappeti. Appena raggiunto il letto, Jas era crollata.
«Personalmente non ho ancora deciso quale sia stato il momento migliore... Tom che vagava in giardino "in cerca del suo dinosauro" o Jas che stava per bussare alla porta della stanza da letto dei suoi» disse Alex, divertito. «Impossibile scegliere».
«Eh già» commentai. «Io voterei per Jas; stava per farmi venire un infarto».
«Dai, Scheggia, qualche brivido rende la vita più gustosa».
«Direi che ne abbiamo avuti a sufficienza per un bel po'».
Cercavo di apparire serena, ma suonavo falsa anche a me stessa. Di sicuro non lo stavo ingannando. Mi accorsi che mi fissava, ed io guardavo a mia volta fuori dal finestrino, per non dover incontrare i suoi occhi.
«Lo stai rifacendo» mi informò all'improvviso.
«Che cosa?»
«Ti stai isolando».
Merda. «Scusa, è che... sono preoccupata per gli esami» buttai lì, sperando di prendere tempo. Non avevo la minima idea di cosa dirgli.
Tacque un istante. «Okay» rispose, e capii subito che non potevo fargliela.
Sospirai mentre l'auto si fermava davanti a casa di Charlie. «E va bene, hai ragione. Qualcosa c'è».
«Non devi dirmelo per forza, Renesmee».
«No, voglio dirtelo, davvero. Ma a volte è difficile parlare di certe cose».
Fece un mezzo sorriso, un lampo di denti bianchi e regolari. «Lo so».
Ci fu una lunga pausa. Lui aspettava, io cercavo disperatamente le parole giuste. «Forse dovrei tornare» dissi infine.
«A casa tua?» chiese. Non lo avevo colto di sorpresa, allora. Conosceva il mio problema e i miei pensieri, per quanto solo parzialmente, ma soprattutto conosceva me. E mi capiva, come poche altre persone al mondo. Annuii. «Dovresti o vorresti?»
«Entrambe le cose, credo. Il fatto è che... è passato più di un mese. Io sono andata via perchè avevo bisogno di tempo per calmarmi, per pensare e schiarirmi le idee, e adesso... adesso mi sembra senza senso continuare a nascondermi. Perchè è questo che sto facendo: mi nascondo dalla verità. Ma non è possibile sfuggirle».
«Be', allora torna dalla tua famiglia. Tu hai la fortuna di poterlo fare».
«Ho paura» confessai a bassa voce.
«Di cosa?»
Serrai le labbra, sentendo l'angoscia stringermi la gola. «Sarà tutto diverso, Alex. Le cose non potranno mai più tornare come prima. E se fosse troppo difficile? E se non riuscissimo a superarlo?»
«Non lo saprai mai se non ci provi» rispose con semplicità.
Non commentai in nessun modo, ma dentro di me sapevo che aveva ragione. Restammo nuovamente in silenzio per qualche minuto. Io riflettevo, cercavo di immaginare, decidevo, ci ripensavo. A un tratto mi venne in mente una cosa.

«Ricordi quello che ti ho detto quando ci eravamo appena conosciuti, la prima volta che abbiamo pranzato insieme? Parlavamo delle nostre vite ed io ti ho detto che la mia era perfetta. E invece mi sbagliavo». Che strano ripensare a quella giornata dopo tanto tempo; quel ricordo portava con sé un miscuglio di rimpianto, gioia e amarezza. «Nel mio mondo perfetto si sono aperte delle crepe. So che era soltanto un'illusione, però... mi rendeva felice. E vorrei poterci credere ancora».
«E tu ricordi cosa ti ho detto io?» ribattè con aria decisa, l'espressione intensa. Non risposi, ma lo ricordavo benissimo: aveva messo in dubbio le mie certezze, sostenendo tranquillamente che le cose troppo perfette non durano mai. Allora avevo creduto che si sbagliasse. Adesso, invece, non potevo che riconoscere la semplice, banale, ma assoluta verità delle sue parole, e biasimare la mia ingenuità. «La vita perfetta non esiste, Renesmee, semplicemente perchè le persone non lo sono. Anzi, sbagliano di continuo e combinano dei gran casini. Guarda me, sono un casino vivente». Ammiccò nella mia direzione. «Io... non sono uno che perdona con facilità. È uno dei miei peggiori difetti. Però credo che adesso predicherò bene e razzolerò male e ti dirò che a volte bisogna perdonare. È l'unico modo per andare avanti. E prima o poi la felicità si ritrova
» concluse, serio e dolce al tempo stesso, un sorriso tenue sulle labbra.
Lo avevo ascoltato attentamente. Lasciai andare la testa all'indietro, appoggiandomi al sedile dell'auto, sentendola pesante e dolorante. Ero molto stanca. «Non eri un pessimista cronico, tu?» domandai scherzosamente, aggrottando la fronte.
Il suo sorriso si allargò mentre ci guardavamo. «Solo ogni tanto, Scheggia. Solo ogni tanto».
Mentre parlava, mi circondò la vita con un braccio, attirandomi a sé. Chiusi gli occhi e sentii la sua lingua sfiorarmi le labbra, disegnarne il contorno, accarezzare il labbro inferiore, esercitando una lieve pressione. Scossa da tremiti, dischiusi appena la bocca e la sua lingua accompagnò il mio movimento, all'improvviso avida e veloce. Poggiai una mano sulla sua spalla e con l'altra gli toccai i capelli, morbidi, lisci, sottili. Mi baciò, ancora, e ancora, e ancora, e per un po' mi parve di riuscire a cancellare tutto, mentre mi abbandonavo a quelle meravigliose sensazioni. Mi sentivo come una piuma che fluttua leggera nell'aria, sospinta da una dolce, calda brezza primaverile. Ma quando lui dovette interrompere il bacio per prendere fiato, tornai lentamente con i piedi per terra.
«Devo rientrare» ansimai. Sentivo un gran caldo, sebbene fuori si gelasse.
«Mmm» protestò Alex, il viso ancora vicinissimo al mio; aveva gli occhi chiusi. «No, Scheggia... Ancora un po'».
«È mezzanotte e mezza, Charlie mi starà aspettando».
Sospirò, senza muoversi di un millimetro. «Un giorno ti rapirò e non potrai più andare via» sussurrò.
Sorrisi. Che stupido. «Be', in attesa di quel giorno...». Mi sottrassi piano alla sua stretta, e Alex, sconfitto, si allontanò.
«Sei perfida» mugugnò.
Recuperai la borsetta e la stola di chiffon dai sedili posteriori. «Buonanotte, Alex. E grazie».
In casa trovai Charlie sdraiato sul divano in uno stato di dormiveglia; la tv era accesa a basso volume, ma probabilmente aveva smesso di guardarla già da un pezzo. Spensi il televisore e lo svegliai. Riuscì a restare vigile quel poco che bastava per capire che ero tornata, poi barcollò al piano di sopra. Io lo seguii, stanca morta, eppure avevo così tante cose a cui pensare che dubitavo di riuscire ad addormentarmi. E poi speravo ancora di scoprire chi accidenti si divertiva ad entrare e uscire dalla mia stanza in piena notte.
Quando fui pronta, mi infilai nel letto, la lettera della mamma, che ormai avevo a memoria, sul comodino e il libro di grammatica francese tra le mani; il lunedì successivo ci sarebbe stata una verifica e fino ad allora non avevo studiato un granché. Lessi un paio di paragrafi, ma ben presto iniziai a sospettare di avere ancor meno resistenza di quanto immaginassi: le palpebre si abbassavano da sole, le parole erano sfocate e quasi si confondevano tra loro, il mal di testa era peggiorato e mi sentivo intorpidita. Accidenti, che sonno... Non dormivo bene da giorni e giorni... Forse se avessi chiuso gli occhi solo per cinque minuti...
Senza neanche accorgermene scivolai nel dormiveglia. Mi ero appena assopita, quando all'improvviso qualcosa mi riscosse; non un rumore, ma semplicemente una sensazione, la sensazione di non essere sola nella stanza. Spalancai gli occhi, a un tratto vigile, e mi tirai su a sedere nel letto, il cuore che batteva forte e il fiato corto. Le luci erano ancora accese come le avevo lasciate, il libro di francese era scivolato a terra. Sembrava tutto normale, ma la finestra era socchiusa e la fredda brezza notturna muoveva appena le tende. In piedi al centro della stanza c'era mia madre.
«Mamma» esclamai.
Lei aveva gli occhi spalancati per la sopresa e l'aria spaventata. Mi fissò in silenzio per un tempo che mi parve interminabile.
«Renesmee» mormorò.





Note.
1. Link. Perfetta, assolutamente perfetta. Se i Coldplay non esistessero, bisognerebbe inventarli. Le loro canzoni sono la colonna portante di questa storia, oltre che un'eccellente fonte di ispirazione. 
Trovo che questa canzone si adatti bene sia alla lettera di Bella e al suo significato, sia alla conversazione tra Alex e Renesmee e in generale al loro rapporto in tutto l'arco della storia. In una parola... è perfetta.
2. Scrabble.
3. Backgammon.








Spazio autrice.
Qualche chiarimento e poi chiudo. 

Come si può intuire dalla data e dal contenuto, la lettera di Bella è quella che lei dice di aver scritto per Renesmee in Breaking dawn, quando era convinta che lei e Edward non sarebbero sopravvissuti allo scontro con i Volturi. Il testo è stato completamente inventato da me. 
Le canzoni che cito nel capitolo possono essere ascoltate tutte su youtube, se per caso vi piace la musica dei Cinquanta quanto piace a me... Sì, io e Edduccio abbiamo gli stessi gusti.
La data di nascita di Charlie, 1964, è scritta nella Guida ufficiale della saga.
Ultima nota a proposito del viaggio di nozze di Emmett e Rosalie a Nizza, nel 1954. Ho inventato tutto di sana pianta. Sappiamo che Emmett viene trasformato nel 1935 e immagino che per i primi anni, da neonato, non sarà stato in grado di pensare al matrimonio. Inoltre, sappiamo che all'inizio della loro storia erano molto passionali e Edward ci informa che dovettero passare circa dieci anni prima che il resto della famiglia riuscisse a sopportarne la vicinanza, quindi non è strano pensare che negli anni Cinquanta fossero in giro per l'Europa, da soli, magari impegnati in un viaggio di nozze particolarmente lungo.
E anche stavolta ho scritto un sacco. Va be', alla prossima!





 




   

 

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Capitolo 22
*** Redemption ***


C 22
Capitolo 22
Redemption


For everyone lost in the silence
For everyone missing piece
For every will that is broken
No matter how dark it may be
There is redemtion
Redemption, The Strange Familiar¹



La casa è quel posto dove, quando ci andate, vi accolgono sempre.

David Frost





Era lei, dunque. Era lei, come avevo sempre pensato. Non avrei mai potuto non riconoscere la sua scia; il suo profumo, dolce e delicato, non era tra i miei primissimi ricordi, ma era comunque uno dei più forti che avessi. Non mi ero sbagliata, e adesso era lì, davanti a me, con quell'espressione preoccupata, come se si fosse accorta di aver commesso un terribile errore.
Restammo in silenzio a fissarci per non so quanto tempo. Avrei tanto voluto parlare, dire qualcosa, qualsiasi cosa, chiederle che diamine ci facesse nella mia stanza, tanto per cominciare, ma mi sembrava di non avere più fiato. Quando finalmente la mamma parlò, sussultai.
«Renesmee» ripetè con tono ansioso. «Scusami, io... non sapevo che tu... non immaginavo di trovarti...». Si passò le mani tra i capelli, agitata come se fosse stata in trappola. Distolse lo sguardo da me. «Me ne vado» farfugliò e fece per voltarsi e lasciare la stanza.
«Aspetta!» esclamai, scendendo in tutta fretta dal letto. Bella si bloccò e si girò di nuovo, molto lentamente. Era incredula. «Aspetta, non andartene. Io... devo farti vedere...»
Non sapevo bene neppure io cosa volessi fare e cosa stessi cercando di dire, ma con mani tremanti presi la lettera piegata dal comodino, mi avvicinai e gliela porsi. Lei tese la mano, sempre più stupita, prese la lettera, l'aprì con gesti lenti e vi gettò un'occhiata. Restai in trepidante attesa, chiedendomi come avrebbe reagito. Si sarebbe arrabbiata? Sarebbe stata felice di sapere che l'avevo letta? E io che cavolo dovevo fare, adesso? Tutta l'ansia che accumulavo da giorni mi piombò addosso all'improvviso, come una valanga. Respirai profondamente. Bella lesse le prime righe e senz'altro riconobbe all'istante le parole tracciate dalla sua stessa mano. Sollevò lo sguardo su di me, ancora più stupita di prima.
«Come fai ad averla?» sussurrò.
«Ricordi... ricordi che stasera c'era la festa di compleanno di Holly, in stile anni Cinquanta? Te l'ha detto Charlie, e tu devi averne parlato con Rosalie e lei... mi ha mandato un vestito della sua prima luna di miele con Emmett, insieme alle scarpe e tutto il resto, perchè Charlie deve averle detto che non sapevo cosa mettere» spiegai affannosamente, le parole che inciampavano l'una sull'altra. Mi auguravo che non se la prendesse con zia Rose. «E nella borsetta ho trovato questa. Mi ha scritto in un biglietto di essere entrata in casa nostra quando tu e... quando tu e papà non c'eravate e di averla presa, e poi... l'ha mandata a me. L'ho letta».
La mamma abbassò nuovamente gli occhi sulla lettera, accigliata. «Accidenti a Rosalie, non si fa mai gli affari suoi» borbottò.
«Be', questa è una caratteristica piuttosto diffusa nella famiglia Cullen, o sbaglio?» dissi, in un coraggioso tentativo di scherzare.
La sua espressione divenne al limite dello shock. Potevo capirla. In fondo, non le rivolgevo la parola in modo così amichevole e tranquillo da... cinque settimane, in effetti. Cinque settimane. Davvero eravamo state lontane per tutto quel tempo, tenendoci in contatto soltanto con brevi e inutili telefonate? Che fine avevano fatto l'amore, la sintonia, il legame che ci univano? Che cosa avevamo combinato? Che cosa avevo combinato? Sentivo gli occhi gonfi e umidi, un nodo in gola, e temetti di scoppiare in lacrime. La mamma, ancora occupata a studiare la lettera, non se ne accorse subito.
«Perchè Rosalie ha fatto questo?» domandò a bassa voce; mi parve che parlasse con se stessa più che con me.
Alzai le spalle, mordendomi il labbro inferiore. «Non lo so». Be', se per caso voleva cercare di farmi sentire schifosamente in colpa, c'era riuscita in pieno. La mia voce incrinata la spinse a sollevare lo sguardo.
«Mi dispiace, Renesmee» sussurrò, e il suo tono era ricco di sincero, profondo rammarico. 
Presi un altro respiro profondo e deglutii; piangere non sarebbe servito a nulla, non dovevo lasciare che accadesse. «A me no. È bellissima. Sono contenta di averla letta».
Sul suo volto si aprì un piccolo sorriso, leggermente esitante. «Grazie, tesoro». Con gesti lenti ripiegò la lettera.
Per un po' scese il silenzio, pesante come un macigno. Avevo qualcosa di importante da dirle e mi sforzai di parlare, ma quando infine riuscii ad aprire bocca, dopo molti tentativi, non ebbi il coraggio di affrontare subito e direttamente l'argomento.
«L'hai scritta mentre aspettavamo i Volturi, vero?» mormorai.
Lei mi fissò con le sopracciglia inarcate e quella piccola ruga sulla fronte che appariva sempre quando qualcosa la preoccupava. «Sì. Io e tuo padre... credevamo che non ci fosse alcuna speranza». Tacque per un attimo e deglutì con forza prima di andare avanti. «Volevo lasciarti qualcosa. Qualcosa a cui potessi aggrapparti, se noi...»
Lasciò la frase in sospeso. Annuii, gli occhi bassi, le labbra serrate e la tristezza nel cuore. Ero sempre più arrabbiata con me stessa: ogni sua dimostrazione di affetto suonava alle mie orecchie come un rimprovero per come mi ero comportata con lei.
Di nuovo restammo in silenzio per qualche secondo, entrambe prese dai nostri pensieri, poi, all'improvviso, parlaii ancora, d'impulso. «Vieni spesso, vero? Voglio dire... qui... di notte. Ho sentito una traccia, qualche giorno fa. Per questo mi hai trovato... quasi sveglia, stanotte: ti aspettavo».
Dalla sua espressione capii che, se ne fosse stata in grado, sarebbe arrossita fino alla radice dei capelli. La stavo mettendo in difficoltà, ma volevo capire. Più volte aprì la bocca per rispondere e la richiuse, probabilmente senza trovare le parole adatte. «Mi dispiace» ripetè. «So che ci hai chiesto di rispettare i tuoi spazi, ma... era l'unico modo per vederti» ammise, e abbassò rapida il viso, per non essere costretta a reggere il mio sguardo. «Non avresti dovuto accorgertene. Perdonami».
Scossi la testa. «No, mamma... Sono io che devo chiederti scusa. A te e... a papà... a tutti voi» sussurrai. Sapere che le mancavo al punto da spingerla a venire a trovarmi di notte, nascondendosi, senza poter parlare con me, come se fosse stata colpevole di chissà quale delitto, non mi aiutò a controllarmi. In un istante mi si riempirono gli occhi di lacrime e non riuscii più a vedere bene il viso della mamma.
«Perchè dovresti scusarti?» domandò cautamente, come se la mia risposta la preoccupasse.
Era il mio turno di restare senza parole, adesso. Cercai di spiegarmi, ma mi sembrava di soffocare. «Per quello che ho fatto» sussurrai. «Per tutte le cose orribili che ho detto. Per essere andata via e avervi lasciato così. Io... è assurdo, come ho potuto farlo? Come ho potuto essere così cattiva?». Mi lasciai cadere sul letto e scoppiai in lacrime disperate, senza la minima possibilità di frenarle. Sentii uno spostamento d'aria rapidissimo e un millesimo di secondo più tardi la mamma mi stringeva tra le braccia, mi accarezzava i capelli, mi sussurrava parole sottovoce nell'orecchio, ma singhiozzavo troppo forte per riuscire a sentirle. «Mi dispiace tanto, mamma, mi dispiace tanto...»
Trascorse un bel po' di tempo prima che riuscissi a calmarmi un pochino; quella specie di crisi isterica mi fece vergognare, ma non piangevo da quando avevo lasciato casa e tutta la tensione, la paura, il dolore che albergavano in me da giorni e giorni sembravano essersi sciolti di colpo. Mi sentivo meglio, però, e non ero sicura se fosse grazie al pianto liberatorio o alla presenza della mamma. A un tratto mi prese per le spalle, allontanandomi appena da sé per guardarmi in faccia.
«Ascolta, Renesmee» esclamò con tono deciso, quasi rabbioso, «non puoi continuare a sentirti in colpa per tutto quello che succede intorno a te, non puoi, capisci? Devi smetterla o questa cosa ti ucciderà! Sei come tuo padre: anche lui non fa che tormentarsi nelle sue colpe o presunte tali, e spesso finisce con il rovinarsi l'esistenza da solo. Ci sono cose che sfuggono al tuo controllo e vanno come devono andare, senza che tu possa fare nulla per fermarle o cambiarle. E questo vale anche per i tuoi sentimenti».
«Però stavolta ho sbagliato davvero» la interruppi. «Io ho deciso di andarmene, io vi ho trattato in modo orribile, io  vi ho detto delle cose che...». Portai istintivamente le mani al viso, come per coprirmi. «Papà non mi perdonerà mai... Jacob non mi perdonerà mai...»
Lei spalancò gli occhi per un istante, come se qualcosa l'avesse sorpresa profondamente. «Non c'è niente da perdonare. Avevi tutto il diritto di essere furiosa» mormorò con un filo di voe.
Scossi il capo. «Forse, ma... non avevo il diritto di dimenticare che siamo una famiglia, di dimenticare quello che avete fatto per me. Tu mi hai salvato la vita due volte ed io ti ho trattata da schifo perchè non mi hai detto di... di Jacob» balbettai tutto d'un fiato, agitatissima; era la seconda volta che mi sfuggiva quel nome dalle labbra ed ero certa che la mamma avesse notato la mia difficoltà. Dannazione. «Non so cosa mi sia successo. Credevo che quello che Leah mi aveva detto avesse cancellato tutto il resto, ma non è possibile». Scossi di nuovo la testa, sgomenta davanti all'enormità dei miei errori. Continuare a parlare era tremendamente difficile, ma ripensai a ciò che mi aveva detto Alex, poco prima, sulla felicità e sull'importanza del perdono, e mi parve di sentirmi un po' più forte. «Non avevo capito che esistono cose che non possono essere cancellate. Credevo che andarmene mi avrebbe aiutato a stare meglio, ma come potrei stare meglio così lontana da tutti quelli che amo di più? Qualunque cosa succeda, con voi non cambia nulla. Come potrebbe? Siete la mia famiglia e questo è infinitamente più importante di qualunque segreto abbiate nascosto, di qualsiasi errore abbiate commesso... Come ho potuto credere il contrario? Come ho potuto giudicarvi così duramente? Dio, sono stata una stupida».
«Tesoro, ti calmi, per favore?» intervenne la mamma; non smetteva di accarezzarmi e aveva l'aria preoccupata. «Hai fatto quello che sentivi di dover fare. Se in quel momento pensavi che andare via per un po' fosse la scelta migliore per te, allora hai fatto bene». 
«Lo era allora, forse, ma... adesso non lo è più» risposi, esitando leggermente. Una piccola e stupida parte di me temeva che  la mia richiesta non venisse accolta troppo bene. Quella stessa piccola e stupida parte subito pronta a credere che suo padre non l'avesse mai amata davvero perchè in un momento difficilissimo, probabilmente il più critico della sua esistenza, era stato sul punto di commettere un errore. Lui aveva sbagliato, certo. Ma dubitare del suo affetto per me, affetto che mi dimostrava ogni giorno da cinque anni, mi sembrava sempre più una follia. E se non riuscivo a perdonarlo, ero io a sbagliare, questa volta. Mi feci coraggio e andai avanti. Bella mi fissava intensamente, aspettando. «Io... vorrei tornare... se... se per voi va bene» balbettai.
«Oh» esclamò e capii di averla spiazzata totalmente. Non se l'aspettava. «Non sei costretta, Renesmee» disse subito. «Non devi sentirti obbligata, non ci devi nulla. Quello che io e tuo padre abbiamo fatto... l'abbiamo fatto perchè ti amiamo e sono contenta che tu riesca a sentirlo di nuovo, ma non costringerti a fare qualcosa che non vuoi. Se ancora non te la senti, aspetteremo tutto il tempo che sarà necessario».
«Ma io non voglio aspettare. Voglio tornare adesso. Voglio stare con voi, mamma» sussurrai.
Mentre Bella mi fissava, il suo viso perfetto sembrò illuminarsi lentamente di pura gioia. Così rapidamente che neanche me ne accorsi, mi prese di nuovo tra le braccia, stringendomi con delicatezza, ed io abbandonai la testa sulla sua spalla, piangendo e sorridendo al tempo stesso, provando di nuovo, finalmente, quella meravigliosa sensazione di sicurezza che avevo temuto di non riuscire più a provare. E in quell'istante, l'istante in cui ci riunimmo davvero, mi resi conto di non averla mai persa, e nemmeno papà. Erano sempre stati con me. Avevano mantenuto la loro promessa.











Note.
1. Qui la canzone. 










Spazio autrice.
Eccoci arrivati al penultimo capitolo. Questi mesi sono passati in un attimo, accidenti.
Penso che già alla fine dello scorso capitolo abbiate capito che era Bella il misterioso visitatore notturno di Renesmee. Per la verità, qualche piccolo indizio lo avevo inserito nel capitolo venti, quello narrato dal punto di vista di Bella; infatti mentre parla con Edward si intuisce che lei vorrebbe andare in un posto, però esita e non è sicura che sia la cosa giusta... Va be', comunque ormai lo sapete ^^. E pace è stata fatta, finalmente.
Credo non ci sia nulla da aggiungere. Alla prossima settimana!

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Capitolo 23
*** Please don't stop the rain ***


C 23
Capitolo 23
Please don' t stop the rain



If it's gonna be a rainy day
There's nothing we can do to make it change

We can pray for sunny weather
But that won't stop the rain
Feeling like you got no place to run
I can be your shelter 'til it's done
We can make this last forever
So please don't stop the rain.
Please don't stop the rain, James Morrison¹



Siamo esseri umani, meravigliosamente complicati, assurdamente speciali...
Anton Vanlight, Mai troppo folle 




Toc toc.
Qualcuno bussava alla porta. Fui bruscamente strappata alla lettura di un lungo e noioso capitolo di storia moderna e sollevai la testa.
«Avanti» borbottai, di malavoglia.
La porta si aprì e comparve Esme. Mi fece uno dei suoi sorrisi capaci di sciogliere un iceberg e mi sentii subito in colpa.
«Tesoro, stai ancora studiando?» disse, guardandomi con aria preoccupata. «Perchè non fai una pausa?»
Le sorrisi, sforzandomi di non lasciar trapelare uno sbuffo di esasperazione. Era la settima volta che mi poneva quella stessa domanda nell'arco della giornata ed erano appena le quattro del pomeriggio.
«No, tranquilla. Oggi non ho combinato un granchè».
«Be', comunque non stancarti troppo. Non è necessario, vedrai che gli esami andranno benissimo».
Lo stomaco mi si contrasse. Afferrai convulsamente la matita e quasi mi aggrappai al bordo del libro come a un'ancora di salvezza. Meglio riprendere subito a studiare. «Sì... Grazie» risposi, ostentando una tranquillità che ero ben lontana dal provare.
«Hai fame?» aggiunse, ancora sulla porta. «Ho preparato i brownies, vuoi assaggiarli?»
«Magari più tardi. Ora non mi va».
Esme annuì con un piccolo sospiro. Vedermi rifiutare del cibo la gettava sempre in un profondo stato di agitazione, come se fossi un'abitante denutrita del terzo mondo.
«D'accordo. Ti lascio studiare, allora». E se ne andò con un ultimo sorriso.
Ricominciai a leggere, prendendo nel frattempo appunti su un quaderno, e ogni tanto facevo una breve ricerca al computer per avere qualche informazione in più. Ma la mia tranquillità durò solo qualche minuto; il silenzio che regnava nell'ampio studio-libreria di Carlisle, dove mi ero rifugiata nella speranza di sfuggire alla mia famiglia ansiosa e impicciona, fu rotto da un'improvvisa esclamazione a voce alta.
«Renesmee!»
Per la sopresa feci un tale salto sulla sedia che la matita mi cadde di mano e rotolò sul pavimento. Quasi cacciai un urlo. «Mamma!» esclamai, senza fiato.
Lei e papà erano appena entrati attravero la grande portafinestra che dava sul retro, tenendosi abbracciati e sfoggiando due identiche espressioni allegre e soddisfatte.
«Oh scusa, non volevo spaventarti». La mamma raccolse la matita e me la restituì.
«Be', l'hai fatto, invece» dissi a denti stretti; ripresi la matita con un gesto nervoso. «Perchè siete qui? Non dovevate essere a caccia?»
«Siamo appena tornati» rispose papà. «Pensavamo di passare a prenderti, perchè è un bel po' che non vai a caccia, ma sta arrivando un temporale e a te non piace correre sotto la pioggia».
«Davvero?» mugugnai, scocciata. Lanciai un'occhiata fuori e mi accorsi che il cielo era stato rapidamente oscurato da nuvoloni grigi, grossi e minacciosi. Tanto per cambiare. Sebbene fossimo in maggio, non c'era quasi il minimo segnale dell'arrivo della primavera.
Edward lasciò la mano della mamma, si avvicinò e mi accarezzò piano i capelli; percepiva benissimo la mia ansia e sapeva che quel gesto aveva sempre un effetto calmante su di me. «Come prosegue lo studio?»
«Proseguirebbe molto meglio se avessi un po' di pace».
Lui fece un sorriso divertito.
«Perchè, non ce l'hai?» si informò la mamma, aggrottando la fronte.
«No che non ce l'ho!» sbottai alzando la voce. Avevo scoperto che quando ero sotto pressione mal sopportavo di essere circondata da persone assolutamente tranquille. Il mio nervosismo peggiorava. Non riuscivo neanche a stare bene con Alex, che prendeva la faccenda degli esami come una specie di scherzo, sicuro del fatto suo. Quasi preferivo la compagnia di Jas, che in quei giorni era più isterica di me. «Sono stata costretta e lasciare la stanza di papà perchè Emmett non la finiva più di cantare la sigla di Happy days nel corridoio, Alice mi sta letteralmente inseguendo per costringermi a provare un suo nuovo modello ed Esme è gia venuta tre volte da quando sono qui a chiedermi se voglio i suoi brownies!»
«Ah» commentò la mamma. Mi fissava accigliata, come se non sapesse bene che cosa dirmi. «Capisco. Allora, uhm... noi ti lasciamo. E diremo a tutti di non disturbarti più, okay?»
«Per quello che può servire» borbottai, sconsolata.
«Tentar non nuoce» rispose allegramente. Afferrò di nuovo la mano di papà.
Lui mi baciò rapidamente sulla testa. «Chiama se hai bisogno di una mano».
Uscirono, e finalmente avevo di nuovo la stanza tutta per me. Non ero più abituata a stare in una casa con tante persone, ecco il problema. Charlie e Sue trascorrevano buona parte del tempo fuori casa per lavoro e non erano certo paragonabili ai miei otto vampiri ficcanaso, sempre svegli, sempre attivi e sempre desiderosi di utilizzarmi come strumento di intrattenimento. Ero tornata soltanto da una settimana e alcuni aspetti del periodo passato da Charlie mi mancavano; sapevo che per riappropriarmi della solita, vecchia routine sarebbe servito un po' di tempo.
Non avevo ancora ritrovato il punto in cui la mia lettura si era interrotta, che la porta si spalancò di colpo ed Alice, Rosalie e Jasper fecero irruzione in gruppo nella stanza. Saltai di nuovo sulla sedia per lo spavento, ma stavolta riuscii a tenere stretta la matita.
«Ehi!» protestai, al massimo dell'indignazione.
«Ciao, Raggio di sole!» trillò Alice, saltellando verso di me. «Sei ancora qui?»
«Alice» intervenne zia Rose con un'occhiata significativa, «siamo passati solo per un saluto veloce, ricordalo».
«Ma certo. Per chi mi hai preso? So benissimo che Nessie sta studiando e non dobbiamo fare confusione».
Jasper si insinuò tra loro guardandomi con aria di scuse. «Prendo un libro e me ne vado, giuro» disse, e si diresse verso gli scaffali di filosofia.
Io li fissavo in silenzio, troppo sbalordita per parlare. Zia Alice sedette comodamente sul tavolo, accavallò le gambe, afferrò il mio quaderno degli appunti e lo esaminò. «Allora, dicevamo: sei ancora qui?»
«Sono ancora qui» farfugliai, arrabbiata. Avrei volentieri ripreso a leggere, ma lei non aveva alcuna intenzione di tacere.
«Piuttosto noiosa questa roba, non trovi?»
«Già, ma mi tocca saperla, questa roba, se non voglio essere bocciata».
«Bocciata? Tu? Impossibile» decretò zia Rose con una risata. «Tranquilla, tesoro, andrà tutto benissimo».
Ricambiai il suo sguardo affettuoso cercando di sorriderle. La sua presenza non mi dava mai davvero fastidio. In quei giorni avevo scoperto con piacere che il nostro legame sembrava essersi rafforzato durante la lontananza.
Da quando ero tornata non avevamo parlato molto, ma non ce n'era bisogno. Era stata lei, mandandomi la lettera della mamma, a scatenare con forza il desiderio di tornare, ad aprirmi gli occhi, a farmi sentire che forse sarebbe stato possibile ricominciare daccapo; anche questa volta, come quando ero venuta al mondo, le dovevo tutto, ed eravamo più vicine che mai. Questo non era cambiato affatto. 
«Be', comunque, se mai a un certo dovessi stufarti, sappi che ho un compito per te ben più interessante della... dinastia Tudor» proseguì Alice, imperterrita, sbirciando sul mio quaderno.
«Stare ore ed ore in piedi a farti da manichino secondo te è interessante?». Mi allungai per strapparle il quaderno di mano. «Vai a tormentare qualcun altro».
Lei mi fissò, perplessa, come se non riuscisse a capire il motivo della mia reazione. «Okay, Raggio di sole. Capisco lo stress degli esami, capisco la crisi adolescenziale, ma non starai diventando un po' troppo acida?»
«D'accordo, è il momento di andare» intervenne Jazz, stringendo il suo libro tra le mani.
Aveva appena concluso la frase che Emmett entrò nello studio, unendosi al gruppo. Di bene in meglio.
«Vi stavo cercando» disse con tono annoiato. Focalizzò l'attenzione su di me, che lo fissavo truce, e accennò un sorrisetto. «Ehilà! Ancora qui?»
«Vai a quel paese» sibilai.
Il suo sorriso divenne ancora più ampio mentre aggrottava le sopracciglia. «Nervosa, eh? Dimmi, sei così gentile anche con il tuo bamboccio? Di questo passo non durerà molto, tra voi».
«Non chiamarlo bamboccio
Afferrai il temperamatite con una mezza idea di lanciarglielo, ma Rosalie intervenne.
«Emmett» sbottò, rivolgendogli un'occhiataccia.
«Che c'è?» protestò lui. «Mi annoio a morte, devo pur fare qualcosa!». Aveva l'aria di un bambino a cui era stato sottratto il suo giocattolo preferito.
«Basta!» esplosi, al massimo dell'irritazione. «Fuori di qui, tutti quanti
Ci volle ancora del bello e del buono per trascinare Emmett ed Alice fuori dallo studio, ma a un certo punto, finalmente, ero di nuovo in tranquilla solitudine, sebbene così nervosa che faticai a recuperare un briciolo di concentrazione. Forse gli altri non avevano tutti i torti a ripetermi che me la prendevo troppo per quei dannati esami. Sarei morta piuttosto che ammetterlo, ma forse Alex non aveva tutti i torti quando mi chiamava "Miss Perfettina".
Be', magari non erano solo gli esami a preoccuparmi, pensai, mentre giocherellavo con la matita invece di riprendere la lettura. C'era dell'altro, qualcosa che mi tormentava da quando ero tornata a casa, unica ombra su quell'evento che mi aveva reso così felice. Un pensiero costante, martellante, che mi teneva sveglia di notte e mi distraeva di continuo.
Jacob.
Tra noi non c'era ancora stato alcun contatto. Senz'altro sapeva che ero tornata, vista la rapidità con cui circolavano le notizie tra mia madre, Charlie e Billy, ma con lui era come se non fosse cambiato nulla. Mamma e papà non avevano mai neanche fatto il suo nome, sebbene probabilmente tra loro ne parlassero spesso; volevano lasciarmi il tempo per decidere con calma, senza fretta, senza nessuna pressione. Ma la pressione veniva da dentro di me. Ogni giorno mi svegliavo con l'insopportabile desiderio di alzare il telefono e chiamarlo soltanto per sentire la sua voce. Ma poi ripensavo alla nostra situazione, a come ci eravamo lasciati, e cambiavo idea; non avrei saputo che cosa dirgli.
Una parte di me desiderava soltanto poterlo riabbracciare, ma l'altra non faceva che chiedersi a ripetizione che accidenti ne sarebbe stato, di noi, se avessi provato a riallacciare il rapporto, adesso che sapevo come stavano le cose, adesso che sapevo dell'imprinting... Non riuscivo a darmi una risposta e quell'incertezza mi spaventava a morte.
Scrollai la testa con decisione, cercando di allontare quelle scomode riflessioni, e tornai al mio libro. Ma poco dopo mi resi conto che avevo riletto la stessa frase per tre volte senza capirci un bel niente. Fantastico. Di questo passo mi aspettava una bocciatura assicurata.
A un tratto udii un certo trambusto fuori dalla porta: voci concitate che salivano e scendevano di tono, esclamazioni improvvise, porte che sbattevano. Cercai di non prestarvi attenzione, ma ero incuriosita. Poi dei passi veloci lungo le scale. Che stava succedendo? Un secondo più tardi la porta si spalancò con veemenza, senza alcun preavviso, e la mamma entrò quasi di corsa, seguita a ruota da papà. Ancora? Eh, no, quello era troppo.
«Insomma, volete lasciarmi in pace?» esclamai, esasperata. «Devo memorizzare una montagna di nomi e date entro stasera e non sta andando affatto bene!»
«Renesmee» esordì la mamma nervosamente, senza badare a ciò che dicevo, un'espressione allarmata sul volto perfetto, «che ne diresti di uscire? Facciamo una passeggiata, ti va?»
La guardai incredula. «Una passeggiata?»
«Sì! Ti accompagnamo a caccia, ti va? Su, andiamo, prima che cominci a piovere».
Rapida come un fulmine, mi prese per un braccio e mi tirò in piedi. Riuscii a non farmi trascinare via solo divincolandomi con decisione.
«Per caso state dando i numeri, tutti quanti?» sbottai, alzando la voce.
In quel momento Carlisle e Rosalie ci raggiunsero e subito notai che avevano un'aria strana.
«Ehm... Scusate, ma... sta arrivando» disse il nonno a mezza voce, come se sperasse di non farsi sentire.
«Chi? Chi sta arrivando?» domandai, stupita. Tutta quell'agitazione mi spaventava. E se fosse stato...
«Non è lui» rispose subito papà. Attese un istante prima di proseguire, esitando. «È Leah».
«Leah?» sussurrai con un filo di voce, incredula. «Leah sta venendo qui? Perchè
«Vuole parlare con te» aggiunse papà, osservandomi guardingo.
Ero così sorpresa da non riuscire a spiccicare una parola. Fissavo Edward e Bella con gli occhi spalancati e, ne ero certa, un'espressione sconvolta. Qualcuno bussò con forza alla porta di casa.
«Che facciamo?» chiese Carlisle, e mi fissò come se si aspettasse una risposta da me. Io aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Che cosa voleva Leah, adesso?
«Ci penso io» fece zia Rose, e con aria determinata marciò fuori dallo studio. Carlisle le andò subito dietro.
«Tesoro, sta' tranquilla, okay? Non sei costretta a parlarle. Resta qui, tranquilla» disse velocemente la mamma, e uscì a sua volta dalla stanza.
Papà mi lanciò un'ultima occhiata preoccupata prima di andarsene, chiudendosi la porta alle spalle. Rimasi sola, immobile e scioccata, senza sapere che cosa fare. Guardai la porta finestra e per un attimo considerai la possibilità di fuggira da lì, ma poi sentii la voce di Leah risuonare in casa, decisa, sicura come sempre, come la ricordavo, e all'improvviso mi travolse un'onda di rabbia. Non me l'ero mai presa con lei, in quelle settimane; mi aveva soltanto detto la verità, e di questo, forse, avrei dovuto esserle grata. Certo, non era stata molto gentile nell'aprirmi gli occhi, ma lei era fatta così e non potevo ritenerla responsabile di quello che la mia famiglia aveva deciso. Ma che si presentasse di colpo a casa mia, pretendendo di parlarmi, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo... quello era inaccettabile.
Spalancai la porta dello studio e marciai nell'ingresso. Trovai tutti schierati davanti alla porta, e Leah mezza nascosta a qualche passo di distanza.
«Devo parlare con lei, Edward» stava dicendo. «Sai anche tu che qualcuno deve farlo».
Mi infilai tra gli altri, facendomi strada, e mi ritrovai davanti alla nostra ospite inattesa. Quando mi vide, stranamente parve sollevata.
«Certo che hai davvero una bella faccia tosta per presentarti qui» dissi, la voce rotta dalla tensione.
Una mano fredda si chiuse sul mio polso, forse per fermarmi o calmarmi, ma io la ritrassi con forza, senza capire a chi appartenesse.
«Ce ne vuole anche per continuare ad interpretare la principessa offesa dopo tutto questo tempo, come stai facendo tu» rispose Leah, diretta e spavalda.
Principessa offesa? Ma chi diavolo si credeva di essere, quella lì, per giudicarmi? Sentii la rabbia crescere alla velocità della luce e pensai fosse meglio allontanarmi. «Non voglio parlare con te. Vattene, per favore» sibilai, e mi avviai vero le scale  per salire di sopra.
«Sai, poco fa mio fratello era al telefono con Charlie» continuò Leah, ignorando completamente le mie parole e venendomi dietro, «e lui parlava di te, e non faceva che dire quanto sei stata male in questo periodo, e quanto sei stata forte e coraggiosa... Tutte stronzate! Forte e coraggiosa un cavolo! Sei soltanto una bambina immatura e viziata che gioca a fare la piccola principessa sdegnata che si rifugia nel suo castello, ignorando tutto ciò che non le sta bene e che non va come lei aveva previsto...»
«Insomma, la pianti? Che cosa vuoi da me?» gridai, voltandomi di scatto verso di lei, nel mezzo della cucina. Gli altri erano ancora di sotto e ci ascoltavano, la mamma, papà e Rosalie a metà delle scale; sembravano pronti a lanciarsi verso di noi per impedire che ci azzuffassimo.
«Voglio che tu cresca una buona volta! È ora che succeda, sai?»
«Penso che la cosa non ti riguardi affatto!»
«Sì che mi riguarda, ragazzina, perchè il tuo comportamento riguarda Jacob, che sta impazzendo, e se uno di noi impazzisce, il resto del branco lo segue a ruota, compresa me, capisci?»
Il nome di Jacob fu come uno schiaffo. Trasalii e le parole che stavo per pronunciare mi morirono in gola. A quel punto zia Rose partì all'attacco.
«Va bene, basta così» ringhiò. Salì i gradini e si parò davanti a Leah con aria minacciosa. «Renesmee vuole che tu te ne vada. Se non ci pensi da sola ti do una mano io».
«Rosalie, non ti immischiare» fece papà a denti stretti, come se avesse ripetuto quella stessa frase almeno cento volte, ma lei non si mosse.
Leah le lanciò un'occhiata scocciata. «Vuoi fare a botte? Nessun problema, ma potremmo rimandare a un altro momento? Non so se hai notato, ma sto cercando di mettere a posto questo casino».
«Un casino creato da te» sbottò la zia, velenosa.
Leah fece una smorfia amara. «Non hai pensato che forse sono qui ora proprio per questo motivo? Caspita, so che i vampiri non brillano per intelligenza, ma tu sei di gran lunga la più sveglia».
Rosalie fece un mezzo passo avanti con l'aria di chi si prepara ad una rissa epica e istintivamente mi misi in mezzo.
«Si può sapere che sei venuta a fare?» intervenni, guardando Leah dritto negli occhi. «Quello che dovevi dirmi l'hai già detto l'ultima volta che ci siamo viste, e non mi interessa sapere cosa pensi di me e dei miei comportamenti. Se è tutto qui puoi anche andartene».
Mi tremavano le mani per l'agitazione, anche se cercavo di mostrarmi sicura e sprezzante. Le girai di nuovo le spalle e salii in tutta fretta le scale, ma lei mi seguì, ostinata. Gli altri rimasero di sotto, parlando animatamente tra loro.
«Non ti interessa neanche Jacob?» esclamò con tono provocatorio.
«Che cavolo c'entra Jacob, adesso?» sbottai a denti stretti.
«Lui sta male, Renesmee. E... la bionda psicopatica ha ragione: buona parte di questo disastro è colpa mia» ammise, visibilmente a disagio. Abbassò lo sguardo. «Devo rimediare in qualche modo».
«Trovati una macchina del tempo, allora».
«Non mi pento di quello che ho fatto» ribattè con forza. «Ho sempre pensato che questa cosa di nasconderti l'imprinting fosse ridicola. Poteva funzionare quando eri piccola, forse, ma... Tutti aspettavano che tu crescessi prima di parlartene e non si rendevano conto che finchè avessero continuato a tenerti dentro una bolla di sapone non saresti mai cresciuta. Dovevi sapere. Ma non spettava a me dirtelo, e soprattutto... non in quel modo». Il suo imbarazzo era evidente, eppure non esitava neanche un poco. Doveva credere sul serio in quello che stava dicendo. Ne fui stupita. «Non ho usato le parole giuste. Sono stata odiosa, lo ammetto. Mi dispiace. Ma tu eri lì a parlarmi di quel ragazzo che ti aveva baciata e che ti piaceva, con le guance rosse e gli occhi luccicanti, e ho pensato... Non è così che deve andare. Se lei si innamora di un altro, Jacob dovrà ancora una volta essere soltanto un amico, tirarsi indietro e stare a guardare. E non è giusto, non dopo tutto quello che ha passato. E qui ho commesso un altro errore, lo so: questi sono affari vostri, non posso pretendere il finale che vorrei. Ma Jacob è mio amico, mi è stato vicino in un momento in cui nessun altro c'era ed io volevo fare qualcosa per lui. Invece l'unico risultato che ho ottenuto è stato quello di allontanarvi».
«Non voglio parlare di Jacob» sussurrai. Il pensiero che l'intera famiglia fosse in ascolto al piano di sotto era intollerabile.
Ancora una volta Leah proseguì come se non avessi parlato. «Ma c'è di più. Non mi sono mai comportata bene, con te, lo so» disse tutto d'un fiato. «Non ho mai sopportato il fatto che tu avessi un esercito di persone impegnate a proteggerti, mentre nessuno era riuscito a proteggere me». Tacque un secondo, serrando le labbra. «Tu rifiuti l'imprinting e non vuoi più saperne di Jacob, ma io... io darei qualunque cosa perchè una persona tenesse a me in modo così incondizionato. E tu l'avevi al tuo fianco, quella persona, e non te ne accorgevi! Ero furiosa e ti ho rovesciato addosso tutta la mia rabbia, come se fosse colpa tua. Non avrei dovuto farlo. Ti ho ferita, e per questo ti chiedo scusa. Mi dispiace».
Quando finalmente smise di parlare, rimasi a fissarla per un minuto, le braccia incrociate. Alcune cose che aveva detto mi avevano colpita, ma altre mi irritavano ancora di più. Non ero disposta a dargliela vinta facilmente.
«Hai finito?». Prima che potesse rispondere, la interruppi. «Interessante, il monologo, ma ancora mi sfugge il senso di questa visita».
«Non è possibile che non te ne importi nulla» esclamò, accorata, facendo un passo verso di me. «Jacob è a pezzi e se davvero gli vuoi bene, se davvero è la persona più importante per te, come sostieni da sempre, non è possibile che non te ne importi. È come che se tu gli stessi facendo del male con le tue stesse mani».
«Ho detto che non voglio parlare di Jacob!»
«Stai facendo del male anche a te stessa, pensi che non si veda? Che senso ha? Ha sbagliato a mentirti, d'accordo, ma tu sai cosa significhi per lui. Non credi che la sua punizione possa terminare, adesso?»
Non ne potevo più di ascoltare quelle cose. Mi sarei messa a strillare come una matta pur di coprire la sua voce. «Mi spiace, ma ho già sentito questa predica. Tuo fratello è arrivato prima di te».
«Seth non c'entra, non sa nemmeno che sono qui...»
«Certo, come no!» esplosi, e a
l piano di sotto sentii distintamente qualcuno trattenere il fiato. «Pensi che non sappia che è stato Jacob a mandarvi, tutti e due? Mi hai preso per stupida? Sarò anche una ragazzina immatura e viziata, ma non sono una stupida!»
«No, Renesmee...»
«È semplicemente ridicolo! Seth ci ha già provato una volta e ora tu... ma che diavolo crede di fare? Pensa di convincermi così? Allora non mi conosce proprio!»
«Vuoi ascoltarmi, per favore? Non mi ha mandato Jacob, non mi ha mandato nessuno, te lo giuro! È stata una mia iniziativa!»
Scossi la testa, troppo arrabbiata per ragionare. «Sai che c'è? Forse è il momento che anch'io prenda un'iniziativa» sbottai, beffarda. La superai rapidamente, scesi le scale e mi ritrovai davanti il resto della famiglia. Erano tutti zitti e immobili e mi fissavano con vari gradi di preoccupazione, ansia e stupore stampati in viso.
«Dove stai andando?» chiese la mamma con cautela, come se temesse la risposta.
«Vado da Jacob».
Lei spalancò gli occhi, incredula. «Cosa? Ma... perchè?»
«Perchè quella sua testaccia dura non recepisce nessun messaggio se non ci sbatte contro!»
Scesi a precipizio le scale per raggiungere l'ingresso, ma dopo pochi scalini dovetti fermarmi: la mamma mi aveva superato in un lampo e mi bloccava il passo; per poco non andai a sbatterle contro.
«Aspetta, aspetta!» esclamò, concitata e allarmatissima. «Sei sicura che sia una buona idea? Adesso sei arrabbiata, non sei lucida, potresti fare o dire qualcosa di cui poi ti pentiresti. Non trattarlo male, per favore».
«Che cosa?» strillai. «Che cosa? Stai dalla sua parte?»
«No! Cioè, non sto dalla parte di nessuno, voglio solo che stiate bene entrambi... Renesmee, ti prego, fermati!»
Aggirai l'ostacolo, marciai impettita nell'ingresso, afferrai la mia giacca dall'appendiabiti e uscii, decisa a non ascoltare nessuno. Alle mie spalle percepii una certa agitazione, ma feci finta di nulla. Ero talmente furiosa, con Leah, che pretendeva di dirmi che cosa fare, con Jacob, che non riuscivo ad eliminare dalla mia vita, con la mamma, che in un modo o nell'altro pensava sempre a lui, con tutti gli altri, così insopportabilmente invadenti, con me stessa, per aver rimuginato su quella faccenda fino ad allora senza prendere nessuna decisione, che giunsi in vista di casa Black a tempo di record, senza neanche accorgermi delle nuvole che si gonfiavano, sempre più scure e minacciose, e del rumoreggiare di tuoni in lontananza.
Ritrovarmi in quel posto così familiare e così importante per il mio passato avrebbe dovuto farmi un certo effetto, ma allontanai i ricordi con decisione, sapendo che se mi avessero sommersa, senz'altro avrei ceduto. E in quel momento non potevo cedere. Non prima di aver fatto una bella ramanzina a qualcuno. Bussai alla porta con energia e poco dopo Billy venne ad aprire. Dalla faccia che fece sembrò avesse davanti un fantasma o un alieno verde con tanto di antenne.
«Ehi» mi salutò, dopo un interminabile minuto di silenzio di tomba. Il suo sguardo era perfettamente impenetrabile, come lo ricordavo. E riusciva anche a mettermi a disagio proprio come ricordavo.
«Ciao, Billy» dissi in tono rigido. «Jacob è in casa?»
«No. Cioè, sì» rispose lentamente. «È in garage, sta lavorando».
Annuii con aria sostenuta. «Grazie».
Senza aggiungere altro, mi voltai e mi diressi al garage, certa di avere i suoi occhi puntati addosso. Mentre mi avvicinavo, sentivo i familiari rumori metallici tipici di chi sta riparando una macchina. Quante volte avevo trascorso interi pomeriggi accanto a Jacob, guardandolo lavorare e chiacchierando di tutto? Impossibile contarle. Un'improvvisa folata di vento freddo mi portò il suo odore, un profumo che non sentivo da settimane, ma inciso a fuoco nella mia memoria; avrei potuto riconoscerlo ovunque. Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo. Sulla soglia del garage mi fermai, un po' esitante. Non ero più certa che fosse una buona idea, ma ormai ero lì.
Tra me e Jacob c'era una macchina con il cofano aperto e sollevato, ma non era sufficiente a nascondermi. Gli bastò alzare gli occhi e mi vide. Nell'istante in cui ci guardammo, fu come se qualcuno mi facesse lo sgambetto.
«Renesmee» mormorò. Il suo tono mi fece pensare a un uomo che sta morendo di sete nel deserto e finalmente riceve una goccia d'acqua fresca sulle labbra.
A un tratto dimenticai tutto, perchè ero lì, cosa stavo per dire, e provai l'assurdo impulso di fare un passo verso di lui, un altro, e un altro ancora... Poi il violento rombo di un tuono, seguito dallo scrosciare della pioggia che iniziava a cadere, mi riscosse di colpo. Con uno sforzo immenso, riuscii a raccattare da qualche parte i miei pensieri e un briciolo di determinazione.
«Smettila immediatamente di fare quello che stai facendo!» dissi tutto d'un fiato, ansimante.
Con aria molto confusa, Jacob abbassò per un attimo lo sguardo sull'aggeggio metallico che aveva in mano, poi tornò a fissarmi. «Cosa sto facendo?» domandò, con calma.
«Lo sai benissimo! Prima Seth, poi Leah... Chi sarà il prossimo? Smettila di spedire da me tutte le persone che conosciamo per convincermi a parlarti di nuovo, va bene? Basta, altrimenti scateno Rosalie contro il prossimo che si presenterà a farmi la predica, è chiaro?». Dovetti interrompere la tirata per prendere fiato, e stavo per ricominciare, quando lui parlò.
«Ehi, ehi, aspetta. So che Seth è venuto a parlare con te, un paio di settimane fa. Ma cosa c'entra Leah?»
Sbuffai. «È appena piombata in casa mia per farmi un discorso assurdo e... lei voleva... voleva che io... Oh, insomma! Non fingere di non saperlo!»
Jacob annuì lentamente, l'espressione grave. «Porca miseria» borbottò sotto voce. Fece un sospiro. «Renesmee, io davvero non lo sapevo. Leah non si trasforma da ieri, deve averlo deciso all'improvviso. Mi dispiace, è colpa mia. Dopo quello che ha fatto Seth avrei dovuto imporre al branco di lasciarti in pace, ma speravo di non essere costretto a farlo. E non avrei mai pensato di dovermi preoccupare proprio di lei, fra tutti». Scosse il capo, meravigliato e contrariato al tempo stesso. «Ma ora lo farò. Nessuno verrà più a disturbarti, te lo prometto».
La sua voce morbida e carezzevole, calda e decisa, mi aveva quasi ipnotizzata. Dio, quanto mi era mancato. Vederlo lì davanti a me sembrava quasi un sogno. «Davvero non gliel'hai chiesto tu?» chiesi in un sussurro.
Lui scosse di nuovo la testa, fissandomi con aria seria, e in quel momento mi resi conto di due cose. Primo, gli credevo. Secondo, avevo sempre saputo, dentro di me, che lui non c'entrava. Gli avevo chiesto del tempo, gli avevo chiesto una pausa, e il mio Jacob non mi avrebbe mai detto di no, non avrebbe mai potuto forzarmi a fare niente. Anche questa volta lui aveva capito. Ed io, invece... io non avevo capito un accidenti.
Mi girai piano e mi diressi verso l'uscita, ma a un tratto sentii le ginocchia cedere. Barcollando, mi appoggiai al muro e scoppiai a piangere, senza poter fare nulla per impedirlo. Mi sembrava di soffocare, mentre mi coprivo il viso con le mani, infastidita e arrabbiata. Mi vergognavo da morire al pensiero che Jacob assistesse a quello sfogo così violento e infantile.
«Renesmee!» gridò, angosciato, e corse da me. Pensai che volesse abbracciarmi, ma si fermò appena in tempo, titubante. «Che ti succede? È per qualcosa che ha detto Leah?»
Cercai di frenare le lacrime per riuscire a parlare. «Non... non è per Leah. Mi ha solo detto la verità. E anche stavolta io non sono stata in grado di accettarla. Perchè non riesco ad affrontare le cose? Che c'è di sbagliato in me?» singhiozzai, disperata.
Jacob esitò a lungo prima di rispondere. Forse voleva che mi sfogassi un po', o forse stava cercando di decidere che cosa dirmi. Non doveva essere semplice neanche per lui.
«Non hai niente di sbagliato» mormorò a un tratto, lentamente. «Questa è una cosa grossa e tu sei... molto giovane. Non è semplice».
Feci diversi respiri profondi per calmarmi e con le mani mi asciugai le guance bagnate. «Parli come se tu fossi vecchio» borbottai. Avevo paura di sollevare gli occhi e incontrare i suoi, così li tenevo ben fissi a terra.
Lo sentii sorridere. «Non sarò vecchio, ma ho qualche anno più di te».
Bambina immatura e viziata. Ero proprio così, accidenti. Perchè quella ragazza aveva sempre ragione? Perchè? Mentre mi scostavo i capelli dal viso con un gesto automatico, guardai Jacob. Mi stava fissando con un'espressione così dolce e preoccupata che avrebbe potuto sciogliere un iceberg. Provai la fortissima tentazione di chinare la testa sul suo petto e lasciarmi stringere dalle sue braccia forti... Sarebbe stato così bello... Finalmente mi sarei sentita di nuovo al sicuro... O forse no? Mi tirai bruscamente indietro.
«È insopportabile!» sussurrai, senza fiato.
Feci per uscire, ma qualcosa mi bloccò il passaggio: Jacob aveva allungato il braccio sinistro, quasi intrappolandomi contro la parete. Stupita, indietreggiai subito più che potevo, cercando di mettere un po' di spazio fra noi, e lo guardai con occhi spalancati. E adesso?
«Aspetta, ti prego. Aspetta un istante» disse, e il suo tono tormentato mi ferì al cuole come una stilettata. Perchè, perchè ero andata da lui, dannazione? Già inizavo ad intuire come sarebbe finita. Era inevitabile, e io ero stata una stupida. Avrei dovuto sapere che non potevo rivederlo senza arrendermi. «Ascoltami. Se vuoi che me ne vada, che sparisca dalla tua vita e ti lasci in pace per sempre, lo farò. Devi soltanto chiedermelo».
«Ma io non voglio questo» balbettai, arrossendo, spaventata dalla serietà con cui aveva parlato. Faceva sul serio?
«E allora che cosa vuoi? Te lo sei mai chiesto? Non pensare al passato, non pensare a quello che dicono gli altri, a quello che pensano, dimentica l'imprinting, cancella tutto: tu che cosa vuoi?»
Te.
Quel pensiero affiorò spontaneo da chissà dove, lasciandomi senza fiato, ma riuscii a trattenerlo prima che mi scivolasse tra le labbra. Mi ci volle un minuto per riprendermi.
«Vorrei poter riavere tutto indietro» risposi in un sussurro spaventato.
«Se potessi ridartelo, lo farei, credimi» disse Jacob lentamente, lo sguardo fisso che incatenava il mio. «Ma non è possibile. Non si torna indietro. E allora... credo che tu abbia due opzioni: puoi decidere di cancellare dalla tua vita quello che non ti va bene, far finta che non esista, oppure puoi decidere di accettarlo. La scelta sta a te».
«E tu?». Lo guardai senza capire. Lui cosa voleva?
«Non ha importanza. Io voglio quello che vuoi tu».
«Sì che ne ha! Ne ha per me! Jake, io ti voglio bene!» esclamai tutto d'un fiato. All'improvviso mi importava solo che lui capisse cosa provavo, e al diavolo la prudenza, al diavolo l'indecisione, al diavolo la paura, al diavolo tutto il resto. «Ti voglio bene, e mi sei mancato da morire, e... non ce l'ho con te, non più. All'inizio era furiosa, ma mi è passata, ormai, da tanto tempo. Non voglio, non posso cancellarti dalla mia vita. Sei troppo importante. Ma...»
«Ma cosa?» mi incalzò, teso.
«E se scoprissimo che tra noi è cambiato tutto? Che non riusciamo più a stare bene insieme, che non riusciamo più ad essere amici?» domandai con aria di sfida, la voce che a poco a poco si tingeva di panico nel prospettare quelle orribili possibilità. «Ricordi quello che mi hai detto l'ultima volta che ci siamo parlati, dopo la scuola? Anche tu avevi paura che dirmi dell'imprinting e farlo diventare reale potesse cambiare le cose, alterare il nostro rapporto... Che cosa faremmo se accadesse davvero?»
«Non è detto che vada così. Potremmo provarci. Insieme».
«E se non funzionasse?»
Jacob tacque per qualche secondo. A un tratto sembrava spaventato quanto me.
«Qual è l'alternativa?» disse, la voce impregnata di tristezza. «Ci separiamo adesso e non ci vediamo più? Devi soltanto chiederlo».
Sembrava talmente determinato a farmi del male con quell'assurda proposta che per un attimo ebbi paura. Non c'era alcun bisogno di pensarci per dargli una risposta. Sei settimane di separazione erano state intollerabili: avevo sentito la sua mancanza in ogni momento di ogni stupido giorno passato lontano da lui. E da quando ero tornata a casa, una settimana prima, sebbene non avessi fatto il suo nome neanche una volta, Jacob era diventato la mia ossessione: avevo trascorso notti su notti sveglia a tormentarmi, divisa tra il desiderio di rivederlo e la paura che il nostro legame fosse andato distrutto. Rinunciare a lui per sempre era impensabile.
«Non te lo chiederò mai» mormorai con voce rotta. «Non posso stare lontano da te. Sarebbe come... voler fermare la pioggia che cade. Non c'è altra scelta». Scossi la testa. Sentivo le guance umide e mi resi conto che le lacrime avevano ripreso a scorrere, come la pioggia fuori dal garage. «Io non ho altra scelta e la cosa peggiore è che non riesco ad accettarlo. Non ci riesco».
Fui costretta a smettere di parlare, sopraffatta dalle lacrime. Chinai il viso, così disperatamente triste da non riuscire più a provare imbarazzo. Jacob taceva, ma a un tratto sentii la sua mano sfiorarmi delicatamente la guancia, accarezzarla con estrema lentezza, asciugando le lacrime con il pollice. Il suo tocco era una sensazione familiare e tremendamente piacevole. Scatenò una marea di ricordi, talmente reali e vividi che mi parve di essere tornata indietro davvero, a quando niente avrebbe mai potuto mettersi tra di noi. E all'improvviso mi colpì una consapevolezza fulminea. Non c'era niente di diverso, in quello. Lui era accanto a me, mi accarezzava, mi rassicurava e mi face sentire bene. Protetta. Come sempre. E se quello non era cambiato, allora forse...
Dio, che confusione! Dovevo andarmene da lì se volevo provare a ragionare con lucidità. Mi sottrassi alla sua mano, passai sotto il suo braccio teso, uscii dal garage e mi allontanai di qualche passo, incurante degli enormi e gelidi goccioloni di pioggia che mi bersagliavano. Lui non mi seguì. Chissà come avrebbero reagito, a casa, vedendomi tornare in quello stato. Chissà cosa avrebbe detto la mamma. Senz'altro si sarebbe preoccupata per Jacob e i suoi sentimenti... La mamma. All'improvviso mi sembrò di sentire la sua voce sussurrare qualcosa dentro di me, e istintivamente mi fermai per ascoltare.
Le paure vanno affrontate, Renesmee. Nascondersi non serve, ci rende soltanto più deboli; e prima o poi arriva il giorno in cui ci rendiamo conto che abbiamo permesso alla paura di dominare la nostra vita, di toglierci il libero arbitrio, di portarci via chissà quante cose, belle e brutte.
Per non so quanto tempo rimasi perfettamente immobile, come paralizzata, ad inzupparmi. Perchè quelle parole mi tornavano in mente proprio adesso? Era solo un caso, una coincidenza, o era un segno? Ma che importanza aveva, in fondo? Era proprio quello che stavo facendo. Scappavo e mi nascondevo, ancora una volta, come quando mi ero trasferita da Charlie, come in quei sei anni, quando avevo ignorato tanti piccoli dettagli che forse avrebbero potuto mostrarmi la verità. Come Jacob, come i miei genitori, che avevano costruito una vita di menzogne per proteggermi e avevano finito con il farmi ancora più male. Loro avevano sbagliato, io avevo sbagliato, e adesso stavo sbagliando di nuovo. Era ora che qualcuno rompesse quell'infinita catena di errori, uno dietro l'altro. Che qualcuno provasse a fare la cosa giusta. Non sapevo se sarei stata abbastanza forte, però dovevo provarci, perchè l'alternativa era dire addio alla persona più importante della mia esistenza.
Lentamente, abbandonandomi all'impulso interiore che mi supplicava di tornare indietro, mi voltai. Feci un mezzo passo avanti, insicura sulle gambe come se dubitassi di riuscire a stare in piedi, e un attimo dopo mi ritrovai a correre verso Jacob. Lui mi venne incontro sotto il temporale. Le sue braccia mi accolsero, mi strinsero, e finalmente, finalmente mi sentii di nuovo completa. Di nuovo me stessa. Mi fece volteggiare nell'aria, come quando ero bambina, ed io risi di gioia, tra le lacrime, pensando a quanto il cuore umano sappia essere pazzo e stupido, a volte. Perchè, semplicemente, la pioggia non si può fermare.





~ Fine ~










Note.
1. Qui la canzone. La adoro, sembra scritta apposta per questo momento. Sapevo fin dall'inizio che avrebbe accompagnato l'ultimo capitolo.












Spazio autrice.
E siamo arrivati alla fine. Spero con tutto il cuore di non aver deluso nessuno. Quest'ultimo capitolo è forse quello al quale ho lavorato di più e anche se la conclusione, tutto sommato, era prevedibile, mi auguro di non essere stata troppo scontata. Come avrete già notato, la vicenda principale della fanfiction si è chiusa: Renesmee è tornata a casa, ha ritrovato Jacob, ha ritrovato se stessa ed è cresciuta attraverso le esperienze che ha vissuto. Ma ci sono anche domande rimaste in sospeso. Come andranno le cose tra Alex e Renesmee? Resteranno insieme? Jacob sarà sempre e soltanto un amico o avrà la sua occasione? Renesmee riuscirà a continuare la sua vita "normale" da ragazza umana o un giorno questo fragile equilibrio rischierà di spezzarsi? Le risposte a queste domande, e molto altro ancora, nel sequel ;-). Sì, lo so, sono ruffiana, ahahahahah!  
Una parte di me è felice di aver raggiunto questo piccolo traguardo. L'altra è tristissima, perchè già sento che arriva la nostalgia. È stato molto bello vivere questa avventura ed è merito vostro, perchè siete state voi a renderla speciale. Un enorme grazie ad Aniasolary e Bianca Lyra Petrova, le mie adorabili "sorelline", per il loro sostegno e i loro preziosissimi pareri. Grazie anche ad Astrid Romanova, AlbionMay, Ariadnae, marta_cr_cullen92, blonde985, BabyMe, thatsfrancy, StarryEyed, NikyStellina, bluerose95, Lollola, IRE86, Mary_Withlock. Spero di non aver dimenticato nessuna, siete più numerose di quanto mi sarei mai aspettata xd. Grazie infinitamente per aver seguito la storia e per i vostri commenti sempre gentili, interessanti e strapieni di complimenti ^^.
Per quanto riguarda il sequel, vi ho già accennato qualcosina. Il lavoro praticamente è quasi concluso, ma ha bisogno di parecchie revisioni e correzioni. Inoltre, a giorni riprenderò l'università e almeno per qualche settimana sarò costretta a dare meno spazio alla scrittura. Ma non preoccupatevi, la storia è già scritta ed io sono impaziente di condividerla con voi. Non faccio promesse sui tempi di pubblicazione, perchè rischierei di non mantenerle, ma farò di tutto per iniziare il prima possibile. Se vi va di tenervi aggiornate, date un'occhiata ogni tanto alla mia pagina Facebook (Aurore Cathy Efp) e appena potrò vi farò sapere come procedono le cose.
Be', penso sia tutto. Vi ho annoiate abbastanza xd. Grazie ancora, e a presto!

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