The Flying Deuces

di Cali F Jones
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

Français et Françaises!

Nous faisons la guerre parce qu’on nous l’a imposée. Chacun de nous est à son poste, sur le sol de France, sur cette terre de liberté où le respect de la dignité humaine trouve un de ses derniers refuges. Vous associerez tous vos efforts, dans un profond sentiment d’union et de fraternité, pour le salut de la Patrie.

Vive la France!

 

La voce gracchiante alla radio cessò e, al suo posto, prese a suonare l'inno nazionale di Francia.
La sala della piccola locanda giaceva sopita in un silenzio quasi irreale, mentre quelle note ben conosciute aleggiavano nel coro di respiri sospesi.
Michelle teneva in braccio il suo bambino, il suo piccolo Matthieu, e gli accarezzava con lentezza e mestizia i capelli color del grano. La sua mente galleggiava ancora in quel fiume di parole appena udite. La sensazione che la colse, come una ferrea stretta allo stomaco, era una delle più strane avesse mai provato. Era la prima volta che udiva un messaggio simile. La Francia era ufficialmente entrata in guerra al fianco della Gran Bretagna e contro la Germania. L'annuncio trasmesso alla radio aveva rimarcato più e più volte l'ingenza e la vitale necessità che l'intervento militare francese avrebbe apportato al destino di quella lotta apparentemente così pazza e priva di un qualsiasi perché.
«Maman, maman! J'ai faim!» piagnucolò il bambino, ancora accomodato tra le braccia mingherline della ragazza. Con delicatezza, la giovane lo fece sedere sul bancone e gli lanciò un sorriso rassicurante.
«Vado a preparti il pranzo, tesoro. Tu fai il bravo e rimani qui, insieme allo zio Arthur.»
Così dicendo, Michelle lanciò uno sguardo d'intesa a suo fratello, impegnato a passare una vecchia spugna su un tavolo in legno, ripulendolo dallo stampo umido lasciato dai boccali.
«Zio Arthur, zio Arthur!» chiamò Matthieu, sporgendosi appena lungo il bancone. I suoi grandi occhi color ametista si spalancarono quando incrociarono quelli verdi smeraldo dello zio. Arthur abbozzò un lieve sorriso, sforzando a malapena un angolo della bocca, mentre si avvicinava, dondolando un poco, al bambino. Quando i loro visi furono talmente prossimi da poter sentire l'uno il respiro dell'altro, i loro occhi rimasero spalancati e, a tacito accordo, presero a fare quel gioco che tanto li divertiva: la gara di sguardi.
«Il primo che ride perde» precisò il piccolo, come a voler assicurarsi che lo zio non imbrogliasse in alcun modo. Restarono in silenzio a fissarsi con un'intensità degna dei più temibili guerrieri antichi, quando, tutto ad un tratto, l'espressione concentrata di Arthur si tramutò in una smorfia alquanto buffa a cui certamente un bambino di cinque anni non avrebbe resistito senza ridere. Senza contare, tra le altre cose, l'ilarità che le sue folte sopracciglia erano in grado di provocare non solo nei bambini. L'azione dello zio sortì certamente il suo effetto, giacché il piccolo Matthieu scoppiò a ridere con uno sbuffo sinceramente divertito.
«Ça ne compte pas!» si lamentò, incrociando le braccia al petto e gonfiando le guance in una smorfia fintamente offesa. Arthur, intanto, ghignava apertamente, vantandosi a petto in fuori della sua "impresa vittoriosa".

 

«Sono solamente preoccupata per te, non vorrei che ti chiamassero a combattere.»
«Che mi chiamino a combattere è inevitabile, mia cara. Ed è giusto che io serva il mio Paese.»
Al termine di quella frase, un frastuono di porcellana infranta risuonò in tutta la stanza. Michelle fissò con occhi sbarrati e leggermente inumiditi dalle prime lacrime il volto serio del marito che pronunciava quelle parole con quella freddezza che mai l'aveva caratterizzato.
Le mani della ragazza tremavano vistosamente e le sue gote assunsero in quell'istante mille e più sfumature di rosso, mentre tutta la sua forza di volontà si concentrava nel respingere quelle lacrime che, prepotenti, sembravano in procinto di affacciarsi sui suoi occhi nocciola. L'uomo tenne lo sguardo puntato a terra, incapace di sostenere gli occhi carichi di dolore e delusione della moglie, ancora sull'orlo di un amaro pianto.
Sospirò mestamente, per poi continuare: «Mi dispiace, Michelle. Lo sai che, se potessi, eviterei tutto questo. Ma non posso.»
A quel punto, la ragazza si avvicinò con un paio di veloci falcate al marito e prese a tempestarlo di deboli pugni sul petto, mentre con voce spezzata dai singhiozzi e dai singulti e il viso inondato di lacrime urlava disperata: «E non pensi a me? E a nostro figlio? Se dovesse accaderti qualcosa, io cosa farei? Non pensi a Matthieu? Come puoi pensare che possa crescerlo da sola? Ha bisogno di un padre! E io ho bisogno di un marito! Ne ho... bisogno!»
Il tono della voce si era progressivamente affievolito, coperto quasi interamente da quel pianto interminabile che sembrava doverle squartare il cuore. Le braccia del marito si erano strette attorno al busto magro della giovane, la quale aveva smesso di colpirlo ed ora stringeva i lembi della sua camicia con la disperazione tipica di chi teme un addio.
«Ti prometto che tornerò. Te lo giuro.»

 

Se c'era una cosa che Arthur Kirkland odiava con tutto il suo cuore era che gli venisse rinfacciata la sua scarsa, anzi, praticamente nulla, abilità ai fornelli. E quel ragazzino, nonostante tutta l'innocenza e l'ingenuità che dimostrava quando confrontava la cucina del padre e quella dello zio, sembrava voler girare più e più volte il coltello nella piaga. Le sopracciglia dell'inglese si aggrotarono e il suo viso assunse un colorito inquietante quando il piccolo Matthieu sottolineò come i suoi “deliziosi” scones gli avessero procurato un gran mal di pancia. Tuttavia, quando il suo sguardo accigliato incontrò quello giocondo del nipotino l'irritazione sparì in un istante; in fondo, non riusciva davvero ad arrabbiarsi di fronte al bambino, nonostante fosse il figlio di quello che lui definiva “il suo peggior nemico”.
Quando, alcuni anni prima, la sorella gli si presentò davanti insieme al francese, informandolo della loro repentina decisione di sposarsi, Arthur giurò di aver rischiato un attacco di cuore. Perché, d'altronde, chi meglio di lui rappresentava l'orgoglio britannico in tutta la sua spocchiosità e freddezza?
Era nato a Londra, due anni dopo l'inizio della Grande Guerra. Suo padre combattè per la patria e ritornò dalla guerra fortemente provato e mentalmente fragile. Sua madre si ammalò gravemente e morì pochi mesi dopo aver dato alla luce sua sorella Michelle. Alla perdita della moglie, il signor Kirkland perse completamente la ragione e venne internato in un ospedale psichiatrico per reduci di guerra. Morì due anni dopo per cause naturali.
Adolescente, Michelle conobbe Francis Bonnefoy, un giovane originario di Parigi, e se ne innamorò. Arthur non approvò mai Francis; lo guardava perennemente con quel tipico cipiglio con cui tutti gli inglesi avevano da sempre scrutato i loro vicini al di là della Manica. Lo aveva sempre considerato un insensibile, maniaco e pervertito, del tutto estraneo al concetto tipicamente british di “gentleman”. Tuttavia, dopo un lungo periodo durato diversi mesi, Arthur accettò il fatto che la sua sorellina fosse innamorata di un francese ed approvò infine la loro unione. Si sposarono e si trasferirono in Francia, dove presero a gestire una piccola locanda in centro a Parigi. Rimasto solo in Inghilterra, Arthur decise di raggiungere la sorella e il cognato dopo aver ricevuto la notizia dell'imminente arrivo di un bambino. L'inglese non realizzò mai veramente quanto fosse, allo stesso tempo, eccitato, emozionato e preoccupato quando sua sorella lo diede alla luce. Fu solo grazie a quel bambino che Arthur, infine, decise di rimanere in Francia ad aiutare Michelle e Francis nella gestione della locanda. In fondo, Matthieu aveva ragione: non era mai stato una cima nel cucinare.
«Matthieu, non punzecchiare lo zio Arthur, lo sai che non ha mai avuto buon gusto.»
La voce del francese risuonò ridente alle loro spalle. Furono alcuni gli istanti di silenzio che accompagnarono lo sguardo truce dell'inglese, durante i quali egli si stava sforzando di soffocare quella vocina del suo cervello che lo invitava, sempre con la tipica posatezza britannica, a saltare alla gola del cognato.
«Smettila di umiliarmi davanti a mio nipote!»
«Oh, ma se non c'è un pubblico non è altrettanto divertente, non trovi?»
«Evidentemente vuoi morire, fott--»
«Arthur!» la voce seria e ferma di Michelle lo richiamò all'ordine «Non dire certe parole davanti a Matthieu!»
Immediatamente, l'inglese si morse la lingua, non potendo fare a meno di notare il cognato che ghignava divertito dall'intera scena. Solo Michelle fissava un punto imprecisato nel vuoto. Non sorrideva, né rideva. Tutta la sua felicità e spensieratezza sembravano essere state spazzate via con un colpo di vento. La ragazza si voltò e si avviò lungo la rampa di scale che conduceva al piano superiore. I suoi passi leggeri producevano sul legno delle scale un lieve scricchiolìo che cessò una volta che la ragazza ebbe raggiunto il piano e si fu chiusa nella sua stanza.
Arthur non scostò gli occhi da lei nemmeno un secondo. Perché quel comportamento così strano? Era abituato a vedere la sorella sempre sorridente, giocosa ed impegnata ad occuparsi con un amore smisurato del suo bambino. Ed ora se n'era semplicemente andata in solitudine.
La seguì, deciso a parlarle e a scoprire che cosa fosse successo. Quando, tuttavia, fu al cospetto della porta della camera da letto, udì dei singolari singhiozzi provenire dall'interno. Michelle stava piangendo. Prima di entrare nella stanza, colpì un paio di volte con le nocche della mano destra il legno intarsiato della porta, avvisando la sorella del suo imminente ingresso. Lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi era a suo modo straziante: la ragazza sedeva rannicchiata in un angolo del letto, singhiozzante, stringendo tra le dita un fazzolettino in stoffa bianca umido di pianto. A passo lento, Arthur si appropinquò al letto e, non appena la sorella si accorse della sua presenza, gli lanciò le braccia al collo, stringendolo in un abbraccio solenne e nascondendo il viso contro la sua spalla, mentre piangeva tutto il suo dolore.
«La guerra, Arthur. Vi porterà via. Non voglio... non voglio...».

 

«Hey! Avete sentito? Hitler ha invaso la Polonia.»
«Già, ed ora Francia e Gran Bretagna hanno dichiarato guerra.»
«Mi chiedo se anche noi saremo coinvolti, quei bastardi inglesi sarebbero perfettamente in grado di tirarci in mezzo anche questa volta!»
Il vociare caotico e quella parlata strisciata tipica dell'Oltreoceano attirarono immediatamente tutti gli sguardi carichi di stizza e nervosismo degli altri clienti.
Francis giunse al loro tavolo, portando su un vassoio una bottiglia di bourbon invecchiato e cinque bicchieri. Li posò delicatamente sul tavolo, mentre i gesti concitati dei ragazzi ne facevano visibilmente tremare il piano.
«Hitler è un pazzo, lo sa che se entriamo in guerra noi non ha alcuna speranza!»
«Ora come ora non ci sono i presupposti perché entriamo in guerra.»
«Ma potrebbero essercene in futuro. Immagina che quel crucco prepari un attacco ai nostri danni...»
«Perché dovrebbe fare una cosa tanto stupida?»
«Perché è stupido!»
«Ha invaso una cazzo di nazione! Come puoi definirlo stupido?»
Il francese li scrutò attentamente. Erano tutti ragazzi di circa vent'anni, forse qualcuno più giovane. Uno in particolare lo incuriosì particolarmente; rideva sguaiatamente, come i suoi amici, trincando, di tanto in tanto, un bicchiere di whisky. Era decisamente bello, i suoi occhi erano azzurri come il cielo in quelle fresche giornate primaverili in grado di mettere il buonumore anche al più burbero degli uomini. Aveva capelli biondi, con qualche sfumatura lievemente più scura, tendente al cenere, scompigliati, ma, allo stesso tempo, dotati di un'impeccabilità unica, come se un singolo e delicato soffio di vento avesse potuto scomporre quell'armoniosa perfezione. Era alto e la sua stazza non indifferente, data principalmente dai muscoli che a malapena si intravedevano attraverso la divisa militare. Ma ciò che colpiva maggiormente un primo osservatore poco attento ai dettagli era sicuramente il suo sorriso: non esisteva al mondo nulla di più allegro e smagliante. E tantomeno perenne. Sì, perché Francis ben conosceva quel giovane yankee. E avrebbe potuto giurare di non averlo mai visto con un'espressione mesta o contrita sul bel volto. Forse era per quello che aveva così tanto successo con le ragazze.
«Ma il più stupido, signori miei, è il nostro Alfred che ha deciso di porre fine alla sua vita in maniera lenta e dolorosa!»
Una marea di risate si sollevò quando un altro ragazzo, seduto accanto al biondo, alzò il suo bicchiere, come per brindare.
«A questo gran figlio di puttana che presto si sposerà!»
Ancora gioiose risate risuonarono nel locale. E la guerra e i tristi pensieri annegarono nel whisky.

 

«Francis, mi stai ascoltando?»
All'improvviso, la voce irritata del cognato distolse l'attenzione del francese da quella combricola confusionaria di divora-hamburger.
«Dannazione, fottuta rana! Ti sto parlando di una cosa seria!»
Il viso dell'inglese aveva assunto in quel momento mille e più sfumature di rosso, dettate per lo più dalla stizza crescente. Come osava il francese ignorarlo?
Immediatamente, Francis afferrò Arthur per un braccio, spingendolo a seguirlo, e lo condusse sul balcone della locanda che affacciava direttamente sulla Senna.
Il sole era sceso da poco e le prime luci della città avevano cominciato a rischiarare quel cielo notturno ove ancora erano visibili le stelle.
Il francese infilò una mano nella tasca dei pantaloni, estraendone un pacchetto di sigarette ed offrendone una al cognato. Immersi in quel finto silenzio e in quel vociare lontano, i due stettero appoggiati contro la balaustra ad ammirare lo spettacolo di Parigi che si accendeva, luce dopo luce, sotto i loro occhi.
«Michelle è preoccupata per te, Francis. Vorrebbe che tu stessi lontano dalla guerra.»
L'altro sospirò, mentre, dalle guance gonfie soffiava il fumo di sigaretta. Se solo avesse potuto, avrebbe preso sua moglie e suo figlio e li avrebbe portati lontano. Lontano da Parigi, lontano dalla Francia, lontano dalla guerra. Li avrebbe portati al sicuro e nulla avrebbe turbato la loro serenità. Ma non poteva. Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto farlo.
«Arthur, anche tu sarai coinvolto in tutto questo, lo sai?»
«Io non ho una moglie e un figlio, posso permettermi di morire in guerra.»
«Ma hai una sorella. E un nipote. E, per quanto ti costi ammetterlo, anche un cognato. Hai una famiglia che sentirebbe la tua mancanza.»
Un lieve ghigno sarcastico si dipinse sulle labbra secche e screpolate dell'inglese.
«Tu sentiresti la mia mancanza, rana?»
Uno sbuffo divertito abbandonò la bocca del francese, il quale, con un gesto amichevole, diede una piccola spinta all'altro, facendolo appena barcollare.
«Se tu non ci fossi, a chi riserverei il mio repertorio di battute sulla tua pessima cucina?»
Fu la prima volta che Arthur non se la prese effettivamente per una spiritosaggine sul suo conto. In fondo, quando mai loro due si ritrovavano a parlare come se fossero amici di lunga data, senza lanciarsi freddure o colpi bassi?
Il calare della sera portò con sé un lieve venticello che scompigliò loro i capelli.
«Devo ammetterlo, rana; la tua città è davvero bella.»
«Già, lo è.»
Così dicendo il francese posò un braccio sulle spalle strette e scarne dell'inglese, sorridendogli sinceramente. «Torneremo, vedrai.»
Il silenzio cadde nuovamente tra i due. E rimasero ancora lì, affacciati al balcone fino a quando l'ultima luce, giunta l'alba, si spense.



 

Note dell'autrice:

Salve a tutti! Mi sento una persona orribile a cominciare un'altra long, avendone così tante in sospeso. Spero di riuscire a continuare anche le altre, almeno quest'estate, appena avrò finito con gli esami dell'università.
Allora, questa storia è un tentativo di essere una persona coerente -anche se so già che fallirà perché non sono una persona coerente-. Voglio provare ad aggiornarla ogni settimana e vedere di finire una long-fic una volta per tutte. Ce la farò! Della serie: prima la convinzione.
Vi dico subito che questa fanfiction non è storica, non c'è nulla di storico. Ciò che scrivo e scriverò sulla Seconda Guerra Mondiale è quanto mi ricordo dal liceo e quanto leggo da Wikipedia. Quindi, evitate i commenti “non è accurato storicamente”. Lo so, per certi punti non sarà preciso e perfetto dal punto di vista storico, ma non mi interessa. Il mio scopo non è insegnarvi la storia, ma raccontare.
Il titolo in inglese è preso da uno dei miei film preferiti, da cui ho preso ispirazione per scrivere questa fanfiction: “I diavoli volanti” -“The flying deuces”, appunto, in originale- di A. Edward Sutherland con Stan Laurel e Oliver Hardy -Stanlio e Ollio, per intenderci-. Se lo conoscete, più avanti capirete dall'ambientazione. Se non lo conoscete, guardatelo perché è un capolavoro della comicità degli anni '30-'40.
Bene, ora che ho spammato il film direi che ho concluso. Qui di seguito inserisco le traduzioni delle parti in francese. Se me ne sfugge qualcuna, fatemelo pure notare.
Grazie a tutti per aver letto questo primo capitolo. Alla prossima
~

Cali.

P.S. Non so se si è capito, ma Michelle sarebbe Seychelles. Himaruya non le ha dato un nome, il più accreditato è Sesel, ma a me Sesel fa abbastanza cacare come nome e perciò ne ho preso un altro popolare nel fandom, Michelle.
 

Traduzione:

Français et Françaises!
Nous faisons la guerre parce qu’on nous l’a imposée. Chacun de nous est à son poste, sur le sol de France, sur cette terre de liberté où le respect de la dignité humaine trouve un de ses derniers refuges. Vous associerez tous vos efforts, dans un profond sentiment d’union et de fraternité, pour le salut de la Patrie.
Vive la France!

Uomini e donne francesi!
Facciamo la guerra perché così ci è stato imposto. Ognuno di noi è al suo posto, sotto il sole di Francia, su questa terra di libertà dove il rispetto della dignità umana trova uno dei suoi ultimi rifugi. Unite tutti i vostri sforzi, in un profondo sentimento di unione e fraternità, per la salvezza della Patria.
Viva la Francia!

Maman, maman! J'ai faim!
Mamma, mamma! Ho fame!

Ça ne compte pas!
Non vale!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 

La luce filtrò delicata attraverso le tende di raso. Il sole si specchiava placidamente nel candore delle lenzuola appena smosse che delineavano la figura magra e sensuale di una donna. I lunghi capelli biondi, dalle sfumature argentee, riposavano sparsi sul cuscino, contornando il bel viso dai lineamenti completamente rilassati.
Emise un gemito di disappunto quando un raggio particolarmente fastidioso le fece strizzare gli occhi, disturbando il suo sonno pacifico. Si girò, portando con sé un lembo di lenzuolo e distendendo le braccia lungo il materasso. Fu solo in quell'istante che una strana sensazione la colse e la spinse ad aprire gli occhi: il letto, accanto a lei, giaceva vuoto. Che se ne fosse già andato? Sbattè le palpebre un paio di volte, mentre i contorni della stanza si delineavano uno alla volta davanti ai suoi occhi ancora impastati dal sonno. Facendo perno sulle braccia, si mise a sedere e, con le mani chiuse a pugno, si strofinò gli occhi per poi riuscire, con una certa lucidità, ad osservare meglio la stanza. Essa appariva come la sera precedente, quando lui era arrivato a casa sua, avevano bevuto insieme ed infine tutto si era risolto tra un bacio, una carezza e qualcosa di più tra quelle coperte.
Indossò velocemente una vestaglia color vaniglia e si avviò verso l'uscio della camera da letto. Nell'istante in cui passò accanto alla parte di materasso dove aveva dormito il suo amato, il suo profumo così intenso e caratteristico le invase le narici. Rimase qualche istante ad inebriarsi di quell'odore particolare che solo lui era in grado di emanare e, per un breve istante, un brivido le percorse la schiena. Fu un attimo in cui la serata precedente le si ripresentò davanti agli occhi: il corpo tonico e scultoreo dell'americano che la sovrastava, mentre le gocce di sudore gli imperlavano i pettorali, per poi scivolare sempre più un basso, verso il più dolce dei paradisi.
Dovette scuotere un paio di volte il capo, Natalia, per risvegliarsi da quell'idillio in cui il semplice odorare il profumo forte del ragazzo l'aveva fatta sprofondare.
Si incamminò con passo felpato nel corridoio, sbadigliando e tenendo la vestaglia chiusa a livello del seno con una mano. Un fischiettìo allegro risuonò dalla cucina, intonando una vecchia canzone del vaudeville.

 

Oh, shine on, shine on harvest moon, up in the sky;
I ain't had no lovin' since April, January, June or July.
Snow time ain't no time to stay outdoors and spoon,
So shine on, shine on harvest moon, for me and my gal.


«Imparerai mai una canzone che non sia cantata con quell'accento irritante?»
All'udire quella voce del tutto inaspettata alle proprie spalle, il giovane americano sobbalzò. Sorrise, però, non appena constatò che non si trattava d'altri che di Natalia.
Le si appropinquò con passo ciondolante e le lasciò un fuggevole bacio a fior di labbra. La ragazza aggrotò le sopracciglia, fingendosi quasi contrariata da quel contatto, ma percependo chiaramente il proprio cuore aumentare sproporzionatamente velocità dei battiti. Come faceva quell'idiota a fargli sempre quell'effetto? Quando Alfred si voltò nuovamente per tornare in cucina, ella si morse appena le labbra, come a voler gustarsi meglio il sapore di quelle di lui sulle proprie.
«Cosa stai facendo?» domandò, andando a sedersi al tavolo.
«Colazione, no? Sono uscito a prendere il pane fresco e il burro.»
Così dicendo, posò sulla tavola un piattino in ceramica con due fette di pane già imburrate. La ragazza ne prese una e, con una sorta di ritrosia, le diede un morso. Era tanto impegnata ad assaporare a pieno la morbidezza di quel pane che si accorse dopo diversi istanti che l'altro la osservava. Teneva la testa appoggiata contro un palmo e il gomito sul tavolo e un tenero sorriso gli increspava le labbra. Natalia distolse lo sguardo, ma puntualmente questo cadeva sui suoi grandi fari azzurri, limpidi e cristallini. La prima cosa che aveva visto in lui e che l'aveva fatta perdutamente innamorare.
Curioso come si fossero incontrati la prima volta. Lei era nata in Bielorussia e giunta in Francia in tenera età insieme al fratello maggiore che poi l'aveva abbandonata per arruolarsi in Legione Straniera. Non era più tornato, Ivan. Le mandava lettere, rassicurandola sulle proprie condizioni ed informandola della propria carriera militare che proseguiva con tutti gli onori.
Lei, rannicchiata in un angolo di una strada nella periferia di Parigi, ormai senza soldi, implorava i passanti di carità. E ad un tratto le si era piazzato davanti questo giovanotto, dal tipico accento yankee, che le aveva detto quanto la trovasse carina e che l'aveva invitata a bere qualcosa. Natalia era convinta di non aver mai ringraziato abbastanza Alfred per averla salvata e il suo carattere generalmente freddo e distaccato poco aiutavano questo genere di relazioni. Ma non passava giorno che lei non l'amasse. E l'amava davvero, con tutto il suo cuore.
«Hey, Nat.»
Il suo flusso di pensieri venne puntualmente interrotto dalla voce del ragazzo. Nat. Alfred adorava chiamare la gente per soprannomi. Natalia lo aveva sempre detestato. Eppure, a lui solo concedeva un onore simile.
Sollevò appena il capo, restando in silenzio ad attendere che l'altro parlasse.
«A te non piacciono le smancerie, vero?»
«Vero.»
«Bene, allora vediamo di fare in fretta.»
Lo sguardo ancora un poco assonnato della bielorussa divenne via via sempre più accigliato mentre seguiva l'americano che si era alzato, aveva frugato in un cassetto ed ora era inginocchiato davanti a lei. E ancora non smetteva di sorridere.
«Credo che se tuo fratello venisse a sapere che ti sto per chiedere una cosa del genere tornerebbe dalla Legione a cavallo di un dromedario solo per farmi fuori. Ahahahah!»
Fu un attimo in cui la sua risata tornò ad essere quel sorriso di cui tutti rimanevano abbagliati. Un sorriso sincero e genuino, come i sentimenti che egli stesso provava per la bella giovane.
«Nat, te lo chiederò senza troppe cerimonie, come piace a te: vuoi sposarmi?»
Nel preciso istante in cui quelle parole furono pronunciate, la ragazza sentì il proprio cuore fare una capriola nel petto, come se fosse in procinto di scoppiarle da un momento all'altro. Più sfumature di rosso si impadronirono del suo viso che poteva percepire chiaramente in fiamme. La voce le mancò e riuscì solamente a balbettare qualche sillaba confusa. Quella proposta giungeva alle sue orecchie del tutto inaspettata e fu solo dopo diversi istanti che si rese effettivamente conto di alcune lacrime che avevano preso a bagnarle le gote. Si nascose il volto nei palmi, cercando invano di trattenere quel pianto emozionato.
Alfred, ancora in ginocchio davanti a lei, la fissava mordendosi lievemente un labbro, indeciso sul come interpretare quella reazione. Era un sì o un no? Di certo l'americano non era il più esperto a leggere l'atmosfera o comprendere le persone senza l'uso delle parole e l'ansia e il dubbio di quegli istanti sembravano voler consumarlo lentamente.
Infine, fu lei ad alzare nuovamente lo sguardo, ancora annebbiato dalle lacrime, e, senza dire nulla, semplicemente annuì.
Il sorriso del ragazzo si ampliò, diventando più luminoso del solito, e subito egli gettò le braccia attorno alla vita magra della novella fidanzata, stringendola fortemente a sé ed appoggiando la testa sul suo grembo.
«Ti amo, Nat. Ti amo.»
La bielorussa aveva preso ad accarezzare i ciuffi biondi e disordinati di Alfred con amore e dedizione. Le sue labbra rimanevano ancora serrate, ancora incapaci di proferire parola dopo una tale sorpresa. Solo dopo circa un minuto di silenzio battuto dal ritmo incalzante dell'orologio a pendolo del salotto, parlò: «Shine on, shine on harvest moon, up in the sky...»
Intonò le prime note di quella canzone e presto le parole divennero più un mormorio confuso di chi conosce poco più della melodia. Subito pensò l'americano a riempire quel vuoto, proseguendo con quel ritornello ormai ben noto.
«Snow time ain't no time to stay outdoors and spoon...»
Aprì la scatoletta in velluto rosso che aveva preso poco prima dalla credenza, rivelando al suo interno un anello in argento, semplice, ma elegante. Una volta che ebbe infilato il filo argentato all'anulare della sua fidanzata, si rialzò, aiutandola a fare lo stesso e, trovandosi mano nella mano con lei, terminò quel dolce motivetto.
«...So shine on, shine on harvest moon, for me and my gal.»


«Ma si può sapere che stai aspettando? Vai da lei e chiediglielo!»
«Ti sei bevuto il cervello? È con i suoi genitori, suo padre mi ammazzerà se lo faccio davanti a lui.»
«E allora chiedile di uscire e quando sarete da soli le farai la proposta.»
«E se... e se fosse troppo presto? E se mi rifiutasse?»
«Mathias, quella se ne tornerà in Norvegia tra cinque giorni e non la vedrai più. È rimasta qui a Parigi per un anno, vi siete frequentati, tu la ami, lei ti ama. Cos'altro vuoi aspettare prima di farti avanti?»
La ragazza dai lunghi capelli biondi sedeva ad un tavolo appartato del locale, insieme al padre, alla madre e al fratellino che discutevano animatamente nella loro lingua madre i dettagli del viaggio che avrebbe dovuto riportarli a casa. Sin dal primo momento in cui aveva messo piede a Parigi e, più precisamente, in quella locanda, Astrid Bondevik, così si chiamava, aveva attratto su di sé l'attenzione di diversi pretendenti. Non si poteva dire che non fosse splendida: aveva capelli biondi, leggermente mossi sulle punte, perennemente pettinati con una cura ed un'impeccabilità uniche. I suoi occhi azzurri brillavano come due zaffiri e la sua pelle di porcellana assumeva un lieve colorito rosato a livello delle gote. Non era di certo un caso che molti giovanotti fossero caduti al fascino della bella norvegese. E il Signore solo sapeva quanti insulti ed epiteti poco cordiali il danese Mathias era riuscito ad attrarre su di sé, semplicemente facendosi ricambiare dalla suddetta Astrid. Ci aveva messo un po', in effetti, la ragazza ad abituarsi all'irruenza dell'altro, tuttavia, dopo un curioso incidente che coinvolgeva del ghiaccio, del ferro e la lingua del danese, ella aveva cominciato progressivamente ad apprezzare la sua compagnia, fino a quando entrambi non si dichiararono. Mathias amava Astrid e aveva già espresso al suo amico Alfred l'idea di chiederle di diventare sua moglie. Ed ora, seduti ad un tavolo della locanda, fissavano la giovane con malcelato interesse. Non ci mise molto, infatti, la norvegese ad accorgersi delle attenzioni che le venivano rivolte dal suo compagno e dal di lui amico e, nonostante la solita rigidità che la caratterizzava, si sforzò di lanciare loro un sorriso appena accennato.
«Andiamo, muovi il culo e vai da lei!»
Così dicendo l'americano afferrò l'amico per un polso, spingendolo ad alzarsi da suo posto e ad avviarsi verso il tavolo dove sedeva la famiglia Bondevik. Era Gunner Bondevik uno dei più noti e ricchi industriali della Norvegia. Mathias non aveva mai ben capito di cosa si occupasse di preciso, tuttavia non gli importava. Fin dal primo momento in cui era entrato in contatto con quella famiglia, a differenza di molti altri pretendenti, il suo unico pensiero era stato Astrid e il suo cuore e non il portafoglio del padre.
Si appropinquò al loro tavolo con fare leggermente indeciso e, una volta che anche i genitori della ragazza si furono accorti della sua presenza, li salutò con un inchino appena accennato, in una forma di rispetto. Infilò nervosamente le mani in tasca, rigirando tra le dita l'anello di fidanzamento. Quando avrebbe potuto darglielo? Di certo non lì, non davanti a tutte quelle persone, non davanti ai suoi genitori. Ancora immerso in questi pensieri, però, Mathias non si accorse del fratellino della ragazza che gli saltò letteralmente alla vita. Preso del tutto alla sprovvista, per afferrare il bambino prima che potesse cadere e farsi del male, il danese lasciò andare l'anello che cadde a terra con un tintinnìo. Non ci mise molto a realizzare la situazione e, preso dal panico, si gettò a terra per recuperarlo. Quando si rialzò, trionfante, con l'anello stretto in un pugno, incontrò lo sguardo perso e stranito di Astrid e un moto di vergogna si impadronì di lui. Che avesse notato l'anello? E adesso? Che cosa avrebbe dovuto fare?
Il danese si guardò attorno con fare esagitato e solo in un secondo momento si avvide del suo amico, ancora seduto al tavolo, che rideva sotto i baffi, facendogli cenno con una mano di farsi avanti una volta per tutte. D'altronde cos'altro aveva da perdere? Prese un ampio respiro, socchiudendo gli occhi, come a voler ricercare una concentrazione che, in mezzo alla confusione generale del locale mai sarebbe arrivata.
«Io... io programmavo di chiedertelo in un altro modo, ma ormai non credo ci sia momento migliore per farlo. Voglio dire, certo, un momento migliore ci potrebbe essere, in effetti avrei voluto essere da solo con te, non davanti a tutta questa gente, ma ci dobbiamo accontentare, no? E poi--»
In quel momento preciso, la ragazza scattò in piedi e pose la sua mano sulla bocca del danese, impedendogli di blaterare oltre.
«Papà, mamma, vogliate scusarmi.»
E, così dicendo, si affrettò verso l'uscita, trascinando con sé il ragazzo che, ancora confuso da quell'intera situazione, perseverava nel balbettare cose senza logica. Una volta che furono fuori dalla locanda, ella afferrò il colletto della camicia del danese e gli lanciò uno dei suoi sguardi più freddi e cinici, tipici di chi, dopo ore passate a discutere con un idiota, aveva ormai perso ogni briciolo di pazienza residua.
«Si può sapere che diavolo ti è preso? Farmi fare una figura del genere davanti ai miei genitori? Che cosa pensavi di fare? Non puoi venire qui e stare a fissarmi per un'ora con il tuo amichetto come due pervertiti e credere che i miei parenti non notino nulla! Dio, Mathias, sei così--»
«Vuoi sposarmi?»
La domanda arrivò come un fulmine a ciel sereno, interrompendo quel flusso insensato di parole ed epiteti che la norvegese gli stava letteralmente sputando addosso.
«C-cosa?»
«L'anello, Astrid. Quello che mi è caduto poco fa. È per te. Allora? Vuoi sposarmi?»
In quel momento, un fastidioso nodo si formò nella gola della ragazza, a livello delle corde vocali, impedendole di emettere qualsiasi suono che non fosse un farfugliamento inarticolato. La sua pelle, solitamente diafana, divenne di un rosso vivace, come le rose che sbocciavano in primavera, e Mathias non poté fare a meno di sorridere a quella vista. Le portò una mano al bel viso, accarezzandole delicatamente una guancia e scostandole appena un ciuffo biondo che le ricadeva sugli occhi.
«Sei bellissima quando arrossisci.»
«Stai zitto, stupido.»
E, con infinita lentezza, le loro labbra si unirono e si assaporarono, come il più dolce degli idilli, mentre all'interno della locanda un silenzioso brusìo nasceva e moriva tra chiacchiere e lacrime.

Françaises et Français!

Depuis le 1er septembre au lever du jour, la Pologne est victime de la plus brutale et de la plus cynique des agressions. Ses frontières ont été violées. Ses villes sont bombardées. Son armée résiste héroïquement à l’envahisseur.

En nous dressant contre la plus effroyable des tyrannies, en faisant honneur à notre parole, nous luttons pour défendre notre terre, nos foyers, nos libertés.


 

Note dell'autrice:

Secondo capitolo, eccomi qui. Anche con un giorno di anticipo. E poi provate a dire che non sono stata brava! Per il terzo capitolo spero di aggiornare entro martedì prossimo, ma non posso garantire, dato che dalla prossima settimana comincerò gli esami, quindi sarò parecchio impegnata. Ma ci provo, contateci!
Bene bene bene, in questo secondo capitolo ho voluto introdurre le storie di Alfred e Natalia e di Mathias e Astrid (Fem!Norvegia per chi non l'avesse capito). E Eirik sarebbe Islanda. Come vedete qui c'è molto fluff, addirittura due dichiarazioni (awwww ~) e spero vi sia piaciuto, nonostante la dose massiccia di insulina che vi siete dovuti iniettare.
La canzone che canta Alfred è “Shine on, Harvest Moon”, una canzone del vaudeville del 1908 di Nora Bayes e Jack Norwoth. Ho scelto proprio quella canzone perché nel film “I diavoli volanti” -da cui ho preso ispirazione per questa fanfiction- Ollio la canta quando lui e Stanlio se ne stanno andando dalla legione straniera. Questa canzone la sentite solamente nella versione originale in inglese, in quella italiana -che personalmente preferisco mille volte a quella originale- la canzone che canta è “A Zonzo” di Ernesto Bonino.
Come con il primo capitolo, qui di seguito scrivo la traduzione dell'ultima parte di testo in francese.
And the last but not the least, volevo ringraziare tutti voi che avete letto, inserito tra le preferite/seguite questa storia e in particolare SnowBlizard, Faint e LiberTea per aver recensito il primo capitolo. Grazie davvero a tutte voi per tutti i complimenti che mi fate e che mi fanno andare letteralmente in brodo di giuggiole ♥ Grazie. Spero di non avervi deluso con questo secondo capitolo.
Alla prossima ~

Cali.
 

Traduzione:

Françaises et Français!
Depuis le 1er septembre au lever du jour, la Pologne est victime de la plus brutale et de la plus cynique des agressions. Ses frontières ont été violées. Ses villes sont bombardées. Son armée résiste héroïquement à l’envahisseur.
En nous dressant contre la plus effroyable des tyrannies, en faisant honneur à notre parole, nous luttons pour défendre notre terre, nos foyers, nos libertés.

Uomini e donne francesi!
Il primo settembre, al levare del giorno, la Polonia è stata vittima della più brutale e cinica delle aggressioni. Le sue frontiere sono state violate. Le sue città bombardate. Il suo esercito resiste eroicamente all'invasore.
Ergendoci contro la più terribile delle tirannie, facendo onore al nostro popolo, noi lottiamo per difendere la nostra terra, i nostri focolari, le nostre libertà.

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