Vedevi me nei suoi occhi?

di dilpa93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hope and memories ***
Capitolo 2: *** Boston on my mind ***
Capitolo 3: *** Like a fire in a wood ***
Capitolo 4: *** Bitter death ***
Capitolo 5: *** New York, New York ***
Capitolo 6: *** You make me feel alive ***
Capitolo 7: *** Dear Katherine ***
Capitolo 8: *** In her eyes ***



Capitolo 1
*** Hope and memories ***


 

 

Quattro anni che sei via da casa. Stai per tornare e ancora non riesci a crederlo.
Apri il portone a fatica. Sei stanco. Invecchiato.
Inspiri il profumo che caratterizza l’androne, sciroppo alla menta mischiato all’aroma del caffè appena fatto.
Curioso che dopo tutto quel tempo sia rimasto ancora lo stesso.
C’è un odore nuovo però, non riesci a capire cosa sia, ma, anche se non sai spiegartelo, sa di casa.
L’ascensore è in movimento. Il pulsante è già illuminato al tuo arrivo.
Non puoi aspettare. Fremi.
Ti dirigi verso le scale; i gradini in marmo riflettono il neon sopra la tua testa.
Vorresti correre, ma non riesci. Ti trascini stancamente.
Ancora un piano.
Senti il polso rimbombarti nelle tempie. Il fiato corto.
Il cuore pompa sangue e ossigeno. Lo senti battere.
Ti chiedi quante cose siano cambiate. Quali siano cambiate, nel vostro appartamento, nella sua vita.
Ti chiedi se tu le sia mancato, se ti abbia dimenticato, se abbia deciso di dimenticarti.
Ti chiedi se ti ami ancora, o se invece ti odi. Se quando aprirà la porta la chiuderà nel tempo di un batter di ciglia, oppure ti concederà un’opportunità.
Bussi e, chiudendo gli occhi inspirando a fondo, ricordi cosa ti aveva spinto a lasciarla.
 
 
 
Giornata afosa, il sole gli aveva tenuto compagnia nel tragitto a piedi fino al distretto. Nonostante il caldo, era una sensazione piacevole quella dei raggi che gli carezzavano il viso giocando con le fronde degli alberi.
Seduto alla scrivania fissava il suo distintivo mentre il pollice carezzava sereno i numeri in rilievo: 1469. Bizzarro che i numeri fossero quelli della sua data di nascita. Un segno del destino, l’Universo che tentava di dirgli che la strada intrapresa era quella giusta.
Lui la vedeva così, aveva bisogno di vederla così.
 
Kate gli arrivò alle spalle, proiettando la sua ombra sulla scrivania.
“Già qui, non saresti dovuto arrivare nel pomeriggio?” Domandò con voce candida. Si chinò su di lui posandogli le braccia sulle spalle arrivando a carezzargli il petto attraverso il tessuto della camicia blu.
“Si, la sveglia ha ripreso a suonare. Così mi sono alzato.”
“Ero convinta di averla spenta. Mi dispiace di aver rovinato la tua mattinata libera.” Mormorò sfiorandogli la tempia con un bacio. “Forse dovremmo comprare un’altra sveglia.”
“Già, forse dovremmo.” Disse divertito; si girò e la baciò lentamente e con dolcezza scostandole poi i capelli dal collo accaldato. “Mi sono perso qualcosa mentre non c’ero?” Chiese ricomponendosi.
“Nulla, oggi è una giornata-”
“Non dirlo!” Fece irruzione l’ispanico tornando dalla sala break con un tè fumante. Aveva deciso di lubrificare il suo corpo e di eliminare per un po’ la caffeina. Voleva essere in una forma strabiliante quell’estate.
“Sai bene che appena lo dici il telefono prende a squillare come impazzito.”
“Oh, andiamo ragazzi, non crederete davvero a questo. Siete così superstiziosi?”
“Ti dobbiamo ricordare il caso Tillman una settimana fa, oppure l’omicidio Loughton il mese scorso? Tutto per aver pronunciato quella parola.” Concluse Ryan.
La detective sbuffò scuotendo la testa incredula.
“Castle, sei con noi o contro di noi?”
“Scusami Kate, ma hanno ragione loro.” La sua mano si incontrò a mezz’aria con quella degli altri detective e, mentre il fragoroso suono dei loro palmi a contatto riempiva lo strano silenzio di un distretto deserto, Kate trasse la sua conclusione.
“Voi vi fate troppo influenzare dalla televisione. Non accadrà nulla se pronuncio la parola calma.”
Ed in quell’esatto momento un telefono cominciò a squillare lasciando senza parole la donna, e facendo spuntare un sorrisino compiaciuto sul volto dei suoi partner.
“È il mio, scusate.” Rick si allontanò andando ad avvicinarsi al distributore di bevande.
“Che nessuno si azzardi a dire ‘te l’avevo detto’” ringhiò sulla difensiva puntando contro ai due una penna.
 
Sospirò mentre l’indice passava sul display accettando la chiamata.
“Pronto”, tentò di mantenere un certo distacco ed essere professionale, ma era già capitato che la voce lo tradisse, e quella volta fece lo stesso, lasciando trasparire la sua ansia e preoccupazione.
“Pronto...” Ripeté fermo e deciso.
Dall’altra parte solo affanni, respiri irregolari.
“Credi che non sappia chi sei, che non abbia capito?”
Sentiva solo silenzio, nessun suono o rumore distinguibile se non quello della vena del suo collo pulsare incontrollata.
“Non ti basta quello che mi hai preso? Che cosa vuoi, cosa vuoi?!”
“Farti soffrire… ancora.”
Chiuse la chiamata lasciando Castle solo con il clic indistinguibile del ricevitore che veniva riattaccato.
Con il cellulare stretto in mano lasciò che la sua frustrazione venisse liberata con un calcio contro la macchinetta.
“Ehi bro, è tutto a posto?” Esposito si sporse dondolandosi sulla sedia facendo rientrare il collega nel suo campo visivo.
“Si, solo che mi ha fregato i soldi un’altra volta.” Mentì lui con un sorriso falso ad incorniciargli il volto e la tipica ruga che gli si formava in mezzo alla fronte quando una bugia usciva dalle sue labbra. Particolare che sfuggì a tutti, a tutti tranne che a Kate.
Approfittando di un momento di distrazione si volatilizzò scendendo di corsa le scale. Sentiva già il caldo soffocante, che sembrava sbucare come un’entità a sé dall’asfalto ribollente, raggiungerlo a pochi passi dalle porte che lo avrebbero buttato letteralmente sulla trafficata New York.
 
Kate si gettò all’indietro, sullo schienale della sedia, pregando di riuscire a ridurre l’imponente mole di scartoffie prima di pranzo, o prima che qualche squilibrato decidesse di impugnare la pistola acquistata per precauzione, oppure quella che sapeva il padre nascondeva nel cassetto della scrivania, e uscire ad uccidere qualcuno.
Le mani scivolarono sul viso, cercando in qualche modo di togliere la stanchezza che lo ricopriva insieme al leggero velo di cipria. Quando le tolse facendole pesantemente ricadere sulle cosce, gli occhi cercarono istintivamente quelli del suo uomo, senza però riuscire a trovarli incollati allo schermo del pc alla sua scrivania. Ruotò il capo a destra e sinistra, senza vedere la sua sagoma da nessuna parte.
“Ehi ragazzi, avete visto Castle?”
Entrambi distolsero l’attenzione da quello che stavano facendo per concentrarsi su di lei.
“Magari è andato in bagno.”
“Già, e cosa sta facendo, sta schiacciando un pisolino? È troppo che è via per essere andato solo in bagno. Vedrai che sarà sceso al piano di sotto per svaligiare il distributore automatico dei tecnici, e vendicarsi del fatto che la nostra macchinetta è sempre rotta. Tornerà tra poco.”
“Vado a cercarlo comunque. Se torna chiamatemi.”
“Kate, ma dove vai? Kate!” Tentò di richiamarla inutilmente Esposito.
 
Arrivato fuori, fiancheggiò la facciata dell’edificio; la giacca scura sfregò contro l’intera parete graffiandosi di gesso bianco fino a che non giunse sul retro. Si fermò, sentì il battito irregolare del cuore nel petto e una strana collera esplodergli dentro.
Nella sua testa cominciarono a farsi largo le immagini crude di un corpo seviziato e torturato. I tagli lungo le braccia e sul torace, le macchie di fuliggine e fango sul viso e sui vestiti. L’ematoma lungo lo zigomo destro. Il sangue sotto il corpo che le aveva impregnato i capelli rendendoli più rossi di quanto già non fossero, la gamba spezzata, il taglio sottile lungo il collo bianco e gli occhi di ghiaccio che lo fissavano ormai vitrei e senza vita.
Si sporse aggrappandosi con le dita ai mattoni quando un forte senso di nausea lo pervase. Bile e saliva uscirono dalla sua bocca ora riempita di un sapore aspro e disgustoso.
 
Quando lo raggiunse lo vide seduto a terra, una gamba stesa e l’altra premuta contro il petto che sembrava non compiere alcun movimento.
Si stese accanto a lui poggiandogli la testa sulla spalla.
“Cosa sta succedendo Rick?”
“Nulla”, la parola fu appena udibile, “non succede nulla” ripeté cercando di essere più convincente.
“Ti prego, non tenermi all’oscuro. Così io, io non ce la faccio.” Era sull’orlo di una crisi, la voce si stava già incrinando. “È settimane che sei strano ed evasivo. Il telefono squilla anche in piena notte, rispondi ma non dici nulla. E-”
“Non posso dirtelo.” La interruppe sentendola poi sospirare rammaricata. “Però... però potresti tenermi la mano.”
Si accoccolò ancora di più a lui e, allungando il braccio, afferrò la sua mano intrecciando le dita con le sue.




Diletta's coroner:

Parto con una nuova long, sperando di non fare disastri.
Primo capitolo un pò cortino, ma è più che altro un prologo.
Beh... a presto e buona serata!

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Capitolo 2
*** Boston on my mind ***


 

Prima del suo arrivo a New York, era di istanza a Boston. Una carriera brillante, un buon detective. Sapeva come guidare la squadra, era meticoloso, e anche le poche volte in cui agiva d’impeto riusciva sempre a mantenere un certo controllo della situazione.
Uno degli ultimi casi di cui si era occupato riguardava una serie di omicidi che avevano iniziato a minare la tranquillità della città e avevano seminato il panico tra gli abitanti.
La tipologia di vittime era sempre la stessa, donne tra i trenta e i trentacinque anni, rigorosamente bionde. Il modus operandi rimaneva invariato. Un taglio netto lungo la gola, praticato dopo l’attuazione di torture di vario genere; percosse, arti spezzati, tagli superficiali.
Le donne erano generalmente casalinghe, colte di sorpresa la mattina, quando restavano sole dopo che il marito era uscito per andare al lavoro e i figli per andare a scuola.
Tutto portava a pensare che l’SI le osservasse per giorni, per capirne le abitudine, studiarne gli orari, e solo in seguito agiva. Avevano trovato nei giardini, vicino alle alte siepi che separavano le villette, leggere tracce che avvaloravano questa ipotesi.
A trovare le vittime senza vita erano quasi sempre i vicini; legate ad una sedia al centro del salotto, il nastro isolante sulla bocca, escoriazioni su braccia e viso, il sangue ancora fresco lungo il collo.
Quando arrivava con la squadra per fare il sopralluogo il risultato dell’analisi preliminare era sempre uguale. Morte per dissanguamento dovuto alla recisione della carotide. Nessun tipo di impronta differente da quelle di famigliari e amici. Tracce di sangue sul pavimento, sui tappeti o sui rivestimenti in moquette erano inutilizzabili, o addirittura assenti. Venivano riscontrate tracce di candeggina e agenti chimici usate probabilmente per ripulire. Sui vestiti delle vittime alcun tipo di fibra non appartenente a ciò che indossavano, nessun capello.
Un’analisi più approfondita dei corpi confermava solo le supposizioni iniziali, ed escludeva ogni tipo di ferite di difese e di violenza sessuale.
Alla quinta vittima il caso venne passato all’unità comportamentale dell’FBI, ma lui non si diede per vinto.
“Non lascerò la presa Tobias, sono l’unico che potrebbe riuscire a risolvere questo caso, lo so io e lo sai anche tu. Non mi fermerò, non lascerò tutto in mano all’FBI!”
“Non è una decisione mia Richard. Viene dall’alto.” Disse calmo il capo del dipartimento seduto sulla poltrona in pelle. I capelli sale e pepe scompigliati provocavano giochi di ombre sul suo viso segnato dal tempo.
“Beh, io me ne sbatto!” Uscì sbuffante come un toro nell’arena e tornato alla scrivania riprese a guardare le immagini di quelle ragazze seviziate, nel tentativo di trovare anche il più piccolo particolare che potesse essergli sfuggito.
 
Un’altra vittima, un’altra ancora e poi un’altra. Lo ‘Sgozzatore di Boston’, così come lo avevano definito i telegiornali, non accingeva ad arrestarsi e vagava ancora a piede libero.
La nona vittima si chiamava Laurel Jhonson, 29 anni.
Il capitano, ricevuta la notizia, si avvicinò alla sua scrivania e guardandolo negli occhi sospirò “e va bene... C’è stata un’altra vittima, al 12 di Trafalgar Square. Vai, di che sei un agente di collegamento, se abbiamo fortuna non verificheranno nulla. Non sarebbe nei loro interessi opporsi ad un simile ordine, si penserebbe che abbiano qualcosa da nascondere visti anche i recenti scandali.
Scopri quello che puoi, investiga. Hai ragione, sappiamo entrambi che sei l’unico in grado di mettere quel bastardo dietro le sbarre.”
Senza dire una parola corse all’auto catapultandosi sul posto.
Una decina di agenti erano già lì, il nastro giallo intorno alla casa risaltava illuminato dai raggi del sole mattutino sempre più caldo.
Mostrò il distintivo ed entrò. I flash delle fotocamere degli uomini della scientifica si confondevano con quelli dei giornalisti all’esterno della casa. Le voci si mescolavano in un lento e perforante brusio di commenti mescolati “scempio, mostruoso, atroce...” Erano le parole più ricorrenti e le uniche che riuscisse a distinguere chiaramente, ma mai, tra quelle, si sarebbe aspettato di sentire un singulto.
Si avvicinò verso la fonte; ne sentì un altro più forte. Qualcuno piangeva, tirava su con il naso, e poi riprendeva a singhiozzare piano.
“Fate silenzio!” Intimò in un urlo strozzato. D’improvviso quei suoni divennero più chiari, e udì i presenti domandarsi come avessero fatto a non accorgersene prima.
Con passo felpato arrivò davanti al ripostiglio, la luce filtrava all’interno tra le sottili persiane in legno che ricoprivano le ante. Mise mano alla pistola e afferrò cauto il pomello. Aprì l’anta con forza, tanto da farla sbattere contro il muro ricoperto da una carta da parati anaglifta.
Rimase sorpreso da ciò che si trovò davanti.
Due grandi occhi grigi lo fissavano spaventati e pieni di lacrime, il labbro inferiore tremava sotto il peso della paura.
 
Era solo un bambino.
 
Era il figlio minore della coppia.
Aveva solo sei anni.
Quella mattina la madre, quando abbracciandolo si era resa conto che scottava, aveva deciso di tenerlo a casa da scuola.
Dal soggiorno aveva sentito la porta sul retro aprirsi, la madre urlare e poi la parola cattivo uscire dalla sua bocca prima che l’uomo vi posasse sopra la sua mano.
Una parola inusuale da usare, alla quale l’assassino non aveva prestato la dovuta attenzione. Una parola ‘magica’, e il piccolo Kai sapeva bene che quando la sentiva doveva nascondersi più in fretta che poteva. E così aveva fatto.
 
Lasciò la presa sul calcio dell’arma e si accovacciò davanti a lui.
“Ehi campione. Stai bene?” Con un movimento del capo annuì semplicemente, fissando quel viso buffo e simpatico che si era trovato davanti. “Io sono Rick, sono un poliziotto. Ma non come quelli là”, bisbigliò indicando gli agenti dell’FBI che confabulavano tra loro, “io sono più simpatico.” Il bambino gli donò un sorriso. Un po’ tirato, ma era sempre qualcosa.
“Senti, che ne dici di venire con me? Ti faccio fare un giro sulla macchina e accendo anche la sirena.”
Un flebile ok uscì dalle labbra sottili. Lo prese in braccio e, coprendogli gli occhi, lo portò fuori da quell’inferno che avrebbe segnato per sempre la sua vita.
 
Arrivò in centrale tenendolo per mano. Ripose la pistola nel cassetto chiudendolo a chiave e poi lo fece sedere sulla sua sedia.
“Dov’è la mamma?” La sua voce innocente gli graffiò l’animo.
Si appellò al suo istinto di padre, nella speranza di riuscire a trovare le parole giuste. Ma per certe notizie le parole adatte non esistono, tanto meno quando si devono trovare per un bambino, e lui lo sapeva fin troppo bene.
“Kai, ascoltami... Tu eri nascosto nel ripostiglio, giusto?”
“Si...” Rispose distratto, giocherellando con una macchinina trovata sulla scrivania, il modellino di una    Thunderbird del ’64.
“Ti sei nascosto lì perché c’era qualcuno in casa?”
“Si, qualcuno di cattivo. Ha fatto male alla mamma?”
Un’altra domanda, un altro graffio sull’anima.
“Si, Kai, le ha fatto male.”
“E adesso sta bene?”
“No. Vedi, la mamma... non ce l’ha fatta.”
Il bambino alzò la testa, e lui poté notare un cambiamento repentino nel suo sguardo. Il grigio degli occhi si era scurito come granito bagnato dalla pioggia, erano assenti, vuoti.
“Kai, hai capito cosa ho detto, sai cosa significa?”
“Si. La mamma è morta.” Rabbrividì per il tono freddo usato. E nel frattempo cominciò ad odiarsi per quello che di lì a poco gli avrebbe chiesto.
“Ora ho bisogno del tuo aiuto. Ti va di darmi una mano?”
Aspettò invano una qualsiasi risposta, e poi proseguì “ti andrebbe di raccontarmi cosa hai visto?”
Fece rullare le ruote della piccola auto facendo il verso del motore, i piedini dondolavano non arrivando neanche a sfiorare il pavimento, “è entrato un uomo. Ha portato la mamma nel soggiorno.”
“L’hai visto in faccia?”
“Si...”
“Me lo descriveresti?”
“È magro, tanto magro e alto.”
“Ti ricordi come sono i capelli?”
“Corti, corti. Come... I suoi” disse indicando un poliziotto poco distante, i cui capelli radi evidenziavano gli zigomi pronunciati.
“E gli occhi, li hai visti?”
“Scuri. Si era avvicinato perché avevo fatto rumore.”
“Ti ricordi qualcos’altro?”
“La pelle sulla faccia era tutta rovinata, e anche la mano. Anche la nonna ha dei segni simili sul polso, si è scottata quando era piccola. E poi aveva un serpente.”
“Un serpente?”
“Si, proprio qui.” Si toccò l’avambraccio lasciato scoperto dalla polo verde a mezze maniche. “Girava intorno al braccio e si mangiava la coda. Mi faceva paura.”
“Sai”, disse nel tentativo di rincuorarlo, “anche a me fanno paura i serpenti… Era giovane, come me? O magari più vecchio?” Aveva continuato.
“Più giovane di te.”
“D’accordo, sei stato bravissimo Kai. Che ne dici se vado a prenderti qualcosa da mangiare mentre aspettiamo che arrivi il tuo papà?” Si era già voltato quando sentì i suoi polpastrelli afferrargli la mano. “Posso venire anche io?”
Gli sorrise e nuovamente le sue ditina si incastrarono perfettamente tra le sue.
 
Thomas Johnson arrivò a prendere il figlio un’ora più tardi; lo strinse tra le braccia inginocchiandosi davanti a lui. Mimò un grazie con le labbra rivolto a Castle mentre le lacrime gli offuscarono la vista scivolando sulla leggera barba incolta. Poi, con a seguito anche il figlio maggiore, uscì dopo aver lasciato al detective l’indirizzo della sorella a Providence Hill, dove sarebbe andato a stare per un po’.
 
Aveva poche informazioni, quello fornitogli da Kai non era abbastanza per un identikit, e purtroppo il bambino non aveva riconosciuto l’uomo in nessuna delle foto che gli aveva mostrato. Ma era pur sempre qualcosa.
Scese al secondo piano, una giovane ragazza stava comodamente seduta alla sua postazione. I capelli corvini erano fermati sulla nuca con una comunissima matita; la camicia a quadri verdi dava risalto alla sua carnagione chiara e faceva notare maggiormente i riflessi dorati negli occhi marroni. Concentrata  nel battere sui tasti, non si accorse della presenza dell’uomo fino a che questi non si schiarì la voce.
Alzò lo sguardo e subito lo riabbassò.
“Patricia, Patricia, Patricia, ma lo sai che oggi sei un vero splendore.” Nessuna reazione, “devi aver fatto qualcosa hai capelli sono così lucenti, e poi la pelle... è molto luminosa. Hai cambiato crema? E il profumo... è così-”
“Rick, parli sul serio? Dimmi, non insegnerai a tua figlia a ottenere le cose in questo modo, perché temo sarebbe un totale fallimento.”
“Oh andiamo, lo sai che come adulatore sono fantastico.”
“Affatto, sei un vero disastro. Otterresti di più stando in silenzio. Sei un uomo affascinante, ti basterebbe un sorriso.”
“Con te non ha mai funzionato.”
“Io sono diversa!” ammiccò, “andiamo, cosa ti serve?”
“Dovresti cercarmi tra le vittime di incendi, o incidenti domestici aventi a che fare con il fuoco.”
“In che hanno?”
“Chi mi interessa è un maschio bianco che ora dovrebbe avere tra i 25 e i 30 anni.”
“Bene”, sbuffò consapevole che non sarebbe stato semplice, “in che zona?”
“Ehm... Non saprei. Circoscrivila a Boston per il momento e dammi tutti i risultati il prima possibile.”
“È per gli omicidi dello Sgoz-”
“Non chiamarlo così!”, disse duro per poi ammorbidirsi sulla fine,”ti prego.”
“Scusami.”
“No, scusami tu. Si, ha a che fare con lui. Mi trovi di sopra.”
“Farò prima che posso.”
“Grazie, sei un angelo. Ah! Dovrebbe avere un tatuaggio sul braccio, un serpente che si mangia la coda.”
Lei piegò gli angoli della bocca all’in su e lui, esattamente come un’ombra, sparì.
 
 
“L’ho trovato!” A distanza di un paio d’ore dalla loro chiacchierata, entrò nel dipartimento sventolando in aria un foglio fresco di stampa come fosse un trofeo. Lo sbatté sulla scrivania picchiettandoci sopra l’indice soddisfatta, incrociando poi le braccia al petto.
“Peter Tisdale, 24 anni. Otto anni fa la madre lo ha ricoperto di benzina e gli ha dato fuoco sostenendo che il diavolo avesse preso l’anima di suo figlio. Il ragazzo venne portato di urgenza al Saint Joseph. Aveva ustioni di terzo grado sul 5% del corpo, e ustioni profonde di secondo grado sul 30% compreso il viso. Dopo il ricovero è stato affidato alle cure del nonno materno. Circa sei mesi dopo, Peter ha tentato di ucciderlo con un coltello da caccia. Il Signor Harrison se l’è cavata con un taglio superficiale lungo il petto, mentre il ragazzo è stato processato. A seguito della sentenza di infermità mentale e azione compiuta con incapacità di intendere e di volere, è stato rinchiuso nel reparto di psichiatria minorile fino al compimento dei diciotto anni e poi è stato spostato nella clinica sulla Waston. È uscito circa, ehm... Un anno fa.”
“L’hanno fatto uscire?”
“A quanto pare dall’ultima perizia risultava completamente riabilitato.”
“Completamente riab- Ho visto com’è riabilitato!” Urlò incredulo.
 
La giustizia in cui credeva, per cui combatteva ogni giorno era appena crollata davanti ai suoi occhi.
 
“Richard, corrisponde alla descrizione, è vero, ma non è detto che sia lui. Ho cercato a Boston, ma niente ci dice che chi cerchi tu non venga da Los Angeles, oppure dal North Carolina.”
“Hai per caso una foto della madre all’epoca dell’abuso sul figlio?” Chiese ignorando le sua parole.
“Si ma-”
“Fammela vedere.”
Prese la foto dalla cartellina trasparente che teneva sotto il braccio e la fece strisciare davanti a lui sul legno plasticato della scrivania accompagnandola con i polpastrelli. Le unghie laccate di rosso riflettevano la luce della lampada accanto al monitor.
“Bionda, circa trent’anni... Era casalinga?”
“Non esattamente. Era stata licenziata quasi un anno prima, e viveva con il sussidio datole dallo stadio. A quanto pare arrotondava con ‘servizietti’ veloci, se sai cosa intendo.”
“Lui la uccide ogni volta” mormorò a se stesso.
“Cosa?”
“Niente... Hai verificato il tatuaggio?”
“Ho faticato per trovarlo. Alla fine sono risalita al suo indirizzo e ho usato le telecamere di sorveglianza del quartiere. Questo è il fotogramma... Il tatuaggio simboleggia l’infinito. La cosa strana è che ha scelto un Black mamba, un serpente altamente velenoso e letale, per rappresentarlo, un po’ contraddittorio non trovi? Comunque, prima che tu possa domandarmelo, ho già cercato tra le bande della città... Non ha a che fare con nessuna, almeno nessuna conosciuta.”
“No, agisce da solo, lo so che agisce da solo.” Sospirò grattandosi la nuca.
“In ogni caso, quello evidenziato è l’attuale indirizzo. Ora torno di sotto, ho già abbastanza lavoro arretrato.”
“Sei fantastica!” Urlò prima che le porte dell’ascensore la nascondessero alla sua vista.
“Lo so. Sei in debito con me!” Ironizzò facendogli l’occhiolino.
 
Raccolse le carte, le foto appena stampate e, riposte nella tracolla nera, infilò la testa nell’ufficio del capitano.
“Mi prendo mezza giornata libera.”
“Aspetta, hai scoperto qualcosa?” troppo tardi, era andato via.
Tobias si alzò di corsa cercando di raggiungerlo “Richard!” Esclamò affannato, “Castle!”, ma lui era già sparito.
 
Seduto sul sedile della sua auto accese la radio. Ascoltava le canzoni trasmesse distrattamente, ciò nonostante tamburellava a ritmo sul volante.
Il viaggio fino a Providence, visto il traffico, sarebbe durato un’ora e un quarto volendo essere ottimisti, sarebbe arrivato per le diciannove. C’era abbastanza tempo per svuotarsi un po’ la mente prima di riprendere il lavoro.
Il cellulare cominciò a squillare; era tentato di ignorarlo per non infrangere la quiete che era riuscito a creare, ma, quando con la coda dell’occhio vide il viso sorridente di sua figlia, si infilò l’auricolare e rispose.
“Ciao tesoro.”
“Ciao papà. Prima ho chiamato al distretto, credevo ti avrei trovato lì.”
“Sto andando a Providence, ho un’indagine importante da portare a termine.”
“Non fare nulla che io non farei. Stai attento.”
“Stai tranquilla.” ma sapeva bene quanto fosse dura per lei. “Cosa hai fatto in questa bella domenica? Sei già a casa?” Adorava quando gli raccontava la sua giornata. Era un momento dedicato solo a loro. Dove parlavano, ridevano e tornavano insieme ai tempi in cui tutto era meraviglioso.
“Mi sono svegliata presto e sono andata a New York a trovare mamma. Le ho portato dei fiori nuovi, le margherite ormai erano appassite. Credevo che qualche giorno fa mi avessi detto che ci saresti andato.”
 
Meredith era morta cinque anni prima.
Aneurisma.
Non avevano fatto nemmeno in tempo a leggerne i sintomi, a sapere che ci fosse, a sperare di riuscire a curarla.
Da giorni si lamentava del mal di testa che la perseguitava giorno e notte, la luce, anche quella tenue del lampadario sopra la cucina, la infastidiva.
Un mercoledì, era primo pomeriggio, aveva fatto ritorno a casa. Nella fretta quella mattina si era dimenticato dei documenti importanti su di una mensola in soggiorno.
Entrando l’aveva chiamata e, non ricevendo risposta, si era allarmato. L’aveva trovata stesa in bagno, accanto a lei la sua spazzola.
Inutile tentare di fare qualcosa.
Svenendo aveva picchiato la testa contro il lavabo; il sangue aveva macchiato la ceramica bianca.
Si era inginocchiato accanto a lei, l’aveva presa tra le sue braccia e, stretta al suo petto, l’aveva cullata piangente.
Alexis aveva solo 10 anni.
Lui era rimasto per così tanto arrabbiato con se stesso. Era un poliziotto, sapeva difendersi dai criminali, credeva di saper proteggere la sua famiglia, ma non era riuscito a proteggerla da quello. Così avevano cambiato città, lì non c’era più niente per lui. Boston gli era sempre piaciuta, era l’occasione giusta.
 
“Si, no, sono stato molto occupato con il caso, lo sai.”
“Ma non mi avevi detto che lo avevano passato all’FBI...?”
“È complicato tesoro.”
“D’accordo, come vuoi.” bisbigliò rassegnata, “C’è il segnale di chiamata, deve essere la nonna che vuole sapere se sono arrivata.”
“Va bene, salutamela e mangia. Io cerco di tornare il prima possibile.”
“A stasera papà.”
“Ciao pumpkin.”





Diletta's coroner:

E da qui ci rirtroviamo nel passato di Castle, fino a che non ritorneremo esattamente alla fine del primo capitolo!
Che altro dire... grazie per aver letto e buona serata :)

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Capitolo 3
*** Like a fire in a wood ***


 

 

Arrivò quando il sole aveva cominciato a calare. Sceso dall’auto, diede una rapida occhiata al palazzo. Riguardò l’indirizzo sul foglio stropicciato che, piegato in quattro parti, teneva nella tasca dei jeans. Era quello giusto.
L’edificio era abbastanza vecchio, ingrigito e cupo. Cercò il cognome sul citofono laccato in finto oro.
“Si?”
“Signora Johnson? Sono il detective Richard Castle, avrei bisogno di parlare con suo fratello Thomas.”
“Un secondo...” La udì mormorare intimorita prima di sentirla bisbigliare con il fratello. “Le apro subito. Terzo piano.”
“Molto gentile.”
Prese il piccolo ed angusto ascensore. Stretto tra quattro mura infilò la mano nella tasca della giacca cercando qualcosa.
 
“Detective Castle, mi spiace che sia dovuto venire fin qui.”
“Non si preoccupi, è stato un viaggio breve.”
“Ci sono sviluppi sul caso?”
“Veramente-”
“Scusate se vi interrompo.” Ecco di nuovo la voce femminile che gli aveva risposto al citofono. Ora più dolce e meno metallica. “Posso offrirvi qualcosa?”
“Per me nulla, la ringrazio.”
“No, grazie Rose. Stava dicendo?”
“Avrei bisogno di mostrare una cosa a Kai.”
“Vorrei tenerlo lontano da questa storia se non le dispiace. È già abbastanza difficile così.”
“La capisco, ma non glielo chiederei se non fosse importante. Cinque minuti, non di più, glielo prometto.”
“Va bene. Torno subito.”
 
Kai arrivò correndo, si catapultò da lui e gli sorrise. Un sorriso spontaneo, ingenuo, come solo quello di un bambino di sei anni può essere.
“Ciao Kai, guarda cosa ti ho portato.” Dalla tasca tirò fuori una piccola automobilina rosso fiammante.
“Grazie.” Mormorò timido.
“Senti Kai, ti ricordi quando sei venuto con me al distretto?”
Il piccolo annuì convulsamente anche se molto concentrato sul suo nuovo giocattolo.
“Mi hai descritto l’uomo che avevi visto... Facciamo un gioco, ti va? Io ti faccio vedere qualche foto, e tu mi dici se riconosci qualcuno, ci stai?”
“Si.”
“Molto bene.”
Dopo aver preso le foto dalla tracolla le posizionò sul tavolino davanti a sé. Prese il piccolo e lo fece salire sulle sue ginocchia, circondandogli il petto con le braccia per non rischiare che cadesse.
“Allora, che mi dici?”
Il bambino osservò a lungo le foto, mentre nella sua testa si formulavano pensieri come ‘troppo grasso, troppo magro, troppi tatuaggi, troppi capelli, troppo pochi, ha i baffi’. Fino a che non ebbe individuato quello giusto.
Lo indicò con l’indice, stringendosi poi di più al petto del detective.
“Grazie Kai, sei stato davvero bravo.” Commentò soddisfatto.
“Ora perché non vai a guardare un po’ di televisione con Tj?” Alzatosi si allontanò senza dire una parola. “Ehi, non si saluta?” Lo richiamò il padre.
“Ciao...”
“Ciao campione.”
“Lei sapeva già che era questo l’uomo, non è vero?” Aspettò che il figlio si allontanasse prima di porgli questa domanda.
“Corrispondeva alla descrizione fatta da suo figlio, ma non potevo esserne certo. Sono davvero dispiaciuto per quello che state passando, e mi creda, non lo avrei fatto se non fosse stato strettamente necessario.”
“È solo un ragazzo…” constatò mesto, “lo prenderete?”
“Lo spero tanto. La ringrazio per la sua disponibilità.” Si strinsero la mano e Castle poté sentire l’alone di sudore su quella dell’uomo a simboleggiare la sua ansia.
“L’accompagno.”
“Non si disturbi, conosco la strada.”
 
Salì in macchina e guidò di fretta. Aveva una terribile voglia di vedere sua figlia. Quando succedono cose del genere, quando ti avvicini troppo a certe realtà, tanto che riesci in qualche modo a rimanerne scottato, qualcosa si muove dentro di te. Lui aveva visto il modo in cui Thomas avrebbe potuto perdere il figlio, e in lui era scattata una molla. Ne aveva sentito il chiaro ed indiscusso clic, si era innescata quella parte di carattere che lo faceva diventare  iperprotettivo. Si era innescata la paura di poterla perdere e la consapevolezza che senza di lei sarebbe morto anche lui.
 
La radio accesa stava trasmettendo le news delle ultime ore. Stava ancora pensando ad Alexis quando una notizia gli fece tendere l’orecchio. Con un gesto automatico alzò il volume.
 
‘Rilasciato oggi l’identikit dello Sgozzatore di Boston’, ogni volta che lo appellavano così sentiva una morsa terrificante alla bocca dello stomaco. La trovava un’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle vittime e dei loro cari. Lo vedeva come un modo di allentare la tensione, ma il tono con cui veniva pronunciato quel nominativo… sembravano volerci scherzare sopra. ‘Il serial killer sarebbe stato identificato. Si tratterebbe di Peter Tisdale, recluso per anni in una clinica psichiatrica e rilasciato lo scorso anno. Il portavoce dell’FBI, che ha tenuto la conferenza stampa poche ore fa, ha sottolineato l’impegno della squadra nel catturare l’assassino.’
Era quasi arrivato a casa, fece bruscamente inversione e, accompagnato dallo stridore degli pneumatici, si diresse di volata al distretto.
 
“Che cos’è questa storia Tobias?”
“Buona sera Richard.”
“Allora?” Intimò sbattendo entrambi le mani sulla scrivania.
“Di cosa parli?”
“Non fare finta di nulla! Come ha fatto la stampa a sapere di Peter Tisdale?”
“Non ho avuto altra scelta Rick.”
“Si ha sempre una scelta. Patricia non avrebbe dovuto…”
“Patricia non c’entra nulla. L’FBI è venuto qui, non ho potuto fare niente.”
“Ancora non eravamo certi fosse lui il nostro uomo. E se mi fossi sbagliato?”
“Ma non è così non è vero?”
“Non avevano il diritto di-”
“Lo avevano invece. Il caso è loro. Non mio, non tuo… loro. Ho sbagliato io a lasciarti andare in quella casa.”
“Se non ci fossi andato a quest’ora quel bambino sarebbe ancora dentro al ripostiglio!”
“È vero, ma ormai non puoi farci nulla. Sono andati a penderlo.” Disse rassegnato il capitano.
“Cosa? Devo andare.”
Tobias scosse la testa; non sarebbe mai cambiato.
 
Arrivò alla casa. La rete intorno alla proprietà e il cancelletto erano arrugginiti, l’erba del prato inaridita.
Infilò il giubbetto avvicinandosi agli agenti. Fortunatamente sembrava non fossero ancora intervenuti.
Non voleva che per sfuggirgli si facesse uccidere, o peggio, si uccidesse. Doveva pagare per il male commesso, non poteva scamparla con un atto estremo.
 
Si schiarì la voce alle spalle di un uomo corpulento, intento ad impartire ordini senza, almeno per Castle, avere la minima idea di quello che stava facendo.
“Mi scusi, agente Fallon, giusto?” Quando si voltò verso di lui, Richard vide due occhi scuri, torvi, scrutarlo perplessi.
“Si, lei è…?” Domandò storcendo il naso.
“L’uomo senza il quale non avreste mai scoperto la sua identità.” Disse sicuro indicando la proprietà.
“Bene. Presuntuoso il ragazzo.” Suggerì ai colleghi voltandosi verso di loro. Quando tornò ad incontrare gli occhi di Castle li vide lanciare fiamme.
“Mi ascolti bene. Il ragazzo è mentalmente instabile, sarà arrabbiato, spaventato, non potete permettervi che faccia sciocchezze.”
“Vorrebbe insegnarmi a fare il mio lavoro?”
“È anche il mio di lavoro. Il fatto che faccia parte di un’agenzia governativa non la rende migliore o superiore. Volete prenderlo vivo? Fateci parlare me, saprò convincerlo.”
“Non se ne parla. Vuole stare qui? Faccia pure, ma non intralci me o i miei uomini.”
“Sbruffone…” sibilò Richard a denti stretti. Sarebbe rimasto lì, nessuno lo avrebbe mandato via. Non ci sarebbero riusciti neanche con la forza.
 
 
Quando finalmente mise piede a casa albeggiava appena.
Lanciò la giacca sul divano mancandolo, ma, senza scomporsi, la lasciò a terra ed andò a prendere qualcosa di forte da bere. Poco gli importava se il suo turno sarebbe cominciato tra poco più di tre ore.
L’azione intrapresa era durata a lungo ed era stata un completo fallimento.
Era stato costretto a rimanere in silenzio, a guardare mentre se lo facevano scappare da sotto il naso.
Il tentativo di farlo uscire non aveva funzionato. Peter, come previsto da Castle, era impazzito, si era terribilmente spaventato, convinto di essere intoccabile e che nessuno lo avrebbe mai scoperto. La sua psicopatia era tornata ad invaderlo dal profondo. Aveva minacciato di uccidersi, poi di uscire e sparare a tutti.
‘Chi cazzo mi ha scoperto, chi?!’
Aveva urlato nascosto dallo stipite della porta. Erano partiti un paio di colpi che avevano scheggiato la porta di ingresso.
‘Basta o sparo, sparo e mi ammazzo, giuro che lo faccio!’ era nevrotico oramai; si era torturato il viso, gli occhi iniettati di sangue, aveva perso ogni controllo. ‘voglio sapere chi!’ aveva ripetuto.
E dalla bocca di Fallon, attraverso il megafono, era uscito quel nome.
“Il detective Richard Castle.”
Castle non aveva detto nulla. In quel momento probabilmente anche lui avrebbe fatto il nome che gli era stato richiesto, ma, ripensandoci ora, non poteva fare a meno che essere infuriato, amareggiato… preoccupato.
Ricevette una chiamata, il telefonino aveva vibrato estendendo il tremolio lungo il suo corpo.
Si era allontanato di qualche passo prima di rispondere “Pronto?”
“Richard? Sono Patricia. Ho scoperto qualcosa che credo possa esserti utile visto dove sei ora.”
“Come fai a sapere dove mi trovo?”
“Ho le mie fonti, ho orecchie ovunque. Ora ascoltami bene. Peter divide la casa con un ragazzo, Samuel Hunt. Potrebbe essere dentro in questo momento.”
“D’accordo. Devo andare.”
“Rick… sii prudente.”
“Non lo sono sempre?”
Era tornato indietro correndo e il giubbotto antiproiettile aveva sfregato contro la parte superiore delle cosce.
“Agente Fallon. Mi hanno appena comunicato che Tisdale divide la casa con un suo coetaneo, un certo Samuel. Potrebbe averlo come ostaggio.”
“Un ostaggio? Ne è sicuro?”
“No, ma…”
“Questo mi basta.”
“Non può ignorare questa possibilità.”
“Non la ignorerò, ma lei si faccia da parte.”
 
Seguirono colpi, altre urla, ed infine uno sparo dentro la casa che arrivò alle loro orecchie acuto come lo stridore delle unghie su di una lavagna.
Castle si era catapultato all’interno, ignorando il divieto impartitogli da una voce roca, ma energica.
Il cadavere di Samuel giaceva riverso sul pavimento accanto ad una botola socchiusa.
Non ci aveva pensato due volte e l’aveva aperta, ma neanche un passo era riuscito a fare prima di sentire l’imponente mole dell’agente Fallon contro il suo corpo. Gli aveva impedito di intervenire, lo aveva bloccato, letteralmente, e lui non aveva voluto mettersi a discutere in quel frangente. L’unica cosa che gli importava, a quel punto, era riuscire a fermarlo.
Era l’unica cosa che contava, e l’unica che, invece, non erano riusciti a fare.
 
Si domandava ancora come fosse riuscito a scappare, come avessero fatto a perderlo lì, in quel cunicolo che sbucava sul lato opposto della strada.
Peter era scomparso, dileguato nell’oscurità della notte.
 
 
Si scolò un paio di bicchieri di whisky; si incamminò verso la camera della figlia e rimase un po’ guardarla dormire. Rigirandosi nel letto si scoprì, a coprirle le gambe c’erano solo i corti pantaloncini che usava come pigiama, e per un attimo le sembrò di rivederla bambina. Si avvicinò cauto, per non turbare il suo sonno, le tirò su il lenzuolo e le lasciò un bacio tra i capelli ramati.
Stava crescendo in fretta, e più il tempo passava, più si convinceva che somigliasse alla madre, soprattutto esteriormente.
Nei suoi occhi rivedeva lei.
 
La mattina dopo si svegliò con un forte mal di testa. Lanciò una distratta occhiata intorno a sé. La camicia e i pantaloni che si era tolto la sera prima erano appesi alla maniglia della porta, le scarpe erano all’ingresso della camera, le aveva lasciate lì con particolare non curanza.
La giacca doveva essere ancora sul pavimento in salotto.
Prese il cellulare accendendolo; 4 chiamate perse dal distretto. Per ultima diede una scorsa all’orario constatando di essere in ritardo.
Alzatosi, corse in cucina per farsi un caffè tentando così di svegliarsi il più possibile prima di andare al lavoro e la trovò intenta a preparare la colazione.
“Alexis, cosa ci fai a casa?”
“Ieri ti ho aspettata alzata, alle tre non vedendoti tornare sono andata a dormire, ero preoccupata.”
“Mi dispiace.”
“Non fa nulla”, disse sorridendogli angelica, “ad ogni modo…” proseguì dopo aver assaggiato le uova, “quando mi sono svegliata ho controllato se ci fossi, e visto in che stato eri, e in che condizioni era la stanza, ho creduto che ti avrebbe fatto piacere una bella colazione. Se salto un girono di scuola non succede nulla. Più tardi chiamo Julia e mi faccio dare i compiti.”
“Te l’ho mai detto quanto sei straordinaria e quanto ti voglio bene?”
“No, non nelle ultime ventiquattro ore almeno.” Scherzò.
“Ti voglio bene tesoro. Non dimenticarlo mai.” Disse con tono improvvisamente serio.
“È successo qualcosa?” Chiese mentre si sentiva stringere nel suo caldo e confortevole abbraccio.
“Attacco di genitorite acuta.” Mentì dandole poi un bacio sulla guancia.
 
Come avrebbe potuto dirle che temeva che quel pazzo lo avrebbe trovato e ucciso?
Non poteva, non doveva.
 
Se solo avesse saputo quanto la sua teoria fosse stata sbagliata forse… forse gliene avrebbe parlato, forse l’avrebbe mandata via per un po’, magari dalla nonna.
Forse l’avrebbe protetta.
 
Erano un grande Forse e un grande Se. Ed entrambi ora gli bruciavano dentro come fuoco divampato in un bosco.

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Capitolo 4
*** Bitter death ***


 

L’agente Fallon si era lamentato del comportamento indisciplinato tenuto da Castle durante l’operazione, così che il capitano del 9th distretto si era ritrovato con le spalle al muro. Quando quella mattina arrivò trafelato, stanco, irritato, in ritardo, Tobias era già alla sua scrivania ad aspettarlo.
“Sei in ritardo, e non hai un bell’aspetto. Non ti vedevo con certe occhiaie da… beh, da anni.” Lo sfotté, rincarando la dose, ancora prima che gli arrivasse davanti. “Sei nei guai. L’FBI è venuto a fare storie. Hanno cercato di rifilarti la colpa per ciò che è successo ieri notte. Sono riuscito ad evitarti un richiamo disciplinare e la sospensione, ma mi hanno messo alle strette e… per un po’ non potrai seguire alcuna indagine sul campo.”
“Allora preferisco essere sospeso” disse acido sorridendo amaramente.
“Cerca di capire, ho le mani legate, e l’unica cosa che posso fare è mandarti negli archivi a sistemare carte arretrate.”
“Perché negli archivi, perché non qui?”
Il capitano si alzò e gli si mise accanto. Gli circondò le spalle cominciando a dirigersi verso il seminterrato.
“Se sarai di sotto non ti farai distrarre da altri casi, e soprattutto potrò portarti informazioni riguardo il caso Tisdale, lontano da occhi e orecchie indiscrete.”
Un poco contrariato si lasciò convincere.
 
Il tempo passava a rilento. Forse per via della luce fioca che ogni tanto faceva le bizze, o per la quantità di polvere che riempiva quel luogo di un odore acre e pungente.
Domandandosi saltuariamente come mai nessuno avesse mai dato una ripulita, riordinava fascicoli, riempiva scartoffie, contrassegnava scatoloni, nella speranza che gli arrivassero presto notizie. E ancora gli rimbombava nella testa la frase sentita alla radio quella mattina.
 
‘Peter Tisdale, ormai noto come lo Sgozzatore di Boston, è riuscito a sfuggire all’arresto questa notte. Poche sono le notizie trapelate circa l’accaduto. Pare che la colpa sia riconducibile all’azione avventata di uno degli agenti, ma nulla è certo.’
 
Indolenzito si stiracchiò e guardò l’ora.
 
Erano le 22.38
 
Non credeva fosse già così tardi.
A passo spedito e deciso, salì le scale e percorse il lungo corridoio che lo avrebbe condotto all’ascensore.
“Ehi Castle, riemerso dall’inferno?” Lo schernì un collega.
“Molto simpatico Dimitri. Mi sa tanto che se avrò bisogno di un aiuto suggerirò il tuo nome.”
“Ho capito, sto zitto.” Alzò le mani in segno di difesa passandosele poi tra i radi capelli biondi.
 
Dimitri era arrivato al 9th distretto due anni prima. Inserito da subito nella squadra di Castle, si era trovato immediatamente a suo agio. Il suo lieve accento ucraino e i suoi tratti marcati, tipici dell’Est, gli davano un’aria dura e severa, l’opposto del suo carattere.
Con Rick era nata una bella amicizia anche fuori dall’ambiente lavorativo. Aveva capito come prendere quel detective ogni tanto un po’ burbero. Sapeva quando era il momento di aiutarlo, o di lasciargli fare le cose da solo, ed inoltre, con l’aiuto di Castle, era anche riuscito a sciogliersi un po’.
 
“Bravo...” Lo redarguì ironico facendogli l’occhiolino e li augurò una buona serata. Poi, passando davanti all’ufficio del capitano, lo vide salutarlo con un sorriso e un lieve cenno di mano dopo essersi sfilato gli occhiali da lettura.
Non appena salì in macchina, infilò le chiavi nel quadro. La radio si accese immediatamente quando diede un po’ di corrente. Non aveva voglia di sentirla e, dopo averla spenta, riservò il medesimo trattamento al cellulare.
Si mise la cintura, fece manovra per uscire dallo stretto parcheggio in cui era riuscito ad infilarsi miracolosamente quella mattina, e si diresse verso casa.
 
22.46
 
Il telefono al distretto squillò nel momento in cui il detective dell’Europa dell’Est aveva spento il computer.
Uno squillo.
Due squilli.
La luce sulla sua scrivania cominciò a sfarfallare fino a spegnersi.
 
Tre squilli.
Fissò la cornetta nera vibrare leggermente a seguito del trillo.
 
Quattro squilli.
Alzò il ricevitore portandolo tremante all’orecchio.
Qualcosa non andava, provava la strana sensazione che fosse appena accaduto qualcosa di brutto e sgradevole.
“Detective Sokolòv.”
 
22.51
 
Spazientito sbatté le mani sul volante. Come mai tutto quel traffico a quell’ora?
Si procedeva a rilento. Aveva preso la solita scorciatoia, ma, quella sera, avrebbe fatto meglio a scegliere la strada principale.
 
Guardò alla sua sinistra, un bicicletta lo aveva appena sorpassato.
 
In lontananza si sentivano le sirene di un’ambulanza.
“C’è chi sta peggio di me” si ritrovò a pensare mentre si passava la mano lungo il collo nel tentativo di sciogliere la tensione accumulatasi in quel punto.
All’improvviso un’auto si inserì nella sua corsia, qualche metro davanti a lui.
I clacson presero a suonare impazziti, il conducente del taxi urtato scese imprecando. Riusciva solo a vederne i contorni, illuminati dai fari delle macchine provenienti dalla corsia opposta.
Sperò di non dover essere costretto ad intervenire, che riuscissero a risolvere tutto in fretta. Voleva tornare a casa.
 
22.57
 
La carnagione di Dimitri si fece ancora più pallida mentre annotava sul block notes l’indirizzo.
Sospingendosi con le braccia al bordo della scrivania, vi ci si allontanò e corse nell’ufficio del suo superiore facendovi irruzione.
“Capitano, c’è stato un omicidio.”
L’uomo dai capelli brizzolati quasi sorrise sentendo il suo accento storpiare, anche se di poco, le parole appena pronunciate. “Sai come procedere Sokolòv.”
“Signore, l’indirizzo... l’indirizzo è...” non riuscì a dirlo, così gli allungò l’agendina.
“Dannazione!”
Fece radunare tutti gli agenti disponibili. Il caso doveva avere la massima priorità.
Le volanti partirono a sirene spiegate, i lampeggianti blu si riflettevano in quel buio sceso troppo velocemente.
Tobias provava imperterrito a chiamarlo al cellulare.
Niente.
Sempre staccato.
Sbraitava e imprecava mentre inseriva una marcia dietro l’altra. Si ritrovò a bestemmiare contro la voce registrata della segreteria.
“Andiamo diamine. Rispondi! Dai cazzo, accendi quel cellulare!”
Ma le sue preghiere non vennero ascoltate.
Il cellulare era sempre spento.
 
23.32
 
Ancora non aveva svoltato nella sua via, e già in lontananza poteva vedere la luce intermittente delle sirene farsi spazio tra il cielo stellato.
Abbandonò l’auto in mezzo alla carreggiata e, velocemente, si fece strada tra le ombre fino a raggiungerne una conosciuta.
“Dimitri c-che succede?”
“Rick, mi dispiace, mi dispiace tanto.”
“D-di cosa ti dispiace, che succede? Dov’è Alexis?”
L’ucraino non disse nulla, si limitò a puntare gli occhi nei suoi, mischiando l’azzurro del cielo con il blu del mare.
“N- no… no, Alexis, Alexis no. Devo andare da lei.” Balbettava sentendo un peso nel petto. Il solo pensiero della sua morte lo stava già corrodendo, lentamente, infidamente.
“No amico.” Gli si parò davanti, stringendolo tra le braccia.
“Lasciami andare! Devo andare da lei, devo! Lasciami!” Si dimenò, spinse contro il petto del ragazzo, ma non riuscì a trovare la forza necessaria per buttarlo a terra. Era svanita, lasciando spazio solo alla debolezza.
“Non entrare Rick.” La voce profonda di Tobias si avvicinò a loro, “non voglio che tu la ricordi così.”
Le narici si allargarono permettendo a molta più aria di entrare, lo sguardo si fece sanguinolento; i denti digrignavano senza sosta.
“Ho detto fammi entrare” scandì bene, “è di mia figlia che stiamo parlando porca puttana!!”
“Come vuoi.” Si fece da parte lasciandogli il via libera, lo guardò fiondarsi nel palazzo e salire le scale due gradini alla volta, gli ultimi tre con un balzo solo.
 
Tutto parve bloccasi al suo ingresso.
 
La vicina era stata colta da uno dei suoi attacchi di singhiozzo; il rimedio più efficace per lei era sempre stato un buon bicchiere di acqua zuccherata. Aveva aperto l’antina sopra i fornelli in cerca dello zucchero, ma la ricerca non diede buoni risultati. Si era dimenticata di comprarlo quando quello stesso pomeriggio era andata a fare la spesa. Uscì sul pianerottolo bussando alla porta accanto pregando di non disturbare nessuno. Con il lieve colpo dato dalla mano chiusa a pugno, la porta socchiusa si aprì, e lo spettacolo che si trovò di fronte fu talmente raccapricciante, che il singhiozzo svanì.
 
Il medico legale fece in modo di restare solo vicino a quel corpo senza vita coperto dal leggero lenzuolo bianco.
Ogni cosa gli risultava sfocata, annebbiata, ogni suono ovattato.
Il flash di una macchina fotografica lo raggiunse alle spalle, facendogli intravedere il cadavere della sua bambina nella trasparenza del tessuto.
Si era accasciato a terra e le aveva scoperto il volto.
Un gioco della sua mente gli ripropose il suo sorriso meraviglioso e la sua risata cristallina gli rimbombò negli orecchi.
Le sfiorò i capelli ora zuppi del suo stesso sangue, osservò le posizione innaturale della sua gamba. La carezzò lungo la guancia sfiorando quel taglio ancora fresco.
Anche il suo stesso cuore cessò di battere, spezzato a metà, accartocciato come un foglio di carta buttato nel cestino.
 
Non versò neanche una lacrima. Si alzò lentamente, sentendo la stanchezza pesargli addosso come se fosse invecchiato improvvisamente. Entrò in bagno avanzando a testa bassa per non incontrare sguardi compassionevoli. Si sciacquò il viso nella penombra della stanza e, quando lo rialzò, la sua immagine si riflesse sullo specchio frastagliata tra quelle parole vermiglie.
‘detective, stai soffrendo?’
 
Lasciò la casa, ma non sua figlia, quello che era sdraiato nel salotto della loro casa era solo un semplice involucro, un contenitore di cui ora non si sarebbe più servita.
Non poteva pensare a quanto avesse sofferto, o il dolore sarebbe stato troppo da sopportare, lancinante come una lama che ti trapassa da parte a parte, amaro come il retrogusto del suo passato.
 
Sua madre lo raggiunse immediatamente.
Prenotò una camera d’albergo, dove sarebbero potuti stare per i prossimi giorni.
Quando lo vide, scesa dall’aereo, lasciò andare il borsone e lo strinse a sé senza dire nulla. Pianse in silenzio, senza poter impedire però al suo petto di compiere movimenti convulsi.
Lui raccolse il bagaglio da terra e la condusse alla macchina.
Stettero in silenzio, si poteva udire il gorgoglio del motore, le foglie scorrere sulla strada come a  gareggiare con le vetture. I ciottoli gracchiare sotto i pneumatici, il rumore metallico dei cartelli piegati dal vento.
 
Martha aveva predisposto tutto per il funerale. La salma sarebbe stata trasferita a New York, la lapide in marmo bianca sarebbe andata a tenere compagnia a quella della madre al cimitero Green Wood e venerdì si sarebbe tenuta la cerimonia.
 
Richard aveva passato le ultime due notti insonne al distretto, aspettando che arrivasse qualche notizia dai posti di blocco posti all’uscita della città, oppure dagli aeroporti o dalle stazioni ferroviarie e degli autobus.
Ogni minuto gli veniva in mente qualcosa, il suo cervello non riusciva a spegnersi.
 
Pensava e pensava.
 
Peter avrebbe potuto tranquillamente fare l’autostop, obbligare un camionista a farlo nascondere nel retro del furgone. Aveva sempre una pistola con sé. Probabilmente era già riuscito a lasciare la città senza che loro potessero fare nulla.
 
 
Giovedì sera aveva raggiunto New York.
Quando le porte scorrevoli dell’aeroporto si aprirono, inspirò forte l’odore della città. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta.
 
Lasciò che sua madre salisse su di un taxi e lui, a piedi, girovagò fino a raggiungere il cimitero.
Passeggiava frenetico davanti la tomba della moglie senza saper che dire, fino a che le parole non uscirono di getto dalla sua bocca.
“Non ho mantenuto la promessa. Non ce l’ho fatta. Quando è nata ti avevo giurato che l’avrei protetta sempre. E invece, invece… perdonami Meredith, ti prego, perdonami. Non ti sono venuto a trovare per tanto. Non ci riuscivo, mi sentivo così in colpa, e ora questa colpa è divenuta enorme. Ti ho abbandonata e ho paura che accadrà lo stesso ora che lei sarà di nuovo con te. Voglio solo che tu sappia che vi ho amate con tutto me stesso, che vi amo come la prima volta che ho incontrato i vostri sguardi.” Inginocchiato davanti alla lapide la carezzò come a carezzare il volto della donna che vi era seppellita. “E se non verrò”, proseguì alzandosi, “non è perché vi ho dimenticate o sono andato avanti, ma perché sono troppo codardo per affrontare tutto questo.”

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Capitolo 5
*** New York, New York ***


 

La cerimonia fu una cosa tranquilla, ad adornare il feretro una corona di tulipani, i suoi preferiti; rossi, simbolo di amore, e gialli, simbolo di un sorriso donato per illuminare la giornata. Martha aveva pianto, nascosta dai grandi occhiali neri, mentre teneva il discorso sul piccolo ambone.
Vecchi amici gli avevano lasciato una pacca sulla spalla nel mero tentativo di consolarlo. C’era chi cercava di dagli conforto con espressioni come ‘ora è in un posto migliore’, ma non si rendevano conto di quanto a lui suonasse stupida quella frase.
In un posto migliore? No. Sarebbe dovuta essere era accanto a lui, quello era il posto migliore dove potesse essere.
 
A casa la madre lo aveva supplicato di tornare a vivere a New York. Aveva bisogno di qualcuno che gli stesse accanto, e ora aveva solo lei. E poi doveva stare vicino a sua moglie e sua figlia.
“Ragiona, sei andato a Boston perché non avevi più nulla per cui vivere qui. E ora che cosa ti è rimasto là?”
“Non posso andarmene, devo trovarlo.”
La donna si passò la mano sulla fronte madida “Hai detto tu stesso che ormai è perduto. Se ci saranno notizie sai bene che ti avvertiranno. Devi stare qui, con loro.” Lo supplicò indicando la foto sulla mensola sopra il caminetto.
 
Ricordava esattamente quando era stata scattata. Festeggiavano il quarto compleanno di Alexis. Lei e Meredith avevano passato il pomeriggio a preparare la torta. Inutile dire in che stato fosse ridotta la cucina quando lui era tornato a casa. La farina era ovunque, l’impasto al cioccolato era finito sui fornelli e misteriosamente anche sul frigo. Ma non ci fece caso quando vide la sua bambina andargli incontro sorridente con le manine piene di glassa.
La prese in braccio e le diede un bacio sulla guancia bianca, poi si avvicinò alla moglie premendo le labbra sulle sue.
La sera a cena Martha aveva scattato quella foto, poco prima che portassero in tavola la torta.
 
Gli prese la manie tra le sue stringendole con forza, portandolo lontano da quel ricordo. “Vedrai che non obietteranno per un tuo trasferimento.”
 
E così era stato. Riassegnato al 12th distretto di New York.
 
Cinque anni erano passati, e molte cose erano cambiate in quel luogo. I suoi vecchi compagni erano stati riassegnati ad altre unità, avevano fatto carriera, oppure cambiato direzione passando dall’omicidi alla narcotici. Solo una cosa era rimasta sempre la stessa, e lui non poté che esserne felice.
“È bello riaverti qui Richard, mi dispiace solo la circostanza.”
“Già...” annuì mormorando a denti stretti.
“Se hai bisogno di qualunque cosa. Se tu e Martha avete-”
“Ho bisogno di mettermi al lavoro Roy, niente altro.”
Distrarsi dalla mancanza di Alexis era l’unica cosa a cui pensava.
“Sei sicuro? È presto, è successo da poco.”
“Per favore, non posso restare con le mani in mano.”
“Molto bene, allora”, sospirò rassegnato, staccandosi dalla scrivania alla quale si stava sostenendo, “lascia che ti presenti la squadra.”
 
Era uscito dall’ufficio con Castle a seguito. Due dei tre detective riabbassarono immediatamente il capo sulle carte davanti a loro, cercando invano di non fra trapelare il loro interesse verso quell’uomo arrivato qualche minuto prima.
Il capitano si schiarì la voce, “detective, vorrei presentarvi il detective Castle. Da oggi farà parte della squadra. Castle, loro sono il detective Ryan, Esposito, e il detective Beckett.”
Solo allora, sentendo il suo nome, la donna alzò la testa incrociando lo sguardo del nuovo arrivato.
Lui la scrutò a fondo. Nei suoi occhi verdi aveva trovato più di quanto potesse immaginare, aveva trovato la pace.
 
I primi mesi furono duri, tanto per lui quanto per i suoi colleghi. Lavorava e basta, sembrava quasi non allontanarsi mai dalla sua scrivania. Lui e il suo cellulare vivevano in simbiosi; sempre acceso, volume al massimo, sempre in tasca, in attesta di risvolti e buone notizie circa Tisdale che non arrivavano, e che -anche se non ne aveva la minima idea- non sarebbero mai arrivate.
Non aveva legato con nessuno. Non era riuscito ad inserirsi come avrebbe voluto.
Se lo avessero conosciuto qualche anno prima, lo avrebbero trovato una persona estremamente socievole, forse fin troppo, quasi invadente.
Il Richard Castle dei tempi andati delle volte gli mancava. Sentiva la mancanza di quella parte infantile e giocherellona che aveva fatto innamorare Meredith di lui. Adesso tutto era così diverso, e quella parte della sua vita gli sembrava solo uno sbiadito ricordo.
Kevin aveva provato più volte a farlo sbottonare sulla sua vita prima del ritorno al 12th, ma non c’era stato verso. E alla fine, Javier, aveva aggiunto la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Seduti ad un bancone era arrivata la domanda diretta e scomoda, alla quale Castle non poté che sottrarsi fuggendo via, come ultimamente era solito fare. E così, all’interno di quel bar, dopo che la sua birra, in conseguenza a quel movimento brusco, era caduta disperdendosi a terra tra le fughe delle mattonelle andando a ricreare un disegno in perfetto stile Jameson Pollock, rimase solo il brusio assordante della clientela che aveva continuato a ridere e divertirsi ignara di tutto, e il silenzio dei tre rimasti al tavolo.
A seguito di una breve ramanzina per l’insistenza e il poco tatto usato dai colleghi, la detective corse fuori nel tentativo di raggiungerlo. Lo vide ciondolare prendendo a calci i ciottoli che incontrava sul suo cammino sotto la fioca luce di un lampione mentre il soffice venticello autunnale gli carezzava cordiale il viso.
Lei sapeva cosa volesse dire portarsi dentro un peso, il peso della morte di una persona cara. Sapeva cosa volesse dire sentirsi interrogare in merito fino a che, almeno una parte di verità, non usciva allo scoperto.
È sempre stata convinta che tra poliziotti, soprattutto tra partner, non ci dovessero essere segreti, anche se lei era la prima ad aver omesso parte della sua storia.
Guardarsi le spalle fa parte del loro lavoro. Conoscersi significa sapere se si può contare sull’altro, sulla sua protezione.
E la perseveranza usata dai suoi compari nel tentare di carpire qualche informazione in più da quell’uomo così serio, concentrato e chiuso in se stesso, era solo un modo, forse un po’ contorto, per fargli capire che di qualunque cosa avesse avuto bisogno avrebbe potuto contare su di loro, e lei lo sapeva bene.
Invano aveva tentato di convincerlo a tornare dentro, e dopo un ultimo, profondo, e penetrante sguardo, lo aveva visto andarsene con le mani nelle tasche e il colletto della camicia sollevato a proteggergli il collo da quel vento ora pungente.
Si carezzò la catenina che teneva al collo prima di tornare dentro. Aveva bisogno di parlarle, ‘faccia a faccia’ e la mattina dopo sarebbe stato il giorno perfetto. Un saluto, seppur breve, prima di andare al distretto, sarebbe riuscita a farlo, come del resto faceva ogni 2 novembre da dieci anni.
 
Il sole pallido disperdeva un debole tepore.
Si fermò al solito negozio.
La campanellina in ottone trillò non appena aprì la porta.
Il proprietario le sorrise gentile sistemandosi gli occhiali sul naso “Katherine, mi stavo giusto domandando quando saresti arrivata. Puntuale come sempre.”
“Già. Come sempre...”
“Allora, quali fiori ti do quest’anno? C’erano dei fantastici tulipani rossi, ma li ha acquistati un signore qualche minuto fa.”
“Oh, non fa nulla signor Thompson, a dir la verità pensavo a quelli bianchi. Non glieli porto da tanto.”
“E tulipani bianchi siano!” Confermò allegro andando a prenderne un mazzo nello scaffale dietro al bancone.
La carta argentata brillava mentre la ripiegava attorno ai sottili e fragili gambi; raccolse la carta velina e la fece scivolare sotto i fiori per poi avvolgerceli dentro con estrema cura.
“Ecco a te, e... Tieni, lasciale questa da parte mia” le allungò una rosa gialla.
“Sarà un piacere. Buona giornata.”
“Buona giornata a te.”
 
Lasciò i fiori nell’apposito vaso, sistemando la rosa nel mezzo.
“Noto che papà è già passato.” Asserì osservando un mazzo di rose rosse lasciate accanto alla lapide, in modo che il vaso rimanesse vuoto per i fiori che avrebbe portato lei.
“Sto cominciando a pensare che, che forse dovrei mostrare il tuo fascicolo a Ryan ed Esposito. Sai, ho bisogno di parlarne con qualcuno. Ci sono giorni in cui mi sento scoppiare. Vorrei avere qualcuno con cui confidarmi, qualcuno che possa capire quello che provo.”
Si voltò, per impedire che sua madre vedesse le sue lacrime, e poco distante, qualche fila più indietro, lo vide. Incrociò il suo sguardo sorridendogli.
“Torno dopo mamma.” Sussurrò incamminandosi verso di lui.
“Ehi, io n-”
“Cosa fai, mi segui adesso? Tutto il discorso di ieri del ‘non sei costretto a dire nulla. Lo fanno solo perché siamo una squadra’ era tutta una balla?”
Il sorriso dal viso della detective disparve con velocità “non ti seguo, affatto. Vedi quella lapide? È quella di mia madre,vengo qui ogni anno alla stessa ora in questo giorno, a meno che non ci sia un omicidio che mi richieda sul campo. Quindi no, non ti seguo, e quelle di ieri non erano balle.”
Adirata gli diede le spalle, ma quando tentò di allontanarsi sentì la sua stretta attorno al polso.
“Aspetta. Perdonami... Sono paranoico ultimamente. Scusami.”
Lasciò la presa, aspettando di sentirle dire qualcosa. “Non fa niente.”
Con l’indice le indicò le lapidi davanti a loro.
“Lo-loro sono...” Maledì se stesso per non riuscire ancora a parlarne al passato, “erano mia moglie e mia figlia.”
“Mi dispiace molto.” Lo vide annuire e gli occhi brillare pieni di acqua salta. “È per questo che, si beh, che sei andato via da Boston?”
“Si. Sai, quando sua madre è morta, io e Alexis siamo diventati ancora più legati. Ci dicevamo tutto, ma io non le ho detto una cosa importante, credevo di tenerla al sicuro così, e invece ho fatto l’esatto opposto. E ho perso anche lei, e mi sento smarrito, totalmente smarrito...”
Kate fissò il marmo bianco lucido, le eleganti lettere nere in basso rilievo; le date a testimoniare la giovinezza delle vite che la morte aveva rubato e portato via con sé. Gli occhi le caddero poi sui fiori... Tulipani.
 
Tulipani rossi.
 
“Tua madre come è morta, se posso chiederlo.” Domandò dopo qualche secondo di esitazione.
“Vieni, ti offro un caffè. Aspetta solo un istante.”
Diede un ultimo saluto alla madre promettendole che sarebbe tornata presto.
Forse aveva finalmente trovato qualcuno con cui aprirsi e che l’avrebbe capita.

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Capitolo 6
*** You make me feel alive ***


 

La piccola caffetteria era gremita di gente, ma un tavolo per Kate il proprietario lo trovava sempre.
“Ti porto il solito Katie?”
“Si per piacere Frank.”
“A lei invece?”
Rick si era perso a guardarla mentre sorrideva amichevole all’uomo giocando con la sottile catenina il cui ciondolo pendeva, nascosto, all’interno della camicetta, tra i due seni.
“Come?”
“Cosa le porto?” Ripeté divertito.
“Quello che prende lei, mi fido.”
“Benissimo. Torno tra poco.” Incastrò la matita dietro l’orecchio e tornò dietro il bancone scomparendo alla loro vista.
“Beh, non si può dire che non ti conoscano... Katie.”
Arrossì per quel nomignolo, erano in pochi a poterla chiamare così. “No, decisamente... Decisamente no. Vengo spesso qui, mi sento come a casa.”
Non disse nulla, si limitò ad annuirle e a guardare fuori dalla grande vetrata giocando con le bustine di zucchero davanti a sé.
“È più facile parlare dove c’è gente”, esordì lei dopo qualche istante, “tutti sono impegnati, e sei certo che ti ascolterà solo chi deve, solo chi vuoi che lo faccia.”
“Scusate se vi interrompo, ecco a voi.” Poggiò i due brichi sul tavolo; il fumo usciva dalla piccola fenditura sul tappo in plastica bianca. Nulla lasciava intuire quale fosse il contenuto e, dando per scontato che si trattasse di caffè, seguì il gesto della sua partner portandoselo alle labbra.
Gli occhi verdi lo scrutavano in attesa di una sua reazione, e non poté trattenere un vivace risolino quando lo vide storcere le labbra e arricciare il naso.
“Cos’è esattamente?” Domandò allontanando il bicchiere, rigirandolo tra le mani.
“Una tisana mela e cannella... Non ti saresti dovuto fidare.”
“E la prendi spesso?”
“Solo in questo giorno. Sai, mia madre non era un’amante del caffè, lo beveva, specialmente quando doveva fare le nottate al lavoro, ma, se e quando poteva, preferiva di gran lunga le tisane. E questa era la sua preferita. Quando tornavo a casa, magari dopo un pomeriggio in biblioteca, e sentivo questo aroma in soggiorno, sorridevo istintivamente perché voleva dire che lei era rientrata. Ricordo che un giorno io le arrivai alle spalle facendola spaventare, non mi ero accorta che la stesse versando nella tazza. Così, accidentalmente, cadde sul tappeto, e da quel momento c’è sempre stato un, anche seppur lieve,  profumo di cannella in quel punto della casa. Ma...”, improvvisamente si incupì, e la fossetta sulla guancia, apparsa mentre raccontando sorrideva, disparve. “Quando morì non sentii più quell’odore. È sciocco, lo so, ma è così.”
Lo aveva veramente detto? Non si era mai lasciata tanto andare ad informazioni così “personali” con nessuno, ma, per qualche inesplicabile motivo, lui le ispirava fiducia. Una fiducia irrazionale che la spingeva a sbottonarsi più di quanto lei stessa non avesse intenzione di fare.
“Non è sciocco. Probabilmente è stata una reazione protettiva, hai smesso di sentirlo perché ogni volta che accadeva pensavi a lei. Comunque devo ammettere che non è male, ma preferisco di gran lunga il caffè.”
Un tintinnio richiamò l’attenzione di entrambi.  Piccole e luccicanti monetine si ritrovarono a rotolare sul pavimento. Una ragazza, imbarazzata, si chinò prontamente per raccoglierle, dopo che le aveva fatte cadere quando il portamonete le era scivolato di mano. Quando rialzò gli occhi trovò quelli del giovane cameriere, che cortese le offrì aiuto, puntati nei suoi.
Il detective bevve ancora un sorso, sentendosi percuotere da un brivido quando il forte aroma di cannella gli invase le narici.
“Io e Meredith ci siamo conosciuti così.”
Kate inclinò il capo guardandolo accigliata, invitandolo a proseguire.
“Alla caffetteria del college. Io andavo già all’accademia ed ero andato lì a trovare un amico che seguiva lettere, lei era una matricola e seguiva il corso d’arte. Era in fila proprio davanti a me. Si era presa un cappuccino gigante e cercava la moneta nella borsa. Non so bene cosa sia successo, so solo che ad un certo punto la borsa era rovesciata a terra e con lei anche tutti i suoi spiccioli. L’aiutai a raccoglierli, e poi pagai il mio caffè e il suo. Quando mi chiese come poteva sdebitarsi le diedi due opzioni. La prima era dirmi semplicemente grazie e saremmo stati pari, non ci saremmo più visti.”
“E la seconda?”
“Accettare di uscire con me per una cena, e chissà che poi non si sarebbe divertita e avrebbe deciso di aggiungere a quell’uscita una seconda e una terza.”
“Direi che ha scelto la seconda.”
Scosse la testa “ti sbagli, scelse la prima. Disse che era al primo anno, non voleva distrazioni, soprattutto da un ragazzo che... Aspetta, com’è che mi aveva definito...? Ah si, sembrava interessato solo ad aggiungere tacche alla sua cintura.”
“Ed eri davvero così?”
“Forse prima, ma quando la vidi... Non lo so, c’era qualcosa di speciale e diverso in lei.”
“E come andò?”
“Studiai l’orario dei suoi corsi e mi feci trovare alla caffetteria ogni giorno quando sapevo avrebbe avuto una pausa. Correvo dall’accademia al college, era meglio che andare in palestra. Le prime volte che mi vedeva appostato lì roteava gli occhi, io l’accompagnavo fino in classe, e poi, dopo un paio di settimane, riuscii a farla ridere. Non servì altro. Accettò l’invito a cena e... Beh, dopo la sua laurea ci siamo sposati e un anno dopo è nata Alexis.”
“Tu non sei uno che si arrende facilmente, non è vero?”
“No, non per chi amo. Per lei ne valeva la pena.”
 
 
Le cose da quella mattina avevano cominciato a prendere una piega diversa.
Le loro chiacchierate divennero un appuntamento quasi quotidiano.
La complicità tra loro era sempre più palpabile, anche durante il lavoro, e avere qualcuno con cui parlare aveva fatto sì che anche il rapporto con gli altri detective migliorasse.
 
Il Natale era stato un scoglio duro da superare. Nonostante la presenza di sua madre, pronta sempre a tirargli su il morale e a confortarlo, si era sentito terribilmente solo.
 
La madre di Kate era venuta a mancare quando lei aveva solo 19 anni. Uccisa, lasciata sola, a morire lontana da casa.
La vita gliela aveva strappata, e l’ultima immagine che aveva di lei era stesa e sanguinante in quel lurido vicolo, sopra un cumulo di spazzatura.
Una morte brutale, torbida, indegna.
È stata dura. Per lei, ma soprattutto per suo padre. Gli occhi le si riempirono di lacrime parlandogli di come fosse sprofondato nella trappola infernale dell’alcolismo. Rick si sentì fortunato, e si domandò come avesse fatto a lasciarsi andare avendo una figlia a cui badare, che ogni giorno si preoccupava per lui, distrutta e devastata da quella perdita -che aveva segnato per sempre la sua vita- quanto lui.
Ma come aveva sempre immaginato, Kate doveva essere molto matura per la sua età, sveglia ed intelligente, mentre la sua Alexis… beh, lei era ancora troppo piccola per potersi occupare di sé e anche di lui.
Quando gli aveva raccontato che, da quando la madre era morta, non aveva più addobbato un albero, messo alcuna decorazione, mangiato la cioccolata calda con i marshmallow, aveva creduto fosse un terribile sbaglio trasformarsi in un Grinch. Aveva sempre sentito frasi come “lei vorrebbe che tu andassi avanti, che continuassi la tua vita. Fare le cose di sempre può fartela sentire più vicina”, e aveva finito col crederci.
Eppure alla fine, anche lui, si era ricreduto, e lo scatolone con gli addobbi aveva visto solo uno spiraglio di luce e poi immediatamente di nuovo il buio dello scantinato.
 
E anche quella festività era passata per entrambi. Per Beckett come sempre, per Castle in un modo del tutto nuovo. Solo, nel buio della sua camera, seduto sul letto appoggiato allo schienale con in mano un bicchiere di whisky -in alternativa al vino rosso che invece era solita bere la detective- con lo sguardo perso nel vuoto, mentre la mente ripescava vecchie immagini. E, alla mezzanotte, aveva mormorato un ‘buon Natale’ con un ghigno amaro sul viso, pensando al tempo passato, pensando che ormai non avrebbe più ottenuto giustizia per quella storia finita ormai per tutti, tranne che per lui, nel dimenticatoio.
 
Ma ora, dopo mesi, riusciva a sorridere di nuovo senza sentirsi continuamente in colpa; era riuscito a mostrare un po’ di più il vero se stesso, e più i giorni passavano, più riusciva a penetrare quella scorza che Kate si era costruita intorno e di cui spesso gli aveva parlato, e sentiva che anche la sua corazza cominciava a vacillare.
 
 
“Sai, dovresti uscire con quella ragazza.” Esordì un sera di maggio Martha sorseggiando un buon chardonnay.
“Di chi parli?” Chiese mandando giù un boccone.
“Andiamo, non fare il finto tonto Richard. Mi riferisco a Beckett.”
Il detective si portò il tovagliolo alle labbra, si rinfrescò la gola con l’acqua e rispose calmo “usciamo già...”
“Non intendo quel genere di uscita. Cosa fate? Vi vedete per un caffè e chiacchierate. Io mi riferisco ad un appuntamento.”
“E cosa c’è di diverso?”
“Darling, un appuntamento è qualcosa di estremamente diverso! Innanzitutto dovresti invitarla in un bel ristorante, passare a prenderla, portarle dei fiori.”
“Mamma...” la richiamò.
“Che c’è? Tesoro mio, sono passati anni. È ora che tu ti rimetta in gioco.”
“Non sono pronto” commentò raccogliendo i piatti, si tirò su le maniche cominciando poi ad insaponarli sfregando frenetico con la spugna.
“Si che lo sei. Lo sei, devi solo darti una possibilità, e da come me ne hai parlato, lei è la miglior possibilità che potesse capitarti.” Gli sfiorò la spalla in un tocco materno, e poi, infilando la mano nella tasca dei suoi pantaloni, gli prese il telefono. Maldestra picchiettava sullo schermo cercando di trovare i numeri di telefono.
I cellulari di nuova generazione erano così complicati. Prima c’era solo un tasto verde, uno rosso, la rubrica e l’archivio dei messaggi; adesso tutto era automatizzato, avere un cellulare era come avere il mondo in una mano, un mondo altamente tecnologico, e lei e la tecnologia non erano mai andate molto d’accordo.
“Che cosa stai facendo?”
“Cerco di dare una piccola spinta al destino kiddo. Oh, ecco fatto”, esclamò entusiasta dopo esser riuscita a fra partire la chiamata. “squilla, squilla!” gli accostò il telefonino all’orecchio attendendo trepidante.
“Pronto?”
“P-pronto? K-Kate? Sono Cas-Rick.” Rispose impacciato, colto alla sprovvista dalla sua voce serena, seppur stanca, che lo aveva accolto dall’altro capo.
“Oh, ciao Rick.”
Si pulì velocemente le mani insaponate nei pantaloni, sfilando il cellulare dalle mani della madre che lo incitava con movimenti teatrali e un labiale incomprensibile.
“Castle, ci sei?”
“Si, si, ecco io... mi stavo domandando se domani ti andasse di vederci.”
“Ma certo” dal tono di voce capì che stava sorridendo, e non poté non fare lo stesso, “caffè al solito posto?”
“Oh… no, veramente pensavo di più a-a una cena.”
“Una cena?”
“Si, tipo un appuntamento.”
“Tipo, o è un appuntamento?”
“Lo è… se lo vuoi.”
Arrossì, ringraziando il fatto di essere al telefono, così che lui non potesse vedere le sue guance imporporarsi come quelle di un’adolescente alle prese con il primo fidanzatino.
“Mi farebbe molto piacere.”
Fu certo, in quel momento, che lei si stesse mordendo il labbro inferiore. Un tic a cui si lasciava sempre andare quando era in imbarazzo, nervosa, oppure timidamente felice, e lui sperò con tutto se stesso che si trattasse dell’ultima.
 
 
La sera successiva, alle otto in punto, si fece trovare davanti a casa della collega. Scese dalla macchina sistemandosi il colletto della camicia; giocherellò con il portachiavi mentre saliva i gradini per raggiungere il portone. Citofonò, sentendo poi la sua voce dall’accento inconfondibile rispondergli con un “scendo tra un minuto”.
Si appoggiò con le spalle contro il muro torturandosi le dita nervoso, quando, attraverso il vetro del portone, la vide. La bocca si aprì come a voler dire qualcosa, ma non una parola ne uscì.
Il vestito nero lasciava scoperte le gambe che, fino ad allora, aveva avuto il piacere di guardare sempre coperte dal pesante tessuto dei pantaloni.
La scollatura non era eccessiva.
Ecco un’altra cosa che gli piaceva di lei. Non era mai appariscente, o volgare, sapeva misurarsi in tutto.
Le scarpe alte le donavano ancora più slancio, ma a quelle ormai era abituato. Gliele vedeva su ogni giorno, e a dire il vero spesso si era domandato come facesse a passare tutto il giorno -a volte tra inseguimenti e, perché no, anche sparatorie- su quelle che lui considerava strumenti di tortura riservati, fortunatamente, solo alle donne.
 
“Rick, ti senti bene?”
“Si, bene, benissimo a dire la verità… Sei stupenda.”
Sorrise timida abbassando lo sguardo. Quando rialzò il capo si avvicinò al suo viso sussurrandogli all’orecchio “anche tu stai bene. Sai, il rosso ti dona.” Enunciò, sfiorandogli il petto, con voce sensuale.
‘Che fine ha fatto la timida Kate?’ Domandò a se stesso sentendo la gola seccarsi. Si riscosse dai suoi pensieri e, offrendole il braccio, le chiese “Andiamo?”
La scortò alla macchina parcheggiata proprio lì di fronte. Cortese le aprì la portiera, portando Kate a ringraziare il fatto che la cavalleria non fosse del tutto scomparsa.
Nonostante fossero entrambi ansiosi, e cercassero di mascherarlo al meglio, la chimica tra loro era innegabile, e la cena trascorse tranquilla.
Entrambi si sentivano a proprio agio. Parlare gli era naturale, le loro risate si mischiavano, e sembrava non esistere altro suono all’infuori delle loro voci e dei deboli suoni come il lento ondeggiare del vino nei bicchieri, o il gorgoglio prodotto dalle bollicine dell’acqua frizzante nella brocca, o il fragrante suono della crosta del pane ogni volta che veniva spezzato.
Sulla tovaglia bianca le mani si sfioravano e stuzzicavano, ma lo facevano quasi con timore, come a non volere che l’altro se ne accorgesse.
 
Passeggiarono per il parco proprio di fronte al ristorante.
Alle loro orecchie giunse la melodia che, sempre con più forza, si diffondeva tra le fronde degli alberi. Gli occhi di Kate si illuminarono come quelli di una bambina quando scorse le luci della piccola giostra.
“Ti piace?”
Osservò i cavalli rincorrersi in circolo, la carrozza reale trainata da quattro destrieri, la piccola tazza da tè con le rifiniture in oro. “È bellissima” sussurrò estasiata.
“Mi hai detto che da piccola, d’estate, di pomeriggio tua mamma ti portava ogni volta che poteva a fare un giro sulle giostre di nascosto da tuo padre. Era una cosa che condividevi solo con lei. L’altro giorno quando sono passato l’ho vista e ieri ho pensato che sarebbe stato carino portarti... Ma forse ho esagerato, non è vero? Scusa, non volevo rovinare tutto.”
“Non hai rovinato niente. Andiamo!” Si mise a correre verso la giostra salendo su di un puledro dalla criniera corvina. Castle sorrise sospirando sollevato e la raggiunse sedendosi su di un cavallo accanto a lei. Quando la giostra iniziò a girare, le risa di Kate presero posto tra le note del classico motivetto.
 
Qualche giro, e poi ripresero a godersi quella serata camminando l’uno a fianco dell’altra.
In silenzio, non serviva dire più nulla, ad entrambi bastava poter godere della compagnia dell’altro. Ma poi la realtà bussò a quell’angolino di mondo che si erano creati.
“Beckett...” rispose seria al cellulare, “si, per prima cosa domattina. Grazie mille Lanie. Buona notte anche a te.” Mise via il telefono e incastrò di nuovo il braccio in quello di Richard, come se quel particolare contatto le fosse mancato, come l’assenza di ossigeno, in quei due minuti.
“Cosa ha detto?”
“Che ha provato a chiamarti e che era curiosa di sapere cosa stessi facendo di tanto importante per ignorare le chiamate dal distretto.”
“Come mai questo tono?”
“Quale tono?”
“Non lo so, sembri... Arrabbiata.”
“Certo che lo sono. Ha chiamato prima te di me!” Lo schernì dandogli una leggerissima spallata
“Gelosa?” Sorrise ammiccante.
“Forse” sussurrò trascinandolo verso l’uscita del parco. “Ha detto che sul cadavere di Sarah Williams ha trovato tracce di DNA. Potrebbero portarci all’assassino.”
“Vuoi andare a verificare ora?”
“No... Domattina andrà bene. Ed in fondo a domattina non manca tanto. Forse però è meglio se-” non riuscì a finire la frase, perché la realtà era che non voleva che quella serata finisse.
“Ti riaccompagno a casa.” Disse dolce sorridendole comprensivo.
“Grazie.”
Durante il breve viaggio in macchina Kate si trovò costretta a reprimere il terribile impulso di scostare il ciuffo dalla fronte dell’uomo, e restare poi a sfiorargli, con movimenti lenti e circolari dell’indice, la tempia.
Ancora una volta, come all’inizio di quell’appuntamento, rimase colpita dal suo semplice gesto di aprirle la portiera.
Lenta, fingendo un mal di piedi che non c’era, salì gli scalini prima di raggiungere il portone, per prolungare ancora di qualche secondo quel momento.
“Bene, a-allora ci vediamo domani.”
“Si, do-domani.” Le chiavi di casa la caddero dalle mani; entrambi si abbassarono per raccogliere, rischiando di far scontrare le loro teste.
Quando si rimisero in piedi lo spazio tra i loro profili era minimo.
La detective si sporse di poco, ancora incerta, ma Rick si tirò indietro, leggendo un po’ di delusione nei suoi occhi. Delusione e paura di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Forse stava correndo troppo, anche se in fondo era quasi un anno che si conoscevano.
“Scusami, mi dispiace, è che-”
“No, non devi dirmi niente.”
“Si invece. È che io... Ti sembrerà ridicolo forse, ma... non sono mai stato con nessun’altra dopo Meredith. Ma non ho mai neanche conosciuto nessuna come te dopo di lei.”
Gli carezzò la guancia, prima col palmo, poi col dorso “ehi, va bene così, non c’è nessuna fretta. Non ci corre dietro nessuno, andremo avanti un passo alla volta. Tu mi fai sentire bene Rick, come non mi sentivo da tempo, mi fai sentire viva. Non voglio obbligarti se non ti senti pronto.”
Quell’ultima parola fece appena in tempo ad uscire, che sentì la bocca del detective posarsi famelica sulla sua. Sorrise sulle sue labbra.
L’impeto li fece finire contro il muro. Richard si sostenne con le mani alla parte laterale, premendo involontariamente un tasto sul citofono.
‘Chi è? Chi è?’
Troppo presi non sentirono neanche la voce chiamarli, e affannati continuarono a baciarsi, lasciando uscire gemiti involontari.
‘Maniaci!’ Urlò la voce al citofono prima di chiudere la comunicazione.
 
Quanto l’aveva desiderata.
Erano stati insieme, in quel gioco d’amore, fino alle prime luci dell’alba.
E mentre Kate gli dormiva accanto, lasciando che un braccio gli circondasse il petto, lui fissava il soffitto bianco dipinto dal tenue giallo-arancio della palla di fuoco che proiettava i suoi raggi nella stanza attraverso le feritoie della tapparella.
Un braccio, dapprima incrociato con l’altro dietro la nuca, scivolò fino alla vita della donna sfiorandola attraverso il lenzuolo. Con lo sguardo fisso, pensò alle emozioni che a lungo non aveva più provato e fu felice di aver aspettato. Non avrebbe potuto desiderare di meglio.
Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, completamente preso dalla creatura al suo fianco.
 
Era presto per dirsene innamorato? Non gli importava.
Lo era, ne era sicuro.
 
Anche lei si sentiva così dannatamente coinvolta. Non era solo attrazione, non era il semplice volersi bene. Lei lo amava già, irrimediabilmente.
Lo sapevano, potevano leggerlo nei loro sguardi e nei loro gesti che, da quella notte, si susseguirono giorno dopo giorno, uscita dopo uscita. Nella sere passate ad amarsi come non ci fosse un domani, e in quelle in cui stavano semplicemente sul divano a guardare la televisione, o magari a leggere entrambi un buon libro accompagnati da vino e birra, l’uno accanto all’altra.
L’importante era stare insieme.
 
Ci volle meno di un anno prima che decidessero di comprarsi un appartamento che fosse loro.
Nulla di grande, quanto bastava per poterci vivere.
Ridipinsero ogni stanza, trovandosi alla fine dipinti a loro volta dalla testa ai piedi.
Sulla parete della camera da letto c’era il segno indecifrabile, se non per loro, delle loro mani, quando lui l’aveva spinta contro il muro baciandola, bloccando la mano con la sua sulla vernice appena passata.
 
Tre mesi dopo l’inizio della convivenza era arrivato il momento di fare i conti con una ricorrenza importante.
 
Già due anni erano passati da quando aveva fatto il suo ritorno a New York. Già due anni erano passanti da quando sua figlia era stata brutalmente uccisa.
Quella mattina, mentre Rick finiva di allacciarsi i polsini della camicia seduto sul letto, lei si mise in ginocchio dietro di lui. Il suo viso poggiava sulla sua spalla.
“Sicuro che non vuoi che venga anche io?”
“Sicuro. Non è che non ti voglia lì, è solo che…”
“È una cosa che devi fare da solo. Lo so.” Lo aveva sempre fatto anche lei.
Andava sola da sua madre ad ogni anniversario della sua morte, ma non quell’anno, quell’anno aveva voluto che lui andasse con lei. Ma capiva bene che per Castle fosse ancora presto.
Mentre questo pensiero le attraversò fugace la mente, sentì il suo uomo baciarla, e lo vide poi uscire.
 
Camminò per il cimitero fino a raggiungere le due tombe.
Una rosa per Meredith, e un mazzo di tulipani per Alexis, questa volta viola.
Il fioraio gli aveva detto che il loro significato era quello di infondere serenità e calma, e lui si augurò di cuore che la sua bambina l’avesse trovata.
Solo quando si chinò per posare i fiori nel vaso lo vide. Un piccolo bigliettino piegato in quattro parti, incastrato proprio sotto il vaso.
 
‘Cucù detective’
 
Capì immediatamente chi fosse il mittente, non era difficile da immaginare. Il passato lo investì come un’onda durante una tempesta, e capì che ciò che aveva tentato di allontanare dai suoi ricordi, in realtà non se ne era mai andato.
Quello che non riusciva a spiegarsi era perché Peter fosse tornato, perché proprio adesso, perché dopo tutto quel tempo.
Per sicurezza fece analizzare il foglietto. Avrebbe voluto farlo fare a Lanie, ma questo sarebbe stato il modo più veloce perché Kate ne venisse a conoscenza, e non voleva allarmarla inutilmente.
Si sarebbe dovuto accontentare di Perlmutter, nonostante le sue occhiatacce e continui scherni, avrebbe potuto contare sulla sua discrezione.
 
Dopo un paio di giorni erano cominciate le chiamate. Non sa come abbia avuto il suo numero di telefono, quello che era certo è che, anche se lo avesse cambiato, sarebbe riuscito a rintracciarlo.
Se sapeva dove era sepolta Alexis, con probabilità sapeva anche dove lavorava e dove viveva.
 
I tentativi di scoprire dove Tisdale si nascondesse risultarono inutili. Le chiamate partivano da cabine pubbliche in diversi angoli della città. Le telecamere di sicurezza di quelle aree non avevano dato frutti se non per un paio di uomini con felpa e cappuccio calato sul capo che si aggiravano sospetti. Ma non aveva nessuna garanzia che si trattasse di chi cercava.
La situazione cominciava a diventare insostenibile, le chiamate arrivavano in ogni momento della giornata, persino di notte.
Non dormiva più, restava a guardare Kate al suo fianco per assicurarsi che nessuno si intrufolasse in casa e le facesse del male, pur sapendo che era perfettamente in grado di difendersi se ce ne fosse stato bisogno.
 
Doveva fare qualcosa; una possibile soluzione si era insinuata nella sua testa senza ritegno e, per quanto avesse cercato di liberarsene, dovette ammettere che era l’unica cosa da fare.
Sperò fino all’ultimo che non fosse necessario, lo sperò fino a che, quella mattina, la voce di Peter non pronunciò quelle parole “Farti soffrire… ancora”.
E adesso, mentre seduti fuori dal distretto si tenevano per mano, aveva capito che il momento era arrivato.





Diletta's coroner:
E siamo arrivati esattamente dove era finito il primo capitolo.
Grazie a chiunque stia seguendo la storia :)
Baci

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Capitolo 7
*** Dear Katherine ***


 

Si alzarono lentamente, tenendo ancora le mani unite.
Beckett odiava non sapere cosa stesse accadendo, ma sapeva anche che arrivato il momento gliene avrebbe parlato.
Rientrati avevano trovato un nuovo caso ad aspettarli alle loro scrivanie.
Con una scusa banale Rick entrò nell’ufficio del capitano; si schiarì la voce porgendogli poi una busta che teneva in tasca da un paio di giorni, e che, prima di ricevere quella chiamata, aveva sperato di non dover consegnare.
“Di cosa si tratta Richard?”
“Preferisco che tu la legga. Ti prego solo di non farne parola con nessuno, soprattutto con Beckett. Roy, so quello che faccio, e quando l’avrai letta non cercare di dissuadermi. Non cambierò idea.” Lo redarguì prima che potesse dire qualcosa.
Montgomery si passò la mano lungo il mento ispido. Lo conosceva da anni, le sue scelte e decisioni, solitamente ponderate, delle volte erano state avventate, ma aveva imparato a non mettersi in mezzo. Quando si metteva in testa una cosa nessuno poteva fermarlo. Era un tornado, che fino adesso, però, aveva avuto la sfortuna di distruggere solo la sua vita.
“Molto bene. C’è altro?”
“Veramente si... domani potrei avere il pomeriggio libero?”
“Scommetto che oltre a te dovrei darlo anche a Katherine, dico bene?”
“So che c’è un caso da risolvere, ma Ryan ed Esposito sono un grande team anche senza noi due.”
“Non so ancora cosa tu abbia in mente…” accennò alla lettera sventolandola in aria, “ma va bene, in fondo è solo per un pomeriggio.”
Chinò il capo rispettoso sibilando un grazie, tornando al lavoro.
“Ehi, è tutto a posto?”
“Si, non potrebbe andare meglio” le prese la mano baciandole il palmo andando poi alla scrivania.
Lei fissò la sua schiena e le sue spalle possenti costrette dentro la camicia blu. Aveva visto di nuovo quella ruga in mezzo la sua fronte.
Di nuovo una bugia.
Sperò solo di sbagliarsi.
 
La mattina dopo Rick si era svegliato presto; lo aveva sentito trafficare nell’armadio, ma aveva fatto finta di nulla, restando ancora un po’ sotto le coperte, con gli occhi chiusi, aspettando che la sveglia suonasse.
La spense subito dopo un primo trillo e, voltandosi, lo vide fissarla sorridente con in mano un caffè fumante.
“Buongiorno bellissima.”
“A cosa devo tutta questa allegria stamattina?” Chiese mettendosi seduta.
“Ho una sorpresa per te”, ammise porgendole la tazza, “so che le odi, ma questa ti piacerà, ci scommetto.”
“E dove sarebbe questa sorpresa?” Domandò curiosa sorseggiando la bevanda calda e rigenerante.
“Niente fretta, arriverà in tarda mattinata.” Non aggiunse altro, lasciando la donna con l’amaro in bocca, e di certo non era dovuto al caffè.
 
Tuttavia, ora che si stavano godendo un pomeriggio di sano relax, fu contenta di quella segretezza e riservatezza a riguardo mantenuta da Richard.
Ancora non capiva come fosse riuscito a convincere il capitano a dare mezza giornata libera ad entrambi, ma era uno di quei tanti misteri che rendevano ciò che stavano facendo ancora più speciale.
Si erano lasciati casa alle spalle e, avvolti nell’abbraccio dell’altro, avevano passeggiato fino al parco.
Avevano steso un asciugamano sull’erba fresca, appena sotto le fronde di un grande albero. Si erano stuzzicati lasciandosi andare a piccole effusioni. Come sfiorarsi le labbra in un caldo bacio, far intrecciare le loro gambe, od incastonare le dita delle loro mani. Rotolarsi sulla coperta in una dolce lotta fino a che non si ritrovavano tra gli alti fili d’erba, annaspanti e desiderosi di appartenersi.
Kate, ora, se ne stava sdraiata perpendicolare al corpo del detective. Le gambe piegate erano accavallate l’una sull’altra, mentre con la mano teneva poggiato il libro sul suo ventre piatto. La testa aveva trovato la sua collocazione perfetta sulla schiena del suo uomo e si muoveva a ritmo del suo respiro che sentiva farsi più pesante ogni secondo che passava.
 
Verso l’imbrunire il cielo aveva scatenato la sua ira e, con la coperta a coprirgli la testa, erano corsi verso il loro appartamento più in fretta che poterono.
Appena chiuse la porta, Kate non ebbe il tempo di mettere a fuoco il suo viso, che si ritrovò contro la parete sentendo le sue labbra premere con prepotenza sulle sue.
Le mani di Castle viaggiavano sul suo corpo quasi a volerlo consumare.
Rispose fremente al bacio.
Si spogliarono delle cose futili, lasciate sul pavimento a simboleggiare il loro passaggio.
 
Non si era mai sentita così.
 
Il modo in cui la toccava, in cui, esperte, le sue dita sfioravano la sua figura in ogni punto, fino ad arrivare al più sensibile. Quando tornò in sé, in un attimo di lucidità, si accorse che erano arrivati in camera da letto, poteva sentire il morbido materasso sotto il suo corpo.
I suoi sensi erano piacevolmente allettati dai giochi dell’uomo. Ogni suo gesto era diverso, e lei si era lasciata coinvolgere all’estremo. La provocava, poi si fermava e cominciava quella tortura da capo. Prima il collo, poi i seni. La schiena e il ventre piatto, le gambe, le caviglie sottili, fino ad arrivare alla sua intimità.
Dolce, amorevole, e allo stesso tempo bruto e passionale. Era stata una lotta che aveva lasciato il segno, un segno che non avrebbe mai voluto vedere andar via.
I loro corpi si erano fusi e i loro profumi mischiati; l’aveva posseduta come mai aveva fatto prima d’ora. Si erano appartenuti come se quella sarebbe dovuta essere la loro ultima notte.
 
Ed in fondo era così, solo che lei ancora ne era all’oscuro.
 
La guardò dormire sfinita; i capelli le ricadevano sulla pelle madida. Con l’indice tracciò il profilo del suo corpo senza svegliarla, le carezzò l’incavo della schiena nuda lasciandole poi un bacio sulla spalla. Si alzò attento a non fare rumore e andò in salone. Da sotto il divano prese il borsone che vi aveva nascosto quella mattina; ne tirò fuori una piccola scatolina in velluto blu, e una busta bianca dove la sua calligrafia precisa e pulita risaltava in quell’unica parola ‘Katherine’.
Senza più voltarsi, aprì cauto la porta e uscì.
Le lacrime cominciarono a rigargli il volto, ma quella era la scelta giusta. Non voleva metterla in pericolo, e con lui accanto, almeno fino a che Peter sarebbe stato libero, non sarebbe stata al sicuro.
Prese un bel respiro e scese le scale.
Aveva ancora una lettera da consegnare, e pregò che sua madre, una volta letta, capisse perché non aveva avuto la forza di dirglielo di persona.
 
 
Si era svegliata notando la sua assenza al suo fianco. Il suo lato era freddo come l’aria che, prorompente, apre la finestra lasciando entrare il vento invernale. Si stiracchiò allungandosi, convinta che lui stesse preparando la colazione, o che, conoscendolo, si fosse alzato in piena notte colto da un’improvvisa folgorazione e si fosse messo a lavorare al caso. Andò a farsi una doccia, pensando di poter fare un remake della nottata appena trascorsa provocandolo presentandosi da lui con solo un asciugamano a coprirle il corpo. Il getto d’acqua le carezzò la pelle, e la schiuma le donò quell’aroma alla ciliegia che Rick trovava tanto afrodisiaco. I capelli gocciolanti le ricaddero stanchi sulle spalle, l’asciugamano bianco era chiuso con un nodo all’altezza del seno. A passi leggeri si diresse in cucina trovandola deserta.
“Rick” chiamò, “Rick!” ripeté più forte non avendo ottenuto risposta. Arrivò nel soggiorno; una piccola goccia partì dal basso ventre scendendole lenta lungo la gamba.
Il divano era lievemente spostato. Se ne accorse immediatamente. Gli occhi si spostarono sul pavimento cercando i loro vestiti che dovevano ricoprirlo vicino all’ingresso. I suoi erano ancora nel punto in cui se ne era sbarazzata, quelli dell’uomo erano scomparsi. Gli occhi viaggiarono frenetici, fino a fermarsi sul tavolino in legno lì accanto, posandosi sulla busta.
La goccia scivolò tranquilla sul suo polpaccio fino ad arrivare alla sua caviglia.
Strinse la lettera tra le sue mani e, quasi come un manichino, con movimenti plastici, si lasciò cadere sul divano.
 
“Non ho avuto il coraggio di dirtelo. Di svegliarti per salutarti. Sono stato un codardo, lo riconosco.
Odio me stesso per quello che ho fatto, ma non avevo altra scelta. Con il lavoro che facciamo questa frase l’abbiamo sentita mille volte, ma questa volta è la verità, e spero che tu decida di credermi.
Sono grato che tu mi abbia dato la possibilità di conoscerti; sono grato che tu mi abbia fatto entrare nella tua vita e che tu sia entrata nella mia. Grazie a te sono riuscito a superare il dolore, grazie a te ho trasformato quel dolore nella mia forza, e tu sei parte di questa. Mi hai dato speranza quando sembrava non essercene, mi hai dato luce quando intorno vedevo solo il buio. Spero di essere riuscito a darti anche solo una misera parte di quello che tu hai dato a me.
In questi anni passati insieme mi hai dato la possibilità di farti conoscere il vero me, di fartene scoprire ogni lato. Nessuno ci era più riuscito da tanto, e con questo sto cercando di dirti quanto tu sia straordinaria e speciale.
Sono certo che, guardandola di sottecchi, ti starai chiedendo cosa c’è dentro quella scatolina, e sono altrettanto certo che tu ne abbia già un’idea.
Te lo avrei chiesto a breve, ormai credo lo avessi capito.
È giorni che me lo portavo in tasca aspettando il momento giusto.
Avrei davvero voluto vederti avanzare verso di me all’altare, lungo la navata, in quell’abito bianco che sicuramente avrei voluto toglierti subito.
Ti amo così tanto, e so di non avere il diritto di scrivertelo in questo momento, ma devo, voglio che tu lo sappia.
Vorrei dirti che tutto finirà velocemente, che tornerò presto, che ogni cosa tornerà a posto. Vorrei chiederti di aspettarmi, ma sarei solo un’egoista.
Spero solo che tu un giorno, quando ci rincontreremo, quando ti avrò raccontato tutto,  possa capirmi, e mi dispiace di non poterti dire nulla, ma lo faccio per te, per tenerti al sicuro.
Ti amo, non dimenticarlo mai.
Sempre tuo, Rick”.
 
 
Gli occhi cominciarono a bruciare. Non era rabbia, non era disperazione, non era tristezza, era solo impotenza davanti a quella situazione. Ma era sicura che le altre emozioni l’avrebbero invasa di lì  a poco.
Si obbligò ad alzarsi; raggiunse la camera da letto cominciando a rovistare nel cassettone sotto l’armadio alla ricerca di qualcosa da indossare.
In un primo momento non ci fece caso, ma poi notò le sue camicie, i suoi maglioni, i suoi classici calzini neri. Era ancora tutto lì, beh, quasi tutto.
 
Lasciando il seno libero dalle costrizioni del reggiseno, si infilò una delle magliette che lui aveva lasciato.
Chiuse le imposte e si rannicchiò sul letto; le gambe raggomitolate contro il corpo lasciavano intravedere le culottes nere.
Tirò il bordo della maglia fin sopra il naso inspirando a fondo. Nonostante si sentisse tradita, lui le mancava già, terribilmente, e, in cerca del suo odore, cominciò a ripescare le immagini dei momenti trascorsi insieme, fino ad arrivare alle ultime parole che si erano sussurrati quella notte.
 
“Ti amo Kate. Ti amo, ti amo, ti amo” aveva bisbigliato tra un bacio e l’altro lasciato vicino all’orecchio solleticandole il collo.
“Anche io” aveva ridacchiato.
Aveva intrappolato tra le mani i suoi polsi sottili, bloccandole le braccia all’altezza del viso sul cuscino, mentre lentamente si metteva a cavalcioni su di lei, avvolto unicamente dal lenzuolo bianco “No, voglio sentirtelo dire.”
“Perché?” aveva chiesto sempre col sorriso ad illuminarle il volto.
“Perché mi piace quando lo dici. Perché sentirlo mi rende di buon umore. Perché non lo dici spesso, e questa è la notte giusta per farlo.”
Aveva ridacchiato ancora, maliziosa e persa nei suoi occhi blu. “Ti amo” aveva detto improvvisamente seria sporgendosi poi per baciarlo, inarcando la schiena verso il corpo del suo uomo riuscendo a sentirne nuovamente l’eccitazione.
 
Si diede della stupida per non averci pensato subito, per non aver trovato strana l’insistenza di Richard nel volerle sentir pronunciare quelle due parole. Era vero, non lo diceva spesso. Lui era sempre il primo, e lei si limitava a mormorare un timido ‘anche io’, oppure a baciarlo con dolcezza e trasporto sulle labbra in un tacito assenso. Ma in quel momento non vi aveva visto nulla di strano.
 
Le dita affusolate si fecero strada tremanti tra i capelli ancora umidi, arrivando poi a sfiorale il viso appena sotto gli occhi. Tirò la pelle facendola arrossare, la torturò sotto il tocco dei suoi polpastrelli cercando la forza per smettere di piangere, per smettere, anche solo per un istante, di pensare a lui. Cercando una forza che, però, non aveva.
Ascoltando il silenzio improvviso della casa, si sentì morire, e tutto il dolore, che scavava nella profondità del suo animo e che avrebbe voluto gridare al mondo, rimase racchiuso in quelle lacrime che le sfiorarono silenziose il viso.




Diletta's coroner:

Siamo quasi alla fine... nel prossimo si ritorna nel presente.

Cosa dite che succederà quando si aprirà quella porta a cui Castle ha bussato dopo 4 anni?

Buona serata a tutti

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Capitolo 8
*** In her eyes ***


Un palazzo viene dato alle fiamme,
tutto quello che ne rimane è cenere.
Prima pensavo che questo valesse per ogni cosa, famiglie, amici, sentimenti.
Ora so che a volte, se l'amore è vero amore, niente può separare due persone
fatte per stare insieme.
-The crow-

 

 

 

Senti strisciare il catenaccio; il clac del pomello che ruota ti fa accelerare il battito e aumentare la sudorazione. La fronte è madida.
La prima cosa che vedi sono i suoi occhi verdi.
Non sono più come quattro anni fa, sono spenti, sembrano aver perso quella luce che li faceva brillare e sembrare così grandi che, ogni volta che ci guardavi dentro, ti sembrava di vederci il mondo.
Le occhiaie sono ben visibili, il viso è stanco.
 
Quando sei tornato in città non hai pensato all’orario, non hai pensato che fosse notte fonda; non hai pensato che lei avrebbe potuto aver cambiato casa, città, magari addirittura continente. Del resto quattro anni sono tanti, ma soprattutto sono stati lunghi. Ogni giorno lontano da lei ti è sembrato infinito. Il ricordo di come l’avevi lasciata, il ricordo dei suoi lineamenti ti tormentava ogni ora, e ti chiedevi se anche tu tormentavi i suoi giorni e le sue notti.
Non hai pensato a nulla, sei semplicemente corso fuori dall’aeroporto -in quante città eri stato, in quell’inseguimento che sembrava senza fine, senza però vederle davvero- e poi, percorrendo quella strada che insieme avevate fatto un milione di volte, come se non fosse passato neanche un giorno, ti sei catapultato lì.
 
La porta si apre un po’ di più e puoi concentrarti per intero sulla sua figura. Non è cambiata molto, è sempre stata esile seppur slanciata, le sue forme sono rimaste le stesse.
I capelli sono legati in una coda alta malfatta.
Non sai cosa dirle, ogni cosa sembra inutile, e dalle tue labbra esce la parola più stupida e semplice del mondo.
“Hey”
Come se il sonno fosse improvvisamente scomparso, si dà slancio e ti salta al collo, ti stringe forte a sé.
 
Aveva sognato spesso il tuo ritorno, in quelli che per lei erano come incubi, rigirandosi più e più volte tra le lenzuola. Ti veniva incontro gettandoti addosso la frustrazione di quegli anni, lasciando che la mani strette in pugni percuotessero il tuo petto con forza. “Te ne sei andato. Mi hai lasciata!” gridava ogni volta tra le lacrime che copiose le rigavano il viso, e tu, incapace di qualsiasi cosa, restavi ad ascoltarla. Immobile contro la sua rabbia, inerme sotto il peso schiacciante delle sue accuse.
E invece non ha fatto nulla di tutto quello. Nessun urlo, nessuna lacrima, solo un abbraccio.
 

Dio come ti è mancata.

 
Il suo profumo, quello che in ogni posto in cui andavi cercavi disperatamente di ritrovare per sentirti un po’ più a casa, è come lo ricordavi.
Il tocco delle sue mani sulla tua schiena riuscirebbe a guarirti da ogni fatica, persino da quella lunga e profonda cicatrice dietro la spalla destra di cui lei non sa nulla, che ti sei provocato in quella lotta faccia a faccia con la quale sei riuscito a mettere la parola fine a quella storia durata fin troppo.
Le sue labbra sono sulle tue. Morbidi e soffici.
Puoi gustare il suo sapore quando la sua lingua entra prepotente nella tua bocca.
Avevi quasi dimenticato quelle sensazioni, non le avevi più provate da tempo; le avevi rivissute solo nei tuoi ricordi che, nonostante i tuoi sforzi, avevano cominciato a sbiadirsi ogni giorno di più.
Si stacca da te, ma non riesce ad allontanarsi, ha bisogno di quel contatto. Poggia la fronte contro la tua e sorride. Sorride come da quattro anni non aveva più fatto, perché quel sorriso è quello che aveva solo quando era con te.
Non hai mai visto nulla che ti facesse sentire così bene, così felice.
Che ti facce sentire così vivo.
Ti prende la mano e puoi sentire qualcosa graffiarti tra le dita; abbassi lo sguardo e noti il tuo anello al suo anulare sinistro.
 

Passato il primo momento di crisi lo aveva infilato e non se lo era più tolto. Tu avevi deciso di non chiederle di aspettarti, ma lei lo aveva fatto comunque, perché l’amore che provava per te era più grande e più forte della parte che le suggeriva di odiarti e lasciarti andare.
L’amore è il segreto.
L’amore è quello che vi ha tenuti uniti anche mentre eravate separati, e quell’anello era una promessa che adesso avresti potuto mantenere.
 
 
Un cigolio richiama la vostra attenzione.
Restando ancorata con la schiena al tuo petto, si gira verso la porta; entrambi vedete spuntare un piccolo viso longilineo, e tu risenti quel profumo che, pur non conoscendolo, sa di casa.
 
La bimba si sfrega forte l’occhio sinistro assonnata, mentre nell’altra mano stringe la zampa di un bizzarro coniglietto di peluche che tocca il pavimento con le zampe posteriori. Il pigiamino a camicia le sta leggermente largo, i piedini scalzi  sfiorano le mattonelle fredde dell’ingresso.
Avrà all’incirca quattro anni.
“Mamma, chi è lui?” Domanda con la bocca deformata in uno sbadiglio.
Kate le sorride amorevole, anche se tu non puoi vederla.
“È tuo padre” sussurra emozionata tornando a guardarti.
Senti il tuo cuore fare una capriola.
Lei ti stringe più forte la mano trascinandoti dentro l’appartamento di nuovo vostro e, prima che lei sospinga dentro la piccina, troppo stanca probabilmente per capire ciò che le è stato appena detto, la guardi nei suoi occhioni azzurri e non puoi non domandarti
 
“Quando la guardavi, vedevi me nei suoi occhi?”
 




Diletta's coroner:

Ed è finita!
Cosa ne pensate? Alla fine tutto si è aggiustato...
Grazie a chiunque abbia letto anche solo un capitolo o una frase di questa mia follia, a chi con pazienza ha letto ogni capitolo e a chi ha lasciato anche solo un piccolo commento!
A presto!

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