Il Bello e la Smemorata.

di Pippi91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Soffoco. ***
Capitolo 2: *** Il Risveglio ***
Capitolo 3: *** Amnesia ***



Capitolo 1
*** Soffoco. ***


-A volte bisogna seguire i consigli e ritrovare ispirazioni che pensavi morte. Godetevi la storia.-



Una bellissima serata piena di stelle e priva di nuvole. Era ciò che mi ci voleva per uscire dall'abisso di quelle quattro mura del mio appartamento. Troppo grande a volte, troppo piccolo altre. E quella sera mi stava soffocando, opprimendomi fino a sentire le pareti scorrere e schiacciarsi sulla mia pelle. Il sapore della polvere sulla lingua. Mi alzai di scatto, facendo cadere la sedia per terra e uscii dal monolocale, lasciando il pc acceso. Ma qualcosa mi stava letteralmente soffocando. Cercavo semplicemente una via d'uscita... una scappatoia veloce dall'incubo che era diventata la mia vita. Ma quale vita, però? Era questo il punto. Io non l'avevo una vita.  Ne una famiglia e tantomeno un lavoro. Ero solo io, assieme a me stessa. E quanto a lungo puoi sopportare la tua sola voce? Quanto a lungo puoi vivere confrontandoti solo e sempre con te stessa?
Mi allontanai dalla porta d'entrata di qualche metro, correndo lungo il sentiero ricoperto di ciottoli che delineava il cortile dell'intero palazzo. Ma non mi fermai, non riuscivo a trovare ancora la serenità in quell'aria fresca sulla pelle. Alzai lo sguardo per fissare le stelle che da tanto avevo smesso di guardare e mi fermai, di punto in bianco, senza rendermi conto nemmeno di quanta distanza avessi messo tra me e quel buco di appartamento. Il respiro irregolare. Ispirai con lentezza e finalmente quell'ansia cominciò a scivolare via dal mio corpo. Ma non era abbastanza. Con la stessa velocità con la quale ero uscita, rientrai in casa, spensi tv e pc, afferrai le chiavi dell'auto e corsi di nuovo fuori sbattendo anche violentemente la porta. Mi infilai nella mia piccola utilitaria, assicurai la cintura di sicurezza e avviai il motore, sgusciando via dal parcheggio, cominciando a guidare.
Era notte fonda e il destino sembrava essere dalla mia. Le strade completamente vuote, libere da ogni tipo di traffico. C'ero solo io, con me stessa. E stavolta mi piaceva. Mi beavo di quella sensazione di libertà che mi scorreva nelle vene, aumentata dall'adrenalina, agitandomi quel tanto per andare su di giri. Passai un paio di semafori rossi senza fermarmi. Libera da ogni vincolo o legame e per dieci minuti buoni mi dimenticai che il volante che stringevo, apparteneva ad una semplice utilitaria e non ad una macchina sportiva. Quando me ne resi conto cominciai gradualmente a rallentare, smuovendo finalmente la lancetta che era ferma ai 130 km/h da un po'. Non era passato molto tempo, forse qualche secondo infatti l'auto andava ancora spedita e abbassai lo sguardo sul contachilometri solo un attimo. Un velocissimo e terribile attimo.
Quando rialzai gli occhi sulla strada, non era più libera ed infinita davanti a me. Tutt'altro. Una fine l'aveva e nel mezzo c'era una sagoma di qualcuno, un uomo probabilmente, ma certamente in una frazione di secondo non riuscii a carpirne i dettagli. Ciò che in quel momento mi premeva, era non investire la Sagoma. Sterzai bruscamente verso destra quando capii che, anche frenando, non avrei evitato l'impatto con quell'ombra che diventava tangibile e nitida man mano , mentre i fari la illuminavano gradualmente mettendo alla luce un'espressione sorpresa e spaventata. Sentii stridere gli pneumatici contro l'asfalto mentre la macchina slittava a tutta velocità, senza il benchè minimo controllo e tutto sembrava dannatamente oscuro. Tutto girava, qualsiasi cosa ci fosse davanti a me, diventava improvvisamente una striscia indistinta di forme smembrate e luci allungate. L'auto cominciò a sobbalzare ripetutamente sballottandomi sul sedile nonostante la cintura di sicurezza tentasse di tenermi ferma contro lo schienale.  Le mie mani che stringevano il volante persero forza e solo dalle macchie indistinte e dalla forza di gravità continuamente in movimento, mi accorsi che l'auto stava letteralmente girando su se stessa. Due, tre, cinque volte. Vetri in frantumi, tanto rumore e per una frazione di secondo pensai alla Sagoma che sicuramente stava assistendo a quello spettacolo atroce di cui ero protagonista. Sorrisi in quel carico di rumori, sicura di aver evitato l'omicidio di qualcuno perchè nuotando nel mio pessimismo cronico, riuscii a trovare l'unico motivo per cui stare bene: era finita.

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Capitolo 2
*** Il Risveglio ***


Bep. Bep. Bep.
Sembrava scandire il tempo, in un ritmo troppo lento di un cuore ancora vivo. Aprii gli occhi e lentamente cercai di mettere a fuoco ciò che mi circondava. Mi aspettavo di trovare il nulla. Un abisso di aria gelida dove, per quanto tu possa urlare, nessuno ti sente. Invece lì c'era rumore. Non solo quel ripetersi di bep, ma anche voci lontane. Rumori usuali ma non quotidiani per me. Il soffitto era bianco, sicuramente, ma per la luce che filtrava in quel momento, sembrava grigio o comunque sporco. Abbassai lo sguardo cercando di capire in che posizione era collocato il mio corpo rispetto a ciò che vedevo. Sapevo di essere sdraiata ma non in mezzo ad altri 3 letti, vuoti però. C'ero solo io, ancora una volta. Buttai fuori l'aria dal naso e quell'azione mi provocò più fastidio che sollievo. Incrociai gli occhi sul mio naso cercando di capire cosa mi desse tanta noia ma non vedevo molto, così con tutte le forze provai ad alzare un braccio e mi sentii stranamente sollevata quando la mano sinistra entrò nel mio campo visivo, rispondendo alla mia volontà, nonostante percepissi del dolore. Mi toccai il viso sentendo la pelle secca e gonfia sotto le dita, e scivolando sullo zigomo, l'indice e il medio sfiorarono qualcosa simile ad un tubicino. Ossigeno, ecco cos'era. Sbuffai, stavolta schiudendo le labbra, rendendomi conto di avere la bocca impastata, arida. Infilai l'indice tra il tubicino trasparente e la mia guancia quindi allontanai la mano provando a portar dietro anche quell'arnese. Sentii il tubicino tirare dietro le orecchie, lì dove era agganciato, ma alla fine me ne liberai senza chissà quale sforzo.
«Sei sveglia da un secondo e già fai guai», sbottò una voce maschile, con un'irritazione palpabile nel tono. Mi guardai intorno cercando di sollevare appena le spalle, cosa che mi risultò molto più difficile rispetto all'alzare semplicemente un braccio. Con una smorfia mi riaccasciai sul letto.
«Ma che vuoi .. chi ti conosce», mugugnai senza nemmeno interessarmi se mi avesse sentita o meno. Certo non erano domande quelle. Un modo come un altro per mandare a quel paese qualcuno, in un momento in cui non vorresti incrociare nemmeno te stessa allo specchio. Avevo chiuso gli occhi, poggiando la testa nuovamente sul cuscino e l'unico rumore diverso da quel bep, erano dei passi decisi, ma lenti, che diventavano sempre più vicini, fino a fermarsi, probabilmente nei pressi del mio letto.
«Quel tubo serve a farti respirare meglio», perchè mi sembrava così saccente quella voce tutto sommato niente male? E sotto sotto provai una strana sensazione di volerla risentire ancora, infatti non parlai. Restai in silenzio fino ad udirla nuovamente. «Hai avuto un brutto incidente». Stavolta la voce sembrava preoccupata.
Incidente? Io? Cercai di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa potesse far luce sul perchè io fossi in quell'ospedale. Se ospedale era. Fino a quel momento non avevo visto ne altri pazienti, ne infermiere. Alzai la mano destra avvicinando l'indice e il pollice agli occhi, poggiando i polpastrelli sul dorso del naso, massaggiando appena quella zona. Aprii finalmente gli occhi, riabbassando la mano e inquadrando, una buona volta, la persona da cui proveniva quella voce che mi rendeva curiosa.
Era un uomo sulla quarantina, che indossava il camice da paziente di ospedale,  che indossavo anche io. Aveva una piccola benda sulla fronte,  coperta appena dai capelli castani, una sul polso sinistro e una flebo tenuta in alto da un piccolo palo di acciaio, sottile ma all'apparenza resistente. Seguii con gli occhi il tubicino che finiva direttamente sul palmo della mano dello sconosciuto, ma per il resto sembrava stare bene. Lui almeno era in piedi. Lo guardai con attenzione, aggrottando appena la fronte mentre lo squadravo da capo a piedi senza ritegno, come una guardona in astinenza. Il suo volto mi sembrava così familiare. Lui di tutta risposta, scacciò via uno sbuffo e portò le mani sui fianchi stretti che prima non si vedevano, a causa dell'informità del camice. La mano punta dall'ago della flebo poi si strinse a pugno contro il piccolo e lungo cilindro di acciaio dove era appesa la sacca, appoggiandovisi.
«In alcuni film, quando un paziente si risveglia, medici e infermiere lo bersagliano di domande», calò il silenzio qualche secondo. Ancora non avevo capito dove volesse andare a parare. «Ma siccome ci siamo solo tu ed io, per il momento, penso che tocchi a me essere invadente. Come ti chiami?». Ecco, ci mancava anche il vicino di letto impiccione. Sbuffai socchiudendo gli occhi, più che altro per provare a ricordare. Il mio nome, certo. Il mio nome..
«Perchè dovrei dirlo ad uno sconosciuto?», bisbigliai con una voce flebile, quasi inesistente. Temporeggiavo, per capire.. per pensare. Come diavolo ci ero arrivata in ospedale? Ma cosa ancora più importante, perchè non ricordavo nemmeno il mio nome?

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Capitolo 3
*** Amnesia ***


Tutto era oscuro, perso e dimenticato. Non avevo idea di come mi chiamavo, ne del perchè ero in ospedale. E poi c'era questo Sconosciuto, che abitava proprio sul letto accanto al mio.
«Seriamente, qual'è il tuo nome?», continuava a chiedermi, usando ogni volta un tono più serio e preoccupato. Ed ogni volta mi sentivo più irritata.
«Se hai tutta questa voglia di saperlo perchè non leggi sulla cartella ai piedi del letto?», e dentro di me speravo lo facesse davvero. Così anche io avrei conosciuto il mio nome. Dai, che morivo di curiosità.
«L'idea è buona, ma speravo me lo dicessi tu. Sai dove ti trovi?». Mi guardava fisso negli occhi , impertinente e ostinato, rendendomi sempre più imbarazzata e irritata. Mi morsi le labbra, sentendo una piccola fitta più intensa della solita e blanda stretta dei denti su un labbro sano. Dovevo avere, forse, qualche piccola ferita oppure un livido. «Sai che giorno è oggi?» non la smetteva con quelle domande, nonostante non ricevesse alcuna risposta, rendendo quella voce simpatica, grave e preoccupata «Sai chi sono io? Quanti anni hai? Dove sei nata? Non hai dei parenti?», continuava e continuava.
«Oh, ma che cavolo?! Sono forse finita in un quiz alla tv? La smetti con queste domande? E poi chi diavolo sei? Perchè da come sei vestito, non mi sembri un medico» provai anche a gesticolare, ma i movimenti non erano così fluidi e decisi come credevo. Le mie mani si agivano a rallentatore e ad ogni movimento, qualche parte del mio corpo urlava dal dolore, obbligandomi a delle smorfie. Alla fine mi arresi e lasciai cadere le braccia sulle lenzuola chiare. Anche sulle mie mani c'erano degli aghi collegati ad un paio di flebo. Nulla di simpatico, ma nemmeno tragico, ecco. Lo vidi schiudere nuovamente le labbra ma non riuscì ad emettere suono perchè una porta, sul fondo della stanza, si aprì lasciando entrare una donna bassa, dai capelli ricci e scuri, così come la sua carnagione. Si avvicinò a me senza indugio e mi beai, per qualche secondo, di quella serena sicurezza e di quel sorriso che l'infermiera mi aveva mostrato. Ma soprattutto del silenzio dello Straniero.
«Ciao! Sei sveglia. Io sono Amber» asserì semplicemente girando il viso verso il monitor dove c'erano alcune linee frastagliate. Pigiò qualche tasto e venne fuori una striscia di carta simile ad uno scontrino, ma più grande. Ero curiosa di quei movimenti perchè, in quel momento, mi sembrava di essere davvero finita in un film. «Il medico di turno arriverà tra poco a visitarti, nel frattempo posso farti qualche domanda?» Quel tono gentile mi avrebbe fatto annuire a qualsiasi richiesta, ma non ebbi modo di rispondere.
«Ha un'amnesia.» borbottò quella voce e d'istinto ridussi gli occhi a due fessure guardando un punto indistinto davanti a me. Avrei voluto incrociare le braccia al petto e mettere il broncio, ma la possibilità di rompere uno degli aghi che avevo sottopelle, non mi rilassava molto. L'infermiera guardò l'uomo dall'aria imbronciata e per un attimo arrossì. Non mi sfuggì quella reazione ma non mi fermai a ragionarci troppo sopra. In quel momento ero leggermente più preoccupata di capire come diavolo ero finita in quel letto d'ospedale senza memoria.
«Ha un'amnesia», ripetè a pappagallo l'infermiera sorridendo allo Sconosciuto che, portando con se l'asta porta flebo, fece dei passi indietro appoggiando il sedere sull'angolo del letto affianco al mio, quello che probabilmente apparteneva a lui.
«No, non è vero. Calunnia e maldicenza!» mi lamentai e a quel punto sentii quella risata riempire la stanza. La risata dello Sconosciuto che sovrastava perfino l'incessante bep dell'eco del mio cuore, che improvvisamente accelerò appena, direttamente proporziole alla sua risata.
«Jack Sparrow sopravvive, meritatamente, anche alle amnesie» concluse così quella risata alzando anche le sopracciglia, fissando per qualche secondo il soffitto. Poco dopo anche l'infermiera si accodò a quella risata. Jack Sparrow. Si di lui mi ricordavo. Pirati, dee pagane e piovre giganti. Non so per quale ragione ma quel piccolo tassello della mia memoria funzionava bene. Era tutto il resto ad essere scomparso, compresa me stessa.

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