Il Gioco in Gabbia

di AlBer
(/viewuser.php?uid=426788)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


PROLOGO


Accadde quasi per caso. In una piccola boutique nel centro di Colmòn. Era un pomeriggio di fine inverno ed era uno di quei giorni che scivolano silenziosi e anonimi come una goccia di pioggia sul vetro di una grande finestra.
Adrianne Valk sorseggiava un tè che la signora Ginevra, la proprietaria del negozio, le aveva gentilmente offerto. Era nel salottino che accoglieva gli avventori di riguardo. La clientela più facoltosa per intenderci.
Mentre la tazzina perdeva il vigore con cui emanava gli effluvi nell’aria, Mrs Valk scambiava convenevoli con la contessa Meredith Von Liebenstein, tanto degni di essere ricordati quanto quell’inutile giornata. Di tanto in tanto alzava lo sguardo e con estrema discrezione si soffermava ad analizzare l’immagine che gli specchi le restituivano. Quelle fulminee visioni la rendevano compiaciuta.
Cinquant’anni portati con un’incredibile eleganza, addirittura arrogante. Sì. Decisamente.
E il pensiero parve renderla più soddisfatta di quanto già non fosse.
«Allora Meredith!? Come mi sta questo tailleur?» chiese alla contessa, lisciandosi i fianchi e constatando nello specchio che le sue antiche forme erano ancora piuttosto efficaci.
«Ti sta nero! Come tutti gli altri tailleur che hai…» rispose fredda la contessa «…e quindi divinamente bene!»
«Cos’è Meredith!? Non ti piace il nero? Mi sembra che in certe circostanze il nero non ti dispiaccia affatto…» L’osservazione cadde come la lama di una ghigliottina durante la prova di un’esecuzione: tagliente, ma innocua.
«Adrianne…smettila!» la rimproverò con un fil di voce «Piuttosto, perché non pensi a rinnovare un po’ il look? Magari con un nuovo taglio di capelli… un’acconciatura sbarazzina… corti e biondo platino… chessò persino rossi.»
Mrs Valk soffermò lo sguardo sui suoi capelli biondo cenere che cadevano sulle spalle con un preciso ordine casuale. Facevano molto strega. Strega di gran classe ovviamente. Considerò che il taglio e il colore ben si addicevano al trucco applicato al viso, che la rendeva austera ed energica pur se incapace di celare completamente i solchi che l’età le stava disegnando sul viso. Forte di quell’immagine che coincideva con la massima percezione di sé, rispose all’amica: «No.»
«D’accordo Adrianne! Non insisto, prendilo come un suggerimento, ma se cambi idea fammelo sapere. So io chi potrebbe far miracoli per quella tua testaccia… Quando si arriva alla nostra età bisogna escogitare di tutto, allora la creatività e il buon senso diventano armi in più…»
«Meredith, tu dimentichi che io non sono solo una donna, io sono un’istituzione e le istituzioni è bene diano quel senso di assoluta fermezza … e poi è difficile migliorare la perfezione non trovi!?» sogghignò «Sono come la luna, Meredith, antica, affascinante e immutabile… e quindi per me va bene così! »
La risposta ebbe l’effetto desiderato. La contessa bofonchiò qualcosa mentre continuava a scartare un cappello dopo l’altro.
Fu proprio in quel preciso istante che si innescò una miccia destinata a scatenare un’esplosione dalle conseguenze inimmaginabili.
Mentre la montagna di copricapi impilati aveva oramai occupato gran parte del tavolino del salotto, Il campanello della porta d’ingresso suonò, facendo entrare nel negozio una ragazza e un’inattesa ventata di primavera.
La signora Ginevra, proprietaria della boutique, la accolse con la consueta affabilità.
«Buongiorno Penelope! In cosa posso aiutarti?»
Poi seguì uno scambio fitto di convenevoli, la richiesta di un paio di guanti, l’esposizione di alcuni modelli, insomma un garbatissimo mercanteggiamento.
E mentre quella scena si consumava sul bancone centrale del negozio,  Adrianne Valk non aveva occhi che per quella ragazza. Rimase immobile con la bocca socchiusa e lo sguardo perso in ogni movimento di quella creatura. La contessa Von Liebenstein se ne accorse immediatamente e strattonò il braccio di Mrs Valk, come a volerla far ritornare da un’altra dimensione.
«Adrianne! Se non ti conoscessi bene penserei ad un colpo di fulmine…»
«E non ti sei affatto sbagliata, amica mia. Proprio un colpo di fulmine!» sibilò senza perdere mai di vista la ragazza.
La trattativa andò a buon fine. I guanti furono venduti. La ragazza si approssimò ad uscire e mentre il campanello tornò a suonare i suoi occhi incrociarono quelli di Mrs Adrianne Valk. Durò un lungo istante, poi la ragazza abbozzò un sorriso, ricambiato da quello glaciale di una splendida signora cinquantenne.
Aveva portato con sé un alito di primavera ed era uscita dalla boutique accompagnata da un gelido soffio di inverno che le procurò un brivido sulla schiena.
«Signora Ginevra, può venire qui un attimo?»
La proprietaria raggiunse immediatamente Mrs Valk nel salottino.
«Ginevra, chi era quella ragazza? E’ di qui? Di Colmòn?»
«Mrs Valk! Proprio lei mi fa questa domanda? dovrebbe conoscerla piuttosto bene…» rispose la commerciante mentre gli occhi di Adrianne Valk non riuscivano a celare l’impazienza di una risposta veloce e chiara.
«E’ Penelope Whitman. La figlia di Edoardo Whitman. Il bibliotecario dello Chateau…»
«Vuoi dire che quel pezzo di ragazza è la figlia di quel topolino?» Chiese stupita la contessa Von Liebenstein.
«Sì. Certamente! E da ben ventiquattro anni… Per averla cresciuta da solo è venuta su proprio una gran brava ragazza! E poi sì. E’ anche molto bella.»
«Adrianne! Sei da sette anni la direttrice del carcere Chateau Colmòn e non conosci i figli dei tuoi sottoposti?» commentò la contessa concedendosi una risata molto poco nobile.
Ginevra tornò a sistemare i guanti nel campionario. Mrs Valk non sentì le insulse domande che l’amica le rivolgeva e la sua mente era già impegnata a pianificare chissà cosa.
«Adrianne! Ci sei? Conosco quella faccia. Cosa diavolo stai architettando?»
La direttrice del carcere Chateau Colmòn si scosse.
Il piano era già in gran parte delineato. Mancavano solo piccoli dettagli.
«Niente Meredith! Solo strategie per migliorare i miei affari…»

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1 ***


1

Due mesi dopo

 
Cosa avrebbe fatto tra meno di una settimana Edoardo Whitman? Come avrebbe impiegato tutto quel tempo precipitatogli addosso come una nevicata in piena estate? A quale occupazioni si sarebbe dedicato nella sua prima giornata libera dopo quarant’anni di servizio?  E il giorno successivo? E quello ancora dopo?
Non riusciva ancora a capacitarsi che sarebbe toccato proprio a lui. Andare in pensione.
Aver sessantaquattro anni non vuol dire per forza di cose sentirseli proprio tutti. Edoardo però li sentiva, e ne portava clandestini sulle spalle almeno una decina in più.
Era colpa dell’ansia. Se la trascinava dietro sin da quando era bambino e aggiungeva un’eccedenza di vecchiaia alla catasta degli anni già accumulati.
E’ sempre così con l’ansia: a forza di arrivare in anticipo a tutti gli appuntamenti della vita, quei minuti, invece di vederseli meritatamente scalati, si sommano e diventano a tutti gli effetti come tempo trascorso in più.
Gli anni di lavoro, almeno quelli, erano giusti, ma non ci sarebbe andato lo stesso in pensione se non fosse stato per lei. Per sua figlia Penny.
L’uomo trascinava il suo corpo minuscolo per corridoi infiniti. Chiuso in un consunto trench scuro, dello stesso colore con cui si tingeva capelli e baffi, scendeva la rampa delle scale del padiglione “D” ricordando con malinconia il suo primo giorno di lavoro.
Il primo giorno nella biblioteca del carcere Chateau Colmòn era una fotografia nitida, per niente sbiadita dal tempo. Aveva ventiquattro anni, proprio come la sua Penny, il vestito della domenica e la prospettiva non molto invitante di passare gran parte della propria vita in una gabbia per criminali.
A quella gabbia ci mise davvero poco ad affezionarsi. Perché ci si affezionò, eccome se lo fece!
Sin dai primi giorni aveva capito che non sarebbe più andato via da lì, come quei pericolosi assassini che là dentro ci scontano l’ergastolo.
La meravigliosa scoperta, però, fu quella di sorprendersi nel constatare quanto era stimolante discutere di libri con i delinquenti.
Si scoprì a riflettere sul fatto che molti di questi non li avrebbe mai immaginati tali se li avesse incontrati in un bar della città.
Non avrebbe mai sospettato che, per un amante delle letteratura come lui, quello era il posto ideale. Il luogo dove poter vivere appieno quella che riteneva essere la sua missione: aiutare il mondo a essere migliore grazie alle parole scritte in un libro.
C’era un altro punto che lo lasciò sbalordito, ed era quello che ben presto ritenne molte delle persone chiuse lì dentro di gran lunga migliori della maggior parte di quelle si possono incontrare nella società definita normale.
Edoardo Whitman era ormai convinto che i criminali fossero quelli fuori. Quelli rinchiusi nello Chateau Colmòn, invece, erano dei rifugiati sociali, vittime di una società ipocrita e meschina e quella sì, che gli creava gravi sensazioni di disagio.
E pensare che, quando aveva iniziato quel lavoro, sperava proprio che si trattasse di un’esperienza temporanea. Aveva altre ambizioni il giovane Edoardo: professore di letteratura, scrittore, responsabile della Biblioteca Nazionale…
Non fu così. Dopo appena una settimana era già assorto nell’opera immane di riorganizzare l’intero archivio dei libri del carcere. Dopo qualche mese passava i fine settimana a cercarne di nuovi nelle vecchie soffitte dei quartieri di tutta la città.
Ora che attraversava la silenziosa sala mensa immersa in una rassicurante semioscurità, iniziò a realizzare seriamente che avrebbe dovuto rinunciare a quel posto. Andarci ogni mattina per aprire la sua biblioteca, per poi chiuderla regolarmente alle ore 17 in punto, proprio come aveva fatto pochi istanti prima, quando decise che era giunto il momento di avviarsi verso lo studio del responsabile dell’ufficio amministrazione.
L'incedere strascinante era peggiorato dall’azione della nostalgia che a ogni passo si faceva più forte, costringendolo coi suoi subdoli tentacoli.
Nonostante quella stretta agrodolce continuava imperterrito a inanellare un passo dopo l’altro nella lunga e ampia galleria di passaggio che costeggiava il cortile interno del carcere.
La luce di un tardo pomeriggio di inizio estate filtrava dalle grandi vetrate e illuminava con un tenue chiarore i dipinti e le sculture che scorrevano dietro al profilo del vecchio bibliotecario.
I corridoi da percorrere per raggiungere lo studio del direttore erano molti e conoscendo il valore che il dottor Milàn Fodor dava alla capacità di essere puntuali, Edoardo Whitman fece qualcosa che nei suoi quarant’anni di servizio si verificò rarissime volte.
Quel giorno chiuse la biblioteca con cinque minuti di anticipo.
La certezza di trovarsi alle 17:10 di fronte alla scrivania del dottor Fodor, presupponeva una chiusura anticipata di cinque minuti.
Un evento simile accadde per la prima volta circa ventiquattro anni prima, quando per la nascita della sua unica figlia, Penelope, avvenuta alle ore 12:48, l’uomo chiuse la biblioteca alle 14:39 impossibilitato a prolungare oltremodo quell’ansiosa attesa che lo divorava. In quelle quasi due ore, consumò le suole delle scarpe con l’incessante andirivieni dei suoi passi che serpeggiavano lungo i corridoi disegnati dalle librerie.
In quell’occasione Edoardo Whitman lasciò un cartello sulla porta della biblioteca. Riportava il seguente messaggio:
Amici, sono desolato di non poter rimanere aperto fino all’orario stabilito, ma la mia Penelope è arrivata e non riesco ad aspettar oltre. Perdonatemi. Domani alle 8 come sempre sarò aperto.
E così fu.
Accadde ancora, per l’esattezza otto anni prima, che Edoardo si ammalò di una brutta influenza. Più brutta delle solite, perché questa riuscì nell’intento in cui avevano fallito tutte le altre: quello di costringerlo a letto. Quella volta la biblioteca non aprì proprio, ma fu per un solo giorno, perché la mattina successiva, Edoardo, alle 8 puntuale come sempre, girò la chiave nel grande portone che dava accesso alla biblioteca.
Quando un sabato morì Gretha, sua moglie, Penelope aveva appena undici anni. I funerali furono celebrati il giorno dopo: domenica, e Il lunedì alle 8 la biblioteca aprì.
Per un uomo solo crescere una bambina di undici anni non fu affatto facile, soprattutto per una persona tanto ligia al dovere professionale. Per fortuna ci pensarono le vicine ad aiutarlo. Bastarono quei due anni che Penelope si fece sufficientemente matura. Infatti un giorno, aveva tredici anni e all’improvviso, iniziò lei a accudire il padre.
Mentre percorreva la passatoia che lo immetteva nel padiglione “C” gli venne in mente il giorno che gli fu chiesto di scegliere un nome per la biblioteca. Un onore fin troppo grande per uno che in fondo lavorava lì da soli dieci anni nel carcere. Fece un elenco di più di cento possibili nomi e ci mise un mese per decidere. Un mese in cui il sonno fu divorato dall’insopportabile angoscia di dover scartare tutti gli altri nomi. Era devastante il pensiero di escluderli da una sua inevitabile scelta definitiva.
Alla fine la biblioteca fu intitolata ad Alexandre Dumas. Inutile dire che i dirigenti del carcere ebbero a che ridire su quel nome, per alcuni non proprio adeguato per via del fuggiasco Conte di Montecristo, ma tant’è: la biblioteca si chiama ancora così.
Nel frattempo Edoardo arrivò alla porta del dottor Fodor. Una porta di legno lucido lavorata con disegni geometrici in rilievo. Erano le 17:09 e la sua mano alzata aspettava sospesa il trascorrere di quel minuto prima di poter bussare.
E il pensiero volò ancora lì... Non ci sarebbe voluto andare in pensione, perché quella era casa sua. Si faceva una violenza inaudita e si imponeva una decisione che mai avrebbe voluto prendere.
Gli piaceva quel posto, ci aveva passato la vita in quel carcere e non lo avrebbe mai voluto abbandonare. Forse si era addirittura immaginato di morirci tra i libri della sua biblioteca. Gli sarebbe bastato morire su una panchina del cortile interno, magari mentre leggeva un romanzo storico, durante la pausa di mezza giornata, volesse il cielo in una piacevole giornata di inizio estate.
Ma ancora un mese e quelle mura le avrebbe potute rivedere solo in saltuarie visite.
Cosa avrebbe fatto Edoardo Whitman del resto della sua vita?
Ore 17:10. La mano di Edoardo colpì per tre volte la porta, proprio sotto la targhetta che avvertiva di chi sarebbe stata la voce che avrebbe risposto, la stessa targhetta che recitava:
RESPONSABILE UFFICIO AMMINISTRAZIONE.
 

***

«Avanti» disse il dottor Milàn Fodor, mentre il vecchio bibliotecario bisbigliava flebili convenevoli con un fil di voce.
«Avanti, signor Edorardo! Venga, venga. Si accomodi pure… Mi dia ancora qualche secondo e poi sarò da lei»
Edoardo si fece ancor più piccolo, più esile, più curvo di quel che già era. Si avvicinò alla magnifica scrivania del direttore sedendosi sulla sedia più scialba tra le tre presenti. Si rattrappì in quella posizione: con le braccia arricciate e poggiate sull’addome. Nel silenzio più fragoroso, riuscì a rilassare un pochino i muscoli tesi solo alla vista dei libri che facevano bella mostra dietro alle spalle del direttore.
Non riusciva a leggerne i titoli e non avrebbe mai inforcato gli occhiali proprio in quel momento. Ma a lui bastava la loro presenza. Non contavano i contenuti. l’importante era confidare sulla presenza dei suoi alleati di sempre.
Il direttore era apparentemente assorto in questioni di estrema importanza sul suo personal computer.
Poi, con ogni probabilità, chiuse la chat e si decise a posare gli occhi su Edoardo.
«Eccolo qui il nostro monumento vivente. Eccola qui la storia di questo carcere…» Un sorriso smagliante accompagnò quelle parole adulanti.
«Allora, finalmente ci siamo decisi. Ci andiamo a godere un meritato riposo.»
«Sembrerebbe proprio di sì, dottor Fodor»
«Bravo, bravo, bravo signor Whitman, se lo lasci dire. Bravo!»
«Grazie, dottore»
Mentre tirava fuori montagne di fogli che disponeva davanti al vecchio bibliotecario, Milan Fodor infieriva sull’ometto rannicchiato che gli stava di fronte.«E cosa farà, cosa farà? Ancora non ha nemmeno un nipotino… cosa farà? Si è trovato un hobby? »
«Non ci ho ancora pensato…»
«Eh ma è importante, ci pensi. Il cervello deve restare attivo, soprattutto alla sua età… ci pensi… ci pensi…»
Edoardo ci pensò. Gli vennero in mente quelle parole: “soprattutto alla sua età”. Ma che significa? Anche il dottor Fodor aveva passato i sessant’anni. Forse voleva dire alla nostra età!?
Ma il pensiero era stato già sommerso dalle parole del dottor Fodor.
«E mi raccomando, ci venga a trovare» poi iniziò a indicare sui fogli dove doveva firmare «Ecco firmi qui e poi qui e poi ancora qui…»
«A trovarvi? Senz’altro. Verrò senz’altro»
«Poi firmi qui, poi qui e ancora qui»
«Si»
Terminate le ultime pratiche burocratiche il dottor Fodor chiuse il fascicolo Whitman. Poggiò le braccia conserte sulla cartella e fissò dritto negli occhi il vecchio bibliotecario.
«Signor Whitman…»
«Si dottore.»
«Questa la dia a sua figlia Penelope.» gli porse una busta da lettera chiusa con il timbro del carcere Chateau Colmòn.
«Signor Whitman…»
«Si dottore.»
«E’ stato un vero onore averla con noi. Le faccio i miei migliori auguri per tutto quanto verrà…»
Calò il silenzio. Edoardo non si mosse. Il dottor Fodor continuava a fissarlo fin quando lentamente il bibliotecario si alzò.
«Dottor Fodor?»
«Dica pure signor Whitman»
«Mi scusi. Sono un po’ confuso. Quale sarà il mio ultimo giorno lavorativo di preciso…»
«Venerdì. Ancora quattro giorni e potrà godersi il meritato riposo…. Beato lei! »
Beato lei pensò Edoardo Whitman.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2 ***


2
 

Un mese prima
 

Mancava un’ora alla chiusura della biblioteca. Edoardo Whitman era arrampicato sulla scaletta nella corsia numero 12. Narrativa straniera.
Moby Dicktornava al suo posto tuffandosi nel bel mezzo di un oceano di carta stampata. Il ritorno di un libro era un rituale tutto particolare per il vecchio bibliotecario. Quando le sue mani nodose rientravano in contatto con un romanzo, un saggio, una raccolta di racconti che erano da giorni nella mani di qualche detenuto, avvertiva un fremito tutto particolare. Ogni volta era l’emozione di accogliere un apostolo di ritorno da un’opera di evangelizzazione.
Si accertava che le condizioni fossero buone, ma allo stesso tempo cercava in maniera minuziosa qualche dettaglio che gli desse la conferma che il libro fosse stato letto. Il più delle volte però, gli bastava posare lo sguardo sugli occhi del detenuto per capire immediatamente se il testo aveva fatto il proprio dovere o no. In quei casi nasceva spontanea una discussione. In quelle chiacchierate il vecchio Whitman tentava di cementare i contenuti del libro nella mente e nel cuore del delinquente di turno. Come è stato? Oppure Che mi dici di quel personaggio?  O ancora Ma tu che avresti fatto al posto del protagonista?
Insomma: l’operazione di riconsegna poteva durare anche più di un’ora. Ad ogni modo si completava sempre con gli stessi gesti. Accarezzava amorevolmente la copertina e chissà quali preghiere di ringraziamento recitava mentre lo riportava nello scaffale da cui era partito.
 
«Whitman? Signor Whitman!?» Una voce femminile lo stava chiamando.
«Sono qui! Arrivo… Sto arrivando.» miagolò il bibliotecario, mentre si domandava chi potesse cercarlo a quell’ora.
Con grande stupore si accorse che dall’altra parte del bancone era venuta a farle visita la direttrice del carcere in persona.
«Buonasera Mrs Valk… quale sorpresa!?» sussurrò con evidente imbarazzo.
«Buonasera Whitman!»
Calò il silenzio. Al rumore dei pensieri del vecchio bibliotecario si sovrappose quello dei tacchi della direttrice che riecheggiavano tra i corridoi delle librerie. Mrs Adrianne Valk, volto accigliato e sguardo analitico, ispezionava la biblioteca. Edoardo Whitman considerò che quella era la prima volta che la direttrice metteva piede nella biblioteca da quando dirigeva il carcere. La seguì ossequiosamente senza proferire parola. Dopo un interminabile lasso di tempo il dialogo riprese.
«Bene Whitman! Complimenti. Vedo che qui ha costruito il suo piccolo impero.»
«Grazie Mrs Valk. Quando iniziai quarant’anni fa c’erano solo tre filari. Oggi sono trentadue.»
«Filari?» chiese interdetta la direttrice.
«Sì, Mrs Valk, filari. Chiamo “filari” i corridoi di questa biblioteca»
La direttrice restò impassibile senza fare ulteriori domande.
«E’ il mio vigneto sa? I libri sono come l’uva. Bisogna saperli coltivare, farli crescere» una scintilla prese vita nelle sue pupille «E’ necessario prendersene cura, proteggerli dal tempo… e poi c’è il momento della vendemmia. Bisogna saper quando coglierli e a chi darli… Non è semplice!»
La direttrice ascoltava le parole del signor Whitman mentre procedeva tra le pareti di carta stampata.
«Interessante!» disse, ma il tono sosteneva il contrario
«E anche quando avrai fatto del tuo meglio, non è detto che il vino venga buono. Bisogna stare att..»
«Ho capito perfettamente la metafora, signor Whitman. » lo interruppe Mrs Valk. «Grazie»
Ripiombò il silenzio.
«Signor Whitman» riprese la direttrice questa volta fissandolo negli occhi «lei è qui da più tempo di tutti. Non ha mai creato un problema. Ha fatto crescere questa biblioteca. Dirò di più: è il miglior bibliotecario che questo carcere potesse mai sognare… è giunto il momento di premiarla, Signor Whitman.»
Edoardo si lasciò andare ad un timido sorriso.
«Grazie, Mrs Valk» e chinò leggermente il capo.
«E’ giunto il momento che lei si goda il suo tempo. La sua vita. Le offro la possibilità di andare in pensione.»
La proposta arrivò glaciale, polverizzando qualsiasi aspettativa avesse immaginato il bibliotecario.
«Mrs Valk, ma io mi trovo bene qui… posso ancora svolgere questo lavoro in maniera efficiente… e quanto al tempo, non immagino modo migliore di impiegarlo che questo…»
«Signor Whitman, so benissimo che lei è un’istituzione. So benissimo che questa per lei è come una casa, ma purtroppo non ci si accorge di quanto necessitiamo di altro fino a quando questo “altro” non si prova… Così ecco le ribadisco: ho deciso di offrirle la possibilità di andare in pensione, ma vorrei che tutti ne avessimo un congruo guadagno.»
Edoardo Whitman si sentì mancar l’aria.
«Ma io non voglio andare in pensione. Sono ancora utile qui…»
«Whitman! Ho già deciso. Lei andrà in pensione. Suvvia… Si goda la vita e almeno lo faccia per sua figlia.»
«Cosa centra Penny?» e il volto si indurì.
«Le avevo detto che era giunto il momento di premiarla no?» riprese la direttrice in maniera accomodante «Sua figlia è giovane, che tipo di studi ha fatto?»
«E’ laureata. In letteratura…»
«Bene! Passione ereditata dal padre a quanto pare… e che lavoro fa?»
«Nessuno. Non ha ancora…» la frase rimase appesa lì, perché il vecchio bibliotecario capì in quel momento cosa le stava proponendo la direttrice…
«Ma questo posto non fa per lei! E’ un carcere. Lei è una ragazza… giovane…»
«E’ un buon posto, signor Whitman! Uno stipendio sicuro e la possibilità di fare esperienza. Non è poco di questi tempi. Quanto al fatto che sia una ragazza…»
«Ma ha ventiquattro anni!»
«Appunto. E’ una donna! Cosa crede? Che una donna non possa gestire un impiego in un carcere? Sono la direttrice, signor Whitman, e sono una donna…»
«Mrs Valk! Lei è… Penny è… così bella…»
«Le cose belle non sono mai un ostacolo…»
«Non accetterà! E anche io non posso accettare la…»
«Signor Whitman!» e il tono della voce diventò perentorio «Sono venuta qui per farle una proposta allettante. Vedo che lei non ha alcun senso della gratitudine. Glielo dirò in un altro modo: Vada in pensione e lasci che sua figlia prenda il suo posto. Se non accetta sarò costretta a licenziarla oggi stesso.»
«Ma non può farlo…»
«Vuole mettermi alla prova?» era una minaccia.
Edoardo Whitman sospirò.
«Andiamo signor Whitman. E’ un’ottima proposta. Io ridurrò le spese per il personale, lei si godrà il suo meritato riposo e sua figlia avrà un posto di lavoro…»
«Valuterò la sua proposta!»
La direttrice si scurì in volto. Si fece tanto vicino al viso del bibliotecario da poter sentire l’odore del suo respiro.
«Valuti bene. Perché altrimenti la farei pentire di aver passato una vita in questo posto…» si voltò lasciando il vecchio bibliotecario pietrificato.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3 ***


3

Sono chiuso in questa stanza d’albergo da cinque giorni. Il depliant dice che è un albergo a due stelle. Albergo!? Una squallida topaia buona per ubriaconi e puttane di una categoria inferiore alle stelle che vanta questa bettola. La luce a neon dice MIZAR e illumina queste quattro mura in barba al buio della notte. Qui il sole non tramonta mai. Luce gialla di giorno. Luce bianca di notte.
Mi faccio portare il cibo. Pago la stanza un giorno per l’altro. Nessuna pulizia, così mi fanno pure lo sconto. Sono stato piuttosto chiaro: “Devo scrivere un libro e non voglio essere disturbato! Mai!”. Se la saranno bevuta?
Di notte viene a trovarmi un topo. Gli lascio gli avanzi dei miei pasti. Non so per quanto tempo ancora potrò permettermi due pasti al giorno. Devo fare due conti e vedere cosa posso ancora spendere. E’ una questione di tempo. Più mangio e meno soldi ho per la stanza. Farò i conti domani però. Ora sono stanco.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1812176