Riempire i vuoti

di ferao
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La prima uscita ***
Capitolo 2: *** Il primo bacio ***
Capitolo 3: *** Il momento giusto ***
Capitolo 4: *** La gioia ***
Capitolo 5: *** La paura ***
Capitolo 6: *** I ricordi ***



Capitolo 1
*** La prima uscita ***


Yessss! Finalmente!
Cari lettori, è assolutamente inutile che leggiate questa ff se non conoscete Una brezza lieve. Inutile. Perché questa one-shot e quelle che verranno dopo sono missing moments tratti da quella long, sono piene di richiami e spoilers e forse non capireste nemmeno di cosa diavolo parlo. Quindi, se non avete letto la ff sopra linkata, potete o ignorarmi o andare a leggervela.

Ai lettori che, invece, CONOSCONO la mia long: bentrovati! Mi siete mancati tantissimo!
Non vedevo l'ora di iniziare a pubblicare i tanto attesi MM, ma un lieve blocco di ispirazione e gli impegni dovuti ad altro mi hanno tenuta lontana da questi personaggi più di quanto pensassi. Mi spiace.
Come al solito un enorme grazie a quella santa di Agne, che sopporta TUTTE le mie lamentele e i miei piagnistei senza (quasi) fare una piega e mi incoraggia sempre. Scusami, tesoro, prometto che non sarò più così piagosa ^^'
Ed ora, finalmente, eccovi qui il primo dei momenti mancanti della serie. Spero sia di vostro gradimento.
Un bacio a tutti voi!
Fera


(PS: nella storia c'è un richiamo - ahimè - autobiografico. Non vi dico quale per non annoiarvi, ma sappiate che c'è.)










#1: La prima uscita


I primi giorni successivi a quel Capodanno furono giorni di assestamento. In genere, una volta usciti dal Ministero, Percy e Audrey erano troppo presi dalla strana euforia che segue immediatamente all’infatuazione per poter fare qualcosa di diverso dall’abbracciarsi, baciarsi e… Beh, lo sapete. […]
Comunque, il periodo di assestamento durò circa una settimana. Dopo, iniziarono ad andare anche a cena fuori insieme.
("Una brezza lieve", capitolo 15)
 
 
 
 
 
 
 
 
Inutile illudersi.
Non sarebbe mai arrivato prima delle sei in punto. Mai. Nemmeno se il Ministero fosse andato a fuoco, quello lì si sarebbe permesso di uscire dieci minuti prima.
E ormai dovresti saperlo bene, visto che vi siete ronzati attorno per mesi e che adesso uscite insieme da una settimana.
Uff.
Ma che ore sono?
Audrey sollevò di poco la testa e guardò la sveglia vicino al comodino: sei meno cinque minuti.
Diamine!
 
Percy Weasley staccava sempre dal lavoro alle sei esatte. E quando si dice esatte si intende esatte: non un minuto in meno, non un minuto in più – a meno che non dovesse fare degli straordinari.
Oh, già, gli straordinari. Sarà fantastico quando ricomincerà con questa storia degli straordinari. Già.
A parte questa eventualità, Percy usciva sempre alle sei. Non sei e due, sei meno tre… Sei. Numero tondo. Non importava cosa avesse da fare dopo, non importava se ad aspettarlo c’era la ragazza che aveva – a fatica e con un “piccolo” aiuto da parte dei parenti di lei – riconquistato solo una settimana prima e con cui aveva condiviso momenti particolarmente intensi in quei giorni.
No. Nemmeno per lei Percy riusciva a fare un’eccezione: non sarebbe uscito qualche minuto prima per andare a trovarla. Da parte sua Audrey non osava nemmeno chiedergli una cosa del genere: temeva che la sola idea di venir meno alla sua severa etica professionale potesse farlo collassare.
Ed è meglio di no. Non so bene perché, ma sento di preferirlo vivo e sano.
Così, da una settimana a quella parte, Audrey aspettava ogni giorno che si facessero le sei postmeridiane per potersi incontrare con… quello che non sapeva bene come definire.
Capo? Amico? Amante? Ragazzo? Tizio-con-cui-faccio-cose-che-se-le-sentisse-mamma-mi-rinchiuderebbe?
… ma quando arriva?
Sdraiata sulla sua parte di letto, Audrey emise un ennesimo, sonoro sbuffo, dopodiché osservò per la quarantottesima volta la sveglia.
Sei meno due minuti.
Uffa.
Diamine, com’era irritante tutto ciò! Stare con il responsabile del suo dipartimento si stava rivelando più logorante del previsto: anzitutto, in ufficio dovevano comportarsi “come se niente fosse”, per evitare chiacchiere e richiami; per lo stesso motivo lei non aveva potuto raccontare nulla al suo collega e amico, Adams (ma quello avrà già capito tutto, figuriamoci); inoltre, guai a entrare o uscire insieme dal Ministero: assolutamente no! La giornata lavorativa di Audrey iniziava alle otto e terminava alle sedici, quella di Percy finiva due ore dopo… ma ovviamente lei non poteva aspettarlo nell’Atrium, no! Doveva tornarsene a casa e attenderlo lì da sola, con  un batticuore tale da non riuscire nemmeno a concentrarsi su un libro o guardare la televisione.
Ecco, ti pareva. Sia stramaledetta la vena romantica di mamma. Sembro una scema, sembro!
Beh, magari scema non era, però… presa sì. Potrà sembrare strano a chiunque – persino a lei sembrava strano – ma la realtà era questa: Audrey era completamente presa da Percy.
Bene. Sto impazzendo, è ufficiale.
… quando arriva?!
Quarantanovesima occhiata alla sveglia: sei meno un minuto.
Diamine!
 
Che poi non era tanto una questione fisica, quanto mentale: sì, è vero che fino a quel momento avevano fatto ben poco oltre ai baci e a tutto il resto, ma è innegabile che Audrey, già da prima, fosse interessata più che altro al “contenuto” di quel tipo strano con cui ora si frequentava; e adesso che quel contenuto le si rivelava sempre di più, la ragazza si sentiva ancora più curiosa, ancora più coinvolta, ancora più… presa.
Per questo, e solo per questo, non le importava della finta indifferenza di Percy al Ministero, delle rare occhiate che le lanciava solo quando era sicuro che nessuno lo notasse e di quel modo di incontrarsi che ormai non adottavano più nemmeno gli amanti clandestini; la infastidiva, ovvio, ma poteva sopportarlo, perché quello che le importava era che dopo sarebbe in ogni caso stata con Percy.
No, non sto impazzendo: sono già impazzita del tutto.
… che ore sono?!
Cinquantesima occhiata alla sveglia in due ore: le sei in punto.
 
Forse era vero che Audrey, in qualche modo, stava diventando pazza, perché prese a contare anche i secondi.
Sei e cinque secondi, sei e otto, sei e nove… Sei e quindici secondi… Sei e un minuto!
È in ritardo! È in ritardo! È in….
Un sonoro crack! annunciò l’arrivo di Percy, il quale, per prima cosa, si scusò del ritardo.
– Mi dispiace, mi dispiace tanto… – balbettò subito, mortificato. – Lo so che sono le sei passate, ma c’è stata confusione, Cresswell ha fatto un…
Audrey non seppe mai cosa aveva combinato Cresswell, perché ebbe l’ottima idea di fiondarsi giù dal letto e interrompere Percy, tirandolo verso di sé e baciandolo. Come al solito lui rimase interdetto per un breve istante, poi rispose con calma al bacio chinandosi di più verso di lei. La circondò con le braccia e dopo un bel po’ si staccò.
– Hai tagliato i capelli… – mormorò, osservandola con attenzione.
Audrey sorrise e si passò una mano nella chioma, accorciata della metà rispetto al giorno prima. – Stamattina, per questo sono arrivata più tardi. Speravo te ne accorgessi.
– Certo che me ne sono accorto. – Iniziò ad accarezzarle i capelli, indugiando poi sulla fronte e sul viso. – Stai molto bene così, sei… più bella.
Diamine. Mi ha DAVVERO fatto un complimento?
Insolito, decisamente insolito. Perlomeno, in quella settimana non era mai capitato prima; e il bello era che Percy sembrava non essersi nemmeno accorto dello stupore che aveva causato nella ragazza: continuava ad accarezzarle la fronte con tenerezza, scansandole i ciuffi di capelli e guardandola negli occhi come se non l’avesse mai vista prima di allora.
Anomalo. Molto anomalo.
 
In una settimana che si frequentavano, i due ragazzi avevano fatto ben poco che non fosse venire subito al dunque, quando si incontravano dopo il lavoro. Un po’ perché il fatto di doversi ignorare al Ministero li frustrava parecchio, un po’ perché si erano accorti che c’erano un sacco di cose da scoprire l’uno nell’altra, ogni istante libero che passavano assieme lo impiegavano a recuperare quelle ore perdute, a trovare nuovi modi di conoscersi e a soddisfare quella sete che saliva dalla mattina quando si salutavano fino alle sei in punto del pomeriggio.
Per farla breve, era difficile che rimanessero ancora vestiti dopo cinque minuti.
Questa era stata la regola di quella settimana, una regola tacita che non aveva scontentato nessuno dei due, anzi; quella sera, invece, c’era qualcosa di diverso tra loro. Era come se fossero entrambi già sazi, come se non esistesse altro da fare che scambiarsi carezze languide in silenzio, guardandosi soltanto. Erano insieme, senza che nessuno li osservasse o potesse giudicarli, ed era… bello.
Anomalo. Ma estremamente piacevole.
 
Fu Audrey la prima a scendere dalle nuvole, perché Percy invece sembrava determinato a rimanerci; la ragazza sorrise e abbassò lo sguardo, concentrata su un’idea che le era venuta all’improvviso.
– Che c’è? – chiese Percy, aggrottando le sopracciglia.
– Stavo pensando… hai dei vestiti Babbani a casa, vero?
– Certo, perché?
– Va’ a cambiarti, capo. Ti porto fuori a cena.
 
 
In seguito, Percy si sarebbe chiesto perché Audrey avesse dovuto scegliere proprio un locale Babbano. Insomma, non c’erano luoghi magici che fossero di suo gradimento? A Londra, per esempio, c’era il Paiolo Magico, e… e…
– … e basta, Percy. In tutta la città esiste un solo pub magico.
– Beh, allora perché non andiamo lì?
– Perché i locali Babbani sono migliori; e poi, stare in mezzo ai maghi non significherebbe dover di nuovo fingere di ignorarci?
Quell’osservazione era inattaccabile, e Percy dovette arrendersi. – Va bene, – disse allora, – però… Non capisco, perché non possiamo Materializzarci?
– Perché questo è più divertente! – rispose Audrey prima di mettersi a ridere. – Scommetto che non hai mai preso la metro, vero?
No, Percy non l’aveva mai presa, ma era certo di poter vivere tranquillamente senza quella esperienza. Questa convinzione si consolidò quando il ragazzo vide il trabiccolo dall’aria malferma su cui, secondo Audrey, sarebbero dovuti salire.
Ma anche no.
– Peccato, l’abbiamo persa di poco… – sbuffò Audrey. – Ci toccherà prendere la prossima.
Si voltò verso Percy; interpretando male la sua espressione, iniziò a spiegargli come funzionava la metropolitana e cosa avrebbe dovuto fare una volta salito nel vagone. Istruzioni che il ragazzo non ascoltò, concentrato com’era a stringere la mano destra di Audrey con la sua sinistra come se ne andasse della propria vita.
A livello inconscio temeva che, mollando anche di poco la presa, si sarebbe perso in quella bolgia caotica e affollata senza possibilità di tornare indietro; non gli piaceva stare in mezzo a tanta gente, non gli era mai piaciuto, e la sola cosa che rendesse un po’ meno intollerabile quel momento era la mano tranquilla di Audrey che lo teneva ancorato lì.
Mano che, quindi, doveva tenere stretta il più possibile.
– Hai capito?
– Sì – rispose Percy meccanicamente. Poi si riscosse. – Ehm, come, scusa?
Audrey aprì la bocca, ma fu fermata dall’arrivo di una vettura dall’aspetto ancora più scalcagnato della precedente. – Bene, tocca a noi. Pronto?
Senza avere tempo di ribattere, Percy fu trascinato a bordo dalla ragazza. In meno di un secondo venne circondato dai Babbani e non seppe fare altro che guardarsi attorno, spaesato e confuso.
– Niente panico, capo, – gli sussurrò Audrey, anche lei schiacciata tra le persone che entravano e quelle che uscivano. Qualche istante dopo, finalmente, si fece un po’ di spazio attorno a loro, e Audrey consigliò a Percy di aggrapparsi alla maniglia sopra la sua testa.
Quale maniglia? Quella?

… che schifo! Chissà quanti l’hanno toccata prima di me! Dovrò lavarmi le mani due volte, questo è certo.
In risposta all’invito lanciò un’occhiata piuttosto eloquente a Audrey, che roteò gli occhi e sbuffò.
– Dai, Perce, rischi di cadere se non lo fai!
– Cadere?! – esclamò, e riuscì a contenere il volume della voce giusto per non spaventare i Babbani attorno. – Come, cadere? Si cade, da questo coso?
– Fai come ti dico, fidati! E datti una mossa, stiamo per partire.
Mentre le porte si chiudevano, Percy fissò di nuovo la maniglia e deglutì.
Tre volte. Me le laverò tre volte.
L’afferrò giusto in tempo per restare in equilibrio mentre, con un gran scossone, la vettura partiva di gran carriera.
 
Chissà come facevano quei Babbani a starsene così calmi mentre venivano sballottati dal movimento della metro; Percy si ritrovò ad osservare le persone attorno a sé in cerca di un minimo segno di inquietudine che gli facesse capire di non essere l’unico ad avere paura di quel coso. Ricerca vana: tutti sembravano indifferenti a quell’ondeggiare continuo, alcuni anzi apparivano molto rilassati; c’era chi leggeva, chi chiacchierava col vicino, e altri ancora che…
Percy distolse subito lo sguardo, arrossendo come se fosse stato sorpreso a spiare l’intimità di qualcuno; seduti su un unico sedile, due ragazzini di non più di sedici anni si scambiavano effusioni con una tranquillità sconvolgente, come se fossero da soli. Nulla di osceno, ovvio, ma Percy pensò che fosse quantomeno strano che non provassero nemmeno un po’ di vergogna… con così tanta gente attorno, poi!
– Tutto bene?
Aggrappata a un palo lì vicino, Audrey gli sorrideva incoraggiante; Percy riuscì con gran sforzo a fare una smorfia, ma prima che potesse rispondere la metro si fermò.
Finalmente!
Sospirò sollevato, preparandosi a tornare sulla terraferma, ma Audrey dissolse la sua illusione. – Ancora no, Percy, rimani dove sei.
Il ragazzo obbedì, e mantenne la posizione anche quando tanti Babbani invasero la vettura e lo spinsero da ogni lato, facendolo infine ritrovare pigiato contro Audrey.
– Tutto bene? – chiese lei di nuovo, mentre la metro ripartiva.
– Starò meglio quando scenderemo… – borbottò Percy. Ormai il fastidio che provava era evidente.
Perché, perché non si erano Materializzati? Perché Audrey aveva dovuto a tutti i costi trascinarlo in quel coso affollato come il più stretto degli ascensori del Ministero nell’ora di punta? Lo odiava già così tanto?!
– Coraggio, resisti, – disse Audrey, – mancano solo sei fermate. Nel frattempo che ne dici se…
Sorrise ancora, e prima che Percy potesse dire qualcosa gli si avvicinò di più e iniziò a baciarlo, proprio come i due adolescenti di prima, senza badare alla gente che li circondava.
Subito Percy avvampò e si staccò, guardandosi poi attorno con aria colpevole. Si aspettava, come minimo, di ritrovarsi quaranta paia di occhi addosso; rimase perciò stupito quando si rese conto che nessuno stava badando a ciò che lui e la ragazza facevano.
Ma…
… possibile che questi Babbani non abbiano il senso della decenza?
Audrey notò la sua espressione, capì quello che pensava e sbuffò per il divertimento. – Percy… – disse a bassa voce. – Non c’è niente di cui preoccuparsi. Qui non siamo in mezzo a… quelli come noi; per… loro è normale fare queste cose in pubblico, nessuno ci fa caso. Capisci?
Percy annuì, ma non accennò a diventare meno rosso in viso. Audrey si morse un labbro e tornò seria.
– Certo, se per te è comunque un problema, va bene… non preoccuparti, lo capisco.
Girò la testa e guardò altrove, un po’ delusa; ma la delusione durò solo una manciata di secondi, il tempo che ci impiegò Percy a dire, a voce bassissima e arrossendo ancora di più, che no, non era un problema.
Fu così che Percy imparò che viaggiare coi mezzi Babbani comportava almeno un grande vantaggio: poter usare il tempo che occorreva fino all’arrivo per lasciarsi baciare in tutta libertà da Audrey.
E ditemi se non è un vantaggio questo.
 
Dopo quelle sei fermate dovettero scendere, cambiare vettura, aspettare altre quattro-cinque fermate e poi scendere di nuovo. Audrey sembrava perfettamente a suo agio in quel posto, sapeva come orientarsi e un paio di volte si fermò addirittura a salutare dei Babbani suoi coetanei, che – spiegò poi a Percy – non erano altro che suoi amici o conoscenti.
Da parte sua, il ragazzo badava solo a non lasciare la mano di Audrey e a non perderla d’occhio, anche se si sentiva molto meno preoccupato di prima.
– Okay, dovremmo esserci… sì, di qua.
Con uno strattone Audrey condusse Percy fuori da lì. L’improvvisa ventata d’aria fredda li fece rabbrividire, ma per lui fu anche un toccasana: l’atmosfera viziata della metro aveva iniziato a fargli girare la testa.
Respirò a fondo, grato per la prima volta in vita sua di sentire freddo. Era così contento di essere finalmente fuori che quasi non si accorse di essere trascinato verso un piccolo pub poco distante.
– Speriamo ci sia ancora posto… sì!
Audrey spinse la porta e fece strada a Percy nel locale; non era molto grande, ma c’era una buona atmosfera, nonostante si sentisse la completa assenza di magia lì dentro. La ragazza sembrava comunque a suo agio, perché salutò di nuovo un paio di Babbani e si diresse subito verso un tavolino come se fosse una cliente abituale.
Cosa che, in effetti, era.
– Venivo sempre qui, l’estate, quando uscivo con i miei compagni di classe – spiegò Audrey non appena lei e Percy si furono seduti. – Sai, alcuni erano nati da famiglie Babbane, quindi amavano questo genere di locali. Poi ho perso di vista i compagni ma ho mantenuto il posto – concluse con un sorriso. Sembrava davvero contenta di essere lì, come se quel luogo avesse qualcosa di speciale; Percy si guardò attorno, cercando di capire cosa fosse questo qualcosa: tutto ciò che vide, però, fu un ambiente non troppo dissimile dal caffè di Marcus, anche se decisamente più chiassoso e meno magico.
– È… particolare – osservò, usando il più diplomatico degli aggettivi che gli erano venuti in mente.
Audrey sembrò soddisfatta di quello scarno commento; sorrise di nuovo, poi lasciò vagare lo sguardo sulla sala. Era felice di trovarsi lì, in uno dei suoi locali preferiti, assieme a Percy. Certo, questi poteva mostrare un po’ più di entusiasmo, ma in fondo lo capiva; non era vissuto in mezzo ai Babbani come aveva fatto lei – soprattutto, non aveva mai passato molto tempo nella Londra Babbana – quindi era del tutto normale che si sentisse spaesato o a disagio.
Probabilmente anche lei avrebbe provato le stesse sensazioni, se non avesse avuto due nonni adottivi non-maghi e una madre con la passione per i quartieri Babbani della sua città. Quindi sì, lo capiva.
Un po’. Poco. A fatica.
 
 
Quello che accadde dopo potrebbe sembrare strano, se si considera che questi due ragazzi avevano già portato la loro relazione ad un livello in cui servono un’intesa e una confidenza particolare per poter andare d’accordo: nonostante ciò, e nonostante di solito non provassero alcun tipo di imbarazzo l’uno nei confronti dell’altra, dopo un breve scambio di battute si ritrovarono muti, senza sapere assolutamente cosa dire.
Una situazione del genere sarebbe comprensibile per un primo appuntamento, o tra due persone che non si conoscono bene, ma… sembra inspiegabile per due ragazzi che lavorano insieme, si conoscono da quasi quattro mesi, sono usciti insieme almeno un paio di volte e stanno insieme da una settimana.
Perché due persone così dovrebbero rimanersene in silenzio, a disagio, durante una cena insieme?
Bella domanda. Che cavolo ti prende, Perce? Non dirmi che ti aspetti che sia lei a parlare per prima! Sei tu l’uomo, quindi pensa a qualcosa da dire e non fare l’idiota.
Ci pensò. Percy concentrò tutte le proprie facoltà intellettive nello sforzo di produrre una frase con cui rompere il ghiaccio; da parte sua Audrey non lo aiutava minimamente. Nonostante fosse lei la parte spigliata della coppia, in quel momento sembrava preda dello stesso imbarazzo che invadeva il suo compagno, e lo esternava tenendo le braccia incrociate e appoggiate sul tavolo e guardandosi attorno senza fissare gli occhi su nulla.
– Menu, ragazzi?
Entrambi sobbalzarono quando la cameriera si rivolse loro; la prima a riprendersi fu Audrey, che ringraziò e prese in mano i menu.
Poi, di nuovo silenzio.
 
Che poi, per quanto lo riguardava, Percy amava il silenzio. Da morire. Amava lasciar riposare le orecchie e non essere costretto ad ascoltare le chiacchiere vane di nessuno. (C’è da aggiungere che era abituato a non considerare mai vane le proprie chiacchiere, ma beh, questo è un discorso a parte.)
In condizioni normali, quindi, avrebbe forse sopportato quella mancanza di conversazione senza il minimo sforzo e con un certo piacere; se fosse stato fuori a cena con chiunque non fosse Audrey si sarebbe semplicemente rilassato, avrebbe mangiato e atteso senza problemi che un qualunque (noioso) argomento di conversazione gli venisse in mente prima o poi.
Il problema era che si trovava a cena con Audrey. Il che rendeva quella situazione del tutto diversa.
Audrey era la ragazza che conosceva da quattro mesi, che gli piaceva da tre e con cui si frequentava in maniera regolare da una settimana: naturale che desiderasse fare bella figura con lei, o almeno non passare da scemo.
Cosa che invece stai facendo benissimo, a quanto pare.
Rimanersene lì impalato senza spiccicare una parola, in effetti, era un comportamento un po’ sciocco, proprio inadatto al tipo di persona che desiderava mostrare di essere; eppure, più cercava di vincere se stesso e quell’incomprendibile ansia che gli era salita, meno ci riusciva. La cosa peggiore era che, in genere, questo non accadeva. Con Audrey riusciva ad essere spontaneo senza alcuno sforzo, era sempre… facile stare con lei.
Sempre, tranne in quel momento.
Così, alla fine, decise che era meglio nascondersi dietro il menu e fare finta di niente, aspettando che accadesse qualcosa.
Nel frattempo, Audrey si stava dando a sua volta della sciocca. Non capiva nemmeno lei cosa diamine fosse quel disagio inaspettato, né perché fosse così forte da legarle la lingua.
Sapeva perfettamente che Percy non era tipo da prendere iniziative di nessun tipo; il fatto che una volta le avesse per sbaglio offerto un caffè e che la volta successiva fosse riuscito ad invitarla al ballo all’ultimo secondo erano eventi irripetibili e straordinari, e Audrey se ne era resa conto dal primo istante.
No, per quel genere di cose Percy aveva bisogno di spinte e incoraggiamenti; di suo, non sarebbe mai stato in grado di fare un primo passo. Non l’aveva fatto nemmeno la notte di Natale: Audrey ricordava con un vago imbarazzo – misto a soddisfazione – il modo in cui lei aveva dovuto insistere perché Percy la riaccompagnasse a casa, con tutto ciò che questo avrebbe comportato. Fosse stato per lui la serata sarebbe terminata con un bacio, e basta.
Un po’ poco, insomma. Voglio dire, lui mi piace da mesi… cos’avrei dovuto aspettare, un matrimonio?
Insomma, di sicuro Percy non si sarebbe incaricato spontaneamente di iniziare una conversazione in quel momento, e Audrey lo sapeva. Di conseguenza, doveva farlo lei.
Sì, ma come? Gli chiedo di parlarmi di qualcosa? E di cosa? Della famiglia è meglio di no, a quanto ho capito. Della scuola? E se non vuole?
Del lavoro NO, non intendo parlare di lavoro mentre mangio. Dunque?
… oh diamine. Non posso crederci. È la prima volta in vita mia che non so cosa dire.
 
Finalmente, dopo qualche minuto, la cameriera tornò a prendere le ordinazioni. Con un certo sollievo Audrey rispose subito, poi guardò Percy. – Tu cosa prendi?
Ecco. Bella domanda. Per tutti quei minuti Percy era rimasto a guardare le scritte sul menu senza leggerle davvero, un po’ perché concentrato a cercare un modo per uscire dall’impasse, un po’ perché un pensiero lo tormentava: erano in un locale Babbano, ma lui ovviamente aveva solo soldi magici. Come diamine avrebbe pagato?
Sperava di avere un po’ più tempo per pensarci, ma a quanto pareva la cameriera aveva una certa fretta di allontanarsi. Percy arrossì e rispose a Audrey: – Ehm… quello che prendi tu.
– Oh. Va bene.
La cameriera segnò tutto e si allontanò, lasciando i due a fissarsi con espressioni vacue, privi della difesa del menu.
Cavolo. E ora?
Nervosa, Audrey iniziò a mordersi l’interno di una guancia. Quel gesto risvegliò qualcosa in Percy, che finalmente ebbe un’intuizione.
– Ehm…
Sì? – fece subito lei, sorridendo speranzosa.
– Ehm… hai visto che bello?
– … che cosa?
– Il meteo. Insomma. Finalmente non piove più.
Il tempo. Stava parlando del tempo, da bravo inglese qual era. Audrey sgranò gli occhi, indecisa se rispondere o scoppiare a ridere. Da parte sua, Percy sembrava essersi reso conto dell’infelicità di quell’idea, perché era arrossito e aveva chinato il capo, iniziando a giocherellare con la forchetta.
Alla fine Audrey decise di ridere.
 
Inizialmente rise piano, perché non voleva offendere i sentimenti di Percy; poi però la voglia di sghignazzare si fece incontenibile, e allora aumentò il volume. Rise rischiando di capovolgersi sulla sedia, rise tenendosi la pancia, perché finalmente si era resa conto di quanto assurda fosse quella situazione.
Era assurda. Avevano entrambi vent’anni suonati, avevano fatto l’amore almeno una decina di volte in quei giorni, e si comportavano come due tredicenni al primo appuntamento da Madama Piediburro. Erano ridicoli, tutti e tre: lei, lui e la situazione in cui si trovavano.
Per questo Audrey rise, rise e rise come una pazza, finché non decise che forse era il caso di smetterla. Soffocando gli ultimi singulti tornò a guardare Percy, e si calmò del tutto: il ragazzo aveva l’espressione mesta di chi sa che non potrà mai rimediare all’umiliazione che sta subendo.
– Sai – disse lei – che cosa penso?
Percy scosse il capo.
– Che quando due persone parlano del tempo significa che non hanno più nulla da dirsi. Secondo te, la nostra relazione è già a questo punto?
Fu allora che nella testa di Percy scattò lo stesso meccanismo, la stessa comprensione di quanto tutto quel frangente fosse surreale. Surreale e decisamente stupido.
Guardò Audrey negli occhi e sorrise.
– No, non credo – disse.
E subito dopo: – Oggi ho pensato a te tutto il giorno.
Quella frase, pronunciata per un motivo non del tutto chiaro allo stesso Percy, fece quasi prendere un infarto a Audrey. Perché sì, va bene cercare un modo per rompere il ghiaccio, ma quello andava ben oltre.
Diamine. È meraviglioso.
La ragazza fece un largo sorriso. – Anch’io ho pensato a te.
Percy rispose con un sorriso identico.
Da quel momento, la conversazione andò avanti senza alcun intoppo. Altro che ghiaccio.
 
 
 
Alla fin fine, cenare in un locale Babbano non era stato male come temeva, anzi. Per fortuna, comunque, che Audrey aveva sterline sufficienti per pagare per entrambi.
– Te le renderò il prima possibile, promesso – ripeté Percy per la decima volta, quando furono davanti alla porta della casa di Audrey.
– Segnamele in busta paga, così facciamo prima – rise lei. – Scherzi a parte, spero che tu ti sia trovato bene.
– Benissimo, direi. A parte il fatto che non sapevo cosa stessi mangiando.
– Colpa tua, avresti dovuto leggere il menu invece di dare retta a me!
Percy rise. Aveva riso moltissimo quella sera, più di quanto non avesse fatto in due anni. Non capiva proprio perché fosse stato teso e imbarazzato a inizio serata: stare con Audrey era così semplice, così normale.
Avrebbe dovuto conoscerla anni prima, maledizione. O forse no, forse era meglio così; magari prima non sarebbe stato pronto per una come lei.
Si riscosse da quei pensieri quando sentì le labbra di Audrey sulle proprie. Anche quello era semplice; in tutti quei giorni non si era mai reso pienamente conto di quanto ogni gesto tenero, con lei, sorgesse spontaneo. Valeva la pena di approfondire anche quell’aspetto della loro relazione, decisamente.
– Beh… – disse, dopo essersi staccato a malincuore da lei. – Credo sia meglio che io vada.
Inaspettatamente Audrey annuì, sorridendo. – Va bene. Ci vediamo domattina.
– Cerca di arrivare puntuale, per favore.
– Farò il possibile.
Un altro sorriso, poi Percy rimase davanti al portone finché Audrey non fu sparita dietro di esso.
Invece di Smaterializzarsi subito, si voltò e si incamminò senza fretta. Non aveva alcuna premura di tornarsene a casa, voleva semplicemente godersi la sensazione di aver passato una bella serata; si sentiva tranquillo, sereno, quasi felice. E – stranamente – non sentiva nemmeno il bisogno di rimanere con Audrey: andava già bene così.
Sì, beh, insomma, è ovvio che passare la notte da lei sarebbe stato perfetto; però ecco, posso farne a meno. Sono pur sempre un gentiluomo, insomma.
Assorto com’era non sentì che, a pochi passi da lui, il portone si stava riaprendo.
– Senti…
Con un sobbalzo si voltò. Audrey era ricomparsa sulla soglia, un po’ titubante.
– Pensavo che… insomma, non è che ti andrebbe…
… oh, beh. Un gentiluomo non scontenta mai una signora.
Sorridendo sotto i baffi, Percy ripercorse senza fretta la strada verso Audrey.




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Capitolo 2
*** Il primo bacio ***


Anzitutto: sappiate che mi vergogno di aver scritto ciò. Sì, lo so che non c'è nulla di male, che in giro si trova roba che va molto oltre tutto ciò... ma io mi vergogno lo stesso. Oh.
Se ho pubblicato questo missing moment è stato solo su incoraggiamento (= spintone) di Lau, alla quale quindi vanno indirizzate eventuali critiche/insulti/commenti acidi e derisori.
(Sei sempre un tesoro, mia adorata.)
Sempre a Lau dedico questo mm, perché se lo merita e perché ha scritto questa meraviglia qui che voi, ora, DOVRETE leggere. ORA.

Come ho già detto nello scorso capitolo, è inutile leggere questa ff senza conoscere "Una brezza lieve". Ma l'ho già detto, quindi non starò a sprecar fiato.

Il capitolo si colloca ben prima del precedente, come vi indica già il titolo. Come al solito, sentitevi libere di indirizzarmi critiche, commenti etc. nella maniera che preferite, oppure ignoratemi e basta. Agne non ha trovato errori, quindi mi fido di lei <3

Buona lettura.
(E speriamo di sopravvivere all'imbarazzo.)










 

 

#2: Il primo bacio


Gli uomini come il capo si sentono come se fossero in una vetrina.
Aveva voglia di aprire quella maledetta vetrina. Al diavolo tutto, ecco.
E se non hai la chiave, rompila.

Senza una parola, e con grande sorpresa di entrambi, Audrey baciò Percy.
La musica dentro cessò, la pioggia non smise di cadere.

("Una brezza lieve" capitolo 10)















 

Ci incastriamo alla perfezione.
Fu quello il suo primissimo pensiero, quando Percy la baciò – o forse era stata lei a baciare lui? Non era chiaro. Fatto stava che si incastravano alla perfezione. Lo spazio tra le braccia di Percy sembrava fatto su misura per il suo corpo e anche l’altezza di lui non pareva poi così eccessiva, visto che era riuscito lo stesso ad annullare senza alcuna difficoltà la distanza tra i loro visi.
Si incastravano alla perfezione. Nel momento in cui si abbracciarono non rimasero spazi vuoti: ogni spigolo si adattava alle cavità dell’altro, le forme di lei compensavano la magrezza di Percy in una maniera così naturale da sembrare voluta, studiata con una precisione quasi maniacale. Era tutto un gioco di incastri, di equilibri, che richiedeva anche un certo sforzo – ma alla fin fine valeva la pena di starsene in punta di piedi per baciare quel viso, quel collo, quelle labbra che sembravano, erano fatti apposta per lei.
Le mani di lui le percorrevano la schiena, scendendo dalle spalle e fermandosi sui fianchi, e a tratti la stringevano di più contro il suo corpo come se ci fosse ancora spazio da riempire, tra loro. Come se non combaciassero già completamente.
Ci incastriamo alla perfezione, pensò per tutto il tempo che durò quel lungo bacio.
 
Percy non pensava a niente. Il suo cervello riceveva già così tante informazioni che era inutile sovraccaricarlo: il profumo di Audrey e le sensazioni tattili che tutto il suo corpo gli trasmetteva erano più che sufficienti a saturarlo.
Non aveva mai – mai – osato pensare a come sarebbe stato toccare Audrey, annusarla da vicino, sentirla sopra e tra le labbra; sapeva che se l’avesse fatto si sarebbe sentito mortalmente in imbarazzo, rivedendola al Ministero. In quel momento fu felice di non essersi fatto alcuna aspettativa circa quell’insperato bacio: nessuna sua fantasia avrebbe potuto eguagliare quell’insieme di sensazioni.
Audrey aveva le labbra morbide, un po’ screpolate, e la sua lingua sembrava timida, indecisa sul da farsi. La pelle della guancia era liscia, leggera, pensò, così come quella del collo – anzi, no, non erano nemmeno paragonabili, erano due sensazioni totalmente diverse.
Si accorse che si era messa in punta di piedi, così le venne incontro chinandosi di più su di lei e posandole le mani sulla schiena. Subito gli venne voglia di accarezzarla, di sentire com’era, e ubbidì a quell’istinto senza pensarci due volte.
Le passò le mani sulla schiena, piano, e lei si lasciò sfuggire un piccolo sospiro. Questo lo incitò a continuare, a scendere finché non incontrò la curva morbida dei fianchi, la linea oltre la quale – gli disse ciò che restava della sua parte razionale – non doveva andare.
Non quella sera. Quella sera si sarebbe accontentato del suo sapore, e più tardi avrebbe sognato la sua schiena – nuda, priva della stoffa che la ricopriva e che creava un piacevole attrito tra le mani, ma che costituiva innegabilmente un intralcio di cui avrebbe desiderato molto liberarsi all’istante.
L’avrebbe sognata, ancora e ancora, senza sentirsi in colpa, finché non fosse giunto il momento giusto.
 
Sentì che Audrey stava staccando le labbra da lui, e gli venne voglia di morderle per farle rimanere lì dove si trovavano – sulla sua bocca, com’era giusto che fosse. Si trattenne a malapena dal farlo, frenato dal rimasuglio di imbarazzo che ancora sentiva di possedere; riprese fiato e aprì gli occhi, incontrando lo sguardo di lei.
– Senti… – sussurrò Audrey.
– Sì?
Non rispose subito. Prima si mordicchiò il labbro inferiore con aria pensosa – e a quel gesto Percy non si trattenne più: si chinò e iniziò a morderla in quello stesso punto, con delicatezza, strappandole un altro sospiro di piacere così esplicito che gli diede un brivido.
– Vuoi… ti va di… accompagnarmi a casa? – chiese Audrey in un soffio, non appena quel secondo lungo bacio ebbe termine.
 
Sulle prime Percy credette di averlo solo immaginato. Non era il tipo di frase che un uomo si aspetterebbe di sentire dopo il primo appuntamento; soprattutto, non era il tipo di frase che lui si aspettava di sentire da Audrey. Decisamente no.
Restò qualche secondo senza parlare, incerto e confuso. Audrey, da parte sua, sembrava non avere alcuna fretta di sentire la risposta: lo osservava in silenzio, gli occhi più scuri del solito – o così sembrava alla fioca luce del lampione che illuminava l’ingresso del Ministero.
– Io… – riuscì a dire Percy, dopo qualche secondo. – Io… ecco… non credo sia il caso.
La risposta era piuttosto neutra, dettata da quella parte di Percy che, anche in quel momento, non poteva fare a meno di sottolineargli quanto fosse eticamente scorretto venire subito al dunque con una ragazza che, alla fin fine, conosceva a malapena, e che oltretutto lavorava nel suo dipartimento. Vero era che con le altre due o tre donne che aveva frequentato non si era fatto questi scrupoli, ma… lei era diversa. Lei era Audrey.
E tutto voleva tranne che correre troppo con lei, rischiando di bruciare tutto insieme quella che poteva essere una bella storia.
Audrey incassò la risposta senza battere ciglio, ma un secondo dopo ricominciò a baciarlo, stavolta con minore timidezza. La mente di Percy si annebbiò per un istante, e tanto bastò a fargli dimenticare parte dei suoi scrupoli: cosa importava, in fondo, se era giusto o sbagliato? Per quale motivo non avrebbero dovuto fare l’amore dopo solo uno, anzi due appuntamenti? Solo loro potevano decidere in merito, solo loro ne avevano il diritto… e poi lui la voleva, la voleva tanto. Ad allungare la loro storia avrebbe pensato l’indomani.
– Sono il tuo capo, Audrey – mormorò, spaventato da quella idea improvvisa, ma lei non gli diede il tempo di preoccuparsi ulteriormente.
– Rinuncio a qualsiasi promozione, aumento o agevolazione tu voglia darmi in futuro – rispose. – Lo giuro. Non è per questo che lo faccio, e lo sai.
E un altro dei suoi scrupoli andò a farsi benedire. Era ovvio, Audrey non lo avrebbe mai fatto per la posizione, e lui d’altro canto non l’avrebbe comunque favorita per quello.
Era stupido anche solo pensarci.
Ormai non aveva più molti argomenti con cui poter giustificare un rifiuto; sempre più incerto, Percy affondò il viso nell’incavo tra la spalla e il collo di lei – aveva ragione, era una sensazione a parte, una sensazione di caldo e di casa, di sicurezza – e cercò un altro pretesto per negare a se stesso quello che non osava sperare di avere così presto.
– Non… – fece, sollevando appena la testa ma senza guardare la ragazza negli occhi. – Non ho preso la pozione…
– Non serve, prendo una pillola Babbana.
L’ultima possibile giustificazione svanì nel nulla. Non ne esistevano altre, e comunque la mente di Percy non sarebbe stata in grado di formularne.
– In questo caso, – mormorò Percy sul collo di Audrey, – credo di… non avere più scuse.
– Era ora – gli bisbigliò Audrey in un orecchio, sorridendo felice.







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Capitolo 3
*** Il momento giusto ***


Se ho detto che mi vergognavo del secondo missing moment, è perchè non avevo ancora scritto questo.
Ah-ha.
Breve introduzione: è una drabble, ed è stata scritta per il gioco che mi ha fatto scrivere anche queste drabble qua; non è quindi nata in modo indipendente.
Altre spiegazioni in fondo.

... sempre che ci arriviate.









#3: Il momento giusto








Stiamo correndo troppo.
Non pensava ad altro, nemmeno mentre l’odore di lei lo avvolgeva. Nemmeno mentre le sue mani gli sfilavano la veste e gli percorrevano il petto, nemmeno mentre la spogliava a sua volta e le baciava il collo, la pancia, i seni. Nemmeno mentre si sdraiava sul letto e la tirava a sé – perché sicuramente a una come lei piaceva stare sopra – riusciva a pensare ad altro.
E si sentì stupido.
Perché gli bastò sentire il peso e la bocca di Audrey su di sé, stringerla e tornare a baciarla fin dove riusciva ad arrivare per capire che no, non stavano affatto correndo. 
Era proprio il momento giusto
.




















Dovrei proprio smetterla di scrivere minchiate, comunque.
A-hem. Sì. E' imbarazzante, lo so; tanto che non volevo nemmeno pubblicarla.
Comunque.
La drabble è nata in base a un "pacchetto" dato a me e alle altre partecipanti alla folle "serata drabble" (di cui troverete la spiegazione nella raccolta che vi ho linkato più su) dalla cara Shnusschen: la richiesta era di scrivere una drabble sul proprio OTP avendo come prompt la musica La Noyée. Beh, il mio OTP è questo qui e direi che sarebbe anche ora di cambiarlo, mentre la musica mi ha ispirato un'idea di velocità, di fretta.
Ah, e la tematica della serata doveva essere qualcosa che riguardasse il sesso. Inizialmente si era detto p0rn, ma mi pare (SPERO) che ci sia ben poco di p0rnoso in tutto ciò.
Spero.

Colgo l'occasione per linkarvi - visto che tanto, ormai, la mia credibilità di autrice è andata - una storia di MedusaNoir in cui sono la sventurata protagonista.
Sì, IO, proprio IO. In accoppiata con un personaggio che, non finirò mai di dirlo, detesto. No, non lo amo, checché ne possiate dire voi e Med. LO DETESTO.
Oh.

... comunque, la storia è qui: Atterrerò sulle tue spine

Grazie di aver letto, e scusatemi per eventuali traumi.
Fera


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Capitolo 4
*** La gioia ***


Dedicato a Shnusschen, che ha chiesto espressamente questo missing moment; a Lau, che per prima ha pianto per esso e che ha comunque trovato le forze per regalarmi una nottata di sano e sfrenato cazzeggio; e ad Agne, che sa farmi le pulci come nessun altro al mondo e di cui, ormai, non posso più fare a meno.

Note in fondo.










#4: La gioia



Mani mostruose attorniarono Adams, che non riuscì a trattenere un gemito di terrore.
Percy assistette a quella scena come al rallentatore, incapace di pensare ad alcunché, impossibilitato a dire qualcosa, qualsiasi cosa. Era tutto così assurdo, così irreale, così impensabile…
Finché Adams non lo guardò di nuovo, un attimo prima di uscire. Lo guardò, e le sue labbra si mossero a malapena.
– Va bene così, tranquillo… Va bene così.
Poi la porta dell’aula si rischiuse dietro di lui.

("Una brezza lieve", capitolo 19)


– Sai… Audrey… – singhiozzò Percy, una volta che fu in grado di parlare ancora. – Lei… n-noi stiamo per avere un bambino.
Un altro lampo negli occhi di Adams, un lampo, stavolta, come di timida e remota gioia. – Sì?
– Sì. E… – Percy deglutì – Se… Se sarà maschio lo chiameremo Ernest.

("Una brezza lieve", capitolo 21)












18 settembre – prima
 

Lancia, non visto, un’ultima occhiata a Audrey prima di entrare nell’aula. Non va bene, per niente; se mantiene quell’atteggiamento passivo la faranno a pezzi con una sola parola, e non va bene. Oltretutto la ragazza ha qualcosa di strano, oltre alla normale e comprensibile paura; qualcosa che Adams non riesce a capire, che va ben oltre, che in ogni caso non la aiuterà di certo a superare quel momento.
Come non ti aiuterà il tuo fingere che vada tutto bene. A che ti serve? È inutile, non sei forte, non sei niente. Sei come lei. Sei fragile, sei polvere. Spezzeremo lei e poi spezzeremo te.
Si riscuote. Maledizione. Sta andando incontro a una condanna praticamente certa, e tutto ciò che riesce a fare è preoccuparsi per Audrey.
Sei uno stupido, lo sai? L’ultima persona a cui dovresti pensare è lei.
Lei almeno ha il capo. Lei starà bene. Lui si prenderà cura di lei.
Ma chi pensa a te?
Stringe i denti e si obbliga a tenere la testa alta. Chi pensa a lui? Nessuno. Non ha più nessuno, ormai; anche l’unica persona che avrebbe potuto preoccuparsi di lui se n’è andata, si è allontanata per paura.
E diceva di amarlo.
L’amore non basta, come vedi. L’amore non ti salverà, non salverà chi ti sta attorno. L’amore ti ha portato a questo, e noi ti faremo a pezzi.
Nessuno ti aiuterà.
Stringe i denti ed entra nell’aula. Vorrebbe evitare di pensarci, ma non ci riesce: non ha nessuno. Nessuno lo difenderà, nessuno deve difenderlo. Nessuno si alzerà in piedi, nessuno Garantirà per lui.
Oh, il capo di certo lo farebbe, se solo glielo permettesse. Lo aiuterebbe in ogni modo, poco ma sicuro; quel ragazzino ha molto più cuore di quanto ne dimostri.
Ma Adams non sacrificherebbe mai Audrey, mai, né costringerebbe mai Percy a farlo.
Prende posto davanti alla corte mentre le voci gli bisbigliano – urlano – per l’ennesima volta che non c’è nessuno che possa salvarlo.
Ha solo se stesso.
Spero che mi basti.
 
 
 



 
18 settembre – dopo
 

Lo sapeva che sarebbe finita così. Lo sapeva da quando aveva letto l’ordine di comparizione, lo sapeva forse da sempre, da quando aveva capito com’era davvero.
E allora perché è così difficile?
Probabilmente perché era stato impossibile prepararsi a quello.
A scuola, tutto ciò che insegnano dei Dissennatori è che provocano l’infelicità più totale, che il loro Bacio ruba l’anima e che possono essere respinti da un Patronus. Nessuno però ti parla mai di come siano le loro mani, di come il loro tocco ti ghiacci il sangue; nessuno sa dell’odore che emanano – odorano di lacrime, è mai possibile? Di lacrime e cimitero. Forse perché nessuno di quelli che hanno provato queste sensazioni è mai tornato indietro a raccontarlo.
A questo pensa Adams, mentre due paia di quelle mani lo attorniano, gli afferrano le spalle, le braccia. Ormai la commedia dell’uomo forte non serve più a nulla, è finita, è finita, lo capisci? Non puoi fare nulla, non hai mai potuto. Sei peggio che morto. Dispèrati, maledizione, ormai è finita.
E vorrebbe farlo. Vorrebbe mettersi a piangere lì, nel punto in cui si trova, davanti a quelle pallide imitazioni di esseri umani che l’hanno giudicato; e chi se ne frega se loro si beeranno delle sue lacrime, tanto ormai è finita.
È finita, è inutile. Marcirai ad Azkaban. Lo sapevi, lo hai sempre saputo. E ora è finita.
Nessuno ti ha aiutato.
Ma avrebbero voluto; Adams lo sa benissimo. Sa che Audrey, nonostante non abbia più forze, si è alzata in piedi e ha gridato non appena ha sentito la condanna. Sa che Percy ce l’ha sulla punta della lingua quella parola in sua difesa, quella che gli basterebbe per salvarlo.
Sì. Salvami, ti prego, puoi ancora farlo.
Può farlo; non è ancora uscito dall’aula, se chiede al capo di salvarlo lo farà, lui…
Ma quando si volta a guardare Percy, sente il cuore cedergli. Non può fargli questo, non può farlo a Audrey.
Sì che puoi. Chiediglielo. Salvati. L’amore ti ha portato a questo, è inutile crederci ancora.
Guarda Percy negli occhi: ha solo vent’anni ed è distrutto, è l’ombra di se stesso. E, nonostante tutto, ha un cuore.
Non può spezzarglielo.
– Va bene così, tranquillo… va bene così – è tutto ciò che esce dalle labbra di Adams.
Dopodiché, è davvero la fine.
 
 
 



 
Primo giorno
 

È il primo giorno ed è come se ne fossero passati mille.
Ma forse è davvero così. Chi può dirlo? Come si fa a sapere quando esattamente la tua vita è finita e quando è iniziato il nulla?
Adams non lo sa, non ci riesce. Gli dicono che quello è il suo primo giorno di prigionia, ma sarà vero? Possibile che quella stessa mattina si sia svegliato nel suo letto, si sia vestito e abbia camminato per strade che non vedrà mai più? Possibile che tutto ciò sia già così sbiadito, inafferrabile?
No. Di sicuro si sbagliano. Gli sembra di trovarsi in prigione da sempre, di esserci nato; non vede come possa esistere un mondo, una vita fuori da lì.
 
Buio, sempre. Anche quando c’è la luce. Azkaban è immersa in una continua penombra, abbastanza da impedirgli di dormire e conoscere qualche istante di oblio. Non esiste oblio: tutto ciò che Adams può fare è pensare, ancora e ancora.
E non è libero nemmeno nei pensieri. Da quanto non ne formula uno di sua spontanea volontà? Da quanto rivive gli stessi ricordi, ancora e ancora?
La morte di sua madre. Quella di suo padre. La prima volta che l’hanno chiamato “finocchio”. Non essere entrato nella squadra di Quidditch perché troppo gracile. I lividi sulle mani, quella volta che Gazza aveva deciso di punirlo a modo suo. Quell’amore finito troppo presto. La sua amica Audrey in pericolo di vita. Percy che non può fare altro che guardarlo e scusarsi in silenzio.
Non ha salutato nessuno dei suoi amici, nessuno della sua famiglia. È da solo, nessuno sa che si trova lì, nessuno lo cercherà.
Solo.
Da quanti anni è così solo? Da quanti anni non fa che sentire la solitudine esplodergli nel petto e nella testa?
Non riesce nemmeno più ad urlare, la voce è finita ore – giorni? – fa.
Se solo avessi ammazzato qualcuno. Adesso sarei qui, ma avrei qualche soddisfazione.
Quel pensiero – un pensiero suo, finalmente – lo fa quasi sorridere; ma è solo un istante, un soffio di brezza: passa un’ombra e glielo porta via.
E di nuovo sua madre, suo padre e tutto il resto… rivive tutto, ogni singolo momento infelice della sua vita. Affiorano persino le piccole delusioni, il rimorso per qualche bugia, il rimpianto per una parola sbagliata. Riaffiora tutto, e a far male è la consapevolezza che tutto ciò è vero, reale, che nulla è inventato: è la sua stessa vita ad ucciderlo, a fargli sanguinare il cuore.
Ogni minima azione che ha commesso. Ogni torto, ogni sbaglio.
Tutto.
È così da ore, da anni, da secoli; lo è sempre stato. Adams non sa più se sia esistito qualcosa, prima, né riesce a chiedersi cosa accada dopo.
Può solo rimanere intrappolato in quell’eterno presente, mentre la sua vita chiede il conto.
 
 
Adams non lo sa, ma è ad Azkaban da quattro ore. Ha già la divisa dei carcerati e un cubicolo stretto in cui può a malapena distendere le gambe; ha un numero sopra la cella, ha due Dissennatori che pattugliano il corridoio.
Ha le urla dei suoi compagni di prigionia, anche se non le sente. Ha tutta una vita da passare ad Azkaban.
Ed è il primo giorno, ma è come se ne fossero passati mille.
 
 




 
Un giorno qualsiasi

 
Ernest Adams non sa più nulla, non prova più nulla se non dolore. È così abituato a quella sensazione da non badarci nemmeno più – un po’ come quando urla, ormai lo fa senza rendersene conto.
Ha dimenticato molte cose della sua vita fuori; ad esempio, ha dimenticato che le porte cigolano quando si aprono e si richiudono. Ha dimenticato che le scarpe possono scricchiolare sul pavimento quando si cammina. Ha dimenticato anche che oltre al gelo – nelle ossa, nella pelle, nello stomaco – esiste il tepore. Ed è solo perché ha dimenticato tutto ciò che non si rende conto che qualcuno è entrato nella sua cella e che i Dissennatori se ne sono allontanati.
 
La prima cosa di cui prende coscienza, quando un barlume di lucidità torna ad affiorare, è la propria posizione nello spazio: ha la testa incassata tra le ginocchia e le braccia a proteggerla, a proteggersi.
Non ricorda come né quando si sia messo in quel modo, ma non è importante. Qualcos’altro richiama la sua attenzione: un tocco.
Un tocco leggero, delicato, ma sufficiente a farlo sobbalzare – perché ha dimenticato cosa sia il tocco di un altro essere umano.
Sobbalza e alza la testa, vigile eppure estremamente confuso: i suoi occhi vagano a lungo nella penombra prima di riuscire a soffermarsi sulla persona che gli sta davanti, accovacciata.
Lì per lì non lo riconosce; non riesce a capire chi sia, ma qualcosa glielo rende familiare. Le sue orecchie captano un suono, una frase.
– Adams, sono io, mi riconosci? Sono Percy Weasley.
Inutile, le parole cadono a vuoto; Adams continua a fissare davanti a sé per almeno un minuto, smarrito e incapace di sforzare la propria memoria; d’un tratto però succede qualcosa, la sua mente si snebbia e ricorda.
È il suo primo giorno di lavoro, sta camminando verso l’Archivio e intanto pensa a quanto sia buffo che un ragazzino con dieci anni meno di lui sia il suo…
– Capo…
Finalmente lo vede davvero: è come se avesse aperto gli occhi per la prima volta dopo mesi. Percy Weasley, lo strano ragazzino con un gran cuore e poca voglia di metterlo in mostra; nei suoi ricordi, però, non ha quell’aria spezzata e vecchia.
Allunga una mano verso di lui, per sentire se è davvero lì o se è solo un’altra visione venuta a tormentarlo; il ragazzo ricambia la stretta, ed ecco che esplodono altri mille ricordi: il capo invaghito di Audrey ma troppo timido per farsi avanti; cercare di convincere Audrey a confessare che finalmente stanno insieme; far finta di niente mentre il capo e Audrey chiacchierano a bassa voce in archivio, le dita intrecciate e gli occhi che dicono molto di più delle parole. Non c’è mai Percy Weasley da solo, c’è sempre Audrey insieme a lui nei suoi ricordi.
Audrey in tribunale come lui, Audrey che non si sa se la si può aiutare. Audrey e il suo albero genealogico.
– Audrey? Sta bene, Audrey? – domanda Adams con quel po’ di voce che è riuscito a recuperare.
Ascolta Percy parlare, ma non è abbastanza. All’improvviso ricorda tutto, ricorda che l’albero genealogico doveva arrivare dalla Norvegia; vorrebbe chiedere dettagli, sapere se è riuscito, se sono riusciti a salvarla. Ma tutto ciò che riesce a fare è mettere insieme due, tre parole; Percy sembra capire lo stesso, perché lo rassicura, gli ripete che sta bene, che stanno bene.
E poi inizia a piangere.
 
Ernest Adams non sa cosa siano le lacrime; quelle che aveva gli si sono pietrificate dentro, non saprebbe più per chi o cosa versarle. Guarda Percy piangere e non capisce, non si rende conto. Perché lo fa? Perché piange? Non lo sa che lì ad Azkaban tutto è dolore, tutto è paura? Non lo sa che una volta che si è lì dentro non esiste più nient’altro?
Lo guarda e non capisce. Non sa nemmeno come consolarlo.
Ci vuole un po’ prima che Percy riesca a smettere. Ha la voce ancora squassata dai singhiozzi, ma riesce a parlare. E dice qualcosa di meraviglioso.
– Sai… Audrey… Lei… n-noi stiamo per avere un bambino.
Bambino.Quella parola evoca nella mente di Adams una miriade di sensazioni: colori, prima di tutto, colori vivaci che vanno dall’azzurro al verde all’arancione al giallo; suoni, i suoni di risate e canti; mani che accarezzano capelli, mani che accompagnano, che indicano.
Stiamo per avere un bambino.
La nebbia si sta diradando. Qualcosa si fa strada nel cuore di Adams: gioia.
– Sì? – domanda.
Sì? È vero? È reale? Esiste davvero questa felicità? Esiste qualcosa fuori di qui?
– Sì. E se… se sarà maschio lo chiameremo Ernest.
Come me,pensa Adams. Avranno un bambino e lo chiameranno come me.
È allora che il velo si squarcia. L’oscurità non conta più nulla, la nebbia sparisce dai suoi pensieri, e tutto ciò che Adams riesce a percepire è quel calore che gli va dal cuore allo stomaco, e poi alla mente.
Dopo mesi – o anni – di prigionia, buio e dolore immobile, in mezzo a un tempo che non conta nulla, Adams sorride, felice.
 
 
Non durerà, non è destinato a durare.
Non appena Percy Weasley varcherà la soglia della sua cella, i Dissennatori torneranno a svolgere il loro compito: gli porteranno via quell’istante, glielo faranno dimenticare, e faranno sì che quella interruzione dell’eterno presente di Azkaban non sembri mai avvenuta.
Ma ora, in questo momento, tutto ciò non ha importanza per Ernest Adams: i suoi amici stanno bene e avranno un bambino che si chiamerà come lui. La gioia esiste ancora.
Questo è ciò che conta.
 
 
Meno di due minuti dopo, Adams ha già dimenticato ogni cosa. È tornato ad Azkaban – e ci rimarrà per il resto della vita.


















Ed eccoci qui! Non sentivate la mancanza di un po' di sano angst, in mezzo a tante fluffaggini?
... no? Beh, ormai è fatta.

Devo veramente ringraziare Shnusschen per la dritta, se avessi aspettato l'ispirazione avrei scritto il missing moment su Adams ad Azkaban tra un secolo. 
Se avete letto UBL, non credo siano necessari grandi chiarimenti, a parte forse per quanto riguarda i pensieri di Adams nelle prime due parti (che sono generati dalla vicinanza coi Dissennatori, al pari di quelli di Audrey) e per "l'amore finito troppo presto": costui - e me lo ha fatto ricordare Agne, ché io l'avevo totalmente rimosso dalla mente - è il "musicista che lavora in un pub Babbano" nominato al capitolo 8. Probabilmente sarà argomento di un missing moment nel missing moment, ma non per ora: devo ancora smaltire la sofferenza provata nel ridurre Adams in questo stato ç__ç

Ringrazio tutte quante le persone che hanno contribuito a ispirarmi suggerendomi canzoni tristi e strazianti da usare come sottofondo: siete tante, quindi vi lascio un "grazie" collettivo - nella speranza che vi arrivi anche se non leggerete mai questo mm.

E ovviamente ringrazio anche voi che siete arrivati vivi fin qui.

Un abbraccio e alla prossima, sperando (o forse no?) che sia qualcosa di più allegro.
Fera




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Capitolo 5
*** La paura ***


#5: La paura




La amava. La amava da morire.
Amava il suo odore, i suoi capelli, la sua pelle. Amava le sue labbra. Amava le sue mani che lo accarezzavano nel buio, amava le sue gambe che gli stringevano i fianchi. Amava i suoi sospiri, la sua voce, amava starsene tra le sue braccia senza pensare a niente se non a quanto amava ogni singola parte di lei.
Sono tuo. Prendimi. Fa’ di me quello che vuoi.
Si morse la lingua per non dirlo ad alta voce. Era un pensiero così ridicolo e melenso che avrebbe fatto ridere persino Audrey – che in genere non aspettava altro che Percy le dicesse almeno una parola tenera. Frasi come quella erano inflazionate, sfruttate fino all’osso dalla letteratura e dalle arti; pronunciarle nel ventesimo secolo non aveva più molto senso, si rischiava solo di passare per sciocchi.
Eppure era esattamente ciò che Percy pensava e sentiva. Niente di meno.
Chiedimi quello che vuoi. Sono tuo.
Se qualche mese prima gli avessero detto che si sarebbe sentito così, che avrebbe pensato quelle cose, di sicuro Percy avrebbe fatto una smorfia amara e abbassato lo sguardo, rimuginando su quanto fosse impossibile il verificarsi di un’eventualità del genere.
Lui non era in grado di provare sentimenti di quella portata; tantomeno era probabile che esistesse qualcuno pronto a ricambiarlo.
E invece.
Farò tutto quello che vuoi. Farò qualsiasi cosa per te.
Ciò che maggiormente stupiva Percy era il fatto che, alla fin fine, non c’era un motivo per cui avrebbe dovuto pensare quelle cose. Non un motivo razionale, almeno.
Voleva solo… che Audrey fosse felice. Tutto lì. Non aveva doppi scopi né interessi in gioco, non avrebbe ottenuto nulla in cambio; anzi, al contrario, di certo avrebbe dovuto sacrificare qualcosa – forse se stesso.
Eppure non gli importava. Tutto, dai suoi interessi fino alla sua completa esistenza, sembrava tremendamente irrilevante rispetto alla felicità di Audrey. Non c’era nulla che non avrebbe potuto fare per lei.
 
Prendimi. Fa’ di me quello che vuoi. Sono tuo.
Percy amava Audrey, da morire; avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avesse chiesto. Anche cambiare. Anche chiedere scusa. Anche tornare indietro.
Lo avrebbe fatto senza nemmeno pensarci. E questo lo spaventava.
 
Forse era meglio non parlarle della sua famiglia. Non per il momento, almeno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Rimase solo con la sua stupida paura, come quel pomeriggio. L’idea di parlare a Audrey della sua famiglia lo fece rimanere muto, come se un tremito interiore gli impedisse di parlare e gli legasse la lingua e il cuore. Il suo cuore.
Un cuore d’asino, sempre e comunque.
(“Una brezza lieve”, capitolo 17)








 
 
 
 
 



Ma salve, cari! Ben ritrovati!
Dunque, come avete visto questo missing moment non è un vero e proprio missing moment: più che altro, volevo dare un senso al motivo per cui Percy non si confida con Audrey circa la sua situazione familiare. Ne avevo già parlato nel capitolo 17, dove dicevo che Percy non ne parla con Audrey perché non si sente pronto ad affrontare quell'argomento e perché, in generale, gli manca il coraggio; qui ho approfondito ulteriormente la questione: Percy non ne parla perché ha paura che Audrey lo convinca a fare marcia indietro, a tornare sui suoi passi e di conseguenza a fare qualcosa che non vuole. Un po' cervellotico, ma ehi, è di Percy che stiamo parlando.
Spero vi sia piaciuto. Se no, è colpa dell'ispirazione, che invece di mettermi in mente situazioni nuove e originali - possibilmente riguardanti ALTRI personaggi - mi fa pensare a questi due, a UBL e a tutto ciò che li riguarda. Uff.

Grazie come al solito ad Agne e anche a Charme, le quali sono due delle poche persone al mondo in grado di ridarmi fiducia in me stessa.
A presto, e grazie di aver letto!
Sempre vostra
Fera

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Capitolo 6
*** I ricordi ***


#6: I ricordi



Non poté fare altro che guardarla mentre si Smaterializzava. Si voltò e incrociò lo sguardo dei due nuovi archivisti, che non tentarono nemmeno di dissimulare la loro presenza.

Non avrebbe rivisto Audrey per sei mesi.

("Una brezza lieve", capitolo 20)













A volte, di notte, Percy si svegliava all’improvviso e si chiedeva dove diavolo fosse Audrey. Che ci faceva fuori dal letto? Non era da lei alzarsi nel bel mezzo della notte, che le fosse successo qualcosa? Stava forse male? Forse…?
E poi, non appena la nebbia del dormiveglia si diradava, ricordava e si dava dello stupido.
Audrey non era lì perché non c’era, puro e semplice. Se n’era andata da almeno due mesi, forse di più; ormai avrebbe dovuto farci l’abitudine, non ragionare come se lei ci fosse ancora. Invece, a quanto pareva, una parte della mente di Percy sembrava rifiutare in toto quella situazione, spingendolo a comportarsi come se Audrey vivesse sempre in quella casa.
Di giorno, ovviamente, era più facile ignorare quella sensazione. I primi tempi gli veniva automatico entrare in casa con un “Ehi” già pronto sulle labbra, ma alla fine era riuscito a farselo morire in gola ancora prima di pronunciarlo – non riusciva a tollerare il silenzio che lo seguiva ogni volta. Allo stesso modo aveva represso, una ad una e non senza un piccolo sanguinamento interiore, tutte le abitudini che aveva preso negli ultimi tempi: preparare due tazze di tè invece di una, scrutare nella libreria per indovinare cosa Audrey stesse leggendo in quel periodo, entrare in camera da letto in punta di piedi per non disturbarla quando tornava a notte fonda.
Aveva costretto se stesso a lasciar andare ogni singola, stupida, piccola cosa che aveva fatto in quei mesi. Perché ogni singola, stupida, piccola cosa era impregnata di Audrey, la riguardava, la contemplava come parte integrante; ma che senso aveva, se Audrey era lontana da lui?
Quindi, meglio lasciar perdere tutto.
Almeno di giorno.
Di notte, invece, la mente che Percy aveva imbrigliato con tanta cura dava qualche scossone e si liberava; come per vendicarsi della violenza subita, gli presentava immagini, suoni, ricordi – tutto ciò di cui Percy aveva meno bisogno, ed estremo bisogno. L’odore di Audrey sul cuscino, il suo passo strascicato quando tornava distrutta da una giornata al Ministero. La sua voce. I suoi capelli da accarezzare di notte e i suoi respiri regolari che si interrompevano durante un sogno agitato. La sua pelle, e i suoi vestiti come un inutile ostacolo da superare ad ogni costo.
Tutto ciò di cui Percy aveva bisogno e che ora era lontano da lui, irraggiungibile. Così dolce e doloroso che avrebbe voluto dimenticarlo, semplicemente, allo stesso modo in cui avrebbe voluto dimenticare i visi dei suoi fratelli, la voce di Scrimgeour e tutte le cose che tornavano, come ondate, a fargli del male. A dirgli quanto era solo, e stupido, e incapace di tenere accanto a sé anche solo un briciolo d’amore.
Non voleva altro, davvero. Solo… dimenticare.
 
Invece, la notte, si svegliava all’improvviso e si chiedeva dove diavolo fosse Audrey. E tutto ricominciava da capo.









 








Dedicata alle mie donne, che non hanno bisogno di essere nominate.
A voi, che (forse) da quasi un anno attendevate un aggiornamento e vi beccate questo pippone malinconico-introspettivo.
A Bruce Springsteen, che ha scritto "The river" (canzone cui mi sono ispirata).
E a Lau, perché merita solo amore, perché mi ha dato questa canzone con cui scrivere e perché sì.

Alla prossima,
Fera.

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