Iriu

di Sacu
(/viewuser.php?uid=129720)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nascita di Iriu ***
Capitolo 2: *** La nascita di Jelia ***
Capitolo 3: *** Fée Verte ***
Capitolo 4: *** I Giganti del Ghiaccio ***
Capitolo 5: *** Il Portale ***
Capitolo 6: *** La Naiade ***
Capitolo 7: *** Graamros ***
Capitolo 8: *** Parte 1 - Come i Draghi vennero a vivere su Iriu ***
Capitolo 9: *** Il destino è una piccola sfera ***



Capitolo 1
*** Nascita di Iriu ***


Venne il giorno in cui su Tellus troppi Dei rivendicarono i loro diritti. Dopo anni di accordi, patti e mediazioni gli Anziani avevano reso il mondo prima stantio e poi marcio. Non era cosa grave fin quando restò all'interno della Casa degli Dei, ma come l'acqua penetra nei fori più sottili così quell'atmosfera malata raggiunse gli angoli più sperduti del mondo. Razze si estinsero a favore di altre; molte piante smisero di parlare; terremoti fecero sprofondare intere terre in fondo al mare; maremoti fecero volare grandi isole in alto nel cielo. E una volta, ubbidendo ad una ripicca del dio Urya, il pianeta bloccò la sua rotazione per un minuto intero.
Non potendo più assistere a tale scempio, i Giovani si offrirono di aiutare nel ripristinare uno stato di stabilità; proposero numerose idee, ma gli Anziani interpretarono quell'atto del tutto disinteressato come un tentativo di spodestarli. E guerra fu.
Guidati da Rahman, i Giovani erano ingenui e impreparati ad affrontare l'esperienza e l'astuzia degli Anziani. Per evitare la disfatta si rivolsero agli abitanti di Tellus affinché credessero in loro e li accettassero come sole Divinità, in modo da acquisire nuova forza e guadagnare la vittoria. Ma i Tellusiani, ingannati dagli Anziani e restii ad abbandonare le antiche tradizioni, voltarono loro le spalle, abbandonandoli al loro destino. L'Ultima Grande Battaglia fu perduta.
Non potendo uccidere delle Divinità, i vincitori decisero di punire i Giovani esiliandoli da Tellus. A niente valsero le parole e i pianti dei figli: gli Anziani, loro genitori, li cacciarono.
Fu così che ebbe inizio il loro esodo. Come profughi vagarono nell'Universo, alla ricerca di un luogo che ricordasse la loro casa; visitarono molti pianeti, scoprirono cose meravigliose, ma nessuno di questi gli diede quella sensazione familiare necessaria. L'esistenza di molti di loro si stava affievolendo a causa dell'assenza di adoratori e avevano perso ogni speranza.
Infine, nel vedere una stella simile a quella del loro mondo Rahman ebbe un'idea: se non avevano un posto da chiamare casa, lo avrebbero creato.
Tutti aiutarono e si impegnarono nel contribuire, per fare sì che il nuovo mondo avesse qualcosa di loro, un elemento proprio per creare l'affinità necessaria a renderlo piacevole e vivibile.
Radunarono asteroidi, meteore e polvere stellare plasmando un geoide; riuscirono a creare un ambiente primordiale vivibile per le prime creature.
I primi a nascere furono i Giganti del Fuoco e le Loreley. Erano dotati di immortalità; sì, se fossero stati colpiti da una lama sarebbero morti, ma il passare del tempo non avrebbe alterato in nessun modo il loro aspetto e avrebbero potuto vivere per sempre. I Giganti, alti tre metri, con la pelle di roccia fusa e rossa come la lava, traevano forza dal calore del geoide; le Loreley, dall'aspetto di bellissime umane dai capelli come il sole, prendevano linfa vitale dall'acqua, la quale dava colore ai loro occhi.
Inizialmente i Giganti erano tutti maschi e le Loreley tutte femmine. Vivevano in armonia e gli Dei tornarono in salute grazie alle loro preghiere, ma non erano ancora soddisfatti. Quel mondo era ancora giovane e necessitava di prosperare. Così, nel pieno dei loro poteri ripresero a plasmarlo, separando l'acqua dalla terra, innalzando montagne, costruendo valli per i letti dei fiumi, fino a separare tre grandi continenti. Adesso era un mondo sì ancora giovane, ma finalmente come l'avevano sempre sognato e lo chiamarono Iriu. La loro casa.
Gli Dei lasciarono alle loro creature la possibilità di esplorare il nuovo mondo, mentre loro si ritiravano su un territorio che avevano realizzato apposta per se stessi: Zenkar, l'isola sospesa sopra Iriu senza fissa posizione. Da lì potevano osservare tutto.
Nonostante i Giganti e le Loreley vivessero in pace, trovarono necessario spostarsi per cercare luoghi più affini alla propria natura. I Giganti inizialmente colonizzarono la punta nord-orientale del continente meridionale, una zona desertica e moto calda. Le Loreley invece si spinsero fino al centro del continente settentrionale, dove trovarono un'enorme cascata alta cinquantacinque metri. Il panorama era incantevole e la forza dell'acqua le rendeva più forti, così vi si stabilirono e la chiamarono Ongiara.
Per qualche tempo, le cose proseguirono bene. Ma un giorno, il dio dei fiumi Zin vide la bella Lelawala, capo delle Loreley, mentre nuda si rigenerava sotto la cascata. Fu folgorato da tanta bellezza e le propose di divenire sua sposa, ma questa si rifiutò. A nulla valse il lungo corteggiamento, Lelawala voleva rimanere con le sue sorelle. Il dio si infuriò e maledisse tutte le Loreley: sarebbero state costrette ad attirare gli uomini, ma ad ucciderli prima di poter avere figli da loro. Sarebbero state vergini in eterno.
Zin credette di aver punito la sua amata, ma aveva scordato un particolare: su Iriu c'erano solo Loreley e Giganti del Fuoco. Fu allora che si rivolse a Rahman per convincerlo a creare la razza umana. Anche altri Dei ascoltarono la proposta e furono molto entusiasti del progetto, ma non vollero fermarsi: vollero riprodurre tutte quelle meravigliose razze che avevano conosciuto durante il loro esodo.
Fu così che nacquero tutte le creature di Iriu.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La nascita di Jelia ***


Darrig era stato mandato a tagliare della legna, ma non aveva molta voglia. Era estate, faceva caldo, non c'era niente di meglio che farsi una bella nuotata. Ovviamente non voleva essere scoperto, così si spinse oltre il territorio dei Folletti e costeggiò il fiume fino a quando non trovò una meravigliosa cascata. Non ne aveva mai viste di così grandi e belle in tutte le sue avventure e tale visione lo rimandò ai racconti che aveva ascoltato da certi bardi, i quali narravano di una magnifica cascata, chiamata Orgiana, popolata da bellissime fanciulle dai capelli come il sole, inavvicinabili.
Di certo non voleva perdersi l'occasione di raccontare agli amici davanti a un bel boccale di birra cosa aveva trovato, così si avvicinò. Mai avrebbe scordato quel momento.
Una Loreley di nome Moira era stata ferita a morte da un unicorno nero che era scappato e le sue sorelle le stavano attorno senza sapere che fare; alcune piangevano, altre cercavano di rassicurarsi a vicenda, ma nessuna che l'aiutasse concretamente. E poi Darrig la vide: Sisia stava correndo verso di loro, scansò le sue compagne, prese in braccio Moira e la trascinò nell'acqua; chiuse gli occhi, forse per richiamare il suo potere, e pronunciò qualcosa che il Folletto non poté udire. I suoi capelli cominciarono a scompigliarsi come mossi dal vento, la sua mano fu avvolta da un bagliore azzurro e l'acqua intorno a loro cominciò a muoversi creando un piccolo vortice. Poi la luce dalla mano di Sisia si spense mentre la ferita di Moria cominciò a brillare. Si stava richiudendo.
Il Folletto ne aveva vista di magia, ma quella era di un altro livello, come un miracolo avrebbe detto! Ancora non poteva saperlo, ma Sisia era la più abile guaritrice fra le Loreley: se non fosse stato per lei, forse si sarebbero estinte.
Sarebbe rimasto ancora a guardare nascosto tra i cespugli, ma si avvicinava il tramonto e doveva rientrare.
Non badò alle sgridate per non aver portato la legna; non fece caso all'odore di polenta e salsiccia alla griglia che annunciava la cena; e non si lamentò quando i suoi amici bevvero la sua birra dal boccale che non aveva toccato. Nei suoi occhi era rimasta impressa l'immagine di Sisia. L'aveva colpito la sua bellezza? Forse, ma neanche le compagne erano da meno. No, era stato attratto dalla lucidità con la quale aveva salvato un'altra Loreley. Quanto sangue freddo, quanta sicurezza, quanto potere! Doveva rivederla.
Era una notte di luna piena e non fu difficile ripercorrere la strada per Orgiana, ma preso dalla fretta mise male il piede e cadde in acqua. Quando si rialzò, vide la sua immagine riflessa e per la prima volta non si sentì all'altezza. Per primo, i vestiti: pantaloni, una casacca verde tutta sporca e degli stivali a mezza gamba. Niente a che vedere con le foglie verdi di cui erano rivestite le Loreley. E quei capelli rossi? Ridicoli, per non parlare della barba! Ma più di tutto la sua statura: nella media per la sua razza, ma un bambino se messo accanto a una Loreley!
Scrollò la testa, facendo sparire dal viso quell'aria triste. Che gli importava di tutti quei discorsi? Lui voleva solo vederla una seconda volta, niente più.
Fradicio, si rimise in cammino pensando a come era stato stupido pochi minuti prima e infine arrivò. Le Loreley dormivano separate dalle altre, sulla terra proprio nel punto dove finiva l'acqua. Non fu difficile trovare Sisia. La luna si rifletteva sui suoi capelli biondi quasi a volerli sfidare, ma se così era faceva solo una figuraccia: non aveva speranza di competere con quella chioma.
Darrig rimase un po' ad ammirarla, alla fine cedette: le si avvicinò in silenzio, le prese una ciocca di capelli e cominciò a passarsela tra le mani. Poi un'altra. E un'altra ancora. Erano così morbidi che non riusciva a smettere. Rimase lì qualche ora perdendo la cognizione del tempo. Fu con rimpianto che si accorse che mancava poco tempo al tramonto: doveva andare via prima che lo scoprissero.
Durante la notte le si erano tutti intrecciati i capelli e la mattina Sisia passò molto tempo a pettinarseli. Chiese alle sorelle se qualcuna le avesse fatto uno scherzo, ma tutte negarono.
La cosa si ripeté anche la mattina successiva. E quella dopo ancora. Cominciò a sospettare.
Darrig correva. Era la quarta notte che faceva quella strada e ormai la conosceva bene. Aveva anche capito cosa lo spingeva a farlo: si era innamorato della bella Loreley!
Sicuro ormai che non sarebbe stato scoperto, andò sicuro nel luogo dove dormiva Sisia. Ma lei non c'era.
“Voltati e dimmi chi sei!” disse una voce alle sue spalle. Quando si girò, guardò in alto e i suoi occhi si incrociarono con quelli della sua amata.
“Ti ho chiesto chi sei, Folletto! Rispondi se non vuoi che svegli le mie sorelle!”
Dopo una breve esitazione, si decise. “Il mio nome è Darrig, mia Signora.”
“Cosa ci fai qui? E' lontano dalla tua casa...” poi ci ripensò e aggiunse: “Un momento! Sei tu che la notte mi scompigli i capelli?”
Raccontare agli amici di aver ingannato una Loreley sì che sarebbe stato un bel vanto, ma sentì che se avesse mentito alla creatura di cui era innamorato avrebbe perso il rispetto per se stesso. Raccolse tutto il coraggio che aveva e parlò.
“Imploro perdono mia Signora. Capitai qui per caso quattro giorni fa e quando vi vidi salvare una vostra sorella il mio cuore ha smesso di appartenermi. Non dormo più, non mangio più, vivo ogni istante nell'attesa di poter tornare qui a sfiorare quei vostri capelli così meravigliosi che sembrano fatti di pura magia. Vi supplico, abbiate pietà di questo vostro servo che non voleva importunarvi, ma che non ha saputo resistere dallo starvi lontano.” e detto questo si inginocchiò davanti a lei.
Sisia era preparata a combattere e a cacciare l'invasore, non certo a una dichiarazione d'amore! Sapeva che il dio Zin le aveva maledette, ma quel piccolo esserino riuscì a scioglierle il cuore.
Da quella notte in poi, Darrig torno sempre alla cascata e lì Sisia lo aspettava. Nessuno li vide, nessuno sapeva e col passare del tempo portarono il loro rapporto su un altro livello.
Lei era spaventata, non sapeva cosa le succedeva: si sentiva stanca, gonfia, aveva mal di testa e nausea. A niente valsero le sue abilità di guaritrice: non capiva di cosa fosse malata. Fu Darrig a comprendere e svelarle il terribile segreto: aspettavano un figlio.
Incinta? Come poteva essere? E la maledizione? Lei non poteva saperlo, ma Zin aveva proibito loro di avere figli da Uomini. E Darrig era un Folletto.
Impaurita, si rivolse alle sue sorelle per avere conforto e consigli, ma queste al contrario l'accusarono di essersi ribellata agli Dei e la cacciarono via. Allora Darrig costruì una casa nella zona dei Folletti ma lontano da essi, in prossimità del fiume, e portò lì a vivere Sisia. Passarono i mesi e la Loreley diede alla vita una bella bambina dagli occhi e capelli verdi che chiamarono Jelia.
Nel frattempo, le Loreley si accorsero che Sisia era importante per la loro comunità; si trattava di una guaritrice troppo abile e ne avevano bisogno per sopravvivere.
Cominciarono a cercarla e quando la trovarono la supplicarono di tornare a Orgiana. Sisia era combattuta. Le sorelle l'avevano perdonata e la riaccettavano tra loro, ma lei avrebbe dovuto rinunciare a Darrig e alla piccola Jelia. Dopo lunghe discussioni, le Loreley la convinsero che il suo posto era con loro e che la piccola era maledetta, ne era prova il colore verde dei capelli.
Vedendo la sua amata andare via e avendo creduto anche lui di aver messo al mondo una bimba maledetta, Darrig perse la ragione e morì annegato nel fiume.

Danah era venuta a trovare suo fratello Darrig, quando sentì il pianto della bambina e corse subito verso la casa. Aspettò un giorno intero, ma dei genitori di Jelia nessuna traccia. Fu così che tornò al villaggio portandosi dietro la bambina e decise di adottarla.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Fée Verte ***


Ataclama, Egir e Tanit erano amici fin dai tempi di Tellus e non si erano mai allontanati l'uno dall'altro durante l'esodo. Avevano contribuito come tutti alla nascita di Iriu e quando decisero di rendere il mondo più accogliente ognuno di loro si ingegnò per rendersi utile.
Il dio Ataclama, avendo un tocco grezzo, formò per sbaglio degli enormi bacini più bassi della terra che vennero subito riempiti dall'acqua. Non sapeva come rimediare, ma Rahman lo rassicurò dicendogli che sarebbero diventati mari e oceani.
Il dio Egir rimandava sempre tutto il lavoro, il suo motto era rimanda a domani così saprai cosa fare, ma era un bonaccione. Quando vide che ancora non aveva concluso niente, Ashera, moglie di Rahaman, lo sgridò così tanto che subito lui si mise all'opera. Non essendoci più molto da fare, seminò l'orzo e curò le viti e quando il raccolto fu pronto organizzò una grande festa come augurio per il nuovo mondo.
Ma nessuna opera fu apprezzata come quella della dea Tanit. Si allontanò per molti giorni da Iriu alla ricerca di polvere di stelle e quando ne ebbe a sufficienza sprigionò tutto il suo potere formando due piccoli satelliti naturali. Quando le chiesero il perché, lei rispose che aveva paura dell'oscurità e una sola luna non sarebbe bastata a garantire luce cinerea tutte le notti; invece l'alternanza di due avrebbe dato una visibilità perpetua. Fu a lei che dedicarono il primo brindisi durante la festa di Egir.
Capitava spesso che le tre divinità lasciassero Zenkar per ritrovarsi in qualche angolo nascosto di Iriu. Preferivano la notte perché a Tanit piacevano molto le stelle ed Egir portava sempre qualcosa di nuovo da bere. Si divertiva nel sperimentare vini e birre nuove e ai suoi amici piaceva fare da cavie.
Capitò una volta che Ataclama bevve troppo e si addormentò. Quando si risvegliò aveva un gran mal di testa ed era già mezzogiorno passato, così si incamminò alla ricerca di un torrente per buttarsi in acqua e riprendersi. Ma quando lo trovò, si sorprese nel vedere una bellissima bambina dai corti capelli verdi e dalle orecchie a punta che giocava tra i sassi. Avrà avuto sì e no dieci anni ed era tutta sola.
Rimase ad osservarla per circa mezzora, quando arrivò una Folletta a riprenderla.
“Ti prego zia, solo un altro pochino!”
“Smettila di lamentarti, è tardi. Hai fatto il tuo bagno annuale, adesso torniamo al villaggio!”
Ataclama era sempre più incuriosito e decise di seguirle. Poco lontano, il villaggio dei Folletti si stava preparando per la Festa delle Messi addobbando coi fiori tutte le case e preparando tavoli pieni di polenta, salsicce alla griglia, formaggio e salumi di montagna. Nella piazza centrale avevano preparato una catasta di legno che avrebbero bruciato la sera per purificare il male e attirare la buona sorte.
Il dio non aveva mai visto una festa dei Folletti, così decise di aspettare. Quando mancarono pochi minuti al tramonto, li vide radunarsi tutti nella piazza centrale intorno al loro Capo, per l'occasione in piedi su uno sgabello per farsi vedere da tutti. Questi aspettò che la folla fece silenzio e poi parlò.
“Abbiamo lavorato duramente quest'anno, ma oggi possiamo divertirci e festeggiare!”
Ci fu un applauso, ma il Capo non aveva finito.
“Come tutti voi sapete, oggi è un giorno speciale! Non solo è il Giorno delle Messi, ma oggi sono dieci anni che la Mezzaloreley è con noi! Come tutti gli anni, oggi verrà purificata e la sventura sarà allontanata!”
Il Folletto parlava ancora, ma Ataclama non riuscì a sentire altro. Nell'euforia generale, due Folletti trascinavano una bambina vestita di verde con lo sguardo rassegnato e la testa chinata. Non l'avrebbe riconosciuta, se non fosse stato per i capelli verdi, così differenti dal colore rosso degli abitanti del villaggio. Sentiva che c'era qualcosa che non andava, ma non capiva cosa.
Appena arrivò al centro, i Folletti si allontanarono da lei e gli abitanti cominciarono a tirarle addosso pomodori, insalata, uova e tutto ciò che avevano sotto mano. Fu alla fine, quando le tirarono delle secchiate d'acqua che il dio capì la sua sensazione: la bambina era completamente nuda, il verde che aveva immaginato fosse un vestito era in realtà pittura che si scioglieva con l'acqua.
La piccola non cercava di reagire. Stava a testa bassa, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, sembrava abituata a subire quella scena. Probabilmente le avevano fatto il lavaggio del cervello facendole credere che fosse una cosa necessaria e normale.
Quando tutti le ebbero gettato qualcosa e quando si stufarono di insultarla, delle Follette anziane le si avvicinarono con un coltello e le rasarono la testa, poi recuperarono tutti i capelli e li portarono a delle Follette più giovani che cominciarono a confezionare una parrucca.
Quando fu notte, i giovani del villaggio portarono un manichino fatto di foglie d'orzo, gli cucirono sopra i capelli verdi della bambina e lo posizionarono in bella vista sulla catasta di legno. Poi ci fu silenzio.
Il Capo diede una torcia alla bambina ancora nuda e sporca. Lei si avvicinò alla legna, alzò la mano e parlò.
“Tutto l'anno vi prendete cura di me, una creatura maledetta. Oggi con questo fuoco io purifico il male che rappresento; che la sventura muoia con me e che la fortuna bussi alla vostra porta!”
Poi la bambina gettò la torcia sulla catasta e il manichino prese fuoco, seguito dalle urla felici della folla.
Ataclama non poté più assistere a tale visione e tornò furioso a Zenkar. Cercò informazioni sulla piccola e scoprì che era orfana di padre, mentre sua madre l'aveva abbandonata. I Folletti la temevano e per evitare che diventasse forte le proibivano il più possibile il contatto con l'acqua, tranne una volta l'anno per il Giorno delle Messi: pensavano che bruciare la sua immagine subito dopo che si era rigenerata fosse il miglior modo per tenere lontano le disgrazie. Per questo le tagliavano i capelli, pensavano fosse il segno della sua maledizione.
Sapendo che non c'era nessun maleficio, mosso dalla pietà il dio tornò di notte al villaggio e rapì la bambina mentre ancora dormiva. La portò al centro del continente meridionale, alle cascate Lualaba lungo il fiume Kisangani e la distese vicino l'acqua. Poi tornò a Zenkar a cercare la dea Estia, forgiatrice di armi, conosciuta per essere furiosa in battaglia ma dotata di grande pietà. Riuscì a commuoverla con la storia della piccola e promisero di prendersi cura di lei. Come pegno della sua convinzione, Estia forgiò per lei una nuova spada, mai vista prima: leggera, sottile, flessibile, maneggiabile anche da creature deboli.
Fu così che Jelia ebbe Fée Verte.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** I Giganti del Ghiaccio ***


Il dio Zin aveva maledetto le Loreley, ma nessuno aveva proibito ai Giganti del Fuoco di avere una famiglia; per questo motivo, quando nacquero le nuove creature gli Dei esaudirono le loro preghiere creando delle femmine, le Gigantesse.
Vivendo in eterno, per non sovrappopolare il territorio decisero di controllare le nascite limitandole a un figlio a coppia; con questa regola vissero felici per qualche tempo, quando un giorno nacque Albino.
Albino era figlio di una giovane coppia ma era diverso dagli altri neonati. La pelle di roccia fusa come lava, ma molto bianca e fredda. I genitori cercavano di cullarlo per dargli calore con le loro braccia, ma ogni volta che lo toccavano piangeva e sembrava stare male. Morì dopo neanche una settimana.
Tutta la comunità accusò la grave perdita e pregarono tutti insieme gli dei. Udendo tali suppliche, questi si interrogarono l'un l'altro, ma nessuno si spiegò il fatto e non arrivarono ad una soluzione.
Albino fu il primo, ma non l'ultimo. Alti cinque bambini nacquero con la pelle bianca e fredda e seguirono il medesimo destino.
Poi nacque il settimo bambino. Il giorno della nascita, in cui avrebbero dovuto festeggiare, i genitori già cominciarono a preparare la sua tomba. Vedendo questo Encelado, Capo dei Giganti, si recò personalmente dal Capo dei Jinn e gli chiese di inviare un messaggio nel continente settentrionale: le Loreley erano da sempre in buoni rapporti coi Giganti e forse Sisia la guaritrice avrebbe potuto trovare un modo per salvare il nuovo nato.
Non erano molti i Jinn che avevano il potere di raggiungere tali distanze, così fu incaricato il Principe Buaza in persona. Il giovane fece appello a tutto il suo potere e arrivò fino alle cascate di Orgiana, dove trovò Lelawala e le chiese di parlare con sua sorella Sisia.
Inizialmente la Loreley non seppe rispondere: aveva guarito molte cose, ma nessuna così insolita. Poi assistendo per caso alla metamorfosi di un bruco in farfalla le venne un'idea: forse quel piccolo non era come si pensava! Forse non aveva bisogno del calore, ma del freddo!
Il Principe non era molto convinto, ma sicuramente era un tentativo valido e tornò subito nel continente meridionale ad avvertire Encelado.
I Giganti ripresero a pregare gli Dei per avere consiglio, ma questi si sentirono feriti nell'orgoglio per essere stati superati in intelligenza da una loro creatura e li ignorarono. Solo uno ascoltò le loro suppliche: Ataclama.
Ma il dio non voleva andare contro i suoi fratelli, così organizzò un incontro tra la sua protetta Jelia e i Giganti. Nella Mezzaloreley scorreva il sangue di Sisia, chi meglio di lei avrebbe potuto avvalorare o smentire la sua tesi?
I Giganti non vedevano di buon occhio la ragazza. Era piccola, aveva appena venti anni, e soprattutto la pensavano come le Loreley e i Folletti: era simbolo di sventura.
Ma non avevano scelta: le diedero la culla con il bambino avvolto in un panno, facendo ben attenzione a non toccarlo. Jelia non parlò molto. Poggiò il piccolo per terra e mise la mano aperta verso di lui, col palmo sinistro sul dorso della destra. I suoi capelli si ondularono e sprigionarono una chiara luce verde mentre sussurrava parole incomprensibili: dalla sua mano uscì un piccolo getto di acqua gelida che avvolse il neonato.
Alla vista di quella scena, la madre urlò terrorizzata pensando che la Mezzaloreley avesse ucciso suo figlio! Quando tolse le mani dagli occhi scoprì invece che il bambino era vivo, anzi rideva e sembrava stare meglio!
La diffidenza dei Giganti del Fuoco nei suoi confronti mutò e per dieci anni Jelia portò i bambini freddi nel continente settentrionale, dove a nord-ovest c'era una terra fatta di ghiacci perenni.
Fu così che nacquero i Giganti del Ghiaccio.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Il Portale ***


Ogni primavera, dai petali del primo fiore che sboccia su Iriu nasce una piccola Fata; queste creature hanno un corpo piccolo per compensare la grande quantità di potere magico che possiedono. Molti le cercano invano nei boschi, ma questi esseri dispettosi riescono a ingannare i cacciatori con le loro astuzie, o se stanche semplicemente a nascondersi. Nessuno può trovare una Fata se non è lei stessa a volerlo.
Venne il giorno in cui Celso, principe degli Gnomi, dovette dimostrare di essere degno del trono realizzando una nuova invenzione. Sapeva già cosa fare: creare una Porta per raggiungere tutti i luoghi.
Era un impegno arduo, ma non si diede per vinto. Il progetto era quasi finito, mancava solo l'energia che ne avrebbe permesso l'attivazione. Serviva qualcosa di speciale, qualcosa di magico e molto potente. Una Fata!
Viaggiò in lungo e in largo, ma di quelle creature nessuna traccia. Invocò l'aiuto degli Dei, supplicandoli di esaudire il suo desiderio, ed Egir gli rispose; non poteva fargli trovare una Fata, ma gli insegnò come attirarne una.
Così Celso preparò un bellissimo piatto d'argento pieno di dolcetti al miele corretti col sonnifero e lo portò vicino a un prato pieno di fiori, dopo di ché se ne andò; nessuna Fata si sarebbe avvicinata sentendo la sua presenza.
Aspettò pazientemente tre ore e quando tornò indietro con sorpresa vide che la trappola aveva funzionato: c'era una piccola creatura distesa vicino al piatto che dormiva; era bellissima, con i capelli scuri e le ali dai riflessi viola.
Se la caricò in spalla per portarla a palazzo e quando arrivò le fece tagliare le ali in modo che non potesse scappare.
Felice per il presunto successo, portò la Fata vicino alla Porta e la mise al centro di un cerchio magico fatto di polvere di lapislazzuli, poi azionò il meccanismo che risucchiava l'energia per trasmetterla alla sua invenzione.
Ma non sapeva che le Fate usano le ali per dosare il loro potere. Avvenne quindi che la creaturina sprigionò troppo potere tutto insieme, facendo impazzire la sua invenzione che fu avvolta da una nube elettrica. Quando il fenomeno finì, Celso vide che la Porta si era aperta da sola e preso dalla curiosità si spinse fino a vedere cosa c'era oltre.
Fu così che venne creato il Portale che unisce Iriu ad Abeir-Toril.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La Naiade ***


Avendo sentito parlare dell'esistenza di acque dolci da dei Salmoni di passaggio, il Tritone Varrey decise di lasciare il suo territorio per iniziare un'esplorazione; chiese ai suoi amici di accompagnarlo ma nessuno di loro era curioso così partì da solo.
Nuotò per un po' mentre in superficie calava la notte. Poi finalmente vide la terraferma e preso dall'emozione si affrettò per raggiungerla, ma essendo entrambe le lune oscurate dalle nubi non vide gli scogli e vi rimase impigliato. Provò a dimenarsi, ma le pinne della coda erano rimaste incastrate. Si guardò intorno; era proprio nel punto dove il fiume Ortigia sfocia nel mare. Era riuscito a vedere il fiume d'acqua dolce come desiderava, ma adesso non sapeva come togliersi dalla situazione, così pregò gli Dei che mandassero qualcuno ad aiutarlo.
Il dio dei fiumi Zin udì le sue preghiere e chiese alla Naiade del fiume di liberarlo. Arusa ubbidì al volere del Dio e raggiunse Varrey liberandolo dal masso che lo bloccava. La giovane sarebbe dovuta tornare subito alla sua Fonte, ma avvenne qualcosa di inaspettato: le nubi si dissolsero lasciando trasparire la luce della luna e appena Arusa vide gli occhi azzurri del Tritone se ne innamorò.
Varrey la ringraziò e si voltò per tornare indietro, quando la Naiade spinta da uno slancio di passione lo seguì. L'avesse mai fatto! Appena oltrepassò il limite che separa l'acqua del fiume da quella del mare, Arusa si tramutò in sale e fu portata via dalle onde.
Quando il Dio vide la scena, si arrabbiò con la Naiade per aver lasciato i suoi doveri di protettrice del fiume in favore dei suoi sentimenti, ma allo stesso tempo fu impietosito dal ricordo del suo amore non corrisposto.
Così Zin recuperò tutti i granelli di sale che componevano il corpo di Arusa e le diede una seconda possibilità: sarebbe tornata in vita, ma per punizione si sarebbe dovuta prendere cura dei Giganti del Ghiaccio.

Fu così che quando Jelia dovette attraversare il fiume Ortigia, confine tra il continente e la zona dei Ghiacci Perenni, col primo neonato rimasto vivo dei Giganti, trovò Arusa ad attenderla.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Graamros ***


Il Principe Graamros si era lasciato trascinare ancora una volta da Lord Marhorn a scommettere al gioco dei dadi. Non era sua intenzione seguirlo nelle sue svariate idee, ma non riusciva mai a dire di no al suo amico: ogni sua parola era legge e viziato com'era se non veniva accontentato non smetteva più di lamentarsi, proprio come un bambino.

“...maledizione!” Esclamò più per far contento lo spirito agonista dei compagni che per una delusione personale.
“Ha! I dadi non mentono, avete perso mio Signore!”

Non c'era molto che potesse fare, quella non era serata per il gioco.
A sfidarsi in quel torneo erano stati una decina di Uomini di giovane età tutti determinati a vincere quasi come se si trattasse di una battaglia. Tutti tranne lui; l'unico che non aveva alcun interesse di competere era proprio Graamros, il cui unico scopo era intavolare qualche conversazione coi suoi compagni per distrarsi delle fatiche del giorno; di certo non si era impegnato minimamente nel cercare di fare punti.
Fu così che arrivò ultimo.

“Poco male, vincerò la prossima volta.” Disse non curante, anzi quasi felice che la questione fosse chiusa e che finalmente potesse andare a dormire. “Quanto ho perso?”
Dopo un attimo di silenzio in cui fu guardato in modo strano, un ragazzo si degnò di rispondergli.
“Spiacente mio Signore, ma stavolta non si giocava a monete.”
“Temo di non capire...” Disse confuso.
“Andiamo, Graamros, te l'avevo detto!” Cominciò Marhorn. “Non mi ascoltavi quando siamo tornati dalla caccia alla lepre? Ti avevo avvisato che il perdente avrebbe dovuto affrontare una prova di coraggio!”

Solo il rispetto per la Corona impedì ai presenti di scoppiare a ridere in faccia al Principe, rimasto a bocca aperta senza parole e gli occhi sgranati!
Rimase imbambolato per una decina di secondi nei quali prima si rese conto che non era uno scherzo, poi maledisse mentalmente il suo amico di patire atroci sofferenze e infine si preoccupò per il proprio futuro prossimo.
Quando si riprese e chiese in cosa consisteva la prova gli mostrarono un sacchetto di velluto blu scuro.

“Qui dentro ci sono tre sfere di vetro esattamente uguali tranne che per il colore. Se pescherai la sfera rossa dovrai riuscire ad ottenere dal dio Egir la ricetta segreta del suo idromele; se prenderai la sfera azzurra dovrai conquistare il cuore della Naiade Lukeni; se invece ti capiterà la sfera verde dovrai sconfiggere la Mezzaloreley.”

Graamros sbiancò e cercò di replicare che quelle non erano prove, ma imprese impossibili!
La ricetta del dio Egir era antichissima, si diceva provenisse addirittura dai tempi in cui gli dei abitavano su Tellus, e non l'aveva svelata neanche ai suoi sacerdoti più fedeli: si trattava di una bevanda che pochissimi uomini avevano avuto la fortuna di assaggiare, servita com'era solo durante i banchetti degli dei.
E Lukeni? La bellissima Naiade amava le acque del del fiume Kisangani come una moglie, devota ad esse come una figlia e protettrice come una madre. Aveva spezzato i cuori di molti spasimanti, i Satiri si sfinivano nel suonarle dolci melodie e tutti disperavano pensando che non avrebbe mai dato alla luce un'erede che prendesse il suo posto.
Infine la Mezzaloreley, la creatura più temibile ma di cui non si conosceva niente. Si diceva che avesse un animo di ghiaccio, che fosse un'assassina senza pietà, e le madri per spaventare i figli raccontavano loro che le notti fredde, quando le lune venivano oscurate dalle nuvole, si intrufolasse nei villaggi alla ricerca di bambini da mangiare. Voci soffuse, migliaia di storie diverse tra loro su quella creatura dannata venuta al mondo con qualche misterioso maleficio. Voci di girovaghi che affermavano che risalendo il Kisangani fino alle cascate Lualaba si poteva trovare la casa di quella strega. Ma nessuno pareva averla mai vista, nessuno affermava con certezza che esistesse, ma tutti avevano paura di lei come se non ci fosse peggiore disgrazia che averla in vita sul proprio mondo. Terrore di lei e dei suoi capelli verdi, colore incomprensibile contro ogni legge della natura e forse anche della magia; un mostro maledetto che doveva essere estirpato come erbaccia.

A niente valsero le rimostranze di Graamros coi suoi compagni.

Chiuse gli occhi, infilò la mano nel piccolo sacchetto di velluto blu ed estrasse una sfera. Una sfera verde.

“Non sappiamo neanche se esiste! Come faccio a dimostrarvi di averla sconfitta?”
“Dicono che porti sempre con sé una spada dalla lama verde. Portacela e noi ti crederemo.”

E a niente valsero le rimostranze del Principe con suo padre.
Il re Graros pensò che fosse un'ottima occasione per dimostrare il suo valore, dato l'animo fin troppo temperato che aveva sempre mostrato. Gli fornì un buon cavallo, una spada affilata e gli augurò un buon esito.

“Padre, ma avete bisogno del mio aiuto, non posso assentarmi per troppo tempo.”
“Sciocchezze, io governo da prima che tu nascessi. Adesso va e rendimi fiero di te, figlio mio.”

=======================================================================

Erano giorni che risaliva il fiume lungo il sentiero battuto da Folletti e Elfi Oscuri.
Non aveva fretta e approfittava di quell'occasione per prendersi una vacanza dalla vita rigida di corte; cacciava quando aveva fame e riposava quando era stanco. Si faceva comandare solo dai bisogni essenziali del suo corpo, senza preoccuparsi se fosse notte o giorno e mentre le ore si mescolavano fra loro la sua mente vagava libera perdendosi in quella foresta. Ammirava quei colori meravigliosi dati dalle rose, gli ibiscus e le orchidee, ma era attratto anche dagli alberi di tek, ebano, cedro, okoumé e iroko. Quella vivace armonia riusciva a metterlo di buon umore.
Fu così che quasi senza rendersene conto arrivò fino alle cascate Lualaba.
Ed ebbe paura.
Cosa avrebbe trovato? Come l'avrebbe sconfitta? E se lo avesse ingannato? E se non esistesse?
Poi una voce lo ridestò dai suoi pensieri.
“E' inutile che ti nascondi, la tua ora è giunta! Mostrati e affrontami!”
Una voce maschile.
Gli andò incontro senza sguainare la spada, non voleva dar impressioni di voler combattere. Scostò dei cespugli e vide un Elfo Oscuro vicino ad una tenda vuota che parlava in una lingua sconosciuta, dal tono sembravano imprecazioni. Fece per avvicinarlo, ma quello gli puntò contro la sua spada corta.
“E tu chi saresti? Forse la strega non ha abbastanza coraggio da affrontarmi? O forse sei un trucco?”
Il Principe alzò le mani cercando di farlo calmare.
“Io sono il Principe Graamros, figlio di Gramos. Sono giorni che sono in viaggio con la missione di neutralizzare la Mezzaloreley.”
L'Elfo Oscuro non lesse menzogna nei suoi occhi, così abbassò l'arma e si presentò a sua volta.
“Io sono il Principe Dabin, figlio di Damin e sono qui con lo stesso scopo. Dato che sono arrivato per primo mi aspetto da voi che rispetterete le regole e lasciate che sia io ad affrontarla per primo. In caso contrario, sarò ben felice di farvi mostra delle mie abilità.”
L'ultima cosa che Graamros voleva era uno scontro immotivato, così non ebbe niente da replicare.
“Ma siete sicuro che il luogo dove si nasconde sia questo?” Gli chiese.
“Assolutamente, cosa ci farebbe una tenda altrimenti in un posto simile? Basterà aspettare.” Rispose convinto Dabin.
Ed ecco che verso sera, quando il sole stava per tramontare, sentirono dei rumori: qualcuno si stava avvicinando. Entrambi estrassero le spade, quando da dietro gli alberi comparve una ragazzina di circa tredici anni piena di lividi. Era alta poco più di un metro, aveva le orecchie a punta come quelle degli Elfi, i capelli spettinati di colore verde raccolti in una coda e indossava degli abiti maschili; al fianco aveva un tipo di spada che Graamros non aveva mai visto.
Sembrava molto provata e camminava a testa bassa, poi d'un tratto alzò lo sguardo e si accorse dei due Principi. Non sembrava particolarmente sorpresa, anzi, era seccata.
“No, oggi no...” Disse scuotendo la testa con fare sconsolato.
I due Principi si guardarono senza capire, poi Dabin prese in mano la situazione e fece un passo verso di lei. Stava per parlare, quando fu preceduto dalla sua voce.
“Sì, sono io la Mezzaloreley. E comunque ho un nome, mi chiamo Jelia! Accidenti, possibile che non lo sappia mai nessuno? Oggi sono molto stanca, Estia mi ha fatto allenare fin'ora e come potete vedere mi ha riempito di lividi. Se non vi dispiace adesso vorrei mangiare e riposare, qualsiasi scontro vogliate dovrete aspettare domattina. Stasera non sono disponibile.”
Dabin rimase spiazzato da quell'uscita, ma non demordette.
“Sono il Principe Dabin, figlio di Damin, ho fatto molta strada per poterti sconfiggere e non lascerò passare un secondo di più per raggiungere il mio intento! Non provo pietà per una creatura come te! Preparati a combattere.”
La Mezzaloreley lo squadrò da capo a piedi.
“Senti un po', Principe figlio di non so chi. Scordati quello che sai su di me e guardami: ti trovi di fronte una ragazza di sedici anni (e non azzardatevi a dire che ne dimostro di meno se non volete trovarvi a nuotare nel fiume) stanca, dolorante e affamata. Pensi di riuscire a vantarti di aver sconfitto un avversario simile? O è meglio aspettare domattina?”
Dabin ci pensò un attimo, ma senza abbassare la spada.
“Chi mi garantisce che non sia un trucco e che non ci attaccherai nel sonno?”
“Casomai chi lo garantisce a me! Voi Elfi non dormite la notte, riposate e basta. Avresti mille occasioni per uccidermi.”
“Aspettate, ho una proposta.” Si intromise Graamros che nel frattempo aveva abbassato la spada, gesto non sfuggito alla Mezzaloreley. “Potremmo mangiare tutti insieme, ci riposiamo un po' e poi vi affrontate. Che ne pensate?”
Dabin e Jelia si sfidarono con lo sguardo, infine accettarono capendo che era un valido compromesso, ma l'Elfo Oscuro si rifiutò di passare del tempo con lei e se ne andò promettendo di tornare dopo due ore.
Così Graamros e la Mezzaloreley rimasero soli. All'inizio non parlarono molto, lui si occupò di accendere il fuoco e di preparare qualcosa da mangiare, mentre lei faceva un bagno rigenerante nelle acque del fiume. Quando poi la cena fu consumata si ritrovarono in un silenzio imbarazzante e il Principe decise di dire qualcosa.
“Quindi, a quanto ho capito, vengono in molti con l'intenzione di ucciderti?”
Non si era aspettato una vera risposta, quindi fu sorpreso quando lei gli sorrise e parlò.
“Purtroppo sì, pensa che ho perso il conto ma solo quest'anno ne sono venuti più di dieci. Uomini, Elfi Oscuri, Folletti, un paio di Gnomi e anche un Gancanagh*! E tutto per colpa delle sorelle di mia madre che hanno messo in giro questa assurda voce che porto sfortuna... Non ne posso più!
Anche tu sei qui per batterti con me, vero?” Quelle parole non risultavano come un'accusa, solo una constatazione.
“Sì, ma non per mia scelta.”
“In che senso?”
Fu così che il Principe le raccontò tutta la storia facendola ridere per diversi minuti.
“D'accordo che è frustrante sapere di essere un mostro senza cuore che causa gli incubi ai bambini, ma questa storia è troppo divertente! D'avvero tuo padre non ha fatto niente?”
O era una trappola ben congegnata oppure quella ragazza sua coetanea era fra le persone più pure che avesse mai incontrato. Parlarono e scherzarono per tutto il tempo e lui riuscì a capire qualcosa su di lei. Si trattava di una ragazza sola, senza amici o famiglia a sostenerla, esiliata da tutti per dei pregiudizi infondati; non odiava i suoi sfidanti, sapeva le loro motivazioni e anche se non approvava la loro chiusura mentale riusciva a capirli. Chi veramente detestava erano sua madre e le sue zie, che l'avevano abbandonata appena nata. La sua speranza era di sopravvivere agli allenamenti della dea Estia e di andare da sua madre per mostrarle che lei era degna del suo affetto.
Puntuale, allo scadere delle due ore, si presentò Dabin.
“Pronta, Mezzaloreley? Non vorrei mi accusassi di non averti lasciato abbastanza tempo per riprenderti.”
Jelia si alzò. Le risate che prima echeggiavano nell'aria erano scomparse sostituite dalla determinazione degli avversari. Negli occhi dell'Elfo Oscuro c'era rabbia, in quelli della Mezzaloreley decisione. Rimasero a studiarsi per qualche istante, dopo di ché estrassero le spade insieme, lentamente, quasi a voler prolungare il suono del metallo, poi tornarono a fissarsi. Dabin si liberò del fodero per avere meno impedimenti mentre al contrario Jelia appoggiò delicatamente la spada dalla lama verde a terra, in modo che non desse fastidio durante lo scontro.
“Cosa stai facendo? Ti ho dato del tempo proprio perché volevo scontrarmi con te al massimo delle tue capacità!”
“Per dimostrare ai miei sfidanti che non sono il mostro che credono ho promesso che non ne avrei ucciso nessuno, la dea Estia mi è testimone. Purtroppo però lei mi insegna tecniche mortali e se usassi la spada non potrei tener fede ai miei propositi.
Tranquillo, non avrai di che lamentarti.”
E così dicendo si portò davanti a lui.
E lo scontro ebbe inizio.
Graamros era rimasto impressionato dall'abilità dei due. Dopo i primi attacchi blandi effettuati per individuare la strategia migliore, erano passati allo scontro vero e proprio. I colpi dell'Elfo Oscuro erano più forti di quelli della Mezzaloreley, ma lei era più veloce; apparentemente si muoveva molto più dell'avversario, perché non poteva parare direttamente i colpi di spada col legno del fodero, ma in realtà ogni azione era ben calcolata e nonostante tutto sembrava non affaticarsi. Dopo poco era chiaro che l'esito era tutto da giocare.
Dabin però voleva chiudere alla svelta, così decise di sfruttare il vantaggio della forza e impugnò la spada con entrambe le mani, sferrando un potente colpo sulla testa di Jelia. Ma lei, grazie ai riflessi duramente allenati negli ultimi sei anni, lo schivò portandosi rapida alla sua destra e si abbassò colpendo verso l'alto il gomito dell'Elfo Oscuro, poi si alzò e colpì di taglio il polso del suo avversario, facendogli perdere la presa della spada. Ormai la impugnava solo con la mano sinistra e non riuscì quindi ad evitare il colpo di Jelia sul collo che lo fece cadere a terra frastornato.
“Hai perso, ammetti la tua sconfitta. Puoi dormire qui, ma domattina dovrai andartene.” Disse mentre rinfoderava la spada. Dopo di ché rivolse un ampio sorriso a Graamros e gli chiese se volesse combattere anche lui.
Il Principe era sorpreso. Le voci che erano giunte dicevano che la Mezzaloreley fosse forte, ma non si aspettava una simile abilità. Forse sarebbe riuscito a batterla, era più bravo di Dabin, ma non se la sentiva di battersi, soprattutto perché i motivi che lo spingevano a a farlo non avevano più senso dopo averla conosciuta. Così declinò l'incontro e aiutò l'Elfo Oscuro a rialzarsi. Questo, ancora un po' confuso e deluso per come si erano svolte le cose si congedò e partì all'istante, lasciando Jelia e il Principe liberi di dormire.

=======================================================================

La mattina dopo Graamros era in procinto di andarsene, quando ebbe un'idea.
“Che ne diresti di venire con me?”
“Come prego?”
“Vieni a palazzo con me. Mio padre difficilmente mi nega qualcosa e sarai mia ospite per qualche tempo. Conoscerai la gente del mio Regno e sono sicuro che come sono riuscito ad apprezzarti io lo faranno anche loro. Vedrai, non sono persone cattive, riuscirai a trovarti degli amici.”

Estia pensò che fosse un'ottima idea e diede il suo consenso alla partenza di Jelia.
Fu così che la Mezzaloreley e il Principe partirono insieme alla volta del palazzo.

=======================================================================

Marhorn aveva ricevuto un messaggio da Graamros in cui lo avvertiva del suo ritorno, così radunò tutti i partecipanti al gioco dei dadi di quella famosa sera. Erano arrivati tutti e lo aspettavano da qualche minuto, quando la porta si aprì.
“Sono tornato.” Disse il Principe fermandosi sulla porta.
“Graamros, amico mio!” Esclamò felice Marhorn. “Ci sei riuscito? Hai recuperato la spada?”
“Sì! E ho portato anche qualcos'altro!” E dietro di lui si affacciò una piccola ragazzina dai capelli verdi. “La sua proprietaria!”
“Buongiorno a tutti!” Salutò lei allegramente; ma il suo sorriso non riuscì a scaldare il gelo che era calato alla sua vista. Così Graamros le mise una mano sulla spalla e per la prima volta nella sua vita prese posizione e parlò deciso come un vero sovrano.
“Questa ragazza si chiama Jelia. Mi avete detto che era un mostro senza anima, mi avete spinto a sconfiggerla e a portarvi la sua spada. Devo ringraziarvi per questo, perché altrimenti non avrei mai potuto incontrare una persona così meritevole della mia amicizia. Sono felice che una creatura così pura, onesta e valorosa abbia deciso di accettare la mia ospitalità, perciò da oggi io vi ordino di trattarla col rispetto e l'onore che merita.”
Dagli sguardi stralunati Jelia capì che sarebbe stata un'impresa difficile farsi accettare, ma in fondo era lì per quello. E soprattutto non avrebbe affrontato tutto da sola.



Fu così che Jelia trovò il suo primo amico.




=======================================================================

* Gancanagh: una fata di sesso maschile

=======================================================================

SPAZIO AUTRICE
Questa storia è dedicata al mio amico Gianmarco, che purtroppo ho perso di vista. Ovviamente non è il protagonista, ma l'ho scritta pensando a lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Parte 1 - Come i Draghi vennero a vivere su Iriu ***


Un giorno i Draghi capirono che il loro mondo era ormai in rovina e vollero abbandonarlo. Avendo dato asilo tempo prima a dei giovani Dei, decisero di cercarli per chiedere loro ospitalità.
Partirono così in gruppo verso la nuova fonte di energia, proveniente da Iriu, e giunsero durante i Giorni della Creazione.
Rahman li accolse subito con piacere offrendo loro di dimorare con gli Dei, ma non tutti i suoi compagni concordavano con questo gesto. Gli Dei avevano già il loro da fare con la creazione di tutte le creature ed era impensabile gestire la presenza dei Draghi, esseri nati da una magia così diversa che quella che permeava Iriu.
Fu così che per mettere a tacere il malcontento Rahman convocò tutti gli Dei per il Primo Concilio.
Parlarono tutti, uno alla volta, esponendo le proprie perplessità e paure. Inizialmente il numero di chi pensava fosse giusto ricambiare il favore e di chi aveva paura dei cambiamenti di equiparava. Ma quando parlò la Eris le cose cambiarono. La Dea non era intelligente né tanto meno i suoi argomenti validi, ma il suo fascino catturò l'attenzione di molti portandoli dalla sua parte.
Fu così che la votazione ebbe esito negativo.
Allora Rahman in qualità di guida andò da Kross e comunicò la decisione di cacciarli. Il Drago si arrabbiò molto e cominciò a pronunciare una formula per maledire gli Dei, ma prima che terminasse le parole magiche il suo compagno Molodokia lo bloccò, proponendo un accordo ai due capi: i Draghi avrebbero potuto dimorare su Iriu, in cambio non sarebbero entrati in contatto con nessuna delle creature e non avrebbero modificato niente del nuovo mondo.
Per evitare una guerra lunga e logorante in cui tutti ci avrebbero rimesso, Rahman e Kross accettarono stringendo il Patto.
Fu così che i Draghi vennero a vivere su Iriu.


ANGOLO AUTRICE
E' da molto ormai che volevo scrivere questa favola e il pezzo pubblicato è solo la prima parte. Avevo già scritto questo pezzo, ma ho aspettato a metterlo perché era troppo poco favolesco e sembrava più un prologo di un libro, così ho cercato di riadattarlo come potevo. Certo, non sono pienamente soddisfatta, ma almeno questo la parvenza di favola ce l'ha :)
Vorrei aggiungere una cosa particolare: è da un anno che scrivo e l'ho sempre fatto usando il computer. Sempre tranne che per questa storia. Ok, la prima versione l'ho scritta al pc, confesso, ma quando l'ho dovuta riadattare l'ho scritta a mano. E devo proprio dirlo: CHE FATICA! Non ci sono più abituata!
Capisco che sia bello e magico scrivere a mano e chi ha una bella calligrafia può permettersi questo lusso, ma il mio disordine me lo proibisce.
Quindi, persone che scrivete a mano: vi invidio, ma la cosa non fa per me!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il destino è una piccola sfera ***


Erano giorni inquieti lassù a Zenkar, l'isola dimora degli Dei. Iriu mostrava allora tutto lo splendore di un mondo appena nato, l'incanto di una creatura che comincia a muovere i suoi primi passi.
Ma come un bambino cade più volte prima di conquistare la posizione eretta, così Iriu non era perfetto: c'erano quei piccoli errori dovuti alla giovane età degli Dei che loro non sapevano come gestire.
Capirono che per affrontare il futuro dovevano imparare dai loro errori, così decisero di fare un censimento di tutte le creature presenti in modo da studiare le anomalie dell'eco-sistema e mantenere l'equilibrio.
Purtroppo però avevano lavorato separatamente, non si erano accorti di quante cose avessero creato per abbellire quel nuovo mondo e il lavoro si prospettava infinito anche per loro che erano divinità!
Proprio nel mezzo dello sconforto generale, il dio Naadi ebbe un'idea.
Trovò un isolotto di Zenkar separato dall'isola centrale e lì fece nascere l'albero più grande che sia mai esistito. Poi fece sì che ogni frutto dell'albero racchiudesse la storia di ogni individuo, dalla sua nascita alla sua morte.
I frutti crebbero insieme alle persone, da acerbi divennero maturi e quando la prima creatura morì, il primo frutto cadde a terra, trasformandosi in una piccola sfera trasparente.
Bastava tenerla tra le mani per vederci dentro l'intera vita del defunto.
Naadi allora la avvolse in una piccola rete d'oro e la appese al grande albero lì da dove era caduta e così fece con le seguenti, mischiando le sfere ai frutti, unendo ciò che è stato con ciò che continua ad essere.
Dicono che il destino sia scritto su foglie di palma, dicono che passato presente e futuro siano già decisi. Ma non è così: il destino è una piccola sfera che mostra solo quello che abbiamo deciso di essere.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=719433