E se fosse possibile?

di _Freiheit_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontro ***
Capitolo 2: *** Impossibile ***
Capitolo 3: *** Stordimento ***
Capitolo 4: *** Confusione ***
Capitolo 5: *** Impatto ***
Capitolo 6: *** Interrogatorio ***
Capitolo 7: *** Notizia ***
Capitolo 8: *** Reale ***
Capitolo 9: *** Ansia ***
Capitolo 10: *** Concerto ***
Capitolo 11: *** Attesa ***
Capitolo 12: *** Passione ***
Capitolo 13: *** Fine ***
Capitolo 14: *** Tempo ***
Capitolo 15: *** Per sempre adesso ***
Capitolo 16: *** Postfazione ***



Capitolo 1
*** Incontro ***


La sveglia suonava come ogni mattina. Non avevo voglia di svegliarmi, ero troppo comoda nel letto, ma mi costrinsi a spegnere la sveglia prima che svegliasse pure mia sorella, la quale in risposta non avrebbe esitato a uccidermi. A fatica mi trascinai fuori dal letto, raccattai i vestiti nuovi sulla sedia e andai in bagno a darmi un aspetto almeno decente.

Erano già le 6:30 quando finii di prepararmi e mi recai in sala per fare colazione. Mio padre era lì che finiva di apparecchiare, minuzioso come sempre. Aveva sempre voglia di parlare al mattino e, per sua fortuna, quel giorno anche io avevo voglia di fare un po’ di conversazione, anche se queste occasioni le si potevano contare sulle dita di una mano.

Divorai la colazione piuttosto velocemente e mi fiondai in camera a finire di preparare lo zaino. Come sempre ci impiegai una vita, per evitare di fare troppo rumore e quindi rischiare di svegliare mia sorella.

Le 7:00: era decisamente ora di andare alla fermata dell’autobus.

Da tre anni ormai mi svegliavo alle 6:00 del mattino per andare a scuola. Le lezioni iniziavano alle 8:20, ma dalle 7:00 alle 8:15 c’era il tragitto in autobus. Dopo un po’ ci si fa l’abitudine e l’ora del viaggio passa in un attimo. Stavo sempre seduta vicino a Chiara, una delle mie migliori amiche.

Andavamo nella stessa scuola, ma in sezioni diverse. Prima che me ne accorgessi eravamo già arrivate a destinazione. Attendemmo che l'autobus venisse parcheggiato e poi ci incamminammo verso scuola, seguite da Francesca che intanto ci aveva raggiunte.

Ero ancora intontita e non me la sentivo proprio di fare due ore di chimica. A cosa servirà la chimica in un liceo artistico? Pazienza, ormai ero lì, non mi potevo tirare indietro. Salutai Chiara e Francesca all’altezza del terzo piano e proseguii fino al quarto, aula 15. Come al solito ero in ritardo, metà della classe era già arrivata e per un pelo riuscii a sedermi al mio solito posto. Due ore di chimica di prima mattina erano davvero pesanti, ma in qualche modo, per puro miracolo, riuscii a non addormentarmi.

In classe c’era un gran chiacchiericcio, per lo più erano notizie inutili o private: ma tra esse sentii Veronica parlare con Noemi. Le stava dicendo di aver saputo che a Pesaro c’era qualcuno di famoso. Mi sembrò di capire che si trattasse di un band, ma non riuscii a coglierne il nome. Non era un fatto strano per me, infatti poco tempo fa c’era stato un concerto dei Muse proprio a Pesaro.

Passai in rassegna gli impegni del pomeriggio, dovevo proprio andare in centro quel giorno a prendere qualche libro in biblioteca. Mandai un messaggio a Laura e Chiara per chiedere loro di accompagnarmi. Alla quarta ora mi risposero entrambe dicendo che quel giorno proprio non potevano accompagnarmi. Finalmente erano finite le lezioni e mi sbrigai ad andare al piazzale degli autobus, prima che mi fregassero il posto. Sull’autobus cercai di convincere Chiara a venire con me in centro quel pomeriggio, ma non ottenni nessuno risultato.

Ad un certo punto mi venne in mente il discorso di Veronica che avevo sentito in classe.

«Chia, tu sai niente di qualche band che è a Pesaro?»
«No, perché?»
«Avevo sentito Veronica parlarne con Noemi..» risposi.
«Boh, non saprei dirti. Però tra poco i TH saranno a Pesaro!!» disse tutta eccitata.

Giusto, Chiara e Laura avevano un amore pazzo e incondizionato per i Tokio Hotel. Ogni volta che ne avevano la possibilità mi parlavano di loro e spesso e volentieri stressavano pure le altre due componenti del nostro piccolo gruppo: Eleonora e Rachele, cercando di farci diventare delle fans. Da un po’ di tempo ero riuscita però a farmi valere e da tre mesi ci avevano rinunciato, etichettandomi come una causa persa, cosa che mi faceva piacere da un lato.

«Ah, è vero. Per il concerto giusto?» domandai.
«Si! Non vedo l’ora!!». Sarebbe stato meglio se non avessi fatto quella domanda. Chiara prese a parlare a macchinetta sulla band tedesca che la ossessionava tanto, soffermandosi nel descrivere la “straordinaria bellezza” del chitarrista, Tom Kaulitz, ma dopo un po’ riuscii, per fortuna, a farle cambiare argomento.

Finalmente alle 15:00 arrivai a casa, mangiai e alle 16:00 uscii.
Non mi piaceva il centro, era pieno di gente che detestavo e in più era sempre affollato. Ma dovevo per forza attraversarlo, quindi parcheggiai il motorino in piazzale e mi diressi verso la biblioteca. Non era la via più breve che avrei potuto percorrere, ma avevo sbagliato strada e non avevo voglia di tornare indietro e riaffrontare il caos del traffico.

Come avevo previsto era inondato di gente, ma questa volta più del solito: strano. Le persone quel giorno erano frizzanti, eccitate, sarà per via della band? Notai quasi subito gruppi di ragazze che correvano ovunque. Non avevo mai capito quel comportamento così frenetico nei confronti di personaggi famosi e non mi interessava saperlo.

Mentre passavo davanti ad un bar, notai un ragazzo sui vent’anni comodamente seduto ad un tavolino, da solo. Aveva i capelli biondi e lunghi ed anche se erano raccolti, si capiva che non erano corti. Indossava un berretto beige e degli occhiali da sole che coprivano buona parte della faccia. Ero sicura che fosse un uomo, ma aveva un atteggiamento vagamente femminile. I suoi abiti, però, mi convinsero del fatto che fosse un ragazzo, infatti indossava una giacca di pelle nera lasciata aperta, jeans e scarpe da ginnastica. Sotto la giacca aveva una canotta bianca che delineava il suo corpo. Dal petto completamente piatto conclusi che fosse un uomo, anche se nutrivo ancora dei dubbi.

Era stranamente distaccato da tutto quel entusiasmo che coinvolgeva la piazza, rilassato e perfettamente a suo agio, come se per lui fosse una cosa normale. Che strano personaggio.
Proseguii spedita verso la biblioteca, lanciai un ultimo sguardo verso il ragazzo strano e mi sembrò quasi che anche lui mi stesse guardando, ma era impossibile da stabilire da dietro gli occhiali da sole.

Finalmente giunsi alla biblioteca, presi in prestito i libri che mi servivano e tornai al motorino.
Passai di nuovo per la piazza, l’euforia collettiva non si era assorbita per niente e, invece, mi sembrò che ci fosse addirittura più gente. Guardai verso il bar di prima, ma il ragazzo se n’era andato. Sorrisi nel pensare ad un tipo del genere che camminava in mezzo a quel caos.

D’un tratto sbattei contro qualcosa di caldo e quasi caddi, ma quel qualcosa, o meglio qualcuno, mi trattenne. Dallo spavento avevo chiuso gli occhi, gli riaprii e mi ritrovai faccia a faccia con il ragazzo sconosciuto. Mi staccai bruscamente da lui e mi piegai a raccogliere le mie cose, che erano cadute nello scontro.

«I’m so sorry!» disse il ragazzo piegandosi a sua volta per aiutarmi.

Quindi era pure straniero, perfetto. Adesso come potevo insultarlo ben bene?

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Capitolo 2
*** Impossibile ***


Quel ragazzo mi era appena arrivato addosso facendomi cadere la borsa, con tutto il suo contenuto. Mentre mi aiutava a raccogliere le cose, non faceva altro che blaterare a raffica in inglese, continuando a scusarsi. Nonostante tutto era abbastanza comica come scena.

«I’m really sorry!» continuava a ripetere.
«Ok ok! Ho capito! Smettila di scusarti!» gli dissi in inglese.

Finalmente finimmo di raccogliere tutto, a quel punto non sapevo più cosa fare. Dovevo andarmene?

«Ti sei fatta male?» chiese preoccupato.
«No, no, tranquillo».
«Stavo camminando con la testa tra le nuvole e proprio non ti ho vista!» disse dispiaciuto.

Apprezzavo il fatto che non mi avesse abbandonato per terra a raccogliere le mie cose, ma quella situazione era decisamente imbarazzante e non sapevo come levarmelo di dosso.

«Anche io non guardavo dove stavo andando. La colpa è anche mia». Era incredibilmente difficile sostenere interamente un discorso in inglese, ma sembrava avermi capito.
«Posso offrirti un caffè per scusarmi?».

Ero stranita da quella proposta, solo nei film avevo visto così tanta cavalleria da parte di un uomo o comunque di uno sconosciuto.

«Ok…». Che altro potevo rispondergli?

Mi indicò il bar dove l’avevo visto precedentemente. Gli passai davanti verso il locale, non c’ero mai andata anche se lo conoscevo. Prima che arrivassi all’entrata, il ragazzo mi precedette aprendomi la porta, mostrandomi un sorriso ammaliante. Solo allora mi accorsi dei numerosi piercing che portava. Ne aveva due sul labbro inferiore ai due lati della bocca, uno nel naso e mi sembrò di vederne uno pure sul sopracciglio destro, ma non ne ero sicura per via degli occhiali da sole ingombranti.

Gli sorrisi a mia volta ed entrai. Mi fermai al bancone e attesi che dicesse qualcosa.
«Che cosa prendi? Offro io». Terminò la frase incurvando la bocca in un sorriso dolce.
«Un cappuccino» risposi.


«Perfetto». Poi si rivolse al barista dicendogli i nostri ordini e aggiunse un’altra frase che non capii molto, ma presumevo si trattasse di avere un tavolo, perché dopo il barista gliene indicò uno in fondo al locale. Il ragazzo mi fece un cenno in quella direzione sfiorando lievemente la punta della mia spalla. Senza aggiungere altro mi diressi verso il tavolo e mi sedetti in una delle due sedie. Lui si mise davanti a me e si tolse berretto e occhiali: allora riuscii a vedere i suoi occhi. Erano castani, più sul nocciola in effetti, piccoli ed estremamente curiosi. Notai che la mia supposizione del piercing al sopracciglio era esatta, infatti portava fieramente un anellino al sopracciglio destro. Mi guardava dritto negli occhi, studiandomi. Chissà a cosa stava pensando. Dovevo rompere quel silenzio.

«Allora?».
«Allora cosa?» rispose lui.
«Qual è il tuo obiettivo?» indagai.
«Non ho nessun obiettivo particolare, però arrivati a sto punto mi piacerebbe conoscerti» disse lui ingenuamente.
«Capisco… Cosa vuoi sapere?».

«Innanzitutto, come ti chiami?».
«...Carla» mentii dopo un po’.
«E il tuo nome vero qual è?» mi stuzzicò perspicace.
«Amanda» mentii ancora, ma questa volta con più convinzione.
«Perché non mi vuoi dire come ti chiami?» disse esasperato. «Non sono un manico!» concluse.
«E chi me lo assicura?» lo provocai.

Si avvicinò a me di poco e poi disse con voce suadente. «Dovrai accontentarti di credermi» abbozzando un sorriso pieno di sottintesi.

Ci pensai su un po’. Non è una cosa da tutti i giorni scontrarsi con un ragazzo straniero e farsi offrire un caffè come scusa. Era già molto il fatto che avessi accettato la sua offera senza darmela a gambe. Doveva meritarsi la mia fiducia.

«Prima presentati tu. Poi lo farò io» gli proposi. Sorrise appena e si arrese.
«Ok, io mi chiamo Bill e vengo dalla Germania anche se attualmente abito a Los Angeles con mio fratello, Tom».

Sputò tutto velocemente e non capii niente, a parte il suo nome, così fui costretta a fargli ripetere la frase con più calma. Quando ebbe finito, calò un silenzio tombale. Non sapevo se ridere o andarmene subito. Se lui era Bill, quel Bill, io ero Jessica Alba.

«Non mi credi?» chiese notando il mio silenzio.
«Sinceramente no».
«Ahahahahah! Immaginavo, quindi ho delle prove». E mi mostrò un tatuaggio che aveva su tutta la mano sinistra. «Vedi i numeri?». Feci “sì” con la testa. «Questa è la prova che sono io e che non sto mentendo».

Impossibile. Non era possibile che stessi parlando con Bill Kaulitz, il cantante dei Tokio Hotel, l’idolo delle mie amiche. Quel tatuaggio alla fine non provava niente. Poteva benissimo essere un fan molto accanito.

«Allora ci credi?».
Deglutii. «Fammi vedere gli altri tatuaggi».

Avendo delle amiche Aliens, per me era facile sapere a memoria ogni loro tatuaggio, quindi non mi poteva fregare. Si tolse la giacca mostrando il suo corpo magro ma tonico. Mi indicò il braccio sinistro dove aveva un tatuaggio, la spalla sinistra, il petto, un pezzo del fianco sinistro, che sbordava dalla canotta e dietro il collo con l'immancabile simbolo della band.

«Soddisfatta?».
«E quello a stella?» chiesi ricordandomi degli enormi discorsi che mi avevano fatto su quel tatuaggio e, soprattutto, sulla sua collocazione. Ma dovevo essere sicura al 100% che non mi stesse mentendo.

Sbuffò e si alzò dalla sedia venendomi vicino. Alzò di poco la parte finale della canotta rivelando il tatuaggio a stella di cui Laura mi aveva parlato. Poi tornò al suo posto con aria soddisfatta.

«Adesso ti sei convinta?».

Non sapevo che dire. Ero in un gran pasticcio.

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Capitolo 3
*** Stordimento ***



«Se tu sei Bill Kaulitz, dove sono gli altri della band?»
«A farsi un giro in spiaggia. Io non posso andare dove c’è molto vento perché rischio di ammalarmi e addio Tour» rispose tutto d’un fiato. Ormai mi stavo abituando a parlare in inglese, ma il modo in cui parlava Bill era troppo veloce per i miei standard. Infatti capitava spesso che dovessi fargli ripetere delle frasi o delle parole, ma bene o male stavo facendo progressi.

«Ora mi dici come ti chiami per favore?» disse sorridendo.
«Martina» dissi infine.
«È quello vero?» chiese sospettoso.
«Si!».
«Allora piacere, Martina» disse sorridendo. «Quanti anni hai? Sembri piuttosto giovane».
«16. Mi spieghi cosa vuoi da me?».
«Non sei felice di parlarmi?» si accigliò.
«Perché dovrei? Io non sono una tua fan».
«Sì, questo si capisce» rise. «È per questo che voglio parlarti.»
«Cosa intendi dire?».
«Le Aliens sono magnifiche, ma è bello parlare con qualcuno che non sa chi sei» affermò.

Improvvisamente assunse un’aria malinconica e mi fece un po’ pena.
«Quindi non ti interessa se non mi piaci e non ascolto le tue canzoni?».
«No» e sorrise ancora. Intanto entrambi avevamo finito i nostri cappuccini e tornò il cameriere a prendere le tazzine.

Bill mi guardò per un momento che sembrò durare un'eternità, inchiodandomi con uno sguardo incomprensibile.
«Ti va di fare un giro?» chiese.
«E dove vorresti andare?».
«Non lo so, vorrei vedere un po’ la città».

All’improvviso mi venne un’idea. «Hai un …?». Dato che non sapevo come si diceva casco in inglese, gli mostrai il mio e mi spiegai a gesti. Colse al volo la mia intenzione e prima di rispondere rise di me.

«No, ma se serve posso prenderne uno!». Giusto. È ricco da fare paura.
«Allora ti va di fare un giro in motorino?»
«Veramente sarebbe meglio di no. Non ho una sciarpa con me e potrei ammalarmi».

«Ti presto la mia!». Ma che stavo facendo? Sicuramente non lo sapevo nemmeno io. Bill non era molto convinto del piano, ma poi si decise a venire. Pagò il conto e insieme uscimmo dal bar e ci recammo ad un negozio di caschi qualunque. Era divertente vedere come Bill si impegnasse a scegliere un casco che gli stesse bene e mantenesse comunque la sua funzionalità. Alla fine scelse una normale scodella nera, ma era seriamente soddisfatto dell'acquisto.

«Lo sai che devi guidare tu, vero?» gli domandai una volta usciti dal negozio.
Bill si fermò a guardarmi per capire se stessi scherzando, poi disse:«È uno scherzo, vero?». Parve seriamente preoccupato all’idea di guidare, possibile che … .


«Per caso tu non sai guidare un motorino?». Stavo cercando di non ridergli in faccia.
«Non è che non lo so guidare, ma non guido uno scooter da anni ormai e mi sentirei più sicuro se lo guidasse qualcuno che …sai, che lo porta di continuo e che abbia una guida allenata e che ...» lo zittii.

Avevo capito poco e niente del discorso ma intuii che voleva che guidassi io.
«Guiderò io». Ormai gli stavo proprio ridendo in faccia e non mi importava più di non farglielo notare. Non era così male dopotutto.

Improvvisamente Bill mi fece voltare verso lui, stringendomi a sé. Mi guardò dritta negli occhi. Restai paralizzata da quel gesto così improvviso, che trattenni il fiato. Potevo sentire il suo respiro sulle guance e questo mi causò uno stordimento maggiore.

«Mi stai prendo in giro?» chiese con voce suadente. Mi girava la testa e non sapevo che cosa rispondergli.
«T-ti dovresti rimettere gli occhiali da sole e il cappello se non vuoi farti riconoscere» sputai in fretta.

Lentamente Bill sciolse la sua presa ferrea che aveva formato attorno a i miei fianchi e seguì il mio consiglio, quindi si girò e prese a indossare il piccolo travestimento che gli permetteva di andare in giro indisturbato. Quel improvviso contatto mi aveva stordito più del necessario, ma non volevo assolutamente che Bill potesse accorgersene, quindi mi ricomposi alla svelta e proseguì verso il motorino a passo spedito sentendo che Bill era appena dietro di me.

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Capitolo 4
*** Confusione ***


Arrivati nel parcheggio puntai dritta verso il mio motorino, Bill era sempre dietro di me, ma percepii che aveva rallentato il passo. Su, non avrei mai osato fare un incidente con lui dietro. Sarei finita minimo in prigione!

«È questo» indicai il mio cinquantino a due posti sgangherato. Non mi dispiaceva il mio mezzo. Andava agli ottanta e aveva un sottosella molto spazioso e a me bastava quello.

«È sicuro?» chiese titubante osservando il motorino.
«Certo!». Lo accesi con la pedalina e saltai su togliendo il cavalletto. Mi infilai il casco e attesi una sua mossa.

«Dai, salta su!». Mi guardò scettico, poi prese il suo nuovo casco e se lo infilò, facendolo stare ben saldo alla testa, poi con cautela montò sul secondo posto avvinghiandosi stretto ai miei fianchi. Nonostante fosse piuttosto magro, era molto forte. Sentii le sue braccia attorno alla mia vita, avvolgendola completamente e provai un po' di disagio.

Partii lentamente, in maniera progressiva, per evitare di terrorizzarlo del tutto. Appena uscii dal parcheggio e mi infilai nella strada, sentii la presa di Bill farsi più ferrea: era meglio portarlo in un posto tranquillo, quindi presi la strada che portava al parco Miralfiore, sarebbe stato al sicuro lì, lontano dai paparazzi e dalle fan accanite. Tuttora non capivo perché stavo ancora con lui, perché dopo il caffè non me ne ero semplicemente andata? Fino ad allora non mi era mai interessato niente di lui o della sua band, gli avevo sempre considerati degli sfigati e ora ero in motorino con quel cantante che aveva ossessionato così tante ragazze. Perché lo stavo facendo?
Arrivammo al parco indenni, ma percepii che Bill ne era rimasto traumatizzato.

«Puoi scendere» lo informai. Ancora una volta stavo cercando di non ridere di lui. Lentamente sciolse la presa d’acciaio con cui mi aveva stretta fino a quel momento e scivolò via dal posto del passeggero. Quando scesi pure io, mi resi conto improvvisamente della sua altezza, era altissimo! Sarà stato almeno 1,90 m, che a confronto con il mio metro e sessanta, era enorme.

«Dove siamo?» domandò guardandosi intorno.
«Al parco Miralfiore. Tranquillo, siamo vicini al centro» gli risposi assicurandolo.
«È carino» concluse sorridendo, poi aggiunse:«Ci facciamo un giro?» e riecco la voce suadente. Perché lo faceva? Cosa avrebbe ottenuto comportandosi in quel modo? Arrivati a quel punto non sapevo più se era il caso di restare.
«Veramente penso che sia ora che io torni a casa …» non ebbi il tempo di finire la frase che Bill mi afferrò la mano, trattenendomi.
«No, non andare!» mi supplicò. Mentre lo disse si avvicinò. Poi non seppi più trattenermi.
«Perché?» sbottai. «Perché lo fai?».
«Ti da così fastidio il fatto che voglio stare in tua compagnia?».

Come potevo credergli? Come potevo credere che Bill Kaulitz volesse passare del tempo con me? Con me! Una sconosciuta!
Mentre stavo ragionando sulle sue parole sentii le sue dita sfiorare lievemente la mia guancia e improvvisamente mi trovai ipnotizzata dal suo sguardo profondo e illeggibile. Immobilizzata in quella posizione il mio cervello aveva smesso di ragionare. Finalmente mi tornò la parola. «Ok, resto». Mi ritrassi da lui e da tutta quella confusione che stavo provando.

Bill sembrò deluso dalla mia reazione, ma si ricompose subito e si stampò un sorriso sulla faccia.
«Fammi strada» disse facendo un piccolo inchino indicandomi la via principale. Lo sorpassai e feci strada. Mi aspettavo che rimanesse dietro di me, invece mi si affiancò a pochi centimetri, tanto che capitava che ci sfiorassimo con le braccia mentre camminavamo.

Era, fortunatamente, una bella giornata e faceva caldo, quindi mi tolsi la giacca e rimasi con la camicia a scacchi che indossavo sotto. Sapevo che lui mi stava guardando, mi sentivo il suo sguardo indagatore addosso. A parte questo Bill non fece altro e rimase con la giacca, il berretto e gli occhiali da sole. Ogni tanto mi faceva qualche domanda buttata lì, tipo: quanti anni avevo, che scuola facevo, che musica ascoltavo, e cose simili. Tra tutte le risposte che gli diedi, Bill rimase particolarmente colpito nel ricordare la mia età. Sembrò cogliere solo in quel momento la differenza tra noi, che era di ben 7 anni.


Decidemmo di fermarci nel bar del parco e ci prendemmo dei gelati. Io avevo preso i miei soliti gusti, alla crema e biscotto. Bill invece scelse pistacchio, cioccolato e fragola e mescolò tutto facendosi fare un frappé. Non avevo mai visto, né assaggiato, quei gusti tutti insieme quindi mi incantai a guardare quel bicchiere pieno di tre gusti che, secondo me, erano diversissimi tra loro. Venni strappata dalla ragnatela dei miei pensieri dalla voce di Bill che stava cercando di dirmi qualcosa.

«Scusa, puoi ripetere?» chiesi ricomponendomi.
Scocciato, Bill ripeté:«Posso assaggiare il tuo gelato, per favore?».

In risposta gli porsi il mio gelato che afferrò con la mano sinistra e se lo portò all’altezza della bocca, lo studiò un attimo e poi lo leccò portandosi via un bel pezzo di gelato. Mi colpii molto la profonda striscia che aveva lasciato con la lingua. Era più piccolo e più profondo, allora ricordai...

«Mmmm, buono!» esclamò soddisfatto e mi ripassò il gelato.
«Hai un piercing alla lingua» dissi senza pensare. In quel momento mi venne in mente una delle tante volte in cui Laura mi aveva parlato di Bill e mi ricordai che mi aveva detto che lui aveva anche un piercing alla lingua fin da quando era piccolo.

«Sì, ma non lo sapevi?» mi stuzzicò.
«Sì, me ne ero dimenticata» mi giustificai immediatamente.
«Ah, quindi mi conosci!» mi stava ufficialmente provocando.
«Due mie amiche sono delle Aliens sfegatate, quindi è ovvio che un po’ ti conosco» risposi acida.
«E non vuoi conoscermi di più?».
«Decisamente, no».

Bill si prese una pausa, poi disse:«Mi odi così tanto?». Nel dirlo si allungò sul tavolo davanti al quale eravamo seduti e di nuovo mi immobilizzò nel suo sguardo illeggibile e mi fece tornare la confusione nella mente. Il mio corpo si mosse da solo avvicinandosi sempre più a Bill e, ne fui certa, i battiti del mio cuore cominciarono ad accelerare.

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Capitolo 5
*** Impatto ***


«Buono il gelato!» esclamai. Bill ed io stavamo tornando al mio motorino, dovevo tornare a casa e non potevo lasciarlo lì da solo. Quindi optammo in comune accordo che l’avrei riportato io in centro, ma perché non poteva farsi venire a prendere da suo fratello? Va beh, ormai avevo accettato e non potevo tirarmi indietro.

Camminando mi venne in mente la scena di prima. Stavo fantasticando troppo e mi sarei fatta prendere dal momento se non ci fosse stata una vocina nella mia mente che mi diceva di riprendermi. Infatti mi ero bloccata appena in tempo, a pochi centimetri da lui, dicendo:”Meglio che finisca il gelato prima che si sciolga”. Forse non fu la scusa migliore che potessi dire, ma fu l’unica che mi venne in mente. Bill non fu entusiasta di quella mia risposta e a malincuore tornò seduto normalmente nella sua sedia.

Comunque ora eravamo sulla strada per il mio motorino. Intanto avevamo continuato a parlare del più e del meno, continuando a conoscerci a vicenda. Una volta raggiunto il mio mezzo, presi il casco dal sottosella, stavo per metterlo quando le mani di Bill mi fermarono improvvisamente. Mi girai verso lui con aria interrogativa, cercando di rilassata il più possibile.

«Hai i capelli scomposti» mi informò e senza aspettare una mia risposta con l’altra mano mi aggiustò la mia ciocca ribelle, poi ritirò entrambe le mani e si mise il casco. Mi sembrò di vedere un sorriso sulle sue labbra, ma non ne fui sicura.

Ancora scioccata indossai, finalmente, il mio. Montai in sella e aspettai che anche Bill salisse. Questa volta fu più sicuro e si sistemò facilmente sul secondo posto, ma stranamente si avvinghiò a me come all’andata. Partii progressivamente come prima, ormai avevo imparato la tecnica giusta.

L’aria intanto si era rinfrescata, così rallentai per evitare di fare ammalare il mio passeggero, nonostante indossasse ancora la mia sciarpa. Giungemmo al piazzale in poco tempo, la calca stava lentamente scemando, ma per i miei gusti c’era ancora troppa gente. Parcheggiai nel primo posto libero, questa volta Bill non aspettò a scendere. Scivolò via con un unico movimento fluido e, togliendosi il casco, mi scoccò un sorriso di ringraziamento.

«Non ti da fastidio tutta questa gente?» chiesi indicando un gruppo enorme di ragazze che stavano urlando.
Sorrise. «No, le Aliens significano molto per noi. Fanno costanti sacrifici per la band e non saremo mai in grado di ripagarle abbastanza per il loro impegno». Assunse un’aria colpevole mentre diceva l’ultima parte della frase.

Nel giro di un solo pomeriggio ero riuscita a cambiare idea sul cantante dei Tokio Hotel, era apposto dopotutto. Avevamo chiacchierato molto e se avessimo avuto più tempo saremmo potuti diventare buoni amici, forse.

Improvvisamente Bill si accigliò guardandomi.
«Che c’è?» chiesi controllando che fossi tutta in ordine.
«Hai qualcosa tra i capelli affermò. Togliti il casco che te lo levo».
Ubbidii e mi sfilai il casco, lo allacciai allo specchietto e mi specchiai in uno di questi.

«Dov’è?» chiesi frugando freneticamente tra i capelli.
«Là» indicò Bill. Continuai nella mia ricerca, ma non riuscivo a trovare niente.
«Non lo trovo!». Stavo iniziando a preoccuparmi che fosse un insetto schifoso. «Toglimelo!» e mi voltai verso lui inclinando la testa. Lo sentii fare una leggera risata e dopo le sue mani presero a spostarmi ciocche e ciocche di capelli, sembrava che li stesse pettinando.

«Trovato?» domandai dopo un po'.
«Sì» rispose.

Alzai la testa:«Cos’era?». Senza dire niente le mani di Bill si spostarono dalla mia testa alle guance, tenendomi il viso. Si era tolto gli occhiali e potevo vedere l’intensità del suo sguardo su di me. Avevo la testa che vorticava e una stretta allo stomaco, quasi non mi accorsi che Bill si stava piegando su di me. Si fermò a pochi centimetri dal mio viso, aveva ancora gli occhi puntati su di me, poi con delicatezza poggiò le sue labbra sulle mie. Il contatto con i piercing mi fece rabbrividire e una scarica elettrica mi percorse lungo tutta la spina dorsale. Non sapevo cosa fare e mi girava la testa, ma il corpo sapeva benissimo come comportarsi, infatti mi accorsi solo dopo che a mia volta, avevo risposto al suo bacio.

Quel contatto durò una manciata di secondi, poi Bill si staccò di poco dalle mie labbra, guardandomi e successivamente tornò a baciarmi, questa volta più deciso, con meno freni. Mi sentii il sangue ribollire e di colpo mi ritrovai avvinghiata a lui, con una mano affondata nei suoi capelli e l’altra aggrappata all’incavo del suo collo. Se il contatto con i piercing sulle labbra mi avevano stordita, con quello sulla lingua impazzii. I nostri respiri divennero affannosi ed entrambi ci facemmo trasportare sempre di più dal momento. Nessuno di noi sembrava intenzionato a smettere, ma poco dopo fu Bill a interrompere il bacio, anche se rimase esattamente nella sua posizione: abbracciato a me, con una mano sul fianco e una sulla schiena.

Lo guardai in faccia, incredula di ciò che avevo appena fatto e notai che anche Bill era spiazzato, anche se non sapevo se per me o per se stesso. Con mia sorpresa notai che le sue guance avevano assunto un leggero colorito rosato e pensai che sicuramente ero rossa pure io.
«E questo che significa?» chiesi.

Bill sembrava ancora frastornato, quindi fui costretta a riportarlo al mondo terreno schioccando le dita. Ebbi successo e lui tornò con i piedi per terra. Allora gli ripetei la mia domanda e in risposta Bill si staccò da me, allontanandosi di due passi.
«Non lo so …» farfugliò.

Poi cominciò a parlare in tedesco fra sé e sé ad una velocità disumana. A quel punto mi sentii una terza incomoda e decisi di andarmene. Feci per prendere il casco, ma Bill riemerse dal suo monologo e mi bloccò. Appoggiò la mano destra sul mio collo, mantenendo comunque una certa distanza. Aveva paura?

«Vorrei poterti rivedere» disse infine.
«Ma non possiamo» conclusi io. Lui era il cantante dei Tokio Hotel ed io una studentessa italiana delle superiori, non c’era spazio per qualcosa tra noi ed era inutile sperarci. Le mie parole trafissero Bill come una lama e un velo di tristezza gli ricoprì il viso. Avvicinò la sua faccia alla mia e ci sfiorammo appena le labbra. Il desiderio che scorreva tra noi due era incontestabile e lo percepivamo entrambi. Il suo respiro mi inebriava la testa e avevo perso il senso del tempo e del luogo.

Ad un certo punto Bill si riscosse e mi staccò bruscamente da lui, poi disse:«Vieni al concerto dopodomani!». Senza darmi il tempo di rispondere tirò fuori dalla tasca un foglietto bianco, scarabocchiò sopra poche parole e poi me lo consegnò.
«Mostra questo ai bodyguard all’entrata, ti faranno passare e ti porteranno proprio sotto il palco» esclamò tutto eccitato, rinvigorito da una nuova speranza. «Porta pure le tue amiche!» aggiunse.

Era scorretto, stava usando la carta delle mie amiche contro di me, ma non potevo negare loro dei posti assicurati sotto al palco … . Poi Bill si avvicinò al mio orecchio e disse:«Dopo il concerto verrete portate dietro le quinte …» si interruppe lasciando trapelare i sottintesi che aveva quella frase, poi si riprese:«Ti prego vieni». Detto questo mi diede un ultimo bacio e si allontanò, a grandi falcate, rimettendosi gli occhiali. Lo seguii con lo sguardo finché non lo vidi sparire tra la folla, allora mi appoggiai al motorino sentendo che le gambe stavano cedendo.

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Capitolo 6
*** Interrogatorio ***


Ero sconvolta. Non c’erano parole per descrivere quanto mi sentissi sconvolta. Avevo appena passato un intero pomeriggio con Bill Kaulitz e alla fine c’eravamo pure baciati! Chi mai mi avrebbe creduto? Sicuramente non le mie amiche, anche io non avrei creduto a me stessa. Sentivo ancora i battiti accelerati del mio cuore, che non avevano intenzione di rallentare e avevo la testa tra le nuvole.

Ricomposi i miei pensieri tenendoli ben lontani da quanto era appena accaduto, per evitare di farmi venire una crisi di nervi ipertesi, e decisi di tornare a casa. Guidare mi calmò, anche se solo in parte, ma era già qualcosa. Arrivai a casa alle 18:30 e, prima che potessi parcheggiare il motorino, mia madre si affacciò al terrazzo della cucina, facendomi segno di fermarmi. Mi bloccai lì dov’ero e gli urlai:«Cosa c’è?».

«Mi vai a fare la spesa?» rispose urlando a sua volta. Ci pensai su un attimo, poi accettai. Avevo bisogno di stare un po’ da sola a pensare, così mi feci dare la lista, i soldi e ripartii per andare all’Iper Rossini che era lì vicino. La lista era semplice: pane, latte e affettati, ma non avevo voglia di fare tutto subito, così, una volta arrivata dentro, mi trastullai a riguardare la sezione dei libri. Amavo fermarmi lì a vedere le ultime uscite e leggere la trama di quelli che mi ispiravano di più.

Il reparto si trovava davanti a uno svicolo del supermercato piuttosto grande, che dava accesso a svariati corridoi, compreso quello principale. Lì in mezzo vidi un ragazzo con una lista in mano, che si stava guardando in torno. Aveva un’aria completamente spaesata e confusa, probabilmente non era di quelle parti. Il ragazzo poi incrociò il mio sguardo e, anche se aveva gli occhiali da sole, sapevo che stava guardando me. Avanzò nella mia direzione e si fermò circa ad un metro da me, poi disse:«Can you help me?». Rimasi attonita per la sua voce. Era similissima a quella che avevo ascoltato tutto il pomeriggio, ma non era la stessa. Lo guardai meglio ed ebbi un’illuminazione.

«Tu sei il fratello di Bill, Tom!» affermai in inglese.
Sorrise colpevole, poi disse:«E tu sei la ragazza che si è presa cura di mio fratello questo pomeriggio».
«Lo sapevi già?»
«Non ne ero certo, quindi sono venuto a confermare» terminò la frase con un sorriso malizioso.
Perché capitavano tutte a me? Perché l’unica ragazza che non ascoltava i Tokio Hotel in tutta Pesaro era costantemente destinata ad incontrarli?

«Quindi mi puoi aiutare?» mi incalzò Tom mostrandomi la lista, cosa che fu inutile perché era tutto scritto in tedesco.
«Va bene, tu dimmi cosa c’è scritto qui e io ti aiuto a prenderlo» tanto ormai mi ero rassegnata al cercare di dire di no a un Kaulitz.

Tom non era alto come il fratello, anche se di poco. Indossava dei larghissimi pantaloni della tuta sull’azzurro-blu e un felpone bianco che si intonava alle scarpe dello stesso colore. Teneva il cappuccio sulla testa e degli enormi occhiali di sole, simili a quelli di Bill, ma al contrario del gemello Tom era completamente sbarbato. Suo fratello invece aveva già un accenno di barba, e io lo sapevo bene.

In risposta alla mia proposta, Tom si riprese il biglietto della spesa e cominciò a farmi l’elenco delle cose da prendere in inglese. Alcune cose non le avevo capite, quindi cominciai da quelle di cui ero certa, ovvero: pasta, latte, uova, pane, succo di frutta e acqua, gli altri ingredienti me li sarei fatta spiegare più tardi. Feci mente locale dei vari reparti e partii, infilandomi nei vari corridoi.

Mentre mi muovevo dentro il supermercato con Tom alle calcagna, lui continuò a parlare tutto il tempo. Mi interrogò su tutto quello che gli passava nella testa, senza filtri o pudore. Molte delle domande che mi fece furono innocue, ma altre avevano il chiaro scopo di capire cosa ne pensassi di Bill e non si preoccupava di girare attorno alla questione.
Infatti una di queste fu:«So che tu e mio fratello vi siete baciati». Come avevo detto, senza pudore. A quanto parve, il suo gemello non sapeva tenere le cose per sé.

«Sì» confermai.
«Quindi lui ti piace?». Come avevo detto, senza filtri.
«Sono abbastanza confusa sull’argomento» dissi noncurante.
«Ma anche tu l’hai baciato. Quindi non ti è indifferente» mi incalzò.
«Non ne sono sicura» risposi schiva.
«Perché non lo ammetti e basta?» mi provocò lui. Prima di rispondergli feci dei respiri profondi, per evitare di insultarlo. Perché non lasciava perdere e basta?
«Perché farebbe troppo male ammetterlo» dissi infine. Era la verità, ammettere che coltivavo delle piccole speranze nei confronti di Bill mi avrebbe fatto troppo soffrire.

Dopo questo discorso si placò un po’, ma poi ripartì all’attacco cercando di arrivare in fondo all’argomento. Intanto avevo finito la sua spesa e mi stavo concentrando sulla mia, ma Tom non si volle staccare da me, mi si appiccicò come una sanguisuga affamata, fino a quando andai alla cassa veloce per pagare. Ovviamente dovetti aiutarlo ancora nella sua spesa poiché le casse parlavano in italiano. Tom sembrò divertirsi a guardarmi passare le cose per pagarle. Si accontentava di poco. Quando finalmente ebbi finito consegnai la spesa a Tom e lo salutai, ma lui mi bloccò facendomi voltare verso lui, mi voleva dire qualcosa.

«Bill non passa un pomeriggio intero con qualcuno che non gli piace né la bacia così alla leggera. Te lo dico perché lo conosco bene e so che lui ci tiene a te, quindi per favore, accetta la richiesta che ti ha fatto e raggiungici dietro le quinte dopo il concerto di dopodomani, lo faresti molto felice». Terminò la frase accennando un sorriso, poi mi diede una pacca sulla spalla e se andò lasciandomi con più confusione di quanta ne avessi quando ero entrata.

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Capitolo 7
*** Notizia ***


«Marti, è pronto» urlò mia madre dalla cucina. Ero davanti al computer su twitter e facebook, ma soprattutto ero su google immagini a guardarmi delle foto di Bill. Tra le foto che vidi ce ne furono poche che rispecchiassero il vero carattere del ragazzo con cui mi ero scontrata questo pomeriggio e ce ne erano ancora meno di foto realmente recenti.

A quel punto non sapevo più cosa pensare, in più c’erano le parole di Tom che mi rimbombavano nelle orecchie. Che nervoso! Mi aveva lasciato con dei dubbi enormi al supermercato! Bill mi piaceva? Accantonai subito quella possibilità, non potevo permettermi di farmi piacere un cantante. Era fuori discussione.

Mi allontanai dalla scrivania e andai in sala. Mia madre aveva ancora fatto la carne bianca, guardandola mi venne in mente la spesa sostanziosa di Tom e, ancora, mi sentii avvilita dalla diversità delle nostre vite. Mi accomodai al mio posto e presi a mangiare. Dato che sapevo che mia mamma avrebbe notato il mio umore un po’ giù, mi sforzai al massimo di apparire come al solito.

Per fortuna il mio piano riuscii e non ebbi problemi per tutta la cena. Dopo andai a farmi la doccia. L’acqua bollente mi fece sciogliere i muscoli tesi dalla situazione e contribuì a farmi pensare su tutto quello che era successo. Trassi alcune conclusioni: era veramente successo tutto, Bill mi attraeva più di quanto volessi ammettere a me stessa e avrei seguito il consiglio di Tom, sarei andata dietro le quinte dopo aver assistito al concerto, ma avrei fatto venire anche Laura e Chiara, altrimenti non me lo avrebbero mai perdonato.

Andai a letto con i capelli ancora un po’ umidi, ma non avevo voglia di perdere tempo ad asciugarli. Speravo che il sonno avrebbe portato via tutte quelle sensazioni che mi stavano opprimendo, non fu così. Il giorno dopo mi svegliai e notai subito che non era cambiato niente dalla sera prima, ma non avevo il tempo per pensarci su perché dovevo andare a scuola. Era da spararsi il mercoledì. Le materie che avevo quel giorno erano: tre ore di italiano/storia, una di filosofia, due di ginnastica (che erano diventate piscina) e il rientro di tre ore e mezza. Come avevo detto, era da spararsi il mercoledì. Cercai di non pensare alla giornata che avrei avuto di lì a poco e mi concentrai a prepararmi in orario. Non mi truccai quasi per niente, dato che dopo avrei dovuto nuotare, ma mi portai i trucchi dietro per sopravvivere al rientro.

Quando arrivai sull’autobus notai che Chiara aveva un’aria un po’ troppo gioiosa per essersi appena svegliata.

«Buongiorno» la salutai.
«Ciao!» rispose lei con entusiasmo.
«A cosa è dovuta tutta questa euforia?». Avevo paura di conoscere la risposta.
«La band di cui mi hai chiesto ieri so qual è!». Fece una pausa per sentire la mia risposta, ma io rimasi muta. «Sono i Tokio Hotel!» esplose infine.

«Ah, già» fu l’unica cosa che seppi dire. Decisi che era quello il momento per dirle dei posti in prima fila e tutto il resto, beh, non tutto tutto.
«A proposito,» cominciai, «ieri un tizio mi ha fermato regalandomi una specie di pass per avere i posti proprio sotto il palco e …» Chiara esplose in diverse urla di gioia, tanto che fui costretta a tapparmi le orecchie. A quel casino la gente dell’autobus non fece attendere le proteste per il casino.

Dopotutto erano le 7:10 del mattino…
Chiara si zittì subito e poi mi fece cenno di continuare. «… e quel pass ci da la possibilità di andare dietro le quinte dopo il concerto…». Venni interrotta di nuovo dalle sue urla, anche se stavolta cercò di farle sottovoce, ma non le riuscì bene. Poi si interruppe bruscamente:«”Ci”?» e mi squadrò. Cominciava il pezzo più difficile.

«Sì, già che ci sono vengo, così vi tengo d’occhio se svenite o cose simili..» cercai di essere il più convincente possibile. Fortunatamente a Chiara sembrò importare molto poco del fatto che sarei venuta pure io, era completamente presa a fantasticare su quanto le avevo appena riferito. Mancava solo dirlo a Laura e cominciai già a preoccuparmi della sua reazione. Sarebbe stata almeno tre volte più euforica di Chiara e questo mi spaventava non poco.

«Lo dici tu a Laura?» la implorai.
«Già fatto! Le ho mandato un messaggio con scritto tutto!». Ovviamente. «Aspetta! Ma quindi possiamo entrare quando vogliamo?». Se fossimo state in un cartone animato o in un film tresh, Chiara avrebbe avuto gli occhi a cuore.
«Sì, penso di si». In effetti non sapevo se potevamo entrare dopo o no, ma avendo i posti assicurati in prima fila non c'era bisogno di appostarsi lì già dal mattino.
«Perfetto!» esclamò.

Per tutto il viaggio Chiara mi bombardò di domande e mi fece ripetere cinque volte come avessi ottenuto quei pass. Ormai sapevo la mia parte alla perfezione, tanto che riuscii quasi a convincere me stessa di quella versione degli eventi, aggiungendo ogni volta particolari in più della scena, ma poi mi venne in mente il bacio di Bill, le sue mani attorno alla mia vita e mi convinsi che quei ricordi erano reali. Quando ci pensavo Chiara non sembrava accorgersene, bene. Mi risparmiava ulteriori mezogne.

Finalmente arrivammo a scuola e fui quasi lieta di passare tre ore a distrarmi, concentrandomi sulla vita e opere di Ludovico Ariosto. L’ultima delle tre la passammo a guardare Roberto Benigni che commentava non so quale canto della Divina Commedia, poi finalmente arrivò l’intervallo. Mi sollevai alla vista di Francesca. Lei era una delle persone più tranquille che conoscessi ed era sempre disposta ad ascoltarmi quando ne avevo bisogno. E con sempre intendevo, sempre.

«Franci!» esclamai abbracciandola. «Devo raccontarti una cosa» la informai.
«Dimmi tutto!»
«No, non adesso. Dopo il rientro sull’autobus» conclusi seria. «Ah, non dire niente a Chiara».
«Ok». Non sapeva cosa le dovevo dire, ma intuì che era qualcosa di serio e che mi preoccupava molto. Erano queste le qualità che amavo di più di Francesca: il fatto che fosse sempre disponibile.

Poco dopo arrivò Chiara che raccontò subito a Francesca della notizia che le avevo dato quella mattina, parlando a macchinetta. Durante le tre ore era diventata più eccitata. Io cercai di comportarmi come al solito senza destare sospetti, trepidante per raccontare la mia folle esperienza, con Bill Kaulitz, del giorno prima a Francesca.

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Capitolo 8
*** Reale ***


Era dall’inizio dell’anno che cercavo di capire qualcosa di filosofia, ma non avevo mai avuto molto successo, io non la capivo e lei non voleva farsi capire, semplice. Quindi per me le lezioni di filosofia erano diventate che: io facevo ogni tanto qualche domanda alla professoressa, così lei pensava che io stessi attenta, ma in realtà ero concentrata a giocare a line runner. Ma quel giorno non fu così. Infatti la mia mente era presa da altri pensieri, ben lontani da uno stupido giochino del telefono. Pensai a Bill, a Tom e a tutto quello che li circondava. Mi accorsi che era suonata l’ora solo quando Deborah e Chiara mi chiamarono a gran voce, già fuori dall’ aula. Dovevano affrontare due ore di piscina, insostenibile.
Le ore di nuoto mi portarono via più energia del previsto, ma per fortuna di lì a poco sarei andata a pranzo.
 
Avevo ancora i capelli un po’ umidi quando presi l’autobus interno di Urbino per arrivare all’altra sede. Sì, avevamo due sedi, ma la seconda era specifica solo di animazione, ovvero l’indirizzo che avevo scelto io. Si trovava nel centro cittadino della città, mentre la sede “di tutti” era più distante, vicino all’ospedale.
 
Pranzai con alcuni della classe e poco dopo iniziarono le lezioni. Come ci si aspettava che facessi, disegnai tutto il tempo e finalmente anche le quattro ore del rientro terminarono. Prima che suonasse l’ultima campana, io ed altri eravamo già pronti a scattare per andare a guadagnarci i posti sull’autobus del ritorno, come era nostra abitudine fare. Quel giorno non andai troppo veloce, ero troppo stanca, ma mantenni comunque un passo piuttosto spedito.
 
Ero intenta ad ammirare la fumetteria dove mi rifornivo costantemente di manga, quando mi sentii trascinata fuori dalla via principale per ritrovarmi in una viuzza buia con le spalle al muro. Il mio aggressore era forte e alto, non riuscivo a reagire, né a vederlo in faccia, poi sentii un profumo familiare inebriare l’aria circostante e dopo mi ritrovai a baciare Bill. Ero incredula di quanto stava accadendo, ma non volevo perdere tempo, non volevo sprecare quei pochi secondi che avevamo a disposizione per fargli delle domande sciocche. La sua bocca aveva un sapore agrodolce ed era vogliosa della mia. Poco dopo ci staccammo, avevamo tutti e due un po’ di fiatone e non smettemmo mai di guardarci.

Bill era ancora vestito in incognito: capelli raccolti sotto a un cappello, questa volta nero, maglia verde aderente, a fantasia con sopra una anonima giacca di jeans piuttosto scura e jeans grigi. Non riuscii a vedere le scarpe per via della mia posizione, ma intuii che fossero delle converse. 
«Come facevi a sap…» cominciai, ma Bill mi zittì poggiandomi un dito sulle labbra.
«Volevo vederti e ho convinto i ragazzi a fare un giro qua a Urbino. Sapevo che eri appena uscita da scuola perché ho fatto delle piccole ricerche ieri sera». Piccole? Sorrisi e lo baciai dolcemente. Avrei voluto rimanere lì con lui più a lungo, ma improvvisamente mi ricordai di dovermi muovere a prendere l’autobus, così dissi a malincuore:«Devo andare, mi sono trattenuta anche troppo». Bill annuì, mi diede un ultimo bacio sulla fronte e poi mi lasciò andare, facendomi scivolare tristemente via dalle sue braccia protettive.

Prima di andarmene via gli dissi:«Verrò domani». Quelle poche parole fecero fare a Bill un sorriso ampio e genuino, era proprio contento. Poi mi voltai e presi a correre giù nella discesa della via principale fino a Mercatale. Quel breve incontro mi aveva rigenerato tutte le forze che avevo perso durante la giornata. Possibile che fossi già così dipendente da lui? Era questo quello che definivano “colpo di fulmine”? Preferii non pensarci troppo e a concentrarmi nel non inciampare mentre correvo.
 
Il mio autobus era già arrivato, ma riuscii comunque a trovare due posti ancora liberi. Poco dopo arrivò Francesca insieme all’ammasso di gente che faceva il rientro quel giorno. Non mi sarei mai abituata a tutta quella confusione. Mi salutò, si sedette accanto a me e iniziò a togliersi giacca e sciarpa.
 
«Ciao »disse.
«Oi» risposi.
«Allora, mi dovevi dire qualcosa?». Infatti dovevo, ma non sapevo da dove cominciare. Ci avevo pensato per tutto il giorno al discorso che le avrei dovuto fare, ma alla fine non sapevo minimamente da dove partire e, soprattutto, non sapevo come evitare di sembrare una pazza.

Decisi di cominciare da ieri, prima di incontrarlo e poi continuai a briglia sciolta raccontandole anche della parte che riguardava Tom e dell’incontro di poco prima. Inizialmente fui molto lenta e cadenzata, poi le parole vennero fuori da sole travolgendo completamente la mia povera amica. Quando ebbi finito di dirle tutto eravamo quasi arrivati al Gallo e la faccia di Francesca era scettica.
 
«Quindi tu hai incontrato Bill Kaulitz» cominciò. Non era una domanda.
«Si».
«E avete passato un pomeriggio insieme».
«Si».
«E alla fine della giornata ti ha baciata» cominciavo a preoccuparmi che stesse per chiamare il 113.
«Si».
«Dopo hai incontrato suo fratello all’Iper che ti ha confermato il fatto che gli piaci e vi siete vistipoco fa».
«Esatto» confermai. Ero sicura che stesse pensando che ero pazza, ma dovevo provare a convincerla. Francesca si prese il suo tempo per riflettere, in silenzio.
 
Dopo molto tempo, alla fine disse:«Hai qualche prova di quello che dici?».
«Il biglietto che mi ha dato Bill ti va bene?».
«Si». Allora estrassi dalla tasca del giubbotto il biglietto che mi aveva dato Bill per accedere al concerto e andare dietro le quinte dopo. Lo porsi a Francesca che lo esaminò attentamente.
 
«Non è la tua scrittura» concluse. «Ed è scritto in tedesco, ma come faccio a sapere che non stai scherzando?».
«Dovrai accontentarti di credermi sulla parola perché non ho altre prove». Francesca mi guardò per un periodo infinito, cercando di cogliere qualche segno che dimostrasse che stavo mentendo, ma non trovò niente perchéavevo detto la verità.
 
«Ti credo» disse infine. Esplosi dalla gioia e le diedi un abbraccio stritolatore.
«Ok, ok, va bene. Basta » ansimò soffocata dalle mie braccia. La mollai subito e mi ricomposi nel mio sedile.
«Quindi andrai al concerto e dopo dietro le quinte».
«Si» risposi. Francesca mi guardò attentamente negli occhi e poi disse:
 
«Se senti che Bill è veramente speciale per te, goditi l’attimo. Potresti non averne più l’occasione».

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Capitolo 9
*** Ansia ***


Alle 18:30 spaccate scesi dall’autobus, mi aveva fatto estremamente bene parlare con Francesca. Mi aveva chiarito molte insicurezze e ammonito su altre. A quel punto, restava solo da aspettare il giorno dopo.
 
Fu mio padre a venirmi a prendere, come sempre. Saltai in macchina e mascherai la mia euforia con non poca fatica. Comunque riuscii a non destare troppi sospetti, anche se avevo capito che mio babbo aveva notato qualcosa, ma per fortuna non mi chiese nulla e gliene fui enormemente grata per questo. Per fortuna mio padre riusciva a capire quando era ora di fare domande e quando era meglio aspettare che le cose venissero fuori da sole.
 
Arrivata a casa riuscii solo a pensare. Ero ansiosa di andare al concerto, ma dovevo trovare una scusa con i miei che mi giustificasse per tutta la notte. Chiamai tutte le altre e ci accordammo all’unanimità che avremmo dormito a casa di Rachele la sera del concerto.  Riuscii a convincere mia madre a patto che il giorno dopo sarei andata comunque a scuola, ovviamente accettai.
 
Dopo cena mi appiccicai al computer a fare delle piccole ricerche sulla band a me sconosciuta, per comunque non arrivare completamente impreparata, quindi lessi in giro la loro storia e ascoltai qualche loro canzone in cuffia. Mia sorella, Federica, era accanto a me a guardare un episodio di chissà quale serie tv. Ad un tratto lei interruppe l’episodio e si girò verso me richiamando la mia attenzione. A mia volta rotai verso di lei e attesi che mi dicesse qualcosa.
 
«Ti vedo strana» cominciò.
«Cosa te lo fa pensare?»
«Non sei arrabbiata con nessuno, né iperfelice, né triste. Stai nascondendo una di queste emozioni». Aveva centrato in pieno. Restai in silenzio.
 
«Non voglio sapere se non mi vuoi dire» disse d’un fiato «ma spero solo che tu mi stia nascondendo una cosa bella» concluse.
«Sì, è una cosa bella» risposi «ma al momento non te la posso dire, scusami».
 
Mia sorella non era conosciuta come una che accetta i silenzi invece di sapere come stavano i fatti, ma questa volta si accontentò delle mie poche parole e si immerse di nuovo nella sua serie tv e anche io tornai alle mie ricerche un po’ dispiaciuta. Non mi  piaceva tenerle nascosto qualcosa, soprattutto se era così importante, ma non avevo altra scelta.

Andai a letto presto per evitare che l’ansia mi impedisse di dormire, infatti ci impiegai molto ad addormentarmi, ma alla fine il sonno prese il sopravvento su di me e sprofondai nel sonno senza accorgermene. Sognai cose indefinite e non coerenti, ma fui sicura di avere sognato Bill, perché al mio risveglio riuscii a pensare solo alla sera che stava per arrivare e avevo la sua faccia stampata in testa.

Quel giorno a scuola avevo quattro ore di progettazione e due ore di laboratorio di animazione, quindi sarebbe stata una giornata poco faticosa, e così fu. Chissà perché all’uscita di scuola mi aspettavo che comparisse Bill da un momento all’altro, ma non accadde e rimasi un po’ delusa, ma poi pensai che si stava sicuramente preparando per il concerto e allora mi tirai un po’ su.
 
Quella mattina Chiara non era mai stata zitta per un solo secondo e al ritorno fu ancora più eccitata, se possibile. Sebbene anche io fossi agitata, non lo diedi a vedere. E poi le mie motivazioni erano più personali rispetto alle loro fans.

Giunsi a casa con mia madre che mi stava già preparando lo zaino con le cose per “dormire fuori”. Senza farmi notare riuscii a infilare in quella sacca inutile un cambio d’abiti adatto ad un concerto. Alle 17:00 partii di casa per andare da Laura a prepararmi. Poco dopo arrivò pure Chiara, che si unì a noi. Ci eravamo accordate di lasciare i nostri zaini da copertura a casa di Laura e poi saremmo veramente andate a dormire da Rachele, se mai fossimo tornate per dormire.

Tra trucco e parrucco finimmo di prepararci alle 20:00. Quella sera i genitori di Laura cenavano fuori e quindi potemmo fare tutto senza nasconderci, ma il concerto cominciava alle 21:00, o comunque a quell’ora si poteva iniziare ad entrare. Raggiungemmo il luogo dello spettacolo con il motorino, era il delirio. Mai vista così tanta gente in vita mia, come potevamo anche solo raggiungere i bodyguard? A questa domanda rispose Chiara:«Ci faremo strada a spintoni!».
 
Era l’unica idea accettabile e inizialmente funzionò, ma pian piano diventò sempre più impossibile avanzare, ma almeno adesso eravamo a pochi metri dall’ingresso. Quando aprirono le porte si scatenò l’inferno. Venimmo trascinate dalla folla collettiva sempre più dentro l’edificio senza nemmeno provare a camminare, all’interno la gente si sparpagliava. Alcuni andavano a comprare alle bancarelle, altri si fiondavano dentro per accaparrarsi i posti migliori e altri fuggivano in bagno dall’emozione. Noi cercammo subito un bodyguard, che trovammo in fondo alla stanza. Gli mostrai il biglietto di Bill e, dopo averlo osservato con attenzione, ci fece strada verso l’interno dell’Adriatica Arena fino a farci fermare sotto al palco.

Le altre persone ci guardarono male quando ci videro, ma poco dopo smisero e si concentrarono nel godersi il momento. Le luci erano ancora accese, ma l’eccitazione era in continuo aumento, forse perché le persone continuavano ad arrivare. Dopo mezz’ora spensero le luci e il delirio prese il sopravvento tra urla isteriche, pianti e spintoni vari, Laura e Chiara aumentarono le loro strette sulle mie braccia e la mia ansia crebbe a picco.

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Capitolo 10
*** Concerto ***


Ancora un quarto d’ora da quando avevano spento le luci e ancora niente. L’agitazione collettiva era evidente e dovetti ammettere a me stessa che anche io non ero da meno.

Poi d’un tratto partirono le note della prima canzone, vennero illuminati dai riflettori Tom, Georg e Gustav. Dopo un po’ si iniziò a sentire anche la voce di Bill e, finalmente, iniziò il concerto.

Il pubblico era in delirio, ma nonostante ci fosse tutto quel chiasso, la loro musica si sentiva chiaramente. A quel punto fui convinta che sarei uscita sorda da lì, ma non mi importava. Invece mi concentrai sulla band.

I ragazzi non indossavano indumenti particolari: Bill era vestito pressappoco come quando l’avevo visto io, ma senza occhiali e berretto (ovviamente), Tom indossava dei jeans larghi e una maglia blu scuro, anch’essa larga, Georg jeans e maglietta aderente nera e, per quanto riuscii a vedere Gustav, capii che aveva i pantaloni che arrivavano fino a sopra il ginocchio e una canotta grigia.

La canzone era coinvolgente, ma non riuscii a capire una parola del testo. Mi accorsi che tutti intorno a me la sapevano a memoria e saltavano come matti a tempo di musica. Vidi molte fans con cartelli con scritte poco ortodosse e altre che piangevano dall’emozione. Mi sorpresi nel vederne due che venivano trascinate via dal pubblico, svenute. Intanto il concerto andava avanti con crescente coinvolgimento.

Dopo tre canzoni mi ero abituata alla situazione e alla fine della terza, Bill prese parola:«Ciao a tutti!!» disse in italiano. Inutile spiegare la reazione generale a quelle due parole, poi proseguì in inglese:«Benvenuti Aliens! Godetevi il concerto!». La folla esplose. Tornando dietro le quinte Bill lanciò un breve sguardo verso le prime file del pubblico, poi se ne andò. Subito dopo partì una canzone che avevo sentito pure io da qualche parte.

«Come si intitola questa?» urlai nell’orecchio a Laura.
«By your side» rispose lei, poi riprese a cantare a squarciagola la canzone.

Era malinconica, ma anche se non sapevo né capivo il testo, capii che aveva un significato profondo. Bill mentre cantava era assorto dalla musica, ora che lo vedevo con i miei occhi capii il suo talento che fino ad allora non avevo mai riconosciuto. Poi finalmente colsi le parole finali :«I am by your side, just for a little while…». In quel momento i miei occhi scattarono su Bill e, come se fosse stato chiamato da qualcuno, si girò nella nostra direzione incrociando finalmente il mio sguardo e la canzone finì.

Ora che sapeva dov’ero continuò a girarsi verso di me spesso e volentieri per le tre canzoni successive, mostrando sempre un enorme sorriso genuino. Poi fecero una pausa di cinque minuti abbondanti. In quel poco tempo Laura e Chiara si staccarono dalle mie braccia permettendo di nuovo la circolazione del sangue.

La musica ripartì e portò con sé le luci, fu allora che mi accorsi che il bodyguard davanti a noi era sparito, ma fui distratta dal rientro in scena di Bill, che intanto si era cambiato. Una mano picchiettò sul mio polso, distolsi la mia attenzione dalla band e vidi che era il bodyguard che mi stava porgendo un bigliettino. Presi il foglietto e lo ringraziai. Intanto Laura e Chiara non si erano accorte di niente.

Aprii il biglietto e presi a leggere:
“Alla fine ti ho trovata!
Pensavo non saresti più venuta.
A dopo!
Bill
P.S. Questa sera sei bellissima.”

Rilessi quelle poche righe quattro volte e ogni volta che finivo mi ritrovavo con un sorriso da ebete stampato in faccia. Cercai con lo sguardo Bill e lo trovai dall’altro lato del palco, poi finì anche quella canzone e si spensero le luci. Quando si riaccesero c’era solo Bill sul palco che prese a parlare, nonostante avesse il fiatone.

«Ok Aliens, questa canzone la vorrei dedicare ad una persona molto importante per me che ho conosciuto pochi giorni fa» fece una pausa e la folla urlò più forte. «E questa persona» continuò «è qui in mezzo a voi, adesso». A quel punto le fans non seppero più trattenersi e mi stordirono le orecchie da quanto gridarono. Io invece rimasi allibita e capii di essere sbiancata. Bill mi stava per dedicare una canzone e il mio cuore prese a martellarmi all’impazzata nel petto.

«Bene, quindi godetevi la prossima canzone!» concluse Bill e se ne andò scoccandomi uno sguardo intriso di tante parole silenziose. Laura strattonò il mio braccio richiamandomi all’attenzione.

«Secondo te chi è?» urlò.
«Non ne ho la più pallida idea» risposi urlando a mia volta. Poi partì la canzone.
«La conosci?» domandai a Laura.
«Si! È Forever Now dell’album di Humanoid!» mi rispose velocemente per poi tornare a godersi la canzona.

Guardai Bill, anche lui mi stava guardando. Sorrisi. Tra tutte le canzoni mi stava dedicando proprio quella che mi aveva fatto sentire Laura e che mi era pure piaciuta. Il brano finì troppo presto e dopo due canzoni fecero la loro più conosciuta, Monsoon. A quel punto stavo ballando/saltando anche io e canticchiavo pure qualcosa del ritornello.

La canzone che seguì fu la conclusiva, la band salutò il pubblico e si ritirò dietro le quinte. Laura e Chiara, come tutti i fans presenti, stavano ormai piangendo e dovetti consolarle e ricordare loro che tra poco saremmo andate dietro le quinte e li avremmo incontrati di persona. Alle mie parole ripresero vita immediatamente e ricominciarono a urlare istericamente.

Puntualmente a quello che stavo dicendo arrivò il bodyguard di prima che ci fece scivolare via dall’ammasso di gente che ci comprimeva. Ci scortò in un lungo corridoio semi-illuminato con le pareti bianche e il pavimento in legno. Dietro di noi si sentivano ancora i fans che urlavano, mentre noi ci stavamo avvicinando sempre di più al silenzio.

L’uomo ci fece svoltare un paio di volte e, dalla presa di Laura e Chiara sulle mie braccia, percepii che non ero la sola a cui stava aumentando l’ansia.

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Capitolo 11
*** Attesa ***


La stanza finale dove giungemmo era in subbuglio. Forse una volta era in ordine, ma dalla confusione che vi trovammo era una cosa difficile da stabilire. Il bodyguard se ne andò dicendo:«Arriveranno tra poco» e se ne andò da dove eravamo venuti, lasciandoci sole.
 
Dalla camera accanto a quella dove ci trovavamo arrivarono dei rumori. Ci voltammo tutte e tre di scatto in quella direzione.

 
«Secondo te sono loro?» sentii bisbigliare Chiara a Laura.

«Probabile. Speriamo!» rispose l’altra, ormai al limite dell’autocontrollo.

 
Invece arrivò un ragazzo della troupe che si bloccò appena ci vide. Sgranò gli occhi allarmato e sulla sua faccia si dipinse il terrore. “Che reazione esagerata” pensai. Poi il ragazzo urlò qualcosa in tedesco che Laura ci tradusse come:“Ci sono delle ragazze qui!”. Dal tono della voce confermai la mia ipotesi, era in panico.
 
Dalla stanza affianco arrivarono quattro voci che in coro risposero:«Ja!» poi uno di loro aggiunse qualcosa, ma Laura non riuscì a tradurlo. Alla frase appena sentita il ragazzo si avvicinò a noi e disse in italiano:

 
«Dicono che arriveranno tra poco e che intanto potete accomodarvi». Fece per andarsene, ma ci ripensò e si rivolse ancora a noi:«Non siete delle paparazze, vero?»
 
«No!» rispondemmo tutte e tre assieme. Poco convinto il ragazzo se ne andò portandosi via l’ enorme scatolone.

 
Dopo venti minuti buoni apparve Gustav che veniva dalla stanza che, a sto punto pensai fosse il bagno, ci salutò con un gesto della mano e si accomodò nel divano di fronte al nostro.

Il batterista ora era in tuta ed emanava un buonissimo aroma di menta. Accennò un lieve e timido sorriso verso noi, che puntualmente ricambiammo.

 
«Ciao» salutò in inglese.

«Ciao!» salutarono eccitate Laura e Chiara. Io salutai il batterista con un sorriso e un segno della mano e lui notò la mia reazione.


Probabilmente Bill aveva avvertito anche lui e Georg che io non ero una loro fan, anche se a quel punto non lo sapevo più nemmeno io che cos’ero.
«Vi è piaciuto il concerto?» chiese cortesemente.

 
«Sì, moltissimo!» esclamò Chiara in inglese.

«Si si!» rispose Laura.

«Si» dissi infine io.

 
A quel punto Gustav si voltò verso la stanza da cui era venuto e urlò qualcosa in tedesco riferito a Bill, che a sua volta rispose con una frase lunga e detta molto velocemente. Sorrisi tra me e me immaginandomi la scena di Bill con l’accappatoio e il turbante in testa, in preda alla fretta.

Ovviamente non riuscii a capire il significato della frase, ma avevo colto con certezza dell’ironia nelle loro parole.
 
Poco dopo arrivò Georg avvolto in un alone di vapore e profumo.


«Ciao ragazze!» salutò lui con un ampio sorriso in inglese.

«Ciao Georg!» rispondemmo tutte e tre in inglese, tanto era l’unica lingua con cui potevamo comunicare con loro.

 
Il bassista si avvicinò a grandi falcate verso i divani. Lui, a differenza del batterista, indossava dei jeans non troppo stretti scuri e una felpa, come se per lui la serata non fosse ancora finita. Capii subito che Georg aveva un carattere molto più aperto rispetto a quello di Gustav. Infatti non esitò a rivolgerci un sorriso caloroso che fece letteralmente sciogliere Laura e Chiara.
 

«Come state? Avete sete?» si affrettò a chiedere, premuroso.

«No» dissero Laura e Chiara, troppo prese ad ammirarlo piuttosto che soddisfare i loro bisogni fisici.
 
«Un po’» ammisi io. Erano solo delle persone dopotutto, se mi chiedono qualcosa io rispondo come risponderei a chiunque. «Dove devo andare per bere?» mi affrettai ad aggiungere per non sembrare scortese.
 
«Te lo prendo io» disse la voce di Tom che arrivava dall’altra stanza. Mi voltai in quella direzione e lo vidi che stava camminando verso un’altra stanza, tornò quasi subito con una bottiglietta d’acqua che mi consegnò prima di abbandonarsi nel divano con Georg e Gustav.
 
«Quindi, come stai?» chiese Tom facendo capire che la domanda era riservata a me. Presi a bere qualche sorso dalla bottiglia, senza mai smettere di guardarlo in cagnesco.
 
«Bene, Tom. Voi avete mangiato bene l’altra sera o ti eri dimenticato di prendere qualcosa?». Ormai non mi importava più di quello che avrebbero detto Laura e Chiara, che intanto erano rimaste a bocca aperta.
 
Tom sorrise:«Ho dimenticato il dolce e un po’ di frutta» ammise.

«Anche senza siete riusciti a sopravvivere» commentai acida. Tom si mise a ridere di gusto. Sapevo che con quelle parole non sarei riuscita ad offenderlo, ma la sua reazione mi spiazzò.
 
«Ok, ok. Basta tutti e due». Questa volta fu la voce di Bill a parlare. Mi volta di scatto verso di lui e quando lo vidi sentii che stavo arrossendo e il mio cuore perse un battito.

 
Si era fatto la doccia e aveva raccolto i capelli. Indossava una canotta molto scollata nera che mostava il tatuaggio sul petto, pantaloni blu della tuta e Converse, insomma: magnifico. Bill avanzò con passo sinuoso e, guardandomi, faticò a trattenere un sorriso.

Ormai l'attesa era finita.

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Capitolo 12
*** Passione ***


Bill e io eravamo rimasti soli nella stanza. Per una volta Tom aveva fatto una cosa giusta e aveva proposto alle mie amiche di fare un giro insieme a Georg e Gustav, lasciando me e Bill sui divani. Laura e Chiara non furono contente di quella separazione, ma la persuasione di Tom, ovviamente, ebbe la meglio. Appena se ne furono andati Bill cominciò a parlare.
 
 
«Ti sono piaciute le canzoni?» cominciò.
 
«Sì, non erano male» ammisi più a me stessa che a lui. Sorrise e si spostò sedendosi accanto a me.
 
«Avete avuto delle difficoltà durante il concerto?» chiese avvicinandosi.
 
«No» risposi a fatica concentrandomi sul discorso. Deglutii e mi concentrai sulla respirazione, che sembrava volersene andare.

 
Bill prese a baciarmi il collo dolcemente, facendomi venire la pelle d’oca. Non riuscivo a pensare più a niente.
 
Sentimmo dei rumori provenire dalla direzione dove si erano allontanati gli altri. Allora Bill mi afferrò dolcemente un polso e mi guidò all’interno del locale fino a giungere in una camera da letto semi-illuminata. Si chiuse la porta alle spalle facendo calare la stanza nel buio quasi completo. A quel punto non ci vedevo più niente.
 
«Bill?» chiamai. Non rispose nessuno, ma percepii che lui si trovava dietro di me. Poco dopo sentii il suo respiro sul collo, una mano sulla mia spalla sinistra e l’altra sul fianco destro, poi riprese a baciarmi suadentemente il collo. Mi volta ritrovandomi all’altezza del suo petto e pian piano salii con le mani lungo il suo corpo fino a posizionarle sul suo incavo del collo. Contemporaneamente lui si chinò su di me e, come le altre volte, mi baciò provocando in me reazioni irrazionali. I nostri corpi si avvinghiarono diventando quasi uno solo, i nostri respiri diventarono affannosi e la passione tra di noi crebbe a picco. D’un tratto Bill mi sollevò da terra, senza mai interrompere il bacio, e mi adagiò sull’enorme letto matrimoniale, senza però essere minimamente aggressivo. Sapevo cosa stava per succedere, ma non ne ero affatto spaventata, perché ero con lui. Le sue mani si muovevano sul mio corpo dolcemente, sfiorandomi con delicatezza la pelle, come se fosse qualcosa di prezioso. Poi Bill cominciò a rallentare fino a fermarsi, allontanò i nostri visi e seppi che mi stava guardando.

 
«Sei sicura?» chiese in un sospiro appena udibile.
 
«Si» confermai. A quelle parole Bill sorrise ampiamente e mi diede un bacio intenso, poi disse:«Ti amo». Sentii un balzo al cuore e quasi mi commossi per la gioia.
 
«Anch’io» risposi. Lo pensavo davvero.

 
Allora nessuno dei due seppe più controllare la chimica che scorreva tra noi e finalmente cominciammo a consumare la passione che muoveva le nostre menti. Era la prima volta per me quindi mi stupii di quanta gioia mi ero persa fino ad allora. Bill fu di una delicatezza immensa e cercò di rendere il tutto speciale e dolce allo stesso tempo. Le sue mani non smisero mai di accarezzare il mio corpo, ormai nudo, e le sue labbra non ne ebbero mai abbastanza delle mie.
 
Come tutte le cose belle hanno una fine, anche quella finì. Ero stanca, ma la felicità bastò a compensare tutto il resto.
 
Avevo la testa appoggiata sul petto di Bill, intanto lui aveva cominciato a giocare distrattamente con una ciocca dei miei capelli. Dopo un po’ sentii che si era addormentato, allora scivolai via dal letto per andare in bagno facendo attenzione a non svegliarlo, avevo un assoluto bisogno di rinfrescarmi. Indossai la mia maglietta, mi rimisi le mutande e uscii dalla stanza. Arrivai in bagno e mi guardai allo specchio, avevo un aspetto orribile. I capelli somigliavano ad una balla di fieno e avevo tutto il trucco colato. Sperai con tutta me stessa che il buio della stanza da letto avesse impedito a Bill di vedere le mie attuali condizioni.
 
Mi sciacquai il viso e cercai di aggiustarmi il più possibile i capelli, poi, alle mie spalle, la porta del bagno si aprì e, dallo specchio, vidi Bill avanzare verso di me guardando il mio riflesso. Mi abbracciò da dietro con le sue braccia muscolose e respirò il profumo dei miei capelli. Era a petto nudo e indossava dei pantaloni della tuta tenuti a vita bassa. In quel modo si vedevano perfettamente tutti i tatuaggi che ricoprivano il suo corpo marmoreo.
 

«Hai un buonissimo profumo» bisbigliò nel mio orecchio.
 
Arrossii e risposi:«Grazie». In quel momento di tranquillità mi venne il dubbio che non sapevo che ore erano. Guardai nel bagno e non trovai nulla.
 
«Sai che ore sono?» chiesi a Bill sottovoce.
 
«L’1:38» rispose guardandosi l’orologio da polso che portava. Era tardissimo! Laura e Chiara sicuramente erano già andate a casa senza preoccuparsi di avvertirmi e ora non sapevo come tornare a casa!
 
«Resti tutta la notte?» chiese.
 
 Inspirai.
 
«Non è una domanda, è un’offerta» sussurrò. La sua mano spostò i miei capelli dalla spalla e cominciò a baciarla dolcemente. Per tutta risposta io mi voltai e cominciai a baciarlo, riabbracciando la bellissima sensazione dei suoi piercing alla bocca sulla mia, godendomi quello sulla sua lingua. Abbracciai strettamente il petto nudo di Bill, che in risposta mi sollevò di peso riportandomi nella buia camera da letto.

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Capitolo 13
*** Fine ***


Il mattino dopo mi svegliai nel letto matrimoniale tra le braccia di Bill, sorrisi e mi accoccolai per bene sul suo petto.

 
«Buongiorno» disse. Ricollegai il mio cervello al vocabolario inglese e gli risposi:«Buongiorno».

 
Stare lì in quella posizione mi rese felice più di quanto immaginassi. Ripensai alla notte che ci eravamo appena lasciati alle spalle e sorrisi tra me e me, poi mi assalii un dubbio.


«Le mie amiche dove sono?» chiesi preoccupata.
 
«Non lo so, forse ancora con i ragazzi» ipotizzò, poi aggiunse:«Vuoi andare a fare colazione?».
 
«Si».

 
Mi sciolsi dall’abbraccio di Bill e presi a vestirmi, andammo in cucina e mi accomodai in una sedia a caso. Notai che l’abitacolo era pieno zeppo di scatoloni di varie dimensioni, ma, non conoscendo l’ambiente, decisi di non dargli troppo peso.
 
Cercai con lo sguardo qualche segno di Laura e Chiara, ma niente. Scattai nel sentire un rumore proveniente da dietro il divano, poi da quel punto vidi Laura alzarsi a tentoni, corsi da lei afferrandola al volo prima che perdesse l’equilibrio.

 
«Lally che ti è successo?» chiesi preoccupata.
 
«Mi gira la testa…» farfugliò. La feci sedere cautamente su un divano, allora Laura si sdraiò su esso, cadendo in un sonno profondo.
 
«Ma che diavolo…» cominciai, ma venni interrotta da un altro rumore, questa volta fu Bill che aveva fatto cadere un cucchiaino.
 
«Ops, scusa» si affrettò a dire. Lo guardai meglio e mi accorsi che non era di buon umore come avevo pensato prima. Mi avvicinai a lui attraverso la stanza, fermandomi all’altezza della sedia dove mi ero seduta precedentemente.


Bill aveva lo sguardo rigido e i muscoli della mascella serrati. Non capivo.

 
«Che succede?» cominciai.
 
«Nulla, non puoi capire» rispose secco. Mi gelai.
 
«Ho fatto qualcosa di male?» ipotizzai.
 
«No, non sei tu».

 
Smise di trafficare nella cucina e assunse in viso una maschera di dolore.

 
«E allora che succede?»insistetti.
 
«DOBBIAMO RIPARTIRE!» esclamò infine. «Dobbiamo continuare il tour» continuò «Partiamo questa sera».

 
Non sapevo cosa dire. Era ovvio che sarebbe andata a finire così, no? Dopotutto chi ero io per lui?

 
«Era tutto un gioco per te?» dissi in italiano. Ovviamente Bill non capì ma non volevo farmi capire. «Se sapevi che dovevi ripartire così presto, perché hai fatto tutto questo?!» esplosi. Bill si precipitò da me, ma non osò toccarmi. Cos’era tutta quella formalità?
 
«Mi dispiace,» disse infine «ma tu non sei del mio mondo» affermò in inglese.

 
In quel momento sembrò che il tempo si fermasse, ma forse erano solo i battiti del mio cuore che stavano rallentando.

 
«Quindi non era niente di vero». Non era una domanda, ma volevo tanto che Bill smentisse le mie parole.
 
«No, mi dispiace» disse infine.

 
Tutta la felicità che avevo al risveglio era ormai svanita, sostituita da un vuoto interiore che si dilagava ovunque.
 
Senza dire nulla andai nella stanza da letto e presi le cose che avevo lasciato lì. Controllai bene di non dimenticare niente e uscii tornando in cucina. Bill era rimasto immobile dove lo avevo lasciato, guardava in basso e aveva i pugni serrati. Dall’altra stanza comparve Tom in pigiama che si bloccò subito alla vista della scena.

 
«Bill, che cosa hai fatto…» chiese Tom.

 
Silenzio.

 
«Che cosa succede?» si irritò Tom.
 
«Me ne vado. Come è giusto che sia» risposi. «Dopotutto, “io non sono del vostro mondo”, no?»
 
«No!» esclamò Tom e prese a urlare a Bill in tedesco. Avanzò verso il gemello senza smettere di parlare e lo strattonò. A quel punto il fratello tornò cosciente e prese a litigare con Tom, il quale, in risposta, aumentò il tono di voce.


Non capii le parole che si dissero, ma colsi che la voce di Bill si stava sempre più incrinando, come se fosse sul punto di piangere.
 
Lentamente avevo finito di mettere in ordine le mie cose e andai a svegliare Laura, che era un po’ più cosciente di prima e insieme trovammo Chiara, ancora addormentata e incapace di svegliarsi, così la prendemmo sottobraccio e ci avviammo verso la porta.

 
«Nein!» urlò Tom rivolto a noi. Mi girai nella sua direzione e aspettai che dicesse altro.
 
«Bill non pensa veramente quello che ha detto!» continuò in inglese.
 
«No, ha ragione» risposi a bassa voce. «Non esiste un mondo dove una come me può stare con uno come voi, ma avrei voluto non essere illusa in questo modo» conclusi.

 
Tom rimase attonito e si voltò verso Bill. I miei occhi guizzarono verso lui e rimasi in attesa.

 
«Dille qualcosa» esclamò Tom.

 
Bill sollevò lentamente il capo incrociando, finalmente, il mio sguardo. Poi sussurrò: «Goodbye».
 
Mi voltai e, insieme a Laura, trascinammo Chiara nel lungo corridoio semi-illuminato che mi aveva fatto salire le cime del paradiso, per poi scagliarmi dritta nell’inferno. Quella era la fine.

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Capitolo 14
*** Tempo ***


«Cosa?!» esclamò Chiara. Le stavamo spiegando un esercizio di matematica, o almeno ci stavamo provando. Per l’occasione ci eravamo tutte riunite al parco della Celletta con l’obbiettivo di aiutare Chiara in matematica. Eleonora e Laura furono quelle che si impegnarono maggiormente. Rachele dava il suo contributo quando poteva e io, invece, mi limitavo a intervenire ogni tanto, restando per la maggior parte del tempo in silenzio.
Intanto che ascoltavo mi incantai a fissare le venature del legno del tavolo dove ci eravamo messe, perdendomi nei miei pensieri. Erano passati due mesi dal giorno del concerto, ma a me sembrava che fosse solo ieri.

 
«Ci stai ancora male,vero?»chiese Chiara, notando la mia malinconia. Annuii, era inutile mentire con loro.

«Pensa a noi, che non ricordiamo ancora cosa è successo!» cercò di consolarmi Laura.

 
«Già»sorrisi. Infatti Laura e Chiara sostenevano di non ricordarsi niente della serata con il resto della band, anche se era ovvio che si erano prese una bella sbornia. Io invece avrei voluto dimenticare tutto, ma i ricordi mi assalivano sempre quando meno me lo aspettavo, riportando in me dolore e tristezza.
 
Le parole di Bill continuavano a ridondarmi nella testa, senza darmi tregua: “tu non sei del mio mondo”. Forse avevo sbagliato io a fidarmi di quel ragazzo così dolce e premuroso, forse avrei dovuto continuare per la mia strada quel maledetto martedì pomeriggio e rifiutare quel dannato caffè, forse. Ero scioccata di quanto mi fossi potuta affezionare in così poco tempo a una persona. E il problema era che non era solo affetto quello che avevo provato e che provavo ancora.

Mi ricomposi e mi unii al discorso sulla matematica, estraniando i miei pensieri.
 

I giorni continuavano a passare, fino ad arrivare all’estate. Anche quell’anno andai a lavorare all’oratorio dove ero andata l’anno precedente. Questa volta però, Chiara si unì a me e il tempo trascorse in maniera più piacevole.

Andando al mare con le altre incontrammo diversi ragazzi carini, o almeno così sostenevano le mie amiche. Ai miei occhi, però, sembravano tutti uguali e privi di fascino. Non ne trovai nemmeno uno che mi affascinasse minimamente.

Avevo ormai imparato a mascherare la mia malinconia, ma appena restavo da sola davo libero sfogo alla mia rabbia.
E poi puntualmente Laura e Chiara si raccontarono le ultime novità sulla band.
 

«Adesso sono in Giappone!» stava raccontando Laura.
 
«Già!» commentò Chiara felice, poi aggiunse:«Non ti pare che Bill sia depresso da un po’?»

 
«Sembrerebbe così...» ragionò l’altra. Entrambe guardarono nella mia direzione, sperando che io non stessi ascoltando. Le accontentai e feci finta di nulla, era meglio così. Poi la loro conversazione continuò e andò avanti per un tempo che a me sembrò infinito, poi, finalmente, tacquero.



Settembre, ritorno a scuola. Iniziò il quarto anno delle superiori e i professori non aspettarono a cominciare a stressarci con l’esame che ci attendeva l’anno prossimo. Che scocciatura.

In classe trovammo dei nuovi compagni, alcuni erano stati bocciati, altri si erano trasferiti. In ogni caso si ambientarono subito a noi e diventarono dei componenti indispensabili per la classe.

Intanto i mesi passavano senza che me ne accorgessi. Fisicamente stavo bene, ma la mia mente si rifiutava di tornare alla normalità.
 



Ottobre.
 


Novembre.
 


Dicembre.
 



Nelle vacanze natalizie per la prima volta studiai come una matta e in una settimana terminai tutti i compiti delle vacanze, cosa mai successa prima. A quel punto i miei, che avevano pensato fino a quel momento che fosse solo una fase, avevano raggiunto la conclusione di affibbiarmi una psicologa. Si chiamava Olga e dopo un paio di incontri si arrese e informò  i miei genitori che era un semplice periodo dell’adolescenza, non valeva molto come psicologa. Così la mia vita andò avanti senza che me ne accorgessi.


Gennaio.
 
«Basta Marti! Così è veramente troppo! Richiappati!» esclamò Laura nella sua sgridata mensile. Aveva cominciato verso agosto e non aveva più smesso.
 
«Non puoi lasciarti andare in questo modo! Hai avuto una delusione, pace! Capita a tutti!» continuava a urlare. Io ascoltavo senza dire niente. Aveva ragione e volevo riprendermi davvero, ma il dolore non se ne andava, né diminuiva. Quindi mi limitai a darle ragione e ricominciai a recitare la mia parte “sto bene”.


Febbraio.

Il secondo trimestre era nel pieno della sua potenza, infatti i professori avevano deciso di dissanguarci, mettendo le verifiche e le interrogazioni tutte in quel mese.

Per me no fu un gran problema. La cosa positiva della tristezza fu che mi stavo sfogando nello studio e minacciavo di superare il secchione della mia classe, che tentava disperatamente di difendere il suo trono, ma non avrebbe retto ancora per molto.
 
Superai tutte le verifiche con successo e alla fine battei pure il mio avversario, ovviamente.


Marzo.

Stava finendo il trimestre e finalmente cominciavo a stare bene veramente e mi sentii stupida pensando di aver sprecato così tanto tempo per via di un ragazzo, di un cantante. Pensai di cominciare a uscire spesso e questa cosa fu molto gradita dalle altre. Laura aveva reagito dicendo:«Evviva! Finalmente!» mischiando il tutto con baci e abbracci, ai quali si erano aggiunte pure Rachele e Chiara.
 
Eleonora disse semplicemente:«Ho sempre detto che quello non mi è mai piaciuto.»
 
«Caalma! Non provare ad insultarli!» intervenne Chiara. Guardando la scena non provai affatto dolore o tristezza, ma invece risi.


Ero finalmente guarita.

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Capitolo 15
*** Per sempre adesso ***


Aprile.

Da pochi giorni era appena uscito un film al cinema che mi ispirava molto, quindi decisi di andarlo a vedere. Chiesi a tutte le mie amiche se mi volevano accompagnare già da una settimana prima, ma a nessuno piaceva quel film e Chiara e Laura l’avevano già visto. In effetti avevano avuto una strana reazione quando seppero che ci sarei andata, ma le ignorai. Quindi quel giorno mi stavo dirigendo al cinema “Metropolis” da sola, peccato.

Dal trailer non avevo capito molto la trama, ma l’attore protagonista era un gran figo e, in più, non lo avevo mai visto prima. Comunque presumevo che si trattasse di una storia d’amore un po’ drammatica.
 
Parcheggiai e mi diressi all’ingresso. Alla biglietteria c’era la solita signora, l’unica che lavorava in quel posto da secoli, ormai. Probabilmente sarebbe pure morta in quel cinema.
 
Feci la fila con calma, c’era un sacco di gente, anche se era un giorno settimanale, tutti a vedere quel film. La maggior parte erano ragazze della mia età, tutte eccitate. In quel momento mi venne in mente il concerto di un anno fa, quando... No. Mi bloccai per non fare affiorare i ricordi, che, se mi avessero travolta, mi avrebbero di nuovo trascinata nell’oblio, che mi aveva assalita per un anno intero. Quando ci pensai, mi venne in mente che quel giorno era proprio un anno esatto, che sfiga.
 
Finalmente arrivò il mio turno e mi accinsi a prendere il biglietto. Stavo pagando quando mi si affiancò un ragazzo alto, tutto incappucciato. Assieme a lui arrivò pure una ventata di un profumo che conoscevo, ma la mia mente si rifiutò di ricordare di chi fosse. Mi voltai verso il ragazzo e, in quell’istante mi si raggelò il sangue. I miei occhi caddero subito sui suoi piercing alla bocca, continuando a salire fino a incrociare i suoi occhi. Aveva tagliato i capelli, ora erano del suo colore naturale e li teneva semplicemente corti. Al contrario mio, lui non sembrava affatto sorpreso nel vedermi anzi, sembrava mi stesse aspettando. Solo dopo mi resi conto che lui era pure l’attore principale del film che stavo andando a vedere, ma arrivata a quel punto ci sarei comunque andata?
 
Distolsi lo sguardo a mi avviai a grandi falcate verso la sala del cinema, ma appena dopo due passi Bill mi trattenne.

 
«Wait!» implorò. Il suono della sua voce non mi fece avere più dubbi sulla sua identità e tutti i ricordi che avevo disperatamente seppellito riemersero, travolgendomi completamente.
 
«Cosa vuoi da me, Bill?» chiesi sprezzante in inglese. Mi tremava la voce e non potevo farci niente. Mi sentii crescere dentro l’istinto di piangere, ma non permisi a me stessa di apparire debole ai suoi occhi.
 
«Ti prego, perdonami!» anche a lui tremava la voce. «Io ho sbagliato! Sono stato uno stupido e sono stato malissimo!». Come era già successo un anno prima, capii pochissimo di quello che mi disse, ma, per quello che intuii, non volevo credere a niente.
 
«No, invece. Avevi ragione tu. Io non sono del tuo mondo e sono stata una stupida ad illudermi» sputai tutto acida.
 

Bill sembrò colto da un vecchio dolore. Possibile che anche lui avesse sofferto? No, cancellai subito quella possibilità e mi divincolai dalla sua presa sul mio braccio.

 
«No!» urlò lui afferrando anche l’altro braccio. «Lasciami spiegare!» continuò.

 
Mi ritrovai faccia a faccia con Bill e venni travolta dalla vecchia sensazione di impotenza quando incrociai i suoi occhi.

 
«Ti prego, ascoltami.» implorò ancora.
 
Con calma risposi:«Hai avuto un anno intero e non ti sei mai fatto sentire. Non mi hai mai cercata in nessun modo e quando ne avevi la possibilità non mi hai fermata.» dissi scandendo ogni parola in inglese, poi aggiunsi:«Lasciami andare, Bill. Ora sono io che me ne voglio andare».
 

Allora lui lasciò la presa da entrambe le mie braccia e finalmente potei andare a vedermi il film. Capii perché non lo avevo riconosciuto subito: il suo personaggio era senza piercing, senza tatuaggi, senza barba e con i capelli scuri e corti. Insomma era normale che non lo avessi riconosciuto.
 
Come avevo supposto, il film trattava di una storia d’amore, ma ormai quello non mi interessava più. Non riuscivo a vederlo semplicemente per il personaggio che interpretava, ma per la persona che io avevo conosciuto, con cui mi ero legata, perciò mi salì un enorme nervoso quando lo vidi baciare la protagonista appassionatamente.
 
D’un tratto si spense lo schermo, lasciando la sala nel buio. Tutta la sala attese che tornassero le luci che davano il via all’intervallo, ma non arrivarono. La gente cominciò ad agitarsi nei sedili e presero inizio pure i commenti scortesi. Da parte mia non ci trovai nulla di strano. Le luci erano spente: e allora?
 
Poi, inaspettatamente, partì una musica familiare e apparvero tre figure che cominciarono a suonare intonando in perfetta sincronia il tempo e le note dell’introduzione. Ed infine arrivò il cantante. Ovviamente riconobbi subito la band e, dalle urla isteriche della sala, seppi che anche le altre persone avevano capito chi erano.
 
Era una canzone vecchia e si intitolava “Love is dead”, “L’amore è morto”. Cantando Bill non staccò mai gli occhi da me e sembrava volermi parlare tramite la canzone. Non volevo ascoltare. Feci per andarmene, ma dietro di me apparvero Laura, Chiara, Eleonora e Rachele che mi costrinsero a restare lì. Cercai di parlare con loro, ma la musica copriva le mie parole e quindi mi rimisi seduta al mio posto. Bill sembrava felice e diede più sfogo alle sue parole contando con più energia. Dopo seguì un’altra canzone che Chiara mi informò che si intitolava “Sacred”.



“Remember
To me you’ll be forever sacred
I’m dying but I know our love will live!”
 

“Ricorda
Tu per me sarai per sempre sacra
Sto morendo ma so che il nostro amore vivrà!”


 
Sentii Bill scandire quelle parole del ritornello per mandarmi il messaggio chiaro delle sue scuse. Mi sentivo piuttosto in imbarazzo avendo tutte quelle attenzioni, infatti l’intera sala del cinema spostava lo sguardo da me a Bill e viceversa. In più mi sentivo in imbarazzo per il resto della band che stavano suonando a causa mia.
 
Alla terza canzone, “Rescue me”, “Salvami”, notai che non le stavano eseguendo a caso, ma i testi andavano in maniera progressiva a formare un discorso di senso compiuto. Mi convinsi di questa teoria quando eseguirono “By your side”, “Al tuo fianco”.
 
Mi stavo addolcendo nei confronti di Bill, ma se sperava di risolvere tutto con qualche canzone si sbagliava di grosso. Infatti, mentre li ascoltavo, cominciarono a riaffiorare i ricordi del dolore che avevo provato in tutto quell’anno. No, non potevo perdonarlo così. Poi senti:
 


“That day
never came,
that day
never comes
I’m not letting go,
I keep hanging on
Everybody says
 that time heals the pain
I’ve been waiting forever!
 That day never came…”

 
“Quel giorno
non è mai arrivato,
Quel giorno
non arriva mai
Non sto mollando,
continuo a tenere duro
Tutti dicono
che il tempo guarisce il dolore
Sto aspettando da sempre!
Quel giorno non è mai arrivato…”


 
E cantando quelle parole capii che anche lui aveva sofferto in quel periodo, ma ancora non capivo: perché non mi aveva fermata quando me ne stavo andando un anno prima? Era troppo facile voler essere perdonati così, come se non fosse mai successo niente.
 
Partì un’altra canzone che intuii si intitolasse “Love and Death”, “Amore e Morte”, e durante il ritornello Bill prese a scendere dal palco per venire verso me. Quando mi raggiunse stava cantando:
 


“Fragile pieces
Don’t regret the sorrows
that we’ve seen
Take it with us
Step into my world
Join me in!”
 


“Fragili pezzi
Non rimpiangere le sofferenze
che abbiamo visto
Portiamo tutto dentro di noi
Entra nel mio mondo
Raggiungimi!”


 
E mi porse la mano, ma io non la accettai. Non fu stupito, ma non si mosse da lì e continuò a cantare fino alla fine della canzone. A quel punto pensai che fosse tutto finito, invece partì quella canzone. Alzai lo sguardo e incontrai quello di Bill, che mi stava, ancora, dedicando la stessa canzone del concerto di un anno fa. Quella fu l’unica cosa che mi ero tenuta di lui, tanto che era diventata pure la mia preferita, “Forever now”, “Per sempre adesso”.
 


“…
Just your shadows touch
Makes me feel alive!”
 

“…
Solo il tocco della tua ombra
Mi fa sentire vivo!”
 


E di nuovo mi porse la sua mano, la studiai e lentamente la afferrai. Sul viso di Bill comparve un sorriso di pura gioia, che manifestò continuando a cantare più forte.
Mi trascinò dolcemente verso il palco e, puntualmente alla mia faccia poco convinta, mi si avvicinò cantando:
 


“Dont’ lose your way
I am here with you!”
 

“Non perdere la tua strada
Io sono qui con te!”

 
Sorrisi e continuai a seguirlo fino ad arrivare al centro del palco con tutti che mi stavano guardando e cominciò il mio pezzo preferito:
 


“Forever today
Forever tonight
Reset your eyes,
erase your mind
I will never let you down
Join me forever now
Forever now!”
 

“Per sempre oggi
Per sempre sta notte
Azzera i tuoi occhi,
cancella la tua mente
Non ti lascerò mai in disparte
Unisciti a me per sempre adesso
Per sempre adesso!”


 
E contemporaneamente si inginocchiò baciandomi la mano, poi si rialzò e mi dedicò il resto della canzone, sapendo già quale sarebbe stata la mia risposta a tutto quello.
 
Finì la canzone e calò il sipario su di noi. Fuori sentimmo gli applausi, ma non ci facemmo caso. Anche se non potevo vederlo, sentivo che Bill aveva il fiatone ed era leggermente sudato.
 

«”Allora?”» chiese. Sorrisi ripensando alle mie stesse parole nel nostro primo incontro.
 
«”Allora, cosa?”» risposi.
 
«Qual’ è la tua risposta?».

 
Senza dire niente, gli accarezzai dolcemente il viso e lo portai all’altezza del mio, a pochi centimetri di distanza. Sentii la famigliare sensazione del suo respiro sulle mie guance e felice lo baciai, sentendolo finalmente mio.
 


 
 
--- FINE ---







Salve a tutti!!! Grazie per aver letto fino alla fine la storia! Questa era la mia prima fic in assoluto, spero che vi sia piaciuta :)
Vorrei ringraziare in particolare tutti quelli che hanno recensito i vari capitoli, senza di loro non mi sarei spronata così tanto a cercare di renderla sempre migliore.
Fatemi sapere se vi è piaciuto il finale! ;)
Sono indecisa se mettere un ultimo capitolo oppure no.Ditemi voi!
Grazie mille!

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Capitolo 16
*** Postfazione ***


Salve a tutti! Ebbe sì, sto scrivendo qua peché, altrimenti, non saprei dove farlo. Volevo informare a tutti voi che la storia la considero conclusa e penso che non farò un seguito (anche se non si

può mai sapere), ma invece sto lavorando a una nuova fic sempre sui ragazzi! Appena arriverà il momento giusto, comincerò a pubblicare i vari capitoli. Intanto, se lo desiderate, avrei un piccolo

capitolo in più che potrei accoppiare alla storia, se volete. Servirebbe solo per dei chiarimenti maggiori che non sono presenti nella storia intergrale. Fatemi sapere se lo volete, altrimenti lascio

tutto per come è adesso :)

A presto, lettori! ;)

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