Olio su tela

di Lothiriel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'esploratore ***
Capitolo 2: *** Il vetraio ***
Capitolo 3: *** Il compositore ***
Capitolo 4: *** L'orologiaio ***
Capitolo 5: *** Il soldato ***
Capitolo 6: *** Il gentiluomo ***
Capitolo 7: *** Il collezionista ***
Capitolo 8: *** Il bibliotecario ***
Capitolo 9: *** L'esule ***
Capitolo 10: *** Il guardiano del faro ***
Capitolo 11: *** Lo scrittore ***
Capitolo 12: *** L'oste ***
Capitolo 13: *** Lo straniero ***
Capitolo 14: *** Il pittore ***
Capitolo 15: *** Il cantastorie ***
Capitolo 16: *** Il marinaio ***
Capitolo 17: *** Il prigioniero ***
Capitolo 18: *** Il giardiniere ***



Capitolo 1
*** L'esploratore ***


Sul tavolo di legno scuro, una clessidra

 

Sul tavolo di legno scuro, una clessidra. La sabbia di lontani deserti segna il lento scorrere del tempo. Alla luce tremolante di una candela, un uomo esamina con attenzione i fogli di pergamena sparsi davanti a sé. Incerte mappe di terre inesplorate, null’altro che vaghe indicazioni del profilo di una costa. All’interno vaste regioni da attraversare, e già l’immaginazione corre ad immense pianure assolate, aspre montagne, fiumi che attraversano la foresta indugiando in lente curve serpeggianti.

Il suo sogno, l’unico suo sogno… tutta la sua vita…

Oh, l’emozione di stare sul ponte di una nave, ed ecco, dopo giorni e giorni passati ad osservare la monotona distesa dell’oceano, all’orizzonte appare un lembo di terra, e via via si avvicina, si possono intravedere i dettagli…

Chissà quali meraviglie laggiù attendono solo di rivelarsi davanti ai suoi occhi

 

A notte fonda la candela, ormai consumata, si spegne. Il capo posato sopra le sue carte, l’esploratore dorme; e nel sonno gli pare già di avvertire il beccheggiare della nave…

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Capitolo 2
*** Il vetraio ***


Il vetro lo aveva sempre affascinato, fin da bambino, quando nella bottega di suo padre lo osservava soffiare attraverso un lu

 

Il vetro lo aveva sempre affascinato, fin da bambino, quando nella bottega di suo padre lo osservava soffiare attraverso un lungo tubo sottile, per modellare la massa informe del vetro fuso.

(Incredibile come dalla sabbia si potesse ottenere una cosa così bella… doveva essere una specie di magia, e ne era ancora convinto, nonostante fosse ormai da tanti anni divenuto a sua volta mastro vetraio)

I bambini giocavano con le bolle di sapone; lui giocava con le bolle di vetro…

Bolle di cristallo, dai riflessi iridescenti, bolle che invece di scoppiare si raffreddavano lentamente, consolidando la forma che egli aveva dato loro. Ed ecco ampolle, bicchieri, bottiglie, vasi… Finemente decorati, e dei colori più vari: verde, azzurro, blu, violetto…

Vere opere d’arte.

In fila sui suoi scaffali rilucevano come pietre preziose, trasparenti e perfetti. Dame e gentiluomini erano affascinati dalle sue creazioni: una boccetta per il profumo a forma di drago, in vetro rosso con riflessi dorati; elaborati fiori che si avviluppavano a formare un elegante centrotavola; un fiaschetto su cui si intrecciavano tralci di vite dipinti con pazienza e maestria.

Ma i suoi oggetti preferiti erano le clessidre; ne creava di ogni forma e dimensione, e aveva sempre cura di mettere in ciascuna la medesima sabbia che aveva utilizzato per realizzare il vetro.

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Capitolo 3
*** Il compositore ***


Le sue dita esili parevano quasi danzare, mentre accarezzavano i tasti del pianoforte

 

Le sue dita esili parevano quasi danzare, mentre accarezzavano i tasti del pianoforte. Una musica avvolgente, affascinante come il sorriso un po’ triste dell’autunno.

Terminato di suonare, si alzò e si affacciò alla finestra. Ormai si stava facendo buio, ed una leggera brezza iniziava a levarsi. Osservò lo splendido tramonto, e i meravigliosi giochi di luce che creava fra le nubi vaporose. Avvertì una sensazione che ormai gli era familiare, una gioia profonda mescolata ad un lacerante dolore… Quel tramonto era così bello, e lui non sarebbe mai riuscito a riprodurlo… ad esprimere in note quelle infinite sfumature di colore.

Aveva sempre invidiato i pittori: per loro era più facile descrivere un paesaggio, un volto, un’emozione. I colori sulla tela riproducevano quelli della realtà.

Per un compositore è diverso, ogni singola nota deve essere pensata, immaginata, amata, per poter esprimere attraverso la musica la distanza che c’è di qui a quel gelso, e il colore delle sue foglie, come si muovono quando soffia il vento, il rumore di passi sul vialetto, il profumo dolce di quei fiori bianchi che si schiudono al crepuscolo.

Era più difficile, ma infinitamente più bello. Ammirava, sì, i bei quadri, ma non riuscivano a trasmettergli quell’emozione così intensa e profonda, quel coinvolgimento assoluto che solo la musica può dare. Bastava chiudere gli occhi ed ecco i suoni si traducevano in visioni di una bellezza suprema…

 

In quanto compositore, sapeva anche apprezzare il valore del silenzio; e a volte rimaneva sveglio fino a tarda notte per ascoltare la vastità e la vibrante tensione di questo particolarissimo suono.

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Capitolo 4
*** L'orologiaio ***


Il tempo

 

Il tempo. In fondo cos’era il tempo? Qualcosa di impercettibile, impalpabile, eppure scorreva via inesorabile, senza sosta, incurante delle vicende umane. Da sempre gli uomini avevano cercato un modo per rendere tangibile il passare del tempo, per misurarlo e potere così, in un certo qual modo, controllarlo. Per questo motivo erano state inventate meridiane, clessidre, e infine gli orologi…

Sollevò lo sguardo dal suo banco di lavoro e rivolse un’occhiata soddisfatta alla sua bottega. Orologi di ogni sorta ticchettavano diligentemente tutt’intorno a lui. Li aveva realizzati da solo, uno per uno.

La gente li ammirava per la bellezza dell’involucro esterno; ma egli sapeva che le lancette dorate, gli intagli del legno, l’eleganza della forma non erano altro che specchietti per le allodole, piccole astuzie per convincere ricchi compratori ad acquistarli.

La vera meraviglia, ciò che contava realmente, erano i complicati meccanismi che li facevano funzionare, gli ingranaggi, le molle, i contrappesi. Ogni singolo pezzo doveva essere realizzato con assoluta precisione, e poi montato con cura; e ciò richiedeva una vista molto acuta e mano ferma, poiché si trattava di parti molto piccole e delicate. Terminato questo lavoro di infinita pazienza, ecco bastava caricarlo e l’orologio iniziava a marciare, preciso, con un leggero ticchettio che era musica per le sue orecchie.

 

Solo uno dei suoi orologi non era in vendita, ed egli lo serbava per sé. Si trattava di un orologio da taschino in vetro trasparente, che lasciava intravedere al suo interno il lento funzionamento delle ruote dentate e degli innumerevoli altri congegni. Fragilissimo, lo teneva chiuso in un cofanetto foderato di velluto, e di tanto in tanto lo tirava fuori per guardarlo.

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Capitolo 5
*** Il soldato ***


Buio per un attimo

 

Buio per un attimo. Ad occhi chiusi, il volto bagnato (ma sono lacrime quelle?) il soldato ripensa a ciò che ha lasciato, e che mai più rivedrà. La sua città sulle verdi colline, le soleggiate pianure al di là del fiume. Non capisce, non può capire perché altri uomini, uomini come lui, vogliano conquistare la terra in cui è nato, perché mai mercenari stranieri versino il sangue di persone a loro sconosciute per ottenere il prezzo di poche monete d’argento. Il suo mondo, tutto il suo mondo verrà distrutto. La speranza è perduta ormai da molto tempo, e il soldato si chiede se valga ancora la pena di combattere, se non sia preferibile morire subito, togliendo al nemico la gioia del trionfo.

 

Poi solleva alta la spada, gettandosi nella mischia, andando con calma incontro alla morte.

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Capitolo 6
*** Il gentiluomo ***


In piedi di fronte al caminetto, guardava con apparente interesse le fiamme crepitanti

 

In piedi di fronte al caminetto guardava con apparente interesse le fiamme crepitanti. In realtà i suoi occhi non vedevano nemmeno ciò che aveva davanti, assorto com’era nei suoi pensieri. Un discreto bussare alla porta, e rispettosamente si fece avanti il maggiordomo: “Milord, la signorina Gray chiede di vederla”. “Fatela entrare”, fu la laconica risposta.

Poco dopo entrava nella biblioteca una giovane donna dai capelli castani raccolti con cura attorno alla testa, e con meravigliosi occhi verdi. Occhi vivi, intelligenti, occhi che sapevano sorridere…

Il gentiluomo si volse, e la fissò con sguardo gentile. Fu lei a parlare per prima: “Robert, indovina un po’…”. Il suo sorriso parlava da sé.

“Adrian ti ha chiesto di sposarlo, suppongo”, rispose lui con voce tranquilla.

Conosceva Adrian Darnley, era un giovane piuttosto bello, dagli occhi scuri e profondi, e neri capelli ondulati; l’aveva presentato lui stesso ad Elizabeth, in occasione di un ricevimento.

“Sì”, fu la semplice risposta. Com’era bella in quel momento!

L’aveva sempre amata, ma non ne aveva mai fatto parola con nessuno.

Elizabeth era sua cugina, ed aveva una decina d’anni in meno di lui; aveva sempre considerato Robert come un fratello, e come tale gli voleva bene. Ma nulla di più.

E lui le era sempre rimasto accanto, discretamente, senza pretendere nulla.

“Mi inviterai al matrimonio, spero”.

“Certo!”, disse lei, e lo baciò lievemente sulla guancia, prima di andarsene via.

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Capitolo 7
*** Il collezionista ***


Prese fra le mani l’alfiere

 

Prese fra le mani l’alfiere. Quella scacchiera era un pezzo veramente prezioso, forse il più bello di tutta la sua collezione. Sia il piano da gioco che le pedine erano realizzate in pietre dure, di colore arancio e ambrato. Corniola ed agata, lavorate con grande maestria. Il mercante che gliel’aveva venduta aveva richiesto una somma esorbitante; ma lui non si era messo a discutere, aveva semplicemente preso dalla sua bisaccia un pugno di monete d’oro e aveva pagato. E dopo tutto ne era valsa la pena: quei pezzi erano bellissimi, intagliati fin nei più piccoli dettagli. A volte si divertiva a stupire i suoi ospiti proponendo loro di giocare una partita a scacchi con quella scacchiera; e, d’altra parte, finiva quasi sempre per vincere lui.

Ma possedeva anche altri tesori, che teneva in bella mostra sugli ordinati scaffali di quella stanza. Una spilla a forma di pavone, in argento, con incastonati degli zaffiri piccoli ma perfetti. Un fermacarte in avorio bianco, che rappresentava una danzatrice giapponese. Un candelabro in oro rosso attorno al quale si avvolgeva sinuoso un serpente, lavorato nel medesimo metallo. Un servizio di bicchieri di finissimo cristallo, che rifrangevano la luce in una miriade di arcobaleni. Una sfera di giada, su cui era intagliato un complicatissimo disegno floreale. E molti altri ancora.

 

Impegnato a collezionare oggetti, non si era mai dato pensiero delle persone che vivevano attorno a lui. E non aveva mai notato la graziosa signora che dalla finestra di fronte lo guardava con i suoi benevoli occhi grigi, più belli di qualsiasi perla preziosa.

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Capitolo 8
*** Il bibliotecario ***


Fruscio di pagine antiche nelle buie sale di una biblioteca

 

Fruscio di pagine antiche nelle buie sale di una biblioteca. Un tempo aveva amato quel suono, ed ancora, a volte, si sorprendeva immobile ad ascoltarlo. Ma gli anni erano passati, e un senso di nostalgia si era impadronito di lui: nostalgia per tutto ciò che avrebbe potuto vedere, per tutte le belle cose che non conosceva se non attraverso le descrizioni lette nei libri.

Quando era giovane, disprezzava coloro che si mettevano in viaggio per visitare luoghi lontani, affrontando lunghe distanze con mezzi di trasporto assai poco confortevoli, ed andando incontro ad una serie di difficoltà e contrattempi. Allora era solito affermare che nulla vale quanto un buon libro, e che per quanto il viaggiatore si affaticasse a girare per il mondo, non sarebbe mai riuscito ad apprendere tutto ciò che c’era da sapere, né a vedere tutte le meraviglie che esistevano, sparse qua e là fin nei paesi più remoti. Nella sua biblioteca vi erano migliaia e migliaia di libri, e certamente essi contenevano tutto ciò che si potesse desiderare, o anche solo sognare, di conoscere.

Eppure pian piano, ma con sempre maggiore evidenza, si era reso conto che quei piccoli segni d’inchiostro che si susseguivano ordinatamente sulle pagine bianche o ingiallite dal tempo non erano sufficienti a dare un senso alla propria vita, non potevano sostituire ricordi ed emozioni che per lui non c’erano stati, impegnato com’era a leggere racconti di altri uomini che invece li avevano vissuti di persona. Un libro in fondo acquista un significato particolare se si aggancia alla nostra memoria, se ci ricorda qualcosa che anche noi abbiamo pensato, o visto, o amato. Ma non può essere esso stesso il fondamento della memoria, non possiamo prendere a prestito i ricordi di un’altra persona, scivoleranno via come la pioggia sui vetri delle finestre.

Era stato così fiero di essere un bibliotecario… Ora avrebbe dato qualsiasi cosa per cambiare ciò che era stato, per poter essere anche solo il mozzo di un’imbarcazione mercantile, o un povero pellegrino vestito di cenci in cammino lungo le strade del mondo, sempre diritto davanti a sé.

Ma ormai era vecchio e malato, e la sua vista si era indebolita; sedeva tutto solo nelle vaste sale della sua biblioteca, cercando conforto nella presenza silenziosa di un gatto nero, unico suo amico.

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Capitolo 9
*** L'esule ***


The Road goes ever on and on

The Road goes ever on and on

Down from the door where it began.

Now far ahead the Road has gone,

And I must follow, if I can,

Pursuing it with weary feet,

Until it joins some larger way,

Where many paths and errands meet.

And wither then? I cannot say.

 

La strada bianca si snodava davanti a lui, nastro serpeggiante che accoglie le diverse solitudini di chi si mette in cammino per volontà propria o per necessità. Viandante silenzioso, nessuno conosceva il suo nome, nessuno sapeva di dove venisse o dove andasse. Interrogato in proposito, rispondeva con un enigmatico sorriso, e poi: “Io sono nato là dove inizia la strada, e mai più potrò tornarvi”.

Dove inizia la strada?”, gli chiedevano allora, stupiti.

“Laggiù dove nasce l’alba, là essa ha inizio”.

Ma com’è possibile? Non si può raggiungere il luogo in cui il sole sorge”.

E lui, rimettendosi in cammino: “Ed è per questo che non posso tornarvi”.

“Aspetta”, gli dicevano, andandogli dietro. “Vogliamo sapere dove stai andando”.

“Ad abbracciare il sole che muore”.

Cosa significa questo? Vecchio, che stai dicendo?”

“Vado verso il paese in cui si trova il tramonto, dove il sole in eterno si getta agonizzante fra le chiome degli alberi e sui campi di grano, e dorme lungo tutta la notte”.

Ma non esiste questo paese. Il sole non si posa mai sulla terra, se ti muovi verso il tramonto mai lo raggiungerai”. E forse pensavano che fosse ammattito.

“Scacciato dal mio paese, non avrò pace finché non avrò raggiunto il termine della strada, nelle regioni del crepuscolo. Fino ad allora, continuerò a camminare”.

Allora un lampo di inquietudine, forse quasi di paura, attraversava lo sguardo dei presenti.

Da quanto tempo sei in viaggio, vecchio?”

“Saranno cinquecento anni il mese prossimo”; e ammutoliti i suoi interlocutori lo lasciavano proseguire da solo, tornando nella taverna ai loro bicchieri di vino.

E lo straniero proseguiva con passo lento appoggiandosi al suo bastone, un passo dopo l’altro, sempre diritto davanti a sé.

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Capitolo 10
*** Il guardiano del faro ***


Come ogni sera, erano i gabbiani a svegliarlo, con il loro canto malinconico

 

Come ogni sera, erano i gabbiani a svegliarlo, con il loro canto malinconico. Una in particolare, che lui aveva chiamato Josephine, e che aveva il nido vicino al faro, veniva a picchiettare col becco sul vetro della sua finestra, finché lui non si alzava, la faceva entrare e le offriva alcune briciole di pane. Vestitosi, andava a svegliare il suo aiutante, un ragazzetto del paese, che dormiva su un mucchio di sacchi vuoti poggiati vicino alla porta. Era un trovatello, che lui aveva preso con sé quando si era reso conto di essere troppo vecchio per badare da solo al faro. Vitto e alloggio, e due soldi al mese, questo era l’accordo; e se non altro ora il ragazzino aveva un tetto sotto cui ripararsi.

Accese un lume ad olio, lo porse a Christopher, e iniziarono a salire la lunga serie di gradini che portava in cima al faro. Con il respiro affannato e le gambe doloranti, un passo dopo l’altro giunse finalmente alla porta di legno scuro che teneva sempre chiusa a chiave. La aprì e si diresse verso la lanterna del faro, e con l’aiuto del ragazzo aggiunse nuovo olio e appiccò il fuoco. Ora il suo compito era finito, toccava a Christopher vegliare accanto alla fiamma, assicurandosi che per tutta la notte non si spegnesse.

Uscì sulla balaustra, respirando a pieni polmoni l’aria salmastra, e contemplando il mare che il tramonto aveva trasformato in una pozza d’oro e di rame fuso. Nato e cresciuto su quelle coste, non si era mai stancato di guardare quella distesa d’acqua sempre uguale, eppure così mutevole. Sì, perché il mare aveva continui mutamenti d’umore, era per così dire un essere vivo, animato. Nelle giornate limpide la sua superficie verde-azzurra pareva specchiare il cielo, e confondersi con esso all’orizzonte. Il suo respiro quieto e regolare sembrava quello di un gigante addormentato. Ma quando il cielo si rannuvolava anche il mare prendeva una tinta di un grigio cupo, e durante i temporali ruggiva con voce tremenda, infrangendo la bianca schiuma delle onde contro gli scogli neri.

Il rumore del mare lo accompagnava sempre, perfino nei suoi sogni.

Si stava ormai facendo buio. Rientrato, rivolse qualche parola al ragazzo, poi si accinse a ridiscendere per la ripida scala, per andare a riposare un poco, prima che l’alba sorgesse di nuovo.

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Capitolo 11
*** Lo scrittore ***


There's a feeling I get when I look to the West

There's a feeling I get when I look to the West

And my spirit is crying for leaving.

In my thoughts I have seen rings of smoke through the trees

And the voices of those who stand looking.

 

(Stairway to Heaven, Led Zeppelin)

 

 

La penna nella mano, il foglio bianco davanti, lo scrittore aspettava un’ispirazione che pareva non venire. Si alzò, impaziente, infilò un pesante cappotto e uscì nel giardino. L’aria autunnale era tagliente, e sembrava preannunciare il gelo dell’inverno. Presto le cime dei monti si sarebbero imbiancate di neve. Si diresse verso il fiume; nelle aiuole circolari i fiori erano ormai morti, e fra gli steli anneriti dal freddo il vento ammucchiava le foglie cadute. Procedendo a passo svelto lungo il sentiero, giunse ad un varco fra gli alberi, e da lì si potevano vedere le montagne. Si fermò.

Le montagne erano, come spesso accadeva, avvolte in una leggera nebbiolina, che si attardava sui fianchi boscosi stendendo pigramente i suoi bianchi lembi al vento. Il cielo era grigio, e non vi era alcuna traccia del sole, anche se quasi certamente stava ormai volgendo ad occidente, per tramontare dietro alle alte vette.

Un vago senso d’inquietudine parve sfiorargli l’animo, come il tocco lieve di gelide dita. Ogni volta che guardava verso quelle montagne, il suo pensiero volava lontano, alle capanne dei boscaioli in mezzo alla foresta, al fumo dei camini che saliva in esili spirali, alle voci degli uomini che interrompendo il lavoro fissavano il cielo: “Domani il tempo volgerà al brutto”; e si affrettavano a finire di tagliare la legna.  

E ad ovest, al di là delle cime nebbiose, forse si trovavano in valli dimenticate le dimore delle fate, e le foglie d’oro cadevano fra i bianchi spruzzi delle cascate, mentre da un candido palazzo il suono argentato di un flauto si confondeva con il rumore dell’acqua che cade incessante fra le pietre. E il viaggiatore sente di dover partire, anche se non sa il perché.

 

D’un tratto, sorrise. Ora sapeva che cosa avrebbe scritto.

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Capitolo 12
*** L'oste ***


Lo stanco viaggiatore che giungeva al crocevia si rallegrava nel vedere le luci alle finestre della locanda

 

Lo stanco viaggiatore che giungeva al crocevia si rallegrava nel vedere le luci alle finestre della locanda. Entrando, una sala non troppo ampia, illuminata debolmente da candele e lumi ad olio. In un angolo, il fuoco scoppiettava nel grande focolare, mentre al lato opposto, dietro il banco, l’oste osservava i suoi avventori. Di età indefinibile, con occhi scuri e penetranti, aveva il raro dono di saper leggere nel cuore degli uomini. Il suo sguardo si soffermava sui volti delle persone che lo circondavano, e indovinava le storie che si nascondevano dietro i loro occhi silenziosi.

Genti di ogni età e provenienza affollavano la stanza: splendide donne fulve con braccialetti d’oro ai polsi, che tintinnavano ad ogni loro movimento; uno straniero incappucciato, seduto in disparte a fumare una lunga pipa; allegri compagni che brindavano facendo traboccare la schiuma della birra dai loro boccali pieni; ubriachi che dormivano con la testa poggiata sul tavolo; uomini seduti al banco che fissavano il fondo del loro bicchiere di vino; vecchi avvolti nei loro scialli intenti a narrare le leggende dei tempi andati; mercanti che discutevano d’affari; un giovanissimo scudiero, dai lineamenti così fini e delicati da parere una donna (e forse lo era veramente, magari fuggita di casa per evitare un matrimonio non gradito).

 

In silenzio, l’oste scrutava tutti, mentre puliva i bicchieri o serviva da bere. E immaginava le terre lontane da cui i viandanti erano partiti, le fredde colline desolate che si trovavano a nord, i vasti paesi assolati dove gli abitanti erano soliti coprirsi il capo con turbanti di stoffa azzurra, le misteriose foreste in cui si diceva vivessero popolazioni che conoscevano i segreti delle piante e sapevano parlare con le bestie.

Ascoltava sempre con attenzione i racconti di coloro che si erano recati in questi luoghi selvaggi e pericolosi: cacciatori, vagabondi o avventurieri in cerca di fortuna; e a volte pensava che un giorno anche lui avrebbe lasciato tutto per partire verso ignote destinazioni, e non sarebbe mai più tornato.

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Capitolo 13
*** Lo straniero ***


“Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella,

“Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella,

è dolce, la notte, guardare il cielo.

Tutte le stelle sono fiorite.”

 

(Il Piccolo Principe, Saint-Exupéry)

 

 

Ormai non rammentava nemmeno più quanti anni fossero trascorsi dalla sua partenza, una lontana mattina di febbraio, quando aveva lasciato il paese in cui era nato, al di là del vasto oceano, per imbarcarsi in cerca di fortuna. Sbarcato in una nazione sconosciuta, aveva tuttavia rapidamente appreso la lingua che lì si parlava, ed era riuscito a farsi assumere come cartografo da un ricco mercante, che si dilettava nell’esplorare le zone selvagge dell’entroterra. Ma la gente del posto continuava a chiamarlo “lo straniero”, e per lo più lo evitava.

Non che a lui importasse molto; anche se a volte, nelle lunghe sere d’inverno, seduto davanti al fuoco a rimuginare i suoi pensieri, sentiva che avrebbe volentieri scambiato due chiacchiere con qualcuno, per alleviare la noia e la solitudine, e per scacciare il peso dei ricordi.

Allora si alzava, usciva richiudendo piano la porta e si incamminava lungo il molo, osservando le navi ormeggiate, che oscillavano appena nell’acqua scura. E gli tornavano alla mente le luci del porto di Southampton, la piccola casetta in cui era cresciuto, e sua sorella Rosie che giocava con le conchiglie raccolte sulla riva, mentre i pescatori tiravano in secco le barche vuote. E la piccola Mary che danzava sulla spiaggia, le braccia esili, i lunghi capelli biondi al vento, gli occhi celesti che fissavano il cielo; e nelle notti serene lo prendeva per mano, indicandogli le stelle: “Quella lassù è la stella polare, vedi?”

 

Ed anche ora, quando alzava lo sguardo al cielo stellato, pensava che, in qualche luogo, forse anche Mary lo stava guardando; e questo lo rendeva felice.

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Capitolo 14
*** Il pittore ***


Un’umida giornata di fine ottobre

 

Un’umida giornata di fine ottobre. La nebbia tinge di malinconia i muri dei palazzi, e lungo i viali alberati i colori dell’autunno sfumano perdendosi in un grigio uniforme. Per la strada, qualche carrozza cigola sobbalzando nelle buche, mentre sul marciapiede distinti signori nei loro cappotti scuri camminano silenziosi, il cappello in testa e l’ombrello appeso al braccio. In un angolo, un pittore di strada è intento a dipingere, incurante della città intorno a lui. Con mano sicura dà gli ultimi tocchi al suo quadro, rapide pennellate che tratteggiano minuscoli particolari. Ed ecco la piccola figura del pescatore che attende immobile fissando le calme acque del lago. Sullo steccato indugia ancora la neve, che scintilla in lunghi ghiaccioli dagli alberi spogli. Ma l’erba verde già risplende attorno alla casetta del pescatore, e una cascata dai riflessi di zaffiro e smeraldo versa le sue acque spumeggianti nella liscia superficie del lago. Dietro, nell’aria tersa e cristallina, s’innalzano maestose le montagne ancora candide d’inverno, avvolte di mistero e di bellezza.

Intanto un gruppetto di passanti s’è fermato, ed osserva con rispetto e meraviglia il lavoro del pittore. E più guardano il quadro, più ne rimangono affascinati, è come una visione comparsa d’improvviso ad illuminare le strade color cenere, e a stendere un dolce balsamo sugli animi indolenziti. Andandosene, si sorprendono a pensare d’aver visto un angolo di paradiso, e di volervi ritornare.

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Capitolo 15
*** Il cantastorie ***


La sua voce era bassa e musicale, affascinante, con il suo tono pacato e ricco di sfumature

 

La sua voce era bassa e musicale, affascinante, con il suo tono pacato e ricco di sfumature. Quando raccontava una storia gli ascoltatori rimanevano immobili, quasi trattenendo il respiro; e lentamente davanti ai loro occhi si svelavano immagini di terre lontane, dove al mattino la rugiada impreziosisce gli esili steli delle campanule azzurre, che si dondolano dolcemente nella brezza carica di profumi sconosciuti. Là, in boschi impenetrabili dove il cielo non mostra mai il suo volto azzurro attraverso la cupola di foglie che come un drappo verde ricopre ogni sentiero, vivono strane creature, esseri misteriosi e bizzarri che si nascondono fra i cespugli di sambuco e sui rami dei noccioli. Spiriti dell’aria, d’aspetto vario e mutevole, si mostrano di rado agli uomini, preferendo la compagnia dei pettirossi e delle volpi. A volte crudeli e terribili, a volte allegri e cordiali, possono lasciar morire il viandante sperduto nella foresta senza battere ciglio, e invece piangere per un ramoscello spezzato. Chi li incontra sul proprio cammino deve ricordare che la loro fragile apparenza nasconde un potere grande ed antico, che è meglio non destare.

 

E il cantastorie continuava la sua narrazione; ora descriveva le dimore sotterranee degli elfi, le piccole luci che ardevano durante le loro feste, e la loro bellissima regina dai capelli color del miele che aveva il suo palazzo in una grotta dietro ad una cascata…

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Capitolo 16
*** Il marinaio ***


Nella luce grigia prima dell’alba l’aria fredda e salmastra ristagna fra i pennoni della nave

 

Nella luce grigia prima dell’alba l’aria fredda e salmastra ristagna fra i pennoni della nave. L’odore dell’acqua salata impregna il legno dello scafo, le corde, le pesanti vele. Durante la notte la nebbia ha reso scivolose le assi del ponte, che sembrano scricchiolare dolorosamente ad ogni passo. Il marinaio s’inerpica agilmente sulle sartie, nonostante il sonno indugi ancora sulle sue palpebre, non del tutto scacciato dai rintocchi sordi della campana. Di lassù, la vastità dell’oceano appare ancora più evidente, fin dove giunge lo sguardo solo acqua, nessuna costa è visibile attraverso la foschia che perdura all’orizzonte.

Un senso di lontananza, quasi di perdita, al pensiero di ciò che si è lasciato dietro, fin da bambino dire addio alla propria casa per vivere fra le onde, come compagni solo il vento e le burrasche. Dopo quindici anni, stare ritti sul ponte mentre la nave beccheggia paurosamente fra i marosi è diventata un’abitudine, e le innumerevoli battaglie non lasciano altro segno che qualche cicatrice, l’animo ormai freddo e indifferente di fronte alla morte dei compagni.

A poppa Billy, il timoniere, fuma la pipa, mentre con mano esperta segue la rotta stabilita dal capitano. Un saluto, un cenno del capo, l’amicizia in fondo è fatta di silenzi, un’occhiata basta per capire, e su una nave c’è tanto tempo per pensare.

Solitario, un albatro vola alto nel cielo, ricordi che lentamente scivolano via e svaniscono nella brezza leggera.

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Capitolo 17
*** Il prigioniero ***


Si svegliò di colpo, ma tutto sembrava continuare esattamente come nel suo sogno

 

Si svegliò di colpo, ma tutto sembrava continuare esattamente come nel suo sogno. Stava salendo le stesse scale, e non ricordava di esservi arrivato.

Non vi fece caso. Si era abituato, ormai. Sonno e veglia parevano confondersi in un crepuscolo grigio e indistinto. Riprese a salire, giunse ad un pianerottolo e si trovò davanti una pesante porta di legno scuro, chiusa con un chiavistello di ferro. Ma come sempre il chiavistello cedette ad una lieve pressione delle sue dita, con uno scatto metallico, e la porta cigolò penosamente, un rumore insopportabile, eppure a volte sentiva di preferirlo a quel silenzio assoluto che gli raggelava l’animo. Dentro, sempre la medesima luce fioca, che non si capiva di dove venisse, e che permetteva appena di distinguere i contorni delle cose, per non andare a sbattervi contro. Appoggiata alla parete, dalla quale pendevano i resti di una tappezzeria logora, una grande cassapanca. Tentò di aprirla, ma non riuscì a trovare la serratura, il coperchio pareva saldato.

Andò avanti, in fondo al corridoio uno specchio rifletteva incerto la penombra della stanza dalla quale era appena uscito. Si affrettò ad allontanarsi. Gli specchi avevano per lui un non so che d’inquietante, da molto tempo non osava più passare di fronte ad uno di essi.

Ora il corridoio, dopo una svolta a destra, proseguiva diritto fino ad immergersi nell’oscurità più completa, e ai suoi lati, per quanto si poteva indovinare andando a tentoni, si aprivano innumerevoli porte, alcune chiuse, altre solo accostate. Un soffio gelido proveniente da una delle porte socchiuse lo fece rabbrividire. Affrettò il passo, chiudendo gli occhi, andando avanti ancora, non avrebbe saputo dire per quanto tempo. Inciampò in un tappeto, e riaprì gli occhi. Riusciva adesso ad intravedere qualcosa, da una parte una scala a chiocciola scendeva nel buio, dall’altra una ripida scaletta s’inerpicava verso il piano superiore, e lassù pareva che una piccola candela ardesse rischiarando appena le tenebre. Sapeva bene che scegliere l’una o l’altra non avrebbe fatto differenza, ormai da anni senza conto continuava a girare per gli stretti corridoi di quella casa, senza mai giungere da nessuna parte, se andava in una direzione prima o poi sarebbe comunque finito nella direzione opposta, le scale parevano non seguire la normale concezione dello spazio, e si moltiplicavano all’infinito, creando percorsi nascosti e tortuosi, o forse il percorso era sempre il medesimo, solo cambiavano gli oggetti posti in esso.

Non ricordava quasi più nulla della sua vita precedente, del perché avesse deciso di entrare in quel luogo maledetto, all’inizio era per lui un diletto trovare sempre nuovi passaggi, aggirarsi di stanza in stanza osservando i curiosi soprammobili. Ma la luce era via via venuta meno, e lui aveva continuato a vagare senza meta, il tempo si era fermato, gli orologi avevano smesso di segnare le ore con i loro cupi rintocchi. Forse lui era già morto e non se n’era reso conto, continuava a camminare, prigioniero in eterno di quel labirinto, spettro invisibile che non ha mai riposo. Si chiese d’un tratto se ci fosse qualcun altro in quel luogo, se altri fantasmi si aggirassero per quei corridoi senza mai incontrarsi.

Scrollò le spalle e prese la scala che portava verso l’alto.

 

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Capitolo 18
*** Il giardiniere ***


Il giardiniere lavorava con calma, nel silenzio della sera

 

Il giardiniere lavorava senza fretta, nel silenzio della sera. Radunava le foglie secche, ammucchiandole con cura; dopo aver finito, ne avrebbe fatto un bel falò.

Asciugandosi la fronte con un ruvido fazzoletto di tela, posò il rastrello e si diresse alla fontana. Riempì un secchio d’acqua, per annaffiare i bulbi piantati quel pomeriggio. Amava quel particolare odore della terra umida, odore di funghi e di foglie cadute.

Sfiorò un ramo d’edera che pendeva dal muro di cinta. Belle foglie, così lisce e lucide.

Quel giardino era la sua opera d’arte, l’unica cosa di cui si sentisse fiero. Anni e anni di lavoro, ma ne era valsa la pena. Ora, in quel piccolo appezzamento di terra, alberi arbusti ed erbe crescevano uno accanto all’altro, intrecciandosi, una selva di forme e colori. Una dimora perfetta, pensò, per ninfe e driadi. Le pietre del vialetto, la fontana, il pozzo, erano sommersi da un armonioso groviglio di steli e di foglie, ora brune nell’autunno inoltrato.

In un angolo riparato, vicino al roseto, teneva le piante più delicate, perché il vento non le rovinasse. Scostò la cascata di rampicanti davanti al porticato, e si mise ad osservare con occhio esperto le timide piantine che facevano capolino dai loro vasi in terracotta.

Una in particolare gli era molto cara, un esile stelo che pareva mettere in mostra le sue piccole foglie un poco intirizzite per il freddo. Era una specie molto rara, ne aveva conservato per tanto tempo una manciata di semi, e solo una piantina era nata. Forse in primavera sarebbe fiorita, e si chiese come sarebbe stato quel fiore. Non l’aveva mai visto, in tanti anni del suo mestiere.

Ma per ora bisognava aspettare. Si sedette su una panchina di pietra, respirando la calma del suo giardino.

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