Elizabeth

di Gracedanger
(/viewuser.php?uid=428937)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Home. ***
Capitolo 2: *** Il ragazzo fulmine ***
Capitolo 3: *** We can be heroes! ***
Capitolo 4: *** Bad news? ***
Capitolo 5: *** Boom. ***
Capitolo 6: *** Everything is gonna change. ***
Capitolo 7: *** An angel ***
Capitolo 8: *** Lezioni di piano. ***
Capitolo 9: *** Brothers. ***



Capitolo 1
*** Home. ***



Chapter 1



-Vede, sua figlia, è una ragazza molto seria…troppo anzi. Credo non viva fino in fondo. Ha un’età in cui bisogna divertirsi, svagarsi, lei invece a sedici anni è troppo paurosa, troppo poco istintiva.

Devo dimenticarmi di tutto questo.
Queste parole me le avranno dette centinaia di volte.
“Devi vivere, devi vivere…” nessuno che mi dia una cura per tutta questa mia serietà.
Ditemi di fare questo e quello, e allora si comincia a ragionare.
Probabilmente sarò troppo seria anche in quello.
Ma quella fu l’ultima volta che mi dissero che non mi godevo la mia età, mia madre decise che era troppo. Io intuii ciò che stava pensando. Un cambiamento, un enorme cambiamento, qualcosa che secondo la sua opinione servirà a farmi diventare la sedicenne più frizzante dell’universo.
Capii che non portava niente di buono, allora le dissi: “Troverò da sola qualcosa che mi cambi, un modo per divertirmi, tranquilla, non serve che cambiamo città, scuola, o roba del genere, faresti solo peggio, ci penso io!”
Pensai di averla convinta, ma poi mi resi conto che nemmeno io mi ero convinta, anzi le avevo dato un’idea. Cambiare città, scuola, o roba del genere.
Qualche giorno dopo stavamo chiudendo gli ultimi scatoloni. Non mi dispiaceva poi tanto andarmene da Baltimora, anche perché di amici inseparabili lì non ne avevo, mi piaceva per la sua tranquillità, perché non mi dava fastidio, ecco. Più che altro ero spaventata per ciò che avrei trovato in una sconosciuta.
Arrivammo nell’Union alle due di notte. Mio padre aveva richiesto il trasferimento e l’aveva ottenuto ad una città di nome Elizabeth. Ci sistemammo in una casa grande il doppio della vecchia, con un bel giardino nel quale ci mancava solo un cagnolino scodinzolante. Peccato che il mio cane, Molly, ama dormire in casa. Ha passato tutto il viaggio in macchina appoggiando il muso sulla mia pancia e guardandomi con i suoi due occhioni come per dire: “Che sta succedendo?...Ah, non importa, svegliami quando si mangia”.
Sistemammo gli scatoloni in sole due ore, avrei voluto restare sveglia tutta la notte. Non ce l’avrei fatta a dormire e svegliarmi in un posto diverso.
Una settimana dopo era il mio primo giorno di scuola. Non riuscivo a pensare ad altro che a cosa mi sarei messa, perché se provavo a pensare alle altre cose mi veniva in mente il peggio.
Alle due e mezza, mi alzai e mi misi un po’ a scrivere, adoravo la luce fioca del computer a quell’ora mi dava sicurezza.
Non scrivevo in modo eccezionale, scrivevo quasi come vivevo, in modo annoiato, pessimista, e timido, a volte. Molto probabilmente non sapevo che tipo di scrittrice ero, magari un giorno mi sarei svegliata, come scrittrice di gialli spietati alla John Grisham, oppure avrei scritto un manuale sulla salute degli animali domestici, includendo un capitolo speciale sulle cocorite.
Senza accorgermene arrivarono le cinque, e cominciavo a sbadigliare, ma non mollavo.
Mia madre mi ritrovò sbavando sulla scrivania. Per quanto ero in ritardo non pensai più di tanto a cosa indossare.
Era ufficialmente, il mio primo giorno di scuola.
 
“Ragazzi, date il vostro benvenuto a una nuova compagna, Elizabeth White, be, cara vuoi dirci qualcosa di te?”
Odio queste cose. Le odio. Le odio. Le odio. Le odio.
Avrei voluto dire qualcosa tipo: “Mi chiamo Elizabeth White, e sono venuta in questo paesino dimenticato da Dio, perché ho problemi nel relazionarmi con gli altri e non so vivere, e avrei convissuto benissimo con queste mie mancanze se non avessi avuto due genitori apprensivi e tanti professori che non sopportano una diversa dalla mischia fatta da voi, che siete solo manichini con una vita sociale insignificante e vuota.”
E invece: “Ehm, mi chiamo come la vostra città, simpatico, vero?”
Un minuto di silenzio imbarazzatissimo regnò sulla classe. la professoressa mi guardava con la bocca aperta, come se stesse aspettando il discorso più emozionante del mondo.
“Sono stata nell’Union, una volta…si ma ero piccola..non me lo ricordo”
“Ehm..non c’è altro”
Odiavo lo sguardo stupito di tutti, volevo strapparle quelle bocche aperte, quella della professoressa, e la bocca di ognuno della classe, ne approfittavo per guardarli, e analizzarli, c’erano i Ken e le Barbie, i brufolosi, i secchioni, i metallari, però persino i più sfigati erano in gruppo. Ecco a voi, la specialissima new entry, Lizzie l’asociale. Un soprannome tanto triste quanto bello.
La lezione finì tra i continui sguardi imbarazzanti.
Mi tuffai nel corridoio al primo suono della campanella, e come se non bastasse appena uscita, qualcuno che correva nella direzione opposta mi venne addosso, e cademmo entrambi a terra.
Altri sguardi imbarazzanti.
Rimasi con la testa sul pavimento per non alzarmi e non continuare quella giornata, “grazie ragazzo fulmine”. Sentii una mano sulla spalla. Mi girai di malavoglia. Davanti a me c’era un ragazzo con i capelli corti e neri, un cappello e un paio di baffetti curiosi, mi guardava con due occhi grandi che sembravano spogliarti l’anima.
“Tutto okay?”
“si”
“mi dispiace tantissimo”
“Tranquillo”
 
La mia aria fredda, non avrebbe convinto nemmeno uno di quei brufolosi deficienti della mia classe.
Quel ragazzo mi diede un occhiata rapida, e vide il mio piede messo in modo storto. Avevo sentito un crack durante la caduta.
“Mmm..si…sisì.” sussurrò e mi mise delicatamente un braccio attorno al collo e uno sotto le gambe.
Mi tirò su, stretta e mi prese in braccio.
“Ma che fai?!”
“Tu non stai bene.”
“Ma non ti preoccupare, non è nulla”
“Shh, zitta. E’ meglio che ti porti in infermeria. Anche perché è una scusa in più per allontanarci da questi stupidi sguardi.”
 
Boom. Colpita.
Rimasi zitta e appoggiai la testa sulla sua spalla.
Aveva una camicia azzurra e morbida, e un profumo che avrei voluto respirare fino alla fine dei tempi.

Ero in un altro stato, in un’altra contea, in un’altra città, in un’altra scuola, ma lì io mi sentivo nel posto più sicuro del mondo. 

Tra quelle braccia ero a casa.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il ragazzo fulmine ***



Chapter 4


“Che cos’ho?”
Oltre che a pessimista, dopo quelle due ore in infermeria con quella lenta infermiera che mi fasciava la caviglia, ho scoperto di essere anche una dannata ipocondriaca.
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era al “ragazzo fulmine” e se ci fosse ancora dietro quella porta, ogni volta che mi sembrava di vedere un’ombra sobbalzavo sul lettino.
La lenta infermiera se ne accorse, mi fece l’occhiolino, e con il suo buffo passo, si affacciò sul corridoio e chiuse la porta dietro di sé, vedevo solo ombre ora. Cercavo di non farmi illusioni, ma perché era così importante per me che quel ragazzo ci fosse ancora? Magari perché mi era sembrato l’unico decente in quella scuola di ragazzi tutti stupidi e tutti uguali. Magari era diverso, o magari avevo sbattuto la testa più forte di quanto credevo. L’infermiera tartaruga ritornò da me con un sorriso soddisfatto, ma non mi disse niente.
Che nervi, stavo per prenderla a schiaffi.
Non faceva altro che sospirare.
Dopo i primi dieci minuti di sospiri avevo i nervi che ballavano la samba.
Visto che non sputava il rospo, ho deciso di chiedere almeno come stava la gamba.

“Che cos’ho?”
“Una semplice distorsione di secondo grado, un po’ di riposo e passa la paura.”
“Passa la paura. E’ facile a dirsi.” sussurrai tra me e me.
“Su, in piedi, cara.”
 
Mi diede un paio di stampelle e mi accompagnò alla porta.
 
“Ah, signorina”
“Si”
“E’ lì. Ed è preoccupato per te.”
 
A quelle parole mi sciolsi. Il cuore mi cominciò a battere all’impazzata, appena guardai fuori dal corridoio lo vidi, seduto su una panchina con la testa tra le gambe e una videocamera tra le mani.
Mi vide e sgranò gli occhi, corse verso di me e mi prese il braccio e se lo mise attorno alle spalle. Mi portò sulla panchina poi si sedette accanto a me. Senza dirmi niente, prese la telecamera e la puntò verso di me.
“Sono Joseph.”
“Perché mi stai filmando Joseph?”
“E’ un segreto.”
“Come un segreto?”
“Lo dico solo alle ragazze di cui so il nome.”
“Elizabeth, mi chiamo Elizabeth.”
“Beh, Elizabeth, ti sto filmando perché ho voglia di filmarti.”
 
Non replicai, lasciai che mi filmasse, perché quella sua aria concentrata e i movimenti delle sue sopracciglia mentre guardava la videocamera mi facevano impazzire.
 
“Come stai, Lizzie?”
“Non mi chiamo Lizzie.”
“Lizzie, Elizabeth, Liza, tutti uguali.”
“Ma io mi chiamo Elizabeth, Joseph.”
“Non chiamarmi Joseph.”
“Tu ti sei presentato così.”
“Joe. Va meglio.”
“Come vuoi.. sei strano ragazzo fulmine”
“Come mi hai chiamato? Ragazzo fulmine”
“Si. Stavi correndo come un forsennato.”
“Già, e tu ti sei tuffata su di me.”
“Non è vero..non volevo..stavo scappando.”
“Da cosa? Dalla tua classe?”
“E’ che non mi piace stare in mezzo alla gente. Puoi spegnere ‘sta cosa? Voglio guardarti negli occhi quando ti parlo.”
“Nessuno guarda più le persone negli occhi, nemmeno tu ci riusciresti.”
“Perché tu si?”
“Sì.”
“Dimostramelo avanti.”
 
Spense la videocamera.
 
“Ecco, contenta?”
“Da morire.”
“Non sei molto sociale vero?”
“E tu sei tanto perspicace.”
“Eppure sembri quel tipo di persona che vale la pena conoscere. Quindi sappi che hai un amico.”
“Non lo voglio un amico.”
“E invece sì”
“E tu che ne sai? Non mi conosci nemmeno.”
“Si vede.”
“Da cosa?”
“Da come muovi le mani, da come sbuffi, da come ti metti i capelli dietro le orecchie e… da come mi guardi.”
“Perché come ti guardo?”
“Vuoi sapere troppe cose, sei noiosa.”
“E tu sei uno sputasentenze del cazzo”
“Eh già, è un mio brutto difetto. Ma questo sputasentenze del cazzo ti accompagnerà a casa.”
“Hai la macchina?”
“No.”
“E sull’autobus così non ci posso salire, vero?”
“No.”
“E come intendi accompagnarmi?”
“Ma non impari mai niente, eh?”
 
Mi prese in braccio un’altra volta e io ne ero fin troppo contenta.
 
“Sei sicuro di farcela?”
“Mi chiami ragazzo fulmine, no? Ci sarà un motivo!”
“Già…”
“Ma non ti ci abituare.”
 
Risi. E mentre questo buffo quadretto girava per la strada, io e Joe parlavamo. Parlammo di qualsiasi cosa durante il tragitto.


Sentii mentre con le dita stringevo la sua camicia, che tutto sarebbe andato bene. 
Non ero sola, eppure ero felice.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** We can be heroes! ***


“when I’ll find you i’ll be alright
I need to try to get to where you are..
could it be your not that far..”

 
Joe canticchiava queste tre frasi da venti minuti ormai.
Ci fermammo al parco. Quel motivetto mi era entrato in testa, e ogni tanto lo cantavo anch’io senza che lui se ne accorgesse. Ma, ad un certo punto…
“Quindi ti piace?”
“Che?”
“il motivo che stavo cantando”
“Beh, è una vita che lo canti, non potevo farne a meno…”
 
Fece una risata imbarazzata e abbassò la testa. Cercai di rimediare.
“Comunque sì, era davvero bello.”
Sorrise.
“..e sdolcinato”
Eh,non pretendete troppo da me. E’ un meccanismo naturale. Avrei voluto cucirmi la bocca con ago e filo per evitare di fare altre figuracce o dire altre cose stupide.
Invece lui rise, continuava a sorprendermi.
“l’hai composta tu?” continuai.
“Si, ma per ora sono ad un punto morto, ho composto solo questi tre versi, mi manca l’ispirazione, tutte le idee che mi sono venute sono banali e scontate”
“Ti potrei aiutare io..” mi sono pentita un nanosecondo dopo della grandissima cretinata che avevo appena detto. Che sarebbe stata seguita inevitabilmente da altre.
“Davvero? Sei brava a scrivere?”
“Beh… credo di si.”
“E cosa hai scritto?”
“Ho quasi finito di scrivere un… libro.”
 
Bugiarda. Bugiarda. Bugiarda. Bugiarda. Bugiarda… l’unica cosa che avevo erano tanti fogli con pensieri a caso, e mille storie incomplete, altro che libro.
 
“Ah si, eh?”
“Eh…”
“Allora se ti va potremmo scriverla insieme, no?”
“Certo che mi va!” dissi con un po’ troppo entusiasmo.
 
Avevo detto un’innocente bugia, però gli avevo mentito, e del risultato finale, anche se mi vergogno a dirlo, ne ero contenta. Una scusa per passare altro tempo con l’unica persona con cui mi ero trovata finalmente a mio agio.
 
“Forza lizzie, è ora di rimettersi in cammino.”
 
Non provai più a contraddirlo, avevo fatto fin troppi danni con quella bocca.
Era proprio il ragazzo più strano e straordinario che avessi mai conosciuto.
 
“Si, ma cambiamo canzone, la stai cantando da troppo.”
“Allora vai lizzie, è il tuo momento”
“Che?”
“Canta!”
“I, I wish you could swim 
Like the dolphins, like dolphins can swim 
Though nothing, 
nothing will keep us together…”

“We can beat them, for ever and ever 
Oh we can be heroes, just for one day”

 
“la conosci?!”
“Certo!”
“E come continua? Eh?
“Beh... tipo: I, I will be king, and you.. nanananana”
“No! Ahahahaha”
 
Cominciò a farmi girare intorno, ancora e ancora. E io che mi aggrappavo sempre di più al suo petto.
“Tranquilla, ti tengo”
“Joe, ora cado, smettila.. immediatamente!”
“Ho detto che ti tengo, ci sono io, tranquilla.”
 
Dopo un po’ cominciai anche a ridere.
Sembrava che il tempo avesse smesso di scorrere. C’eravamo solo io e lui. Accanto a Joe, il mondo sembrava pieno di emozioni che mi ero lasciata alle spalle, occasioni non colte, e altre che mi erano passate davanti e nemmeno me ne ero accorta, mi ero nascosta dal mondo credendo che esso potesse farmi tanto di quel male da non poter più riconoscere ciò che era bello.
Ma quel giorno, qualcosa di bello stava accadendo e proprio a me.


http://www.youtube.com/watch?v=Tgcc5V9Hu3g

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Bad news? ***






Nuovo numero: “Joe fulmine”


Si era salvato così sul mio cellulare.
Continuai a fissare il nome sorridendo fino alle tempie e provai ad abbozzare qualche messaggio da inviargli e lì feci un grande errore, poiché non avevo la più pallida idea di che dirgli o che raccontargli e non avrei resistito neanche un po’ agli imbarazzanti secondi che susseguono l’invio di un messaggio. L’attesa. Straziante e infinita. Quella sì, che mi uccideva.
Cosa avrei potuto scrivere? Non volevo essere troppo sfacciata, o troppo prematura, avrei voluto che mi chiamasse lui. “Ma perché non chiama?” pensavo. E subito dopo “Ah, già sono passati solo tre minuti da quando se ne è andato.”
Tre minuti di troppo.
Continuavo a indugiare con le stampelle sul portico di casa, entrai dopo circa mezz’ora passata a fantasticare su una conversazione via messaggi che non era ancora accaduta. Andai dritta in camera mia, per non cominciare immediatamente le spiegazioni ai miei genitori. Non sentivo nemmeno più il dolore alla caviglia, ero al decimo cielo. Appena entrata in camera, mi aspettavo di trovare Molly sdraiata sul mio letto che bighellonava, avrei voluto stringerla a me e raccontarle tutto quello che mi era successo, dello scontro con Joe, di come mi aveva presa in braccio, della telecamera con la quale insistentemente mi filmava, della sua espressione concentrata, della sua voce rauca, del suo profumo e gli occhi color miele…
Probabilmente anche il mio cane si sarebbe rifiutato di sentire tutte quelle sviolinate.
Pensai che avesse intuito già tutto poiché non lo trovai in camera mia. Sotto il letto, niente. Nell’armadio, niente. Sotto la scrivania, niente. Nel bagno, niente. Dietro la porta, niente.
“Ah, il tavolo della cucina!”
Arrivai in cucina e trovai mia madre seduta alla sedia, con lo sguardo preoccupato e le mani sulle gambe, triste, quasi tremava. Cominciò a parlare senza guardarmi in faccia.
“Lizzie, è successa una cosa..” e lentamente girò la testa, appena mi vide, lo sguardo passò da triste a infuriato.
“Oh mio Dio, che hai combinato?”
“Niente mamma, una semplice distorsione tranquilla..ma cosa è successo?”
“Quale tranquilla?! Dobbiamo andare in ospedale, hai le stampelle ci sarà un motivo! Oh, ci mancava solo questa!”
“Mamma finiscila! Vuoi dirmi che cosa è successo?”
Si fermò e abbassò il capo.
“Amore, si… si tratta di Molly, è in una clinica per animali..”
“Cosa?! Che le è successo? Sta male? Si riprenderà?”


“Amore, le stanno facendo un intervento..”
“Un intervento?! E’ grave allora?!”
“…si.”

 
Quella risposta mi trafisse il petto come un coltello.

“P-portami da lei.”
“Si amore, vieni, andiamo, ti spiegherò per strada…”

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Boom. ***


Erano quasi le cinque di pomeriggio.
Quasi.
Per la precisione erano le 4 e 47. Ricordo bene quell’orario. Ricordo bene la stanza dalle pareti bianche nella quale mi trovavo. Ricordo bene mio padre che camminava avanti e dietro per il corridoio con la sigaretta ancora spenta in mano, e non si fermava, faceva due passi veloci e poi si girava e ne faceva altri due, aveva lo sguardo fisso sul pavimento, perso nel vuoto. Ricordo il profumo del maglione di mia madre, che avevo impregnato di lacrime. Ricordo la mia espressione quando il veterinario mentre si levava i guanti bianchi con la testa bassa, ci comunicava l’ora del decesso. 4 e 47. Maledette, dannate 4 e 47.
Dopo circa mezz’ora, ci consegnò una scatola. Una scatola grande. Bianca anche questa e molto pesante. Non riuscii a guardarla per più di un secondo.
Una parte di me era in quella scatola. Era come se avessi perso la più cara amica che avevo e non riuscivo a trovare le parole per urlare il dolore che provavo dentro.
 
 
Non andai a scuola per tre giorni, un bell’inizio, no?
Furono tre giorni di messaggi e chiamate alle quali non risposi.
Joe mi aveva chiamato 23 volte. E per 23 volte non ho trovato il coraggio di accettare la chiamata e rispondergli.
Mi mancava da morire. Ma credevo che non sarei stata molto di compagnia con il mio umore “da funerale” era proprio il caso di dirlo.
Il pomeriggio del terzo giorno il campanello di casa suonò.
Ero sola in casa, e cercavo di dormire, arrivai alla porta trascinandomi sulle pantofole.
Aperta la porta, sentii il cuore arrivare in gola e tornare indietro nel giro di un nanosecondo.
 
“Joe, che ci fai qui?!”
“Ti ho accompagnata a casa,non ricordi?”
“Già, ma perché sei venuto?”
“Non mi hai risposto. Ti ho chiamato..”
“Si, non ero dell’umore.”
“Si ho saputo..”
“Come?”
“E’ una lunga storia..”
“Ah, ma non mi hai ancora risposto. ”
“A cosa?”
“Perché sei venuto?”
“Ma quante domande fai?”
“Mai abbastanza, avanti rispondi”
“Volevo vederti, tutto qui, d’accordo?”
Il battito cominciò ad accellerare e le mani a tremare.
“Si…cioè grazie..cioè.. anch’io..”
Il suo sguardo sembrò illuminarsi mentre farfugliavo come un idiota.
“Vuoi entrare?”
“Si…cioè grazie…cioè…” mi prese in giro.
Gli diedi una spinta sulla spalla e risi.
Portai del succo d’arancia e ci sedemmo sul divano.
La pallina di Molly era tra i cuscini, Joe la prese e me la porse.
La presi e sorrisi, cercando di trattenere le lacrime.
“Non ci ha mai giocato, era troppo pigra per farlo, mi ricordo i pomeriggi passati a lanciarla e poi alla fine ero io che correvo a prenderla..”
 
“Come stai, Lizzie?”
“Alla grande, non si vede?”
“Finiscila. Ero in pensiero per te. Vuoi parlarne?”
“No.”
“Provaci.”
 
Prese un cuscino e lo mise sulle sue gambe, mi fece segno di sdraiarmi lì. Mi accucciai sulle sue gambe, mentre con le dita giocava con i miei capelli.
“Ci conosciamo appena, Joe”
“Siamo amici, giusto?”
“Già, ma non so praticamente nulla di te..”
“Cosa vuoi sapere?”
“Non so, il tuo cognome, quanti anni hai, che lavoro fai..”
“Non è importante, Lizzie.”
“E cosa importa?”
“L’importante è che tu sappia che io sono tuo amico tutto qui.”
“D’accordo, allora anche io devo mantenere tutto questo mistero, no?”
“Fai pure, ma io so tutto di te.”
“Sei un bugiardo.”
“E invece no, io so cosa pensi, so cosa non dici, e so qual è la tua espressione quando ti tieni tutto dentro, ed è quella che vedo sul tuo volto adesso.”

 
Cominciò ad accarezzarmi i capelli,e io sentii di non riuscire a fermare più le lacrime.

 
Rimanemmo in silenzio, due sconosciuti, uno tra le braccia dell’altra.


Il momento più intimo che si possa mai avere con uno sconosciuto.

 
Dopo mezz’ora di pianti sentii la maniglia della porta abbassarsi, era mia madre che rientrava da lavoro. Mi asciugai di corsa le lacrime, io e Joe ci mettemmo in piedi davanti al divano, come se avessimo fatto qualcosa di brutto, qualcosa da nascondere a chi non avrebbe potuto capirlo.
“M-mamma, lui è Joe.”
Mia madre lo squadrò da capo a piede, più sorpresa che sospettosa, e non appena Joe le porse la mano, lei sfoderò un gran sorriso.
“E’ un piacere conoscerti Joe caro! Lizzie non porta mai amici a casa, è una bella novità.”
 
Joe caro?! Non porta mai amici a casa?! Bella novità?! Lizzie?!
 
Avrei voluto sprofondare dalla vergogna, ma non ne ebbi il tempo perché Joe si girò verso di me con l’aria divertita e mi diede un buffetto sulla guancia. Adorabile quanto odioso.
Lo trascinai via prima che mia madre prendesse l’album delle mie foto da piccola.
Arrivati alla porta, Joe si fermò pochi secondi sull’entrata.
“Non sparire, Lizzie.” Mi diede un bacio sulla guancia e corse via. 
Mi lasciò lì, immobile, priva delle certezze che mi ero costruita da sola, gli occhi spalancati e il respiro pesante, prima di rendermi conto di cosa fosse successo e di quanto ignote fossero tutte quelle emozioni che risvegliava dentro di me passarono all’incirca dieci minuti.
Joe mi era esploso nel cuore.
Boom.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Everything is gonna change. ***





“Le tre ore più lunghe della mia vita! Mai più a cena dai Sandler!”
“Joseph, dai, non siamo stati male.”
“Erano noiosissimi mamma, il padre non la smetteva più di parlare di pesca, e la madre di come cucinava i pesci che il marito pescava, non ho la più pallida idea di come abbiate fatto tutti a resistere!”
“Almeno le figlie erano simpatiche!”
“Si Joe, le figlie erano simpatiche!”
“Sta zitto, Nick! Dici così solo perché a te è capitata la più carina, la mia era una calamità naturale, con quell’apparecchio sputava ad ogni parola..”
“Joseph! Sei cattivo!”
“Scusa, mamma.. ma nemmeno Kevin è stato di compagnia, tutta la sera in silenzio, e io cosa avrei dovuto fare?”
“Mi dispiace Joe, avevo la testa da un’altra parte.”
“Eeeeeh lo so io, è quella ragazza che abita di fronte a noi, vero? Sei arrivato in seconda base almeno?”
“Joseph! Lascia stare i tuoi fratelli, immediatamente!”
“Papà, ma io non sto facendo nien..”
“PAUL, ATTENTO!”

 



 
Mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte, con la fronte imperlata di sudore, ci vollero dieci minuti per farmi passare il fiato corto, rimasi a fissare il pavimento della mia minuscola camera.
Il solito incubo, un’altra volta.
Passai e ripassai la mano sul mio volto. Odiavo quei momenti, quando mi risvegliavo nell’oscurità di una stanza vuota, con la voglia di gridare il loro nome, pur sapendo che non potranno mai rispondermi.
Non riuscivo nemmeno più a piangere, avevo pianto troppo nei mesi dopo l’incidente, sentivo d’aver prosciugato tutta l’acqua che avevo in corpo.
Ero vuoto, impotente, e arrabbiato da due anni ormai.
Quell’incidente segnò la mia vita, mi cambiò radicalmente, ma dentro il dolore mi uccideva.
E poi era arrivata lei.
Mi sembrava davvero strano ma dal momento in cui l’avevo conosciuta Elizabeth era riuscita ad accendere in me qualcosa che non credevo più esistesse, anche se era barricata in se stessa e mi respingeva o mi rispondeva male non mi sfiorava minimamente.
Lei era diversa, e con quel comportamento mi stava solo chiedendo implicitamente aiuto.
Ogni volta che la incontravo, mi faceva venir voglia di stringerla forte.
Ma avevo paura. Avevamo paura entrambi.
Avevo già fatto del male alle persone alle quali tenevo di più al mondo.
 
“Joe!”
Nick aveva urlato il mio nome dalla stanza accanto. Saltai giù dal letto e corsi più veloce che potevo da lui. Era per terra con il viso rivolto verso il pavimento che ridacchiava.
Lo presi in braccio e lo portai sulla sedia a rotelle.
“Come hai fatto a cadere?”
“Mi agito nel sonno lo sai, per quanto posso...”
“Stai bene?”
“Si, tranquillo Joe. Un po’ di tempo fa ti saresti messo a ridere…”
“Un po’ di tempo fa ti saresti riuscito ad alzare.”
Idiota. Abbassai la testa per la vergogna.
Nick abbozzò un sorriso imbarazzato.
Lo portai in cucina e cominciai a preparare la colazione.
“Oh che meraviglia!” disse con un sorriso gentile davanti all’ennesimo piatto di pancakes bruciati.
Mi misi al tavolo con lui, provammo a mangiarli ma erano terribili, come al solito, vedendo le nostre facce, scoppiammo a ridere a crepapelle. Era il nostro rito quotidiano.
Ad un tratto il mio cellulare vibrò. Un nuovo messaggio: Lizzie. Mi chiese se volevo accompagnarla a scuola. Quel messaggio mi fece dimenticare completamente il sogno della notte prima.
“Eheh, un sorriso da mister musone, chi sarà mai colei che ha compiuto il miracolo?” chiese Nick divertito mentre le rispondevo.
Sorrisi ma non gli risposi.
“Dimmi almeno come si chiama!”
Alzai le spalle e rimasi di nuovo zitto.
“Sai dovresti cambiare il codice del tuo telefono però..”
“Cosa?”
Voltò la sedia a rotelle e se ne andò ridacchiando.
Lo sentii cantare nel corridoio.
“Lizzie e Joe seduti sopra un pino, si guardano negli occhi e si scambiano un bacino…”
Non mi irritò più di tanto anzi mi fece ridere.
Ci misi il doppio del tempo per vestirmi e lavarmi, ma che diamine mi prendeva?
Ero preoccupato del mio aspetto più del normale. Mi sembrava di avere tredici anni, ero agitato come un bambino.
Accompagnai Nick fuori di casa e andai a prendere Elizabeth.
Appena la vidi uscire dal portone il battito accellerò.
“Andiamo Joseph, è una ragazza come tutte le altre.” pensai.

E invece sapevo che era un’altra delle mie bugie.


Messaggio de
ll'autrice:
"
lizzie e joe seduti sopra un pino, si guardano negli occhi e si scambiano un bacino.." ahaahahaahahahahah ho preso ispirazione da qui http://youtu.be/kxBhHlYP30M così anche voi canterete questo motivetto tutto il giorno come sto facendo ora io. Comunque spero che la storia vi stia piacendo, anche con questi risvolti un po' tragici. Qualsiasi recensione sarebbe super gradita. Un bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** An angel ***


“Si chiama Joseph, ma preferisce essere chiamato Joe, Molly, è..è fantastico, ha due occhi che ti stregano, e le sue braccia..oh le sue braccia riescono a sollevarmi e portarmi in cielo.”
Il mio cane è fermo sulle mie ginocchia e mi fissa dolce con i suoi grandi occhioni.
Gli accarezzo la testa e non la finisco più di parlare.
“Quando non c’è sento una stranissima stretta allo stomaco, lo immagino accanto a me mentre sto per addormentarmi, e la cosa che vorrei di più al mondo è ritornare al momento in cui le sue labbra hanno sfiorato la mia guancia e riviverlo altre mille volt..”
Molly, alza la testa e le orecchie, qualcuno la sta chiamando.
Rimango in silenzio paralizzata. Scende dal mio letto, e lenta si avvia verso la porta, prima di uscire, mi rivolge un ultimo fulmineo sguardo e poi si avvia.
“Molly, dove vai? Non te ne andare ti prego.” la supplico e corro fuori dalla mia camera, il corridoio è vuoto e completamente buio. Cerco di toccare il muro, ma all’improvviso sento la terra crollarmi sotto i piedi.
 



Mi alzai di scatto con un respiro strozzato e mi sedetti sul letto.
Rimasi zitta.
Strizzai gli occhi per far uscire il lacrimone che mi stava torturando e mi rimisi con la testa sul cuscino a fissare il soffitto. Il dolore mi attanagliava lo stomaco.
Un dolore che non poteva più essere consolato nemmeno da Molly. Ora non avevo nessuno da guardare per sentirmi al sicuro quando mi svegliavo dopo un incubo, o forse si.
Avevo bisogno di lui. Avevo un disperato bisogno di vedere Joseph.
 

 
“I miei capelli hanno scelto proprio il giorno giusto per protestare!” urlai, mentre continuavo a cercare di sistemare la massa di peli disordinati che avevo in testa. Proprio oggi che avevo chiesto a Joe di accompagnarmi a scuola, non sapevo nemmeno con che coraggio l’avessi fatto, di solito avrei ponderato, mi sarei fatta mille film, avrei pensato alle conseguenze, ma il senso di solitudine che si era impadronito di me la sera prima, mi fece fare tutto d’impulso.
Mi pentii un nanosecondo dopo l’invio di quel messaggio, sapevo che l’attesa sarebbe stata orribile, e troppe paure avrebbero popolato la mia mente. Ma non ebbero il tempo, Joe mi rispose in un attimo, e i miei occhi divennero lucidi, non sapevo come riuscisse sempre a trovare le parole giuste, mentre io mi sentivo un disastro ambulante.
Era nel mio giardino e ogni volta che lo vedevo era più bello della volta prima.
Quando lo vidi capii che forse le cose fatte di impulso sono quelle più vere, quelle fatte col cuore.
Il mio cuore voleva incontrarlo ancora, sentii la felicità che mi riscaldava le interiora.
Mi sorrise.
“Hey Lizzie”
“Ciao Joe Fulmine!”
“Beh?”
“Beh cosa?”
“Ti ho chiamata Lizzie.”
“E allora?”
“Non hai protestato.”
“Perché mi piace… ehm, voglio dire, mi ci sono abituata.”
Mi guardò divertito.
Il momento di silenzio venne interrotto da Joe che cantò sottovoce un motivetto molto semplice, strano ma pensai di aver sentito il mio nome in quella canzone, mi scrollai quel dubbio di dosso, credendo non fosse importante.
“Hai composto un’altra canzone?”
Mi guardò con gli occhi spalancati per qualche secondo come se avessi scoperto qualcosa di imbarazzante per lui.
“No…no è un motivetto che mi ha messo in testa mio fratello.”
“Hai un fratello?”
“Si, ne ho due.”
“Ho sempre voluto avere un fratello.”
“Già…ma a volte ti fanno fare figure di me...” sussurra.
“Come?”
“Niente, niente.”
“E come va con la canzone del parco?”
“Beh, ho fatto pochi passi avanti, ho composto altri versi, però non riesco a metterli insieme, non trovo la melodia giusta, una che colleghi tutto, che dia a tutto un senso.”
Il suo sguardo si fermò incantato su di me pochi minuti.
Ricambiai lo sguardo sorridendo.

Arrivammo davanti alla mia nuova scuola, Joe stava per aiutarmi a salire le scale quando inavvertitamente con le stampelle, urtai un ragazzo robusto, che emise un grugnito per il dolore.
“Idiota!” urlò.
“Scusami, non volevo..” dissi confusa.
“Ma se mi hai visto benissimo!”
“Scusa, io..”
Il tipo stava per riprendere ad urlare, quando Joe mi si parò davanti.
“Non hai sentito? Ti ha chiesto scusa, e tu le urli contro, è stata fin troppo gentile.”
Si girò verso di me, mi accarezzò il volto con le dita e mi aiutò a salire le scale.
Rimasi ammutolita, mi aveva difeso, sapevo che l’avrebbe fatto,
 con lui ero sempre al sicuro. 
Eravamo davanti al portone della scuola.
“Sei sicura che va tutto bene?” mi disse lanciando uno sguardo al ragazzo di prima, che ora prima fissava noi due e poi parlava con i suoi amici, un brivido mi corse dietro la schiena, ma non volevo far preoccupare ancora di più Joe.
“Si, tranquillo.”
Mise la mano dietro la mia nuca e portò dolcemente le labbra sulla mia fronte, facendomi chiudere gli occhi per inspirare il più possibile il suo profumo.
Se ne andò lentamente, lo guardai girare l’angolo.
Entrai nella scuola con un sorriso stampato sulle labbra, mentre la campanella suonò, stavo cercando di ricordare dove fosse la mia classe, quando mi ritrovai sola in un corridoio vuoto. Ad un tratto un rumore di passi rimbombò dal fondo del corridoio. Il ragazzo robusto e altri cinque tipacci stavano venendo a passo deciso verso di me.
Il cuore si fermò e cominciai ad andare più veloce sulle stampelle, sentivo le loro risate, i loro passi dietro i miei, all’improvviso lasciai le stampelle a terra e cominciai a correre gemendo di dolore per la caviglia malandata.
Un paio di lacrime scesero sul mio volto, il cuore batteva all’impazzata, mi sentivo persa, spacciata, mi voltai per vedere dove fossero e li vidi a pochi passi da me che camminavano veloce e ridevano come se avessero già catturato una facile preda.
Girai l’angolo del corridoio e urtai qualcosa, e finì a terra piangendo e singhiozzando e con gli occhi chiusi rimasi là, cercando con le braccia di coprirmi il corpo, abbandonata all’idea di ciò che mi sarebbe successo di lì a poco.

Sentii dei passi accelerati, urla, pugni, gemiti di dolore. 
Ma nessuno di questi mi sfiorò minimamente.

Alzai lentamente la testa dal braccio e aprii gli occhi.
Joe era davanti a me, di spalle, che ansimava con le braccia aperte e stanche, che guardava i ragazzi che mi stavano per picchiare correre via a stento. Si accorse che lo stavo guardando e si girò verso di me con lo sguardo preoccupato mi asciugò le lacrime.
“Oh mio Dio, sei qui! Grazie Joe, grazie!” dissi strozzata da un pianto di sollievo.
Mi abbracciò, mi diede un bacio sulla testa e accarezzando i miei capelli mi sussurrò piano: “Shh, è tutto finito, ci sono io con te.”
“Joe…ma tu..come sapevi che loro..”
“Li ho seguiti. Quei tipi non me la contavano giusta. Come ho sentito il tuo nome mentre erano fuori, sono corso a cercarti prima che ti trovassero loro, ma l’hanno fatto e io…io ti ho difesa.” disse quest’ultima frase quasi con imbarazzo poiché io l’avessi visto picchiare qualcuno, ma l’aveva fatto per me, mi aveva salvata.
Lo guardai intenerita e con g
li occhi lucidi e sprofondai il viso nel suo petto.

“L’hai fatto per difendere me… tu sei un angelo.”


Spazio autrice
Hola chicaaas!
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.
Vorrei ringraziare di cuore tutte quelle che hanno recensito la mia storia, soprattutto le cinque recensioni che ho trovato nell'ultimo capitolo, siete fantastiche, e anche quelle persone davvero intelligenti che hanno messo la mia storia tra i preferiti, i seguiti, ecc., eheh!
Comunque continuerò presto, so che vi troverò ancora qui, ci sarete?
Qualsiasi recensione è sempre gradita.
Un bacio da dalla vostra ladydanger (appena l'amministrazione di efp mi farà cambiare il nome utente, comunque sappiate che sarà questo.)
love you all, alla prossima.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Lezioni di piano. ***




“Sei sempre il solito: “Amore, ho una riunione, faccio tardi, puoi andare tu a prendere Elizabeth a scuola?”. Fai così da quando è nata. Non sai neanche chi frequenta!”
“Perché? Ha un ragazzo?”
“Mh, visto? Sei patetico, non sai niente di tua figlia.”
“Beh, scusa se non sono abbastanza informato, ma qualcuno deve pur lavorare in questa casa!”
“Lavorare? Si, certo.. occhio caro che qui dentro l’unica che lavora dalla mattina alla sera sono io.”
“Come mai questo sarcasmo?”
“Guarda che ti ho visto con la segretaria, l’altro giorno!”
“Ma che diavolo dici, Margaret?”
 

Attesi un momento di silenzio nel loro litigio per aprire la porta e entrare in casa.
Avevo appena realizzato che la porta della nuova casa era troppo sottile e le loro urla si riuscivano a sentire dall’esterno, sapevo che litigavano, lo facevano spesso e da tanto, ma mai quando c’ero io o quando potevo sentirli. Questa piccola svista da parte loro mi è costata un brutto quarto d’ora passato sulla veranda ad aspettare un buon momento per entrare.
“Mamma, sono tornata!”
Li interruppi e lo sapevo. Ma ero stanca di aspettare e l’unica cosa che volevo era stendermi sul letto e cercare di dimenticare i tristi avvenimenti di quella giornata.
Volevo dimenticarmi di tutti, tutti tranne Joe. Joe che mi aveva salvata da quei bulli, Joe che mi proteggeva sempre e comunque, Joe che migliorava le mie giornate.
“Oh ciao papà.”
“Ciao Elizabeth cara.”
Ne seguì un silenzio imbarazzante. Sembravamo una famiglia di sconosciuti. Avevamo tutto da dirci, ma nessuno aveva il coraggio di prendersi troppa confidenza.
“Io…vado a studiare.”
“Il pranzo è quasi pronto, amore.”
“Ok, mamma.”
Corsi su per le scale ma la voce di papà mi fece sobbalzare.
“Elizabeth cara, hai per caso un fidanzato?” Mi chiese imbarazzato, feci finta di non sentire e continuai a salire le scale. Mi sfuggì comunque un sorriso da bambina, lusingata che mi avesse prestato attenzione.
 

Un nuovo giorno.
Un nuovo giorno che era cominciato non nel migliore dei modi.
Joe non poteva accompagnarmi a scuola.
Arrivai davanti all’entrata, e con occhio vigile scrutai in giro nel caso i bulli del giorno prima fossero lì e avessero intenzione di fare un secondo round.
Per mia fortuna non li vidi.
Stavo camminando per il corridoio quando inciampai in un foglio, lo bloccai con il piede e lo presi in mano, sembrava il testo di una canzone. Riuscii a leggere solo le prime righe.

“Got the news today, doctor said I have to stay a little bit longer, and I’ll be fine.”

“Ehi, scusami, quel foglio sarebbe mio.” disse una voce maschile alle mie spalle.
Mi girai e poco distante da me un ragazzo con i capelli neri sulla sedia a rotelle mi sorrideva.
Rimasi inevitabilmente interdetta per un paio di secondi e poi mi avvicinai a lui evitando di assumere qualsiasi stupida espressione di pena o compassione come avrebbe fatto qualcun altro.
“Scusa, ecco.”
“Ma di che, grazie a te per avermelo raccolto.”
La campanella suonò prima che riuscisse ad aggiungere altro.
“Devo andare.” Sussurrai accennando un sorriso.
“Okay, ciao.” mi sorrise dolce.
Mi girai e mi allontanai lentamente pensando di aver incontrato più persone interessanti nelle prime due settimane in quella minuscola città di nome Elizabeth che in tutta la mia vita a Baltimora.
Continuai a guardarlo con la coda dell’occhio quando..
“Io mi chiamo Nick!” disse a voce alta dal fondo del corridoio.
Mi girai per rispondergli ma trovai solo una folla di ragazzi che correvano da un lato all’altro del corridoio.
L’avevo perso.
 
Avevo cercato con lo sguardo Nick nei corridoi durante i cambi dell’ora e anche all’uscita di scuola ma niente.
Volevo mandare un messaggio a Joe, volevo vederlo, senza neanche una scusa plausibile, era solo voglia di stare bene, perché lui mi faceva stare bene più di ogni altra cosa al mondo.
Purtroppo ogni volta che provavo a digitare qualcosa le dita mi si bloccavano e il cervello si inceppava, non sapevo che scrivergli e mi mancava il coraggio di premere il tasto invio, figuriamoci di chiamarlo.
Tornai a casa a piedi, fissando il marciapiede grigio, persa tra centinaia di pensieri che torturavano la mia mente.
Non c’era nessuno in casa. I miei genitori erano ancora a lavoro. Odiavo stare troppo tempo nel silenzio di quella casa, ora che non c’era nemmeno più Molly a romperlo. L’unico segno di vita proveniva da un post-it lasciato sul tavolo della cucina, con la grafia tondeggiante di mia madre:

“Amore, il pranzo è nel microonde torno stasera tardi. E ho trovato un maestro che ti darà lezioni di pianoforte. Verrà qui alle quattro, è un ragazzo adorabile.”

Rimasi con la bocca spalancata per pochi attimi.
Cosa aveva fatto? E perché? E chi le aveva dato la magnifica idea di chiamare “ragazzi adorabili” a darmi lezioni di piano senza dirmi assolutamente niente?
Accartocciai il post-it e lo gettai distratta verso la pattumiera mancando inevitabilmente il canestro.
Non volevo davvero prendere lezioni di piano, l’avevo detto forse una volta come se fosse un pensiero a voce alta, ma mia madre non perdonava.
Ero bloccata in quella maledetta situazione.
Stavo pianificando una gran scenata piena di rabbia da attuare appena mia madre sarebbe tornata a casa quando il campanello suonò.
“Arrivo, ragazzo adorabile..” sussurrai tra me e me.
Aprì la porta e fui costretta a portare lo sguardo una decina di centimetri più in basso.
Nick aveva la mia stessa espressione stupita che si dissolse un attimo dopo in un sorriso gentile.
“Beh, questa non me l’aspettavo.” dissi senza pensare.
Lui scoppiò a ridere e io arrossì per la vergogna.
Mi feci da parte per farlo entrare.
Lui si spinse sulla sedia a rotelle e entrò in casa.
“Scusa ma, stamattina a scuola non ho capito il tuo nome.” Disse girandosi a guardarmi.
 “Lizzie.” dissi d’impatto.
Rimasi in silenzio per un paio di secondi.
“Lizzie?” ripeté Nick accennando un sorriso.
 
Non ci potevo credere, avevo davvero detto quel nome? Ecco l’effetto che mi faceva Joe. Ero convinta che mi sarebbe scoppiato a ridere in faccia.
“Ehm...Elizabeth.” Dissi con le guance rosse come pomodori.
“Ho capito. Allora hai mai preso lezioni di piano?”
“Ehm, no.”
“Okay, allora possiamo cominciare subito.”
Lo portai nel salone dove ad un angolo della stanza giaceva il grande pianoforte a coda che mio padre aveva regalato a mia madre un natale di nove anni fa. Quando tutto era bello. Quando eravamo una vera famiglia.
Mise la sedia a rotelle a lato della panca che era davanti al pianoforte.
“Vuoi una mano? Posso prenderti in braccio e metterti sulla panca.” Dissi un’altra volta senza fermarmi a pensare neanche un secondo.
“No tranquilla, non serve.” Mi sorrise lui sempre dolcemente.
Fece forza sulle braccia e si spostò da solo sulla panca.
Rimasi ferma davanti a lui a bocca aperta.
“Tranquillo, mi prenderei a schiaffi da sola se solo le dita non mi servissero per suonare.” Dissi sussurrando mentre mi avvicinavo a testa bassa alla panca.
Nick scoppiò a ridere e mi sentii un po’ meglio.
“Con cosa cominciamo? Mad World? O preferisci The scientist?”
“Ehi, non correre. Devo prima insegnarti le note.” Ridacchiò lui.
“Ma quale sarà la prima canzone che mi insegnerai?”
“Vuoi proprio saperlo?” mi chiese facendo spuntare una leggera fossetta all’angolo delle labbra.
“Si!” esclamai entusiasta.
“D’accordo, è questa.” disse.
“Un, due e tre.”
Cominciò a suonare delle note staccate.
“Do sol la si, do sol la si.” Continuava a scandire lentamente ad ogni tasto che sfiorava.
Lo guardai impaziente, alzai le braccia dalle gambe e con le dita sfiorai i tasti del piano, provando a imitare quello che stava facendo Nick, solo più velocemente, per capire cosa ne sarebbe venuto fuori.
E infatti venne fuori un motivetto molto semplice che sembrava…no, quello era la marcia di topolino.
“Ma questi non sono i Coldplay, questo è Topolino!” protestai.
Lui si fermò e mi guardò con i profondi occhi a mandorla e dopo un paio di secondi sorrise enigmatico.
“E’ così che si comincia, Lizzie.” disse non staccando le dita dai tasti bianchi.
 
 
“Un, due, tre..”

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Brothers. ***


 

Elizabeth


“Come è andata?”
“Bene, molto bene, considerando il fatto che è stata solo la prima lezione.” Disse Nick alzandosi dalla panca e rimettendosi sulla sedia a rotelle.
“Già.”
Ci guardammo per pochi secondi con un espressione imbarazzata.
Aprii la bocca cercando qualche scusa per continuare la conversazione, ma il campanello suonò.
“Deve essere mio fratello.”
“Allora ci vediamo domani.. Lizzie.” disse mentre si allontanava verso la porta di casa.
“D’accordo. Alla solita ora?” dissi. Neanche fossimo amici di vecchia data, forse andava meglio quando stavo in silenzio.
Lui inarcò le labbra in un sorriso e mi fece un cenno di assenso con la testa.
 

Joe

Le strade erano deserte. Era una delle cose che mi piacevano di più del vivere in una piccola città. La calma regnava e guidavo con una insolita sensazione di serenità.
Se non fosse stato per una canzone alla radio.
Non potei fare a meno di alzare il volume.
Era una sensazione strana, perché non ascoltavo quella canzone da due anni. Ma ricordavo ogni nota a memoria e cominciai a canticchiarla sottovoce.

I would say I'm sorry
If I thought that it would change your mind
But I know that this time
I have said too much
Been too unkind

Più la canzone andava avanti più i ricordi si affollavano nella mia mente. Tanti momenti particolari erano stati accompagnati da quella canzone. Soprattutto uno. Fu la mia ultima sera con lui.
 
“Tornò dalle ripetizioni di chimica. Rientrò a casa e cominciò a disseminare distrattamente il cappotto, la sciarpa, lo zaino e i guanti sul pavimento, mentre sua madre lo rimproverava disperata. Salì le scale, era stanco, annoiato ma appena entrò nella stanza e sentì “Boys don’t cry” dei the Cure... la situazione non migliorò.
“Kevin, ascolterai questa dannata canzone tutti i giorni per il resto della tua vita?” gli disse Joe gettandosi sul letto a pancia in su, stanco, poiché quello era l’unico brano che si ascoltava da settimane in camera sua.
Kevin non rispose. Anche lui era sdraiato sul letto a pancia in su, e fissava il soffitto, quasi non stesse ascoltando ne suo fratello, ne la canzone.
“Kevin?
Kevin!” lo richiamò bruscamente l’impaziente Joe.
“Eh? Quando sei arrivato tu?” disse mostrandogli finalmente un po’ di attenzione.
“Ma buongiorno!” scherzò il mezzano “Sono qui da mezz’ora e già ne ho le tasche piene di questa canzone.” Sbottò.
“Ah, puoi levarla. Non la stavo ascoltando, veramente.” Rispose Kevin distrattamente.
Joe lo guardò sbigottito e dopo un po’ si dimenticò anche di fermare l’album che intanto si ripeteva ancora e ancora.
“Mi spieghi che hai?” gli disse sedendosi sul suo letto e comprimendogli leggermente il petto.
Kevin si alzò e porse un biglietto al fratello.
55527304” lesse Joe.
“Un numero di telefono? E di chi?”
“Voltalo.”
Joseph girò quell’esile fogliettino su cui c’era scritto il nome"Dani" a caratteri tondeggianti e persino uno sfizioso cuoricino sulla i.
“Uhuh! Quindi è una ragazza. Non ci credo, il mio fratellone ci sa fare con le ragazze.” Scherzò lui.
“Idiota.” Sbuffò Kevin.
“Ero in una tavola calda. Era la terza volta che andavo lì questa settimana e forse mi aveva notato. Lei lavora lì, fa la cameriera. Neanche so come ho fatto a salutarla. L’ho vista e lei mi ha sorriso e quando mi ha sorriso, non lo so, c’è stato qualcosa che ha spinto dal profondo dello stomaco e poi è salita sempre di più e..”
“Kevin, non si fanno queste cose davanti alle ragazze.” Continuò a schernirlo Joe.
“E’ inutile parlare con te. Non sei mai serio.” Kevin gli voltò le spalle e si sedette su una poltrona dall’altro lato della stanza. Anche per la sua famosa pazienza, il comportamento infantile di Joe era troppo quella sera.
“D’accordo, sono serio, continua, ti prego.” Disse Joe ritornando dal fratello.
Kevin lo guardò, sospirò e accennò un sorriso.
“Ero lì a guardarla, mentre mi sorrideva, e io all’improvviso le ho detto “Ciao!” ho quasi urlato. Anche se lei era dall’altro lato della stanza e stava prendendo le ordinazioni ad un altro tavolo. Ha ridacchiato, Dio, è bellissima. E poi dopo dieci interminabili minuti, è passata dal mio tavolo sfiorandomi e ha fatto scivolare questo biglietto. Dani, sarà il diminutivo di Danielle.”
“E quando la chiami?”
“E’ questo il problema. Non so quando chiamarla. Ho paura di essere invadente e se mi dicesse di no? Lei è bellissima ed io.. io..
“Chiamala domani pomeriggio.” Joe lo fermò subito prima che Kevin si buttasse troppo giù. “E se poi dice proprio di no, conosco un’altra tavola calda con delle cameriere assolutamente da sballo.” Questo era il modo di dimostrare amore di Joe, non era il più adatto, ma Kevin scoppiò comunque a ridere apprezzando il tentativo.
“Ragazzi, non siete ancora pronti?” Nick si affacciò nella stanza.
“Pronti per cosa?” chiese Joe.
“Siamo a cena dai Sandler stasera, i colleghi di papà.”
“Ah, evviva.” Disse Joe con tono annoiato.
“Ancora questa canzone? Mi sembra di ascoltarla da tutta la vita.” Disse Nick e attraversò la stanza verso lo stereo.
“No, fermo! Non la levare.” Urlò Kevin.
“Ed eccolo, è tornato tra noi.” Ridacchiò Joseph.
“Guardate che è una canzone bellissima.” Disse il maggiore e cominciò a cantarla a squarciagola ballando al centro della stanza.
I due fratelli, conoscendo ormai le parole a memoria, si unirono a lui e cominciarono a ridere tanto forte da non reggersi in piedi.”

I try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try and laugh about it
Hiding the tears in my eyes
Because boys don't cry
Boys don't cry
Ormai la stavo cantando a squarciagola.
Arrivai all’indirizzo al quale Nick mi aveva detto di venirlo a prenderlo. E riconobbi subito casa di Elizabeth.
Andai in un improvviso panico e rimasi un quarto d’ora sulla veranda senza suonare il campanello.
“Non posso andarmene, come fa poi Nick a tornarsene a casa? Lasciarlo solo per sistemarmi i capelli, andiamo Joe, che diavolo fai?” pensai tra me e me.
Alla fine suonai il campanello.
Sentii la voce di Nick ma non quella di Elizabeth. Pensai di aver sbagliato casa, di essermi confuso, ma quando ad aprirmi la porta fu la figura di una ragazza dagli occhi verdi e i capelli castani, il cuore saltò un battito.
“Joe?” disse lei.
Non riuscivo a parlare. Sentivo la lingua paralizzata, come se qualcuno mi avesse tagliato le corde vocali.
“Quindi vi conoscete.” Disse Nick temporeggiando a mio favore “Lui è Joe. Mio fratello.”
“Fratelli?” Elizabeth sembrava più sorpresa di avermi rivisto che del fatto di aver conosciuto casualmente due fratelli lo stesso giorno. Si sciolse subito in un bellissimo sorriso.
“Si, Nick è mio fratello minore.” Risposi riprendendo l’uso della parola improvvisamente.
“Fantastico, allora chissà dove conoscerò il terzo.”
“Il terzo?” ripetè Nick con uno sguardo allarmato.
“Si, Joe mi ha detto di avere due fratelli” quelle frasi mi fecero gelare il sangue. Nick e Lizzie si girarono a guardarmi e il mio volto si fece scuro. Non potevo dirglielo.
“Già, beh, Kevin non vive qui.” Disse Nick sorridendole e salvandomi ancora una volta.
 
Dopo un po’ di convenevoli e qualche minuto da solo con Elizabeth per metterci d’accordo su quando vederci la prossima volta, io e Nick tornammo a casa.
“Joe.” Mi chiamò lui, mentre eravamo in macchina. Non risposi.
“Joe, mi ascolti?” disse ancora, quando entrammo in casa.
Mi voltai verso di lui e lo guardai.
“Perché le hai detto così?” disse Nick guardandomi fisso negli occhi.
“Non lo so, io… l’ho dimenticato.” Dissi distaccato, vuoto come se in quelle parole ci fosse una tristezza troppo grande da poter essere espressa.
Nick mi si avvicinò e mi strinse forte.
Lui mi mancava da impazzire. Mi mancava mio fratello.
 
I would break down at your feet
And beg forgiveness
Plead with you
But I know that it's too late
And now there's nothing I can do.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1822854