To the Fairest

di Teodosia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Part I ***
Capitolo 3: *** Part II ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Per questo particolare capitolo della nostra operetta, è assolutamente necessario fare delle premesse e dei ringraziamenti. In primo luogo, ovviamente, il fatto che tutti (o quasi, Achille sei sempre nei nostri cuori!) i personaggi della guerra di Troia siano interpretati da attori heroessiani non è casuale. Tutto è cominciato con Ali Larter, fino ad arrivare al vecchio Milo, dio lo benedica. Io, Zoe, vorrei personalmente chiedere scusa a Milo per avergli fatto interpretare un ruolo così ingrato, e assicurargli che in ogni caso lo farebbe meglio del vecchio Bloom. In secondo luogo per questo racconto ci siamo servite di non una ma ben due beta, di meriti diversi ma ugualmente apprezzati, che ci hanno aiutato con la correzione, in modo da cercare di non incorrere più nei soliti errori stupidi, ovvero Ariel (<333) e IceWarrior, senza le quali avremmo oltretutto pubblicato molto più tardivamente. Un grazie speciale ad Ariel che col suo entusiasmo ha liberato tante tante endorfine nei nostri cervellini.
Da quassù è tutto, tanti Baci,
Le autrici

PS: Il Cast dell'intera storia potete trovarlo qui


Prologo


You are my god, you are my dog,
You kept me close, love never lost,
I called you hippie, you said fuck off,
Said you brothers a real punk rocker.

Round and round inside your head,
Smartest fucker i ever met,
Vicious fish bit at your toes,
Made you lie and numb your soul.

Water flowing and i will drink it,
I will drink for you.
A part of me left that only you knew,
Will never be understood, will never be understood.

Like no other, i love you you're my brother.
Like no other, i love you you're my brother.
Transcending-Red Hot Chili Peppers





Una volta entrata in quel suo tailleur sobrio e firmato che le dava almeno un paio d’anni in più di quanti non ne avesse, si fermò a pensare a quanto fosse cambiata la sua vita.
Un sabato sera incontri un aspirante attore sulla Sunset Boulevard e ti meravigli di come un uomo possa davvero essere tanto brillante, divertente e carismatico. E, in poco più di dieci anni, ti ritrovi in uno stato diverso, con un marito politico e un tailleur. E un bambino. C’era qualcosa di doloroso nel dover indossare la maschera del giovedì. Il ruolo di Elena non consisteva in niente che nessuna donna bianca e vagamente attraente potesse fare senza alcuno sforzo. Era tormentata dal pensiero che chiunque potesse trovarsi al suo posto. Davvero. Aveva sentimenti e dolori stagnanti per i quali neanche cercava una soluzione. In verità, prima delle pressioni del fratello autoritario, era stato questo sentimento ad allontanarla dal marito che amava. Agamennone aveva sostenuto sempre che una moglie bianca e bellissima a fianco del segretario del partito avrebbe sottolineato il loro atteggiamento politico. Elena sedeva accanto a Menelao con sul volto un’espressione seria ma non deprimente, serena ma non sciocca. Aveva lavorato su quell’espressione per notti. La e ne andava fiera. E odiava suo cognato.
Era una di quella mattinate invernali in cui il sonno e la noia non permettono di pensare ad altro che a sé stessi, ed Elena si chiedeva se fosse felice.
La macchina nera accostò e, con un sorriso rassicurante, Menelao le allungò una mano per aiutarla a scendere dalla macchina.
Andiamo, rilassati. Andrà tutto bene; entro tre ore saremo di nuovo a casa. Andrò tutto bene.
D’accordo, Men. Era triste non riuscire più ad amarlo.
Le telecamere, i microfoni ed il make-up le ricordavano la sua adolescenza piena di sogni e tappeti rossi. Strinse forte la mano di Menelao, quando si sedettero una fila dietro Agamennone, in uno di quei ridicoli seggi di legno. Pareva si trovassero nell’aula di un tribunale, anziché in un programma tv. Alle spalle di suo marito, Achille Braddock si avvicinò con quel suo fare irruente e rise forte, dopo una battuta grossolana sul modo in cui avrebbero vinto anche questa volta. Era un uomo sicuro di sé: un attore. Elena pensava fosse stupido, per un attore, entrare in politica. Era un uomo piuttosto insignificante.
Avrebbe voluto non fare caso all’ingresso della parte avversaria. Ettore Andolini arrivava in ritardo con quella sua mascella felice. Lo accompagnava il suo bellissimo fratello in ombra, Paride, lo sguardo illuminato da una luce annoiata . Elena non avrebbe voluto ma quell’uomo era così bello. Aveva un aspetto ordinato, sereno. Agamennone non avrebbe mai sconfitto Ettore. Braddock aveva torto. Odorava di sicurezza e di vittoria. Chiunque avesse votato suo cognato, al posto di quell’italiano, sarebbe stato uno sciocco.
Gli occhi castano-verdi di quell’uomo sembravano aver visto da vicino la Vittoria. Quello era un andrà tutto bene.
Arrossì e abbassò lo sguardo, una volta sicura che il candidato l’ebbe notata. Eccolo. Il braccio destro: un angelo dai tratti delicati che fissava il pavimento, mentre il fratello stringeva la mano paffuta del presentatore. Aveva negli occhi neri la noia e la disillusione di chi agisce solamente per amore e devozione. Sembrava più giovane di lei, ma, probabilmente, non lo era. Rimase assorta finché i loro sguardi s’incrociarono. Aveva sempre ammirato da lontano quei due, dicendosi che sarebbe stato bello sostenerli, se si fosse trovata in un’altra situazione. Probabilmente, in un'altra situazione, si era detta, non si sarebbe curata tanto di personaggi politici. Paride abbassò lo sguardo e arrossì.
Silenzio.
“Dieci secondi alla diretta. Nove. Otto. Sette”.
Non si era accorta di niente? Le luci soffocanti imperlavano la fronte scura di suo cognato di goccioline odorose che rimanevano intrappolate nello strato di fondotinta.
Quelle stesse luci sembravano frenare ogni suo pensiero.
“Quattro. Tre”.
Strinse la mano di Menelao, sulla sua coscia.
“Due. Uno. Azione”.




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Capitolo 2
*** Part I ***


1




Marry me girl be my fairy to the world
Be my very own constellation
A teenage bride with a baby inside
Getting high on information
Californication – Red Hot Chili Peppers






Un sorso. Il liquido denso e caldo scende lento e ristagna nello stomaco.
Non aveva mai amato quel genere di avvenimenti, pensò sbuffando.
Artemide posò il bicchiere verde, ancora pieno a metà, e fissò il fratello con un certo astio.
“Andiamo” disse lui, le guance arrossate e la voce abbassata di una tonalità dal liquore “È impossibile che tu abbia sempre da lamentarti” le sorrise, e lei rispose stringendosi nelle spalle sottili.
Accanto ad Apollo, Dioniso faceva il buffone bevendo vino a grandi sorsi. Lo trovava buffo. In genere, non amava questi sciocchi teatrali. Ma era Dioniso, ed era il primo degli sciocchi teatrali.
Non era certo una sua abitudine partecipare ai pranzi di famiglia. Per lo più, si risparmiava certe occasioni. Ma Apollo, che, più per educazione che per spirito di partecipazione, prendeva parte alla maggior parte di queste festicciole, aveva insistito che l’accompagnasse a quello stupido matrimonio.
Atena cercava comprensione in lei con sguardi infelici che non trovavano alcuna risposta. Al contrario, Afrodite spesso le si rivolgeva con aria stizzita.
Momento irritante.
Detestava la loro leggerezza e disprezzava il loro amore per il divertimento facile: era la cosa meno matrimoniale che avesse mai visto.
“Via, via, tesoro. Bevici su” disse quell’esile sciocco in blue jeans.
Sorrise, una volta che Dioniso, alzatosi in piedi, aveva ordinato con un cenno di riempire ancora una volta i bicchieri di ognuno, barcollando come se avesse bevuto quattro volte quanto aveva fatto.
Momento inutile.
In una carrellata, notò di sfuggita Ares ed Afrodite esibirsi lascivi sullo stesso divanetto, Poseidone e Demetra scambiarsi battute da commedia brillante, Atena fissare il tutto con una sorta di contenuto disprezzo, ed infine Zeus indossare una maschera serena , così lontana dalla sua consueta giovialità volgarotta, da tradirsi.
Artemide trovò teneri i vecchi tumulti amorosi del suo infelice padre.
Teti le piaceva. Ovviamente, non quanto piaceva a suo padre. Era dignitosa, acuta e bellissima, e priva dell’arido distacco che caratterizzava quelle della famiglia.
Aveva incontrato il ragazzo, Peleo:sembrava facile e sciocco, ma simpatico.
Non riusciva a smettere di pensare a quanto fosse dolce quella storia di vecchi. Povero papà.
Momento malinconico.
Fu improvviso, ma non inaspettato. Si guardava intorno alla ricerca di una vecchia amica. Nessuna traccia della sua pelle d’ambra, dei suoi grandi occhi e dei capelli folti neri. Dell’abito tradizionalmente nero.
“Sì, acciuga” le disse uno zoppicante Dioniso “Chi inviterebbe la Discordia ad una festa di matrimonio?” si accasciò accanto ad Apollo, sghignazzando come un ragazzino il giorno del suo compleanno, solo senza serenità. Dioniso aveva una vena deprimente. Le prese la mano fissandola con quei suoi occhi decisi.
Da lontano, Afrodite si sentiva offesa da quella promiscuità. Le due divinità votate alla perdizione, incrociarono i loro sguardi in segno di sfida. La vittoria di Dioniso fu sancita da un lungo bacio del figlio di Latona, mentre Poseidone sussurrava qualcosa a Demetra, che rideva perfettamente sobria.
Momento tipico: benvenuti nel mio mondo.
Artemide sospirò, prendendo la decisione di registrare tutti gli avvenimenti di quella noiosa e tipica serata come un osservatore estraneo; ma quella roba aveva acuito i suoi sensi e non poteva a pensare a qualcosa che non fosse come il velluto del divanetto che le irritava la pelle lasciata nuda dalla t-shirt. E anche ad Eris.
Zeus aveva generato molti figli. Probabilmente, per il bene di tutti questi e di sé stesso, avrebbe fatto meglio a risparmiarsi Eris, l’unica fra tutti loro ad avere potere su Zeus: la metà dei loro promessi, i litigi, le scommesse, erano dovute e lei.
“Ehi…” mormorò sommessamente ad Ermes.
Non riusciva a credere di stare parlando. Quanto sembrava pasticciato il suono della sua voce.
“Sai qualcosa di...?”
“Certo, certo. Sapevo che mi avresti chiesto di lei. Sei senza cuore. Non sai che ho da sempre una cotta per te?” gesticolava.
Artemide suppose che stesse scherzando, ma non era dell’umore e dimenticò di ridere.
“Voglio solo sapere dov’è”.
Ermes sospirò.
“Lo sai che non è la figlia preferita di papà” sorrise “Capisco, e sono d’accordo. È improbabile che si riesca a non avere sue notizie stasera”.
Accarezzò i capelli a spazzola di lei e si allontanò verso Iris, che sedeva in disparte. Si aggrapparono l’un l’altro, come se fossero in quella stanza.
Intanto, Dioniso e Apollo si erano piazzati al centro del tavolo, tra pietanze e liquori. Apollo si sedette e incastonò il suo elegante strumento a corde tra la clavicola e il mento, mentre Dioniso intonava una canzone pop.
Bel momento.
Furono sostituiti qualche pezzo dopo da una sottospecie di auleta mediocre.
Ade era arrivato solo allora con la sua mogliettina adolescente stretta al petto. Demetra aveva quasi superato la cosa e si limitò ad ignorarli.
Persefone era stata una sua buona amica e continuava ad esserlo nei mesi estivi, ma era gennaio, per cui la salutò con la sua caratteristica enfasi, in modo un po’ troppo patetico.
Momento sgradevole.
Ade, col viso pallido ricoperto da una sparuta barbetta, baciò Zeus e gli sedette accanto. Non potersi avvicinare a Poseidone per via di Demetra doveva essere penoso, ma sembrò trovarsi a suo agio nel solitario malessere del fratello.
Era interessante seguire Era freneticamente occupata da una parte all’altra della tavola, avvolta nella sua coperta di abnegazione.
Artemide sbuffò. Per sopperire alla noia, pareva si fosse ritrovata, come al solito, a fare supposizioni forzate sugli stati d’animo dei suoi familiari.
Fu per un colpo di pura fortuna che, in quel momento, Ares lanciò un grido ruvido, lasciando cadere nel piatto un frutto dallo strano colore. Sembrava che fosse… Era lontano, ma… Sembrava proprio una mela.
Era rotolata proprio accanto al bicchiere di Era, in quel momento impegnata in un’accesa ed infervorata conversazione con Demetra. Sembravano parlare di argenteria. Che noia. Il luccichio attirò il suo sguardo e, dopo un momento di stupore, afferrò l’oggetto dorato. La esaminò per qualche secondo, e tutti sembrarono improvvisamente pendere dalle sue labbra. Tutti tranne Ermes. Dionisio fece un commento buffo che provocò qualche risatina. Artemide non gli aveva prestato attenzione.
Lo sguardo della madre degli dei si addolcì, e le sue guance si colorarono di una delicata sfumatura di rosso. Voltò gli occhi verso il marito.
“Alla più bella” sillabò “Tesoro, non so che dire…”. Zeus, dal canto suo, sembrava confuso non meno del resto della tavolata. Era sembrò notarlo, perché lo sguardo, prima dolce, tornò gelido. Siamo alle solite, pensò Artemide. Litigio in vista?
“Non sei stato tu? La mela non è per me?”
Zeus si limitò a scrollare le spalle, aprendo i palmi delle mani.
Era schioccò la lingua sul palato con fare seccato. Sembrava l’unica stupita dalla “negligenza” del marito. Suo padre era una persona decisamente romantica, e non era certo una persona parsimoniosa. Era solito ricoprire la gente di regali. Ma questi raramente venivano offerti spontaneamente. Il settanta per cento delle volte servivano a riparare ad un suo qualche torto. L’ottanta, dai. La verità è che l’unica che dava ancora peso agli sbagli di Zeus era proprio sua moglie. E, forse per questo, era l’unica che gradiva davvero ricevere suoi doni.
“E’ ovvio che non sia per te”. Risatina.
Oh, no. Afrodite aveva appena afferrato la mela e la stava osservando con un sorrisetto. Probabilmente, si stava anche specchiando nella sua superficie. Era la fissava furente, e Afrodite ricambiò lo il suo sguardo gelido con uno carico di sufficienza.
“Tu, ormai, sei vecchia” pronunciò la frase scadendo ogni sillaba.
Probabilmente, un brivido freddo percorse la schiena di buona parte dei presenti. Sicuramente, tutti avrebbero voluto trovarsi in un altro posto, in quel momento. Silenzio. Era non rispose, ma iniziò a tamburellare le dita in modo nevrotico. Zeus tossì. Dionisio si offrì di riempire nuovamente i boccali.

Occorreva qualcosa che sbloccasse la situazione.
“Non credi… Non credi di confondere la vera bellezza con la volgarità?”
La mela venne malamente strappata dalle mani di Afrodite ed ora saltellava su e giù nel palmo di Atena.
Artemide fissò incuriosita le due, cercando di nascondere un sorrisetto divertito. In fondo, non sembrava poi un matrimonio così noioso.
"Cosa vorresti dire tu, sottospecie di brutto mal di testa che-"
“Andiamo, non litigate, su…”.
I presenti quasi non si accorsero dei deboli tentativi da parte di Zeus di placare la discussione. A dire il vero, lui stesso riponeva ben poca fiducia nelle parole che gli uscivano di bocca, e ben presto si stufò e si limitò ad osservare la scena. Cercò con gli occhi Artemide, la trovò, si sorrisero, e tutto sembrava a posto. La Tragedia poteva continuare.
“E' chiaro che non sia per voi, io sono la padrona di casa, qui! Io sono la Contessa di…”.
“La Contessa della mia Cellulite, certo. Fosse arrivata cinquanta o sessanta anni fa, questa mela…”.
“Ah, Afrodite, vedo che riponi molta fiducia in te stessa… Stupida sciocca, non credere che la bellezza sia data dai tuoi fianchi larghi”.
“Quindi, la bellezza è forse data dalla maleducazione e dalla rozzezza?”
La mela, intanto, viaggiava di mano in mano.
Certo, erano tutte belle mani femminili, piccole ed aggraziate, dal colore uniforme e dalle unghie ben curate.
Ora Artemide non si curava più di nascondere i suoi sorrisi. Certo, doveva riconoscere che ogni parola che usciva da quelle spendide boccucce era una verità, e gli sforzi con i quali le tre Belle cercavano di negarle la facevano innegabilmente ridere.
Non tutti i parenti, però, trovavano la comica scena. Poseidone e Demetra, dal loro angolo di saggezza fissavano la scena con i bicchieri a mezz’aria.
Ade aveva gli occhi lucidi e sembrava che la cosa lo interessasse, mentre la moglie fissava il pavimento.
Dioniso era incerto sul da fare. Certo, avrebbe voluto attizzare ancora di più – come se fosse necessario – le tre dee, ma, d’altra parte, gli occhi delle tre gli incutevano un terrore reverenziale. Lanciò un'occhiata ad Efesto (c'era anche lui, no?), che gli rispose in un modo che sembrava volesse dire “Cosa ci vuoi fare, ci sono abituato”.
Apollo guardava Artemide che ridacchiava.
Nella sala viaggiavano occhi e sguardi dappertutto, e, al centro, la mela continuava a girare.
”Io credo che sia di… di…” Ares impallidì alla vista delle espressioni di Atena ed Era. Ma in fondo era pur sempre un grande uomo vigoroso. E quella volta dovette davvero ricordarselo per bene.
“… di Afrodite”.
“Tu! Tu, FIGLIO figlio ingrato” !
“Non insultare i nostri figli, Era”!
“E tu” riprese Zeus, lanciando ad Ares occhiate piene di significato “che autorità avresti, tu, per arrogarti il diritto di prendere una decisione simile senza essere interpellato?”
Era divertente il suo tentativo di comunicare delusione a quel barbaro, sciocco Ares.
Artemide rise di gusto, mentre allungava chicchi d’uva al fratello come fossero pop corn.
Corsero dalla parte opposta della sala e, trovandosi nelle loro vicinanze, riuscirono a sentirlo sussurrare, una volta afferrato il braccio di Ares.
“Non posso credere che tu abbia preferito la tua donna a tua madre, razza d’asino”.
“Sono indignata dal modo in cui io non sia neanche presa in considerazione” diceva intanto Atena, alzatasi con quel suo tono ampolloso.
La sorella fece lo stesso .
“Ci sarà un motivo” rispose acida.
Sarcasmo da terza elementare.
Quando anche Era, senza motivo, si alzò e recriminò qualche motivo per cui doveva sentirsi offesa, la cosa degenerò. Fu il caos.
Dioniso si teneva la pancia dal ridere.
“Ora basta” silenzio assoluto, istantaneo.
Il tono di Zeus era imperativo. Quel suo pessimo umore aveva donato alla sua voce un’autorevolezza pregevole e inconsueta. Si stropicciò la fronte ed il viso in modo drammatico.
Un altro giorno, si disse Artemide, lo avrebbe trovato divertente. Avrebbe speculato o scommesso.
“Toccante” aveva commentato Apollo, che provava istintiva empatia per i sentimenti sinceri.
“Patetico” aveva risposto sua sorella.
Con uno strano mugolio, Dioniso brindò al suo cinismo da due soldi.
“Mie splendide signore” arringava Zeus “Donne. Mogli, madri, figlie, sorelle. Mi sembra ovvio che questa decisione fondamentale” e qui Artemide apprezzò il non troppo velato sarcasmo “non potrebbe mai esser presa civilmente da voi” pausa “né da uno dei presenti. Tanto meno, dal sottoscritto, che non si lascerebbe abbindolare così facilmente dalle vostre grinfie di streghe” si sedette, sempre più drammatico “Dio solo sa cosa potreste inventarvi”.
Si sollevarono sospiri di entusiasmo, di noia e persino qualcuno di stupore.
“Sissignori” riprese Zeus “Questa è una scommessa a tutti gli effetti. E, senza dubbio, abbiamo bisogno di un giudice, che sia estraneo e imparziale”.
Bisbiglii. Caos silenzioso. Le tre donne divine si sedettero, offese senza ragione.
“Un mortale?” disse qualcuno.
“In che modo? Estrazione? Mappamondo?” risposero alcuni eccitati.
Inutilmente, le proposte caddero sulla testa di Zeus come una spada di Damocle.
Sarebbe senza dubbio esploso se da un angolo della sala non si fosse udita improvvisamente una risata cristallina, disinteressata. Silenzio.
Nel suo cantuccio tranquillo, Ermes aveva riso. Avvinghiata a lui, la sua pudica compagna arrossiva e sorrideva virginale.
Sulla moquette verde sedevano le natiche morbide di un bambino straordinariamente bello, tutto intento a guardare la tv.
“Che vi prende?” Oh, Ermes odiava trovarsi in mezzo “Ho solo… Ho solo chiesto al bambino perché se ne stesse a guardare il telegiornale alla sua età. E, tra l’altro, non sarebbe conveniente riferirvi la sua risposta, ma…”.
Zeus si avvicinò al televisore col fare di un artista invasato, l’occhio fisso, la concentrazione focalizzata su un unico punto. Prese il bambino in braccio e lo baciò, fissando incantato lo schermo.
Un uomo attraente e carismatico parlava in primo piano con un sorriso sicuro stampato in faccia. Manteneva un aplomb invidiabile davanti ai quindici microfoni e si esibiva elegantemente in qualche battuta brillante. Era tutto il contrario di insignificante.
“Lui?” aveva chiesto Iris.
Zeus rise.
“Certo. Certamente. Dimmi, Eros, qual è la prima regola?”
“Mmm. Poco in vista?” rispose incerto.
“Bravo, piccolino. La seconda?”
“Niente matti?”
“No. Niente politici”.
Sbigottimento. Tutti parevano trarre divertimento da questa pantomima involontaria. Zeus aveva grande passione per i mortali e s’innamorava di loro al primo sguardo. Sfortunatamente, ciò si traduceva in un questo genere di sceneggiate. Inoltre, quelli come Loro avevano la presuntuosa sensazione che interrompere le vite delle loro vittime per intrecciarle con le loro non fosse altro che un onore. A chi farò questo magnifico regalo?
Artemide era pronta ad andarsene.
“Lo vedi?” premette l’indice sulla tv contro il viso di un bel ragazzo con un ciuffo ridicolo ed un’espressione timida. Eros annuì, esaltato.
Artemide si era alzata. Apollo aveva afferrato la sua mano, mentre dolcemente si allontanava. Dioniso aveva sventolato la sua in segno di saluto, serenamente.
Si era diretta fuori della sala, verso la sua stanza o un bosco o un posto qualsiasi che non avesse lo stesso odore di quella gente. O forse no.
Dall’ombra buia di un corridoio, sghignazzante, era comparsa una Venere di caramello dai disordinati capelli neri.
“E’ andata bene. Proprio bene” le aveva detto.
Poi l’aveva baciata. Lei rise.
“Non c’erano dubbi. Dio, se non gli piacesse. Un bene. Una noia”.
Artemide le aveva sempre parlato in modo telegrafico e incomprensibile. Era il loro modo di comunicare “Una noia mortale”.
“Oh. Non lo faccio mica per starli a guardare” aveva risposto l’altra, cantilenando.
“Si. Bene”.
Zeus, ancora rapito, seguiva le mosse maldestre di quel poverino, mentre alcuni si documentavano per lui.
“Perfetto” mormorò più volte tra sé.

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Capitolo 3
*** Part II ***


2




To see the show tonight
And theres a light on
Heavy glow
By the way I tried to say
Id be there... waiting for
By the Way – Red Hot Chili Peppers






Era stato Ermes ad occuparsi della transizione: era sempre stato lui ad occuparsene e, più in generale, era colui che curava i rapporti “burocratici” con gli esseri umani). Dicevano che lui era quello che meglio sapeva farci con gli esseri umani perché era la divinità che maggiormente assomigliava loro. Non era motivo di vergogna, per lui. Figurarsi. Ma, con tutta probabilità, se l’avessero paragonato a quell’uomo, in quel momento, se ne sarebbe un pelo risentito. Il bel ragazzo che aveva visto in televisione, in quel momento, era uno straccio. Ermes aveva sicuramente visto persone reagire meglio al processo di transizione. Paride Andolini era svenuto, quando, dal letto dell’albergo in cui si trovava, si era ritrovato, con ancora indosso il costoso pigiama di raso, su un immenso prato verde. Il dio l’aveva sistemato alla bell’e meglio sotto un platano, e ora attendeva placidamente il suo risveglio. Era, Atena ed Afrodite, invece, leggermente spazientite, erano rispettivamente andate a: rifarsi il trucco, lavarsi le mani, fumare una sigaretta. Ermes scosse la testa, mentre Paride russava. Ora stava semplicemente dormendo: era ora di svegliarlo.
“Ehi”, mormorò al suo orecchio, scostando un ciuffo ribelle. Paride mugugnò, si stiracchiò e strizzò gli occhi; dopodichè, li aprì di scatto.
“Dove…?”
“Monte Ida, Creta”.
“Chi…?”
“Ermes, piacere!”
“Come…?”
“Transizione”.
“…Eh?”
“Meglio se ti metti comodo”.
Paride, all’improvviso, era completamente sveglio, e, stupito, osservava quel che lo circondava. L’erba era ancora impregnata della rugiada mattutina, e sporadici raggi solari illuminavano i loro volti.
“Sono stato rapito?” chiese perplesso.
“In un certo senso… Ma è un rapimento provvisorio, e non ci sarà bisogno di riscatto. Quindi tranquillizzati” Ermes cercò di essere rassicurante, o, quantomeno, accomodante “In realtà, sei qui perché devi aiutarmi. Me e la mia famiglia, capisci?”.
Paride squadrava il dio, dubbioso.
“No, non capisci. Purtroppo ci aspettano queste signore alquanto irritabili, quindi ora non ho il tempo di spiegarti nel dettaglio. Ti basti sapere che sono un dio, che stai per vedere tre dee e che in questo momento hai ricevuto le risposte che gli uomini cercano da… beh, da sempre, immagino. Come ci si sente?”
Paride attese qualche secondo, gli enormi occhi scuri spalancati, metabolizzando le informazioni. “Confuso?”
Ermes sorrise.
“C’è chi risponde satollo”.
“Mi hai detto che devo aiutare la tua famiglia. Intendi dire che devo aiutare voi dei? E come?”
“Tu farai da giudice. Si dà il caso che l’altro giorno ci sia stata una festa, su da noi. Un matrimonio.
Ovviamente, noi festeggiamo come tutti voi, e c’è chi rimane fuori, no? E’ normale avere delle dimenticanze: siamo un sacco di gente. Politeismo, hai presente?” Ermes ridacchiava, ma Paride ebbe l’impressione che stesse tentando di giustificarsi “Comunque” proseguì “c’è sempre qualcuno o qualcosa che movimenta la giornata. Un giorno è un litigio e l’altro giorno, un altro litigio. Viviamo da sempre e vivremo per sempre: immagino tu comprenda come potrebbe rivelarsi quasi noioso. Chi provvede ad animare la nostra vita divina, è quasi sempre questa dea: la dea che non è stata invitata. Immaginerai che non stia molto simpatica a noialtri”.
Paride non fece fatica a comprendere. Ogni famiglia, anche se non divina, possiede un parente simile. Nella famiglia Andolini, quel parente era proprio sua madre Ecuba. Sin dall’infanzia, ricordava che ogni festa degenerava in comizio. Nessuno si era stupito, quando suo fratello Ettore aveva manifestato interesse per la politica.
“Il punto è che questa dea ha causato l’ennesimo litigio, e ora le tre donne più seccanti che tu possa immaginare stanno litigando per decidere chi tra loro è la più bella”.
“Vuoi dirmi che voi dei vi occupate di questo genere di cose?”
Paride era sbigottito. C’era gente che moriva di fame, di malattia, che combatteva guerre da anni. Questa gente pregava un dio di ascoltarli, di aiutarli. C’erano messe e processioni ogni giorno. E gli dei si azzuffavano per…
“A volte capita, sì. Insomma, tu dovrai decidere per noi e porre fine a questa pagliacciata. Lo farai?”
Paride sospirò teatralmente. “Va bene, facciamolo.”

Si voltò verso destra: decine di paia di occhi puntati su di lui.
Non era un gran problema; ci era abituato.
Si voltò verso sinistra: la stessa cosa.
E non vi era la minima traccia di una possibile via di fuga.
“Allora?”
Paride fissò l'iroso uomo barbuto che aveva parlato; ne aveva visti molti, di uomini come lui. Passo deciso, grosse braccia pelose, sguardo iracondo ed un’innata mancanza di pazienza. Non era il genere d'uomo facile da contraddire.
“Devo pensarci…”.
Cercò un appiglio. Un neo. Una piccola imperfezione al lato della bocca. Qualche minuscola ruga che facesse capolino dalla fronte, capelli secchi e sfibrati, qualche chilo di troppo.
Ma nulla, nulla. Non trovava nulla che non andasse in quelle tre donne.
Qualcuno, al suo posto, avrebbe pianto dalla gioia: si trovava al cospetto delle tre più belle donne del mondo. E lui aveva voglia di piangere.
L'uomo barbuto e maledettamente muscoloso aveva cominciato a battere un piede per terra: una chiara prova d’impazienza.
Cercando di non farsi distrarre dal ritmo scandito dei sandali sul pavimento, ricominciò da capo.
Capelli, fronte, occhi…
“Basta. Non arriveremo mai da nessuna parte, così”.
La donna mora dai capelli ricci si avvicinò pericolosamente a Paride, prendendolo per il colletto.
“O ci dici subito chi è la più bella, o io…”
“Calma, calma! Lasciamolo decidere! Atena, mollalo, per favore”.
Nel momento in cui le mani della donna si allontanarono da lui, Paride benedisse il sant'uomo che aveva parlato.
“Ma dobbiamo comunque giungere ad un risultato. Allora?”
Sembrava il Patriarca e tutti lo ascoltavano e lo fissavano in modo reverenziale. Solo una delle tre donne della competizione, quella più matura, lo fissava con qualche occhiata stizzita.
Fu lei a velocizzare le cose.
“Forse, se ti proponessi tutto il potere della terra... Preferiresti essere a capo della tua TV o governare addirittura sul mondo intero? Perchè io lo posso fare. Pensa a tutti i privilegi…”.
Rapido flash di lui stesso attorniato da tutte le vallette che lavoravano quotidianamente accanto a lui.
“O forse, se ti proponessi tutta l'astuzia e l'intelligenza di questa terra... Nessuno potrebbe più scalfirti, saresti il migliore, per sempre”.
Rapito flash di lui stesso attorniato da tutte le vallette che lavoravano quotidianamente accanto a lui, e per sempre.
Atena ed Era si fissavano, iraconde. Tanto da non fare quasi caso ad Afrodite, che stava pericolosamente sussurrando qualcosa nell'orecchio di Paride.
“E se invece io ti proponessi qualcosa che va al di là della terra? L'amore e la moglie più bella dell'Universo. Per sempre, e ad una sola condizione."
Paride attraversò tutta una serie di sensazioni e fasi che lo stordirono: doveva essere ancora l'effetto della transizione. Doveva essere l’aver scoperto che coloro che avevano deciso della sua vita, altro non erano che meravigliose megere e litigiosi annoiati.
La donna più bella dell'universo. Coccolato da questo pensiero, Paride si sentì improvvisamente fortunato. Vitale. Felice. Ancora stava lasciandosi cullare al pensiero di stare abbracciato a quella donna, chiunque lei fosse, quando si rese conto di ciò che lo circondava: centinaia di sguardi divertiti e di voci soffuse che mormoravano qualcosa come “povero ragazzo”. E non si trattava solo d'individui insignificanti, e ce n'erano. Meravigliosi e insignificanti.
Il Patriarca sorrideva come aspettandosi che inciampasse. Quel bizzarro biondino che gli aveva fornito tante rapide spiegazioni ridacchiava allegro, accanto a un meraviglioso giovane dalle gote rosse.
Qualcuno sta cercando di fregarmi?, si disse.
In che modo quell'estasi galvanizzante si era trasformata in un intimo rifiuto?
Non voglio nulla. Va tutto bene così.
E ne era certo. Ne era perfettamente, chiaramente, oscenamente sicuro. Perchè proprio a me?
Eppure, si disse, come avrebbe potuto cavarsi d'impaccio?
Lo sguardo cadde sulla bella chioma riccia della più anziana delle tre dee. Paride la guardò un attimo negli occhi, mentre tamburellava sull'avambraccio, e se ne innamorò. Ma era terribile.
Per non parlare della moretta: aveva occhi talmente infiammati da non poterli fissare. Ad Atena importava più che alle altre due.
Dal canto suo, la libidinosa biondina poco vestita sembrava piuttosto sicura di sé, più preoccupata a fissarlo seducente che dall'esito vero e proprio della sfida.
Fu un colpo di genio, e per lui non erano una cosa comune: aveva avuto da sempre dei piccoli disturbi di concentrazione.
“Io…” balbettò “Io credo di aver bisogno di tempo. Un po' di tempo per… per pensare, ok? Qualche ora. Una notte”.
Il Patriarca, che sedeva su un masso e sorrideva ad una creatura a metà tra un'adolescente e una pianta sempreverde, sbuffò e si alzò in piedi.
“Tempo: accidenti!” sospirò; Paride aveva fatto una scelta impopolare “Gradirei avere l'attenzione di tutti” arringò, annoiato “Data la spinosa questione, il nostro caro amico mortale, forte dell'assoluta necessità che abbiamo di lui” pausa “Chiede di poter ponderare una notte intera su quale sia la più giusta risposta. Uhm… Avrà la sua notte. Ed avrà anche una bella stanza nel nostro caro palazzo” Lunga pausa. Semidivinità e strane creature gioirono all'idea di avere un mortale tra di loro. Paride se ne stupì.
“Ma” tuonò la bocca che tutti credevano zittita. Ma? “Ma. Il ragazzo sarà tenuto nell'ala ovest del palazzo. Chiunque di voi, qualunque forma assuma, che tenti di avvicinarsi alla suddetta camera, incorrerà in una settimana intera tra i mortali, obbligato ai lavori forzati. Intesi?”

Dieci minuti dopo. Mezz'ora dopo. Venti minuti: il tempo non era calcolabile.
Qualche tempo dopo, Paride si ritrovò di nuovo solo col biondino. Pareva essere l'unico con la possibilità di fargli visita. Ad ogni modo, il suo compito consisteva nel trasportarlo in sicurezza fino alla sua stanza.
Ermes non era attratto da questo mortale: era sentimentale ed aveva una vita noiosa. Perlomeno, sembrava una brava persona, abbastanza sciocca da lasciarsi giocare.
“Ho fatto un bel casino” disse Paride.
Ermes si voltò verso di lui e sorrise dolcemente. Il loro cammino era illuminato soltanto dalla candela che il dio teneva in mano. Paride ebbe la netta sensazione che non ci fosse niente intorno a loro. Era solo una sciocca trovata scenica.
“Nessun casino, rilassati” rispose “Proprio no. Hai complicato la cosa, ed è ciò che loro vogliono”.
“Non credo tu sappia molto di show business e televisione. Ho solo allungato il brodo”.
"Show business?” Ermes ridacchiò “Che ne sa un mezzo politico dello show business?”
“Laureato in scienza delle comunicazioni”.
Risate.
“Vedi, tesoro. Che tenero. Vedi: è il più pessimo e vomitevole dei pubblici. È l'ultima frontiera degli spettatori. Amano il sangue, ma non quello rosso”.
Paride non capiva; Ermes proseguì.
“Vedi, adesso quelle tre cercheranno di corromperti. Lo faranno, certamente: verranno in camera tua, credo, e ripeteranno le loro offerte, perchè vincere queste sciocchezze è l'unico divertimento delle loro vite”.
“Ma è stato loro proib…”.
“Ah-ah. Figurati: papà ha solo dato loro un paio d'indicazioni con quell'arringa altisonante. Ha fornito loro le coordinate della tua stanza e le ha motivate con una penitenza noiosa”.
Paride si sentiva un po' scosso: il suo mondo derivava da uno privo di regole?

La porta si era aperta da sola, al loro arrivo. Ermes aveva appoggiato la candela, che era scomparsa, e la stanza si era illuminata. Moquette verde, un grande e comodo letto a baldacchino rosso cremisi, ed una grande tv. Buona notte, Paride.
Ermes fece un cenno con la mano, andandosene; sembrava davvero un tipo a posto.
“Ah. Se tu volessi sapere la mia” pausa "Io sceglierei il denaro: col denaro potresti comprarti il sesso, e anche il potere”.
Paride sorrise.
“Che valore ha il sesso a pagamento? E il potere comprato è poco durevole. Non è così semplice”.
Ermes si strinse nelle spalle, mentre se ne andava, avvolgendo ancora una volta la sciarpa intorno al collo sottile.
Paride sospirò, sedendosi sul morbido letto. Dormire con la consapevolezza di doversi aspettare di essere svegliati non è mai un'esperienza piacevole. In base a questa regola, Paride, si era infilato in boxer nel letto, nella speranza che Ermes si sbagliasse, ma con un certo bruciore in fondo allo stomaco. Dormì scomodamente qualche ora, quando…
Luce. Fu svegliato da una gran luce. E caos. Applausi. Macchine fotografiche.
Un tappeto rosso steso nel niente conduceva ad una Limo bianca. La portiera si aprì e ne uscì la prima delle tre dee.
Era se ne stava lì, sontuosa e meravigliosa. I capelli stavano su con grazia vintage; indossava un piccolo elegante, aderente, delizioso tubino nero e bianco, un cappellino ornato da una sola piuma di fagiano ed un coprispalle di ermellino. Sontuosa.
Gli infilò un cubano in bocca e l'accese con un centone.
“Non è romantico, lo so, caro mio; ma questo è ciò che vale da dove vieni tu. Questo” sventolò il centone che andava fuoco.
Paride era incerto: era il dono che gli faceva meno gola.
Era perse la sua aria fatale.
“Credi che tutto questo sia troppo rococò? Troppo sfarzoso? Non ho avuto molto tempo per pensarci, sai… Ma è il mio dono. E la mia bellezza: pensaci, tesoro. Davvero, pensaci: ti prego. A quelli non importa più nulla di me. Anche se non sembra, sono vecchia, sai? E loro lo sanno. Oh, se lo sanno. Dolcezza, sceglimi. Dolcezza, ti prego”.

Tutto scomparve com'era arrivato, con la consistenza di un sogno che sta per finire. Paride sospirò. Una notte tremenda. Si appisolò, per poi addormentarsi.
Il sonno non durò molto: evidentemente, la seconda dea aveva avuto la deliziosa idea di manifestarsi sottoforma d'incontinenza. Paride aveva bisogno di un bagno. Ma non aveva idea di dove si trovasse un bagno né se esistesse. Non aveva idea di dove fosse un interruttore. Una luce. Un appiglio. Procedendo a tentoni, riuscì finalmente ad impugnare l'acciaio gelido di un pomello.
Eppure, niente. Quella stanza era troppo illuminata per trattarsi di una toilette.
Davanti a lui, un corridoio di moquette grigia divideva due blocchi di sedie perfettamente schierati. Sul fondo della sala, un palcoscenico. Aveva visto mille volte un posto come quello. Un leggio di legno, due sedie da poco accanto. Al posto dell'arringatore stava lei.
“Atena”.
“Uh” disse la dea “Il ragazzino ha trovato il coraggio di aprir bocca”.
Portava un tailleur serioso, un foulard, scarpe col tacco alto. Gli fece cenno di avvicinarsi con la mano. E lui obbedì, scoprendosi vestito di giacca e cravatta, i capelli impomatati all'indietro. Prese posto accanto a lei, che gli sfiorò la spalla, seducente.
“Conosco la storia. Una bella immaginazione. Un piccolo creativo. Aspettative poche, sogni molti. Pronto a spiccare il volo ed allontanarsi dall'oppressione della famiglia. Accade che papà muore, e sei costretto ad essere il braccio destro del fratellone. Fratellone. Ettore”.
Paride sobbalzò. Le palpebre sembravano stranamente pesanti.
“In questa gabbia fastidiosa. Avresti dovuto sentirti completo e realizzato, ma, invece… L'altruismo non fa poi tanto per te, no? Maturi pensieri strani e inizia a provare… Sì: odio. E non è colpa di nessuno. Voglio dire, è colpa di tutti, ma… Il punto è che tu vuoi... Spazio per te, ecco”.
Atena si era seduta in prima fila tra il pubblico. Aveva accavallato le gambe e posto le mani una davanti all'altra, come se avesse dovuto applaudire da un momento all'altro.
“È il tuo momento” Lo fece.
Improvvisamente, vide la stanza colma di spettatori entusiasti che lo acclamavano ed applaudivano come impazziti. Paride arrossì, poi sorrise. Lo provava: era il piacere che lei voleva. Atena si amò per qualche istante.
Poi, Paride si guardò alle spalle.
La prima delle due squallide sedie era vuota.
Sulla seconda sedeva suo fratello. Aveva qualcosa di diverso, e non si trattava della folta barba o dell'aspetto più vecchio, o di quel ciuffo bianco al lato del viso. Guardava a terra ed era infelice. L'illusione finì.
“Sarebbe solo l'inizio” mormorò Atena, passandogli la mano tra i capelli neri.
La dea sparì, lasciandogli solo una sensazione di vuoto all’altezza dello stomaco. Un senso di malinconia per nulla piacevole. Era di nuovo in boxer, in una stanza buia, e la voglia di cercare un bagno gli era passata del tutto. Tornò sui suoi passi e si buttò a peso morto sul letto, affondando la testa nel cuscino. Era inutile rimettersi a dormire: mancava ancora una proposta all’appello, e, se le previsioni di Ermes erano esatte, non avrebbe dovuto attendere ancora per molto. In effetti, non passò più di un’ora, quando udì l’uscio aprirsi e vide un fascio di luce illuminare la stanza. Una figura sinuosa proiettò un cono d’ombra sul suo volto, e Paride sentì piccoli passi avvicinarsi al letto, dopodiché un tonfo sordo. Sollevò il busto di scatto, e trovò la dea dall’aspetto più giovane seduta ai piedi del letto: Afrodite.
“Non sembri molto sorpreso di vedermi; devo dedurre che le altre mi hanno preceduta” disse con un sorrisetto.
Paride annuì con un cenno del capo.
“Neanche io sono molto sorpresa, devo dire!” Afrodite ridacchiò, coprendosi le labbra con una mano dalle unghia laccate
Ogni gesto di quegli individui era talmente teatrale, pensò Paride, che sembrava di partecipare ad una commedia perenne. Eterna, in effetti. La sensazione di malessere si acuì. La guardò spaesato. Gli occhi di lei si fecero più dolci: sembrava almeno dieci anni più giovane di lui, eppure Paride non poteva fare a meno di sentirsi come un bambino alle prese con una zia melassosa.
“Sei così carino che, davvero, non posso mentirti. In realtà, ho visto tutto quel che ti hanno proposto le mie avversarie. Sono state così puerili che sono quasi tentata di non provarci nemmeno, a darti prova di quel che potresti avere. Sì, credo proprio non ce ne sarà bisogno”.
Paride dovette dissimulare un’espressione delusa. Iniziava forse a prenderci gusto? Quella era la proposta che gli era sembrata più appetitosa.
“Cosa vuoi dire?”
Afrodite gli posò una mano sulla spalla, con fare lascivo, e gli si avvicinò di qualche centimetro.
“Sei talmente adorabile… Ti spiegherò come la vedo” sorrise ancora “Prendiamo Era: come può pensare che tu voglia davvero del denaro? Tu sei un sognatore, un’anima romantica; non ci vuole certo un genio a capirlo. Basta guardarti, con il tuo taglio da adolescente, ed i vestiti sgualciti. Scommetto che hai ancora dei poster in camera. No, tu non vuoi soldi. Vuoi un sogno”.
Paride la fissò interdetto, in silenzio. Cosa avrebbe potuto rispondere, dopotutto?
“Atena. Atena c’è andata già più vicina. Devo ammettere che non me l’aspettavo da quel ghiacciolo, ma è riuscita ad inquadrarti meglio. Nella visione che ti ha mostrato, finalmente hai visto te stesso realizzato, e non il figlio timido da custodire in una teca di vetro. Ma, ahi, ha toppato anche lei!” batté le mani e iniziò a scuotere l’indice della mano da destra a sinistra.
Paride ebbe la sciocca sensazione di trovarsi all’interno di un romanzo di Agatha Christie.
“Non ha capito che tu, nonostante tutto, ami tuo fratello. Probabilmente, Ettore è la persona più importante della tua vita. Tu non vorresti mai e poi mai vederlo triste, giusto?”
Era ovvio che si trattasse di una domanda retorica: Afrodite sapeva di aver ragione, e Paride si sentiva sempre più a disagio.
“Devi scusarla; Atena è un’insensibile. Ma io ti ho capito, Paride. Ed è per questo che ti regalerò un sogno. La donna dei tuoi sogni, Paride. Mi basta un nome, ed io farò innamorare pazzamente di te la donna che desideri. Un nome e basta. Ma tu devi scegliere me”.
Gli stampò un bacio sulla guancia, e s’incamminò verso l’uscita con la sua solita andatura sensuale. Chiuse la porta dietro le sue spalle, e Paride si ritrovò al buio, da solo.

Le stoviglie, brillanti e traslucide, tintinnavano leggermente sbattendo contro delicati piatti in di vetro soffiato.
Strani profumi ed aromi si spandevano nell'aria, e Paride si domandava se in terra esistesse un odore così dolce e sensuale, e quali strabilianti frutti crescessero in quel mondo di folli divinità.
La lunga tovaglia era candida e ricamata di azzurro. L'eccitazione era palpabile.
C'era stata troppa, troppa tensione in quei due giorni.
La tensione fa venire le rughe, pensò malignamente Afrodite. Il suo sguardo corse ad Era.
La tensione annebbia lo spiriti, pensò malignamente Era. Ed il suo sguardo corse ad Atena.
La tensione fa cadere le tette, pensò Atena. E ridacchiò in direzione di Afrodite. Zeus stava seduto a capo tavola, chino su una tazza di quel che poteva sembrare latte. Aveva qualche problema nel a bere dalle tazze senza manico senza sbrodolarsi. Tutti lo sapevano, ma nessuno glielo aveva mai fatto notare. In fondo, erano così divertenti, queste colazioni di famiglia.
Dal canto suo, Paride non vedeva l'ora che tutti la smettessero di sembrare così tranquilli ed arrivassero al punto.
Pensò al suo mondo. Pensò ad Ettore. Chissà che faceva. Chissà se stava scegliendo il colore più adatto della cravatta. Probabilmente, stava tenendo fra le braccia Astianatte, cercando di capire come funzionasse quel terribile sonaglio. Un sonaglio politically correct, comunque. Il cuore gli si strinse un po', e la voglia di scendere sulla terra si fece ancora più grande, senza pensare poi a quello che lo avrebbe aspettato, sulla terra.
“Allora, che armi hai sfoderato per farlo tuo, eh, Afrodite?”
La ragazza si girò gelidamente verso il povero Apollo, che la guardava sorridendo all'altro capo della tavola.
“Non accetto mezze allusioni da uno che mangia patate e cereali a colazione”.
Artemide si morse le labbra per aver riso ad una battuta di Afrodite. Stupida, tra l'altro. Ma suo fratello credeva davvero che mangiarsi patate e cereali fosse da intellettuale.
Non appena Zeus riuscì a finire il suo latte, il silenzio inghiottì la tavolata.
Zeus se ne accorse e se ne compiacque. Era notò la macchia di latte sotto il suo mento e alzò gli occhi al cielo. Per fortuna, nessun altro lo notò.
“Dunque, mio dolce amico… E’ il momento di giungere alle conclusioni, no?”
Apollo chiuse gli occhi e gustò il frutto di ore ed ore di lezioni di retorica e grammatica impartite al vecchio Patriarca.
“S - sì…”.
Paride si alzò in piedi, senza che nessuno gliel’avesse chiesto. Questo stupì non poco gli dei. Ma nessuno di loro, tranne forse una bionda formosa, poteva sapere la voglia di tornare al suo mondo che animava il ragazzo, in quel momento. Ettore… Il suo amore.
Zeus guardò compiaciuto il ragazzo. Per qualche strano motivo, lo pensò come il “suo” ragazzo: in fondo, era sempre stato un buon padre, o aveva cercato di esserlo.
“La più bella dell’Olimpo è…”.
Quello che avvenne dopo, è ancora leggenda. Causa di grasse risate per Dioniso.
Il sorriso tronfio di Afrodite, l’isteria di Era, gli istinti omicidi di Atena.
Nessuno aveva mai visto Atena perdere il lume della Ragione.
Nessuno aveva mai sentito Era emettere suoni tanto acuti.
Paride sospirò, le gambe che gli tremavano.
Intercettò uno sguardo malizioso di Afrodite.
Davvero non vedeva l’ora di tornare sulla terra.

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


Epilogo



Rest with me
My lovely brother
For you see
There is no other
Memory so sad and sweet
I'll see you soon
Save me a seat
My Lovely Man – Red Hot Chili Peppers






Dieci giorni dopo.

Paride l'aveva baciata pudicamente, poi aveva lasciato la sua camera d'albergo, appesa alla maniglia della porta l'avvertenza di non disturbare. Era una giornata soleggiata. Paride si disse che niente sarebbe potuto andare male quel giorno. Il senso di colpa...sì. Ma l'amore. L'amore.
Gli sarebbe piaciuto poter avere il lusso di chiedere per quale motivo una come lei lo avesse scelto. Oh, che pensiero patetico.
E quindi se ne stava lì tutto zuccheroso e patetico e sognante nella hall. Lui, il suo nuovo look che lo faceva quasi sembrare adulto e una ventina di persone.
Ettore arrivò così in fretta che Paride non ebbe neanche tempo di turbarsi. L'aveva afferrato per la clavicola e con quel suo nervosismo da politico l'aveva portato in bagno. Non aveva permesso neanche ai suoi gorilla di seguirli.
Paride si accorse solo quando il fratello si era stropicciato il viso appoggiando le natiche al lavandino, che la sua giornata era stata rovinata.
"Dimmi, Paride. Dimmi. Tu a cosa pensi?"
Paride sbuffò. Deformazione professionale. Ettore aveva preso l'abitudine a non essere molto chiaro.
"Ah-ah. Non ci provare piccolo bastardo. Non provarci. Io..."
Il contatto col muro aveva stupido Paride quanto il pugno chiuso di Ettore vicino alla sua faccia. Era orribile sapere perfettamente cosa stava succedendo.
"E' di nostra madre che stai..."
"No. Decisamente no. Non sono dell'umore per il tuo sarcasmo da liceale." Pausa. Ettore si allontanò e si rilassò. Lanciò la cravatta in un angolo.
Lo fissava con quello sguardo inquisitore. Doveva aspettarsi che Paride confessasse, si giustificasse. Non avvenne.
"D'accordo, allora." Ettore se ne stava lì, nella sua rabbia palpitante e fiammeggiante. Paride credeva di poter vedere il suo corpo vibrare insieme col suo battito cardiaco. "Ti racconterò una storia. Stamattina, mi alzo tranquillamente alla solita ora. Sono di buon umore, perchè tu sei di buon umore, e perchè tutto nella mia vita sembra essere roseo e per lo meno promettente. Ma." Pausa. "Sotto la porta della mia camera cosa trovo, Paride? Una busta gialla." Ettore estrae la busta dalla giacca e Paride sente infondo allo stomaco, infondo all'anima quella sensazione di perdita, caduta, che è tipica delle situazioni drammatiche. Alcuni lo chiamano senso di colpa.
Le foto sono sgualcite. E' possibile che solo adesso Paride capisca cos'ha fatto? No. Non potrai giustificarti in nessun modo.
Ci sono loro due in macchina. Lei ha due valige con sé e sembra felice. Lui le passa la mano sulle spalle e si sorridono. Escono di macchina con le valige. E' notte fonda e le luci sono gialle e complicate, ma tra i pixel di quella foto squallida da paparazzi, pare di vederla piangere mentre lo bacia.
La data conta cinque giorni prima di oggi.
Paride trema.
"Ecco, vedi. Mi hanno chiesto se volessi dar loro una certa cifra per le foto. Ma io stupido, stupido Ettore, ho pensato che perdio, il mio fratellino non mi avrebbe mai fatto nulla del genere. No. E ti dirò," faccia da sarcasmo crudele. Paride è pronto a incassare.
"Non mi risultava facile credere che una donna come quella, potesse incasinarsi tanto per uno come te. Quindi ho rifiutato. Sarà solo una biondona che le somiglia, ho pensato. Stupido."
Paride capisce che se vuole fare un tentativo, deve farlo adesso.
"Tu non c'entri. Non devi entrarci per forza, io...Sarà solo una questione mia, tu..."
"Ti prego." lo interrompe. Non ascolta una parola. Ti sembra il minimo dal momento che hai infranto ogni suo desiderio.
"Dicevo, ho rifiutato. Dio, lei era...Troppo. Mi preparo e vado a fare colazione con la mia famiglia. Dal momento che sono, o forse meglio dire ero, un politico sono costretto a vivere in un lussuoso albergo, nonostante mi trovi nella mia città. Uh, dimenticavo, anche tu dovresti essere un politico a modo tuo. Torno in macchina dopo una simpatica conversazione con mia moglie su quale tipo di camicie mi stiano meglio o qualcosa del genere, quando trovo il mio autista Al piegato su un giornaletto rosa. Cos'è, Al, gli dico. Mi risponde che è un giornale di sua moglie. Ah, e sai che altro? Mi dice che la signora Hawkins, dei democratici Hawkins, è scomparsa. Niente vie di mezzo, puf. Era strana da un po', dice il marito Menelao in una breve intervista. E poi che altro? mi sembra che basti. Dopo sono venuto qui. E dopo ancora credo...credo di averti spaccato la faccia." Lo afferra di nuovo. Paride cerca di concentrarsi su qualcos'altro perchè non riesce a sopportare l'intensità di quegli occhi. Il muro è davvero gelido. Le mattonelle così minuscole da conficcarsi nella schiena una ad una. Picchiami, si dice Paride, spaccami la faccia. Eppure quando le sue labbra trovano il coraggio di muoversi
"Io ti amo, Ettore" mormorano febbrili. Le vene della fronte sono contratte. Anche in queste condizioni, Ettore ha un certo fascino. "Sei la cosa più importante della mia vita e..."
"Hai distrutto la mia vita. Questo era la mia vita, e adesso? Chi potrà mai prendermi in considerazione come professionista e come, come uomo, dannazione." Lo afferra con entrambe le mani e lo getta per terra. Le gambe di Paride sembrano fatte di burro e ha la testa leggera. La collisione col suolo è veloce ma non indolore.
Adesso Ettore sente anche lui dell'inutile senso di colpa.
Lunghi sospiri. Il suo viso sembra riassumere un aspetto umano, una volta abbandonato il rossore. Ettore trema.
"Portami da lei," mormora.

Il minuto d'ascensore è il più lungo della vita di Paride. Gli sembra straordinario riuscire a provare imbarazzo, ma non avrebbe mai pensato di avere davvero il potere di ferire Ettore. La musica rilassante di sottofondo adesso è solo un richiamo irritante.

La scheda azzurra passa nel solco e con un sottile bip apre la porta della stanza. Lei siede serena e indossa l'accappatoio dell'hotel, mentre legge seduta su una poltrona. Non sembra pesarle aver trascorso i suoi ultimi cinque giorni in una camera d'albergo. Appena lo vede, le si dipinge in volto una sorta di stupore/ orrore che la rendono meravigliosa.
Ettore si stupisce nell'accorgersi di pensare una cosa simile. Lo sguardo colpevole di Paride lo ferisce di minuto in minuto, ed è nel momento in cui si accorge che la situazione è definitiva e che lo aspettano tutta una serie di patetismi tragici, che si siede, stropicciando via quella pomata dai capelli.
Paride si stupisce. Pensava che avrebbe sfoggiato il suo sguardo da 'sistemeremo questa cosa'.
Più guarda Elena - e non può farne a meno, perchè non riesce a guardare suo fratello - più Ettore si avvede di come lei non abbia colpa.
"Cosa farai?" mormora Paride. Pare voglia dare alle sue parole una sfumatura coraggiosa, senza buon esito. "Qualsiasi cosa...hai ragione. Mettimi alla gogna. Fa quello che puoi per far tornare le cose come prima."
Ettore arriccia la fronte. Lei adesso ha addosso una maglietta e una gonna e ha legato i capelli bagnati. La pausa è così lunga che Paride pensa di morirci.
"Affronteremo questa cosa".










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