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Sul
tavolo di legno scuro, una clessidra. La sabbia di lontani deserti segna il
lento scorrere del tempo. Alla luce tremolante di una candela, un uomo esamina
con attenzione i fogli di pergamena sparsi davanti a sé. Incerte
mappe di terre inesplorate, null’altro che vaghe indicazioni del profilo di una
costa. All’interno vaste regioni da
attraversare, e già l’immaginazione corre ad immense pianure assolate, aspre
montagne, fiumi che attraversano la foresta indugiando in lente curve serpeggianti.
Il
suo sogno, l’unico suo sogno… tutta la sua vita…
Oh,
l’emozione di stare sul ponte di una nave, ed ecco, dopo giorni e giorni passati ad osservare la monotona distesa dell’oceano,
all’orizzonte appare un lembo di terra, e via via si
avvicina, si possono intravedere i dettagli…
Chissà quali meraviglie laggiù attendono
solo di rivelarsi davanti ai suoi occhi…
A
notte fonda la candela, ormai consumata, si spegne. Il capo posato sopra le sue
carte, l’esploratore dorme; e nel sonno gli pare già di avvertire il
beccheggiare della nave…
Il vetro lo aveva sempre affascinato, fin da bambino, quando nella
bottega di suo padre lo osservava soffiare attraverso un lu
Il
vetro lo aveva sempre affascinato, fin da bambino, quando nella bottega di suo
padre lo osservava soffiare attraverso un lungo tubo sottile, per modellare la
massa informe del vetro fuso.
(Incredibile come dalla sabbia si potesse ottenere
una cosa così bella… doveva essere una specie di magia, e ne era ancora
convinto, nonostante fosse ormai da tanti anni divenuto a sua volta mastro
vetraio)
I
bambini giocavano con le bolle di sapone; lui giocava con le bolle di vetro…
Bolle
di cristallo, dai riflessi iridescenti, bolle che invece di scoppiare si
raffreddavano lentamente, consolidando la forma che egli aveva dato loro. Ed ecco ampolle, bicchieri, bottiglie, vasi… Finemente decorati, e
dei colori più vari: verde, azzurro, blu, violetto…
Vere
opere d’arte.
In
fila sui suoi scaffali rilucevano come pietre preziose,
trasparenti e perfetti. Dame e gentiluomini erano affascinati dalle sue
creazioni: una boccetta per il profumo a forma di drago, in vetro rosso con
riflessi dorati; elaborati fiori che si avviluppavano a formare un elegante
centrotavola; un fiaschetto su cui si intrecciavano
tralci di vite dipinti con pazienza e maestria.
Ma
i suoi oggetti preferiti erano le clessidre; ne creava di ogni
forma e dimensione, e aveva sempre cura di mettere in ciascuna la medesima
sabbia che aveva utilizzato per realizzare il vetro.
Le sue dita esili parevano quasi danzare, mentre accarezzavano i tasti
del pianoforte
Le sue dita esili parevano quasi danzare, mentre
accarezzavano i tasti del pianoforte. Una musica avvolgente,
affascinante come il sorriso un po’ triste dell’autunno.
Terminato
di suonare, si alzò e si affacciò alla finestra. Ormai si stava facendo buio, ed
una leggera brezza iniziava a levarsi. Osservò lo splendido tramonto, e i
meravigliosi giochi di luce che creava fra le nubi vaporose. Avvertì una
sensazione che ormai gli era familiare, una gioia profonda mescolata ad un
lacerante dolore… Quel tramonto era così bello, e lui non sarebbe
mai riuscito a riprodurlo… ad esprimere in note quelle infinite
sfumature di colore.
Aveva
sempre invidiato i pittori: per loro era più facile descrivere un paesaggio, un
volto, un’emozione. I colori sulla tela riproducevano quelli della realtà.
Per
un compositore è diverso, ogni singola nota deve essere pensata, immaginata,
amata, per poter esprimere attraverso la musica la distanza che c’è di qui a
quel gelso, e il colore delle sue foglie, come si muovono
quando soffia il vento, il rumore di passi sul vialetto, il profumo
dolce di quei fiori bianchi che si schiudono al crepuscolo.
Era
più difficile, ma infinitamente più bello. Ammirava, sì, i bei quadri, ma non
riuscivano a trasmettergli quell’emozione così
intensa e profonda, quel coinvolgimento assoluto che solo la musica può dare. Bastava chiudere gli occhi ed ecco i suoni si
traducevano in visioni di una bellezza suprema…
In
quanto compositore, sapeva anche apprezzare il valore del silenzio; e a volte
rimaneva sveglio fino a tarda notte per ascoltare la vastità e la vibrante
tensione di questo particolarissimo suono.
Il
tempo. In fondo cos’era il tempo? Qualcosa di impercettibile, impalpabile,
eppure scorreva via inesorabile, senza sosta, incurante delle vicende umane. Da
sempre gli uomini avevano cercato un modo per rendere tangibile il passare del
tempo, per misurarlo e potere così, in un certo qual modo, controllarlo. Per
questo motivo erano state inventate meridiane, clessidre, e infine gli orologi…
Sollevò
lo sguardo dal suo banco di lavoro e rivolse un’occhiata soddisfatta alla sua
bottega. Orologi di ogni sorta ticchettavano diligentemente tutt’intorno a lui.
Li aveva realizzati da solo, uno per uno.
La
gente li ammirava per la bellezza dell’involucro esterno; ma egli sapeva che le
lancette dorate, gli intagli del legno, l’eleganza della forma non erano altro
che specchietti per le allodole, piccole astuzie per convincere ricchi
compratori ad acquistarli.
La
vera meraviglia, ciò che contava realmente, erano i complicati meccanismi che
li facevano funzionare, gli ingranaggi, le molle, i contrappesi. Ogni singolo
pezzo doveva essere realizzato con assoluta precisione, e poi montato con cura;
e ciò richiedeva una vista molto acuta e mano ferma, poiché si trattava di
parti molto piccole e delicate. Terminato questo lavoro di infinita pazienza,
ecco bastava caricarlo e l’orologio iniziava a marciare, preciso, con un
leggero ticchettio che era musica per le sue orecchie.
Solo
uno dei suoi orologi non era in vendita, ed egli lo serbava per sé. Si trattava
di un orologio da taschino in vetro trasparente, che lasciava intravedere al
suo interno il lento funzionamento delle ruote dentate e degli innumerevoli
altri congegni. Fragilissimo, lo teneva chiuso in un cofanetto foderato di
velluto, e di tanto in tanto lo tirava fuori per guardarlo.
Buio
per un attimo. Ad occhi chiusi, il volto bagnato (ma sono lacrime quelle?) il
soldato ripensa a ciò che ha lasciato, e che mai più rivedrà. La sua città
sulle verdi colline, le soleggiate pianure al di là del
fiume. Non capisce, non può capire perché altri
uomini, uomini come lui, vogliano conquistare la terra in cui è nato, perché
mai mercenari stranieri versino il sangue di persone a loro sconosciute per
ottenere il prezzo di poche monete d’argento. Il suo mondo, tutto il suo mondo verrà distrutto. La speranza è perduta ormai da molto tempo,
e il soldato si chiede se valga ancora la pena di combattere, se non sia
preferibile morire subito, togliendo al nemico la gioia del trionfo.
Poi
solleva alta la spada, gettandosi nella mischia, andando con calma incontro alla morte.
In piedi di fronte al caminetto, guardava con apparente interesse le
fiamme crepitanti
In
piedi di fronte al caminetto guardava con apparente interesse le fiamme
crepitanti. In realtà i suoi occhi non vedevano nemmeno ciò che aveva davanti,
assorto com’era nei suoi pensieri. Un discreto bussare alla porta, e
rispettosamente si fece avanti il maggiordomo: “Milord, la signorina Gray
chiede di vederla”. “Fatela entrare”, fu la laconica risposta.
Poco
dopo entrava nella biblioteca una giovane donna dai capelli castani raccolti
con cura attorno alla testa, e con meravigliosi occhi verdi. Occhi vivi,
intelligenti, occhi che sapevano sorridere…
Il
gentiluomo si volse, e la fissò con sguardo gentile. Fu lei a parlare per
prima: “Robert, indovina un po’…”. Il suo sorriso parlava da sé.
“Adrian
ti ha chiesto di sposarlo, suppongo”, rispose lui con voce tranquilla.
Conosceva
Adrian Darnley, era un giovane piuttosto bello, dagli occhi scuri e profondi, e
neri capelli ondulati; l’aveva presentato lui stesso ad Elizabeth, in occasione
di un ricevimento.
“Sì”,
fu la semplice risposta. Com’era bella in quel momento!
L’aveva
sempre amata, ma non ne aveva mai fatto parola con nessuno.
Elizabeth
era sua cugina, ed aveva una decina d’anni in meno di lui; aveva sempre
considerato Robert come un fratello, e come tale gli voleva bene. Ma nulla di
più.
E
lui le era sempre rimasto accanto, discretamente, senza pretendere nulla.
“Mi
inviterai al matrimonio, spero”.
“Certo!”,
disse lei, e lo baciò lievemente sulla guancia, prima di andarsene via.
Prese
fra le mani l’alfiere. Quella scacchiera era un pezzo veramente prezioso, forse
il più bello di tutta la sua collezione. Sia il piano da gioco che le pedine
erano realizzate in pietre dure, di colore arancio e ambrato. Corniola ed
agata, lavorate con grande maestria. Il mercante che
gliel’aveva venduta aveva richiesto una somma
esorbitante; ma lui non si era messo a discutere, aveva semplicemente preso
dalla sua bisaccia un pugno di monete d’oro e aveva pagato. E dopo tutto ne era valsa la pena: quei pezzi erano bellissimi,
intagliati fin nei più piccoli dettagli. A volte si divertiva a stupire i suoi
ospiti proponendo loro di giocare una partita a scacchi con quella scacchiera;
e, d’altra parte, finiva quasi sempre per vincere lui.
Ma
possedeva anche altri tesori, che teneva in bella
mostra sugli ordinati scaffali di quella stanza. Una spilla a
forma di pavone, in argento, con incastonati degli zaffiri piccoli ma perfetti.
Un fermacarte in avorio bianco, che rappresentava una
danzatrice giapponese. Un candelabro in oro rosso
attorno al quale si avvolgeva sinuoso un serpente, lavorato nel medesimo
metallo. Un servizio di bicchieri di finissimo cristallo, che rifrangevano la luce in una miriade di arcobaleni. Una sfera di giada, su cui era intagliato un complicatissimo
disegno floreale. E molti altri ancora.
Impegnato
a collezionare oggetti, non si era mai dato pensiero delle persone che vivevano
attorno a lui. E non aveva mai notato la graziosa signora che dalla finestra di
fronte lo guardava con i suoi benevoli occhi grigi, più belli di qualsiasi perla preziosa.
Fruscio di pagine antiche nelle buie sale di una biblioteca
Fruscio
di pagine antiche nelle buie sale di una biblioteca. Un tempo aveva amato quel suono, ed ancora, a volte, si sorprendeva
immobile ad ascoltarlo. Ma gli anni erano passati, e
un senso di nostalgia si era impadronito di lui: nostalgia per tutto ciò che
avrebbe potuto vedere, per tutte le belle cose che non conosceva se non
attraverso le descrizioni lette nei libri.
Quando era giovane, disprezzava coloro che si
mettevano in viaggio per visitare luoghi lontani, affrontando lunghe distanze
con mezzi di trasporto assai poco confortevoli, ed andando incontro ad una
serie di difficoltà e contrattempi. Allora era solito affermare che nulla vale
quanto un buon libro, e che per quanto il viaggiatore si affaticasse a girare
per il mondo, non sarebbe mai riuscito ad apprendere tutto ciò che c’era da
sapere, né a vedere tutte le meraviglie che esistevano, sparse qua e là fin nei
paesi più remoti. Nella sua biblioteca vi erano migliaia e migliaia di libri, e
certamente essi contenevano tutto ciò che si potesse
desiderare, o anche solo sognare, di conoscere.
Eppure
pian piano, ma con sempre maggiore evidenza, si era reso conto che quei piccoli
segni d’inchiostro che si susseguivano ordinatamente sulle pagine bianche o
ingiallite dal tempo non erano sufficienti a dare un senso
alla propria vita, non potevano sostituire ricordi ed emozioni che per lui non
c’erano stati, impegnato com’era a leggere racconti di altri uomini che invece
li avevano vissuti di persona. Un libro in fondo acquista un significato
particolare se si aggancia alla nostra memoria, se ci ricorda qualcosa che
anche noi abbiamo pensato, o visto, o amato. Ma non può essere esso stesso il
fondamento della memoria, non possiamo prendere a prestito i ricordi di un’altra persona, scivoleranno via come la pioggia sui vetri
delle finestre.
Era
stato così fiero di essere un bibliotecario… Ora avrebbe dato
qualsiasi cosa per cambiare ciò che era stato, per poter essere anche solo il
mozzo di un’imbarcazione mercantile, o un povero pellegrino vestito di cenci in
cammino lungo le strade del mondo, sempre diritto davanti a sé.
Ma ormai era vecchio e malato, e la sua vista si era
indebolita; sedeva tutto solo nelle vaste sale della sua biblioteca, cercando
conforto nella presenza silenziosa di un gatto nero, unico suo amico.
La
strada bianca si snodava davanti a lui, nastro serpeggiante che accoglie le diverse solitudini di chi si mette in cammino
per volontà propria o per necessità. Viandante silenzioso, nessuno conosceva il
suo nome, nessuno sapeva di dove venisse o dove andasse.
Interrogato in proposito, rispondeva con un enigmatico sorriso, e poi: “Io sono
nato là dove inizia la strada, e mai più potrò tornarvi”.
“Dove inizia la strada?”, gli chiedevano allora, stupiti.
“Laggiù
dove nasce l’alba, là essa ha inizio”.
“Ma com’è possibile? Non si può raggiungere il luogo in cui
il sole sorge”.
E lui, rimettendosi in cammino: “Ed è per questo che non
posso tornarvi”.
“Aspetta”,
gli dicevano, andandogli dietro. “Vogliamo sapere dove stai andando”.
“Ad
abbracciare il sole che muore”.
“Cosa significa questo? Vecchio, che stai
dicendo?”
“Vado
verso il paese in cui si trova il tramonto, dove il sole in eterno si getta
agonizzante fra le chiome degli alberi e sui campi di grano, e dorme lungo
tutta la notte”.
“Ma non esiste questo paese. Il sole non si posa mai sulla
terra, se ti muovi verso il tramonto mai lo raggiungerai”. E
forse pensavano che fosse ammattito.
“Scacciato
dal mio paese, non avrò pace finché non avrò raggiunto il termine della strada,
nelle regioni del crepuscolo. Fino ad allora,
continuerò a camminare”.
Allora
un lampo di inquietudine, forse quasi di paura,
attraversava lo sguardo dei presenti.
“Da quanto tempo sei in viaggio, vecchio?”
“Saranno
cinquecento anni il mese prossimo”; e ammutoliti i suoi interlocutori lo
lasciavano proseguire da solo, tornando nella taverna ai loro bicchieri di
vino.
E lo straniero proseguiva con passo lento appoggiandosi al
suo bastone, un passo dopo l’altro, sempre diritto davanti a sé.
Come ogni sera, erano i gabbiani a svegliarlo, con il loro canto
malinconico
Come
ogni sera, erano i gabbiani a svegliarlo, con il loro canto malinconico. Una in
particolare, che lui aveva chiamato Josephine, e che aveva il nido vicino al
faro, veniva a picchiettare col becco sul vetro della sua finestra, finché lui
non si alzava, la faceva entrare e le offriva alcune briciole di pane. Vestitosi,
andava a svegliare il suo aiutante, un ragazzetto del paese, che dormiva su un
mucchio di sacchi vuoti poggiati vicino alla porta. Era un trovatello, che lui
aveva preso con sé quando si era reso conto di essere troppo vecchio per badare
da solo al faro. Vitto e alloggio, e due soldi al mese, questo era l’accordo; e
se non altro ora il ragazzino aveva un tetto sotto cui ripararsi.
Accese
un lume ad olio, lo porse a Christopher, e iniziarono a salire la lunga serie
di gradini che portava in cima al faro. Con il respiro affannato e le gambe
doloranti, un passo dopo l’altro giunse finalmente alla porta di legno scuro
che teneva sempre chiusa a chiave. La aprì e si diresse verso la lanterna del faro,
e con l’aiuto del ragazzo aggiunse nuovo olio e appiccò il fuoco. Ora il suo
compito era finito, toccava a Christopher vegliare accanto alla fiamma,
assicurandosi che per tutta la notte non si spegnesse.
Uscì
sulla balaustra, respirando a pieni polmoni l’aria salmastra, e contemplando il
mare che il tramonto aveva trasformato in una pozza d’oro e di rame fuso. Nato
e cresciuto su quelle coste, non si era mai stancato di guardare quella distesa
d’acqua sempre uguale, eppure così mutevole. Sì, perché il mare aveva continui
mutamenti d’umore, era per così dire un essere vivo, animato. Nelle giornate
limpide la sua superficie verde-azzurra pareva specchiare il cielo, e
confondersi con esso all’orizzonte. Il suo respiro quieto e regolare sembrava
quello di un gigante addormentato. Ma quando il cielo si rannuvolava anche il
mare prendeva una tinta di un grigio cupo, e durante i temporali ruggiva con
voce tremenda, infrangendo la bianca schiuma delle onde contro gli scogli neri.
Il
rumore del mare lo accompagnava sempre, perfino nei suoi sogni.
Si
stava ormai facendo buio. Rientrato, rivolse qualche parola al ragazzo, poi si
accinse a ridiscendere per la ripida scala, per andare a riposare un poco,
prima che l’alba sorgesse di nuovo.
In
my thoughts I have seen rings of smoke through the trees
And the voices of those who stand looking.
(Stairway
to Heaven, Led Zeppelin)
La
penna nella mano, il foglio bianco davanti, lo scrittore aspettava
un’ispirazione che pareva non venire. Si alzò, impaziente, infilò un pesante
cappotto e uscì nel giardino. L’aria autunnale era tagliente, e sembrava
preannunciare il gelo dell’inverno. Presto le cime dei monti si sarebbero
imbiancate di neve. Si diresse verso il fiume; nelle aiuole circolari i fiori
erano ormai morti, e fra gli steli anneriti dal freddo il vento ammucchiava le
foglie cadute. Procedendo a passo svelto lungo il sentiero, giunse ad un varco
fra gli alberi, e da lì si potevano vedere le montagne. Si fermò.
Le
montagne erano, come spesso accadeva, avvolte in una leggera nebbiolina, che si
attardava sui fianchi boscosi stendendo pigramente i suoi bianchi lembi al
vento. Il cielo era grigio, e non vi era alcuna traccia del sole, anche se quasi
certamente stava ormai volgendo ad occidente, per tramontare dietro alle alte
vette.
Un
vago senso d’inquietudine parve sfiorargli l’animo, come il tocco lieve di
gelide dita. Ogni volta che guardava verso quelle montagne, il suo pensiero
volava lontano, alle capanne dei boscaioli in mezzo alla foresta, al fumo dei
camini che saliva in esili spirali, alle voci degli uomini che interrompendo il
lavoro fissavano il cielo: “Domani il tempo volgerà al brutto”; e si affrettavano
a finire di tagliare la legna.
E
ad ovest, al di là delle cime nebbiose, forse si trovavano in valli dimenticate
le dimore delle fate, e le foglie d’oro cadevano fra i bianchi spruzzi delle
cascate, mentre da un candido palazzo il suono argentato di un flauto si
confondeva con il rumore dell’acqua che cade incessante fra le pietre. E il
viaggiatore sente di dover partire, anche se non sa il perché.
D’un
tratto, sorrise. Ora sapeva che cosa avrebbe scritto.
Lo stanco viaggiatore che giungeva al crocevia si rallegrava nel vedere
le luci alle finestre della locanda
Lo
stanco viaggiatore che giungeva al crocevia si rallegrava nel vedere le luci
alle finestre della locanda. Entrando, una sala non troppo ampia, illuminata
debolmente da candele e lumi ad olio. In un angolo, il fuoco scoppiettava nel
grande focolare, mentre al lato opposto, dietro il banco, l’oste osservava i
suoi avventori. Di età indefinibile, con occhi scuri e penetranti, aveva il
raro dono di saper leggere nel cuore degli uomini. Il suo sguardo si soffermava
sui volti delle persone che lo circondavano, e indovinava le storie che si
nascondevano dietro i loro occhi silenziosi.
Genti
di ogni età e provenienza affollavano la stanza: splendide donne fulve con
braccialetti d’oro ai polsi, che tintinnavano ad ogni loro movimento; uno
straniero incappucciato, seduto in disparte a fumare una lunga pipa; allegri
compagni che brindavano facendo traboccare la schiuma della birra dai loro
boccali pieni; ubriachi che dormivano con la testa poggiata sul tavolo; uomini
seduti al banco che fissavano il fondo del loro bicchiere di vino; vecchi
avvolti nei loro scialli intenti a narrare le leggende dei tempi andati; mercanti
che discutevano d’affari; un giovanissimo scudiero, dai lineamenti così fini e
delicati da parere una donna (e forse lo era veramente, magari fuggita di casa
per evitare un matrimonio non gradito).
In
silenzio, l’oste scrutava tutti, mentre puliva i bicchieri o serviva da bere. E
immaginava le terre lontane da cui i viandanti erano partiti, le fredde colline
desolate che si trovavano a nord, i vasti paesi assolati dove gli abitanti
erano soliti coprirsi il capo con turbanti di stoffa azzurra, le misteriose
foreste in cui si diceva vivessero popolazioni che conoscevano i segreti delle
piante e sapevano parlare con le bestie.
Ascoltava
sempre con attenzione i racconti di coloro che si erano recati in questi luoghi
selvaggi e pericolosi: cacciatori, vagabondi o avventurieri in cerca di fortuna;
e a volte pensava che un giorno anche lui avrebbe lasciato tutto per partire
verso ignote destinazioni, e non sarebbe mai più tornato.
“Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella,
“Se tu vuoi
bene a un fiore che sta in una stella,
è dolce, la
notte, guardare il cielo.
Tutte le
stelle sono fiorite.”
(Il Piccolo
Principe, Saint-Exupéry)
Ormai
non rammentava nemmeno più quanti anni fossero trascorsi dalla sua partenza,
una lontana mattina di febbraio, quando aveva lasciato il paese in cui era
nato, al di là del vasto oceano, per imbarcarsi in cerca di fortuna. Sbarcato
in una nazione sconosciuta, aveva tuttavia rapidamente appreso la lingua che lì
si parlava, ed era riuscito a farsi assumere come cartografo da un ricco
mercante, che si dilettava nell’esplorare le zone selvagge dell’entroterra. Ma
la gente del posto continuava a chiamarlo “lo straniero”, e per lo più lo
evitava.
Non
che a lui importasse molto; anche se a volte, nelle lunghe sere d’inverno,
seduto davanti al fuoco a rimuginare i suoi pensieri, sentiva che avrebbe
volentieri scambiato due chiacchiere con qualcuno, per alleviare la noia e la
solitudine, e per scacciare il peso dei ricordi.
Allora
si alzava, usciva richiudendo piano la porta e si incamminava lungo il molo,
osservando le navi ormeggiate, che oscillavano appena nell’acqua scura. E gli
tornavano alla mente le luci del porto di Southampton, la piccola casetta in
cui era cresciuto, e sua sorella Rosie che giocava con le conchiglie raccolte
sulla riva, mentre i pescatori tiravano in secco le barche vuote. E la piccola
Mary che danzava sulla spiaggia, le braccia esili, i lunghi capelli biondi al
vento, gli occhi celesti che fissavano il cielo; e nelle notti serene lo
prendeva per mano, indicandogli le stelle: “Quella lassù è la stella polare,
vedi?”
Ed
anche ora, quando alzava lo sguardo al cielo stellato, pensava che, in qualche
luogo, forse anche Mary lo stava guardando; e questo lo rendeva felice.
Un’umida
giornata di fine ottobre. La nebbia tinge di malinconia i muri dei palazzi, e
lungo i viali alberati i colori dell’autunno sfumano perdendosi in un grigio
uniforme. Per la strada, qualche carrozza cigola sobbalzando
nelle buche, mentre sul marciapiede distinti signori nei loro cappotti scuri camminano
silenziosi, il cappello in testa e l’ombrello appeso al braccio. In un
angolo, un pittore di strada è intento a dipingere, incurante della città
intorno a lui. Con mano sicura dà gli ultimi tocchi al suo quadro, rapide
pennellate che tratteggiano minuscoli particolari. Ed ecco la
piccola figura del pescatore che attende immobile fissando le calme acque del
lago. Sullo steccato indugia ancora la neve, che scintilla in lunghi
ghiaccioli dagli alberi spogli. Ma l’erba verde già
risplende attorno alla casetta del pescatore, e una cascata dai riflessi di
zaffiro e smeraldo versa le sue acque spumeggianti nella liscia superficie del
lago. Dietro, nell’aria tersa e cristallina, s’innalzano maestose le montagne
ancora candide d’inverno, avvolte di mistero e di bellezza.
Intanto
un gruppetto di passanti s’è fermato, ed osserva con rispetto e meraviglia il
lavoro del pittore. E più guardano il quadro, più ne
rimangono affascinati, è come una visione comparsa d’improvviso ad illuminare
le strade color cenere, e a stendere un dolce balsamo sugli animi indolenziti.
Andandosene, si sorprendono a pensare d’aver visto un angolo di paradiso, e di
volervi ritornare.
La sua voce era bassa e musicale, affascinante, con il suo tono pacato e
ricco di sfumature
La
sua voce era bassa e musicale, affascinante, con il suo tono pacato e ricco di
sfumature. Quando raccontava una storia gli ascoltatori rimanevano immobili,
quasi trattenendo il respiro; e lentamente davanti ai loro occhi si svelavano
immagini di terre lontane, dove al mattino la rugiada impreziosisce gli esili
steli delle campanule azzurre, che si dondolano dolcemente nella brezza carica
di profumi sconosciuti. Là, in boschi impenetrabili dove il cielo non mostra
mai il suo volto azzurro attraverso la cupola di foglie che come un drappo
verde ricopre ogni sentiero, vivono strane creature, esseri misteriosi e
bizzarri che si nascondono fra i cespugli di sambuco e sui rami dei noccioli. Spiriti
dell’aria, d’aspetto vario e mutevole, si mostrano di rado agli uomini,
preferendo la compagnia dei pettirossi e delle volpi. A volte crudeli e
terribili, a volte allegri e cordiali, possono lasciar morire il viandante
sperduto nella foresta senza battere ciglio, e invece piangere per un
ramoscello spezzato. Chi li incontra sul proprio cammino deve ricordare che la
loro fragile apparenza nasconde un potere grande ed antico, che è meglio non
destare.
E
il cantastorie continuava la sua narrazione; ora descriveva le dimore
sotterranee degli elfi, le piccole luci che ardevano durante le loro feste, e
la loro bellissima regina dai capelli color del miele che aveva il suo palazzo
in una grotta dietro ad una cascata…
Nella luce grigia prima dell’alba l’aria fredda e salmastra ristagna fra
i pennoni della nave
Nella
luce grigia prima dell’alba l’aria fredda e salmastra ristagna fra i pennoni
della nave. L’odore dell’acqua salata impregna il legno dello scafo, le corde,
le pesanti vele. Durante la notte la nebbia ha reso scivolose le assi del
ponte, che sembrano scricchiolare dolorosamente ad ogni passo. Il marinaio
s’inerpica agilmente sulle sartie, nonostante il sonno indugi ancora sulle sue
palpebre, non del tutto scacciato dai rintocchi sordi della campana. Di lassù,
la vastità dell’oceano appare ancora più evidente, fin dove giunge lo sguardo
solo acqua, nessuna costa è visibile attraverso la foschia che perdura
all’orizzonte.
Un
senso di lontananza, quasi di perdita, al pensiero di ciò che si è lasciato
dietro, fin da bambino dire addio alla propria casa per vivere fra le onde,
come compagni solo il vento e le burrasche. Dopo quindici anni, stare ritti sul
ponte mentre la nave beccheggia paurosamente fra i marosi è diventata
un’abitudine, e le innumerevoli battaglie non lasciano altro segno che qualche
cicatrice, l’animo ormai freddo e indifferente di fronte alla morte dei compagni.
A
poppa Billy, il timoniere, fuma la pipa, mentre con mano esperta segue la rotta
stabilita dal capitano. Un saluto, un cenno del capo, l’amicizia in fondo è
fatta di silenzi, un’occhiata basta per capire, e su una nave c’è tanto tempo
per pensare.
Solitario,
un albatro vola alto nel cielo, ricordi che lentamente scivolano via e
svaniscono nella brezza leggera.
Si svegliò di colpo, ma tutto sembrava continuare esattamente come nel
suo sogno
Si
svegliò di colpo, ma tutto sembrava continuare esattamente come nel suo sogno.
Stava salendo le stesse scale, e non ricordava di esservi arrivato.
Non
vi fece caso. Si era abituato, ormai. Sonno e veglia parevano confondersi in un
crepuscolo grigio e indistinto. Riprese a salire, giunse ad un pianerottolo e
si trovò davanti una pesante porta di legno scuro, chiusa con un chiavistello
di ferro. Ma come sempre il chiavistello cedette ad una lieve pressione delle
sue dita, con uno scatto metallico, e la porta cigolò penosamente, un rumore
insopportabile, eppure a volte sentiva di preferirlo a quel silenzio assoluto
che gli raggelava l’animo. Dentro, sempre la medesima luce fioca, che non si
capiva di dove venisse, e che permetteva appena di distinguere i contorni delle
cose, per non andare a sbattervi contro. Appoggiata alla parete, dalla quale
pendevano i resti di una tappezzeria logora, una grande cassapanca. Tentò di
aprirla, ma non riuscì a trovare la serratura, il coperchio pareva saldato.
Andò
avanti, in fondo al corridoio uno specchio rifletteva incerto la penombra della
stanza dalla quale era appena uscito. Si affrettò ad allontanarsi. Gli specchi
avevano per lui un non so che d’inquietante, da molto tempo non osava più
passare di fronte ad uno di essi.
Ora
il corridoio, dopo una svolta a destra, proseguiva diritto fino ad immergersi
nell’oscurità più completa, e ai suoi lati, per quanto si poteva indovinare
andando a tentoni, si aprivano innumerevoli porte, alcune chiuse, altre solo
accostate. Un soffio gelido proveniente da una delle porte socchiuse lo fece
rabbrividire. Affrettò il passo, chiudendo gli occhi, andando avanti ancora,
non avrebbe saputo dire per quanto tempo. Inciampò in un tappeto, e riaprì gli
occhi. Riusciva adesso ad intravedere qualcosa, da una parte una scala a
chiocciola scendeva nel buio, dall’altra una ripida scaletta s’inerpicava verso
il piano superiore, e lassù pareva che una piccola candela ardesse rischiarando
appena le tenebre. Sapeva bene che scegliere l’una o l’altra non avrebbe fatto
differenza, ormai da anni senza conto continuava a girare per gli stretti
corridoi di quella casa, senza mai giungere da nessuna parte, se andava in una
direzione prima o poi sarebbe comunque finito nella direzione opposta, le scale
parevano non seguire la normale concezione dello spazio, e si moltiplicavano
all’infinito, creando percorsi nascosti e tortuosi, o forse il percorso era
sempre il medesimo, solo cambiavano gli oggetti posti in esso.
Non
ricordava quasi più nulla della sua vita precedente, del perché avesse deciso
di entrare in quel luogo maledetto, all’inizio era per lui un diletto trovare
sempre nuovi passaggi, aggirarsi di stanza in stanza osservando i curiosi
soprammobili. Ma la luce era via via venuta meno, e lui aveva continuato a
vagare senza meta, il tempo si era fermato, gli orologi avevano smesso di
segnare le ore con i loro cupi rintocchi. Forse lui era già morto e non se
n’era reso conto, continuava a camminare, prigioniero in eterno di quel
labirinto, spettro invisibile che non ha mai riposo. Si chiese d’un tratto se
ci fosse qualcun altro in quel luogo, se altri fantasmi si aggirassero per quei
corridoi senza mai incontrarsi.
Scrollò
le spalle e prese la scala che portava verso l’alto.
Il giardiniere lavorava con calma, nel silenzio della sera
Il
giardiniere lavorava senza fretta, nel silenzio della sera. Radunava le foglie
secche, ammucchiandole con cura; dopo aver finito, ne avrebbe fatto un bel
falò.
Asciugandosi
la fronte con un ruvido fazzoletto di tela, posò il rastrello e si diresse alla
fontana. Riempì un secchio d’acqua, per annaffiare i bulbi piantati quel
pomeriggio. Amava quel particolare odore della terra umida, odore di funghi e
di foglie cadute.
Sfiorò
un ramo d’edera che pendeva dal muro di cinta. Belle foglie, così lisce e lucide.
Quel
giardino era la sua opera d’arte, l’unica cosa di cui si sentisse fiero. Anni e
anni di lavoro, ma ne era valsa la pena. Ora, in quel piccolo appezzamento di
terra, alberi arbusti ed erbe crescevano uno accanto all’altro, intrecciandosi,
una selva di forme e colori. Una dimora perfetta, pensò, per ninfe e driadi. Le
pietre del vialetto, la fontana, il pozzo, erano sommersi da un armonioso
groviglio di steli e di foglie, ora brune nell’autunno inoltrato.
In
un angolo riparato, vicino al roseto, teneva le piante più delicate, perché il
vento non le rovinasse. Scostò la cascata di rampicanti davanti al porticato, e
si mise ad osservare con occhio esperto le timide piantine che facevano
capolino dai loro vasi in terracotta.
Una
in particolare gli era molto cara, un esile stelo che pareva mettere in mostra
le sue piccole foglie un poco intirizzite per il freddo. Era una specie molto
rara, ne aveva conservato per tanto tempo una manciata di semi, e solo una
piantina era nata. Forse in primavera sarebbe fiorita, e si chiese come sarebbe
stato quel fiore. Non l’aveva mai visto, in tanti anni del suo mestiere.
Ma
per ora bisognava aspettare. Si sedette su una panchina di pietra, respirando
la calma del suo giardino.