Le
mie disavventure
“Non... non sapevo che Elliot avesse
un fratello.”
Toby soffiò via un ciuffo di capelli
che gli era caduto davanti agli occhi.
“Elliot è una brava persona ma ci
tiene un po'troppo a salvare le apparenze. Io sono il figlio
maledetto, per cui...”
“In che senso, se posso?” “Beh,
in sostanza, i genitori di Elliot mi hanno adottato quando avevo due
anni fondamentalmente per fare bella figura con l'alta società. O,
almeno, questa è la versione ufficiale. Io sono convinto di essere
figlio di una scappatella, ma non è importante. A sedici anni mi
hanno regalato un SUV che non sapevo guidare. Due mesi dopo, quando è
morto il mio cane, ho venduto quella macchina maledetta per comprarmi
una moto e farmi questo.”
Mentre parlava, si sollevò la maglia
fino a scoprire la porzione di schiena tra le scapole, dove
campeggiava un meraviglioso ritratto di un levriero persiano nero
come la notte, circondato da un bosco autunnale. Sotto di esso, la
scritta, in una grafia meravigliosamente semplice, Più veloce del
tempo.
“Wow...” Si
lasciò sfuggire JD. “Sembra vero...”
Toby sorrise,
orgoglioso.
“È il mio primo
tatuaggio. Lo ha fatto Martha Carson, una delle migliori. Quando ho
deciso di andare a bottega da lei per imparare il mestiere di
tatuatore, i Reid, già, passami il termine, incazzati neri per la
vendita del SUV, mi hanno diseredato. Ho praticamente vissuto per due
anni tra lo studio di Martha e la mensa dei poveri, finché a
diciotto anni non ho avuto un infarto. Sindrome di Null al ventricolo
destro. Sono in lista d'attesa per un trapianto da allora.”
A quel punto, JD
aveva iniziato a scorrere velocemente la cartella.
“E sei qui
perché, a quanto pare, il tuo cuore nuovo è in dirittura
d'arrivo.” “Speriamo.” Esclamò Toby, sempre sorridente.
“Per quanto sia da stronzi pregare per la morte di qualcuno...
dovrebbe vedere di sbrigarsi ad andarsene, perché sono piuttosto
stufo di frequentare i gruppi per malati terminali. E poi, dottor
Dorian, non faccio sesso da quando avevo diciotto anni.”
Quell'ultima frase,
pronunciata con un tono piuttosto greve, fece sorridere JD, che
appoggiò amichevolmente una mano sulla spalla del giovane, proprio a
lato del colletto della t-shirt, dal quale fuoriusciva una piccola
zampa rossiccia che si arrampicava su per il collo, giocando con una
pallina blu disegnata con tale maestria che nessuno lo avrebbe
biasimato se avesse provato ad afferrarla.
“Con Elliot
invece sei rimasto in buoni rapporti.”
Toby annuì.
“Sì, certo,
soprattutto da quando quelle pie persone dei suoi genitori hanno
diseredato anche lei... anche se non sono ancora riuscito a farla
entrare nel mio studio. Penso abbia paura che io l'aggredisca con un
ago pieno d'inchiostro.”
Pur con tutta
l'ironia che il giovane riusciva a fare sulla sua vita presente e
passata, non era difficile, pensò JD, leggere in lui una profonda
malinconia.
La forza d'animo di
quel ragazzo, di così pochi anni più giovane di lui, gli provocava
allo stesso tempo un moto di ammirazione e di imbarazzo, perché
sapeva che lui non sarebbe mai stato in grado di reagire allo stesso
modo a tante disgrazie e situazioni difficili.
“Beh, Toby, vado
a terminare il giro visite.” affermò con gli occhi bassi. “Vuoi
che ti mandi Elliot?”
“Mi farebbe
piacere. A presto, dottor Dorian.”
Non appena JD fu
uscito dalla camera, l'Inserviente tornò a sedere sul lettino,
uscendo da quella sorta di coma autoimposto nel quale era crollato.
“Quindi, per quel
tatuaggio...”
Quando Jill si
risvegliò, le sue mani corsero automaticamente a massaggiarsi i
capelli, come avevano fatto ogni mattina per tutti i suoi ventisei
anni di vita.
I capelli, però,
non c'erano.
Con un singhiozzo,
la ragazza richiuse gli occhi, desiderando ardentemente di essere
ricatturata dal sonno pesante che la chemio le imponeva.
Aveva tirato troppo
la corda con il destino, troppi ricoveri inutili per sfuggire alla
solitudine piena di gente che era la sua vita, e ora l'ospedale le
stava facendo pagare il prezzo.
E un tumore al
cervello inoperabile era un prezzo molto più alto di quanto avrebbe
mai potuto immaginare.
La dottoressa Reid,
Elliot, come ormai la chiamava, entrò nella stanza con un sorriso
troppo smagliante per non essere costruito ad arte.
“Allora, Jill,
come stai oggi?”
“Come una a cui
sono stati dati dai due ai tre mesi di vita.” “Jill...”
“No, senti, non
mi va di parlarne.”
Silenzio.
Non ricordava di
essere mai stata così acida in vita sua, eppure si sentiva in
qualche modo giustificata.
Essere in punto di
morte sembrava giustificare qualsiasi cosa, in effetti.
“Va bene. Ero
solo passata a dirti che se vuoi tra poco c'è l'incontro dei malati
terminali... se vuoi partecipare.” “Ti sembra che io voglia
partecipare?”
Con un gesto
stizzito, Elliot appoggiò pesantemente la cartella che teneva in
mano sul comodino della ragazza.
“Jill, adesso
basta. Non te l'ho tirato addosso io il cancro, come non l'ha fatto
nessun altro in questo ospedale. La dichiarazione dei tre mesi di
vita non è una condanna a morte. A volte ci sbagliamo... più spesso
di quanto credi, in realtà. Dovresti andarci a quell'incontro. Lì
non importa niente a nessuno se sei arrabbiata o acida, o cattiva,
anche, perché tutti sanno come ti senti. Conosco una persona che ci
va da anni e...”
“Non è poi così
terminale se ci va da anni.”
Elliot sospirò,
soffiandosi via la frangetta dagli occhi.
“Jill, il
problema non è quanto tempo hai da vivere, ma come lo vuoi
spendere.”
Quando Elliot girò
sui tacchi, Jill avrebbe tanto voluto richiamarla indietro, dirle che
aveva bisogno di lei, di qualcuno, di chiunque, ma non lo fece.
Non lo fece perché
era orgogliosa, e perché non sarebbe andata all'incontro dei malati
terminali.
Se ci fosse andata,
la sua malattia sarebbe diventata reale, molto più reale di quanto
la facesse sembrare aver perso tutti i capelli.
Sulla soglia della
stanza di Jill, nascosto dietro alla porta, il dottor Cox se ne stava
in piedi, un fascio di cartelle strette al petto.
“Ehi Barbie.”
Esclamò, quando la
vide uscire.
La giovane si girò
di scatto, preparandosi ad una sfuriata.
“Sì, dottor
Cox?”
“Bel lavoro.”
Continua...
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