Late Show with David Letterman

di vannagio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Late Show with David Letterman ***
Capitolo 2: *** Extra ***



Capitolo 1
*** Late Show with David Letterman ***


Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”




Late Show
with David Letterman




«Sei pronto, capitano?».
Il ghigno di Stark fece capolino da dietro una truccatrice riccioluta che gli stava tamponando la fronte con l’applicatore della cipria. Avevano cercato di fare altrettanto su di lui, ma Steve aveva cortesemente declinato l’offerta.
Fece spallucce.
«Sì. Insomma, rispondere a delle domande davanti a una telecamera non sarà tanto diverso dal recitare un copione su un palcoscenico per fare propaganda patriottica, no?».
Stark scosse la testa.
«Non credevo fosse possibile, ma sto rimpiangendo Thor».
La truccatrice si era appena allontanata, non prima di aver discretamente fatto scivolare un bigliettino con il suo numero telefonico nel taschino di Stark, quando uno dei tecnici apparve da dietro una porta per annunciare che mancavano cinque minuti all’inizio della registrazione. Stark estrasse il bigliettino dal taschino, lo appallottolò senza degnarlo di un’occhiata e se lo buttò alle spalle. Poi si sporse verso Steve, con aria da cospiratore.
«Okay, facciamo così: tu parli solo quando interpellato e al resto penso io, intesi?».
Steve aggrottò la fronte.
«E perché, scusa?».
«Questa è la televisione, capitano. Non ci sono copioni da recitare».
«Sì, invece. La redazione del David Letterman Show ci ha fornito la scaletta dell’intervista due giorni fa». Un campanello di allarme suonò nella testa di Steve nel vedere la faccia di Stark. «Tu l’hai letta, la scaletta, vero?».
Stark roteò gli occhi.
«Ecco, vedi? La tua è una mentalità troppo vecchio stampo, rigida, ancora imbrigliata da tabù che ormai non esistono più. Invece la televisione è dinamica, spontanea, la televisione è improvvisazione. E chi, tra noi due, è il maestro nell’improvvisazione? Ricordi? Tu piano d’attacco. Io… attacco! Quella scaletta è più che altro una linea guida, una traccia».
Steve si mise in piedi e squadrò Stark dall’alto in basso.
«Stark, Fury è stato molto chiaro: quest’intervista è importante per l’immagine della squadra, non possiamo mandare tutto a rotoli solo perché ti ritieni troppo…», frullò le dita in aria, «…figo per seguire un copione».
Anche Stark si mise in piedi e assestò una pacca affettuosa sulla spalla di Steve, con un sorrisetto ironico che non prometteva nulla di buono.
«Ehi, Capitan Ghiacciolo, rinfrescami la memoria: chi tra noi due è un genio miliardario playboy filantropo?».
Steve sbuffò.
«Stark, cosa...».
«Esatto, io! E chi tra noi due è rimasto a poltrire sotto una tonnellata di ghiaccio per settant’anni, perdendosi una cosuccia da niente come l’invenzione della televisione?».
«Per tua informazione, negli anni quaranta la televisione era già stata inventata».
«Non è questo il punto, Steve». L’espressione di Stark si fece seria. Era la prima volta che lo chiamava per nome. «Almeno per una volta, te lo chiedo gentilmente, fidati di me».
Stark lo lasciò lì, imbambolato a fissargli la schiena, mentre si avviava a passi balzandosi verso lo studio di registrazione dello show. In quel preciso istante Steve ebbe la netta sensazione che l’intervista si sarebbe risolta in un vero e proprio disastro.



«Non mi piace dire te lo avevo detto, ma io te lo avevo detto che quell’Edward aveva una faccia da adoro-la-banana-ma-faccio-finta-di-preferire-la-patata». Bree porse a Greg un bicchierino di vodka (“Per gentile concessione dell’Agente Romanoff”) e si lasciò cadere sul divano accanto a lui. «Insomma, già il nome è tutto un programma, trasuda bigottismo e ipocrisia medio-borghese da tutti i pori».
«Disse la checca che di nome faceva Jefferson Abraham McCallan III».
«Infatti mi faccio chiamare Bree».
La vodka lungo l’esofago era trementina. Greg tossì violentemente fino a sputare entrambi i polmoni. Una sensazione che gli piacque molto.
«Un altro!».
E scaraventò il bicchiere sul pavimento.
Bree inarcò un sopracciglio.
«Non credo sia il caso, sei già ubriaco dopo un solo bicchiere».
«Non sono ubriaco, ma era una vita che volevo farlo».
Greg si attaccò al collo della bottiglia, strappata dalle mani di Bree.
«Ascolta la zia Bree, sprecare un coma etilico per uno come Edward è pura blasfemia. Quel tizio è un gigantesco idiota, succube dei suoi genitori. E finalmente te lo sei tolto dalle palle, dovresti festeggiare!».
«È l’uomo della mia vita, invece. E si sta per sposare. Con una donna».
Bree si lasciò sfuggire uno sbuffo esasperato.
«Se avessi messo da parte un dollaro ogni volta che ti ho sentito dire “È l’uomo della mia vita”, adesso vivrei alle Isole Cayman, circondato da mulatti dai bicipiti guizzanti e dalle chiappe sode. Come se non bastasse, i tuoi gusti del cazzo, in questo caso letteralmente del cazzo, mi stanno facendo perdere il Late Show». Bree prese il telecomando e accese la televisione. «Quella di stasera è una puntata da non perdere».
«Tu sì che sei di aiuto».
Greg buttò giù un altro, lunghissimo sorso di vodka e l’alcol scivolò giù, in gola, come lava fusa. Questa volta tossì fuori anche l’anima.
Bree agitò la mano in un gesto svolazzante.
«Domani ti porto al poligono di tiro, o a prendere a pugni un sacco da boxe se preferisci, vedrai che starai benone. Oh, dannazione, hanno già cominciato!».
«…cosa si prova a svegliarsi nel futuro?».
«Ha mai visto il film
Ritorno al Futuro, Signor Letterman?».
Letterman guardò in camera e ammiccò.
«Giusto un paio di volte».
Inquadratura di Tony Stark, che scosse la testa e sorrise (“Trasuda sesso da tutti i pori quell’uomo” fu il commento di Bree), rapida carrellata sul pubblico che applaudiva, poi la telecamera tornò sul capitano (“Tanto lo so che sotto quell’aria da ragazzo casa-e-chiesa si nasconde un dio-del-sesso-fatto-e-finito”, ennesimo commento di Bree).
«Mi sono sentito come Marty MacFly, il protagonista. Solo nella situazione opposta».
Letterman annuì, comprensivo.
«E qual è la prima cosa che ha notato di diverso tra il passato e il futuro?».
«Il futuro è molto più… chiassoso. E bizzarro».

Letterman inarcò un sopracciglio.
«Si spieghi meglio».
Primo piano sull’espressione pensierosa del capitano (“Viso d’angelo, perché non sei nato gay?”).
«Ieri, ad esempio, ho sorpreso i vicini di casa della mia fidanzata che si baciavano davanti al portone del palazzo. Due ragazzi, intendo. Non avevo capito stessero insieme, credevo fossero solo due amici che dividono l’appartamento. E invece eccoli là, scambiarsi effusioni pubblicamente come se fosse la cosa più giusta e naturale del mondo».
«E non lo è?».
«Sicuramente non è naturale. E ai miei tempi non sarebbe stato nemmeno giusto».

Greg sputò sullo schermo del televisore il sorso di vodka che aveva appena tracannato direttamente dalla bottiglia. Bree non batté ciglio, continuò a fissare la tv come se il suo peggior incubo fosse diventato realtà. La telecamera, intanto, stava inquadrando alternativamente un Letterman imbarazzato, un Tony dal sorriso cristallizzato e un capitano dall’aria confusa. Il tutto avvolto in un silenzio tombale.
«Sono davvero già così ubriaco o il Capitano Rogers ha appena dichiarato che l’omosessualità non è naturale davanti a tutta la nazione?», chiese Greg.
«Stavo giusto per porti la stessa domanda», rispose Bree.
«Sapete cosa è davvero bizzarro, invece?». La telecamera si spostò all’improvviso su Tony Stark. Il suo sorrisetto era tornato caldo e ammiccante. «Qualche mese fa mi sono imbattuto in un sito web di scrittura creativa. La maggior parte dei racconti in esso contenuti vedono protagonisti me e il capitano».
Letterman sembrava visibilmente sollevato dall’intervento sciogli-tensione di Tony e non perse tempo a rientrare nei suoi panni.
«Ah, sì? E cosa succede in questi racconti?».
«Per lo più, non siamo in fascia protetta, vero?, noi… ci diamo da fare, ecco. Molto da fare. In tutte le posizioni, se capisce cosa intendo».

Il Capitano Rogers sgranò gli occhi e arrossì vistosamente.
Letterman invece scoppiò a ridere.
«Per bacco, capisco benissimo! E come si sente a riguardo, Signor Stark?».
«Come mi sento? Offeso, ovviamente. Come uomo, ma soprattutto come essere umano».
Tony Stark guardò dritto in camera. «Ragazze mie, credetemi, se fossi gay, state pur certe che punterei il pezzo più grosso. O forse dovrei dire… il martello più grosso?».
Letterman dovette aspettare che il pubblico smettesse di applaudire e ululare prima di proseguire con lo scambio di battute.
«Mi faccia indovinare. Thor?».
«Oh, sospettavo che lei fosse un gran intenditore!».
Stark si baciò il palmo della mano e ci soffiò sopra. Letterman fece finta di prendere qualcosa al volo e di metterlo nel taschino. «Stia attento, però, Signor Letterman. Potrebbe trovarsi coinvolto in una threesome senza neanche rendersene conto».
«Qualsiasi cosa significhi… perché no!».
«È meglio di no, mi creda».

Si lasciarono andare entrambi a una sonora risata. Nel frattempo, il pubblico era esploso in un applauso fragoroso e il volto del capitano a ogni secondo che passava diventava sempre più pallido.
Bree spense la tv.
«A Fury non piacerà».
Greg contemplava nostalgico la bottiglia di vodka ormai vuota.
«Non piacerà a nessuno».



Un giornale venne scaraventato sulla scrivania, proprio davanti a loro.
«Sapete dirmi cosa è questo?».
«Uhm, non so. Il Daily Bugle? Finalmente hanno trovato qualcun altro di cui sparlare. La tiritera “Spiderman, un criminale!” era diventata noiosa».
Fury fulminò Stark col suo unico occhio buono.
«Ti sembro uno che ha voglia di scherzare? Ti ho dato forse l’impressione di avervi convocato qui per fare due risate?».
Stark fece per ribattere, ma Steve strinse la mano sulla sua spalla a mo’ di avvertimento.
«Forse è meglio non infierire, Stark».
«Già, forse», concordò Fury, che prese il giornale e glielo mise sotto il naso. Da quella distanza così ravvicinata, Steve riusciva a vedere i contorni sgranati delle lettere che componevano il titolo dell’articolo: “Capitan Omofobia” occupava circa un quarto della prima pagina. «Ve lo dico io cosa è, questo. Un disastro! Una catastrofe! L’armageddon! Vi avevo chiesto soltanto una cosa. Una. Ed era “Non combinate casini”».
Stark alzò la mano, come per chiedere il permesso di parlare.
«Tecnicamente è stato il capitano a combinare il casino. Io non c’entro nulla. Anzi, lo avevo avvertito di parlare solo quando interpellato e di lasciare fare a me».
«Ed è esattamente quello che ho fatto!», lo interruppe Steve.
Stark si strinse nelle spalle.
«Be’, hai ragione. Ho sbagliato. Avrei dovuto raccomandarti di non aprire bocca e basta, visto il pasticcio in cui hai cacciato tutta la squadra».
«E tu? Tu non hai nessuna responsabilità, vero? L’uscita sulla storia di quei… così…».
«Si chiamano racconti omoerotici, Capitan Omofobia. Per tua informazione, il mio intervento serviva ad allentare la tensione. E si dà il caso che abbia anche funzionato».
Fury batté il pugno sulla scrivania. Steve scattò sull’attenti. Stark roteò gli occhi, scocciato.
«Ora basta. A me non frega un cazzo di chi sia la colpa. A me interessa soltanto che troviate una soluzione al problema. Le associazione LGBT vogliono delle pubbliche scuse, o in alternativa la tua testa su un vassoio d’argento, capitano. Mentre i gruppi di estrema destra hanno cominciato a usare il tuo scudo come loro simbolo».
Steve inarcò il sopracciglio.
«Rappresento tutta l’America, Direttore Fury. Anche loro sono americani, no?».
Stark si coprì il volto col palmo della mano.
Fury incrociò le braccia al petto.
«Ah, quindi ti sta bene rappresentare un gruppo di bulli prepotenti che picchiano e insultano persone innocenti e indifese solo perché diverse da loro?».
Steve abbassò lo sguardo.
Fury annuì. «Proprio come pensavo. Bene, ecco cosa voglio. Tu». Indicò Stark. «Organizzerai una conferenza stampa alla Stark Tower».
«Perché io, perché alla Stark Tower? L’ho già detto un secondo fa, non è colpa mia».
Fury non batté ciglio. «Alla Stark Tower. Per domani mattina. E tu». Puntò l’indice contro Steve. «Chiederai scusa a tutta la nazione e prenderai le distanze dai gruppi di estrema destra. Sono stato abbastanza chiaro o avete bisogno che vi faccia un disegnino?».
«Veramente io…».
«Non potremmo….».
Fury li zittì con un’occhiataccia.
«Scusate, credo di non aver capito. Sono stato abbastanza chiaro?».
«Cristallino», risposero Steve e Stark all’unisono.



Un sacco da boxe era quello che gli serviva per riordinare le idee.
La palestra dell’Elivelivolo era già occupata, ma per fortuna si trattava soltanto dell’Agente Greg Mason. Steve nutriva una grande stima nei suoi confronti. Avevano combattuto fianco a fianco in diverse missioni, dopo l’attacco dei Chitauri a New York, e Greg si era dimostrato un ottimo compagno di squadra, uno di quei soldati ai quali si poteva affidare la propria vita senza pensarci due volte.
«Salve, agente».
Un destro e un sinistro, poi Greg si voltò e ricambiò il saluto con un cenno del capo.
L’Agente Greg Mason era un tipo discreto, si poteva passare un’intera giornata in sua compagnia senza sentire il bisogno di colmare il silenzio con frasi vuote e di circostanza. Non come Tony Stark, che entrava nel panico se non dava fiato alla bocca per più di due secondi.
Per la prima ora, quindi, nessuno dei due proferì parola, entrambi concentrati sul proprio sacco da boxe e sui propri problemi. Poi Greg si lasciò cadere sul pavimento, raccolse l’asciugamano dalla borsa e si tampono il sudore sul collo. Steve notò una specie di cicatrice dalla forma indefinita, appena sopra la clavicola.
«Già stanco, agente?», gli chiese.
«Non siamo tutti dei supersoldati come lei, capitano».
Steve rise, e si sedette accanto a Greg.
«Allora. Qual è la sua scusa, Agente Mason?».
Greg gli rivolse un’occhiata interrogativa e Steve indicò con un cenno del mento il sacco da boxe.
«Mi scusi. Di solito vengo qui quando ho troppi pensieri per la testa, ho dato per scontato che per lei fosse lo stesso. Per me è stata una giornataccia, immagino sappia già tutto. I notiziari non parlano d’altro».
Greg annuì.
«In effetti, sì. Ho visto la puntata, ieri sera».
«Devo scrivere un discorso di scuse e non ho idea da dove cominciare. E la mia fidanzata è furiosa con me perché i suoi vicini di casa le hanno tolto il saluto».
«Quelli di cui ha parlato al Late Show?».
«Esatto».
Greg rimase in silenzio per un po’, a fissare il sacco da boxe che dondolava a destra e sinistra sempre più lentamente.
«Sono stato mollato».
«Come?».
«Sono stato mollato. È questa la mia scusa».
«Ah. Mi spiace».
«Già. I suoi genitori non avrebbero approvato la nostra relazione, così ha deciso di sposarsi con qualcuno che fosse a loro più congeniale».
Nonostante le sue parole suonassero neutre e distaccate, Steve lesse un dolore autentico negli occhi di Greg. Lo stesso che aveva letto nei suoi, allo specchio, quando si era svegliato e aveva scoperto che tutte le persone a lui care erano morte. Steve avrebbe voluto dire qualcosa di più intelligente, purtroppo gli venivano in mente solo frasi scontatissime.
«Sono sicuro che prima o poi troverà la ragazza giusta. Per me è stato così».
Greg abbozzò un sorriso, senza guardarlo in faccia.
«Be’, una ragazza forse no. Ma un ragazzo… lo spero davvero».
Steve strabuzzò gli occhi, pensando di aver sentito male.
«Come ha detto?».
Non poteva essere. Non Greg. Greg era la versione del ventunesimo secolo di Steve. Era… normale, insomma. Un uomo normalissimo. Un soldato competente e coraggioso, un agente pluridecorato. Non poteva essere… in quel modo. Di solito quel tipo di persona assomigliava più a individui come…
«Ha capito benissimo, capitano! Greg ha proprio detto ra-ga-zzo».
…l’Agente McCallan.
Che era appena entrato nella palestra.
«Dovevi essere qui circa un’ora fa», lo rimbeccò Greg. «Sei un vero amico, grazie».
«Scusami tanto, ero impegnato ad avere il miglior sesso telefonico della mia vita col Dottor Loverboy».
«Bree, quante volte devo dirti che non voglio conoscere i dettagli scabrosi della tua vita privata?».
L’Agente McCallan si sfilò la felpa, sbuffando e rimanendo in canottiera. Dopo aver piegato accuratamente e appeso sulle corde del ring l’indumento, cominciò a prendere a pugni il sacco da boxe. Per essere un… sì, insomma, quel tipo di persona, la sua tecnica era molto buona.
«Non faccia quella faccia, capitano», disse Bree. Il sacco sussultava sotto i suoi colpi. «Non è il primo e non sarà l’ultimo che si sbaglia su Greguccio. Le apparenze inganno. Perfino lui è stato ingannato da se stesso. All’università stava con una ragazza. Un’asiatica. Che poi, voglio dire, lo sanno tutti che le asiatiche sono l’ultima spiaggia dei…».
«Bree!».
«Era piatta come una tavola! E perfino dal nome sembrava un maschio, adesso non ricordo qual era, ma so che era molto equivocabile. Senza contare che ti piaceva scoparla da dietr-».
«Bree!».
«Cazzo c’è!?».
«Stai mettendo in imbarazzo il capitano, ecco cosa c’è». In effetti, Steve era arrossito fino alla punta dei capelli. «E anche me, a dirla tutta. Si può sapere come fai a sapere di Kazuko?».
«Kazuko, ecco! Un nome, una menzogna. Sii sincero, Greg. Dopo aver scoperto come si chiamava, cosa speravi di trovare sotto quella gonna, eh?».
«Bree, piantala! E dimmi subito chi ti ha raccontato queste cose».
L’Agente McCallan ammiccò.
«Una spia non svela mai le sue fonti».



Steve non riusciva ancora a capacitarsi della scoperta appena fatta.
Osservava Greg e… Bree darsele di santa ragione sul ring, e non riusciva a crederci. Greg non aveva niente di diverso da Steve, più lo guardava più lui se ne rendeva conto. E perfino in Bree Steve non vedeva altro che un uomo, un uomo addestrato a fare il soldato, con il fisico di un soldato.
«Capitano, perché non si unisce a noi? Niente panino, lo prometto».
Sì, certo. Un soldato, basta che non lo si senta parlare.
Bree aveva atterrato Greg e si era seduto sul suo stomaco.
«Gli spacchi la faccia da parte mia, per favore», biascicò Greg. «E togliti, mi stai rompendo le costole!».
Una risata squillante rimbalzò tra le pareti della palestra. Un attimo più tardi Bree era sceso dal ring e fissava Steve dritto negli occhi. Lui fece un passo indietro, leggermente impensierito dalle possibili intenzioni di Bree.
«Capitano, lei crede davvero alle cose che ha detto al Late Show?».
Greg si era tirato sù con un colpo di reni.
«Bree, lascia stare».
«No, io devo saperlo. Devo sapere esattamente cosa pensa di me».
«E te lo domandi, pure? Quello che pensano tutti, che sei una checca senza speranza».
Bree gli fece la linguaccia.
Steve però non stava ascoltando, aveva notato un particolare curioso.
«Avete la stessa cicatrice».
Bree aggrottò la fronte, perplesso.
«Come?».
«La cicatrice sopra la clavicola. È uguale a quella dell’Agente Mason. È una specie di… ehm, serve a riconoscervi tra di voi?».
Bree e Greg guardarono Steve sbattendo stupidamente le palpebre. Poi si voltarono l’uno verso l’altro. E scoppiarono a ridere.
«So che dovrei sentirmi molto offeso e indignato». Bree si asciugò le lacrime con il dorso della mano. «Ma è una domanda così improbabile che non posso fare a meno di ridere. E pensare che me ne hanno dette di tutti i colori, in passato».
Steve si sentiva stupido, adesso. Probabilmente Greg se ne accorse, perché gli diede una pacca amichevole sulla spalla.
«Questa cicatrice è il souvenir di una missione», spiegò.
Non è che si sentiva stupido, Steve era davvero uno stupido.
«Una missione in Sud America», aggiunse Bree. «La nostra prima missione insieme. Vero, Greg? Quanto mi stavi sul cazzo, in quel periodo!».
«Tu mi stai tuttora sulle scatole, guarda un po’». Greg si rivolse a Steve, sorridente. «Insieme al resto della squadra, eravamo sulle tracce di un commando di guerriglieri che rapiva bambini per farne dei soldati».
«E come delle reclute di primo pelo finimmo in un’imboscata». Bree tirò fuori dalla borsa tre lattine di birra e le distribuì. «Greg ed io fummo gli unici superstiti. Il gruppo di guerriglieri che ci aveva catturato ci portò al loro campo. Lì fummo marchiati come delle vacche e, quando non ci lasciavano marcire nei gabbioni, torturati di tanto in tanto. Sa com’è, capitano, la vita nella foresta amazzonica, senza televisione e senza internet, è un vero mortorio. Dovevano pur distrarsi in qualche modo, quei poveretti».
Steve si sedete su un sacco da boxe abbandonato sul pavimento, e bevve un sorso di birra.
«Come riusciste a scappare?».
Bree sfoderò un ghigno da squalo.
«Uno di loro era convinto che avrei fatto i salti di gioia nel diventare la sua puttana. Non tutti i pregiudizi vengono per nuocere, a volte è un bene che la gente mi sottovaluti per le mie tendenze un po’...», mimò un gesto svolazzante ed effeminato con la mano. «Ha capito, no? Be’, quel coglione commise il grosso errore di slegarmi, con un coltellaccio assicurato alla cintola e un fucile carico che penzolava dalla schiena. E mi creda, capitano, mai dare alla zia Bree la possibilità di imbracciare un fucile carico. Potrebbe essere l’ultima cosa chesi fa».
Steve per poco non si soffocò con la birra.
«Vuole dire che è riuscito a disarmarlo e a scappare?».
«Il coglione si è ritrovato con il coltello piantato nello stomaco fino al manico, prima ancora di finire la frase “Chupar o meu pau, cadela”. Insomma, il resto è scontato: siamo fuggiti, una settimana dopo siamo tornati con i rinforzi e abbiamo raso al suolo il campo».
Greg si fece cupo.
«Hai dimenticato la parte più importante della storia, però».
«E sarebbe?», chiese Steve.
«Ero ridotto veramente male, capitano. Avevo una gamba rotta e la febbre. Bree avrebbe potuto abbandonarmi lì, nessuno gliene avrebbe fatto una colpa dopo tutto. Un soldato ferito in territorio ostile è solo un peso. Ma lui, cocciuto come un mulo, mi caricò sulla schiena e mi salvò la vita». Greg sorrise all’improvviso. «Nonostante gli stessi sul cazzo».
Bree nascose il rossore delle guance dietro la lattina e spintonò giocosamente Greg.
«Certo che mi stavi sul cazzo! Non eri, e non lo sei tuttora, in grado di abbinare una camicia a un paio di pantaloni. Come potevi starmi simpatico? E comunque tu avresti fatto lo stesso per me, Greg. Anzi, lo hai fatto eccome. Ricordi quel messicano col machete? Io sì, ho ancora gli incubi».
Greg ricambiò lo spintone, col risultato che Bree si versò la birra sulla canottiera.
«Guarda cosa hai combinato, coglione!».
In men che non si dica, ripresero ad azzuffarsi.
Mentre Bree innaffiava la testa di Greg con la birra, Steve si sorprese a pensare al suo miglior amico Bucky. La mancanza che sentiva era come una ferita aperta nel petto, che fa male solo quando ci pensi ma intanto continua a sanguinare e indebolirti. Quante volte avevano combattuto insieme, Bucky e lui? Fianco a fianco, schiena contro schiena, sicuri di poter contare sempre e comunque l’uno sull’altro?
Quasi come Bree e Greg, in fondo.
«Sai, Greg? Ho deciso. Domani organizzo un’uscita a quattro, vedrai che ci divertiamo. Conosco due ragazzacci che… oh, vedrai!».
«Naaah, lascia stare, tanto lo so che alla fine te li porti a casa tutti e due tu, e che io rimango con un palmo di naso».
Esattamente come Bree e Greg. Non c’era la benché minima differenza.



Julianna era seduta sul divano, davanti alla tv, con le ginocchia al petto e l’Action Figure formato gigante di Capitan America stretta tra le braccia. Sullo schermo televisivo scorrevano le immagini di Capitan America, quello in carne e ossa, che stava parlando nella sala conferenze della Stark Tower davanti a una folla di giornalisti e rappresentanti delle associazioni LGBT. Un milione di telecamere e macchine fotografiche erano puntate su di lui come cecchini pronti a fare fuoco. Alle sue spalle, però, c’erano tutti i Vendicatori al completo, più la ahimé fidanzata del suddetto, lo zio Bree e il suo amico Greg.
«...ho riflettuto a lungo su quello che avrei potuto dire oggi, per chiedervi scusa», stava dicendo il capitano. «Sono giunto alla conclusione che nessuna parola sarebbe stata abbastanza. Ho commesso un grave errore, vi ho offeso profondamente. Questo è un fatto, e non posso cancellarlo.
«Una cosa però posso farla. Posso assicurarvi di aver compreso il mio errore, di aver compreso quanto sbagliate e limitate fossero le mie idee. Non sull’omosessualità o, meglio, non solo sull’omosessualità. Ma sull’amore in generale.
«Ed è esattamente questo il punto. Non ho offeso gli omosessuali. Ho offeso gli americani, quegli stessi americani che con la mia uniforme rappresento tutti, senza alcuna esclusione. Non stiamo parlando di amore omosessuale, non esiste un amore migliore di un altro. Esiste un solo e unico amore, che si manifesta in forme diverse. L’amore tra genitore e figlio. L’amore per un caro amico. L’amore tra uomo e donna, l’amore tra due uomini o due donne. Non c’è alcuna differenza, perché amare qualcuno, chiunque egli sia, è la cosa più naturale di questo mondo.
«Ho capito tutto questo grazie a due persone speciali, due agenti pluridecorati, i migliori compagni che un soldato possa avere, verso cui nutro la massima stima».

Capitan America si voltò a guardare Bree e Greg, i quali apparivano visibilmente stupiti.
Julianna nel frattempo tratteneva il fiato per l’emozione.
«Mi avete aperto gli occhi e per questo vi ringrazio, Agente Mason e Agente McCallan. Vi auguro di essere felici e di trovare l’uomo della vostra vista, così come io ho trovato la donna della mia».
Capitan America tornò a rivolgersi alla platea.
«E a voi chiedo scusa, sperando che un giorno possiate riporre in me la vostra fiducia e farmi dono del vostro rispetto. Che Dio vi benedica tutti!».
Non volava una mosca.
La telecamera inquadrò per un attimo lo zio Bree, inequivocabilmente commosso.
Anche Julianna era in lacrime e aspettava trepidante la reazione del pubblico.
A un certo punto, proprio quando la telecamera aveva intrapreso una veloce carrellata sulla prima fila della platea, un’esclamazione di sorpresa la indusse a tornare sul palchetto. Giusto in tempo per riprendere lo zio Bree che correva verso Capitan America, gli buttava le braccia al collo e lo baciava in bocca, proprio sulla bocca, esattamente sulla bocca, labbra contro labbra, non era un’allucinazione, era proprio un bacio sulla bocca!
Che tu sia dannato, zio Breeeeee!
Circa un milione di flash illuminarono a giorno di due protagonisti, mentre i fotografi immortalavano il momento e la platea scoppiava in un boato di ovazioni e applausi.
Anche Julianna applaudiva. Applaudiva, urlava e saltava di gioia sul divano. Non vedeva l’ora di collegarsi al gruppo Facebook del Marika’s RealPersonFanfiction Page e urlare (cioè… scrivere tutto in maiuscolo, con tanti punti esclamativi) al mondo intero che suo zio, il suo caro zietto gay, aveva baciato Capitan America gnè gnè gnè.



«Ci dica, Agente McCallan…».
«Mi chiami pure Bree».
«D’accordo. Allora ci dica, Bree. Cosa l’ha spinta a compiere un gesto del genere? Era un modo per esprimere solidarietà a Capitan America, per aiutarlo nel suo tentativo di riacquistare la fiducia della nazione?».

Bree scoppiò a ridere, davanti a una cronista parecchio interdetta.
«No, ma dico, lo ha guardato bene, il capitano? Se non ne approfittavo adesso, quando mi ricapitava?».







_____________________







Note autore:
L’idea che Capitan America sia leggermente omofobo l’ho maturata insieme a Dragana, considerato che a) Capitan America è nato e cresciuto prima degli anni quaranta e non è che l’America fosse nota per la sua indulgenza da questo punto di vista e che b) Capitan America è molto WASP.
Questa storia NON è scritta per sensibilizzare sul problema dell’omofobia, non sono una persona così seria, scrivo solo per divertirmi. E si dà il caso che a me diverte tantissimo vedere Capitan America in difficoltà, perciò eccovi serviti!
La fidanzata di Capitan America è questa deliziosa ragazza, proprietà di OttoNoveTre.
Bree, Greg e Julianna invece sono miei, e chi mi segue penso abbia già fatto la loro conoscenza.
Rigrazio Dragana e OttoNoveTre per il betaggio, ma soprattutto per il brainstorming che ha salvato questa storia dal giacere incompleta in archivio.
Grazie a Layla_Morrigan_Aspasia, che mi ha aiutato a cercare video su youtube sul Late Show.
E grazie a voi, ovviamente, che continuate a leggere le mie storielle.
A presto, vannagio

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Capitolo 2
*** Extra ***




Pensiero felice




«Sai qual è la prima cosa che faccio, non appena ci tiro fuori da questo merdaio, Greg?».
«Non ne ho la minima idea, McCallan».
«T’ho detto che devi chiamarmi Bree, cazzo. Consideralo il mio ultimo desiderio».
«Va bene, allora. Non ne ho la minima idea, Bree».
Nel capanno in cui erano stati rinchiusi l’aria era afosa e malsana. Greg si sentiva come un tacchino messo a cuocere nel forno. A causa della febbre alta, cadeva spesso in uno stato di semi-incoscienza, dal quale si svegliava sempre appiccicoso di sudore e col pagliericcio umido di urina ed escrementi incollato alla faccia. L’unica cosa che Greg desiderava in quel momento era una vasca colma di cubetti di ghiaccio e tanto, tanto, tantissimo sapone di Marsiglia.
«Vado da Grande Jack, a farmi fare un pompino con i fiocchi. Oh, te lo giuro, Greg. L’unica cosa che mi impedisce di impazzire in questo momento è pensare alla bocca di Grande Jack. Alla sua bocca, e al suo grande pisello». Bree aveva uno sguardo sognante. «E tu? Ce l’hai un pensiero felice?».
Vasca. Ghiaccio. Sapone. E...
«Be’, devo dire che parlare di pompini e piselli mi aiuta molto, grazie tante. E comunque voglio proprio vedere come farai, a tirarci fuori da qui. Fino ad ora sei solo chiacchiere».
«Oh, piantala! Tanto l’ho capito da un pezzo che ti piace la banana. Forse riesci a ingannare gli altri, perché sei uno che preferisce darlo. Ma non me, che preferisco variare».
Greg decise di ignorarlo.
Parlare delle loro preferenze sessuali in quel posto non era esattamente una mossa vincente. Le torture erano già parecchio fantasiose così, senza che McCallan desse ai loro carcerieri nuove idee. E poi la gamba rotta, che sembrava un frutto maturo tanto era gonfia e rossa, bruciava come l’inferno e lasciava spazio a pochissimi pensieri coerenti: preferiva risparmiarli per cose più importanti, tipo trovare un modo per salvarsi il culo.
Greg provò a cambiare posizione, ma con le braccia legate dietro la schiena era costretto a fare leva sulle gambe. Si morse la lingua a sangue per non urlare e alla fine finì di nuovo con la faccia sul pagliericcio merdoso. Un moscone si posò sulla punta del suo naso.
«È messa proprio male».
McCallan (o Bree, o come cazzo voleva essere chiamato) era seduto di fronte a lui, con la schiena poggiata alla parete del capanno. A Greg non piacque il modo in cui lo guardava, come il prete che sta per dare l’estrema unzione. Quasi quasi lo preferiva quando parlava di pompini e piselli. Quel pensiero gli diede la forza di girarsi su un fianco, gemendo e imprecando.
«Carino quel tatuaggio», disse Bree. «Proprio sopra al cuore. Deve avere un significato particolare. Cos’è, cinese?».
Greg sputò il pagliericcio che gli era finito in bocca. «Ti sembra il momento?».
Bree fece spallucce, per quanto le braccia legate dietro la schiena glielo permettessero.
«Non è che ci sia altro da fare qui fino alla prossima tortura, quindi…».
«Giapponese, non cinese. E non ha nessun significato particolare. Una cosa tipo Onore e Lealtà».
Bree sogghignò, ma non insistette. Purtroppo però ormai il Settore Proibito della sua mente si era aperto.
«Si chiama Leo», disse Greg.
«Come?».
«Il mio pensiero felice, si chiama Leo».
Un rumore improvviso interruppe la loro conversazione. Bree si fece subito serio.
«Stiamo per ricevere visite, Greg».


***


«JD sarà subito da voi». Darla, così aveva detto di chiamarsi la cassiera del negozio di tatuaggi, prese Greg sottobraccio e lo trascinò fino al piccolo divano malconcio nello stanzino adibito a sala d’attesa. «Ecco, mettetevi comodi».
Greg obbedì, un po’ impacciato, e non poté fare a meno di sospirare di sollievo, quando Leo prese posto accanto a lui impedendo a Darla di fare altrettanto.
«Sul serio, amico. Sei come miele per le api», commentò Leo, quando Darla non fu più a portata d’orecchio. «Qual è il tuo segreto? Dimmi come fai!».
«Smettila di dire scemenze!».
«Scemenze? Non hai sentito cosa ha detto? Per mettersi comodi quella intendeva lei a cavalcioni sulle tue ginocchia, dai retta a me».
Greg fece spallucce, perché non sapeva cosa rispondere. Non era mai stato bravo con le ragazze, di solito erano loro a fare la prima mossa e certe volte, si vergognava ad ammetterlo, non se ne accorgeva neanche. Lui si limitava a essere… be’, se stesso. Con Kazuko era andata così.
«Come l’hai trovato questo posto?», chiese Leo.
«Me lo ha consigliato Quinn. Presente? Frequenta la mia stessa palestra. Grosso come un armadio a quattro ante, con uno strano tatuaggio sotto l’occhio, piercing ovunque, pantaloni cargo, anfibi militari…».
Leo sorrise. «Ma che? Gli hai fatto la radiografia? Sì, ho capito di chi parli. Lo stronzo che è uscito con Laila e l’ha fatta piangere. Perché esce sempre con stronzi puttanieri? Posso esserlo anche io, stronzo e puttaniere, intendo… se è quello che vuole».
Greg storse la bocca in una smorfia.
«Devi lasciarla perdere, a te serve una brava ragazza. Una come la mia Kazuko».
«Laila è una brava ragazza, solo che ha gusti discutibili in fatto di uomini. E poi a me piacciono le ragazze con le forme al posto giusto. Senza offesa per Kazuko, eh?».
«Figurati!».
Leo si guardò intorno, a giudicare dall’espressione più per noia che per vero interesse. Greg lo fissava in silenzio, mentre lui contemplava le stampe appese alle pareti, che ritraevano tatuaggi di ogni forma e tipo. C’era anche un cartello con su scritto: “Si informa la gentile clientela che i disegni stellina, infinito, carpa arcobaleno e farfalla non sono più disponibili”.
«Sei proprio sicuro di volerlo fare?», chiese Leo dopo un po’.
«A Kazuko piacciono i tatuaggi e a me piace lei. Perché no?».
«Perché un tatuaggio è per tutta la vita. E se poi vi lasciate? Saresti costretto a leggere il suo nome, tutte la mattine, davanti allo specchio».
Greg rise e gli scompigliò i capelli affettuosamente.
«Come siamo melodrammatici, oggi!».
«Non trattarmi come un ragazzino solo perché sei venti centimetri più alto di me!».
«Scusate, sto interrompendo qualcosa?».
Greg e Leo sussultarono quasi contemporaneamente.
Un tizio dai capelli lunghi e neri, tatuato letteralmente dalla testa ai piedi, li stava fissando con un sopracciglio inarcato.


***


«Stiamo per ricevere visite, Greg».
Da fuori proveniva il raschiare della chiave dentro la serratura arrugginita. Con un colpo di reni che gli causò una fitta lancinante alla gamba ferita, Greg riuscì a mettersi seduto. Giusto in tempo per vedere la porta del capanno venire spalancata da un calcio e per farsi accecare dalla luce di mezzogiorno. Fermo sulla soglia, a stagliarsi contro tutto quel bianco abbagliante, c’era la sagoma imponente e minacciosa di un uomo. Quando la porta venne chiusa e gli occhi si furono riabituati al buio, Greg si ritrovò faccia a faccia con il muso sghignazzante dell’uomo.
«Oh, è Pedro!», esclamò Bree. «Cosa c’è sul menù, tesoro? Brodaglia e calci sui denti?».
Pedro rispose in portoghese, o una lingua che assomigliava al portoghese. Greg non parlava portoghese, o quello che era, ma la strizzata che Pedro si diede al pacco fu molto esaustiva sulla qualità del suo commento. Bree rispose con uno sfarfallio di ciglia e un sorriso dalle mille promesse che lasciarono Greg di stucco.
«Cosa diavolo hai in mente?».
«È inutile che bisbigli, tanto Mr Galanteria non capisce un cazzo di inglese».
Greg non ebbe la possibilità di replicare.
Pedro lo afferrò per la gola e gli ficcò in bocca una bottiglia. Lo costrinse a mandare giù due sorsi d’acqua, subito seguiti da un paio di cucchiaiate di una poltiglia che sapeva di terra e fagioli. Quando finalmente lo lasciò andare, Greg non fece in tempo a riprendere fiato: Pedro gli tirò un calcio nello stomaco e lui si ritrovò per l’ennesima volta a mangiare il pagliericcio lurido del capanno, con la sensazione di avere un buco grosso come una palla da football al posto della pancia.
Bree disse di nuovo qualcosa, ma Greg non capì cosa. Forse perché stava parlando in portoghese. Forse perché era troppo intontito dal crampo allo stomaco e dalla febbre per dare un senso ai suoni che fuoriuscivano dalla bocca di Bree. Ciò che sicuramente comprese, invece, furono le intenzioni di Pedro, che aveva fatto cadere a terra il pentolino della poltiglia e si stava avvicinando a Bree con una mano alla cintura.
«Non so cosa gli hai detto, Bree, ma credo che tu ti sia trovato un fidanzato», biascicò Greg tra un colpo di tosse e l’altro.
«Meglio di niente. Guarda lì che artiglieria!».
Bree fissava Pedro dritto negli occhi. Sempre sfarfallando le ciglia. Sempre con quel sorriso dalle mille promesse sulle labbra. Greg si concentrò su quel sorriso e pensò a Leo, il suo pensiero felice. Ma quando il sorriso di Bree scomparve dietro la figura massiccia di Pedro, portandosi via anche il suo pensiero felice, Greg capì che stava per accadere il peggio e che doveva fare qualcosa. Si guardò intorno con frenesia, il pentolino era a pochi passi da lui, forse se strisciava un po’…
Un urlo rauco, subito attutito.
Greg si costrinse a non voltarsi. Leo, pensa a Leo. E al dannato pentolino. Aveva un manico abbastanza appuntito, perfetto per tagliare la corda ai polsi e affondare nella schiena enorme di Pedro. Striscia, Greg, striscia, non voltarti, non guardare. Bravo, ignora il dolore, forza, ci sei quasi. Il suo naso stava già sfiorando il metallo. Adesso doveva solo far passare le braccia oltre il sedere e sotto le ginocchia. Dai, Greg! Pensa a Leo, forza!
Il pentolino venne scalciato via e rotolò lontano in un tramestio metallico.
«NO!».
«Che cazzo volevi farci con quella latta? Prepararmi il pranzo?».
Greg sollevò lo sguardo e sgranò gli occhi.
Bree era in piedi, illeso, con un sorrisone da Stregatto che si allargava sulla sua faccia come una lama. Esattamente come la lama sporca di sangue del coltellaccio che Bree stava ripulendo sui pantaloni.
«Ci crederesti? Mi ha slegato». Alle sue spalle, il cadavere di Pedro giaceva prono sul pagliericcio lurido. «Aveva un coltello assicurato alla cintola, e mi ha slegato! Idiota del cazzo! Se mi chiamano Mano Lesta non è solo per le seghe spettacolari che faccio». Quando la lama fu abbastanza pulita per i suoi gusti, Bree la usò come specchio per rimirare il suo riflesso. «È incredibile! Due giorni di torture e sono sempre uno schianto!». Finalmente si ricordò di Greg, che ancora lo fissava a occhi sgranati, e si affrettò a slegarlo. «Cos’è quella faccia meravigliata? Te lo avevo detto che ci avrei tirati fuori dal merdaio, uomo di poca fede!».
Nonostante lo stupore, Greg ritornò subito nei panni del soldato.
«Ce ne sono ancora parecchi, lì fuori. Ed io con questa gamba ti sarei solo di impiccio».
«Non ci provare nemmeno a dire quello che stai pensando. Ti riporterò dal tuo Leo». Bree ammiccò. «Anche perché sono curioso di conoscerlo».
«Hai solo un coltello e un moribondo: non puoi farcela».
«Ti sbagli, tesoro». Bree rinfoderò il pugnale e tornò dal cadavere. «Avevo ragione su Pedro: il suo è proprio un gran bel pezzo di artiglieria». Così dicendo, sotto lo sguardo incredulo di Greg, raccolse da terra un fucile e lo imbracciò, sorridente. «Archimede aveva bisogno di una leva. Alla zia Bree basta un fucile carico».


***


«Puoi farlo?», chiese Greg.
Il tatuatore (JD si chiamava) alzò gli occhi dal foglietto, sul quale Greg aveva tracciato gli ideogrammi che componevano il nome Kazuko, e gli rivolse una di quelle occhiate da far gelare il sangue nelle vene.
«Sì, credo di sì».
«È il nome della mia ragazza», si sentì in dovere di precisare.
Il sopracciglio di JD ebbe un fremito.
«Non avevo dubbi. È sempre il nome di una ragazza. Questo, o una qualche frase filosofica…», il del cazzo sembrava sottinteso, «…tipo Onore e Lealtà o Dragone Imperiale. Da quando è cominciata questa moda…», di nuovo, il del cazzo sembrava sottinteso, «…ho tatuato così tante frasi, da potermi vantare di saper scrivere fluidamente in giapponese».
Mentre JD preparava gli strumenti, Greg cominciava a pentirsi amaramente di aver chiesto a Leo di aspettare in sala d’attesa. Si sentiva a disagio a stare sulla poltroncina, senza maglia addosso, sotto lo sguardo sprezzante di quel tizio. E Leo sapeva sempre come sdrammatizzare. Non che avesse paura, era in grado di mettere K.O. individui ben più grossi (e comunque, in confronto a lui, JD era tutto tatuaggi e ossa), ma…
Qualcosa di freddo gli sfiorò la pelle e Greg sussultò come un ragazzino.
«Rilassati, Capitan America. Se scatti così ogni volta che ti tocco, potresti ritrovarti con la scritta idiota sul petto. Con gli ideogrammi giapponesi basta uno sbaglio e sei fottuto».
«Scusa».
L’angolo destro della bocca di JD si arricciò appena. A Greg non piaceva notare certi dettagli, ma era più forte di lui, non poteva farne a meno. Per esempio, adesso non poteva fare a meno di constatare quanto JD stesse meglio con i capelli legati.
«L’idea di farti bucherellare non sembra piacerti molto, vero?».
«Come? Oh, uhm… alla mia ragazza piacciono i tatuaggi, volevo farle una sorpresa».
«Già, anche questo è molto tipico».
L’ago cominciò a ronzare. Non appena Greg si rese conto che non sarebbe stata una faccenda dolorosa (sentiva appena un leggero punzecchiare), gran parte della tensione si allentò come un elastico slabbrato. Certo, c’era sempre il fatto che JD si era chinato su di lui, che l’espressione concentrata sul suo viso, mentre lavorava, era qualcosa di ipnotico, che la sua mano sinistra poggiava a palmo aperto sullo sterno di Greg per distenderne la pelle, e che in quella posizione Greg poteva studiare molto da vicino i tatuaggi sulle sue braccia…
«Rilassati, Campione».
Greg annuì. E decise di concentrarsi su altro. Su Leo, e su quello che avrebbe detto, se lo avesse visto piagnucolare come un bambino per un piccolo e insignificante ago.
Il ronzio, JD e i suoi tatuaggi sparirono immediatamente.


***


Greg picchiettò le nocche sullo stipite della porta, reggendosi su una stampella. Bree, che era davanti allo specchio intento ad allacciarsi i polsini della camicia, si voltò e gli sorrise.
«Entra, entra. Sempre che tu sia capace di reggere tanto splendore, è ovvio».
«Stai andando da Grande Jack?».
Bree aprì l’armadio e ne tirò fuori una giacca scura, molto elegante.
«Siamo tornati da una settimana, ho aspettato fin troppo per quel pompino. Tu, invece? Quando pensi di ricongiungerti al tuo pensiero felice?».
Greg abbozzò un mezzo sorriso.
«Non saprei. È in licenza. Tornerà alla base tra qualche settimana».
Bree inarcò un sopracciglio, mentre indossava la giacca.
«Non avevo capito che il tuo Leo lavorasse qui allo SHIELD».
Greg distolse lo sguardo. «Non lo avevi capito perché non te l’ho mai detto».
Bree incrociò le braccia al petto e assunse una posa pensosa. «Leo, Leo, Leo. Perché improvvisamente questo nome mi suona familiare?». Sgranò gli occhi e la sua bocca si aprì in una O di stupore. «Oh, cazzo! Non sarà per caso Leo Schmidt? L’ingegnere? Fidanzatissimo Leo Schmidt? Fidanzatissimo Con Una Ragazza Leo Schmidt? Sei innamorato di un ragazzo etero?».
«Be’, credo si tratti solo di una cotta, in realtà».
Dall’espressione sul viso di Bree, Greg capì che era arrivato il momento di tagliare la corda. Girò sui tacchi il più velocemente possibile, per quanto le stampelle glielo permettessero, e guadagnò l’uscita dell’alloggio. Ovviamente non poteva sperare di seminare Bree tanto facilmente: se lo ritrovò alle calcagna in men che non si dica.
«Come è successo? Quando? Perché?».
«Ci siamo conosciuti al college, lui era una matricola, io all’ultimo anno. Eravamo solo buoni amici. Poi, anni dopo, ci siamo rincontrati qua. E…», Greg fece spallucce, «…niente, siamo ancora amici. Solo buoni amici».
Bree gli si piazzò davanti a muso duro senza alcun preavviso. Per fermarsi in tempo e non finirgli addosso, Greg rischiò quasi di perdere l’equilibrio e cadere per terra.
«Andiamo!». Bree batté le mani, in un gesto impaziente. «Gira quelle stampelle e seguimi».
«Seguirti dove?».
«Da Grande Jack. Quel pompino serve più a te che a me. Prima, però, devi cambiarti».
«Primo, non vado da nessuna parte con te. Secondo, i vestiti che indosso vanno più che bene».
Bree alzò gli occhi al cielo.
«Greg, tesoro, non ti ho mai detto nulla a riguardo perché non volevo essere scortese, ma… sai da cosa ho capito che tra noi due non ci sarebbe mai stato niente oltre l’amicizia?».
Greg assunse una finta espressione indignata. «E da quando saremmo amici, noi due?».
Bree ignorò la battuta, ma lo guardò dall’alto in basso con la faccia di chi ha appena ingoiato un limone.
«L’ho capito dal tuo pessimo gusto in fatto di moda, mio caro».


***


«Ho una piccola sorpresa per te, amore».
Il caratteristico sorriso saggio di Kazuko affiorò spontaneamente sulle sue labbra.
«Davvero, di cosa si tratta?».
Greg si sfilò velocemente la maglia e Kazuko rise.
«Be’, questa non è proprio una sor… oh!».
«Ti piace?», chiese lui, nervoso.
Kazuko rimase silenziosa per parecchi minuti, in contemplazione del tatuaggio, con entrambe le sopracciglia inarcate e le labbra dischiuse a sillabare un muto ooooh di meraviglia. Poi le sopracciglia si rilassarono in un’espressione serafica, la muta esclamazione di stupore venne sostituita dal solito sorriso saggio e, finalmente, alzandosi sulle punte dei piedi, Kazuko baciò Greg.
Sulla guancia.
«Non preoccuparti, Greg. L’ho sempre sospettato, in fondo».
Lui era confuso. «Sospettato… cosa?».
Lei rise di nuovo, mentre accarezzava il tatuaggio e seguiva col dito indice le linee sinuose degli ideogrammi. Quando si spiegò, ogni parola coincise con una carezza su un ideogramma diverso, come se stesse sillabando la scritta con le dita.
«Che sei gay ma ancora non lo sai. È scritto proprio qui».







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Note autore:
Due storie parallele che vedono Greg protagonista. Con questo extra ho voluto dare un po’ di spazio a Greg che, poverino, viene sempre messo in ombra dalla prorompente personalità di Bree. Tengo a precisare che Kazuko non ha sofferto molto: aveva sempre sognato essere l’ultima donna di un uomo. XD
JD e Darla sono stati presi in prestito da quest'altra mia storia. Quinn e Laia, invece... chi li riconosce avrà due cuoricini.
Come sempre ringrazio Dragana e Ottonovetre, le mie betasexyassistenti. Alle quali questa volta si aggiunge anche Evilcassy.
Grazie anche a tutti quelli che passeranno da queste parti.
A presto, vannagio

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