A drop in the ocean

di Fiorels
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adrenaline ***
Capitolo 2: *** Unexpected ***
Capitolo 3: *** Sad eyes never lie ***
Capitolo 4: *** Any place is better ***
Capitolo 5: *** Sense of guilt ***
Capitolo 6: *** I need to know ***
Capitolo 7: *** Redemption ***
Capitolo 8: *** Out and about ***
Capitolo 9: *** Sorry... ***



Capitolo 1
*** Adrenaline ***


Oooookay, salve gente :) Sono una frana con le introduzioni quidi abbiate pazienza.
Visto che 'Broken Road' è ormai alla fine vi propongo questa nuova, piccola storia con davvero poche pretese. Stavolta mi sono buttata su qualcosa di più "leggero" (tra virgolette) cercando di sfruttare generi di situazioni che mi piacciono. Okay, lo so che non state capendo niente e in effetti non c'è bisogno che capiate al primo capitolo XD
L'inizio della storia è ancora un pò lento anche perchè l'ho iniziata mesi fa e nel frattempo il mio stile è cambiato. E' strano ma rileggendo mi sono resa conto di come avrei scritto determinate cose in modo diverso se l'avessi iniziata ora, ma quel che è fatto è fatto e comunque ho davvero pochissimi capitoli pronti di questa storia quindi non è un dramma se i primi faranno più schifo del seguito XD lol
Coooooomunque, proprio per questo motivo inizio a dire già da subito che non avrò un giorno fisso per postarla visto che sono davvero incasinata con l'università, ma volevo comunque lasciarvi qualcosa prima di terminare ufficialmente l'altra, giusto per farvi sapere che non morirò XD Ahahaha
Intanto mi impegno a cercare di portarmi avanti il più possibile :)
Okay, basta. Magari vi lascio al capitolo per ora e ci sentiamo in fondo per qualche altra nota.
Buona lettura! *-*






Capitolo 1
 

Adrenaline

 

“Mi raccomando, fatti sentire. Non sparire..”
Alzai gli occhi al cielo. “Sì, papà” lo tranquillizzai come facevo sempre e la sua smorfia fece intendere che non credeva al mio tentativo di tenerlo buono.
“E vieni a trovarmi quando vuoi, il biglietto te lo pago io. Magari a Natale...”
“Dai papà, poi vediamo. Mancano cinque mesi a Natale!”
“Lo so, è che… ancora non mi sono abituato a non averti a casa, anche se sono passati cinque anni. Vorrei vederti girare per casa e prepararmi qualcosa di commestibile.”
Risi prendendo le sue mani tra le mie, un gesto che non spesso mi concedevo dati i nostri caratteri restii a sdolcinate dimostrazioni d'affetto, ma in quel caso potevo anche decidere di sciogliermi un po' per fargli capire quanto fosse importante per me che lui fosse felice.
Quando un mese fa gli avevo proposto di passare il mese d'Agosto insieme la sua emozione aveva attraversato persino la cornetta che da cinque anni separava Forks da Los Angeles. E ora, ora gli stavo dicendo che mi era stato offerto uno stage, anche retribuito (sebbene di poco), per i mesi di Agosto e Settembre così da prepararmi al praticantato che avrei dovuto iniziare ad Ottobre.
Onestamente, finito il college e neo-laureata, avrei davvero preferito passare un mese di relax senza fare altro che leggere, passeggiare o anche solo dormire. Completo e totale relax era una prospettiva decisamente migliore all'essere intrappolata nell'assolata e afosa Los Angeles per tutta l'estate; ma era pur sempre un'occasione, qualcosa che avrebbe arricchito il mio curriculum e che di certo non poteva recar danno.
Sì, restare era la decisione giusta.
“Verrò a Natale, papà. Promesso! Magari anche prima...” sorrisi scrollando le spalle. Lui ricambiò mostrando un timido sorriso sotto i baffi per poi attirarmi a sé e stringermi in un nostro tipico abbraccio. Sentito ma non da film melodrammatico.
“In bocca al lupo, Bells. Sono… sono orgoglioso di te… e so che te l'ho già detto ma... Ti voglio bene.”
Sapevo quanto fosse difficile per lui esternare i sentimenti in questo modo perciò non potei fare altro che stringerlo forte un'ultima volta.
“Anche io papà” ricambiai per poi lasciarlo andare. Gli aprii la portiera della macchina o sapevo che non sarebbe mai andato via.
“Chiama!” ordinò ancora mentre saliva in auto.
“Siiiii...” mi lamentai con cadenza noiosa e gli sorrisi.
Un ultimo saluto con la mano e infine partì.
Osservai la macchina finché non girò l'angolo sparendo dalla mia visuale, e potei finalmente prendere un enorme sospiro.
Di sollievo, di paura, di malinconia. Non lo sapevo.
Sembrava passato solo un giorno dal diploma al liceo di Forks, dove mi ero trasferita sette anni prima quando mamma si era risposata, e ora avevo tra le mani la laurea.
Bè, non l'avevo tra le mani letteralmente, ma era così. Ero laureata, precisamente da trentaquattro ore, e non potevo sentirmi più orgogliosa di me stessa.
Presi a camminare lentamente mentre la brezza di fine Luglio rinfrescava debolmente il mio viso. Mi guardai intorno cercando di imprimere ogni piccolo dettaglio di quel posto; mi sarebbe dispiaciuto lasciare l'UCLA, l'Università della California, l'Università di Los Angeles; mi sarebbe davvero mancata.
Mi sarebbe mancato l'albero alla cui ombra mi rannicchiavo a leggere nelle giornate di sole, mi sarebbe mancato uscire la mattina a fare jogging tra i vialetti in mezzo al verde, mi sarebbero mancate la partite di basket e forse anche le cheer-leader; bè, forse mi sarebbe mancato più il prendere in giro le cheer-leader. 
Nel bene o nel male, mi sarebbe mancato tutto di quel posto dove avevo trascorso gli ultimi cinque anni della mia vita nella speranza di costruire il futuro che volevo e che, in effetti, non era tanto chiaro nemmeno a me.
Non avevo un obiettivo preciso nella vita e quando la mia insicurezza mi mandava in depressione c'era Rose a consolarmi dicendo che l'avrei trovato strada facendo e che  il mio percorso mi avrebbe condotta esattamente a quello che volevo diventare. Era facile per lei dirlo. Voleva essere un medico e lo aveva sempre saputo, fin da quando, a cinque anni, faceva diagnosi con le bambole affibbiando loro e inventando ogni genere di malattia possibile; in un modo o nell'altro però riusciva sempre a guarirle e quando, qualche anno fa, la sua unica nonna era morta in seguito a un ictus capì quello che voleva essere: un neurologo.
Lei voleva essere un medico. Lei voleva essere un neurologo. Lei voleva essere qualcuno di preciso.
Io sapevo solo che amavo l'arte in ogni sua forma e volevo seguirla.
Architettura, disegno, musica, teatro, anche video-editing; tuttavia ero più ferrata sulla pittura e sulla fotografia.
Non a caso non uscivo mai di casa senza la mia macchina fotografica, sebbene fosse una comune Canon da 8 Megapixel, e agognavo il momento in cui avrei risparmiato abbastanza soldi da poterne comprare una professionale come quelle che usavamo ai corsi…
Ma per ora non era ancora il momento e chinandomi su un fiore dovetti accontentarmi di intrappolarlo nella sua semplicità.
Continuai a perdermi nei miei pensieri fotografando ogni angolo che avesse significato qualcosa per me e quando vidi il chiosco del caffè - non vivevo se non ne prendevo almeno tre al giorno - non potei fare a meno di fermarmi.
“Macchiato, con schiuma e tanto zucchero!” Steve mi anticipò appena mi vide fermarmi davanti il carrello.
“Mi conosci bene” risi.
“Oh, dopo cinque anni la tua dipendenza dal caffè diventa nota.”
Annuii sorridendo mentre lui preparava il caffè.
“Mi fai anche un cappuccino?”
“Agli ordini!”
Steve era un uomo sulla quarantina che, da quanto ne sapevo, aveva sempre lavorato all'università. Ogni tanto ci eravamo trovati a parlare e mi aveva raccontato della sua famiglia, delle sue due bambine di tre e cinque anni e di come non potesse vivere senza di loro.
A volte, nell'ascoltarlo, generava quasi un piccolo desiderio di avere un figlio ma abbandonavo presto lo strano pensiero.
Non solo perché riportava a galla il ricordo del pezzo di merda che mi aveva tradita quindi non ci sarebbe stata materia prima per procreare, ma anche perché era troppo presto e la mia vita era un vero casino.
Avevo sempre sognato di poter creare una famiglia dopo la laurea, sistemarmi, trovare un lavoro che mi appagasse, avere un compagno che mi amasse; immagino che i sogni siano spesso difficili da realizzare. Anzi, i più semplici sono proprio i più difficili perché lasciano l’amaro in bocca e la delusione di aver fallito. I sogni impossibili, invece, sono i migliori, quelli meno dolorosi e più consapevoli. Tutto ciò che creano è una dolce malinconia sapendo che si avvererebbero solo grazie a un miracolo.
Ma quando un sogno semplice non si avvera perdi anche la speranza di vederlo realizzarsi.
Se non si avverano i sogni semplici come possono avverarsi quelli che sembrano impossibili?
Mi resi conto di stare decisamente divagando nei miei pensieri visto che avere una famiglia con Jacob non poteva certo dirsi il sogno della mia vita.. Ma la paura di arrivare a trenta anni senza una vita personale cominciava a farsi sentire; soprattutto dopo una relazione durata sette anni.
Avevo conosciuto Jacob la primavera in cui mi ero trasferita a Forks. Diventare amici era stato facile e ancora più semplice era stato diventare qualcosa di più.
Credevo… ero convinta che ci appartenessimo e che l'esperienza universitaria insieme non avrebbe fatto altro che rafforzare il nostro rapporto.
Questo fino a un mese fa quando aveva detto di non amarmi più e di aver bisogno di tempo per riflettere; una settimana dopo l'avevo trovato a letto con un'altra, a consolarsi per bene, e non facevo altro che torturami giorno e notte chiedendomi in cosa avessi sbagliato e per quanto tempo era riuscito a prendermi in giro così.
Rose diceva che non era colpa mia, che lui era un figlio di puttana - e aveva ragione - ma faceva male. Faceva male comunque.
“Sarà strano non vederti più qui.”
Steve interruppe, grazie a Dio, i miei pensieri passandomi il cappuccino e il caffè e aiutando la mia malinconia a raggiungere il top.
Altro che caffè, avrei avuto bisogno di un bel concentrato di cioccolato e nutella di questo passo.
“Magari verrò ogni tanto per un caffè. I tuoi sono imbattibili!” ed era la verità. O forse era solo la verità che avevo imparato a conoscere vivendo in quel posto abbastanza a lungo da farne la mia vita.
“Ci conto allora” sorrise ancora e uccise il mio tentativo di pagarlo.
“Offro io” mi fece un occhiolino e tutto quello che riuscii a dire fu un debole ma sincero grazie.
Con l'umore ancora a metà tra a terra e al settimo cielo mi incamminai verso il dormitorio mentre, distrattamente, posavo i soldi nella borsa.
E quello fu, probabilmente, il gesto che cambiò la mia vita per sempre.
Girai l'angolo e in quel millesimo di secondo in cui chinai il viso sentii qualcosa venirmi addosso, o meglio, sentii di andare addosso a qualcosa.
Il caffè mi si rovesciò sulla maglietta facendomi scottare e gridare dal dolore.
“Cazzo!” imprecai a denti stretti lasciando cadere i caffè e allontanando la maglietta dal mio petto prima di restare ustionata davvero.
Alzai il viso e vidi quello della montagna che mi era venuto addosso.
Ok, non era una montagna in effetti ma…
“Potevi fare più attenzione!” gli gridai contro d'istinto.
La sua bocca si aprì in una o di stupore e mi fissò incredulo.
“Io? Non stavi nemmeno guardando dove andavi! Mi sei venuta addosso! E ringrazia che sia stata tu a sporcarti e non io o mi avresti pagato il conto della lavanderia!”
Stavolta fui io a fissarlo incredula. “Spero che tu stia scherzando!”
“Riguardo a cosa, scusa?”
“Pretendo delle scuse!”
“Scuse per cosa? Non è colpa mia se non guardi dove cammini. Impara a tenere alta la testa bambolina…”
Bambolina? Mi aveva appena chiamata bambolina?
“E tu impara a farti i cazzi tuoi!” ringhiai puntando i piedi.
“Me li stavo facendo, infatti, prima che mi piombassi addosso” mi fece un veloce occhiolino prima di girarmi attorno e prendere la direzione opposta alla mia.
“Idiota!” fu l'insulto più forte che riuscii a gridarli dietro mentre lo vedevo allontanarsi sempre più.
Non si scomodò nemmeno a rispondere; alzò una mano per snobbarmi e, ancheggiando come un modello di serie b, continuò a camminare.
Restai per qualche secondo a pensare come risolvere il pasticcio sulla mia maglietta ma, quando capii che se non tornavo in camera avrei risolto ben poco, mi incamminai di nuovo, senza mancare qualche eventuale imprecazione e maledizione qua e là.
“Ah Bella! Dammi una mano con questi!”
Non feci nemmeno in tempo ad entrare che dovetti accorrere in aiuto a Rose che stava sprofondando dietro una pila di quei mattoni comunemente chiamati libri.
“Rose, ma devi portarli tutti?”
“Scherzi? Sono i libri. I miei libri! Quelli su cui ho buttato il sangue per cinque anni! Certo che me li porto! Sono sempre utili e sono costati una fortuna e… che cavolo hai fatto alla tua maglietta?”
“Oh...” sbuffai sistemando i libri in una scatola sul letto. “Avevo preso un caffè, e un cappuccino per te, ma un idiota mi è venuto addosso.”
“Un idiota carino?”
“Rose!”
“Bella! E' ora di iniziare a mostrare interesse per l'altro sesso.”
“E considerando com'è andata l'ultima volta è decisamente la scelta migliore!” ironizzai.
Uno: ultima e unica volta. Non puoi generalizzare il genere maschile basandoti sull'unico ragazzo con cui sei stata e che si è rivelato essere poi un pezzo di merda, anzi un verme che striscia in un pezzo di merda in putrefazione...”
“Rose, che schifo...”
Due: non sto parlando di storia seria. Sai, c'è una cosa chiamata divertimento, mi sorprenderei se tu la conoscessi. Baci, lingue, petting...”
“ROSE!”
Tre: ho solo chiesto se era carino non se te lo saresti fatto lì sul pavimento.”
Assunsi l'espressione più sdegnata che potessi avere.
“Hai finito?”
“Allora, era carino?”
Inutile, cercare di combattere verbalmente con lei era una battaglia persa in partenza probabilmente perché delle due lei era sempre stata la più loquace e io la più pratica, purché non si trattasse di ragazzi almeno…
Sospirai cercando di fare mente locale e darle una risposta. Al momento non mi ero minimamente soffermata sull'aspetto fisico ma ripensandoci e riportando a mente il suo viso e il suo corpo, nell'insieme...
“Sì, era carino...” sentenziai infine scrollando le spalle mentre lei batteva le mani eccitata; io, personalmente, ne ignoravo il motivo.
“E comunque da quando sei diventata così schietta e scurrile?” Domanda retorica. Rose era sempre stata così ma ultimamente me lo faceva notare un po' troppo.
“Da quando sembra essere l'unico modo per avere una tua reazione! Ti prego, non dirmi che stai ancora male per il verme del pezzo di merda?”
Non potei fare a meno di sorridere per qualche secondo ma tutto svanì al ricordo di Jacob a letto con un'altra; appena una settimana dopo che...
Sospirai e mi buttai a peso morto sul letto, fissando il soffitto.
“E' ancora troppo presto, Rose...”
“Stronzate!” disse la mia amica abbandonando quello che stava facendo e venendo a sedersi sul letto accanto a me. “Per lui non è stato troppo presto, non si è fatto nemmeno un terzo dei problemi che ti stai facendo tu. Mi dispiace dirti queste cose Bella, ma devi renderti conto che non ne vale la pena. Che la tua vita è altro e che puoi riprenderla in mano quando vuoi, anche solo per divertirti!”
Mi massaggiai le tempie desiderando per un secondo di aver chiesto una camera singola; ma il pensiero mi lasciò presto perché senza Rose non sarei riuscita a superare quei cinque anni senza impazzire. Eravamo state assegnate alla stessa camera dal primo giorno e all'inizio era stato drammatico. Sembrava che la convivenza non fosse scritta nei nostri oroscopi. Poi, non ricordo nemmeno come, a furia di incomprensioni abbiamo legato così tanto da diventare l'una la forza dell'altra.
“Magari nei prossimi giorni...” restai sul vago sperando che si accontentasse ma l’adattamento non era esattamente una delle sue qualità più sviluppate.
“Perché non stasera?”
“Rose, come fai ad essere sempre così ottimista? Ti sei resa conto che tra due giorni dobbiamo lasciare questo posto e ancora non abbiamo trovato un appartamento?”
“Purtroppo sì, ma mi rendo anche conto che non lo troveremo alle sette di domenica sera. Stare chiusa qui non ti aiuterà a risolvere i problemi, Bella. E poi tuo padre ci ha lasciato il numero di quel suo amico...”
“Non lo so.. dovrei iniziare a mettere via la roba…”
Uuuuuh lo farai domani! Su! Domani è un altro giorno! Metterai le tue cose nello scatolone, andremo a vedere l'appartamento e potrai deprimerti quanto vuoi ma stasera… stasera c'è la festa di fine corsi e noi dobbiamo andarci!”
Oh no… oh, ti prego, no...
“Non se ne parla, Rose!” quasi urlai mettendomi di nuovo in piedi.
“Perché no?”
“Sai che non sono cose che fanno per me...”
“E' solo una festa, Bella.”
“No.”
“Ti prego!”
“No-ooo.”
“Ti preeeeego...”
“Ho detto di no, e sarà sempre no!”
 
Evidentemente il mio no si scriveva esse-i perché due ore dopo ero lì, a quella dannata festa, trascinata da Rose con la scusa che avrebbe dovuto incontrare Emmett, il ragazzo della confraternita che l'aveva invitata esortandola a portare chiunque volesse.
Perché le avevo detto di sì? Se l'avessi saputo avrei avuto un ottimo motivo per restare a casa visto che lei sarebbe stata ugualmente in compagnia.
Sola soletta?” sussultai quando sentii quella voce già così familiare e irritante alle mie spalle.
Mi voltai per fulminarlo negli occhi ma non potevo aspettarmi che fissarlo così intensamente potesse scombussolare me. Avevo dovuto perdere quel particolare durante il nostro piccolo scontro ore prima ma aveva gli occhi più belli che avessi mai visto. Di un colore indefinito tra il verde e l’azzurro chiaro con qualche sprazzo di grigio.
“Ehi, attenta che stai sbavando un po’…”
“Ehi, attento che il tuo ego si sta gonfiando un po’ troppo. Potrebbe ucciderti e impossessarsi del tuo corpo!”
“Acida già di prima mattina, eh?”
 “Sono le nove di sera” gli feci notare perdendomi evidentemente il suo scherzo.
“Era un modo di dire, il punto non cambia” ridacchiò.
“Senti, perché non mi lasci in pace?”
“Come vuoi” alzò le mani in segno di resa. “Ti avevo solo vista qui tutta sola e pensavo ti facesse piacere fare due chiacchiere con qualcuno e sembrare meno patetica di quanto appari…” sorrise come se mi avesse appena fatto un complimento e, scendendo il gradino, si allontanò da me.
“Ah, bella gonna!” disse girandosi un secondo prima di perdersi tra la folla.Mi guardai dai piedi per ricordarmi cosa Rosalie mi aveva costretto a indossare e quando rammentai della gonna alta troppi centimetri sopra il ginocchio mi fu chiaro il suo commento.
“Chi era quello?” Rose era magicamente apparsa alle mie spalle con un bicchiere di vodka al melone che finì presto nelle mie di mani.
“Ma è puro?” chiesi sgranando gli occhi.
“Ti farà bene. Mi dici chi era il tizio?” chiese di nuovo continuando a scrutare il ragazzo tra la folla.
“L'idiota di oggi, quello del caffè.”
“Cazzo! Avevi detto che era carino ma non che aveva quel corpo... Oh mio Dio!!!” esclamò quando lui si voltò e fu possibile per lei vederlo in viso.
“Ma quello è Edward Cullen!”
“Chi?”
“Lo sai Bella, Edward Cullen! Ne hai sentito sicuramente parlare! Madonna!”
In effetti ora che Rosalie nominava il suo nome dovevo ammettere che aveva un qualcosa di familiare; sicuramente l'avevo sentito in giro ma non da interessarmene né tanto meno ero accanita dipendente da Facebook da essere in grado di associare un viso a un nome o da andare a farmi i fatti degli altri.
“Non ci posso credere!!! Non ci posso credere!!! Awwwww”
“Rosalie, vuoi calmarti?!”
Si sarebbe sentita male.
“Non capisci, Bella! Mio Dio... lui è così... così...”
“Sbruffone? Sì, lo so! È insopportabile!”
Rosalie si immobilizzò e... ah, se gli sguardi potessero uccidere.
“E' uno dei ragazzi più sexy dell'università, Bella! Un casino di ragazze gli vanno dietro e lui stava parlando con te! Con te! Cioè, ti rendi conto?! Con te!!!
“Grazie della stima, mi commuove.”
“Non intendevo questo” scosse il capo. “Cazzo, Bella! Ti devi buttare! Dicono che a letto sia un dio!”
“E chi lo dice.. ? Ah. No no no. Non lo voglio sapere” mi bloccai prima che immagini oscene occupassero la mia mente.
“Senti! Non me ne fotte un cazzo delle tue teorie sul sesso senza amore... Ora ti scoli questo, vai e ti butti, capito?”
“Rose!”
“VAAAAI!”
Prima che potessi aggrapparmi a lei mi aveva dato una piccola spinta e mi ero trovata tra una moltitudine di persone che si muoveva al ritmo di musica sballottandomi qua e là.
Fu allora che li vidi.
Jacob e Jessica. Avvinghiati l'uno all'altra in un piccolo angolo della sala.
Mi ci vollero dieci minuti per staccare gli occhi da quella scena e dieci secondi per scolarmi due bicchieri di vodka uno dietro l’altro e prenderne un terzo, insieme a tutta la bottiglia.
Mi ritrovai in giardino, ubriaca fradicia, a denigrare la mia perfettissima vita, il mio perfettissimo amore, quel verme del pezzo di merda che ora se la spassava con una quella puttana a dieci metri da me.
La gente mi fissava e rideva, mi fissava e distoglieva lo sguardo ma nessuno pensava minimamente a darmi una mano.
Non ne avevo bisogno infatti. Tutto ciò che desideravo era un letto ma, sebbene non fossi del tutto lucida, sapevo che non potevo andare via senza avvertire Rose o le avrei fatto venire un infarto.
Mi aggrappai alla staccionata che segnava i confini della casa della confraternita e mi tirai su. Barcollando, ma non troppo, arrivai all'entrata sforzandomi di tenere gli occhi aperti ma era difficile con i giochi di luce nella stanza.
Chiamai Rose rendendomi conto, dopo dieci minuti, che non mi avrebbe sentito nemmeno con un megafono.
Mi trovai di nuovo tra la folla di ragazzi che ballavano sulla musica house ma stavolta tutto era amplificato e la testa sembrava ballare per me.
“Scusa…” biascicai quando inciampai nei piedi di qualcuno, qualcuno che si rivelò essere Jacob tra le braccia di Jessica.
“Bella...” mi sembrò di leggere il labiale.
“Oh, perfetto...” parlai a me stessa mentre mi sentivo improvvisamente più viva e attiva, come se quell'imprevisto avesse risvegliato la mia rabbia e quest'ultima stesse assorbendo l'alcool.
Era solo un'impressione ovviamente perché appena mi mossi tutto cominciò a girare di nuovo ma ciò che avvertivo dentro era solo una gran voglia di vendetta e nient'altro.
“TI VA DI BALLAREEEEEE?!” urlai al primo ragazzo che mi capitò sotto mano e che si adattò subito al mio corpo.
Solo quando lo riconobbi sentii la testa girarmi ancora di più…
Non poteva essere vero, ancora lui.
Per un secondo fui tentata di allontanarmi ma lui era lì, il ragazzo più sexy dell'intera università stava ballando con me, aveva le mani sui miei fianchi e quando si spostarono sulle mie natiche per stringerle e avvicinare i nostri corpi capii che dopotutto mi trovava anche in qualche modo attraente e poi, Jacob era a due passi e aveva sicuramente visto la scena quindi, perché non approfittarne?
Senza pudore iniziai a strusciarmi sul suo corpo come una cagna in calore, senza nemmeno chiedermi cosa stessi facendo perché è questa la prerogativa degli ubriachi, no?
Ci muovevamo insieme al ritmo di musica mentre le mie mani carezzavano il suo collo, il suo viso, il suo petto. Le sue vagavano sul mio corpo, avide, e quando raggiunsero la schiena sotto la maglietta sentii una specie di scossa che mi spinse a fare quello che feci.
Mi alzai sulle punte e stringendo le braccia attorno al suo collo mi avvinghiai a lui e lo baciai, senza chiedere il permesso e senza aspettarmi che non usasse la lingua.
Non avevo mai sentito nulla del genere, mai sentita così viva come in quel momento di assoluta sconsideratezza ma anche di adrenalina. Era una cosa stupida, forse, eppure mi sentivo carica e soddisfatta mentre le nostre lingue e i nostri corpi si muovevano insieme.
Lanciai un'occhiata a Jacob e lui non se la lasciò sfuggire.
“E' il tuo ragazzo?” urlò Edward al mio orecchio.
“ERA!”
“E stai facendo questo solo per farlo ingelosire?”
Mi strusciai su di lui con quanta più sensualità possibile.
“E' un problema?”
“Affatto!” disse praticamente già nella mia bocca e senza che me ne potessi davvero accorgere mi stava trascinando da qualche parte.
Tenevo gli occhi chiusi visto che lui mi teneva vicina per farmi strada.
“Le scale!” mi avvertì ma era troppo tardi ed ero già inciampata.
Lo sentii, forse, ridere e abbassarsi per recuperarmi.
Tra un gradino e l'altro continuava a toccarmi, baciarmi e io mi sentivo beatamente vuota. In paradiso.
Mi sbatté contro il muro intrappolando il mio corpo e spingendoci il suo contro, facendomi eccitare. L’alcool aveva sempre avuto questo effetto su di me e lo sapevo bene, come sapevo che non sarei riuscita a reprimerlo nemmeno volendo.
Le sue labbra riempirono il mio collo succhiando avidamente nello stesso istante in cui il muro crollò dietro di me per lasciare il posto a qualcosa di decisamente più morbido; un letto, sicuramente.
A quel punto avrei potuto fermarmi ma ormai ero troppo avida di adrenalina e anche troppo eccitata per farlo…
Divertimento.
Dio del sesso.
Come avrei potuto andare via arrivati a quel punto?
Tra l'altro non ne avrei avuto nemmeno la forza quindi tanto valeva arrendersi fin da subito... o forse..
Ogni mio dubbio e preoccupazione sparì quando le sue mani si insinuarono sotto la mia maglietta e iniziarono a giocare con i miei seni, privi di reggiseno.
Ansimai già spudoratamente e non potei fare a meno di alzarmi per liberarmi di quell'indumento e liberare anche lui.
Lo vidi alzarsi e sfilarsi i pantaloni mentre io mi stendevo meglio sul letto; torno ad aderire al mio corpo perfino meglio di prima, continuando la sua opera con le labbra e con la lingua.
Mi sentivo morire e non potevo immaginare che, nelle mie condizioni, potessi sentire altro… E invece quando alzò la gonna mi bagnai all'istante al solo pensiero della sua mano sulla mia intimità.
Come se leggesse i miei pensieri portò le dita sul mio punto più sensibile amplificando e unendo tutto il mio piacere.
Gemevo e ansimavo senza sosta, muovendo il mio bacino contro la sua mano quando spostò le mutandine e con due dita mi penetrò facendomi arrivare all'orgasmo.
D'un tratto però abbandonò il tutto, lasciandomi desiderosa di altro, e tutta la mia attenzione fu improvvisamente concentrata sulla dura erezione che premeva contro la mia pancia.
“Ce… ce l'hai un.. un preservativo..?” riuscii a dire e ringraziai quel mezzo neurone ancora funzionante.
“Sì, sì, tranquilla!” si allungò al comodino afferrando qualcosa che sfilò subito.
Un secondo dopo lo sentii in me, grande, forte, possente.
“Ah!” urlai quando affondò in profondità tra gemiti e strani grugniti di piacere.
Spingeva sempre più forte, alzando le mie gambe e dandosi appoggio afferrando le mie natiche.
“Ah… ah.. si... cazzo..”
Furono le ultime parole che ascoltai prima di rilassare i muscoli e sentirlo crollare su di me.
 
 
Aprii gli occhi quando un raggio di sole mi prese in pieno viso facendomi girare la testa e salire il vomito.
Riuscii a trattenere a stento lo stimolo e mi misi a sedere sul letto, osservando la scena attorno a me.
Edward - era quello il suo nome, vero?
Bè, lui era steso sul letto accanto a me e dormiva nudo, ovviamente.
Sebbene fossi stata ubriaca le sensazioni di quella notte erano così chiare ed amplificate che non avrei potuto negarle o non ricordarle almeno in parte.
Era stato davvero… divino - considerando il mio unico termine di paragone - ma ora dovevo solo andarmene da lì prima che si svegliasse.
Mi mossi leggermente recuperando i miei vestiti da terra.
Evitai di andare in bagno per non far scricchiolare la porta e mi vestii velocemente, così come mi ero svegliata.
Stavo per sgattaiolare via quando inciampai nel piede del letto cadendo a terra.
Tipico di me.
“Cazzo!” mi lamentai sperando di non averlo svegliato ma quando mi alzai lui era al centro del letto, nudo e con il suo pene in bella vista, che mi guardava.
“Vai già via?”
“Sì, spiacente.”
“Pensavo che potevi restare... divertirci ancora un po'.”
“Senti, Edward...” azzardai. “Senza offesa per te o per le ragazze che di solito ti porti a letto, ma io non sono così. Ero ubriaca, è capitato, è stato bello. Fine della storia, okay?”
Rispose con una smorfia discordante e scrollò le spalle.
“Quindi, fine fine?”
“Fine.”
“Peccato... pensavo che ti fosse piaciuto...”
“No! Cioè sì, mi è piaciuto. Davvero. Ma sinceramente, tu non sai nemmeno il mio nome e credimi, non ce l'ho con te per questo. Non condivido il tuo stile di vita ma non voglio criticare, per me va benissimo così, davvero. Nessuna implicazione.”
Sembrò rilassarsi, chissà perché. Si alzò, sempre nudo, andò alla scrivania e scrisse qualcosa su un foglietto.
Si avvicinò a me, ancora nudo, e me lo porse.
“Bè, se cambi idea, questo è il mio numero.” ammiccò con un occhiolino a cui risposi semplicemente con un'alzata di sopracciglia.
“Dubito... ma… grazie..” borbottai mentre, goffamente, uscivo dalla stanza senza nemmeno salutarlo come si deve.
Ma in fondo che importanza aveva?
Tanto non avrei rivisto quel ragazzo mai più né tanto meno mi sarebbe servito il suo numero, era quello che pensavo scendendo le scale, inconsapevole di quanto fossi lontana dalla verità.





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Bè, ve lo avevo detto che non era nulla di che quindi eravate avvertiti XD
Sono abbastanza sicura di raccontare quasi tutta la storia dal punto di vista di Bella e voglio tentare questa via perchè trovo affascinante, in un certo senso, che si conoscano i veri sentimenti di un solo personaggio e si lasci all'oscuro l'altro. Quindi se mai ci saranno Pov Edward lo scriverò prima del capitolo :)
Mmm, che altro dire...? Penso nient'altro in effetti .___. Oddio, ho un vuoto di memoria e sicuramente dopo aver postato mi torneranno in mente le atre 124.000 cose che volevo dire ma vabbè, male che vada le dirò al prossimo capitolo XD
Okay, allora mi ritiro e, boh, spero vi abbia incuriosito anche solo un pochino *-*
*incrocialedita*

Alla prossima!
Fio x 

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Capitolo 2
*** Unexpected ***


adito - cap 1

Vabbè, diciamolo davvero onestamente che io non so proprio cosa dire. Cioè... l'entusiasmo che avete dimostrato per quel primo capitolo, le recensioni, i seguiti, i preferiti... Immagino che stiate andando a fiducia XD E, vabbè, spero che ne valga la pena per voi che leggete e per me che scrivo *-* Non so che dire... davvero.
Questo capitolo è una bella noia ahahaha ma serviva per descrivere un pò la vita di Bella prima di arrivare a quello che sarà il vero tema della storia. Non so se avete notato che non sto linkando canzoni, ed è proprio perché questi capitoli sono stati scritti mesi fa e non ricordo per nulla quali canzoni mi ispirarono e non mi viene naturale mettervi delle canzoni solo perchè ci stanno bene XD Comunque, appena posterò capitoli nuovi di zecca, riprenderò con i suggerimenti musicali.
Okay, detto questo... Vi lascio alla lettura, sperando che arriviate alla fine senza addormentarvi LOL
Ci sentiamo sotto! xx






Capitolo 2
 

Unexpected

 

“Bella! Bella...?”
“Mmmm…” mi lamentai ancorata al sonno.
“Bella, farai tardi.”
“Lasciami dormireeee...” biascicai mentre sentivo già il lenzuolo mancarmi da sopra al corpo.
“Su, svegliati!”
“Mmm… Rose!” esclamai infine alzandomi solo per riprendere possesso del lenzuolo e rituffarmi sul letto.
Sentii la mia amica sospirare e poi sbuffare.
“Si può sapere che hai?”
Feci finta di dormire ma conoscendola era troppo intelligente per credere che avessi ripreso sonno dopo nemmeno due minuti.
“Bella!”
“Non voglio andarci, Rose, non mi va! Quella mi odia, non la sopporto più!”
“Ma chi? Siria?”
“Sì!” confermai uscendo dalla copertura e mettendomi seduta “Lei mi odia ed è perfettamente normale visto che io odio lei ma non capisco perché ce l'abbia tanto con me. E' un mostro. Dal primo giorno di stage mi manda sempre a prenderle il caffè e se le porto un cappuccino dice di aver cambiato idea e di volere il macchiato; se le porto il macchiato vuole il cappuccino...”
“Tu fatti furba e portaglieli entrambi!”
Facile come bere un bicchiere d'acqua in effetti; non ci avevo pensato.
“Non è solo questo il punto. Lei è troppo dura, capisci? Dovrebbe essere un corso di apprendimento e invece lei lo utilizza come programma sfruttiamo-gli-stagisti. L'altro giorno ha fatto piangere una ragazza! Ha detto che l'arte non può nemmeno guardarla perché non ha gli occhi adatti. Ti rendi conto?! Che cazzo vuol dire ‘non hai gli occhi adatti’? Quella poverina... le ha distrutto i sogni in due secondi. E tutti gli altri. E' sempre lì a dare consigli o criticare, ma anche quando deve dire una buona parola non lo fa mai dandoti la soddisfazione di ricevere un complimento” mi resi conto di non aver sputato mezzo secondo quindi fui costretta a prendere fiato.
Rose mi carezzò i capelli.
“Tesoro…” disse quasi con compassione. “E dei tuoi lavori che dice?”
“Magari dicesse qualcosa... Lei sta lì e fissa. A volte per due secondi, altre per venti minuti interi! Mi dà il nervoso! Mi ricorda quando facevo le prime manovre con la macchina e mio padre era lì a fissare! Normale che poi prendevo la staccionata!”
Ero estremamente agitata quella mattina; meglio non avvicinarmisi.
“Okay tesoro, ora rilassati e prendi un bel respiro”
Seguii il consiglio della mia amica e chiusi gli occhi cercando di rilassarmi.
Funzionò, almeno quel poco che bastava per non farmi urlare come un pazza esaurita appena alle nove di mattina.
“Non voglio andarci, Rose. E poi non mi sento nemmeno tanto bene, mi viene da vomitare. Ecco l'effetto che mi fa quella!”
“Tu, invece, ora ti alzi e ci vai. Non solo perché se non finisci lo stage non ti pagano un centesimo, ma anche perché e l'ultimo giorno e devi resistere e far vedere che sei più forte di lei. Mollare ora sarebbe davvero da stupidi.”
Sapevo che aveva ragione e che mi sarei comunque alzata da quel letto, però...
“Ma perché deve mandare sempre me a  prendere il caffè!?” sbottai di nuovo, ignorando i tentativi di Rose che si massaggiò le tempie ad occhi chiusi. “Ci sono altri trenta stagisti oltre me... Bè, ventidue dopo la sfuriata di ieri... E' pazza, Rose! Prima dice di non usare le tempere e poi si lamenta del bianco-nero! E' pazza!”
“Come ogni artista d'altronde” un sorriso ironico indirizzato esclusivamente a me.
“Che vorresti dire?” chiesi già sulle mie.
“Bè...” la sua risposta consistette in una sguardo dall'alto a basso.
“D'accordo, è chiaro. Sono esaurita... Ma non posso farci niente. Quella donna, anzi quella vipera, mi fa davvero salire il sangue al cervello! Perché non mi caccia via se non mi sopporta?”
Strinsi il cuscino e lo lanciai contro l'armadio mentre cacciavo un piccolo urlo liberatorio.
Respirai a fondo ed espirai.
“Okay, mi sono calmata. Scusa Rose, so che hai sentito questa storia duemila volte, è che davvero… non pensavo fosse così. Non vedo l'ora che finisca.”
“Tesoro, mi dispiace molto che sia andata così. Dai, magari la prossima volta andrà meglio..”
Già, ma quale prossima volta? Contavo sullo stage come un mezzo trampolino per farmi conoscere da qualcuno e trovare un lavoretto in qualche mostra, anche come tirocinante. Qualsiasi cosa. Non pretendevo un salario alto, semplicemente fare quello che mi piaceva fare: arte.
Rose era tutt'altra storia. Lei stava già facendo praticantato al reparto neurologia dell'ospedale e presto avrebbe iniziato a fare i turni. Lei sì che stava realizzando quello che voleva. La sua carriera era in avvio, sapeva quello che voleva e quando lo voleva, aveva anche iniziato una mezza relazione con quel tipo che l’aveva invitata alla festa. Non l’avevo ancora conosciuto, nonostante si vedessero da due mesi, perché le piaceva dire che non c’era niente di concreto ancora e non voleva fasciarsi la testa prima ancora di romperla, ma sapevo che sarebbe stata questione di poco prima che le cose diventassero ufficiali. Allora me lo avrebbe presentato e magari avrei saputo di lui qualcosa più del semplice nome, se Emmett può dirsi un nome, e delle sue prestazioni fisiche a letto. Certo, non potevo esattamente permettermi di giudicare. Almeno lei l’aveva, una vita sessuale e pseudo sentimentale. Il mio ultimo rapporto risaliva a quella disastrosa, e solo per certi versi piacevole, sera di due mesi prima. Ci pensai con amarezza mentre guardavo la mia migliore amica e per un millesimo di secondo la invidiai ma in realtà ero davvero felice per lei.
“Dai, alzati, lavati, mettiti qualcosa di fresco, truccati un po' e vieni a fare colazione! Ti ho fatto le frittelle con la cioccolata, in previsione del boom finale!” rise e mi baciò i capelli prima di uscire dalla stanza.
“Muovitiiii!” urlò dalla cucina e non potei non starla a sentire.
Grazie a Dio avevo Rose.
Trenta minuti dopo ero pronta, con un vestitino leggero che mi fasciava il corpo lasciando penetrare anche qualche alito di vento - che non faceva mai male data la perenna afa dell'aria di fine Settembre tipica di Los Angeles - i capelli sciolti sulle spalle e un leggero tocco di fard sulle guance. Niente di più semplice, mi piaceva così.
Con un sorriso sulle labbra che prima non c'era mi preparai ad affrontare la mattinata e in fondo ero felice, non solo per le ottime frittelle di Rose ma anche perché sarebbero state le ultime quattro ore di quella tortura.
Lavorare al bar era quasi più gratificante. Almeno lì c'era Eric che non mancava di farmi sorridere ogni tanto, sebbene le sue avance fossero troppo sfrontate e continuavano ad esserlo nonostante i miei continui rifiuti.
Non che fossi ancora depressa per Jacob, semplicemente non sentivo il bisogno di avere un ragazzo, soprattutto non uno per cui non provavo la minima attrazione fisica. Eric era un amico, un buon amico, e mi serviva un buon amico ogni tanto.
Rose uscì prima di me, augurandomi buona fortuna e dandomi appuntamento per un cinese davanti la TV alle otto, quando lei tornava da lavoro e io dal bar.
Bè, le nostre vite erano parecchio impegnate in effetti ma era l'unico modo per avere un minimo di indipendenza e continuare a pagare l'affitto di quel piccolo appartamento che ci eravamo regalate.
Forse era un po' troppo di lusso per due neo-laureate ancora in procinto di ingranare con le proprie vite ma appena l'avevamo visto era bastato uno scambio di sguardi per capire che sembrava fatto apposta per noi.
Era colorato, ma non con colori sgargianti e accesi da far male agli occhi.
C'era un piccolo salottino con un divano letto di fronte un televisore, scaffali già pieni di libri, una cucina ad angolo, in legno con un piccolo ma grazioso tavolo al centro, ovviamente il bagno e due camere da letto. Ogni camera aveva almeno due finestre e la casa aveva due piccoli terrazzini. Ce n'era anche uno in una delle camere da letto che, dopo una sfida all'ultimo sangue a sasso-carta-forbice, era toccato a me.
Insomma, forse era un po' troppo per noi ma con qualche sforzo ce l'avremmo fatta e ce la stavamo facendo.
Joey, la dolcissima proprietaria dello stabile che avevo scoperto essere una donna solo il giorno in cui eravamo andate a vedere l'appartamento, era stata davvero gentile da abbassarci l'affitto. Solo dopo una telefonata a papà, in cui gli chiedevo come mai non avesse specificato che il suo amico fosse in realtà un'amica, ero venuta a sapere, con conseguente trauma e stato di shock per due giorni, che era in realtà una sua vecchia fiamma.
Assurdo. Ero sempre stata convinta che mio padre fosse stato innamorato solo di mia madre in vita sua e scoprire che anche lui era stato giovane e aveva avuto altre ragazze - con cui, per giunta, era rimasto in contatto - era stata una sorpresa, giustificata unicamente dal fatto che non ci avessi mai pensato prima.
Tuttavia la cosa non creava problemi a nessuno. Papà mi aveva raccontato anche di un paio di favori che le aveva fatto riguardo a qualche eccesso di velocità sulla statale. Erano rimasti in buoni rapporti insomma, ma Joey era felicemente sposata con due bambini, un maschio e una femmina, che avevo visto ogni tanto ed erano adorabili come lei. Mi piaceva lei, davvero. Per qualche istante ero anche arrivata a pensare che forse mio padre sarebbe stato felice più con lei che con mia madre, poi mi colpivo la testa da sola perché in quel caso non sarei stata lì a pensarci visto che non sarei esistita.
Quando finii le frittelle mi sentii terribilmente in colpa perché ne avevo mangiate tre abbuffandomi come un porco e ora ovviamente mi sentivo assurdamente pesante.
Bene, prendere tram e metropolitane così sarebbe stata una vera passeggiata, pensai mentre uscivo dal nostro piccolo paradiso sentendomi nauseata, fisicamente, all'idea di quello che mi aspettava.
 
“SWAN! CAFFE'!”
Perfetto, nemmeno mi aveva visto entrare che già dava ordini.
È l'ultimo giorno, Bella. È l'ultimo giorno, ripetei come un mantra nella mia testa ma la rabbia non mi impedì di farmi furba e, come mi aveva consigliato Rose, andai al bar di fronte - perché ‘quello delle macchinette sa di acqua arrugginita e calcare’ - e ordinai un caffè macchiato e un cappuccino da portare via; nel frattempo ne bevvi uno anche io.
Non potevo affrontare la giornata senza un misero, minuscolo ma necessario caffè.
Quando rientrai, le andai incontro e quasi saltai sul posto quando si voltò di scatto verso di me.
Senza dire nulla le passai il macchiato.
“Non avevo detto che volevo un cappuccino?”
No, non l'hai detto brutta stronza sessualmente frustrata.
Non era il caso che lo dicessi ad alta voce però così mi limitai a passarle il secondo, il suo cappuccino.
“Ecco!” esclamai con una punta di superiorità pensando che almeno l'ultimo giorno potevo permettermelo.
Mi scrutò con sguardo indagatore. I suoi occhi color ghiaccio, i capelli biondo quasi platino, perfettamente lisci, stesso colore rifatto delle sopracciglia, un tailleur che fasciava perfettamente il busto e le gambe magre.
Aveva un bel corpo per avere l'età che aveva.
Mi resi conto di non sapere la sua vera età ma comunque non meno dei quarant'anni.
Siria James era una delle più illustri attiviste nel campo dell'arte e della moda degli ultimi dieci anni, a Los Angeles e anche all'estero.
Si era creata quel suo piccolo impero da sola e a volte non potevo che chiedermi se fosse sempre stata così acida, se fosse stato quello il segreto del suo successo e se ne fosse davvero valsa la pena se poi finiva per entrare in una casa completamente sola.
L'unica cosa che aveva era la sua arte. I suoi dipinti, i suoi progetti d'interni, la linea di vestiti che stava per lanciare sul mercato.
Più volte mi trovavo a controllare il suo anulare, quasi nella speranza, per lei, che qualcuno si fosse fatto avanti, ma niente.
Mi guardò gelida e abbozzò un sorriso indecifrabile.
“Seguimi, Swan.”
E vorrei che non avesse mai detto quelle parole perché furono la rovina della mia mattina. Avrei voluto passare l'ultimo giorno a terminare una mia modesta tela e invece lo passai a fare scanner, mandare fax, fotocopiare e archiviare ogni articolo che era stato scritto su di lei.
Una fiera dell'egocentrismo in pratica.
A fine lavoro fummo riuniti tutti nella grande sala delle conferenze e le lanciai qualche occhiata per capire il motivo; il motivo per cui mi odiava così e per cui si era divertita a rendermi ancora più pesante quell'ultima giornata.
Fu una delle sue assistenti a parlare per lei, ovviamente non sprecava nemmeno il fiato o almeno era quello che credevo finché non fece un passo avanti e prese parola.
“L'arte è il motivo per cui siamo qui. Molti pensano di conoscerla e negano la realtà quando gli si fa notare che non è così. Molti non hanno avuto la forza di andare avanti ed è stata la dimostrazione di quanto magro fosse quello che loro chiamavano amore. Voi siete qui per seguire l'arte ma io non posso aiutarvi, perché nessuno ha aiutato me e infatti questi sono i risultati.”
Com'era? Ah sì, fiera dell'egocentrismo.
“Posso limitarvi ad augurarvi il meglio e a fermarvi subito qui se pensate che questi due mesi siano stati un inferno. Se questo pensiero vi passa per la testa allora non siete tagliati per l'arte.”
Ed eccolo, un pugno allo stomaco, una campanella che avvertiva che ero stata presa in causa. Ma andiamo, lei non poteva sapere della mia insofferenza, senza contare che non era insofferenza per l'arte che continuavo ad amare più dell'aria; era insofferenza per lei e per l'odio che aveva, inspiegabilmente, nei miei confronti.
Seguirono una serie di parole di rito a cui non prestai molta attenzione finché non fummo congedati con una delle sue citazioni preferite. Era proprio sua, l'avevo cercata su Google e mi aveva collegato a una biografia sulla sua vita.
“L'arte non è per tutti e non è per molti; è per pochi eletti che sanno guardarla ad occhi chiusi e ascoltarla col cuore.”
Interrogandomi su quelle parole e su quanto potessero essere vere salutai i miei compagni di corso e insieme a loro raccolsi le cose per uscire da quello che lei stessa aveva definito inferno.
Dio, ma ero io o faceva caldo in quella stanza?
Forse ero io perché gli altri mi sembravano perfettamente a loro agio eppure stavo iniziando a sudare, così tanto che mi sarei volentieri buttata nella fontana lì in piazza.
Pensavo infatti di stare immaginando quando sentii la sua voce chiamarmi, ancora una volta, per la centesima volta nel giro di quattro ore.
“Swan!” ripeté la voce arcigna e acida.
Avrei voluto prendere la mia tracolla e fargliela volare in faccia a mo’ di boomerang ma decisi di comportarmi da persona adulta e mi voltai.
“Sì?”
“L'aspetto Lunedì prossimo” disse senza nemmeno guardarmi negli occhi e controllando, o facendo finta di controllare, qualcosa tra una pila di fogli che aveva in mano.
“Mi scusi?”
“La voglio nel mio stuff di design e arredamento di interni ed esterni.”
Ok, dovevo davvero stare male per immaginare quelle parole che uscivano dalla sua bocca.
Non stava dicendo sul serio.
“Non… non credo di capire…”
“Glielo devo scrivere?”
Strinsi i pugni per sentire le unghie affondare nella pelle e rendermi conto che non stavo sognando.
“Perché?” fu l'unica domanda che mi venne spontanea.
“Lei è brava, ha una bella mente, idee intelligenti e tenacia non indifferente. L'aspetto Lunedì. Sempre che non sia impegnata in altri lavori.”
Oh cazzo.
“Io… io lavoro a un bar nel pomeriggio, tre volte a settimana.”
“Allora quelle mattine e i pomeriggi degli altri due giorni sarà da me. Non si lavora il Sabato e la Domenica, ma sono particolari di cui parleremo Lunedì. Ovviamente è un lavoro che le sarà retribuito ma anche di questo discuteremo a tempo debito. Vuol del tempo per pensarci?”
Dov'erano finiti la scopa, il naso bitorzoluto e il cappello da strega?
Sembrava un'altra persona. Sempre glaciale ma quanto meno con un minimo di modi.
E cosa mi aveva appena chiesto? Se avevo bisogno di tempo per pensarci?
Oddio, ne avevo bisogno?
Forse sì, ma allo stesso tempo sentivo di non poter lasciar passare un solo secondo. Una delle più rinomate artiste della città mi stava offrendo un lavoro nella sua compagnia; certo la odiavo, ma questo era prima di sapere che forse il suo non era odio ma magari solo un briciolo di rispetto per qualcuno che lavorava come piaceva a lei.
Senza contare che nessuno avrebbe potuto impedirmi di alzare le staffe se le condizioni fossero state disumane…
Non ebbi più dubbi.
“No, no. Accetto!” esclamai esaltata e sentii la testa girarmi di botto. Dovetti chiudere gli occhi per il capogiro ma lei non se ne accorse nemmeno.
“Perfetto. A Lunedì allora. Alle nove, puntuale. Non faccia ritardo.”
Rimasi in bilico su me stessa mentre la vedevo allontanarsi e sparire dietro una porta vetrata.
Mi ci vollero almeno cinque minuti per fare mente locale e rendermi conto che avevo, quasi, un lavoro. Un lavoro vero! O almeno, una grande opportunità!
Saltai dall'entusiasmo mentre uscivo dall'edificio e risultò essere una pessima mossa perché mi sentii mancare e fui costretta ad appoggiarmi al muro per non cadere.
Successe tutto in un attimo.
Un secondo sentivo il liquido acido salirmi in gola, un secondo dopo lo stavo riversando nel bidone dei rifiuti accanto a me.
Rigettai ancora un paio di volte fino a sentirmi completamente vuota, nauseata, e bagnata di sudore dalle scapole fino al bacino.
Che cazzo mi stava succedendo?
Sapevo che tre frittelle a prima mattina mi avrebbero fatto male e lo stress accumulato in quelle ore non doveva aver giovato al mio stomaco già provato dalla mattina stessa.
Mi asciugai la bocca e bevvi un po' d'acqua che portavo sempre con me, eppure mi sentivo ancora infuocata, così tanto che non potei fare a meno di dirigermi alla fontana e immergerci la testa.
Quando la rialzai, notai una decina di persone intente a fissarmi curiose, come se fossi pazza; una pazza che si era appena fatta uno shampoo in una fontana pubblica.
Ma in quel momento mi importava poco di quello che pensava la gente. Mi ero rinfrescata, mi sentivo meglio e avevo ancora un pomeriggio di lavoro da affrontare.
 
Quando arrivai al bar alle tre del pomeriggio, dopo un panino al volo in metropolitana, avevo ancora i capelli umidi e Eric, che notava sempre ogni piccola cosa, non mancò di chiedermi cosa avessi fatto.
Gli spiegai brevemente e si offrì, ovviamente, di coprire anche il mio turno ma sapevo che non avrebbe potuto reggere il lavoro di due, inoltre mi sentivo decisamente meglio quindi declinai la sua richiesta e andai nel retro per mettermi l'uniforme.
A fine giornata, dopo quattro ore e mezza a servire i tavoli ed evitare i soliti tipi lascivi che giocavano a biliardo facendo battute di cattivo gusto e giochi di parole sul mettere le palle in buca, presi finalmente la via di casa ma dovetti sforzarmi con tutta me stessa per non chiudere gli occhi in metropolitana.
Forse era il sonno mancato della sera prima, o lo stress accumulato, o semplicemente la stanchezza e l'acidità di stomaco... fatto stava che mi sentivo una vera pezza e ringraziai di avere un'altra settimana prima di iniziare di nuovo a lavorare di mattina, anche se la sola idea mi eccitava e mi impauriva allo stesso tempo.
Eppure nemmeno la paura di non essere all'altezza mi distrasse dalla stanchezza.
Quando entrai, chiamai Rose ma non era ancora rincasata.
Bevvi altra acqua e ciondolai verso il salotto, per poi essere costretta a cambiare direzione e scegliere il bagno, in previsione di una nuova crisi di vomito.
Quando sentii la porta di casa aprirsi e sbattere, ero ancora china sul gabinetto e avevo perso il conto del tempo che c'ero stata.
“Bella!” Rose mi chiamò un paio di volte ma non ebbi la forza di rispondere.
Aspettai che fosse lei stessa a trovarmi in bagno e quando mi vide si chinò su di me, preoccupatissima, reggendomi il viso e chiedendomi cosa fosse successo.
Mi ci volle qualche minuto per riprendermi, stendermi sul pavimento fresco del bagno e spiegarle brevemente la mia giornata.
“Oh, tesoro... mi dispiace. Forse l'impasto delle frittelle non era buono! Dannazione! Eppure non c'era niente di scaduto.”
“Ma no, tranquilla” aprii leggermente gli occhi. “Sono io che sto fusa ultimamente…” dissi mentre lei mi carezzava dolcemente i capelli.
“Com'è andata con la strega?”
“Ah, mi ha offerto un lavoro” ero sicura di averglielo già detto ma fu evidente dalla sua reazione che dovevo averlo solo immaginato.
“COSA?! STAI SCHERZANDO?! E hai intenzione di accettare?”
“Ho già accettato, Rose.”
“COSAAAAAA?” le urla invasero il bagno rimbombandomi nelle orecchie e facendomi lamentare per l'assordante rumore che creavano nella mia testa.
“Rose...”
“Scusa, scusa” disse quasi sottovoce. “Ma… credevo che la odiassi e che ti odiasse...”
“Lo credevo anche io” riaprii gli occhi. “Ma invece ha detto che sono brava, che detto da lei deve essere un bello sforzo...”
“Quindi…? Cioè, accetti e cosa farai?”
“Ah, ancora non lo so. Inizio la settimana prossima ma, qualunque cosa sia, è un'occasione Rose, è un lavoro e lei è così piena di talento, sento che potrei imparare ancora tanto.”
“Che fina ha fatto l’odio di questi sessanta giorni?”
“La odiavo quando credevo che lei odiasse me...” sogghignai e Rose mi guardò ironica ma poi si aprì in un sorriso a sessantaquattro denti.
“Oh, tesoro! Non puoi capire quanto sia felice per te!” si buttò sul pavimento per abbracciarmi e fu impossibile non capire l'affetto sincero che dimostrava al momento.
Restammo sul pavimento a parlare delle nostre giornate forse per un'altra oretta quando Rose si ricordò del cinese che aspettava in cucina.
“Oh, ma forse tu non hai molta fame, vero? Come ti senti?”
“Sai una cosa invece? Un cinese ora mi andrebbe proprio!” esclamai esaltata all'idea.
“Ah… okay... sei sicura?”
“Sì sì!” confermai mentre con una mano mi appoggiavo al lavandino per alzarmi.
Rose aiutò a reggermi mentre riprendevo possesso della vista in seguito a qualche secondo di buio e di giramento di testa, infine andammo in cucina dove aspettava la spesa da essere sistemata.
Mi offrii di dare una mano a metterla in ordine ma lei rifiutò.
“Tanto ci metto due secondi, poi mangiamo!”
Così restai seduta al tavolo della cucina, con la testa china sulla superficie leggermente fredda ad osservare con la coda dell'occhio i movimenti di Rose e a sentirla parlare.
E fu in quell'istante che lo vidi e ogni cosa perse l'attenzione che gli stavo dando… eccetto quel pacco viola, familiare, che era nel mio raggio visivo. Dovetti mettere a fuoco per accertarmi di cosa si trattasse e quando ne fui sicura un improvviso brivido freddo mi attraverso facendomi venire la pelle d'oca, un macigno si posizionò senza preavviso sul mio stomaco mentre un nodo stringeva la gola sempre di più.
Oh cazzo.
Quelli erano assorbenti e io... io non li usavo da più di un mese.
Oh.cazzo.





_____

Alzi la mano chi l'aveva immaginato u.u
Quelle che non si sono fatte i fatti loro e sono andate a leggere la censuratissima recensione di Cloe allo scorso capitolo, non contano u.u
Ahahaha bene, mi dileguo. Spero che vi sia piaciuto anche solo un quarto di qualsiasi altro capitolo mai scritto da me ahahaha E ci tenevo a ringraziarvi qui per il riscontro non solo al primo capitolo di questa storia (sebbene non fosse nulla di particolare), ma soprattutto all'epilogo di Broken Road.
Ogni vostra parola, anche le virgole, mi ha fatta commuovere in un modo che... non potete averne idea.
Grazie mille, di cuore! :')

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Capitolo 3
*** Sad eyes never lie ***


adito - cap 1

Wow, se vi è piaciuto il precedente capitolo, posso avere qualche speranza che questa storia non vi annoi troppo *-*
Quiiindi, volete farmi capire che non tutte avevano pensato che Bella potesse essere incinta? :o Devo dire che è stata una sorpresa perché, boh, io l'avevo dato per scontato .___. Ahaha, vabbè, detto da chi scrive la storia è abbastanza stupido, in effetti, ma davvero pensavo che l'avreste immaginato tutte, chissà perché poi xD Vabbè, meglio così hihi
Alcune di voi si sono chieste come sia possibile visto che, come precisato nel primo capitolo, dovrebbero aver usato una protezione xD Avete ragione a chiedervelo e non ho una risposta esatta, se non che, nella foga del momento, un errore (di qualsiasi tipo) può capitare... Ed è capitato proprio a questi due LOL
Certo, magari si può dire "Che cavolo, guarda caso... proprio a loro!" ma il punto delle storie è proprio questo, no? Raccontare una storia, una parte di vita, un pezzo di quello che succede nella vita di tanta gente; altrimenti, senza storia, cosa potremmo dire? :P Ragionamento contorto, ma assecondatemi u.u
Un paio di voi hanno anche citato il film 'Molto incinta' da cui, infatti, è nata l'idea (quando lo vidi qualche mese fa) e che non ho citato prima altrimenti si sarebbe capito il tema già dal primo capitolo xD
Mmm che altro dire...? Ah, ho deciso che ogni capitolo avrà un suo bannerino personale *-* Niente di che, giusto una piccola immagine, come questa sotto, che richiami un particolare del capitolo :)
In realtà,
illo tempore, feci anche la copertina vera e proprio, che poi non ho postato perchè non mi piaceva più un granchè; comunque se volete vederla, sarebbe questa - magari la rifarò in futuro ma nel frattempo mi diverto con i bannerini *-* Ahaha


Okay, ho finito.
Ci sentiamo in fondo ;)
Buona lettura *-*






Capitolo 3
 

Sad eyes never lie

 

“Cazzo, cazzo, cazzo!”
“Bella, calmati, per favore...”
“Come cazzo fai a dirmi di calmarmi?!” urlai, a un passo dalle lacrime. Mi tirai i capelli per la rabbia e la disperazione.
“Okay, ora basta, vieni a sederti.” Rose si alzò e mi venne dietro mettendo fino al mio vagare nervoso per la stanza, avanti e dietro.
“Rose, cazzo!”
“Bella, calmati. Ti prego. Stai saltando a conclusioni affrettate senza motivo. Riflettiamo un secondo. Quando hai avuto il ciclo l'ultima volta?”
“Il mese scorso ma erano piccolissime perdite... ho pensato fosse normale per lo stress…”
“E ora quanto ritardo hai?”
“Ma che ne so, non lo porto mai il conto!”
“Come non porti il conto?”
“Non ce n'era bisogno, cazzo. E poi sono sempre un po' irregolari ma mai così tanto! Cazzo, Rose! Non mi vengono da... almeno dieci giorni, non hanno mai fatto tanto ritardo!”
“Okay, Bella, ma il punto è che non è possibile. L'ultimo rapporto è stato...”
“Due mesi fa, lo sai” risposi, riportando a galla l'assurdo ricordo di quella serata.
“E hai detto che avete usato il preservativo, no?”
“Infatti! Cioè, che ne so... ero così ubriaca che non me lo ricordo nemmeno... magari era ubriaco anche lui e non è riuscito a metterselo o si è sfilato o si è rotto o...” chinai il viso tra le mani, singhiozzando senza lacrime.
Rose mi posò una mano sulla spalla.
“Eri nel tuo periodo fertile?”
“Che cazzo ne so, Rose!” scoppiai in lacrime avventandomi verbalmente contro di lei per sentirmi ancora più uno schifo due secondi dopo.
Per fortuna bastò un mio sguardo di scuse per far capire alla mia amica che non ero in me.
“Sssh...” disse semplicemente mentre io riprendevo a singhiozzare. “Senti, così non puoi stare ed è inutile farsi paranoie inutili. Se fai un test, sarai più tranquilla?”
Era una domanda facile ma la risposta era un cruccio che non potevo sopportare. Come potevo sapere se sarei stata più tranquilla?
Volevo sapere ma se avessi avuto una risposta che non volevo?
Non potevo davvero stare affrontando questo, non nel giro di pochi minuti.
Eppure dovevo avere una qualche risposta perché il dubbio mi avrebbe uccisa ancora di più.
Annuii con debolezza e lei disse un semplice: “Okay...”
Mi strinse in una coperta prima di uscire di casa promettendo di tornare subito, eppure a me parve un'eternità.
Un'eternità a fissare il televisore nero davanti a me eliminando ogni domanda e lasciando solo il vuoto attorno.
Non sentii nemmeno la porta quando Rose rientrò, da un secondo all'altro mi stava scuotendo le spalle per ridestarmi dal mio stato di trance.
“Allora, questo ti da direttamente la risposta. Non funziona con le tacche. Sì o no, e dice anche di quante settimane, approssimativamente almeno...”
Solo i discorsi mi davano la nausea e resero ancora più difficile far scendere quel tanto di pipì che bastava a darmi una risposta. Il mio corpo stava già reagendo male decidendo di non collaborare e mentre aspettavamo i pochi minuti necessari non potei fare a meno di pensare che fosse un segno.
“Manca poco...” sentii Rose sussurrare con voce flebile e mi resi conto che sembrava d'un tratto più in ansia e preoccupata di me.
Per qualche strano motivo mi ero calmata e ora mi sentivo quasi una stupida ad aver desiderato di fare il test.
L'ultimo rapporto che avevo avuto era stato due mesi fa ed era stato protetto.
O così credi tu...
E non avevo avuto alcun sintomo.
Fino a stamattina…
Il ciclo doveva essermi saltato per lo stress.
O forse no...
“Non ce la faccio!” urlai improvvisamente, chiudendo gli occhi e passando il bastoncino a Rose. “Ti prego, vedi tu. Io… non ce la faccio.”
La guardai con la coda dell'occhio mentre prendeva il bastoncino con reticenza come se toccandolo potesse modificarne la forma o qualunque cosa avrebbe rivelato.
Strinsi le labbra tremanti e la guardai mentre girava quel piccolo, minuscolo, pezzo di  plastica da cui sarebbe dipeso il mio futuro.
E la sua faccia fu più eloquente di qualsiasi o no o di qualsiasi tacca colorata.
“Non ci credo…” furono le uniche parole che mi uscirono di bocca mentre ogni parte del mio corpo si immergeva in un universo parallelo fatto di negazione: le gambe indietreggiavano, la testa si scuoteva da sola, le palpebre battevano senza sosta.
No, non era vero.
“Bella…”
“No… no, non è vero...”
“Bella…”
“Non può essere vero.”
La porta bloccò il mio tentativo di scappare e l'unica via di fuga che trovai fu scivolare su me stessa e accasciarmi sul pavimento mentre copiose lacrime presero a scendere sulle mie guance e i singhiozzi coprirono ogni rumore attorno a me.
Non sentii più nulla se non le braccia di Rose che mi circondarono, per tutta la notte.
Quando mi svegliai, sperai che tutto fosse stato solo un incubo ma le mani della mia amica che dolcemente mi carezzavano i capelli furono la conferma che non avevo sognato.
Mi strinsi a lei, nella buio della notte e, mentre mi cullava, continuai a piangere fino all'alba.
Quando aprii di nuovo gli occhi Rose si era addormentata e, sebbene volessi, non ebbi la forza di svegliarla cosciente del fatto che aveva passato tutta la notte sveglia solo per consolarmi.
Sgusciai piano dal letto e andai in bagno. Alzare il viso e guardarmi allo specchio si rivelò una pessima decisione. Avevo un aspetto orribile e qualcosa mi diceva che sarei andata sempre peggiorando nel tempo.
D'un tratto, ogni cosa aveva perso valore, come se non avessi realizzato quello che mi stava succedendo eppure avessi il bisogno di sentirmi così. Distrutta, abbandonata, vuota dentro.
Vuota, non piena.
C'ero solo io e il mio dolore che non aveva origine. Avevo il diritto di sentirmi così senza realizzare il perché. Ne avevo ancora il diritto prima di capire quanto la mia vita sarebbe cambiata.
“Hey…”
Con la coda dell'occhio vidi Rose sulla porta e non potei fare a meno di voltare lo sguardo verso di lei.
Stavo per piangere di nuovo e dovette accorgersene perché camminò verso di me.
“Vieni qui…” disse, accogliendo la mia silenziosa richiesta, e aprì le braccia per stringermi.
Non so quanto tempo restammo così, ma d'un tratto la luce entrava nel bagno sempre più forte e ci spostammo nella cucina totalmente illuminata.
Lanciai un'occhiata all'orologio per scoprire che erano le nove del mattino e.
“Rose, sono le nove.”
“Sì, lo so.”
“E non sei a lavoro...”
“Ho preso una giornata libera” mi informò mentre mi porgeva la mia solita tazza di caffè.
Ne avevo davvero bisogno.
“Rose, non dovevi…”
“Sì che dovevo. Non dire stupidaggini. E poi...” lasciò la frase a metà e sperai andasse avanti da sola perché di dubbi e cose a metà ne avevo già abbastanza.
“Poi pensavo che potrei accompagnarti a fare delle analisi, per essere sicure... se tu lo vuoi...”
Per un secondo solo una nuova prospettiva si aprì davanti a me: il test aveva sbagliato, le analisi sarebbero state giuste e, se non lo fossero state, allora appartenevano a qualcun altro.
E tutti vissero felici e contenti.
“Non voglio darti false speranze, Bella. Purtroppo test come questi sbagliano poche volte… ma…”
“Quante settimane?” chiesi, interrompendo il suo discorso.
“Cosa?”
“Quante… quante settimane indicava?”
“Sette-otto.”
Perfetto. Tutto coincideva, proprio come una bella equazione di matematica. Ecco cos'ero diventata: un'equazione matematica, fatta di calcoli e scadenze. Numeri, tanti numeri e ognuno al proprio posto, ognuno contro e dentro di me.
Mi passai una mano tra i capelli e chiusi gli occhi gettando la testa all'indietro desiderando ardentemente di riaprirli e trovare un’altra realtà; ovviamente non fu così.
“D'accordo...” acconsentii alla proposta di Rose, rendendomi conto che ormai avevo già perso molto e un’ulteriore conferma, seppure mi avrebbe distrutta, avrebbe aiutato la mia anima a trovare un po' di pace o forse a perderla per sempre.
 
“E ora aspettiamo...”
Rose cercava di mantenere il controllo ma riuscivo a notare come fosse tesa, eppure io dovevo esserlo decisamente più di lei. Mi prese per mano e, senza dire nulla, mi condusse fuori dall'ospedale. Ci sarebbero volute almeno tre ore per avere i risultati e Rose aveva chiesto alla sua collega il favore di farle uno squillo sul cellulare quando sarebbero stati pronti.
Così lei, ora, mi teneva per mano e insieme camminavamo per le strade di Los Angeles che l'ironia della sorte aveva affollato di una marea di donne incinte e bambini, ovviamente. Non riuscivo a guardare altrove se non a terra.
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Che hai intenzione di fare?”
Oh, Rose, lo sapevi che le analisi non sarebbero servite a nulla.
Lo sapevi prima e meglio di me.
“Non lo so…” chinai il capo, rallentando il passo. “Insomma… quali scelte ho? Cosa posso fare, Rose?”
“Tu... hai considerato anche... altre opzioni?”
La guardai per quei pochi secondi che bastarono a farmi sentire una vera merda e a vergognarmi di me stessa perché, per qualche minuto durante quella notte, ci avevo davvero pensato.
Lasciai la mano della mia amica e mi avviai verso il lungomare.
“Bella, non devi avere paura del mio giudizio. Io capirei perfettamente se tu decidessi di farlo.”
Non riuscivo a parlare, non riuscivo a risponderle. Troppe conversazioni la mia testa stava già facendo con me stessa; reggerne un'altra le era impossibile.
Giusto, sbagliato.
Vita, morte.
Corpo, anima.
Qual era la verità? Mi trovai a chiedermi di nuovo, come la notte precedente, nel momento di più totale sconforto.
Sospirai e poggiai un ginocchio al muretto e le mani sulla ringhiera, osservando l'Oceano Pacifico che si muoveva.
Un oceano di acqua.
Una goccia nell'oceano, come quella che viveva dentro di me.
Una piccola goccia di oceano venuta dal nulla, da una notte senza senso, da una sbronza cercata per ripicca.
Ma era sempre vita.
“Sì” risposi, infine, vergognandomi di me stessa. “L'ho considerato e non è un'opzione.”
Alzai il viso, fiera di me stessa. “Lo tengo.”
Non credevo possibile di stare davvero pronunciando quelle parole.
Un giorno prima stavo mentalmente mandando a fanculo il mio capo in tutte le lingue del mondo e ora… ora stavo mandando a fanculo me.
Grande, Bella, sei scesa così in basso che voglio proprio vedere come risali ora.
“Bella, mi dispiace tanto…”
Rose, afflitta e con le lacrime che le rigavano le guance, chinò il viso, piena di imbarazzo, come se nascondesse un inconfessabile segreto.
“Rose… cosa..?”
“È tutta colpa mia. Io ti ho trascinato a quella festa, io ti ho fatta bere, io ti ho lanciato in mezzo alla folla tra le braccia di Edward Cullen, io...”
“Rose, Rose! Basta!” la fermai prima che i sensi di colpa la uccidessero inutilmente.
“Guardami!” le ordinai con tono perentorio e, dato che quella in crisi dovevo essere io, non si permise il lusso di non obbedirmi.
“Non è stata colpa tua, capito?” iniziai quando fui sicura di avere la sua attenzione. “Sì, è vero, mi hai trascinata alla festa, ma perché l'hai fatto, Rose? Perché? Lo ricordi come stavo, vero? E secondo te perché dopo quella festa mi sono ripresa? Non è stata la notte di sesso che nemmeno ricordo ad avermi giovato. Tu mi hai portato a quella festa ma io ho visto Jacob tra le braccia di Jessica, io ho deciso che un solo bicchiere di vodka non era sufficiente per dimenticare, io sono tornata dentro e mi sono avvinghiata a Edward per vendetta. Io avrei potuto fermarmi e non l'ho fatto. Io ho capito troppo tardi che per Jacob Black non valeva la pena stare così male. E io sono… incinta, quindi ti prego, non sentirti in colpa per le conseguenze delle mie azioni, chiaro?”
Non sembrava convinta. “Ma, Bella, se...”
Stop! Non voglio più sentire questi discorsi. Tu non hai fatto altro che aiutarmi e ci sei riuscita, capito? Ti prego, Rose...” la supplicai, sentendo le lacrime già riempire i miei occhi. “Smettila di dire queste cose che mi fanno stare male. Ti prego, promettimi solo che... che starai con me... perché... perché da sola non posso farcela...” ero inevitabilmente e lentamente scoppiata in lacrime di nuovo, debole come mai in quel momento in cui avevo realizzato e piangevo non per me, ma per tutto. Tutto, ogni parte di me.
“Oh, Bella!”
La mia amica si aggiunse a me abbracciandomi più forte che poté. “Non ti lascerò da sola! Capito? Non ti lascerò mai da sola!”
E dovetti accontentarmi di quelle promesse per smettere di piangere solo due ore dopo quando arrivò lo squillo che aspettavamo.
Rose mi prese per mano, aiutandomi ad alzarmi e facendomi forza.
Ogni passo verso l'ospedale sembrava ancora più pesante della prima andata, forse perché stavolta ero consapevole che non ero sola.
Prendemmo le analisi e tornammo a casa. Ci sedemmo sul divanetto e posai la busta sul tavolino davanti a noi. La fissai per lungo tempo mentre il coraggio di aprirla oscillava sempre più. Chiedevo a Rose di farlo per me e un secondo dopo la bloccavo. Dovevo farlo io e infine mi decisi.
“Coraggio...” disse Rose mentre aprivo il contenuto e leggevo che...
Leggevo che non capivo un cazzo di quello che leggevo.
“È roba per te” lo passai a Rose e le bastò un'occhiata.
Mi guardò e annuì.
Bene, ora era davvero il momento delle domande.
“Rose, che faccio ora...? Che cazzo faccio ora? Il lavoro e la casa… e come… come lo pago un... un bambino…?”
“Tesoro, non pensare a tutto in questo momento, okay? Abbiamo ancora molti mesi per trovare soluzione ad ogni cosa, d'accordo?”
Annuii rincuorata unicamente dal plurale.
“Ma c'è una cosa che devi fare... L'unica cosa che devi fare subito.”
La guardai con aria interrogativa in cerca di risposte.
“Devi dirlo ad Edward.”
“Pfft...” scossi il capo quasi schifata da quella proposta.
“Devi farlo, Bella.”
“Non se ne importerà un cazzo visto che non si ricorderà nemmeno di me. Ti rendi conto che non sa nemmeno come mi chiamo? Io aspetto un figlio da lui e lui non sa nemmeno come mi chiamo.” Sentii la rabbia crescere. Il rancore, il risentimento, ma soprattutto rabbia, perché io ero lì a vivere un incubo e lui probabilmente non ricordava nemmeno il mio viso.
“Per questo devi dirglielo.”
“No!”
“Bella!”
“Rose, non mi crederebbe nemmeno o direbbe che non è suo!”
“No, Bella, non avrebbe senso. Perché dovresti fargli credere qualcosa che non è?”
Continuavo a scuotere il capo.
“Bella, lui è il padre e ha il diritto di sapere.”
“Non lo vorrà…”
La mia voce tremante mentre stringevo le labbra e fissavo le mie mani tormentate.
“Non puoi saperlo.”
“Lo so, invece...”
“D'accordo ma non puoi togliergli questo diritto. Un giorno tuo figlio ti chiederà chi è suo padre e tu cosa gli dirai? Che hai preferito che non sapesse nemmeno della sua esistenza? È questa l'importanza che vuoi dargli?”
Un'altra lacrima, l'ennesima nel giro di ventiquattro ore, mi solcò il viso.
“Rose, non lo vorrà e io... io non voglio sentirmi dire che dovrò fare tutto da sola...”
“Tesoro, ci sono io. E mi dispiace dirti queste cose ma tu devi farlo e io, come amica, devo consigliarti il meglio mentre tu non sei capace di decidere; al momento non vedi le cose chiaramente. Sei accecata dalla paura e dalla rabbia e lo so perché. Perché tu sei qui, incinta, e lui probabilmente ancora a letto con qualche zoccola, ma tu devi dirglielo; lui ti crederà perché gli occhi tristi non mentono mai e tu lo farai sentire una merda e un giorno, quando suo figlio chiederà di lui, potrai dirgli la verità. Potrai dirgli che era un gran bastardo perché vi ha abbandonati e, quando lui stesso ne sarà consapevole, non potrà tornare indietro ma non potrà rinfacciarti nulla.”
Rose aveva così ragione che fu impossibile per me inventare una qualsiasi scusa per tirarmi indietro… o forse una c'era.
“Non so come rintracciarlo”  dissi, ed era la verità.
“Ti diede un foglietto col suo numero, no?”
“Ma, Rose, è stato due mesi fa... non ricordo dove l'ho messo... non ricordo nemmeno se l'ho conservato. Non credevo che mi sarebbe servito, cazzo…”
“Bene, allora si cerca!”
Sospirai mentre lei si alzava e rovistava ovunque mettendo la casa sottosopra. Io non ne avevo la forza, né mentale né fisica, e lei sembrò capirlo perché non chiese il mio aiuto.
Continuai a sperare che quel pezzo di carta non uscisse mai fuori e ci stavo davvero credendo quando, ovviamente, lo trovò nei libri che ancora erano nelle scatole del trasloco.
Non potevo credere che era andata a controllare anche lì.
“Pronta?”
Avevo scelta?
Annuii, sospirando.
Lei compose il numero e mi passò il telefono. Dopo due squilli, in cui mi sembrò di sentire il vuoto sotto di me, partì la segreteria telefonica e mi resi conto di non aver nemmeno pensato a cosa dirgli.
-Se non rispondo è perché non voglio essere rotto il cazzo. Lasciate un messaggio in segreteria e se mi importa di voi vi richiamo. Byeeeeee!-
Venticinque parole furono capaci di farmi innervosire ancora di più.
“C’è la segreteria…”
“Lascia un messaggio.” Rose mi strinse la mano mentre partiva il segnale acustico.
“Ehm... ciao… Edward. Sono… Bella... ma giustamente tu non sai chi sono perché non ci siamo mai presentati per cui non sai il mio nome...Mmh… Sono la ragazza della festa… quella di fine anno, il 31 Luglio. E so che ti sembra strano e che forse nemmeno ti ricordi di me... in effetti non so nemmeno se sei ancora a Los Angeles, ma...”
“Heilà!”
Oh, cazzo. Aveva risposto. Oh, cazzo!
“Pronto...?”
“Sì...”
“Hey, bambolina, certo che mi ricordo di te. Non dimentico mai ragazze così carine.”
Ma porca puttana.
“Così ti chiami Bella, eh? Hai un bel nome.”
Io non rispondevo. Ero totalmente pietrificata.
Rose cercava di capire cosa succedeva e tappando la cornetta le dissi che aveva risposto.
“Ah...” fu la sua reazione.
“C'è nessuno?”
“Sì, sì...”
“Allora, il motivo di questa chiamata?”
“Ah, sì. Senti… Mi chiedevo se potessimo parlare di una cosa.”
“Certo, dimmi tutto.” Sorrisi ironicamente a quella disponibilità sapendo già che non ne avrei riscontrata altra.
“Ecco…” arrancai nelle parole. “So che ti sembra strano ma vorrei parlarne di persona.”
Dovette completamente fraintendere perché d'un tratto la sua voce sembrava più euforica, quasi eccitata.
“Ma certo, perché no?”
Ma perché no, cosa?
“Quando vogliamo vederci?”
“Il prima possibile... tipo oggi..?”
“Oh, d'accordo!”
“Alle sette al… Express Point...?” azzardai, agognando il momento in cui avrei attaccato la cornetta.
“Perfetto, a più tardi allora!” Di nuovo la punta di euforia.
“Sì ciao!”
Staccai velocemente la chiamata e sospirai. Spiegai velocemente lo scambio di battute senza tralasciare il fatto che potesse aver frainteso, ma Rose sembrava troppo ottimista per i miei gusti.
“Magari non è come credi tu, Bella. Magari... magari potrebbe anche sorprenderti...”
O magari no..
Era solo questione di scoprirlo e dovevo farlo.
 
“Sicura che non vuoi che ti accompagni?” chiese Rose per l'ennesima volta mentre mi scortava alla porta.
“Sì” risposi, quasi sicura. In fondo, un pomeriggio intero a cercare di mettere ordine nella mia testa prima che nella mia vita, doveva essere servito a qualcosa. Non potevo fare piani senza sapere l'esito di quello incontro e l'unica cosa che avevo capito era che, nel bene o nel male, dovevo farlo.
Presi coraggio e uscii di casa.
“Devo farlo da sola” sussurrai a me stessa, sperando che non diventasse il motto della mia vita.
Arrivai in perfetto orario ma ovviamente lui non era lì. Il solo pensiero mi mise addosso un'ansia incredibile, lui non era lì, non c'era in quel momento ed ero abbastanza sicura che non ci sarebbe mai stato.
Perché avrebbe dovuto? Perché avevo suo figlio in grembo?
Non erano problemi suoi, mi avrebbe detto. Non erano problemi... non per lui.
Non era la sua vita e il suo corpo che stavano per cambiare e sconvolgersi. Sapevo che avrei dovuto cercare di essere più ottimista eppure esserlo mi era impossibile e il senso di angoscia e solitudine non mi abbandonò per la mezz'ora che passai ad aspettarlo.
Di lui ancora niente.
Lo sapevo; non ci sarebbe mai stato. Mi chiesi perché avevo anche fatto un tentativo a chiamarlo.
Cacciai cinque dollari per pagare il mio cappuccino e li lasciai sul tavolo, intenzionata ad andare via, ma, proprio quando mi alzai, me lo trovai di fronte.
“Ciao” salutò, sorridendomi.
Io non riuscii a dire niente per qualche secondo persa nei suoi occhi. Non li ricordavo così… magnetici.
“Scusami tanto per il ritardo, c'era un incidente per strada.”
“Non… non preoccuparti...” riuscii a mormorare quando mi imposi di riprendermi.
Sorrise di nuovo dandomi un momentaneo senso di calma che mi tradì quando mi invitò a sedermi di nuovo.
Dio, mi tremavano tremendamente le mani e sperai solo che non lo notasse.
“Sono rimasto sorpreso dalla tua chiamata. Se ben ricordo non eri ben disposta ad altri incontri.”
“No, infatti” deglutii, abbassando lo sguardo mentre cercavo disperatamente il modo migliore per dargli una notizia del genere.
“Hai cambiato idea?” era in evidente sconcerto, come giusto che fosse.
“Non proprio…”
Un profondo sospiro.
“D'accordo... quindi siamo qui… perché…?”
“Sono incinta” dissi di getto, prima che la botta di coraggio scivolasse via.
Alzai lo sguardo e notai il suo, evidentemente sconcertato. Non capiva il nesso tra lui e il mio stato, ovviamente.
“Sei incinta...?”
“Sì” sospirai ancora.
“Capisco... e me lo stai dicendo perché...?”
“Perché è tuo” lo stroncai, improvvisamente irritata dal suo tono indifferente. Come poteva non capire? Perché credeva che glielo stessi dicendo se non era in qualche modo coinvolto?
Alzò le sopracciglia e sbarrò gli occhi come se gli avessi appena rivelato di essere un alieno.
“Cosa...?”
“Sì” confermai.
“Ma stai bene!?”
“Sì che sto bene!”
“Intendo, sicura di non avere qualche problema mentale? Non è possibile! Com'è successo?”
“Vuoi che ti faccia un disegnino? Perché non lo chiedi al tuo amico lì sotto com'è successo? Oppure chiedilo ai tuoi preservativi da quattro soldi, magari anche bucati!”
“Non è divertente.”
“Infatti non sto ridendo” dissi seria.
“Senti. Non lo so... so solo che non è possibile... Lo abbiamo fatto solo una volta, cazzo!”
“Evidentemente è bastato!”
“Ho usato il preservativo” ringhiò leggermente, avvicinandosi e parlando a bassa voce.
“Eppure deve essere andato storto qualcosa” risposi, imitando gesti e tono di voce.
Dio, quanto mi stavo irritando. Anzi, quanto ero già altamente irritata!
“Senti, prima di tutto: sei sicura?”
“Preferirei mangiarmi le unghie dei piedi piuttosto che stare qui, quindi...”
“Hai visto un medico?”
“Ho fatto il test.”
“Hai fatto un test?! Quei cosi non sono mai affidabili! Magari si è sbagliato...”
“Ho fatto anche le analisi: stesso risultato.” Ormai la mia voce era dura mentre il suo sguardo diventava sempre più esasperato. Si passò le mani tra i capelli in un gesto oltre il disperato.
“In ogni caso, non è detto che sia mio.”
“So con chi sono stata.”
“Avrai fatto male i calcoli.”
“No! Cazzo! No! Sono stata solo con te negli ultimi due mesi! Hai bisogno di un test del DNA per credermi?!” urlai, attirando più attenzione di quanta ne volessi.
Lo vidi scuotere il capo e portarsi una mano alla bocca come se potesse aiutarlo a pensare.
“È un incubo...” sussurrò, e io sprofondai.
“Credi che a me faccia piacere? Credi che volessi questo? Credi che per me invece sia un sogno che si avvera? Non sono solo i tuoi piani ad essere saltati!”
Ignorò totalmente il mio sfogo, senza nemmeno avere il fegato di guardarmi negli occhi.
“Non è possibile... una sola volta. Che cazzo!” ribadì lo stesso concetto più volte e fui costretta a chinare gli occhi per il mal di testa che tutta la situazione mi stava creando.
Abbassai il viso tra le mani mentre cercavo di cambiare le sue parole in modo che suonassero come avrei voluto, in modo che i suoi continui ‘non è possibile’ si trasformassero magicamente in ‘andrà tutto bene’.
Ma a che serviva illudermi così? Cosa mia spettavo? Esattamente questo.
Ma viverlo era decisamente diverso da immaginarlo semplicemente. Faceva male, faceva davvero male; più male del previsto ora che l'ansia, la paura e l'angoscia, che fino ad allora erano rimaste solo nella mia testa, erano palpabili e reali, come se potessi toccarle, come se creassero un velo tra le mani e il viso.
Mi resi conto che ero sola.
“Senti…” improvvisamente il suo tono sembrava calmo e rilassato come se avesse d'un tratto trovato la soluzione a tutto, soluzione che, con questi presupposti, non esisteva.
Restai col viso chino, abbandonando le mie illusioni e impegnandomi a non piangere, mentre ascoltavo quello che ancora aveva da dirmi.
“Io non voglio rovinare i miei piani e mi sembra di capire che tu non vuoi rovinare i tuoi, perciò non è scritto da nessuna parte che dobbiamo farlo...”
Fui costretta, nonostante il senso di nausea, ad alzare il viso. Dovevo guardarlo negli occhi mentre gli chiedevo che cosa mi stesse proponendo.
Non poteva averlo detto davvero.
Continuai a guardarlo negli occhi e lui ricambiava, attraversato da un filo di sollievo e di speranza.
“Che stai dicendo?” la voce mi tremava per la paura di quella risposta che già conoscevo.
“Sai cosa voglio dire...” abbassò la voce, consapevole di non stare proponendo qualcosa di cui andare fieri. “Sei ancora in tempo ed è senza dubbio la cosa migliore…”
“La cosa migliore per te!”
“La cosa migliore per entrambi!”
“Ma non per lui!”
“Andiamo! Non c'è nessun lui! Non si vede nemmeno su un monitor... Non si vede nemmeno…”
“Ma si vedrà!”
“Lo fanno in molte.”
“Io non sono molte!
“Cosa pensi che potremmo offrirgli?! È la cosa migliore anche per lui, credimi! Ci ringrazierebbe!”
“Tu sei pazzo... Io non lo ammazzo il mio bambino!”
“Non ammazzi niente! Non capisci?! A due mesi non c'è ancora niente!”
“Ma che cazzo stai dicendo?”
“Potrei anche accompagnarti se vuoi. Ti sarei vicino, ti terrei la mano…”
“Oh mio Dio…” sillabai, schifata. Dovevo vomitare. “Non posso credere che me lo stia chiedendo davvero…”
“Sto valutando le opzioni.”
“No! Tu stai valutando solo quella che ti fa comodo! Mi accompagneresti ad abortire ma non a fare un'ecografia! Parli dei tuoi piani rovinati ma non ce li hai nemmeno, dei piani per il tuo futuro, a meno che questi non includano cambiare una ragazza a settimana!” Deglutii forte e rimandai giù il vomito che mi era salito.
Ancora una volta mi ignorò completamente. “Senti, mi dispiace, ma io non sono pronto. Te ne rendi conto? La mia soluzione l'ho data.”
“E non è una soluzione. È solo scappare e uccidere una vita. Secondo te io sono pronta? Secondo te volevo questo?”
Non rispose per un po' e chinai il viso, desiderando solo di sprofondare nel baratro che si era aperto sotto di me e sparire dalla faccia della terra; tornare bambina, tornare a quella sera di due mesi fa e cambiare tutto.
Se solo avessi bevuto un bicchiere di meno…
Se solo non avessi visto Jacob…
Se solo lui non si fosse trovato a due passi da me in quel momento…
Se, se, se...
“Mi dispiace, Bella...” riprese dopo un po', chiamandomi per nome per la prima volta. “Io, quello che dovevo fare, l'ho fatto. Non è colpa mia... non... non sono problemi miei. Non possono esserlo…”
Ed eccola! A capolinea giungeva la frase che mi ero aspettata dall'inizio e che metteva fine a ogni mia più piccola speranza e dava un'epica conclusione a quella discussione inutile e scontata.
Non so dove presi la forza di alzarmi, sapevo solo che non volevo dargli la soddisfazione che fosse lui a farlo per andare via e lasciarmi lì.
“Va bene, Edward” sottolineai il suo nome. “Non importa. Ce la caveremo anche senza di te. Scusa se ti ho rubato venti minuti della tua preziosissima vita. Auguri per il tuo futuro.”
Mi voltai senza nemmeno osservare la sua espressione e, quando girai l'angolo, la forza che avevo ostentato mi abbandonò definitivamente e mi trovai a vomitare sul marciapiede il cappuccino di poco prima.
La gente non si fermava, tutti indaffarati nelle proprie cose. Nessuno aveva tempo per una povera ragazza sola e incinta.
Quando mi ripresi, mi pulii con un fazzoletto ed entrai nel primo taxi disponibile cercando, per tutto il tragitto, di cacciare in dentro le lacrime. Chiusi gli occhi per evitare che fuoriuscissero, li strinsi così forte da farmi male.
Quando entrai in casa, Rose era già sulla porta, pronta ad accogliermi, ma non ebbi il coraggio di guardarla in faccia.
“Allora, com'è andata?” La sua voce piena di preoccupazione mista ad una punta di eccitazione.
Alzai il viso e i miei occhi colmi di lacrime chiedevano solo sollievo; li lasciai fare. Mi buttai tra le braccia di Rose e scoppiai a piangere, forte, così forte che non riuscivo ad avere respiro tra un singhiozzo e un altro.
“Tesoro...” sentii a stento la voce incrinata di Rose e mi lasciai trascinare sul divano.
Continuai a piangere per molto tempo, per ore, senza sosta, lasciandomi cullare dalla carezze della mia amica e dalle sue parole che cercavano di darmi conforto; quelle parole che avrebbero probabilmente fermato le mie lacrime se a dirle fosse stato qualcun altro.
“Andrà tutto bene, tesoro. Ci sono io con te... Ci sono io...”
Piansi, piansi, e piansi mentre pensavo…
Quanto vorrei che fosse abbastanza.





_____

Il titolo di questo capitolo richiama un canzone di Bruce Springsteen che non ho linkato all'inizio perchè non ci stava bene col capitolo, ma se volete ascoltarla, si chiama 'Sad eyes'.
Nell'intro del primo capitolo avevo detto che, con questa ff, mi sarei buttata su qualcosa di meno pesante e complicato; ciò non toglie che questo sia comunque un argomento molto delicato e cercherò di trattarlo al meglio, dandogli il giusto peso.

Io, personalmente, sono contro l'aborto (se non in casi proprio, ma proprio, estremi - mi riferisco a malattie, malformazioni, ecc. E non perchè sia dura per un genitore crescere un figlio così, ma semplicemente per evitare che restino soli una volta che le persone care sono andate via);
ovvio che poi quelli di 'giusto e sbagliato' sono concetti molto relativi e soggettivi, in questi casi, ed è un discorso tanto complicato, di cui non può discutersi in quattro righe di note di fine capitolo di una ff.
Volevo solo dirvi che ci tengo molto a questo tema, e non voglio prenderlo alla leggera, perché è una cosa seria.
Okay, chiarito questo, che altro posso dirvi? Solo grazie con tutto il cuore per l'affetto che state dimostrando per questa storia già dai primi capitoli, e sono onesta quando dico che non me lo sarei  m a i  aspettato, davvero.
Quindi sì, grazie *-*
Aaaah, mi sdebito con un linka-ff, va'.
Anche se, quasi sicuramente, conoscerete già queste storie LOL
 

    'Beautiful Mess' di itsrox_  - (una e/b appena nata, ma quella ragazza è un genio, quindi...)

    'La voce del silenzio.' di Riy Stewart - (altro genio qui, da leggere assolutamente!)

    '-Protect me from what I want.' di CarliParalyzed - (vabbé, sfido a trovare qualcuno che non la conosca già. E manca solo l'epilogo... *depression mode on*)  + 'True love waits.' - (nata da circa 20 minuti xD ahaha)

Ci sentiamo tra un paio di settimane :) Prima del 10 Marzo, sicuramente :)
Grazie in anticipo per visite ed eventuali commenti *-*
Vi adoro! *-*
Fio xx

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Capitolo 4
*** Any place is better ***


adito - cap 1

Buonasera, girls! :)
Come va? *-* Prima di tutto, Buona Festa della Donna a tutte xD Dubito che ci siano maschi qui in giro quindi... viva noi u.u Avete ricevuto mimose? Bah, io solo da un mio amico che si è presentato sotto casa con un mazzetto di mimose e... il dvd di Breaking Dawn .____. Ahahaha povero, non poteva certo sapere che ce l'avevo già :') Ovviamente ho omesso tale particolare xD ahahaha
Cooomunque, veniamo a noi.
Capitolo che non so come definire. Mi direte voi, spero xD

Vi lascio alla lettura, ci sentiamo sotto :)

Aaaaaah, io ho riletto il capitolo con questa canzone.
Ci sta bene ed è stupendamente triste, quindi... boh, leggetelo con quella in sottofondo se vi va :)






Capitolo 4
 

Any place is better

 

Erano passati tre giorni e le sue parole ancora echeggiavano nella mia mente che lottava con il cuore per capire cosa fare e trovare la scelta migliore.
Avevo stabilito che non lo avrei buttato via come un sacco della spazzatura. La sola idea che potesse diventare un mucchio di molecole sul fondo di un cestino di una sala d’ospedale mi faceva rabbrividire, ma c’erano così tante cose sbagliate, cose che non sapevo come sarebbero andate, cose che non potevo sapere e avevo paura di scoprire.
Guardai dentro la mia tazza di camomilla e poi l’orologio della cucina che segnava le sei del mattino.
Era solo il primo giorno, uno dei tanti che sarebbero iniziati così. Altri sette lunghi mesi, la possibilità di passare una vita intera a chiedermi come sarebbe andata se avessi preso una decisione invece di un’altra.
Sospirai e tornai a fissare il liquido ormai freddo, come me.
Non sapevo più chi ero, non sapevo cosa fare, non sapevo come fare. L’unica cosa di cui ero certa era quella vita che cresceva dentro di me mentre un’altra vita non se ne accorgeva nemmeno. Doveva essere cresciuto, anche in quei tre giorni, e lui non lo avrebbe mai saputo, non gli sarebbe mai importato, non lo avrebbe mai voluto perché non era un problema suo.
Mi sentii improvvisamente sola, sola con il mio bambino ignaro del mondo in cui sarebbe nato, ignaro di dover crescere senza un padre.
“Ce la faremo, piccolino…” sussurrai a me stessa, tenendomi la pancia. “Ce la faremo anche senza un papà…”. Non potei fermare una lacrima che scese rapida e sonora dentro la tazza, un’altra goccia che si fondeva col mare, proprio come il mio bambino si fondeva con me ogni giorno di più.
“Bella…”
Alzai il viso di scatto alla voce di Rosalie che, in vestaglia, mi guardava curiosa e poi preoccupata quando vide che mi asciugavo velocemente le lacrime con i palmi delle mani.
“Hey, tesoro…” disse, raggiungendomi subito e sedendosi accanto a me.
“Va tutto bene” la rassicurai prima che potesse dire altro e farmi scoppiare a piangere definitivamente.
Forse ne avrei avuto bisogno, ancora, ma non oggi. Sapevo che se avessi iniziato non avrei più smesso e non potevo permettermelo.
“Che ci fai già in piedi?” mi chiese, premurosa, carezzandomi i capelli.
“Non riuscivo a dormire” risposi, evitando di sottolineare il fatto che in realtà non avevo dormito per niente.
Non le occorse molto per capirlo da sola, però, visto che avevo addosso gli stessi vestiti della sera prima.
“Bella, devi cercare di riposare. Dormire. Tutto questo non fa bene al bambino…”
Storsi la bocca e mi morsi le labbra a quelle parole, come se parlarne fosse del tutto normale.
“Mi dispiace…” sussurrò la mia amica subito dopo. “Non, non volevo… Non vorrei mettere sempre in mezzo l’argomento…”
“L’argomento è sempre in mezzo, Rose. Non preoccuparti…”
“Già… e mi sembra di aver capito che tu non voglia che gli accada nulla, no?”
Domandò, alludendo alla ormai passata discussione sulla possibilità di abortire, che non avevo nemmeno minimamente considerato, nemmeno per un secondo.
“Infatti.” Annuii sicura almeno di quella cosa.
Bene, ora avevo due certezze: ero incinta e non volevo che nulla accadesse al mio bambino.
La parte difficile era il contorno, tutto ciò che circondava queste due uniche certezze.
Come avrei fatto con il lavoro? Come lo avrei mantenuto con entrate precarie? Avrei continuato a vivere lì?
“Quando lo dirai ai tuoi?”
Rosalie terminò i miei pensieri con un altro grande punto interrogativo degli ultimi giorni.
“Non lo so…” scossi il capo confusa e già stanca di tutto. “Non ora.” Decisi, sicura di un’altra cosa. Facevo progressi.
Non potevo chiedere qualche giorno di permesso la prima settimana di lavoro né potevo semplicemente chiamarli o mandare loro una email: Ciao, qui tutto bene. Voi? Ah a proposito, sono incinta. Ciao.
Di chi, poi… Non di un ragazzo che lo volesse.
Immaginavo già la faccia delusa di mia madre e quella piena di compassione di mio padre. No, non avrei potuto sopportare anche quello al momento.
“Prima o poi dovrai dirglielo…”
“Più poi che prima, Rose. Non posso permettermi una visita, ora.”
“Ma prima o poi si inizierà a vedere. Non vorrai tenerglielo nascosto fino a Natale quando andrai da loro.”
“Ecco, questa sì che è una grande idea.” E non ero ironica nell’affermarlo.
Un problema in meno, almeno per il momento.
“Bella!”
“Rose, se lo sanno ora o tra tre mesi non cambia le cose.”
In risposta si limitò a sospirare e ad assecondarmi.
“D’accordo allora, posto che i tuoi genitori non sono un problema al momento… Qual è la cosa che ti turba di più?”
Come potevo rispondere a una domanda del genere se non: tutto?
“Bè vediamo. Ho ventiquattro anni, mi sono appena laureata in una disciplina che, se non hai culo, ti sbatte in mezzo a una strada. Sono incinta ma il padre di mio figlio non lo vuole. Lavoro in un pub per arrotondare qualcosa di più e, come se non bastasse, ora devo anche pensare a risparmiare per mandare mio figlio al collage. Certo, sempre ammesso che ci arrivi al collage visto che, ciliegina sulla torta, non ho la minima idea di come si faccia a crescere un bambino. Direi che, al momento, mi turba un po’ tutto, Rose.” Chinai il capo e tornai a fissare sempre quel liquido giallo che iniziava a darmi la nausea.
“D’accordo, ora ti dico come la vedo io. Hai ventiquattro anni, ti sei appena laureata per fare qualcosa che ami e sei così piena di talento che non finirai in mezzo a una strada ma nei titoli di coda di qualche film o su qualche cartellone pubblicitario o su qualche rivista famosa. Sei incinta ma il padre di tuo figlio potrebbe sempre cambiare idea. Nel frattempo sei incinta solo per te stessa e per il tuo bambino che crescerà con una madre forte e meravigliosa. Hai una vita dentro di te, Bella. Cerca di pensare al significato di questa cosa, cerca di pensare a quante donne vorrebbero provare una cosa simile e non possono. E lo so che la tua condizione non è delle migliori ma hai me, hai i tuoi genitori, e hai il tuo bambino. Hai sempre qualcuno con te d’ora in poi e vedrai che, quando lo prenderai in braccio la prima volta, non ti importerà di non sapere cosa fare perché ti basterà vederlo per capire di essere felice e di poter affrontare qualsiasi cosa.”
Rose mi guardò e sorrise sincera mentre io sentivo di voler scoppiare di nuovo in lacrime. Prima che lo facessi, mi buttai tra le sue braccia che mi invogliavano a sfogarmi ancora e ancora. Non importava che tra meno di due ore avrei dovuto essere pronta, asciutta e forte.
Ora volevo piangere e avrei pianto.
Rosalie mi stette vicina finché mi calmai del tutto, mi preparò la colazione e, insieme, uscimmo di casa.
Mi avrebbe dato un passaggio quella mattina e, a detta sua, ogni altra mattina perché non le piaceva l'idea che prendessi la metropolitana così spesso in una sola giornata.
Tremai quasi di terrore quando si fermò davanti lo spiazzo dove l'imponente grattacielo recante la scritta Newtons Design dominava l'aria attorno.
“Hey, sei tranquilla vero?”
“Non proprio...” ammisi, guardando fuori dal finestrino e considerando l'idea di tornare a casa e passare la giornata a vedere film deprimenti sotto le coperte.
Ma mai come ora non avrei potuto farlo. Quel lavoro era una manna dal cielo, una possibilità che non potevo rifiutare e che non potevo permettermi di perdere.
“Bella, sei una forza della natura. Vai lì e affronta la strega. Vedrai che ne varrà la pena!”
“Sì, bè, non è che ho molta scelta...” risposi con un sospiro.
“Andrà bene, vedrai. E se dovesse essere insostenibile puoi sempre licenziarti, no?”
“Devo avere un lavoro prima di potermi licenziare, Rose.”
“Bè, lo avrai tra poco” sorrise, stringendomi una mano.
“Andrà bene” ripeté e cercai di crederle.
“Speriamo...”
“Okay, allora... Io ho quel seminario a Sacramento ma per le sette sono al pub. Hai detto a Eric che hai bisogno di staccare mezz'ora prima, vero?”
“Sì, gliel'ho detto. Non ci sono problemi.”
E avrei quasi preferito che mi avesse detto di no perché da quella sera tutto sarebbe diventato ancora più reale. Potevo solo ringraziare di avere Rosalie con me.
“Perfetto. Allora ci vediamo alle sette. Non vedo l'ora, tesoro.”
Beata te, Rose.
“Sì...” sussurrai semplicemente prima di allungarmi a darle un bacio sulla guancia. “A più tardi allora!” dissi, scendendo dalla macchina e vedendola allontanarsi, lasciarmi ad affrontare la struttura da sola.
Entrai in punta di piedi quasi aspettandomi di trovare i miei compagni di stage ma invece quel posto era così diverso ora.
Era tutto molto frenetico, sembrava una redazione come di quelle che si vedono nei retroscena dei film.
Avanzai lentamente reggendo la mia borsa che conteneva solo il mio magro panino e il blocco di foto e disegni che portavo sempre con me. Mi guardai attorno cercando di vedere qualche faccia nota ma non ne incontrai nessuna. Dov'era finita tutta la gente che aveva lavorato allo stage estivo?
Iniziai quasi a pensare di aver sbagliato struttura e che esistesse un palazzo gemello quando la voce della strega rimbombò per tutto l'atrio.
“Swan!” disse semplicemente ma l'eco lo fece arrivare alle mie orecchie quasi come un rimprovero. Il primo minuto del primo giorno. “Sei in anticipo.”
Siria iniziò ad avvicinarsi a me e io non sapevo che fare.
Dovevo darle la mano? Farle l'inchino?
No, okay... quello sarebbe stato troppo.
Decisi di non fare niente.
“Posso... posso tornare dopo se vuole...”
Avrei fatto meglio anche a non dire niente; almeno mi sarei evitata lo sguardo-da-superiore che era sempre stato il suo punto forte.
“Dov'è il mio caffè?” chiese subito dopo.
Io rimasi senza parole. “Io... io... non... non sapevo che...”
“Riprendi questa abitudine da domani.”
Ero con lei da appena due minuti e già sentivo l'urgenza di scappare a gambe levate. Evitai ogni movimento brusco e ogni gesto che potesse farle notare la mia irritazione.
“Seguimi” disse quando io ebbi annuito ai suoi comandi.
Passammo davanti diverse stanze, alcune chiuse altre aperte. La maggior parte dell'edificio era costruito con vetri che lasciavano libera visuale tra una sala e un'altra, questo non valeva, ovviamente, per il suo ufficio.
Sedette alla sua poltrona e mi invitò a sedere di fronte a lei.
“Allora, Isabella.”
Wow, non sapevo che sapesse il mio nome.
“Vuoi davvero lavorare qui?”
Perché mi stava facendo una domanda del genere?
“Sì...” risposi semplicemente.
“Perché? Cosa speri di ottenere da questo lavoro?”
Che cazzo di domande, pensai.
“Non lo so ancora, per questo sono qui. Apprezzo molto il suo lavoro e penso e spero di poter imparare qualcosa. Qualsiasi cosa è sempre qualcosa in più...”
Iniziò a scrutarmi attentamente per diversi secondi prima di passare alla prossima domanda.
“Quale sarebbe la tua ispirazione? Insomma, cosa vuoi fare?”
Da grande? Stavo per chiederla ma poi mi resi conto di avere ventiquattro anni e non dieci.
“Bè... se devo essere sincera non lo so bene. So che amo l'arte. Qualsiasi forma d'arte. Ehm... mi piace disegnare, me la cavo nel video editing ma... vorrei diventare fotografa professionista” dissi in tutta onestà consapevole del fatto che quel lavoro non mi avrebbe aiutato poi così tanto la mia ambizione senza un bel colpo di fortuna. Intanto restavo a contatto con il design e col mondo della moda, anche se questo mi interessava decisamente meno. Era pur sempre qualcosa.
“Bene. Lavorerai dal lunedì al venerdì, dalle nove all'una e trenta. Se sarà il caso, e a mia personale discrezione, deciderò se farti entrare nel team e quindi lavorare anche il pomeriggio. Il lavoro è retribuito, ovviamente. La paga è di quattrocento dollari mensili. Non dovrai firmare nessun contratto fino a decisione definitiva, come dicevo prima.” Si fermò per qualche secondo e mi osservò mentre nella mia testa andavano avanti solo una serie di calcoli.
Quattrocento dollari sommati ai trecento del pub, erano settecento dollari al mese e sarebbero stati tanti fino a qualche giorno fa, quando avevo solo me a cui pensare.
“Non sarà facile, Isabella.”
Perché ogni volta che diceva il mio nome suonava tanto come un insulto?
“Sono pronta a tutto” risposi, pentendomi subito delle mie parole ma consapevole anche di non poter assolutamente rifiutare un'offerta del genere.
“Perfetto!” esclamò priva di qualsiasi emozione per poi chiedere alla sua segretaria di far salire Stacey.
Dopo soli due minuti, la donna, che doveva avere circa una quarantina d'anni, chiese il permesso di entrare. Fummo presentate velocemente e subito spedite fuori dal regno del maligno.
“Lei ti mostrerà tutto” disse Siria, invitandomi ad alzarmi e ad uscire dall'ufficio.
“Ah, Isabella. Cerca di vestirti in modo decente. Ci teniamo all'immagine.”
E prima ancora che potessi elaborare le sue parole mi aveva già guardato con aria schifata e sbattuto la porta in faccia.
Osservai il mio look: jeans e maglietta bianca, semplice.
Osservai quello di Stacey: un tailleur.
Non avrei mai potuto pensare di indossarne uno anche perché non ne avevo né avevo in progetto di comprarne uno presto. Mi sarei inventata qualcosa con l'aiuto di Rose.
Stacey avrebbe dovuto farmi fare un giro veloce dell'edificio e mostrarmi quello che avrei dovuto fare. Non parlammo molto. Non vedevo l'ora di scoprire quale compito mi sarebbe stato affidato. Magari collaborare a qualche progetto, presentare idee e spunti, elaborare bozze.
Quando raggiungemmo uno dei piani più bassi e una delle stanze più incasinate della struttura, mi sentii quasi morire.
“Cos'è questo posto?” chiesi a Stacey mentre camminavamo lentamente tra la polvere.
“Questo è l'archivio e, da oggi, sarà la tua casa per un po'.”
“Cioè? Cosa dovrei fare?”
Stacey si limitò a indicarmi lo sgabuzzino da cui potevo benissimo intravedere mazze da scopa, palette e un mucchio di pezze.
“Va pulito e riordinato. Quando avrai finito dovrai ricalcare le misure di ogni progetto o riscriverle se ce ne sarà bisogno. Dietro l'angolo deve esserci un tavolo da lavoro bello grande e attrezzato. Dopo di che si dovranno trasferire i dati sul computer.”
Sentii la forza mancarmi.
“Ma... ma ci metterò una vita...”
“Sarà meglio che cominci subito, allora.”
“L'umanità è un optional in questo posto...”
Mi resi conto di averlo detto ad alta voce quando Stacey, che stava per andare via, si voltò e mi chiese cosa avessi detto.
“Niente...” sussurrai, indifferente.
“Senti... Non voglio spaventarti ma qui funziona così. Se questo clima non ti va bene non avresti dovuto accettare il lavoro o dovresti lasciarlo.”
Sfidai i suoi occhi che, tuttavia, non erano arrabbiati. Solo rassegnati.
“Non voglio andare via” dissi, sincera. “Ma sembra che essere freddi qui sia una regola.”
“Lo è, infatti. Hai visto lei, no? Hai visto dov'è arrivata. E ha fatto tutto da sola.”
Il ragionamento non mi convinceva totalmente ma lo lasciai cadere quando Stacey mi sorrise e mi strinse di nuovo la mano.
“Scusami se ti sono sembrata brusca ma qui siamo abituati così...” disse, scusandosi, e non potei non ricambiare un sorriso.
“Non importa” scrollai le spalle sperando che potesse essere l'inizio di un rapporto civile e non freddo.
“Mi spiace che ti abbia sbattuto qui.”
“Fa nulla” risposi seccata.
Perché tutte quelle parole buone per me e quella voglia di avermi nella sua squadra per poi relegarmi a ripulire e riordinare un archivio?
“Io sono solo a un piano sopra. Se hai bisogno di qualcosa, chiedi pure.”
Oh, wow, un po' di gentilezza. Forse avevo giudicato troppo in fretta ma non potevo essere biasimata date le circostanze.
La ringraziai e rimasi sola. Tra la polvere e il casino che governavano la stanza enorme.
Mi ci sarebbe voluto più di un giorno solo per ripulirla. Forse nel giro di due settimane sarei riuscita ad ultimare tutto il lavoro.
Per qualche secondo mi colse lo sconforto ma ormai c'era qualcosa in me che mi ricordava che non potevo più lasciarmi abbattere.
Mi carezzai la pancia solo per qualche secondo, sentendomi stupida ma carica allo stesso tempo, come se il bambino mi desse energie invece di toglierle. Come se fosse la mia forza. Dovevo essere forte per lui.
Voleva che pulissi e riordinassi quel posto? Perfetto. L o avrei fatto e lo avrei fatto così bene da poterle servire il cibo su ognuno degli scaffali lì sotto.
Presi un profondo respiro, aprii le piccole finestre per lasciare entrare aria pulita e mi misi al lavoro cosciente del fatto che se mai avessi iniziato non avrei mai finito.
Restai così impegnata nel pulire ogni angolo della grande stanza che dimenticai persino di guardare l'ora. Alle due ero ancora lì e avrei dovuto mangiare il panino in metropolitana per arrivare al pub entro le tre ma almeno avevo finito.
In cinque ore ero riuscita a rendere quel posto quanto meno vivibile e ora sembrava già che potesse respirarsi aria pulita. Certo, non pulita come la ventata che ebbi quando salii le scale.
Non sapevo se dover avvisare quando andavo via. Cercai Stacey o Siria ma non trovai nessuna delle due in giro. Pensai che fossero a pranzo e che, in ogni caso, sarebbe stato inutile visto che avrei dovuto finire già da mezz’ora. Se si fossero chieste che fine avessi fatto sarebbero venute almeno a controllare.
Uscii dall'edificio e corsi alla stazione della metropolitana ma il mio treno era appena passato e avrei dovuto aspettare dieci minuti per il prossimo. Ne approfittai per mangiare il mio panino al tonno sperando che non mi causasse spiacevoli conati di vomito. Forse avrei dovuto scegliere qualcosa di più leggero, prosciutto cotto magari.
Dopo mezz'ora in metropolitana e due cambi di linea necessari per arrivare dall'altra parte della città, arrivai al pub con appena cinque minuti di anticipo.
Salutai Eric che aveva appena attaccato e andai nel retro per cambiare la maglia.
“Tutto bene?” chiese lui quando mi vide un po' sconvolta.
“Sì, ho solo fatto le corse... Ho iniziato un nuovo lavoro stamattina...” gli spiegai.
“Sì, me lo avevi detto. Allora? Ti piace?”
“Mmm...” mugugnai dubbiosa. “Preferisco non pronunciarmi al momento. Credimi. Potrei essere scurrile.”
Eric rise. Dopo miei estenuanti sfoghi di Agosto aveva quasi imparato a conoscere ogni lato di Siria e ad odiarla come la odiavo io.
“Hey, senti, siamo ancora d'accordo per stasera, no? Per il turno? Cioè sei sicuro di potermi coprire l'ultima mezz'ora?”
“Tranquilla” annuì lui, sicuro. Ammettevo che forse mi stavo approfittando della sua gentilezza dettata, probabilmente, da qualche speranza che nutriva nei miei confronti. Mi sentii in colpa per qualche secondo ma poi pensai che fosse per una giusta causa.
“Hai un appuntamento?” mi chiese lui dopo un po'.
Perché non entrava nessuno al pub a salvarmi dalla conversazione? Era strano che fosse ancora tutto così lento.
“Sì, cioè no. Non... non un appuntamento con qualcuno, figurati.” Non mi sarei mai permessa di chiedergli un favore simile. “Ho una visita” dissi, infine, restando sul vago e , per fortuna, lui si limitò ad annuire e non chiedere altro.
“Spero nulla di grave...” disse semplicemente e io lo tranquillizzai con una pacca sulla spalla.
“Niente di grave” confermai. Solo qualcosa di grande, pensai tra me e me.
Proprio in quel momento il locale iniziò a riempirsi dei ragazzi che uscivano da scuola e non avemmo un minuto libero fino alle sei quando gli uomini, usciti dal lavoro, venivano a bere una birra prima di tornare a casa.
Il locale era davvero pieno e mi sentivo quasi in colpa a dover lasciare Eric e Nicole da soli ma non potevo fare altrimenti.
Alle sette mi cambiai di nuovo e presi il cellulare, intenzionata a chiamare Rose per chiederle dove fosse ma Eric mi venne a chiamare per un ultimo aiuto.
“Scusa, Bella. So che devi andare ma è appena entrato un gruppo. Puoi servire solo loro?”
L'aria frenetica e la consapevolezza che già gli stavo chiedendo un bel favore non mi permisero di rifiutare anche se avrei tardato di una decina di minuti.
“Sì, certo!”
Evitai di rimettere la maglietta, ovviamente, e presi il taccuino.
“Quel tavolo lì!” mi disse, indicando un gruppo di ragazzi che si stavano sedendo e pensai di stare immaginando quando vidi lui tra di loro.
Non può essere, pensai tra me e me mentre mi rigiravo il block-notes tra le mani.
Eppure era lui, con i suoi amici, con una ragazza, con la sua vita.
Perfetto. Pensavo che la giornata non potesse peggiorare e invece si può cadere sempre più in basso.
Presi un profondo respiro e andai al loro tavolo.
“Volete ordinare?” dissi alzando il viso ed evitando, di proposito, di guardare lui. Eppure era l'ultimo seduto, quello più vicino a me e potei sentire i suoi occhi sorpresi quando si alzarono e si posarono su di me.
“Mmm... non lo so... Non so cosa prendere” disse un ragazzo, studiando ancora il menu. Di regola avrei dovuto chiedere se volevano altri due minuti per pensarci ma io non avevo altri due minuti, soprattutto non per loro.
“Avete della torta?” mi chiese un altro.
“C'è la torta di pesche. Ma non lo so se è fatta con le pesche...”
Non esattamente quella che si direbbe buona pubblicità per il locale ma la vicinanza di Edward mi rendeva automaticamente acida. Ero lì, a servire a lui e ai suoi amici mentre suo figlio cresceva dentro di me. Non potevo fare altro che pensarci mentre aspettavo, sempre più impaziente, le loro ordinazioni.
Prima che riuscissi a impedirlo, lanciai un'occhiata a Edward sperando che non se ne accorgesse. Seppure l'avessi guardato per un solo secondo avevo percepito lo sguardo serio e il nervosismo che cercava di sfogare tamburellando le mani sul tavolo. Non mi risparmiai nemmeno un'occhiata alla ragazza che era seduta accanto a lui. Capelli neri, carnagione scura, occhi chiari. Ovvia.
Alla fine ordinarono pezzi di torta e birra. Non proprio un'accoppiata felice ma... contenti loro.
“Per me un'acqua Tau” disse lei, portandomi ad alzare lo sguardo confusa.
“Scusami?”
“Un'acqua Tau” ripeté con aria accigliata e superficiale.
“Scusa, qui abbiamo solo l'acqua normale” la fulminai con lo sguardo cercando di ricordare che il cliente ha sempre ragione, ma con lei era difficile. La odiavo senza nemmeno conoscerla.
“Oh, allora una soda.”
Storsi la bocca a presi un respiro mentre mi voltavo verso di lui.
“Tu?” fui costretta a chiedere.
“Cosa?” disse, preso alla sprovvista, e i nostri sguardi si incontrarono.
Dio, se i miei occhi avessero sputato fuoco sarebbe stato incenerito, non potevo farne a meno.
“Cosa vuoi?”
Il solo pensiero che avevo baciato quel ragazzo, che ci avevo fatto sesso, mi diede la nausea.
“Niente, grazie...”
Non ricambiai nemmeno il suo sguardo.
“Torno subito” dissi prima di raccogliere velocemente i menu e tornare dietro il bancone.
Riempii i bicchieri di birra e, quando mi girai, non potei fare a meno di vedere che Edward si era alzato e stava venendo verso di me.
Lo ignorai e disposi le birre sul vassoio.
“Come stai?” mi chiese portandosi, dall'altro lato del bancone, di fronte a me.
Gli lanciai un'occhiataccia. “Non fingere che ti interessi” non riuscii a mordermi la lingua.
“Sì” disse semplicemente e mi fissò mentre io prendevo le torte e le disponevo sui piattini.
“Non rischi a stare qui? Potrebbero vedere che parli con me...”
“Sei ancora incinta?”
Mi bloccai, pietrificandomi e non credendo possibile che potesse esistere qualcuno con così poca sensibilità.
“Certo che sono ancora incinta!” replicai con sdegno.
“Pensavo che avessi considerato la mia proposta.”
Oh mio dio. Pregai che qualcuno mi chiamasse e mi salvasse da quell'inferno.
“E io ti avevo già detto che non era da prendere in considerazione” risposi con rabbia.
Perché stavamo avendo quella conversazione? Perché aveva avuto il coraggio di tirarla in mezzo lì, in un luogo pubblico?
Senza aggiungere altro, afferrai il vassoio e lo portai al tavolo sperando di non trovarlo più in piedi al bancone. Speranze al vento.
“Senti, Bella...” iniziò a parlare ma io non avevo nessunissima intenzione di ascoltare un'altra sola parola che uscisse dalla sua bocca.
“Edward. Ti prego. Non parlare. Non parlarmi più. Non voglio più sentirti parlare.”
Non capisci che mi fa male?
“Hai preso la tua decisione, io ho preso la mia. Non capisco perché ti sei avvicinato, onestamente, e non voglio nemmeno saperlo. Torna al tuo tavolo e alla tua vita. Io ne ho due a cui pensare. Non ho tempo da perdere con te.”
Lanciai un'occhiata all'orologio. Erano le sette e cinque e pensai che Rosalie dovesse essere già fuori ad aspettarmi quando arrivò una sua telefonata.
“Rose, sto uscendo. Scusami.”
“Bella, non so proprio come scusarmi. C'è un cazzo di incidente per strada e si è fatta una fila assurda.”
“Oh...” fu la mia reazione mentre sentivo lo sguardo di Edward ancora addosso.
“Bella, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Non so cosa dire, non so come fare. Porca puttana!”
“Non preoccuparti, Rose. Non è colpa tua.”
Anche un sordo avrebbe avvertito la tristezza nella mia voce.
“Sono una pessima amica. Avrei dovuto avviarmi prima, non sarei dovuto andare per nulla.”
“Rose!” cercai di farle arrivare una mia risata per tranquillizzarla. “Tranquilla, davvero. Non è colpa tua.”
“Come fai ora?”
Lanciai un'occhiata a Edward.
“Prendo un taxi o la metro...”
“Prendi un taxi. Non voglio che vai in metro da sola. Ti prego.”
Un taxi, grande. Mi sarebbe costato almeno venti dollari fino all'ospedale.
“D'accordo” dissi in ogni caso, valutando l'opzione di prendere la metropolitana.
“Dovrei essere lì...”
“Lo so...” non potei fare a meno di rispondere. “Non preoccuparti, okay?”
“Mi dispiace davvero.”
Okay, non ce l'avrei fatta a sentirglielo dire un'altra volta.
“Non fa nullaaaa” cantilenai. “Ora devo andare o farò tardi.”
“Appena mi libero da questo cazzo di traffico ti raggiungo, dovunque sei. Mandami un messaggio appena hai finito. Vengo a prenderti lì.”
“D'accordo...” sorrisi forzatamente e la salutai prima che continuasse con la sua serie di scuse.
“Che succede?” era Edward che, sfortunatamente, aveva assistito a tutta la telefonata.
“Niente che ti riguardi...”, solo la prima ecografia di tuo figlio.
“Posso accompagnarti io.”
“No.”
“Dove devi andare?”
“Al White Memorial” risposi infine senza peli sulla lingua, forse perché speravo che arrivassimo al punto in cui avrebbe capito cosa dovevo fare e avrebbe iniziato a sentire il senso di colpa.
“Stai male?”
“No” affrontai il suo sguardo già pregustando l'espressione mentre gli dicevo: “Devo fare l'ecografia.”
Rimasi a fissare per qualche secondo la sua espressione da cane bastonato.
Lui.
“Oh... capisco...”
Già, capisci. Non capisci un cazzo ed ecco perché d'un tratto non hai nessuna intenzione di accompagnarmi.
Lo avrebbe fatto, mi avrebbe tenuto la mano solo per abortire.
Mi salì un conato di vomito. Non potevo restare lì un secondo di più. Afferrai la borsa e più velocemente possibile uscii dal locale e mi misi alla disperata ricerca di un taxi.
Possibile che in una città come quella non ce ne fosse uno libero? Cazzo!
Vidi la fermata della metropolitana proprio di fronte a me e realizzai che era l'ultima opzione anche se ci avrei messo il doppio del tempo ad arrivare. Non avevo scelta, pensai proprio quando, mentre stavo per attraversare, una macchina nera si fermò davanti a me costringendomi a bloccarmi.
Il finestrino si abbassò e rivelò il suo viso.
“Sali.”
“No.”
“Bella, dai, sali. Ti accompagno. Mi è di strada...”
Mi è di strada. Altro conato di vomito.
“Farai tardi se prendi la metro.” Non sapeva nemmeno l'orario della visita ma aveva colto nel segno e, da quella mattina, mi ero ripromessa di fare il possibile per far stare bene il bambino.
Mi morsi le labbra valutando le possibilità che erano davvero poche.
Infine aprii la portiera e salii approfittando del suo senso di colpa e pensando che, dopo tutto quello che avevo passato, non sarebbe stato un passaggio a uccidermi o buttarmi giù ulteriormente.
O almeno era quello che speravo mentre lui metteva in moto e io pensai che avrei voluto essere ovunque tranne che lì; ogni altro posto sarebbe stato migliore.





_____

Sì, vabbè .___. come dicevo sopra, non ho nulla da dire su questo capitolo, se non che deve essere stato di una noia mortale xD Mmm, alcune mi hanno chiesto quanti anni hanno Edward e  Bella. Bè, Bella ne ha 24 e qui si capisce, Edward ne ha 26. Essendo una storia prevalentemente da un solo POV, scopriremo qualcosa di più su di lui solo col tempo xD  Niente genitori morti davanti agli occhi stavolta, tranki u.u ahaha
Ho fatto un piccolo schema dei turni di lavoro di Bella ahaha cioè magari a voi non ve ne importa un fico secco ma io se non mi faccio gli schemi poi vado al manicomio quindi lo condivido con voi u.u

 


Sì, insomma, la ragazza ha ancora del tempo libero... per ora xD ahaha
Madò, scusate, sto fusa stasera .___. Deve essere l'effetto post-valigia. Anywaaaaay, a questo punto vi informo che non so quando posterò il prossimo capitolo perchè dopodomani parto xD Vado nella (a detta delle previsioni -.-) fredda, piovosa, ventosa, umida, glaciale, nevosa Vancouver. Sì, il tempo è 'na merda praticamente ma chi se ne frega *-* Andrò nella città sacra di Twilight, quella che ha visto nascere taaaanto amore di Robert e Kristen, quella dove è ambientata Turning Page aksjfkasgfkjasdgkfj sono un tantino emozionata *-* ahaha
Vabbè, tutto questo per dire che... se riesco a scrivere in aereo, avrete il capitolo quando torno, se no ciao u.u
Detto molto semplicemente xD ahaha
Okay, basta, devo andare a mangiare prima di continuare a sparare cazzate in quete note finali .____.
Grazie mille come sempre per il supporto e i commenti e i preferiti e le recensioni e tutto ç___ç
VI AMO!

Alla prossima!
Fio xx

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Capitolo 5
*** Sense of guilt ***


adito - cap 1

*entra in punta di piedi*
Vabbè, siamo onesti, inutile stare qui a cacciare scuse. Ho avuto un casino di cose da fare - ancora ne ho! -  e semplicemente non ho mai un minuto di tempo per me stessa o per la scrittura; aggiungiamoci che queste cose mi mettono un pò di ansia addosso e non riesco a concentrarmi come si deve, uniamo il tutto a un calo di ispirazione per la storia, ed ottenete più di un mese di ritardo. Mi dispiace davvero e non dico che non accadrà più perchè non voglio prendervi in giro. Posso solo sperare che questo periodo un pò troppo pieno passi presto, che torni a galla l'ispirazione e che voi non vi stanchiate di aspettare.
Pretendo un pò troppo, lo so xD Ma vabbè, ci provo :3
Allooooora, eravamo rimasti a Edward che da un passaggio a Bella per andare a fare l'ecografia.
E niente, ecco il seguito lol
Buona lettura! x


ps: la canzone è ashdgfkasdf quindi ascoltatela, okay? :)  

Music: Get up - Barcelona





Capitolo 5
 

Sense of guilt

 

Mai come in quel momento avrei desiderato essere dotata del dono del teletrasporto o della capacità di velocizzare il tempo. Magari un semplice forward come nei telecomandi, qualsiasi cosa pur di risparmiarmi la tortura che era stare seduta nella sua macchina, con lui, senza essere capace di dire una parola, con la gola secca, le mani fredde e il cuore fragile. Come potevo essere forte e pensare di farcela senza un aiuto, senza un suo aiuto, quando ne stavo già accettando uno? Non avrei dovuto farlo per principio, a costo di andare a piedi. Avrei dovuto sostenere il suo sguardo, alzare le spalle e dire ‘No, Edward. Non ho bisogno di te.’
Ma non l’avevo fatto e sapevo anche perché; sapevo che ancora ci speravo. La mia non era speranza riposta in lui, solo speranza di qualcosa di migliore di… questo.
Qualcosa che mi facesse sentire bene, qualcosa che non fosse aspettare un bambino da uno sconosciuto e stare in macchina con lui senza riuscire a trovare qualcosa di cui parlare, una parola da dire, niente in comune. Niente per lui, almeno.
C’era così tanto di cui parlare, eppure restavamo in silenzio. Anche il rumore del traffico fuori era attutito dai finestrini chiusi. Tutto ciò che riempiva l’abitacolo era la radio e gocce di pioggia che iniziavano a battere sul vetro di fronte a noi. Il cielo si era scurito improvvisamente, da un minuto all’altro, come se le nuvole si fossero messe d’accordo per accompagnare il mio umore dal momento in cui ero salita su quella macchina.
Erano le sette e un quarto; erano passati appena tre minuti da quando si era fermata per farmi salire e mi era sembrata un’eternità.
Tre minuti, non una parola.
Centottanta secondi, non uno sguardo.
Un’infinitesima parte della mia vita − probabilmente l’unica − che avrei passato con lui e non riuscivo a dire niente.
Ma, in fondo, perché avrei dovuto sforzarmi? Perché ancora speravo che le cosa potessero essere diverse?
Svegliati, Bella. Svegliati, cazzo!
Questa non è una svolta, non è una confessione né una mano tesa verso di te. È solo un fottuto passaggio, quindi smettila.
Convinta dalla disillusa voce della mia mente, la sola che avrebbe potuto farmi uscire indenne da quella situazione, voltai il viso verso il finestrino e rinunciai definitivamente ad ogni possibile tentativo di conversazione, almeno finché non sentii lo scatto dell’accendino e, voltandomi, ebbi la conferma di ciò che temevo.
Stava fumando. Quel grande stronzo, bastardo, menefreghista di merda si era appena acceso una sigaretta, senza nemmeno curarsi di abbassare il finestrino.
“Scusa…” sussurrai quasi indignata e lo sguardo totalmente vuoto che mi riservò non fece che farmi sentire peggio. Avrei voluto avere un conato di vomito proprio in quel momento per potergli sporcare la sua preziosa tappezzeria.
Alzò un sopracciglio come a chiedere quale fosse il problema.
“Potresti evitare di fumare con me qui?”
“Non fumi?”
“No.”
“Ti dai fastidio?”
“Anche ma, sai com’è, vorrei che non avesse i polmoni neri ancora prima di nascere.”
Lo vidi, chiaramente, lanciare una rapida occhiata al mio stomaco, quasi si aspettasse di vedere un bambino tra le mie braccia. Era ovvio che per lui era come se non fosse successo niente.
Niente pancia, non è vero.
Niente test, non è detto che sia mio.
Niente evidenza, non è ancora niente.
Probabilmente non si sarebbe convinto della realtà dei fatti nemmeno se avessi avuto davvero un bambino tra le braccia; non che la cosa avesse davvero un senso visto che non saremmo mai arrivati a quel punto in ogni caso.
Spostò lo sguardo dal mio stomaco alla strada, di nuovo a me. Non aveva ancora buttato la sigaretta, anzi, fece un altro tiro e io desiderai scendere immediatamente da quella macchina ma, per qualche motivo, non lo feci.
Forse io stessa volevo farmi del male fino in fondo e vedere fin dove sarebbe arrivato, quale evidenza avrebbe voluto per credermi e accettare le cose.
“Perché tu hai quello, allora? Non fa mica bene.”
Seguii il suo cenno del capo e mi trovai a fissare il bicchiere di caffè che avevo preso velocemente prima di uscire dal bar e avevo ancora in mano.
“Non è la stessa cosa.”
“Ma tu sei una ragazza di sani principi, no?”
Come potevo provare tanto disprezzo e attrazione per qualcuno?
Lo disprezzavo per il modo in cui riusciva a dire qualsiasi cosa e appesantirla di dieci tonnellate e non potevo negare di essere attratta da lui, o almeno lo sarei stata se il disprezzo non avesse surclassato quella lontana possibilità che, in circostanze normali, mi avrebbe portato ad essere tremendamente preziosa da fargli perdere la testa.
In circostante normali, ripetei a me stessa mentre alzavo il viso verso di lui.
Lo affrontai con lo sguardo, serrai la mascella, abbassai il finestrino e riversai fuori tutto il caffè contenuto nel grande bicchiere di cartone.
Portai la mano dentro, alzai il finestrino e strinsi il cartone tra le mani. Tutto senza distogliere lo sguardo da lui un solo secondo.
Sei un coglione, Edward. Un vero coglione.
Lui sorrise, come se stesse flirtando. Come se quella fosse una sfida e non un modo per evitare quelle piccole cose che potevano far male a… suo figlio.
Dio, lui non se ne rendeva nemmeno conto.
Fece un altro tiro di sigaretta prima di abbassare il finestrino di un paio di centimetri appena e farla schizzare fuori.
“Contenta?”, sorrise ancora e provai un immenso schifo.
Per me che ero andata a letto con lui.
Per lui che era consapevole del suo modo d’essere e ne andava fiero.
Schifo per noi, pena per il bambino che non aveva idea del mondo in cui sarebbe venuto.
Non facevo che guardare l’orologio al polso, chissà, forse sperando che il tempo passasse più velocemente. Povera ingenua: non è questione di tempo, di quello ne avrai ma sembrerà di non averne mai abbastanza, e quando vorrai che scorra più velocemente si fermerà proprio nell’attimo meno opportuno, nel momento più nero della tua vita. No, non è il tempo. Non è lui, non è il bambino. Sei tu; tu che sei sempre così ottimista, tu che credi nelle favole e speri sempre in un lieto fine, anche di quelli all’ultimo secondo.
Devi smetterla, Bella. Smetterla di aspettare inutilmente, smetterla di sognare, smetterla di illuderti e vivere semplicemente quello che hai davanti.
Sembravo così convinta del mio discorso, eppure il ticchettio della lancetta dei secondi era più forte di qualsiasi altro rumore.
Chinai lo sguardo e lo vidi ancora. L’orologio, il tempo che passava, lento. Secondo dopo secondo, sempre più lento.
Ventitré, ventiquattro, venticinque…
Arrivare a sessanta secondi era estenuante, arrivare a due minuti era fonte di ansia.
Stavo impazzendo, dovevo smetterla di fissare quell’aggeggio e contare i secondi.
“Hai così tanta voglia di uscire da questa macchina?”
Non guardarlo era impossibile.
“Cosa?”
“Ti assicuro che i secondi in un minuto sono sempre sessanta, non c’è bisogno che li conti tutti.”
Rilasciai il respiro che avevo tenuto mentre lo sentivo parlare. Spenta, mi aveva spenta e non ero nemmeno in grado di trovare una risposta. Non era per nulla da me non avere una risposta pronta o comunque non avere nulla da dire. Io me la cavavo, me la cavavo sempre. Eppure lui riusciva ad annullarmi completamente. Non doveva essere così, non era stato così finché avevo avuto la forza, ma questo passaggio in macchina stava portando cambiamenti che non esistevano e che solo la mia testa vedeva.
Perché diamine ho accettato? Mi chiesi per l’ennesima volta.
E non risposi.
“Sei calma.” Non era una domanda ma una constatazione, sbagliata per giunta.
No, Edward. Non sono calma e sono molto lontana dall’esserlo. Sto solo reprimendo le urla, stringendo il mio cuore tra mani con unghie affilate, mordendomi la lingua, stringendo la mascella e i pugni. Sto solo rispettando il muro che deve dividerci altrimenti sarò io a crollare.
Ma non sono calma.
“Non sei agitata?”
Dio, ma come fai a non vederlo? Perché hai il bisogno di chiedermelo. Come cazzo puoi pensare che non sia agitata, diamine!
“No” risposi con tono secco, cercando di porre fine alle nostre piccole conversazioni mentali. Non portavano a nulla, non mi serviva parlargli tra me e me.
Tutto ciò di cui avrei avuto bisogno era comprensione, consapevolezza, aiuto. Le cose si fanno in due, è quello che la gente dice sempre in questi casi, e avrei voluto che qualcuno che non fossi io lo ricordasse a lui. Avrei voluto che lui lo capisse davvero, che lo realizzasse da solo, che si rendesse conto una volta per tutte di quello che stava realmente accadendo.
Mi trovai a chiedermi se avesse almeno capito dove mi stava portando e in cosa consistesse un’ecografia.
Lo stava facendo solo per alleviare il suo senso di colpa? Probabilmente – sicuramente − sì; e io non potevo cadere nella flebile speranza che poteva nascere dal suo senso di colpa. Non funziona così, al mondo.
O ti prendi le tue responsabilità, o non lo fai.
Con questo unico pensiero ad albergare nella mia testa, distolsi totalmente lo sguardo da lui e non lo degnai di un’occhiata, nemmeno quando si fermò al parcheggio dell’ospedale.
“Grazie” mormorai velocemente, scendendo dall’auto ancora in moto.
Presi a camminare fino all’entrata dell’ospedale ma avevo sentito il motore spegnersi e lo sportello della macchina chiudersi per cui non mi ci volle molto a capire che mi stava seguendo.
Perché? Perché cazzo lo stava facendo?
Mi imposi di non guardare indietro mentre passavo la porta principale e chiedevo della dottoressa Page, ma passato il primo corridoio, con il costante rumore dei suoi passi dietro i miei, non riuscii più a fare finta di nulla.
“Che cosa stai facendo?” gli urlai contro, moderando il tono quanto più possibile.
“Niente” rispose, scrollando le spalle.
“Mi stai seguendo. Perché?”
“Non ti sto seguendo.”
“Sei nel reparto ginecologia perché hai fatto un trapianto di apparato allora?”
Alzò gli occhi al cielo e fu un altro campanello d’allarme per me: allontanarsi il prima possibile.
Svoltai a destra e continuai a camminare fino alle fine del corridoio ma lui era ancora dietro di me. Senza chiamarmi, senza dire una sola parola, senza scusarsi, senza chiedere di aspettare o di lasciarlo andare per sempre e liberarlo dal suo senso di colpa. Niente di tutto ciò, seguiva solo i miei passi, forse in cerca di un congedo ufficiale.
Mi fermai davanti la porta chiusa dello studio della dottoressa e mi voltai, di scatto per prenderlo alla sprovvista, e con sguardo truce.
“Che vuoi? Che intenzioni hai?”
“Nessuna intenzione. Volevo solo accompagnarti, tutto qui.”
“Tutto qui? Tutto qui!? Non è tutto qui, Edward. Non è così che funziona, okay?”
“Che ho fatto di male?”
“Niente, tutto. Non fai niente di male semplicemente perché non te ne importa un cazzo, in realtà. Fai tutto di male perché non ci rifletti nemmeno, non ti fermi a pensarci. Non capisci quello che vuol dire!” urlai, portando automaticamente una mano alla mia pancia. “E non ti rendi conto che fa male? Fa dannatamente male: stare qui, di fronte a te che mi dai un passaggio, mi parli, mi guardi… come se cercassi perdono, una ricompensa per i tuoi sforzi. Vuoi che ti dica che siamo pari o roba del genere? Perché se è questo che cerchi da me, non sprecare nemmeno il tuo tempo, okay? Non è così! Non l’ho fatto solo io, questo, ma se tu non lo vedi allora lasciami abituare ad esserci dentro da sola, va bene? Te ne devi andare, Edward. Mi fai male. Mi fai male e devi solo andare via perché quando sei vicino mi sento più morta che viva, più insicura, più fragile, più vuota, e non posso stare così per te o per quello che fai o non fai, fa lo stesso. Non mi importa, basta che mi lasci stare. Se non te ne fotte un cazzo davvero, comportati di conseguenza e prendi una cazzo di decisione come io ho preso la mia, ma lascia fuori me mentre fai pace con la tua testa perché se aspetti che sia io ad annullare il tuo senso di colpa, puoi anche crepare in questo momento e non lo farei nemmeno se fosse il tuo ultimo desiderio e me lo chiedessi in ginocchio!”
Sputai quell’acidità che covavo nei suoi confronti da giorni, con tutto lo sdegno di cui ero capace e, con la stessa tenacia con cui avevo evitato di guardarlo negli occhi prima, ora affrontavo il suo sguardo aspettando solo il momento in cui avrebbe chinato il viso e ammesso che avevo ragione, ragione su tutto, e che lui non poteva essere altro che uno stronzo. Non mi importava di altro se non che lui ne avesse consapevolezza, ma non abbassò lo sguardo nemmeno per un secondo.
Continuò a guardarmi, scrutando i miei occhi come se potessero confessargli molto altro, ma io stessa non sapevo cosa potesse esservi, nei miei occhi, in quel momento.
Non sapevo quanto tempo fosse passato, probabilmente solo pochi secondi, quando sentii la porta aprirsi e intravidi, con la coda dell’occhio, una figura in camice bianco sulla soglia, a poca distanza da me.
Fui costretta a scostare lo sguardo e, ancora una volta, avevo perso una piccola battaglia contro di lui. Come potevo pensare di vincere la guerra quando non ero mai stata una guerriera?
“Bella! Ciao!”
Salutai la dottoressa con una stretta di mano e risposi cordialmente. Non sapevo esattamente come comportarmi, non avevo mai avuto una ginecologa e Rose aveva avuto la gentile idea di prestarmi la sua. La ricordavo, infatti, dalle diverse volte in cui avevo accompagnato la mia amica per visite di controllo generale.
Spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio mentre osservavo, timorosa, l’interno della stanza dallo spiraglio creato dalla porta aperta.
“Non preoccuparti, non è così tremendo come sembra” mi rassicurò quando dovette notare il mio sguardo terrorizzato alla vista di strani macchinari, ma era chiaro dalla sua voce che aveva capito che qualcosa non andava.
Lanciò uno sguardo ad Edward e, per qualche motivo, capì che era lui.
“Può entrare anche il padre, se vuole.”
Mi scossi velocemente. “Oh, no. Lui non… non è il… Cioè… sì, lo è… Ma...”. Chiusi le mani tremanti in due pugni, presi un profondo respiro e fissai il pavimento prima di annuire e sussurrare: “Entro solo io.”
“Sicura?” chiese, facendomi strada nella stanza. Non guardai Edward nel momento in cui annuii e la dottoressa chiuse la porta davanti il suo viso.
“Puoi chiamarmi Suzenne, basta che non mi chiami Suzie, okay?” riprese con tono allegro, per smorzare l’aria pesante calata attorno a noi.
Sorrisi e iniziammo a parlare in generale, di Rose, di come stesse, del motivo per cui non era potuta venire, di argomenti comuni fino ad arrivare all’unico vero motivo che mi aveva portato lì.
“Allora, di quanto sei?”
“Otto settimane.” Mi sorpresi della velocità della mia risposta.
“D’accordo, allora ho bisogno che ti spogli dalla vita in giù. Puoi mettere il camice se vuoi.”
“Co… cosa? Devo spogliarmi? Perché?”
“Devo fare un’ecografia dall’interno.”
“Pe… perché? Di solito non mettete solo quel liquido freddo e passate l’aggeggio sullo stomaco? Non funziona così?”
Suzenne ridacchiò qualche secondo prima di spiegarmi che, probabilmente, all’ottava settimana un’ecografia esterna avrebbe mostrato poco o niente e sarebbe stata inutile se avessi voluto vedere il bambino.
“Sempre che tu voglia vederlo, ovviamente.”
E come una doccia fredda, mi trovai a chiedermi se lo volessi davvero. Sapevo di volere che stesse bene e che non ci fossero problemi, ma volevo davvero vederlo? Ero pronta?
“Per quanto possa valere la mia opinione” iniziò la dottoressa, prendendomi una mano, “non c’è emozione più bella. E non deve essere per gli altri, ma per te. Solo per te, perché è dentro di te che cresce, sei tu che lo senti dentro, lo capisci?”
“Io… io credo di sì…”
Non lo credevo solo, ma era il massimo che potevo concedermi di dire ad alta voce al momento. “Sì, voglio vederlo” dissi, infine, abbastanza sicura.
La dottoressa sorrise e mi porse un camice quando fui spogliata. Mi sistemai sull’apposita sedia e alzai le gambe, pregando di non iniziare a tremare. Speranza che andarono a farsi benedire quando vidi lo strano, lungo, oggetto che prese in mano e che avvicinava sempre di più alla mia entrata.
Dovette sentire il mio disagio perché mi carezzò velocemente un ginocchio e mi rassicurò che non avrebbe fatto male; infatti non provai assolutamente dolore, solo uno strano piccolo fastidio e un freddo assurdo.
Chiusi gli occhi e li riaprii solo quando iniziai a sentire un rumore, impossibile da confondere con ogni altro. Era un cuore, un cuore che batteva, fortissimo. Accelerato, così tanto da portarmi a chiedere se fosse normale.
“È… è…”
“È il suo cuore, sì.” Sorrise.
“Ed è… normale che sia così veloce…?”
“Normalissimo. Sono 160 battiti al minuto ma ti assicuro che è perfettamente nella norma.”
Sospirai di sollievo e per diversi minuti restai stesa, sul lettino, con gli occhi chiusi, beandomi solo di quel suono. Per qualche motivo e contrariamente alle possibili previsioni, aveva un effetto più che rilassante su di me. Sul mio corpo, sulla mia testa. Sulla mia anima. Mi trovai ad accarezzarmi la pancia dolcemente, come non avevo mai davvero fatto finora.
“Apri gli occhi, Bella.”
Feci come ordinatomi e, prima che potessi accorgermene, fissavo il monitor al mio lato. E vedevo. Tutto, ogni cosa, nitidamente. Vedevo il corpo, individuai la testa e mi sembrò di riuscire a distinguere anche le mani. E in quel momento il mio bambino divenne reale, come non lo era mai stato. In quel momento capii che per nulla al mondo avrei fatto qualcosa che potesse ferirlo o fargli del male. Mi sarei impegnata, mi sarei fatta forza e l’avrei accolto senza paura di dovermene pentire, senza temere di averlo in un mondo non all’altezza di lui.
Sarei stata una madre per lui; l’avrei protetto, nutrito, messo al mondo. L’avrei cresciuta, quella parte di me.
Poco importava se saremmo stati solo io e lui. Ci saremmo salvati a vicenda.
In quel momento, in quel secondo, tutto il resto sparì: la paura, la solitudine, Edward, la rabbia, la tristezza, il terrore. Tutto fu spiazzato via da una sola lacrima che scese, e piansi. Per mio figlio solo e per niente altro. Piansi come può piangere una qualsiasi madre, non importa quali siano le sue condizioni. Una africana del terzo mondo, una principessa, una nomade, una zingara, una liceale. Non importa lo status o il ruolo sociale; quando diventiamo mamme, siamo tutte uguali.
 “Tutto bene?”
Sentii appena la voce della dottoressa e non riuscii a rispondere prima che lo ripetesse un paio di volte.
“Te l’avevo detto che non te ne saresti pentita” disse, sedendosi alla scrivania, mentre io abbottonavo il pantalone. Non potei fare altro che annuire e sedermi di fronte a lei.
Fissammo una seconda ecografia a un mese di tempo e mi porse la cartellina con un paio di foto che, sicuramente, sarebbero state causa della mia morte se fossero rimaste lì e Rose non le avesse viste.
Usai la scusa della mia amica per prenderle dalle mani della dottoressa ma in cuor mio sapevo che le volevo, quelle foto.
Feci per salutarla ma lei prese la mia mano e bloccò le parole che mi morirono in gola.
“Bella, so che non sono affari miei e non ho idea di come siano andate le cose, ma…”, fece una pausa e io mi fermai a vedere la sua mano sulla mia, sicura come quella di una madre. “Ma se posso permettermi di darti un consiglio, cerca di far funzionare le cose quanto più possibile.”
Era facile per lei dirlo. Facile per lei che non conosceva la situazione, indolore per lei che non doveva avere a che fare con Edward e la sua indifferenza.
Senza nemmeno accorgermene, scossi leggermente il capo, come a darmi per sconfitta senza nemmeno provarci.
“Nel limite del possibile, Bella. Nel migliore dei modi, per il tuo bambino. Okay?”
E qual era il limite del possibile, o meglio, del sopportabile? In fondo poteva andarmi peggio, pensai colta da un leggero moto di altruismo misto ad ottimismo.
Potevo essere violentata da un barbone, Edward poteva essere un ubriacone o un drogato, poteva ignorarmi deliberatamente e pretendere che non esistessi, invece… Invece si era almeno preoccupato di darmi un passaggio perché non prendessi la metropolitana. Magari avrei potuto essere meno restia e accettare quel passo come piccolo inizio, eppure c’era quella vocina dentro di me che non faceva altro che ripetermi che la domanda giusta era un’altra: perché, perché diamine lo aveva fatto? Perché dire una cosa e farne un’altra? Senso di colpa era l’unica risposta. E anche se fosse stato solo per quello, potevo accettarlo? Potevo fregarmene dei valori, del bisogno di un ragazzo che mi desse sicurezza, delle mie speranze infrante, e far leva solo sul suo senso di colpa per il bene del bambino? Avrebbe davvero portato a qualcosa o avrebbe peggiorato le cose? Se avessimo continuato su quella strada, a cosa saremmo arrivati? Delusione, intolleranza, civile sopportazione, odio, distacco definitivo?
Dal momento in cui non riuscivo proprio a pensare a nulla di definitivo, mi destai dai miei lugubri pensieri e ringraziai la dottoressa con un sorriso che non prometteva nulla, vuoto, di circostanza.
Mi spiace, ma ora proprio non posso.
Uscii dallo studio con l’intenzione di ignorare Edward e con un piccolo discorsetto pronto nel caso in cui lui non avesse desistito, ma ogni proposito cadde quando vidi che lui non c’era, non c’era nessuno.
Ebbi appena il tempo di restarci male due secondi prima che arrivasse la salvatrice telefonata di Rose che mi avvertiva che era a due minuti dall’ospedale.
“Sei già lì, vero?”
“Sì, ho appena finito.”
“Oddio! Già? Com’è andata? Tutto bene?”
“Sì, tutto bene, Rose. Sta bene.”
“Grande! Hai preso le foto?”
“Sì, le ho prese!” la rassicurai prima di chiudere velocemente la conversazione con un: “Ci vediamo fuori tra poco.” Non aveva senso continuare per telefono dal momento in cui mi avrebbe rifatto le stesse identiche domande anche a voce.
Uscii dall’ospedale e mi fermai ad aspettare Rose sotto il portico dal momento in cui aveva iniziato a piovere di nuovo, anche se molto leggermente. Avrei quasi camminato fino a casa così, sotto la pioggia, se non avessi avuto paura di prendermi qualcosa e non potevo permettermelo.
Quante cose non potevo più fare, quante piccole cose devi reprimere per il bene di qualcun altro. Ma se è per il bene di qualcuno che amiamo non dovremmo provare rabbia o rancore per quella costrizione, giusto? È così che funziona l’amore, no? Compromessi, sacrifici, fatti con il cuore. E allora perché io non riuscivo a sentirlo? Perché non riuscivo a reprimere quel senso di rabbia che continuavo a provare? La parte peggiore era che non sapevo se ce l’avessi con Edward per avermi messo e lasciata sola in questa situazione o con il mio bambino. Perché era lui che era lì, a ricordarmi di non bere troppo caffè, di non camminare sotto la pioggia, di non ammalarmi, di non stancarmi troppo, di non prendere una metropolitana, di fare il possibile perché le cose funzionassero con una persona con la quale non volevo avere nulla a che fare, di non fare questo e quello. Non sapevo se avrei resistito altri sette mesi con un peso del genere che prometteva di diventare solo più pesante e non alleggerirsi mai.
Una goccia cadde da un piccolo cumulo raggruppato in un punto del soffitto, sopra la mia testa, e mi colpì la guancia in pieno; probabilmente un segno di una qualche divinità per ridestarmi da quei pensieri di merda.
Che cazzo stavo pensando? Avevo una vita dentro di me e la mia paura era quella che mi privasse delle libertà più banali? Poteva essere vero, quasi sicuramente lo era, ma non sarebbe mai stato un motivo valido per dubitare delle mie scelte. Mai.
“Allora?”
Una sola parola ma capii chi fosse anche prima di voltarmi. Edward era lì, accanto a me, al riparo, con una sigaretta in mano. La gettò appena vide il mio sguardo piombarci addosso.
È già qualcosa.
“Che ci fai ancora qui? Pensavo fossi andato via.”
“Ci mettevi una vita, sono uscito a fumare.”
Non potei fare a meno di notare che la sigaretta appena gettata era appena all’inizio e inevitabilmente mi chiesi quante ne avesse fumate e se significasse qualcosa. Non potevo conoscerlo abbastanza da sapere se fumava tanto quando era nervoso o se era il tipo che, a prescindere da ogni cosa, finiva un pacchetto al giorno; e non potevo chiederglielo.
Non risposi e tornai a guardare il parcheggio in attesa di vedere comparire Rose nella sua macchinina rossa.
Lo sentii schiarirsi la gola un paio di volte prima di capire che non avrei preso iniziativa nemmeno morta.
“Allora?” disse, infine, fingendo indifferenza. O almeno credevo che fingesse. Ma per quale motivo avrebbe dovuto fingere se davvero non gliene importava? Ah sì, il senso di colpa. Sempre quello.
Allora cosa?”
“Allora com’è andata?”
“È andata, che ti interessa di come?”
Alzò gli occhi al cielo e serrò la mascella iniziando ad annuire in modo deciso; chissà, magari aveva capito che ci voleva più di quello per dimostrarmi che ci teneva, almeno minimamente.
“Perché non vuoi dirmelo?”
“Perché vuoi saperlo?”
Si bloccò e capii che non l’avrebbe mai detto.
Perché sono il padre, perché è mio figlio. Perché è anche mio.
Non lo avrebbe mai detto.
Lo sapevo. Aspettai. Non lo disse.
“Posso almeno sapere se va tutto bene?”
Avrei voluto continuare a fare la sostenuta perché se iniziavo a crollare sulle domande, presto sarei crollata sulle richieste e avrei finito per accettare tutto passivamente, ma non riuscii a non rispondergli.
Un passo alla volta, magari. Nel limite del possibile, mi ripetei, ripensando alle parole della dottoressa.
“Sì, va tutto bene.”
Mi sembrò di vederlo tirare un impercettibile sospiro di sollievo ma non lo diede a vedere.
“Quelle sono le foto?”
Annuii prima di rispondere un sì convinto e sicuro di sé, e potei sentirla. La domanda che nasceva sulle sue labbra – posso vederle? – e che magari avrebbe fatto se la voce di Rose non fosse arrivata forte e chiara da dietro di me. “Che ci fa lui qui?”
 Mi voltai e incontrai il suo sguardo confuso.
“Niente, mi ha dato un passaggio all’andata.”
“Ah, e perché?”
“Perché sì” rispose Edward.
“Che cazzo di risposta è, idiota?”
“Bella, posso parlarti?”
Avevamo avuto tempo per parlare. Tempo in macchina, tempo ora. Non mi ci volle molto a capire che in realtà non avrebbe nemmeno avuto nulla da dirmi ma cercava solo di strapparmi via a Rose.
“No! Bella non ha bisogno di parlarti. Sai di cosa ha bisogno? Che tu sparisca dalla sua vita o che ti prenda le tue cazzo di responsabilità come ogni persona con un minimo di cuore e coscienza farebbe!”
Non avrei accettato, anche se non fosse stata Rose a rispondere per me. Non che non mi facesse piacere il senso di protezione che dimostrava nei miei confronti e quello di odio puro nei confronti di Edward ma, magari poteva capire che riuscivo a cavarmela da sola e che, soprattutto data la mia nuova condizione, avrei dovuto imparare ad uscirmene dalle situazioni da sola.
“Rose, è tutto okay.”
Edward non le rispose e io potei tornare a fissare il mio sguardo su uno solo dei due.
Lo vidi, quasi stranamente in pena, che aspettava una mia risposta alla sua mancata domanda.
“Posso vederle?” disse sottovoce, indicando la cartellina con le foto.
E per un secondo, lo immaginai. Immaginai che gli rispondessi di sì, che vedesse le foto, che si commuovesse, che le sfiorasse appena per paura di rovinarle, che mi prendesse in braccio, mi accarezzasse la pancia e mi dicesse che sarebbe andato tutto bene e che ero bellissima.
Immaginai quello che più mi faceva male, così da poter prenderne le distanze ed impedire che mi buttasse giù davvero.
Scossi semplicemente il capo. “No, Edward. Mi dispiace, non puoi.”
Indietreggiai verso Rose, continuando a guardare il suo viso privo di emozioni – o pieno di sentimenti incomprensibili −, prima di voltarmi e camminare via, lontano da lui, senza sapere nulla.
Cosa ne sarebbe stato di quel poco di noi che c’era, quando lo avrei rivisto, se mi stava guardando in quel momento.
Sapevo solo che l’avevo lasciato solo, come me.
 
 
Siria Newton di qua.
Siria Newton di là.
Siria sopra, Newton sotto.
A destra, a sinistra, in basso, in alto, in un angolo invisibile, in un riquadro minuscolo.
Dovunque fosse il suo nome, ne avevo praticamente la nausea ed erano passate solo due ore. Finita la mia mansione da Cenerentola, mi ero recata da lei, curiosa di sapere cosa avrebbe pensato di farmi fare ora che il lavoro sporco – in tutti i sensi – era finalmente finito.
L’avevo guardata con aria compiaciuta e le avevo detto: “Ho fatto.”, voglio proprio vedere cosa hai in serbo per me ora.
Non l’avessi mai pensato. Quella grande figlia di buona donna era riuscita ad incastrarmi ancora una volta in uno dei suoi propositi di mandarmi al manicomio – o, forse, di mandarmi semplicemente fuori di lì e fare in modo che ne avessi le palle piene – ed aveva architettato uno dei modi peggiori per farlo: falsa modestia ed egocentrismo a non finire.
Il compito del giorno consisteva, in pratica, nel rileggere le centinaia di riviste presenti in magazzino e catalogarle al computer, specificando magazine, articolo, pagina e rigo in cui compariva il suo nome. Sarebbe stato questione di poco tempo, se non avesse preteso che mi occupassi non solo delle interviste mirate ma di ogni piccola, minuscola e insignificante menzione che era stata fatta del suo nome in più di venti anni di lavoro.
Pensai che per quanto potesse essere una persona odiosa e priva di umanità, era anche grazie a quelle che io definivo insignificanti menzioni che era arrivata dov’era; eppure non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che avrei preferito vivere diversamente, magari anche con meno agi e minor fama, piuttosto che diventare come lei.
Alle 11:15 lasciai il lavoro, nemmeno a metà, per uscire dall’edificio, entrare nello Starbucks proprio di fronte e comprarle il solito caffè che pretendeva a metà mattinata.
“Due mocaccini”, guardai le monete nella mia mano e, sospirando, mi chiesi se sarei mai stata rimborsata di quelle uscite ingiuste.
“Uno anche a me.”
Mi immobilizzai quando riconobbi all’istante la voce alle mie spalle; fui tentata di girarmi appositamente per appurare il fatto che non poteva essere. Non potevo trovarmelo dietro, in uno degli innumerevoli Starbucks di Los Angeles, ad ordinare la mia stessa cosa.
Non poteva essere, mi ripetei nello stesso momento in cui dovetti ricredermi, trovandomelo di faccia.
“Bella…” sussurrò, strabuzzando gli occhi.
“Edward.” Semplice e diretta. Pagai e mi spostai verso il ripiano laterale, in attesa dei miei caffè.
Ovviamente le speranze che fossero pronti prima che mi raggiungesse erano pressoché inesistenti, difatti lo vidi avvicinarsi pochi secondi dopo. Presi a tamburellare con le dita sul ripiano di legno, facendo finta di nulla, in un disperato tentativo di evitarlo e ammazzare il tempo nel frattempo.
“Come stai?”
Scrollai le spalle, indifferente. “Bene, normale. Come ieri sera. Sai, in quindici ore non succede poi molto.”
Infatti erano bastati meno di quindici minuti a cambiarmi la vita ma, vabbè, dettagli.
“Bene. Per il resto?”
E a quell’affermazione non potei fare a meno di squadrarlo accigliata.
“Quale resto? C’è un resto di cui parlare? Di che resto vorresti sapere se non sai nemmeno delle basi?”
Dire che lo avevo eliminato come un giocatore nel baseball sarebbe stato riduttivo, non a caso restammo in un silenzio imbarazzante finché non furono pronti i nostri caffè.
“Le vecchie abitudini sono dure a morire, vedo” affermò, facendo riferimento alla mia dipendenza dalla caffeina.
“Non solo le mie, vedo” ribattei, indicando con un cenno del capo la sigaretta ancora spenta tra le sue dita.
“È un po’ diverso, non trovi?”
Sì, Edward. È completamente diverso. E per quanto avrei voluto dirgli che non sapevo di cosa parlasse pur di cavare dalla sua bocca qualche parola che gli facesse prendere coscienza della situazione, per quanto avessi voluto che lui mi dicesse ‘è diverso perché tu sei incinta’, non avevo né il tempo né la forza, non in quel momento almeno.
“Senti, starei volentieri a parlare con te ma non posso. Non so per quale motivo ti trovi qui, se mi segui o mi stalkeri per parlarmi e chiedermi come sto giusto per alleviare il tuo senso di colpa, ma si dia il caso che io lavoro e se non torno in tempo mi spaccano il culo.”
Parlai senza fermarmi, attraversando i piccoli giardinetti che separavano la strada dall’edificio che era il mio inferno. Era ancora accanto a me e teneva il mio passo senza difficoltà, ovviamente.
“Tu lavori qui?”
“Come se non lo sapessi…” bofonchiai tra me e me, sempre più convinta della mia teoria.
“Giuro che non lo sapevo. Di cosa ti occupi?”
“Edward, sai cos’è peggio di avere una conversazione con te?”
“Cosa?”
“Avere una conversazione con te quando non è il momento adatto.”
Lui accennò una risata; ovviamente non aveva colto per nulla la severità della mia affermazione. Non si trattava solo del mio essere di fretta, di pessimo umore, stanca, delusa. Non ci sarebbe mai stato un momento adatto con lui. E mi faceva ancora stare male.
Non avevo idea di come avesse fatto a scoprire dove lavoravo ma ero sicura che l’avesse fatto di proposito e, pensandoci bene, non sarebbe stato per nulla inaspettato da una persona superficiale come lui: continuare a chiedere, interessarsi, quel poco che bastava per avere la coscienza pulita, almeno secondo i suoi schemi mentali.
Ne ebbi la conferma quando, un secondo prima che entrassi dalle grandi porte scorrevoli, mi chiese il mio numero di telefono.
Ebbi solo la forza di incenerirlo con gli occhi prima di voltargli le spalle definitivamente, eppure mi parve di sentire qualcosa simile a un ‘Allora aspetterò qui…’, ma non potevo metterci la mano sul fuoco, soprattutto considerando il soggetto.
Posai il caffè sulla scrivania di Siria – troppo impegnata per degnarmi di uno sguardo o di un grazie, come al solito – e tornai al mio lavoro, se così poteva definirsi.
Non potevo negare che lo trovavo umiliante: avere una laurea con ottimi voti e passare mattinate intere a pulire sgabuzzini, riordinare progetti e catalogare citazioni. Per quanto fosse retribuito, sentivo di non fare nulla di ciò che avrei voluto fare, nulla che una donna delle pulizie non avrebbe potuto fare. E per quanto mi convincessi che era normale partire dall’ultimo gradino della scala prima di iniziare a salire, per quanto mi aggrappassi all’esigenza che avevo della retribuzione di quel misero lavoro, mi sentivo umiliata in ogni caso. Forse era questo il segreto dietro la fredda genialità di Siria. Il suo peggior difetto doveva anche essere la sua arma migliore e la mancanza di umanità aveva sicuramente facilitato la scalata verso il successo.
Ad ogni modo, ero decisa a non mollare e non perché non volessi effettivamente farlo e nemmeno perché avevo economicamente bisogno di soldi, ma perché sapevo che era la cosa che lei avrebbe voluto di più al mondo; sapevo che stava facendo di tutto per portarmici, all’esasperazione, e non avevo nessuna intenzione di darle tale soddisfazione.
A ora di pranzo, quando sarei dovuta andare via e approfittare del mio unico e intero pomeriggio libero nella settimana, non avevo ancora finito e decisi che non sarei andata via senza aver terminato. Tuttavia, comprai un panino e mi concessi una mezz’ora di pausa per mangiare qualcosa, seduta a una panchina del giardinetto, di fronte la fontana che era stata testimone del mio shampoo pubblico un paio di settimane prima.
Non feci in tempo a scartare il panino al prosciutto che mi trovai un cane, un Border Collie bianco e nero, appostato di fronte a me, con lo sguardo implorante e una zampa che faceva su e giù, come a chiedermi un po’ di pietà.
“Che c’è, cucciolo? Il tuo padrone non ti fa mangiare?”, notai che non aveva collare né targhetta e condivisi con lui il culo del mio panino, finché non si voltò, attento al richiamo del suo nome.
“Sammie!” gridò qualcuno e il mio sorriso svanì.
Non.poteva.essere. Dannazione!
“Tu.”
“Oh, ciao! Ancora qui?”
“Ci lavoro, te l’ho detto.”
“Non avendomi detto di cosa ti occupi potevo anche supporre che tu fossi andata via o che non avessi pausa pranzo. In fondo, non so nulla di te, no?”
Ma cos’era quello? Uno strano tentativo di rigirare la frittata?
“Tu cosa ci fai qui?”
“Te l’ho detto che avrei aspettato.”
Allora non lo avevo immaginato. Non sapendo cosa rispondere, optai per la tecnica della confusione.
“E quindi?”
Mi guardò stralunato. “Quindi cosa?”
“Ah, non lo so.”
“Eh?”
“No, niente.”
Tornai a fissare il mio panino ma d’improvviso non avevo più molta fame.
“Ti ha infastidito per caso?”
“Chi?”, alzai il viso verso di lui che indicò il cane. “Ah. No. Gli ho dato un po’ di pane.”
Le. È femmina.”
“È tua?” chiesi, colta alla sprovvista.
Annuì. “Perché così sorpresa?”
“Non ti facevo tipo da animali, tutto qui.”
“Considerando che mi sono appena laureato in veterinaria, direi che anche tu non conosci il mio resto.”
Probabilmente, se avesse potuto, la mia mascella sarebbe caduta fino al suolo e oltre.
Veterinaria? Mi prendeva per il culo o cosa?
“Che hai ora?”
Scossi il capo. “N.. niente…” risposi vaga mentre, invece, la mia mente sentiva che qualcosa non tornava; era tutto troppo strano.
Eppure per i dieci minuti successivi non potei fare a meno di osservarlo giocare con il suo cane, parlargli, accarezzarlo e l’unica cosa che riuscivo a chiedermi era come fosse possibile che fossero la stessa persona.
L’amante degli animali e il ragazzo senza scrupoli che mi aveva proposto l’aborto, senza prendersi alcuna responsabilità.
Come poteva, qualcuno che amava gli animali, non amare anche gli umani?
Sapevo che avrei perso ore su quel ragionamento, probabilmente non ci avrei dormito la notte finché non me ne sarei fatta una ragione.
Quando Sammie si acquietò sullo strato d’erba più vicino, Edward venne a sedersi accanto a me. Istantaneamente presi a torturarmi le mani e sentii il bisogno di un altro caffè. Quasi come se mi leggesse nel pensiero, lo vidi sfilare il pacchetto di sigarette dalla tasca e rimetterlo a posto un secondo dopo. Non lo dissi ma apprezzai davvero quel minimo sforzo.
“Dicevo davvero prima, riguardo il numero di telefono.”
“Perché?”, mi venne spontaneo chiederlo.
“Perché… vorrei sapere come stai, ogni tanto. Se hai bisogno di soldi…”
Per un millesimo di secondo avevo creduto e sperato che potesse fermarsi alla parola bisogno, bisogno di qualcosa. Sì, ho bisogno di tutto, tranne che di soldi. Oddio, forse, sicuramente, anche di quelli ma… no.
“No, Edward.”
La mia voce era ormai una linea sottile che avevo l’impressione di essere la sola a vedere o sentire.
No… cosa?”
“No, non ho bisogno di soldi” mentii. “No, non voglio sentirti”, mezza verità. “No, non ti do il mio numero.” Verità.
E con quella verità sbattutagli in faccia, mi alzai senza aspettare una sua risposta e mi allontanai da lui. Gettai il resto del panino nel primo cestino, repressi le lacrime, mi nascosi dietro un albero e mi lasciai scivolare lentamente, fino a piegarmi su me stessa e stringermi la pancia.
Non so per quanti minuti restai lì, a piangere silenziosamente. Quando mi alzai, avevo le gambe intorpidite e, senza nemmeno accorgermene, chiesi un flebile scusa, carezzandomi la pancia. Bastò quel lapsus freudiano a farmi sorridere di nuovo, anche se brevemente. Un piccolo flash nel buio dell’incertezza che era la mia vita. Non potevo non pensare a ciò che ne sarebbe stato di me e del mio futuro. Sarei stata una madre, okay, ma che altro? Cosa altro sarei diventata? Quale sarebbe stato l’aggettivo accanto al sostantivo? Fallita? Deludente? Promettente?
E cosa avrei fatto quando Siria avrebbe scoperto della gravidanza? Mi avrebbe buttata via a calci in culo? Allora mi sarei trovata di nuovo senza lavoro. Non l’avevo detto nemmeno ai miei genitori ma prima o poi si sarebbe iniziato a vedere e sarebbe stato peggio.
Tanti punti interrogativi aleggiavano sulla mia testa e non mi abbandonarono per le ore successive, rallentando di molto il mio lavoro. Impiegai altre quattro ore per qualcosa che poteva essere fatto in due ore scarse e, quando uscii, mi ero già rassegnata ad aver detto praticamente addio al mio pomeriggio libero. Erano già le sei di sera e mi restavano due ore per continuare a deprimermi o cercare di prendere in mano la mia vita.
Scelta alquanto facile se sei brava in una delle due cose e non sai da dove iniziare nell’altra.
Decisi, quanto meno, di non tornare a casa e passeggiare un po’. E mentre vedevo bambini tenere per mano le loro madri, negozi per neonati e passeggini ovunque, non riuscii a calmarmi minimamente e dovetti letteralmente spostare lo sguardo a sinistra per evitare le vetrine dei negozi.
Contai i barboni che passavo. Uno, quattro, nove; ai piedi della strada, contro un palo, su una coperta, appoggiati a una cassetta delle lettere, abbracciati a un cane, e mi chiesi quale dovesse essere la loro storia. Come si arriva a quel punto nella vita? Cos’è che va così male da farti finire in mezzo a una strada, senza un tetto, senza una famiglia, senza nessuno che si prenda cura di te, che ti chieda come stai.
Come ci si sente quando non hai nemmeno la possibilità di avere un futuro migliore, quando guardi avanti e tutto quello che vedi è un marciapiede grigio, un gamba amputata, un barattolino di latta con pochi spiccioli dentro. Cielo nero.
Come si combatte il freddo quando non hai calore? Come passa il tempo quando sei solo? Come si vince la morte quando non vale la pena di vivere?
Improvvisamente anche quel minimo interesse di Edward nei miei confronti iniziò a sembrare già tanto e per qualche secondo mi pentii di non avergli dato il mio numero.
D’un tratto non provai più oppressione, disagio, smarrimento. Sapevo che, in un modo o nell’altro, ne sarei uscita. E se lo avessi fatto da sola, sarebbe stato solo per scelta.
Come deve sentirsi chi non ha nemmeno quella?
Spinta da non so quale istinto, entrai nel primo negozio di abbigliamento per neonati e comprai un paio di calzini. Verdi, così da essere neutrali e darmi quel minimo di speranza di cui avevo bisogno per non crollare.
Rientrai in casa alle otto passate, credendo di trovare Rose che, invece, non era in casa. Mi soffermai ad osservare il mio unico acquisto per qualche secondo prima di sentire la porta di casa aprirsi e chiudersi. Ancora con il giubbino addosso, uscii dalla cucina e incontrai Rose.
“Scusa, ho fatto tardi. Ma ho portato il pollo fritto. Ti va?”
Annuii decisa e, per un motivo ancora sconosciuto, misi velocemente da parte i minuscoli calzini verdi.
Iniziai a raccontare a Rose la mia giornata, compreso Edward.
“Non puoi capire. Uno stronzo davvero. Come se avessi solo bisogno di soldi. Ma come cazzo fa a prendere sonno la notte? Ha avuto anche il coraggio di chiedermi il mio numero di cellulare, come se non lo sapessi che sarebbe solo per sentirsi meno in colpa. Stronzo!”
Addentai un’altra coscia di pollo prima di vedere Rose rigida, di fronte a me.
“Che succede?”
Si schiarì la voce. “Devo dirti una cosa” proseguì calma.
“Dimmi.”
“Ecco, sì, tu conosci Emmett, no?”
“Non personalmente, visto che qualcuno ancora non si decide a rendere ufficiali le cose, ma sì.”
“Già, e ti avevo detto che vive con un amico che però non ho mai conosciuto perché lui fa sempre in modo da lasciarci l’appartamento libero.”
“Non oso immaginare perché ma sì, mi avevi detto anche questo.”
“Okay. Oggi ho conosciuto l’amico.”
“Oh, davvero? E com’è?”
Mi bastò distogliere l’attenzione dal mio pollo un secondo per guardare Rose e capire.
“No, mi prendi per il culo!”
Scosse il capo, stringendo le sopracciglia.
“Dio mio, è una persecuzione quel ragazzo! Non gli basta mettermi incinta; deve anche prendere il mio stesso caffè nello stesso posto in cui lo prendo io, portare il cane nel parco dove mangio e abitare con il ragazzo della mia migliore amica. Altro? Magari vuole andare a vivere dai miei? Se scopro che è mio fratello adottivo, posso anche buttarmi dal balcone!”
Mi sfogai, inevitabilmente.
“C’è di peggio.”
“Peggio? Oh, scusa un secondo”, mi pulii le mani quando sentii il cellulare squillare per un messaggio. Doveva essere uno dei soliti sms da controllo generale di mio padre, proprio tipico di un poliziotto.
Mi preparai a sorbirmi un quarto grado telefonico e invece.
Scusa, non accettavo un no come risposta.
Non mi ci volle molto per fare due più due.
“Non ci credo, non posso crederci! Come ha fatto! Chi cazzo gli ha dato il mio numero? Chi…?”, smisi di sbraitare quando la risposta si spianò sotto i miei occhi o, per meglio dire, dietro lo sguardo colpevole della mia amica.
“Dimmi che non l’hai fatto, Rose. Dimmi che non l’hai fatto.”
“Non l’ho fatto. Non ho preso la tua macchina fotografica, so quanto ci tieni!”
“Rose, gli hai dato il mio numero?”
“Co… cosa?”
“Hai dato il mio numero a Edward Cullen?”
“Ah, quello? Penso di… sì…?”
“Puoi essere più sicura!?”
Sospirò. “Sì. Okay. Sì, gliel’ho dato! E allora?”
“E allora? Ma come e allora? Che fine ha fatto il tuo ‘Bella ha bisogno che tu sparisca dalla sua vita e bla bla bla’?”
“Si può sempre cambiare idea, no?”
“No!”
“E invece sì, Bella. Credimi, non l’avrei detto nemmeno io. Quando è entrato, ho iniziato a sbraitare in tutte le lingue del mondo. Ho dovuto spiegare la situazione ad Emmett che non aveva idea che l’Isabella di Edward fosse la stessa Bella mia. Ha dovuto calmarmi e abbiamo dovuto parlare onde evitare di spaccare in testa ad Edward ogni oggetto contundente presente in casa.”
“E quindi?”
“E quindi niente. Abbiamo parlato un po’ e, non lo so, mi è sembrato sincero quando diceva di rispettare la tua scelta e voler controllare ogni tanto e… Oh, non ho saputo dire di no, okay? È sempre il padre di tuo figlio, Bella, e che tu lo voglia o no, ti conviene prendere in considerazione questi minimi passi avanti per il suo bene, d’accordo? Lui si sta sforzando, magari non con le migliori delle intenzioni ma è sempre uno sforzo. Accetta questo per ora. E magari il resto verrà da sé.”
Ed eccolo che tornava, il solito resto di cui nessuno sapeva nulla.
Sospirai pesantemente riflettendo sulle parole della mia amica.
“Sono ancora viva?” disse sommessamente.
“Sì, sei ancora viva”, alzai gli occhi al cielo prima di sentire il cellulare vibrare e squillare di nuovo tra le mie mani.
Immaginavo non avresti risposto, ci vediamo domani.
“Rose” iniziai piano. “Che succede domani?”
“Che vuoi dire?” rispose lei, evasiva.
“Perché Edward mi scrive che ci vediamo domani?”
“Ah, quello…”
“Sì, quello. Che succede domani?”
“Beh, io potrei, forse, averli…invitati a cena.”
Strabuzzai gli occhi, incredula, mentre lei continuava a mangiare indisturbata, come se nulla fosse.
Strinsi i pugni sul tavolo e mi concessi un profondo respiro prima di rispondere.
“Oh, e sai questo che vuol dire?”
“Che… laverò i piatti per la prossima settimana?”
“Quello, e che da oggi inizi a scavarti la tomba!” furono le ultime parole prima che le mie urla prendessero a rimbombare per tutta la casa.





_____

Un  enorme grazie a chi legge ancora e aspetta pazientemente i miei lunghi tempi.
Chiedo ancora scusa ç_ç 

Alla prossima!
Fio xx

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Capitolo 6
*** I need to know ***


*previously on A drop in the ocean* 
B
ella ha 24 anni, si è appena laureata all'università della California con indirizzo artistico e non sa cosa fare della sua vita. Vive con Rose che, una sera, la trascina alla festa dell'ultimo anno dove Bellina vede Jacob, ex-ragazzo stronzo e puttaniere, con una delle sue troiette. Spinta dall'alcol e dal desiderio di vendetta si butta tra le braccia di Edward, con cui aveva avuto uno scontro davanti la 'caffetteria' del campus. I due, ubriachi, passano la notte insieme ma Bella chiarisce subito, la mattina dopo, che lei non è quel tipo di ragazza e che con lui non vuole avere niente a che fare. Le cose sembrano mettersi meglio quando le viene offerto un lavoro alla Siria Newton design. Il capo è una specie di Crudelia Demon ma meglio di niente. Eppure qualcosa incombe dietro l'angolo, e la nostra Bella lo scoprirà con un *rullo di tamburi* test di gravidanza. Ebbene sì. E' incinta di Edward ed è praticamente fottuta. Soprattutto perchè lui, senza molti giri di parole, le dice chiaramente che non ne vuole sapere. Bella decide di tenere il bambino anche senza il suo aiuto, eppure Edward sembra un tipo un pò contorto (e lo sarà sempre visto che quasi tutta la storia sarà dal punto di vista di Bella muhauhauha). Non ne vuole sapere nulla eppure continua a cercarla, probabilmente per alleviare il suo senso di colpa generato dall'estremo menefreghismo. Dopo un paio di scambi non troppo allegri, la incontra al parco e le chiede il numero di telefono che, tuttavia, lei gli nega. Caso volle che Edward è anche il migliore amico di Emmett, ragazzo di Rose che, però, Bella non ha ancora conosciuto. Spinta da un moto di compassione e sperando di poter aiutare l'amica, Rose conosce Edward un pomeriggio a casa di Emmett e costui ottiene non solo il numero della gravida infelice, ma anche un bell'invito a cena. Cosa succederà? 


Ecco, insomma. 
Pensavo che un mini-riassunto dovesse essere d'obbligo .___. 
Mi dileguo, che è meglio...
  

Music: I need to know - Kris Allen





Capitolo 6
 

I need to know

Era passata già un’ora da quando avevo preso quella dannata aspirina, ma doveva accidentalmente essersi dimenticata di fare effetto, la bastarda. Il mal di testa che mi tediava dal pomeriggio non aveva fatto che aumentare e l’idea della serata che mi aspettava non aiutava per nulla. Come se non bastasse, da mezz’ora fissavo i vestiti sul mio letto, incapace di prendere una decisione.
È solo un vestito, Bella, mi ripetei per l’ennesima volta eppure c’era una parte di me che non poteva fare a meno di pensare che anche un semplice vestito potesse incidere su quello che Edward avrebbe pensato. Perché ancora mi importasse, restava un mistero anche per me. Avrei dovuto semplicemente lasciare andare, no? Prima l’avrei fatto e meglio sarebbe stato, per tutti. O forse no. D’un tratto non ne ero più tanto convinta,  e il fatto che ancora non avessi deciso cosa mettere ne era la conferma.
“Bella, sei pronta?”
Sentii la porta aprirsi e Rose bloccò il passo immediatamente quando mi vide col capo chino sulla mia fonte di eterna indecisione.
“Che diavolo ci fai ancora così!?”, esclamo puntando il mio intimo. “Guarda che saranno qui a momenti!”
“Non so cosa mettere…”, ammisi, afflitta, e con una voce che sembrava implorare morte.
Non la vidi, ma sapevo che Rose aveva alzato gli occhi al cielo prima di affiancarmi. “Che abbiamo qui?”
Iniziò ad ispezionare le diverse possibilità, ben disposte sul letto. Dovevo dire, e dovette dire, che ogni opzione era buona, ognuna metteva in risalto le mie gambe e, scioccamente, la mia pancia.
C’era un vestitino che stringeva in vita per poi scendere, leggermente più largo, fin sopra le ginocchia. Un paio di shorts di jeans con una semplice maglietta aderente, una gonnellina nera abbinata a un top bianco, e una salopette che non avevo idea di possedere.
Non sapevo nemmeno perché avessi scelto quel tipo di abbigliamento dato che la mia pancia era ancora totalmente inesistente. Cosa credevo di ottenere? Che lui si svegliasse da un secondo all’altro e realizzasse che quello strato di pelle non sarebbe stato sempre così piatto? Speravo che lo immaginasse rotondo e ben tirato e che aprisse gli occhi? Sì, forse lo speravo. Speravo l’impossibile, perché lui gli occhi li teneva aperti eccome; e con quegli stessi occhi aveva guardato i miei e aveva detto di non volerne sapere.
E allora perché questa cazzo di cena?, continuavo a chiedermi. Perché rendere tutto ancora più difficile? Rose aveva detto di dargli una possibilità, di dare una possibilità a me stessa e al bambino, ma lei non lo conosceva come lo avevo conosciuto io. Lei vedeva solo quello che avrebbe voluto che lui fosse per me. Lei vedeva una luce in fondo a un tunnel che, per me, era vicolo cieco. Chiuso. Buio. Impossibile da scavalcare.
Okay, forse ero leggermente pessimista ma preferivo di gran lunga fasciarmi la testa prima di rompermela, contrariamente a come si suol dire.
“Bella! Bella! Mi senti? Oh!”
“Sì, scusami. Che… che dicevi?”, scossi un po’ il capo.
 “Dicevo… che vanno tutti bene, qual è il problema?”
“Non lo so”, sospirai reggendomi la testa tra le mani.
“Hey… tutto bene? Ti senti male? È successo qualcosa?”
“No, no”, risposi subito. “Sono solo un po’ stanca, tutto qui.”
“Oh…”, sillabò. “Mi dispiace, Bella. Forse… forse non avrei dovuto…”
“Cosa? No, ma che dici!”, esclamai sotto suggerimento dell’angelo sulla mia spalla e cercando di ignorare il diavolo che invece premeva per urlarle contro che infatti avrebbe fatto meglio a stare zitta e farsi i fatti suoi. Riuscii a calmarmi e serrai la mascella qualche secondo per sfogare il nervosismo.
“Io volevo solo…”
“Lo so che volevi, Rose. Tranquilla”, la rassicurai, stavolta sincera. Non avevo motivo di prendermela con lei. Era la mia migliore amica e non avevo dubbi che qualsiasi cosa facesse fosse dettata solo in considerazione del mio bene, soprattutto ora. Certo, avrebbe potuto parlarmene, avrebbe potuto chiedere la mia opinione prima di organizzare tutto a mia insaputa, ma sapevo anche che sarebbe stata così testarda da non accettare un no come risposta. Avrei dovuto essere categorica ed era impossibile esserlo con lei, almeno per me. Da un lato, in fondo, era meglio così. Se aveva bisogno di questa sceneggiata per capire come Edward fosse davvero, l’avrebbe avuta.
“Beh, comunque…”, iniziò con tono rammaricato per poi cambiare repentinamente. “Che ci fa il pigiama qui in mezzo!?” continuò, interdetta.
“Ah!” lo afferrai in due secondi fingendo di indossarlo. “Era tra le opzioni, la più quotata in realtà.”
Mi beccai un’alzata di sopracciglia. “E quella?”, disse ancora, indicando la chiave della camera che era in mezzo al letto.
“Quella va con questo. E’ un completo in effetti. Io metto il pigiama, prendo la chiave, la giro nella serratura e mi chiudo dentro. Ancora non so se poi buttarla giù o meno. Se dovesse venirmi un attacco di sete o di fame improvvisa potrei non resistere e uscire. Oh! Magari potrei portarmi un po’ di schifezze e una bottiglia d’acqua di qua. Ti spiace se prendo il lettore dvd dal salotto?”, cercai di sdrammatizzare, eppure, nonostante fosse ovvio che scherzassi, Rose mi riservò un’occhiataccia preoccupata e la tranquillizzai subito, onde evitare che si sentisse in colpa più di quanto non facesse già. L’avevo assolta da ogni eventuale colpa, aveva detto che era tutto okay, ma sapevo che dentro di sé ancora pensava che se lei non mi avesse trascinata a quella festa non mi sarei trovata in questa situazione.
Ma doveva capire anche lei che i suoi sensi di colpa non alleggerivano il mio stato d’animo. E in vita mia non avevo mai creduto ai se. La gente li butta in mezzo solo quando le cose non vanno come ci si aspetta e si ha bisogno di qualcuno a cui dare la colpa.
Se questo, se quello. Se non avessi, se non fosse stato. Se solo io, se solo tu, se solo lui.
Tanti se, e nessuno che si prenda mai la responsabilità delle proprie azioni. La verità è che se davvero si volesse dare la colpa ai se, non se ne uscirebbe più.
Se solo non fossi andata alla festa, se solo Rose non avesse insistito, se solo mio padre avesse deciso di andare via un giorno dopo, se solo non avessi visto Jacob, se solo non avessi bevuto, se solo non avessi incontrato Edward, se solo qualcuno lo avesse distratto proprio nel momento in cui mi avvinghiavo a lui, se solo non avessi sbattuto contro di lui quel pomeriggio, se solo non avessi deciso di prendere il caffè, se solo mi fossero caduti i soldi dalla tasca… avrei ritardato anche quel decimo di secondo che avrebbe evitato lo scontro con Edward, il che avrebbe evitato che mi gettassi sulla prima faccia conosciuta quando avevo visto Jacob.
Tanti, tanti se. Ma il punto è che la vita va così.
A me era andata così e non avevo intenzione di incolpare nessuno. Certo, non era quello che avevo immaginato per me, nemmeno lontanamente. Sicuramente non avevo idea di quello che avrei fatto, di cosa sarei diventata nella mia vita; mi ero immaginata a lavorare in qualche bar se non avessi trovato un buon lavoro, avevo fantasticato sul trovare il ragazzo che fosse mio e fare un viaggio con lui, condividere le cose più stupide; avevo anche valutato l’ipotesi di restare sola e zitella per tutta la vita – ad alcune capita −, ma mai avrei pensato che col nuovo anno sarei stata una mamma.
E, nonostante tutto, quella restava l’unica cosa certa che avevo su me e sul futuro.
Non sapevo come sarebbe stato, se roseo o buio, calmo o in tempesta, pieno o vuoto. Sapevo che avevo lui, dentro di me, e doveva bastarmi per ora. In fondo stavo solo per diventare madre e non potevo sputare in faccia alla vita consapevole di quanta morte ci fosse al mondo, attorno a me.
“Scherzavo, Rose. Va tutto bene”, dissi convinta, finito il mio velocissimo monologo interiore. Le sorrisi sinceramente e lei ricambiò, finalmente.
“Metti il vestito. Mette in risalto le gambe e fascia bene la pancia. Lo fai crepare”, fece un occhiolino prima di tornare in cucina, lasciandomi in stanza, sola con i miei vestiti, la chiave in mano e le foto dell’ecografia nella busta sulla cassettiera.
Non le avevo ancora guardate dalla sera prima; avevo lasciato che Rose lo facesse da sola con la scusa di averle già osservate per bene, ma non l’avevo fatto. Presi un respiro e fui tentata di chinarmi e prenderle, ma il suono del campanello bloccò i miei propositi salvandomi dalla mia stessa ansia e creandone una nuova.
Erano arrivati e io ero ancora in mutande e reggiseno, chiusa in camera, con una stupida chiave e un pigiama in mano, a fissare un busta di stupide foto che non avevo il coraggio di guardare.
Chiamasi: ottimi presupposti per affrontare le stronzate e diventare madre.
Scossi la testa e posai nuovamente la busta con le foto che non mi ero nemmeno accorta di aver preso in mano. Potei sentire Rose fare gli onori di casa e dare il benvenuto ai nostri ospiti e, per un secondo, sentendo solo una voce sconosciuta che doveva essere di Emmett, mi trovai con la speranza e la delusione che Edward non fosse venuto; e non sapevo quale dei due sentimenti avesse la meglio. Non ebbi il tempo di ragionarci dal momento in cui Rose lo salutò un momento dopo, proprio prima che lui chiedesse se era sola in casa.
Ottimo sotterfugio per non chiedere direttamente dove fossi io.
“Bella si sta vestendo, ora viene.”
D’un tratto l’idea di chiudermi in camera iniziò a diventare sempre più allettante, ma sapevo bene che non potevo farlo. Rilassai la testa contro la porta qualche secondo, al fresco, prima di stringere i denti e entrare velocemente in quel vestito. Mi guardai allo specchio, sciolsi i capelli e passai altri tre minuti a decidere se mettere del trucco o no. Alla fine optai per un po’ di matita che mettesse in risalto gli occhi verdi.
“Bene, Bella. Niente scuse. Inizia a diventare grande e inizia adesso.”
Sembrai quasi davvero convinta dal mini discorsetto e annuii a me stessa allo specchio prima di uscire dalla stanza e perdere ogni sicurezza quando varcai la soglia della cucina e lo trovai lì, poggiato al frigo, con un paio di jeans leggermente larghi, una maglia a maniche corte che aderiva bene al suo petto e i capelli perfettamente in disordine. Per qualche secondo, senza volerlo, ricordai alcuni dei momenti di quella notte, ricordai alcune delle sue parole che avevo rimosso, ricordai i suoi sussurri.
Sei bellissima…
Hai degli occhi stupendi.
Oh Dio, credo di amarti.
Sorrisi amaramente, non solo perché quei ricordi erano venuti a galla ora, nel momento meno opportuno, ma soprattutto perché ricordavo come il giorno dopo avevo chiuso tutto subito mentre ora avrei pagato oro per sentirgli dire quelle cose.
Non ero così stupida da credere che le intendesse davvero, ero ben consapevole che erano state dettate dal momento e dall’alcol, ma avrei voluto sentirle comunque. Masochisticamente, avrei voluto sentirle da lui.
“Ciao!” entrai in cucina cercando di apparire disinvolta.
“Uh, Bella! Eccoti!” Rose si voltò di scatto per venirmi incontro, saltellando. Mi prese la mano e, come in una tipica, perfetta scena da romanzo, mi condusse davanti ad Emmett.
“Bella, lui è…”
“Emmett! Ovviamente”, dissi cordiale allungando una mano. “È un piacere conoscerti, finalmente.”
“Anche per me, Bella. Rose mi ha parlato molto di te.”
“Idem per te, ma iniziavo a credere che fossi un frutto della sua immaginazione.”
Rose si intromise per farmi una linguaccia e ridemmo tutti e tre. Feci ben attenzione a non guardare ancora Edward, aspettando che fosse lui ad intromettersi, prima o poi, finché Emmett non chiese: “Allora, come stai?”, e sapevo bene a cosa si riferisse.
“Co… cosa?” boccheggiai qualche secondo senza dare una risposta, semplicemente perché volevo che fosse Edward a chiedermelo. Non poteva avere tutto così facile, non poteva avere anche il migliore amico a fare il lavoro sporco al posto suo. Certo, ovviamente se chiedermi come stessi poteva considerarsi lavoro sporco.
Rose interruppe quell’imbarazzante mio momento da pesce distraendo Emmett prima che potessi rispondere qualcosa.
“Hey, amore! Credo che abbiamo finito l’acqua. Mi accompagni a prenderla in garage? Non ce la faccio a portare le cassette da sola, sono flaccida.”
Chinai il capo mentre Emmett acconsentiva senza problemi.
“Torniamo subito” disse Rose, giusto prima di sparire dietro la porta, lasciando me ed Edward soli, nel nostro imbarazzantissimo silenzio assordante.
Alzai il capo quando mi resi conto di non essere io quella a dovermi vergognare di qualcosa. Ero in casa mia e non potevo sentirmi fuori posto e a disagio, non con lui che aveva architettato tutto senza nemmeno darmi una spiegazione.
Incontrai i suoi occhi subito e mi resi conto che doveva stare aspettando che alzassi il viso già da un po’. Chissà da quanto stava aspettando che lo facessi. Ingoiai un nodo di saliva e mi trovai ad alzare le spalle, come se fosse un incentivo per farlo parlare.
“Bella casa…” disse a un certo punto, lasciandomi senza parole.
“È piccola ma va bene.”
“Sì, è graziosa.”
“Non è male.”
“Accogliente. Mi piacciono i colori…”
“Anche a noi.”
“Chi li ha scelti?”
“Comune accordo.”
“Avete buon gusto. Da quanto ci vivete?”
“Dobbiamo andare avanti per molto?”
“Cosa…?”
“Questo teatrino, dico. Dobbiamo mandarlo avanti ancora per molto? Altrimenti me ne torno in camera…”
“Non capisco cosa…”
“Oh, seriamente, Edward? Insomma, vieni a cercarmi a lavoro, ti nego il numero e la sera scopro che sei comunque riuscito ad averlo e a farti invitare a cena da me e tutto quello di cui vuoi parlare è il colore delle pareti? Davvero?”
“Beh? Sono davvero un bel colore…”
“Edward, smettila.”
“Ma smettila di fare cosa?”
Così! Smettila di fare così! Mi mandi al manicomio!”
“Non sto facendo nulla, mi pare.”
“Infatti! Non stai facendo nulla, nulla di concreto! E io voglio sapere!”
“Sapere cosa? Cosa vuoi sapere?”
“Voglio sapere perché. Perché sei venuto qui.”
“Mmm, una cena gratis?”
Non mi ero resa conto di essere così distante da lui, altrimenti la mia mano sarebbe volata direttamente sulla sua guancia, e certo non per una carezza.
“Tu… sei impossibile. Non so come ho fatto a venire a letto con te” mormorai, voltandomi di poco.
“Eri ubriaca…”
“Sì, lo so che ero ubriaca!” urlai, girandomi ancora per incenerirlo con gli occhi e, stranamente, sembrò funzionare. Continuai a guardarlo fino a fargli distogliere lo sguardo almeno una volta. “Per quanto possa sembrarti assurdo, tutto questo non era quello che volevo. Non era quello che avevo programmato, soprattutto con uno come te. Non mi aspettavo che la mia vita prendesse questa piega, ma è successo e lo sto accettando, e tu, invece, non lo capisci.” Bloccai una lacrima; non potevo piangere per nulla al mondo. “Non solo non capisci quello che vuol dire per te, non ti sforzi nemmeno di capire quello che vuol dire per me. Il tuo comportamento mi fa impazzire. E non hai quindici anni, Edward. Non sei un ragazzino. Per cui o ti prendi le tue responsabilità o mi lasci stare una volta per tutte.”
Affrontai il suo viso e potei chiaramente vederlo aggrottare la fronte e stringere le labbra. “Io… io non so cosa fare…”
“Beh, allora devi capirlo lontano da me.”
“Ma perché?”
“Perché fa male, Edward! Non lo capisci? Te l’ho detto una volta e non è bastato? Fa male! Starti vicino senza sapere cosa vuoi fare! Tu stai decidendo ma io l’ho già fatto e non posso accollarmi anche le tue insicurezze! Non posso essere io a dirti quello che devi fare altrimenti andrà sempre tutto male. Devi volerlo tu, e lo devi volere davvero altrimenti lascia stare, okay? Non farti problemi per me, non mandarmi soldi, non chiedere niente. Se non lo vuoi davvero, lascia stare e basta. Ma io ho bisogno di sapere, non posso vivere nell’oceano delle tue incertezze in eterno.”
“Ho solo bisogno di…”
“Non mi hai nemmeno chiesto come sto”, l’interruppi prima che potesse dire quella parola.
Si bloccò di botto e mi guardò.
“Non farlo, Edward. Non dirmi che hai bisogno di tempo. Non parlare di tempo con me”, continuai. “Hai la minima idea di quello che sto provando in questo momento? E non intendo in questo esatto momento, intendo nella mia vita. Hai la minima idea di cosa voglia dire guardarsi allo specchio e avere paura di quello che vedrai tra sette mesi? Avere paura che qualcosa possa anche andare male. Non sapere cosa succederà, chi ti starà accanto, su chi potrai contare. Cosa diventerai da grande. Non ero… Non sono pronta a diventare madre, eppure ogni giorno io mi alzo, mi guardo allo specchio, e vivo un altro giorno, aspettando che il tempo mi dia le sue risposte. E ho paura perché… passa così velocemente e non so se riuscirò ad affrontare tutto da sola quando verrà il momento. Io lo sento, sento il tempo scivolarmi dalle dita ogni giorno di più, vivo il tempo che mi passa sotto agli occhi e tu… tu hai tempo per il tuo cane, per i tuoi amici, per le amichette che ti porti a letto, ma quando si tratta di me non hai nemmeno due secondi del tuo tempo per chiedermi come sto.”
Nonostante tutto, nonostante non ci fosse nulla che potesse dire per farmi cambiare idea, non abbassò lo sguardo.
“Bella…” sussurrò molto flebilmente e io restai in attesa.
Di una scusa, di una spiegazione, di una qualsiasi parola, ma nient’altro uscì dalla sua bocca.
Altro silenzio.
“Okay…” fu tutto quello che riuscii a dire prima di lasciare la stanza, o almeno quella era l’intenzione se non mi fossi trovata Rose ed Emmett di faccia.
“Hey, dove vai? Tra due minuti è pronto!”
Avrei potuto dire che non mi sentivo bene – e non sarebbe stata nemmeno una bugia – e chiudermi in bagno per il resto della serata, o della mia vita, ma ormai non avrebbe nemmeno avuto senso.
Avevo stabilito di iniziare a crescere da quella sera, per cui potevo benissimo farlo stando seduta allo stesso tavolo di Edward.
Rose mi trascinò nuovamente dentro la cucina e mi posizionò a sedere proprio di fronte ad Edward. Nessuno dei due parlò mentre Rose portava in tavola quello che aveva preparato.
Tortellini con panna e funghi, i miei preferiti. Si era molto adoperata per quella cena. Aveva preparato gli antipasti, che aveva dimenticato di servire prima del primo per cui furono mangiati dopo, un secondo di carne, e persino un dolce. Nonostante non me la cavassi troppo male in cucina, il mio compito si era limitato a mettere coca-cola e ghiaccio in una brocca.
Dire che la cena fu un mortorio sarebbe stato un eufemismo. Io ed Edward sembravamo due zombie viventi; non riuscii nemmeno a finire i tortellini e la cosa sorprese Rose non poco. Mi lanciò qualche occhiata preoccupata ma non disse niente, probabilmente per non mettermi in imbarazzo e peggiorare le cose; almeno era quello che credevo prima che mi afferrasse per un braccio e congedò entrambe con un veloce: “Torniamo subito.”
Fui costretta a seguirla in bagno senza protestare. “Rose? Sei impazzita?”
“Posso sapere che diavolo succede? Che vi siete detti mentre eravamo via? Sembrate due lastre di ghiaccio, più di quanto non foste già!”
“Niente, Rose. Non è successo proprio niente. Lui è il solito… menefreghista di merda! E io non riesco a capire perché cazzo si è invitato a questa cena! Perché ha detto di sì per poi venire qui e fare come se nulla fosse? Non lo capisco e mi fa saltare i nervi! Dice che non sa cosa vuole e non sa cosa fare, ma io mi sono rotta il cazzo della sua indecisione! Non posso vivere così! Se ha bisogno di tempo, che se lo prendesse senza rompere l’anima a me!”, mi sfogai con la mia migliore amica che non fece altro che sorridere dolcemente e abbracciarmi un secondo dopo.
“Li mando via.”
“Ma no, Rose. Non importa. Emmett è simpatico, siete davvero carini insieme.” E non lo dicevo tanto per dire. Non fosse stato per il loro umore, la serata sarebbe stato un completo disastro. Insomma, per me lo era stato ugualmente ma erano mesi che aspettavo di conoscere il ragazzo di Rose e non ci avevo scambiato più di due parole. “Va tutto bene, davvero.”
“Sicura?”
“Sicura!” annuii. “Dai, torniamo di là!”
E questa volta feci di tutto per sembrare quanto più viva e cordiale possibile, almeno con Emmett. Non avevo nemmeno fatto caso al suo aspetto prima, troppo presa dai miei mille pensieri, ma dovevo ammettere che era davvero un bel ragazzo. Capelli corti, leggermente ricci, muscoloso ma non troppo, spalle forse leggermente troppo grandi per i miei gusti ma niente di spropositato. Ed era simpatico e sembrava affidabile e, da come guardava Rose, potevo ben dire che ci teneva a lei, e io non potevo desiderare di meglio, anche se non potevo negare di aver provato un leggero brivido di invidia per i due secondi più insopportabili della sua vita: non aveva fatto nulla di che, le si era solo avvicinato per scostarle i capelli dietro l’orecchio ed evitare che cadessero nel piatto, e l’aveva guardata… in quel modo che… quel modo che non si può spiegare, quel modo che ha solo chi ama qualcuno.
Ci perdemmo nei nostri discorsi mentre Edward, come potevo vedere dai veloci sguardi che gli lanciavo con la coda dell’occhio, non faceva che pasticciare con la forchetta e il gateau di patate.
Raccontai ad Emmett diversi aneddoti su Rose, parlammo del più e del meno finché non ebbi la pessima idea di introdurre il discorso università, che portò inevitabilmente al discorso ‘di cosa vorresti occuparti?’.
Per loro, studenti di medicina, nonostante la difficoltà della materia, era piuttosto facile sapere quale sarebbe stato il loro futuro. Per me, completamente allo sbaraglio, invece…
“Ancora non lo so, mi affiderò alla buona sorte, sperando che non passi per le mani di Edward”, continuai, facendo un po’ di ironia e tutti fissammo quella che ormai era diventata una poltiglia gialla nel suo piatto. Mi guardò per qualche secondo, probabilmente chiedendosi cosa stessi pensando per la prima volta in vita sua, poi Emmett portò nuovamente la mia attenzione al discorso.
“Beh, però Rose mi ha detto che stai lavorando per Siria Newton! Wo! Non è roba da niente. Dicono che sia un mastino!”
“Oh, lo è. È una donna impossibile! Però ha un grandissimo talento e ha fatto tutto da sola. Si è spaccata il culo per arrivare dov’è.”
“È sposata?”
“No.”
“Ha figli?”
“Non… non che io sappia…”
“Chissà…”
“Chissà cosa?”
Emmett alzò la testa dal dolce e mi rispose con tutta la nonchalance del mondo. “Non so, la vedo una cosa un po’ triste.”
“Essere arrivata dov’è?”
“No, esserci arrivata da sola. Aver raggiunto quella vetta ma poi tornare a casa e trovarla vuota.”
E non avrei mai pensato che quella semplice frase potesse colpirmi tanto. Non potei fare a meno di scambiare uno sguardo con Edward e lo vidi… strano. Quasi complice, in un certo senso. Per qualche motivo fui portata ad accennare un sorriso; non sapevo nemmeno perché lo avevo fatto, né perché lui l’aveva ricambiato, ma non aveva importanza visto che tutto fu rovinato da una chiamata a cui doveva rispondere assolutamente.
Ovvio, tutto era più importante di stare qui per lui. E ancora mi chiedevo perché si fosse messo in questa situazione, e con le sue stesse mani per giunta.
Finii di mangiare il dolce ma era impossibile ignorare l’euforia di Edward mentre parlava al telefono.
“Cosa? Davvero? No, no! Certo che sono ancora interessato! Cazzo, scherzi!?” rise soddisfatto. “Senti, amico, passo da te tra un paio di giorni e ci mettiamo d’accordo per i dettagli, okay? Sì. Sì, perfetto. Allora ci sentiamo presto, e grazie mille, sei un amico. Ti devo un favore! Sì… ciao, ciao!”
Attaccò la telefonata e tornò a sedersi a tavola sotto lo sguardo curioso di tutti, anche se io feci in modo di mostrarmi indifferente, almeno finché Emmett non chiese a cosa fosse dovuto tutto quell’entusiasmo.
“Oh, era Jason, per quell’Aaston Martin, te lo dissi no?” rispose all’amico e io non potei fare a meno di trattenere la mia stupida lingua.
“Aaston Martin?” chiesi tra stupore e incredulità.
“È una macchina.”
“Lo so, ma non hai già un’auto?”
“Sì, ma ormai è passata di moda e la vendo. Ho già un compratore e questo mio amico mi ha trovato questa cabrio, due posti, decapottabile, ad un prezzo assurdo! È un cazzo di affare!”
E continuò a parlare per altri secondi ma il mio cervello aveva afferrato una cosa sola.
“Due posti…” mormorai ma tutti mi sentirono ugualmente e si voltarono a guardarmi.
“Bella…” sussurrò Rose carezzandomi una spalla, e in quel momento avrei voluto davvero piangere.
“C’è qualche problema? Ti senti bene?”
E ancora una volta le sue parole suonarono come le più false del mondo.
“Sì, sì c’è un problema e sei tu! Tu… tu sei un gran figlio di puttana. Tu non hai bisogno di tempo, né che io ti dia fiducia, né di sapere cosa fare. Tu hai già deciso e noi non rientriamo nei tuoi piani, nemmeno lontanamente! Perciò, grazie. Ancora una volta ho capito che, dopotutto, avevo ragione io. Tu non sei qui per me, o per lui…” toccai la mia pancia. “Tu sei qui per te stesso, sei qui perché è etico venire qui e fare finta che ti interessi ma non ci sei dentro, Edward. Non ci sarai mai!”
Mi alzai di scatto e Rose cercò di bloccarmi e parlarmi ma la strattonai in malo modo e mi liberai dalla presa.
“Ti prego, Rose!”
E semplicemente lasciai la stanza e mi rintanai sul piccolo dondolo fuori al terrazzino del salotto.
Mi misi lì, rannicchiata su me stessa e lasciai che qualche lacrima cadesse al buio prima di chiudere gli occhi per lasciarmi andare a un agrodolce dormiveglia. Fatto di mezza realtà e mezza fantasia.
Quando riaprii gli occhi sembrava passata un’eternità, ma guardando l’orologio appurai che erano appena le undici e mezza. Avevo dormicchiato mezz’ora massimo, eppure qualcuno, sicuramente Rose, aveva avuto l’accortezza di coprirmi con un lenzuolo. Mi alzai dal dondolo, scoprendomi, e rientrai in casa. Nel salotto non c’era nessuno ma la luce della cucina filtrava dalla porta socchiusa e, avvicinandomi, riuscii a sentire le voci di Emmett e Rosalie.
“Forse dovrei parlare ad Edward…” disse Emmett.
“Non lo so, Em. Non lo so… Pensavo che… ieri quando avevo parlato con Edward mi era apparso motivato, mi sembrava che volesse provarci ma lui non pensa nemmeno a quello che le sue azioni comportano. Bella ha ragione. Non c’è dentro… e io ho sbagliato. Non avrei dovuto invitarlo.”
Ah, Rose. Sempre a sentirsi in colpa per le azione fatte in buona fede, ma con cattivo esito.
“Per questo dico che potrei parlargli. Edward non è un cattivo ragazzo… ha solo una testa di merda. Magari posso… non lo so…farlo ragionare con la testa e non con l’uccello.”
Sentii Rose ridacchiare. “Se ritieni che possa servire, okay. Ma deve stare lontano da Bella, chiaro?”
“Chiarissimo.”
E quando il suono di vari sbaciucchiamenti iniziò a farsi chiaro anche oltre la porta, decisi di andare in camera. Era più che ovvio che Edward doveva essersene andato, per cui non avevo motivo di stare in piedi. Il mal di testa iniziava a risalire e tutto ciò che volevo era la mia camera e il letto. Quello che, in fondo, era sempre stato il mio piano dall’inizio. Se solo lo avessi seguito…
Entrai in camera e chiusi la porta. Mi tolsi quello stupido vestitino restando solo in intimo. Mi voltai per prendere la maglia del pigiama sotto il cuscino e quasi morii di paura quando mi trovai Edward, davanti il mio armadio, impegnato a farmi una radiografia da testa a piedi.
“Cristo! Che cazzo ci fai tu qui!?” urlai, reprimendo grida di terrore, prima di rendermi conto che ero mezza nuda davanti a lui.
“Calmati, bambolina. Stavo solo cercando una cosa.” E con tutta la calma del mondo continuò a scavare nel mio armadio.
“Esci subito dalla mia stanza! Ora!”
Di tutta risposta mi lanciò una maglia che dovette trovarsi sotto mano e ne approfittai per infilarla.
“Posso sapere che cazzo ci fai ancora qui!? Non eri andato via? Beh, se non lo eri, è evidente che non lo sei, puoi anche andare via adesso. Subito!”
Tolse il viso dall’armadio ed estrasse quello che stava cercando. Si avvicinò con estrema calma e, dopo aver aperto una coperta, mi ci avvolse dentro.
“Tremavi di freddo là fuori…” sussurrò, sfregando le mani sulle mie braccia e io restai interdetta. Una completa idiota che non aveva idea di cosa fare, fin troppo spiazzata dal suo comportamento.
“Hai pianto.” Non era una domanda, quella, mentre passava il dito sul mio viso ruvido dalle lacrime ormai secche sulle guance.
“Cosa vuoi, Edward?”
Le mie parole sembrarono non toccarlo minimamente. “Hai gli occhi lucidi… Sono stupendi…”
Dovetti ricordarmi con chi avevo a che fare per non sciogliermi nella sua presa e non cadere nella trappola delle sue parole. Perché erano solo quello. Solo parole.
“Cosa vuoi?” ripetei con voce ancora più flebile.
“Mi dispiace, Bella. Per tutto questo… casino. Io non so che fare… ma potremmo provarci, no?”
Ebbi la tentazione di chiedergli se avesse battuto la testa o se fosse uno scherzo di cattivo gusto, ma non ne ebbi la forza. Perché in quel momento, vero o no, sincero o ipocrita, stavo sentendo quello che volevo sentire. Poco importava quanto di reale ci fosse. Come una scema mi lasciai abbindolare da quelle parole e dalla speranza che creavano in me.
“Vuoi provarci? Con me, Bella?”
E i suoi occhi così magnetici non riuscirono ad avere una risposta che non fosse un debole sì.
Prima che potessi accorgermene ero stretta in un suo abbraccio, avvolta da una coperta, con le sue mani calde che mi carezzavano la schiena, facendomi rabbrividire allo stesso tempo. Una delle sensazioni migliori del mondo.
Era uno degli abbracci più imbarazzanti in cui mi fossi mai trovata; era quello che volevo e, allo stesso tempo, lo vedevo sbagliato. Probabilmente era quella cosa che c’era tra noi. Una specie di carica sessuale o roba del genere. Eravamo come la paglia e il fuoco; troppo a contatto rischiavamo di bruciare entrambi. Quando sentii il sue mani infuocate allungarsi per toccare le mie gambe, provai un brivido irriconoscibile. Paura, desiderio, sollievo, delusione, calore, dolore. E capii che tra i due, io ero la paglia e stavo per andare a fuoco.
Lui avanzava e io non riuscivo a spostarmi di un centimetro. Lui mi avrebbe mangiata e io glielo avrei permesso. Lui sarebbe sopravvissuto e io sarei morta, incenerita dal suo tocco.
Eppure non riuscivo a fare un solo passo indietro.
La coperta cadde e io chiusi istintivamente gli occhi quando una sua mano salì alla mia nuca e avvicinò le mie labbra alle sue. Le riconobbi subito, più presto del lecito, in modo troppo preciso per esserci stata una sola volta da ubriaca. Ma, inspiegabilmente, sembrava che quelle labbra fossero state fatte per baciarmi, o forse per baciare e basta. Erano così calde e morbide e buone che resistere era impossibile. Lasciai salire le mie mani alla sua nuca e le strinsi attorno al collo mentre lui stringeva le sue sulla mia vita. Mi sollevò leggermente, portandomi a cadere dolcemente sul letto dietro di me. Mi fu sopra in un secondo, così dolce, così… strano. Riprese a baciarmi il collo mentre una sua mano palpava il mio seno da sopra la maglia. Sussultai per un secondo , pensando di lasciarmi andare totalmente, ma tutto tornò chiaro quando la sua mano iniziò a muoversi sempre più velocemente e, con forza, penetrò sotto la maglietta e strinse la mia pancia.
“No, no, Edward, no” mugugnai tra un suo bacio e un altro sulle mie labbra.
“Che c’è?”
Scostai il suo viso dal mio ed era tutto sparito. Quel barlume di dolcezza che avevo letto nei suoi occhi pochi minuti prima, la speranza di un suo interesse. Sparito anche quello. Tutto andato.
“Devi andartene, Edward. Lasciami in pace.”
“Ma cosa…? Cosa ho fatto ora? Ti ho detto che voglio provarci! Non va bene?”
“Ma come fai ad essere così ipocrita!? Non puoi cercare di essere un po’ onesto almeno con te stesso o devo essere sempre io a mandarti a cacare? È troppo dura guardarti allo specchio e scoprire, da solo, che sei un pezzo di merda, eh? Perché fin quando te lo dice qualcun altro, può sempre sbagliarsi, può sempre essere quella sola opinione. Ma se lo pensi tu stesso, allora sei fottuto!”
“Bella, che cazzo!”
“Tu non vuoi provarci! Vuoi provarci con me, forse. Ma non vuoi provarci per me, non vuoi provarci per lui. Vuoi provarci solo per te stesso, Edward. E così non va. Non so ancora nulla dell’essere un genitore, ma un figlio viene al primo posto. E noi al primo posto non ci saremo mai. Lui non c’è per te. Non ci sarà mai per te. Prima accetti che sei così, prima mi lasci in pace. Se hai problemi con quello che sei, risolveteli o viviteli da solo. Ma non sfogare mai più su di me.”
Lo vidi scostare lo sguardo da me al pavimento. Restò a fissarlo per diversi secondi, senza muovere un muscolo.
“Te ne devi andare.”
Niente. Non un piccolo movimento.
Fui io ad alzarmi e ad andare alla porta come per sottolineare il fatto che lo stessi cacciando via.
“Edward, ti prego”, e mi costò doverlo pregare di lasciarmi in pace. Mi costò non chiedergli di cambiare. Ma non potevo farlo io, non potevo chiedere tanto a una persona che ha vissuto in un determinato modo per venticinque anni, perché se lo avesse fatto davvero me lo avrebbe rinfacciato per il resto della sua vita. Mi poggiai al lato dell’armadio, aspettando che si alzasse per lasciarmi finalmente sola.
Si alzò dopo diversi secondi, che erano parsi minuti, e con passo pensante ed estremamente lento, venne verso di me, non prima di aver trascinato con sé qualcosa che cadde sul pavimento.
Ad occhi chiusi, sentii solo il rumore di fogli che cadevano. Solo quando mi chinai accanto a lui per raccogliere, mi resi conto di ciò che era caduto.
Erano per terra, le foto dell’ecografia. Non tutte ma molte, e lui le stava toccando, una ad una. Allungai una mano per prenderne una e sfiorai la sua. Ci fermammo entrambi, senza alzare lo sguardo e guardarci negli occhi. La sua mano sulla mia, la mia sulla foto dell’ecografia, e i nostri occhi puntati su quell’intreccio. E non potei fare a meno di pensare che, in fondo, era un po’ come averlo avuto all’ecografia con me il giorno prima. Almeno in quel momento, stavamo entrambi guardando qualcosa di nuovo, di nostro, per la prima volta insieme.
Preferii non lasciarmi trasportare dal pensiero e lasciai scivolare la mano da sotto la sua, permettendogli di prendere la foto e osservarla per qualche secondo.
Raccolsi il resto e le riposi velocemente nella busta, mentre lui, alzandosi lentamente, continuava a fissare quel quadrato di carta stampata.
“Posso tenerla?” disse, infine, prendendomi totalmente alla sprovvista.
E, per quanto avrei potuto farlo, non ebbi il coraggio di digli di no. Ero semplicemente stanca, così stanca da non voler discutere, stanca da voler solo restare sola, stanca da volerlo mandare via ed eliminare dalla mia vita il prima possibile.
“Tienila” fu la mia atona risposta.
Annuì leggermente. “Stai bene, Bella.” Ed uscì dalla porta che io non esitai a chiudergli alle spalle.
Dovetti prendere un forte respiro ed evitare di pensare.
Non pensare, non pensare, non pensare.
Non pensare o non ne esci più. Non pensare o non vivi più.
Pensa solo al tuo bambino. Ci siete solo voi.
Tu e il tuo bambino.
Ripresi la busta ed estrassi le foto per guardarle, stavolta tranquilla e senza paura; mi accorsi che erano numerate e, mentre le guardavo sorridendo, una sola domanda mi accompagnò: chissà che fine avrebbe fatto quella mancante.
 
 
Uscii dal pub quasi distrutta. Era venerdì, e avevo dovuto rinunciare al mio pomeriggio libero per sostituire Eric che aveva avuto un problema in famiglia, a quanto avevo capito. Non potevo certo negargli il favore sapendo che lui lo avrebbe fatto sicuramente per me. Quasi sicuramente non me lo avrebbe nemmeno chiesto se avesse saputo del mio stato, ma io non l’avevo ancora detto a nessuno. Erano passati tre giorni dalla cena, tre giorni che non vedevo né sentivo Edward e stavo iniziando a metabolizzare la cosa. Non potevo concentrarmi su altro. Dirlo a lavoro, dirlo ai miei, dirlo a Siria.
Dio, continuavo a non affrontare la cosa e sapevo che, se lo avesse scoperto col tempo, mi avrebbe cacciata.
“Una cosa alla volta…” mi dissi sottovoce, ma un ragazzo sulla metro mi guardò e si lasciò scappare una piccola risata prima di voltare il viso e fare finta di nulla.
Perfetto, ci mancava solo di iniziare a parlare da sola.
Sospirai e misi le cuffie nelle orecchie, aspettando la mia fermata. Ascoltare la musica in metro e per strada mi rilassava; per qualche momento riuscivo a scacciare tutti i miei problemi ed entrare nelle parole delle canzoni. Chi non ha mai pensato quale sia la storia di una canzone, in fondo.
Chi l’ha scritta, chi l’ha arrangiata, chi l’ha ispirata.
Le persone che ispirano la musica possono essere milioni, ma il sentimento è unico. Non a caso è il tema più presente e gettonato. Ma cosa c’è dietro? Che fine hanno fatto quei poeti? Quei cantanti che scrivono col cuore e non ne hanno paura? Esistono davvero o sono solo una facciata?
Una volta lessi su qualche muro che nella vita si incontrano tante maschere e pochi volti; penso fosse una frase di Pirandello e mai come in quel momento capii cosa volesse dire e quanto avesse ragione.
Arrivai a casa che ancora avevo la musica nelle orecchie e il capo chino a fissare i piedi che andavano avanti, sempre un passo prima di me. Quando presi le chiavi di casa e alzai lo sguardo, restai a bocca aperta nel vedere Edward seduto proprio lì, sul marciapiede di fronte casa e, ora che mi aveva visto, era immobile anche lui.
Mi tolsi lentamente le cuffie dalle orecchie e mi scostai i capelli dalla fronte prima di prendere a camminare, con disinvoltura, quei pochi passi che mi separavano dalla porta di casa.
Lo superai, senza avere alcuna intenzione di fare una sola mossa, ma lui si alzò di scatto e mi chiamò.
“Bella!”
Mi bloccai e mi voltai lentamente per guardarlo.
“Come stai?” chiese dopo qualche secondo e, per la prima volta in assoluto, sentii la sincerità nella sua voce. Sentii che me lo stava chiedendo davvero.
“Me la cavo” risposi indifferente.
Lui annuì e si grattò la fronte per qualche secondo, probabilmente per raggruppare le idee. Ma non parlò.
“Sei venuto qui solo per questo?”
Annuì ancora e io iniziai a sentire la rabbia montare, come sempre.
“Mi sembrava di averti detto di non farti vedere, Edward. O sbaglio? Senza contare che hai il mio numero di telefono se proprio volevi fottertene di quello che ti avevo chiesto.”
“Sì, lo so… è che… Cioè, no. Non sono venuto solo per questo. Volevo parlarti.”
“Di?”
“Lo sai.”
“No, non lo so. Non so mai cosa cazzo ti passa per la testa perché sei un pezzo di merda, quindi dimmi pure. Di cosa vuoi parlarmi?”
Strinsi i pugni nelle tasche della maglia e aspettai quasi trepidante. Curiosa di sapere se fosse riuscito a dirlo.
Lui chinò il viso un secondo solo prima di alzarlo e parlare. “Del bambino” disse infine. “Voglio parlarti del bambino.”




_____

Inutile proprio chiedere scusa. 
Mi metto nelle mani della misericordia di chi ha gli esami e capisce cosa vuol dire 'sessione estiva'. ç___ç 
Detto questo.... 
Alla prossima! 
E grazie a chiunque (quattro gatti? xD) leggerà e/o recensirà *-* 

Fio xx

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Capitolo 7
*** Redemption ***


adito - cap 7

AHAHAHAHAHAHA *risata isterica*
Okay, non mi ero resa conto di stare postando questa storia di 3 mesi in 3 mesi... :') AHAHAHA Mi dispiace davvero tanto, posso solo dire che stavolta davvero cercherò di essere migliore negli aggiornamenti. A mia discolpa posso dire che, beh, luglio è stato quello che è stato e stavammo tutti un pò uccisi... u.u ho passato agosto a studiare diritto privato, settembre a fare un trasloco e ottobre lo passerò a fare una tesi totalmente da sola visto che quella grandissima figlia di buona donna della mia professoressa non risponde alle mail- Che bellina, eh? :') Per chi si fosse appena connesso, c'è un riassunto di ciò che è successo fino ad ora nell'intro al precedente capitolo, aggiungiamo Edward che si sente in colpa come, non so, le fette biscottate senza nutella, e ottenete il punto in cui siamo arrivati u.u Non ha senso, ma abbiate pietà di me. Ad ogni modo, ripartiamo da quella sera stessa, quando Edward rivela a Bella di voler 'parlare' del bambino :)


Buona lettura! xx
Music: Redemption - The strange familiar





Capitolo 7
 

Redemption



Restai a fissarlo per quelli che mi parvero secondi interminabili, cercando di convincermi che non avevo immaginato nulla. Lo aveva detto davvero, quei suoni erano usciti dalla sua bocca e avevano un senso, un significato particolare e più profondo di una qualsiasi altra parola di tre sillabe.
Che significasse che aveva capito? Che lo accettava? Che voleva cambiare? Non ne ero sicura, non potevo saperlo se lui continuava a ricambiare il mio sguardo indagatore, come se dovessi essere io a dire qualcosa, come se lui si aspettasse che fossi io a fare la prossima mossa.
E infatti…
“Forse vorresti dire qualcosa… a questo punto?”
Sbarrai gli occhi così che potesse notarlo bene, nonostante la scarsa illuminazione.
“Io non ho nulla dai dire. Sei tu che vuoi parlare” risposi, mettendomi poi in attesa della sua mossa.
Restò diversi secondi a torturarsi le mani all’interno dei jeans prima di parlare. “Io… io non so da dove iniziare… Non so che dire. Non mi sono mai trovato in una situazione del genere prima, né in una simile. Non so come ci si comporta, non so cosa si fa, non so nemmeno quello che si prova.”
Presi un respiro per me e, probabilmente, anche per lui. Mi morsi un labbro diverse volte prima che parlasse di nuovo.
“So solo che negli ultimi giorni non ho fatto altro che fissare questa foto…” continuò, estraendo dalla tasca una foto spiegazzata che riconobbi subito essere una foto dell’ecografia; ingoiai un nodo di saliva creatosi dall’ansia di sapere quale fosse il punto di tutta la situazione.
“E non so nemmeno perché, insomma la guardavo e non mi sembrava vero. E poi un secondo dopo la toccavo e sentivo tutto… consistente. Lo toccavo davvero, capisci?”
Annuii debolmente. Sì che capisco, Edward. È quello che provo ogni volta che mi sfioro la pancia. Se solo tu lo sapessi, quello che provo. Se solo tu ti sforzassi di camminare nei miei panni per un giorno, di sapere che ti andranno stretti prima di quanto immagini. Se solo aprissi gli occhi e mi vedessi davvero, noteresti quel minimo, piccolissimo, cambiamento nel mio corpo.
Non sapevo se fosse solo la mia immaginazione o la suggestione, ma mi ero messa davanti lo specchio quella mattina, avevo alzato la maglia e l’avevo notato. Un gonfiore leggerissimo, davvero poco evidente, impercettibile, ma io lo vedevo. Avevo anche creduto di essermi impressionata. Non si può avere la pancia già a due mesi, mi ero detta, e avevo fatto la cosa più stupida che si possa fare in queste situazioni: ricerche su internet.
Se non altro, però, avevo riscontrato altre esperienze di donne a cinque settimane con pancia, o forse convinte di averla, come me. Forse eravamo tutte illuse, desiderose di avere quanto prima quel cambiamento e fare un altro passo avanti. Mi sentivo così indietro che tutto sembrava passarmi avanti senza accorgersi di me. Volevo solo prendere il ritmo e sentire tutto dentro. Fino all’ultimo spostamento.
Ad ogni modo, pancia o no, sapevo bene cosa intendesse Edward, sapevo che aveva preso coscienza di un qualcosa, proprio come avevo fatto io già un paio di settimane prima. Non sapevo cosa fosse eppure mi ci era voluto un giorno per accettarlo e fare la mia scelta; probabilmente è così che funziona, riflettei. Le donne lo avvertono semplicemente prima. È il loro corpo che cambia, dopotutto. Sono loro che sentono davvero, almeno all’inizio. Per quanto un uomo possa essere empaticamente vicino a una donna incinta, non potrà mai sapere cosa vuol dire davvero.
Forse è per questo che ora avevo un ragazzo fuori la porta di casa mia, con una foto di un’ecografia in una mano. Ma nell’altra? Cosa c’era nell’altra?
“Qual è il punto, Edward? Dove vuoi arrivare?”
Lo vidi arricciare le labbra e le sopracciglia in un’espressione corrucciata, in cerca di parole, forse.
“Non… non lo so. Penso di volerci provare, davvero.”
“Davvero, Edward? Davvero?”
“Io… non lo so. Non ne sono sicuro.”
“Non ne sei sicuro? Ma mi prendi per il culo?!”
“No, non lo faccio! Dio… Bella. È difficile, okay? Mettiti un secondo nei miei panni!”
E non potei trattenere un sorriso amaro. “Sai, stavo per dirti esattamente la stessa cosa…”
Lui sospirò, annaspando alla ricerca di parole. “Senti, mi dispiace, okay? Per tutto questo…” e si bloccò prima di dire casino o una qualsiasi parola che mi avrebbe fatta incazzare a morte. “Per tutto quello che è successo.”
“Anche a me, Edward, sai? Con la differenza che a me dispiace come è successo. Mi dispiace che sia successo ad una festa, in una camera di qualcuno che non conosco, su un letto che non è il mio, con mezzo litro di vodka in corpo e con uno come te! Ma ormai è successo, va bene? Quindi fattene una ragione. Queste scuse, il tuo dispiacere… Non servono più. Smettila e andiamo oltre, altrimenti stiamo fermi sempre allo stesso punto!”
“Hai ragione” disse senza pensarci troppo. “Hai ragione” ripeté e potei quasi sentire l’odore di altre sue scuse nell’aria. Era tutto ciò che quel ragazzo sapeva fare. Chiedere scusa piuttosto che affrontare le cose; come se davvero solo le scuse potessero risolvere la situazione.
“Non funziona così, Edward. Ci stiamo incasinando troppo. Io lo so che non volevi che accadesse, lo so che ti senti anche in colpa, che vorresti magari essere diverso, vorresti sapere cosa fare, come comportarti, cosa dirmi. Cosa è giusto e cose è sbagliato. So che vorresti sapere dove sarai da qui a cinque anni, lo capisco. Ma tu capisci che mentre tu ti prendi altro tempo, io vado avanti, e non aspetto nessuno. Non voglio metterti fretta o farti fare qualcosa che non vuoi davvero, ma non posso permettermi di rallentare, perché se mi fermo… mi rendo conto che sono sola e non so se ce la farei.”
A questo punto, in ogni film o romanzo che si rispetti, lui dovrebbe avvicinarsi a lei e dirle che non è sola, che lui ci sarà sempre, anche per una stronzata.
Ma noi non eravamo in un film né in un libro. Edward si limitò a chinare il capo e sussurrare un flebilissimo: “Bella…”
Troppo, troppo flebile perché potesse trattenermi in qualche modo.
“Sono molto stanca, Edward. Buona serata.”
Mi voltai e presi le chiavi di casa. Salii gli scalini senza guardarmi più indietro, senza sentire la sua presenza dietro di me, senza sentirlo muoversi o respirare.
Era andato via, pensai, quando sentii due mani calde poggiarsi lentamente sulla mia vita e, per mia rovina, le riconobbi subito. Mi ghiacciai, una mano ferma sulla chiave nella toppa, l’altra immobile sul portoncino, e il respiro mozzato dal sentirlo così vicino a me. Avvicinò la bocca al mio orecchio. “Domani, a pranzo. Ti prego” sussurrò. “Ti prego…” ripeté, scongiurando, e, bloccata dalla porta e dal suo corpo, in quella stretta così calda e sicura, non trovai nessun valido motivo per dirgli di no.
Annuii e sentii subito il suo sorriso contro la mia pelle. “Grazie, piccola…”
E così come si era avvicinato senza far rumore, andò via, lasciandomi ad affrontare il brusco distacco dal caldo al freddo.
 
“Non avrei dovuto accettare, lo sapevo.”
“Mi sembra di aver capito che non avessi molta scelta” sogghignò Rose, la quale aveva voluto sapere ogni dettaglio del modo in cui mi ero lasciata incastrare da Edward. Per qualche motivo a me ancora ignoto, lei lo appoggiava, parlando di seconde possibilità e di redenzione. Non che io l’ascoltassi davvero, stavo mettendo in borsa le ultime cose, prima di controllare l’orologio e rendermi conto che era quasi in ritardo. Presi il cellulare dalla borsa.
“Bella, ha detto alle 12. Hai controllato già tre volte. Dai a quel povero cristo il tempo di arrivare.”
“È un segno Rose. Lo sapevo. Che ore sono?”
“Le 12:10”
Andai in cucina e presi un bicchiere d’acqua che bevvi tutto d’un sorso.
“Bella…”
“E ora che ore sono?”
“Le 12:11…” e anche un sordo avrebbe percepito la noia e il disappunto nella sua voce. “E non è nessun segno. La smetti di analizzare tutto?”
“Io non analizzo tutto.”
“Ah, no? Quindi quella che ho visto un secondo fa nella tua borsa non era la lista dei pro e di contro, vero?”
Avvampai per un secondo, colta in fallo, convintissima di essere riuscita a nasconderle quella mezza follia. Sapevo che lo era, eppure mi dava un senso di sicurezza. Molto stupido, me ne rendevo conto.
“Ti conosco da anni, Bella. Fai una lista dei pro e dei contro anche per scegliere quale bagno usare in autogrill.”
“Rose! Dai, non esageriamo ora!” mi difesi, indignata da quell’esagerazione. “La faccio solo per le cose importanti.”
“Quindi ammetti che questa è una cosa importante.”
“Beh, sì. Voglio dire, stiamo comunque parlando del padre di mio figlio, mica cazzi.”
“E meno male. Direi che di quelli ne hai avuto abbastanza per un po’…”
La fulminai con lo sguardo e lei soffocò una mezza risata mentre riprendeva a parlare. “E allora?”
“Cosa?”
“Allora, questa lista? Resoconto? Statistiche? Verdetto?”
“Decisamente negativo. Altro segno che questa uscita sarà un buco nell’acqua.”
“Fa vedere.”
Mi prese alla sprovvista, allungando una mano verso di me. “C… cosa?”
“La lista. Fa vedere.”
Con ansia, quasi astio, tirai la lista fuori dalla borsa e lei me la strappò letteralmente dalle mani.
Prese a leggerla, e io la osservavo, intimorita dalla ruga che diveniva sempre più profonda man mano che avanzava.
Non feci nemmeno in tempo a chiedere cosa ne pensasse che la fece in almeno sedici pezzettini proprio sotto i miei occhi e sotto la mia bocca aperta.
“ROSE!”
“Ah, non farmi ‘Rose!’ ora.”
“Ma perché diamine l’hai fatto?”
“La tavoletta del bagno alzata, Bella? Seriamente?”
“Beh? Guarda che il 90% degli uomini la lascia alzata.”
“Okay, e questo è abbastanza per farlo diventare un contro in un’assurda lista pro/contro pranzo e nell’eventualità che andiate un giorno futuro a vivere insieme?”
Okay, forse avevo un po’ esagerato.
“Bisogna considerare tutte le possibilità” difesi la mia teoria.
“Oh, davvero? E allora perché non c’era nessun punto che vi vedeva felici ad aprire regali sotto l’albero di Natale? O a fare pupazzi di neve? O preparare biscotti? O andare in spiaggia o semplicemente fare un bagno rilassante insieme o…”
“Oh, Rose! Frena! È solo un pranzo…”
“Infatti!” contestò lei e capii dove voleva arrivare.
“…un pranzo da cui non posso ricavare quello che accadrà da qui a qualche anno. Chiaro. Ricevuto.”
“Ecco. E ora smettila di fissarti allo specchio del forno. Stai bene, Bella.”
“Sicura?” chiesi, osservando per la millesima volta i miei vestiti – una gonna di jeans, una semplice maglietta molto alla marinara, e un paio di ballerine della Tommy Hilfiger, di stoffa, bianche e con i lacci blu, molto semplici.
“Sicura. Sei bellissima. Sai, non so come interpretare questa tua ansia da primo appuntamento. Non sarà che questo ragazzo inizi a piacerti un po’ troppo?”
Alzai gli occhi al cielo. “Rose, per piacermi un po’ troppo, dovrebbe quanto meno piacermi minimamente. E ti assicuro che non è il mio caso. E comunque non è un appuntamento.”
“Giusto, quindi ci sei andata a letto per il suo carattere strafottente, menefreghista, altezzoso e immaturo” continuò lei, citando le mie stesse parole di qualche tempo fa. “E sì, è un appuntamento.”
Le risposi con una smorfia più che visibile. “Non sto certo dicendo che non sia attraente. E no, non lo è.”
“Attraente? Edward Cullen? Quando mai! Scherzi? È un cesso! Uno scherzo della natura. E sì, lo è. Altrimenti come lo definisci?”
“Beh, è una specie di pranzo di lavoro. O pranzo di futuro, ecco. Siamo due potenziali investitori in una stessa compagnia che pranzano insieme per valutare eventuali rischi, perdite, guadagni e decidere se la cosa è fattibile o meno.”
“Wow, complimenti per la metafora. Non avrei saputo elaborarne una più fredda per descrivere due potenziali genitori che decidono della vita del loro bambino.”
Rabbrividii al suono di diverse parole in quella frase e al rumore che creavano insieme. Potenziali, genitori, bambino. Sovraccarico di informazioni, aiuto!
“Senti, ma tu non hai un ragazzo tuo a cui pensare?”
“Sì, ce l’ho. E mi piace davvero, e lo ammetto anche. Prendi esempio. E non credere che non abbia notato il tuo volontario sviamento dell’argomento.”
Scossi il capo, incapace di nascondere un sorriso nato dalla sua assurdità, e spostai l’argomento su di lei, ma cadde nel vuoto.
“Che ore sono?”
“Le 12:19”
“Bene, venti minuti di ritardo sono più che abbastanza. Se non viene entro sessanta secondi, giuro che…” non finii la frase che il cellulare mi vibrò tra le mani.
Sono fuori.
“Giuri che…?” mi schernì Rose, con un sorriso soddisfatto in viso.
“…che mi sarei sforzata di essere una persona migliore e avrei aspettato altri dieci minuti” terminai la frase, totalmente diversa dalle intenzioni iniziali e lo sapevamo entrambe.
“Vai, scema. E non essere troppo dura. E stai tranquilla, okay? Tranquilla e rilassata.”
“Certo, sicuro. Tanto ho la bella copia della lista con me, quella era la brutta.”
“BELLA!”
“Ciao, Rose!”
Presi un respiro e uscii di casa.
Lui era lì, di fronte a me, nei suoi jeans e camicia, tranquillamente appoggiato alla macchina. Gli feci un cenno da lontano e si mise dritto quando mi avvicinai a lui, per trovarmi nella situazione più imbarazzante di sempre. Sarebbe bastato un semplice ciao, e invece mi ero trovata a due centimetri da lui, senza sapere se dargli due baci sulla guancia o una pacca sulla spalla.
Andammo a destra e sinistra in sincrono per almeno quattro volte finché lui non afferrò con fermezza il mio fianco, attirandomi a lui, per darmi un solido bacio sulla guancia. Durò non più di tre secondi ma bastò a farmi avvampare e lui lo notò.
“Non puoi arrossire per così poco” sorrise, spezzandomi quel briciolo di fiato che mi era rimasto. “Però sei troppo bellina” mi sussurrò all’orecchio prima di farsi indietro e aprirmi la portiera, da vero gentiluomo.
Okay. Dove ero finita? Che brutta fine aveva fatto quel ragazzo arrogante e strafottente che avevo conosciuto fino a qualche giorno prima?
“Che fine hai fatto fare ad Edward Cullen?  Devo controllare il bagagliaio? L’hai ammazzato e scuoiato vivo? Hai un fratello gemello?”
“Ma che farfugli?”, mise in moto.
“A cosa devo tutta questa gentilezza. Non sei tu.”
“Io sono gentile invece. Non sarà che forse non mi conosci?” alzò un sopracciglio, accompagnato da un sorriso eloquente.
“Forse. Intanto so che sei ritardatario.”
“C’è un incidente a due isolati da qui.”
Fui tentata di non credergli ma dovetti mentalmente redimermi quando prese la parallela e vidi che c’era un agglomerato di macchine e un paio di volanti della polizia.  Forse aveva ragione Rose, dopotutto. Forse ero partita io col piede sbagliato con lui, forse ero io ad essere stata troppo dura. Decisi di rilassarmi un po’ e mi presi il permesso di accendere la radio e fermarla a una canzone dei Green Day.
“No ma, fai pure come se fossi in macchina tua, eh.” Capii dalla sua voce che scherzava e risposi con una smorfia e un’alzata di spalle.
“Non so stare senza musica, spiacente. Abituati.” Lo dissi senza nemmeno pensarci e mi resi conto solo subito dopo di cosa implicasse quell’ultima, innocente parola, carica di significato. Cercai una sua reazione con la coda dell’occhio.
“Non sarà un problema. Nemmeno io so stare senza musica.”
Sorrisi e guardai fuori dal finestrino le strade della città che passavano sotto gli occhi, senza chiedere dove stessimo andando. Beccai un paio di volte Edward fissarsi sulle mie gambe esposte ma non mi diede fastidio. In fondo era un ragazzo e, fino ad ora, era stato educato. Non potevo certo biasimarlo se si trovava a guardarmi le gambe. Sorridevo tra me e me piuttosto.
Ci fermammo dopo non molto, in una strada non troppo affollata e in cui, a mio ricordo, non ero mai stata. Scendemmo dalla macchina e mi posò una mano sulla schiena, come per indicarmi la strada. Capii dove eravamo diretti e iniziai a camminare più sicura, finché non ci sedemmo a uno dei tavolini rotondi, di vimini, del piccolo ristorante italiano in cui mi aveva portata. Le sedie erano comode, di vimini anche esse ma con morbidi cuscini bianchi dietro la schiena. I tavoli erano tutti uguali, ma molto graziosi. Decorati con semplicità: tovaglia color panna, una candela e un piccolo vaso con dei fiori al centro.
“È grazioso qui”, azzardai l’inizio di una conversazione sulla cosa più frivola di cui potessimo parlare.
“Sì, e si mangia davvero bene. Prendi quello che vuoi!” asserì, gentile, quando un cameriere ci portò i menu, per poi ordinare anche per me quando il cameriere tornò cinque minuti dopo.
“Due farfalle al pesto, con panna e burro.”
E meno male che potevo prendere quello che volevo.
“Devi assaggiarlo! È delizioso!” disse poi Edward, rivolto ovviamente a me.
Il ragazzo iniziò a segnare l’ordinazione ma richiamai subito la sua attenzione.
“Scusa, ci sono le noci nel pesto?”
“Un po’ nella salsa, sì.”
“Prenderò le pappardelle ai funghi porcini, grazie.”
“Come vuole. Per il secondo?”
“Ordineremo il secondo dopo il primo” risposi d’istinto, senza curarmi della volontà di Edward e, soprattutto, prima di lui e prima che potesse decidere anche per me.
Già non andavamo bene.
Il ragazzo si congedò, aprendoci una bottiglia di vino e una di acqua.
Edward mi guardò con sguardo curioso.
“Sono allergica alle noci”, rivelai, infine.
“Oh, scusa. Non lo sapevo.” Assunse uno sguardo quasi da cane bastonato e mi sorprese.
“Non importa, non potevi saperlo. Ma la prossima volta evita di decidere per me senza chiedere la mia opinione, okay?”
Okay, di solito non ero così dura e probabilmente non avrei fatto storie se non fossi stata allergica alle noci ma meglio prendere precauzioni ed evitare che il signorino si prendesse non solo il dito ma tutto il braccio.
“Okay, scusami.”
Sentire Edward chiedere scusa era quasi un’esperienza, una specie di avventura in cui non sapevi cosa avresti incontrato: se un faccino triste, un sorriso riparatore o una scrollata di spalle.
In quel caso se la cavò con un sorriso e sfruttò l’argomento. “Quindi sei allergica anche alle nocciole?”
“Mm mh.”
“Quindi gelato, frappè, cioccolata… nutella!? Niente di tutto questo?”
“Già” risi. “Beh, quando sono in fase depressiva non riesco a resistere alla Nutella… e il giorno dopo mi trovo la faccia piena di bolle.”
“Fase depressiva?”
“Sì, sai. Quando tutto quello che vuoi fare è fissare la televisione e ingozzarti di zuccheri fino a stare male, dopo aver trovato il tuo ragazzo che si scopa un’altra.”
“O dopo aver scoperto di essere rimasta incinta di uno stronzo a una festa a cui non avresti dovuto essere.”
Ripensai alla mia serata passata sul divano a trangugiare gelato a più non posso, solo poco tempo prima.
Annuii, incerta ma lieta che finalmente lui riuscisse a mettere in mezzo l’argomento senza troppe difficoltà.
“Sì, anche in quella occasione, in effetti”, ammisi, cercando di non appesantire la conversazione.
“Mi dispiace” sussurrò, mentre prendeva una mia mano sul tavolo. E percepii la totale sincerità sia nelle parole che nel gesto. “E comunque, ci ha perso lui.”
“Eh?”
“Il tuo ex-ragazzo. Quello della festa. Ci ha perso lui.”
Sorrisi amaramente. “Non è il punto di vista più condiviso. Insomma, si è consolato subito e io sono qui… Sola e incinta, e…”
“Non sei sola.”
“Lo so, non era quello il senso…”
“In che senso allora?”
Mi guardai in giro, cercando di prendere tempo e di spiegare nel miglior modo possibile le mie paure. “Un figlio ti cambia la vita, Edward. Occupa il tuo tempo, diventa il centro del tuo universo, vivi per offrirgli le migliori possibilità. Tutto l’amore che potresti mai provare… lo proietti su di lui, sperando che resti la vera sicurezza della tua vita. Non avrei creduto di trovarmi in questa situazione così presto. Avrei voluto… innamorarmi. Innamorarmi davvero. Avrei voluto proiettare quell’amore sulla persona che sarebbe stato il padre di mio figlio, avrei voluto solo che tutto andasse normalmente. Avrei incontrato qualcuno, ci saremmo innamorati, sposati, casa, figli. Mi sembra di vivere al contrario invece. È come quando becchi un film alla fine e poi lo ridanno sul canale +1 e vedi l’inizio. C’è qualcosa di sbagliato, come se non avesse senso andare avanti perché poi sai già come finisce e invece dovrebbe essere il contrario, no? Dovresti guardarlo con l’ansia e l’eccitazione di voler conoscere quella dannata fine. E, non so, magari ad alcuni piace avere già tutto in tasca e sapere come andranno le cose ma io… io volevo arrivarci a quella fine senza saperla, non volevo partire da lì.”
Si assicurò che ebbi finito prima di commentare: “Finita la lagna?”
Alzai il viso e incontrai il suo… scocciato?
“Come?”
“Sei un po’ una lagna, Bella, se posso dirtelo. Stai qui a lamentarti della tua vita che va al contrario quando non sai un cazzo. Cristo, ma ti sei sentita? Parli come se avessi ottantacinque anni! E invece quanti ne hai? Venticinque? Ventisei?”
“Ventiquattro.”
“Ventiquattro! Ventiquattro anni e stai qui con la faccia addolorata a convincerti del fatto che la tua vita è finita! Cosa mi stai dicendo esattamente? Che hai paura di non trovare un ragazzo? Di restare sola in quel senso? Di non avere una casa e un marito tuo per… questo?”
Abbassai lo sguardo.
“Beh, sono una marea di cazzate, perché un figlio ti cambia la vita, sì, ma non te la ferma, né la blocca, né la uccide. Non posso dirti che domani incontrerai l’uomo della tua vita che accetterà che tu abbia un figlio da un altro uomo e ti chieda di sposarlo ma, cazzo, se parti così ti uccidi ancora prima di provarci! Ancora prima di saperlo! Perciò smettila di fare la bambina e renditi conto che la tua vita inizia ora, non importa in che modo, okay? E in un modo o nell’altro, avrai comunque me perché, beh, ormai siamo legati, in un certo senso. E risolveremo i problemi che verranno senza bisogno di aver voglia di spararci una lametta nelle vene o una torta all’arsenico, chiari?”
Privata di qualsiasi forza di volontà, colpita e atterrata da quelle parole, mi ritrovai ad annuire.
“Bene. Non voglio più sentire discorsi del genere.”
E in quel momento mi resi conto che, volente o nolente, Edward Cullen era entrato nella mia vita: lo avrei visto per giorni interi, per sempre. Avrebbe potuto consigliarmi, urlarmi contro, darmi la sua opinione, dirmi quando qualcosa non gli andava giù.  Gli sorrisi e mimai un silenziosissimo grazie con le labbra. Probabilmente non lo sentì nemmeno lui ma ricambiò il sorriso.
“Ad ogni modo, tornando a noi, tu sei davvero sicuro di voler fare questa cosa? Cioè, davvero?”
Sembrò quasi annoiato o ferito dalla mia domanda, come se volesse dirmi: “Basta mettermi in dubbio, ti ho detto di sì!” e infatti ottenni una risposta pressoché simile, prima che lasciasse andare la mia mano e si accendesse una sigaretta.
“Perché?”
Lui non si tirò indietro dal rispondere alla domanda. “Vuoi proprio sapere come ho fatto a cambiare idea e atteggiamento da un giorno all’altro, vero?”
Annuii. Era piuttosto ovvio in fondo.
“Okay, hai mai letto Joyce?”
Annuii ancora, avendo qualche vago ricordo delle letture di Gente di Dublino al liceo.
“Ecco. Hai presente quando Eveline ricorda il suonatore di organetto italiano che suona con aria malinconica? Vedi, lei da una parte pensa ai sacrifici che ha fatto e a una vita fatta di responsabilità, dall’altra vede la possibilità di un cambiamento, capisce il senso della sua vita e che non è mai troppo tardi per essere quello che avresti potuto essere. Capisci?”
Pur non ricordando quel momento particolare nei racconti, avevo capito a cosa si riferisse.
“Epifania…” sussurrai.
“Esatto. Una cosa molto banale ti apre gli occhi ed è come se capissi tutto per la prima volta, come se tutto fosse chiaro e ti senti meglio con te stesso perché sai di stare facendo la cosa giusta. E non giusta moralmente, ma giusta perché ti fa stare bene dentro. Poi, sai, a volte le persone capiscono i loro errori troppo tardi e passano la loro vita a cercare di espiarli. Preferisco redimermi quando sono ancora in tempo.”
Era più che evidente che Edward fosse serio. Non sarebbe esistito santo che, sceso in terra, mi avrebbe portato a dubitare di una spiegazione così… sentita. Era sentita, sì.
“D’accordo. Hai passato l’esame.”
“Addirittura? E ottengo un premio?”
“No, solo un piccolo angolino buio nelle mie grazie.”
“Perfida.”
Risi. “Scusa, so che posso sembrare pesante ma… avevo bisogno di sapere. Non si torna indietro, e non è facile convivere con me.”
“Sei già alla convivenza? Io pensavo di sposarti prima, no?” mi prese in giro.
“Hai capito il senso, idiota.”
“Insulti affettuosi, buon segno.” Rise da solo.
“La smetti?” lo ripresi, sentendomi una scema.
Sorrise sommesso. “Sono pronto, Bella. E non torno indietro, davvero. Facciamolo.” Riempì il suo bicchiere di vino e ne mise un goccio anche a me. Per questa volta, ci stava.
Ricambiai il sorriso. Facciamolo. Facemmo tintinnare i bicchieri e bevemmo.
“Bene, in tal caso ho abbozzato qualche regola che penso dovremmo seguire per far sì che tutto funzioni nel modo possibile. Tanto per cominciare, spegni quella cosa.” Puntai la sigaretta.
“Mi stai prendendo in giro?”
“Per niente.”
Lui sembrò totalmente divertito; forse non gli era chiaro che invece io ero serissima.
“Dico davvero, Edward. Non sopporto il fumo. Non ne sopporto il sapore e tanto meno l’odore. Ti prego di non fumare quando sei vicino a me.”
Alzò le sopracciglia, evidentemente annoiato da quella prima clausola, ma vinsi io.
Trattenne uno sbuffo e spense la sigaretta silenziosamente, anche se mi sembrava di poter sentire le urla e i lamenti che battevano pugni nella sua testa per cercare di uscire.
“Contenta?”
“Non è solo questo.”
“Sentiamo.”
“Okay, tanto è poca roba, tranquillo. Dovresti ricordare tutto. Al limite ti faccio una copia.”
“Sentiamo, Bella” ripeté.
Mi schiarii la voce e presi a leggere. “Okay, tanto per cominciare niente vezzeggiativi o nomignoli strani, Niente tesoro, zuccherino o qualsivoglia epiteto da diabete a tremila. Niente regali, niente viaggi, niente scenate di gelosia. Niente costrizioni o restrizioni. Niente coprifuoco. Niente diritto di veto su eventuali appuntamenti con altra gente: usciamo con chi vogliamo, quando vogliamo. Niente matrimonio o convivenza. Niente fumo quando siamo vicini. Ovviamente niente baci di nessun tipo o roba simile. Non compreremo nulla insieme, che si tratti di una cena o una casa. Per nessun motivo al mondo verrò mai più a letto con te, e non ti innamorerai di me. Tutto qui.”
“Finito?”
“Sì.”
“Quindi… sei seria?”
“Ebbene.”
“Wow, sei… molto schematica. Non ti sembra un po’ troppo?”
“No. Va benissimo così.”
“Oh, andiamo! Va bene per il fumo ma… niente regali? E non posso nemmeno pagarti una cena, se voglio?”
“È meglio così, Edward. Credimi.”
“No, mi rifiuto. D’accordo sul fumo, ma questo no. Non voglio fare a metà se ti invito fuori a cena. E non voglio discutere su questa cosa. O tratti o infrangerò ogni singolo punto di questa cazzata.”
Sbuffai. “D’accordo. Pagami pure le cena, capirai! Se ci tieni tanto.”
“E se io non fumo davanti a te, tu smetti di bere caffè.”
Okay, ora stavamo esagerando.
“Lo so che ne sei dipendente, ma non ti fa bene nel tuo stato. Devi ridurlo, assolutamente.”
Avrei voluto ribattere ma sapevo bene che non avevo uno straccio di argomento per farlo così lasciai che le parole mi morissero in gola, soprattutto dal momento in cui era una cosa che non riguardava solo me ma anche il bambino. “D’accordo…” concordai, infine.
“Ma non la concepisco proprio questa cosa. È una stronzata. E quando dovremo comprare cose tipo culla e passeggini e fasciatoi, come faremo? Perché nella tua assurda lista di regole mi sembra che tu non abbia tenuto conto di tutti i dettagli…”
“Ma perché questa è solo un abbozzo, una specie di prova per vedere come vanno le cose tenendo in mente questi punti. Ovviamente può essere modificata più avanti, all’occorrenza, e resa più corposa” sentenziai, soddisfatta.
“Sei una folle, Bella. Una pazza, squilibrata e maniaca del controllo. Non abbiamo bisogno di questa roba, dai!”
“Credimi, ne abbiamo bisogno. Un giorno mi ringrazierai.”
“Certo, ti ringrazierò per avermi fatto internare per attacchi violenti generati da costrizioni comportamentali imposte e sdoppiamento della personalità.”
“Stai facendo il melodrammatico.”
“Quindi, fammi capire, se ti do un bacio sulla guancia, ho automaticamente infranto una regola?”
“Esatto, vedo che apprendi subito!”
“E che succede se infrango una regola?”
“Penseremo a una punizione adeguata.” Aggiustai il tovagliolo sulle gambe per evitare di guardarlo in faccia, ma non riuscii a contenermi per molto; e quando sentii chiaramente una sua risatina pacata e carica di sottointesi, alzai il viso per vedere cosa quel ghigno nascondesse.
“Sai, Bella, ci sono tante cose che non sai di me… Una di queste è che ero un bambino molto ribelle e sono cresciuto infrangendo le regole impostemi per avere la mia libertà e ottenere quello che volevo, e ci sono sempre riuscito.”
Un groppo di saliva si annidò al centro della gola e non volle proprio saperne di scendere.
“Mi piacciono le sfide, mi sono sempre piaciute. Sono ostinato e amo rischiare.”
Cosa stava cercando di dirmi esattamente?
“E non hai idea di quanto darei per sapere quale punizione avrei se infrangessi l’ultima regola.”
Deglutii, mentre quegli occhi che avevano tenuti incatenati i miei per secondi interminabili, lasciavano la presa nel momento in cui il cameriere si presentò con le nostre portate e la mia testa, in totale blackout, riuscì ad elaborare una sola informazione, un solo pensiero. L’ultima regola.
Non ti innamorerai di me.
 
“Sei silenziosa” notò Edward quando, un paio d’ore dopo, passeggiavamo per le vie calme di un parco. “Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato?”
Dovevo ancora abituarmi a quel suo nuovo atteggiamento e quasi mi venne difficile rispondergli, anche perché non conoscevo il vero motivo per cui mi ero ammutolita. Come sempre, forse, pensavo semplicemente troppo.
“No, niente. Ho solo un po’ di nausea” la buttai lì, e non era nemmeno una vera bugia. Il dolce doveva avermi appesantita troppo e ora avevo un leggero fastidio allo stomaco.
“Vuoi che ti riaccompagni a casa?”
“No, no!” risposi fulminea. “Non è insopportabile”, e infatti non lo era. Non avrei mai pensato di dirlo, ma preferivo stare con lui, magari cercare di capirlo un po’ di più ad ogni passo.
“Allora, Isabella. Raccontami un po’ di te, dai.”
Mi prese alla sprovvista. “Ehm, cosa vuoi sapere?”
Passammo un paio d’ore seguenti, seduti su una panchina del parco, a parlare normalmente e con molta semplicità. Edward volle sapere di me e della mia famiglia, e io altrettanto. Scoprii che aveva una sorella maggiore, sposata e con due figli. Così come i genitori, viveva in Inghilterra, mentre lui aveva asserito che quel posto gli era stretto e aveva semplicemente voluto cambiare aria e andare, giustamente, all’altra parte del mondo.
“E non ti manca la tua famiglia?”
“Ovvio. E a te non manca la tua?”
“I miei genitori hanno divorziato molto tempo fa. Mamma si è risposata e vive in Florida. Papà, ahimè, è rimasto scapolo e vive a Forks.”
“E quindi non ti mancano?”
“No, certo che mi mancano. Insomma, sto bene sola. Loro sono un po’ incasinati, o almeno lo erano all’inizio, ma sono okay. Sì, mi mancano a volte, ma almeno sono nel mio stesso continente.”
Edward passò a parlarmi della sua decisione di laurearsi in veterinaria. “Fin da piccolo ho sviluppato una particolare empatia verso gli animali. Mi fido di loro molto più che delle persone”, confessò parlandomi della clinica in cui aveva iniziato a lavorare dopo l’università. Ripensai a Edward, il giorno in cui l’avevo visto al parco con il suo cane e a quanto sembrasse un’altra persona con gli animali.
“Io adoro gli animali”, commentai semplicemente.
“Cani o gatti?”
“Cani! Cani per sempre! I gatti sono troppo strafottenti. Mi hanno sempre dato l’impressione di dipendere da te solo per il mangiare e poi ti guardano con una faccia che ti manda a fanculo.”
Edward rise. “Sono d’accordo. I gatti sono solo per sociopatici.”
Non potemmo non toccare l’argomento aspettative per il futuro; detto più semplicemente e con toni da quinta elementare: cosa vuoi fare da grande?
“È difficile spiegare a qualcuno quello che vorresti essere quando non lo sai nemmeno tu.” Iniziai. “Io non lo so bene… E lo so che è assurdo e che a quest’ora dovrei saperlo da un pezzo… ma davvero non lo so.”
“Ma ci deve essere qualcosa che ti interessa.”
“Beh, sì ovvio.”
“Ecco, se dovessi vederti in qualche veste, quale sarebbe? Lascia stare i limiti e le possibilità. Cosa vorresti essere?”
“Fotografa” risposi di getto, guidata dalle sue parole, senza nemmeno pensarci. “Mi piacerebbe essere una fotografa, magari avere una galleria d’arte, roba del genere. Non lo so, immagino che si vedrà. Non si campa di foto, soprattutto non ci cresci un bambino.”
“Hey, i soldi a casa li porto io!” scherzò, probabilmente tentando di tirarmi su il morale.
“Ma manco morta! Per quanto ci scherzi sopra, non farei mai la mantenuta! Piuttosto mi chiuderei in un ufficio a rispondere a un telefono, se è quello che serve.”
E sarebbe stato un grande tappo per le mie ali da spirito libero e artistico, ma l’avrei fatto davvero se, a lungo andare, si fosse rivelato necessario.
Lui continuò a scherzare a iniziò un’arringa sull’ego maschile e su come il ruolo della donna dovesse essere quello di badare alla casa e alla famiglia. Sperai vivamente che stesse scherzando e dal tono dava quell’impressione, ma poco dopo fui totalmente distratta e smisi di ascoltare quello che stava dicendo.
Pochi metri più in là, un bambino rapì la mia attenzione. Sembrava avere circa sei o sette anni, correva avanti e dietro per poi fare capolinea alla panchina su cui era seduta quella che doveva essere la madre. Non mi ci volle molto per capire che non era totalmente normale. Bastò un’occhiata verso di me, uno sguardo più attento ai suoi movimenti scoordinati, un grido acuto fuori dal comune, uno scatto delle braccia e delle mani. Non seppi definire quello che vidi, non era sindrome di Down e non seppi darvi un nome, ma riuscì, in pochi secondi, a crearmi un nodo in gola non indifferente. Pensai a cosa poteva essere andato storto, cosa poteva essere successo. Pensai a quella madre, al suo peso sul cuore, alle lacrime che, probabilmente, versava ogni notte nel letto, in silenzio.
Sarebbe tornata indietro, se avesse saputo? Avrebbe fermato il tempo, se lo avesse immaginato? Sarebbe andata avanti ugualmente? Avrebbe capito qual era la sua migliore possibilità? Sicuramente sarebbe stata con lei, ma dopo? Quale sarebbe stata la sua migliore possibilità quando lei lo avrebbe lasciato?
Sentii gli occhi inumidirsi e, d’istinto, portai le mani in grembo, proteggendolo e mi irrigidii. Pregando, egoisticamente. Ti prego, fa che non succeda a me. Ti prego, fa che vada tutto bene.
Passarono pochi secondi prima che sentissi un braccio attorno alle mie spalle, trascinarmi sul petto di Edward.
“Andrà tutto bene, Bella. Tranquilla.”
Doveva aver notato dove il mio sguardo era fisso e captato i pensieri che mi stavano affliggendo, eppure quelle poche parole non fecero altro che farmi piangere più forte.
Di rimando, lui prese a carezzarmi la schiena.
“Hey, guardami”, con un dito alzò il mio mento così che potessi vederlo negli occhi. “Andrà tutto bene. Te lo prometto.”
Annuii e abbozzai un sorriso, tornando a farmi stringere da lui, e mi domandai se da qualche parte, nel mondo, qualcuno stesse vivendo la nostra stessa situazione e sperai che una ragazza fortunata stesse sorridendo, come me, sentendo finalmente quelle parole provenire dalla persona giusta.
 
Quando Edward mi riaccompagnò a casa, il cielo era ormai scuro.
“Grazie per oggi” gli dissi, sugli scalini di casa.
“È stato un piacere, Bella. Davvero. Non sei così male come pensavo.”
“Hey!”
“Regole e mania del controllo a parte…”
Gli diedi un piccolo colpetto.
“Ah, attenta! Mi hai toccato! Ora dovrei elaborare una punizione…”
“Spiritoso!” salii un altro gradino iniziando a mettere distanza tra di noi, decidendo in un millesimo di secondo se azzardare o no.
Decisi per il sì. “Senti, vuoi entrare?” Mi resi conto di essermi mangiata almeno una decina di vocali. Lui mi guardò, stranito. “Io e Rose vedremo un film, ma possiamo chiamare Emmett così puoi non fingere di sentirti a disagio con due ragazze.” Piccola frecciatina, ma anche molto amichevole.
Lui mi riservò un’occhiataccia prima di ridere e rifiutare l’invito perché aveva un impegno. Non specificò che tipo di impegno e non potei fare a meno di pensare che si trattasse di un appuntamento. In fondo io stessa avevo appena stabilito precise regole a riguardo e a lui di certo non mancavano ragazze che gli ronzavano attorno, eppure il solo pensiero mi diede leggermente fastidio. Non l’avrei mai ammesso a lui, ma sapevo che era così.
“Oh.. Okay” scrollai le spalle, con aria indifferente, guardandolo dall’alto del mio gradino, anche se lui era così vicino, un gradino più giù, da rendere davvero minimo lo spazio che ci divideva. “Allora ci vediamo!” lo salutai.
“Domani lavori, vero?”
“Sì.”
“D’accordo. Magari ci vediamo in serata, se vuoi, non so… Ti chiamo!”
“D… d’accordo.”
E prima che potessi rendermi conto di ciò che stava per fare, con un movimento veloce salì il gradino che ci separava e, raggiungendo la mia altezza, posò le labbra sulle mie.
Un bacio a stampo, appena accennato, a fior di labbra; ma pur sempre un bacio.
E io avevo chiuso gli occhi. Pessima, pessima cosa.
“Buonanotte, piccola…” sorrise, quando si staccò da me, lasciandomi totalmente interdetta, sui gradini di casa, a guardarlo mentre entrava nella sua Aston Martin e sfrecciava via.
Mi portai un mano sulle labbra, tracciandone il profilo e credendo quasi di sentire ancora la forma delle sue labbra incavate nelle mie.
Era solo un’illusione ovviamente ma non potei fare a meno di chiedermi perché diamine l’avesse fatto, soprattutto tenendo conto di tutto ciò che avevamo detto quel pomeriggio. Nel giro di poche ora aveva già infranto almeno tre regole, ma con quello aveva passato il segno.
Avevo vietato persino i baci sulla guancia e lui se ne usciva con uno sulle labbra. E per di più mi aveva chiamata piccola.
Figlio di puttana!
Ah, ma mi avrebbe sentito! Eccome se mi avrebbe sentito! Altro che redenzione!
Cercai di calmarmi e fare mente locale per prepararmi alle milioni di domande che, sicuramente, Rose aveva in serbo per me.
Eppure, mentre giravo la chiave nella porta, tutto ciò a cui riuscivo a pensare erano le parole di Edward.
Mi piacciono le sfide…
Sono ostinato…
Amo rischiare.
…se infrangessi l’ultima regola.
Peggio per lui se lo facesse davvero, pensai mentre entravo in casa, ma quando, istintivamente, mi leccai le labbra, già non ne ero più sicura.


_____________

Spero di non fare più ritardi di mesi. Chiedo ancora scusa. Grazie mille a chi legge ancora e aspetta pazientemente i miei tempi ç__ç
Vi adoro!

Fio xx

PS: CONSIGLI DI LETTURA.

- "The man who can't be moved" - FF nuova di zecca appena iniziata da Cloe! Mi raccomando, passateci. E' stupenda! Io già piango ç_ç  

- "Remember me" - Potrebbe anche sembrare che l'argomento ormai sia stato usato e riusato ma io sono sempre dell'opinione che la qualità sia meglio della quantità, e come è narrata questa storia, in questo modo, non l'ho mai letto da nessuna parte. Leggetela se non l'avete fatto, perchè davvero ne vale la pena. E, se siete (ancora) fan di Rob e Kristen, vi apre gli occhi su molte cose. :)


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Capitolo 8
*** Out and about ***


adito - cap 7

Hola gente :) Dai, non potete lamentarvi u.u Sono passate due settimane u.u Il bello è che questo capitolo era tipo quasi finito due giorni dopo aver postato l'ultimo ma poi ho avuto 3000 cose da fare e mai un secondo per scrivere. Come ho detto su facebook, ormai il tempo che ho a disposizione per scrivere è solo di sera/notte e solo alcune a settimana, quindi, non molto xD Mh, non ho molto da dire su questo capitolo. Magari dico due parole alla fine e, strano ma vero, non ho canzone di accompagnamento da consigliarvi haha Tra poco cade il mondo .___. ahaha


Buona lettura! xx
ps: quanto è agsdgfkagsdkfja la foto qui sotto? ç___ç  
(ho appena scoperto che sono Liam e Miley ma è proprio un hug alla Robert/Kristen e, infatti, l'abbiamo visto... :') quanto sono belli ç___ç khakshdfkjas)





Capitolo 8
 

Out and about


Passai lo straccio per la centesima volta, lucidando lo stesso punto come mai prima.
“Bella, tutto bene?” la voce di Eric giunse lontana, sebbene fosse proprio accanto a me.
Avrei voluto dirgli che no, non andava tutto bene. Mi girava la testa, avevo nausea – che sembrava prendermi praticamente a tutte le ore possibili e immaginabili −, ero stanca, ero delusa, ero incazzata nera con quel pezzo di merda.
“Sì, Eric. Perché?”
“Diciamo che se quel lavello potesse parlare, probabilmente ti starebbe maledicendo da un’ora buona. Sembri un po’ stanca… Vuoi andare a casa? Posso sostituirti, tanto il Mercoledì è morto.”
Scossi la testa senza nemmeno pensarci. Stare a casa voleva dire avere tempo libero, e io non potevo averne. Mi innervosivo quando non avevo nulla da fare perché sapevo, dentro di me, che invece avrei dovuto fare migliaia di cose, solo che non avevo idea da dove iniziare. Di lì, il nervosismo. Se aggiungiamo che, probabilmente, sarei stata ad aspettare una chiamata con più impazienza di quanta non ne avessi avuta negli ultimi tre giorni, ottenevo un ottimo biglietto con destinazione: pazzia.
No, no. Decisamente non volevo andare a casa. Scossi di nuovo la testa, con più vigore, e mi girò più forte di prima, ma restai ferma e in piedi. “Sto bene, Eric. Tranquillo. Tanto, l’hai detto tu. Non c’è molto da fare. Non c’è problema.”
“Come vuoi” sorrise per poi andare a pulire le briciole che i clienti avevano lasciato sui tavoli da biliardo.
Dannazione, l’avrei fatto io se avessi saputo un minuto prima chi stava per entrare dalla porta.
Dio mio, ma perché non mi hai graziata col dono della chiaroveggenza?
Edward e tutta l’allegra combriccola dei suoi amici aveva appena fatto capolino dalla porta, giusto in tempo perché i miei occhi si incrociassero con i suoi e vedessero anche la ragazza accanto a lui, una che mi sembrava di aver già visto una volta. Probabilmente una delle tante galline del suo pollaio.
Lo vidi fare cenno agli altri di prendere posto. “Vengo subito.”
Istantaneamente chinai il capo e tornai ad accanirmi sul povero lavello sotto le mie mani, fingendo totale indifferenza.
Con la nonchalance più sfacciata, vidi la sua sagoma sedersi sullo sgabello di fronte a me.
“Ciao.”
Stronzo.
Strinsi i denti, redendomi per la prima volta conto di quanto davvero mi avesse infastidito quello che aveva fatto o, per meglio dire, che non aveva fatto.
“Bella?”
Tentò ancora ma io continua a preferire il lavello.
“Oh!”
“Che vuoi!?” scoppiai, alzando il viso e donandogli il mio sguardo e tono più acido.
Indietreggiò col viso, preso alla sprovvista. “Wo, nervosette oggi? Ti va di parlarne? Che è successo?”
Non potei proprio trattenere una mezza risata isterica. Non potevo credere che me lo stesse davvero chiedendo, proprio lui.
“Non vuoi saperlo. Davvero, meglio che tu non lo sappia. Va bene così.”
Cambiò espressione. “Oh, quindi è per colpa mia?” sembrò stupito.
“Mi prendi in giro?”
“No. Non so cosa abbia fatto.”
Lo guardai per qualche istante, cercando di capire se mi stesse prendendo per il culo, ma lui era serio. Non se n’era nemmeno reso conto e non seppi giudicare se era peggio o meglio.
“Lascia stare…” sussurrai, infine, prendendo taccuino e penna e uscendo dal guscio che era diventato il bancone. Mi bloccò per un braccio, prima che potessi superarlo.
“Lasciami! Devo lavorare!”
“Ora aspetti due minuti e mi dici cosa ho fatto.”
“Cosa hai fatto? Niente, Edward! Non hai fatto proprio niente, è questo il punto!”
Assottigliò le sopracciglia e capii che davvero non ne aveva idea. Mi chiesi come fosse possibile che lui non si rendesse conto di un minimo particolare che invece a me aveva creato – e ancora stava creando – problemi. Forse ero io fatta male.
“Non capisco…”
“Sai, quando una persona dice a un’altra persona che la chiama, ci si aspetta che lo faccia davvero. Magari nel giro di tre giorni.”
Allentò la presa di poco. “È per questo che sei arrabbiata? Perché non ho chiamato?”
Scrollai le spalle, cercando di liberarmi ma lui continuò a trattenermi.  “Smettila di dimenarti. Tanto non ti lascio finché non risolviamo questa cosa.”
“Allora moriremo qui.”
“Senti, mi dispiace, okay?”
“La smetti con queste cazzo di scuse tutte le volte?” cercare di avere quella conversazione senza urlare era estenuante. Avrei voluto picchiarlo e urlargli contro e magari dargli uno schiaffo così forte da lasciargli l’impronta della mia mano, ma non potevo farlo.
“Mi dispiace, ho avuto da fare.”
“Oh, lo vedo bene che hai avuto da fare. Lo vedo bene come e con chi hai avuto da fare!”
Lanciai un’occhiataccia alla ragazza che era entrata con lui e che, proprio in quel momento, aveva girato lo sguardo verso di noi, costringendomi a voltare il mio.
“Cos’è? Una scenata di gelosia? Vai contro le tue stesse regole? Brava.”
Poteva sembrare una scenata gelosa ma non lo era e lui, come al solito, non aveva capito nulla.
“Non hai capito un cazzo, ovviamente. Non mi da fastidio se tu non chiami, okay? Ma mi da fastidio se dici che lo fai accennando a qualcosa da fare insieme il giorno dopo, e invece non lo fai. Perché non ho fatto piani pensando che… Mi hai lasciata lì, ad aspettare una telefonata, come una perfetta idiota.”
“Facciamo qualcosa stasera, mmh?”
“Ma che credi? Di darmi un contentino? Non funziona così e ho già un impegno stasera.”
“Cosa hai da fare?” e lo disse con quel tono che lasciava intendere che una ragazza come me non sapesse come divertirsi; e forse era anche la verità, ma odiavo sentirla da lui, soprattutto visto che non aveva alcun diritto di parlare.
“Non sono affari tuoi!” sputai acida a livelli estremi.
“Dai, Bella…”
“No. Niente ‘dai, Bella’. Sei un idiota! Anzi, no. Sai che ti dico? L’idiota sono io. In fondo cosa mi aspettavo. Probabilmente tu dici ‘ti chiamo’ così tante volte per poi non farlo da aver perso il conto. Probabilmente nemmeno ti rendi conto di dirlo quando lo fai. Chissà quante ragazze hai appeso senza nemmeno darci peso. Ma va bene, okay? Sono stata scema io.”
“Non fare la melodrammatica ora.”
“No, Edward! Non farlo! Non ti azzardare a darmi della melodrammatica! Non puoi uscirtene con queste cose quando pare a te. È vero, a volte sono pesante e schematica e maniaca del controllo, tutto quello che vuoi. Ma su questo, no. Hai sbagliato e basta. Non sono io a non aver rispetto degli altri, quindi non tentare nemmeno di dare la colpa a me. Non è giusto, cazzo! Fai sempre così e la devi smettere. Perché se tu non hai rispetto per me, non è colpa mia! E se ti azzardi a baciarmi un’altra volta, ti ammazzo. Ma davvero, Edward!” strattonai il braccio e lo liberai con facilità. “E ora, scusami, ma devo andare a servire i tuoi amici.”
Quando approdai al loro tavolo, sentii qualche paia di occhi puntati su di me, ma non osai alzare lo sguardo e affrontarli. Non ce la facevo.
“Cosa vi porto, ragazzi?”
Ordinarono un paio di birre mentre Edward tornava, come un cane bastonato e con la coda tra le gambe, a sedersi accanto alla sua ragazza. O almeno credetti che fosse sua dal modo in cui lei strinse il suo abbraccio e gli diede un bacio sul collo. Mi venne da vomitare.
“Che altro?”
“Che ne dici del tuo numero?”
Alzai lo sguardo per incontrare quello da cui era provenuta la voce. Era seduto nell’angolo, capelli castani, leggermente scuro di pelle, occhi scuri, ma un bel sorriso e denti bianchissimi. Non esattamente il mio tipo.
“Come?”
“Hai da fare stasera?”
Solo tipi del genere potevano essere amici di Edward. La stessa sfacciataggine, la stessa aria da ‘non mi dirai di no’ e probabilmente l’avrei fatto se non fosse stato per una mia vendetta personale.
“Tyler!” la voce di Edward interruppe le mie congetture. “Dobbiamo fare quella cosa stasera, ricordi? La schedina per la partita.”
“Potete farla anche senza di me la formazione, non rompere. Dicevamo?”
Sorrisi, divertita e soddisfatta allo stesso tempo. Avrei voluto lanciare uno sguardo ad Edward solo per avere l’ulteriore soddisfazione di vederlo stringere la mandibola fino a farsela entrare nel cervello. Gli sarebbe stato bene!
“Che non ho impegni, o comunque posso disdire. Finisco alle sette. Hai in mente qualcosa?”
Mi resi conto di quanto potessi apparire sfacciata anche io; la verità era che non me ne fregava un cazzo, ecco perché mi riusciva così bene la parte della ragazza facile. Sì, probabilmente sembravo una ragazza facile che da il numero al primo che glielo chiede e la da al primo appuntamento, ma al momento non me ne importava. In fondo il loro mondo, in primis, era fatto di apparenze. Perché non potevo sembrare io quella che non ero, almeno una volta, e per uno sfizio personale?
“Non ancora, ma posso trovare una soluzione se mi dici di sì.”
“Certo.” Segnai velocemente il mio numero su un foglio del taccuino e glielo allungai. “Io sono Bella.”
“T…Tyler.”
“Chiamami, Tyler. Ci conto.”
E con quella chiara frecciatina, non guardare Edward sarebbe stato impossibile. Lo fulminai con lo sguardo.
“Vi porto subito le birre”, e andai via, a riempire due boccali di birra al malto.
Come mi aspettavo, non finii nemmeno di riempire il primo che vidi Edward alzarsi e avvicinarsi.
“Le tue visite al bancone iniziano a diventare troppo frequenti e indesiderate, nonché sospette. Stai attento o ti scappa la ragazza.”
“Si può sapere che cazzo ti passa per la testa!?”
“Che vuoi dire?” se ci fosse stato un Oscar in ‘Interpretazione della finta tonta’, l’avrei sicuramente vinto.
“Voglio dire che hai appena lasciato il tuo numero a un ragazzo appena conosciuto!”
“E allora? Se è per questo sono anche andata a letto con un ragazzo appena conosciuto. L’errore più grande della mia vita.” Frecciatina numero due: colpito e affondato.
“Smettila, Bella!”
“Smetterla di fare cosa, di preciso?”
“Ti stai comportando da immatura!”
“Ah, io mi sto comportando da immatura? Io? E per quale motivo, di grazia?”
“Perché hai appena-”
“Lasciato il numero a un ragazzo appena conosciuto! L’hai già detto! E allora? Che c’è di male?”
“C’è tanto di male. Non sei tu e inoltre l’hai fatto solo per farmi incazzare, ammettilo!”
“Scusa, Edward, ma il mondo non gira attorno a te. E poi non vedo perché tu dovresti incazzarti.”
Batté un pugno sul bancone e mi fece saltare.
“Calmati” lo riammonii.
“Non lo conosci nemmeno. Vuole solo portarti a letto.”
“Oh, grazie, Edward, davvero. Grazie mille per avere così tanta stima di me da credere che a un ragazzo possa interessare solo per un motivo. In fondo, chi meglio di te può saperlo, no?”
“Cristo santo, piantala! Non è per te! È per lui! Per come è fatto! Io lo conosco, tu no! Vuole sempre e solo una cosa!”
Sorrisi amara. “E cosa c’è di diverso da quello che vuoi tu?”
Si prese una pausa prima di rispondere. “Io voglio solo passare del tempo con te, stasera.”
Mi trovai a scuotere il capo, chinarlo. “Se avessi voluto passare del tempo con me, te lo saresti ricordato prima di appendermi per tre giorni; prima che un ragazzo mi chiedesse di uscire.”
Strinse i bugni sulla lastra di marmo che copriva il banco. “Ma non avevi impegni quando te l’ho chiesto.”
Niente, lui proprio non ci arrivava.
Stavo per rispondergli quando il telefono mi vibrò nella tasca del grembiule rosso.
Era un messaggio da un numero sconosciuto ma capii dal testo di chi si trattasse, dal momento in cui mi dava appuntamento fuori al pub alle nove di quella sera. Alzai il viso per incontrare quello di Tyler, gli sorrisi e feci un okay con il pollice in su, in segno di conferma.
Lasciai che il sorriso morisse quando tornai a guardare Edward. “E ora ce l’ho.” Semplice e fredda, mentre prendevo i due boccali di birra sul vassoio. “Mi dispiace” terminai, ma entrambi sapevamo quanto false fossero quelle scuse.
Non mi dispiaceva proprio per nulla, se non per il fatto che, proprio quando credevo che le cose potessero aggiustarsi e andare dritte, avevano preso tutt’altra via. La vecchia via.
 

Fu così che, qualche ora dopo, ero in macchina di Rose, diretta al pub per una serata totalmente non programmata. Inutile dire che il mio livello di euforia rasentava lo zero. Avevo lagnato già abbastanza con Rose che se n’era uscita con un: “Te la sei cercata, ben ti sta!”

Sapevo che aveva ragione, me l’ero davvero cercata, ma solo perché c’era Edward e avevo un disperato bisogno di rifarmi dall’umiliazione di aver passato anche solo più di due ore ad aspettare una sua chiamate che non era mai arrivata.
Dannata me e la fiducia che ripongo nelle persone, mi maledetti mentalmente.
“Senti, giusto perché tu lo sappia, non approvo totalmente questa cosa. Non sei tu.”
“L’ha detto anche Edward, la finite?”
“Edward ti ha già capita fin troppo.”
“Non direi proprio” risposi, quasi acida. Iniziavo a diventare intollerante verso tutta la benevolenza di Rose nei confronti di quel ragazzo. Cosa doveva averle fatto per accecarle gli occhi in quel modo? Eppure avrebbe dovuto stare dalla mia parte!
“Comunque, è stata una bella mossa. Non me l’aspettavo da te, ma è stata una bella mossa.”
Ci scambiammo un veloce sorriso, complici.
Si fermò al primo posto libero più vicino al luogo dell’incontro. Vidi, da lontano, che Tyler era già lì.
“È quello?”
“Già.”
“Non sembra male. Forse un po’ bassino… vabbè. Ad ogni modo, io non dovrei fare troppo tardi. Puoi aspettarmi in piedi, se non sei stanca, così mi racconti. E non fare entrare nessun ragazzo sconosciuto in casa nostra per nessun motivo al mondo, okay?”
E dire che avevo omesso di raccontarle la piccola discussione con Edward e il suo continuo constatare che Tyler fosse interessato solo a quello.
“Tranquilla. Non accetterò passaggi o caramelle dagli sconosciuti, non farò l’autostop, non prenderò la metro, e non farò entrare nessuno in casa. Va bene, mamma?”
“Questa sì che è mia figlia! Dammi un bacio!”
Risi mentre mi sporgevo per darle un bacio sulla guancia.
“Sta’ attenta!”
“Sempre!” chiusi la porta e percorsi i pochi metri che mi separavano da Tyler. Gli ticchettai la spalla da dietro e lui si voltò di scatto, scontrandosi con la tazza di caffè e facendolo riversare sui miei pantaloni neri.
“Oh, cazzo! Cazzo! Bella!”
“Merda…”
“Cazzo, scusami! Mi dispiace! Mi sei arrivata di spalle all’improvviso e… Scusa, sono un disastro!”
Mi prese il fazzoletto che avevo in mano e si chinò per asciugarmi il punto proprio sopra il ginocchio.
“Lascia stare, davvero. Non importa…” sbuffai, già stanca di quella serata iniziata decisamente col piede sbagliato. L’ultima volta che un ragazzo mi aveva rovesciato il caffè, c’ero finita a letto ed ero rimasta incinta. Già da lì avrei dovuto capire che sarei dovuta tornare a casa seduta stante, ma quando sentii una voce familiare provenire dalle mie spalle, capii che da casa non avrei mai dovuto esserci uscita.
“Che succede?”
Non avevo bisogno di voltarmi per associare quella voce a un volto. Ormai la conoscevo troppo bene per sbagliare. Mi gelai, mentre Tyler alzava il busto e salutava Edward.
“Mi sono scontrato con Bella e le ho rovesciato il caffè sui pantaloni” spiegò Tyler. “Mi dispiace tanto, Bella. Davvero.”
Continuavo a dare le spalle ad Edward, ma non potevo fare a meno di chiedermi cosa cazzo ci facesse lì.
“Non fa nulla, Tyler. Tanto sono neri, non si vede.”
“Ah, Bella. Loro sono Edward e Lauren. Edward ha insistito per unirsi a noi, spero che non ti dispiaccia. Non sono riuscito a dissuaderlo.
A quel punto fui costretta a voltarmi, vedere Edward e la sua gallina in faccia, stringergli la mano, presentarmi, e fingere di non conoscerlo.
Che gran figlio di puttana.
“No, non fa nulla” scrollai le spalle, cercando di assumere un’aria disinvolta davanti alla felice coppia che aveva allietato ancora di più quella serata. Finalmente davo un nome alla ragazza di Edward, anche se, dovevo ammetterlo, tutto sembrava fuorché che stessero insieme. Erano distanti, staccati, lontani, freddi.
“Il caffè alle nove di sera?” osservò Edward, e leggere tra le righe fu abbastanza automatico.
“Sì, ci sono giorni in cui arrivo a fine giornata solo grazie a questo.”
Evitai di guardare Lauren, ma vedevo che lei mi squadrava da capo a piedi. Non seppi dare un carattere a quella ragazza, come spesso facevo a un primo impatto con le persone. Non che le giudicassi, onde poi scoprire di essermi totalmente sbagliata. Semplicemente non riuscivo a inquadrarla nemmeno da come era vestita. Aveva una minigonna nera e una magliettina color oro, molto semplice ma comunque attraente.
Probabilmente mi sarei vestita più su quello stile anche io se avessi saputo che Edward avrebbe fatto la sua comparsa. In fondo, se volevo avere una piccola soddisfazione, tanto valeva averla con stile. Ma ormai era andata così.
“Allora che facciamo?”
“Edward aveva proposto un cinema, ma io preferirei più una cena.”
“Sei pieno di spirito di iniziativa, eh, Edward?”
“Ho dei biglietti omaggio che scadono tra poco.”
Era incredibile la nonchalance con cui teneva una conversazione con me, come se nulla fosse. Avrei voluto essere capace quanto lui di far finta che tutta quella situazione non mi infastidisse o che almeno non mi creasse disagio.
“A me va il cinema” Lauren disse la sua, e la vidi guardare Edward in modo così languido che mi fu impossibile non immaginarli a limonare nel buio della sala e credere che fosse quello il motivo per cui volesse andare al cinema.
Dal canto mio, adoravo andare al cinema e sarebbe stato un ottimo modo per far sì che quella serata finisse il prima possibile. Potevo sempre chiedere a Tyler di accompagnarmi e lasciare Edward nel dubbio eterno: l’avrà fatto entrare in casa o no?
Dall’esterno potevo sembrare una ragazzina gelosa, ma davvero, non era quello il punto e il movente dei miei comportamenti. Volevo semplicemente dimostrare ad Edward come ci si sentisse ad essere presi in giro.
“Per me va bene” dissi infine, dando il verdetto finale a quella che sarebbe stata la nostra serata.
“Allora ci vediamo al cinema”, Tyler.
“Andiamo con una macchina sola, no? È più comodo. Dopo torneremo a prendere l’altra. Ho la mia proprio qui.”
A Tyler sembrò non fare differenza per cui non ebbi molta voce in capitolo o probabilmente avrei destato troppi sospetti. Edward tentò anche di far sedere lui al posto davanti ma stavolta sia Lauren che Tyler stesso si imposero.
“Che cazzo stai cercando di fare?” ringhiai tra i denti quando, per qualche secondo mentre Tyler saliva in macchina, mi trovai a due centimetri da Edward.
“Solo il tuo stesso gioco. Vediamo chi vince.”
E, ancora una volta, le sue parole mi avevano ferita più del dovuto. Così mi trovai seduta con un ragazzo sconosciuto nella macchina del padre di mio figlio, con annessa ragazza, per il quale tutto era solo un gioco. Bella situazione di merda in cui mi ero cacciata. Al diavolo la vendetta e la soddisfazione. Aveva ragione Rose: me l’ero cercata e mai come in quel momento avrei voluto essere sul mio divano a leggere un libro o guardare la TV, o fare anche una calza. Ovunque piuttosto che lì.
Parlammo di rado in macchina, scoprii che Tyler non era particolarmente interessante come ragazzo. Il suo interesse più coltivato era Assassin’s Creed e non parlava d’altro.
Presto smisi di fingermi interessata, fare domande o ascoltare quello che dicesse. Mi limitai ad annuire ogni tanto, fingendo di capire di che diavolo stesse parlando. Edward mise su della buona musica e mi concentrai solo su quella, ma la mente vagò all’ultima volta in cui ero stata in quella macchina: sedile diverso, conversazioni che potevano essere chiamate tali e, soprattutto, ragazzo diverso.
Dio, quella situazione sembrava tanto più surreale quanto più ci pensavo.
Grazie a Dio, arrivammo al cinema relativamente presto e, vuoi il giorno infrasettimanale, vuoi i biglietti omaggio di Edward che, a mia sorpresa, esistevano davvero, ci trovammo seduti in poco tempo.
Inutile dire che grazie a marchingegni assurdi di quella mente malata, fece in modo di farmi trovare tra lui e Tyler, mentre Lauren era alla sua sinistra. Cercai di non pensarci e diedi confidenza a Tyler, tentando di iniziare una conversazione su qualcosa di relativamente interessante, ma il tentativo cadde nel vuoto, fortunatamente in contemporanea alle luci che si abbassavano.
Pausa, pensai, rilassandomi di poco, pochissimo. Fu un mera illusione.
Guardare verso Edward e Lauren mi veniva così spontaneo che nemmeno ci facevo caso. Non voltavo la faccia, ovvio, ma controllavo con la coda dell’occhio quello che stessero facendo, che corrispondeva al… niente.
Vidi la mano di Lauren allungarsi sul braccio di Edward ma lui rimase impassibile, per poi allontanarla quando tentò di scendere più in basso. Si voltò lentamente, trovandomi totalmente impreparata al suo sguardo e cogliendomi proprio sul fatto. Distolsi lo sguardo e cercai di concentrarmi sul film che, se avevo capito bene, parlava di una qualche epidemia dovuta al polline di alcuni fiori: una cosa inconcepibile e impossibile da seguire sperando che ti distraesse.
La mia tregua durò davvero poco visto che, nemmeno dieci minuti dopo, fui io a sentire una mano sulla mia gamba. Abbassai gli occhi, irrigidita, e vidi la mano di Tyler che carezzava lentamente la mia coscia. Ringraziai il cielo di aver messo i pantaloni o non avrei risposto di me stessa. Lui continuava imperterrito, incurante della mia espressione per nulla convinta, e con un sorriso sulle labbra. Proprio quando si avvicinò all’interno coscia e stavo per allontanare la sua mano, Edward si alzò in piedi.
“Vado a prendere dei pop-corn. Bella, accompagnami.”
Un vero e proprio obbligo a cui, nonostante tutto, fui lieta di obbedire; ma di certo non glielo avrei detto.
Edward mi prese per un braccio, costringendomi ad alzarmi e a passare praticamente sopra Tyler. Mi sembrò di vederlo muovere le labbra, ma non ebbi nemmeno il tempo di sentire quello che aveva detto che Edward mi aveva già trascinato per il corridoio debolmente illuminato e fuori dalla sala.
Mi lasciò, con un piccolo strattone.
“Ma sei scema o cosa!?”
“Che cazzo ti prende!?”
Parlammo insieme ma non avevo alcuna intenzione di rispondere a una domanda retorica e, per giunta, offensiva.
“Che cazzo prende a me?! A te, semmai! Ma ti sei vista! Ti stavi facendo toccare come se nulla fosse!”
“Primo, non è vero; avrei allontanato quella cazzo di mano io stessa se tu non avessi fatto questa uscita assurda. Secondo, se pure fosse, non ci sarebbe niente di male. Terzo, non vedo come questo debba interessarti. Ho messo delle regole di proposito, Edward. E questi non sono affari tuoi!”
“Lo sono quando conosco la persona con cui esci!”
“Ah sì? Non mi ritieni all’altezza di frequentare il tuo gruppetto di amici?”
“Non è questo, cazzo! È lui! è sbagliato! Non è per te!”
“Davvero? E chi è per me, Edward? Se lo sai, dimmelo, no? Visto che sembra che tu sia onnisciente e ora anche onnipresente, illuminami la giornata e risolvimi il problema, almeno questo.”
Si zittì per qualche secondo, calmandosi. “So che non è lui. Smettila di fare la bambina.”
“Io non faccio la bambina. Non sono io che sta giocando qui.”
Scosse il capo, quasi schifato. “Ti prego, dimmi che scherzi. Perché se fai sul serio allora non so chi ho conosciuto.”
Mi venne da ridere, amaramente. “Ma proprio nessuno, Edward. Tu non hai conosciuto proprio nessuno, né stai conoscendo, ne vuoi conoscere.”
“Vuoi dirmi che sei sempre così? Che ti comporti sempre così? Col primo che capita? O magari con ogni ragazzo che ti rovescia il caffè? Cos’è, una specie di rito? Gli hai detto che sei incinta?”
“Certo che no! Se al primo appuntamento dico a un ragazzo che sono incinta, scapperebbe a gambe levate! Che cazzo credi? Nessuno si prende un impegno così grande, nessuno mi chiederebbe nemmeno di uscire se lo sapesse.”
“E hai tanto rispetto per quel bambino da pensare prima a te stessa che a lui?”
“Tu l’hai detto a lei?” Giocai la sua stessa carta. Se davvero voleva fare il moralista, gli conveniva non farlo se non aveva le carte in regola.
“È diverso.”
“No, non lo è. Io lo porto in grembo ma l’abbiamo fatto in due. Hai presente?”
“È diverso, Bella. Lo sai anche tu.”
“Sei ingiusto.”
“Sarò anche ingiusto, ma almeno non sto prendendo in giro nessuno.”
A quel punto scoppiai, interdetta. “Nessuno!? Se non stai prendendo in giro nessuno, allora io sono l’esatto opposto di nessuno, perché, credimi, mi sento presa in giro.”
“Bella…”
“Ti chiamo, non vuoi saperne di me o del bambino, non vuoi prenderti le tue responsabilità. Ti faccio una merda nella mia testa perché è quello che meriti, e proprio quando inizio ad abituarmi a fare tutto da sola, compari al pub con tutta la tua combriccola, mi porti all’ospedale, ti freghi una foto dell’ecografia, e parli di epifania… E d’un tratto vuoi fare l’uomo della situazione, quello responsabile e maturo. Mi porti fuori a pranzo, mi baci, mi dici che mi chiami e non lo fai. Mi dici che ci sarai per me ma sarei anche potuta morire in questi tre giorni e tu non l’avresti saputo. E poi hai il coraggio di dirmi che non prendi in giro nessuno? Hai due facce, Edward, e io ho bisogno di un volto solo. Non posso vivere con l’ansia di non sapere con quale Edward avere a che fare. La vita non va così, non è tutto un gioco e io non sono una stupida pedina nelle tue mosse, da utilizzare a tuo piacimento. Sono una persona, hai presente la differenza? Sono una ragazza e sono incinta. E tu sei il padre e devi portarmi rispetto!” urlai quelle parole con quanta più indignazione possibile. “E, cazzo, cacatela un po’ quella povera ragazza. Non farti il problema della mia presenza, tanto peggio di così non può andare. Oppure lasciala se non vuoi starci. Non hai quindici anni, cristo santo! Ma soprattutto, Edward, fatti una bella vagonata di cazzi tuoi.”
Senza aggiungere altro, tornai in sala.
 

Il resto del film lo vidi tenendo le braccia incrociate al petto, gesto da cui Tyler dovette capire che ogni invito, implicito od esplicito, ad andare oltre, non sarebbe stato accettato, dal momento in cui non tentò di prendermi la mano più di due volte.

“Che si fa? Ormai è tardi per sedersi a mangiare…” dissi io, quando uscimmo dal cinema, con la speranza che gli altri proponessero di tornare a casa, ma niente.
Lauren propose di sederci a un bar lì vicino, e così fu.
Quella serata sembrava non avere più fine e il mio livello di tolleranza nei confronti di tutti aveva già superato di molto l’immaginaria linea rossa che mi ero figurata in mente.
La conversazione era costantemente a un punto morto, la situazione era imbarazzante, strana e pesante e io non avevo alcuna intenzione di alleggerirla. Su una cosa Edward aveva ragione: non avrei dovuto uscirci con Tyler.
Orgoglio, 1 – Bella, 0.
Arrivò il cameriere chiedendo le nostre ordinazioni. Edward glissò, Lauren prese un drink e Tyler ordinò un coppa di gelato alla nocciola per entrambi.
“Bella è allergica alle noci e odia che si ordini anche per lei.”
Edward parlò come se nulla fosse ma non si rese conto di aver appena rivelato qualcosa di molto personale, di cui non avrebbe dovuto essere a conoscenza. Mi girai per fulminarlo e lui sorrise; capii che lo aveva fatto di proposito. A che gioco stava giocando?
Non lo sapevo e non volevo saperlo. Ero stanca dei suoi giochetti mentali e non.
“E tu come lo sai?”, Lauren e Tyler parlarono quasi all’unisono.
“L’ha detto prima. Vero?”
Non risposi e per smorzare la tensione, mi voltai al cameriere per ordinare un frappè alla fragola, sperando che l’argomento cadesse. Fortunatamente fu così, ma Edward non demordeva e, ogni parola, frase o movimento, era una buona occasione per mettere in atto qualunque cosa avesse in mente.
Quando Tyler si accese una sigaretta, lui non perse occasione per fargli notare che probabilmente a me poteva dare fastidio.
“Ti da fastidio, Bella?” chiese Tyler, per assicurarsene. E avrei detto di no pur di non dare quella soddisfazione ad Edward ma lasciai perdere.
Annuii leggermente con il capo mentre lui spegneva la sigaretta, sbuffando, e Edward sorrideva vittorioso.
Dovevo evitare di cadere nella sua trappola. Dovevo semplicemente ignorarlo e tutto sarebbe finito presto.
Ma come potevo farlo quando, di punto in bianco, se ne uscì con: “Tyler, cosa ne pensi dell’aborto?”
Non sapevo se avesse battuto la testa pesantemente o se stesse semplicemente cercando qualche modo per farmi del male silenziosamente, ma era indiscreto e per nulla adatto alla situazione.
“Ma che cazzo di domanda è?”
“Rispondi e basta.”
Sentii il fumo uscirmi dalle orecchie e lanciai un’occhiata a Lauren per cercare di capire cosa pensasse lei di tutto ciò, delle stranezze del suo pseudo-ragazzo. Ma lei si limitava a fissarsi le unghie, aspettando la risposta di Tyler per vedere che presa avrebbe preso la conversazione.
“Ma che cazzo ne so! Boh, alla fine uno fa quello che vuole.”
“E se dovessi trovarti a diventare padre ora?”
“Ma mi prendi per il culo? Ma manco morto! Ci mancherebbe solo quello. Ma sei uscito dal Vangelo secondo Edward stasera?”
Capii, allora, cosa stava cercando di fare Edward, ma lo stava facendo nel peggiore dei modi. Cercai di non lasciarmi coinvolgere dalla conversazione e di restare impassibile ma, sicuramente, la mia reazione tradì le mie intenzioni, tanto da far sentire Tyler in obbligo di precisare che ora non sarebbe stato pronto ma che un giorno lo avrebbe voluto.
“Certo, è comprensibile” sussurrai in risposta, ma avevo solo un gran bisogno di vomitare.
“Vado al bagno, scusate.”
Mi alzai di scatto ed entrai nel bar. Avevo appena adocchiato la toilette quando sentii una mano prendermi il braccio, costringendomi a voltarmi.
“Bella, tutto bene?”
“Lasciami…”
“Bella...”
“Lasciami, Edward!”
“Che hai?”
“Devo vomitare.”
“Vuoi che ti accompagni?”
“No, voglio che tu sparisca dalla mia vita, okay?”
Lui chiuse gli occhi un secondo e allentò la presa. “Bella, mi dispiace, okay? Volevo solo farti capire che razza di idiota è.”
“E lo stai facendo nel peggiore dei modi, Edward! Pensi di farmi bene? Pensi di farmi un piacere e di farmi capire così? Così mi fai solo del male. Tu continui a farmi solo del male e te ne devi andare. E io devo vomitare davvero.”
Strattonai quel poco di braccio che ancora era rimasto ancorato alla sua presa, entrai in bagno e mi gettai sul primo water libero, rigettando il toast che avevo mangiato prima di uscire.
Mi ci vollero diversi minuti per riprendermi e stare lì, seduta accanto a un water, convincendo me stessa ad essere forte e non piangere.
“Bella?”
Uscii proprio mentre Lauren entrava.
“Cosa… fai qui?” sussurrai, un po’ stremata. Mi passai una mano sulla fronte.
“Edward mi ha mandato a vedere se stessi bene.”
Non risposi e mi concentrai solo sull’acqua fresca che scorreva sulle mie mani. Mi bagnai la fronte e le labbra cercando di riprendermi del tutto.
“Ti ha turbata la conversazione, vero? Ti capisco, sai. Anche io l’ho fatto.”
Non ero sicura di stare capendo. “C… cosa?”
“L’ho fatto anche io. L’anno scorso, ho abortito.”
Oh, cazzo.
“Cosa? Io… io non…”
“Non fa nulla. È acqua passata. Non era proprio previsto e non sarebbe andata per niente.”
Cazzo. Mille domande presero a vagare nella mia testa. Se avessi dovuto sentirmi dispiaciuta per lei o dirle che io non ci ero passata, come credeva. Se avessi dovuto chiederle come stava, cosa era successo e, soprattutto, con chi. Ma lei non mi diede il tempo di farle nessuna di quelle domande e sembrava totalmente a suo agio.
“Voi avete avuto una storia, vero?”
“Eh… Chi?”
“Tu ed Edward.”
“No, no. Niente storia.”
“Ah, meglio così. Andiamo allora.”
Strana; una delle conversazioni più strane che avessi mai avuto. Era chiaro che sapesse qualcosa ma non aveva voluto andare oltre. Immaginai che fosse una di quelle ragazze che scappano dalla verità perché fa troppa paura, ed è quello che feci anche io quando tornai al tavolo.
“Tyler, non mi sento molto bene. Potresti accompagnarmi a casa?”
Avevo visto la mia immagine bianca cadaverica allo specchio quindi di certo non passò come una bugia.
“Che succede?”
Edward si alzò immediatamente e mi fu accanto in due secondi.
“Ho freddo e mi gira la testa…” sussurrai, tremando.
Prima ancora che finissi la frase, Edward si era tolto la giacca e l’aveva poggiata sulle mie spalle, lasciandomi totalmente stupita.
“Vado a prendere la macchina. Aspettate qui.”
E così facemmo. Edward tornò due minuti dopo con la macchina e mi avrebbe accompagnata a casa se non avessi insistito che fosse Tyler a farlo.
Quella soddisfazione non gliel’avrei data, per nulla al mondo.
“Non andare con lui…” mi sussurrò all’orecchio, quando scesi dalla macchina, ma mi limitai solo a lanciargli una pessima occhiata.
“Hai voluto giocare e hai perso, mi dispiace” fu tutto quello che riuscii a dire mentre gli ridavo la giacca ed entravo in macchina di Tyler.
Incrociai di nuovo le braccia al petto e non distolsi lo sguardo dal suo nemmeno per un secondo, mentre gli passavamo davanti.
Indicai a Tyler la strada per arrivare a casa mia. Le luci erano spente, segno che Rose non era ancora tornata e, vuoi la voglia di non stare sola, vuoi la malinconia e una leggera paura, senza nemmeno pensarci, annuii quando Tyler mi chiese se potesse entrare in casa.
 

Nemmeno mezz’ora dopo, proprio mentre mi accomodavo finalmente sul divano per godere di una serata a modo mio, sentii bussare la porta e pensai che fosse Rose che doveva aver dimenticato le chiavi di casa, ma mi sbagliavo.

“Che ci fai qui?”
Con una rabbia negli occhi che non gli avevo ancora mai visto, Edward squadrò il mio abbigliamento, o meglio, non-abbigliamento: una semplice camicia a quadri che copriva fin poco sotto l’inguine.
“Lui dov’è?”, entrò in casa, senza nemmeno chiedere il permesso e iniziò a ispezionare cucina e salotto, le prima due stanze accessibili.
“Ma prego, entra pure. Fa’ come se fossi a casa tua” dissi, ironica, mentre mi rassegnavo e chiudevo la porta.
“Bella, dove cazzo è?”
“Oh, è nel bagno. Si sta aggiustando e controllando che, sai, sia tutto apposto.”
Lo vidi mordersi le labbra e spalancare la porta del bagno un secondo dopo, per trovarlo totalmente buio e vuoto.
“Non è successo niente…”, non era una domanda, mentre mi affrontava di nuovo.
“Vuoi dire dopo avermi messo una mano nelle mutande nemmeno due minuti dopo essere entrati in casa?” lo affrontai a mia volta. “No, non è successo niente. Non sarebbe mai successo niente, Edward.”
Lo sapevo, sapevo che aveva ragione e sapevo anche il motivo per cui non gli avevo dato retta.
“E apri a tutti così?”
“Pensavo fosse Rose.”
“Come ti senti?”
“Ora peggio di tre minuti fa, quindi se saresti così gentile da tornartene fuori e lasciarmi in pace…”
“Hai vomitato? Come stai ora? Il bambino?”
Ignorai ogni domanda, intenzionata almeno a sapere qualcosa che interessasse me.
“Da quanto tempo stai con Lauren?”
Si passò una mano tra i capelli, esasperato. “Non ci sto insieme, lo sai.”
“Da quanto tempo andate a letto insieme?”
“Un po’, Bella. Ma che cazzo…?”
“Quantifica!”
“Ma che ne so, qualche mese! Non porto il conto! Ma che cazzo è successo?”
“Ha avuto un aborto l’anno scorso” lo freddai in un secondo.
Sgranò gli occhi e scosse il capo, incredulo. “Io… io non ne sapevo niente. Te lo giuro…” E, nonostante non lo conoscessi così bene, ormai avevo tanta familiarità con la sua arroganza da capire, dalla sua espressione, che non stava mentendo.
“Beh, ora lo sai.”
“Non so niente comunque. Ho conosciuto Lauren alla fine dello scorso anno, quindi potrebbe benissimo non essere stato mio. Anzi, al 90% sicuramente è così.”
Sospirai, mentre sentivo montare il mal di testa.
Si avvicinò di qualche passo ma io indietreggiai, troppo confusa dal sovraccarico di informazioni e emozioni contrastanti.
“Bella, ti prego. Non allontanarmi. Se anche fosse stato mio, lei non mi ha mai detto nulla e non puoi darmi la colpa anche delle decisioni degli altri.”
Aveva ragione, stavolta. “Puoi… puoi chiarire questa cosa con lei in ogni caso?” Non sapevo perché volessi saperlo, ma volevo saperlo.
“Lo farò, se lo vuoi. Ma qualunque cosa sarà, non cambia il fatto che ora sono qui, con te. Lascia stare lei e pensa a noi.”
Non riuscii a rispondere tanto il male era sentire quella parola così priva di significato in quel momento. Così piena di dubbi e di se e di ma e di forse.
“Ora puoi dirmi perché l’hai fatto?”
Sospirai, cercando di assecondare i suoi tentativi di andare oltre. Almeno per quella sera, una cosa alla volta. “Per vendetta. Volevo… non lo so. Volevo vendicarmi di… Non lo so di cosa. Non lo so… Volevo che provassi lo stesso fastidio che avevo provato io. Non lo stesso, magari diverso, ma comunque un fastidio.”
“E come facevi a sapere che avrebbe funzionato?”
“Perché tu adori infrangere le regole. Cosa c’era di meglio se non scatenare una tua scenata di gelosia?”
“Pensi che fosse una scenata solo per infrangere una delle tue stupide regole?”
“Ah, non lo so. Dimmelo tu.”
E non rispose, ovviamente. Strinse i denti e mi fissò.
“Senti, non lo so cosa fosse. Non mi sarei comportato così se non avessi conosciuto il soggetto. Voglio solo che… Mi dispiacerebbe se dovessi avere a che fare con più di uno stronzo alla volta. Non te lo meriti.”
“E questo lo apprezzo, davvero. Ma non si fa così, Edward. Non è così che mi dimostri che un po’ ti interessi a me. Avevi ragione, okay? Lo sapevi tu, lo sapevo io. Siamo stati due scemi ed orgogliosi e io non ho problemi a dirti, ora, che avevi ragione, che non ho bisogno di un ragazzo in questo momento, soprattutto di un ragazzo così, ma… Non ho bisogno nemmeno di questo. Non posso vivere con i tuoi giochetti, le tue scommesse, le scenate di gelosia e i baci a tradimento. Non va così. Non è quello di cui ho bisogno ora.”
Edward aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra. “D’accordo. Allora, dimmi di cosa hai bisogno.”
Ci pensai qualche secondo prima di rispondere, sperando di non fare un altro buco nell’acqua.
“Ho bisogno di un amico. Qualcuno su cui poter contare, qualcuno che ci sia quando ne ho bisogno e anche quando non chiedo aiuto. Qualcuno che possa consigliarmi senza avere doppi fini, qualcuno che metta da parte l’orgoglio e mi aiuti a mettere da parte il mio. Qualcuno che voglia starmi vicino senza sentirsi in obbligo, qualcuno che mi ascolti, che mi dica di piangere e mi asciughi le lacrime quando lo faccio, che mi copra quando ho freddo e mi prepari una tazza di cioccolata calda quando ne ho voglia. Qualcuno che mi abbracci quando tremo, che mi tenga la mano quando ho paura di non farcela, qualcuno che mi dica che andrà tutto bene e che sarò una brava madre e…” una lacrima mi solcò le guance e, prima che potessi accorgermene, ero tra le sue braccia.
Un braccio attorno alle mie spalle, una mano che mi carezzava dolcemente i capelli, mentre io mi rannicchiavo in lui e piangevo ancora di più.
“Sssh… Piangi, piccola. Piangi. Tranquilla, sono qui. Andrà tutto bene… e tu sarai un’ottima madre…”
E le sue parole, il modo in cui le disse, non fecero che peggiorare la mia lagna e, senza nemmeno accorgermene, mi strinsi a lui ancora di più, aggrappandomi alla sua maglietta.
“Ce la caveremo, vedrai. Insieme. Lasciami essere tuo amico, Bella. Lasciami provare, ti prego. Dammi una possibilità.”
E sapevo che, probabilmente, me ne sarei pentita eppure assecondai quella debole forza del mio cuore contraria alle mille del mio cervello che mi avrebbero spinto a dire di no. Così annuii e godetti della sua dolce voce sul mio collo.
“Grazie…”
Fu un solo soffio e rabbrividii.
“Stupidi ormoni…” singhiozzai contro il suo petto e lo sentii sorridere mentre asciugava una mia lacrima e lasciava un dolce bacio tra i miei capelli.


_____________

Ci tenevo a ringraziare tutte voi che leggete e recensite! Come molte mi hanno detto (e mi ha fatto molte piacere!) la storia non è chissà cosa a livello di trama, non ci sono grandi drammi o tragedia (ed era il mio intendo principale dopo Broken Road, cioè scrivere qualcosa di più leggero) e mi fa piacere che possiate apprezzarla ugualmente e innamorarvi di questi due idioti. Alla fine quello che a me piace raccontare di più, come magari qualcuno sa, è proprio l'inizio di un amore. Penso, e nessuno mi farà mai cambiare idea, che è la parte più bella di una storia intera, l'inizio di tutto, a cui puoi voltarti e guardare con un sorriso. Non so... Ho questo pallino per cui, sì, le mie storie probabilmente non partirebbero mai con un amore già raccontato, a meno che non ci sia altro da raccontare. Vabbè, la smetto con questo ragionamento contorto, tanto mi sa che mi sto capendo solo io.
E grazie SC (lol), che mi fai sempre commuovere con le tue recensioni... ç_ç Aaaaanyway, se avete avuto il capitolo, ringraziate Fabiana, perchè è il suo compleanno e volevo farle un pensierino; per cui mi sono alzata stamattina e l'ho finito. Tra l'altro immagino sappiate che EFP ha avuto problemi oggi pomeriggio, MA, sono ancora le 23:00 quindi sono ancora in tempo *-*

Fa', anche se probabilmente non lo leggerai nemmeno oggi che magari sei impegnata (frase che, a questo punto, non c'entra più un cazzo visto che sono le undici di sera u.u), buon compleanno!
Anche se sei una pazza che mangia deodoranti (huahuha), sei una delle persone più dolci del mondo...
Ti voglio bene! <3


That said.
Alla prossima! xx


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Capitolo 9
*** Sorry... ***


Chiedo scusa per chi ha aperto questo link sperando invanamente di trovare un nuovo capitolo :') Purtroppo no, non è così e, al momento, penso che non sarà mai così. Avrei potuto eliminare già la storia a questo punto anche perchè tenerla non ha praticamente senso. Però, boh. Ancora non ci riesco. Nella vita "mai dire mai"; quindi, visto che non voglio fare come quelle autrici che lasciano senza nemmeno farsi più sentire, ecco almeno questa nota. Anzi, chiedo scusa per averci messo tanto a scriverla, ma ormai EFP non è nemmeno più nella lista dei miei pensieri. E' semplicemente stato un periodo della mia vita che resterà tale: un periodo. Un periodo che ormai è passato, poche chiacchiere. Non voglio scrivere un poema elencando tutto quello che mi frulla nella testa, quindi solo questo. Scrivere mi piace, e forse lo farò ancora in futuro quando avrò gli stimoli e l'ispirazione giusta per farlo. Ma al momento (e penso ancora per molto...) proprio no. Quindi, niente... Scusate davvero ma a un certo punto ho dovuto essere onesta con voi...(come se non si fosse capito già poi... xD lol) Anyway, grazie mille a chi mi ha seguito in questo periodo. :) Siete stati preziosi, davvero! Un bacio a tutti. Fio.

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