Daylight

di Neko no Yume
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dello straniero ***
Capitolo 2: *** Del taglio ***
Capitolo 3: *** Della crisi ***
Capitolo 4: *** Delle domande ***
Capitolo 5: *** Della separazione ***
Capitolo 6: *** Della città ***
Capitolo 7: *** Della luce ***



Capitolo 1
*** Dello straniero ***


Lo sciabordio dell'acqua sembrava quasi rassicurante, eppure fuori posto in maniera talmente inquietante che Sharon avrebbe volentieri preferito tenersi il grembiule sporco di sangue, piuttosto che lavarlo lì.
Sapeva che si sarebbe macchiato di nuovo non appena avesse rimesso piede nella tenda, ma cercare di mantenere l'uniforme pulita era uno dei pochi appigli sbrindellati e malconci che le erano rimasti, lì al fronte.
Tra i bombardamenti, le cariche, il rombo delle mitragliette e la Marna a poche centinaia di metri dal loro ospedale improvvisato.
Smise di fregare furiosamente la stoffa, ormai di nuovo biancastra, quando iniziò a non sentirsi più le dita dal freddo e si rialzò in fretta, rassettandosi la gonna e avviandosi a passo svelto verso il campo.
Le infermiere usavano un vecchio sentiero immerso nella vegetazione per andare a prendere l'acqua al fiume e l'eventualità di non tornare era dietro ogni ramo spoglio o cespuglio spinoso.
Per questo a Sharon quasi sfuggì un grido nell'avvertire un fruscio tra le foglie accanto alle sue gambe, seguito da un debole rantolo.
Strinse i pugni attorno alla stoffa ancora bagnata del grembiule e scostò appena qualche fronda, ritrovandosi davanti a due uomini riversi a terra.
L'odore e la vista del sangue le scivolarono addosso, privati ormai del disgusto che le provocavano i primi tempi, e l'infermiera si affrettò a rilevare il battito cardiaco dei due.
Il soldato che portava la divisa inglese era ormai gelido e immobile, mentre l'altro respirava ancora.
Un respiro appena accennato e tremolante sotto una divisa tedesca, nemica.
Probabilmente i militari che presidiavano il suo ospedale l'avrebbero finito seduta stante, ma Sharon non era arrivata fin lì per mietere vite.
Notò una brutta ferita all'occhio sinistro e la fasciò come meglio poté col grembiule, senza soffermarsi a contemplare nuove macchie rosse spuntare sulla stoffa appena pulita e afferando il soldato da sotto le braccia per riuscire a sollevarlo e trascinarlo lungo i pochi metri che ormai li separavano dal campo.
Un gruppetto di infermiere li notarono e si affrettarono ad aiutarla a portare il ferito all'interno della tenda affollata e malconcia, per poi adagiarlo sulla prima barella libera.
Nessuna domanda sulla divisa.
Nessuna domanda sulla provenienza.
Gli unici suoni che Sharon sentiva erano gli strascichi del respiro dell'uomo e i mormorii preoccupati delle sue college davanti alla sua ferita alla testa: un profondo taglio da baionetta gli correva lungo l'orbita distrutta.
Nel migliore dei casi avrebbe perso la vista dall'occhio sinistro.
Nel peggiore, e assai più comune, sarebbe morto per setticemia.
Sharon scosse la testa, la mente concentrata unicamente sul compito di pulire la ferita con della garza e assicurarsi che non ci fossero schegge o detriti al momento di ricucirla.
Gli sarebbe rimasta una cicatrice irregolare e vistosa, ma non potevano permettersi altro, specialmente con schiere infinite di altri pazienti in condizioni più o meno gravi.
Si occupò personalmente della fasciatura attorno al capo del ferito e alla fine si accasciò su una sedia lì vicino, il grembiule sporco in grembo e lo sguardo fisso su quel viso sconosciuto e sofferente.
Si concesse qualche istante per mettere in piedi una scusa valida per persuadere il medico a cui era sottoposta a lasciarla prendersi cura dello straniero, poi tornò a destreggiarsi tra le barelle come una farfalla impazzita.


"Ho bisogno di un momento."
Vincent Nightray, ovvero il suo superiore, la stava osservando con un'espressione sin troppo compiaciuta negli occhi eterocromi, consapevole della rabbia che le montava in petto ogni volta che lo faceva.
"La prego, dottore," tentò Sharon per l'ennesima volta, la voce che tremava appena. "Quell'uomo potrebbe non potersi permettere un momento."
L'espressione del medico si fece appena più accigliata, il sorriso mellifluo più duro.
"E noi potremmo non poterci permettere di curare un nemico, signorina Rainsworth."
"Non è un nemico, ma un paziente!"
Un sospiro da parte di Vincent e l'infermiera capì di aver centrato il bersaglio: se si fosse rifiutato di portare aiuto a un ferito, il morale già pesantemente provato dell'intera equippe medica sarebbe crollato del tutto, con rischio di ammutinamenti.
"Il nostro dovere qui è di salvare vite, indipendentemente da dove siano venute alla luce," insisté.
L'altro tacque per alcuni istanti che a lei parvero eterni, riempiti dai rimbombi delle mitragliette e le bombe, poi si schiarì la gola e la scrutò quasi avesse voluto incenerirla.
"E sia, il soldato ha il permesso di restare. Ma se non migliora entro una settimana è fuori."
Sharon incassò il colpo, congedandosi con un cenno del capo.
Una settimana era un arco di tempo terribilmente breve per riprendersi da una ferita come quella, ma la crocerossina aveva il sentore che lui avrebbe potuto farcela.
Si diresse verso la branda dove il soldato era stato spostato e gli si sedette accanto, i consueti e deboli lamenti degli altri feriti nelle orecchie e le iridi stanche posate su quel volto bendato, più bianco della garza e più stanco di lei.
Gli deterse la fronte con un panno bagnato, concedendosi un lieve sorriso nel sentire che il suo respiro si regolarizzava.
Poi crollò addormentata.
Si svegliò con il collo dolorante, le spalle intirizzite, le labbra secche e un singolo occhio rosso che la osservava.
Sussultò vistosamente, cosa che le procurò una fitta alla nuca, e si affrettò a passarsi una mano sul viso ancora assonnato, cercando di sistemarsi qualche ciocca ribelle dietro le orecchie.
L'occhio rosso apparteneva al soldato straniero, sveglio e lucido contro ogni previsione.
"Guten morgen, fräulein1," biascicò con una vena di ironia che non mancò di far arrossire Sharon.
"Buongiorno," rispose in inglese, senza pensarci.
Per un attimo i muscoli facciali dell'altro parvero irrigidirsi, ma l'uomo si affrettò a nasconderlo con un ghigno stentato.
"Avevo il sospetto di essere capitato in un ospedale straniero," commentò in un inglese dall'accento marcato, ma per il resto impeccabile.
L'infermiera aveva l'impressione che avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma il dolore doveva essere ancora troppo forte per permettergli conversazioni troppo lunghe.
"Non sforzarti, hai ricevuto una brutta ferita alla testa e perso molto sangue," lo informò in tono pacato ma fermo, mentre allungava una mano verso un rotolo di garze pulite. "Ora ti cambio il bendaggio e controllo la situazione."
Dare del tu ai pazienti le veniva naturale, era un modo come un altro per guadagnare la loro fiducia in modo da poterli curare più facilmente.
Il nuovo arrivato non parve infastidito dalla cosa e le restò a guardarla in silenzio mentre gli liberava il capo dal bendaggio macchiato di sangue.
Non batté ciglio neanche davanti all'espressione critica che Sharon assunse davanti alla sua ferita, limitandosi a fissarla con l'unico occhio sano.
Lei si mordicchiò il labbro inferiore e si chinò appena per esaminare meglio il taglio, che correva irregolare dal sopracciglio allo zigomo.
I punti non sembravano essersi infettati, ma per sicurezza li deterse con dell'acqua, spalmandovi poi sopra con quanta più delicatezza possibile della pomata antisettica e affrettandosi a ricoprire il tutto con le bende pulite.
Avrebbe lavato le altre al più presto, assieme al grembiule.
Ancora e ancora.
Sentì un'ondata di nausea salirle dal petto e stava per abbandonarsi contro lo schienale della sedia in preda allo sconforto, quando il soldato le sorrise di nuovo.
"Mi ha trovato lei, fräulein?" chiese in un sussurro, le palpebre che lottavano per restare aperte.
Sharon si rassettò la divisa in un gesto automatico, per poi annuire.
"Sì, a pochi passi dal campo."
La consapevolezza che se non fosse rimasto ferito l'avrebbe probabilmente uccisa si insinuò tra loro, ma l'infermiera la scacciò ricambiando il suo sorriso con dolcezza e lo straniero parve finalmente darsi il permesso di scivolare nel sonno.
Il resto della giornata passò quasi con lentezza, per quanto potesse essere lenta la vita al fronte, e Sharon ebbe il tempo di sciacquare la divisa e diversi bendaggi, mentre altre infermiere si occupavano a turno di tenere d'occhio il nuovo arrivato, dandole l'opportunità di svolgere le sue mansioni presso gli altri pazienti.
Nel tardo pomeriggio venne fermata da uno dei soldati stanziati al campo, un ragazzino troppo giovane per la guerra e dagli occhi troppo verdi per la morte.
"Shaaaron," la chiamò, strascicando il suo nome con voce allegra. "Hai davvero trovato un tedesco ferito?"
Doveva averlo sentito dalle altre infermiere, probabilmente da Alice.
"Oz, ti dispiacerebbe non sbandierarlo ai quattro venti?" gli intimò con quanta più gentilezza le fu possibile usare.
Il giovane si affrettò a scusarsi, facendole però notare che ormai lo sapevano tutti.
"Comunque nessuno di noi ha intenzione di fargli del male, tranquilla," la rassicurò alla fine.
"Oh, menomale."
I due si scambiarono un cenno di saluto, poi Oz tornò alla sua ronda e Sharon alla branda dello straniero.
Lui la aspettava sveglio e parve illuminarsi nel vederla arrivare.
"Fräulein," la accolse con espressione divertita "le sue colleghe mi fanno non poca paura, ce n'è una che non parla mai."
Echo, pensò la crocerossina, lasciandosi sfuggire un risolino soffocato.
"Sono felice di vederti così energico," sviò il discorso, il dorso della mano adagiato su quella guancia anemica per controllarne la temperatura. "Anche la febbre sembra essersi abbassata."
Vincent sarebbe stato costretto a lasciare che lei lo salvasse, ne era sempre più sicura.
"Come ti chiami?" si decise a chiedere, pentendosene immediatamente.
L'unico occhio sano del tedesco parve d'improvviso inghiottito nel caos della trincea, il viso si contrasse e Sharon si rese conto di poter quasi sentire il fragore delle armi che gli rimbombava in testa in quel momento.
Poi l'uomo parve ritrovare la calma.
"Xerxes Break."
Lei accolse quelle sillabe in silenzio, gli occhi socchiusi e le mani in grembo.
"Lei come si chiama, fräulein?" continuò lo straniero, nonostante la voce stesse tornando ad affievolirsi per il sonno.
"Sharon," rispose d'istinto, per poi affrettarsi ad aggiungere imbarazzata "Rainsworth. Sì."
"Bel nome..." fu tutto ciò che Xerxes riuscì a farfugliare, prima di essere nuovamente vinto dalla stanchezza.
La crocerossina si concesse un sospiro, sarebbe stata una settimana lunga.







Note:
1 -
"Buongiorno, signorina" in tedesco.

Yu's corner:
Halo, mein liebte!
Okay, lo ammetto, sto improvvisando.
Non l'ho mai studiato il tedesco, so solo qualcosina imparato tra i miei viaggi in Alto Adige e Germania, srry.
Comunque, salve!
Mi sono davvero imbarcata nella scrittura una long ambientata nella prima guerra mondiale? Così pare...
Ebbene, spero che questo inizio vi sia garbato perché io Sharon crocerossina dfjfkjashdahdk--
Fangirlamenti altamente indecorosi a parte, farò del mio meglio e mando tutto il mio ammmore a chiunque recensirà o seguirà questo vaneggio.
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 2
*** Del taglio ***


"Sono perfettamente in grado di tornare a combattere, non ho bisogno di stupidi bendaggi!"
Quella era probabilmente la centesima volta in due giorni che Sharon sentiva la testa trapana dalla stessa frase e, nonostante tutta la pazienza di cui disponeva, sentiva di essere vicina a un limite che non avrebbe voluto varcare.
E tutto perché un certo soldatino di poco più grande di Oz e con due occhioni azzurri perennemente corrucciati smaniava dalla voglia di farsi ammazzare.
"Elliot, hai perso molto sangue da quel braccio," sentì spiegare per l'ennesima volta da qualche sua povera collega. "Non puoi ancora tornare in servizio."
Il ragazzo digrignò i denti in un moto di frustrazione e serrò i pugni ostinato, nonostante il pallore improvviso del suo volto rivelasse la fatica che gli stava costando anche una semplice protesta.
"Marmocchio, non potresti abbassare il volume?"
Una voce pacata, ma dall'inconfondibile accento tedesco che ormai aveva imparato a riconoscere alle prime sillabe, risuonò nell'aria improvvisamente silenziosa, mentre tutte le crocerossine presenti si voltavano con occhi atterriti verso i due infermi, sperando di non dover sedare una rissa.
Il più giovane scrutò Break con un misto di sorpresa, irritazione e ancora sorpresa, poi lo additò con il braccio bendato, gesto che gli provocò una fitta di dolore ben visibile nelle iridi chiare.
"... Un soldato tedesco!" esclamò ugualmente, osservando come in trance la sua divisa.
Non aggiunse altro, si limitò a fissarlo.
Ma senza ostilità, come se fino a pochi istanti prima non avesse smaniato di tornare a falciare i compagni di reggimento dell'uomo che lo aveva appena chiamato "marmocchio".
La guerra era strana, ma l'empatia lo era di più.
Un medico lì vicino notò la sua improvvisa calma e si affrettò a prendergli il braccio sano, passare sull'incavo del gomito un batuffolo di lana imbevuto di disinfettante e iniettargli nelle vene quello che, a giudicare da come il soldato crollò quasi immediatamente sul letto, doveva essere un tranquillante piuttosto forte.
Il tutto in un unico, fluido e semplice gesto.
"Dottor Lunettes..." fu il flebile e grato saluto che ricevette dalle infermiere radunate attorno a loro, saluto che si affrettò a ricambiare con un sorriso tiepido.
"Ah, i giovani d'oggi," ridacchiò, per poi abbassare lo sguardo velato da un paio di occhiali su Xerxes. "Sempre pronti ad agitarsi, nonostante abbiano bisogno di riposo."
Lo straniero si concesse un ghigno noncurante, accompagnato da un'alzata di spalle.
"Che ci vuol fare, doktor1, sono fatti così," rispose, fingendo di non cogliere l'allusione a se stesso.
Sharon si concesse un sorriso appena più ampio del solito, lusso che nei pochi giorni in cui aveva iniziato a prendersi cura di Break si era permessa forse un po' troppo spesso.
Il soldato lo notò, come notava ogni singola variazione nel suo viso, e il ghigno che gli increspava le labbra si ampliò.
"Fräulein Sharon, è d'accordo con me?" celiò, strascicando di proposito le erre (si era accorto che il suo accento le piaceva, il maledetto teutonico).
"Ti ho già detto di darmi del tu, Xerx," ribatté lei, che nel frattempo si era accorta di quanto a lui piacesse come lei storpiava il suo nome.
"E io le ho già detto che non lo farò."
Si scambiarono un'occhiata fintamente esasperata, poi la crocerossina si rimboccò le maniche e il paziente capì che era giunto il momento del cambio delle bende.
Adagiò la testa sul cuscino, i capelli quasi bianchi che si confondevano con la federa e le garze, e attese tranquillo il tocco delle dita della piccola fräulein Rainsworth, che non tardò ad arrivare.
Le abili mani della ragazza lo liberarono dall'oppressione del bendaggio sporco e gli detersero la fronte e la ferita con una delicatezza tanto leggera e spontanea in mezzo al clangore del fronte che Break doveva lottare per restare impassibile ogni volta.
Nell'arco di tempo che gli ci volle per riacquistare la calma, lei aveva già finito di analizzare le sue condizioni e provveduto a bendarlo di nuovo.
Tornarono a osservarsi in silenzio e Sharon incrociò le braccia al petto.
"Mi sembra che sia tutto a posto," proclamò alla fine. "Per quanto possa essere a posto una ferita del genere, ecco."
Xerxes agitò una mano nella sua direzione, come per farle cenno di non preoccuparsi, ma l'espressione improvvisamente esausta che trapelava dall'occhio destro fece ugualmente agitare qualcosa nel petto dell'infermiera.
È normale che sia stanco, si rimproverò mentalmente, i muscoli facciali tesi per mantenere un'aria padrona di sé.
"Fräulein."
La voce dell'altro la riscosse.
"Non è che... Quando mi sveglio mi taglierebbe i capelli?"
La domanda impastata di sonno si perse nella sua gola, mentre il sonno gli piombava addosso come piombo.
Sharon serrò le labbra, già aperte per formulare una risposta affermativa, e si portò entrambe le mani alle tempie, lasciando finalmente trapelare la stanchezza.
"Dovresti andare a riposare anche tu, hai fatto il turno di notte," la rimbrottò Reim in un tono che avrebbe dovuto essere carico di autorevolezza, ma sembrava solo rassegnato.
Lei si limitò a mugugnare un assenso, per poi avviarsi a passi lenti verso l'uscita della tenda principale, diretta al suo piccolo cantuccio personale.
Si buttò sulla branda senza neppure cambiarsi, stremata.
E sognò erre strascicate, spari e un grande, avvolgente biancore.


Fu un tocco gentile a svegliarla, sensazione che le fece salire un immotivato groppo in gola.
Si stropicciò gli occhi per mascherarlo e cercò di focalizzare lo sguardo ancora assonnato sul volto della persona che le stava davanti, incontrando due occhi limpidi e laconici.
"Sarebbe iniziato il tuo turno..." le comunicò Echo, una delle altre infermiere sottoposte al dottor Nightray e che lo detestava quanto lei, se non di più.
"Ho dormito troppo!" esplose lei, per poi alzarsi troppo velocemente e barcollare verso l'uscita della stanzetta.
La collega rimase in silenzio, seguendola a poca distanza verso la tenda.
"Non ti starai sforzando eccessivamente?" commentò a mezza voce, ma Sharon si era già dileguata tra le file di barelle.
Si fermava presso i suoi pazienti, controllando temperature, auscultando battiti cardiaci, somministrando medicinali, raccogliendo bendaggi che avevano bisogno di una pulita e riponendoli in una sacca di tela grezza che teneva sempre appesa in un angolo dell'ospedale.
La maggior parte delle volte era lei ad attingervi per andare a lavare i panni macchiati, ma appena le altre infermiere avevano un attimo di tempo le davano una mano, come faceva lei con loro.
Finito il solito giro di controlli giornalieri, si ricordò improvvisamente della promessa che aveva fatto a Break.
E avvampò fino alla punta delle orecchie.
Le dita corsero alle tasche e vi frugarono con un moto di nervosismo alla ricerca di un paio di forbici, mentre i piedi si avviavano con passo meccanico, quasi impacciato, verso la solita branda che ospitava il tedesco.
Lui sembrava al confine tra la veglia e il sonno, ma nel sentire i suoi passi che si avvicinavano parve riscuotersi del tutto, le labbra atteggiate al solito sorrisetto di benvenuto che amava riservarle.
"Allora, vogliamo cominciare?" lo salutò lei, mostrando le forbici con fierezza. "Anche se devo avvertirti, non garantisco un risultato guardabile."
"Mi basta essere liberato da questa matassa fastidiosa, fräulein," la rassicurò il soldato, per poi issarsi a sedere con l'aiuto della crocerossina.
"Bene, iniziamo," decretò Sharon, più rivolta a se stessa che a Xerxes.
I suoi capelli erano stati lavati al momento del suo ricovero, pochi giorni prima, quindi erano ancora abbastanza puliti, ma pieni di nodi.
Preferì risciacquarli con un catino d'acqua tiepida, conscia che non li avrebbe fatti sparire magicamente, ma almeno ammorbiditi.
Cercò di districarli con quanta più delicatezza possibile, servendosi di un pettine dai denti larghi e continuando a ripetere all'altro di interromperla se gli faceva troppo male.
Quando ebbe finito, si concesse di sbirciare il viso di Break per un istante.
Aveva dovuto rimuovere il bendaggio per avere più libertà di movimento, ma era stata attenta a non lasciar bagnare la ferita, ancora coperta da una garza pericolante, e per questo gli aveva tirato indietro tutti i ciuffi disordinati che gli ricadevano perennemente sulla fronte, lasciando il suo viso del tutto scoperto.
Un'espressione del tutto priva del solito sarcasmo, serena, gli aleggiava in volto; sembrava un'altra persona.
L'infermiera si affrettò a tornare al suo lavoro, le forbici in una mano e una ciocca di capelli nell'altra, gli occhi lontani da lui.
Strinse le labbra e assottigliò lo sguardo, iniziando a tagliare con gesti decisi.
Era abbastanza sicura che a Xerxes non sarebbe importato se il taglio fosse venuto irregolare, ma non voleva comunque combinare disastri.
Il rumore ritmico e soffuso delle lame all'opera la rilassò un poco, riportandole alla mente le volte che sua madre la portava dal parrucchiere da piccola e passava ore a vantarsi con le altre signore di quanto fosse brava la sua bambina, e il tremito delle sue dita si attenuò.
Proseguì in silenzio per un po', poi iniziò a canticchiare senza accorgersene una vecchia canzonetta inglese.
Improvvisamente le spalle di Break parvero irrigidirsi e Sharon si rese conto che stava trattenendo il respiro, completamente assorto.
"... Fräulein?", lo sentì chiamarla quando si accorse che si era bruscamente zittita. "Non canta più?"
Ora si era voltato verso di lei e si teneva la garza in equilibrio con una mano, mentre l'altro occhio la scrutava con un misto di perplessità, apprensione e dispiacere.
"Si sente poco bene?"
La crocerossina deglutì sotto il peso di quello sguardo, per poi scuotere la testa con decisione nella speranza di riprendersi e cacciar via il rossore che le infiammava le guance.
"Non è niente!" si affrettò a rassicurarlo. "Ora girati di nuovo, ho quasi finito."
Il soldato si concesse qualche altro istante per osservarla, ma alla fine ubbidì.
"Ha una bella voce," lo sentì mormorare di spalle.
Si limitò a lasciar scorrere distrattamente le dita sul suo capo in risposta e si concesse un sorriso tirato, poi riprese a tagliare.
Quando si sentì soddisfatta del suo lavoro, spazzolò via le ciocche recise dalle spalle dello straniero e gli porse uno specchietto, uno dei pochi oggetti che si era portata da casa.
Break lo tenne davanti al viso per un attimo e le regalò uno dei suoi soliti ghigni come ringraziamento.
"Finalmente!" ridacchiò, restituendole lo specchio.
All'infermiera sfuggì un sospiro di sollievo nel vederlo così soddisfatto, poi la sua professionalità prevalse e si affrettò a prendere le prime bende a portata di mano per bendarlo di nuovo, timorosa che la ferita esposta potesse infettarsi.
Lui non protestò e la lasciò fare come sempre, senza però lasciarla ritrarsi quando ebbe finito.
Le prese il polso e la attirò verso di sé con una fermezza in cui riusciva quasi ad avvertire il terrore che non lo abbandonava mai, oltre a una dolcezza di cui non l'aveva mai creduto capace, sino a sfiorarle un orecchio con le labbra.
"Danke, mein schön fräulein2," bisbigliò, solleticandole il collo con le ciglia.
Sharon si ritrasse d'istinto, pronta a farfugliare qualcosa e scappare per evitare che l'altro notasse quanto l'aveva fatta arrossire, ma Xerxes si era già assopito di nuovo.
Solo in quel momento si accorse che le tremavano le gambe e aveva le nocche delle mani bianche per quanto stava stringendo i pugni.
Si affrettò verso la sacca del bendaggio sporco e prese quanta più stoffa possibile, dirigendosi poi al fiume senza paura di incontrare nessun nemico, la testa ancora altrove e il volto ancora in fiamme.
Riuscì a calmarsi solo dopo aver lavato una decina di garze, quando ormai non riusciva più a sentirsi le dita livide per il freddo e corrose dal sapone di scarsa qualità.
Fu in quel momento che scoppiarono le raffiche.









Note:
1 -
"Dottore" in tedesco (U DON'T SAY)
2 - "Grazie, mia bella signorina" in tedesco

Yu's corner.
Buondì, carissimi!
Questa è tipo la prima volta che termino un capitolo con una tale suspance, mi sento così troll che potrei abitare i sotterranei di Hogwarts.
Ahem, jokes aside.
Spero che nessuno stia preparando linciaggi ai danni nella sottoscritta, prometto che non vi lascerò friggere di preoccupazione per molto.
E devo dire una cosa che mi ero scordata di specificare nel primo capitolo! Io adoro tantissimo Vincent e mi fa male il cuore a renderlo così... poco collaborativo (?), ma è ai fini della trama purtroppo. Dunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che mi facciate dono delle vostre preziose opinioni!
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 3
*** Della crisi ***


Le gambe le tremavano per il panico.
Non le succedeva dalle sue prime settimane al fronte, e invece ecco di nuovo quella sensazione.
Stava correndo in mezzo al bosco con le braccia strette al petto nel tentativo di non perdere il grembiule e i bendaggi che era riuscita ad afferrare prima di scappare il più lontano possibile dalla Marna.
Il più lontano possibile dagli spari e le esplosioni.
Sentirli da dentro l'ospedale, relativamente distante e al sicuro, era un conto; ma avvertire la terra che le tremava sotto i piedi per i colpi dell'artiglieria pesante era un altro.
Calpestò una radice senza accorgersene e per un istante che le parve disintegrarsi nel tempo come un proiettile pensò che sarebbe caduta, tuttavia riuscì a mantenere l'equilibrio e continuare ad avanzare verso il campo.
Probabilmente, finita la scarica di adrenalina, si sarebbe resa conto di essersi presa una distorsione.
Per il momento importava solo correre, non sentiva neanche i rami secchi graffiarle il viso e le gambe.
Era quasi arrivata in vista delle tende, quando un soldato sbucato dalle sterpaglie le si parò improvvisamente davanti col fucile spianato.
Aveva la stessa divisa di Xerxes.
Xerxes, che sarebbe rimasto solo.
Sentì lo spavento cedere il passo a una strana tristezza mentre si rendeva conto che stava per abbandonare il suo paziente a se stesso, poi qualcosa scintillò sul collo dell'uomo, che si afflosciò a terra con un rantolo soffocato.
Alle sue spalle Gilbert, uno dei soldati inglesi stanziati di guardia al campo, rinfoderò rapidamente la lama del coltello e la prese per un polso, trascinandola verso l'ospedale.
"Tu fila dentro, io resto di pattuglia," le intimò con un tono che non riusciva ad assumere neanche un briciolo dell'autorità che avrebbe voluto imprimergli lui.
"Gil, grazie," mormorò Sharon, per poi entrare nella tenda principale.
Tutto era molto più calmo di quanto avesse immaginato, anche se da un punto che conosceva sin troppo bene provenivano urla e voci concitate.
Vi si diresse a passi affrettati, cercando di ignorare i volti smarriti dei pazienti e il dolore alla caviglia sinistra che si faceva sempre più intenso.
Distorsione, come previsto.
Si conficcò le unghie nei palmi e procedette fino alla branda di Break, posò i bendaggi puliti su una sedia lì vicino e si fece largo tra la selva di infermiere e medici riunita lì attorno, il petto che si faceva sempre più pesante.
Il tedesco era bloccato al letto dal dottor Lunettes e il dottor Nightray, ma continuava ad agitarsi furiosamente.
La benda sul suo occhio era inzuppata di rosso e il volto aveva assunto un pallore spettrale, eppure aveva ancora le energie di gridare frasi sconnesse in tedesco dal tono molto poco amichevole all'indirizzo dei due uomini.
Non appena vide Sharon si pietrificò, le labbra spalancate e una gamba ferma a mezz'aria, pronta a sferrare un calcio.
"Fräulein..." sussurrò con un filo di voce che era quasi un singhiozzo, poi rovesciò all'indietro l'unica iride sana e svenne.
Non sentì il grido strozzato dell'infermiera, non la sentì inveire come una furia contro chiunque si trovasse nei paraggi pretendendo spiegazioni immediate, non sentì nulla.
Quando la maggior parte del personale si fu allontanato, Reim si schiarì la voce.
"Era preoccupato per te," esordì titubante, come se la crocerossina rappresentasse un pericolo ben più grande delle esplosioni che ancora riecheggiavano fuori dalla tenda. "Non appena ha sentito le prime raffiche e si è reso conto che non c'eri ha tentato di alzarsi dal letto per andare a cercarti."
"Inutile dire che quanto l'abbiamo costretto a letto ha scatenato l'inferno," proseguì Vincent, lo sguardo fisso su Sharon.
Era stata lei a volerlo tenere lì, la responsibilità dell'accaduto era sua.
"Io..." farfugliò, quasi incapace di sostenere quegli occhi gelidi. "Io mi occuperò di stabilizzare le sue condizioni."
I due medici annuirono, uno preoccupato e l'altro completamente privo di espressione, per poi lasciarla da sola e andare a prepararsi per l'ondata di nuovi feriti che si prospettava quando l'attacco fosse finito.
L'infermiera si affrettò a misurare la temperatura di Break, riuscendo a stento a trattenere un singhiozzo nel sentire la sua fronte così bollente.
Aveva avuto una ricaduta.
E tutto perché si era preoccupato per lei.
Si costrinse a cacciare indietro le lacrime e frenare il tremito delle mani, doveva agire in fretta se non voleva perderlo.
Disfece con quanta più cautela possibile le garze ormai completamente rosse in più punti e soffocò un moto di nausea davanti alla ferita; alcuni punti avevano retto, ma in altre zone la cucitura si era allentata e i lembi di pelle slabbrata perdevano sangue.
Stupido tedesco, era tutto ciò che riusciva a pensare mentre toglieva il vecchio filo, tamponava, spalmava l'antisettico, ricuciva e bendava.
Bagnò un panno in un catino lì accanto e lo poggiò su parte della fronte di Xerxes, nella speranza di riuscire ad alleviargli la febbre, poi gli somministrò un antidolorifico.
Non ce l'avrebbe mai fatta a riprendersi entro lo scadere della settimana.
Improvvisamente fu come se tutta la paura provata al fiume, il dolore alla caviglia, i graffi sulle guance e sui polpacci, il peso di tutto quel tempo passato in guerra le fossero crollati sulle spalle senza il minimo preavviso, tutti insieme.
Si lasciò cadere sulla sedia accanto alla branda dello straniero e scoppiò a piangere, con la speranza che le raffiche coprissero i tremiti che la scuotevano.
Pianse per un tempo che le parve infinito, finché nell'aria non tornò il silenzio.
L'atmosfera sembrava sfocata e spettrale, tesa perché tutti lì dentro sapevano che entro breve l'ospedale avrebbe pullulato di nuovi soldati feriti.
Tutto ciò che Sharon avrebbe voluto fare era posare la testa sul letto, accanto a Break, e lasciarsi cullare dal suono del suo respiro ancora irregolare, ma c'era una cosa di cui doveva assolutamente occuparsi.

L'alloggio del dottor Nightray si trovava in una piccola tenda situata vicino all'ospedale e Sharon percorse il breve tragitto che li separava con passo strascicato e lo stomaco in subbuglio.
Esitò per un istante davanti all'ingresso, cercando di raccogliere quella poca concentrazione che le era rimasta dopo l'attacco, e infine si decise a bussare su uno dei pannelli metallici che sostenevano la struttura.
Dapprima il suono echeggiò nel cupo silenzio che avvolgeva il campo, poi la voce del medico rispose dall'interno e l'infermiera scostò la stoffa per entrare.
La stanza era illuminata da una singola lampada a olio che gettava ombre spettrali sulla scrivania carica di scartoffie e sul letto in perfetto ordine, oltre che sul viso dell'uomo.
La stava osservando con sguardo assente, come in trance, ma Sharon sapeva perfettamente che stava solo aspettando che lei iniziasse a parlare.
Come se non avesse già intuito di cosa si trattava.
Cercò di ignorare il dolore pulsante che le partiva dalla caviglia, alla quale aveva applicato un bendaggio di fortuna prima di avviarsi, e si impose di non lasciarsi intimorire da quegli occhi come un topolino spaurito.
Xerxes aveva bisogno di lei.
Raddrizzò le spalle e rivolse al suo superiore un'occhiata furente, l'occhiata di chi affondava nel fango e nella morte ogni giorno ma conservava ancora la volontà di riemergere.
"Perché non l'ha sedato quando l'ha visto agitarsi?" chiese a bruciapelo, senza bisogno di specificare di chi stesse parlando. "Avrebbe potuto evitare la crisi."
L'altro parve prendersi qualche secondo per pensare, nonostante la sua espressione improvvisamente dura lasciasse già trapelare la risposta.
"Non potevo permettermi di sprecare medicinali preziosi per un tedesco," ribatté infatti in tono sprezzante, calcando la voce sull'ultima parola.
"Ma in questo modo gli ci vorrà molto più tempo per riprendersi!"
"Questo non è un mio problema."
L'improvvisa violenza di quella frase le fece morire in gola l'indignazione e la crocerossina rimase come stordita mentre il dottor Nightray continuava implacabile.
"Tu non hai idea di cosa stiano preparando entrambi gli schieramenti, si prospetta un massacro di proporzioni gigantesche."
Forse erano l'effetto della stanchezza e la suggestione, ma a Sharon sembrò che la voce del medico si fosse incrinata appena e ricordò che nel loro reggimento militava anche suo fratello Gilbert, il soldato che l'aveva salvata poco prima.
"Questo posto sarà inondato di feriti e io non posso permettermi di assecondare i tuoi propositi di buona samaritana."
"Ma potrebbe nuovamente stabilizzarsi!" protestò l'infermiera, la rabbia che tornava a montarle in petto.
"La sua piressia ha avuto un brusco peggioramento," fu la secca risposta di Vincent.
La crocerossina si ritrovò a mordersi l'interno di una guancia fino a sentire sulla lingua il sapore metallico del sangue per impedirsi di saltargli al collo; detestava quando i medici usavano di proposito termini inusuali o complicati solo per ricordare alle infermiere il divario intellettuale che li separava.
"La febbre è irrilevante, gli si abbasserà," lo contraddisse ostinata. "Mi serve solo qualche giorno. Se lo manda via ora sarà stato tutto inutile."
Ora era la sua voce a essersi incrinata, mentre le guance arrossivano appena al ricordo delle erre strascicate dello straniero e gli occhi tornavano lucidi.
Le iridi del dottor Nightray erano di nuovo assenti, perse dietro a calcoli e considerazioni inaccessibili.
Poi si focalizzarono su di lei e Sharon si sentì attraversare da un brivido ghiacciato nel vederlo avvicinarsi.
L'uomo non aveva affatto una buona reputazione al fronte e l'infermiera stessa aveva sentito da Echo storie che aveva sperato fino a quel momento essere false.
"Qualche giorno, eh?" rimuginò Vincent, fregandosi distrattamente la nuca con una mano.
La crocerossina non rispose, né si scansò quando lui si chinò verso il suo viso.
"È una richiesta difficile, fräulein."
Il dolore alla caviglia parve esplodere e Sharon contrasse le labbra in una smorfia sofferente e disgustata, che non sfuggì al suo superiore.
"Ma guardati, non ti reggi in piedi," sentenziò, sollevandole il mento con un dito. "Del resto anch'io sono sfinito."
E come per sottolineare il concetto le posò la fronte su una spalla, la bocca che le sfiorava il collo e le mani che le cingevano la vita.
"Un'infermiera devota come te dovrebbe rilassarsi un po', che ne dici?"
Le dita del medico erano fredde, la sua voce non le carezzava le orecchie con il tono tremante di Break, non c'era la minima traccia di dolcezza in quel contatto.
Eppure Sharon non si mosse, tenne gli occhi bassi e lasciò che lui le slacciasse la divisa sgualcita, affondando piano i denti nella carne della scollatura e risalendo poi fino al viso per seguire con le labbra i graffi che si era fatta al fiume.
Ignorò il fruscio dei suoi abiti che le cadevano ai piedi e liberò il dottor Nightray dei propri con lo stesso automatismo con cui scioglieva i bendaggi incrostati di sangue.
"Hai delle mani dolci," le sussurrò Vincent senza tracce di tenerezza.
"No."
Sostenne il suo sguardo con un ultimo guizzo di rabbia, poi l'immagine di Xerxes bruciante di febbre nella sua branda le serrò la gola.
Chiuse gli occhi mentre l'uomo la adagiava sul letto come una bambola di pezza e rispose ai baci e alle mani che scivolavano sotto la sottoveste conficcandogli con forza le unghie nella schiena.
Lo stava facendo per salvare una vita e non avrebbe ceduto, per quante volte Vincent l'avesse chiamata fräulein con tutta la crudeltà di cui era capace, schiacciandola tra il materasso e il suo corpo.
L'avrebbe soddisfatto in silenzio, senza lasciarsi sfuggire neanche una lacrima, e poi sarebbe ritornata da Break.
Sporca, spezzata e graffiata, ma con qualche giorno per lui.








Yu's corner.
Trolololol, salve!
Penso che dopo questo capitolo la vostra voglia di linciarmi schizzerà alle stelle, ma se può consolarvi, sappiate che ho fatto i salti mortali per finirlo dato che IL MIO PC È UN DISERTORE.
Cooomunque, disavventure tecnologiche a parte, volevo precisare una cosina: la storia è ambientata nel 1918, quindi l'attacco imminente di cui parla Vincent si riferisce alla seconda battaglia della Marna.
The more you know~.
Attendo con ansia i vostri commenti (non mandatemi a rogo pls) e vi ringrazio!
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 4
*** Delle domande ***


La prima cosa che vide nello svegliarsi fu il vuoto accanto a sé.
Era ancora nella tenda di Vincent, nonostante se ne sarebbe voluta andare già da molto.
Ricordava che lui le aveva sussurrato di restare e per un attimo, un breve istante della cui esistenza era arrivata lentamente a dubitare, Sharon aveva sentito riverberare nella sua voce la stessa sofferenza che provava lei tutti i giorni.
Solo per quell'attimo aveva sentito di non essere sperduta in un mondo di bende insanguinate ed esplosioni, poi la nausea aveva preso il sopravvento e l'aveva costretta a voltarsi dall'altra parte.
Si aspettava che il medico stesse ancora dormendo, ma era sola nel letto.
Tanto meglio.
Si rivestì in fretta, stringendosi nella divisa come un passero infreddolito, per poi affrettarsi ad uscire da quel luogo ormai claustrofobico.
Inspirò a pieni polmoni l'aria frizzante del mattino e si godette la sensazione del freddo che le pungeva il viso e i polmoni, mentre la luce del sole appena sorto le faceva socchiudere le palpebre.
L'idea di entrare nella tenda principale e imbattersi nel dottor Nightray non le piaceva affatto, ma non poteva abbandonare i suoi pazienti a loro stessi, non poteva abbandonare Xerxes.
Strinse i pugni e si fece largo nell'ospedale, iniziando il suo solito giro di controlli di routine.
Gli effetti dell'attacco del giorno prima si erano già fatti sentire e la sala era affollata fino all'inverosimile di soldati in condizioni più o meno gravi, gemiti soffocati e infermiere frenetiche.
Sharon deglutì istintivamente, poi si tirò su le maniche della camicia e iniziò ad analizzare con occhio critico i suoi pazienti, appuntandosi i nomi di chiunque fosse stato abbastanza in forze da poter essere trasportato verso altre strutture di riabilitazione più interne.
Finite le visite più leggere, si dedicò ai nuovi arrivati che erano ancora in attesa di assistenza e tagliò, disinfettò, ricucì finché non le si appannò la vista.
Era nel bel mezzo di un'operazione piuttosto complicata (togliere un proiettile dal braccio di un ragazzo), ma per fortuna aveva praticamente finito e riuscì a portare a termine l'estrazione senza fargli male.
Il giovanissimo soldato in questione la scrutò con aria scettica da sotto una frangia scura e decisamente troppo lunga mentre gli tamponava la ferita.
"Non dovrebbe prendersi una pausa?" suggerì. "Tanto ormai l'emergenza è passata."
La crocerossina annuì trasognata, rendendosi conto che il nuovo arrivato era ricoverato davanti al lettino di quella mina vagante di Elliot e, di conseguenza, a pochi passi dal lettino di Break.
Ignorò di proposito lo sguardo assai poco raccomandabile che si scambiarono i due inglesi e che non prometteva niente di buono, per dirigersi fino al posto dello straniero.
Xerxes aveva la fronte ancora calda e una macchia rossa sulle bende in prossimità dell'occhio ferito, ma il respiro era regolare.
Sharon si affrettò a rifargli un bendaggio nuovo e alla fine del processo si accorse di averlo svegliato.
Non riuscì a trattenere un lieve sobbalzo, al quale il tedesco rispose con uno dei suoi soliti sorrisetti, che però sfiorì nell'accorgersi delle condizioni dell'infermiera.
"Fräulein!" esclamò con un'energia di cui la crocerossina non l'avrebbe mai ritenuto capace in quelle condizioni. "Ha il viso pieno di graffi!"
In effetti al momento non doveva avere una gran bella cera, riusciva quasi a percepire il pallore del suo stesso viso, le occhiaie, i capelli scarmigliati e le guance graffiate dai rami del giorno prima.
Per non parlare del dolore alla caviglia, ma Break non era tenuto a saperlo.
"Non è niente, davvero," si affrettò a rassicurarlo.
Il soldato non parve persuaso e stava per protestare ancora, quando un improvviso giramento di testa convinse Sharon ad acciambellarsi sul pavimento accanto al suo letto, la testa e gli avambracci posati sul materasso a un soffio dal suo viso.
"Non osare farmi la paternale, Xerx," lo avvisò in tono tra il duro e lo scherzoso. "Qui sei tu quello messo peggio."
Il tedesco aveva aperto le labbra screpolate per protestare, tuttavia l'improvvisa vicinanza della crocerossina lo sorprese a tal punto da zittirlo.
Rimase in silenzio a osservarla, poi allungò una mano verso la guancia più graffiata e indugiò a un soffio dalla sua pelle, come a chiedere il permesso.
L'infermiera perse un battito, o forse anche più di uno, ma rimase immobile e inclinò appena il capo quando avvertì il tocco rovente delle dita dell'altro sui suoi graffi.
Erano così diverse da quelle di Vincent, così tremanti e accaldate, che Sharon dovette fare appello a tutta la forza d'animo che le era rimasta in corpo per non piangere di nuovo.
“Oggi c'è un bel sole,” disse invece, mentre l'uomo continuava a seguire i contorni arrossati dei graffi. “Vorrei che lo vedessi anche tu.”
Rimasero in silenzio per un po', col biancore della mattina che filtrava attraverso le rudimentali finestre dell'ospedale, poi Break si fermò e le appoggiò il palmo della mano sulla guancia.
“Perché sono qui,?” chiese in tono improvvisamente serio. “Siete in una situazione d'emergenza e io non sono neanche inglese.”
L'infermiera resistette a fatica all'istinto di correre via, al riparo da quell'occhio rosso che esigeva verità che lei non poteva rivelare, verità sepolte sotto una coltre di lenzuola sfatte.
“Non siamo messi poi così male,” cercò di giustificarsi, sapendo lei stessa che lui non le avrebbe creduto.
Infatti il cipigliò di Xerxes si indurì ulteriormente e il tedesco si puntellò sul braccio libero per osservarla più da vicino.
Fräulein,” la chiamò di nuovo, con maggiore insistenza.
Sharon deglutì a vuoto, lo sguardo che vagava per la stanza incapace di reggere il contatto visivo.
Incrociò un paio di iridi eterocrome, le stesse che la notte prima l'avevano frugata in ogni punto, bruciata e derisa, e soffocò un singhiozzo.
Il soldato seguì il suo sguardo e si irrigidì visibilmente; la crocerossina avrebbe potuto giurare di aver sentito lo scatto delle sue mascelle che si serravano.
Poi il dottor Nightray si allontanò e lui tornò a concentrarsi su di lei, sebbene l'aria indagatrice fosse stava sostituita da una sconvolta, smarrita come quella di un bambino.
“Che cosa hai fatto?”
La domanda risuonò più forte di un colpo di fucile nell'aria immobile, squarciandole le orecchie, poi la testa di Break ricadde sul cuscino e lo straniero si lasciò trascinare nell'oblio di un sonno che Sharon si augurava fosse senza sogni.
Una parte isolata del suo cervello si rendeva conto che le aveva appena dato del tu, ma non riusciva a esserne felice quanto avrebbe voluto; l'angoscia che aveva sentito incrinargli la voce le serrava ancora la gola.
Cercò di cacciarla via lavorando e applicò un asciugamano umido sulla fronte di Xerxes, poi tornò ad accovacciarsi accanto a lui.
Che cosa aveva fatto?
Era andata a letto col suo superiore per poter salvare la vita di un uomo.
Perché l'aveva fatto?
Perché non sopportava l'idea di lasciare un ferito al suo destino solo per il colore della sua divisa.
Chiuse gli occhi e conficcò le unghie nella stoffa del materasso, perfettamente consapevole del fatto che le sue ragioni andassero ben oltre.
Non voleva trovarsi lì quando l'altro si fosse svegliato, ma allo stesso tempo non aveva la forza di allontanarsi da lui e il suo respiro affannato nelle orecchie leniva il dolore che sembrava volerla lacerare, cancellare le conseguenze della notte prima anche se solo per poco.
Le bastava quello, le bastava un po' di riposo.
Qualche minuto e poi torno a lavoro, si ritrovò a pensare confusamente, per poi crollare accanto a Xerxes.
Sognò (o forse si era svegliata per un attimo, non avrebbe saputo dirlo) di sentire il tocco delle mani dell'uomo che le carezzavano i capelli e le sue labbra seccate dalla febbre che le baciavano la fronte in un gesto protettivo e disperato.
A svegliarla fu qualcuno che la scuoteva per le spalle con neanche metà della dolcezza del suo sogno.
Mise a fuoco con qualche difficoltà e si rese conto di avere davanti Alice, affiancata da un Oz che sembrava diviso tra la voglia di fare come sempre il provolone con la ragazza e la necessità di mantenere il suo ruolo.
“Ci servirebbe il tuo aiuto per caricare i feriti meno gravi sulle ambulanze,” le comunicò la sua collega senza mezzi termini, sebbene dal suo sguardo trapelasse una certa preoccupazione.
Sharon si limitò ad annuire e scattare in piedi, cercando di ignorare giramenti di testa e dolore alla caviglia, poi seguì gli altri due verso i soldati che aspettavano di essere trasferiti altrove.
Nell'uscire dalla tenda si rese conto di aver dormito fino a pomeriggio inoltrato e si sentì arrossire per la vergogna.
Che diavolo stava facendo?
Per rimediare continuò a dare una mano alle operazioni di trasporto finché non fu più possibile continuare a causa del buio, quindi tornò ad aggirarsi tra le brandine per accertarsi che le condizioni dei nuovi arrivati fossero stabili, o perlomeno sopportabili.
Somministrò dell'antidolorifico a Elliot, che non mancò di strepitare qualcosa su quanto lui non avesse assolutamente bisogno di medicinali e suscitare l'ilarità del ragazzo a cui l'infermiera aveva estratto il proiettile dal braccio quella stessa mattina.
I due si scambiarono alcuni commenti coloriti dalle due sponde della corsia, ma sembravano abbastanza innocui da poter essere lasciati alle proprie schermaglie senza pericolo.
La crocerossina passò davanti al letto di Break a passo svelto, troppo spaventata dalle domande che lui avrebbe potuto rivolgerle per fermarsi a controllare il suo stato di salute, per poi fare cenno a Echo di tenerlo d'occhio per lei.
L'altra rispose con un cenno d'assenso, lasciando Sharon libera di dirigersi verso il suo alloggio.
Si lasciò scivolare la divisa di dosso con un brivido di disgusto nel ricordare la notte precedente e la calciò in un angolo della stanza prima di avvolgersi nelle coperte in cerca di una protezione che aveva perso ormai da tempo o che forse non aveva mai avuto.

Dormì poco e male: Reim le aveva chiesto di aiutarlo con il turno di notte per lasciar riposare le altre e lei non aveva saputo rifiutarsi.
Anche perché aveva la sensazione che senza il respiro di Xerxes accanto a sé sarebbe stata preda degli incubi.
L'ospedale al buio le aveva sempre trasmesso un senso di tranquillità che non sapeva spiegarsi: i gemiti dei feriti si attenuavano fino a diventare sospiri, mentre il chiaro di luna e le lampade a olio diffondevano una luce tremolante e azzurrina su quei volti emaciati finalmente tranquilli nel sonno.
Il dottor Lunettes le venne incontro con un sorriso stanco e un saluto appena accennato a cui lei rispose debolmente.
Il medico la istruì a bassa voce sui suoi compiti, poi si fermò a guardarla in silenzio.
“Tutto bene?” si informò, nonostante una domanda del genere avesse perso qualsiasi significato precedente in un luogo come il loro ospedale.
Sharon annuì senza convinzione.
“Non preoccuparti,” gli sorrise. “Non è niente.”
Si allontanò da lui, immersa nel silenzio surreale della notte, con l'improvvisa consapevolezza che Reim fosse l'unico dottore di cui si fidasse.
Forse perché era sempre stato gentile con lei, come un fratello maggiore.
O forse semplicemente perché gli esseri umani hanno bisogno di appigli.
Dato che tra i suoi doveri c'era anche quello di controllare Xerxes, l'infermiera decise di cominciare da lui.
Sembrava sempre più pallido, ma almeno la ferita non dava segni di infettata o riaperta e il bendaggio usato non era più macchiato di sangue.
Glielo sostituì comunque, per poi detergergli il sudore dal viso con una pezza umida di cui si servì anche per tamponargli le labbra disidratate.
Lo straniero si agitò nel sonno e Sharon si chinò verso di lui, sfiorandogli la punta del naso con il proprio.
Rimase così per qualche secondo, in attesa che le visioni che lo stavano attanagliando svanissero, senza avere la minima idea di cosa fare.
Intanto mormorava una vecchia ninnananna nella speranza che lui la sentisse.









Yu's corner.
Buh, eccomi qui ad aggiornare!
Ringraziate il mio professore di latino in malattia che mi ha permesso di prendermi il pomeriggio libero per completare la stesura. (?)
Questo capitolo mi è sembrato un po' statico rispetto ai precedenti, forse perché è in effetti un capitolo di transizione.
Ad ogni modo, spero che a voi miei cari lettori sia piaciuto!
Film mentali dell'autrice a parte, indovinate chi è il nuovo soldato con la frangia chilometrica che punzecchia Elliot?
SIGNORE E SIGNORI, SPIEGATEMI COME LIBERARMI DELLA ELLIOTLEO VI PREGODBKSGAK-
Sigh, sono senza speranza alcuna.
E detto questo vi lascio, ringraziando tanto chiunque leggerà e commenterà.
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 5
*** Della separazione ***


“Bene, credo che potremmo diminuire la dose di antipiretico,” commentò in tono professionale, quasi distaccato.
Doveva ammettere che per un momento si era convinta di non essere più in grado di badare a Xerxes, ma il panico si era dissipato con l'alba e il mattino l'aveva lasciata esausta ma serena, come la luce del sole appena sorto.
Il tedesco non aveva fatto commenti per tutta la durata della visita di routine, ma aveva continuato a tenere lo sguardo fisso sul suo viso mentre lei gli sentiva la febbre e cambiava il bendaggio.
“C'è qualcosa che non va?” si decise infine a chiedere Sharon, le mani piantate sui fianchi e un cipiglio con cui poche persone si sarebbero sognate di discutere.
Lui si lasciò sfuggire una risatina e fu in quel momento che lei intravide qualcosa brillargli tra i denti.
“Ma quella è...” l'infermiera esitò, incredula. “Una zolletta di zucchero?”
“Credevo che non te ne saresti mai accorta, fräulein,” ghignò Break in risposta, per poi frantumare ciò che restava dello zucchero e inghiottire con aria soddisfatta.
La crocerossina si sentì arrossire la punta delle orecchie sotto la cuffietta nel rendersi conto che ormai l'altro aveva iniziato definitivamente a darle del tu, poi il ricordo di ciò che gli teneva nascosto riaffiorò e la nausea le spezzò il sorriso tirato che lui era riuscito a strapparle.
“Me la sono fatta dare da una tua collega, è incredibile cosa si possa ottenere con un paio di lusinghe,” continuò Xerxes, senza guardarla in viso.
Sharon ripensò a tutte le volte in cui da bambina aveva teso agguati sempre più ingegnosi alla zuccheriera d'argento di sua madre e sentì sulla lingua il sapore dolce delle zollette, mentre la voce di sua nonna Sheryl le sussurrava di stare attenta a non farsi scoprire dal maggiordomo.
Le aveva sussurrato anche di non andare al fronte in una notte di ninnananne disperate come quella che aveva appena passato, ma non le aveva dato ascolto.
“Attento a non farti beccare da qualche medico se lo rifai,” sorrise al tedesco, sperando che non notasse la malinconia che le brillava negli occhi.
L'uomo trasalì appena alla parola medico, ma si riprese immediatamente e alzò un sopracciglio, l'unico visibile sotto la fasciatura, nella sua direzione.
“Sono un asso della discrezione.”
“Disse il soldato nemico.”
Scoppiarono a ridere entrambi, la loro sfibrata allegria che rimbalzava tutto attorno con la leggerezza della novità.
Break smise per primo con una smorfia di improvviso dolore a contrargli le labbra e Sharon si bloccò subito dopo, affrettandosi a farlo stendere e facendogli bere con cautela qualche sorso d'acqua.
Dopotutto, la guerra era sempre lì a ricordare loro dove si trovassero.
Si scambiarono uno sguardo silenzioso carico di rassicurazioni vuote, poi Xerxes allungò una mano verso la sua e le sfiorò le dita con le proprie.
“Questa notte mi è sembrato di sentirti cantare,” mormorò assorto, le dita che ora si intrecciavano a quelle di lei con delicatezza e urgenza al tempo stesso.
Era una semplice affermazione, priva di qualsiasi interrogativo.
Che lei avesse davvero cantato o meno contava quanto la loro risata, un frullio d'ali nel mezzo di una sparatoria.
La crocerossina si limitò a carezzargli l'interno del polso, così sottile per essere il polso di un uomo, con la punta del pollice, senza rispondere.
Riusciva a percepire il flebile pulsare delle sue vene sotto la pelle, ma dubitava che neanche quello potesse significare qualcosa in un luogo dove la vita li abbandonava per il migliore offerente.
Non avrebbe saputo dire se lui avesse intuito i suoi pensieri, ma sarebbe stata pronta a giurarci quando sentì la sua voce parlare di nuovo.
“Quando tutto questo finirà, voglio trasferirmi a Ginevra.”
Il tono era distante, perso nell'immaginare una possibile vita finalmente tranquilla in un paese neutrale, e presente in modo bruciante allo stesso tempo: se non ci fosse stata lei al suo fianco non avrebbe avuto senso.
Un soldato qualche branda più in là si lamentò nel sonno e Sharon si sentì piombare di nuovo nella loro realtà fatta di sangue, infezioni e denti stretti.
“Sarebbe bello,” si concesse, per poi liberarsi dalla presa della mano dello straniero e avviarsi verso il ferito, pronta per tornare a lavoro.

Il terreno le tremava sotto i piedi.
Non riusciva più a capire se fossero le sue gambe malferme per la paura o i colpi che qualche chilometro più il là continuavano ad abbattersi al suolo con violenza mai vista, ma tremava.
Qualcosa le diceva che era quello l'attacco di cui le aveva parlato Vincent.
O meglio, aveva il bisogno spasmodico di credere che fosse quello perché non credeva di essere in grado di sopportare di peggio.
Non più, almeno.
L'interno dell'ospedale risuonava dei singhiozzi sommessi dei pazienti e le frasi spezzate e nervose del personale medico, mentre le uniformi macchiate svolazzavano come impazzite per le corsie.
Era arrivato un dispaccio dall'interno e ai militari stanziati di guardia lì era stato ordinato di preparare il trasferimento immediato di chiunque fosse ricoverato o lavorasse nella struttura.
Lo spiazzo erboso davanti alla tenda principale era gremito di ambulanze e soldati che venivano stipati al loro interno senza troppi complimenti.
Ormai avevano quasi finito l'evacuazione, mancava solo l'ala dov'era ricoverato Xerxes.
Sharon la raggiunse correndo, il cuore in gola e il terrore che fosse stato escluso dall'operazione che le appannava la vista.
Arrivò che Elliot, ormai quasi ristabilito, stava aiutando il ragazzo che si era beccato un proiettile nel braccio ad alzarsi dal letto, riuscendo a stento a trattenere imprecazioni che non era certa di aver mai sentito.
Il tedesco era seduto nella sua branda e si guardava attorno con occhio vigile.
Aveva le mani talmente strette attorno alle lenzuola da confondersi con il loro biancore, ma non riuscì a impedirsi di sobbalzare nel vederla avanzare verso di lui.
Come del resto lei non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo nel vederlo ancora lì, pronto per essere portato in salvo.
Fräulein, che sta succedendo?” le chiese, l'accento straniero più marcato che mai a causa del nervosismo. “Siamo sotto attacco?”
In realtà non lo sapeva neanche lei cosa stesse succedendo.
Ogni volta che un'esplosione straziava l'aria si ritrovava a pregare che fosse finalmente la fine, il massacro definitivo alla fine del quale sarebbe rimasto solo un assordante e cacofonico silenzio fatto di cenere, ma la verità era che non ne aveva idea.
Voleva solo salire su una di quelle ambulanze e non tornare mai più in quel luogo, non dover più lavarsi via il sangue altrui al fiume.
Alzò lo sguardo su Xerxes e sentì di dovergli una risposta, almeno una.
Non importava se non l'aveva, non importava se non riusciva neanche a ragionare.
“Non direttamente, ma siamo troppo vicini alla Marna per considerarci al sicuro,” sciorinò a denti stretti, per poi fare un cenno ad Alice. “Dobbiamo portarti via da qui.”
Lo straniero ora aveva l'aria smarrita e si lasciò sollevare senza dire una parola, mentre le due infermiere gli passavano le braccia attorno al busto per aiutarlo a camminare.
Si riscosse solo quando la luce del giorno tornò a colpirlo in volto con tutta la violenza di cui era capace, facendogli socchiudere l'unica palpebra libera dalle bende.
Si voltò verso Sharon, che nel frattempo lo stava aiutando a raggiungere l'ambulanza più vicina, e si fermò.
“Come faccio a essere sicuro che ci rivedremo?”
L'aveva detto in fretta, mangiandosi le parole, in preda a un'ansia che non aveva mai mostrato davanti a lei, neanche quando le aveva chiesto perché fosse ancora vivo.
I rombi dei motori dei veicoli che si allontanavano si mischiavano ai fischi delle raffiche in un'atmosfera che sembrava diventare più frenetica ogni secondo che passava.
“... Non puoi,” riuscì a constatare la crocerossina dopo un istante nel quale entrambi realizzarono che quella sarebbe potuta essere l'ultima volta che si sarebbero visti.
Le loro mani si cercarono impulsivamente, le labbra si aprirono per dire qualcosa, poi un soldato di cui Sharon non conosceva il nome si avvicinò a Break e lo prese per un braccio, intimandogli di seguirlo in fretta dentro una delle ambulanze.
Lui mantenne lo sguardo fisso negli occhi dell'infermiera, il volto che sembrava riflettere una tempesta che gli lacerava la mente.
Immobile a neanche mezzo metro da lei, ma intangibile.
Fräulein, io...”, iniziò, mentre il militare iniziava a trascinarlo via da lei.
La crocerossina mosse qualche passo incerto nella sua direzione, prima che Echo le afferrasse un polso e la tirasse verso di sé.
“Dobbiamo andarcene da qui!” le gridò; era la prima volta che alzava la voce in tanti anni.
Sharon fece finta di non sentirla e tornò a voltarsi verso Xerxes, che le rivolse un'ultima occhiata disperata.
“Io non mi...”
Non riuscì a sentire il seguito, vide solo le sue labbra secche aprirsi e chiudersi senza emettere un suono, sovrastate da un'esplosione.
L'attimo dopo era scomparso dentro chissà quale ambulanza diretta chissà dove.
Echo la strattonò con più forza, riuscendo finalmente a farla salire su un mezzo di trasporto assieme ad altre sue colleghe e Reim.
Il medico la scrutò con occhio clinico, visibilmente preoccupato dalla sua espressione, che doveva essere parecchio sconvolta.
Eppure l'infermiera non riuscì neanche a forzare un sorriso per tranquillizzarlo, le sembrava di essersi dimenticata come si faceva.
Riusciva a pensare solo a ciò che non era riuscita a sentire e che forse non sarebbe mai stata in grado di sapere.
La guerra le aveva portato via anche quel misero frullio d'ali.









Yu's corner.
Salve, pipol!
Eccoci qui con il quinto capitolo, che ve ne pare?
Io l'ho trovato un po' complicheito da mettere per iscritto (saranno i crampi che mi stanno distruggendo la pancia orz), probabilmente perché non sono brava nelle scene d'azione.
Ma mi rimetto al vostro saggio e apprezzato giudizio, come sempre.
Aspetto con ansia pareri/insulti/torce infuocate!
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 6
*** Della città ***


L'aria profumava.
Era gelida, tersa e carica di odori speziati, proprio come avrebbe dovuto essere in un giorno di dicembre inoltrato come quello.
E risuonava di mille rumori diversi: risate, voci concitate in lingue a lei sconosciute, passi per le strade sotto la finestra del suo appartamento.
A Sharon sfuggì un sospiro nel rendersi conto che, nonostante fossero già passati due anni da quando la guerra era finita, non era ancora riuscita ad abituarsi alla quotidianità della sua nuova vita.
Non le sembrava possibile di poter trascorrere una giornata senza dover sciacquarsi via il sangue dalle mani o senza le raffiche delle mitragliette nelle orecchie.
Eppure a Ginevra la tranquillità regnava sovrana sulla sua esistenza, sull'esistenza di tutti.
Un familiare odore di dopobarba le arrivò alle narici e la donna si voltò verso la sua provenienza, incontrando lo sguardo sorridente di Reim.
"Ben svegliata!" la salutò il suo coinquilino, per poi porgerle una tazza fumante in cui aveva versato del tè.
Lei lo ringraziò con un gesto del capo e bevve un sorso dell'infuso, ottimo come qualsiasi cosa preparata dall'uomo.
"Tra pochi giorni è Natale," commentò distrattamente.
"Già."
Era strano come ancora nessuno dei due fosse riuscito a capacitarsi del fatto che la guerra avesse concesso loro la possibilità di festeggiare qualcosa.
"Oggi vado al centro a comprare qualche decorazione," proseguì Sharon tra un sorso e l'altro, con una calma surreale come la loro situazione. "Ti va di accompagnarmi e passare per San Pietro?"
La cattedrale di San Pietro aveva sempre esercitato un certo fascino su entrambi, sin dalla prima volta che avevano messo piede in città.
Sebbene fossero entrambi atei (un effetto collaterale del campo, probabilmente), vi si recavano spesso.
A volte si limitavano a sedersi in disparte su qualche panca, lasciando riposare gli occhi sulle pareti di marmo grigio e le orecchie con il mormorio senza tempo e senza fine del prete.
Più raramente salivano la rampa di scale della torre sino ad arrivare al terrazzo in cima alla struttura, sul quale restavano a contemplare dall'alto il luogo che aveva accolto le loro anime distrutte dai bombardamenti finché non perdevano la sensibilità in più parti del corpo per il freddo impietoso.
"Perché no, magari distribuiranno vin brulé sul sagrato come l'anno scorso," acconsentì Reim, per poi allungare una mano a scompigliarle i capelli prima di sparire in cucina.
Il loro rapporto si era sempre limitato a simili piccoli gesti di affetto da quando, dopo l'evacuazione del loro ospedale, si erano ritrovati sulla stessa ambulanza e, più tardi, alla stessa stazione senza avere la più pallida idea di cosa fare o dove andare.
Avevano entrambi le loro famiglie ad attenderli in Inghilterra, ma erano troppo carichi di stanchezza e cicatrici per farvi ritorno, specialmente col clima di tensione che si continuava a respirare anche a guerra conclusa.
Nessuno dei due avrebbe saputo spiegare cosa li avesse spinti a guardarsi negli occhi e salire in silenzio sul primo treno diretto a Ginevra, assieme.
Forse erano le voci sull'inviolabile neutralità della Svizzera, voci che promettevano finalmente la pace.
O forse era il ricordo delle parole di un tedesco che entrambi non riuscivano a dimenticare, la speranza che anche lui fosse riuscito a trasferirsi lì come desiderava.
Sharon ricordava che i primi tempi non si era data pace; consultava giornali, documenti, inserzioni, veterani come loro che avessero potuto darle qualche notizia tangibile sulla sorte di Xerxes, solo per tornare a casa ogni volta più sfinita e scoraggiata.
Nessuno sembrava avere la più pallida idea di chi fosse Xerxes Break: solo lei e Reim ne conservavano la memoria, Reim che ogni sera la accoglieva in un abbraccio che era un'ancora di salvezza.
A poco a poco, un tentativo fallito dopo l'altro, una notte passata rannicchiata contro il petto del medico alla volta, aveva imparato a relegare il soldato straniero in un angolo della sua mente dove non faceva troppo male e aveva scoperto di amare la città in cui si erano ritrovati.
Ginevra era una capitale dove si mescolavano tre anime di uno stesso paese in una Babele di italiani, tedeschi e francesi, tutti indaffarati e tutti al loro posto.
Aveva un lago che in inverno ghiacciava assieme al parco circostante, una cattedrale da cui si potevano vedere le montagne innevate, un susseguirsi di edifici austeri e pittoreschi al tempo stesso.
A loro piaceva.
Ai loro fantasmi, liberi di confondersi nel caos multietnico che li circondava e di dissolversi come neve al sole, piaceva.
A lui sarebbe piaciuta.
Ma quella era una prospettiva a cui ormai lei aveva imparato a rinunciare.

"Allora, che decorazioni vorresti comprare?"
Camminavano a braccetto per le ampie strade del centro di Ginevra, al momento brulicanti di venditori, banchetti e persone come loro che si affrettavano a occuparsi delle ultime compere.
Sharon arricciò le labbra con espressione pensierosa, poi indicò una bancarella dai colori sgargianti poco più in là.
"Qualche pallina di vetro per l'albero, ne abbiamo così poche," commentò come se fosse stata la più grave mancanza che un essere umano avesse mai potuto compiere mentre trascinava Reim verso il banco rivestito in velluto rosso scintillante di manufatti in vetro soffiato, smaltato e colorato.
Si concesse alcuni lunghi istanti di pura e semplice meraviglia davanti a un tale spettacolo, perfettamente consapevole di sembrare una bambina.
Non che le importasse, in realtà.
Quei due anni di relativa pace alla fine erano riusciti a convincerla che aveva tutto il diritto di tornare a stupirsi per le piccole cose, anche perché l'alternativa era chiudersi in se stessa come tanti veterani carichi di incubi che aveva conosciuto.
Il suo coinquilino si era concesso la stessa libertà ed entrambi contemplavano a bocca aperta la merce della bancarella, senza la minima vergogna.
Lei fu la prima a riscuotersi e si affrettò a rivolgere un saluto al proprietario, un francese dai baffi così folti da sembrare una spazzola.
L'uomo le indicò con dita che sembravano salsicce arrostite un set di palline dai colori pastello e accanto dei cervi in vetro soffiato completi di una pinza metallica per appenderli alle fronde dell'albero.
Erano splendide, ma Sharon cercò lo sguardo di Reim prima di decidere.
Il medico si aggiustò gli occhiali sul naso con aria falsamente scettica, per poi cedere ai suoi occhi supplicanti e acconsentire all'acquisto con un cenno del capo.
Pochi minuti dopo la borsa della donna era appesantita da un pacchetto carico di decorazioni natalizie avvolte in un nido di ovatta e carta straccia per evitare che si incrinassero.
"Missione compiuta?" si informò il dottor Lunettes.
Lei annuì fischiettando e gli rivolse un sorriso raggiante che sorprese entrambi.
Si sorprendevano sempre quando uno dei due riusciva a sorridere per davvero.
Camminarono in silenzio per un po', poi il vicolo che avevano imboccato sfociò nella piccola piazza che faceva da sagrato alla cattedrale.
San Pietro era quasi buffa a vedersi da fuori, il campanile verdastro che svettava nel cielo senza c'entrare assolutamente nulla col resto (o almeno così era sempre sembraro a loro due) dell'architettura della chiesa.
Reim le tenne aperta la pesante porta in legno scuro mentre entrambi sgattaiolavano all'interno, poi la seguì verso una panca vuota nelle ultime file.
Faceva troppo freddo per pensare di salire fino al belvedere e i due si limitarono per un tacito accordo a restare seduti l'uno accanto all'altra nella penombra della cattedrale, mentre i loro occhi si abituavano con lentezza all'assenza della luce accecante della mattinata e le parole cantilenanti della liturgia lavavano via le loro paure come un tempo la Marna lavava via le macchie dal grembiule di Sharon.
Fu lei a notarlo per prima.
Teneva gli occhi socchiusi e il capo abbandonato contro la spalla dell'amico, ma era ancora abbastanza vigile da accorgersi che qualcun altro era appena entrato.
Lo sconosciuto si fermò incerto dopo aver fatto pochi passi lungo il corridoio e la donna assunse un'espressione nostalgica: dalla sua posizione riusciva a vedergli solo le scarpe e parte delle gambe, eppure era pronta a scommettere che il nuovo arrivato avesse avuto in volto lo stesso sconcerto che aveva provato lei due anni prima nell'entrare a San Pietro per la prima volta.
Uno sconcerto immerso in un'atmosfera talmente quieta da sembrare fuori dal tempo, fuori dall'universo intero.
Per quanto potesse sembrare strano, un sentimento simile era capace di far venire le lacrime agli occhi a chiunque fosse vissuto al fronte e il modo in cui il visitatore dalle scarpe eleganti sembrava ancora esitare le lasciava intuire che anche lui doveva essere reduce da un passato simile al suo.
Dovette passare un altro minuto abbondante prima che gli occhi di Sharon cogliessero finalmente un movimento delle gambe dell'uomo, dirette a passi timorosi verso la stella ala della cattedrale dove si trovavano loro.
Le seguì per pura curiosità, finché il loro percorso non si arrestò bruscamente proprio accanto alla panca sulla quale era seduta lei.
Le punte delle scarpe erano rivolte verso di lei, quindi stava probabilmente guardando nella sua direzione.
Si sollevò con uno sbuffo dalla spalla di Reim, che si voltò incuriosito, poi alzò lo sguardo verso l'alto e incontrò il viso che aveva cercato di cancellare dai propri ricordi per i precedenti due anni.
"...Fräulein?"
I capelli innaturalmente chiari brillavano nell'atmosfera immobile della cattedrale, un ciuffo più lungo degli altri lasciava intravedere una frastagliata cicatrice sull'occhio sinistro, quello destro era rosso e fisso su di lei.
Non avrebbe saputo dire per quanto sarebbe stata capace di fissarlo, incapace di dire una parola o formulare un pensiero coerente, ma svenne ancor prima di porsi la domanda.









Yu's corner.
Buenas dias, bella gente!
Eccoci qui col sesto capitolo e, diamine, che cambio di atmosfera che c'è stato.
Non ve l'aspettavate, eh? Eeeeeh?
Okay, la smetto di fare la simpatica.
Ad ogni modo, sono passati due anni dagli avvenimenti dei capitoli precedenti e al momento ci troviamo nel 1920.
Nel caso ve lo stiate chiedendo, sì, sono stata a Ginevra qualche anno fa e l'ho adorata nel modo più assoluto.
E ora è tempo di un annuncio importante... Il prossimo sarà al 99% l'ultimo della serie (lo so, sono negata a scrivere cose lunghe), ma non so quando sarò in grado di postarlo.
Ho gli esami di maturità che iniziano tra due settimane e tantissime cose da studiare/preparare/aiutononloso, quindi è probabile che dovrete aspettare un bel più del solito per conoscere la fine di questa storia.
Ma non temete, non vi lascerò col fiato sospeso per sempre!
Detto questo, mi auguro che questo capitolo vi sia piaciuto e vi mando tutto il mio affetto e amore.
Bye bye,
Yu.

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Capitolo 7
*** Della luce ***


Si svegliò di soprassalto, le labbra spalancate nel grido che aveva represso per tutti gli anni passati al fronte.
Qualcuno le stava tenendo una mano sulla spalla per impedirle di fare movimenti bruschi, ma Sharon sentiva ugualmente il cuore dibattersi come un'uccellino in gabbia.
L'ultima cosa che ricordava era di aver visto il suo volto, il volto che l'aveva tenuta sveglia per mesi.
E che ora la stava fissando con aria preoccupata da una debita distanza, impacciatamente seduto sul bordo del divano di quello che la donna riconobbe come il suo salotto.
"Come ti senti?"
La voce di Reim, decisa e rassicurante come ogni volta che si rivolgeva a un paziente, completamente priva di qualsiasi nota di panico, la riscosse del tutto dal torpore dello svenimento e Sharon voltò con lentezza la testa verso di lui.
"Ho conosciuto tempi migliori..." biascicò dopo un istante, per poi scostare la sua mano dalla spalla con l'intenzione di mettersi a sedere.
Riuscì a puntellarsi sui gomiti senza che nessuno provasse a fermarla e appoggiò la schiena contro la poltrona preferita dal suo coinquilino, lo sguardo fisso sull'unico occhio di Xerxes.
"È bello rivederti, fräulein," azzardò il tedesco stirando le labbra in un sorrisetto che di allegro non aveva nulla.
"Xerxes Break," soffiò lei in risposta, senza prestare attenzione a quanto ascoltare di nuovo l'accento tedesco dell'altro le annodasse lo stomaco. "Tu mi devi delle spiegazioni."
Il sorrisetto di Break si affievolì sino a scomparire in una linea esangue.
"Kevin, prego," la corresse con un filo di voce. "Kevin Regnard, soldato del quarantatreesimo reggimento di fanteria dell'esercito tedesco."
Il cervello di Sharon impiegò una manciata di secondi a elaborare quell'accozzaglia di dati mormorati in tono colpevole e ricollegarli a tutti i suoi inutili tentativi di ottenere informazioni su qualcuno che non era mai esistito.
O almeno, mai al di fuori di un ospedale da campo vicino alla Marna nel quale lei aveva perso la giovinezza.
Aprì la bocca per dire qualcosa, anche un semplice insulto, ma i ricordi di quei giorni le avevano seccato la gola, che bruciava nei punti in cui si era lasciata aggredire dalle labbra di Vincent.
Tutto per salvare la vita di un uomo di cui non conosceva neanche il nome.
Un uomo che la chiamava fräulein strascicando le erre, un uomo che lei aveva raccolto da una pozza di sangue.
Reim si schiarì la voce e Sharon avvertì il suo sguardo preoccupato vagare da un capo all'altro della stanza, sino a fermarsi sul tedesco.
"Ero spaventato!" sbottò lui, l'iride rossastra improvvisamente segnata dallo stesso smarrimento di chiunque fosse tornato vivo dalla guerra.
La lunga cicatrice che lei stessa aveva cucito sussultò sotto un disordinato ciuffo di capelli ancora più chiari di quanto ricordasse, quegli stessi capelli che lui le aveva chiesto di tagliare anni prima.
Quegli stessi capelli tra i quali aveva lasciato scorrere le dita come nell'acqua della Marna, convinta di potersi rifugiare lontano dai colpi di artiglieria pesante che straziavano l'aria e l'anima.
"Sei sempre così spettinato," mormorò con lo sguardo altrove, lontano migliaia di chilometri, perso tra illusioni ormai andate in frantumi.
Accanto a lei Reim si schiarì la gola, visibilmente a disagio.
"Quindi ci hai dato un nome falso perché non ti fidavi di noi," commentò dopo un colpo di tosse. "Ho capito bene?"
Il tedesco si limitò ad annuire, le dita strette attorno alla stoffa del divano come se fosse stato sull'orlo di precipitare in un baratro che solo lui riusciva a vedere e che Sharon avrebbe solo potuto intuire.
Del resto neanche lui avrebbe mai potuto perdersi nell'abisso dei ricordi della donna, neanche se fosse stata lei stessa a guidarlo; potevano solo trattenersi a vicenda dal fare un altro passo.
La stanza restò immersa nel silenzio per qualche attimo ancora, poi il medico si alzò e si avviò verso la porta di casa a passi lenti, voltandosi verso Kevin prima di uscire.
"Lei ti ha salvato la vita, straniero," sentenziò gelido. "Io potrei non essere altrettanto clemente."
I due uomini si scambiarono uno sguardo eloquente, dopodiché Reim si decise a lasciarli soli.
"Fräulein Rainsworth," azzardò il tedesco "ho provato a dirtelo il giorno dell'evaquazione."
Improvvisamente le tornarono in mente il cortile dell'ospedale, assediato dalle ambulanze e dagli spari, e le labbra del soldato che si muovevano senza che lei riuscisse a carpire alcun suono.
"Vuoi che me ne vada?" lo sentì chiedere con un filo di voce.
Voleva che se andasse?
Una parte di lei l'avrebbe cacciato a calci via dalla città, via dalla Svizzera, in qualche posto dove non potesse più riaprire le ferite che si era sforzata di dimenticare, ma allo stesso tempo l'idea di perderlo di nuovo la terrorizzava.
Ora che lui era lì, al riparo dai loro orrori quotidiani.
"Sharon, prego," lo scimmiottò con un sorriso raddolcito, per poi alzarsi (era normale che la testa le girasse così tanto?) e percorrere a piccoli passi la distanza che li separava.
"Voglio chiamarti col tuo vero nome e voglio che tu faccia lo stesso."
Lo disse tutto d'un fiato, riuscendo chissà come a sostenere il suo sguardo senza lasciar tremare la voce, osservando immobile le braccia dell'altro protendersi verso di lei e attirarla verso il basso, contro il petto di un uomo scosso da tremiti che sembravano singhiozzi.
Le mani di Kevin erano esili, eppure la stringevano sino a farle mancare il fiato, mentre la sua bocca biascicava senza riuscire a fermarsi il nome di colei che l'aveva salvato.
Reim avrebbe raccontato più volte di essere tornato a casa a notte fonda e di averli trovati addormentati in quella posizione, raggomitolati l'uno nell'abbraccio dell'altra.


"Emily Regnard, scendi subito da lì!"
Un microbo di cinque anni appena compiuti corredato di sorriso macchiato di marmellata al lampone si affrettò a saltar giù dalla sedia che stava usando per arrivare alla credenza, per poi correre verso il padre, sicura che lui non l'avrebbe mai sgridata.
Le bastava uno sguardo, lo sguardo di sua madre nel rosso degli occhi del padre, per farlo sciogliere come neve al sole.
"E non nasconderti dietro di lui!"
Con sua madre era diverso, ovviamente.
La bambina si pulì in fretta e furia la marmellata dal viso col dorso della mano, per poi fare qualche passo incerto verso la donna.
"Scusa..." farfugliò in un bisbiglio che di contrito aveva solo l'apparenza.
Sharon si portò le mani sui fianchi con un sospiro, le labbra piegate nella smorfia rassegnata che Emily riusciva sempre a strapparle, in un modo o nell'altro.
La bambina sapeva di aver vinto ogni volta che le vedeva quell'espressione e si precipitò di corsa verso di lei, venendo presa in braccio al volo.
"Piccola peste," ridacchiò sua madre mentre le mordicchiava scherzosamente una guancia.
"Ma guardatele," commentò Kevin, per poi avvicinarsi alle due con l'andatura titubante ed estatica al tempo stesso che caratterizzava ogni suo atteggiamento nei confronti della figlia. "Mamma gatta e la sua prole."
Emily emise un miagolio in falsetto e Sharon si concesse un istante per sbilanciarsi sulle punte dei piedi e rubare un bacio frettoloso al marito.
I due si scambiarono un sorriso al di sopra della chioma bionda della bambina, bionda come quella di una Rainsworth ma perennemente arruffata come quella del padre.
L'unica cosa che non le avevano trasmesso era l'incubo ricorrente che li teneva svegli nelle notti più buie e li faceva sobbalzare a ogni rumore improvviso.
E andava bene così.
La piccola cresceva nel multietnico abbraccio di Ginevra e andava bene così.
Sharon aveva dovuto aspettare anni prima di riuscire a lasciarsi alle spalle il ricordo delle mani di Vincent e permettere a Kevin di toccarla, stringerla a sé sotto le lenzuola, solleticarle le orecchie col fiato affannato che l'aveva cullata nei tempi della guerra, ma anche quello andava bene così.
Alla fine avevano avuto Emily, coi suoi occhioni carichi della luce che credevano di aver perso.
Era talmente luminosa, totalizzante e inaspettata che entrambi avevano finito per alzare lo sguardo dai loro abissi personali, guidati da una risata mille volte più fragorosa dei colpi delle mitragliatrici.
Le guance della bambina sapevano di marmellata al lampone e le mattine sapevano di vita.
















Yu's corner.
Ommioddio, sono viva!
Sono sopravvissuta alla maturità!
E sono anche riuscita a scrivere l'ultimo capitolo di questa storia!
Okay, con calma.
Aaaaaaahjsfdgaldgl non riesco a crederci, ho davvero concluso tutto--
Direi che è d'obbligo un ringraziamento stratosferico a tutti gli adorabili lettori che mi hanno seguita in Daylight e che hanno saputo dimostrarmi un affetto e un coinvolgimento commoventi.
Vi voglio tanto bene, sappiatelo.
Questo capitolo è dedicato a voi, con la speranza che sia risultato all'altezza dei precedenti nonostante sia così corto.
Bene, ora direi che posso anche rintanarmi da qualche parte, tipo dall'altra parte del mondo magari.
Ancora un grazie grande quanto la pazienza di Reim a tutti voi, miei cari!
Bye bye,
Yu.

PS: Se tra di voi c'è qualcuno che segue Shingeki no Kyojin, sappiate che è in cantiere qualcosa. Sshhhh.

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