Somewhere Beyond the Barricade

di Morwen_Eledhwen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Blood of Angry Men ***
Capitolo 2: *** You're Standing in Your Grave ***
Capitolo 3: *** Everyone's Equal When They're Dead ***
Capitolo 4: *** There Are Dreams That Cannot Be ***
Capitolo 5: *** Every Word That He Says Is a Dagger in Me ***
Capitolo 6: *** On My Own ***
Capitolo 7: *** Empty Chairs At Empty Tables ***
Capitolo 8: *** When Tomorrow Comes ***
Capitolo 9: *** A Heart Full of Love ***



Capitolo 1
*** The Blood of Angry Men ***


Premessa: ho iniziato da poco a leggere il libro di Hugo (o meglio, avevo già letto alcune parti che mi servivano per poter scrivere questa storia, in modo da informarmi un po' e non scrivere assurdità), quindi questa storia (o almeno alcune parti, dato che gran parte è frutto della mia immaginazione) si ispira principalmente al film (e, di conseguenza, l'aspetto dei personaggi è quello che hanno nel film). Troverete anche alcuni riferimenti alle canzoni del musical nel testo e soprattutto nei titoli dei capitoli. Vi avverto anche che la vicenda ruota intorno ad un personaggio, Angèle, puramente inventato da me.
Detto questo, non mi resta che augurarvi buona lettura :)



 

I. The Blood of Angry Men





Era da poco sorta l’alba. I primi raggi di sole illuminavano timidamente i tetti di Parigi, annunciando l’arrivo di un nuovo giorno, un giorno come tanti altri.
Ma non lo era.
Angèle correva per le strette viuzze del quartiere più disagiato della capitale, dove regnava un profondo e inquietante silenzio rotto solamente dal rimbombo cadenzato delle sue misere scarpe sul selciato. Si fermò solo una volta per riprendere fiato e ricacciarsi dietro le spalle le ciocche di lunghi capelli castani, ma poi riprese a correre utilizzando tutta la forza che aveva in corpo, tenendosi un lembo della lunga gonna color porpora per non inciampare.
Passò sotto un lungo portico e svoltò in uno stretto vicolo sporco, dove iniziò a rallentare. Giunta davanti alla porta che cercava, si mise a bussare più volte con veemenza. Una gocciolina di sudore le scese sulla fronte. Dopo pochi secondi il pianto di un bambino ruppe il silenzio e, dopo quelli che le sembrarono due minuti, sentì lo scatto della serratura.
Joséphine apparve sulla soglia con lo sguardo assonnato.
«Hai svegliato il bambino».
«Mi dispiace tanto, ma ho saputo che tutti gli altri si sono arresi. Questa è l’unica barricata rimasta...»
«...Devo avvertire Éponine e portarla via di qui», aggiunse dopo una pausa.
«Buona idea, speriamo che questa storia finisca in fretta. Non ho dormito tutta la notte a causa dei colpi di fucile, è solo da qualche ora che c’è un po’ di quiete... Ma quei folli si faranno ammazzare», rispose Joséphine con voce stanca.
L’alloggio di Joséphine, una povera donna abbandonata dal marito, costituiva per Angèle l’unico accesso alla barricata, poiché la porta sul retro dava sul piccolo spiazzo in cui si trovava la taverna che era divenuta il quartier generale degli studenti repubblicani e davanti alla quale essi avevano costruito la loro barricata.
Angèle attraversò le tre stanze con grandi passi e si diresse verso l’altra porta d’uscita.
«Quando hai trovato Éponine ricordati di bussare dicendo il tuo nome, altrimenti non posso aprirti. Lo sai che non voglio viavai di rivoluzionari o, peggio ancora, di soldati, in casa mia», disse Joséphine.
«Lo so», rispose Angèle facendo scorrere il chiavistello, ma si sentì afferrare per un braccio.
«Non cacciarti nei guai. La situazione non è più calma come nei giorni scorsi», l’avvertì la donna con sguardo eloquente.
Angèle annuì ed uscì.

Mentre richiudeva la porta dietro di sè udì uno sparo ed il cuore le balzò in gola.
Una voce dentro di lei le disse che avrebbe fatto meglio a tornare indietro, ma doveva trovare Éponine e portarla in salvo prima che accadesse il peggio.
Un altro sparo. Delle urla di rabbia.
Perché Éponine doveva sempre rincorrere Marius ovunque andasse?
Qualcuno piangeva.
Angèle fece alcuni passi e, quando non ebbe più il profilo della taverna che le copriva la visuale, si ritrovò davanti una scena orribile.
Alcuni ragazzi erano inginocchiati intorno al piccolo Gavroche, che giaceva inerte tra le braccia di uno di loro, con gli occhi spalancati e fissi nel vuoto.
Angèle deglutì e rimase paralizzata dov’era, sconvolta.
Chi mai avrebbe potuto uccidere un bambino? Come poteva succedere una cosa del genere? Era questa la libertà che l’ambizioso Enjolras predicava con fervore nelle strade e all’università?
Angèle aveva frequentato spesso quei raduni per accompagnare Éponine, che doveva soddisfare il suo instancabile desiderio di vedere Marius. Ed ogni volta rimaneva incantata dalla passione che trasmettevano quei ragazzi, i quali si potevano permettere grandi sogni e grandi ideali, in quanto studenti della rinomata università parigina. Angèle invidiava quei ragazzi. Alle donne non era permesso frequentare l’università e men che meno a coloro che erano orfane e superflue come lei. Gli unici libri che poteva permettersi, e che aveva già letto migliaia di volte, erano i pochi che possedeva Madame de Lamartine, la padrona degli alloggi in cui viveva. Almeno sapeva di essere più fortunata di Éponine, la quale possedeva dei genitori che sarebbe stato meglio non avere. Anche perché Madame de Lamartine la trattava bene, dopotutto.
Ma ora Gavroche era morto, e tutto ciò passava in secondo piano. Doveva trovare Éponine perché non facesse la stessa fine del fratello: la barricata stava diventando troppo pericolosa. L’avrebbe allontanata dal suo Marius a costo di trascinarla via di peso.
In quel momento Angèle riconobbe Enjolras, il quale, vestito di rosso e con la coccarda tricolore ben in vista, si allontanava dal raduno di cordoglio per il piccolo Gavroche per afferrare un fucile ed alcune munizioni, con lo sguardo impassibile degno d’un capo rivoluzionario.
Angèle deglutì e raccolse tutto il coraggio che aveva per chiedergli se avesse visto Éponine.
Gli si avvicinò e quella fastidiosa sensazione di inferiorità si impossessò di lei come tutte le volte in cui aveva assistito ai suoi pedanti comizi: si sentiva inutile in quella rivoluzione, inutile per il popolo francese, inutile per il povero Gavroche. Enjolras, invece, pareva un angelo portatore di salvezza.
«Hai visto Éponine?», chiese senza preamboli.
Lui le lanciò un’occhiata rapida senza alzare la testa, concentrato sulle sue munizioni.
«Chi sarebbe?», chiese con una lieve nota di fastidio nella voce.
«La sorella di Gavroche».
Lui si fermò un attimo, riflettendo.
«Credo di non averla mai vista, non so che aspetto abbia», rispose dopo qualche secondo.
«Ma è qui, mi aveva dett...».
«Ascolta, la faccenda si sta facendo complicata», la interruppe lui, «vattene da qui finché sei in tempo».
Poi si diresse verso i compagni senza degnarla d’uno sguardo.
Angèle sentì un macigno al posto del cuore. Avrebbe voluto sparire, essere risucchiata dal pavimento.
Si guardò intorno sconsolata ed all’improvviso si accorse di Marius, il quale, in piedi sul fianco della barricata, attirò la sua attenzione come una luce nelle tenebre.
Lui avrebbe senza dubbio saputo dirle dov’era Éponine. Si avviò nella sua direzione con passo deciso, ma non fece in tempo a dire nulla, perché in quel momento qualcuno dall’altra parte della barricata parlò a gran voce.

Era l’ufficiale che informava i ragazzi che non vi era per loro alcuna possibilità di vittoria, poiché quella era l’unica barricata rimasta.
«Perché gettare via le vostre vite?», chiese con quella che parve ad Angèle sincera compassione.
Lei volse lo sguardo verso Enjolras per vedere quali sarebbero state le mosse del giovane ribelle, sperando ch’egli ascoltasse la voce della ragione. Ma, esaminando il viso di quell’angelo caduto, capì che non si sarebbe mai arreso.
E infatti la risposta del giovane fu un’esortazione a combattere fino alla fine.
A quel punto si scatenò l’inferno. L’ufficiale ordinò ai soldati di far avanzare i cannoni, mentre i ragazzi della barricata facevano esplodere numerosi colpi di fucile.
Angèle indietreggiò impaurita, riparandosi all’interno della taverna e sussultando agli assordanti scoppi di cannone che iniziarono ad abbattere la barricata.
Vide sangue che schizzava, corpi che cadevano a terra, pezzi di legno che volavano e avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non sentire tutte quelle urla e quei tremendi colpi d’arma da fuoco.
Vide un uomo precipitarsi dentro e fuori dalla taverna trascinando i feriti per portarli in salvo. Facendosi coraggio, decise di aiutarlo ad adagiarli sul pavimento.
«Scappa!», le disse l’uomo lanciandole un’occhiata preoccupata.
Angèle, dopo averlo fissato per qualche istante, obbedì e si decise a tornare da Joséphine, ma, mentre si avviava verso l’uscita della taverna, un corpo in un angolo, posto con cura sul pavimento con le mani congiunte sul petto, attirò la sua attenzione.
«Éponine!», urlò lanciandosi in quella direzione.
Si gettò al fianco dell’amica, scuotendola come se ciò avesse potuto risvegliarla. Le palpebre di Éponine erano state abbassate e sul volto era stampato un accenno di sorriso.
Rivoli di lacrime iniziarono a scenderle sulle guance mentre singhiozzava come una bambina.
Dopo alcuni secondi, però, il frastuono della battaglia la riportò alla realtà ed Angèle si rese conto che i soldati stavano scavalcando la barricata. Balzò in piedi e si lanciò verso l’uscita, dove potè vedere i ragazzi che si precipitavano verso le porte delle abitazioni, bussando ed urlando terrorizzati come bestie in trappola per farsi aprire, ma nessuno li trasse in salvo. Allora Angèle si rese conto di essere l’unica in grado di aiutarli: stava per muovere qualche passo verso di loro per poterli condurre alla porta di Joséphine, quando alcuni si accasciarono senza vita contro un portone, colpiti da pallottole mortali.
Angèle, col cuore in gola, si ritirò di nuovo all’interno della taverna, dove seppe di non avere scampo. Guardando di sfuggita fuori dalla finestra, notò l’uomo che poco prima si occupava dei feriti che si allontanava di soppiatto portando in spalla quello che pareva il cadavere di Marius. Troppo impaurita per farsi delle domande, Angèle si guardò intorno e scorse un piccolo ripostiglio in fondo alla stanza, pieno di bottiglie ed altri oggetti. Naturalmente un pezzo di porta era stato scardinato ed utilizzato per la barricata, ma Angèle raccolse un’enorme bandiera rossa che giaceva a terra e decise che si sarebbe rannicchiata e coperta con quella, non avendo idee migliori.
Si stava precipitando verso il ripostiglio, quando si accorse di Grantaire che scendeva le scale stordito, con gli occhi spalancati ed una bottiglia di vino vuota in mano.

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Capitolo 2
*** You're Standing in Your Grave ***


II. You’re Standing in Your Grave
 

 


«Vieni qui!», lo chiamò lei a bassa voce, ma Grantaire era troppo confuso per obbedirle.
Se ne stava impalato sulla scala guardandosi intorno con aria smarrita.
Allora Angèle gli corse incontro e lo afferrò per un braccio, trascinandolo nel ripostiglio dopo aver scostato il pezzo di porta rimasto, e coprì anche lui con la bandiera.
«È già arrivata la fine?», le chiese sospirando.
Aveva compreso.
Angèle non rispose e si strinse a lui trattenendo i singhiozzi. In quel momento vide, attraverso il tessuto rosso, le sagome di Enjolras ed altri tre ragazzi che si precipitavano al piano di sopra, inseguiti da un gruppo di soldati. Questi ultimi, però, si fermarono prima delle scale, dove Angèle e Grantaire potevano vederli bene, e puntarono i fucili verso il soffitto.
Angèle trattenne il respiro.
Dopo alcuni secondi partì contemporaneamente da tutti i fucili una serie di colpi assordanti e, nell’istante che seguì, si udirono le urla di dolore e i tonfi provenire dal piano di sopra: i ragazzi non avevano avuto scampo.
Grantaire le strinse la mano e lei chiuse gli occhi, chiedendosi cosa significasse davvero morire. I soldati non ci avrebbero messo molto ad accorgersi di lei e Grantaire e non avrebbero avuto alcuna pietà, trucidandoli come avevano fatto con tutti gli altri. Angèle pensò ad Éponine, al piccolo Gavroche, a Marius ed infine ad Enjolras. Si chiese se li avrebbe davvero rivisti, una volta morta. Si chiese se esisteva davvero un paradiso o se la morte era semplicemente il momento in cui la vita veniva risucchiata dal nulla eterno.
«Di sopra!», urlò uno dei soldati, facendo cenno agli altri di seguirlo.
Angèle poteva sentire distintamente il battito del proprio cuore ed il respiro affannato di Grantaire.
All’improvviso una voce che pareva quella dell’ispettore Javert, conosciuto e temuto da tutti gli abitanti di quel miserabile quartiere, costrinse gli uomini che si stavano accingendo a salire le scale a fermarsi.
«Avete preso l’uomo di cui vi avevo parlato? È qui Jean Valjean?».
«No signore, qui solo studenti».
Poi qualcuno che si trovava sulla soglia della porta, alle spalle di Javert, disse: «Ispettore, io ho visto un uomo che fuggiva con un cadavere in spalla, ma l’ho perso di vista perché stavamo sparando ai ragazzi».
«Non dovevi lasciartelo scappare, dobbiamo prenderlo! Seguitemi!», ordinò Javert infastidito.
I soldati obbedirono e si voltarono per seguire l’ispettore, costretti a verificare più tardi l’effettivo decesso degli studenti al piano superiore.

Non appena furono usciti tutti dalla taverna, Grantaire sollevò il drappo che lo copriva e balzò in piedi.
«Dove vai?!», chiese Angèle a bassa voce, terrorizzata all’idea che i soldati potessero tornare.
«Da Enjolras, non me ne vado senza di lui».
«Sarà morto, non fare lo stupido», gli disse lei con voce tremante.
«Allora morirò al suo fianco», disse Grantaire mentre la scavalcava e si precipitava su per le scale.
Angèle rimase impietrita. Non sapeva se Grantaire parlasse così perché era ancora ubriaco o se intendesse veramente ciò che aveva appena detto. Le tornarono in mente i raduni organizzati da Enjolras, dove aveva più volte visto Grantaire aggirarsi fra i compagni con aria allegra, strappando grandi sorrisi persino all’austero Enjolras. Aveva anche chiacchierato un po’ con lei, una volta. Ma non era sicura che lui se lo ricordasse.
Rimasta sola, si chiese quante possibilità avesse di uscire viva da lì. Nessuna. I soldati sarebbero tornati e lei non avrebbe avuto scampo.
Avrebbe preferito morire di fianco a Grantaire, piuttosto che lì da sola, nel ripostiglio. Forse iniziava a comprendere la folle decisione del ragazzo.
Dopo alcuni secondi, però, vide qualcosa che avrebbe potuto essere facilmente scambiato per un vero e proprio miraggio: Grantaire stava scendendo le scale seguito da Enjolras. Quest’ultimo, con il viso e le vesti coperti di chiazze di sangue altrui, pareva uno spettro proveniente dall’oltretomba.
Senza pensare, si alzò in piedi liberandosi della bandiera e si diresse verso di loro.
 
«Ti avevo detto di andartene».
Era la prima volta che Enjolras le rivolgeva la parola di sua spontanea volontà. Se la situazione fosse stata differente avrebbe potuto persino provare un brivido di soddisfazione, sebbene non le avesse detto nulla di gratificante. Ma la realtà era che di lì a poco sarebbe morta in un bagno di sangue.
«Che facciamo?», chiese Grantaire.
«Attendiamo la morte con dignità», rispose tranquillamente Enjolras.
Angèle non credeva alle sue orecchie: come era possibile affrontare l’idea della morte con tutta quella calma?
«Almeno tentiamo di fuggire!», disse colta dalla disperazione.
Enjolras sospirò alzando gli occhi al cielo, mentre incrociava le braccia e si voltava dall’altra parte.
Un’ondata di rabbia le invase il corpo. Era stanca di essere considerata una nullità o, peggio ancora, una stupida, da quel ragazzo, e per di più non aveva nessuna intenzione di morire per colpa sua. Al diavolo lui e la sua maledettissima rivoluzione.
«E va bene, voi restate pure qui», disse marciando verso l’uscita della taverna con aria stizzita.
Allungando cautamente la testa fuori dalla porta, vide alcuni soldati che, volgendole la schiena, stavano esaminando alcuni cadaveri vicino alla barricata. Non c’era traccia di Javert e degli uomini che avevano seguito Enjolras e compagni nella taverna poco prima.
Con il banalissimo pensiero ‘ora o mai più’, si lanciò in direzione della casa di Joséphine, mentre con la coda dell’occhio notò Grantaire che si precipitava dietro di lei trascinando l’amico per un braccio.
Giunta davanti alla porta, iniziò a bussare con tutta la forza che aveva in corpo urlando con voce tremante: «Sono Angèle, ti prego apri!».
Quasi nello stesso istante udì uno scalpitio dietro l’angolo e capì che, com’era inevitabile, i soldati l’avevano sentita.
Il cuore le stava battendo così velocemente che Angèle desiderò scoppiasse nel suo petto e la uccidesse, risparmiandole la vista dei fucili puntati contro di lei.
Perché Joséphine non avrebbe mai aperto in tempo.
Durante quello che fu un secondo esatto, ma che le parve un’eternità, sentì Grantaire stringerla contro la porta per proteggerla e vide Enjolras voltarsi per affrontare i soldati con aria di sfida.
Come in un sogno, in cui non si è del tutto consapevoli delle proprie azioni e la percezione della realtà appare piuttosto offuscata, Angèle udì uno sparo e vide Enjolras accasciarsi al suolo, mentre, nello stesso istante, la porta si apriva inghiottendo lei e Grantaire.
Sempre come in un sogno, vide Grantaire allungare le braccia ed afferrare il corpo di Enjolras, per trascinarlo all’interno dell’abitazione e chiudere immediatamente la porta, mentre i soldati sparavano di nuovo.
Fiotti di sangue sgorgavano da un punto tra il petto e la spalla di Enjolras, sotto la clavicola, e, inondandogli i vestiti, colavano sul pavimento. Ma lui pareva non accorgersene: giaceva inerte, con gli occhi chiusi.
Angèle si chiese se non si trattasse semplicemente di un incubo. Voleva svegliarsi e ritrovarsi nel suo letto, dimenticando tutto.
«Aprite o buttiamo giù la porta!».
Era la voce di Javert, sovrastata dal pianto del bambino di Joséphine.
«Dovete andarvene!», disse la donna sconvolta, osservando con orrore il corpo di Enjolras.
Il pianto del bambino si faceva sempre più forte, ma non riusciva a coprire i violenti colpi che rimbombavano sulla porta.
«Andatevene! Subito!», urlò Joséphine ad Angèle con tono disperato, mentre si dirigeva verso la porta per calmare i soldati.
Grantaire usò tutte le forze che gli erano rimaste per sollevare Enjolras e metterselo in spalla, aiutato da Angèle, prima di seguire la ragazza barcollando.

Dopo qualche secondo erano in strada, accolti da una folata di vento. Il sole illuminava i ciottoli sul terreno e i muri delle case, senza curarsi di loro.



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Un grazie alle prime "recensitrici" (bellissima parola appena inventata), Chemical Lady e BlueSapphire! :)

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Capitolo 3
*** Everyone's Equal When They're Dead ***


III. Everyone’s Equal When They’re Dead

 


Javert stava ispezionando meticolosamente ogni angolo dell’angusta zona in cui la rivoluzione era stata soffocata nel sangue. Spingeva con forza ogni porta o finestra che trovava per assicurarsi che fosse chiusa e che non fosse stata usata come via di fuga, e dietro di lui altri cinque soldati lo imitavano, affrettandosi come cani da caccia che inseguono, con l’aiuto del proprio fiuto, la selvaggina che fugge illudendosi di poter scampare alla morte.
Giunto all’ultima porta, stava già per arrendersi, quando qualcosa attirò la sua attenzione: ai suoi piedi, sul selciato infangato, vi era una grata di ferro e, poco più in là, una grossa apertura circolare alla base del muro lasciava intravedere il profondo buio di un condotto fognario. Javert si chinò, facendo attenzione a non sporcarsi troppo i pantaloni della divisa, ma non riuscì a scorgere nulla in quelle tenebre minacciose.
«Credete che sia fuggito da lì?», chiese un soldato alle sue spalle.
«È assurdo, ne uscirebbe ricoperto di escrementi», disse un altro con aria divertita.
«O vi annegherebbe, addirittura», aggiunse un altro ridendo.
«Puah, impossibile».
«Disgustoso!».
Javert, ancora chinato, fece un respiro profondo prima di rispondere seccamente: «È evidente che si è infilato lì dentro». Cosa credevano? Che tra la morte e le feci avrebbe scelto la prima?
Si alzò e, senza degnarli di uno sguardo, si allontanò per dirigersi verso la barricata.
«Dove andate?».
«A sorprendere Jean Valjean. So dove conduce quel canale: prima o poi dovrà uscire ed io sarò là ad attenderlo».
I soldati lo seguirono scambiandosi occhiate dubbiose.
«Perché vi interessa tanto prendere quell’uomo?», azzardò uno di loro, mentre attraversavano la barricata e si allontanavano lungo la via, lasciandosi alle spalle quel luogo infelice.
«Perché dovrebbe già essere dietro le sbarre e questa volta non mi sfuggirà», disse in tono sbrigativo, senza aggiungere altro.
Non aveva voglia di spiegare perché e da quanto tempo lo cercasse. Non aveva voglia di spiegare come quell’uomo fosse riuscito a sfuggire a lui, che non aveva mai fallito nel difficile compito di far rispettare la legge e che era sempre riuscito a consegnare i criminali alla giustizia. E soprattutto non aveva voglia di spiegare ai soldati di come il suo tentativo di rovinare i piani di quei ragazzini esaltati fosse fallito per colpa di un bambino e di come Jean Valjean gli avesse donato la vita e la libertà, quando gli altri l’avrebbero sicuramente mandato al Creatore. L’avrebbero ammazzato perché sarebbe stato giusto così. Anche lui, se fosse stato dalla loro parte, l’avrebbe fatto. E invece Valjean l’aveva lasciato andare. Aveva lasciato andare il suo peggior nemico quando ce l’aveva in pugno! Perché? Javert non riusciva a spiegarselo. E non voleva pensarci.
Una voce lontana lo risvegliò dai suoi fitti pensieri.
«Ho bisogno dei miei uomini, ispettore! Ci sono cadaveri da spostare!».
Era il generale che, dalla barricata, stava correndo nella loro direzione.
«Va bene, riprendeteveli. Andrò da solo».
Javert lasciò i soldati al generale e proseguì.
Mentre camminava con passo pesante, si ritrovò a pensare di nuovo a Jean Valjean. Gli tornò in mente l’espressione di quell’uomo mentre lo slegava, gli intimava di andarsene e gli comunicava persino il suo indirizzo perché potesse andare ad arrestarlo nel caso sopravvivesse alla battaglia. Non v’era traccia di rancore in quello sguardo. Non odio, non sete di vendetta. Solo profonda umanità. Perché?
Javert si ritrovò a pensare che quello sguardo, che riusciva ancora a vedere chiaramente nella sua testa, non fosse lo sguardo di un criminale. Assurdo!
Senza rendersene conto, dopo aver svoltato l’angolo si era fermato. Era immobile in mezzo alla via deserta, solo con i suoi pensieri. Si guardò un attimo intorno e poi, incapace di spiegarsi perché, le sue gambe lo riportarono verso la barricata, costringendolo ad abbandonare ogni proposito di catturare Jean Valjean.
Stava ricambiando il gesto del suo nemico: gli stava donando a sua volta la libertà. Perché?
 
Tornato in quel luogo di morte, storse il naso all’idea di aiutare i soldati a spostare i cadaveri, ma decise che gli sarebbe stato utile per dimenticarsi dell’uomo che stava rendendo la sua mente un inferno.
Giunto nei pressi della taverna, notò un certo scompiglio tra alcuni soldati: stavano puntando i fucili verso qualcuno che lui non riusciva a vedere. Si avvicinò e riuscì a scorgere in lontananza tre persone addossate ad una porta: tra loro riconobbe il ragazzo che aveva guidato la rivoluzione e che lo aveva consegnato nelle mani di Jean Valjean perché lo uccidesse. Anche da lontano poteva notare quello sguardo risoluto che lo contraddistingueva. Come mai era ancora vivo? Javert provò una punta di disprezzo per quel giovane, ma poi si ricordò della sincera passione con cui aveva capitanato la rivolta, consapevole di tutti i rischi che ciò avrebbe comportato.
«Sparo o non sparo?», chiese un soldato.
«Spara!», rispose un altro.
«Ma c’è una donna tra loro!».
«Spariamo lo stesso», intervenne il generale.
Javert strinse gli occhi per vedere meglio ed effettivamente notò una giovane donna vestita di porpora, che un ragazzo dai neri capelli scarmigliati stava tentando di proteggere.
Poi i soldati spararono ed il giovane leader della rivoluzione cadde a terra, pagando le conseguenze di tutte le sue azioni. Gli altri due che lo accompagnavano, tuttavia, erano spariti e, quando risuonarono altri colpi di fucile, anche il corpo del ragazzo biondo era sparito all’interno dell’abitazione.
Javert si precipitò verso la porta insieme agli altri soldati e, udendo il pianto di un bambino provenire dall’interno, fece cenno ai soldati di abbassare i fucili. Decise di sfoggiare le capacità persuasive che richiedeva la sua professione e che lui aveva esercitato con tanto zelo ed iniziò a battere sulla porta, minacciando di abbatterla.
L’idea funzionò, perché poco dopo apparve sulla soglia una donna che doveva avere tra i trenta e i quarant’anni.
«Sono scappati dall’altra porta», disse con voce tremante.
«Giuro che non li conosco», mentì dopo alcuni secondi, abbassando la testa di fronte allo sguardo indagatore dell’ispettore.
Javert, insieme al generale, ispezionò l’abitazione e l’unico essere umano che trovò fu il bambino che piangeva in un cesto che fungeva da culla.
 
Pochi minuti dopo, Javert entrava a passi lenti nella taverna che era stata teatro di tanti orrori. I muri parevano grandi tele dipinte con secchiate di colore rosso e sul pavimento, in mezzo a pezzi di legno, frammenti di vetro e polvere, erano stati allineati i corpi dei ragazzi della barricata: alcuni avevano gli occhi spalancati, altri parevano addormentati. Non ve n’era uno che non fosse sporco di sangue.
La farsa era finita: quei giovani avevano versato il proprio sangue e gettato via la vita che avevano davanti, in nome di un ideale che non avrebbe mai potuto diventare realtà. Erano morti in nome di un’utopia.
In mezzo ai corpi, Javert ne scorse uno che era molto più piccolo degli altri. Si avvicinò e riconobbe il bambino che aveva rivelato la sua identità ai ragazzi della barricata, condannandolo a morte certa se non fosse intervenuto Jean Valjean. Javert, tuttavia, non provava alcun rancore per quella piccola creatura.
Osservò quel piccolo viso ormai raggiunto dal pallore della morte, incorniciato da sporchissimi capelli color paglia e con gli occhi color oceano sbarrati e privi di vita.
Javert non piangeva mai e di rado si commuoveva, ma in quel momento sentì una stretta al cuore.
Era così piccolo. Era solo un bambino. Avrebbe potuto essere quel figlio che non aveva mai avuto. Avrebbe potuto essere quel figlio che, ancora nel ventre della madre, gli era stato tolto.
Nella sua mente si formò il volto di una donna, una donna che lui aveva amato con tutto se stesso. Si erano amati di nascosto, lontani dagli sguardi malvagi della società e lontani dal mondo, perché i genitori di lei, che appartenevano ad una banda di malviventi, non l’avrebbero mai permesso. Ma lui le aveva promesso che l’avrebbe portata via da loro, che l’avrebbe salvata da quella vita infame. E, quando aveva tentato di farlo, l’avevano quasi ammazzato, portandosela via per sempre. Da quel momento non l’aveva mai più rivista. Erano passati forse una ventina d’anni... Non ricordava nemmeno più quanti.
Poi il volto della donna scomparve e ciò che gli rimase davanti agli occhi fu quel piccolo corpo inerte.
Come avevano potuto dei genitori permettere che loro figlio, così giovane, morisse combattendo su una barricata?
Con un gesto molto lento, si staccò una medaglia che aveva al petto e l’appuntò sulla piccola casacca del bambino, per poi alzarsi con una voce infantile che gli riecheggiava nella testa. Quella voce canticchiava un motivo che Javert aveva sentito da quello stesso bambino mentre i ragazzi preparavano la barricata:

La verità dell’uguaglianza è che tutti sono uguali quando sono morti.

 
 
Angèle camminava con passo svelto per le viuzze del quartiere, seguita da Grantaire che, con evidente difficoltà, trasportava il corpo di Enjolras su una spalla. Ogni tre passi la giovane si guardava intorno, assicurandosi che non comparissero soldati decisi a farli fuori.
«Fermo, così ci troveranno subito!», disse Angèle lanciando un’occhiata allarmata dietro di sè.
Grantaire, con il volto bagnato di sudore, la guardò con un’espressione interrogativa.
«Stiamo lasciando una scia di sangue!», disse indicando le macchie rosse che avevano decorato il marciapiede.
«Senti», iniziò Grantaire, «è già tanto che io riesca a trasportarlo. Ho un mal di testa insopportabile e mi sto fracassando una spalla».
«Potevi fare a meno di scolarti tutto quel vino», lo rimproverò lei, mentre lo spingeva sotto un porticato, dove lo costrinse ad adagiare Enjolras sul pavimento di pietra. Mentre Grantaire si massaggiava la spalla assumendo un’espressione sofferente, Angèle si strappò un lembo del lungo vestito che era costato tanti soldi a Madame de Lamartine e lo utilizzò per fasciare alla bell’e meglio la spalla di Enjolras, il quale manteneva gli occhi serrati e non dava segni di vita.
Angèle si morse il labbro, temendo il peggio. Ma anche in quella terribile situazione il volto del giovane pareva quello di un angelo addormentato.
«Forza, andiamocene», la incalzò Grantaire, notando che la ragazza tergiversava osservando il corpo inerte dell’amico.
Se lo rimise in spalla e i due ripresero il cammino, sempre cauti e ben attenti a non incontrare soldati sul loro cammino.
«Quanto manca?».
«Non è lontano, ci siamo quasi», rispose lei, facendogli cenno di seguirla in uno stretto vicolo sporco.
«Spero che tu abbia ragione, perché non so se resisterò ancora per molto».
«E non so se lui ce la farà», aggiunse preoccupato.
Angèle fece un respiro profondo per scacciare quel timore, mentre accelerava il passo.
Svoltarono in un altro vicolo, poi in un altro ed un altro ancora, finché Angèle non si fermò davanti ad una porta di legno sverniciato, tirò fuori una chiave e la infilò nel buco della serratura.
Erano giunti agli alloggi di Madame de Lamartine: davanti a loro si trovava un piccolo atrio illuminato solamente dalla fioca luce che penetrava da una finestrella e, poco più avanti, l’inizio di una rampa di scale.
«La mia stanza è al secondo piano».
«Oh no, anche le scale... Non ce la farò mai», disse Grantaire sconsolato.
«Forza, ti aiuto io».
Angèle si avvicinò a Grantaire e tentò di sollevare anche lei il corpo, in modo da diminuire un po’ il peso che la spalla di Grantaire doveva sostenere.
Era davvero pesante.
«Non ce la faremo mai».
«Avanti, dobbiamo farcela».
Dopo una lunga fatica e numerosi gemiti di dolore, i due erano quasi giunti all’ultimo gradino.
«Cos’è tutto questo trambusto?», chiese una voce.
Grantaire alzò lo sguardo e vide un volto di donna che faceva capolino dalla ringhiera del piano di sopra e guardava giù nella tromba delle scale.
«Sono io, Angèle...», disse lei esitando. Come poteva spiegare a Madame de Lamartine che stava portando quello che era quasi un cadavere in camera sua?
Dopo alcuni secondi apparve sulla rampa di scale una signora molto grossa, col viso tondo, il naso aquilino e i capelli scuri raccolti in uno chignon.
«Che state facendo?», chiese sospettosa, «Ti ho sempre detto niente uomini qui. Andate a fare le vostre zozzerie da un’altra parte».
Poi, avvicinandosi, si accorse del corpo inerte che Grantaire stava trasportando.
«Oh, mon dieu!», esclamò la donna spaventata.
«Che è successo a quel ragazzo?».
Intanto Angèle aveva aperto la porta della propria stanza e stava spingendovi dentro Grantaire con il suo fardello, indicandogli il letto.
«Distendilo lì, io vado a chiamare un dottore».
«Sbrigati», l’esortò Grantaire.
«Allora?», insistette la signora, irritata dal modo in cui i due sembravano ignorarla.
«È stato ferito alle barricate», spiegò Angèle di fretta, «ora devo correre a chiamare un medico».
Si stava precipitando fuori dalla stanza, ma Madame de Lamartine l’afferrò per un braccio.
«E come pensi di pagare il medico, signorina io-salvo-i-feriti-delle-barricate? Dimentichi che non hai il becco di un quattrino».
Angèle deglutì.
«Troverò un modo». Non poteva lasciarlo morire. Non poteva.



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Come avrete notato, questo capitolo è più lungo e purtroppo stavolta, per colpa di Javert (sempre colpa sua!), ho parlato poco di Enjolras. Ma prometto che tornerà al centro della storia (insieme ad Angèle, ovviamente)! Dite che riuscirà a sopravvivere?
Oh voi che passate di qui per caso, che leggete silenziosi, apprezzando o aborrendo tale follia che sta uscendo dalla mia mente... concedetemi un attimino del vostro tempo per lasciare una piccola recensione, ve ne sarei molto grata! Ho bisogno di sapere se ci sono cose che andrebbero migliorate ;)
Ancora un grazie alle temerarie Chemical Lady e BlueSapphire!

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Capitolo 4
*** There Are Dreams That Cannot Be ***


IV. There Are Dreams That Cannot Be




La stanza di Angèle era piccola e spoglia: l’unico arredamento presente era costituito dal letto, addossato alla parete opposta alla porta, ed un piccolo tavolino di legno in un angolo, a fianco del quale si trovava una sedia. Su di essa erano ammassati dei vestiti, poiché non vi era alcun armadio per contenerli.
Lo sguardo di Grantaire si posò su alcuni libri malconci e ingialliti che giacevano ai piedi del letto, ma un gemito lo distolse dalla curiosità di leggerne i titoli.
«Enjolras?».
Non ottenne alcuna risposta, ma notò che la mascella dell’amico disteso sul letto era contratta in una smorfia di dolore. Gli occhi erano serrati.
Grantaire si sedette sul bordo del letto e posò delicatamente la propria mano su quella di Enjolras, osservando il volto dell’altro con aria preoccupata. Poi spostò lo sguardo sulla spalla fasciata e notò che il brandello di stoffa che Angèle aveva posto sulla ferita era visibilmente impregnato di sangue, nonostante fosse quasi dello stesso colore.
«Enjolras, mi senti?».
Ancora nessuna risposta.
Grantaire deglutì.
«Arriverà presto un dottore e sistemerà tutto, te lo prometto».
Strinse ancora di più la mano di colui che rappresentava per lui l’unico ideale in cui avesse mai creduto, ma questi non ricambiò la presa.
L’etereo Apollo stava scivolando nell’abisso.
Grantaire avvicinò il proprio viso all’orecchio di Enjolras, per sussurrare: «Non andartene».
Nella stanza regnava il silenzio, rotto solamente dai suoi mormorii.
«Chi sono io senza di te? Un ubriacone, come mi avevi sempre detto tu».
Sorrise, ripensando a tutte le volte in cui Enjolras l’aveva rimproverato.
Non avrebbe potuto sopportare la sua mancanza. Non sarebbe stato capace nemmeno di immaginare un futuro senza quella che era stata per lui una vera e propria guida, una luce nelle tenebre dell’esistenza.
E ora che gli amici dell’ABC non esistevano più, si sarebbe sentito tremendamente solo.
Grantaire chiuse gli occhi e si ritrovò a pensare che sarebbe stato meglio morire alla barricata.
Quando li riaprì, vide che il petto dell’amico, nascosto sotto la bianca camicia sporca di sangue e incorniciato dalla giacca rossa su cui spiccava la coccarda francese, si alzava e riabbassava in maniera irregolare e quasi impercettibile. Per alcuni interminabili momenti pareva non si muovesse per nulla.
 
Madame de Lamartine stava sbirciando la scena nascosta dietro lo stipite della porta. Osservava con compassione quel ragazzo chino sul moribondo e si chiedeva come potesse il buon Dio permettere tutto questo.
«Fate passare, fate passare!».
Qualcuno la scostò dalla porta con forza: era Monsieur Pauvert, un medico noto agli abitanti del quartiere, seguito da Angèle, che gli stava alle calcagna come un cane. Madame de Lamartine notò che la ragazza aveva la veste strappata e si chiese dove avrebbe trovato i soldi per pagare il medico ed un vestito nuovo. Sempre la solita, sempre in cerca di guai. Madame de Lamartine era costantemente in pensiero per lei: la considerava quasi come una figlia, da quando molti anni prima qualcuno aveva lasciato quella piccola creatura, avvolta in una coperta, dentro un piccolo cesto davanti alla porta dell’edificio che lei gestiva, in quanto affittacamere. Ma ora quella creaturina era cresciuta: leggeva e rileggeva i suoi libri, covando chissà quali pensieri in quella mente impenetrabile, e se ne andava in giro per la città come un gatto randagio, incurante dei pericoli che essa nascondeva, soprattutto in tempi come quelli.
L’uomo appoggiò sul pavimento la propria borsa e, allontanando Grantaire con un cenno della mano, si avvicinò al letto, tolse il pezzo di stoffa che avvolgeva la spalla di Enjolras ed esaminò la ferita, sistemandosi un paio di piccoli occhiali sul naso per vedere meglio.
«Mmm».
Grantaire ed Angèle trattennero il respiro.
«Devo estrarre la pallottola», disse con aria seria.
Frugò nella borsa e ne tirò fuori uno strano arnese di ferro. Angèle spalancò gli occhi, mentre Grantaire apriva la bocca per dire qualcosa, senza riuscire ad emettere alcun suono, e Madame de Lamartine, sconvolta, lasciava la stanza.
«Signorina, vi consiglio di allontanarvi e non guardare», disse il medico rivolgendosi ad Angèle, che in quel momento si trovava in piedi al suo fianco.
Notando che la giovane non accennava a spostarsi, ripeté in tono severo: «Non mi importa quanto voi siate coraggiosa, vi prego di allontanarvi per evitare svenimenti. Ho già un paziente da curare, non ne serve un altro».
Angèle gli lanciò un’occhiata ostile ed infine obbedì, posizionandosi in piedi vicino alla porta e dando le spalle al letto.
Pochi secondo dopo la sua mente fu costretta ad ammettere che il dottore aveva fatto bene ad allontanarla, poiché uno straziante urlo di dolore proveniente dalla bocca di Enjolras invase la stanza.
«Aiutami a tenerlo fermo, ragazzo».
Angèle non resistette e si voltò per sbirciare, notando Grantaire che si chinava sul corpo di Enjolras per tenergli ferme le braccia.
Il dottore, che le dava la schiena, continuava ad armeggiare con il suo strumento, anche lui chino sull’angelo caduto.
Un altro urlo. Pareva quello di un uomo sotto tortura.
Angèle si morse un labbro fino a farlo sanguinare, cercando di mantenersi salda sulle gambe. Per fortuna non riusciva a vedere cosa stesse facendo il medico.
Dall’ultima volta in cui lui le aveva parlato, ovvero nella taverna, Angèle aveva provato una certa nostalgia per la voce di Enjolras, ma ora quelle grida le stavano spremendo le viscere. Avrebbe voluto correre da lui, stringerlo forte a sè e rassicurarlo, ma si vergognò subito di un simile pensiero.
Sperava che il medico finisse in fretta.
Enjolras urlò ancora ed Angèle vide il suo corpo che si divincolava sotto la presa di Grantaire e del dottore.
 
Dopo quella che le parve un’eternità, le urla cessarono ed il medico avvolse lo strumento grondante di sangue in uno straccio, per appoggiarlo sul pavimento. Poi estrasse dalla borsa delle bende ed iniziò a fasciare la spalla di Enjolras, sotto lo sguardo vigile di Grantaire.
Angèle, nel frattempo, si era seduta per terra, con la schiena contro la parete e le braccia che premevano le gambe contro il petto. Quando il medico, riordinate le proprie cose, riprese in mano borsa e cappotto, lei intravide la figura immobile di Enjolras sul letto e si alzò in piedi, ma non ebbe il coraggio di avvicinarsi.
«Ascoltatemi bene», iniziò l’uomo, rivolto a lei e Grantaire.
«Passategli sul viso un panno bagnato e cercate di asciugare il sudore».
Grantaire annuì prontamente.
«E quando lo vedete agitarsi, dategli da bere. Tornerò domani per cambiare le bende».
«Monsieur...», iniziò Grantaire esitante, «ce la farà?».
Il medico si umettò le labbra con fare pensieroso, e poi rispose con calma: «Sì, potrebbe».
Ad Angèle quel “potrebbe” non piacque per nulla.
Fece del suo meglio per congedare il dottore con un’espressione che non tradisse emozioni, promettendo di pagarlo il prima possibile, mentre Madame de Lamartine compariva sulla soglia della stanza lanciando occhiate preoccupate in direzione di Enjolras e dichiarando che Angèle e Grantaire potevano utilizzare una stanza che in quel momento era sfitta per dormire la notte.
Angèle seguì la signora al piano di sopra per farsi dare un catino con dell’acqua e un panno pulito e, quando rientrò nella propria stanza, trovò Grantaire seduto per terra, appoggiato al letto su cui giaceva Enjolras, con la testa fra le ginocchia.
«Sei stanco morto, vai a dormire nell’altra stanza», gli disse con tono apprensivo.
«Non sono stanco, mi gira la testa».
«Ci credo, ma vai a stenderti lo stesso», gli rispose evitando di tirar fuori l’argomento che riguardava la sua bevuta.
«Riesci a cavartela da sola con lui?».
«Sì sì, non preoccuparti».

In realtà non era affatto vero. Dopo che Grantaire se ne fu andato, si mise ad osservare quel volto angelico placidamente addormentato e si rese conto di non avere il coraggio di avvicinarsi.
Rimase in profonda contemplazione per alcuni minuti, poi si fece coraggio, fece un respiro profondo ed afferrò il panno per immergerlo nell’acqua.
Si sedette sul bordo del letto e, con un gesto lentissimo, allungò la mano verso il volto di Enjolras. Gli posò il panno sulla fronte con delicatezza, sperando con tutto il cuore di non svegliarlo. Ma lui non si mosse.
Allora Angèle gli passò il panno sul volto e, mentre lo faceva, la sua mente si riempì di pensieri ed emozioni che non aveva mai provato in vita sua. Arrossì piena di vergogna, lieta che non vi fosse nessun altro nella stanza. Avrebbe voluto accarezzare quel volto marmoreo e perfetto, ma non lo fece e si limitò a farvi scivolare sopra il panno.
Quando ebbe finito, prese la sedia che si trovava vicino al tavolino nell’angolo e la trascinò vicino al letto per sedersi. Appoggiò la testa allo schienale ed una miriade di pensieri la trascinarono lontano, vorticandole nella testa come sciami d’insetti impazziti: si smarrì in quella fitta nebbia, in mezzo alla quale balenavano la figura di Enjolras ed i terribili momenti che aveva vissuto alla barricata.
Stava per essere sopraffatta dal sonno, quando un colpo di tosse ruppe il silenzio. Angèle aprì subito gli occhi e vide Enjolras che tossiva e spasimava, con l’espressione di chi sta soffrendo le pene dell’inferno.
Quasi cadde dalla sedia, mentre le tornavano in mente le parole del medico e si precipitava verso il tavolino a prendere il bicchiere d’acqua che Madame de Lamartine le aveva preparato prima.
Come avrebbe fatto a dargli da bere? Si sentiva molto a disagio, poiché era la prima volta che si ritrovava completamente sola alle prese con un ferito, e se questo era Enjolras, le cose si complicavano ancora di più.
Gli sollevò il capo con una mano e con l’altra gli avvicinò il bicchiere alle labbra, ma lui scosse la testa per liberarsi dalla presa.
«Lasciami stare», disse irritato e sofferente.
Ripiombò sul cuscino e voltò la testa dall’altra parte, riaddormentandosi poco dopo.
Angèle rimase come pietrificata e provò la stessa sensazione che si prova quando si ha appena ricevuto un pugno nello stomaco.
Ritornò con passo incerto a sedersi sulla sedia, dove, travolta da rabbia mista a sconforto, si mise a giocherellare nervosamente con l’umile collana fatta di spago che aveva al collo, tenendo gli occhi fissi sul pavimento.
Quando risollevò lo sguardo, notò che Enjolras era sveglio e la stava osservando, ma non appena lei se ne accorse, lui volse prontamente lo sguardo verso il soffitto e rimase a fissarlo immobile.



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Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno recensito e/o messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate e anche coloro che l'hanno semplicemente letta silenziosamente :) Ora aggiornerò più frequentemente perché avrò più tempo libero (mi sono appena laureata, evvai) :) A presto! Un abbraccio a tutte voi!

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Capitolo 5
*** Every Word That He Says Is a Dagger in Me ***


V. Every Word That He Says Is a Dagger in Me



Enjolras era un giovane graziosissimo, capace d'essere terribile, angelicamente bello: era Antinoo, sdegnoso.
[...]
Serio, pareva ignorasse l'esistenza sulla terra d'un essere che si chiamava la donna.
[...]
Disgraziato l'amorazzo che si fosse arrischiato ad avvicinarglisi! Se qualche sartina di piazza Cambrai o di via San Giovanni di Beauvais, vedendo quella figurina di ragazzo scappato da scuola, quel portamento da paggio, le lunghe ciglia bionde, gli occhi celesti, la capigliatura al vento, quelle guance rosee, le labbra fresche e quei denti bellissimi, avesse provato il desiderio di quella aurora e cercato di far prove della sua beltà su Enjolras, uno sguardo stupito e terribile le avrebbe bruscamente mostrato l'abisso e insegnato a non confondere col galante cherubino di Beaumarchais il tremendo cherubino d'Ezechiele.
 

Victor Hugo, I miserabili


 
 




Dopo alcune ore, durante le quali Enjolras pareva dormire come un bambino, Grantaire riapparve per dare il cambio ad Angèle e lei poté andare a riposare nell’altra stanza. Si addormentò nell’istante esatto in cui la sua testa toccò il cuscino del letto sul quale Grantaire aveva dormito fino a poco prima. Madame de Lamartine aveva, naturalmente, fatto portare nella stanza anche un vecchio materasso logoro, cosicché entrambi i giovani potessero riposare, ma non lo utilizzarono, o almeno non ancora, perché ritenevano più opportuno che vi fosse sempre qualcuno al fianco di Enjolras.
Quando si risvegliò, era già tarda mattinata. Anzi, doveva essere quasi mezzogiorno.
Balzò in piedi, sentendosi in colpa per aver lasciato Grantaire ad occuparsi di Enjolras per tutto quel tempo senza avergli dato il cambio, e si precipitò nell’altra stanza. Quando spinse la porta, per poco non sbatté contro Monsieur Pauvert. Il medico si scansò per farla passare, alzò il cappello in segno di saluto e se ne andò senza dire una parola.
Angèle aprì bocca per riempire Grantaire di domande, ma lui la fermò portandosi un dito alle labbra e facendo un cenno con la testa in direzione di Enjolras. Allora lei volse lo sguardo verso il letto e notò che il ragazzo dormiva, o almeno così pareva, con il viso rivolto verso la parete e quindi non completamente visibile.
Grantaire si alzò dalla sedia e spinse Angèle fuori dalla stanza, richiudendo la porta dietro di sè.
«Allora?», chiese Angèle in un sussurro che rimbombò lo stesso lungo la tromba delle scale.
«Gli ha cambiato le bende».
«Tutto bene?»
«C’è una piccola infezione nella ferita, ma gliel’ha disinfettata e ci ha messo sopra una qualche sostanza, non so di preciso. Poi gli ha anche dato qualcosa per farlo dormire e sentire meno dolore... Ora non resta altro da fare che attendere», disse Grantaire in tono grave.
Angèle impallidì.
«È grave? Cosa gli succederà?», chiese con voce tremante.
«Calmati, ha detto piccola infezione», la rassicurò posando le mani sulle braccia della ragazza.
Angèle annuì mestamente, puntando lo sguardo verso il pavimento.
Grantaire ci mise un po’ di tempo prima di lasciare la presa, poi incrociò le braccia appoggiando la schiena al muro.
«Dimmi una cosa».
Angèle alzò lo sguardo e vide i propri occhi riflessi in quelli di Grantaire.
«Cosa?», gli chiese.
«Ti piace, non è vero?».
«Eh? Chi? Cosa?», balbettò lei visibilmente imbarazzata.
«Lo sai benissimo chi», le rispose lui in tono divertito.
«No davvero! Chi? Enjolras?», chiese lei fingendo stupore e tentando di mantere un atteggiamento tranquillo, ma senza riuscirci.
«Proprio lui».
«Ma sei matto? Cosa ti salta in mente?».
Grantaire ridacchiò.
«E allora perché sei rossa come l’ultima striscia della bandiera francese?».
«Io? Non...non lo so», balbettò imbarazzata.
«E va bene, la smetterò di fare domande inopportune», le disse sorridendo, poi tornò serio. «Sappi solo che lui è... diverso»
«Diverso?»
«Pare che non gli interessino le donne, o almeno questo è quello che vuole far credere»
«Vuoi dire che gli interessano gli uomini?», chiese Angèle sgranando gli occhi.
«No, no, non dico questo», rispose Grantaire con una risata cristallina, «è che c’è poco altro che gli interessi al di fuori della repubblica, la libertà e tutte queste cose»
Angèle non disse nulla.
«Insomma, non saresti la prima ad illuderti per nulla. Comunque adesso puoi stare tu con lui, se vuoi».
«Non è che voglio!», esclamò imbarazzata.
«Se vuoi possiamo stare con lui tutti e due».
«Buona idea».
Così passarono il pomeriggio in silenzio a leggere i libri di Madame de Lamartine, tutti e due seduti sul pavimento, ai piedi del letto su cui giaceva Enjolras, il quale dormì per tutto il pomeriggio.
Alla sera Madame de Lamartine portò loro qualcosa da mangiare e i due divorarono tutto velocemente e con gusto, quasi fosse la cena più sontuosa che un re potesse offrire, poiché non mangiavano da due giorni. Quando non rimase nulla se non alcune briciole di pane, i due iniziarono a chiacchierare sottovoce, raccontando a turno qualcosa di se stessi. Grantaire le parlò dei suoi pomeriggi nei caffé di Parigi, delle sue partite a biliardo, delle sue dormite durante le lezioni all’università e di tutte quelle che chiamò “le sue ammiratrici”. Angèle dovette più volte portarsi una mano alla bocca per non svegliare Enjolras con le sue risatine. Si rese conto che, nonostante gli orribili eventi accaduti alla barricata, Grantaire non aveva perso la sua giovialità.

«Grantaire?».
I due balzarono in piedi.
«Sì? Enjolras, stai bene? Come ti senti?», chiese Grantaire allarmato.
«Sto morendo di sete»
Grantaire afferrò la caraffa che Madame de Lamartine aveva portato insieme alla cena e riempì il suo bicchiere fino all’orlo, prima di porgerlo all’amico.
«Sembra che tu stia meglio»
«Mi avranno rinvigorito le sciocchezze che stavi raccontando»
Grantaire scoppiò a ridere.
«Ma allora eri sveglio!»
I due iniziarono a chiacchierare e ad Angèle parve che Enjolras si fosse davvero ripreso, ma questo non la rendeva felice. Rimase tutto il tempo in silenzio, mentre i due parlavano tra loro dell’università e della barricata, con una sgradevole sensazione nello stomaco: si sentiva lasciata in disparte, una nullità agli occhi di Enjolras, e si rimproverava per essersi invaghita di quell’angelo dal cuore di marmo come una ragazzina di tredici anni alla sua prima cotta.
«...e se non fosse stato per Angèle ora saremmo nella tomba».
Queste parole, pronunciate da Grantaire, la riportarono alla realtà, risvegliandola da quel turbinio di pensieri.
Angèle alzò lo sguardo: Grantaire la stava fissando con un sorriso, ma Enjolras, seduto con la schiena appoggiata al cuscino che l'amico gli aveva sistemato contro la spalliera del letto, aveva lo sguardo puntato dall’altra parte, verso la finestra, e rimaneva in silenzio.
«Ma la rivoluzione ha fallito», dichiarò gravemente.
Era tutto ciò che aveva da dire? Nemmeno un misero “grazie” a lei che l’aveva salvato, gli aveva dato la sua stanza, il suo letto, e l’aveva fatto curare da un medico che non avrebbe nemmeno saputo come pagare?
Fu in quel momento che le tornarono in mente le parole che una volta Éponine aveva pronunciato riferendosi a Marius: ogni parola che dice è un pugnale che mi trafigge.
Rimase in silenzio per alcuni minuti, senza ascoltare Grantaire che riprendeva a parlare, poi voltò le spalle ai due ragazzi e se ne andò nell’altra stanza.

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Capitolo 6
*** On My Own ***


VI. On My Own

 




«Sveglia, sveglia!»
Angèle aprì gli occhi con grande sforzo, ma fu costretta a richiuderli subito con una smorfia perché un accecante fascio di luce le inondò il viso.
Madame de Lamartine aveva scostato le tende, permettendo ad un abbagliante sole mattutino di illuminare la stanza in cui Angèle aveva passato la notte.
«Hai intenzione di rimanere a letto tutto il giorno? Il tuo amico ha chiesto di te.»
Quelle parole ci misero un po’ prima di raggiungere il cervello della ragazza, ma, non appena lo fecero, lei si alzò subito a sedere, non senza rimpiangere quella gradevole sensazione di comodità che il morbido cuscino e la calda coperta le avevano offerto per l’intera notte.
«Quale amico?», chiese con voce assonnata, giocherellando con un lembo della coperta.
«Quello con i ricci scuri...»
«Ah.»
Era abbastanza ovvio. Perché aveva fatto una domanda simile? Pensava forse che Enjolras avrebbe mai chiesto di lei? Povera illusa. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi da sola.
«Ho già portato la colazione ai due giovanotti.»
Angèle non la stava ascoltando. Era nel bel mezzo di un solenne giuramento, un giuramento che stava facendo a se stessa: mai più avrebbe pensato ad Enjolras come a qualcosa di più di quello che era, ovvero “il leader della rivoluzione, che era stato ferito alla barricata”. Nulla di più. Doveva doveva smettere di comportarsi da stupida. Lui non l’avrebbe mai considerata nulla di più di una poveretta che si era ritrovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. E faceva bene! Che altro era lei, se non una miserabile? Che diritto aveva di guardare un ragazzo intelligente, coraggioso, colto e di buona famiglia come lui con occhi pieni di bramosia? Quanto era stata stupida. Quanti schiaffi avrebbe voluto darsi!
«Ma mi ascolti? Non hai fame?»
Angèle alzò lo sguardo confusa e vide che la signora le indicava un bicchiere di latte ed un piatto con del pane caldo.
«Sappi che è il latte di Monsieur Beaumont, un dono molto prezioso che mi fa un paio di volte all’anno.»
«Grazie», farfugliò la ragazza afferrando il bicchiere per bere un sorso di latte.
Madame de Lamartine assunse un’espressione compiaciuta e si diresse verso la porta, ma, quando vi fu davanti, si fermò e si voltò di nuovo verso Angèle, che, seduta sul letto, stava addentando la pagnotta.
«Ecco cosa volevo dirti, me l’ero scordato.»
Angèle sollevò lo sguardo.
«Le vesti di quel povero ragazzo che è stato ferito sono sporche di sangue. Potresti andare alla Senna a lavarle.»
«Cosa?! Non ci penso nemmeno. Non sono la sua domestica», sbottò Angèle con la bocca piena.
«No, hai ragione, ma... Almeno la giubba.»
Angèle fece una smorfia. Si sentiva davvero trattata come una miserabile domestica. La domestica del nobile Enjolras.
«Se è perché ti vergogni, sappi che non ce l’ha più addosso. Il moro gliel’ha fatta togliere e l’ha messa sulla sedia.»
«Non mi vergogno!», esclamò Angèle irritata.
Notando che Madame de Lamartine la stava ancora osservando, aggiunse: «E va bene, vado a lavargliela.»
«Brava ragazza», le disse con un sorriso gioviale.
«Ah, già che vai fuori, potresti andare a chiedere ad un paio di famiglie di mia conoscenza se puoi lavorare un po’ per loro, in modo da guadagnare i soldi che ti servono per pagare il medico. So che a volte molte famiglie hanno bisogno di qualcuno che lavi la biancheria, rammendi i vestiti, pulisca i pavimenti... Ti scrivo nomi e indirizzi su un foglietto.»
Angèle, sconsolata, si chiese quanto altro avrebbe dovuto fare per Enjolras e, notando il suo sguardo malinconico, Madame de Lamartine le si avvicinò.
«Lo sai che si tratta di un brutto periodo. Molte stanze sono sfitte e non ci sono entrate. Non posso aiutarti, mi dispiace tanto», le disse accarezzandole il viso con fare materno.
«Ma tu hai aiutato un ferito che altrimenti sarebbe morto, e il buon Dio ne terrà conto», aggiunse.
Angèle evitò di dire ad alta voce che in quel momento non le importava assolutamente nulla di cosa avrebbe compiaciuto il “buon Dio” e rimase in silenzio.
 
Dopo alcuni minuti Madame de Lamartine ritornò con un foglietto su cui aveva scritto i nomi Giroux e Léfevre con i rispettivi indirizzi.
«Passa prima dai Giroux e, se ti dicono che non ne hanno bisogno, vai dai Léfevre. Poi sarai già sulla strada per la Senna e potrai andare a lavare la giubba.»
Angèle annuì e, senza dire una parola, si recò nella stanza dove Grantaire ed Enjolras stavano discutendo allegramente.
«Oh, eccoti qui», esclamò Grantaire con uno sguardo traboccante di buonumore.
«Stavo raccontando ad Enjolras di quanta fatica abbiamo fatto per trasportarlo fino a qui. Che bisonte!»
Angèle si limitò a sorridere mestamente, lanciando un’occhiata furtiva in direzione di Enjolras, sul viso del quale era appena comparso uno straordinario sorriso che avrebbe fatto sciogliere persino una statua di marmo.
«Siediti qui», le disse Grantaire lasciandole la sedia.
«No grazie, devo uscire per delle commissioni. Già che ci sono posso andare a lavare questa», balbettò senza troppe spiegazioni, afferrando la giacca rossa di Enjolras.
Grantaire parve deluso.
Se ne andò frettolosamente, senza voltarsi a guardare le espressioni dei due ragazzi, ma, non appena si trovò sulle scale, sentì dietro di sè la porta della stanza che si apriva di nuovo. Si voltò e vide Grantaire in piedi sul pianerottolo.
Con un piede su un gradino e l’altro sul gradino inferiore, si mise ad osservare il ragazzo, in attesa.
Lui parve esitare un attimo, poi disse: «Stai alla larga da soldati e poliziotti, potrebbero riconoscerti.»
«Sì, non preoccuparti», gli rispose Angèle perplessa. Poi si voltò per scendere le scale.
«Aspetta.»
Si voltò di nuovo verso Grantaire, che aveva mosso alcuni passi verso di lei.
Angèle lo guardò con aria interrogativa.
«Tutto bene?», gli chiese.
«Sì. È solo che io... Ecco... Tu... Io...», balbettò giocherellando con il colletto della camicia.
Angèle attese.
«Non fa niente.»
Dopo aver pronunciato quelle parole confuse, il ragazzo se ne tornò rapidamente nella stanza, chiudendo la porta dietro di sè.
Lei rimase ferma per un po’ sulla scala con aria confusa, chiedendosi cos’avesse voluto dirle Grantaire, ma poi decise che probabilmente non era niente di importante ed uscì dall’edificio.
 
La lunga camminata per le assolate vie di quel borgo parigino non le giovò per nulla, anzi, la fece sentire ancora più sola. Si guardava intorno e vedeva gruppetti di bambini che giocavano sui marciapiedi e persone che passeggiavano chiacchierando spensieratamente: le pareva di essere solo un’ombra che nessuno notava. Per quanto altro tempo ancora avrebbe dovuto sentirsi così? Non aveva una famiglia: l’avevano abbandonata davanti all’edificio gestito da Madame de Lamartine a pochi giorni dalla sua nascita. Aveva trovato un’amica, Éponine, e la morte gliel’aveva portata via. Ora aveva persino trovato qualcuno che le aveva fatto perdere la testa, ma...
Cercò di non pensarci. Aveva fatto un giuramento.
Ma poi, a che serviva un giuramento? In realtà non le importava assolutamente nulla di quel presuntuoso, capace solo di mettere nei guai se stesso e i propri amici. Si ricordò che per colpa sua Les Amis de l’ABC erano tutti morti, tranne Grantaire.
 
Giunse davanti alla porta di quella che doveva essere la dimora della famiglia Giroux. Una donna stava spazzando la porzione di marciapiede davanti all’entrata della casa, canticchiando una melodia allegra.
«Mi scusi... i Giroux abitano qui?», azzardò.
«Sì, cosa desiderate?»
«Vorre parlare con loro per chiedere se hanno bisogno di un aiuto in casa...»
«Che genere di aiuto?»
«Non saprei. Lavare, cucire...»
«Sono cose che faccio io. Lavoro qui da poco e i padroni sembrano soddisfatti. Non hanno bisogno di un’altra persona.»
«Oh. Capisco», mormorò Angèle scoraggiata.
La donna ricominciò a spazzare il pavimento ignorandola, cosicché Angèle capì che la sua presenza non era desiderata.
Al secondo indirizzo fornito da Madame de Lamartine le cose non andarono meglio, poiché il padrone, il signor Léfevre, le riferì che gli affari andavano malissimo e non poteva permettersi una domestica e, per di più, la invitò ad andarsene in maniera poco cortese.
Con il morale a terra, Angèle si diresse verso la riva della Senna dove le donne erano solite recarsi per lavare i panni, stringendo con forza la giacca di Enjolras.
Quando giunse poco lontano dal basso argine di pietra sul quale cinque donne stavano chinate verso l’acqua del fiume, si accorse di stare tenendo la giacca stretta al petto, quasi la volesse abbracciare per trovare conforto. L’allontanò subito combattendo contro il desiderio di prendersi a schiaffi e si posizionò a fianco del gruppetto di lavandaie.
Mentre immergeva la giacca ancora ornata dalla coccarda francese, non poté fare a meno di origliare la conversazione delle donne.
«E’ naturale che lo troveranno.»
«Già, non sarà facile sfuggire all’ispettore Javert.»
«E poi c’è una bella ricompensa per chi lo trova!»
«E una brutta sorte per chi lo sta aiutando a nascondersi...»
«Ma potrebbe essere fuggito chissà dove, ormai.»
«Io ho sentito dire che è stato ferito. Quindi non può essere andato lontano.»
Un terribile sospetto cominciò a farsi strada nella mente di Angèle. Raccolse tutto il coraggio che aveva per domandare timidamente: «Di chi parlate, se posso chiedere?»
«Del giovane che ha guidato la rivolta alla barricata di via Chanvrerie. Un bel biondino, se non ricordo male», disse una di loro con un sorriso malizioso a cui mancavano un paio di denti.
«Si chiamava Enjorant, Enjorras, Enjolas... Qualcosa di simile», intervenne un’altra.
«Ah, non lo conosco», mentì Angèle immergendo sempre più a fondo la giacca rossa per nascondere la coccarda tricolore, simbolo della rivoluzione.
«Parli del diavolo e spuntano le corna. Guardate chi c’è laggiù», disse la donna che aveva parlato per prima.
Si voltarono tutte nella direzione indicata dalla donna e scorsero in lontananza la sagoma di Javert che, insieme ad altri due poliziotti, stava avanzando verso di loro con passo cadenzato.
Angèle fu scossa da un’ondata di brividi che le percorsero tutta la spina dorsale ed iniziò a sentire il sudore che le bagnava la fronte. Abbassò lo sguardo per non farsi riconoscere e mantenne la giacca immersa nell’acqua, sempre attenta a non far affiorare la coccarda.
Attese in silenzio, cercando di non far vedere che stava tremando come una foglia.
Il cuore le batteva all’impazzata, quasi volesse sfondarle il petto e gettarsi nella Senna.
«Oh, ha svoltato in quella via», disse una delle donne.
Angèle fece un sospiro di sollievo.
«Non ne posso più. La famiglia per cui lavoro vuole la biancheria pulita quasi ogni giorno. È un incubo!», disse una donna cambiando argomento, mentre strizzava una camicia.
Per tentare di dimenticare lo spavento che la vista di Javert le aveva fatto prendere, Angèle chiese: «Sapete dove potrei trovare lavoro? Conoscete famiglie che hanno bisogno di qualcuno che lavi o rammendi vestiti?»
«Eh, di questi tempi è molto difficile.»
«Già, io ho dovuto lavorare per strada per molto tempo prima di trovare qualcosa di onesto e dignitoso», disse una di loro che non aveva ancora parlato.
«Quando non si trova nulla, l’unica alternativa per non morire di fame è soddisfare gli uomini, purtroppo. É l’unico mestiere ben pagato.»
Angèle iniziò a capire.
Questo mai, pensò con orrore.
Dopotutto Enjolras veniva da una famiglia benestante. Avrebbe potuto benissimo pagarsi da solo il suo medico! Perché si stava rovinando la vita per lui? Perché non gli aveva parlato del problema? Che stupida!
Quando ebbe finito di lavare la giacca salutò le lavandaie e tornò a casa pensando a quali parole usare per chiedere ad Enjolras dove abitasse la sua famiglia, in modo da poter andare a chiedere il denaro ai suoi genitori. Questo pensiero le risollevò il morale, salvandola dal terrore che il mostruoso consiglio delle lavandaie aveva suscitato in lei.
 
Mentre sollevava la giacca dall’acqua, però, non si era accorta della donna che, con sguardo indagatore, aveva scorto di sfuggita la coccarda francese.

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Capitolo 7
*** Empty Chairs At Empty Tables ***


Perdonate l'immenso ritardo con cui aggiorno questa storia, ma ho avuto degli imprevisti. Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, altrimenti vi chiedo umilmente perdono!




VII. Empty Chairs At Empty Tables  
 




Ci mise qualche secondo per abituarsi al buio che opprimeva l’atrio dell’edificio che ospitava le stanze gestite da Madame de Lamartine, dopo la lunga passeggiata sotto il sole che quel giorno stava illuminando Parigi con tutta la sua forza.
Chiusa la porta d’entrata, Angèle si avviò su per la rampa di scale, chiedendosi per quale motivo il suo cuore stesse iniziando a battere più velocemente.
Giunta sul pianerottolo del secondo piano, avvicinò il viso alla porta della stanza dove si trovava Enjolras e tese l’orecchio per ascoltare: non udì alcun suono provenire dall’interno, ma, facendo più attenzione, le parve di sentire le voci di Grantaire e di Madame de Lamartine provenire dall’altra stanza. Cercando di non far rumore, abbassò la maniglia e spinse delicatamente la porta della stanza di Enjolras, sbirciando dentro: lui stava dormendo con i ricci dorati sprofondati nel cuscino, un braccio piegato dietro la nuca e l’altro abbandonato lungo il fianco. Pareva che anche nel sonno egli non volesse abbandonare la sua consueta espressione austera, poiché le labbra erano serrate in una morsa ferrea, ma in quella posa da divinità greca c’era qualcosa di umano, come se, dietro quella maschera di marmo, si celasse la fragilità di un bambino.
Sforzandosi di non guardarlo, Angèle si avvicinò alla sedia e vi pose con delicatezza la giacca rossa ancora umida sperando che si asciugasse in fretta, ma, prima di andarsene, non riuscì a resistere all’impulso di lanciare un’ultima occhiata in direzione dell’Apollo addormentato.
Aveva quasi varcato la soglia della porta per uscire dalla stanza, quando la voce di Enjolras la fece sobbalzare.
«Mi hai davvero lavato la giubba?»
Angèle si voltò.
«Sì», rispose timidamente.
«Ti ringrazio», le disse mettendosi a sedere sul bordo del letto.
Lei rimase pietrificata, ancora con la mano appoggiata alla maniglia della porta, faticando a credere alle proprie orecchie. Enjolras l’aveva appena ringraziata! Si era finalmente accorto della sua esistenza e di quello che stava facendo per lui?
A quel punto le tornò in mente la questione del conto del medico e, esitando, mosse qualche passo verso il centro della stanza.
Posò lo sguardo prima sui pantaloni scuri, poi sulla camicia bianca macchiata di sangue che, non allacciata fino all’ultimo bottone, lasciava intravedere una piccola parte di quel petto marmoreo, e infine su quel volto incorniciato da sinuosi boccoli lievemente scompigliati.
Ci mise qualche attimo prima di riuscire a calmare il battito del proprio cuore e riuscire a parlare con una certa disinvoltura.
«Io... Devo chiederti una cosa. Non ho abbastanza soldi per pagare il medico che ti ha curato, quindi vorrei chiederti se la tua famiglia sarebbe disposta ad aiutarmi a tale proposito», disse scandendo ogni parola.
Enjolras distolse lo sguardo e, prima di parlare, tacque per alcuni secondi.
«Purtroppo non ho più una famiglia.»
Angèle spalancò gli occhi.
«Oh, mi dispiace. Non sapevo... Come è successo?»
Enjolras fece un sorriso amaro guardando il pavimento.
«Tranquilla, non sono morti. Diciamo che le loro idee sono sempre state molto diverse dalle mie e non hanno apprezzato le mie scelte, quindi non mi ritengono più loro figlio e io non li ritengo più i miei genitori. Mia madre è la repubblica», disse in tono grave.
All’ultima frase Angèle alzò un sopracciglio.
«Probabilmente ora saranno convinti che io sia morto», continuò, «e staranno pensando che me lo sono meritato.»
Poi non aggiunse altro e un silenzio glaciale ripiombò nella stanza.
Angèle attese, chiedendosi se Enjolras stesse cercando un’altra possibile soluzione per risolvere il problema del denaro necessario per pagare il medico, ma l’altro pareva immerso in una fitta rete di pensieri che riguardavano tutt’altro.
Si schiarì la gola prima di chiedere: «Quindi come pensi di fare per trovare quei soldi?»
Enjolras parve risvegliarsi e, guardandola spaesato, farfugliò: «Ci penserò.»
Angèle, infastidita dal poco interesse che il ragazzo dimostrava nei confronti di quel problema, fece un respiro profondo volgendo lo sguardo verso il soffitto.
«Ma raccontami qualcosa di te... Vivi qui?»
Angèle lo guardò incredula: aveva sentito bene? Si stava davvero rivolgendo a lei? Nella stanza non vi era nessun altro, quindi pareva proprio di sì.
Enjolras le indicò la sedia.
Ancora con l’aria sbalordita, Angèle vi si sedette.
«Sì, vivo qui da quando ero piccola. Non so chi siano i miei genitori, l’unica persona che si è presa cura di me è stata Madame de Lamartine.»
Fece una pausa. Dovette distogliere lo sguardo da quel volto serio che la fissava, poiché non sarebbe riuscita a mettere insieme delle frasi di senso compiuto guardandolo negli occhi.
Poi si ricordò del giuramento che aveva fatto a se stessa e si fece forza: Enjolras non era nient’altro che una persona come tante altre che non avrebbero mai oltrepassato la barriera della solitudine che l’accompagnava da quando era bambina.
«Lei è un’affittacamere, ma non sempre gli affari vanno bene. Sono pochi i visitatori che si fermano qui per più di una notte, perciò non ho mai avuto molta compagnia.»
«Io però ti ho già vista», intervenne Enjolras.
Angèle alzò lo sguardo e rimase disorientata da quell’affermazione e dalla profondità di quegli occhi che avevano il colore degli abissi dell’oceano.
«Io... sono venuta qualche volta agli incontri degli Amis de l’ABC, insieme ad Éponine», disse accompagnando il nome dell’amica con un sospiro.
«La ragazza che è stata uccisa alla barricata? Quella vestita da ragazzo?»
«Sì.»
«Come mai? Eravate interessate alle nostre idee?»
«In realtà era perché Éponine era innamorata di Marius», disse lei arrossendo un po’.
«Capisco», disse Enjolras con uno sguardo chiaramente deluso.
«Io... non ci capisco molto di politica», azzardò lei per giustificarsi. Come sempre si sentiva piccola e ignorante di fronte a quel ragazzo pieno di ideali.
«Non è questione di politica», le spiegò, «è una questione che riguarda anche te. Il popolo è oppresso, gli è stata tolta la libertà che gli spetta di diritto.»
 
 
Dopo aver salutato Madame de Lamartine, che se ne tornò al piano di sopra, Grantaire si diresse verso la stanza di Enjolras.
La porta era socchiusa e, dando un’occhiata, poté scorgere Angèle che, seduta sulla sedia, gli dava la schiena, ma di Enjolras vide solo qualche ciuffo di capelli che emergeva al di là della figura di lei.
Si fermò ad ascoltare qualche parola di ciò di cui stavano discorrendo, e subito non capì perché un certo brivido di fastidio gli stava percorrendo il corpo.
Il suo respiro si fece leggermente più rapido e infine riuscì a dare un nome a quella strana sensazione: era gelosia.
Da quando avevano salvato Enjolras alla barricata si era accorto dell’interesse di Angèle per lui, ma sapeva bene che tipo di persona era Enjolras e sapeva che difficilmente avrebbe posato il proprio sguardo su una fanciulla che non fosse una personificazione della Francia in un dipinto.
Eppure stava parlando con lei con una confidenza che era nuova per il suo carattere. Grantaire strinse i pugni. Dopo qualche secondo, però, si ricordò di quanto volesse bene ad Enjolras, che considerava quasi come una divinità. Dopotutto aveva partecipato ai ritrovi degli Amis de l’ABC solo perché era attratto dall’audacia e dalla forza intellettuale di quel ragazzo a cui tanto avrebbe voluto somigliare e che invece era l’opposto di lui stesso. Sospirò, mentre a quel brivido di rabbia si sostituiva un macigno che gli pesava sul cuore. Angèle non sarebbe mai stata sua.
Si voltò, scese le scale ed uscì nelle vie assolate della capitale, senza badare a ciò che gli stava intorno.
Senza neanche pensarci, si infilò nella prima bettola che trovò e, dopo aver contato gli spiccioli che aveva in tasca, ordinò un bicchiere di vino. Svuotò il bicchiere tutto d’un fiato sotto gli occhi sbalorditi dell’oste, al quale ne ordinò un altro.
Di fronte allo sguardo diffidente di quest’ultimo, Grantaire dichiarò: «pagherò tutto quello che berrò.»
«Siete veloce a trangugiare il vino», osservò l’oste mentre gliene versava ancora.
Grantaire non rispose.
Riportò il bicchiere alle labbra e lasciò che i sorsi di vino lo inebriassero, regalandogli quella meravigliosa sensazione che da troppi giorni non provava: era la magia dell’alcool, capace di cancellare ogni inquietudine ed offrire solo pace e allegria.
Sorrise, dimenticandosi di Angèle, di Enjolras e di tutto ciò che era accaduto nei giorni precedenti, mentre intimava all’oste di riempirgli di nuovo il bicchiere.
«Di solito preferisco bere dalla bottiglia», dichiarò ridendo.
L’oste non disse nulla, lanciandogli un’occhiata torva.
«Ma il vostro vino è così buono», continuò Grantaire, «che posso accontentarmi del bicchiere.»
Si guardò intorno e si accorse che l’interno del locale gli appariva tutto sfuocato. Era la sensazione che adorava di più.
«Finalmente. E non c’è nemmeno Enjolras che mi rimprovera», disse concludendo la frase con un sonoro colpo di singhiozzo.
«Ecco, Enjolras, io ho il vino, tu tieniti pure la tua donna! Ma non eri innamorato solo della Francia?!», urlò alzando il bicchiere in aria e guadagnandosi le occhiate accigliate di tutti i clienti della bettola.
Poi spinse di nuovo il bicchiere verso l’oste perché gli versasse ancora del vino, mentre il suo viso assumeva un’espressione profondamente amareggiata.
«Sono uno stupido», mormorò tra i colpi di singhiozzo, «un buono a nulla.»
Dopo qualche secondo si rivolse all’oste: «Dove sono Combeferre, Prouvaire, Courfeyrac, Joly e gli altri? Mi pare di non averli più visti da qualche giorno».
L’oste alzò le spalle, voltandosi dall’altra parte.
«Dove sono?!?», ripeté Grantaire alzando la voce.
«Non so di chi parliate. Siete ubriaco», gli rispose l’oste.
Grantaire si fece pensoso e, dopo aver scolato l’ennesimo bicchiere, crollò con la testa sul bancone, iniziando a russare sonoramente.
 
«Hai fame?», chiese Angèle.
Enjolras la guardò come se volesse studiare il suo viso. Questo la faceva sentire piuttosto a disagio.
«Un po’ sì», disse infine.
«Potremmo mangiare qualcosa. Vado a chiedere a Madame de Lamartine se ha ancora qualcosa nella dispensa.»
Enjolras annuì.
«Vado anche a chiamare Grantaire», aggiunse Angèle con un sorriso.
Mentre usciva dalla stanza si rese conto di essere felice.
Perché poi? Aveva semplicemente fatto quattro chiacchiere con Enjolras, nulla di più. Ma la sensazione che quelle poche parole avevano suscitato in lei le parve molto piacevole. Dopotutto, non aveva bisogno di altro: qualche parola gentile le bastava per colmare il vuoto che da tempo albergava nel suo cuore.
Si diresse verso la stanza da cui poco prima aveva sentito provenire le voci di Grantaire e Madame de Lamartine, ma la trovò vuota.
Così, sempre con un’espressione che pareva un misto tra l’allegro e lo spensierato, si lanciò su per le scale.
Giunta nella stanza di Madame de Lamartine, la trovò seduta al tavolo, intenta a fare dei conti su un foglietto.
«Hai visto Grantaire?»
«Oh, ciao Angèle», rispose la donna sollevando lo sguardo, «non è andato dall’altro ragazzo?»
«No, c’ero solo io con Enjolras», disse Angèle chiedendosi dove potesse essere finito Grantaire.
«Forse è uscito», suggerì Madame de Lamartine.
«Sì, forse», rispose Angèle.
Ma dove era andato, senza dire niente né a lei né ad Enjolras? E se dei soldati l’avessero trovato? Angèle rabbrividì.
«Vado a cercarlo. Potresti preparare qualcosa da mangiare per Enjolras?»
«Va bene.»
 
Scese le scale di corsa e, rientrata nella stanza di Enjolras, gli disse che, mentre lei sarebbe uscita per cercare Grantaire, Madame de Lamartine gli avrebbe portato del cibo.
«Vengo con te», le disse lui.
Angèle si perse per alcuni secondi nello sguardo di lui, prima di dirgli: «No, devi riposare. La ferita non si è ancora rimarginata del tutto.»
Enjolras stava per ribattere, ma poi cambiò idea ed annuì, tornando a sedersi sul letto.
«Intanto puoi mangiare», gli disse Angèle dirigendosi verso la porta.
«No, vi aspetto.»
Angèle lo osservò per l’ultima volta, rapita da quel volto angelico che, senza perdere la propria serietà, lasciava trasparire una certa dolcezza, naturalmente non voluta da quella mente inflessibile.
 
Una volta in strada, iniziò a fare congetture su quale direzione avesse potuto prendere Grantaire.
Perché era uscito senza dire niente? Angèle si morse il labbro. Avrebbe potuto essere ovunque.
Forse era tornato a casa propria? Si rese conto di non sapere dove abitasse. Avrebbe potuto chiederlo ad Enjolras, che sciocca. Si portò una mano sulla guancia con fare meditabondo, mentre percorreva senza meta le stradine del quartiere.
Forse era tornato alla barricata? Angèle scelse quella direzione, guidata dalla curiosità di vedere se vi fossero ancora tracce della tragedia che lì si era consumata, più che dalla speranza di trovarvi Grantaire.
Guardandosi indietro ogni pochi passi per assicurarsi di non essere seguita da poliziotti, Angèle giunse in via Chanvrerie: quello che vide le strinse il cuore.
Ciò che rimaneva della barricata era solo qualche pezzo di legno abbandonato in mezzo alla strada, mentre la taverna che aveva rappresentato il quartier generale della rivoluzione pareva un vecchio rudere, con le finestre rotte e calcinacci e pezzi di vetro tutt’intorno.
Consapevole dell’enorme rischio che stava correndo, decise di entrarvi, dimenticandosi di Grantaire.
L’interno era anche peggio dell’esterno: pareva che fosse passato un ciclone e avesse lasciato frammenti di porte, scale e finestre come segno del suo passaggio.
La visione peggiore, tuttavia, erano le macchie di sangue che decoravano il pavimento e le pareti. L’orrore e la paura che aveva provato nel momento in cui si era nascosta nel ripostiglio insieme a Grantaire le tornò alla mente con una forza tale che dovette appoggiarsi ad una parete per non crollare a terra.
Tutti i cadaveri erano stati portati via, ma tutto, in quella stanza, parlava di loro: il sangue, le bottiglie rotte, la bandiera rossa abbandonata sul pavimento, le scale che Enjolras aveva tentato di demolire per salvare se stesso e i propri compagni.
Dopo alcuni lunghissimi minuti in cui i ricordi di quegli orribili momenti le oscuravano la mente, Angèle decise di salire al piano superiore, saltando i gradini mancanti o quelli pericolanti ed aggrappandosi al corrimano di legno per non cadere.
Giunta di sopra, quello che le si presentò davanti agli occhi non fu un panorama molto diverso da quello che caratterizzava il piano inferiore: anche qui il sangue dei martiri della libertà aveva macchiato pareti e pavimento, quasi a voler ricordare il loro sacrificio.
La stanza era vuota, fatta eccezione per un piccolo tavolino che, stranamente, non era stato usato per la barricata. Su quel tavolino, qualcosa attirò lo sguardo di Angèle: sembrava un foglietto di carta.
Si avvicinò e, dopo averlo afferrato, lesse le righe che qualcuno aveva scritto con una grafia tremolante, sbavate qua e là da piccole macchie che forse erano state delle lacrime:
 

C’è un dolore che non si può esprimere a parole
C’è un dolore che non se ne va
Sedie vuote a tavoli vuoti
Ora i miei amici sono morti.
 
Qui parlavano di rivoluzione
Fu qui che accesero la fiamma
Qui cantavano del domani
Ma il domani non è mai arrivato.
 
Dal tavolo nell’angolo
Potevano scorgere un mondo rinato
E si alzavano con voci squillanti
Riesco a sentirle adesso
Proprio le parole che avevano cantato
Divennero la loro ultima comunione
Sulla barricata solitaria, all’alba.
 
Oh amici miei, amici miei, perdonatemi
Perché io vivo e voi ve ne siete andati
C’è un dolore che non si può esprimere a parole
C’è un dolore che non se ne va
 
Volti di fantasmi alla finestra
Ombre di fantasmi sul pavimento
Sedie vuote a tavoli vuoti
Dove i miei amici non si incontreranno più.
 
Oh amici miei, amici miei, non chiedetemi
A cosa sia servito il vostro sacrificio
Sedie vuote a tavoli vuoti
Dove i miei amici non si incontreranno più.

 
Una lacrima le scese sulla guancia e si unì a quelle che già avevano bagnato il foglietto.
Ripensò a tutti quei ragazzi a cui la vita era stata strappata senza pietà e le parve che qualcuno le stesse stringendo il cuore con una forza inaudita.
Ma chi aveva scritto quelle parole? Forse Grantaire? Le parve strano che quel ragazzo avesse una tale vena poetica... Ma, dopotutto, lei non lo conosceva abbastanza. E poi, chi altro avrebbe potuto essere? Oltre a lui ed Enjolras non c’erano sopravvissuti tra gli Amis de l’ABC... O forse sì?
Rimase in piedi di fianco al tavolino a farsi mille domande, mentre il pomeriggio lasciava lentamente il posto alla sera. Poi, asciugatasi gli occhi, nascose il foglietto all’interno di una manica e ridiscese le scale sconnesse per tornare verso casa.



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Adesso possiamo andare tutti quanti ad ascoltare "Empty Chairs At Empty Tables" e metterci a piangere in un angolino... Quanto è triste quella canzone? ç_ç
Quando riesco infilo da qualche parte qualche citazione dal libro di Hugo, soprattutto quando parlo di Enjolras... chi le trova vince una ciocca della chioma dorata del nostro leader rivoluzionario.... Ahah scherzo XD

Un enorme grazie a tutti coloro che recensiscono e a tutti coloro che seguono questa storia! Siete fantastici, davvero! Grazie!!! :)

 

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Capitolo 8
*** When Tomorrow Comes ***


Mi scuso tantissimo per l'immenso ritardo con cui posto questo capitolo. Purtroppo non potrò più aggiornare la storia molto frequentemente, ma sappiate che continuerò ad aggiornarla. Magari bisognerà aspettare un po' di più per ogni capitolo, però spero che questo non vi spinga ad abbandonare la lettura. Chiedo perdono a tutti, farò tutto quello che potrò per non farvi attendere troppo!




VIII. When Tomorrow Comes  




Javert era immobile da alcuni minuti, seduto al tavolo del suo ufficio con il viso tra le mani ed i gomiti appoggiati sul tavolo di legno. I suoi colleghi erano stati chiamati da un altro dipartimento per una piccola mansione ed egli era completamente solo.
Stava ripensando al terribile sogno che aveva fatto quella notte: si trovava su un altissimo ponte sopra la Senna, in un punto dove essa formava una sorta di enorme vasca nella quale le acque si riversavano violentemente, scrosciando ed ululando come un mare in tempesta. Intorno a lui vi era il buio completo di una notte senza stelle. Anche le stelle che lui aveva tanto amato, che riteneva le proprie guide, l’avevano abbandonato. Poi, all’improvviso, senza riuscire ad opporre alcuna resistenza al proprio corpo, egli si era lasciato cadere in quegli abissi, per poi svegliarsi di soprassalto, coperto di sudore.
Che cosa significava un tale incubo?
Javert faticava ad ammetterlo, ma, in cuor suo, sapeva che quello strano sogno non era stato creato dalla sua mente per pura casualità, poichè, più di una volta, egli aveva pensato di porre fine a quella vita priva di senso.
Ora che Jean Valjean aveva fatto crollare quel muro di ideali, giustizia e fermezza che con tanta fatica Javert si era costruito in tanti anni di servizio, egli si sentiva vuoto ed inutile. Non sapeva più in cosa credere e non sapeva più che cosa fosse giusto e che cosa fosse sbagliato. Inoltre non era ancora riuscito a trovare quello studentello che aveva innescato la rivoluzione e capeggiato l’inutile barricata di via Chanvrerie, riuscendo perfino a scampare alla polizia, e questo contribuiva parecchio a farlo sentire un completo fallimento.
Che cosa doveva fare? Forse quel sogno gli era stato mandato dall’Alto ed egli doveva obbedire? Forse Dio voleva punirlo per le sue azioni? Javert non sapeva più cosa pensare. Ogni sua certezza, ogni sua credenza era andata in frantumi.
Mentre era immerso in questi pensieri, non si accorse della figura che fece capolino dalla porta dell’ufficio.
«Ispettore?»
Javert alzò lo sguardo e vide una donna in piedi sulla soglia. Doveva appartenere ad uno dei ceti bassi del popolo, poiché le vesti erano sicuramente di seconda mano, anche se portava sulle spalle uno scialle e sulla testa una cuffia che, risistemati con ago e filo secondo la moda del periodo, volevano farla sembrare una donna più raffinata.
«Posso entrare?»
«Certo, certo», rispose Javert ancora piuttosto confuso poiché era stato colto alla sprovvista, indicandole la sedia posta di fronte al tavolo a cui egli stesso era seduto.
«Ditemi», aggiunse, ritornando in sè ed abbandonando ogni pensiero riguardante il sogno.
Mentre la donna prendeva posto sulla sedia, egli lanciò un’occhiata alle finestre e si rese conto di essere rimasto a meditare per più di un’ora, poiché era ormai tardo pomeriggio e presto sarebbe calata la sera.
«Dunque, ispettore», iniziò la donna, e Javert notò che le mancavano alcuni denti, il che la rendeva ancora più sgradevole.
«Sono venuta a comunicarvi un fatto che forse potrebbe interessarvi.»
Javert cercò di evitare di posare lo sguardo sui denti mancanti della donna e concentrarsi su ciò che aveva da dire.
«Questa mattina stavo lavando i panni alla Senna, quando arriva una ragazza...»
Javert stava già iniziando ad annoiarsi. Probabilmente si trattava di una semplice lite tra donne. Zitelle e megere come quella non facevano altro che prendersi a botte per un nonnulla.
«...che si mette a lavare una casacca rossa.»
«E quindi...?», chiese Javert che stava già iniziando a spazientirsi.
«E non ho potuto fare a meno di notare che c’era una coccarda francese appuntata su quella casacca. Una di quelle che avevano gli studenti che hanno alzato le barricate.»
Javert aggrottò le sopracciglia, improvvisamente interessato.
«Una coccarda francese, dite?»
«Sì. Ma non solo questo: ad un certo punto siete passato voi poco lontano da lì e, non appena la ragazza vi ha visto, mi è parsa molto a disagio. Sembrava che non volesse farsi vedere da voi.»
Javert si portò una mano sul mento con fare meditabondo.
«Una casacca rossa, avete detto?», riprese Javert.
«Sì. Vedete, il mio sospetto è che la ragazza stia nascondendo il giovane studente che guidava la rivoluzione.»
«Può essere, può essere», disse Javert con il viso che, improvvisamente, si illuminava di una luce nuova.
Stava cercando di ricordare la fisionomia del ragazzo che l’aveva consegnato nelle mani di Jean Valjean perché lo facesse fuori. Forse non tutto era perduto e sarebbe riuscito a fargliela pagare, finalmente. E gli venne in mente che aveva notato, in effetti, la presenza di una ragazza, quando quel borioso studentello dai ricci biondi gli era sfuggito.
«La vostra dichiarazione è molto preziosa, signora, poiché ciò significa che il ragazzo è ancora in città. Ve ne saremo molto grati se riusciremo a prenderlo.»
«C’è dell’altro», disse la donna con un sorriso malizioso che pareva quello di una strega.
«Andate avanti», la incalzò Javert, cercando di guardare da un’altra parte.
«Fortunatamente si dà il caso che io sia una persona molto curiosa e, perciò, ho deciso di seguire la ragazza. Senza che lei mi vedesse, naturalmente.»
Javert alzò un sopracciglio, pensando: “Ecco di cosa sono capaci queste megere. Ti seguirebbero persino alla toilette per sapere i fatti tuoi”. Ma, in questo caso, ciò gli tornava utile.
«E dunque avete scoperto dove tiene nascosto il ragazzo?»
«Oh beh, non sono potuta entrare per verificare se ci fosse lo studente rivoluzionario, ma ho visto in quale casa è entrata.»
Sul viso di Javert apparve, per la prima volta dopo parecchio tempo, un sorriso compiaciuto. L’indomani sarebbe stato un gran giorno: avrebbe organizzato tutto alla perfezione per stanare la preda.
 

Enjolras era intento a sfogliare un libro che aveva trovato sotto il letto della propria stanza e che conteneva certe assurdità che riguardavano alcuni giganti scritte dal famoso autore cinquecentesco Rabelais, il cui stile risultava piuttosto lontano da quello dei saggi di diritto che leggeva di solito, ma che, allo stesso tempo, lo incuriosiva, quando all’improvviso udì alcuni rumori provenire dalle scale.
I tonfi si facevano più forti ed irregolari, perciò posò il libro sul letto e si diresse verso la porta, chiedendosi che cosa stesse combinando Madame de Lamartine e se avesse bisogno d’aiuto.
Ciò che vide quando aprì la porta, però, si rivelò piuttosto diverso, ma non del tutto inusuale. Enjolras aveva infatti visto Grantaire ubriaco più volte, ma forse mai a tale livello. Il ragazzo si stava trascinando su per le scale, ondeggiando come una bandiera esposta al vento e sbattendo ripetutamente prima contro la ringhiera e poi contro il muro, scivolando sui gradini e ritornando più volte al punto di partenza.
Sospirando, Enjolras accorse in aiuto dell’amico, afferrandogli un braccio per posarlo intorno alle proprie spalle e ponendo un proprio braccio intorno alla vita dell’altro, per sostenerlo e trascinarlo fino alla propria stanza.
«Oh sei tu, Apollo di marmo.»
«Quanto hai bevuto stavolta?! Diamine!», disse Enjolras piuttosto infastidito dall’epiteto che Grantaire gli aveva appena dato.
«Viva la Repubblica!», urlò il moro concludendo la frase con un sonoro colpo di singhiozzo.
«Shhh, taci!», gli intimò Enjolras, sperando che Madame de Lamartine non accorresse per vedere il giovane in quello stato.
«Dov’è Ang... Ange... l’angelo!»
«Se ti riferisci ad Angèle, era venuta a cercarti», gli rispose seccamente Enjolras, mentre chiudeva la porta della stanza dietro di sè e cercava di adagiare l’amico sul letto.
«Ah, ma lo so che l’hai nascosta, hic! La vuoi tutta per te»
Enjolras aggrottò le sopracciglia, lottando con Grantaire per farlo stendere sul letto.
«Che caspita stai dicendo. Cerca di dormire adesso. E non ti azzardare a vomitare.»
«Ma in fondo ha ragione lei, sai. Lo sappiamo tutti che sei il più bello tra noi. Chiedilo anche a Combeferre»
«Dormi!», ordinò Enjolras, alzando gli occhi al cielo.
«Macché dormire! Dobbiamo andare al Musain! Gli altri ci aspettano!», disse Grantaire mettendosi seduto.
Enjolras, senza dire nulla, lo spinse di nuovo giù per farlo dormire.
«Non andare senza di me...», aggiunse Grantaire con le palpebre che si abbassavano.
«Dormi», ripeté Enjolras, improvvisamente triste. Stava ripensando a tutti i compagni che, seguendo lui, erano morti alla barricata. L’avevano seguito fino alla fine.
«Sai, Apollo, Les Amis de l’ABC non sono nulla senza di te», disse Grantaire con un gran sorriso e gli occhi chiusi, sprofondando la testa nel cuscino.
Un attimo dopo stava dormendo profondamente.
Enjolras rimase seduto sul bordo del letto a pensare, con gli occhi lucidi e lo sguardo malinconico.
In quel momento la porta si aprì di scatto ed Angèle apparve sulla soglia assumendo improvvisamente un’espressione stupita.
«Ma allora è qui!», sussurrò per non svegliare Grantaire.
Enjolras annuì, poi si alzò e le andò incontro, facendole cenno di uscire dalla stanza.
La seguì e, posandole delicatamente una mano dietro la schiena, la spinse verso le scale, dicendo: «Usciamo a prendere un po’ d’aria.»
Quel tocco provocò dei piacevoli brividi lungo la spina dorsale della ragazza, che, però cercò di tornare in sè.
«Ma te la senti?»
«Sì. Non preoccuparti, non andrò in giro, voglio solo sedermi qui fuori.»
Uscirono in strada e si sedettero tutti e due sul marciapiede, incuranti della sporcizia che lo ricopriva. Era ormai calata la sera ed una fredda brezza soffiava nella via deserta.
«Era ubriaco», dichiarò Enjolras.
«Oh», disse Angèle sorpresa.
«Non è una novità. Ma ha farfugliato alcune cose... Crede che gli altri siano ancora vivi.»
Angèle lanciò un’occhiata piena di compassione verso il biondo, il quale, seduto accanto a lei, aveva lo sguardo chino sul selciato.
«Mi dispiace tanto», fu l’unica cosa che riuscì a dire. Avrebbe voluto posare una mano sulla spalla di Enjolras, ma non lo fece. Aveva paura di dargli fastidio.
Poi si ricordò del foglietto che aveva trovato alla taverna dietro la barricata e lo estrasse dalla manica per porgerlo all’altro.
Enjolras le rivolse uno sguardo interrogativo e si mise a leggere.
Angèle gli spiegò dove l’aveva trovato e gli chiese chi potesse averlo scritto.
«Non saprei, somiglia alla scrittura di Courfeyrac... O forse Prouvaire... Ma non è possibile, io li ho visti morire davanti ai miei occhi.»
«Potrebbe essere stato Grantaire?», azzardò Angèle.
«Impossibile. Riconoscerei la sua scrittura. E non penso proprio che sia capace di scrivere qualcosa del genere.»
Un vago ricordo si fece strada nella mente di Angèle.
«Hai visto morire anche Marius?»
«Uhm... Non ricordo dove fosse Pontmercy quando siamo rientrati nella taverna per cercare di salvarci.»
«Ricordi quell’uomo che non c’entrava niente con voi studenti, ma che vi stava aiutando con i feriti?»
Enjolras sembrò riflettere.
«Ah sì. Quello che disse di voler uccidere Javert ma che poi, a quanto pare, non lo fece. Perché me lo chiedi?»
«Perché io l’ho visto fuggire portandosi via Marius in spalla.»
Enjolras la guardò.
«Credi che Pontmercy sia ancora vivo?»
«Non lo so. Può essere. Non potrebbe essere la sua scrittura?», gli chiese indicando il foglietto.
«Ora che mi ci fai pensare, potrebbe. Ma non me la ricordo bene.»
Poi calò il silenzio. Una piccola scintilla di speranza si stava accendendo nelle menti dei due: senza dirlo, entrambi sapevano che l’indomani sarebbero andati in cerca di Marius, come una famiglia alla ricerca di un fratello perduto. La scoperta di un altro sopravvissuto gettava una nuova luce sui loro animi, come una nuova alba che scaccia l’oscurità di quella rivoluzione finita in tragedia.
Mentre si aggrappavano a quella speranza, la notte si faceva più fredda ed Enjolras vide Angèle rabbrividire. Senza dire una parola, si sfilò la giacca rossa che lei gli aveva lavato quella mattina e gliela avvolse intorno alle spalle.
Angèle, imbarazzata, voleva fargli sapere che non ve n’era bisogno, ma, con la coda dell’occhio, vide che il viso di lui era vicino, vicinissimo, al proprio, e le mancò il respiro. Alzò lo sguardo e per qualche attimo si ritrovò davanti due intensi occhi blu e rimase come ipnotizzata. Poi lui distolse lo sguardo e tornò ad osservare il selciato illuminato dalla luna, in silenzio.



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Ancora un enorme grazie a tutti coloro che leggono e recensiscono! :)

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Capitolo 9
*** A Heart Full of Love ***


IX. A Heart Full of Love





Erano rimasti seduti sul marciapiede senza parlarsi per lunghissimo tempo, forse per ore intere. Angèle non avrebbe saputo dire quanto.
Aveva osservato la luna, lasciandosi inebriare dal suo chiarore argenteo e cercando di non pretendere nulla di più dal destino. Al suo fianco c’era Enjolras, anche lui intento a scrutare la notte silenziosa, ma non era altro che un’ombra come tante. Non avrebbe mai allungato una mano verso di lei, non l’avrebbe mai presa tra le sue braccia, non avrebbe mai avvicinato le proprie labbra alle sue. Ma questo non le importava. Aveva compreso quali fossero le sue priorità e le avrebbe rispettate. Lui amava la patria, il popolo, la rivoluzione, a lei bastava un cielo stellato per sentirsi leggera, libera, viva.
Senza rendersene conto, Angèle stava sorridendo. Un sorriso sereno, un sorriso di pace, rivolto a quei piccoli lumi che riempivano di luce l’oscurità parigina.
Enjolras si alzò.
«Sarà meglio rientrare. Si è fatto tardi», affermò con il suo solito tono austero.
Angèle non rispose. Abbassò lo sguardo verso il selciato e rimase immobile, mentre il ragazzo entrava nel palazzo.
Nonostante avesse ancora sulle spalle la giacca di lui, Angèle iniziò a sentire freddo. Si rannicchiò ancora di più su se stessa, finché le palpebre non iniziarono ad abbassarsi. A quel punto si decise ad alzarsi ed andare a dormire.
Salì le scale cercando di non far rumore, finché non giunse al pianerottolo del secondo piano. Si ritrovò davanti alla porta della stanza di Enjolras, ma subito virò a sinistra e si accinse ad entrare nella stanza dove Grantaire russava sonoramente.
Non appena posò la mano sul pomolo della porta, però, sentì uno scricchiolio provenire da dietro le proprie spalle e si voltò di scatto.
Enjolras era in piedi di fronte a lei, ma la sua figura si distingueva a fatica ed il suo volto era in ombra, poiché solo qualche debole raggio di luna riusciva a penetrare attraverso una finestrella nel vano delle scale.
Angèle rimase immobile ad osservarlo.
Lui si schiarì la gola.
«Potresti aiutarmi a cambiarmi le bende sulla spalla?», le chiese sottovoce.
Angèle, spiazzata, annuì e lo seguì nell’altra stanza. Questa era illuminata solamente da una piccola candela posta sul tavolo di legno, la quale disegnava sulle pareti un alone piuttosto sinistro.
Senza dire una parola, lui si sedette sul letto ed iniziò a sbottonarsi la camicia.
Angèle rimase immobile come una statua, incapace di muoversi poiché colta da un’ondata di imbarazzo.
Era forse impazzito? Voleva farla morire di vergogna?
«Allora? Non riesco a slegare le bende», le disse con una calma assoluta, come se quella situazione fosse perfettamente usuale.
Angèle si scosse e tornò in sè, ricordandosi che lui probabilmente non conosceva imbarazzo, passione o sentimento, e che quindi qualsiasi contatto con una donna non gli avrebbe causato il minimo problema.
Gli si avvicinò ed iniziò a togliere delicatamente le bende che gli fasciavano la spalla, incapace di riportare il proprio cuore ad un ritmo regolare. Se la luce nella stanza non fosse stata così fioca, Enjolras avrebbe potuto notare le sue guance rosse come il sangue e bollenti come un fuoco scoppiettante. Nemmeno Angèle riusciva a scorgere bene il viso di lui, anche perché tentava di concentrarsi sulla spalla sfregiata da una grossa ferita circolare che si stava piano piano cicatrizzando.
Era in piedi davanti a lui, che stava seduto sul bordo del letto, e sentiva che la propria veste gli sfiorava le ginocchia. Avrebbe voluto fuggire, sparire, essere risucchiata dal pavimento per evitare quella situazione. Non voleva che lui si accorgesse di ciò che lei provava per lui, poiché di sicuro non gli sarebbe piaciuto e sarebbe bastato per perderlo per sempre. E, cercando di seppellire i propri sentimenti, lei aveva iniziato a considerarlo un amico, e perdere un amico era l'ultima cosa che avrebbe voluto. Perché, in tutta la sua vita, ne aveva avuti davvero pochi.
Osservò la ferita e, per liberarsi di tutto quell’imbarazzo, decise di dire la prima frase che le venne in mente.
«L’hai scampata bella. Potevano colpirti al cuore.»
Ma se ne pentì subito, poiché sentì di aver detto qualcosa di immensamente stupido e banale.
«Ma non ce l’hanno fatta», disse Enjolras.
Angèle riuscì ad intravedere un lieve sorriso sul volto di lui, e questo la incoraggiò a continuare la conversazione.
«La smetterai di fare rivoluzioni, vero?», gli disse in tono scherzoso.
Lui rimase in silenzio, mentre Angèle iniziava a coprirgli la ferita con una benda pulita, ma poi rispose serio: «Ho un dovere verso la mia patria. Non posso mollare tutto solo perché sono sopravvissuto ad una rivoluzione fallita. È il dovere di ognuno di noi ribellarsi fino alla fine. Finché i popoli della terra non saranno finalmente liberi.»
Angèle deglutì. Avrebbe voluto chiedergli se stesse scherzando e ridere con lui, ma, rabbrividendo, seppe che Enjolras parlava seriamente. La lezione non gli era bastata. La morte di tutti i suoi compagni non gli era bastata.
Nella stanza piombò il silenzio.
Angèle sentiva un macigno sul cuore e un’immensa tristezza le aveva invaso la mente.
«E poi a chi importerebbe della mia morte?», riprese Enjolras.
Angèle lo guardò in viso.
«Ai tuoi amici importerebbe.»
«Loro sono morti.»
Da quelle parole Angèle seppe di non essere inclusa nell'elenco dei suoi amici. Ma che cosa importava? Avrebbe dovuto saperlo dall’inizio.
Abbassò lo sguardo, incapace di parlare.
«A te importerebbe?», azzardò Enjolras in tono incerto.
Lei tornò a guardarlo negli occhi, ma la sua bocca non riusciva ad emettere alcun suono. Era come se qualcuno le avesse rubato le corde vocali. Si stava di nuovo perdendo nell’abisso di quegli occhi e doveva risalirne. Doveva salvarsi, doveva trovare il coraggio di tornare a galla.
Mentre lottava con se stessa, accadde qualcosa di inaspettato: Enjolras posò le proprie mani sui fianchi di lei e la fece sedere sulle proprie ginocchia.
Angèle non capiva.
Era come se qualcuno l'avesse appena colpita alla testa. La stanza iniziò a girare vorticosamente intorno a lei, mentre il petto lasciato in vista dalla camicia sbottonata e il viso di lui che si faceva sempre più vicino le facevano mancare il respiro.
Lui la strinse a sè e le loro labbra si incontrarono.
Fu un bacio lungo, dolce e appassionato.
Forse stava sognando, ma non le importava.
Lo strinse più forte che poté, per paura che svanisse troppo in fretta, e tutta la sua anima si sciolse a contatto con quelle labbra morbide.
Forse, dopotutto, Apollo non era di marmo e non amava solo la Francia.
 
 
L’alba giungeva lentamente per liberare Parigi dalle tenebre, lasciando che la propria luce penetrasse in ogni casa attraverso i vetri delle finestre e sorprendendo Angèle ed Enjolras che dormivano abbracciati nel letto dove lui aveva passato quei pochi giorni di convalescenza.
Ma non fu l’alba a svegliarli. Un certo fermento proveniente dalle scale li fece balzare in piedi.
Oltre ai passi di numerose persone e le proteste di quella che pareva la voce di Madame da Lamartine, udirono più volte gridare: «Polizia!», «Trovate i ragazzi!», «Se oppongono resistenza uccideteli!». Angèle, terrorizzata, riconobbe la voce di Javert.
In una frazione di secondo Enjolras la spinse giù dal letto con forza e la obbligò a nascondersi sotto di esso, portandosi un dito alla bocca per intimarle di fare silenzio ed impedirle di protestare.
Nel momento esatto in cui egli si rialzò in piedi, Javert fece irruzione nella stanza.
«Bene, bene, bene. Guarda un po’ chi abbiamo qui.»
«Ispettore, abbiamo preso l’altro», disse qualcuno, probabilmente conducendo nella stanza Grantaire.
Angèle, nascosta sotto il letto e protetta dalle lunghe lenzuola che lo coprivano e pendevano ai lati di esso toccando quasi il pavimento, poteva scorgere solo tanti piedi che entravano precipitosamente nella stanza.
«Ebbene, i topi sono stati stanati, finalmente. Credevate forse di riuscire a sfuggire alla giustizia?»
Ad ogni parola pronunciata da Javert, l’animo di Angèle si riempiva sempre di più di odio furioso verso quell’uomo.
«A proposito. Dove avete lasciato la ragazza?», chiese Javert con un tono divertito che fece rabbrividire Angèle.
Nessuno rispose.
«Poco importa. Dubito che abbia avuto un ruolo rilevante nella vostra inutile rivoluzione.»
Javert fece una pausa.
«Non dovreste essere abbastanza grandi per capire quando un gioco diventa pericoloso?», ridacchiò.
Poi si fece serio. «Forse quel bambino che era tra voi e che avete mandato al macello come una bestia non lo sapeva... Ma voi...»
Angèle si intristì, ripensando al piccolo Gavroche.
«Siete voi che scambiate la vita di un intero popolo per un gioco», dichiarò Enjolras con voce ferma.
«Bada a come parli, ragazzino. Mostra un po’ di rispetto per chi opera innumerevoli sacrifici affinché le leggi vengano rispettate e un popolo non si comporti come una mandria di bestie.»
A quest’affermazione seguì un sonoro sbadiglio di Grantaire.
«Ma veniamo al dunque», aggiunse Javert fingendo di non aver sentito.
Fece qualche passo per la stanza.
«Ora vi condurremo fino al carcere e, una volta arrivati, sarete fucilati nel cortile. Così potrete riunirvi ai vostri cari amici che sono già andati al Creatore durante la battaglia alla barricata.»
Il cuore di Angèle mancò un battito.
«Potevano evitarlo, naturalmente, come voi. Ma avete voluto continuare a giocare, ed ecco qual è il prezzo da pagare.»
Dopo che Javert ebbe pronunciato queste parole, tutti coloro che si trovavano nella stanza si diressero verso l’uscita, trascinandosi dietro i due prigionieri.
Angèle dovette lottare con tutte le proprie forze per non mettersi a piangere. Perché le stavano portando via il suo angelo? Perché la razza umana era così crudele? Come poteva un uomo essere capace di uccidere a sangue freddo dei ragazzi come loro o dei bambini come Gavroche?
Una lacrima le scese sulla guancia mentre la sua mente iniziava a delineare le figure di Enjolras e Grantaire che, tenendosi per mano, venivano colpite da innumerevoli pallottole e si accasciavano a terra in un mare di sangue.
Non avrebbe mai potuto sopportarlo. Non avrebbe mai potuto continuare a vivere: il pensiero della loro morte si sarebbe insinuato nelle sue viscere e non l’avrebbe mai abbandonata, tormentandola fino a condurla al suicidio.
Javert si era fermato sulla soglia della porta e pareva indugiare, perso in chissà quali riflessioni.
Dopo qualche lunghissimo minuto, girò sui tacchi e se ne andò.
In una frazione di secondo Angèle si precipitò fuori dal suo nascondiglio e, accecata dalla rabbia e dalla disperazione, si lanciò dietro all’ispettore.
«Perché volete farli ammazzare? Non avete un minimo di compassione? Siete voi la bestia!»
Javert, bloccandosi su un gradino a metà della rampa di scale, si voltò lentamente.
«Oh, eccoti qui. Sapevo che non dovevi essere andata lontano. Direi che puoi seguire i tuoi amici», affermò con uno sguardo severo che avrebbe intimorito anche i più temerari.
Angèle decise di cambiare tono e passare alle suppliche.
«Ispettore, non fateli morire. Non potete ucciderli solo perché credevano in un sogno. Sono stati sciocchi, sì, ma non meritano la morte.»
Javert si umettò le labbra guardandosi intorno con aria tranquilla, prima di rispondere.
«La legge va rispettata. Chi si pone contro di essa è un pericolo per l’umanità», dichiarò mentre si avvicinava lentamente ad Angèle fino ad afferrarla per un braccio.
«Ora, però, devi venire con me», le disse in tono autoritario.
Lei non oppose alcuna resistenza, lasciandosi guidare da lui come un corpo senza vita che procede per inerzia. Dopotutto non le importava più nulla: sarebbe morta insieme ad Enjolras e questo le bastava.
Ma era davvero pronta a morire?
Ancora una volta, dopo la terribile battaglia alla barricata, Angèle ebbe paura.
 

Il gruppo procedeva lentamente per le vie del quartiere parigino: quattro poliziotti in testa, i quali si trascinavano dietro Enjolras e Grantaire, e Javert che li seguiva da lontano con Angèle.
Ad un certo punto passarono, come un piccolo corteo, nei pressi di una chiesa dall’imponente facciata di pietra, davanti alla quale un gruppetto di persone elegantemente vestite sembravano attendere qualcosa o qualcuno.
In quel momento il grande portone di legno istoriato si aprì e né i poliziotti, né i prigionieri, riuscirono a restistere all’impulso di lanciare uno sguardo in direzione dei due giovani sposi che uscivano sorridendo. Le urla di gioia degli invitati contrastavano fortemente con il silenzio di quel piccolo corteo che, mestamente, sfilava sul lato della strada opposto alla chiesa.
Lo sguardo di Angèle incontrò quello dello sposo, il quale mutò improvvisamente espressione.
Era Marius.
Anche Enjolras e Grantaire dovevano averlo riconosciuto, poiché avevano rallentato il passo, ma subito i poliziotti li avevano strattonati ed essi avevano abbassato lo sguardo. Solo Angèle mantenne i propri occhi fissi su quelli di Marius, notando il dolore misto alla sorpresa stampato sul viso del giovane che teneva per mano una sorridente fanciulla dai lineamenti delicati ed i capelli color miele. Chissà a che cosa stava pensando Marius in quel momento: di sicuro aveva creduto che Enjolras e Grantaire fossero morti alla barricata insieme a tutti gli altri, ma ancora più straziante doveva essere vederli marciare incontro alla morte un’altra volta.
Poi Javert la costrinse a voltare l’angolo e i due sposi sparirono dalla sua vista.

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