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C’era una volta una giovane donna che aveva un rimpianto: aver
troncato un’amicizia nel periodo della sua infanzia, un’amicizia che non era
poi così tanto male.
Questa ragazza si chiamava Grace, abitava in un paese sperduto
nell’entroterra dell’America latina, precisamente in Messico. Quando era ancora
bambina aveva l’abitudine di giocare per strada con tutti i bambini del
vicinato, tra cui vi era un ragazzino con cui spesso battibeccava anche per i
motivi più futili. Tuttavia i due erano amici, si volevano bene, nonostante tra
loro ci fossero delle differenze sostanziali. Grace era una bimba sensibile,
anche se cercava di ostentare durezza e coraggio. Il suo amico – Jeremy – era
invece coraggioso, pieno di sorprese e di spericolatezza, tanto da scatenare
l’invidia della sua compagna di giochi.
Nonostante trascorressero parecchio tempo insieme, Grace si era
sempre sentita inferiore e inadeguata rispetto a lui, ai suoi genitori. Tra
l’altro invidiava immensamente il rapporto che lui aveva con April, una loro
vicina che poi si era trasferita in un altro quartiere ma continuava comunque a
visitare i suoi vecchi amici ogni giorno, come se nulla fosse cambiato. Jeremy
ed April si conoscevano fin dalla nascita e i genitori di lui avevano sempre
fatto sì che il loro unico figlio potesse scarrozzarsi dietro la bimba, in
qualunque luogo la famiglia andasse.
A Grace questo trattamento non era mai stato riservato un, anche
perché lei era arrivata dopo April, era “il terzo incomodo” e il suo carattere
impertinente le aveva sempre impedito di farsi ben volere dai genitori di
Jeremy.
Inoltre la giovane donna di cui parliamo aveva un’altra anomalia
che la rendeva più aliena di quanto già non fosse: era ipovedente.
Per lei questo aveva sempre rappresentato una barriera, ma non
insormontabile. Certo, gli altri bambini potevano giocare insieme anche quando
il sole non riscaldava e illuminava più il mondo che li circondava, come nelle
calde sere d’estate, mentre lei doveva stare in casa a sentire le loro risate e
a desiderare che qualcosa del genere capitasse anche a lei. In compenso, però,
durante la giornata era una bambina come tutte le altre e si divertiva. Eppure
gli altri sapevano della sua disabilità e alcune volte la discriminavano per
questo fatto.
Grace, tuttavia, non si abbatteva e rispondeva per le rime, anche
se spesso e volentieri la sua sensibilità la portava alle lacrime.
Tornando ad April, Grace aveva stretto amicizia anche con lei e
spesso la invitava a dormire da lei e aveva trovato nei suoi genitori la stessa
disponibilità di quelli di Jeremy, ottenendo di poter invitare April ad andare
dappertutto con la sua famiglia.
Oltre a loro tre, c’erano altri ragazzini nel quartiere: c’era
Daniel, freddo, distaccato ma simpatico; poi Marcus, goffo, impacciato e
soggetto a diverse prese in giro da parte degli altri bambini; Stephen, che
giocava con loro solo ogni tanto e Grace non ci aveva mai avuto granché a che
fare, così com’era successo con Cassandra, Luke, Paula e tanti altri.
I suoi compagni di gioco abituali erano quindi Jeremy, April,
Daniel e Marcus. Lei e Jeremy avevano la stessa età, mentre April e Daniel
avevano un anno in più e Marcus due. Tutto sommato erano una bella squadra e si
inventavano sempre qualcosa di nuovo da fare per non annoiarsi. Ma a loro bastava
stare insieme affiché il tempo trascorresse velocemente tra una risata e
l’altra.
Poi qualcosa accadde.
Era il decimo compleanno di Grace e sua madre aveva organizzato una
festicciola a cui i suoi amici e compagni di classe erano stati tutti invitati.
Ovviamente anche Jeremy era presente quel giorno, giorno in cui
Grace rovinò tutto.
Alla festa partecipò anche Cassandra, una vecchia compagna di Grace
durante i primi due anni di scuola elementare. Lei era una tipa egocentrica,
spericolata, piena di grilli per la testa e con un odio insensato nei confronti
di Jeremy.
Durante i festeggiamenti Cassandra andò a dire a Grace che Jeremy
l’aveva spinta facendola cadere.
Jeremy giurò di non aver mai fatto niente di simile.
Grace non gli credette e lo cacciò di casa, scatenando la sorpresa
di tutti i presenti.
April le disse che era stata ingiusta con lui e abbandonò a sua
volta la festa, correndo dietro al suo amico.
Da quel giorno ogni rapporto tra Grace e Jeremy si interruppe e lei
spesso rimpianse di aver dato corda a Cassandra, essendosi resa conto in
seguito della sua cattiveria.
In futuro Grace non fece altro che pentirsi di essersi comportata
in quel modo nei confronti di quel ragazzino scuro di pelle con i capelli ricci
e ribelli che gli donavano un’aria selvaggia, intonata perfettamente al suo
carattere.
Sapeva che non avrebbe mai più trovato il coraggio di avvicinarsi a
lui, nonostante il litigio non era stato altro che una bambinata. Una bambinata
che la paralizzò durante tutti i nove anni successivi.
Quel giorno faceva tremendamente caldo, poiché l’estate incombeva
con tutto il suo furore sul paesino.
Grace Andrews sbuffò e accese il
ventilatore, posizionandolo al centro della sua stanza, in modo che lo
spostamento d’aria raggiungesse il suo letto accostato alla parete. Si stese e
si accorse di non averlo rifatto quella mattina. Certo, era stata troppo
impegnata a sfaccendare a destra e a manca, racattando
indumenti da piegare e sistemare nei cassetti.
Chiuse gli occhi e pensò a ciò che l’attendava quel pomeriggio. Era
da un bel po’ che non vedeva la sua amica Elizabeth e finalmente sarebbero
uscite insieme per raccontarsi le novità e farsi due risate.
Grace conosceva Elizabeth dai tempi delle superiori anche se le due
non erano mai state in classe insieme, poiché la sua amica era un anno più
grande di lei. Perciò le due si limitavano a percorrere insieme i pochi metri
che le separavano dalla scuola e spesso Elizabeth la aiutava quando la giornata
era troppo grigia per permetterle di camminare autonomamente per strada. La
ragazza era stata sempre comprensiva con Grace e questo fece sì che le due
legassero tantissimo fin da subito.
Ora stavano per reincontrarsi dopo che
Elizabeth era riuscita a passare brillantemente l’ultimo esame del suo secondo
anno di università e avrebbero festeggiato l’avvenimento a dovere.
Grace afferrò il cellulare e controllò che ora fosse. Siccome erano
circa le diciassette, decise di alzarsi e andare a prepararsi.
Non appena si avviò verso il bagno, sbatté la coscia sullo spigolo
del letto e imprecò dal dolore.
Poi scoppiò a ridere.
Ormai si era abituata ad essere ricoperta di lividi a causa della
sua malattia e quell’avvenimento era ormai abituale per lei.
Si fece una doccia fresca, si vestì e attese che Elizabeth passasse
da lei per uscire.
Quando il campanello suonò, Grace sobbalzò e si diresse
all’ingresso per aprire, mentre suo padre cantava a squarciagola sopra le note
di una famosissima canzone di Bob Marley.
La ragazza sorrise e aprì, trovandosi di fronte la sua amica che la
incitava a raggiungerla.
Grace, come da rituale ogni volta che non si vedevano da tempo, la
travolse e la stritolò in un abbraccio da orso che scatenò una richiesta di
pietà da parte di Elizabeth.
“Mi stai strozzando!” fece infatti, cercando di ritrarsi.
Grace rise sonoramente e le diede un colpo sul braccio. “Non
rompere, non ti va mai bene niente.”
Elizabeth la incenerì con lo sguardo e, sebbene Grace non avesse
colto visivamente quel gesto, fu certa che l’avesse compiuto.
“Muoviti” borbottò Elizabeth con tono fintamente irritato.
La padrona di casa afferrò la borsa che aveva posato sul marmo
accanto al portone e grido: “Pa’, sto uscendo!”
Intanto Bob Marley cantava ‘Jammin’ e
Grace fece lo stesso mentre chiudeva la porta, ricevendo un’altra occhiataccia
dalla sua amica, che però sorrideva.
Mentre percorrevano il vialetto che conduceva alla strada, Grace
continuava a cantare, incurante di chi potesse sentirla.
La sua amica sollevò gli occhi al cielo e sospirò, per poi
ridacchiare. “Sei esaurita, abbiamo capito.”
“Pensa per te” rispose l’altra, ridendo.
Le due rimasero in silenzio per un po’, finché non arrivarono alla
fine della via in cui risiedeva la famiglia Andrews.
“Allora, dove andiamo?” domandò Grace, per poi inciampare nel
gradino di un marciapiede. Rise e attese la risposta dell’altra ragazza.
“Al parco!” esclamò lei, sicura di sé.
Grace lo sapeva, infatti la domanda era stata più che altro
retorica.
Durante il tragitto le due scherzarono e si presero in giro a
vicenda, mentre Grace notava l’abbigliamento di Elizabeth, illuminato dal caldo
sole del pomeriggio. La ragazza indossava un paio di jeans stretti, una canotta
nera abbastanza scollata e un copri spalla azzurro.
“Sei fissata con il blu, eh? Non esci di casa senza qualcosa di
blu!” osservò Grace, dandole una manata sulla schiena.
Elizabeth si allontanò da lei e le imprecò contro, mentre lei
rideva a crepapelle.
“Sempre delicata Grace” le fece notare l’amica, cercando di
massaggiarsi la parte dolente.
“Scusa, scusa!”
Così, tra una battuta e l’altra, circa venti minuti più tardi,
raggiunsero il parco comunale e decisero di andare direttamente al chiosco a
prendere qualcosa da mangiare e da bere.
“Lizzie, cosa prendi?” chiese Grace,
appoggiandosi al bancone.
Intanto Elizabeth era intenta a snocciolare con lo sguardo i vari
tipi di gelato presenti nel cartello appeso al muro.
“Ditemi!” fece una donna grassoccia dall’interno del bar.
Grace si fece subito avanti. “Una porzione di patatine e una
bottiglietta d’acqua naturale. Lizzie?!”
L’altra si avvicinò e indicò alla barista una sorta di granita al
caffè.
“Ti chiamo quando sono pronte le patatine. Nome?”
“Grace.”
“Okay, a dopo.”
Dopo aver ritirato il resto, le due andarono a sedersi ad una
tavolo di plastica rossa poco distante dal chiosco e Elizabeth cominciava a
mangiare il ghiaccio al gusto di caffè.
Grace era impaziente di mangiare le sue patatine perché stava
morendo di fame, tuttavia le chiacchiere di Elizabeth riuscirono a distoglierla
da quel pensiero.
“Sai, un giorno ero in pullman con delle colleghe ed è salito un
ragazzo che si è seduto in un sedile vicino al nostro. Indovina cos’abbiamo
fatto?”
Grace fece spallucce. “L’avete salutato?”
“No. Abbiamo fatto commenti sconci su di lui per tutta la durata
del viaggio. E pensa che se n’è accorto, visto che sembrava a disagio” raccontò
Elizabeth, mescolando la granita ormai sciolta con la cannuccia.
“No, ma dai! Davvero?” gridò Grace, attirando l’attenzione di tutte
le persone presenti nei tavoli accanto al loro.
L’amica la ammonì storcendo la bocca e lei poté vederla
perfettamente. “Sì, ma non urlare. Poi pensa, abbiamo continuato a fare
apprezzamenti anche dopo che lui è sceso. Stavamo ridendo come delle matte.”
Grace rise sonoramente, mentre l’altra ragazza consumava il liquido
presente nel suo bicchiere.
“E com’era questo tipo?”
“Carino. Insomma, normale.”
“Normale?”
“Bel fisico, capelli scuri. Gli occhi non li ho visti” spiegò
Elizabeth, sistemandosi meglio sulla sedia.
Intanto Grace si guardò intorno cercando di capire se riusciva a
riconoscere qualcuno dei suoi compaesani, ma come al solito non ci riuscì. Notò
l’abbigliamento di alcune persone, udì le loro voci ma non fu in grado di
distinguere i lineamenti dei loro visi, seppur non ci fosse chissà quale
distanza tra lei e quella gente.
Vide tre ragazzi avviarsi al chiosco, uno dei quali spiccava per la
sua incredibile altezza rispetto agli altri due.
Poco dopo la donna del bar gridò il suo nome, facendo sì che tutti
i presenti si accorgessero di lei ed Elizabeth che si dirigevano a ritirare le
patatine.
“Ciao” le salutò un ragazzo.
Grace riconobbe in lui lo spilungone che avava
intravisto poco prima camminare a pochi metri dal suo tavolo.
Sapeva chi era.
Era Jeremy Pherson, il suo vecchio
compagno di giochi, quello che si era allontanato da lei a causa di un suo
errore.
Grace rimase interdetta e si sentì sprofondare in un mare di
imbarazzo.
“Ciao” risposero lei ed Elizabeth all’unisono.
Poi Grace si allungò per ricevere il cartone dalla barista e fuggì
letteralmente a gambe levate da quel luogo.
“Lizzie” piagnucolò con un tono che
ricordava una bambina di due anni.
L’altra fu irritata da ciò e, scocciata, le chiese: “Che c’è?”
Grace non rispose e le due si andarono a sedere su una panchina di
cemento poco distante, accanto ad un gruppo di bambini che sfrecciavano in
bicicletta e a piedi, gridando come ossessi.
“Lizzie” ripeté, utilizzando sempre lo
stesso tono.
“Piantala” tagliò corto la sua amica, irritata, mentre le rubava
una patatina.
L’altra prese a mangiare convulsamente, mentre si sentiva ribollire
dalla vergogna per essersi ritrovata Jeremy di fronte dopo tutto quel tempo.
Il ragazzo, infatti, non abitava più nel paese, ma si era
trasferito in Africa con la famiglia e tornava a trovare i suoi amici e parenti
almeno una volta all’anno.
Grace si chiese come mai nessuno le avesse detto che Jeremy era
rimpatriato, visto che in quel piccolo centro abitato le voci correvano in
fretta, troppo in fretta.
Parlò a Elizabeth della sua sensazione di disagio e del calore che
l’aveva pervasa nel vederlo così dannatamente bello, alto e diverso da come
l’aveva visto l’ultima volta. E poi la sua voce…
calda, profonda. In essa, tuttavia, la ragazza riconobbe il timbro che l’aveva
sempre caratterizzata fin dall’infanzia, seppur ormai il ragazzo avesse
vent’anni.
“Allora,” attaccò Elizabeth, “sono la dottoressa Elizabeth Carlsson e ora le farò un’analisi psicologica in base a
quello che mi ha appena raccontato a proposito di Jer…”
“Shh!” la ammonì Grace, guardandosi
intorno per cercare di capire se lui fosse nei paraggi.
“Tranquilla, non c’è. E’ seduto dall’altra parte del parco con i
suoi amici.”
Grace sospirò.
“Dicevo: sono la dottoressa Elizabeth Carlssone…”
“Bla, bla, bla, abbiamo capito. Parla!” la interruppe l’altra.
Elizabeth la fulminò con gli occhi, poi si atteggiò a psicologa e
assunse un’aria professionale che poco si addiceva al suo viso da bimba troppo
cresciuta.
A Grace venne da ridere.
“Secondo me ci sono due opzioni.”
“Ossia?”
“Uno: provi rimorso per il fatto di averlo trattato ingiustamente
anni fa e vorresti che le cose fossero andate diversamente.”
L’altra incrociò le gambe, sedendosi di lato sulla panchina. “Mmh… non so, forse…”
“Due: hai sempre avuto una cotta per lui e l’hai inconsciamente
repressa.”
“Cosa?” strillò Grace, sgranando gli occhi.
Elizabeth disse: “Potrebbe essere, no?”
“No!” gridò ancora l’altra, mentre si sentiva nascere sulle labbra
un sorriso idiota ed ebete che lasciava poco all’immaginazione.
“Guarda che su quel sorriso voglio il copyright, l’ho inventato io
quando credevo che ‘tu-sai-chi’ non mi piacesse” le
fece notare Elizabeth, ridacchiando.
Grace le colpì un braccio e lei gemette dal dolore.
“Te lo meriti, stronza.”
Le due ragazze continuarono a fare congettive
sul motivo della reaziono di Grace nell’aver visto
Jeremy, finché non decisero di avviarsi verso casa.
“Prima di rientrare passiamo sotto casa sua?” propose Grace,
saltellando sul marciapiede con fare demenziale.
“Cosa? Ma tu sei fuori di testa!” la apostrofò Elizabeth, mentre si
fermava per levarsi un sassolino dal sandalo.
“Ti prego!”
Il tono di Grace fece irritare ancora la sua amica, poiché era sempre
il solito da bambina stupida che lei odiava.
“Uff, e va bene. Che palle che sei”
borbottò.
Grace esultò e le due continuarono a camminare tra una battuta e
l’altra.
Una volta giunte all’inizio della via in cui i Pherson
venivano a stare durante le loro brevi rimpatriate, le due ragazze rallentarono
senza smettere di parlare.
“Il benessere si trova dove mi trovo io” vaneggiò Grace, con tono
solenne.
Stavano facendo un discorso sulle condizioni sociali e lavorative,
ma le due non riuscivano comunque ad essere del tutto serie.
Elizabeth infatti rise. “E questa cos’era, una massima di qualche
filosofo squattrinato?” fece con tono ironico, sghignazzando.
Intanto erano appena entrati nel raggio di casa Pherson,
che rimaneva direttamente sulla strada e aveva un giardino nella parte
posteriore.
“No, Lizzie, è il mio nuovo slogan di
libertà.”
Elizabeth rise e prese a stappare una bottiglietta d’acqua che
aveva comprato al parco prima che se ne andassero.
In quel momento Grace udì la profonda e calda voce di Jeremy
provenire dal passaggio che collegava il giardino alla strada.
Sobbalzò e d’istinto colpì con il dorso della mano un punto appena
sotto le costole di Elizabeth che, avendo iniziato poco prima a bere,
sputacchiò l’acqua che le andò di traverso.
“Maledetta acqua!” imprecò, tossicchiando mentre Grace era balzata
in avanti e stava praticamente andando in iperventilazione.
“Oddio, oddio, oddio!” continuava a ripetere, cercando di camminare
il più possibile sul ciglio della strada, per evitare di finire sotto ad una
macchina.
“Ma sei scema?” la rimproverò Elizabeth, raggiungendola.
“Lizzie!” fece lei con il tono che la sua
amica cominciava a detestare all’inverosimile.
“Piantala! Ricordati che so come ucciderti senza lasciare tracce.”
“Solo perché hai seguito medicina legale non credere di poterti liberare
così facilmente di me!” Detto questo, Grace prese sotto braccio Elizabeth
mentre si accorgeva che la luce del sole stava pian piano diventando scarsa.
Poi scoppio a ridere ripensando alla scena che lei e la sua amica
avevano appena vissuto. Non riuscì a fermarsi e rise finché non giunsero ad una
piccola piazzetta vicino a casa Andrews.
Rimasero un po’ là sedute, mentre Grace si domandava se Jeremy
avesse visto o sentito qualcosa, ma non se ne preoccupò troppo. Quel pomeriggio
era stato divertentissimo ed era solo questo che contava.
Ad un certo punto una macchina si fermò per qualche minuto là
vicino e Grace gridò: “Alborosie!” Diede un ceffone
sul braccio destro di Elizabeth che cominciò a lanciarle ogni tipo di
imprecazione, mentre controllava se le fosse rimasto qualche livido.
“Ma sei cre…”
“Quel tizio in macchina aveva una canzone di Alborosie!
Te ne rendi conto?” continuò a strillare, agitandosi in maniera eccessiva.
Elizabeth non la stava a sentire e continuava ad esaminarsi il
braccio.
“Lizzie, devo scoprire chi è che ascolta Alborosie in paese!”
“Ma smettila, sei una deficiente! Mi hai fatto male!”
“Ma…Alborosie!”
L’altra ragazza sospirò e si alzò. “Andiamo, ti accompagno a casa.”
Così le due si avviarono e Grace si appoggiò nuovamente alla sua
amica.
“Allora ciao, ci sentiamo.”
“Ciao Lizzie, grazie. Mi sono divertita.”
“Anche io” disse l’altra, sorridendo, per poi avviarsi verso casa
sua.
Quando Grace si richiuse la porta alle spalle, fu certa che non si
sarebbe facilmente dimenticata di quella serata con Elizabeth.
“Ciao Grace, allora? Come stanno le tue gambe? Ti fanno ancora
male?” esordì Elizabeth al telefono, il giovedì successivo.
Infatti le due avevano pensato di uscire anche due giorni prima, ma
Grace aveva dovuto rinunciarvi poiché la domenica precedente era stata al mare
con la sua famiglia e si era ustionata le cosce, trovandosi costretta a stare a
casa a soffrire, non riuscendo ad infilarsi nemmeno un paio di pantaloni.
“Oggi sto alla grande!” esclamò la ragazza, con tono entusiasta.
“Allora usciamo?”
“Certo!”
Elizabeth rise del tono euforico della sua amica. “Passo da te alla
solita ora” dichiarò.
Le due si salutarono e Grace riprese a sistemare la roba nei
cassetti.
Il pomeriggio era tremendamente caldo e soffocante, e per lei era
difficile respirare regolarmente. Non appena finì di riordinare, informò suo
madre che sarebbe andata a farsi la doccia e si fiondò in bagno, non senza
sbattere qua e là e provocarsi qualche livido sulle gambe ancora un po’
doloranti a causa della bruciatura.
Si lavò accuratamente, strofinandosi i capelli e il corpo, poi si
sciacquò e uscì, vestendosi.
Erano ormai circa le 18:00 quando Elizabeth suonò il campanello.
La padrona di casa andò ad aprire e notò immediatamente che la sua
amica aveva qualcosa di diverso dal solito.
“Che…”
“Ti piacciono?” cinguettò la sua amica, passandosi una mano sui
capelli. “Li ho tagliati! Sono cortissimi!”
Grace la osservò quando le due furono illuminate dal sole e rimase
a bocca aperta. I capelli incredibilmente lunghi e ricci di Elizabeth avevano lasciato
spazio ad un taglio corto e sbarazzino e soprattutto perfettamente piastrato.
“Sì, sono davvero corti!” esclamò Grace, camminando svogliatamente
accanto alla sua amica.
Poi Elizabeth, con un sorriso compiaciuto stampato in viso, le pose
la fatidica domanda: “Dove andiamo?”
“Al parco, ovvio.”
“Okay.”
E così si avviarono verso la loro destinazione, chiacchierando del
più e del meno.
“Oh, guarda, una macchina gialla!” strillò Grace, additando la
vettura e colpendo con forza il braccio destro dell’amica.
“Ahi, brutta pu…”
Grace cominciò a ridere a crepapelle, schivando un ceffone di
Elizabeth.
“Oggi ti uccido, lo giuro! Mi hai fatto male, ma dico io, sei
deficiente?”
L’altra intanto non riusciva a placare la sua risata e continuava a
camminare, infischiandosene deliberatamente.
Elizabeth sospirò e sollevo gli occhi al cielo, irritata.
Mentre proseguivano per la loro strada, a Grace venne in mente un
aneddoto della sua infanzia.
“Sai, mi ricordo la mia prima figuraccia quando mi ero trasferita
nella tua via” disse, alludendo alla strada in cui tuttora abitava la famiglia
di Elizabeth e stava anche la casa di Jeremy.
L’amica rise. “Sentiamo.”
“Allora. Era settembre quando mi sono trasferita e avevo quasi otto
anni. Ero affacciata al balcone e il sole era appena tramontato, perciò stavo
cominciando a perdere la vista. Ad un certo punto vedo arrivare due bambini e
fermarsi sotto casa. Io sono rimasta immobile a fissarli. Erano entrambi
vestiti di rosso, questo l’ho potuto notare.”
“Immagino di sapere chi erano quei bambini.”
“Già. Daniel e Jeremy.” Grace sorrise.
“Allora, che è successo?” chiese Elizabeth, curiosa.
“Ora viene il bello: loro mi guardavano e io li guardavo, poi dopo
un po’ Jeremy dice:
‘Vieni giù a giocare?’
E Daniel: ‘Sì, dai, vieni! Che aspetti?’
Puoi immaginare quanto avrei voluto farlo, ma non potevo a causa
della vista.”
“Be’, spiegarlo così non è facile” osservò la sua amica, mentre le
due arrivavano al parco.
“Esatto. E io quindi che faccio? Rimango impalata a fissarli senza
spiccicare parola, mentre loro continuano ad incitarmi. Poi se ne vanno e io mi
sento una perfetta idiota.”
Elizabeth rise.
Intanto, varcarono il cancello di ferro e si diressero al chiosco.
Com’era accaduto il sabato precedente, Grace si diresse decisa al
bancone, mentre Elizabeth perdeva tempo a spulciare la lista dei gelati, per
poi scegliere nuovamente una granita.
Grace prese una pizzetta e la solita bottiglietta d’acqua e le due
si andarono a sedere ad un tavolo.
Elizabeth cominciò a sciogliere la granita nel bicchiere di
plastica, mentre Grace cercava di non imbrattarsi di sugo mentre mangiava, per
evitare commenti equivoci da parte dei presenti.
Mentre addentava la pizzetta, Jeremy Pherson passò a pochi metri da
lei diretto al bar, facendo sì che quasi si strozzasse con un pezzo di pasta
sfoglia.
Sgranò gli occhi e tentò di ingoiare il boccone, senza morire
soffocata. Era praticamente impossibile non riconoscere quel ragazzo, poiché si
distingueva dal resto dei suoi coetanei per la sua altezza e per la capigliatura
– dread rigorosamente legati.
Elizabeth, intanto, sembrava non essersi accorta di nulla, o meglio
fingeva indifferenza, dal momento che non poteva non averlo visto.
Tuttavia, sul momento le due non ne parlarono, ma l’occasione non
tardò ad arrivare.
Dopo aver concluso la merenda, si spostarono sulla solita panchina
di cemento e Grace si sistemò con le gambe incrociate.
“L’hai visto?”
Elizabeth prese a frugare convulsamente nella sua mini borsetta di
jeans. “Sì.”
“Sai, pensavo di farmi i dread” disse Grace, con tono serio.
L’amica si bloccò con un pacco di fazzoletti a mezz’aria, poi
scoppiò sonoramente a ridere, rovesciando la testa all’indietro.
“Sono seria, perché cazzo stai ridendo?” strillò Grace,
fulminandola con lo sguardo.
Intanto Elizabeth rise ancora più forte e ricevette un colpo sul
braccio dalla sua amica.
“Ahi! Sei una stro…”
“Ma te lo meriti, sei una deficiente!” Poi anche Grace scoppiò a
ridere.
“Rido perché mi è venuta in mente un’immagine di te con quei cosi
in testa!” disse Elizabeth, estraendo un fazzoletto dalla confezione.
Mentre si soffiava il naso, passò di lì un cagnolino marron scuro.
Grace osservò: “Oddio, questo cane sembra una capra di Heidi in
miniatura!”
La sua amica tossì rumorosamente, allontanandosi il pezzo di carta
dal viso e cominciando a ridere come un’ossessa, sventolandosi col fazzoletto.
“Oggi vuoi farmi morire, eh?” farfugliò, diventando tutta rossa in
viso a causa della risata convulsa che stava cercando invano di placare.
“Ehi, ma è vero che assomiglia a…”
“Non provare a ripeterlo, ti uccido!”
Grace rise insieme a lei.
Il tempo trascorse velocemente ed erano già le sette e mezza di
sera quando a Grace venne l’ennesima idea folle in testa.
“Lizzie!” esclamò, con il solito tono da bambina che irritava
terribilmente la sua amica.
Elizabeth sbuffò. “Che c’è? La tua faccia non mi dice niente di
buono.”
“Andiamo a sederci da qualche parte vicino a Jeremy e i suoi
amici?”
“Ma tu sei fuori di testa! No.”
“Ti prego!”
“No.”
“Lizzie” piagnucolò Grace.
“Ripeto, sei fuori di testa.”
“Vaffanculo” borbottò l’altra, fingendo di offendersi.
Trascorsero qualche minuto in silenzio, poi Grace balzò in piedi.
“Che fai?”
“Seguiamolo!”
“Cosa?” fece Elizabeth, scettica.
“Non appena vedi che se ne sta andando, andiamogli dietro” propose
Grace, sorridendo a trentadue denti.
“Scordatelo” tagliò corto l’altra, secca.
“Almeno questa devi concedermela!”
“Uff, l’idea di fare la stalker ti piace così tanto?”
“Ma che stalker e stalker, sarà divertente! Magari scopriamo
qualcosa di interessante!”
“Solo se prende la stessa strada che facciamo noi per rientrare”
concesse Elizabeth, con un’espressione accigliata e poco convinta.
“Non rompere! Lo seguiamo e basta!”
Grace tornò a sedersi.
“Che palle” borbottò l’amica.
“Avvisami quando se ne sta andando.”
Trascorsero alcuni minuti, poi Elizabeth finalmente aprì bocca: “Si
è alzato.”
“Grandioso!” Si alzò. “Andiamo!”
“Siediti, non possiamo stargli appiccicate, rischieremmo di destare
sospetti.”
Grace annuì e rimase comunque in piedi a fissare il viso rotondetto
di Elizabeth che intanto lanciava occhiate furtive a Jeremy Pherson che aveva
preso ad allontanarsi.
“Ora possiamo andare.”
Le due ragazze si avviarono nella direzione presa dal ragazzo e dai
suoi due amici, rimanendo a debita distanza. Uscirono dal parco da un altro
cancello che si trovava dalla parte opposta di quello da cui erano entrate e
svoltarono a sinistra.
Grace prese a dire stupidaggini e Elizabeth dovette trascinarla sul
marciapiede poiché per poco non veniva investita.
“Cosa ti sei fumata oggi?”
“Eh, Lizzie, sapessi!”
Risero e continuarono a camminare.
Passarono accanto ad una casa e Elizabeth rubò un volantino che
stava incastrato nella cassetta della posta.
“Cos’è?” chiese Grace, curiosa.
“Un volantino di smalti e accessori per la manicure.”
L’altra fece spallucce e scrutò avanti, cercando di scorgere
Jeremy, ma fu tutto inutile. Per lei la sua figura era appena una maccnia.
“Uh, senti questa: smalto indurente. Lo voglio!”
Grace colse il doppio senso presente in quella frase e cacciò un
grido, per poi ridere sguaiatamente.
“Piantala!” la ammonì Elizabeth. “Vuoi per caso che il tuo adorato
Jeremy si accorga di noi?”
“Scusa, scusa!”
Percorsero qualche altro metro in silenzio.
“Questo ti farà ancora più ridere: smalto allungante.”
E così fu, le due ragazze si sbellicarono, cercando di non fare
troppo rumore.
La notte nel frattempo stava cominciando a prendere il posto del
giorno, incurante dei loro schiamazzi e delle difficoltà di Grace.
La ragazza, infatti, cominciava a non distinguere nitidamente ciò
che la circondava, ma ancora non era intenzionata a cercare l’aiuto della sua
amica. Voleva testare i suoi limiti e questo la rendeva sicura di sé nonostante
tutto.
Mentre parlava con Elizabeth, però, non riusci a vedere il palo che
stava perfettamente al centro del marciapiede e ci andò a sbattere, lanciando
un’imprecazione a voce alta.
“Oddio, Grace! Ti sei fatta male?” la soccorse l’altra ragazza,
lasciandosi scivolare il volantino dalle mani.
Qualche metro più avanti, dopo aver sentito le urla delle due,
Jeremy Pherson si fermò e si guardò indietro, imitato dai suoi amici.
“Ma sì, sto bene!”
“Ma sei sicura?” Elizabeth la osservò. “Ti uscirà un bernoccolo in
mezzo alla fronte. Carina.”
Grace riconobbe all’istante la voce di Jeremy Pherson e si sentì
avvampare intensamente, desiderando di sbattere nuovamente la testa sul palo e
svenire.
Elizabeth tossicchiò, fingendo di cercare qualcosa in borsetta.
“Ti sei fatta male?” domandò ancora il ragazzo. “Ti ho sentito
gridare.”
“Ma no, non mi sono fatta niente… cioè… sì insomma, sto bene,
Jemy.”
Jemy? Come diamine l’aveva chiamato?
Elizabeth dovette trattenersi dal ridere, notando il viso della sua
amica arrossarsi sempre più, specialmente dopo aver fatto quella figura da
cioccolataio.
Lui rise. “Sì ma vedi di stare attenta.”
“Sì, sì, lo so! Scusa, ma adesso io e Lizzie dobbiamo andare!”
disse frettolosamente Grace, trascinando letteralmente Elizabeth via da lì.
“Ciao, eh!” E fuggì.
“Aspetta, non tirarmi!” ordinò l’altra, cercando di divincolarsi
dalla sua presa.
“Dobbiamo andarcene il prima possibile! Dio, ti rendi conto di che
figura di merda ho appena fatto? Meno male che Jeremy non si doveva accorgere
di nulla! Quanto sono cogliona!”
Elizabeth la strattonò, facendole rallentare il passo. “Datti una
calmata, non è successo niente di così terribile.”
“No?” gridò Grace.
“Non urlare, mi spacchi i timpani! No, comunque, non è mica colpa
tua se non hai visto il palo.”
“Forse avrei potuto evitare di gridare.”
“Riflesso incondizionato, mia cara.”
Grace sorrise. “Hai visto però che carino? Si è preoccupato per me!”
esultò, saltando quasi sulle spalle della sua amica.
“Staccati, mi stai strozzando!”
“Non rompere, sei sempre la solita guastafeste” la prese in giro
Grace.
Così, anche quella serata con Elizabeth stava volgendo al termine e
le due ragazze si avviarono verso casa.
Il giorno seguente, Grace aveva un impegno importante: doveva
andare con la sua amica Jane a ritirare un regalo che le due avevamo ordinato
per il compleanno della sorella di Jane, Denise. Grace, però, non voleva
negarsi la possibilità di poter vedere Jeremy. Insomma, Elizabeth era l’unica
ad essere a conoscenza della sua ‘confusione’ mentale nei confronti del
ragazzo, e tale doveva rimanere. Se ne avesse parlato con Jane, era certa che
lei l’avrebbe giudicata negativamente e le avrebbe snocciolato una predica più
grande di lei, soltanto perché era convinta di essere dalla parte della
ragione, qualunque cosa dicesse o facesse. Perciò era meglio se la cosa
rimaneva tra Grace ed Elizabeth, per evitare qualsiasi malinteso.
Così, Elizabeth accompagnò le due ragazzo in cartolibreria a
ritirare un libro di Brian Weiss, poi tutte e tre insieme si diressero al
parco.
Grace, prima di uscire, aveva escogitato un linguaggio codificato
che avrebbe permesso ad Elizabeth di avvisarla se nei paraggi ci fosse stato Jeremy;
il tutto consisteva in una parola chiave, niente di che alla fin fine, soltanto
‘rosso’, vista l’abitudine del ragazzo di indossare maglie di quel colore già
dall’infanzia.
“Ragazze, ci prendiamo un gelato?” propose Grace, non appena le tre
misero piede all’interno del parco.
Jane storse un po’ la bocca. “Non ho soldi, ho solo qualche
spicciolo.”
Grace scosse il capo, osservando la sua amica che indossava una
maglia con su dipinto un enorme teschio. “Non rompere, ti ho già detto che te
lo offro io!”
“Già, Jane, te lo offriamo noi, per una volta!” intervenne
Elizabeth, per poi inciampare in un sasso.
Grace rise. “Dovrei essere io quella che cade, non tu!”
“Va’ al diavolo! Maledetti sassi, ho i sandali!” squittì l’altra,
fermandosi a controllare che la sua scarpa destra fosse integra.
“Comunque, no. Non voglio che mi offriate niente” ripeté Jane.
“Sta’ zitta!” Grace si fermò di fronte al bancone.
“Salve ragazze. Ditemi.” La solita donna del chiosco le salutò
amichevolmente.
“Per me un cono al cioccolato. Jane?”
Elizabeth, come al solito, era impalata a fissare il cartellone dei
gelati, immersa nella sua solita indecisione.
“Ho detto che…” provò a dire Jane.
“Okay, due coni al cioccolato.”
“Mmh… cosa prendo?!” si chiese Elizabeth, portandosi un dito sul mento.
“Lizzie, deciditi! Guarda che…”
“Ciao!” salutò qualcuno, comparendo alle spalle di Grace.
La ragazza si voltò e si ritrovò faccia a faccia con Jeremy
Pherson.
Oh, no! Era certa di essere diventata rossa come un peperone e
sperava che né lui, né Jane si accorgessero di qualcosa.
“Ciao!” esclamò, agitandosi.
“Jane? Vieni, aiutami! Non so cosa scegliere” disse Elizabeth,
notando le condizioni in cui si trovava la sua amica.
Le due presero a borbottare con gli occhi fissi sui gelati.
“Vedo che sei rimasta illesa da ieri, a parte…” Jeremy
s’interruppe, trattenendo a stento una risata.
“A parte cosa?”
“Hai un bernocolo in mezzo alla fronte.” E si lasciò andare in una
sonora risata, seguito dai suoi soliti amici.
Un attimo…
Quando e da dove erano spuntati quei due? E perché si stavano
prendendo gioco delle sue disgrazie?
“Ma che…”
La donna dietro il bancone si schiarì la gola, attirando
l’attenzione di Grace.
La ragazza si voltò nella sua direzione e si affrettò ad afferrare
il borsellino.
Jane la raggiunse e prese i cornetti in mano, mentre lei pagava.
“Per me un ghiacciolo alla fragola” dichiarò Elizabeth, estraendo
il suo portafoglio dalla solita borsetta di jeans.
Grace non ebbe minimamente il coraggio di guardarsi alle spalle,
nonostante fosse certa che Jeremy Pherson e i suoi amici idioti fossero ancora
là dove li aveva lasciati. Una strana sensazione di tristezza la invase, ma
decise di sopprimerla. Insomma, non poteva permettere a qualcuno di rovinarle
la serata, sapeva che lei e le sue amiche si sarebbero divertite e voleva
godersi ogni istante, senza preoccuparsi di niente e nessuno.
“Andiamo!” proclamò, dopo che Elizabeth ebbe pagato. Prese a
marciare in direzione dei tavoli di plastica, senza lanciarsi nemmeno una mezza
occhiata alle spalle. Non aveva bisogno di vederlo per sapere che gli sguardi
di quei tre erano puntati su di lei. Le sensazioni ingannano meno delle
immagini, Grace ne era pienamente convinta. Mentre cercava di capire se ci
fosse qualche posto libero, per poco non finì a terra. Non aveva visto il
gradino che doveva scendere per raggiungere la sua meta.
Istintivamente, si voltò indietro, mentre le sue amiche le
intimavano di stare attenta.
Jeremy Pherson non le badava affatto, stava con i gomiti posati sul
bancone del chiosco e aspettava la sua ordinazione, mentre uno dei suoi amici
gli tirava un dread.
Elizabeth le diede una gomitata, riscuotendola da quella fase di
trance. Sapeva a cosa la sua amica stava alludendo; se Jane si fosse accorta
del fatto che lei stava fissando Jeremy, tutte le sue speranze di non essere
giudicata sarebbero andate alla deriva.
Le tre si sedettero ad un tavolo e presero a mangiare il gelato,
commentando di tanto in tanto l’abbigliamento di qualcuno che passava di lì o
gli schiamazzi delle ragazzine che civettavano con i loro amichetti cercando di
attirare l’attenzione di tutti i presenti.
Non mancarono i doppi sensi, essendo Jane conosciuta per la sua
malizia; riusciva a trovare qualcosa di sconcio in ogni frase, ecco perché ad
un certo punto si guardò intorno e bisbigliò:
“Non mi piace mangiare il gelato davanti a tutta questa gente.
Sembra che sto facendo altro!”
Grace per poco non sputò un pezzo di cono. Riuscì a mandarlo giù,
poi rise, mentre Elizabeth fulminava l’altra con lo sguardo.
“E’ vero!”
“Sì, certo. Sei tu che pensi sempre male!” commentò Grace, cercando
di non far trapelare la curiosità nel sapere dove diamine si fosse cacciato
Jeremy.
Una volta finito di mangiare, decisero di spostarsi in un’altra
zona del parco, optando per una panchina di cemento che si trovava sotto la
protezione di enormi pini ammassati l’uno all’altro.
Mentre si dirigevano verso quel luogo, passarono accanto ad un
albero solitario.
“Sai,” attaccò Grace, camminando al fianco di Jane, mentre la terza
ragazza si trovava alcuni passi più avanti a loro, “ieri stavo camminando e ho
sbat… AHHH!!!!” gridò, sentendosi sprofondare.
“Grace!”
“Ma che cazzo…” Si accorse di essere quasi caduta dentro un fosso
che si era formato attorno all’albero. Si precipitò verso Elizabeth, con il
respiro affannato e il cuore a mille dallo spavento. Le si aggrappò alle spalle
e cercò di balbettare qualcosa.
Possibile che Elizabeth non si fosse accorta di niente?
“M-mi… so-s-sono sp-pa…”
“Oh, mollami! Mi stai facendo male!” si lamentò Elizabeth, cercando
di scrollarsela via.
Grace aumentò la presa, mentre Jane le raggiungeva, ridendo.
“Mi… mi sono spaventata!” riuscì a concludere Grace, lasciando
andare l’amica.
“Ma cosa è successo?” domandò lei, guardando le due amiche con aria
interrogativa.
“Stavo per cadere dentro a quella buca! Dio, che figura di merda!”
Elizabeth scoppiò a ridere. “Altrimenti non saresti tu. Oh,
sediamoci là!” Indicò una panchina e vi si diresse, con le altre al seguito.
Non appena fu seduta, Grace pensò che probabilmente tutto il parco
aveva assistito alla sua figuraccia, Jeremy Pherson compreso. Non poteva
sopportare di fare sempre certe gaffes, specialmente in luoghi così affollati.
Possibile che non fosse per niente in grado di guardare dove metteva i piedi?
Be’, no. Sotto la coltre di quei dannati pini c’era talmente buio che spesso
aveva bisogno dell’aiuto delle sue amiche per potersi spostare.
Diede un calcio ad Elizabeth, cercando di farle capire che voleva
sapere qualcosa su Jeremy.
Jane prese a fare battute sconce, mentre le sue amiche ridevano
divertite e Grace le mollava qualche schiaffo sul braccio, come per ammonirla.
“Sai, Jane, ad Elizabeth piace Jeremy Pherson!” scherzò ad un certo
punto Grace, scoppiando a ridere.
Voleva parlare di quel ragazzo, ma senza dire chiaramente che
l’interesse fosse suo.
“Non è vero!” La diretta interessata la fulminò con lo sguardo.
“Sì, invece.”
“Grace, smettila!”
“Davvero ti piace? Dai, non è male! Io ti ci vedo insieme a lui”
fece Jane, ridendo nel vedere l’espressione contrariata di Elizabeth.
“No, Jane, non mi piace. Lasciala dire.”
“Ma zitta! Sai, il tuo ragazzo prima mi ha detto che ho un
bernocolo sulla fronte! Con che razza di persona ti sei messa? Con uno che si
diverte a ridere delle disgrazie altrui! Vergognati!” Grace si stava divertendo
un mondo a prendere in giro Elizabeth.
Lei, tuttavia, non sembrava dello stesso parere. “Sei ancora in
tempo per stare zitta, altrimenti parlo io e ti lascio immaginare cosa
succederà” la minacciò la ragazza, con tono estremamente serio.
“Io non ci sto capendo niente!” esclamò Jane, facendo spallucce.
“Non lo faresti mai” disse Grace, ridendo.
“Tu credi?” Elizabeth pareva seriamente infastidita dal
comportamento della sua amica, e la fulminò, trucidandola con gli occhi.
“Piantala.”
Jane, che si era accorta di quanto la situazione stesse
degenerando, rise e cambiò magistralmente argomento, tornando a doppiosensare
apertamente.
Grace lasciò perdere.
Il tempo trascorse velocemente. Elizabeth e Grace decisero di
accompagnare Jane a casa.
Mentre uscivano dal parco, quest’ultima schiacciò una gomma da
masticare con l’infradito e imprecò.
“No, anche oggi! E’ già la terza volta che mi succede nel giro di due
giorni! Porca puttana!” E si esaminò sotto la suola, contorcendosi per riuscire
a vedere al di sotto della scarpa senza sfilarsela.
Grace ed Elizabeth risero.
“Che sfiga!” Jane sbuffò.
“Dai, casa tua non è lontana. Andiamo, appena arrivi la pulisci” la
incitò Elizabeth, incamminandosi.
Durante il breve tragitto, Grace si rese conto di non aver più
visto Jeremy Pherson. Questo fatto, tuttavia, non le dispiacque. Aveva vergogna
di farsi vedere da lui dopo tutte le figuracce di quegli ultimi giorni, perciò
fu stranamente sollevata di poter tornare a casa senza incontrarlo.
Presto per Jane fu ora di separarsi dalle sue amiche. Le salutò
frettolosamente e ricordò a Grace che il giorno seguente sarebbe stato il
compleanno di Denise.
Poi Elizabeth e Grace ripresero a camminare.
“Ce l’hai con me per prima, Lizzie?”
“No, Grace. Semplicemente sai che mi dà fastidio quando scherzi su
certe cose.”
“Sì, ma stavi per dire a Jane quello che non deve assolutamente
sapere!” sbottò Grace, senza voltarsi verso la sua amica.
“Quando mi girano i cinque minuti, sai che sono capace di tutto. La
mia bocca non dà retta al cervello.”
L’altra sbuffò e si zittì, sentendosi sì dispiaciuta, ma anche
delusa dal fatto che Elizabeth avrebbe raccontato tutto a Jane a causa di una
cosa così banale. Be’, forse per lei poteva esserlo, ma non per Elizabeth.
Particolare com’era, bisognava capire quando era il momento di non scherzare
più. Okay, era vero, Grace aveva esagerato. Ma c’era bisogno di prendersela
tanto? Sbagliare era umano, no?
In silenzio, andarono dritte a casa di Grace, fermandosi soltanto
per sedersi nella solita piazzetta.
Quando Grace rimase sola a casa, si sentì triste per come si era
conclusa la serata. Non voleva che la situazione con Elizabeth si raffreddasse
in quel modo, ma era stato inevitabile.
In più, Jeremy Pherson si era comportato come un cretino e questo
non riusciva proprio ad accettarlo e a spiegarselo. Il giorno precedente le si
era avvicinato dopo averla vista sbattere contro quel dannato palo, e ora la
prendeva deliberatamente per il culo.
Di una cosa fu certa Grace, quando uscì con Elizabeth il martedì
successivo: doveva fare qualcosa per sapere cosa diamine passava per la mente
di quell’idiota di Jeremy Pherson.
Mentre si preparava per incontrare la sua amica, le venne da ridere
nel ripensare alla faccia che aveva fatto Denise quando lei e Jane le avevano
consegnato il famoso libro che tanto desiderava. La festeggiata aveva
spalancato occhi e bocca e aveva stretto il volumetto tra le mani, continuando
a ripetere che le due erano pazze, che non avrebbero dovuto spendere dei soldi
per lei e altre baggianate che lei e Jane avevano deliberatamente ignorato,
felici di averle potuto fare un bel regalo. La giornata era trascorsa
tranquillamente, Grace era stata invitata a mangiare la torta da loro e avevano
fatto un sacco di foto sceme in cui compariva anche il fidanzato di Denise.
Così Grace sorrise, mentre decideva che maglia indossare per
uscire. Infine optò per una t-shirt nera dei Manowar che una sua cara amica le
aveva dipinto, scrivendo sul davanti il nome della band, mentre nella parte
posteriore spiccava il titolo di una loro canzone, ossia ‘Loki God of Fire’.
Legò i capelli in una coda di cavallo, si passò i palmi delle mani
sui pantaloni in cotone nero, indosso un paio di infradito nere, lavò i denti
e, proprio in quel momento, il campanello suonò.
Corse ad aprire e si ritrovò di fronte un’Elizabeth sorridente,
vestita completamente di nero.
“Pronta?” le chiese l’amica.
Grace rispose: “Sì. Prendo la borsa.”
Intanto in casa – grazie al padre della ragazza – si diffondevano
le note di qualche canzone dei Dire Straits e Grace, mentre usciva,
canticchiava a bocca chiusa, sotto lo sguardo divertito della sua amica.
“Papà, io esco! Ciao!”
E le due si avviarono.
“Lizzie, devo assolutamente fare qualcosa!” sbottò Grace, cercando
di non gridare.
“Mmh?” disse l’altra, mentre sembrava essere appena caduta dalle
nuvole. Infatti, non era granché attenta al discorso della sua amica, impegnata
com’era ad infilarsi un orecchino. “Non ho fatto in tempo a metterli prima di
uscire, era tardi” spiegò, dopo aver finito.
“Tu sei pazza!” Grace rise. “Dicevo…”
“Ah, cos’è che vuoi fare?”
“Ecco. Devo assolutamente fare qualcosa. Jeremy Pherson non deve
passarla liscia!” grugnì.
“Sei fissata secondo me” osservò Elizabeth, sistemandosi la sua
borsetta Guess sulla spalla.
“Sì, certo, come no! Ti ricordo che venerdì, mentre tu eri impalata
a fissare i gelati, lui mi ha deliberatamente preso per i fondelli insieme ai
suoi amichetti!” gridò Grace, toccandosi istintivamente l’ematoma che pian
piano stava guarendo al centro della sua fronte.
“Ma fregatene.”
“Ah, Lizzie. Vedrai cosa gli faccio!” Detto questo, la ragazza
ghignò sadicamente e seguì l’amica verso il parco.
Prima di oltrepassare il cancello, Elizabeth si bloccò di botto e
si inchinò. “Ho trovato cinquanta centesimi, yeah!” esultò, sventolando la
monetina per aria.
Grace le scoppiò a ridere in faccia. “Sempre la solita fortunata!
Io di certo non ne posso trovare” borbottò, incrociando le braccia sul petto.
“Dai, andiamo!” incitò l’altra, trascinandola in direzione del
solito chiosco.
Grace si riscosse e si ricordò quello che aveva in mente di fare
con Jeremy Pherson.
Una volta in prossimità del bar, la ragazza notò una figura alta
dai capelli scuri che torreggiava vicino al bancone.
Era lui, doveva essere lui.
“Grace, cosa…” sibilò Elizabeth, vedendo la sua amica camminare a
passo spedito in direzione di quel ragazzo, imbufalita e colma di
determinazione. “Oh, no!” aggiunse, battendosi una mano sulla fronte.
“Ehilà!” disse Grace, fermandosi alle spalle di Jeremy.
Lui si voltò e sorrise. “Guarda un po’ chi si rivede. Ciao Gracie”
disse, scatenando la furia della ragazza. Gracie. L’aveva chiamata Gracie,
proprio come era solito fare quando erano piccoli. Eppure, se a quei tempi
prendeva con filosofia il fatto di essere appellata in quel modo orribile, ora
stava ribollendo di rabbia nel sentire la risata divertita di quel ragazzo,
mentre continuava a guardarla dall’alto del suo mentro e ottantacinque.
“Grace, si può sapere cosa ti pa…”
“Zitta!”
Elizabeth, che l’aveva raggiunta poco prima con l’intenzione di
calmarla, ammutolì sentendo il tono pressoché isterico di Grace.
“Jeremy, stammi bene a sentire! Non sopporto le persone come te,
quelle che ridono delle disgrazie altrui. Capito?” La voce della ragazza, mentre
pronunciava quelle semplici parole, si venò di una nota di disperazione, come
se ciò che aveva appena esternato fosse questione di vita o di morte.
E forse era proprio così.
Il ragazzo la guardò con un’espressione strana e indecifrabile, poi
rise. “No, sul serio, non sei cambiata di una virgola. Sempre la solita
permalosa!”
“Permalosa io? Sei tu che sei ambiguo, proprio com’eri anni fa!”
Grace era fuori di sé e non le importava minimamente che qualcuno potesse
sentirla mentre sbraitava.
“Ah, Gracie! Datti una calmata, su. Te la prendi per niente.”
“Non me la sto prendendo per niente, Jeremy! Ho per caso scelto io
di non vedere quel dannatissimo palo?” Mentra parlava, calde lacrime avevano
preso a scenderle lungo le guance. In quel momento si rese conto che era stato
il fatto che lui l’avesse derisa ad averla ferita, non l’‘incidente’ in sé.
“Grace, calmati!” le disse Elizabeth, afferrandola per un braccio.
Jeremy si fece improvvisamente serio e rimase immobile a fissare
Grace.
La ragazza si passò le mani sulle guance e si asciugò le lacrime,
mentre nella sua mente fece capolino il pensiero che quel pianto le avesse
sporcato gli occhiali; poi sollevò nuovamente il viso. Fissò il ragazzo di
fronte a lei ma non gli parlò. Infatti, si rivolse alla sua amica. “Andiamo a
comprarci un gelato, Lizzie. Ti va?” E si voltò per sorriderle. O almeno ci
provò, poiché il risultato fu un debole piegamento degli angoli della bocca
all’insù.
Elizabeth spostò il suo sguardo da Grace a Jeremy, come se stesse
cercando di capire se tutto quel disastro fosse accaduto sul serio o se fosse
il caso che visitasse uno specialista a causa delle allucinazioni.
“Lizzie?”
“Eh? Ah, sì, ehm…” La ragazza parve cadere ancora una volta dalle
nuvole. Quel giorno sembrava avere la testa da un’altra parte.
“Andiamo?” ripeté Grace, spazientita. Voleva andarsene il prima
possibile, lasciarsi Jeremy Pherson alle spalle, così come ciò che era appena
accaduto tra loro. Come poteva aver permesso a se stessa di commettere un
simile errore? Come poteva essersi lasciata andare alle lacrime proprio in
mezzo a tutte le persone che popolavano il parco?
Be’, non le importava. Voleva soltanto affogarsi con un gelato
enorme e sperare che un giorno avrebbe riso di tutta quell’intricata faccenda.
“Sì, sì! Allora, cosa prendi?”
Grace si avvicinò al bancone, superando deliberatamente il ragazzo
che fino a poco prima aveva fissato con odio. “Salve. Vorrei un cono maxi al
cioccolato” ordinò alla donna che aveva assistito inebetita al suo breve
scambio di battute con Jeremy.
“Perfetto” si riscosse la barista. “Altro?”
“Sì, per me una granita al limone” intervenne Elizabeth, frugando
nella Guess, per poi estrarre il borsellino.
Le due ragazze ricevettero le ordinazioni e se ne andarono,
lasciando Jeremy Pherson impalato e senza più niente da dire.
Si andarono a sedere al solito tavolino di plastica e presero a
consumare il loro ‘pasto’.
“Attenta Grace, ti sgo…”
Elizabeth non fece in tempo a finire di parlare, che un’enorme
goccia di cioccolato si schiantò contro la superfice rossastra del tavolo.
“Ops!” esclamò Grace, sorridendo all’idea che non si fosse
sporcata. “Lo sapevo, non avrei dovuto prendere il gelato sfuso” borbottò,
cercando di tirar fuori dalla borsa qualcosa che potesse assorbire la macchia
di gelato. “Mi aiuti?” domandò, rivolgendo un’occhiata ad Elizabeth.
“Sì, certo.” L’amica estrasse una confezione di salviette
umidificate e ne utilizzò una per ripulire il tavolo. “Ecco fatto!”
“Grazie.”
Tra le due ripiombò il silenzio.
“Ma come si è permesso di chiamarmi Gracie?”
Elizabeth sobbalzò sulla sedia, tossicchiando mentre la granita le
andava di traverso.
“Sì, Lizzie! Mi spieghi come ha potuto comportarsi così con me? E’
un emerito idiota!” proseguì Grace. Aveva appena finito di mangiare e si stava
occupando di passarsi una salvietta sulle mani e sul muso.
“Ma che ne so!” fece l’altra, tra un sussulto e l’altro.
“Che ti prende?”
“Mi è andata di traverso questa roba!” esclamò, indicando il
bicchiere di plastica in cui era contenuto il suo ghiaccio all’aroma di limone.
Grace rise e sprofondò sulla sedia. Aveva così tanta voglia di
uccidere Jeremy Pherson che quasi riusciva a percepire un formicolio sui
polpastrelli, proprio come accadeva quando la voglia di scrivere e buttar giù i
suoi pensieri e le sue idee prendeva il soppravvento.
Deveva resistere.
Non poteva permettersi di dargli alcuna soddisfazione, non ora che
lui l’aveva vista piangere e umiliarsi a quel modo. Alle volte aveva
l’impressione di essere aliena in quel mondo dove tutti credevano di sapere
cosa significasse essere limitati come lei, anche se in genere non se ne faceva
un problema. Eppure, si rese conto che era stato inevitabile far notare a quel
ragazzo che non aveva sbattuto sul palo perché era masochista, ma proprio
perché non lo aveva visto e non poteva farci proprio niente.
Grace si sistemò gli occhiali sul naso e notò che Elizabeth aveva
appena finito di bere la sua granita.
“Andiamo a passeggiare?” chiese Grace, controllando che tutti i
suoi averi fossero all’interno della borsa.
“Andiamo” acconsentì l’altra, alzandosi.
Le due si avviarono all’uscita del parco, mentre l’oscurità
cominciava ad avanzare e a rubare il posto della luce.
Poco prima che le due potessero oltrepassare il cancello di ferro
nero, Jeremy Pherson si parò di fronte a Grace.
“Ah!” gridò lei, balzando all’indietro. “Ti sei fumato il
cervello?”
Elizabeth rimase immobile ad elaborare la scena, con un’espressione
sorpresa dipinta sul viso rotondetto.
“No. Volevo soltanto parlare con te.”
“Ci siamo già detti tutto. Spostati, io e Lizzie dobbiamo andare.”
Grace avanzò, sperando vivamente di non inciampare.
“Ascolta, Gracie…”
“Non mi chiamare Gracie! E levati dalle palle, grazie.” Detto
questo, la ragazza lo oltrepassò e se ne andò.
Elizabeth la seguì a ruota, intimandole di aspettarla.
“Non posso aspettare, quel mentecatto ha oltrepassato ogni limite!”
“Sì ma calmati! Oggi non fai altro che sbraitare! Se ci pensi quel
ragazzo non ha fatto niente di male. Sei tu che ne stai facendo un affare di
stato, lasciatelo dire.”
Grace piantò i piedi a terra e si voltò. “Cosa? No! Insomma,
capisci che mi ha ferito il suo comportamento? Che bisogno aveva di prendermi
per il culo?”
Elizabeth si guardò intorno, allarmata. “Abbassa la voce, Grace,
per favore. E comunque sai che è fatto così, cosa vuoi farci? Sembra che la tua
vita dipenda da questa stronzata adesso!”
L’altra ragazza sospirò. “Non hai capito un cazzo.”
“Ah, no? A me pare che sia tu quella dura di comprendonio. Suvvia,
non c’è bisogno di scaldarsi tanto per qualche battutina” minimizzò Elizabeth,
esasperata.
“Senti, sono stanca di essere trattata come una menomata soltanto
perché ho un problema agli occhi! Sono così, e allora? Il mio cervello
funziona, pensa, elabora, ragiona, crea. Possibile che sia soltanto io ad
accorgermene? A questo punto mi chiedo se stia peccando di modestia.”
“No, Grace, anche io lo penso. Ma è proprio perché ti ritengo una
persona intelligente che ti dico che dovresti essere superiore a queste
provocazioni. Non parlo soltanto di Jeremy Pherson, ma in generale. Se avrai
ancora questo temperamento, guadagnerai poco e niente nel corso della tua vita.
Pensaci.” Elizabeth sbuffò. “Adesso andiamo, si sta facendo tardi.”
Le due ripresero a camminare.
Grace si era ammutolita, mentre il suo cervello snocciolava ogni
singola parola pronunciata dalla sua amica. Elizabeth aveva ragione. Non
avrebbe mai dovuto rispondere malamente a Jeremy, era certa che sarebbe bastato
ignorarlo o semplicemente lanciargli qualche frecciatina sarcastica per
rimetterlo al suo posto.
Eppure non ci aveva pensato, era stata così accecata dalla rabbia,
dalla frustrazione e dalla delusione, che aveva agito d’impulso,
infischiandosene di qualsiasi conseguenza annessa e connessa.
Il suo stomaco si contorse a causa di tutto il nervosismo che si
portava dentro.
Mentre salutava Elizabeth, che l’aveva accompagnata fino a casa
come al solito, si ritrovò a pensare che la aspettava una nottata difficile a
dialogare con il wc e i suoi sensi di colpa.
Grace sospirò, il giorno dopo, mentre usciva di casa per passare a
prendere Elizabeth. Avevano deciso di uscire e questo significava, quasi
sicuramente, rivedere Jeremy Pherson. Non era pronta, non riusciva a
capacitarsi del fatto che lo avesse trattato così male e non avesse invece
ignorato le sue provocazioni, presa com’era dalla sua rabbia e dalla sua
frustrazione.
Ma ora era diverso, ora aveva capito tutto e doveva soltanto fare
in modo di non combinarne un’altra delle sue.
Sapeva di essere un po’ distratta e maldestra, però non era poi
così irrecuperabile, no?
Scaccio quei pensieri e passeggiò allegramente in direzione di casa
Carlsson, con le cuffie alle orecchie. Per giungere alla sua meta fu costretta
a passare sotto casa di Jeremy e questo la rese un po’ nervosa, poiché temeva
di ritrovarselo davanti e non era quello il momento adatto per affrontarlo,
vista l’assenza di Elizabeth.
Per fortuna tutto filò liscio e Grace fu felice di trovare la sua
amica fuori ad aspettarla.
“Andiamo?”
Grace annuì e le due si incamminarono in direzione del parco – come
al solito.
Quel giorno nessuna delle due aveva fame, perciò Grace acquistò una
bottiglietta d’acqua e si andarono a sedere ad uno dei soliti tavoli di
plastica, stavolta nera.
“Allora, ti sei calmata?” chiese Elizabeth, sbadigliando.
“Sonno?” Grace ridacchiò. “Comunque sì, abbastanza. So di aver
sbagliato, avevi ragione.”
“Lo so, io ho sempre ragione!” fece finta di vantarsi l’altra, con
un sorrisetto compiaciuto stampato sul viso.
“Ma piantala!”
Poi Grace, dopo un po’ di silenzio, prese a canticchiare una
canzone di Eddy Grant ed Elizabeth la fulminò con gli occhi.
“I don’t wanna dance, dance with you baby no more”* intonò Grace,
muovendo le braccia al tempo della musica che ben conosceva.
“Ma cosa diamine stai cantando?” Elizabeth la osservò con
espressione esasperata.
“Eddy Grant, non lo conosci?”
“No. Chi è?”
“È fantastico, ma secondo me qualche canzone la conosci!” Grace
assunse un’aria pensierosa.
L’amica sbadigliò ancora.
“I can’t get enough of
you, I can’t get enough of love, I can’t get get enough of you, I can’t get
enough of your love.”** Grace ormai era partita in quarta a cantare
tutte le canzoni che conosceva dell’artista in questione e non c’era verso di
placarla.
“Bene, fai anche il concertino ora?!”
“Certo!”
“La prossima volta avvisami che ti organizzo un tour per tutto il
Messico, almeno non dovrò più sentirti cantare per un bel po’!” Elizabeth
sorrise.
“Sei sempre la solita rompipalle, possibile che tu abbia sempre da
lamentarti?”
“Sì! Oh, basta. Mi è venuta fame. Tu vuoi qualcosa?” fece
Elizabeth, alzandosi, mentre estraeva il borsellino dalla sua borsetta in jeans.
“Mmh… no, grazie.”
L’altra annuì e si diresse al chiosco.
Grace si rilassò sulla sedia e controllò se le fosse arrivato
qualche messaggio o se qualcuno l’avesse chiamata, ma trovò soltanto lo sfondo
che ritraeva il tipico simbolo dei Dimmu Borgir e l’orario che segnava le 18 e…
“Ehi, Gracie. Come stai oggi? Ti è passato?”
La ragazza per poco non cacciò un grido, tanta fu la sorpresa di
ritrovarsi Jeremy Pherson alle spalle che le sussurrava queste parole
all’orecchio.
Si voltò in direzione del ragazzo, che nel frattempo aveva
raddrizzato la schiena e la osservava dall’alto in basso con aria divertita.
“Tu!” sibilò Grace, puntandogli contro l’indice della mano destra.
“Mi hai fatto prendere un colpo!”
“Sono così brutto? Magari sono i miei capelli a spaventarti” disse
lui, ironico, indicando la chioma di dreadlocks che teneva intrappolata in
un’intricata crocchia.
“Ma smettila, non ho certi pregiudizi, figuriamoci” borbottò lei,
abbassando lo sguardo.
“Lo so, sciocca. Allora, come stai?”
Grace respirò profondamente. “Bene, grazie, benissimo. E tu, tutto
a posto?”
“Non finché non mi avrai concesso di parlarti” fece Jeremy, con un
sorriso.
Oh, no, sul serio voleva dirle qualcosa? Allora il giorno
precedente non scherzava, quando le aveva detto che avrebbe voluto spiegarle le
sue ragioni.
E adesso?
Perché Elizabeth non tornava ancora?
E perché se n’era andata proprio nel momento meno opportuno?
O forse…
Forse era stato lui ad approfittare dell’assenza della sua amica
per avvicinarsi.
Sì, doveva essere quella l’unica spiegazione plausibile.
“Adesso?” si lasciò sfuggire Grace, guardandosi nervosamente
attorno.
“Non necessariamente.” Jeremy spostò i suoi occhi in direzione del
bar. “La tua amica sta arrivando, non temere. Non ti mangio, Gracie.”
“Poi mi spieghi perché continui a chiamarmi in quel modo orribile,
eh?”
“Sì, ti spiegherò quello che vuoi.” Il ragazzo sorrise e salutò un
gruppo di ragazzi che stava passando.
Dovevano essere i suoi amici, pensò Grace, se ne stava già per
andare…
O meglio dire, finalmente.
“Ci vediamo dopo? So che per rientrare a casa tua, passi nella mia
strada, anche se non abiti più in zona. Ti aspetto sotto casa mia.”
Grace lo guardò allibita. “Sei fuori di testa?”
Jeremy le restituì lo sguardo. “Perché?”
“E io come dovrei rientrare a casa, scusa?”
“Che domande sono?”
Grace sbuffò. “Hai per caso dimenticato che quando fa buio…”
“Ah, già! Per chi mi hai preso?” Parve offendersi.
“Okay, scusa, mister love & peace!”
Mister love & peace?! Ma cosa cazzo le veniva in mente? Si
sentì una stupida, una cretina patentata di prima categoria.
Jeremy rise. “Ora anche tu hai qualcosa da spiegarmi.” E se ne
andò, correndo in direzione dei suoi amici.
La ragazza rimase sbigottita a fissare un punto indefinito davanti
a sé.
Che faccia tosta, quel ragazzo!
Intanto, Elizabeth tornò a sedersi al tavolo, stringendo un
pacchetto di patatine. “C’era un ragazzo che faceva la lista della spesa, non
riusciva a decidere se comprare un certo alcolico o un altro, nomi che non sono
riuscita a decifrare perché parlava in maniera incomprensibile, doveva essere
già sbronzo, ma… Grace? Mi stai as…” Si bloccò con il sacchetto a mezz’aria,
posando per la prima volta gli occhi sul viso della sua amica che ancora
vegetava in una strana catalessi che pareva impossibile da distruggere e
penetrare.
Grace annuì impercettibilmente, poi sussurrò: “Lizzie.”
“Che succede?” domandò l’altra, cominciando a preoccuparsi.
“Jeremy Pherson” mormorò Grace, venendo scossa da un brivido di
consapevolezza, come se lui avesse appena sussurrato al suo orecchio.
Un attimo…
Jeremy Pherson aveva davvero sussurr…
“OH MIO DIO!” gridò improvvisamente, balzando in piedi e portandosi
le mani sui capelli.
Elizabeth sobbalzò e lasciò cadere le patatine sul tavolo, facendo
sì che gran parte di esse si riversasse sulla superficie plastificata. “Ma che
ti prende? Cos’ha combinato quel ragazzo di grave, stavolta?” le chiese
Elizabeth, disegnando in aria le virgolette mentre pronunciava la parola
‘grave’. Poi si rese conto di aver disperso una parte della sua merenda e
imprecò.
Grace cercò di riprendere aria un paio di volte, poi tornò a
sistemarsi sulla sedia, posando i gomiti sul tavolo e il mento sui palmi delle
mani. “Okay, scusa. Mi ha detto che vuole parlarmi e mi ha dato appuntamento
sotto casa sua più tardi.”
“Davvero?”
“Sì, davvero.” Grace sorrise.
“Sì, ma la prossima volta non reagire così, altrimenti finisce che
ti ricoverano al Centro d’Igene Mentale. Deve averti sentito anche Jeremy,
anche se è dall’altra parte del parco.” Elizabeth afferrò il pacchetto di
patatine e prese a mangiare ciò che rimaneva. “Vuoi?”
“No. Ma sul serio ho gridato tanto?”
“No, macché!” fece l’amica, sarcastica. “Cose che dicono!”
“Chissà che cos’ha da dirmi. Ah! Sai che mi ha spaventato? È venuto
a sussurrarmi all’orecchio, cogliendomi di sorpresa!”
Elizabeth rise.
“Non ridere!” Grace le diede una manata sul braccio.
Così, la serata trascorse tra risate, passeggiate e un po’ di ansia
da parte di Grace.
Mentre si avviavano verso casa Pherson, Elizabeth parve illuminarsi
e domandò: “Ma devo rimanere anche io? Altrimenti come fai a rientrare a casa?”
Grace fece spallucce. “Mi ha fatto intendere che mi accompagnerà
lui.”
“Ah, addirittura? Ma pensa te, chi l’avrebbe mai detto!”
“Già!”
Le due svoltarono l’angolo e si inoltrarono nella via in cui
abitavano i Carlsson e i Pherson.
“Ci siamo” mormorò Grace, per poi canticchiare nervosamente una
canzone di Eddy Grant. Si rese conto di avere la fissa per quel cantante, cosa
abbastanza normale da parte sua. Ogni giorno ce n’era uno nuovo da canticchiare
e ascoltare a ripetizione fino allo sfinimento, suo e soprattutto della povera
Elizabeth.
“Oh, è già là ad aspettarti.”
“Caspita!” esclamò Grace, sentendo la gola seccarsi e il cuore
accelerare i suoi battiti.
Era giunta l’ora della verità, doveva farsene una ragione e
affrontare a testa alta quella situazione.
“Gracie, sei venuta” disse Jeremy, facendo un passo avanti.
“Ciao!” lo salutò Elizabeth, sorridendo.
“Ciao.”
“Allora, la posso affidare a te? Attento a cosa fai, se le dovesse
succedere qualcosa, te la vedrai con me! Non scherzo, so dove abiti” ghignò
Elizabeth con un tono tra il minaccioso e l’ironico, accennando alla casa del
ragazzo.
Grace scoppiò a ridere. “Ecco, ho la guardia del corpo, per
intenderci.”
Il ragazzo ridacchiò e strinse la mano di Grace. “Tranquilla, ci
penso io.”
“Allora, vi lascio. Grace, ci sentiamo dopo?”
Grace, ancora sotto shock per il contatto con Jeremy, annuì.
“Bene, allora ciao!” concluse Elizabeth, girando i tacchi e
dirigendosi verso casa sua.
“Veniamo a noi” disse Jeremy e prese a camminare, trascinandosi
dietro la ragazza.
Jeremy e Grace camminarono per circa cinque minuti e raggiunsero un
piccolo parchetto diroccato situato accanto alla scuola superiore che entrambi
avevano frequentato. Quando il ragazzo si fermò, Grace sobbalzò. Non riusciva
più a vedere niente, distingueva solamente la luce che veniva irradiata dai
lampioni e i fari delle macchine che, di tanto in tanto, le passavano accanto.
“Ci sediamo?” domandò lui, guardandola come per cercare di
comprendere il visus che la ragazza percepiva in quel momento.
“Oh, sì, certo.” Grace era nervosa, non riusciva ancora a credere
al fatto che stesse succedendo davvero. Parlare con Jeremy Pherson era stato un
pallino che le martellava i pensieri da anni, tornato a farsi sentire
particolarmente in quell’ultimo periodo, e ora tutto stava diventando realtà.
Il ragazzo si avviò con lei ad una panchina e la aiutò a prendere
posto, poi si accomodò al suo fianco e disse: “Dopo ti riaccompagno a casa in
bici, ti va?”
“In bici? Sei matto!”
“No, affatto. Sarà divertente. Ci sei mai andata al buio?”
Grace fisso l’oscurità davanti a sé. “Be’, no” rispose.
Jeremy ridacchiò. “C’è sempre una prima volta per tutto.”
Lei non disse nulla e sperò che lui si decidesse a dirle ciò che
aveva in mente. Non riusciva minimamente a prendere uno straccio d’iniziativa,
si sentiva agitata e in preda ad un’ansia terribile.
“Gracie, ops… scusa, Grace…”
“Ti conviene” puntualizzò lei, in tono acido.
“Pardon. Grace, volevo dirti che mi dispiace di averti ferito, so
che non è colpa tua se hai preso quel palo in faccia.”
“Allora perché l’hai fatto?” Grace si agitò sulla panchina.
“Perché alcune volte sono un deficiente, lo so” ammise lui, con lo
sguardo basso.
La ragazza non poteva vederlo, ma percepiva nel suo tono di voce
una nota di tristezza, come se fosse realmente amareggiato da se stesso. Così,
si zittì e avvertì un’improvvisa voglia di piangere, come se quella semplice
inclinazione di tonalità l’avesse disarmata e commossa.
“Tu volevi dirmi qualcosa? Ti sei agitata nel rivedermi, me ne sono
reso conto.”
Grace si lasciò sfuggire un sibilo, come se improvvisamente la
consapevolezza di avergli rivelato troppe cose attraverso il suo comportamento
l’avesse schiaffeggiata brutalmente. Che stupida era stata, Jeremy non era di
certo uno sprovveduto, anzi, era intelligente e perspicace e soltanto in quel
momento lei fu costretta a rendersene conto e a ricordarsene.
La ragazza annuì impercettibilmente. “Non mi aspettavo che
rivederti mi facesse un effetto così… strano. Improvvisamente ho capito che
abbiamo sprecato un sacco di anni ad ignorarci a causa di una stronzata e mi
sono sentita in colpa.” Mentre parlava, si meravigliava sempre più del modo in
cui stesse riuscendo a dirgli quelle cose.
Jeremy sorrise. “Eravamo dei bambini.”
“Ora non lo siamo più” osservò Grace.
“Tu lo sei, Gracie” scherzò lui.
“Senti chi parla.”
I due risero insieme.
“Perché ti ostini a chiamarmi Gracie? Sul serio, Jemy, è orribile!”
Lui fece spallucce, in maniera istintiva. “È carino, invece. Poi mi
ricorda i vecchi tempi, ti si addice, non so” spiegò, per poi prendere a
frugarsi in tasca.
“Capirai… carinissimo, direi” fece lei, ironica.
“Ti da fastidio se fumo?” domandò Jeremy, estraendo un pacchetto di
sigarette e un accendino.
“Nah, fai pure. Se mi intossichi, ti uccido.”
“Mi alzo.” Si mise in piedi di fronte a lei e prese a rovinarsi i
polmoni con catrame, nicotina, tabacco e qualsiasi altra schifezza presente in
quell’affare che teneva in mano.
“Spiegami la storia di ‘Mister love & peace’, sono curioso.”
Grace rise. “Ma sì, lo sai, per la musica che ascolti, era una
stronzata.”
“Ah, ecco. Geniale. Be’, a te non piace?”
Grace si sentì confusa. “Cosa?”
“La musica che ascolto.”
“Domanda idiota del giorno, eh? Lo ascoltavo da prima di te, caro,
lo sai.”
Jeremy annuì. “Lo so, ma con il passare del tempo le persone
cambiano gusti, preferenze… cambiano e basta.”
“Hai ragione, ma per me il reggae è una fonte inesauribile di
ricordi legati alla mia infanzia, come potrei ripudiarlo? Poi mi mette
allegria.” Sorrise, orgogliosa di quella sua passione.
“Anche a me fa quell’effetto, è una musica rilassante e pacifica,
come me” si pavoneggiò il ragazzo, gettando la cicca della sigaretta a terra e
schiacciandola con la punta della scarpa.
“Sì, certo. Allora avevo ragione a chiamarti in quel modo.”
Jeremy tornò a sedersi accanto a lei.
“Comunque non ascolto soltanto quel genere, ma anche questo puoi
ben immaginarlo” aggiunse lei, avvertendo la vicinanza dei loro corpi.
“Sì, anche per me è lo stesso.”
“Però stasera stavo cantando ad Elizabeth tutta la discografia di
Eddy Grant, quindi ti lascio immaginare la sua immensa gioia.”
Jeremy le diede una pacca sulla spalla. “Eddy Grant è un grande, la
tua amica dovrebbe essere fiera di avere qualcuno che canta le sue canzoni”
disse.
“Infatti, anche a lei piace, ma ti assicuro che sentirmi
canticchiare a ripetizione sempre gli stessi pezzi di canzone non è il massimo.
Povera Lizzie, non so se mi piacerebbe trovarmi al suo posto.”
Il ragazzo rise e lei lo seguì a ruota.
“Mi è mancato parlare con te, Gracie.”
Lei rise, imbarazzata. Non poteva credere minimamente a quanto le
stava accadento, era praticamente impossibile. Eppure, era così.
“Ancora con questo Gracie?!”
“Sì, abituati, è più forte di me.”
“Okay, permetterò soltanto a te di farlo, ma non provare a
divulgare quest’appellativo orripilante, potrei farti fuori mentre dormi” lo
minacciò lei, mollandogli un pugno sul braccio.
Lui si avvicinò e le avvolse le spalle con un braccio. “Okay, va
bene, aggiudicato.”
Grace si irrigidì per un istante, poi decise di rilassarsi – o
meglio, si costrinse a farlo – e posò la testa sulla spalla del ragazzo.
Chiuse gli occhi, stanca di vedere soltanto oscurità attorno a sé.
“Siamo amici?”
“Certo, lo siamo sempre stati, ci siamo soltanto persi,
erroneamente. L’importante è che ci siamo ritrovati. Ammetto che, se non fosse
stato per il modo in cui mi hai fatto capire che volevi avvicinarti a me,
probabilmente avrei continuato ad ignorarti.”
“Uh, carino” osservò lei, allontanandosi un po’ dal suo corpo.
Quelle parole non le piacquero affatto, nonostante fossero sincere.
“Non te la prendere, dai. È la verità. O preferisci che ti menta?
Sai che non ci riuscirei.”
“Hai ragione, scusa. Allora, devo ringraziare me stessa per tutto
questo. Non pensavo di essere così intelligente.”
“Ora siamo in due, a quanto pare.” Jeremy la strinse un po’ di più
a sé.
Rimasero in silenzio per un paio di minuti, poi Grace domandò: “Che
ore sono?”
Il ragazzo osservò il display del suo cellulare e rispose: “Quasi
le nove. Andiamo, se vuoi.”
“Sì, forse è il caso. Dopo cena devo uscire con Jane e gli altri,
non posso tardare” disse lei, scostandosi dal ragazzo e alzandosi.
Lui la raggiunse e le offrì il braccio per poterla aiutare.
“Prendiamo la bici e ti accompagno.”
“È necessario andarci con quell’affare?” borbottò la ragazza,
avvertendo una sottile ansia all’idea.
“Sì, lo è. Anche io ho da fare più tardi, cosa credi. A piedi ci
impiegherei troppo tempo per rientrare. E poi tu non sei mai andata in bici di
notte, perciò è un’esperienza che devi provare” concluse Jeremy, svoltando
nella sua strada.
“Se lo dici tu…”
Intanto i due raggiunsero la casa di lui, trovando la madre del
ragazzo che parlava con una vicina di casa.
“Ciao mamma.”
“Ah, sei tornato.” Poi la donna mise a fuoco Grace e le sorrise,
pur sapendo che lei non poteva cogliere quel suo gesto.
“Sì, ma prima devo riaccompagnare Gracie a casa sua.”
“Certo. Ciao Grace, come stai?” La madre di Jeremy le si avvicinò e
le stampo due baci sulle guance.
“Ciao. Tutto bene, grazie. Tu?”
“Benissimo, anche se le mie vacanze stanno per finire, purtroppo.”
Grace si accorse che Jeremy era entrato nel cortile della sua casa
a recuperare la bici. “Di già? Quando ripartite?”
“Dopodomani.”
Grace si sentì improvvisamente triste e abbattuta all’idea di
doversi già separare da quell’amico che aveva appena ritrovato dopo tanti anni.
“Capisco” sussurrò, abbassando lo sguardo che comunque non riusciva a farle
distinguere alcunché.
Nel frattempo, Jeremy le tornò accanto. “Eccomi.”
“Hai intenzione di portarla in bici con te?” chiese la madre del
ragazzo, con tono scettico.
“Sì, perché? Possibile che nessuno si fidi di me?” Sbuffò e si
sistemò sul sellino, prendendo Grace per mano e incitandola a sistemarsi sul
portapacchi.
“Va bene, ma stai attento” concluse la donna, per poi andarsene,
dopo aver salutato Grace.
“Non correre, ti prego!”
“Tieniti forte e rilassati, ti piacerà” le ordinò il ragazzo, per
poi partire velocemente a bordo del modesto mezzo di trasporto.
“Oh, sant’iddio, ho paura!” gridò Grace, stringendosi a lui e
affondando il viso contro la sua schiena. Stranamente, quel gesto le donò una
sicurezza tale da permetterle di rilassarsi contro il suo corpo.
Jeremy rise e le chiese di indicargli la via per casa sua, dal
momento che non era a conoscenza del suo nuovo indirizzo.
Il ragazzo rallentò un po’. “Tutto bene?”
“Sì.” Grace sospirò.
“Sicura?” Il ragazzo staccò una mano dal manubrio e accarezzò
quelle di lei che erano intrecciate all’altezza della sua pancia.
“Sì, cioè…” Grace si bloccò, indecisa sul da farsi. Aveva voglia di
dirgli che non voleva che lui se ne andasse proprio ora, ma allo stesso tempo
non era certa che fosse la cosa giusta da fare. Decise di parlare, poiché
spettava a lei far sapere alle persone che la circondavano quali erano i suoi
sentimenti, altrimenti nessuno sarebbe stato in grado di leggerle nel pensiero.
Così, prese il coraggio a quattro mani e disse: “È vero che
dopodomani ripartirai?”
“Sì, purtroppo è vero. Ti dispiace?”
“Sì.”
Calò il silenzio.
Nessuno dei due sapeva cosa dire, la verità era che non volevano
separarsi subito, non era ancora il momento, avevano anni e anni di distanza da
recuperare, non potevano permettersi ancora di rimanere lontani l’uno
dall’altro. Eppure, quella era la dura verità, non potevano farci niente e la
dovevano accettare, volente o nolente.
“Anche a me” riprese Jeremy, per poi fermarsi davanti a casa di
Grace.
La ragazza scosse il capo e scese dalla bici. “Grazie per il
passaggio, è stata un’esperienza meravigliosa.”
“Figurati, sapevo che ti sarebbe piaciuto, Gracie.”
A Grace pizzicarono gli occhi. Non era quello il momento di
salutarsi, vero? Avrebbero avuto un’altra occasione per stare insieme, sì?
Oppure dovevano dirsi nuovamente addio e lasciar trascorrere chissà quanto
tempo prima di poter trascorrere del tempo a parlare e scherzare?
“Jemy…”
“Ehi, che fai? Non piangere, non per me!” Il ragazzo le si avvicinò
e la strinse in un abbraccio, la prima vera dimostrazione d’affetto che le
avesse mai rivolto in tutta la vita.
La ragazza ricambiò la stretta e tirò su col naso. “Quindi non ci
rivedremo?”
“Chi l’ha detto?” Jeremy la scostò da sé e le arruffò i capelli.
“Domani ti va se ci vediamo?”
“Certo che sì!” esclamò lei, euforica. Poi divenne pensierosa e gli
chiese: “E i tuoi amici?”
“Li saluto domani notte, così avrò tutto il tempo per uscire con
te. Abbiamo una giornata davanti, vedrai, recupereremo un po’ di tempo. Sempre
meglio di niente, non trovi?”
“Oh, sì.” Grace tornò a stringersi a lui.
“Dai, ti accompagno alla porta” fece lui, tenendola stretta al suo
fianco.
Non appena giunsero a destinazione, lui disse: “Quindi stanotte
esci?”
“Sì, anche tu, vero?”
“Esatto.”
Grace ridacchiò. “Se mi vedi, vieni a salutarmi, altrimenti ti
ammazzo nel sonno” scherzò, con espressione divertita.
“Okay, okay! Ho paura adesso!”
Risero, poi Jeremy se ne andò, dandole appuntamento per il
pomeriggio seguente.
Non appena Grace si richiuse il portoncino alle spalle, ebbe
l’impulso di saltellare allegramente per tutta la casa, gridando dalla gioia,
ma si limitò a sorridere come un ebete e a scrivere un sms ad Elizabeth per
raccontarle ogni cosa.
Era fuori di sé dalla gioia, ma contemporaneamente la
consapevolezza di dover salutare troppo presto Jeremy le lasciava un perenne
senso di vuoto nel petto.
In ogni caso, decise di non pensare a questo, ora voleva soltanto
concentrarsi sul giorno seguente e non fare altro che divertirsi il più
possibile, in modo da conservare dei bei ricordi del suo nuovo – e vecchio –
amico.
Grace fu contenta di uscire con Jane e il resto del loro gruppo di
amici quella sera. Nonostante fosse consapevole del fatto che non era in grado
di distinguere le stesse cose che vedeva alla luce del sole, non rinunciava mai
a trascorrere del tempo con quei ragazzi con i quali si trovava bene, parlava
piacevolmente di argomenti seri così come di sciocchezze che la facevano ridere
a crepapelle.
Così, si preparò e attese che i suoi amici passassero a prenderla.
“Ciao Grace!” la salutò Jane, seguita a ruota da Denise, Felix e
Sofia.
“Ehi! Oggi stranamente siete puntuali. Che è successo?”
“Stranamente, già. Jane è riuscita a prepararsi in tempo” bofonchiò
Denise, con un tono tra lo scocciato e l’ironico.
“Non rompere, lo sai che ho da fare” commentò Jane per poi
avviarsi.
Grace la prese sottobraccio, altrimenti non avrebbe proprio saputo
come spostarsi. Per lei era buio pesto, non sarebbe riuscita minimamente ad
immaginare cosa poteva circondarla, se non fosse stata certa di conoscere alla
perfezione il suo paese.
“Allora, come state?” domandò, intuendo che i suoi amici si stavano
dirigendo al parco. Bene, pensò, potrò sicuramente vedere Jeremy. Il pensiero
del ragazzo la distrasse da quelli che erano i discorsi che si stavano
svolgendo intorno a lei. Infatti, non comprese assolutamente le risposte alla
sua domanda e si ritrovò a cadere dalle nuvole, dopo essere stata riscossa da
Jane.
“Ci sei?” domandò Denise, affiancandola.
“Eh? Ma sì, ci sono! Ho chiesto come state!”
Felix rise insieme a Sofia, mentre le altre due ragazze sospiravano
esasperate.
“Ti abbiamo risposto” disse Jane. “Si può sapere cosa ti passa per
la testa, eh?”
“Niente, mi sono solo distratta. Dove andiamo?” cambiò discorso
Grace, imbarazzata. Non aveva alcuna intenzione di rivelare al gruppetto cosa
fosse successo tra lei e Jeremy Pherson, nonostante non è che fosse capitato
qualcosa di male. Tuttavia, si ritrovò ad agitarsi nel pensare all’eventualità
che lui andasse a salutarla mentre si trovava in loro compagnia. Oh, cielo,
cosa doveva fare? Sarebbe stato troppo imbarazzante, ne era certa, ma ormai il
danno era stato fatto. Era stata lei stessa ad invitare Jeremy ad avvicinarsi
nel caso l’avesse vista, perciò non poté far altro che maledirsi per quella
stronzata. Non ne combinava mai una giusta!
“Non so, al parco?” disse Denise.
“Come volete” rispose Jane.
Grace preferì non esprimere nessun parere sull’argomento, voleva
evitare di destare qualsiasi sospetto su lei e il suo amico d’infanzia.
Ad un tratto, Felix disse: “Ah, Grace, quasi dimenticavo! Oggi ti
ho visto con Jeremy Pherson. Cosa ci nascondevi, eh? Ti sei fatta l’amante e
non ce lo dici?”
Grace si fermò di botto in mezzo alla strada, costringendo così
anche Jane a fare lo stesso. Spalancò occhi e bocca e fissò l’oscurità davanti
a sé, sperando vivamente di aver sentito male.
Ma si dovette presto accorgere che era tutto vero, purtroppo.
“Cosa?” sbottò Jane, fissandola in viso, seppur fosse conscia del
fatto che l’amica non potesse ricambiare il suo sguardo.
Denise non disse niente, poiché sapeva già tutto, dal momento che
il suo ragazzo gliel’aveva raccontato, mentre Sofia dovette soffocare una
risata.
“Non ci credo” proseguì Jane, cercando una conferma sul viso di sua
sorella.
Denise fece spallucce e annuì.
“Grace?! Com’è questa storia? Meno male che accusavi Lizzie di
essere innamorata di quel tipo!”
Grace perse la pazienza in un attimo. “Senti, Jane. È vero, sono
uscita con Jeremy, ma ciò non significa necessariamente che tra noi ci sia una
relazione. Questo è il tuo punto di vista, sei sempre prevenuta e ti piace
esprimere giudizi a casaccio, molte volte. Capisci perché non te l’ho detto
prima? Sono stufa di essere giudicata da te, stufa e arcistufa!”
Calò il silenzio più totale.
Sofia smise di ridere e si affiancò a Grace che subito ne approfittò
per allontanarsi da Jane e prendere sottobraccio l’altra ragazza.
“Ma sei fuori di testa? Fai quello che vuoi, chi ti dice niente!
Sai quanto me ne frega se tu stai insieme a quel tipo! Ma non puoi negare che
non fai altro che appoggiarti a un nuovo ragazzo appena ti stanchi di correre
dietro a quello che ti piaceva prima.”
Grace fu profondamente ferita da quelle parole e non ebbe più la
forza di risponderle. Si rinchiuse in un profondo silenzio, mentre tutti e
cinque ripresero a camminare.
Denise intervenne: “Dai, ragazze, basta. Su, non c’è bisogno di
litigare per questo motivo. Jane, sei sempre la solita, hai esagerato anche
questa volta.”
“Ma vuoi stare zitta?”
“No, non sto zitta! Credi che il tuo parere sia assoluto ma non è
così.” Denise lasciò la mano di Felix e si accostò alla sorella. “Dovresti
imparare a farti gli affari tuoi, una volta ogni tanto, anziché sputare
continue sentenze infondate, senza nemmeno conoscere la situazione.”
Jane le imprecò contro, poi aggiunse: “Pensa per te, io ho tutto il
diritto di dire cosa penso. Ed è così, la conosco e so com’è abituata a fare.”
Intanto, Sofia osservava Grace con sguardo preoccupato, cercando di
capire se fosse il caso di parlarle o no.
“E allora?” gridò la sorella.
Felix la raggiunse e cercò di tranquillizzarla, ottenendo
ovviamente l’effetto contrario.
“E allora niente, non rompere i coglioni!”
“Ma non romperli tu! Grace potrebbe essere come dici, ma è comunque
libera di fare quello che vuole! Possibile che tu ti debba sentire in diritto e
in dovere di giudicare ogni gesto altrui che non condividi? Ripeto: fatti gli
affari tuoi.”
“Sì, sì…”
Il gruppetto tornò a tacere, mentre raggiungeva il parco.
Grace voleva disperatamente andarsene, non aveva più alcuna voglia
di aver a che fare con Jane e con la sua stupida presunzione, desiderava
soltanto buttarsi a letto e lasciarsi andare alle lacrime che da un po’ le
pungevano la base degli occhi.
Ma, per l’ennesima volta, si ritrovò a doversi adattare alla
maggioranza, impossibilitata a muoversi autonomamente. Se solo avesse potuto,
sarebbe già corsa via con l’intenzione di non rivedere più quella ragazza. In
quel momento, si ritrovò a odiarla come mai era accaduto nei suoi confronti.
Si sentiva sola ma era certa di avere comunque il sostegno di Denise,
Felix e Sofia. Sapeva che i tre ragazzi non erano affatto d’accordo con Jane,
sapevano benissimo che la ragazza aveva esagerato e si ritrovava sola dalla
parte del torto, torto marcio.
Aveva voglia di stare con Jeremy, non ne poteva più.
Il gruppetto prese posto su una panchina, Jane rimase in piedi,
imbronciata ed intenzionata a non rivolgere la parola a Denise e Grace,
ignoranti com’erano! Non capivano niente, non potevano pretendere che lei
cambiasse idea o che reprimesse le sue opinioni, perché mai l’avrebbe fatto.
Felix cominciò a raccontare un episodio divertente, attirando
l’attenzione di Grace. La ragazza decise che, non potendosene andare, avrebbe
cercato di stare un po’ meglio; così ascoltò cosa il ragazzo stava dicendo.
“Ciao Gracie!”
La ragazza sobbalzò non appena udì alle sue spalle quella voce che
la salutava.
Si voltò, sperando che il suo udito non l’avesse ingannata. “Jemy?”
mormorò, cercando di distinguere qualcosa nella fitta oscurità che le si
presentava, intervallata soltanto da tenui lampioni solitari sparsi qua e là.
“Sì, sono proprio io! Visto, sono venuto a salutarti.” Sorrise,
accorgendosi che la ragazza era piuttosto spaesata e disorientata.
“Hai fatto bene.” Grace, nonostante ci avesse provato, non riuscì
ad utilizzare un tono completamente allegro e disinvolto.
“Va tutto bene?” sussurrò lui, sperando che lei fosse l’unica ad
averlo udito.
Lei non disse nulla, ma prese silenziosamente a piangere, colta
dalla dolcezza con cui lui le aveva rivolto quella semplice domanda.
“Ti va di fare un giro?”
Grace per poco non esultò, felice del fatto che lui gliel’avesse
chiesto.
Si voltò verso Denise e chiese: “Vi scoccia se…”
“Vai tranquilla” la interruppe la ragazza, sorridendo.
“Grazie.” Grace si alzò, cercando di mantenersi in equilibrio. Il
fatto di stare versando un mare di lacrime non faceva altro che indebolirla in
maniera esemplare, come solo il pianto era in grado di fare al suo organismo.
Jeremy la raggiunse e la aiutò a spostarsi, cominciando ad
incamminarsi verso i suoi amici.
“Ehi, che fai? Non voglio che…”
“Non ti preoccupare, li avviso, poi ce ne andiamo.”
Grace annuì, cercando di scacciare quelle fastidiosissime gocce
salate.
La visita al gruppo di amici del ragazzo fu estremamente breve ed
essenziale, poi i due si allontanarono definitivamente dal parco.
“Se vuoi parlarmene, ti ascolto” disse lui, per poi tornare in
religioso silenzio.
La ragazza rimase a pensarci per un po’, poi decise che in fondo
poteva dirglielo, cosa c’era di male? In fondo quelle di Jane non erano state
altro che stupide e basse insinuazioni, niente più di questo.
Gli spiegò com’erano andate le cose e tacque poco prima che
raggiungessero una delle piazze del paese. Faceva tremendamente caldo e questo
fatto mise a Grace un tremendo fastidio addosso, non sopportava quella tremenda
umidità che rendeva appiccicoso ogni lembo della sua pelle.
Jeremy la aiutò a prendere posto e si accomodò accanto a lei.
Rifletté per un attimo su quello che aveva appena appreso da lei, poi disse:
“Non capisco come tu possa definire amica una ragazza che ha una così bassa
opinione di te.”
Grace rimase stupita dalla sua risposta. Non si aspettava che
avrebbe reagito così, ma ne fu felice.
“Sul serio, Gracie, chi te lo fa fare?”
“Nessuno, le voglio bene e basta. Sai, è per questo che volevo
evitare che venisse a sapere del nostro incontro e di tutto il resto.”
“Sì, capisco che tieni a lei, ma quello che ti ha detto deve averti
ferito parecchio. Mi dispiace.”
Grace si accostò a lui e gli posò la testa sulla spalla, per poi sospirare.
“Non ne posso più. Odio essere giudicata in questo modo.”
Jeremy le avvolse le spalle con un braccio. “Adesso non pensarci
troppo, sono sicuro che rimetterete le cose a posto.”
La ragazza annuì, chiudendo gli occhi. Si sentiva stanca ma libera
da quel peso che dall’inizio della serata l’aveva irritata, occupando
prepotentemente i suoi pensieri e incrinando il suo buonumore.
“Alla fine anche stasera siamo stati insieme, eh?” osservò lui,
distogliendola da quei pensieri.
“Sì. Scusa, eri con i tuoi amici e ti ho praticamente trascinato
via.”
“Non importa, li vedrò domani notte. Ho trascorso tutte le vacanze
con loro. Dovrò pur dedicarmi a te, non trovi?”
Grace si scostò da lui e abbassò lo sguardo, imbarazzata.
“Ti dà fastidio?” chiese lui, con tono preoccupato.
“Oh, no!” si affrettò a rispondere lei. “È solo che non me
l’aspettavo… ancora mi è difficile credere che tra noi tutto si sia risolto.
Insomma, dai, non è strano?”
Jeremy rise, guardandola. “Sì, strano ma piacevole. Credo che
abbiamo riscoperto una bellissima amicizia, ne è valsa la pena secondo me.”
E Grace non poté fare a meno di arrossire a quelle parole,
invidiando il fatto che quel ragazzo riuscisse ad essere incredibilmente
sincero, schietto e diretto nel dire le cose. Avrebbe voluto essere come lui,
le sarebbe piaciuto esporgli i suoi sentimenti, ciò che le passava per la
testa; tuttavia, non ci riusciva, o forse non voleva riuscirci in quel momento.
“Vuoi tornare al parco?” domandò Jeremy, cambiando magistralmente
discorso nel vederla in preda all’imbarazzo.
“No” disse lei con fermezza. “Tu?”
“Nemmeno.”
“Che facciamo?” Intanto Grace prese il cellulare e spedì un sms a
Denise per avvertirla che non li avrebbe più raggiunti.
“Ti va se…” Jeremy la osservò con aria pensierosa, mentre elaborava
la sua idea. Era certo che si trattasse di una follia, ma avevano così poco
tempo da trascorrere insieme.
Lei ricacciò il cellulare in borsa e attese che lui proseguisse.
“Okay, ho un’idea ma prima devi dirmi a che ora devi essere a
casa.”
“Non ho un orario, però è logico che non posso rientrare alle due
del mattino.”
Il ragazzo controllò che ora fosse: 23:37.
“Che vuoi fare?” chiese lei, curiosa.
“Facciamo un altro giro in bici?”
“Eh? Sei matto? È… tardissimo!” Grace sgranò gli occhi, sorpresa.
“Tranquilla, entro l’una sarai a casa” la rassicurò, alzandosi.
“Andiamo a prendere la bici, ci divertiremo.” Le prese la mano e la aiutò ad
alzarsi.
Grace, sempre più incredula e felice, lo seguì e fu certa che non
se ne sarebbe affatto pentita.
Grace si aggrappò a Jeremy mentre il ragazzo prendeva velocità
sulla bicicletta, assaporando il vento che ormai si era fatto fresco e sferzava
loro il viso. La ragazza si chiese come lui riuscisse a guidare immerso
nell’oscurità, ma nello stesso momento si diede della stupida: Jeremy non era
come lei, lui riusciva a vedere tutto ciò di cui lei non era in grado.
Il suo amico svoltò a destra e lei fu costretta a stringersi più
forte alla sua schiena per evitare di cadere da quel mezzo che le parve
improvvisamente fragile, incapace di sorreggerli. Ebbe l’impulso di chiedere a
Jeremy di rallentare, ma non lo fece: rimase zitta e cercò di tranquillizzarsi.
Si fidava di lui e pretendere una cosa del genere la fece sentire stupida.
La loro passeggiata fu stupenda: non parlarono un granché ma non ce
ne fu alcun bisogno, si sentivano bene soltanto a stare a contatto l’uno con
l’altra e a godersi tutto ciò che quella notte aveva da offrirgli.
Quando Jeremy si fermò, aiuto Grace a scendere dalla bici e la
ragazza si accorse di trovarsi nello stesso parchetto in cui avevano parlato
qualche ora prima. Si sedettero sulla medesima panchina e sorrisero.
“Grazie, è stato… bello” disse Grace, cercando automaticamente la
mano di lui. Non lo faceva apposta, ma quando l’oscurità le impediva di
guardarsi intorno, era solita cercare il contatto fisico, chiunque avesse
accanto. Non le piaceva stare ‘sola’, anche se in realtà non lo era affatto.
Il ragazzo strinse le sue dita intorno alle sue. “Lo rifaremo tante
di quelle volte che alla fine ti stancherai e ne avrai abbastanza.”
Grace rise. “Ma dovrò attendere tanto” osservò, accorgendosi subito
dopo di aver utilizzato un tono troppo triste e malinconico, tono che avrebbe
voluto evitare.
“No, non tanto. A Natale pensavo di tornare.”
“Davvero? È fantastico!”
Jeremy ridacchiò, compiaciuto. “Sì. Allora sì che avremo un sacco
di tempo da trascorrere insieme. Vorrei farti conoscere i miei amici, anche se
credo che tu sappia già chi sono.”
Grace lo sapeva bene ma la prospettiva di entrare a far parte di
quella cerchia le provocò un effetto strano: se da un lato il fatto la
incuriosiva, dall’altro non voleva assolutamente che ciò accadesse.
“Vedremo.”
Jeremy non disse niente.
“Comunque, sei un deficiente!” sbottò Grace, voltandosi verso quel
qualcuno che non riusciva a mettere a fuoco. Fu una delle volte in cui odiò
profondamente quegli occhi malati, quegli occhi inutili e schifosi.
“Perché mai? Che ho fatto stavolta?”
“Ma niente di che” spiegò Grace, scacciando i pensieri negativi.
“Mi piace dirtelo e poi, ora che ci penso, un motivo c’è.”
Il ragazzo le tirò una ciocca di capelli. “Sarebbe?”
“Ehi, che fai? Comunque, andavi troppo veloce in bici” disse Grace,
con tono ironico. Prenderlo in giro la divertiva parecchio, rideva ogni volta
che sentiva l’inflessione divertita di lui quando se ne rendeva conto.
“Non è vero!” esplose lui, mollando la presa della sua mano e
prendendo ad arruffarle i capelli.
“Jeremy Pherson io ti ammazzo!” gridò Grace, cercando di
allontanarsi da lui.
Jeremy scoppiò a ridere e se la strinse al petto, accarezzandole la
testa come se stesse facendo i grattini ad un animale domestico. “Oh, povera
Gracie, povera piccola Gracie” cantilenò, usando un tono sarcastico e pungente.
Lei, anziché prendersela, cercò di trattenere a stento una risata.
“Sei. Un. Idiota.” Sillabò quelle parole perché se le avesse pronunciate troppo
velocemente avrebbe riso e non voleva dargli quella soddisfazione. Non ancora.
Ma la sua maschera dovette cedere non appena lui prese a
solleticarle il collo.
A quel punto Grace si dimenò, ridendo come un’ossessa, cercando di
fare leva con le mani contro il suo petto per sfuggire a quella tortura.
“Gracie, Gracie! Sei tu la deficiente ora, guardati! Hai i capelli
tutti spettinati e la faccia rossa come un peperone. Se ti riporto a casa così,
be’…” Jeremy sollevò teatralmente gli occhi al cielo, sospirando per non
continuare a ridere.
La ragazza lo colpì con un pugno sul petto, incenerendolo con lo
sguardo.
Jeremy a quel punto non si trattenne più.
“Smettila di ridere!” disse, e mentre lo diceva lei faceva lo
stesso. “Non ti vedo ma i miei occhi ti possono distruggere a forza di
fulminarti, lo sai?”
“Oddio, che paura!” piagnucolò lui, prendendosi la testa tra le
mani.
Grace si zittì e si avvicinò a lui. Gli posò le mani sulle sue, che
ancora erano posate sul viso. Le scostò con delicatezza e ci posò le sue.
“Jemy” mormorò.
Lui trattenne il fiato. Cosa stava facendo Grace?
La ragazza si sporse verso di lui.
“Sì, Grace?” fece lui, trattenendo il fiato.
Lei portò una delle sue mani sulla spalla di lui e gli depositò un
bacio sulla guancia, per poi sorridere. “Portami a casa.”
Jeremy rimase immobile per un attimo, poi rise nervosamente. “Okay,
ma che ore sono?”
Grace si allontanò da lui e controllò il display del suo cellulare.
“L’una meno dieci. Sbrighiamoci.” Si alzò e per un attimo si sentì spaesata.
Poi il ragazzo la raggiunse. Le avvolse le spalle con un braccio e
la guidò fino alla bicicletta.
Poco dopo, si misero in moto verso casa di lei.
Il tragitto fu breve.
“Eccoci.” Jeremy offrì il braccio a Grace, una volta che furono
scesi dalla bici.
“Ora torni al parco?” domandò lei, sentendosi improvvisamente in
imbarazzo: non voleva salutarlo, non sapeva come fare, cosa fare, cosa dirgli.
E pensare che si sarebbero visti il giorno dopo. Chissà come sarebbe stato
l’arrivederci prima della sua partenza.
“Forse” rispose lui.
“Sul serio?”
“No.”
“Cretino, mi prendi in giro?”
“Mmh… forse.”
“Ahh, piantala!” sbottò lei, schiaffeggiandogli il braccio.
“Scusa” bofonchiò lui, fingendo di offendersi.
Scoppiarono a ridere.
“Shh.” Grace si ricordò che era l’una di notte e loro stavano
facendo un casino terribile.
Jeremy ridacchiò, per poi fermarsi davanti al portone di casa
Andrews.
“Allora domani a che ora?”
Il ragazzo ci pensò su un attimo, poi disse: “Vieni a pranzo da
me?”
“Eh? Cosa? Ma…” Grace si agitò, non si aspettava una simile
proposta.
“Oh, andiamo, farà piacere anche ai miei rivederti.”
“Sì, ma…”
“Gracie” la rimproverò, con tono serio.
“E va bene” si arrese lei, lasciando cadere le braccia lungo i
fianchi.
“Dai, non fare così. Ti senti così tanto a disagio?” le chiese, per
poi sistemarle i capelli.
“Lasciali stare, se qualcuno li vede, dirò che è stato il vento”
mormorò, rilassandosi sotto quei gesti premurosi che lui le rivolgeva.
Jeremy la ignorò e continuò il suo lavoro.
“Non mi dà fastidio. Vengo, va bene” aggiunse Grace, sorridendo.
“Mi fa piacere.”
“Anche a me.”
Il ragazzo la strinse a sé. “A domani, allora. Vieni all’ora che
vuoi, sei la benvenuta.”
“Va bene. Grazie di tutto, come al solito. Mi sono divertita e mi
sono dimenticata di Jane.”
“Ah, quella…”
“Dai, non è poi così male. È fatta così.”
Jeremy annuì, automaticamente.
“Allora, buonanotte.”
Lui sorrise. “Sogni d’oro, Gracie.” E se ne andò, tornando in sella
alla sua bici.
Grace entrò in casa e trovò sua madre che, seduta sul divano, un
po’ guardava la tv e un po’ sonnecchiava. Il saluto della figlia la risvegliò
leggermente, scuotendola dal torpore del sonno.
“Mamma? Ma sei sveglia?” chiese la ragazza, rimanendo in piedi
vicino all’ingresso.
“Sì, sì… oh, è già l’una?” fece la donna, sorpresa, adocchiando
l’orologio di legno appeso alla parete.
“Sì, mamma. Ti sei addormentata anche oggi.”
“A quanto pare…”
Grace aveva paura. Doveva dire a sua madre che il giorno dopo
sarebbe stata a pranzo a casa di Jeremy, ma non aveva nessuna voglia di darle
spiegazioni sul suo nuovo – vecchio – amico.
“Dove sei andata di bello?”
“Al parco e…” Era giunto il momento di vuotare il sacco. “In giro
in bici.”
Sua madre rimase immobile per un attimo, poi si voltò di scatto a
guardarla. “Eh?” sbottò.
“Sì, sono andata in bici con Jeremy.”
“Je… ma non eri uscita con…?” La donna era confusa e ancora
assonnata.
Così Grace si avvicinò e le raccontò tutto, tralasciando tutto ciò
che aveva a che vedere con le strane sensazioni che aveva provato nel rivederlo
dopo tanto tempo.
Sua madre annuiva ogni tanto, interessata a quella storia.
“E domani mi ha invitato a pranzo da lui” concluse Grace,
imbarazzata. Non voleva che lei si facesse strane idee, tra lei e Jeremy non
c’era altro che un’amicizia trascurata troppo a lungo.
“Ah.”
“Dice che ai suoi genitori farebbe piacere rivedermi” spiegò Grace,
come per giustificarsi, evitando di parlarle del fatto che lei e la madre del
ragazzo si erano già viste.
“Ah, capito! Bello, bello… ah-ah, Grace, ti stai fidanzando!”
esclamò la donna, per prenderla in giro.
La ragazza divenne rossa come un peperone. Si voltò dall’altra
parte e disse: “Mamma! Adesso vado a letto, a domani.”
La madre rise e tornò a fare zapping tra i canali tv.
Grace, mentre si lavava e cambiava, pensò che sarebbe stato buffo e
ridicolo immaginare lei e Jeremy come una coppia.
“COSA? No, dico, succedono tutte queste cose e io non ne so niente?
Grace, ti uccido!”
“Lizzie! Scusa, come potevo parlarti di
quello che stava succedendo con Jemyse… ero con Jemy?”
Elizabeth sgranò gli occhi, fissando la sua amica con aria interrogativa.
“Eri con lui, quando?”
“Dopo cena. Te lo stavo dicendo, ho discusso con Jane e lui mi ha
praticamente salvato la serata.” Grace si guardò intorno, sperando che nessuno
ascoltasse la sua conversazione con Elizabeth. Le due, infatti, erano appostate
sulla porta di casa Carlsson, poiché Grace aveva
deciso di passare a raccontare tutto alla sua amica, prima di andare a pranzo a
casa di Jeremy.
“Ma quindi, fammi capire, ve ne siete andati insieme, mollando tu
Jane e gli altri e lui i suoi amici?”
“Esatto.”
“Oh, mamma!” Elizabeth si batté una mano sulla fronte. “Non ci
posso credere.” Il suo tono acquisì un’inflessione sconsolata.
“Ti giuro, è andata proprio così! E mi ha portato in giro in bici,
poi ci siamo seduti a parlare e infine, mentre mi accompagnava a casa, mi ha
invitato a pranzo.”
Elizabeth non faceva altro che scuotere la testa, sempre più
incredula.
“Sono seria, Lizzie. È tutto vero.”
“Devo capire meglio: ripeti e aggiungi dettagli.”
E così Grace, dopo aver sospirato, ripeté tutta la vicenda,
romanzandola un po’ perché non sapeva più che dettagli raccontare alla sua
amica, poiché lo aveva già fatto.
“Okay, capito. Sarete la nuova coppia dell’anno!” esclamò infine la
ragazza, sorridendo in maniera maliziosa.
“No, non è così. Sai, sono arrivata alla conclusione che noi due
siamo solo amici, nient’altro che ciò. Non riesco ad immaginarmi di avere una
relazione con lui, di…baciarlo…nah, niente del genere. Mi fa schifo in un certo
senso.” Grace non credette alle sue stesse orecchie, aveva seriamente ammesso
questa verità a voce alta? Sì, l’aveva fatto ed era fiera di se stessa, pur non
sapendo esattamente perché.
“Ah, addirittura? Io invece cominciavo a credere che sarebbe nata
una love story a tutti gli effetti.” Elizabeth parve delusa.
Grace sorrise. “Dai, augurami buona fortuna per il pranzo! Ho una
fifa pazzesca!” ammise, per poi stringere le mani della sua amica.
“Andrà bene, vedrai. Se ti ha invitato, significa che gli fa
piacere averti con sé.” Elizabeth la baciò sulle guance e poi la spinse
leggermente in direzione di casa Pherson. “Vai,
altrimenti farai tardi.”
“Okay, grazie. Ci sentiamo più tardi? Ti chiamo, va bene?”
“Non pensarci ora. Finché puoi, rimani con Jeremy, per noi due c’è
sempre tempo.”
Grace annuì. “Devo pensare anche a Jane.” Sospirò.
“Non ora, non ora!” la rimproverò l’altra.
“Hai ragione, Lizzie. Grazie.”
“Figurati. Ciao.”
“Ciao.”
Grace si avviò lentamente verso la sua meta, intimorita e
imbarazzata dal fatto di dover rimettere piede in una casa che non visitava da
anni, che aveva frequentato poco e niente, e soltanto con le vesti di ‘una
qualsiasi compagna di giochi’.
Si fermò di fronte al cancello, indecisa sul da farsi. Cioè, in
realtà sapeva esattamente come doveva comportarsi: suonare il campanello e
attendere che qualcuno le aprisse. Ma di certo non era al massimo della
tranquillità, l’ansia le stava logorando brutalmente lo stomaco.
“Gracie, che fai, entri?” la canzonò
Jeremy, affacciandosi alla finestra. Stringeva una sigaretta tra le dita e si
stava preparando ad accenderla, come se lei fosse sua sorella e avesse il
diritto di introdursi in casa sua come se niente fosse.
Sollevò il capo verso l’alto, in modo da osservare il ragazzo,
malgrado non riuscisse a distinguere nessun particolare.
“Allora?”
“Ma allora che? Vieni a prendermi, non sono a casa mia” precisò
lei, allargando le braccia, esasperata.
“Ah, già. Speravo di metterti a tuo agio, ma a quanto pare…”
Grace si sentì in colpa per aver sabotato in quel modo poco gentile
il tentativo di Jeremy di facilitarle le cose. Si era illuso di poterla rendere
più sicura di sé se le avesse permesso di fare come voleva, ma alla ragazza
questo intimoriva ancora di più. Sì, perché non era assolutamente in grado di
sapere se, una volta oltrepassata la soglia, sarebbe stata in grado di muoversi
autonomamente per l’appartamento.
Jeremy la raggiunse circa un minuto più tardi. Gettò la sigaretta a
terra e la schiacciò al suolo con la punta della scarpa, poi le sorrise e la
abbracciò.
Grace tremò dalla testa ai piedi, sentendosi ancora più tesa.
“Ehi. Alla fine sei venuta.”
“Certo che sono venuta. I tuoi genitori mi aspettano” mormorò.
“Già, sì… ehm, saliamo?”
“Sì, okay. I tuoi sono in casa, sì?”
“No, arrivano dopo, sono usciti.”
“Ah, va bene.”
Grace fu costretta ad aggrapparsi al suo braccio quando lasciarono
la calda e rassicurante luce del sole.
Jeremy la condusse in camera sua. La finestra dalla quale si era
affacciato poco prima era ancora aperta e Grace fu inconsapevolmente attirata
dall’immensa luce che entrava da essa, finendo con lo sporgersi e ammirare la
sua vecchia strada da un punto di vista che non era mai stata in grado di
considerare – o, semplicemente, non ne aveva avuto l’occasione.
“Gracie, vuoi startene per tutto il tempo
affacciata alla finestra?” domandò Jeremy, avvicinandosi cautamente.
Grace avvertì la sua presenza dietro di lei, a pochi centimetri dal
suo corpo, e qualcosa in lei si tese, come se tutti i suoi nervi reagissero
inconsciamente ad una simile vicinanza.
La ragazza si voltò di scattò e si premette istintivamente con il
corpo contro il muro sottostante alla finestra. “No, è solo che…”
‘Che sei tremendamente vicino a me’ avrebbe voluto dire, ma tacque. Si limitò
ad evitare accuratamente di cercare il suo viso con lo sguardo, posandolo nei
posti più improbabili: muri, pavimento, soffitto…
“Grace, va tutto bene?”
Lei trattenne il fiato quando lui si avvicinò di un altro passo a
lei. Ormai i loro corpi si sfioravano.
E lei si sentiva soffocare.
Con un gesto brusco, lo spinse di lato e si allontanò dalla fonte
luminosa e cercò di spostarsi, ma andò a sbattere contro lo spigolo del letto.
Rimase immobile ed impose a se stessa di non imprecare, ma non poté
evitare che qualche lacrima di dolore sgorgasse dai suoi occhi, mentre si
massaggiava la coscia dolorante.
“Grace!” Jeremy accorse e le si piazzò davanti, prendendola per le
spalle.
“Non è niente” affermò lei, incapace di sottrarsi al suo tocco.
Cosa diamine le stava succedendo? Poco prima aveva affermato
davanti ad Elizabeth di non desiderare affatto Jeremy in quel modo, di nutrire
nei suoi confronti un semplice affetto amichevole.
Si ripeté che doveva essere così e gli sorrise, tranquillizzandosi.
“Sicura?”
“Certo.”
“Grace, io… devo dirti una cosa.”
Alla ragazza saltò il cuore in gola. “Cosa?” fece, con tono allarmato.
“Il fatto è che… i miei genitori, ecco… loro non verranno.”
Grace si allontanò da lui, sottraendosi alla sua presa sulle spalle
e spalancò la bocca.
“Sì, be’… non saranno a pranzo con noi.”
“Ma come sarebbe a dire?” sbottò lei, per poi sospirare.
“Stamattina sono dovuti andare a casa dei miei nonni. Mi dispiace
di non avertelo detto, ma non potevo.”
“In effetti no. Ma… è successo qualcosa
di grave ai tuoi nonni?” si preoccupò Grace, facendo nuovamente un passo verso
di lui.
“No, no. Va tutto bene, è solo che si erano dimenticati che la
nonna li aveva invitati, visto che domani…” Jeremy
s’interruppe.
“Domani partite” concluse Grace per lui.
“Già.”
“E tu non sei stato invitato?”
Lui annuì. “Certo.”
“E perché non sei andato?”
Jeremy sorrise. “Devo stare con te.”
La ragazza non osò ribattere, quella risposta le bastò.
“Ti dispiace che siamo soli?”
“Assolutamente no, figurati. Ci divertiremo.”
I due risero.
Jeremy si buttò sul letto. “Vieni, Gracie,
ora ci facciamo un pisolino, poi mangiamo.” Sbadigliò. “Io ho sonno.”
Grace lo guardò allibita. “Vuoi dormire adesso? Ma Jemy, sono le undici e mezza di mattina!”
“Appunto per questo. Dai, non rompere. Vieni a domire
sì o no?” Il ragazzo si accucciò in un angolo del materasso e seppellì il viso
nel cuscino.
Lei si avvicinò lentamente, colma di dubbi. Cosa doveva fare? Si
sentiva il cuore martellarle nel petto, non aveva idea di come si facesse a
fermarlo, ad ordinargli di smetterla subito.
Si sedette sul materasse, cercando di
occupare il minor spazio possibile. Chiuse gli occhi. Sospirò. Li riaprì.
Jeremy cercò la sua mano, rimanendo nella stessa posizione. “Ehi.”
La trovò e gliela strinse.
“Jemy, ti rendi conto, vero, che non
posso dormire con te?”
“Perché no?” mugugnò lui, per poi sbadigliare un’altra volta.
“Come perché?!”
“Gracie, che palle che sei! Ah, fa’ come
vuoi. Io ho sonno.”
Calò uno strano silenzio durante il quale la ragazza si sentì
stupida. D’altronde, cosa c’era di male nel riposare accanto ad un amico? Si
conoscevano da una vita, diamine!
Così, si decise e si sdraiò al fianco di Jeremy, rimanendo però
rigida sul bordo opposto del letto da una piazza e mezza. Non voleva
assolutamente avere contatti con lui, non sarebbe stata in grado di reggere
tutto quell’imbarazzo, ad affrontarlo e superarlo.
Così, non chiuse minimamente occhio ma si rilassò. La divertiva
sentire il leggero russare del ragazzo che le dormiva immobile accanto, con i
capelli sul viso affondato nel cuscino.
Fu come un lampo. Ci fu un istante, un singolo istante
interminabile in cui Grace desiderò di avvicinarsi a lui e accoccolarsi al suo
fianco.
Ma subito si riscosse da quei pensieri e si mise a sedere, confusa
come le era capitato poche volte nella sua vita.
Trascorse il tempo a contemplare la parete davanti a sé, poi Jeremy
finalmente si svegliò.
“Ah, vedo che sei tornato tra noi. È già l’una” gli disse, senza
guardarlo.
Lui si mise in ginocchio sul materasso e si stiracchiò, per poi
avvicinarsi a lei e posarle le mani sulle spalle.
Grace dovette trattenersi per non sussultare.
Jeremy si chinò su di lei e le mormorò. “Non. Rompere. Le. Palle.”
“Ehi!” saltò su lei, scatenando una risata divertita in lui.
“Sei troppo buffa quando ti arrabbi!”
“Ma piantala! Alzati, su. Ho fame” cambiò discorso lei, alzandosi e
voltandosi a guardarlo con le mani sui fianchi.
“Va bene, mamma!”
I due ragazzi andarono in cucina e Jeremy spiegò che sua madre si
era premurata di lasciare qualcosa da mangiare per loro, così non avrebbero
dovuto cucinare. Disse che lo aveva fatto anche per compensare l’assenza sua e
di suo marito.
“È stata gentile” disse Grace, sorridendo. “Non ce n’era bisogno,
ce la saremmo cavata.”
“Sì, ma è meglio così. Dai, sediamoci.”
Il pranzo trascorse tranquillamente. Jeremy e Grace mangiarono in
silenzio, assaporando il buonissimo cibo che aveva preparato la madre del
ragazzo.
In seguito lavarono i piatti, nonostante lui avesse inutilmente
insistito per infilare tutto in lavastoviglie.
“Sono pochissimi!” disse Grace, guardandolo storto.
E così lo costrinse ad aiutarla, solo per il gusto di schizzarlo e
riempirgli la faccia di schiuma bianca, per poi commentare con battute oscene
il suo aspetto.
Jeremy, per contro, le arruffò i capelli con le mani completamente
bagnate e i capelli le ricaddero schiacciati sulla testa.
“Che schifezza hai fatto?!” Grace finì di pulire il lavandino, poi
si mise a rincorrerlo. “Ti ammazzo!”
Lo seguì fino in camera e lo immobilizzò in un angolo, spingendolo
contro la parete.
“Oh, no! È la fine!” si lagnò lui, con tono teatrale.
“Tu scherzi, mi hai conciato i capelli in una maniera orribile e
ora meriti una punizione!”
“Una punizione… da te?” la prese in giro,
beffardo.
“Sì, da me. Ehi, ma chi ti credi di essere?” Grace sollevò un
pugno, pronta a colpirlo.
Jeremy la fissò negli occhi. Afferrò la mano che teneva serrata a
pugno e riuscì a intrecciare le loro dita.
Grace fece per sollevare quella che ancora era libera, ma dovette
fermarsi con il braccio a mezz’aria.
Grace rimase letteralmente shockata, immobile e tremendamente
confusa.
Jeremy le lasciava lievi baci sulle labbra, con dolcezza, come se
non avesse nessuna fretta.
Le venne quasi da piangere per il modo in cui lui la trattava, con
cura e dedizione, come se avesse paura che lei non apprezzasse.
“Sai, sono arrivata alla conclusione che noi due siamo solo amici,
nient’altro che ciò. Non riesco ad immaginarmi di avere una relazione con lui,
di… baciarlo… nah, niente del genere. Mi fa schifo in un certo senso.”
Quelle parole riecheggiarono nella mente di Grace,
schiaffeggiandola con una potenza che non riuscì a contenere.
Spinse via Jeremy e gli mollò uno schiaffo, guardandolo inorridita
e quasi schifata da quello che lui aveva appena fatto.
Aveva detto ad Elizabeth quelle esatte frasi e ora non poteva
rimangiarsele. A lei Jeremy non piaceva, non le interessava da quel punto di
vista.
“Ma che fai, idiota?” gridò. “Io me ne vado, ne ho abbastanza di
te.” Grace fece qualche passo incerto verso la direzione in cui sapeva trovarsi
la porta della camera del ragazzo, ma tornò a sbattere contro lo spigolo del
letto, esattamente nello stesso punto di poche ore prima.
Gemette e imprecò tra i denti, premendosi la mano sulla coscia.
“Non sembravi disprezzare, Grace” disse lui, con noncuranza.
Lei si voltò e lo incenerì con gli occhi.
“O sbaglio? Cos’è successo?” Pareva estremamente sicuro di sé, come
se riuscisse a leggerle nella mente.
“Sbagli” mentì Grace, cercando nuovamente di dirigersi verso
l’uscita. Odiava il fatto di non poter semplicemente correre via come avrebbe
voluto, doveva sempre e comunque rendere conto alle sue difficoltà.
Per un istante mise in discussione tutto quello che stava facendo:
perché scappava da lui, anziché affrontarlo?
E perché era convinta che lui non le piacesse, se mentre la baciava
era stata scossa da forti brividi?
“Non ti obbligherò a stare con me, lo sai. Ma credo che dovremmo
parlarne.”
Grace si voltò nuovamente, ritrovandosi con il fiato corto al
pensiero di lui che la baciava.
Inaspettatamente, annuì.
“Dimmi” disse lui, allargando le braccia.
“Cosa vuoi che ti dica?” domandò la ragazza, distogliendo lo
sguardo.
“Dimmi perché non hai permesso che ti baciassi ancora.”
A quelle parole, Grace fremette e si sentì leggermente in
imbarazzo. Tuttavia, non poté fare a meno di domandarsi la stessa cosa. Il
fatto di non trovare una risposta logica la fece infuriare con se stessa e fece
sì che se la prendesse con lui.
“Perché… perché no, accidenti! Siamo amici, Jeremy, non possiamo…”
“E chi dice che siamo amici? Dove sta scritto?”
Quelle parole la ferirono, ma Grace rise sarcasticamente.
“Devi ancora rispondermi” precisò lui, appoggiandosi con la schiena
al muro.
“Insomma, non ti saresti dovuto permettere per nessun motivo al
mondo!”
Jeremy scosse il capo con fare esasperato. “Non capisco, Gracie.
Non ti capisco.”
“Sono io che non capisco te.”
“Tu mi piaci” ammise lui, senza distogliere gli occhi dal viso
arrossato di lei.
“Io… cosa?” mormorò Grace, nuovamente sotto shock.
Il ragazzo le si avvicinò e le sollevò il mento con due dita.
In confronto a lei era tremendamente alto e Grace si sentì piccola,
indifesa, stupida; sì, molto stupida.
“Hai capito bene: mi piaci.”
Costretta a guardarlo, lei si sentì affondare nel pavimento, come
se il suo corpo si stesse sgretolando e liquefacendo, sotto il peso di quella
dichiarazione, sotto la consapevolezza che non sapeva cosa accidenti
rispondergli.
Jeremy le accarezzò la pelle del mento con il pollice e sorrise.
“Non immagini che faccia hai, Gracie. Sembra che tu abbia appena visto un
fantasma.”
“I-io… ehi, che faccia dovrei avere? È la mia faccia di sempre!” si
difese lei, divincolandosi da quel contatto. Indietreggiò ma finì con la
schiena contro l’armadio.
“Stai tranquilla, scherzavo.” Jeremy sorrise, facendo un passo
avanti. “Se non vuoi stare con me, ti posso accompagnare a casa.” Il suo tono
assunse un’inflessione maliconica.
“Posso rientrare da sola, conosco la strada” borbottò Grace, poco
convinta.
In realtà, non era più tanto convinta di voler fuggire da lui,
aveva come l’impressione che il tutto le stesse sfuggendo di mano, eppure
sapeva che i suoi strani e bizzarri sentimenti nei confronti di Jeremy non
potevano più essere repressi.
“Vuoi davvero andartene?”
Grace non riuscì a dire di sì, ma nemmeno di no. Rimase
semplicemente zitta, con gli occhi fissi sul nulla che intravedeva ai suoi
piedi.
“Grace” la chiamò lui, cercando di non dare a vedere la sua
impazienza nel conoscere le reali intenzioni della ragazza.
Lei, ammutolita, scosse impercettibilmente il capo, come per
ammettere a se stessa di voler restare, sperando altresì che lui non se ne
accorgesse.
Tuttavia, si sentì in dovere di dire cosa pensava, perciò dichiarò:
“Domani parti, non voglio salutarti ora.”
Lui rimase immobile a fissarla.
“Mi dispiace, Jemy, per lo schiaffo. Io… non volevo” aggiunse,
mortificata.
A quel punto, sollevò il capo e Jeremy poté scorgere una strana
tristezza velarle gli occhi. Le si avvicinò cautamente e tese una mano ad
accarezzarle una guancia. “Non importa. Scusami se ti ho baciato.”
“Ma no, figurati, io…” S’interruppe, evitando di dirgli che si era
resa conto di aver sbagliato tutto. Avrebbe voluto che accadesse ancora, ma non
ebbe il coraggio di ammetterlo, assolutamente.
Le parole non erano il suo forte, diventava impacciata e imbranata
quando doveva esprimere come si sentiva e cosa provava.
Perciò, annullò la distanza che la separava da lui e gli gettò le
braccia al collo, stringendolo forte a sé e chiudendo gli occhi.
Jeremy ricambiò quel gesto, premendo con le mani sui suoi fianchi.
“Oh, Grace, quanto mi dispiace. Ho rovinato tutto!” Sospirò, affondando il viso
tra i capelli di lei.
“No” ribatté Grace, sentendosi più sicura di sé. Il suo corpo,
stranamente, reagiva positivamente al contatto con quello di Jeremy, a dispetto
di tutto quello che erano state le sue proteste razionali e prive di
fondamenta.
Lui sorrise, accarezzandole la schiena. “Devo farmi perdonare.”
“No, ti dico.” Grace si scostò da lui, cercando disperatamente di
guardarlo negli occhi.
Invano.
Jeremy le lasciò un delicato e lieve bacio sulle labbra, poi, in un
sussurro, le chiese: “Posso?”
Stavolta lei non si oppose, non rimase basita, non protestò. Gli
sfiorò con le dita la guancia che aveva schiaffeggiato poco prima, poi vi posò
le labbra. “Scusa.”
Jeremy la strinse più forte a sé, impaziente di avere il permesso
da parte sua.
“Sì, puoi” disse lei, finalmente.
Così, senza perdere tempo, il ragazzo tornò nuovamente sulle sue
labbra, infilandole una mano tra i capelli.
Il loro contattò si intensificò, facendo sì che le loro labbra si
schiudessero e le lingue cominciassero una dolce e sensuale danza, donando a
quel bacio una tensione strana, bella e forte, strappando a Grace brividi lungo
tutto il corpo.
Si scostarono l’uno dall’altra per riprendere fiato e rimasero
l’uno con la fronte premuta contro quella dell’altra.
Fu allora che Grace riacquistò un briciolo di lucidità.
Improvvisamente, comprese che tutto quello che stava accadendo tra lei e quel
ragazzo non aveva alcun senso, non avrebbe avuto un seguito e avrebbe
peggiorato ulteriormente il loro addio.
Lo spinse dolcemente per fargli intendere che doveva fermarsi.
Jeremy assunse un’espressione mortificata e allarmata allo stesso
tempo. Si passò le mani tra i lunghi dread e gemette, esasperato. “Cosa ho
fatto stavolta?”
“Tu… non hai fatto niente di male, devi credermi. È solo che… Jemy,
domani parti” gli ricordò Grace, posando le mani sulle sue. Le trascinò via dai
capelli e le strinse tra le sue.
“E allora?”
“Non possiamo stare insieme. Non funzionerebbe mai.” La ragazza si
sentì triste e sconsolata. Per un attimo se la prese mentalmente con lui perché
si era spinto oltre il limite che separava amicizia e amore, e con se stessa
che gliel’aveva permesso. Infine, si arrese al fatto che non necessariamente
bisognava attribuire la colpa a qualcuno, era successo e basta.
“Grace, lo so, dio! Lo so!” Mollò la presa sulle sue mani e si
avvicinò alla finestra, perdendo poi lo sguardo all’esterno, nel cielo terso,
desolato e solo come la sua anima.
Grace gli si avvicinò cautamente, temendo che fosse arrabbiato con
lei. Gli posò una mano tra le scapole e lui non si mosse. Così, lo abbracciò da
dietro, stupendosi di tanta audacia nel suo modo di fare.
Ma stargli lontano, ora che il tempo li stava abbandonando, ora che
tutto si stava consumando troppo velocemente, le faceva male, male quasi fisico
e lancinante.
Il ragazzo parve rilassarsi un po’.
“Hai ragione, domani me ne vado. Ma non potremmo, almeno per il
tempo che ci resta, cercare di creare dei ricordi… belli?” azzardò lui, per poi
voltarsi e prendenderla tra le braccia.
“Sarà peggio, Jemy. Sarà peggio quando…”
“Sì, lo sarà. Allora dovremmo salutarci subito, per evitare di
soffrire.”
“No!” gridò Grace, guardandolo con aria spaventata, come se temesse
che quell’eventualità si stesse per realizzare.
Jeremy sorrise. “Allora non c’è altra soluzione” concluse.
“Potremmo stare insieme come prima, da amici” mormorò lei, senza
prendere realmente in considerazione quell’ipotesi.
Il ragazzo le prese la testa tra le mani. “E tu credi che sarei in
grado di stare con te senza toccarti?”
Quelle parole e il tono con cui lui le pronunciò fecero fremere
Grace nel profondo dell’anima e dei sensi, facendole esplodere un calore
immenso in tutto il corpo.
“Io… stavo solo scherzando” si giustificò, sentendosi una ragazzina
di tredici anni alle prese con la sua prima conversazione sessuale.
“Mi pareva strano…”
“Allora… allora hai ragione tu.”
“Io ho sempre ragione, non dimenticarlo” la schernì, solleticandole
il collo con un dito.
Immediatamente le venne da ridere e da dimenarsi. “No, ti prego!
Soffro il solletico!” gridò, cercando di allontanarsi invano dalla morsa che
rappresentavano le sue braccia su di lei.
“Ferma” le ordinò, poi ritrasse la mano e posò le labbra nello stesso
punto.
Grace sussultò, stringendo convulsamente il tessuto della maglietta
di lui, mentre cercava di non perdere del tutto il suo controllo.
Jeremy ridacchiò sulla sua pelle.
Poi si allontanò da lei e la osservò, compiaciuto.
Lei rimase immobile e inebetita.
“Ti porto in un posto, vieni.” Cercò la sua mano e lei gliela
offrì, stringendola.
Si avviarono in cucina, poi raggiunsero una sala da pranzo arredata
con mobili piuttosto antichi.
Il padrone di casa si fermò di fronte ad una stretta scala a chiocciola
di legno chiaro e portò Grace davanti a sé.
Lei allungò le mani ed esplorò ciò che aveva davanti, chiedendosi a
cosa servisse quella buffa scaletta.
“Sali. Ti seguo.”
Lei annuì distrattamente e obbedì.
Jeremy la afferrò per i fianchi e la guido nella tortuosa salita,
consapevole che per lei fosse difficile muoversi nell’oscurità totale che
regnava man mano che l’altezza aumentava.
Grace dovette fermarsi quando i gradini terminarono. Con le mani
comprese che una porta si trovava a pochi centimetri da lei, anche perché
l’aria che respirava era poca, come se fosse incastrata in un claustrofobico
buco dal quale desiderava soltanto uscire al più presto.
Il ragazzo si sporse oltre la sua spalla e aprì una piccola porta
in legno massiccio. “Prego” disse, tenendogliela aperta mentre con l’altra mano
la sorreggeva.
Grace incespicò, ma poi si fermò. Trattenne il fiato.
Jeremy richiuse piano la porta e la strinse al suo fianco. “Ti
piace?”
“Mi hai portato sul tetto e vuoi sapere se mi piace?” fece lei,
sarcastica, senza staccare gli occhi dal cielo immenso che si estendeva oltre i
tetti delle case del loro paese. “Oh, Jemy. Riesci sempre a sorprendermi,
sempre.”
Quando Grace e Jeremy scesero dal tetto, dove avevano trascorso il
tempo abbracciati a contemplare il panorama, la ragazza si accorse che erano
ormai le sei del pomeriggio.
“È passato così in fretta il tempo!” esclamò, per poi riporre il
cellulare in borsa. Aveva visto di sfuggita che Elizabeth le aveva inviato un
messaggio, ma decise di leggerlo più tardi.
“Devi andare?” chiese lui in un sussurro, rivelando un’inflessione
malinconica nel tono di voce.
“Non so.” Grace ci pensò un attimo, poi disse: “In teoria no. Tu?”
“Io ho da fare stanotte, però…” Scosse il
capo, socchiudendo gli occhi.
Grace gli strinse una mano, sorridendo. “Ehi. Ti va di
accompagnarmi in un posto?”
Jeremy sollevò di scatto la testa. “E dove?” domandò.
“Da Jane. Vorrei chiarire le cose con lei.”
“Sicura che sia una buona idea? La mia presenza potrebbe essere di
troppo.”
“Non dire stronzate.” Lei sorrise, sollevandosi sulle punte per
baciarlo.
Lui ricambiò, stringendola forte per i fianchi. “Hai fretta?”
soffiò sulle sue labbra.
Grace fremette per l’ennesima volta in quella giornata, sentendosi
invadere da un’ondata di desiderio. Improvvisamente sentì di avere caldo,
troppo caldo…
“No” mormorò, aggrappandosi alle sue spalle mentre lui le baciava
il collo.
“Perfetto” commentò Jeremy.
Lei, a quel punto, non riuscì più a ragionare razionalmente, diede
soltanto ascolto alle sue emozioni e ai suoi istinti. Non riusciva a non farsi
ammaliare dal tocco di lui, non riusciva lei stessa ad evitare di esplorare il
suo corpo, quel corpo che voleva sentire contro il suo, che voleva ammirare e
conoscere prima che tutto finisse, prima che lui fosse stato troppo lontano ed
irraggiungibile per poterlo contemplare.
Si lasciarono travolgere dalla passione, dal desiderio reciproco e
da un’eccitazione impellente, un bisogno di aversi, come se ogni emozione fosse
stata repressa per troppo tempo, fin dai tempi della preadolescenza.
Grace parve titubante quando si ritrovò senza vestiti tra le sue
braccia.
Lui le sorrise e le mormorò: “Ho bisogno di averti.” E lo disse con
una dolcezza tale da far in qualche modo tranquillizzare la ragazza. Lei,
infatti, rilasso completamente i muscoli e si lasciò andare alle emozioni,
dimenticandosi di tutto ciò che di razionale e problematico c’era in quel
mondo, lo stesso al quale loro sembravano non appartenere più.
Respiravano piano, avendo ormai regolarizzato i loro respiri.
Jeremy notò che erano già le sette e mezza di sera.
Grace non riusciva a capacitarsi di aver compiuto quel grande
passo. Non riusciva neanche a ricordarsi quante volte fosse successo in quel
lasso di tempo, era stato tutto così intenso e i due non avevano avuto tempo di
pensare a niente, dando spazio solamente ai loro bisogni e desideri.
“Se ci sbrighiamo, farai ancora in tempo a parlare con Jane” sussurrò
Jeremy, sfiorandole i capelli.
“Dovremmo anche lavarci” osservò lei, chiudendo gli occhi, sfinita.
Proprio in quel momento, un rumore provenne dall’ingresso,
allarmando entrambi.
“Sono i tuoi” sibilò Grace, allarmata.
“Sì. Merda.”
“Come facciamo?” domandò lei, cercando di azionare il lato
razionale del suo cervello che, fino ad allora, si era assopito.
“Come vuoi fare? La porta di camera mia è chiusa. Ora ci alziamo,
ci rivestiamo e andiamo via. Temo che dovremo rinunciare alla doccia.” Jeremy
sospirò.
Grace annuì e si misero all’opera.
Circa cinque minuti più tardi, Grace fu vestita. Si precipitò a
frugare nella borsa, alla ricerca di un elastico. “Ma dov’è?” Imprecò e mise
tutto sottosopra.
Jeremy la raggiunse. “Ti aiuto.”
Lei sorrise trionfante, estraendo finalmente il cerchietto nero che
successivamente le raccolse i capelli in una coda di cavallo. “Grazie lo
stesso, Jemy” disse, baciandolo frettolosamente.
Così, si diressero in cucina a salutare i nuovi arrivati.
La madre del ragazzo, non appena vide Grace, le andò incontro e le
stampò due baci sulle guance. “Ciao Grace! Mi dispiace di non esserci stata
oggi, ma…”
La ragazza strinse la mano al marito. “Non vi preoccupate. Jeremy
mi ha spiegato tutto.”
La donna sorrise. “Vi siete arrangiati, allora?”
“Sì, mamma. Non ci siete mancati per niente!” scherzò il ragazzo,
scrollando le spalle con ostentata indifferenza.
“Ma dai!” lo ammonì Grace, ridendo.
Bene, a quanto le parve d’intendere, i genitori del ragazzo non
avevano immaginato minimamente che tra loro era successo qualcosa che
oltrepassava i normali rapporti tra due semplici amici. La ragazza dovette
imporsi di non lasciarsi sfuggire un sospiro di sollievo.
“Noi usciamo, va bene?” Così dicendo, Jeremy si trascinò Grace
all’esterno, raggiungendo velocemente la bicicletta. La portò in strada e
insieme presero posto.
“Sei fissato con questa bici, eh?” lo schernì lei, stringendosi
forte a lui. Si rese conto di non sentirsi più in imbarazzo a compiere quel
gesto; al contrario, desiderava sentire il contatto con il corpo di lui,
inalare il suo profumo, imprimersi addosso ogni singola sfaccettatura del suo
essere.
“Facciamo prima.”
“Lo so, scherzavo.”
Rimasero in un complice silenzio, dopo che Grace gli ebbe dato le
indicazioni precise per raggiungere la casa di Jane.
Non appena giunsero a destinazione, Grace sospirò.
“Andrà tutto bene” la rassicurò il ragazzo, aiutandola a spostarsi.
Per lei stava già facendo buio, l’oscurità stava incombendo sul
paese con tutto il suo crudele e misterioso fascino.
La ragazza suonò il campanello e attese.
“Se vuoi me ne vado” sussurrò lui.
Grace ci pensò su e annuì. “Forse è meglio.”
Jeremy si allontanò. “Ti aspetto qua fuori.” E sparì dietro il muro
alla sua destra.
Intanto, il portoncino si aprì e la madre di Jane fece capolino,
invitando Grace ad entrare.
“Ciao.”
“Ciao. Jane è di sopra.”
“Grazie.” La ragazza fece per avviarsi alle scale.
“Ce la fai da sola?”
“Sì, certo.”
La donna scomparve oltre la porta della cucina e lei poté salire e
dirigersi nella camera della sua amica.
“Ciao, Jane” la salutò, affacciandosi alla sua porta.
L’altra ragazza, sorpresa, sobbalzò sul letto dov’era seduta. “Cosa
ci fai qua?”
“Sono venuta a parlare con te.”
“Di cosa?”
Grace sospirò e si sedette sul bordo del letto. “Non mi è piaciuto
affatto il tuo comportamento di ieri” cominciò a dire. “Avrai le tue arcane
ragioni ma mi hai ferito, mi ha fatto male sentirti parlare così di me, mi ha
distrutto sapere che mi fai passare per quella che non sono.”
Jane non parlava.
“Ti voglio bene, non mi interessa niente di tutte queste
discussioni.”
L’altra ragazza si voltò a guardarla. “Non…”
“Ho fatto l’amore con Jeremy” la interruppe Grace, di getto.
Jane scattò in piedi, sorpresa.
“Ecco, ora sai tutto.” Grace si alzò e si accostò alla porta. “Non
ti chiedo di rispondermi ora, ma voglio che tu ci pensi, voglio che tu rifletta
sull’amicizia che stai gettando all’aria a causa di una stupidaggine.”
Calò il silenzio.
Dopo qualche minuto, fu ancora Grace a spezzarlo. “Domani
ripartirà. Ora devo andare, mi aspetta. Stiamo cercando di utilizzare ogni
singolo istante per… oh, è così difficile…”
Senza aggiungere altro, la ragazza se ne andò. Una volta giunta al
piano inferiore, salutò la madre di Jane e uscì, incurante del fatto che
qualcuno si degnasse di accompagnarla.
Jeremy la aspettava. Notando la sua espressione sconsolata e
triste, la prese tra le braccia e cercò di confortarla.
“Non ha detto una parola” disse lei, sforzandosi enormemente per
ricacciare indietro le lacrime.
“MI dispiace.”
Jeremy pedalava lentamente in direzione di casa Andrews.
Grace, intanto, cercava di non pensare. Tuttavia, questa
costrizione si rivelò molto più complicata di quanto credesse.
Non voleva dover lasciare Jeremy, non voleva rimanere da sola, non
voleva che quel rapporto appena nato stesse già per terminare. Eppure, lo
sapeva, lo sapevano entrambi. Erano consapevoli che doveva succedere. In ogni
caso si erano lasciati andare e avevano vissuto ogni istante nella maniera più
intensa possibile.
“Jeremy” lo chiamò, con un rantolo, accasciandosi contro la sua
schiena.
“Non posso uscire con i miei amici” dichiarò lui, serio.
“Ma sì che puoi, devi!”
“Non ti posso lasciare così.”
“Anche loro sono importanti.”
“Sì, ma non quanto lo sei tu.”
Grace fremette. “Esageri.”
“No, affatto. Voglio che tu rimanga con me, stanotte.”
Lei soffocò un’esclamazione sorpresa.
“Hai capito bene.”
“Sei completamente fuori di testa.”
Il ragazzo inchiodò di botto, facendola sobbalzare. La fece
scendere dalla bici e la prese per le spalle, piantandole gli occhi addosso,
pur sapendo che lei non poteva vederlo. Ciononostante, Grace si sentì penetrare
ugualmente dal suo sguardo e rabbrividì.
“Stammi bene a sentire: non so se ti amo, Grace, ma sono certo che
mi fai impazzire e non riesco a sopportare l’idea di doverti perdere ora. Ti
voglio con me stanotte, concedimelo.” Il suo tono era fermo e disperato,
implorante e dolce. “Concedimelo” ripeté.
“Io… sì, sì, dannazione! In qualche modo
faremo, ma stai pur certo che starò con te, dovessi fare le pazzie più
improbabili di tutta la mia vita.”
Jeremy, raggiante, la strinse forte a sé.
“Ho già un’idea” proferì Grace, per poi sorridere con fare
cospiratorio.
Jeremy ridacchiò e, dopo essere rimontati sulla bici, ripresero il
loro viaggio verso casa di lei.
“Ciao, mamma” salutò Grace, non appena entrò in casa.
La donna le andò incontro, curiosa di sapere com’era andato il
pranzo in casa Pherson, ma dovette tenere la bocca
chiusa poiché la ragazza non era sola: al suo fianco, Jeremy Pherson sorrideva tranquillo.
“Salve” fece lui, educatamente.
“Ciao Jeremy. Non mi aspettavo che Grace ti portasse qui. Vieni,
siediti” lo invitò la madre di Grace, gentile. Gli indicò il divano in stoffa
addossato alla parete e lui lo raggiunse, mettendosi a sedere.
“Mamma, devo andare a dormire da Jane” disse Grace, con
disinvoltura, avvicinandosi a lei per baciarle la guancia.
“Ah, sì? Come mai? In sei anni che vi conoscete non ti hanno mai
invitato a dormire da loro.”
“Non so, hanno avuto l’idea di fare un pigiama party. Tra l’altro,
a quanto pare il padre non c’è, deve andare non so dove…”
Grace si diresse verso la sua camera, con l’idea di far finta di prepararsi per
quell’evento. In realtà, stava sperando che sua madre non sospettasse
assolutamente niente, anche se era certa che non sarebbe successo. La donna,
infatti, si era sempre fidata completamente di lei, poiché non aveva mai avuto
motivo per non farlo.
Ma se avesse scoperto la verità, se fosse venuta a sapere che
Jeremy le aveva chiesto di trascorrere quell’ultima notte con lui, be’, avrebbe certamente cambiato idea.
Mentre fingeva di ficcare qualcosa per la notte in uno zainetto,
udì sua madre parlare con Jeremy e ne fu rassicurata.
“Anche tu vai a dormire da Jane?” scherzò la donna, facendo
sussultare Grace che, sul punto di rientrare in cucina, si bloccò poco prima di
farlo. Fu quasi certa che anche il ragazzo si trovasse in difficoltà, ma lui
rispose in una maniera che la sorprese.
“Certo, perché?” Il suo tono ironico e la risata della madre,
rasserenarono Grace che fece finalmente il suo ingresso nella stanza.
“Mamma! Jeremy mi accompagna e basta” puntualizzò. “Sei sempre la
solita!”
I tre ridacchiarono, poi Jeremy si alzò.
“Io sono pronta.”
“Bene, andiamo. Allora, arrivederci signora.”
“Non mi dare del lei, per carità! Ho qualche capello bianco ma non
mi sento affatto un’ottantenne. Jeremy! Allora, quando parti?”
Lui rise.
Grace si sentì in imbarazzo per sua madre.
“Parto domani” mormorò lui, con un’inflessione malinconica nel tono
di voce.
“Di già? Ti mancherà questo posto, immagino.”
“Molto” disse. “Molto” ripeté.
Grace sussultò interiormente, cercando di allontanare il più
possibile quei pensieri. Perché diamine sua madre gliel’aveva ricordato? Lei non
voleva che Jeremy se ne andasse, non poteva essere vero!
Scosse impercettibilmente il capo. “Andiamo? Jane mi aspetta!”
Jeremy le lanciò un sorriso, poi salutò ancora una volta la madre
di Grace e insieme uscirono, trovando il cielo notturno ad accoglierli.
La ragazza si aggrappò al suo braccio, finché non raggiunsero la
bicicletta.
Presero posto e Jeremy partì, riflettendo su dove potessero andare.
“Dobbiamo mangiare” osservò Grace. “Ho un po’ di soldi con me, ti
va una pizza?”
Lui sorrise. “Perché no?”
Lei gli si strinse addosso, inalando il suo profumo. “Dove la
prendiamo?”
“Ora lo vedrai” fece lui, con fare cospiratorio.
Grace scoppiò a ridere, tirandogli qualche dread.
“Se mi distrai, rischiamo di cadere dalla bici, Gracie.”
“Scusa.”
Rimasero in silenzio mentre la brezza notturna sferzava leggermente
i loro visi.
“Poi dove andiamo? Abbiamo tutta una notte davanti, e…”
“Ci sto pensando” la interruppe lui, dolcemente. “Voglio che sia
speciale, che siamo solo tu ed io.”
Grace ebbe quasi l’impressione di sciogliersi nell’udire quelle
parole. Anche lei aveva lo stesso identico desiderio, ma non aveva comunque
idea di dove passare quelle ore in sua compagnia.
Il cellulare di Jeremy prese a squillare nella tasca anteriore dei
suoi pantaloni. Imprecando, si accostò al ciglio della strada e rispose, senza
scendere dalla bici.
Grace si abbandonò con la testa contro la sua schiena.
“Sì?... mamma, ciao… no, stanotte non
torno, ti dovevo chiamare… sì, mamma, lo sai che sto attento… e non rompere! Domani partiamo e io voglio essere
lasciato in pace stanotte, intesi?... ma sì, non ti preoccupare!... okay, a domani… sì, sarò puntuale, ho capito, ciao.” Riattaccò e
sbuffò.
“Sei stato duro con lei, non credi? Si preoccupa per te, Jemy, è normale” sussurrò Grace, portando una mano ad
accarezzargli la guancia con la speranza di tranquillizzarlo un po’.
“Voleva che tornassi a casa.”
“Oh.”
“Non lo avrei fatto nemmeno sotto tortura, voglio stare con te
stanotte, fosse l’ultima cosa che faccio.”
Il tono fermo e sicuro che utilizzò, fece fremere Grace nel
profondo, facendo sì che quelle parole si incidessero nella sua anima.
Lo abbracciò forte, cercando di trasmettergli tutto quello che non
riusciva ad esprimere a parole e che, comunque, provava per lui.
“Non pensiamoci più, Gracie.” Le baciò la
mano, poi aggiunse: “Ho fame, perciò andiamo a mangiare questa dannata pizza!”
E ripartì più veloce di prima.
La cena trascorse tranquillamente.
“So dove possiamo andare.” Jeremy balzò in piedi, abbandonando la
panchina su cui sedeva poco prima.
“E dove?” chiese Grace, sorpresa, per poi infilarsi in boca l’ultimo boccone di pizza.
Il ragazzo non rispose. Afferrò il cellulare e cercò un numero in
rubrica, per poi premere il pulsante verde e portarsi l’apparecchio all’orecchio.
“Jemy…?” azzardò Grace.
“Ehi, Noel!... mi dispiace, lo so che
sarei dovuto uscire con voi, ma… sì, sì, esatto!... a
proposito, senti, non è che per caso mi procureresti…?
Ah, fantastico! Sei sempre il migliore!... bene, vengo a prendere le chiavi lì,
allora. Ciao, e grazie!” Jeremy attaccò e si cacciò frettolosamente il
cellulare in tasca, per poi trascinare Grace via dalla panchina.
“Ma sei scemo? Si può sapere che ti prende?”
“Sali in bici, te lo spiego strada facendo!”
Grace obbedì, pensando debolmente ai cartoni delle pizze
abbandonati sulla panchina di ferro.
“Allora, Gracie” attaccò il ragazzo,
prendendo a pedalare velocemente. “Il mio amico Noel
ci presta la sua casa in campagna.”
“COSA?!” gridò lei, indecisa se essere felice o sentirsi
spaventata.
“Hai capito bene. Ma, Grace, sempre se ti va.”
“Mi va, mi va eccome!” affermò, stringendosi più forte alla sua
schiena.
“Sono felice.” Jeremy sorrise, aumentando ulteriormente la
velocità.
Giunsero al parco in pochissimo tempo e Jeremy aiutò Grace a
scendere. Insieme, raggiunsero gli amici di lui che, non appena videro il
ragazzo, gli andarono incontro.
“Allora sei venuto!”
“Jeremy, pensavamo di averti perso per sempre…
domani parti e ci hai abbandonato!”
“Già, bastardo, non volevi salutarci, eh?”
Noel gli fece tintinnare le
chiavi davanti agli occhi. “Tieni, fratello, ti auguro un’eccitante serata.”
Grace fu certa di essere diventata paonazza dall’imbarazzo. Non conosceva
personalmente nessuno di loro e questo la metteva terribilmente a disagio,
considerato il fatto che con il buio odiava conoscere nuove persone, trovava
orribile non poter vedere i suoi nuovi interlocutori, coloro che non sapevano
niente di lei e della sua malattia.
“Ehi, ragazzi, calmi!”
“Ah-ah, e così stasera si fotte, Pherson, eh?”
“Smettetela, ragazzi, siete una massa di idioti!”
Il gruppo esplose in una fragorosa e collettiva risata, mentre
Grace avrebbe voluto sprofondare nel terriccio che avvertiva sotto le suole
delle scarpe.
“Sentite, voglio presentarvi Grace.”
Tutti la osservarono con poco interesse.
“La conosciamo già.”
“Ehm, già…” mormorò lei, sentendo l’imbarazzo
crescere ancora di più.
“Siete degli emeriti stronzi, non c’è che dire. Be’, sappiate che
noi due stiamo insieme, perciò vedete di comportarvi bene con lei, di tenerla d’occhio
quando non ci sono. Siamo intesi?”
Inaspettatamente, tutti sorrisero.
“Conta su di noi. Ehi, Grace, scusaci, a volte siamo proprio dei
coglioni. Piacere di conoscerti, io sono Noel.” Il ragazzo
le si avvicinò, tendendole la mano.
Di riflesso, certa che lui stesse compiendo quel gesto, anche lei l’allungò
e, dopo averla trovata a tentoni, la strinse.
Jeremy le avvolse le spalle con un braccio.
“Non vi preoccupate, non me la prendo per così poco. Dopo aver
conosciuto Jemy, non mi sorprendo più di niente”
scherzò Grace, sentendosi improvvisamente a suo agio.
Tutti risero.
“Ehi, sei forte ragazza! Pherson,
attento, può darsi che la rapiamo quando tu non sarai più tra i piedi!” esclamò
il suo amico Roland, sghignazzando.
“Ma piantala Roll, sei patetico!” lo
schernì Jeremy, ridendo.
Il gruppo rise ancora per un paio di minuti, poi Jeremy e Grace
salutarono e andarono via.
Risalirono in bici e Jeremy guidò il modesto mezzo fino alla
periferia del paese, per poi inoltrarsi in una poco illuminata strada di campagnia.
Grace rabbrividì. “Sei sicuro di sapere dove stai andando?”
“Per chi mi hai preso, ragazzina?”
Lei rise. “Ragazzina, poi!”
All’improvviso, le venne in mente una cosa: Jeremy aveva detto ai
suoi amici che loro due stavano insieme!
“Jemy?!” lo chiamò, sospettosa.
“Che c’è? Se vuoi ancora mettere in dubbio le mie capacità di
orientamento, sei pregata di evitare.”
“No, cretino! Volevo sapere… ma com’è che
noi due stiamo insieme e io non lo sapevo?”
Lui ridacchiò. “Non è necessario che tu lo sappia.”
“Questa mi è nuova.”
“Intendevo dire che è scontato, è ovvio che stiamo insieme. Grace,
non vado a letto con la prima che capita.”
Grace si sentì avvampare. “Aspetta, io…
non volevo dire, cioè…” S’interruppe, per poi
sospirare. “Mi dispiace, hai ragione.”
Poco dopo, Jeremy si fermò e la aiutò a smontare.
“Jeremy, scusa… mi dispiace, non volevo.”
Lui si voltò e la prese tra le braccia, stringendola forte. “Non
devi scusarti. In fondo non ne abbiamo parlato.”
“No, non ne abbiamo parlato. Ma non importa, sai…
mi sta bene.”
“Cosa?”
“Questa situazione. Insomma, sì, stiamo insieme. Perché no? Anche io
non vado a letto con il primo che capita.”
Jeremy ridacchiò. “Lo so.”
Così, mentre continuavano a scambiarsi battute, si inoltrarono nel
giardino che contornava la casa della famiglia di Noel.
Non appena entrarono, avvertirono un leggero odore di chiuso ma non
ci badarono.
Jeremy accese la luce, chiuse a chiave la porta d’ingresso e
inchiodò Grace con la schiena contro la superficie di legno.
La stanza in cui Grace riposava, premuta con la schiena contro il
torace di Jeremy, era immersa nell’oscurità. Non riusciva a vedere niente,
sapeva solo che era sfinita, dopo aver fatto l’amore con lui per l’ennesima
volta. In ogni loro gesto si scorgeva la disperazione, si sentiva già la
mancanza di tutto ciò che non avrebbero avuto, stando lontani. Eppure, la
verità era una e assoluta: poche ore dopo si sarebbero separati e niente
avrebbe potuto impedirlo.
Improvvisamente, calde lacrime le rigarono il viso, rendendola
triste, fragile e sola, anche mentre il ragazzo che dormiva accanto a lei la
stringeva a sé con forza.
Non riusciva a dormire, ma non voleva svegliare Jeremy. Avrebbe
dovuto affrontare un lungo viaggio e aveva bisogno di riposare.
Strinse forte i pugni, reprimendo i singhiozzi e lasciando che la
sofferenza le scavasse dentro. Aveva sbagliato, aveva sbagliato tutto. Non
avrebbe mai dovuto permettere che le cose tra lei e quel ragazzo si
sviluppassero in quel modo, non avrebbe dovuto perdersi così tanto in lui anche
se, ora ne era consapevole, non aveva desiderato altro dal primo momento in cui
se l’era ritrovato davanti dopo tanto tempo.
Ad un certo punto non riuscì più a reprimere la disperazione e
esplose in sonori singhiozzi che fecero sobbalzare Jeremy, risvegliandolo.
“Grace… Grace! Ehi, che fai? Non
piangere!” la esortò, stringendola da dietro, per poi pasarle
le dita sul viso e accarezzarlo, cercando di asciugare le gocce salate dalle
sue guance.
La ragazza si voltò nella sua direzione e gli affandò
il viso sul petto.
“Oh, Grace.” Le accarezzò i capelli, affranto.
“Scusa, scusa… mi sento una bambina, lo
so che è difficile anche per te, ma io…non… non volevo svegliarti, mi dispiace.” Sospirò.
“Avevi intenzione di piangere da sola, di soffrire in silenzio?
Be’, sappi che non sono d’accordo.”
“Cosa?”
“Hai capito bene. Provi delle emozioni e io voglio che tu le
esterni, le esprima… devi liberarti Grace, altrimenti
sarà ancora peggio quando me ne andrò.” La voce di Jeremy, ancora leggermente assonnata,
si affievolì mentre pronunciava le ultime tre parole. “Mi sento triste, mi fa
male anche solo il pensiero di doverti stare lontano per chissà quanto tempo.
Non so come fare, Grace, non lo so!” Il ragazzo si passò una mano tra i lunghi dread, esasperato da se stesso.
“Io… io mi sento persa” mormorò lei,
coprendosi gli occhi con entrambe le mani.
Jeremy afferrò delicatamente le sue mani e le strinse. “Non temere.
Parla, dimmi come ti senti, non te ne vergognare. Voglio guardarti.”
Grace si sentì morire, imbarazzata e malinconica per il fatto di
non poter fare lo stesso. “Anche io vorrei poterlo fare” sussurrò, affranta.
Jeremy emise un sibilo, rendendosi conto di aver commesso un
errore, di averla probabilmente ferita. “Gracie… mi
dispiace, non era mia intenzione…”
Lei scosse il capo. “Non importa.” Gli posò le mani sul petto e lo
accarezzò. “Posso toccarti, questi sono i miei occhi ora.”
Jeremy parve profondamente colpito da quelle parole, perciò tacque.
Grace continuò a tracciare linee immaginarie sulla sua pelle,
percependo ogni singolo movimento del suo corpo. Era questo che amava della sua
malattia, quella che, pur limitandola, le donava la possibilità di percepire in
maniera più acuta le sensazioni attraverso gli altri quattro sensi.
“Non so cosa dire” dichiarò lui, dopo qualche secondo. “Mi hai
lasciato senza parole.”
“Davvero?”
“Sì.”
Grace gli baciò il mento. “Mi mancherai.”
“Anche tu. Sarà difficile.” Jeremy chiuse gli occhi.
“Hai idea di quanto tempo passerà prima che tu possa tornare?”
“Farò il possibile per tornare a Natale.”
“Ti aspetterò.”
“Grace, non dovresti.”
Lei aggrottò la fronte, contrariata. “Perché no?”
“Sarò lontano per molto tempo.”
“E allora?” Grace sbuffò. Per quale motivo stavano discutendo? Era
ovvio, scontato, logico che lei l’avrebbe aspettato, correndo il rischio di
trovare i suoi sentimenti affievoliti nei suoi confronti. Lei era certa di
volere soltanto lui, era la prima volta che il suo cuore batteva così forte, la
prima volta che era sicura e matura per affrontare dei sentimenti come quelli
che provava per Jeremy.
“Potresti stancarti di aspettare.”
“Certo, come no.” La ragazza si allontanò da lui, irritata. “Ho
l’impressione che il primo a stancarsi sarai tu.”
“Grace, non è così e poi… non è una
gara!”
“Ah, no? Strano, mi sembrava che fosse così.”
“Non farmi incazzare, non adesso. Non mi stancherò di te.”
“Nemmeno io, Jeremy.”
“Non puoi esserne certa!”
“Nemmeno tu.”
Calò il silenzio.
Grace non si mosse, si sentiva ferita dal comportamento del
ragazzo.
Fu lui a parlare, dopo alcuni minuti: “Mi dispiace. Se vogliamo che
funzioni, dobbiamo avere fiducia l’uno nell’altra.”
“Io mi fido di te” proferì Grace, schietta.
“Anche io.”
“Non mi sembra.”
“Oh, Gracie, ho detto che mi dispiace.
Puoi perdonarmi e smetterla di tenermi il broncio? Anche se ti confesso che sei
tremendamente sexy con quell’espressione da cane bastonato…”
La ragazza cercò di rimanere seria, ma non poté impedirsi di
sorridere. “Come sarebbe a dire? Sei un bastardo!”
“Eh, addirittura? Ti faccio un complimento e tu mi ringrazi così?
Ingrata!”
Grace tornò ad avvicinarsi a lui e lo baciò con passione. “Sta’
zitto” mormorò sulle sue labbra.
Lui ridacchiò e ricambiò il bacio.
La penetrante luce del sole inondava di riflessi dorati la stanza.
Grace era seduta sul bordo del letto e piangeva, ancora.
Jeremy era sotto la doccia, perciò, per il momento, non poteva
sentirla.
Il tempo era passato, le ore si erano trascinate troppo velocemente
per sembrare reali, tutto si era svolto in maniera troppo rapida. Non poteva
essere, non voleva crederci, era troppo da sopportare per lei.
Era stata la prima ad alzarsi quella mattina. Si era gettata sotto
il getto tiepido dell’acqua con la speranza di sentir scivolare via la
malinconia, ma tutto era stato inutile.
Si sentiva più smarrita e triste di prima e sapeva che quello era
solo l’inizio.
Infatti, Jeremy era ancora con lei, poteva sentire il suo profumo,
poteva baciarlo, poteva averlo ancora, se solo avesse voluto.
Eppure, era già come se lui non ci fosse, come se il freddo inverno
fosse già arrivato.
Si alzò dal materasso e raggiunse la finestra, perdendo lo sguardo
all’esterno senza realmente prestare attenzione al paesaggio campagnolo che le
si presentava. Il cielo era terso e uno splendido sole illuminava ogni cosa, ma
era come se per lei fosse ancora notte.
Avvertì la presenza di Jeremy nella stanza e si voltò a guardarlo:
indossava soltanto un paio di pantaloncini ed era incredibilmente bello.
Nonostante le lacrime le appannassero gli occhi, riusciva a bearsi di
quell’immagine, finalmente, come non aveva potuto fare durante la notte.
“Stai piangendo.” Quella del ragazzo non fu una domanda, bensì una
constatazione.
A Grace sfuggì un sonoro singhiozzo.
“Ti prego” mormorò lui, avvicinandosi a lei. Le afferrò il mento e
la guardò negli occhi.
La ragazza cercò di divincolarsi, così da sottrarsi alla sua vista,
ma lui non glielo permise.
“Non scappare da me. So come ti senti, è esattamente così che mi
sento anche io.”
Grace non era in grado di proferire parola, si sentiva stordita e
indebolita da tutte quelle lacrime, come sempre accadeva. Odiava piangere, e
ancora di più detestava l’idea che qualcuno la costringesse a farlo senza
lasciarle la possibilità di rintanarsi in solitudine.
Ma, dopo la confessione di Jeremy, seppe con certezza che sarebbe
stato inutile chiudersi in se stessa.
“Ce la faremo insieme, te lo prometto” cercò di rassicurarla lui,
prendendola tra le braccia.
Trascorsero un tempo indefinito stretti in un abbraccio disperato,
poi Jeremy la scostò dolcemente da sé.
Grace sorrise debolmente, asciugandosi qualche lacrima con le mani.
Non riusciva più a vedere niente, dietro le lenti appannate degli occhiali.
Jeremy glieli sfilò con delicatezza e lei ebbe la familiare
impressione che il mondo si fosse rimpicciolito e sfocato.
“Vado a lavarli, torno subito.”
La ragazza rimase sola e disorientata, ma non dovette attendere a
lungo prima che lui facesse nuovamente capolino nella stanza. La raggiunse e la
aiutò a risistemarsi gli occhiali.
“Meglio, grazie” disse lei, sorridendo.
“Finiamo di prepararci, ti va? Poi andiamo in paese a fare
colazione.”
“Sì, perché no?” Grace si diresse verso il bagno, muovendosi con
cautela nell’ambiente poco familiare per evitare di sbattere o di rompere
qualcosa.
Si lavò il viso con cura, poi estrasse la spazzola dallo zaino che
aveva portato con sé e sistemò i capelli, legandoli in una coda di cavallo;
spalmò un sottile strato di crema sul viso e uscì, dopo aver riposto i suoi
effetti personali.
Jeremy la aspettava subito fuori dal bagno, già vestito.
“Allora, andiamo?”
Lui annuì e insieme si avviarono all’ingresso, senza toccarsi.
Il ragazzo richiuse la porta della casa in campagna del suo amico Noel e si ficcò le chiavi nella tasca dei jeans.
A Grace sorse un dubbio che la fece sorridere, divertita.
“Che c’è? Perché ridi?” domandò Jeremy, raggiungendo la bicicletta.
“Mi stavo chiedendo che ne sarà delle lenzuola.” Scoppiò a ridere,
imbarazzata.
“Le ho buttate dentro la lavatrice, credo che qualcuno verrà a
lavarle, prima o poi” ironizzò lui, per poi sistemarsi sul modesto mezzo.
Grace si sistemò dietro di lui, aggrottando la fronte. Si augurò di
non destare sospetti nei familiari di Noel o, ancor peggiò, sperò che la voce non si spargesse. D’altronde, si
fidava di Jeremy, ma non conosceva i suoi amici. Cosa ne sapeva lei di
cos’avrebbero detto in giro? Quel pensiero la preoccupò per un po’, ma quasi
immediatamente la forza di qualcos’altro la distrasse.
Jeremy se ne stava per andare e lei non era pronta.
Grace e Jeremy sedevano silenziosamente al tavolino del bar in cui
lui l’aveva portata a fare colazione. Il locale era praticamente vuoto, poiché
erano appena le otto del mattino. Sembrava passato troppo velocemente il loro
tempo, tutto si era consumato con la stessa rapidità con la quale si era
evoluto e svolto. Ora, pensava Grace, non c’era nient’altro che non fosse
quella ciotola piena di cereali che non aveva nessuna voglia di mangiare.
Si sentiva persa, come se stesse vivendo una sorta di lutto interiore.
Natale, doveva aspettare a Natale per rivederlo, non c’era Festa
del Ringraziamento che tenesse, non c’era niente da fare.
Avrebbe potuto guadagnare lei i soldi per poterlo andare a trovare,
ma ancora non aveva un lavoro. Le avevano proposto uno stage in un’azienda che
si occupava di telecomunicazioni, ma il suo colloquio sarebbe avvenuto soltanto
due settimane più tardi e questo, comunque, non le assicurava un posto fisso,
no di certo. Si sarebbe impegnata al massimo, nonostante ci fosse la sua malattia
a limitarla, sempre quella, sempre lei, inesorabile.
Osservò Jeremy che, inondato dai raggi dorati del sole del primo
mattino, era perso nei suoi pensieri, ignorando il bicchiere di spremuta
d’arancia che aveva davanti a sé.
A nessuno dei due andava di parlare, a nessuno dei due andava di
ingurgitare qualcosa, a nessuno dei due andava di contare i minuti che
mancavano alla loro separazione.
Eppure, lo stavano facendo: non riuscivano a non pensarci, non più,
non com’era accaduto durante la notte appena trascorsa.
E Grace, cos’avrebbe fatto, una volta che lui fosse partito?
Sarebbe stata in grado di andare avanti? Sarebbe stata in grado di uscire con
Elizabeth e raccontarle come stavano le cose? E sarebbe riuscita ad affrontare
Jane? Già, quella era un’altra preoccupazione che non le infondeva conforto. In
più, doveva concentrarsi per prepararsi al meglio per il suo colloquio di
lavoro, non voleva perdere l’occasione di guadagnarsi da vivere o, meglio
ancora, di racimolare i soldi per andare da Jeremy.
A distoglierla da quei pensieri fu il cellulare del ragazzo che si
mise improvvisamente a squillare.
Lui sbuffò, mentre si frugava in tasca, poi rispose: “Mamma.”
Grace avvertì le lacrime pungerle la base degli occhi.
“Sì, sono con Grace.” Jeremy fece una pausa per poter ascoltare.
“Capisco.” Sospirò, afflitto. “Va bene, arrivo. Ciao.” Riagganciò e fisso il
vuoto davanti a sé.
La ragazza deglutì rumorosamente, ricordandosi mentalmente di
respirare. Doveva cercare di stare calma, di controllarsi, di non entrare nel
panico.
Lui non disse niente ma lei capì e si alzò.
Jeremy la seguì a ruota e le offrì il braccio.
Insieme si diressero alla cassa a pagare la colazione che non
avevano minimamente consumato.
Una volta usciti alla luce del sole, Grace si scostò dal suo
braccio per poi afferrargli la mano e stringerla forte.
“Ti accompagno a casa Grace” disse lui, lapidario.
“No” ribatté lei. “Vengo con te. Posso rientrare a piedi.” Il suo
tono era determinato, non ammetteva repliche.
Tuttavia, Jeremy le lanciò un’occhiata diffidente. “Sei sicura?”
domandò.
Grace scoppiò in una risata nervosa, poi fece un gesto teatrale con
il braccio, come per avvolgere il panorama circostante. “Guardati intorno, c’è
il sole! Credi che non sia mai uscita a piedi da sola?”
“Okay, va bene!” fece lui, scontroso, sollevando gli occhi al
cielo.
“Non te la prendere con me!” lo rimbeccò Grace, facendo per
lasciargli la mano.
Lui la intrappolò nella sua stretta, le posò l’altra mano sulla
guancia e si chinò per baciarla a fior di labbra. “Non voglio litigare, Grace,
sul serio.” Si allontanò da lei e si passò le mani tra i capelli, scuotendo il
capo. “Io non…” fece una pausa.
“Jeremy” mormorò Grace, poi si gettò tra le sue braccia e lo
strinse forte a sé.
“Non voglio andarmene, Gracie” disse lui
abbracciandola.
“Lo so, nemmeno io vorrei che tu te ne andassi, ma…”
Jeremy si scostò da lei e la fissò intensamente negli occhi.
Lei distolse lo sguardo, temendo improvvisamente che lui volesse
dirle qualcosa che non voleva sentire.
Gli prese la mano. “È tardi. Dobbiamo andare.”
Il ragazzo annuì e insieme raggiunsero la bicicletta.
Per far sì che i momenti che avevano da trascorrere insieme si
prolungassero, si diressero a piedi verso casa Pherson,
senza salire a bordo del modesto mezzo.
Durante il tragitto non si rivolsero la parola.
Grace si sentiva sul punto di scoppiare nuvamente
a piangere, ma voleva essere forte, doveva esserlo per lui, per far sì che si
portasse con sé il minor numero di ricordi malinconici possibili a lei legati.
Gli stringeva la mano e non faceva altro che camminare, trascinando
svogliatamente il suo corpo verso una meta che non voleva raggiungere.
Perché le era capitato tutto quello? Perché doveva già finire ogni
cosa? Perché quel poco di bello che c’era nella sua vita doveva giungere al
termine ancor prima che nascesse del tutto? Non lo capiva, le sembrava tutto
tremendamente ingiusto e senza senso.
Quando intravide casa Pherson, il suo
cuore parve fermarsi per un istante interminabile. In quel preciso momento fu
avvolta da un sottile strato di apatia, che le fece comprendere che non avrebbe
pianto, non più, finché quell’illusione non fosse svanita. L’apatia la
intrigava: da un lato odiava il fatto di non percepirsi completamente, di avere
l’impressione di non esistere nel mondo; ma dall’altro lato era comodo sapere
di poter sfuggire alle emozioni negative almeno per un po’, anche se sapeva che
prima o poi sarebbero tornate ad incombere su di lei, più potenti ed intense di
prima.
Jeremy si fermò e lei fece lo stesso.
Erano arrivati. Dovevano salutarsi.
Grace ritenne opportuno precisare il suo stato non emotivo, perciò
disse: “Mi dispiace, Jemy, in questo momento non
provo niente. Perdonami se ti risulterò fredda, ma è così.”
Lui sgranò gli occhi, osservandola attentamente. “Come sarebbe a
dire che non senti niente?”
“Conosci l’apatia?”
Jeremy scosse il capo, esasperato. “Dio, Grace, sto per partire e tu… perché stiamo parlando di questo, ora?”
“Non lo so, io non lo so.”
Il ragazzo tacque e Grace poté scorgere sul suo viso una profonda delusione,
mista ad una malinconia che lei stessa sapeva di dover provare in qualche
remota parte di sé, ma che non percepiva, sigillata com’era nella sua campana
di vetro e ovatta. Cosa le stava succedendo? Perché l’apatia aveva scelto
proprio quel momento per invaderla? Era assurdo!
“Io… devo andare.”
Grace rimase impassibile. “Okay.”
Jeremy le rivolse uno sguardo truce, carico di rabbia. “Cosa ti sta
succedendo? Dimmelo, Grace!” Le si avvicinò e la prese per le spalle,
scuotendola dolcemente.
Quel gesto la lasciò indifferente, non le provocò quello che
entrambi si aspettavano.
“So che mi dispiace per come mi sto comportando, ma non riesco a
percepirlo” disse Grace, con tono piatto, come se stesse parlando del tempo con
una persona qualsiasi incontrata al supermercato.
Jeremy indietreggiò, rivolgendole uno sguardo terrorizzato. “Non ti
riconosco. Non sei la Grace che amo.”
E, in quel preciso momento, tutto l’universo della ragazza riprese
il suo naturale corso, inondandola di miliardi di emozioni a cui non fu in
grado di associare un nome. Le parve di sprofondare nelle profondità della
Terra e allo stesso tempo di toccare il cielo con un dito.
La sua espressione dovette cambiare improvvisamente, poiché sul
viso di Jeremy sbocciò un debole sorriso.
“Oh, Jeremy!” Lei gli si gettò praticamente addosso, attirandolo a
sé e baciandolo con impeto e trasporto. Si staccò lasciandolo senza fiato e gli
prese la testa tra le mani. “Scusami, mi dispiace, non so cosa mi sia preso. È
che mi sono sentita persa, non so spiegartelo… è
tutto così complicato.”
“Lo so” concordò lui, posandole le mani sui fianchi.
“Non lasciarmi, ti prego” lo implorò, accarezzandogli il viso.
Il ragazzo chiuse gli occhi, sospirando. “Non costringermi a
pensarci, potrei prendere seriamente in considerazione la tua proposta e ora
come ora non posso.”
Grace si strinse a lui, inalando il suo profumo, quello che adorava
in maniera imprescindibile, quello che voleva imprimersi a fuoco nell’anima.
Il cellulare di Jeremy prese a squillare. Senza lasciar andare
Grace, controllò chi lo stesse chiamando, poi premette il tasto rosso e lo
ripose in tasca. “Devo andare, Gracie” annunciò,
accarezzandole i capelli.
“Sì” mormorò lei, rassegnata.
“Ascoltami.” La guardò negli occhi. “Qualunque cosa succeda, sappi
che porterò questi momenti con me per sempre. Non posso dimenticare quanto sia
stato bello aver approfondito la mia conoscenza con te, in tutti i sensi.” Le
sorrise in una maniera così dolce da farle sciogliere il cuore. “Fare l’amore
con te è stato stupendo, tu sei stupenda. Oh, Gracie.”
Lei scosse il capo, commossa. “Anche per me, anche per me è stato tutto… dio, mi ero ripromessa di non piangere, invece…” E così, le lacrime tornarono ad inondarle il viso,
inesorabili. Si domandò pigramente quante potesse ancora versarne. Si sarebbe
esaurite, prima o poi? C’era un limite massimo calcolabile in litri? Non lo
sapeva e francamente non le importava affatto.
Jeremy le lasciò delicati baci sul viso, asciugandole le gocce
salate che non volevano saperne di arrestarsi. Le sfilò gli occhiali e continuò
a riempirla di attenzioni, finché non fece un passo indietro, addolorato.
Le restituì gli occhiali e si chinò a baciarla di nuovo. “Mi
mancherai.”
“Anche tu. Fatti sentire appena arrivi, ho bisogno di sapere se
stai bene.”
“Non ti preoccupare, lo farò. A presto, Gracie.
Abbi cura di te” le raccomandò, sistemandole una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
“A presto.”
Il ragazzo le baciò delicatamente la fronte, poi si allontanò
lentamente, a testa bassa.
Grace rimase impalata in mezzo alla strada per un tempo che le
parve un’eternità, poi ebbe la forza di girare i tacchi ed incamminarsi verso
casa di Elizabeth.
Non era quello il momento di stare sola, si sentiva già percorrere
da un senso di perdita incredibile, da un dolore lancinante e quasi fisico che
la stava uccidendo.
Aveva bisogno di compagnia, altrimenti sarebbe crollata ancora più
in basso, nel suo abisso personale.
Grace camminò febbrilmente verso casa Carlsson,
cercando di far attenzione all’ambiente circostante. Non aveva altro in testa,
se non il fatto che Jeremy se ne stava andando. Lei non riusciva a pensare di
poter rimanere da sola, senza lui, ora che tutto sembrava andare positivamente.
Raggiunse la sua meta e sospirò, sperando di non trovare in casa i
genitori della sua amica. Ma, in realtà, non le importava più di tanto.
Ad aprire, infatti, fu il signor Carlsson,
un uomo di mezza età dai capelli bianchi e dall’aria simpatica e, allo stesso
tempo, severa.
“Ciao” la salutò.
“Salve!” scattò Grace, troppo bruscamente. Stava facendo uno sforzo
disumano per non piangere.
Lui la osservò con aria scettica. “Tutto bene?”
“Certo. Voglio soltanto parlare con Elizabeth.”
“Non è in casa.” L’uomo scrollò le spalle.
“Oh.”
“È andata in pasticceria a comprare qualche dolce” aggiunse lui.
“Grazie.” La ragazza si voltò e fece per andarsene.
“Non vuoi aspettarla?”
Grace rispose: “No, preferisco raggiungerla. Arrivederci.” Così, si
mise in marcia lasciando l’uomo impalato sulla soglia.
Non aveva tempo da perdere, era già amareggiata perché non aveva
trovato Elizabeth in casa e ora doveva fare un sacco di strada per parlarle. In
realtà, il tratto non era poi così lungo, ma le sue condizioni attuali
tendevano ad amplificare ogni avvenimento e sensazione.
Era sicura di quale fosse la pasticceria abituale di Elizabeth,
poiché la sua amica la frequentava abbastanza spesso per potersi gustare i suoi
adorati croissant.
Sorrise debolmente, immaginando il viso radioso della ragazza che
ammirava i suoi dolci preferiti.
Affrettò il passo non appena si ritrovò a passare sotto casa Pherson: non riusciva a immaginarsi che lui fosse in
partenza, era una realtà che non era pronta ad accettare, non da sola.
Si affrettò a raggiungere la fine della strada e si mise quasi a
correre verso la pasticceria.
Quando giunse, era senza fiato. Si appoggiò con la schiena contro
la parete e cercò di regolarizzare il respiro.
Ad un tratto, mentre teneva gli occhi chiusi per proteggerle dal
sole che le batteva sul viso, si sentì battere sulla spalla.
Sobbalzò e spalancò gli occhi, spaventata.
“Ehi. Che fai qua?” domandò una sorridente Elizabeth che stringeva
tra le mani un pacco di dolci con al di sopra il logo della pasticceria.
Grace fu invasa da un immenso sollievo. “Io…”
provò a dire, ma subito le lacrime finora represse le scivolarono via dagli
occhi, rendendola nuovamente vulnerabile.
“Oh, Grace!” Elizabeth si rabbuiò, il suo sorriso scomparve e la
preoccupazione le si dipinse sul viso dai tratti infantili.
Grace si premette le mani sul viso e cercò invano di reprimere i
rumorosi singhiozzi che il pianto le produceva.
Era finita. Solo ora se ne rendeva conto. Solo ora che il sole le
riscaldava il corpo ma, allo stesso tempo, la raffreddava dentro, congelandola.
Solo ora che Elizabeth la stringeva goffamente a sé, cercando di non far cadere
il pacco dei dolci. Solo ora che la sua vita non riusciva ad avere alcun senso.
Si sentiva persa, svuotata, come se il suo cuore non le appartenesse più.
“Grace… ascolta: devo riportare a casa i
dolci, poi parliamo. Va bene? Mi dispiace, ma…”
“Sì, Lizzie, va bene…
va bene!” gridò Grace, in preda alla disperazione.
“Calmati, mi fai paura. Grace, ti prego…”
“Lui se n’è andato!”
“Oh, sì, sì, lo so… Grace, sapevi che
sarebbe successo, perché…?”
“Io lo amo, Lizzie, lo amo!”
“Ma cosa stai dicendo?” sbottò Elizabeth, scostandola da sé e
fissandola, stupefatta.
Grace si limitò a scuotere la testa.
“Andiamo” ordinò l’altra, trascinandola dolcemente per un braccio.
“Abbandono i dolci a casa e poi mi racconti tutto.”
Così, tornarono verso casa Carlsson,
mentre il silenzio tra loro veniva interrotto soltanto dai regolari singhiozzi
di Grace che, stretta al fianco di Elizabeth, cercava di farsi una ragione di
quel dolore. Camminò a testa bassa di fronte alla casa di Jeremy, sapendo che
lui, probabilmente, non si trovava più là.
Sospirò, senza smettere di piangere e seguì docilmente la sua
amica.
Grace ed Elizabeth sedevano su una panchina del parco comunale.
“Grace, parlami, dai” ripeté per l’ennesima volta Elizabeth,
esasperata.
L’altra annuì, poi si schiarì la voce. “Io…
io non ce la faccio.” Il suo tono era arreso, disarmante, triste
all’inverosimile.
“A fare cosa?”
Grace deglutì a fatica. “Senza… senza di lui. Io…”
“Ieri mi hai detto espressamente che ti faceva schifo la sola idea
di baciarlo e oggi mi confessi di esserne innamorata. Le cose sono due: o mi
hai nascosto qualcosa o stai correndo troppo.”
“Lizzie, ieri semplicemente ho mentito. Credo… credo di aver sempre provato qualcosa nei suoi
confronti. Tutto dev’essere riaffiorato quel giorno
che l’ho incontrato per la prima volta dopo tanto tempo.”
Elizabeth rifletté, poi disse: “Be’, questo spiegherebbe la tua
gelosia nei confronti di April.”
Grace fece una smorfia nell’udire quel nome. “Forse” mormorò a
testa bassa.
“Perché mi hai mentito?”
“In realtà non me n’ero nemmeno accorta, finché lui non mi ha
baciato.” Grace avvertì una fitta di dolore a quel ricordo, come se fosse
lontano anni luce da lei, ormai, nonostante fosse accaduto soltanto il giorno
precedente.
“Cosa?” Elizabeth scattò in piedi.
Grace sollevò lo sguardo. “Sì. Ieri, a casa sua, dopo pranzo.”
“Oh. Ma… non era un pranzo in famiglia?
Voglio dire, non c’erano i suoi?”
“No, non c’erano. Hanno pranzato da sua nonna” spiegò Grace.
In seguito, abbassò gli occhi e prese a fissarsi le mani che si
contorcevano nervosamente tra loro.
“Questo è un guaio” commentò Elizabeth, con tono di
disapprovazione.
‘Aspetta di sentire cos’altro è successo’ pensò Grace. “Sì, lo è”
disse.
Elizabeth alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
“E dopo noi…abbiamo…”
“NO, NON DIRMELO!” gemette l’altra, tappandosi le orecchie e
serrando gli occhi.
“Lizzie!”
“Oh. Mio. Dio.”
“Ascoltami…io…”
“Maledizione, Grace!”
“È successo, Lizzie, basta. Lo abbiamo
voluto entrambi, anche se tu pensi che lui si sia approfittato di me” chiarì
Grace, acida. Si sentiva ferita dalla diffidenza e dallo scetticismo della sua
amica.
“Io non penso questo, penso che hai fatto una grandissima cazzata,
cara mia!”
L’altra tacque.
“Okay, mi calmo. Okay.”
“Non è finita.”
“Oh, buon Dio, cos’altro hai combinato?” Elizabeth si passò
entrambe le mani tra i capelli, cercando di assimilare tutto quello che aveva
appena appreso e di prepararsi mentalmente al peggio.
“Stanotte… ho detto ai miei che dormivo
da Jane, invece…”
“Oh. Merda. Merda. Merda!”
“…invece ho dormito con Jeremy. Noel, il suo amico, ci ha prestato la sua casa in campagna,
sai.”
“Oh.”
“Sì.”
“Oh.”
“Lizzie?!”
“Io sono semplicemente senza parole.”
Grace sospirò. “Che vuoi che ti dica?”
“Non ci vediamo da quanto, un giorno e mezzo? E tu combini tutti
questi casini, tutti insieme! Io. Non. Ci. Credo.” Elizabeth si guardò intorno,
spaesata.
“Credici.”
“Dimmi solo una cosa.” Prese le mani di Grace e le strinse tra le
sue, guardandola in faccia. “Perché?”
“Perché lo amo” ammise lei, con una sincerità disarmante che fece
illuminare il viso alla sua amica.
Improvvisamente, tutto lo stupore e tutta l’esasperazione in lei
scomparvero, lasciando il posto alla semplice consapevolezza. “Grace” sussurrò.
“Lizzie” fece l’altra.
“Mi dispiace che tu stia soffrendo. Ma lui tornerà? Quando?”
“Ha detto che farà il possibile per essere di nuovo qua a Natale.”
Grace gemette, vedendosi srotolare davanti agli occhi i giorni interminabili
che la separavano da quel momento. “Ma anche io voglio andare da lui. Spero che
il colloquio vada bene.”
Elizabeth sorrise. “Sono sicura che ce la farai.”
“Me lo auguro.”
“E così… state insieme” disse Elizabeth,
continuando a scrutare il viso della sua amica.
“Sì, credo proprio di sì. Lui mi ha presentato come la sua ragazza,
sai, ai suoi amici…”
“Oh, cielo, hai fatto in tempo a conoscere pure i suoi amici?!”
“Be’, siamo andati a prendere le chiavi a Noele…”
Elizabeth sbiancò. “Sai cosa significa, questo, Grace?”
“Cosa?” domandò l’altra, allarmata.
“Che tutti i presenti sanno esattamente cosa siete andati a fare.
Perciò, non mi stupirei se la voce si spargesse per tutto il pa…”
“OH, NO!” gridò Grace, seriamente spaventata. E se i suoi genitori
l’avessero scoperto? No, dannazione, non poteva essere vero! Doveva
assolutamente parlare con Noel, non poteva permettere
che lui spifferasse il fatto a tutto il paese.
Si alzò, sperando che quel ragazzo avesse avuto la decenza di non averlo
già fatto.
“Che fai?” domandò Elizabeth.
“Devo trovare Noel. Devo parlargli.”
“Adesso?”
“Sì, merda, sì!”
“Ma a quest’ora sarà a pranzo, dove pensi di trovarlo? In giro, ne
dubito. Anzi, credo stia ancora dormendo dopo lo sballo del sabato sera.” Elizabeth
si alzò e sorrise, sarcastica.
“Non me ne frega niente! Lo butto giù dal letto a calci, devo
accertarmi che non abbia fatto la spia.”
Elizabeth osservò il display del suo cellulare. “Grace, ti prego.
Sono le undici e mezza del mattino e non hai la minima idea di dove abiti
questo cristiano. Cosa credi di fare? Seriamente, rifletti. Se lui avesse
voluto dire qualcosa in giro, non credi che l’avrebbe già fatto? Be’, se è
così, mettiti l’anima in pace e spera che la voce non giunga ai tuoi genitori o
a qualche tuo parente o loro conoscente, e inizia a preparare un alibi.”
Elizabeth si esprimeva come un avvocato e questo la rendeva molto fiera di sé.
Era già entrata perfettamente nel suo futuro ruolo in campo professionale.
“Un alibi? Ah, accidenti! Solo Jane potrebbe confermarlo, i miei
sanno che sono stata da lei.” Grace sospirò. “Ma lei mi odia.”
“Non ti odia. Fai in modo di parlarle. Sono certa che ti capirà.”
“Non ne sono così sicura.”
Elizabeth la prese sottobraccio. “Adesso andiamo. Ti accompagno a casa.
Se vuoi, stasera usciamo a cercare Noel” le propose.
“Sì, grazie.”
Le due ragazze si avviarono verso casa, immerse in una
conversazione in cui Elizabeth snocciolava a Grace tutti i possibili alibi che
avrebbe potuto portar fuori in caso non avesse avuto l’appoggio di Jane.
Grace si rilassò un attimo e cercò di pensare razionalmente,
nonostante il doloro e il senso di perdita non l’avessero abbandonata nemmeno
per un attimo.
Si sentiva persa, ma sapeva che, nonostante tutto, Elizabeth le
sarebbe stata vicino e l’avrebbe sostenuta.
Grace si sfregò i capelli con l’asciugamano, dopo essersi fatta la
doccia. Era già vestita: indossava una maglia nera, quella dei Manowar, che adorava, pantaloni in cotone nero e le solite all star. Legò i capelli in una coda di cavallo e sospirò,
affranta. Si sentiva diversa da qualche ora, da quando aveva stretto per
l’ultima volta Jeremy tra le braccia. Era tutto così monotono e tremendamente
malinconico, intorno a lei. Sua madre le aveva chiesto com’era andata da Jane e
lei era stata costretta a mentirle spudoratamente; suo padre aveva fatto lo
stesso e in quel momento era quasi crollata.
Non vedeva l’ora di uscire, vedere Elizabeth, trovare Noel e parlare con Jane.
Sì, doveva risolvere con lei, e non per una questione di copertura.
I suoi genitori non avevano quasi mai a che fare con quelli della sua amica e
non avrebbero mai sfiorato l’argomento, non avendo mai avuto motivo di dubitare
di Grace.
Da quel punto di vista si riteneva sicura; ciò che la preoccupava
era Noel, l’amico di Jeremy. Noel
e tutti gli altri.
Il campanello suonò e la distrasse da quei pensieri, riportandola
alla realtà.
Suo padre andò ad aprire e fece entrare Elizabeth.
“Ciao” mormorò Grace, mentre si spruzzava qualche goccia di
profumo.
“Ehi.” Elizabeth entrò in camera dalla ragazza e si mise a
setacciare la libreria.
“Hai sentito Jane?” domandò la padrona di casa, afferrando la
borsa.
“Sì. Esce.”
“Sa che ci sono anch’io?”
“Sì. Credo che anche lei voglia chiarire con te.”
Grace sospirò e si diresse verso la porta. Salutò suo padre e uscì,
seguita da Elizabeth.
“Prima di affrontare Noel, devo risolvere
con lei. Mi sento così debole…”
“Oh, Grace. Vedrai che le cose con Jane si sistemeranno.”
Grace si trascinò lungo la strada. “Lo spero. Però parlavo di Jeremy… mi manca.”
“Lo so. Ma ora devi concentrarti su Jane e quell’altro” fece
Elizabeth, enfatizzando in maniera sprezzante le ultime due parole della frase.
Grace alzò gli occhi al cielo. “Noel non
sarà così stupido, dai!”
“Lo spero anche io!”
Le due camminarono fino a raggiungere la casa di Jane. Elizabeth
suonò il campanello e le due attesero.
Jane uscì poco dopo, si chiuse la porta alle spalle e le raggiunse.
Salutò freddamente e in silenzio si diressero automaticamente verso
il parco.
Non appena arrivarono, si andarono a sedere su una panchina non
molto distante dal chiosco.
“Sentite” esordì Elizabeth, rimanendo in piedi. “Non so esattamente
cosa sia successo tra voi, perciò me ne tiro fuori e vado a prendermi un
gelato. Volete qualcosa?”
Grace scosse il capo.
“No” disse Jane, risoluta.
“Okay, a tra poco allora.” Detto questo, Elizabeth se ne andò.
Calò un imbarazzante silenzio tra le due e Grace ebbe timore di
romperlo.
“Allora?” sbottò Jane, voltandosi verso l’altra.
Grace sussultò. “Allora…”
“Cosa devi dirmi?”
“In realtà speravo che fossi tu a dirmi qualcosa” chiarì Grace,
sentendosi più sicura di sé.
“Io non ho niente da dire.”
“Allora ascoltami. Hai reagito eccessivamente l’altra notte, devi
ammetterlo. In fondo, quello che faccio non ti riguarda direttamente. Sono
consapevole del fatto che ti dia fastidio, ma ciò non giustifica il tuo
atteggiamento nei miei confronti.”
Jane sbuffò. “Lo so, però…”
“Però cosa? Mi hai dato indirettamente della poco di buono. Credi
che questo non mi abbia ferito?”
“Ti ha ferito? Be’, sono stata sincera.”
“Ah, sì? Quindi lo pensi ancora!” Grace si agitò sulla panchina,
indignata.
“Non era quello che intendevo!”
“E cosa intendevi?”
Jane sospirò, scuotendo il capo.
“Be’, allora senti questa: io e Jeremy stiamo insieme. Io lo amo.
Adesso hai le prove di ciò che sono. Adesso mi odierai per qualcosa di
concreto.”
“Grace…”
“No, lascia stare.” Grace sollevò le mani in segno di resa.
“Speravo di condividere amichevolmente queste informazioni con te, credevo che… ah, non importa.” Una lacrima le rigò il viso, mentre
parlava. Nel giro di pochi giorni erano successe decisamente troppe cose: aveva
litigato con Jane, aveva trovato l’amore, aveva fatto il grande passo, aveva
perso Jeremy e ora anche la sua amica la stava abbandonando. Era troppo.
Scoppiò a piangere.
In quel momento Elizabeth si unì nuovamente a loro e si chinò su
Grace, accarezzandole i capelli. “Grace, non piangere. Che è successo?”
Jane osservò la scena a bocca aperta.
Elizabeth si raddrizzò e la fissò negli occhi, stizzita. “Sai, è
vero: io non c’entro, ma del resto nemmeno tu hai a che fare con il rapporto
tra lei e Jeremy, eppure ti sei intromessa e l’hai accusata di cose orribili.
Perciò, lascia che ti dica una cosa: o la smetti o te ne vai. Grace non ti ha
fatto niente! Ti vuole bene e ha già sprecato troppo tempo a star dietro alle
tue stronzate. Sai perché non ti ha detto niente? Perché sapeva che l’avresti
presa così, sapeva di non poter contare su di te. Vergognati, che amica sei?”
“Lizzie…Lizzie,
lascia perdere… è inutile…”
“No, Grace, lasciami finire. Io non mi sarei mai comportata come
lei” proseguì, rivolgendosi nuovamente a Jane. “Ma non posso giudicarla, non
avrei cuore di lasciarla sola. Lei si è sentita di fare ciò che ha fatto, ha
seguito il suo cuore. Noi non siamo nelle condizioni di giudicarla
negativamente. Mettitelo bene in testa. Perciò, scegli: la smetti o te ne vai?”
Grace osservò Elizabeth con stupore, asciugandosi le copiose
lacrime che stava versando. Forse era stata un po’ dura con Jane, ma aveva
pienamente ragione e lei non poté far a meno di ringraziarla mentalmente per
quello che aveva detto. Nelle condizioni in cui era, non sarebbe mai stata in
grado di dire a Jane tutte quelle cose. Era mentalmente e fisicamente distrutta
dal dolore e dal senso di perdita, non aveva la forza di lottare con lei.
Doveva ancora affrontare Noel e si domandò pigramente
se fosse al parco.
Jane abbassò lo sguardo, sconfitta. “Hai ragione” mormorò.
Grace temette di aver sentito male: era la prima volta che Jane
ammetteva di aver sbagliato, era orgogliosa e cocciuta come un mulo, in
condizioni normali non lo avrebbe mai fatto.
“Bene!” Elizabeth rivolse un’occhiata a Grace. “Parla con lei, è
lei che hai ferito.” Fece un passo indietro. “Grace, ti va un po’ d’acqua?”
Grace annuì, sconvolta.
“Torno subito.”
Le due rimasero nuovamente sole.
“Grace… lo sai che non mi piace dirlo, ma… mi dispiace” borbottò Jane, senza guardarla.
“Oh, non importa” sussurrò lei, a testa bassa.
“Lo ami.”
Grace sollevò il capo e dichiarò: “Sì, lo amo. Non sono una
puttana.”
“Dio, lo so!” Jane si grattò il mento. “È solo che io… ho esagerato, mi ha infastidito che…”
“Vorresti che tutti si comportassero come te, non è vero? Devi
imparare che siamo tutti diversi.”
“Sì, lo so bene. Non so cosa mi sia preso, mi dispiace tantissimo…”
Grace sorrise. “Lo so. Non ti preoccupare, ti perdono.”
“Io…”
“Senti, ora sei tu che devi perdonare me.”
“E per cosa?” domandò Jane, confusa.
“Ho detto ai miei che ieri ho dormito a casa tua” ammise Grace,
imbarazzata.
“Ah, sì…” Jane parve pensarci un attimo,
poi sorrise. “…ci siamo proprio divertite, vero?”
ammiccò.
L’altra ridacchiò. “Sì, molto.”
Così, non appena Elizabeth tornò con l’acqua, Jane venne informata
di tutta la storia, per filo e per segno.
“E stamattina è partito” concluse tristemente Grace.
“Mi dispiace. Posso solo immaginare come ti senti.”
“Fortunata, sì” ironizzò Elizabeth, alzando gli occhi al cielo.
Grace si alzò. “Andiamo, togliamoci questo pensiero.”
“Ciao, Noel.”
“Oh, guarda, guarda chi abbiamo qui! La fidanzata di Jeremy!”
ghignò Noel, scatenando le risate dei suoi amici.
Elizabeth strinse la mano di Grace con fare rassicurante, mentre
Jane inceneriva il gruppetto con lo sguardo.
“Posso parlarti un secondo?” domandò Grace, ignorando la sua
battuta.
“Ma certo.” Ridacchiò. “Il tuo uomo lo sa?”
Lei si sentì ribollire di rabbia. “Datti una mossa!” sibilò,
stizzita. Ma chi si credeva di essere? Non aveva tempo da perdere con le sue
stronzate da adolescente in preda a crisi ormonali.
Tuttavia, mentre si allontanava, scortata dalle sue amiche, al
seguito dell’amico del suo ragazzo, ebbe la sensazione che le cose non
sarebbero state così semplici da risolvere.
Noel si fermò accanto ad una
panchina di cemento e si sedette, battendo sullo spazio vuoto accanto a lui per
invitarla a sedersi.
“Grace, hai bisogno di noi?” le domandò Elizabeth, protettiva,
mentre trucidava il ragazzo con lo sguardo.
“No. Andate pure. Ce la faccio.” Mentre le sue orecchie percepivano
le sue stesse parole, non ci credette minimamente,
nonostante le avesse pronunciate.
“Okay. Liz, andiamo” disse Jane,
trascinandola via.
Grace rimase sola con Noel e decise di
rimanere in piedi. Osservò il ragazzo che le sorrideva beffardo, illuminato dai
caldi raggi del sole tardo pomeridiano: portava i capelli scuri corti e
acconciati con il gel, indossava una maglia blu e un paio di bermuda verde
militare. Non poteva percepire il suo sguardo, ma era certa che non promettesse
niente di buono.
“Cosa ti serve da me, Gracie?”
“Non mi chiamo Gracie.”
Noel rise. “Che importa? Un nome
vale l’altro.”
“Stammi a sentire” sbottò lei, spazientita. “Veniamo subito al
punto.”
“Ah-ah, molto diretta, GracieAndrews. Complimenti. È
così che hai conquistato Pherson, eh?”
“Smettila!”
“Non scaldarti, bambina. Muoviti, parla. Ho fretta.”
“Voglio sperare che tu non sia andato in giro a spifferare di
averci prestato la casa” disse Grace, con rabbia.
“Oh, ma pensa te!” esclamò lui, con tono sarcastico. “Per chi mi
hai preso? Non lo farei mai.”
La ragazza fu invasa da un moto di sollievo che però non la
convinse. Non si fidava di Noel, c’era qualcosa di
malvagio in lui. Tuttavia, sperò di sbagliarsi, lo sperò con tutta se stessa.
“Ma c’è una condizione” aggiunse lui.
Grace sobbalzò. Il suo cuore perse un battito e il fiato le si
mozzò in gola. “Una condizione?” domandò, con voce strozzata.
La situazione le stava sfuggendo di mano e questo non le piaceva
per niente.
“Sono sicuro che Pherson è stato felice
di scoparti. Sembrava felice quando mi ha chiamato, stamattina. Perciò… mi piacerebbe provare le sue stesse emozioni, con
te. Sì, proprio con te, bambina.”
Grace si sentì sprofondare e cercò di convincere se stessa di aver
capito male.
“Allora? Ci stai?”
“Scordatelo! Non sono una…”
“Ah, no? Ti converrà diventarlo per l’occasione, sai? Se non vuoi
che la notizia di ieri notte giunga alle orecchie sbagliate. Sai cosa intendo.”
Noel sogghignò, malefico. Si alzò e le si avvicinò,
senza però toccarla.
“Tu. Sei. Un. Porco.”
“Fiero di esserlo. Le condizioni sono queste.”
“Jeremy non sarà entusiasta di sapere queste cose” ringhiò Grace.
Noel scrollò le spalle. “Il tuo
uomo non c’è. Potrà arrabbiarsi a Natale con me, ma a quel punto io potrei
essere altrove.”
“Bastardo.”
“Sono cose che capitano, GracieAndrews.”
“Non accetto, non accetto!”
Lui rise. “Pensaci, bambina. Ti do tempo fino a domani sera. Se
decidi di fare la cosa giusta, be’, ti aspetto a casa
mia alle sette.”
“Sei una carogna!” Grace si sentì invadere dalla rabbia più
profonda e viscerale, avvertendo una sensazione di panico e smarrimento che non
aveva mai immaginato di poter provare nel corso della sua vita.
“Se non verrai…” Noel
rise sprezzante, lasciando la frase in sospeso. “Il tuo uomo non saprà niente
del nostro incontro, questo glielo devo. È mio amico, morirebbe se sapesse la
verità. E tu non gliela dirai. Altrimenti…” Fece
spallucce e se ne andò, fischiettando con soddisfazione.
Grace crollò in ginocchio sul terreno arido del parco e desiderò
ardentemente di non essere mai nata.
“Grace, cos’è successo?” Elizabeth raggiunse la sua amica e si
chinò per spronarla ad alzarsi.
Grace non rispose, rimase semplicemente immobile a fissare il
terriccio che le feriva le ginocchia e le sporcava i pantaloni. Tuttavia, non
le importava, non poteva importargliene, non era quello il momento adatto.
Jane la aiutò a mettersi in piedi e la sorresse, poiché la ragazza
tremava da capo a piedi, scossa da una viscerale paura che la stava uccidendo
dentro.
“Grace, parlami!” la incitò Elizabeth, allarmata, mentre lo sguardo
di Grace era vuoto e velato da lacrime che non era in grado di controllare.
Fece per parlare, ma si rese conto di non esserne in grado.
‘Devo parlare, che diamine mi succede?’ si domandò la ragazza,
cercando di inviare messaggi concreti alle sue labbra, affinché esse li
mettessero in pratica.
“Oh, no, non di nuovo…” mormorò Jane, con gli occhi fissi sui suoi.
“Cosa?” domandò Elizabeth, scuotendo Grace per le spalle.
“Credo che sia nel bel mezzo di un attacco di panico, Lizzie.”
“Cosa? No, non è possibile! E adesso che facciamo?”
“Innanzitutto, manteniamo la calma” cominciò Jane, guardandosi
intorno. “Quel bastardo deve averle detto qualcosa di orribile per ridurla in
questo stato.”
“Manteniamo la calma? Jane, ti rendi conto che è come se fosse in
trance?” sibilò l’altra, cominciando ad agitarsi.
“Elizabeth, lo so, ma dobbiamo stare il più tranquille possibile,
altrimenti è peggio.”
Grace assisteva a quella conversazione impotente, cercando di
formulare anche una sola parola. ‘Sto bene, vi prego, smettetela di
preoccuparvi per me. Ragazze, sto bene!’ Si maledisse mentalmente, infinite
volte. Non poteva essere successo di nuovo, era incredibile. Perché proprio a
lei? Perché proprio ora?
Sapeva di dover raccontare alle due ragazze cosa Noel le aveva
detto, ma non ci riusciva. Era completamente inerme e faticava a respirare
regolarmente, sudando freddo. Aveva paura e desiderò ardentemente che tutto si
risolvesse semplicemente dopo una lunga e riposante dormita.
Eppure, non fu così, assolutamente.
Dovette tornare con i piedi per terra: la verità la travolse ancora
e ancora, con una crudeltà inaudita.
‘No, no, Lizzie, non lo fare! Non voglio, sto bene, sto bene!
Ascoltami, dannazione!’
“Non credo sia una buona idea” disse Jane, per poi afferrare Grace
sottobraccio. “Aiutami, la portiamo via. Ha bisogno di un luogo più
tranquillo.”
Elizabeth, confusa, annuì e afferrò la ragazza per l’altro braccio,
per poi incamminarsi fuori dal parco.
‘Grazie, portatemi via. Non voglio che Noel mi veda così, non deve
avere soddisfazioni, non deve!’ Grace pianse, singhiozzò ma ancora non riuscì a
parlare. Era frustrante, tremendamente frustrante per lei, odiava gli attacchi
di panico.
“E dove andiamo?”
“Non troppo lontano. Voglio tornare e affrontare Noel, non può
passarla liscia.”
‘Oh, no, Jane, stanne fuori! Elizabeth, devi impedirglielo, le cose
si complicheranno…’
Elizabeth sbiancò. “Non vorrai lasciarmi sola con lei? Sei pazza.
Non so come comportarmi, sono totalmente sconvolta.”
Jane sospirò. “Nemmeno io la prima volta sapevo come fare. Sono
sicura che qualcosa ti verrà in mente.”
‘Insomma, non potete decidere voi per me! Voglio parlare, cazzo,
voglio esprimere il mio parere. Questa questione riguarda me, non voi!’ Grace
si sentiva sempre peggio; più cercava di articolare quei pensieri, più aveva la
sensazione che le cose peggiorassero sempre più.
“No, non mi fido. Ti prego, Jane.”
“Quel tipo non deve passarla liscia.”
‘Ci penserò io a tempo debito. Ti prego, non andare!’
“Non la passerà liscia, ci andremo quando Grace starà meglio. Ho
bisogno di te” implorò Elizabeth, stringendo impercettibilmente il braccio di
Grace. “Tranquilla, ehi, non piangere. Si sistemerà tutto, vedrai. Se ti calmi,
puoi raccontarci cosa è successo, okay? Dai, Grace, coraggio” aggiunse,
rivolgendosi alla sua amica che in quel momento era a malapena in grado di
muovere le gambe per camminare. Infatti, si accorse che stavano procedendo
piuttosto lentamente rispetto ai soliti standard, tutto per colpa sua.
‘Oh, Lizzie, mi dispiace. Non sai quanto vorrei reagire’ piagnucolò
mentalmente Grace, mentre le lacrime le rigavano inesorabili il viso.
Le tre ragazze raggiunsero una piccola piazzetta alla periferia del
paese e Jane constatò che non c’era nessuno in giro. Perfetto.
Accompagnarono Grace sull’unica panchina di legno ancora nel del
tutto sgangherata e le si sedettero accanto.
Jane prese ad accarezzarle i capelli e Elizabeth le strinse la
mano, non sapendo cos’altro fare.
“Respira” continuava a ripeterle Jane, facendo appello ai ricordi
che aveva del primo episodio di quel genere.
“Raccontaci tutto, coraggio. So che puoi farcela” disse Elizabeth,
sorridendole debolmente.
Grace cercò ancora una volta di sbloccarsi, invano. ‘Cazzo!’
imprecò.
“Ha parlato!” saltò su Elizabeth, euforica.
La ragazza si guardò intorno e scoppiò a piangere dalla felicità.
Dal canto suo, Grace aveva creduto che quell’imprecazione fosse
stata ancora frutto della sua mente, invece l’aveva portata fuori e questo la
sopraffece.
“Parlaci, dai, non vorrai stare ancora zitta, eh?” cercò di
sdrammatizzare Jane, riuscendo a farla sorridere.
“No, non più” mormorò Grace, tirando su col naso.
“Cos’ha fatto quel delinquente?” sibilò Elizabeth, infuriata.
“Mi ha ricattato” buttò lì Grace, senza rendersi minimamente conto
del peso che quelle parole ebbero sulle sue amiche, dell’effetto che
provocarono in loro.
“Merda!” sbottò Jane.
“Cosa?” le fece eco Elizabeth, allibita.
“Sì” confermò Grace, accettando il fazzoletto che Jane le offriva.
Si asciugò le lacrime, gli occhi e il naso e si tolse gli occhiali.
“Dammi” fece Elizabeth, strappandoglieli dalle mani per poterli
pulire.
Nessuna delle sue amiche spiccicò parola, perciò Grace proseguì:
“Mi ha detto che può mantenere il segreto su me e Jemy soltanto se accetto di
andare a letto con lui.”
“Maiale! Ma stiamo scherzando? Io lo ammazzo!” si infuriò Jane,
balzando in piedi. Prese a camminare avanti e indietro, nervosa e incandescente
come un vulcano in eruzione, mentre Elizabeth fissava Grace a bocca aperta,
incapace di esprimere una qualsiasi opinione.
“Jane, cerca di…” azzardò Grace.
“No, sta’ zitta! Non dirmi che devo calmarmi perché ti prendo a
schiaffi! Dio, come credi che possa sentirmi in questo momento? Ma come si
permette? Lo ammazzo, lo uccido!”
Elizabeth parve riscuotersi improvvisamente e lanciò un sibilo
strozzato, prendendosi la testa tra le mani. “Di male in peggio” ripeté un paio
di volte, esasperata all’inverosimile.
“Calmatevi, vi prego, è tutto così difficile.”
“Stammi a sentire” disse Jane, piazzandosi davanti a Grace e
piantandole gli occhi chiari sul viso. “Una cosa è certa: la pagherà.”
“Sì, ma…”
All’improvviso, il cellulare di Grace prese a squillare,
interrompendola. Lo estrasse dalla borsa e i suoi occhi si illuminarono non
appena lesse il nome del mittente: Jeremy.
“È lui” mormorò.
“Lui chi?” si allarmò Elizabeth, per poi sbirciare il display del
cellulare della sua amica. “Ah, okay. Meno male.” Sospirò, sollevata.
“Bene, io vado” dichiarò Jane.
“Dove?”
“A sistemare quel tipo.”
“Oh, no, no, no!” Grace si alzò e la afferrò per un braccio,
trattenendola.
“Lasciami andare, ne ho abbastanza di questa gente!”
Il cellulare di Grace smise di squillare.
“Oh, no, Jemy!” gemette, disperata.
“Senti, richiama Jeremy e raccontagli tutto. Io vado, lasciami
fare.”
Grace guardò Jane in viso e annuì, poco convinta, per poi mollare
la presa sul suo braccio.
L’altra lanciò un’occhiata complice ad Elizabeth e se ne andò, non
prima di udire le raccomandazioni da parte dalle sue amiche.
“Non vi preoccupate, sarà lui ad uscirne leso, non io.” Detto
questo, Jane le lasciò e si diresse nuovamente verso il parco.
Grace sospirò profondamente e tornò ad abbandonarsi sulla panchina
accanto ad Elizabeth. Afferrò il cellulare e, senza dire una parola, richiamò
Jeremy.
“Ehi, Gracie” la salutò lui, allegro, ma con un’inflessione
preoccupata ed esausta nel tono di voce.
“Stai bene?” domandò lei, ansiosa.
“Certo, sì… cavolo, sì!”
“Oh, meno male. Non sai quanto mi manchi” ammise Grace, trattenendo
a stento le lacrime che minacciavano di bagnarle nuovamente il viso.
“Anche tu mi manchi. Cosa c’è? Ti sento strana, triste… troppo
triste.”
“Non è niente, davvero…”
Elizabeth, spazientita, sbuffò e le strizzò il braccio,
sussurrandole un ‘diglielo’ a denti stretti.
“Sei sicura? Non farmi preoccupare, ti prego. Mi sento così
inutile…”
“No, non è colpa tua, Jemy. Scusami, davvero. Senti, è successo un
casino.”
“Un casino? Raccontami tutto!”
Così, dopo qualche esitazione, Grace vuotò completamente il sacco,
descrivendogli ogni particolare della faccenda, mettendolo a conoscenza delle
minacce mosse da Noel nei suoi confronti, del suo recente attacco di panico e
del fatto che Jane avesse deciso di affrontarlo e fosse già tornata verso il
parco a cercarlo.
Ad un certo punto, scoppiò a piangere e si accasciò sulla spalla di
Elizabeth, mentre Jeremy cercava di rassicurarla, nonostante non facesse altro
che imprecare.
“Non avreste dovuto lasciar andare la vostra amica!” ringhiò lui,
con la rabbia ad alterargli la voce.
“Lo so, lo so… io… non ci capisco più niente, mi sento una stupida…
forse dovrei accettare e…” vaneggiò Grace.
Elizabeth la colpì sulla spalla, stizzita. “Non dire stronzate!” le
gridò, facendola sobbalzare.
Jeremy, dall’altro capo del telefono, si alterò ulteriormente. “Non
pensarci neanche, Grace Andrews, mi hai capito? Levatelo dalla testa! Tu sei
mia, mia e di nessun altro.”
Grace si portò una mano a coprirsi la bocca, shockata da quella
rivelazione. Non le aveva mai detto seriamente quelle parole, non con
quell’enfasi, non con quella serietà, sicurezza, possessività…
Singhiozzò, esasperata. “Se solo tu fossi qui” piagnucolò.
“Lo so, maledizione, lo so. Ma io, Gracie, non ci sono. Devi essere
forte. Troveremo una soluzione.”
“Non abbiamo molto tempo” puntualizzò lei, in un sussurro.
“Cioè?”
La ragazza deglutì a fatica, poi rispose: “Mi ha dato tempo fino a
domani sera.”
“Cazzo, cazzo, cazzo!” imprecò Jeremy, furente. “Che razza di
bastardo! Bell’amico, eh?” ironizzò, senza averne realmente l’intenzione.
“Già. Jemy, senti. Ora voglio raggiungere Jane, sono preoccupata.
Hai ragione tu, non avrei dovuto lasciarla andare.”
“No, non avresti dovuto.”
“Mi dispiace.” Grace sospirò.
“Non ti preoccupare. Adesso vai da lei. Tienimi aggiornato, io vedo
di contattare qualcuno dei miei amici, voglio capire se sono tutti dalla parte
di Noel… dio, quanto lo odio!” ruggì Jeremy e Grace poté quasi immaginare i
suoi occhi fiammeggianti, essendone spaventata e desiderando di non doverseli
mai trovare davanti.
“Ti richiamo” promise lei e riattaccò.
“Allora, andiamo a recuperare Jane” proferì Elizabeth alzandosi.
Grace annuì e la seguì.
Si sentiva sfinita, amareggiata, triste, delusa e impaurita, ma in
una parte remota di sé trovò comunque la forza di combattere. Non poteva
lasciare Jane da sola nella tana del leone.
Grace ed Elizabeth giunsero quasi di corsa al parco. Stava
cominciando a fare buio e gli alberi davano ancora di più l’impressione che il
luogo fosse tenebroso e angusto.
O forse era Grace a percepire quello strano e viscerale disagio,
mentre cercava di mantenere la calma e di rimanere lucida.
Trovarono Jane che teneva Noel per il bevero e lo fissava
imbufalita, come se volesse ucciderlo.
“Ora lo ammazza, vedrai” mormorò Elizabeth all’orecchio della sua
amica, fermandosi a parecchi metri di distanza da quella scena.
Grace, aggrappata al suo braccio, non rispose: doveva riflettere e
decidere come comportarsi. Doveva lottare per far sì che il suo rapporto con
Jeremy non degenerasse, che i suoi non venissero a sapere da terze persone che
lei non aveva dormito da Jane quella notte.
Incredibile ma vero: era trascorso così poco tempo che ancora
stentava a crederci. Jeremy l’aveva lasciata da poche ore e stava già
succedendo un casino totale.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, le venne un’idea.
“Lizzie.”
“Dimmi, che c’è? Dovremmo andare da Jane, non credi?” fece
Elizabeth, indicando la scena che aveva davanti agli occhi, dove Jane aveva
mollato bruscamente Noel e gli stava sbraitando contro.
“Sì, hai ragione. Dobbiamo fermarla.” Grace fece un passo avanti.
“So io come risolvere tutto questo.”
L’altra la guardò con aria interrogativa ma non disse nulla.
Le due si diressero verso Jane e Noel.
“Oh, guarda chi si rivede” ironizzò Noel, maligno. “Sei subito
andata a spifferare tutto alle tue amichette, a quanto pare. Che persona
intelligente.”
Grace fece spallucce e sbuffò. “Jane, lascialo perdere.
Evidentemente è sessualmente represso, dato che ha bisogno di me per essere
felice.”
Jane sgranò gli occhi e sbatté le palpebre, sorpresa.
“Sei simpatica, Grace Andrews. Sarà divertente venire a letto con
te.”
“Oh, non lo sarà, Noel Deaver” ribatté Grace, impassibile.
“Quindi vuoi che i tuoi sappiano tutto.” Noel sospirò. “Capisco. Mi
piange il cuore, ragazzina. Sei ingenua se credi che starò zitto.”
“Sei immaturo a livelli osceni, Deaver” commentò Jane,
insofferente.
Noel sogghignò, guardandola attraverso le lunghe ciglia dai
riflessi ramati. “Mi piacciono le ragazze mature, come te.”
“Maiale! Non hai nulla con cui ricattarmi, mi dispiace deluderti.”
Lui rise e si voltò.
“Dove credi di andare?” sibilò Grace.
“A raccontare tutto, piccola mia.”
“Hai detto che avevo tempo fino a domani!”
“Ho cambiato idea. Sono volubile, evidentemente non mi conosci.”
Grace avvertì l’ansia annodarle la gola e portarle le lacrime agli
occhi. Ricacciò tutto indietro e, d’impulso, prese una decisione che mai
avrebbe pensato di poter minimamente calcolare.
“Hai vinto, Noel” mormorò, con voce rassegnata.
Si trattava solo di recitare, soltanto di fingere, solo per un po’.
“Grace!” strillò Jane, mentre Elizabeth si portava le mani davanti
alla bocca e scuoteva la testa.
“Ragazze, basta. L’unica soluzione è accettare le sue condizioni”
affermò ancora lei, sperando vivamente che le due comprendessero il suo bluff.
“La vostra amica è intelligente” affermò Noel, cadendo in trappola.
Grace esultò interiormente: aveva un piano in mente e sperava con
tutta se stessa che funzionasse. Doveva soltanto far credere a Noel che sarebbe
uscita con lui il giorno seguente e nel frattempo avrebbe provveduto, in un
modo o nell’altro, a parlare con i suoi genitori e a spiegar loro com’erano
andate realmente le cose. Sapeva dei rischi a cui stava andando incontro ma non
aveva altra scelta. I suoi genitori se la sarebbero presa ma non l’avrebbero
odiata per sempre, non le avrebbero impedito di vedere Jeremy. Aveva ormai
diciannove anni, non era più una bambina.
Doveva farcela.
“Sei pazza?” intervenne Elizabeth.
“No, è giusto così. Lui è un verme ma non posso rischiare così
tanto.”
“Chi ti assicura che lui non dirà ugualmente tutta la verità in
giro?” Jane provò a distoglierla da quella follia, ma Grace sapeva di dover
continuare a bluffare, almeno finché Noel Deaver fosse stato presente.
“Per chi mi avete preso? Insomma, ho solo voglia di divertirmi un
po’, ragazze. Siete invitate anche voi, non sono razzista” ironizzò lui, con un
ghigno dipinto in viso.
“Sta’ zitto!” lo ammonì Jane. Poi, rivolta a Grace, chiese:
“Allora?”
“Allora… nessuno me lo assicura, ma devo provarci. Ragazze,
fidatevi di me.”
“Non voglio che tu lo faccia! Dillo ai tuoi, fa’ qualcosa,
l’importante è che non…” La voce di Elizabeth si affievolì, nello scorgere la
strana espressione di Grace.
Quest’ultima maledisse la sua amica per non aver tenuto la bocca
chiusa. Dannazione!
“No, non posso dirglielo!” affermò Grace, cercando di imprimere nel
tono di voce una nota complice, come se volesse far capire alle sue amiche che
stava fingendo. Non riusciva a giocare di sguardi, non ne era capace e doveva
accontentarsi di provare a comunicare attraverso il tono di voce.
“Basta chiacchiere. Sono impaziente” fece Noel, per poi sbuffare,
irritato.
“Impaziente di cosa?” Grace si voltò nella sua direzione e cercò di
mettere a fuoco la sua figura.
“Di scoparti” rispose lui, tranquillamente, come se stesse parlando
del tempo.
Grace si sentì un oggetto, un qualcosa da sfruttare e da gettare
via alla prima occasione. Represse immediatamente l’impulso di scappare via e
deglutì.
“Fai schifo, Noel Deaver” lo accusò Jane, con disprezzo.
Lui rise, sarcastico, ma non la degnò di una risposta.
“Noel, dovrai aspettare, siamo rimasti d’accordo che domani…”
“No, non domani. Sono volubile, te l’ho già detto.”
“Ma…”
“Non domani, Grace Andrews. Oggi. Adesso.”
Grace comprese che le cose le stavano sfuggendo di mano e che tutto
sarebbe andato come Noel voleva. Non aveva nessuna possibilità di evitare che
lui la usasse a suo piacimento.
“Noel, devo tornare a casa! È tardi e poi…”
“Oh, povera piccola. Hai paura di non vedere niente, vero?” la
schernì lui, divertito.
“Ti prego. Domani… domani ci sarò. Dammi tempo.”
“Niente da fare. O adesso o vado a raccontare tutto” concluse Noel,
categorico.
Grace si sentì persa: aveva fatto male i conti, non c’era più via
d’uscita. Avrebbe tradito il suo ragazzo contro la sua volontà, pur di non venire
scoperta dai suoi genitori.
Si rese conto di essere una vera egoista. Se qualcuno dei suoi
familiari avesse saputo cos’aveva fatto con Jeremy, cos’avrebbe potuto farle?
L’avrebbero presa male ma prima o poi l’avrebbero accettato, per forza. Si
trattava della sua vita, non della loro.
Eppure, come spesso accadeva, se n’era resa conto troppo tardi.
Già, perché ormai aveva detto a Noel che avrebbe fatto come lui voleva.
“Andiamo?” si spazientì il ragazzo.
“Io non posso venire con te! Non riesco a… vedere” mormorò Grace,
in preda al panico. Fortunatamente, riuscì ad imporsi di non finire in crisi
com’era accaduto poco prima e mantenne l’ultimo briciolo di controllo che
ancora possedeva.
“Questo è il tuo problema, eh? Sono stronzo ma non fino a questo
punto. Non ho intenzione di lasciarti sbattere sugli alberi, ci tengo alla mia
amicizia con Pherson.”
Che faccia tosta! Come poteva affermare una simile assurdità? Stava
per portarsi a letto la ragazza di un suo ‘caro amico’ e ancora era convinto
che Jeremy non lo sapesse. In ogni caso, Grace decise di lasciarglielo credere,
altrimenti lui avrebbe potuto realmente prendere in considerazione l’idea di
abbandonarla in campagna in piena notte.
Tutta quella situazione la fece rabbrividire di terrore.
Strinse forte i pugni. “Mi fido” proferì, con un filo di voce. “Ti
chiedo solo qualche secondo per parlare con loro.”
“Hai dieci secondi” concesse lui, per poi allontanarsi di qualche
metro.
“Grace sei completamente fuori di testa!” sbottò Jane.
“Non puoi farlo!” aggiunse Elizabeth.
“Zitte! Ascoltatemi, ho poco tempo. Ditelo ai miei. Andate a casa
mia e spiegate tutto. Loro sanno dov’è la casa in campagna dei Deaver.
Raccontate tutte e venite a recuperarmi. Cercherò di temporeggiare, ma voi fate
presto. Vi prego. deve funzionare, non voglio sul serio andare a letto con
questo verme. Stavo bluffando.”
Le due annuirono, mentre Noel si avvicinava nuovamente a loro.
“Finito? Possiamo andare?”
“Sì, Noel. Scusa.” Grace riprese la sua recita, abbassando il capo.
“Sei un animale, una bestia. Prima o poi te la farò pagare” ringhiò
Jane, incenerendolo con lo sguardo.
“Per ora, mia cara Jennifer Lopez, mi scopo la tua amica. Il futuro
è incerto.”
A Grace venne da vomitare per la brutalità con cui lui parlava.
Tuttavia, non le sfuggì la battuta che Noel aveva rivolto a Jane e la cosa la
fece quasi sorridere. Era tutto così assurdo, strano e tremendamente
paradossale che era difficile credere che stesse accadendo realmente.
Detto questo, il ragazzo afferrò bruscamente Grace per un braccio e
le sussurrò all’orecchio: “Puttana, ti conviene consegnare il cellulare alle
tue amichette. Non mi fido di te.”
Grace avvertiva un costante senso di profonda repulsione nei
confronti di quella bestia e questo la spingeva a fare del suo meglio affinché
le cose andassero per il meglio.
Annuì ed estrasse l’apparecchio dalla tasca anteriore dei jeans. Lo
porse a Jane e lei se lo infilò in borsa. Grace le consegnò anche la sua borsa
a tracolla, giusto per convincere maggiormente Noel delle sue intenzioni, del fatto
che volesse collaborare. Stava facendo di tutto pur di non farlo sospettare del
piano in corso.
“Bene. Ragazze, vi saluto. Statemi bene” disse Noel, per poi
incamminarsi verso l’uscita del parco, trascinandosi dietro la povera Grace
tremante di paura.
La ragazza, dal canto suo, prese a pregare mentalmente qualunque
entità superiore a lei affinché la aiutasse, la salvasse da quella situazione
tremenda.
Noel la condusse fino alla sua auto e la spinse sul sedile
posteriore. “Sdraiati” ordinò.
Lei obbedì, sperando vivamente che lui non decidesse di farle
qualcosa là, in mezzo alla strada, nella sua macchina.
“Bene” borbottò lui e chiuse la portiera.
Grace si concesse un sospiro di sollievo, mentre lui apriva il suo
sportello.
Stava così male. Pensava a Jeremy. Cosa avrebbe pensato se avesse
saputo cosa stava rischiando di subire? Sperò ardentemente che Jane ed
Elizabeth non glielo dicessero e si maledisse per non averle ammonite su questo
fatto. Chiuse gli occhi, seppur non riuscisse ugualmente a vedere niente e si
augurò che lui non si arrabbiasse, nel caso ne fosse venuto a conoscenza.
Noel mise in moto e partì.
Bene, l’incubo stava cominciando.
Grace si strinse tra le braccia e ricacciò le lacrime.
Doveva fingere, aveva ancora qualche speranza di salvarsi e non
poteva far saltare il piano.
Doveva uscirne immune.
In quel momento, mentre Noel la portava via con sé, si rese conto
di amare tanto Jeremy, di amarlo da morire e di non volerlo tradire, per
nessuna ragione al mondo.
L’oscurità ormai incombeva profondamente sul paesaggio circostante
quando la macchina di Noel si fermò.
Grace spalancò gli occhi, pur non riuscendo a vedere niente.
Divenne improvvisamente cosciente di ciò che stava rischiando: era tutto vero,
non poteva più ripetersi che stava sognando. Era da sola, con Noel Deaver che
voleva approfittare sessualmente di lei.
Prese un profondo respiro, poi udì la portiera dietro di lei
aprirsi e sobbalzò, spaventata.
“Scendi” ordinò Noel, con il solito tono autoritario e freddo.
Grace obbedì e sperò vivamente che le sue amiche facessero in tempo
a salvarla. Non voleva concedersi a lui e non doveva far altro che
temporeggiare, non aveva alternative.
Una volta fuori dalla vettura, si dovette appoggiare alla
carrozzeria per non cadere. Stava tremando ed era terrorizzata, ma doveva
riuscire a non perdere il controllo.
Noel diede un calcio allo sportello per chiuderlo e la afferrò per
un braccio, trascinandola verso la casa.
“Noel…”
“Zitta” le intimò il ragazzo, estraendo le chiavi e aprendo la
porta.
“Senti…”
“Vuoi chiudere quella bocca? Entra!”
Grace si arrese e abbassò il capo, lasciandosi spingere
nell’oscurità, all’interno dell’abitazione.
Era stata là solo poche ore prima ed era stato bellissimo perché
Jeremy era ancora al suo fianco. In quel momento sembravano essere passati anni
da quel momento, tutto era freddo, incolore e buio, non solo letteralmente, per
lei.
“Perché stai facendo tutto questo?” riuscì a domandargli Grace,
tenendo a mente che doveva prendere tempo.
Noel rise. “Che domanda stupida” commentò, per poi svuotarsi le
tasche sul tavolo della cucina.
“Dimmelo” insistette lei, mentre veniva accecata dalla luce gialla
della lampadina che lui aveva appena acceso.
“Non sei nella posizione, ragazzina, di impartire degli ordini.”
Noel fece un passo avanti.
Grace si appiattì contro la parete, scorgendo la sua ombra muoversi
nella sua direzione. “Per favore, rispondimi. Mi verrà più… facile
accontentarti” mormorò, poi deglutì.
“Lo faccio perché mi va, semplice.”
“Semplice” ripeté Grace in un sussurro.
Noel fece un altro passo avanti, accarezzandosi il mento con fare
pensoso. “Quegli occhiali” disse, osservandola.
“Cos’hanno i miei occhiali?” domandò Grace, stizzita. Le serviva
tempo, o meglio, ne serviva a Jane, Elizabeth e ai suoi genitori.
“Sono orribili. Non te l’ha mai detto nessuno?” A quel punto, il
ragazzo la raggiunse e glieli strappò di dosso, lasciandoli cadere a terra.
“Meglio” concluse, sogghignando.
“Ehi! Abbi rispetto per…”
“Per te? O per i tuoi stupidi fondi di bottiglia?” Lui fece
spallucce.
“Smettila, smettila di umiliarmi! È già troppo quello che stai
facendo!”
“Io non faccio niente di male, hai deciso tu di seguirmi. Potevi
non farlo, Gracie.”
Grace avvertì l’irritazione crescere in lei nell’udire il
soprannome che solo a Jeremy era permesso usare. “Mi hai ricattato” ringhiò,
stringendo convulsamente i pugni.
“Non ti ho obbligato a scegliere di venire con me. Evidentemente la
cosa allettava anche te, dico bene?” Noel le prese il mento e lo strinse forte
tra le dita. “Smettila di parlare. Siamo qua per scopare.”
“Mi fai schifo” ribatté Grace, cercando di ritrarsi.
“Ah, sì? Mi offendi. Non ti conviene.” Il ragazzo mollò la presa e
le diede le spalle. Le afferrò il braccio e la spinse in camera da letto.
Grace non sapeva più cosa pensare, non sapeva più cosa inventarsi
per far trascorrere altro tempo senza che Noel Deaver le facesse del male. Cosa
poteva fare?
Un’idea la colpì come un ceffone, ferendola e, allo stesso tempo,
rendendola consapevole che, forse, avrebbe funzionato.
“Noel” lo chiamò.
Lui si voltò e la strattonò, attirandola più vicino a sé. “Cosa
cazzo vuoi ancora?”
“Credo che…” Grace fece una pausa e deglutì, sentendosi penetrare
dal suo sguardo. “Penso che non sarà poi così male” ammise, sperando che lui le
credesse, che il suo tono gli risultasse abbastanza sincero da convincerlo.
“Non ti facevo schifo?” chiese lui, con tono indagatore.
“No, non così tanto. Insomma, ti capisco.”
Il ragazzo allentò la presa sul suo braccio, facendo sì che il
sangue circolasse nuovamente nelle vene.
Riprese a respirare regolarmente e acquistò un po’ di coraggio. Poteva
farcela, doveva solo riuscire a recitare il ruolo che aveva in mente.
“Tu non capisci niente.”
“Ti sbagli.”
Noel strinse nuovamente le dita sul suo polso.
“Non te la prendere, ti prego. Ascoltami.”
A Grace in quel momento parve di udire un rumore di passi
all’esterno.
Erano arrivati, dovevano essere arrivati i soccorsi, altrimenti chi
poteva mai essere? In ogni caso Noel non poteva aver sentito, poiché non si
mosse, né si allarmò in nessun modo.
Grace si trattenne dal sospirare di sollievo e riprese: “Hai
bisogno di questo, hai bisogno di qualcuno da maltrattare per star bene.”
La ragazza si immobilizzò, rendendosi conto che qualcosa non
andava.
“Sono arrivati” annunciò Noel, lasciandola in mezzo la stanza e
dirigendosi nuovamente verso l’ingresso.
Grace si sentì sprofondare nel pavimento, desiderando di esserne
risucchiata. Che diamine stava succedendo? Chi era arrivato? Possibile che Noel
sapesse che lei aveva cercato aiuto e avesse qualcosa in serbo per le sue
amiche e i suoi genitori?
Scosse il capo, confusa.
“Ehi, Deaver! La ragazzina è già con te?” domandò una voce che a
Grace parve familiare ma che non riuscì ad associare a nessuno in particolare.
“Ciao Roll. Sì, è di là.”
Una risata provenne dall’ingresso, allarmando maggiormente Grace
che, istintivamente, rabbrividì e si strinse tra le braccia, tramortita dalla
paura.
“Ah, Cole, ci sei anche tu. Perfetto.”
“Come potevo mancare? Quel coglione di Jeremy Pherson deve pagarla
cara” affermò un’altra voce maschile.
C’era Noel, c’era Roland e c’era Cole.
Erano in tre.
E lei era sola.
Gridò mentalmente alle sue amiche di far presto, non poteva affrontare
una cosa del genere da sola. Era completamente disarmata, non vedeva niente e
non riusciva più a fingere di potersela cavare.
I tre ragazzi la raggiunsero in camera, ridendo.
“Eccola!” esclamò Roland e, senza perdere tempo, le mollò una pacca
sul sedere.
Grace lanciò un grido strozzato, scatenando ulteriormente l’ilarità
dei presenti.
“Sei pronta a giocare con noi?” le chiese Cole, tirandole i
capelli.
“Lasciatemi!” gridò lei, mentre Noel la strinse da dietro e la
immobilizzò, appiccicandosela al petto.
“Non gridare” le mormorò Deaver all’orecchio. “Non ti sentirà
nessuno.”
“Sei un bastardo! I patti erano diversi!”
“Come osi rivolgerti a lui così?” sibilò Roland, infilandole una
mano sotto la maglietta e tirandosela addosso. “Attenta a come parli, puttanella”
aggiunse.
Grace si dimenò, incapace di trattenere ulteriormente le lacrime.
Cole, al fianco di Roland, se la rideva con fare maligno. Poi fece
un passo avanti e batté una mano sulla spalla del suo amico. “Roll, lasciamela
un po’.”
L’altro annuì e si spostò di lato.
Grace serrò le cosce e cercò di non gridare. Tutto stava succedendo
troppo in fretta, non poteva più far nulla per cambiare le cose. Si sentiva
impotente.
Cole provò ad infilare la sua gambe tra le sue ma lei non glielo
permise. “Non toccarmi, lasciami!” sbraitò, dibattendosi tra le braccia serrate
di Noel che, intanto, le palpava deliberatamente il sedere.
Ormai si sentiva persa, non aveva più alcuna speranza di salvarsi.
Stava per arrendersi, quando qualcosa accadde.
Uno alla volta, prima Roland, poi Cole, crollarono a terra.
Davanti a lei, suo padre mollò un gancio in faccia a Noel e lui
mollò la presa.
“Grace!” gridò Elizabeth, raggiungendola e sorreggendola prima che
cadesse.
“Mio dio, mio dio, mio dio” ripeteva Grace, biascicando le parole e
tremando come una foglia.
Jane le raggiunse e aiutò Elizabeth a farla rimanere in piedi.
“Portatela fuori!” gridò il padre della ragazza, assestando un
calcio nello stomaco a Noel.
Le due non persero tempo e la trascinarono all’esterno, mentre lei
era confusa e stordita dagli avvenimenti in corso e ancor più da quelli appena
trascorsi.
Raggiunsero l’auto degli Andrews, dalla quale balzò fuori la madre
della ragazza.
“Oh, grazie al cielo! Grace, figlia mia, cosa ti è saltato in
mente?”
“Oh, mamma, mamma! Mi dispiace, credimi, io…”
La donna la abbracciò, tenendola stretta tra le braccia e
accarezzandole i capelli. “Tranquilla, è tutto finito. Non ti preoccupare.”
“Lo chiamo io, tesoro. Stai tranquilla” disse Elizabeth, posandole
una mano sulla spalla con fare rassicurante.
“Vieni, saliamo in macchina” disse la madre, mentre Jane seguiva
Elizabeth poco più in là.
“Che ne sarà di loro?” domandò Grace, mentre sua madre la aiutava a
prendere posto sul sedile posteriore, tenendola stretta e cercando di placare
il suo pianto.
“Mentre venivamo, abbiamo chiamato la polizia. Saranno qua a
momenti. Ma tu non ti preoccupare, Grace. Come stai?”
“Io… mamma, sto bene, credo. Sono solo un po’ scossa.”
“Cosa ti hanno fatto?” domandò la donna, in un sussurro.
“Niente, hanno provato a… ma voi siete arrivati e…” Scoppiò
nuovamente a piangere, nascondendo il viso nel petto della donna.
“Dio, credevamo di arrivare troppo tardi.”
Le due rimasero l’una tra le braccia dell’altra e attesero che
tutto finisse.
Grace era sfinita e si accorse appena dell’arrivo della polizia, di
Elizabeth che provava a calmare Jeremy al telefono, di suo padre che metteva in
moto e partiva.
Scivolò in un profondo sonno senza sogni, sentendosi scivolare
addosso tutta la stanchezza che aveva accumulato durante quella giornata
infinita ed infernale.
Grace trascorse le due settimane successive a prepararsi per quel
dannato colloquio di lavoro. Aveva proposto ad Elizabeth di studiare da lei,
così aveva passato pomeriggi interi a studiare fino al vomito i discorsi da
presentare in sede d’esame e di colloquio. La sua amica era, però, distratta e
Grace si chiese più di una volta quale fosse il motivo di quel comportamento.
Tuttavia, decise di concentrare tutte le sue energie nella
preparazione del discorso. Non poteva mancare nulla, doveva essere tutto
perfetto e le informazioni dovevano risultare chiare al suo probabile futuro
capo. In realtà si trattava di un tirocinio formativo, non di un vero e proprio
lavoro. Ma se avesse fatto una buona impressione, la collaborazione si sarebbe
protratta nel tempo.
Voleva arrivare preparata in maniera impeccabile, e aveva perciò
bisogno di impegnarsi per vincere l’ansia e la timidezza che l’avrebbe altrimenti
bloccata, comportando la perdita di quella preziosa opportunità.
Il fatto che fosse disabile non la aiutava per niente, anzi, la
spingeva a dare di più, a dimostrare che, nonostante avesse delle difficoltà,
poteva riuscire ad ottenere ciò che desiderava.
La dimostrazione pratica di queste considerazioni era proprio tutto
quello che le era accaduto non appena aveva rivisto Jeremy. Aveva affrontato
situazioni difficili, complicate e apparentemente insormontabili. Ma ce l’aveva
fatta. Aveva ottenuto il suo amore e aveva ottenuto la sua libertà, gettandosi
tra le braccia di NoelDeaver
e i suoi amici.
Così, con questi pensieri in testa, uno dei tanti pomeriggi in cui
lei ed Elizabeth erano concentrate sullo studio, sbuffò, accigliata.
La sua amica riemerse da un paragrafo particolarmente difficile del
suo volume di Medicina Legale e la guardò con aria interrogativa. “Che c’è?” le
domandò.
“Non riesco a concentrarmi” sbottò Grace, fissando con disprezzo il
foglio che aveva davanti.
“Come mai?” Elizabeth si stiracchiò, spingendo via il libro, per
poi posare i gomiti sul tavolo.
“Stavo pensando a NoelDeaver. Continuo a non capirlo.”
Elizabeth espirò bruscamente. “Cosa vuoi che ci sia da capire
riguardo a quel troglodita depravato?”
Grace scosse il capo. “Non è così semplice. Credo che Jeremy lo
ucciderà.”
“Oh, non lo farà!” saltò su l’altra.
“Spero tanto di sì, Lizzie.”
“Cosa non è semplice?” domandò Elizabeth, riferendosi alla
precedente frase pronunciata da Grace.
“Non riesco a concepire come abbia potuto prendersela con me. Se ce
l’ha con Jeremy, cosa c’entro io? È vero, stiamo insieme, ma se non fosse stato
per ferire lui, non mi avrebbe mai degnato di un’occhiata.”
“Sì, sì” borbottò Elizabeth, aggrottando le sopracciglia.
“Sì… cosa?”
“Ma niente! Insomma, che è un coglione l’abbiamo appurato, cosa c’è
da dire ancora?”
Grace strinse il foglio, stizzita. “Ho capito. Lascia stare.”
Tacque per un attimo, poi aggiunse: “Sai che c’è? Sei strana, Elizabeth Carlsson.” Detto questo, smise di badare a lei e fece finta
di tornare a concentrarsi sul suo foglio. In realtà era furiosa. Come poteva la
sua amica essere così insensibile? Sembrava non tenere minimamente conto di
quello che lei aveva dovuto passare per colpa di quel tipo, di quello che aveva
rischiato.
Tenne gli occhi fissi sulle parole senza però apprendere niente,
considerandole solo parole e niente di più.
Era stanca e arrabbiata con Elizabeth.
Si alzò e si andò a sedere davanti al computer, ignorando la
presenza dell’amica che per un attimo aveva alzato lo sguardo.
Attese che il pc si avviasse e si collegò
ad internet. Effettuò il login sulla sua casella di posta elettronica e trovò
un’e-mailda parte di Jeremy.
Sorrise.
Ehi, piccola. Come stai? Non
hai idea di quanto mi manchi. Sono stanchissimo, ero a lavoro e ho faticato
parecchio.
Tu, ti stai preparando per il
colloquio?
Subito, gli rispose.
Ehi, ciao! Sì, mi sto
preparando, anche se ora non riesco più a concentrarmi perché Elizabeth mi ha
fatto incazzare.
Inviò il messaggio e, in attesa di una risposta, andò a curiosare
sugli eventi imminenti. C’erano dei gruppi locali che le piacevano da morire e
stava cercando di andarli a sentire live da parecchio tempo. La musica era qualcosa
di fondamentale nella sua vita e in quel momento mi ci sarebbe voluta una bella
distrazione del genere.
Scovò la notizia del secolo e balzò dalla sedia. “Oh, mio dio!”
gridò, euforica.
Si fiondò sulla tastiera del pc e scrisse
un altro messaggio a Jeremy.
Non ci crederai mai, amore,
ma ti devo dare una notizia bomba.
Be’, bazzicavo su internet
alla ricerca di un concertino a cui poter andare e passare una serata diversa,
e indovina cos’ho scoperto?
Alborosie viene in Messico!!!!
Premette convulsamente invio e si voltò verso Elizabeth,
guardandola con un’espressione indecifrabile.
“Elizabeth” mormorò, mentre una meravigliosa idea si faceva spazio
in lei.
“Cosa?” domandò quella, senza staccare gli occhi dal libro.
“Alborosie viene in Messico” disse Grace.
“Eh?” Elizabeth si distrasse dalla lettura e posò lo sguardo su di
lei. “Chi?”
“Ah, insomma! Alborosie, come puoi non
conoscerlo?”
“Albo… che?”
Grace fece per spazzare via la sua ignoranza con un simbolico gesto
della mano, poi sospirò. “Lascia stare. È uno che fa reggae, insomma… ci andiamo?”
“No, scordatelo. Chiedilo a Jane.”
“Lo sai che non le piace quel genere! Che palle che sei, cazzo.”
“Non mi importa, la mia risposta è no. Non cambio idea.” Elizabeth,
categorica, si alzò e prese a ritirare le sue cose. “Devo andare” soggiunse,
infilando tutto in borsa in maniera piuttosto disordinata e frettolosa.
“Non ci posso credere!” sbottò Grace, infuriata.
“Credici. Non ci vengo, punto. È così difficile da capire?”
“Si può sapere perché? Non ti sto chiedendo di andare a fare una
rapina, Elizabeth. È un concerto, un fottuto concerto reggae che non posso
perdermi. Dio, non ti capisco. Sai cosa sei, eh? Un’egoista, ecco cosa sei! Lo sai
che non posso andarci da sola, lo sai, e te ne fotti!”
“Non so cosa dirti” rispose Elizabeth, fredda, senza scomporsi
minimamente.
Grace alzò gli occhi al cielo ed emise un sibilo, poi sbuffò. “Nemmeno
io.”
L’altra ragazza afferrò la borsa e le si avvicinò. “Io vado, Grace.”
“Sì, vai.”
Così, l’alra se ne andò e Grace si
abbandonò sulla sedia davanti al computer.
Notò che era arrivato un messaggio da parte di Jeremy e corse a
leggerlo.
Davvero? Quando?
Vorrei poter venire con te al
concerto, credimi. Sarebbe il massimo, ci divertiremmo un sacco insieme.
Cos’ha combinato Elizabeth?
Ah, già, Elizabeth. Ora era doppiamente incazzata con lei: prima
aveva ignorato il suo stato d’animo riguardo NoelDeaver e poi aveva categoricamente rifiutato di
accompagnarla al concerto di Alborosie.
Egoismo puro, non c’erano dubbi. Pensava solo a se stessa, alla sua
vita da universitaria perfetta, senza mettere mai il naso fuori di casa, se non
per l’ordinario, per le uscite qualsiasi in giornate qualsiasi. Appena si
presentava un’occasione diversa e particolare, lei fuggiva a rifugiarsi nella
sua cripta, nel suo convento personale, come se assistere ad un concerto fosse
qualcosa di immorale e rappresentasse il peccato capitale per eccellenza.
Grace sbuffò, non riuscendo proprio a capire perché si comportasse
così. Non le aveva dato spiegazione alcuna, si era limitata a dire di no e
basta. Non si apriva mai con lei e Grace non sapeva minimamente cosa le
passasse per la testa.
Be’, era stanca di questa situazione, stanca di dover rinunciare a
tutto a causa dell’egoismo altrui, stanca di sentirsi uno schifo per non poter
avere un’indipendenza tale da permetterle di prescindere dagli altri, di
gestirsi da sola senza disturbare nessuno.
Già, perché, a quanto poté costatare, per Elizabeth farle compagnia
in qualcosa di importante rappresentava nient’altro che un disturbo, un peso,
una scocciatura.
Scrisse un messaggio a Jeremy, desiderando di poter sentire la sua
voce.
È un’egoista. Prima parlavamo
di Noel e le ho confidato il mio risentimento e la
mia incomprensione nei confronti del suo comportamento e lei ha tagliato corto,
incurante.
Poi le ho chiesto di
accompagnarmi al concerto di Alborosie e mi ha
categoricamente detto di no, senza darmi uno straccio di spiegazione.
Credimi, Jemy,
ci sono giorni in cui credo di non farcela, in cui vorrei soltanto che tu fossi
accanto a me.
È tutto così difficile…
Grace si prese la testa tra le mani, esasperata. Perché dovevano
succedere tutte a lei? Insomma, non c’era mai qualcosa che andasse per il verso
giusto.
Stava cominciando a non farcela più, seriamente. E la sua malattia
non faceva altro che limitarla ulteriormente, rendendola malinconica e
avvilendola in maniera tremenda.
Gracie, non pensare più a quel bastardo, ora è tutto
finito. È agli arresti domiciliari e non può più farti del male. Quando arriverò
io, se la vedrà con me.
Comunque, mi dispiace per ciò
che è successo con la tua amica, vorrei portarti io a quel concerto.
Ma non posso…
Dai, cerca qualcun altro,
Albo non te lo puoi proprio perdere!
Devo proprio andare, piccola,
ci sentiamo prestissimo, te lo prometto. Forse dopo ti chiamo, okay? Ho bisogno
di una doccia e di un sonnellino.
Stai tranquilla, ti mando un
abbraccio.
A Grace venne da piangere nel leggere quelle dolci parole. Se Jeremy
fosse stato con lei in quel momento, l’avrebbe stretto forte a sé e l’avrebbe
riempito di baci. Lo amava così tanto che le mancava l’aria a causa di quel
sentimento potente e intenso come una scarica elettrica.
Spense il computer e si andò a buttare sul letto, sfinita dal
caldo, dal litigio con Elizabeth, dal discorso che vorticava sconnesso nella
sua mente, dallo sconforto per il fatto di doversi perdere un concerto
strepitoso.
Era tutta colpa di Elizabeth e non riusciva a togliersi dalla testa
la sua freddezza e indifferenza, che l’avevano indubbiamente ferita.
Doveva trovare una soluzione per poter partecipare a quell’evento, Alborosie era uno dei suoi artisti reggae preferiti.
Eppure, sapeva che non sarebbe servito a niente cercare una via d’uscita,
era ormai abituata a perdere le occasioni, e tutto perché doveva sempre e
comunque dipendere dagli altri.
Cominciò a piangere, demoralizzata e tremendamente spaventata dal
tempo che la separava dalle forti e rassicuranti braccia del suo Jeremy.
Era il giorno del colloquio per il tirocinio e Grace era in ansia
da giorni.
Non ricordava assolutamente quando era stata l’ultima volta che si
era svegliata trovandosi in una situazione di tranquillità e quiete. Voleva
soltanto che tutto andasse per il meglio.
Ad accompagnarla ci sarebbe stata Jane, poiché non aveva più
degnato Elizabeth di attenzioni. Odiava ammetterlo, poiché la ragazza le aveva
fatto un torto, ma le mancava. Eppure, non poteva farle passare liscia
qualunque cosa.
Così, quando quella mattina si alzò dal letto, controllò il
cellulare, aspettandosi di trovare un messaggio da parte di Elizabeth, dove
magari le augurava qualcosa di positivo per il colloquio.
Invece, prevedibilmente, non trovò altro che non fosse il
buongiorno di Jane e una chiamata persa da parte di Jeremy.
Le si illuminarono gli occhi e lo richiamò, ciabattando impettita
verso il bagno.
“Buongiorno Gracie!” esordì lui, appena tre squilli più tardi.
Grace, intanto, era entrata in bagno senza fare danni né procurarsi
uno o più ematomi. “Buongiorno a te! Sono in ansia, non puoi immaginare come mi
sento!” blaterò, in fase di esasperazione totale.
“Tranquilla” la rassicurò lui, “andrà tutto bene. Hai le
potenzialità per ottenere quel posto, non devi temere.”
“Ma sì, lo so, è che… vedi, sai che da questo colloquio dipenderà
il mio futuro. Se il tirocinio andrà bene, potrò continuare a lavorare per loro
e avrò i soldi per venire da te.”
“Lo so, lo so perfettamente. Ma Grace, io tornerò a Natale. Non
devi pensare al viaggio adesso, ma solo ad ottenere il posto e a dare il meglio
di te” affermò il ragazzo, con tono sicuro e calmo, infondendole forza e
fiducia in se stessa.
Grace sorrise. “Grazie, Jemy. Sei la mia forza” confessò, fissando
il vuoto davanti a sé.
“È uno dei miei tanti doveri. Ehi, ma dimmi, quando è il concerto
di Alborosie?”
Ah, già, il concerto. Grace aveva tentato di dimenticarlo, ferita
dal comportamento di Elizabeth e delusa dal fatto che nessuno sarebbe mai stato
disposto ad accompagnarla.
Si rabbuiò. “Sabato” rispose, lapidaria.
“Questo sabato?” sbottò Jeremy.
“Sì” mormorò lei.
“Capisco. Mi dispiace che tu non possa andarci. Vorrei poter fare
qualcosa, ma…”
“Non è colpa tua, Jeremy. Davvero, non ti preoccupare. Dai, devo
andare a prepararmi, altrimenti faccio tardi. Ci manca solo questo, per carità!
Ti chiamo appena finisco, va bene?”
“Sì, certo. Se non rispondo è perché sono a lavoro, entro tra
poco.”
“Okay. Ciao amore” concluse Grace, e riattaccò.
Scacciò immediatamente il pensiero del concerto. Ormai era
mercoledì, troppo tardi per poter cambiare le cose.
Si concentrò sui preparativi per uscire e mise su un po’ di musica
metal, giusto per ricevere carica e allontanare ancora di più il ricordo di
Alborosie.
Indossò una camicetta azzurra, gonna nera e un paio di sandali
bassi abbinati alla camicetta. Lasciò i capelli sciolti sulle spalle ed evitò
qualsiasi tipo di trucco, anche perché non era in grado di provvedere da sola
al make-up e non era nemmeno dell’umore adatto per farsi strapazzare da Jane.
Così, prese una borsa a caso, ci buttò dentro qualche cianfrusaglia
oltre ai documenti e ai soldi, e attese che Jane arrivasse.
Nel frattempo, i suoi genitori si erano alzati e le avevano fatto i
complimenti per l’abbigliamento, per poi domandarle se si sentisse pronta. Grace
non seppe cosa rispondere, così si limitò ad annuire, sorridendo nervosamente.
Il campanello suonò e lei uscì, raggiungendo la sua amica
all’esterno.
“Ehi, Grace. Stai bene vestita così” osservò Jane, con un sorriso.
“Grazie. Sento che sto per svenire!” esclamò, stringendo
convulsamente la cinghia della borsa.
“Ti capisco. Ma tu sei brava, sicuramente ti prenderanno.”
“Sì, come no. Chissà quante persone saranno più competenti di me!”
Jane sbuffò, contrariata. “Ma stai zitta!”
Grace ridacchiò e le si accostò, per poi prenderla sottobraccio.
“Ho paura!”
“Lo so. Dai, sono con te. Dopo andiamo a festeggiare, okay? Non ho
tanti soldi, ma… un gelato posso offrirtelo.”
Grace rifletté per un attimo su quella proposta, sapendo bene che
Jane non aveva quasi mai del denaro. Comunque, decise di accettare poiché
sapeva che alla sua amica faceva piacere, quando poteva, offrirle qualcosa.
Così, annuì energicamente. “Credo proprio che, dopo questo
colloquio, ne avrò bisogno!”
Jane rise e insieme raggiunsero la loro meta.
Un’ora e mezzo dopo, Grace uscì dall’ufficio del principale e Jane
le andò incontro, curiosa di sapere com’era andata.
“Allora?” esordì, trotterellandole accanto.
“Allora…” Grace cercò di mantenere un’espressione neutra, seppur le
stesse riuscendo parecchio difficile.
Intanto, uscirono dall’edificio e, non appena furono abbastanza
lontane, la ragazza esplose in un grido liberatorio, un grido di vittoria.
“Ce l’ho fatta!” sbottò, travolgendo l’amica con un abbraccio.
“Sì, che bello! Te l’avevo detto e tu non volevi credermi!” esclamò
l’altra, stringendola a sua volta. “Complimenti, ora hai un lavoro!”
“Eh, ‘lavoro’ non è proprio il termine giusto. Diciamo che, se
tutto va bene, avrò un lavoro” precisò Grace, sciogliendo l’abbraccio. Le venne
da piangere ma costrinse le lacrime a rimanere al loro posto.
“Ma è ovvio che andrà tutto bene! Ormai è come se fossi già
assunta.” Jane si diresse verso il parco, intenzionata ad offrirle il gelato
che le aveva promesso.
“Mio dio, non mi sembra vero!” Grace si portò le mani a coprirsi la
bocca, per evitare di gridare com’era successo poco prima. La verità la
travolse, rendendola euforica ad un livello che poche volte le era capitato di
raggiungere nella sua breve esistenza.
A quel punto, si ricordò di chiamare Jeremy, per poi passare da sua
madre, all’edicola in cui lavorava. Le raccontò tutto e poi seguì Jane verso il
parco.
Uno dei suoi obiettivi era stato raggiunto, finalmente avrebbe
iniziato a guadagnare qualcosa con le sue forze e le sue capacità. La sua
malattia non era stato un limite, non stavolta.
L’unica nota stonata in tutta quella perfezione era Elizabeth.
E, ovviamente, il concerto.
Era venerdì pomeriggio, quando accadde l’impensabile.
Grace stava aiutando sua madre a riordinare la cucina e non aveva
programmi per la serata, se non mettersi a leggere un po’.
Il campanellò suonò e le due donne si guardarono.
“Chi potrà mai essere a quest’ora?” fece Grace, avviandosi verso la
porta. Lanciò un’occhiata a suo padre che vegetava dormiente sul divano e sperò
che il nuovo ospite fosse qualcuno di famiglia, altrimenti sua madre l’avrebbe
dovuto buttare giù dal divano in quattro e quattr’otto. In genere il suono del
campanello lo riscuoteva dal suo sonnellino, ma evidentemente doveva essere
parecchio stanco dal lavoro.
La ragazza raggiunse l’ingresso e aprì la porta, per poi spalancare
occhi e bocca davanti all’immagine le si presentò agli occhi. Temette
seriamente di star peggiorando con la vista, ma il saluto che ricevette
confermò inequivocabilmente i suoi pensieri.
“Gracie.”
Bastò quella parola, quella voce, quell’inclinazione per farla
crollare. Scoppiò a piangere, buttando fuori tutte le lacrime che aveva
represso dopo essere stata presa al tirocinio.
Si gettò tra le braccia di Jeremy, inalando il suo delizioso profumo,
assaporando la sensazione del contatto tra i loro corpi, sentendosi rinascere
dopo tanto tempo di lontananza da lui.
Nel frattempo, tutto quel fracasso aveva fatto svegliare suo padre
e sua madre era accorsa a controllare cosa stesse succedendo.
“Jeremy?” domandò, stupita almeno quanto la figlia.
Grace si scostò a fatica dal suo ragazzo e lo invitò ad entrare,
dimenticandosi di suo padre che poteva ancora trovarsi sul divano.
L’uomo, infatti, era ancora lì, anche se non dormiva più. Non
appena scorse Jeremy Pherson, si alzò e lo salutò con una pacca sulla spalla.
La ragazza non aveva ancora smesso di piangere ed era confusa da
tutto quello che le stava accadendo intorno.
Impose a se stessa di riscuotersi dalla fase di shock in cui si
trovava, e fece accomodare Jeremy in cucina.
“Mio dio! Cosa ci fai tu qua?” sbottò, prendendo le mani del
ragazzo tra le sue.
“Be’… sono qua. Non sei contenta di vedermi?”
Grace singhiozzò, in preda alla felicità immensa che le esplodeva
nel petto. “Certo che lo sono! Ma come… perché… tu hai un lavoro e…” blaterò,
sempre più confusa dagli avvenimenti in corso.
“Grace, calmati. Siediti” le suggerì suo padre, dopo aver fatto lo
stesso.
La ragazza decise di seguire il suo consiglio.
Jeremy le sorrise, a disagio. “Sono venuto perché vorrei andare a
quel concerto con te” ammise, a testa bassa, temendo una reazione negativa da
parte dei genitori della ragazza. “Sempre se voi siete d’accordo” aggiunse,
sollevando lo sguardo e lanciando un’occhiata prima a sua madre e poi a suo
padre.
Grace balzò nuovamente in piedi. “COSA?!” gridò, incredula.
“Grace!” proruppe sua madre, per poi abbandonare lo strofinaccio
con cui stava finendo di asciugare le posate. Si sedette e attese che la figlia
tornasse a fare lo stesso.
“Che concerto?” si informò il padre.
Grace sospirò. “Te l’ho detto almeno dieci volte in una settimana,
papà. Alborosie.”
“Ah, sì!”
“Già. Ho preso i biglietti appena l’ho saputo” intervenne
nuovamente Jeremy, tornando a dedicare il suo sguardo a Grace.
“Oh. Mio. Dio. Io… non ci posso credere!” esclamò lei, portandosi
le mani ai capelli.
“Credici” disse lui, con un sorriso.
“Mio dio, mio dio, mio dio!” continuava a ripetere Grace.
“Riprenditi!” disse suo padre, lanciandole un’occhiataccia.
“Okay, okay!”
“Allora…” riprese il ragazzo. “C’è qualche problema se io e Grace
andiamo a questo concerto domani?” domandò, prendendo il toro per le corna.
“No, non credo. Ma come siete organizzati?” domandò il padre di
Grace.
Così, nella mezzora successiva misero a punto l’organizzazione per
il concerto e Grace si sentì così felice che le parve di toccare il cielo con
un dito.
Quando Jeremy si alzò per andarsene, lei lo accompagnò alla porta.
Non appena si furono sottratti agli occhi indiscreti dei genitori
di lei, si unirono in un bacio colmo di passione e bisogno l’uno dell’altra.
“Non immagini, Gracie, non hai idea di quanto tu mi sia mancata”
mormorò lui sulle sue labbra, tenendola stretta a sé.
“Per me è lo stesso. Mi hai fatto una bella sorpresa, non c’è che
dire.”
“Volevo festeggiare la tua ammissione al tirocinio.”
Grace tornò a baciarlo, zittendolo.
Dopo qualche istante, si scostò da lui e gli domandò: “Dopo ci
vediamo?”
“Certo! Vado a casa a portare le valigie e poi tornò a prenderti”
disse Jeremy, accarezzandole i capelli.
“Perfetto.”
Si baciarono un’ultima volta.
“Ciao” mormorò lui.
“Ciao” concluse lei, per poi rientrare in casa, felice e completa
come mai prima d’allora.
Aveva l’amore, aveva un’occupazione e avrebbe visto il concerto di
Alborosie.
L’unico problema era rimasta Elizabeth.
Ma, per il momento, sfoggiò un po’ di sano egoismo e ignorò
completamente la questione.
Grace uscì di casa che erano le sette e mezza di sera. C’era ancora
luce e aveva obbligato Jeremy ad aspettarla a casa sua, nonostante lui avesse
insistito per andarla a prendere. Finché il sole illuminava l’ambiente
circostante, per lei non c’erano problemi. Poteva spostarsi tranquillamente
senza scomodare nessuno, poi passeggiare da sola le piaceva. Lo aveva sempre
amato perché poteva infilarsi le cuffie e ascoltare la sua musica, mentre
osservava le strade srotolarsi attorno a sé.
Quando giunse di fronte a casa del suo ragazzo, però, per lei
l’intensità della luce era già troppo bassa. Quindi, si sentì orgogliosa di se
stessa, per essere riuscita ad arrivare sana e salva a destinazione.
Jeremy, invece, non fu dello stesso avviso. Infatti, la stava aspettando
con ansia affacciato alla finestra e, non appena la vide arrancare all’inizio
della via, scese precipitosamente le scale e le andò incontro, furente.
“Grace, dannazione! Sei testarda come un mulo, ti avevo detto che
sarei venuto a prenderti e tu mi hai assicurato che non ce n’era bisogno. E
invece, guardati!” sbraitò, raggiungendola.
Lei ridacchiò, fiondandosi tra le sue braccia. “Non te la prendere,
per favore. Non sai quanto sono felice!” esultò, per niente turbata dalla
preoccupazione del ragazzo.
“Felice per cosa?” si informò lui, per poi scostarla da sé, in modo
da guardarla in viso.
Grace si agitò tra le sue braccia, euforica. “Non vedi? C’è quasi
buio e io ce l’ho fatta lo stesso! Mi sento un dio!”
Jeremy si perse a guardare la sua espressione, trovandola
tremendamente dolce e tenera. Improvvisamente, non riuscì ad essere arrabbiato
per l’irresponsabilità della sua ragazza, così sorrise. “Oh, Grace” mormorò,
commosso, stringendola forte al petto.
Grace rise, felice come non mai per quell’obbiettivo appena
raggiunto. Forse per gli altri poteva sembrare una futilità, ma non per lei.
Per lei quello era il Paradiso e viverlo con Jeremy rappresentava la perfezione
assoluta.
“Andiamo dentro” proferì lui, trascinandola dolcemente verso casa
sua.
La aiutò ad entrare e, non appena si chiuse la porta alle spalle,
la spinse contro la parete e la intrappolò in un bacio carico di tutta la
passione che aveva in corpo.
Dal canto suo, Grace ricambiò di buon grado e gemette sulle sue
labbra, come se stesse respirando una boccata di aria fresca dopo essere
rimasta chiusa in casa troppo a lungo.
Si aggrappò alla sua maglietta, mentre lui le stringeva
possessivamente i fianchi.
“Mi sei mancata” sussurrò lui, scendendo a baciarle il collo.
“Anche tu, anche tu… non sai quanto.”
Jeremy la prese in braccio e la trasportò nella sua camera, per poi
adagiarla sul letto.
Grace sorrise, pregustando quello che, di lì a poco, sarebbe
accaduto. E lo voleva, desiderava disperatamente quel ragazzo dentro di lei. Ad
accentuare quel desiderio era stato il lungo periodo di distanza tra loro e per
lei era ancora difficile credere che lui fosse là, con lei, tra le sue braccia.
“Ti prego” lo implorò, accarezzandogli il petto attraverso la
t-shirt.
Jeremy annuì e, in poco tempo, si ritrovarono avvinghiati l’uno
all’altra, stretti in un’agonia che li trasportò nel luogo in cui il loro amore
risiedeva, solitario e splendente.
La mattina dopo, Grace si svegliò presto, pronta per il fantastico
evento che la attendeva.
Lei e Jeremy avevano fatto l’amore così tante volte, la sera prima,
che il solo pensiero la fece sentire in imbarazzo. Non aveva mai fatto nulla di
simile, ma pentirsene era impossibile. Amava quel ragazzo e amava le sensazioni
che lui riusciva a farle provare.
In seguito, avevano cenato insieme e poi lui l’aveva riaccompagnata
a casa.
Le sarebbe piaciuto risvegliarsi stretta a lui, ma questo non era
possibile. I suoi genitori sapevano che loro avevano dei rapporti sessuali, ma
non per questo erano d’accordo che lei dormisse fuori casa. E questo, Grace, lo
capiva. Riusciva a mettersi nei loro panni, quindi non le passò nemmeno
nell’anticamera del cervello di avanzare una simile richiesta.
Quella mattina, mentre riviveva infinite volte i momenti appena
trascorsi con il suo amato, si gettò sotto la doccia e si preparò per la
partenza.
Lei e Jeremy dovevano affrontare tre ore di viaggio in treno prima
di giungere al luogo del concerto.
Sua madre, prima di uscire, le preparò qualche panino da portarsi
appresso e le lasciò dei soldi.
“State attenti, va bene?” le domandò.
Grace aveva accompagnato la donna alla porta e le sorrideva. “Sì,
certo. Ti chiamo per qualunque problema.”
“Spero che non ce ne sia bisogno!”
“C’è Jemy con me, non permetterà che mi capiti qualcosa di male.”
La donna sospirò. “Lo so. Mi fido di quel ragazzo.”
“Grazie, mamma. Allora… ci vediamo domani, va bene?”
“Sicura che avete un posto dove stare?”
Grace annuì. “Jeremy ha pensato a tutto.”
“Okay.”
Le due si abbracciarono e si salutarono, poi Grace chiuse la porta
e finì di prepararsi.
Il viaggio in treno fu estremamente rilassante e divertente.
Grace si mise a cantare tutto il tempo, mentre Jeremy le rideva in
faccia quando si inventava parole in patois giamaicano che mai erano esistite.
“Non ti mettere a cantare al concerto, per carità!” la schernì lui,
mentre scendevano dal treno, giunti a destinazione.
Si diressero mano nella mano verso l’uscita della stazione e si
fermarono ad aspettare l’autobus.
“Come, scusa?” lo apostrofò Grace, fingendo di offendersi.
“Sì, ecco… tutti i presenti ti prenderebbero in giro, se lo
facessi!” Jeremy scoppiò a ridere, osservando il broncio sexy della sua Grace.
“Ti odio!”
“Ah, no, questo non è vero!” ribatté lui, per poi baciarla.
Nel frattempo l’autobus arrivò e loro salirono a bordo, continuando
a ridere e scherzare per tutto il tempo.
Giunsero alla loro meta che erano le tre del pomeriggio. Il sole
batteva su migliaia di persone che attendevano con impazienza l’apertura dei
cancelli.
Passarono un sacco di ore prima che ciò accadesse, ma poi si fecero
le nove di sera e la security lasciò entrare tutti.
Tra spinte, corse folli e urla, Grace e Jeremy si aggiudicarono la
prima fila.
La ragazza esultò, abbracciandolo forte. “Almeno potrò vederlo!”
affermò, emozionata.
“Lo so. Non avrei mai permesso che ti perdessi anche il poco che
puoi goderti” disse Jeremy, accarezzandole una guancia.
Grace non rispose e scoppiò a piangere a causa di tutte le
bellissime emozioni che stava vivendo.
Rimase stretta a Jeremy finché non entrò il suo grande idolo:
Alborosie.
Prese a gridare e a dimenarsi a ritmo di musica per tutta la durata
del concerto, trascinando anche il suo ragazzo in quella gioia immensa che la
investiva e la faceva stare divinamente.
Il ritmo della musica reggae e la voce di Alborosie furono capaci
di catapultarla in una dimensione parallela, nella quale esistevano solo lei,
Jeremy e il mitico rastaman.
Ma tutte le belle cose, si sa, tendono a durare troppo poco.
Così, anche quella serata si concluse, lasciando in Grace un
ricordo indelebile e meraviglioso.
Lei e Jeremy ebbero la fortuna di ottenere una foto e un autografo
dal cantante, che fu ben felice di accontentarli.
Allegri e innamorati, raggiunsero il motel in cui Jeremy si era
premurato di prenotare per quella notte. L’ultimo treno era passato da un pezzo
e loro non potevano certo tornare a piedi.
Una volta dentro la loro camera, Grace si gettò nel letto, ridendo
a crepapelle. “Non ci credo! Non ci credo! Abbiamo fatto una foto con
Alborosie!” gridò, rotolandosi sul materasso.
Jeremy la raggiunse e la sollevò di peso, divertito. “Credici,
credici!”
“Ehi, mettimi giù! Dove mi stai portando?”
“In bagno. Ti va di fare la doccia con me?” le chiese, serio.
Grace smise di ridere e sentì le guance in fiamme per l’imbarazzo.
Non riusciva a vedere Jeremy, ma sapeva per certo che non stava scherzando.
Non avevano mai fatto nulla di simile, ma Grace non desiderava
altro, in quel momento. Aveva voglia di coccolare un po’ il suo uomo e lavarlo
poteva essere divertente.
“Okay!” saltò su. “Però… ad una condizione.” Ghignò, sentendosi
eccitata all’idea che aveva in mente.
“Quale condizione?”
“Voglio lavarti. E voglio che tu tenga le mani a posto. Stavolta
comando io.” L’audacia con cui pronunciò quelle parole sorprese per prima se
stessa, ma in quel momento in lei si era innescato il desiderio di giocare un
po’.
Jeremy ridacchiò, scuotendo il capo. “Va bene, come vuoi.”
Raggiunsero la doccia e, dopo aver regolato l’acqua ad una
temperatura non troppo calda, si spogliarono e si gettarono sotto quel getto
rigenerante.
Grace si divertì ad insaponare per bene il ragazzo, sentendolo
rabbrividire e irrigidirsi sotto il suo tocco. Più di una volta dovette
esortarlo a tenere le mani a posto, ma alla fine tutto si concluse come
previsto.
Si esplorarono l’un l’altra e fecero l’amore, stringendosi e
accarezzandosi con bramosia.
Poi, sfiniti, rimasero abbracciati sul letto.
“Grazie” disse lei, spezzando il dolce silenzio che si era creato
tra loro.
Jeremy si mise su un fianco e la osservò. “Per cosa?” Le accarezzò
la schiena nuda.
“Per tutto questo. Perché ci sei. Perché…”
“Non mi devi ringraziare, piccola.”
Grace sospirò. “Sì, invece. Tu mi stai vicino e mi accetti per
quello che sono. Nessuno lo aveva mai fatto prima.” Anche lei si mosse,
accoccolandosi al suo petto. “Grazie.”
Il ragazzo la strinse a sé e le accarezzò i capelli. “Di niente. Lo
faccio perché me lo sento, tutto qua.”
I due rimasero in silenzio ad ascoltare il battito cadenzato dei
loro cuori.
“Perché ti amo” aggiunse Jeremy, in un sussurro.
Grace, sotto shock, credette di aver sentito male. Si scostò da lui
e raggiunse il suo viso con le mani, vagando con lo sguardo nell’oscurità.
“C-cosa?” balbettò.
Jeremy le prese le mani tra le sue. “Ti amo” ripeté e le baciò la
fronte. “Ti amo e ti rispetto. Sei la mia donna e voglio che tu sia mia e
basta. Mia e di nessun altro.”
Grace scoppiò a piangere per l’ennesima volta in quella giornata,
rimanendo letteralmente senza parole.
“Piccola… non piangere!”
“Io non… Jemy…” Grace nascose il viso sul suo petto.
“Calmati, shh, tranquilla.”
Calò nuovamente il silenzio, mentre Grace cercava di calmarsi.
“Jemy” lo chiamò flebilmente.
“Gracie.”
“Jemy, anche io… anche io ti amo” riuscì a buttare fuori la
ragazza, in preda all’imbarazzo.
“Lo so, piccola mia, lo so.”
Grace sbadigliò, per poi lasciare un piccolo bacio sul suo petto.
“Dormiamo adesso, va bene?” suggerì il ragazzo.
“Va bene.”
Si scambiarono un ultimo bacio e quasi simultaneamente scivolarono
tra le braccia di Morfeo.
Grace e Jeremy rientrarono al paese il giorno dopo il concerto.
Era stato un evento indimenticabile, eppure le cose belle, si sa,
sono sempre destinate a durare poco.
Jeremy, infatti, doveva ripartire quella sera stessa e pensò bene
di informare Grace mentre si trovavano all’ingresso di casa Andrews.
“Grace, ascolta… non ho avuto modo di dirtelo prima, ma io
stasera…”
Grace, che fino a pochi secondi prima stava sorridendo, si rabbuiò
e gli lanciò un’occhiataccia. “Non dirmi che te ne vai.”
“Ecco… io… sì. Devo, mi dispiace” mormorò il ragazzo, stringendole
una mano tra le sue.
“Dispiace anche a me, ma… è dura da accettare.”
“Lo so, Gracie, lo so. Lo è anche per me.”
Grace sospirò, scuotendo il capo. “Ancora non ho capito come hai
fatto a liberarti.”
“Ho chiesto un giorno di permesso a lavoro. Domani non so come farò
a trascinarmi in cantiere, però…” Jeremy sorrise, per poi accarezzarle una
guancia. “Non mi pento di fare tutto questo trambusto se posso stare un po’ con
te.”
Grace gli si gettò tra le braccia, sentendosi quasi morire all’idea
di un nuovo e doloroso addio.
“Tranquilla, sai che sono con te” la rassicurò il ragazzo,
cullandola tra le sue braccia.
“Sì, lo so.”
Grace era triste, non si aspettava di doverlo lasciare così presto;
ma, del resto, non si era aspettata di poterlo riabbracciare prima di Natale,
quindi impose a se stessa di non disperare. Quello che avevano condiviso in
quei due giorni era stato stupendo, sicuramente al di sopra di ogni sua
speranza. Aveva creduto fino all’ultimo di non riuscire ad assistere al
concerto di Alborosie, eppure era successo e Jeremy le era stato vicino. Quando
lei ne aveva bisogno, lui non mancava mai. E Grace cercava di convincersi che
anche lui la sentisse vicino, anche se lei non aveva ancora fatto niente di
eclatante per lui.
Mise da parte quei pensieri e si scostò da lui, per poi invitarlo
ad entrare. Era quasi mezzogiorno e Jeremy le disse che, purtroppo, non si
sarebbe potuto trattenere a lungo quanto avrebbe voluto.
Mentre Grace gettava lo zaino sul suo letto, il suo cellulare prese
a squillare. Pensò che si trattasse di sua madre, così rispose senza
controllare sul display.
“Sì?” fece, distrattamente, mentre raggiungeva Jeremy in cucina.
“Grace…”
Elizabeth.
Elizabeth?!
Grace per poco non gridò per la sorpresa, ma fece in modo di stare
calma e si limitò a grugnire qualcosa di incomprensibile.
“Quel grugnito è già qualcosa, ti ringrazio. Pensavo che non
avresti risposto.”
“Non ho letto il mittente. Pensavo fosse mia madre” rispose Grace,
irritata.
Jeremy le lanciò un’occhiata interrogativa che lei non colse, così
le si avvicinò e le sussurrò: “Chi è?”
“Elizabeth!” sibilò Grace, perdendosi la maggior parte di ciò che
la sua interlocutrice le stava comunicando.
“Grace, mi ascolti?!”
“Ah, eh? Sì, sì! Scusa… dicevi?”
Stavolta fece in modo di prestarle la dovuta attenzione.
“Ti ho chiesto se ci possiamo vedere” ripeté Elizabeth, con tono
acido.
“Vederci?” Grace sbuffò. “E perché, scusa?”
“Ho bisogno di parlarti” le spiegò l’altra.
“Hai bisogno di parlarmi.” Fece una pausa, guardando Jeremy.
“Capisco.”
“E… quindi?” Elizabeth cominciava a spazientirsi, non sopportava di
essere tenuta sulle spine in quella maniera.
“Calmati. Ne parlo con Jeremy e ti avviso con un messaggio.”
“Con Je…”
Grace riattaccò, seccata. Ma come si permetteva, quella, di
parlarle con quel tono? Ragionava come se lei fosse il sole e tutti dovevano
ruotarle attorno. Ma chi si credeva di essere? Lei era in torto, lei aveva
sbagliato, e ora pretendeva di avere l’esculsiva sul suo tempo e su di lei?
“Ma pensa te questa!” sbottò Grace, lanciando il cellulare sul
tavolo. L’apparecchio per poco non cadde sul pavimento.
“Grace…”
“Ma cosa crede, eh? Pensa forse che io sia libera a seconda di come
fa comodo a lei?”
“Grace!” Jeremy la afferrò per le spalle. “Sta’ calma! Elizabeth
vuole parlarti?”
“Sì, ma credeva che sarei corsa immediatamente da lei!”
“E vacci, no? Tanto io tra poco devo andare. Ti accompagno a casa
sua.” Jeremy sorrise.
“Ma… non so se voglio parlarci, ecco.”
Il ragazzo scosse il capo e le lasciò un bacio a fior di labbra.
“Sì che lo vuoi, non essere così orgogliosa. So che ti ha ferito il suo
comportamento, ma se ti ha chiamato magari vuole chiederti scusa. Forse ha
capito di aver sbagliato.”
Grace annuì, poco convinta. Jeremy non conosceva Elizabeth, non
sapeva quanto fosse orgogliosa dieci volte più di lei. C’era qualcosa sotto,
sicuramente Elizabeth voleva far in modo che fosse lei a scusarsi.
Tuttavia, non poteva saperlo, così decise di dar ascolto al suo
ragazzo, una volta tanto.
“Va bene, va bene, le dico che passo da lei tra…”
“Mezzora” sussurrò lui, per poi avventarsi sul suo collo e
baciarlo. “Mi mancherai, cazzo” gemette sulla sua pelle, facendola rabbrividire
da capo a piedi.
“Anche tu” riuscì a dire lei, prima di lasciarsi trasportare da
quelle sensazioni che solo Jeremy Pherson era in grado di trasmetterle.
Il tragitto fino a casa Pherson trascorse in religioso silenzio.
Grace era stretta al fianco di Jeremy e faceva di tutto per non
scoppiare a piangere in mezzo alla strada. Lui, con una faccia da funerale, le
avvolgeva la vita e guardava dritto davanti a sé, imponendosi di non pensare a
quando non sarebbero più stati insieme.
Arrivati a destinazione, sciolsero quell’intreccio e si guardarono
negli occhi, illuminati dai raggi del primo pomeriggio.
“Gracie… dovresti mangiare qualcosa. È da stamattina che non tocchi
cibo.”
Lei scosse il capo. “Non mi va, adesso. Più tardi.”
Rimasero ancora in silenzio, non sapendo più che parole usare.
Erano entrambi consapevoli di doversi lasciare senza tante storie, poiché
Jeremy doveva partire e far in modo di trascinarsi in cantiere la mattina
seguente, mentre Grace avrebbe iniziato il suo tirocinio. Tuttavia, era tutto
fottutamente difficile e ogni volta che dovevano salutarsi, pareva che tutto
divenisse impossibile da sostenere e affrontare.
“Grace…”
“Non voglio piangere. Odio gli addii!”
Jeremy la strinse a sé. “Non è un addio, lo sai” sussurrò,
affondando il viso tra i suoi capelli.
“Sì, lo so. Però odio doverti lasciare, ancora.” Grace stava
facendo di tutto per evitare che le lacrime sgorgassero dai suoi occhi e,
stranamente, ci stava riuscendo.
“Lo detesto anche io, ma per ora è cosi.”
A fatica, furono costretti a sciogliere l’abbraccio. Si scambiarono
un ultimo, lungo bacio, poi Grace si voltò e prese a camminare febbrilmente
verso casa Carlsson.
L’ultima volta che Jeremy era partito, Elizabeth era stata al suo
fianco e l’aveva sostenuta.
Ma ora, cosa sarebbe successo?
Avrebbe potuto chiamare Jane, ma sapeva di dover, prima di tutto,
risolvere la situazione con Elizabeth. Erano rimaste per tanti giorni senza
rivolgersi la parola ed era arrivato il momento di dire basta.
Probabilmente, se non fosse stata l’altra ragazza a prendere
l’iniziativa, Grace avrebbe lasciato trascorrere chissà quanto tempo prima di
accorgersi che la situazione le stava sfuggendo di mano.
Raggiunse la sua meta e, non appena suonò il campanello, Elizabeth
corse fuori come una furia e la raggiunse.
“COSA DIAMINE SIGNIFICA CHE DEVI CHIEDERE IL PERMESSO A JEREMY PER
POTERMI VEDERE?” gridò, imbufalita e fuori controllo come mai a Grace era
capitato di vederla.
L’altra, nervosa e irritata dal suo atteggiamento, le rispose a
tono, senza permetterle di calpestarla: “Ehi, deficiente! Guarda che Jeremy era
a casa con me! È arrivato venerdì perché, a differenza tua, ci teneva che io a
quel fottuto concerto non mancassi! Mi ci ha accompagnato e ci siamo divertiti
tantissimo, alla faccia tua, che sei una bigotta rincoglionita! E, sai che c’è?
Mi sono pentita di essere venuta.” Prese fiato, mentre avvertiva il sangue
pulsarle nelle tempie. “È una perdita di tempo.”
“Cosa? Grace, come… Jeremy era… COSA?”
“Sì, hai capito bene!” Grace fece per andarsene, ma fu richiamata.
“Aspetta! Okay, lo so che ho sbagliato, ma io non sono il tipo da
andare in posti del genere, lo sai. Mi conosci, eppure hai ancora il coraggio
di prendertela con me per queste stronzate.”
“Per te sono stronzate, ma non per me! Potresti fare uno sforzo,
data la mia situazione. Ma tu no, te ne fotti! Sei egoista, punto.” Grace si
strinse nelle spalle.
“No, Grace, ascolta…”
“Lascia stare.”
“Mi dispiace, okay?”
“Se ti dispiace davvero, dimostramelo!”
Elizabeth sospirò, esasperata. “Ci proverò.”
Rimasero un attimo in silenzio.
“Posso andarmene?” domandò Grace, sarcastica.
“No, aspetta.”
“Che c’è, ancora?”
L’altra prese un lungo respiro, poi si decise a rispondere: “C’è
qualcos’altro che devo dirti.”
“E cosa?”
“Io… preferisco che ci sediamo, è una storia lunga” spiegò
Elizabeth, prendendo a tremare di paura.
Grace spalancò gli occhi. “Ah.”
“Possiamo andare al parco. Ti va?”
“Okay.”
Le due si avviarono e Grace si domandò per tutto il tempo cosa ci
fosse di così eclatante nella noiosa vita della sua amica, di così importante
da portarla ad assumere quel tono serio e preoccupato che in genere riservava
soltanto ai suoi monologhi sullo studio o ai ‘no’ che voleva fossero
categorici, come quello che aveva detto a Grace giorni prima.
Quando poi Elizabeth prese a parlare, Grace comprese il perché di
tutte quelle storie.
“Tutto è cominciato più o meno un anno fa” esordì Elizabeth, senza
guardare Grace. “Non avevo mai degnato nessuno di uno sguardo, nessun ragazzo
almeno. Tu mi conosci, lo sai. A me certe cose non interessano, mi devo
concentrare sullo studio e non posso perdere tempo in futilità. Ma poi, Grace,
poi un giorno il mio sguardo si è posato su Noel, sì, quel Noel. Lo stesso che
ti ha fatto del male. Mi dispiace, ma le cose stanno così. Lo conoscevo da
sempre, avevo sempre sentito parlare di lui. Eppure, ciò non aveva mai
provocato in me nessuna reazione. Noel Deaver per me era uno dei tanti ragazzi
stupidi e insignificanti che popolavano questo paese. Mi era completamente
indifferente.
“Poi, be’, le cose sono cambiate. Un giorno i miei occhi hanno
incontrato i suoi e da quel preciso istante non ho potuto più fare a meno di
pensare a lui. Trascorrevo le giornate a base di studio, lezioni e Noel Deaver.
Fantasticavo su quello che sarebbe potuto succedere tra noi, mi chiedevo come
sarebbe stato stare insieme. Mi sono presa proprio una bella sbandata per quel
ragazzo e mi sono dovuta rendere conto che era la prima volta, che non mi era
mai successo di sentirmi così presa da qualcuno. E, tra l’altro, io non
conoscevo Noel, per me era solo un nome e due occhi splendidi e penetranti.
“Più il tempo passava, più il mio strano sentimento nei suoi
confronti cresceva. Mi sentivo sempre più legata a qualcosa di astratto, a
qualcuno che non sarebbe mai stato mio. Ma la cosa, inspiegabilmente, mi
piaceva e mi intrigava. Noel ormai era diventata la mia forza, quella spinta in
più che dava vitalità alle mie giornate monotone. Non volevo smettere di
provare quell’attrazione, mi donava serenità e allo stesso tempo mi tormentava
l’anima. Era stupendo.
“Poi, le cose sono cambiate drasticamente intorno a me. Tu, Grace,
ti sei riavvicinata a Jeremy e io non riuscivo a credere di avere
un’opportunità così preziosa di aver a che fare con Noel Deaver. Pensavoche le cose avrebbero potuto prendere una piega
positiva. Ma, come ben sai, non è stato così.
“Noel ti ha ricattato, ti ha trascinato nella sua casa in campagna
e ha tentato di abusare di te. E io, come una stupida, ho continuato ad amarlo
incondizionatamente. Se da un lato sapevo che stava sbagliando e che avrei
dovuto lasciarlo perdere, dall’altro la cosa mi intrigava e mi faceva provare
invidia nei tuoi confronti.”
Elizabeth fece una pausa abbastanza lunga, nella quale Grace
continuò a ripetersi che non era possibile, che la ragazza che le sedeva
accanto sulla panchina non stava dicendo sul serio. Elizabeth Carlsson non
poteva amare Noel Deaver, quello stronzo psicopatico di Noel Deaver.
“So che è terribile ciò che sto dicendo, Grace, so che tutto questo
ti fa soffrire. Ma io, cosa posso farci? Quello che provo per quel ragazzo va
avanti da un anno! Quello che è successo nelle ultime settimane non è riuscito
a distruggere i miei sentimenti. Ci sto provando, devi credermi, ce la sto
mettendo tutta.”
Elizabeth tacque.
Grace, scossa e profondamente turbata da ciò che aveva appena
appreso, ci mise un paio di secondi a trovare il coraggio di aprir bocca.
Senza guardare l’altra ragazza, mormorò: “Non è possibile.”
“Lo è, Grace. Io… non so come dirtelo, ma c’è dell’altro.”
Grace, stavolta, sollevò di scatto lo sguardo dalle proprie scarpe
e lo fissò su Elizabeth. Non riusciva a cogliere la sua espressione, ma sentiva
che era tormentata, era triste e amareggiata.
“Cos’altro c’è?” domandò, torcendosi le mani in un gesto
involontario.
“Quando tu mi hai chiesto di accompagnarti al concerto, io ti ho detto
di no. Be’, la verità è che avrei voluto farlo, mi sarebbe piaciuto venire con
te e renderti felice. Conosco i tuoi problemi e mi dispiace per come sono
andate le cose. Il problema è che, da quando Noel è agli arresti domiciliari,
non trascorre giornata che io non vada a trovarlo.”
Grace non sapeva più cosa pensare, era allibita cda quelle
confessioni. La sua amica non era mai stata così, non aveva mai provato dei
sentimenti per un ragazzo. Non era il tipo.
Ma del resto, anche lei non aveva mai avuto certe esperienze prima
di conoscere – nuovamente – Jeremy.
Eppure, non poteva accettarlo. Noel Deaver aveva provato a
violentarla, con l’aiuto e la complicità dei suoi amici.
“Tu stai dicendo che…”
“Che io e lui ci frequentiamo, se così si può dire. Il mio sogno si
sta realizzando, Grace, capisci? So che probabilmente mi stai odiando in questo
momento, ma ti giuro che lui è pentito di ciò che ha fatto. Tiene a Jeremy e
non voleva fargli del male, così come non voleva farne a te. Non giustifico il
suo comportamento, non fraintendermi, ma ha dato di matto e non sa spiegarsi
come possa essere stato così cattivo nei vostri confronti.
“Io e lui parliamo tantissimo, sai? Mi ha raccontato un sacco di
cose della sua famiglia, del rapporto burrascoso che intercorre tra lui e suo
padre, del fatto che i suoi si sono separati perché quell’uomo picchiava sua
moglie. Quella donna adora Noel, lo ama più di ogni altra cosa al mondo. Parlo
molto anche con lei. Mi dice che vorrebbe strangolare suo figlio perché ha un
pizzico di cattiveria del padre, ma dice che quel ragazzo è il suo unico amore,
la sua unica ragione di vita. Spesso entrambi mi chiedono perché continuo a
frequentare quella casa deserta, in cui nessuno ha mai messo piede dopo
l’accaduto. Le voci girano, si sa. E anche i parenti evitano Noel e sua madre
come la peste.
“E io, Grace, quando mi chiedono il motivo, non so mai cosa
rispondere. A volte dico che mi fa piacere, a volte mi limito a sorridere. La
verità è che vorrei poter dire loro che amo Noel Deaver, che sono felice di
poterlo conoscere meglio e che non posso fare a meno di passare i miei
pomeriggi a parlare con lui.”
Grace era sempre più turbata, ma mentre Elizabeth parlava, lei
riusciva a cogliere un grande amore farsi largo tra quelle che erano solo
parole ma che, in realtà, rappresentavano molto di più. Quella ragazza si era
innamorata e Grace, nonostante tutto, riusciva a capirla.
Avrebbe voluto credere al fatto che Noel era pentito, ma era troppo
presto per metabolizzare una possibilità simile. Per quanto la riguardava, non
l’avrebbe mai perdonato. Le aveva inflitto troppa sofferenza, si era preso
gioco di lei e l’aveva umiliata davanti alle sue amiche e ai suoi complici.
“Quindi” intervenne Grace, cercando di riordinare le idee.
“Vorresti stare con Noel Deaver?”
“Sì, Grace, lo voglio con tutta me stessa. Per ora gli sto vicino e
mi accontento di strappargli qualche sorriso e qualche lacrima. Poi, si vedrà.”
Elizabeth parlò con tono tranquillo, come se si stesse riferendo alla persona
più innocente ed innocua del mondo.
Grace non riusciva proprio ad accettare quel tradimento, da parte
sua. Non sapeva se sarebbe stata in grado di esserle ancora amica. Come sarebbe
stato il loro rapporto? Lei non sopportava di sentir nominare la persona di cui
Elizabeth era innamorata, la persona di cui non avrebbe mai smesso di parlare
perché era parte di lei.
“Io non so cosa dirti” ammise Grace, dopo una lunga pausa.
“So di averti sconvolta, ma…”
“Come possiamo essere amiche, Elizabeth?”
L’altra le rivolse un’occhiata confusa e scosse il capo. “Non ne ho
idea. Io non voglio perderti, ma non voglio perdere nemmeno lui. Adesso capisco
cosa si prova quando si ama.”
“L’amore non è tutto” buttò lì Grace, sapendo di mentire
spudoratamente.
“Tu lasceresti Jeremy, se io te lo chiedessi? Saresti in grado di
scegliere tra me e lui?” la aggredì Elizabeth, acida.
“Non osare paragonare quel maniaco di Noel Deaver al mio ragazzo.
Loro due non hanno niente a che fare.” Grace si stava innervosendo.
“Ma lui è cambiato, è profondamente pentito!” ribatté l’altra,
cercando di far valere le sue ragioni.
“Me ne fotto!” sbottò Grace, stizzita. “Doveva pensarci prima di
tentare di fare un’orgia a mie spese!”
Calò un silenzio carico di tensione e di rabbia. Ognuna delle due
ragazze aveva le proprie idee ben chiare e non aveva la minima intenzione di
scendere a compromessi con l’altra.
Grace, sbuffando, si alzò e prese a camminare avanti e indietro,
cercando di rimettere in ordine tutte le informazioni che aveva appena
assorbito. Era tutto così surreale, così paradossale! Non poteva crederci, non
riusciva a concepire che Elizabeth provasse dei sentimenti per quel troglodita,
non dopo tutto quello che era successo!
“Io, scusami, non ce la faccio! Forse è meglio se non ci vediamo
per un po’, devo accettare troppe cose!” concluse Grace, prendendosi la testa
tra le mani. Osservò Elizabeth e la vide sotto una luce diversa, la vide come
un’estranea. Non la riconosceva più.
“Grace, se è quello che vuoi…” Elizabeth fece cadere le ultime
parole come se temesse di pronunciarle.
L’altra ragazza annuì.
Così, in silenzio, si avviarono insieme ma separate verso casa.
Elizabeth provò a chiedere a Grace com’era andato il colloquio e il
concerto, e lei si limitò a mugugnare un ‘bene’, immersa com’era nei suoi
pensieri e nella rabbia e la delusione che provava dentro.
Era stato tutto troppo bello per essere vero, negli ultimi giorni.
E infatti, la mazzata era arrivata anche stavolta e lei non aveva
potuto far altro che incassare il colpo e provare ad assimilare il tutto, per
poi accettarlo.
Ma era ancora presto, troppo presto.
Jeremy era andato via e Grace era di nuovo sola, persa nei meandri
dei problemi che non finivano mai di tormentarla.
Non poteva parlarne con Jane, non le sembrava il caso di spargere
troppo la voce in quel dannato paese in cui nessuno sapeva farsi i fatti suoi.
E, oltretutto, doveva prepararsi psicologicamente per il lavoro.
Sentiva che non ce l’avrebbe fatta, non aveva più voglia di vivere
quella giornata tremenda e non ne poteva più di elaborare concetti confusi e
dolorosi.
Non vedeva l’ora di tornare a casa, buttarsi a letto e dormire,
sperando di risvegliarsi dall’incubo più forte di prima.
Il primo giorno di tirocinio, fu per Grace qualcosa di
interessante, qualcosa che riuscì a distrarla da tutti i pensieri che le si
affollavano in testa.
Fu per l’ennesima volta grata di avere un’occupazione, un mestiere
da apprendere, un nuovo ambiente nel quale ambientarsi, in base alle sue
possibilità e difficoltà. Tutto era nuovo e ogni angolo di quella labirintica
struttura la affascinava, facendole dimenticare tutto ciò che la tormentava.
Jeremy, neanche a dirlo, le mancava terribilmente. Ma questo era un
motivo in più per impegnarsi, in modo da racimolare un po’ di soldi per poterlo
raggiungere e conoscere il luogo in cui viveva.
Poi, ovviamente, c’era Elizabeth e la sua confessione che,
inevitabile, ogni tanto faceva capolino nei suoi pensieri e la metteva a
disagio.
Grace, tuttavia, scacciò ogni cosa che non riguardasse il tirocinio
e si concentrò completamente su ciò che le veniva spiegato.
Alla fine della mattinata, uscì dall’ufficio, sfinita ma
soddisfatta di sé.
Sua madre, premurosa com’era, aveva insistito per andarla a
riprendere.
Grace salì in macchina e sospirò. “Che stanchezza!”
Sua madre mise in moto e sorrise, dirigendosi verso il
supermercato. “Com’è andata? Cos’hai fatto?”
La ragazza, con entusiasmo, prese a raccontarle tutto nei minimi
dettagli e si stupì di quanto quel primo giorno le fosse piaciuto, nonostante
si fosse appena orientata e avesse assorbito solo un elenco infinito di cose
interessanti che, col tempo, avrebbe dovuto imparare a svolgere in completa
autonomia.
“Ah, contabilità! Sembra interessante” commentò la donna, mentre
parcheggiava l’auto.
“Sì. È tutto interessante, spero solo di essere in grado” mormorò
Grace, per poi scendere dalla macchina e avviarsi all’interno del negozio, dopo
aver preso sottobraccio sua madre. Fu lieta di essere investita da un’ondata di
aria fresca che le fece quasi dimenticare il caldo che permeava l’aria
all’esterno.
Mentre si guardava intorno, il suo cellulare squillò.
“Jemy!” saltò su, allegra. “Non sei a lavoro?”
“Ciao, Gracie. Sono in pausa. Ti ho chiamato per sapere com’è
andata” disse lui, con tono stanco.
“A me tutto bene. Sembra interessante. Ma tu, piuttosto… sei
sfinito, vero? Hai fatto un grande sacrificio per me, mi sento un po’ in colpa”
mormorò la ragazza, rattristandosi un poco.
“Non ti preoccupare, sto bene. Il fatto di aver trascorso del tempo
con te mi ha reso felice, non importa cosa ho dovuto fare.”
Grace sorrise, mentre sua madre ordinava del companatico alla
salumiera. “Mi manchi” sussurrò, sperando che nessuno si impicciasse troppo
nella sua conversazione.
“Anche tu, lo sai. Ci rivedremo presto, non sopporto di starti
lontano troppo a lungo.” Jeremy ridacchiò.
Si salutarono e Grace rivolse nuovamente la sua attenzione alla
madre.
“Era Jeremy?”
“Sì. L’ho sentito stanco, ha combinato un casino per potermi
accompagnare a quel concerto senza perdere il lavoro.”
La donna si avviò alla cassa. “Sì, in effetti ha fatto un bel
sacrificio.”
“Però ci siamo divertiti!”
Le due pagarono e uscirono, per poi rientrare a casa.
Mentre Grace sparecchiava, il suo cellulare la avvertì dell’arrivo di
un messaggio. Sbuffò e lo estrasse dalla tasca dei pantaloncini che indossava.
Sullo schermo apparve Elizabeth come mittente.
“E questa che vuole?!” sbottò, attirando l’attenzione di suo padre.
“Chi?”
“Elizabeth.”
“Non siete più amiche?”
Grace fece spallucce. “Non lo so.”
“In che senso?” L’uomo la osservò, curioso.
Grace era sempre riuscita a confidarsi con lui, più di quanto non
facesse con sua madre. Lui cercava sempre di analizzare con calma le situazioni,
dandole dei consigli ragionevoli. Sua madre, invece, si limitava a dirle di
lasciar perdere chi non le andava a genio, senza analizzare né prendere in
considerazione eventuali motivazioni.
Grace finì di pulire il tavolo e si sedette sul divano accanto a
suo padre.
“Cosa ti ha fatto?” domandò ancora lui, socchiudendo gli occhi.
“Lei…” Lei fece un sospiro. “Va a trovare Noel Deaver” ammise,
vergognandosi infinitamente di avere un’amica del genere.
“Quel delinquente!”
“Sì, proprio lui. Dice di esserne innamorata da tempo, dice che lui
è pentito e un sacco di altre stupidaggini!”
“E adesso che pretende da te?”
Grace riprese il cellulare e aprì il messaggio.
C’era scritto:
Ciao. Noel vorrebbe vederti, ha detto che vuole chiederti scusa per
tutto quello che ti ha fatto. Grace, lui è davvero pentito e non vuole che tu
ce l’abbia con lui per sempre. Ti prego, pensaci.
“Questo è troppo!” Grace si alzò, impettita. Schiacciò con forza il
tasto verde e chiamò Elizabeth.
Suo padre, dopo aver letto il messaggio, aveva scosso il capo.
“Grace, hai…”
“TU SEI FUORI DI TESTA!” sbraitò, puntandosi una mano sul fianco.
“Calmati, dai…”
“No, Elizabeth! Come faccio a calmarmi? Quel tipo mi ha quasi
violentato, come pensi che io possa sentirmi? Credi che tutto sia facile, vero?”
“No, ascolta. Lo so, lo so che è stato orribile, anche Noel lo sa e
io non faccio altro che ripeterglielo, perché è giusto che paghi per i suoi
errori. Ma lui vuole essere una persona migliore, sa che ha sbagliato e si
sente orribile per questo. Vorrebbe solo chiederti scusa guardandoti negli
occhi.”
Grace espirò bruscamente, camminando avanti e indietro per la
cucina. “E secondo te, io dovrei accettare di venire con te a casa di Noel
Deaver? Se la pazza sei tu, dovrei diventarlo anch’io?”
“Non diventerai pazza! Puoi andartene quando vuoi, nessuno ti
trattiene, non più.”
“Non lo so, ti faccio sapere.” Detto questo, la ragazza fece
terminare la telefonata e si sedette nuovamente accanto al padre.
“Allora?”
“Vuole che io vada a casa di quel… insomma, di Deaver, perché lui
vuole chiedermi scusa.”
L’uomo annuì. “E tu cosa vuoi fare?”
“Sinceramente non lo so. Potrei anche andarci, non sono obbligata a
rimanere chissà quanto. Sai, mi piacerebbe sfogarmi contro quello stronzo, dopo
tutto quello che ha combinato.”
“Devi fare quello che ti senti, Grace.”
Lei annuì, come per convincere se stessa. “Sì, credo proprio che ci
andrò.” Afferrò il cellulare e inviò un messaggio ad Elizabeth.
Così, si accordarono per quel pomeriggio.
Grace era agitata. Ancora non aveva capito come avesse potuto
accettare di compiere una simile pazzia. Se Jeremy fosse stato con lei, non
glielo avrebbe permesso.
Al telefono, aveva sbraitato per un quarto d’ora prima di calmarsi
e cercare di accettare la decisione della sua ragazza. Ma, come ben sapeva,
Grace non lasciava che nessuno le dicesse cosa doveva fare. Non era sicura che
fosse la decisione giusta, ma rimase coerente con se stessa e non mancò
all’appuntamento con Elizabeth.
Erano le sei del pomeriggio e le due si incontrarono vicino a casa
Carlsson.
“Elizabeth, sono sicura che questa sia una pessima idea, ma credo
proprio che quel coglione si meriti un po’ dei miei insulti” commentò Grace,
acida.
“Non essere così dura con lui” la implorò l’altra, camminando
velocemente verso la periferia del paese.
“Non cominciare a difenderlo, altrimenti me ne torno a casa!”
“Va bene, va bene…”
Le due ragazze rimasero in silenzio finché non giunsero alla loro
meta.
Elizabeth suonò il campanello e, pochi istanti dopo, la signora
Deaver aprì loro, invitandole flebilmente ad entrare.
Grace le rivolse quella che doveva essere un’occhiata
compassionevole, certa che non fosse colpa sua se il figlio era cresciuto come
un animale.
“Mi dispiace… mio figlio…” farfugliò, rivolgendosi alla ragazza.
“Signora, la prego, non dica niente. Non serve. Suo figlio è una
bestia, ma sono certa che non sia colpa sua. piuttosto, a me dispiace per lei,
non dev’essere facile vivere in compagnia di un reietto.”
La signora Deaver sgranò gli occhi e spalancò la bocca, stupefatta
da quelle parole dure e dall’odio che quella ragazza nutriva nei confronti di
Noel.
Elizabeth, turbata, si limitò a scuotere il capo.
“Allora, dov’è? Vado di fretta!” sbottò Grace con strafottenza, per
poi sbuffare.
“Elizabeth, ci pensi tu?”
“Sì, Emma, non ti preoccupare.”
Grace si costrinse a tacere, nonostante trovasse disgustoso che
Elizabeth avesse tanta confidenza con la donna.
“Grazie. Allora… ciao, ragazze.”
“Ciao Emma” rispose Elizabeth.
L’altra ragazza non aprì bocca e si limitò a seguire la sua amica,
facendo di tutto per non toccarla, pur non riuscendo a vedere granché
all’interno di quell’angusta abitazione.
Le due raggiunsero una porta ed entrarono senza bussare.
“Liz” mormorò rauco Noel, non appena vide Elizabeth far capolino
nella sua camera.
“Ciao, Noel.” La ragazza lo raggiunse e gli regalò un abbraccio.
“Come stai? Hai mangiato?”
Lui scosse il capo. “Non mi va.”
“Dio, Noel! Farai impazzire Emma!”
“Già, povera mamma. Oggi le ho imprecato contro, sicuramente mi
odierà.”
“Insomma, vogliamo smetterla con questa pagliacciata?!” sbottò
Grace, facendo qualche passo avanti. Osservò con disgusto ciò che la
circondava, poi fece una smorfia e scosse il capo.
“Grace, sei venuta. Non ti avevo visto, scusami…” Noel Deaver si
alzò a fatica dal letto e, automaticamente, Grace fece tre passi indietro, fino
a ritrovarsi contro la porta.
“Non ti avvicinare, porco” sibilò tra i denti, fissando in cagnesco
l’ombra del ragazzo.
“Non ti si avvicinerà, Grace, tranquilla” dichiarò Elizabeth,
posando una mano sulla spalla di Noel, come per trattenerlo.
Grace non disse nulla e rimase ferma, attendendo che quello
psicopatico pervertito dicesse qualcosa che valesse la pena di ascoltare.
“Grace, non so da dove cominciare… io… so perfettamente che mi
disprezzi, che ti faccio schifo e non posso darti torto. Non ti chiedo neanche
di perdonarmi.” La sua voce era stanca, debole, come se non avesse più voglia
di farla udire al mondo. Parve quasi barcollare, sfinito, oppresso da un peso
che solo lui meritava di portare sulle sue spalle.
“Tutto bene?” fece Elizabeth, apprensiva, facendo per sostenerlo.
“Sì, grazie, Liz.”
Grace fissò la scenetta con un certo disgusto, provando comunque
pena per la ragazza. Era cieca d’amore e quel maiale se ne stava approfittando
ampiamente.
Noel, dopo essersi schiarito la voce, riprese a parlare: “Non
pretendo che tu mi perdoni, non potrei mai chiederti qualcosa di simile. Mi
sento uno schifo per tutto quello che ho combinato, non merito niente da
nessuno, lo dico anche a Liz, sempre.”
“E lei? Lei cosa ti dice, eh?” Grace era sempre più incredula, era
tutto troppo paradossale per essere vero.
“Lei vuole starmi vicino, vuole aiutarmi a non cadere sempre più in
basso. Sono disperato, non so proprio cosa mi sia preso. Ero geloso di Jeremy,
non lo so. Vorrei poter tornare indietro. Ma quel che è fatto, è fatto, ne sono
consapevole.” Tossicchiò, poi si sedette nuovamente sul letto, già stanco.
Grace era sotto shock: quello che era sempre parso un ragazzo
forte, spavaldo, sicuro di sé, ora rappresentava poco più che un cadavere.
Emanava un’energia negativa, quasi mortale, qualcosa se lo stava mangiando
dall’interno e lo rendeva debole, facendogli rifiutare qualsiasi forma di
sostentamento. Stava morendo dentro.
“Basta così” balbettò Grace, facendo un altro passo indietro.
Improvvisamente, si sentiva quasi come se lei fosse Noel, come se fosse stata
lei a commettere quell’orribile gesto. L’empatia poteva essere qualcosa di
positivo, alle volte; in altre occasioni, come quella, la trovò spaventosa e fu
decisa più che mai ad andarsene per sempre fuori da quell’inferno.
Si voltò.
Fece qualche passo avanti, poi si fermò, cercando di capire come
uscire da quel tugurio.
Udì appena un fruscio provenire dalla camera di Noel, poi si sentì
afferrare per un polso.
“Levami le mani di dosso!” strillò Grace, dimenandosi. Dopo essersi
liberata dalla stretta di NoelDeaver,
andò a sbattere contro il muro e qualche lacrima sgorgò dai suoi occhi,
facendola rabbrividire dal dolore.
“Grace…” mormorò lui, mentre lasciava ricadere
il braccio lungo il fianco, guardandola sbigottito.
“Mi ha messo le mani addosso!” squittì Grace, acida, massaggiandosi
la spalla che aveva urtato contro la parete.
“No, volevo fermarti! Non ho nessuna intenzione di farti del male!”
“E io dovrei crederti, eh? Dopo quello che mi hai fatto? Tu non sai
cos’ho passato io, non sai quanto ho avuto…” Grace
singhiozzò, involontariamente. “Paura…” aggiunse, per
poi prendersi la testa tra le mani. “E poi, la mia amica mi dice che…”
“Grace, cosa stai dicendo?!” Elizabeth si inalberò, temendo ciò che
l’altra ragazza potesse aver intenzione di dire.
“Mi dice che… che viene da te, accidenti,
da te!”
“Io capisco, capisco che tu mi odi, che io ti abbia fatto del male… non ci sono giustificazioni, ne sono consapevole. Ho
perso la mia dignità e ho perso uno dei più cari amici che ho. È tutta colpa
mia, come darti torto? Però…”
“Però, cosa, Noel? Cosa? Io non ce la
faccio più, non riesco a starti a sentire, mi fa male pensare che tu stavi per…”
Elizabeth emise un rantolo. “Grace” mormorò, facendo qualche passo
avanti.
“Lizzie” rispose lei, tirando su col
naso, mentre cercava di scrutare nella penombra del corridoio.
“Mi dispiace, perdonami. Non ti voglio perdere. Ho sbagliato tutto,
in questo periodo. Al concerto… al concerto non sono
venuta, perché…”
“Era con me” disse Noel, a testa bassa. “Mi
è rimasta accanto, non so come avrei fatto senza di lei.”
Grace spalancò la bocca, sbalordita. “Tu…
eri con… lui?” balbettò.
“Sì, ero con lui.”
Noel, d’improvviso, attirò a sé
Elizabeth e la strinse in un abbraccio. “È tutta colpa mia se voi avete litigato”
ammise, rivolgendosi a Grace. “Se non puoi perdonare me, almeno perdona lei. Ti
vuole bene, non ha fatto altro che parlare di te, di quanto le dispiacesse non
averti accompagnato al concerto. Devi credermi.”
Elizabeth, commossa, ricambiò l’abbraccio del ragazzo che amava con
tutta se stessa e annuì, in silenzio.
“Devo riflettere, ho bisogno di stare sola.”
Elizabeth, premurosa, lasciò andare Noel
e si precipitò dalla sua amica, dicendo: “Ti accompagno, non voglio rischiare
che ti faccia del male.”
Grace si lasciò guidare verso la porta d’ingresso, senza proferire
parola e senza rispondere al saluto del padrone di casa. Una volta che si
ritrovò alla luce del sole, si voltò a guardare Elizabeth e le domandò: “Ancora
una volta ti chiedo, perché lui?”
L’altra ragazza, non sapendo esattamente cosa rispondere, abbandonò
le braccia lungo i fianchi e sorrise, in imbarazzo. “Cosa vuoi che ti dica? Lo
amo, non posso farci niente. Non ho deciso io di provare questi sentimenti per
lui.”
“Lizzie…” Grace balzò in avanti e, di
slancio, la prese tra le braccia, scoppiando a piangere.
L’altra, dopo un attimo di sorpresa, ricambiò. “Scusami, ti prego,
mi sento così in colpa…”
“Va bene, Lizzie, va tutto bene. Non ti
voglio perdere, cercherò di accettarlo. Ce la faremo, sono sicura che la nostra
amicizia sia più importante, più forte.” Sciolse l’abbraccio, guardandola in
faccia. “Ti voglio bene.”
Elizabeth le strinse le mani tra le sue, commossa. “Ti voglio bene
anche io.”
Rimasero un attimo in silenzio, poi Grace annunciò: “Adesso vado,
ho bisogno di pensare. Ho una confusione enorme in testa, cerca di capirmi.”
“Ti capisco. Ci sentiamo presto, vuoi?”
“Sì, ci sentiamo” concluse Grace, per poi allontanarsi.
Decise che non aveva voglia di pensare da sola, non voleva
seriamente rimanere da sola, così decise di passare da Jane, magari avrebbero
potuto uscire un po’.
Fortunatamente, trovò la sua amica in casa.
“Grace? Che fai qua?” disse Jane, sorpresa di averla trovata sulla
soglia.
“Ho qualcosa da raccontarti.”
“Hai una faccia… hai appena incontrato un
fantasma?” si preoccupò la padrona di casa, spostandosi di lato per farla
entrare.
“No, non entro. Ti va di uscire?” propose Grace, affamata di aria
fresca e della tranquillità che riusciva a trovare solo all’aperto.
“Ehm… okay, però entra, mi do una
sistemata. Non avevo in programma di uscire, ma ci metto un attimo.”
Grace acconsentì e attese che Jane si preparasse, poi le due
ragazze uscirono e si diressero verso il parco.
“Elizabeth mi ha chiesto di andare con lei a casa di NoelDeaver” esordì Grace, mentre
varcavano il cancello.
“Non ci credo!” esclamò Jane, sdegnata.
“Credici. Ci sono andata.”
“Stai scherzando, vero?!”
Grace scosse il capo. “No, affatto.”
“Okay, sei pazza!”
“No, senti… ero proprio curiosa di sapere
cosa voleva da me.”
Si sedettero su una panchina di legno posta ai margini di un esteso
prato ben curato.
“E cosa voleva, allora?” domandò Jane, curiosa, frugandosi in
borsa. Ne estrasse un pacchetto di sigarette, ne prese una e la accese,
imprecando contro il vento che le impediva di compiere l’azione con facilità.
“Chiedermi scusa.”
Jane scrollò le spalle. “Oh, ma pensa te!” borbottò, aspirando una
boccata di fumo.
“Sì, ma ovviamente non sono stata a sentirlo. A me importa di Lizzie, non di lui.”
“Ma lei che ha per la testa?”
Grace sollevò gli occhi al cielo. “Non ne ho idea. Mi ha chiesto
anche lei di perdonarla. Ha detto che ama NoelDeaver e che non può farci nulla.”
L’altra, continuando a fumare, annuì. “In effetti” rifletté, “non
ha tutti i torti.”
“Già. Ho deciso di darle una possibilità, le voglio bene.”
“Capisco. Spero che non si faccia calpestare da quel coglione!
Merita di più.” Jane, stizzita, gettò la cicca a terra e la schiacciò con il
piede, appiattendola.
“Sono d’accordo.”
“Ah!” saltò su Jane, come se si fosse improvvisamente ricordata di
qualcosa.
“Che c’è?”
“Com’è andata con Jeremy?”
Grace sorrise nell’udire quel nome. “Tutto alla grande! Solo che… è già ripartito, siamo rimasti insieme poco e niente.”
“L’importante è che siate stati bene. E quindi hai fatto la foto
con quel cantante? Poi voglio vederla!”
“Sì, con Alborosie! È stato così gentile,
lo adoro!” s’inorgoglì Grace, agitandosi sulla panchina.
“A me non piace” fece l’altra, con tono sprezzante. “Bleah!”
“Ah, smettila!”
E così, le ragazze affrontarono argomenti più leggeri e Grace poté
dimenticare per un po’ ciò che era successo quel pomeriggio.
I giorni si susseguirono veloci, per Grace. Il tirocinio procedeva
alla grande. Aveva fatto amicizia con una ragazza, Medison,
che lavorava come segretaria dell’amministratore delegato e aveva cinque anni
in più di lei. Aveva instaurato un buon rapporto anche con Walter, un ragazzo
molto simpatico che si sedeva con lei e Medison al
bar dell’ufficio, durante la pausa caffè.
Inoltre, lei e Jane si vedevano spesso e trascorrevano le serate a
guardare film horror, ridendo come matte. Con Elizabeth, invece, le cose
procedevano con calma. Si erano viste poche volte da quel pomeriggio a casa di NoelDeaver.
Durante un’uggiosa serata di fine ottobre, mentre stavano sedute
sul divano di casa Andrews, Elizabeth disse: “Grace,
devo raccontarti una cosa.”
“Cosa?”
“Ecco…Noel mi
ha baciato” ammise, torcendosi nervosamente le mani.
Grace sobbalzò nell’udire quelle parole, sorpresa più che mai. Non
era sicura di aver sentito bene, sperava con tutta se stessa di aver capito
aglio per cipolla. Come poteva NoelDeaver aver baciato la sua amica?
Si voltò a guardarla, sbattendo più volte le palpebre. “Come,
scusa?”
“Sì… hai capito bene, io e Noel ci siamo scambiati un bacio.” Elizabeth ripeté il
concetto con estrema lentezza, come se anche lei dovesse ancora assimilarlo.
“Oh, gesù!” Grace si prese la testa tra
le mani, incredula all’inverosimile. Non aveva più alcun dubbio: la sua amica
era completamente presa da NoelDeaver,
più di quanto non lo fosse stata quando ancora lui non aveva alimentato la sua
flebile speranza.
“Non ti so descrivere cosa ho provato, non avevo mai baciato
nessuno, non così” proseguì l’altra, con aria sognante, giocherellando con un
braccialetto azzurro che portava al polso destro.
“Ma com’è potuto succedere?”
“In realtà, il contesto è stato strano. Stavamo discutendo per un
motivo stupido, non me lo ricordo neanche più.” Elizabeth fece una pausa,
sorridendo. “Ad un certo punto mi ha spinto contro la parete e mi ha baciato,
così, d’improvviso. Non ho avuto il tempo di rendermene conto finché non me lo
sono ritrovato premuto contro.”
Grace, sotto shock, rimase immobile. “Ah, ecco” osservò, non
sapendo cos’altro dire. “E allora?”
“E allora cosa?”
“State insieme, adesso?”
“Eh?” L’altra parve cadere dalle nuvole. “Insieme? Io… no, non credo, ma cosa…”
“E allora perché accidenti ti ha baciato?!”
Elizabeth sobbalzò. “E cosa vuoi che ne sappia?”
A quel punto, Grace sospirò, esasperata. “Ma insomma! Passate un
sacco di tempo insieme e non hai avuto la premura di chiedergli delle
spiegazioni?” sbottò, stizzita.
“Ma no, non mi sembra il caso. Grace, non ho nessuna possibilità
con lui, lo so bene. Io e Noel siamo soltanto amici.”
La ragazza abbassò lo sguardo e proseguì: “Se non si trovasse agli arresti
domiciliari, non baderebbe affatto a me.”
Grace rimase in silenzio, colpita da quelle parole. La sua amica
aveva l’autostima sotto le suole delle scarpe, era convinta di non poter
risultare attraente agli occhi del ragazzo di cui era innamorata. Questo fatto
era molto triste, eppure Elizabeth lo aveva esposto come se fosse un dato certo
e inopinabile.
“Non dire così!” saltò su l’amica, non sopportando di vederla così
abbattuta. “Okay, Noel è un idiota, ma non credo ti
abbia baciato per sport. Secondo me si è accorto di provare qualcosa per te che
sei l’unica che gli è rimasta vicino per tutto questo tempo.”
“Grace, non lo so, non credo sia così.”
L’altra si rese conto di aver pronunciato delle parole che non era
sicura di pensare sul serio. Era incredibile quanto fosse necessario, alle
volte, dire qualche piccola bugia a fin di bene. Dal canto suo, era convinta
che in quel tizio non ci fosse nulla di buono, che avesse del marcio perfino
nel cuore e che non meritasse l’affetto e il sostegno di nessuno, tantomeno
della povera Elizabeth. Eppure, vedendola in quelle condizioni, non se l’era
sentita di essere cinica – e sincera – come al solito.
“Sei carina a preoccuparti per me, ma davvero non serve” aggiunse
Elizabeth, con tono malinconico. “So che Noel non
pensa a me nello stesso modo in cui io penso a lui, questo è certo.”
“Te l’ha detto lui?”
“No, ma lo so.” Elizabeth era sicura al cento per cento di se
stessa.
“Se non te l’ha detto, non puoi esserne del tutto certa!” affermò Grace,
cercando di farle comprendere l’ovvietà delle sue parole.
“Il tempo mi darà ragione, vedrai.”
“Sicuramente il tempo darà ragione a me.”
Le due ragazze si guardarono e, dopo pochi istanti, scoppiarono in
una risata liberatoria, come non era più capitato da tempo incalcolabile.
A Grace era mancato ridere con Elizabeth, le erano mancati i loro
discorsi e il tempo che trascorrevano a scherzare e scambiarsi offese in
maniera affettuosa.
A Grace, indubbiamente, era mancata la sua Elizabeth, ogni suo
singolo pregio e, anche, ogni suo singolo difetto.
Grace era felice del fatto che le cose tra lei ed Elizabeth si
fossero sistemate.
Il suo tirocinio, intanto, procedeva alla grande ed era felice di
avere dei nuovi amici.
Lei, Medison e Walter uscivano spesso dopo il lavoro, si andavano a
prendere un caffè o un gelato e si divertivano a scimmiottare l’amministratore
delegato.
“È un borioso!” si lamentava spesso Medison, storcendo il naso.
Grace e Walter, intanto ridevano, osservandola.
La ragazza, a quel punto, si alzava e si atteggiava come il suo
capo, imitando il suo modo di camminare lento e cadenzato, mentre ispezionava
con fare critico tutte le scrivanie dei suoi dipendenti.
“Manco fosse Orlando Bloom!” saltava su, poi, scuotendo teatralmente
il capo. “Solo Orlando si potrebbe permettere di lanciare sguardi di quel tipo
a noi comuni mortali, non credete?” sbottava, con la testa già tra le nuvole.
“Scusa, Maddy, non credi di esagerare?” Walter, come suo solito,
faceva il cinico e ostentava serietà, mentre dentro sé sapeva che sarebbe
scoppiato a ridere pochi istanti dopo.
“No, dannazione!” E Medison, allora, riprendeva ad elogiare il divo
del cinema, portando fuori esclamazioni trasognanti e commenti osceni.
Grace si divertiva sempre con loro. Adorava la vitalità di Medison,
con i suoi occhi neri come la pece e la pelle scura che la rendeva bella anche
quando si presentava in ufficio in tuta, ignorando le rimbeccate del suo capo.
Adorava l’aria risoluta di Walter che, pur cercando di contenersi, sapeva come
divertirsi e non diceva mai di no quando Medison proponeva di uscire.
Un giorno, mentre novembre volgeva al termine, Grace stava
stravaccata sul divano, fantasticando sul momento in cui Jeremy sarebbe tornato
da lei. Stava contando i giorni che la separavano delle sue forti braccia,
quando il suo cellulare squillò.
Balzò in piedi e corse a prenderlo dal mobile della cucina su cui
trillava, insistente.
“Oh, finalmente!” esordì Walter, una volta che lei ebbe premuto il
tasto verde per avviare la conversazione.
“Walter! Che c’è?” si stizzì Grace, domandandosi cosa avesse di
così importante da dirle, per inscenare tutto quel teatrino, manco gli avesse
risposto dopo un’ora di insistenti telefonate!
“Usciamo?” propose lui, con tono allegro.
Grace evitò di esprimere a parole la miriade di imprecazioni che le
passarono per la testa e sospirò. “Hai chiesto a Maddy?”
“Sì, non può venire” rispose lui, prontamente, facendola
insospettire.
“Come mai?” indagò Grace.
“Esce con quel Thomas” borbottò lui, senza sbizzarrirsi in
particolari.
“Ah, ecco! Okay, allora usciamo noi. Mi passi a prendere?”
Walter acconsentì e, poco dopo, si salutarono e Grace si diresse in
bagno.
Dopo essersi preparata, dieci minuti più tardi, uscì di casa e
attese Walter seduta sul gradino dell’ingresso.
Il ragazzo arrivò in sella alla sua inseparabile moto e le sorrise
attraverso il casco, prima di scendere.
“Ciao” disse Grace, esaminando ammirata il mezzo con cui il suo
amico l’aveva raggiunta. “Scusa, Walter, dovrei salire su quel trabiccolo?”
domandò lei, sarcastica. Voleva stuzzicarlo un po’, poiché in realtà non vedeva
l’ora di saltar su a quello splendore. Ricordava con nitidezza le gite in moto
con suo padre, quando era piccola. Le sarebbe piaciuto possederne una e, soprattutto,
poterla guidare.
“Ehi, trabiccolo sarai tu!” si impermalì Walter, offeso,
lanciandole un’occhiataccia.
Grace scoppio a ridere, per poi avvicinarsi e accarezzare la lucida
carrozzeria della moto. Era tutta nera, bellissima, proprio come quella che suo
padre teneva buttata in garage da tempo incalcolabile.
“Cosa ridi? Giù le mani dalla mia Suzi!”
“Suzi?”
Walter, inorgoglitosi, fece per abbracciare la moto. “Sì, si chiama
Suzi, perché?”
Grace si ritrovò a supporre che il nome derivava certamente dalla marca
che si stagliava su ogni buco libero del mezzo, ma decise di tralasciare. Aveva
pungolato abbastanza il povero Walter.
“Ma sì, è proprio bella” ammise lei, sorridendo sincera.
“Ti ricordo che poco fa l’hai offesa!”
“Ah, scherzavo! Non te la prendere, su!”
Tra un battibecco e l’altro, i due saltarono a bordo e Walter diede
inizio ad una splendida gita, mentre il vento sferzava loro il viso e li faceva
ridere, sentire liberi e felici.
Mentre si stringeva al suo amico, Grace si ritrovò a pensare a
Jeremy e a quanto amava trascorrere ore intere a stringerlo, mentre lui
pedalava, in sella alla sua bicicletta.
Andare in moto era inebriante, sì, ma le tranquille passeggiate in
bici con il suo Jeremy non avevano paragoni.
Mentre pensava a lui, si rabbuiò.
Le mancava, eccome se le mancava! Era passato troppo tempo da quel
soleggiato pomeriggio in cui l’aveva accompagnato a casa, dopo il ritorno dal
concerto. Era stato in quel momento che l’aveva stretto a sé per l’ultima volta
e non stava più nella pelle all’idea di poterlo fare nuovamente.
Mancava poco, se lo ripeteva continuamente. Ogni istante vissuto la
separava sempre meno da lui e questo le dava la forza per andare avanti e per
sorridere alla vita.
Grace appena si accorse che Walter si era fermato e aveva spento la
motocicletta.
“Grace, Grace?” la chiamò lui, sventolandole una mano davanti agli
occhi.
“Eh?” La ragazza parve cadere dalle nuvole e lo guardò stralunata.
“Ti chiamavo da un po’! Che succede, eh?” la incalzò l’amico,
aiutandola a scendere.
“Scusa” mormorò lei, mortificata. “Pensavo a Jeremy” aggiunse.
“Oh, Jeremy, certo! Quando arriva?”
“Il venti dicembre, suppongo.”
Walter annuì, poi sorrise e cambiò discorso, cercando di
alleggerire l’atmosfera. “Ti va un caffè?”
Grace si illuminò, sicura che un bel caffè all’italiana era tutto
ciò che ci voleva in quel momento. “Ovvio!” esclamò.
Così, si diressero verso un bar lì accanto e si accomodarono ad un
tavolo vicino ad una grande vetrata che dava sulla strada.
Un giulivo cameriere prese le ordinazioni e si dileguò in fretta,
lasciandoli soli, immersi nel silenzio del locale praticamente deserto.
“Grace, senti. Ti ho chiesto di uscire perché mi serve un consiglio
e non volevo che Medison fosse presente” disse Walter, all’improvviso.
Grace, sorpresa, lo fissò, in attesa che continuasse. “Allora?” lo
incitò, dal momento che lui era rimasto in silenzio.
“Ecco, il fatto è che…”
Il cameriere giunse e depositò maldestramente i caffè sul tavolo.
Grace alzò gli occhi al cielo, sbuffando. C’era troppa gente che
non aveva nessuna voglia di lavorare e veniva pagata per niente. Odiava certe
cose, le davano il voltastomaco.
Il tipo corse via, mortificato, borbottando delle scuse.
“Walter, ti ascolto. Non farmi preoccupare, cosa c’è?”
“Io e Medison siamo finiti a letto insieme, sabato sera” buttò
fuori lui, tutto d’un fiato.
Grace, che stava sorseggiando lentamente il suo caffè, sputò tutto
il liquido che aveva in bocca e prese a tossire convulsamente, presa alla
sprovvista da quelle parole.
“Oh, gesù, Grace!” Walter balzò in piedi e cercò di placare quella
reazione, battendole sulla schiena. “Stai bene? Ti porto un fazzoletto.”
Lei cercò di protestare, ma lui si era già diretto speditamente
verso il bancone.
Grace riuscì a darsi un contegno e provò a riordinare le idee,
assimilando lentamente la notizia che aveva appeno appreso. Com’era possibile
che Medison e Walter fossero stati insieme? Proprio non se li figurava come
coppia, erano come il giorno e la notte, il bianco e il nero…
Ma lei, del resto, che ne sapeva? Chissà come lei e Jeremy erano
visti dal resto del mondo. Ad ogni modo, non se n’era mai preoccupata e non
voleva certo cominciare in quel momento.
Walter tornò da lei e le porse un mazzo di fazzoletti.
Lei, contrariata, ne afferrò uno e si ripulì alla bell’e meglio e
pensò a cosa potesse rispondere. Non aveva ancora proferito parola da quando
l’amico le aveva confessato il “fattaccio”.
“Cosa significa?” tergiversò, infine, a corto di idee.
“Cosa significa? E che ne so, io? È successo, non so proprio come,
però è così.”
Lei ci rifletté un attimo su, poi esclamò: “Be’, dai, quando torna
Jeremy, potremmo uscire in quattro!”
Walter la guardò, sbalordito, poi sorrise. “Non sarebbe una cattiva
idea” ammise, più a se stesso che a lei.
“Allora Maddy ti piace!” Grace esultò, trovando fantastico che quei
due, in qualche modo, avessero trovato un modo per amarsi.
“Sì, sì… ma lei sta con quel troglodita di Thomas lo sfigato!”
sbottò Walter, infiammandosi di evidente gelosia.
“Ah, già.” Grace si incupì, ritornando con i piedi per terra.
Mentre continuava ad ascoltare le confidenze di Walter, Grace
rifletté su quanto fosse fortunata lei ad aver trovato la persona perfetta per
starle accanto.
Mentre si guardava intorno, qualcosa – o meglio, qualcuno – attirò
la sua attenzione.
“Oh, merda!” imprecò, rabbrividendo sulla sedia e cominciando
subito a sudare freddo.
“Grace?” Walter, invano, cercò di attirare nuovamente la sua
attenzione. Non riuscendoci, seguì il suo sguardo e rimase a fissare
confusamente un ragazzo che si stava avvicinando al loro tavolo.
“Grace, sei proprio tu?” fece quello, dall’alto del suo metro e
ottanta, mentre posava gli occhi su di lei.
Grace rimase impietrita sulla sedia, mentre una tempesta di
emozioni contrastanti si agitava nel suo petto.
Scomparve Walter, scomparve Medison e perfino il suo ragazzo
palestrato da far schifo; scomparve il locale e si eclissò anche il dolce
pensiero di Jeremy.
Rimase solo un ragazzo, un ragazzo che la fissava e le si mostrava
in tutta la sua semplicità, abbigliato un po’ da punk, capelli corti e scuri,
occhi indagatori e profondi come la notte.
“Sean” mormorò infine la ragazza, in un sibilo strozzato che la
fece tremare fin in fondo all’anima.
Grace, profondamente turbata, si alzò lentamente dalla sedia,
facendo appello a tutto il coraggio che possedeva. Avrebbe preferito rimanere
ferma, immobile e scoprire che stava avendo una grossa allucinazione.
Tremando, aprì la bocca con l’intenzione di dire qualcosa, poi la
richiuse e abbassò lo sguardo, sentendosi osservata da quello di Walter e dagli
occhi blu di Sean.
“Ma allora sei proprio tu!” esclamò il nuovo arrivato, allargando
le braccia in un gesto amichevole. “Vieni qui, lasciati abbracciare!” aggiunse,
per poi raggiungerla e attirarla a sé in un unico, rapido movimento.
Grace ebbe la sensazione di sgretolarsi tra le sue braccia,
riconoscendo immediatamente il profumo familiare che tanto la inebriava in
passato.
“Come stai, eh?” domandò Sean, scostandola leggermente da sé.
Grace arrossì terribilmente e, prima di riuscire ad articolare una
sola parola, dovette schiarirsi la gola e le idee, tant’era la nebbia che le
offuscava la mente.
“Tutto bene e tu?” buttò lì, ostentando una disinvoltura che poco
si addiceva alla sua espressione sicuramente stravolta e al suo stato d’animo
altalenante.
“Benissimo, come sempre!” Sean le diede un buffetto sulla guancia.
“Sei cambiata” osservò, studiandola attentamente.
La ragazza si sentì troppo al centro dell’attenzione e, per
cambiare argomento, indicò Walter. “Lui è Walter, un mio collega al tirocinio”
spiegò, presentandolo a Sean.
Quest’ultimo, socievole com’era, si fece subito avanti e tese la
mano all’altro ragazzo. “Piacere, io sono Sean, un ex compagno di classe di
Grace.”
Ecco, appunto.
Se Sean, per lei, avesse rappresentato un semplice compagno di
classe, non si sarebbe creato tutto quell’imbarazzo, almeno da parte sua.
Infatti, per Grace quel ragazzo era stato da sempre molto di più e aveva
passato tre lunghissimi anni a desiderare che lui si accorgesse di lui, senza
mai ottenere niente, se non la più totale indifferenza.
E adesso, improvvisamente, Sean era piombato nella sua vita e
sembrava felice di rivederla! Ma chi si credeva di essere per riuscire ad
esercitare su di lei un potere simile anche dopo tre anni che non si vedevano?
Infatti, lui era stato bocciato in terza superiore e, da allora, le loro strade
si erano definitivamente divise.
O almeno, fino a quel momento lei era stata convinta di averlo dimenticato.
“Piacere mio!” esclamò Walter, rilassandosi e stringendo la mano di
Sean.
I due cominciarono a parlare del più e del meno e Grace, dopo aver
sospirato, tornò a sedersi e invitò il suo ex compagno a fare lo stesso.
“Volentieri!” Sean scostò l’unica sedia rimasta libera e rivolse un
sorriso alla ragazza, per poi rispondere alle domande del più che curioso
Walter.
Il cameriere maldestro di poco prima si avvicinò cautamente a Sean
e lui ordinò distrattamente un caffè espresso.
Grace, intanto, si sentiva morire dall’imbarazzo. Cosa accidenti le
stava succedendo? Lei aveva dimenticato Sean secoli prima, non poteva
permettergli di sconvolgerle ancora la vita e le emozioni.
Sbuffò, involontariamente, finendo per attirare l’attenzione dei
due ragazzi.
“Che succede?” domandò Walter, con un’espressione leggermente
preoccupata.
“Niente!” Lei si alzò. “Scusate, vado a fare una telefonata.” Detto
questo, li mollò al tavolo, dirigendosi a passo di marcia verso l’esterno. Si
sentiva frastornata e aveva bisogno di riflettere un attimo. Lo sguardo di Sean
sempre puntato su di lei non la aiutava affatto.
Si appoggiò con la schiena al muro che contornava il bar e sospirò,
scuotendo ripetutamente il capo.
Avrebbe voluto piangere, urlare, avere Jeremy accanto a sé. E, ancor
più, avrebbe voluto fuggire via di lì e fregarsene di cosa Sean avrebbe pensato
di lei. A Walter avrebbe potuto spiegare ogni cosa, prima o poi.
Per alcuni istanti prese seriamente in considerazione l’idea di
darsela a gambe, poi però comprese che aveva diciannove anni e non poteva più
comportarsi come una bambina che fugge alla prima avvisaglia di pericolo.
Sapeva di dover tornare là dentro e affrontare quel ragazzo, mettendo in chiaro
con se stessa cosa l’averlo rivisto le stava provocando.
Era questo il guaio: non ne aveva la minima idea!
Scosse ancora il capo, sentendosi una perfetta idiota.
Decise di tornare dentro al bar ma comprese immediatamente di avere
delle difficoltà. Come aveva fatto a non pensarci prima? Sapeva perfettamente
che per lei era arduo entrare da sola in un ambiente poco illuminato come
quello, eppure si era fatta trascinare dal disagio ed ecco che ora si ritrovava
alla ricerca di una soluzione.
All’improvviso, s’illuminò e afferrò il cellulare. Scrisse un
messaggio a Walter, chiedendogli se poteva andarla a prendere.
Tornò ad appoggiarsi alla parete e attese.
Dopo qualche minuto, la porta a vetri del locale si aprì e Grace
scattò in avanti, facendo per sorridere al suo amico.
Il sorriso le morì sulle labbra non appena si accorse che davanti a
lei si era palesato Sean, facendo tintinnare la catena che portava appesa ai
pantaloni.
Non si lasciò scoraggiare, all’aria aperta si sentiva più sicura di
sé, così domandò: “Vai via?”
“No” rispose il ragazzo.
“No?”
“Sono uscito a prenderti” spiegò Sean, avvicinandosi a lei.
Grace, istintivamente, fece un passo indietro e si ritrovò
nuovamente con le spalle contro la parete. Che diamine stava facendo? Non
poteva fargli capire in maniera così esplicita cosa stava provando, ciò
significava offrirgli una soddisfazione in più e lei non voleva assolutamente
che le cose andassero così, ancora, com’era sempre stato quando lei, in
passato, aveva fatto di tutto per attirare la sua fottuta attenzione e…
“Grace, che fai? Hai paura di me?” Sean fece un altro passo avanti.
“Allora non mi hai dimenticato” mormorò, posandole delicatamente una mano sulla
guancia.
“Certo che ti ho dimenticato, cosa credi?!” saltò su,
precipitosamente, rivelando un tono gracchiante e difficile da prendere sul
serio. “Non sei il centro dell’universo, insomma!” sbottò poi, rivolgendogli
un’occhiata truce. Non riusciva a cogliere la sua espressione, ma avrebbe
scommesso qualunque cosa sul fatto che il ragazzo era divertito dal suo
atteggiamento. Quella consapevolezza la irritò ancor più di prima e le fece
ribollire il sangue nelle vene.
“Davvero?” fece infatti lui, sarcastico. “Sbaglio o ti piacevo?”
aggiunse, con tono canzonatorio.
“Bravo, hai fatto bene ad usare il passato!” Grace lo derise
battendo le mani come se stesse applaudendo di fronte ad un bambino, giusto per
farlo contento. Poi, incrociò le braccia sul petto. “Be’? Te ne puoi anche
andare adesso, ho chiesto a Walter di uscire, non a te!” sputò, acida,
sentendosi stranamente soddisfatta di sé, anche se avvertiva una sensazione di
colpevolezza per il modo poco gentile con cui stava trattando Sean.
Lui alzò gli occhi al cielo e ridacchiò, in una maniera che Grace
ricordava bene, in quel modo che le aveva fatto perdere la testa, anni prima.
“Quindi” ribatté Sean, avvicinandosi ancora, “non ti fa più nessun
effetto avermi così vicino?” Sussurrò le ultime tre parole, il viso a pochi
millimetri dal suo.
Grace espirò bruscamente, dopo essersi resa conto che aveva
trattenuto il fiato. Cercò di imporsi la calma, mentre dentro di lei le
emozioni si ammassavano, tumultuose, in un cumulo che la faceva impazzire,
confondendola e portandola quasi all’esasperazione.
Dovette ammettere a se stessa che aveva sognato per tre anni quel
momento, aveva fantasticato ogni santo giorno su ciò che sarebbe potuto
accadere tra lei e Sean, se solo lui avesse guardato oltre le apparenze e si
fosse accorto di quanto lei avrebbe potuto amarlo.
Eppure, si ritrovò a pensare che ormai era troppo tardi. Ormai il
suo cuore apparteneva a Jeremy e, per quanto sentisse di essere fortemente
attratta da Sean, nei suoi confronti provava solo questo. Non c’erano più quei
sentimenti che l’avevano accompagnata durante i primi tre anni di liceo, non
c’era più niente che non fosse strettamente fisico.
Così, con una sicurezza che le parve poco familiare, sollevò il
mento e fissò i suoi occhi su quelli di Sean. “Sarò sincera con te. Sento una
forte attrazione fisica, è vero, non posso negarlo.”
“Però?” incalzò lui, senza toccarla. Era strano come la stesse
rispettando, proprio lui che mai prima di allora l’aveva fatto.
“Però sto con un ragazzo che amo e non ho intenzione di permettere
a nessuno di intromettersi tra noi due.” Detto questo, scansò Jean da sé e gli
sorrise, tristemente. “È strano come le cose si siano capovolte, eh, Sean?”
“Già. Non sai quanto mi dispiace per non averti dato importanza
allora, ma…”
Grace scosse il capo. “Ormai è tardi.”
“Lo so” ammise lui, senza comunque scomporsi più di tanto. Si
strinse nelle spalle e continuò a fissarla, come se si aspettasse che lei
potesse cambiare idea.
Ma Grace non avrebbe cambiato idea perché il suo cuore sapeva bene
ciò che voleva, neanche la vicinanza di Sean era riuscita a scalfire i suoi
sentimenti, neanche la possiblità di poter stare finalmente con lui l’aveva
turbata. Inizialmente si era sentita confusa e turbata, ma ora tutto le era
chiaro: non si aspettava di rivedere Sean, questo era tutto.
Lui era sempre il solito, bellissimo Sean, lo stesso che aveva
amato incondizionatamente, senza essere ricambiata.
Ma adesso era lei ad essere cambiata, era il suo cuore ad aver
trovato la persona giusta e su questo non c’era stato alcun dubbio fin
dall’inizio.
“Quindi hai trovato l’amore” disse infine il ragazzo, come se
volesse spezzare la tensione che si era creata tra loro.
Grace annuì. “Sì, sono felice adesso.”
“Mi fa piacere.”
Rimasero in silenzio, guardandosi.
“Dai, vieni qui!” Sean la abbracciò nuovamente, stringendola forte.
“Sono davvero felice per te, ti auguro ogni bene.”
La ragazza ricambiò la stretta. “Anche io ti auguro il meglio,
Sean.”
Sciolsero l’abbraccio e si sorrisero.
“Se il destino lo vorrà, ci rivedremo presto” affermò Sean.
“Sempre che non sia tu a forzarlo!” scherzò Grace.
I due scoppiarono a ridere e, proprio in quel momento, Walter
emerse stralunato dal bar e li fissò con aria interrogativa.
“Io vado, ci si vede” si congedò Sean, dando una pacca sulla spalla
a Walter e sorridendo ancora a Grace.
“Okay, ciao! Mi ha fatto piacere conoscerti” gli gridò dietro
Walter, mentre l’altro ragazzo si allontanava di tutta fretta.
Grace rimase a fissarlo, trovando ancora incredibile che lui si
fosse interessato a lei come mai aveva fatto in passato.
“CHI DIAMINE ERA QUELLO?” si inalberò Walter, piazzandosi impettito
di fronte a lei.
La ragazza scoppiò a ridere e lo prese sottobraccio. “Oh, solo un
fantasma del passato.”
Grace, dopo aver abbottonato il giubbotto in pelle, si diede
un’occhiata allo specchio ben illuminato dalle lampadine a luce fredda e fece
una smorfia. Ancora non capiva come Jeremy potesse trovarla attraente, lei non
si vedeva così bella come lui le ripeteva spesso. Era una ragazza come tante
altre, con gli occhiali, i capelli scuri e una rarissima malattia agli occhi.
Cosa c’era di così speciale in questo?
Niente, assolutamente niente.
Non poteva negare di essere intelligente, questo lo sapeva da molto
tempo. Ma l’intelligenza poteva bastare a renderla unica agli occhi del suo
ragazzo?
Scosse il capo e spense la luce, per poi sbuffare.
Era strano come anche Sean ci avesse provato con lei, come se
improvvisamente si fosse destato da un sonno di ignoranza e apparenza. Ma
cos’avevano tutti, ultimamente? Perché le stavano dietro?
Con questi pensieri uscì dal bagno e si diresse in cucina.
Sua madre era intenta a pulire i fornelli e, non appena la vide,
sorrise e si asciugò le mani su uno strofinaccio.
“Stai uscendo?” domandò, avvicinandosi.
“Oggi rientra Jeremy” disse Grace, sciogliendosi in un ampio
sorriso.
“Ah, è vero! Stavolta non ti ha fatto una sorpresa però!” La donna
rise.
“No, no, per fortuna! Mi è preso un colpo l’altra volta, quando me
lo sono ritrovato davanti!”
In quel momento suonò il campanello e Grace si lanciò verso
l’ingresso, quasi certa che si trattasse di lui.
Aprì.
Ed eccolo lì, bellissimo, i lunghissimi dreadlocks sciolti sulle
spalle, un magnifico sorriso stampato sul viso, gli occhi puntati su di lei,
gli abiti modesti che lo rendevano affascinante e unico.
Grace gli si gettò tra le braccia, ridendo. “Quanto tempo, Jeremy,
quanto tempo!”
“Mi sei mancata, Gracie, mi sei mancata terribilmente.”
Si strinsero forte l’uno all’altra, poi la ragazza lo invitò ad
entrare. Gli prese la mano e si chiuse la porta alle spalle. Le sue dita
affusolate e ruvide, messe alla prova dal lavoro in cantiere, la confortavano.
Ci si era abituata e le amava, così come amava tutto ciò che riguardava il
ragazzo.
“Ciao, Jeremy” lo salutò amichevolmente la madre di Grace,
emergendo dalla cucina. Gli fece cenno di accomodarsi.
“Salve! Tutto bene?” Lui si avvicinò e la salutò con due baci sulle
guance.
“Sì, ma andrà meglio quando sarò in ferie!”
“Sta ancora lavorando?”
“Certo, sotto Natale c’è un sacco di gente che passa dalla
cartolibreria! Lavoro anche domani che è vigilia, pensa te!”
Jeremy rise. “Immagino! A me per fortuna hanno lasciato libero, ma
ieri ero in cantiere.”
La donna annuì. “Capisco. Dai, siediti! Ti va un caffè?”
“Certo!”
Grace, che aveva assistito a quella conversazione in silenzio, si
ritrovò a riflettere su quanto fosse bello vedere sua madre e il suo ragazzo
andare così d’accordo.
“Anche io voglio il caffè!” esclamò la ragazza, sfilandosi il giubbotto.
Non pensava che sua madre avrebbe invitato Jeremy a trattenersi.
Così, i tre chiacchierarono del più e del meno.
Mentre sedevano di fronte ad una tazza di caffè fumante, la donna
domandò: “Jeremy, sarai solo per Natale?”
“No, i miei nonni mi hanno invitato da loro” spiegò, per poi
sorseggiare il liquido scuro.
“Capisco. Domani sera ti va di unirti a noi per la cena? Ci saranno
anche le fidanzate dei cugini di Grace.”
“Mamma!” saltò su lei, avvampando.
Per poco il caffè non le andò di traverso.
“Che c’è? Non posso invitare il tuo ragazzo a cena?” si inalberò la
donna, lanciandole un’occhiataccia. “Neanche fosse uno sconosciuto!”
“Sì, ma…”
“Mi farebbe piacere, grazie” intervenne il ragazzo, sorridendo.
“Perfetto!” La madre di Grace batté le mani e, dopo essersi alzata,
se ne tornò canticchiando a lavare i piatti.
Grace aveva gli occhi sgranati e li fissò su Jeremy che, intanto,
se la rideva e la osservava, divertito.
“Senti, usciamo?!” sbottò la ragazza, stizzita. Si alzò e si infilò
nuovamente il giubbotto in pelle.
“Va bene, come vuoi tu, mia padrona!” la schernì il ragazzo,
scrollando le spalle.
I due salutarono la madre della ragazza e si avviarono mano nella
mano verso l’uscita. Una volta in strada, Grace sbuffò rumorosamente.
“Cosa c’è?” le chiese Jeremy, stringendola al suo fianco.
Lei si lasciò andare contro il suo corpo e alzò gli occhi al cielo.
“Mia madre!”
“Non ti va di avermi con te domani?” mormorò lui, mostrando una
punta di delusione nel tono di voce.
“Ma sì, certo, è solo che mi scoccia dovermi sorbire tutte le
domande indiscrete dei miei parenti” spiegò la ragazza, guardando dritto
davanti a sé.
“Dai, tranquilla, andrà tutto bene.”
Rimasero per un attimo in silenzio.
“Grace…” Jeremy si fermò e la guardò in viso, poi le si avvicinò e
la baciò dolcemente.
Grace ricambiò senza farselo ripetere due volte, rendendosi conto
che quello era il primo bacio che si scambiavano da quando lui era arrivato a
casa sua. Gli si aggraggò addosso, facendo sì che i loro corpi aderissero
perfettamente l’uno all’altro.
“Dimmi” sussurrò Grace, dopo essersi scostata.
“Non me ne andrò più.”
“Come sarebbe a dire?” strillò lei, sbalordita.
Jeremy la afferrò per le spalle e ripeté: “Non me ne andrò più,
sono tornato per restare.”
“Ma… come… cosa…” La ragazza era confusa, non riusciva a credere
alle sue orecchie.
“Un amico mi ha trovato un lavoro qua e i miei genitori non hanno
fatto storie.” Sorrise, euforico e fiero di ciò che le stava comunicando. “Non
sei felice?” aggiunse, rabbuiandosi un po’.
“Io… MA CERTO CHE SONO FELICE!” gridò Grace, gettandoglisi addosso
e stritolandolo. “Mio dio, tu sei pazzo!”
“No, sono solo innamorato” ribatté Jeremy, cercando nuovamente le
sue labbra. “Innamorato di te, Gracie.”
“Stupido!” lo canzonò lei, dandogli un pugno sul petto. “Come puoi
amarmi?” Il tono che utilizzò, seppur scherzoso, nascondeva qualcosa di serio.
“Perché, tu non mi ami?” Jeremy finse di offendersi.
“Certo che sì, ma che c’entra? È diverso!”
“Mmh, sentiamo: cosa c’è di così diverso?”
Grace si strinse nelle spalle. “Be’, è impossibile non amarti. Hai
un sacco di amici, sei circondato da persone che ti stimano…”
“Ah, certo! Come Noel, intendi?” fece lui, sarcastico.
“Non mi parlare di quel troglodita, per carità!”
“Troglodita!” Jeremy scoppiò a ridere, gettando la testa
all’indietro.
In quel momento, una goccia colpì la fronte di Grace, seguita
subito da tante altre.
“Oh, no, sta piovendo!”
Jeremy la attirò nuovamente al suo fianco. “Allora andiamo da me”
proclamò, trascinandola dolcemente con sé.
Grace era felice. Finalmente, avrebbe potuto averlo con sé ogni
volta che lo desiderava, senza preoccuparsi di tutti i chilometri che li
avevano separati fino a quel momento. Il loro amore si sarebbe sviluppato
com’era giusto che fosse, nonostante tutte le difficoltà che si sarebbero
ritrovati a superare insieme. Era certa che ce l’avrebbero fatta, avrebbero
risolto qualunque problema con la forza dei loro sentimenti.
Camminarono sotto la pioggia, come se essa non potesse scalfirli,
come se non importasse quanto si stavano bagnando.
Era quasi Natale e loro erano insieme, solo questo contava.
A Grace venne da ridere, mentre le gocce le scivolavano sul viso e
le bagnavano le lenti degli occhiali, impedendole di vedere quel poco che i
nuvoloni grigi le permettevano.
“È bellissimo!” esclamò, felice, fermandosi. Le gocce le battevano
sui capelli, sui vestiti e sulla pelle, eppure lei era felice.
Jeremy si fermò a guardarla, incantato da quell’immagine
paradisiaca. Vedeva la sua pelle risplendere grazie all’acqua piovana, le
braccia allargate come se stesse accogliendo con entusiasmo quel temporale.
Ogni tanto, i lampi la illuminavano, rendendola quasi eterea.
“Tu sei bellissima” le disse, prendendole la mano e portandosela
alle labbra.
Grace fremette profondamente, forse per il freddo, forse per le
emozioni che le turbinavano in corpo. “Jeremy” gemette, cercando di scostarsi i
capelli zuppi dal viso.
“Andiamo” disse lui, riprendendo a camminare più rapidamente.
Grace si lasciò guidare senza protestare, non vedeva l’ora di
arrivare a casa del suo ragazzo. Nonostante la pioggia la stesse congelando,
era come se non sentisse quel freddo penetrante. Voleva fare l’amore con
Jeremy, aveva l’impellente bisogno di sentire il suo corpo sul suo, dentro il
suo.
Giunsero alla loro meta, bagnati fradici ma felici.
La vigilia di Natale non fu disastrosa come Grace aveva previsto.
Nessuno si disturbò a chiederle niente sul suo accompagnatore,
forse sua madre aveva ben pensato di anticipare la notizia alla famiglia.
Durante la cena, chiacchierarono tutti insieme, ridendo e
scambiandosi battute e aneddoti.
Jeremy sembrava a suo agio e questo la tranquillizzò, rendendola
più rilassata e incline al dialogo.
“Allora!” esclamò suo zio Peter, alzandosi con il bicchiere in
mano. “Facciamo un brindisi!” proclamò, come se avesse intenzione di
pronunciare un discorso.
“Sì!” saltò su sua figlia Angela, di appena undici anni. “Brindiamo
a questo felice Natale!” strillò, mostrando a tutti il suo bicchiere di
aranciata.
Tutti scoppiarono a ridere.
“No, Angela! Brindiamo a Grace!”
“A me?!” sbottò la diretta interessata, avvampando. Non le piaceva
trovarsi al centro dell’attenzione, al contrario della ragazzina che saltellava
accanto al padre.
“Ma sì, a te! Brindiamo a Grace e al suo ragazzo Jeremy!” tuonò suo
zio, allegro.
“Ma zio Pete!” protestò, diventando viola per l’imbarazzo.
Jeremy, intaanto, si spanciava sulla sedia, indicando divertito il
viso paonazzo della sua ragazza.
Tutti gli altri esplosero in applausi e gridolini di gioia, fecendo
tintinnare i calici colmi di vino.
Jeremy, d’improvviso, si alzò e guardò quella meravigliosa
famiglia, rivolgendo un’occhiata ad ognuno di loro.
Il caos scemò e calò nella stanza un silenzio carico di
aspettativa.
Che intenzioni aveva Jeremy?
“Vorrei dire qualcosa” ammise, sicuro di sé. “Intanto, ringrazio Mary
per avermi invitato.” Sorrise alla madre di Grace che ricambiò. “Poi, ringrazio
tutti voi perché mi avete accolto nella vostra famiglia. Come credo sappiate, i
miei genitori sono lontani adesso e non so cos’avrei fatto senza la vostra
compagnia.”
Tutti ridacchiarono, qualcuno sollevo il pollice e qualcun altro
gli strizzò l’occhio.
“Infine, voglio ringraziare la donna che mi ha reso felice anche
quando eravamo distanti, che mi ha permesso di andare avanti nonostante tutto,
che mi ha fatto crescere.” Mentre pronunciava quelle parole, si voltò a
guardare Grace.
Lei era a bocca aperta e si sentiva tremendamente a disagio.
“E brava la nostra Grace!” esclamò lo zio Peter, tracannando il
vino tutto d’un fiato.
Jeremy tornò a sedere mentre tutti riprendevano a parlare e a
ridere tra loro, dopo aver applaudito per l’ennesima volta.
Grace strinse le mani del ragazzo e lo guardò in viso. “Grazie a
te” mormorò.
Lui strinse forte le sue dita sulle sue. “Ti amo” le disse, in tono
appena udibile.
“Anche io ti amo” rispose lei, arrossendo.
“Auguri, buon Natale!” esordì Elizabeth al telefono, la mattina
seguente.
Grace, assonnata, era ancora rannicchiata sotto le coperte.
Sbadigliò. “Auguri” biascicò.
“Come stai?” domandò l’altra, allegra.
“Bene, ho sonno. E tu?”
Elizabeth ridacchiò nel suo orecchio. “Oggi vado a pranzo da Noel,
come potrei stare?”
Le cose non erano cambiate, anzi, peggiorate, dal punto di vista di
Grace. Elizabeth e Noel si erano messi insieme e la sua amica era impazzita,
mandando al diavolo anche l’ultimo briciolo di ragione che le era rimasta in
corpo.
“Mmh” grugnì Grace, coprendosi fino alla testa.
“Dai, non fare così! Domani ci vediamo? Ho un regalo per te!”
“Va bene.”
Elizabeth sospirò.
“Sai, Lizzie, Jeremy rimane” si lasciò sfuggire, tanto per fare
conversazione.
“Davvero?”
“Sì, davvero.”
“Che bello! Ora potrete stare insieme, finalmente!” Elizabeth era
sinceramente contenta per lei, Grace lo comprendeva dal suo tono di voce.
“Sì, finalmente.”
Rimasero per qualche istante in silenzio.
“Sii felice oggi, Lizzie.”
“Anche tu, Grace.”
Grace riattaccò e sprofondò nuovamente sul cuscino, stringendosi le
ginocchia al petto. Per quanto a lei non andasse bene, Elizabeth aveva seguito
il suo cuore ed era, a modo suo, felice.
D’altronde, chi era lei per impedirglielo?
Tutti avevano il diritto a vivere serenamente le proprie
esperienze, senza che nessuno si intromettesse o avesse la presunzione di
intralciare le scelte altrui.
La sua felicità era Jeremy e non avrebbe sopportato che qualcuno le
dicesse che non era adatto a lei.
Le sensazioni parlavano chiaro e anche i sentimenti reciproci che
li legavano indissolubilmente.
Tutto era perfetto e Grace avrebbe fatto qualunque cosa affinché
durasse il più a lungo possibile.
Sorrise, afferrò nuovamente il cellulare e scrisse un messaggio a
Jeremy:
Ma provare non basta quando non c’è la buona volontà di riuscire.
Grace perseverava, andava avanti a testa alta e non si lasciava
abbattere dall’angoscia.
La verità era che, da quando aveva lasciato Jeremy, la sua vita non
aveva più alcun senso.
Si erano trovati bene per alcuni mesi, il loro amore si era evoluto
e aveva creato invidia e ammirazione tra tutti coloro che li conoscevano.
I familiari di Grace li avevano approvati e sostenuti, cercando di
essere imparziali quando i due litigavano e la ragazza sfogava tutta la sua
rabbia nei confronti di Jeremy.
Tutto era stato perfetto – o quasi – finché lei non aveva capito
che non provava più i sentimenti di una volta.
All’inizio si era sentita in colpa perché lui aveva abbandonato la
sua famiglia per rimanerle accanto, poi però aveva capito che non poteva più
illuderlo.
Neanche a dirlo, Jeremy la prese malissimo e si rifiutò di
ascoltare le sue banali giustificazioni, mollandola al parco.
Lei era scoppiata in lacrime e non si era mossa finché non si era
resa conto che il sole stava cominciando a lasciar spazio all’oscurità.
Non si era confidata con nessuno ed era rimasta vaga sulle
motivazioni per cui lei e il ragazzo si erano allontanati.
In cuor suo, sperava che quel dolore logorante fosse legato
unicamente alla mancanza del ragazzo. D’altronde, avevano trascorso gli ultimi
mesi senza separarsi quasi mai. Era ovvio che dovesse abituarsi a rimanere
nuovamente sola, senza lui.
Si era appoggiata a Walter, che si era dimostrato un buon amico e
l’aveva tenuta stretta a sé, rassicurandola sul fatto che non era tutta colpa
sua, che le cose dovevano andare così e basta.
Ma Grace, con l’andare del tempo, aveva capito di aver fatto una
grandissima stronzata.
Ogni tanto lo vedeva al parco con i suoi amici e sperava che lui
non ce l’avesse troppo con lei. Le sarebbe piaciuto che le cose cambiassero,
che il tempo facesse retromarcia e lei potesse tornare al fottuto istante in
cui si era convinta di non amare più Jeremy.
‘Quel che è fatto è fatto’ pensava spesso, sospirando affranta.
Un giorno, come un ceffone, ricevette da Jane la notizia che Jeremy
se n’era andato.
Erano trascorsi due mesi da quando lei lo aveva lasciato, ma
comprese solo allora di averlo perso per sempre.
Cos’aveva fatto? Aveva rovinato tutto per delle stupide congetture
elaborate dalla sua mente instabile e ne stava pagando le conseguenze, con
tanto di interessi.
Non riusciva più a vivere, nonostante ci provasse e volesse essere
positiva.
Non ce la faceva senza di lui, si sentiva persa e infinitamente
stupida.
‘Passerà, Grace, passerà come ogni cosa’
si ripeteva, nei momenti di maggiore sconforto, quando l’autostima strisciava
sotto le suole delle scarpe.
Ma, più i giorni scorrevano, più quel dolore non passava.
Si espandeva e la dilaniava dall’interno, come se una grossa fiamma
le bruciasse il petto, togliendole il respiro.
L’estate si avvicinava, di nuovo. Il caldo era impressionante e lei
si sentiva, comunque, gelare dentro.
Non riusciva a capacitarsi di quanto fosse successo, sperava ogni
giorno di risvegliarsi da quel brutto incubo.
Era tutto uno schifo!
‘Stupida, stupida, stupida!’ ringhiava nella sua mente, stanca di
piangere. Non aveva più lacrime, né voglia di soffrire.
Ma soffriva, soffriva sempre e comunque.
L’estate era inoltrata quando Grace ebbe una grande notizia.
In ufficio, le offrirono di lavorare per loro, dal momento che il
tirocinio si era concluso i primi di luglio.
Lei accettò e, nello stesso istante in cui lo fece, elaborò il
piano più folle e coraggioso di tutta la sua esistenza.
Si sentì subito come Grace, ventenne disperatamente innamorata,
alla conquista del suo amore stupidamente perduto.
Suonava come una stronzata, ma a lei non importava.
“Mamma” esordì, durante una delle tante cene che lei e i suoi
genitori consumavano in giardino. “Ho comprato un biglietto per l’Africa.”
Sua madre sollevò lo sguardo e sbiancò, mentre suo padre annuiva.
Lui sapeva già tutto.
“Sì, voglio andare da Jeremy.”
“Tu e Jeremy non vi eravate lasciati?”
“Spero che con la mia sorpresa io possa farlo tornare da me. Ho
sbagliato tutto.”
Il viaggio fu un mix di agitazione e ansia. Grace era felice di
riuscire a controllare quelle sensazioni, evitando che si trasformassero in
panico vero e proprio.
Mentre l’aereo si preparava all’atterraggio, osservò fuori dal
finestrino e non vide altro che il chiarore dell’alba risplendere in
lontananza.
Un’hostess le si accostò e la aiutò ad allacciarsi la cintura.
Era fortunata che qualcuno la assistesse durante il volo.
All’aeroporto, i genitori di Jeremy la aspettavano. Aveva parlato
loro del suo piano e i due si erano offerti di aiutarla, conoscendo le sue
difficoltà.
Quando il velivolo si arrestò del tutto, Grace si alzò e,
accompagnata dall’assistente di volo, raggiunse la terraferma e si diresse al
recupero bagagli.
Presto, incontrò i genitori di Jeremy che la accolsero con calore,
abbracciandola e chiedendole come stava e com’era andato il volo.
“Sto bene” affermò, guardando in viso la donna. “Sono pronta.”
“Andiamo” concluse l’uomo.
Grace osservava il panorama intorno a sé ed era sempre più
meravigliata. Non si aspettava che il Marocco fosse così affascinante.
Tuttavia, non riusciva a concentrarsi su ciò che la circonava, impaziente com’era di rivedere Jeremy.
Chissà come avrebbe reagito, cosa le avrebbe detto…
Si guardò ancora una volta intorno – l’ennesima, nel giro di pochi
minuti – ma di lui ancora nessuna traccia.
I genitori del ragazzo l’avevano lasciata al cantiere in cui lui
lavorava e attendeva che lui giungesse.
Era ancora presto – circa le otto del mattino – ma il caldo era
insopportabile, molto più di quanto lo era in Messico.
Si concentrò per un attimo ad osservare l’edificio nascente. ‘Una
scuola’, aveva detto la madre di Jeremy. Stavano costruendo una scuola.
Ad un tratto, il suo sguardo fu catturato da una sagoma familiare
che aveva appena fatto il suo ingresso nel cantiere.
Grace sostava all’ombra di un pilastro di cemento armato e sapeva
di essere nascosta alla vista.
Comprese immediatamente di chi trattava, nonostante il ragazzo
portasse i dreadlocks legati sulla testa.
Si domandò pigramente come facesse a lavorare con quei capelli,
dovevano fargli un caldo!
Scosse il capo e, dopo aver sospirato, uscì dal suo ‘nascondiglio’.
“Jeremy!” lo chiamò, sentendo l’ansia attanagliarle lo stomaco.
Lui si voltò e, non appena la vide, si fermò di botto e lasciò
cadere la borsa da lavoro. “Tu… qui?” balbettò,
incredulo.
Grace gli sorrise debolmente, non sapendo come interpretare la sua
reazione. Gli si avvicinò. “Sì.”
Jeremy sbatté più volte le palpebre, cercando di capacitarsi di ciò
che stava vedendo. “Tu non sei reale.”
“Sì che lo sono!” Grace balzò in avanti e gli prese le mani tra le
sue. “Sono qui per dirti che mi dispiace. Mi dispiace di averti fatto soffrire,
mi dispiace di averti lasciato, mi dispiace di aver creduto che i miei
sentimenti per te fossero mutati.” La ragazza prese fiato per un attimo, ma non
gli lasciò il tempo di ribattere. “Jeremy, io ti amo e non ce la faccio senza di
te.”
Lui la fissava con aria sconvolta, ricambiando debolmente la
stretta delle sue dita.
“Perdonami” mormorò ancora Grace. “Se puoi” aggiunse.
“Sì” sussurrò lui.
Grace si sentì esplodere per la gioia, gli gettò le braccia al
collo e lo strinse forte a sé, con l’intenzione di non fare mai più
quell’errore madornale.
Jeremy ricambiò l’abbracciò e la baciò, possessivo, feroce e dolce
come solo lui sapeva fare.
“Non ti lascerò più andare via” affermò, dopo essersi scostato.
“Oh, Jeremy. Ho fatto una cazzata, me ne rendo conto.”
“No, la cazzata l’hai fatta venendo qui! Sei pazza!”
Grace lo guardò dritto negli occhi e gli accarezzò il viso. “Se ho
fatto questo è perché sono pazza di te” ammise, seria.
Jeremy tornò a baciarla e a stringerla, senza dire più nulla.
Avevano perso tempo, l’uno distante dall’altra, ma erano
intenzionati a recuperarlo.
Grace non sapeva quale sarebbe stato il loro futuro, però decise di
non pensarci.
Voleva amare ed essere amata, senza lasciarsi mai più trasportare
dal pessimismo e dalle ombre che si gettavano tra lei e il suo Jeremy.
Era nuovamente felice.
Ed eccoci qua, alla fine.
Sì, anche a me sembra strano,
però era giunto il momento di lasciare in pace in primis voi (mi avete dovuto
sopportare abbastanza a lungo!) e poi i nostri due protagonisti che non ne
potevano più di essere tormentati dalla mia mente contorta.
Avete avuto paura, eh?
Grace e Jeremy, per fortuna,
si sono chiariti e lei ha finalmente compiuto il viaggio a cui aveva pensato
spesso, in passato.
Tutto è bene quel che finisce
bene!
Ci tengo a ringraziarvi,
perché mi avete tenuto compagnia e incoraggiato durante tutto il corso della
storia.
Ringrazio in maniera
particolare DreamNini, la mia fan numero uno, per
aver sempre espresso con sincerità i suoi pareri in merito ad ogni capitolo,
per il sostegno che mi riserva durante ogni storia, per la costanza e la
gentilezza infinita;
un grazie va anche a sempre
con te che ha nutrito una grande passione per le avventure di Grace e Jeremy e
mi ha incoraggiato ad andare avanti;
grazie anche a Marss, che ha deciso di iniziare la lettura della storia
quando già era cominciata da un po’ e spero trovi il tempo di finire la
lettura, i suoi commenti mi hanno fatto molto piacere;
ringrazio anche Jane_30, che
mi ha sostenuto finché ha potuto, lasciandomi delle bellissime recensioni;
infine, ringrazio anche Lady
Red Velvet per la sua sincerità, non c’è bisogno di
specificare, lei sa a cosa mi riferisco.
Sono grata anche a chi ha
seguito/ricordato/preferito la mia storia e a chi si è preso la briga anche
solo di leggerla. Ci vuole coraggio! xD
Bene, ora vi lascio!
Spero di ritrovarvi presto in
qualche altra mia storia, mi fa sempre piacere avere diversi pareri su ciò che
scrivo.