Chins Up Smile On

di alillina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Castle of glass ***
Capitolo 2: *** 1) Paradise ***
Capitolo 3: *** 2) Fix you ***
Capitolo 4: *** I'll be waiting ***



Capitolo 1
*** Castle of glass ***


Note dell'autrice

Hi there!

Prima di lasciarvi alla lettura di questa roba che ho ancora la sfacciataggine di chiamare fanfiction, ho bisogno di rifilarvi qualche notuccia.

Il titolo di ogni capitolo sarà quello di una canzone che mi ha aiutata a scriverlo, e l'ultima frase sarà estrapolata da quella canzone. Probabilmente in alcuni capitoli la canzone che ho messo non c'entrerà niente, ma va bene lo stesso.

Questo prologo non dice quasi niente sulla storia, sorry, ma è importante per gli ultimi capitoli. Aggiornerò al più presto.

Anyway, questa è la mia prima ff, e spero che qualcuno gradisca. Vi scongiuro, anche se vi fa totalmente schifo recensite, non abbiate pietà. Ho davvero bisogno di consigli.

Ora mi spengo e vi faccio leggere, giuro.

Bacioni

-Camy

PROLOGO

Castle of Glass

 

Sole. Sole ovunque. Penetra in ogni singolo poro, in ogni singola fessura del mio corpo. I miei occhi stanchi, pian piano, si abituano a questa luce. Metto a fuoco una piccola radura verde chiaro, isoletta sperduta in mezzo a un mare di alberi. Avanzo come in un sogno verso il piccolo sentiero che mi si apre di fronte.

La scatola che porto fra le mani mi sembra un macigno, che mi spinge verso il suolo, verso il centro della terra.

Cado a terra, perché sono debole, terribilmente debole. E vigliacca, terribilmente vigliacca.

Ed è tutta colpa della mia vigliaccheria e della mia debolezza se siamo arrivati a questo punto. Vedo il viso di mia sorella sotto le palpebre, sento la sua voce che canta alle ghiandaie imitatrici. E poi distinguo il suo esile corpicino scuro, avvolto in un telo bianco, dentro una semplice cassa di legno. Sembra come addormentata, se non fosse per la ferita rossa che le deturpa l'addome. Mi manca l'aria. Sono soffocata dal dolore e dal senso di colpa. Vorrei esserci io, non lei, in quella cassa. La morte è facile, dolce in questi casi. La morte ti toglie il macigno della vita dalle spalle.

Poi la visione cambia. È lui, ovviamente. Anche lui avvolto in un telo bianco, anche lui in una semplice cassa di legno. Sembra una marionetta senza fili, l'orsacchiotto dimenticato di un bambino ormai grande. Il mio gigante buono che non potrà più portarmi nel bosco, che non potrà più portare mia sorella sulle spalle alla fine di una giornata di raccolto, che semplicemente non potrà più far brillare le nostre vite, anche se ormai c'è ben poco da far brillare. Voglio solo che tutto questo finisca, voglio mettere la testa sotto il terreno come uno struzzo e stare lì ad aspettare la fine.

Sto per rialzarmi e andare dolorosamente avanti, quando vedo una piccola macchia gialla che interrompe la monotonia del prato. “dandelion” sussurro. Dente di leone. Sembra quasi uno scherzo. Dandelion. È il mio nome. Sono io. O almeno lo ero, prima di ridurmi in questo stato. È inevitabile: scoppio a piangere. Perché sono debole e perché sono vigliacca.

La vita è come un film: c'è chi è nato per andare in scena, e chi invece sta a guardare. Io, fino al giorno della mietitura dei 74esimi Hunger Games, ero protagonista: calcavo le scene, facevo sentire la mia presenza anche a chi mi disprezzava. Adesso sto a guardare. Fisso impassibile i frammenti del fragile castello di vetro che costituiva la mia esistenza, che ormai mi sommergono. Perché sono debole, e perché sono vigliacca.

 

'Cause I'm only a crac, in this castle of glass.

 

 

 

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Capitolo 2
*** 1) Paradise ***


CAPITOLO 1

Paradise

 

Mi svegliai di soprassalto alle grida della mia sorellina, Rue. -Dan! Dan! Dandelion, alzati!!!- sbadigliai rumorosamente e mi girai dall'altra parte del giaciglio che fungeva da letto. Ero abituata alla vivacità della ragazzina: fuori di casa sembrava una bambina seria e diligente, ma all'interno delle mura domestiche si trasformava in un eccitato diavoletto. -Dan! Ascoltami una buona volta! Ieri i Pacificatori hanno fucilato il vecchio Al, ed ora la sua casa è libera!-

-Rue, non dobbiamo approfittare delle disgrazie altrui!-

-Se c'era uno che se lo meritava, era lui: un vecchio porco! Metteva sempre le sue manacce nei posti meno desiderabili!

-Nessuno si merita di venire fucilato in piazza, nemmeno un farabutto come il vecchio Al! Sei proprio cattiva, sorellina!- replicai, un po' più lucida.

-Beh, non so tu, ma io sono stanca di andare a letto senza cena una sera sì e l'altra pure! E poi, se non prendiamo noi, prenderà qualcun altro!-

In quei momenti mi rendevo conto di quanto Capitol City e quella combriccola di pagliacci che governava Panem riuscissero ad attuare, senza muovere un dito, uno dei loro più grandi obiettivi: separarci. La fame e la povertà ti corrodono da dentro, lasciando una voragine dove una volta c'erano amore verso il prossimo, pietà, umanità. Se neanche la mia piccola e dolce Rue riusciva a dispiacersi per la morte di un poveretto, chi poteva farlo?

La crudeltà e le ingiustizie erano ormai un'abitudine nella vita di tutti i giorni, tanto che si cercava di trarne profitto: i Pacificatori, infatti, lasciavano le case dei condannati libere di essere saccheggiate dai ragazzini. Io non prendevo quasi mai parte alle ruberie, perché mi faceva orrore pensare di avvantaggiarsi della morte di qualcuno, come un avvoltoio. E poi sarei morta di fame pur di non stare al gioco di quei farabutti.

In quel momento un'idea mi balenò in testa. Mi girai verso mia sorella, sorridendo, e le dissi: -Hai ragione, piccola. Andiamo.

 

Finalmente mi alzai e andai a prepararmi. Strofinai un panno insaponato sul mio corpo sudato a causa del caldo soffocante di quel settembre torrido; indossai una vecchia canottiera di lino e un paio di lise bermuda di tela; infine, per una delle prime volte in vita mia, mi concessi un'occhiata allo specchio. Una sedicenne alta e snella, dalla pelle scura e lucente, mi restituì lo sguardo. Il mio fisico era stato reso tonico dal lavoro nei campi, nonostante le ossa del bacino e delle scapole sporgessero. I lunghi riccioli scuri, sempre imprigionati in una coda di cavallo, ora mi ricadevano sulle spalle. Incorniciavano un volto dai tratti marcati, quasi mascolini, ma due grandi e bellissimi occhi neri, ornati da lunghe ciglia, mi donavano femminilità.

Mi raccolsi spazientita i capelli e tornai in camera. Avevo paura del mio corpo: pur non essendo una bellezza mozzafiato, mi facevo notare. Cercavo di nascondere le mie fattezze ormai da donna dagli occhi dei Pacificatori, sempre in cerca di carne giovane: sentivo certe storie su ragazze (ma anche ragazzi) della mia età da far accapponare la pelle.

Rue stava aiutando i nostri tre fratellini minori a vestirsi: il pestifero Blat, 5 anni; il delicato Timas, 3 anni; il piccolo Bud, un anno. -Oggi mamma e papà tornano tardi, quindi questo pomeriggio non posso andare a scuola- mi disse mia sorella in tono pratico.

Nel distretto 11 i ragazzi potevano scegliere se andare a scuola di mattina o di pomeriggio, per permettere loro di stare a casa con i fratelli minori. Io e Rue ci eravamo divise i compiti, quindi io andavo a scuola di mattina e, da ormai due anni, lavoravo nei campi di pomeriggio, lasciando i marmocchi alla nostra vicina di casa; lei invece al mattino si occupava delle faccende domestiche e al pomeriggio andava a scuola.

-Non possiamo scaricare i mocciosi a Hilda, come al solito?- chiesi

-è nei campi pure lei. Si raccolgono le mele, Dan.-

Rimasi un attimo in silenzio, mentre cercavo di infilare la maglietta a Blat, che faceva i capricci come al solito.

-Non che sia una gran perdita. La nostra “educazione” consiste nel farci imparare a memoria, come dei pappagalli ammaestrati, le solite stupidaggini su Panem e i Giorni Bui eccetera eccetera.- aggiunse la ragazzina.

-Lo so, ci vado anche io a scuola.- ribattei.

-Ma non ti fa schifo, tutto questo?- mi chiese, quasi in lacrime.

Mi girai verso mia sorella e la guardai negli occhi. Erano grandi e scuri, come i miei. Avevano un'espressione dura, come un animale ferito. Un'espressione che non dovrebbe esserci negli occhi di una undicenne. Come poteva non farmi schifo? Come poteva non farmi schifo questo mondo malato? Questo mondo dove , oltre a tutto il resto, rubavano a mia sorella pure l'infanzia? La strinsi a me e le sussurrai: -Non pensarci, piccola. E ricorda... mento alto e sorridi!!- Scoppiammo a ridere. Era la frase che la nostra accompagnatrice degli Hunger Games ripeteva sempre ai nostri sfortunati compagni di distretto che venivano sorteggiati, con quella sua insopportabile vocetta nasale.

Eravamo nel cortile di fronte alla casa del vecchio Al, quando lo vidi. Stava in piedi in mezzo alla strada, fissando con disgusto un gruppo di ragazzini urlanti che aveva già cominciato il saccheggio. Doveva avere uno o due anni più di me. Era alto e robusto, con i muscoli che guizzavano tesi sotto la pelle d'ebano. La cosa che mi sconcertava era il suo sguardo, un misto di disprezzo, compassione, rabbia e impotenza. Uno sguardo indecifrabile, sfuggente. Uno sguardo che ancora oggi sento bruciare sulla pelle.

Si chiamava Thresh. Lo conoscevo solo di vista. Era il nipote della macellaia, quindi era uno di quelli che se la passavano meglio nel nostro distretto. Sentii l'irrefrenabile impulso di tirargli uno schiaffo: per lui era facile guardare dall'alto in basso i piccoli ladri, non sapeva neanche cosa volesse dire avere fame, fame vera, quella fame che ti corrode fino dentro all'anima.

A passo svelto, mi infilai nella baracca.

Dopo aver racimolato dalla squallida e povera casupola una manciata di croste di pane e qualche altro vecchio oggetto, uscii, seguita da Rue. -Cosa hai intenzione di fare?- mi chiese preoccupata. -Niente. Tu stai ferma qua e promettimi che te ne andrai con i piccoli appena ti dirò di farlo. Intesi?-

-Va bene!- sospirò esasperata lei.

Mi posizionai in mezzo al cortile, esattamente dove era prima Thresh, che si era spostato verso un lato della strada. Con calcolata lentezza, posai le cianfrusaglie e tenni in mano solo le croste di pane. Sentivo sulla pelle lo sguardo del gruppetto di Pacificatori che assisteva sogghignando alla scena del saccheggio. Cominciai a frantumare il pane in briciole fini, che cadevano a terra quasi ritmicamente. Anche i ladruncoli lì intorno cominciarono a fissarmi. Dopo aver finito di sbriciolare, afferrai un piccolo vaso di terracotta e lo lasciai cadere ai miei piedi. Il rumore dei cocci che si infrangevano sembrò risvegliare i Pacificatori, che mi si avvicinarono minacciosi. -Cosa hai intenzione di fare, ragazzina?- Scoppiai a ridere. -Non si vede? Sto distruggendo tutta questa merda.-

Il primo schiaffo arrivò, netto e preciso, lasciandomi senza fiato. L'uomo si chinò su di me, fino a che le nostre fronti non si sfiorarono. Quel contatto fisico, anche se minimo, mi faceva venire la nausea, così mi ritrassi, schifata. -Qui non si scherza, ragazzina. Torna a casa a pettinare le bambole.- mormorò tra i denti giallastri, riempendomi il naso del suo alito puzzolente. Una rabbia cieca mi invase il cervello. Strinsi le labbra, per paura che tutto l'odio che mi tenevo dentro potesse farmi scoppiare da un momento all'altro. Avrei voluto dire a quell'individuo che non stavo scherzando, volevo far capire davvero alla gente che non aveva bisogno degli avanzi di Capitol City per andare avanti. Avrei voluto ribattere che non ero una ragazzina, avevo sedici anni e un passato non esattamente facile alle spalle. Avrei voluto urlargli contro che neanche volendo sarei potuta andare a casa a pettinare le bambole, perché né io né i miei fratelli avevamo mai avuto il lusso di comprarci un giocattolo.

Invece rimasi zitta, e gli sputai in faccia.

Il tempo sembrò congelarsi. Sentii tutti i presenti trattenere il respiro, me compresa. Questa volta avevo davvero esagerato. Il Pacificatore mi fissò incredulo, poi si passò il dorso della mano sulla faccia per rimuovere lo sputo. Un'espressione crudele gli si dipinse in volto. Con un ghigno, ordinò ai suoi scagnozzi: -Preparate la frusta!- Mi fecero appoggiare la pancia su una specie di sgabello di legno e mi strapparono la canottiera di dosso. Calma, Dandelion, calma. Sii forte, Dandelion, sii forte, continuavo a ripetermi come un mantra, con il cuore che batteva all'impazzata.

Una vocetta spaventata si levò dalla folla che assisteva impietrita alla scena. -No!-

Rue. Ovviamente.

-Lasciatela stare! Non ha fatto niente di male!- gridò facendosi avanti. La mia piccola, dolce, coraggiosa sorellina. Quanto le volevo bene.

-Rue! Torna a casa! Torna a casa con i bambini!- le urlai, sperando che per una volta mi ascoltasse.

-Io non ti lascio!- ribatté lei.

-Torna a casa, bambina, se non vuoi fare la fine di tua sorella!- le ringhiò contro un altro Pacificatore, che ora teneva in mano la frusta.

La prima frustata mi colpì la schiena, dura, lacerante, crudele. Poi la seconda, la terza e così via. Prima di perdere il conto, riuscii a distinguere Thresh che prendeva in braccio i miei fratellini e stringeva la mano a Rue, portandoli via. Sorrisi, incurante del dolore che mi trafiggeva la schiena. Perché quello era il simbolo della speranza, la sicurezza che la tempesta sarebbe finita e che, un giorno, sarebbe tornato il sole.

 

So lying underneath the stormy skies

she said I know the sun's set to rise

it's gonna be paradise.

 

 

 

 

 

 

Note dell'autrice

Saaaalve c:

eccomi di nuovo qui! Ebbene sì, sono già tornata. Innanzitutto volevo ringraziare di cuore tutti quelli che hanno recensito e chi ha messo la storia tra le seguite. Grazie di esistere!!

Anche oggi ho bisogno di fare qualche precisazione (non vi libererete mai di me).

So che molti rimarranno un po' confusi dal fatto che Rue abbia una sorella maggiore, ma si spiegherà tutto in seguito, don't worry :)

Poi ho deciso che il giorno degli aggiornamenti sarà la domenica (scuola, sport e vita sociale permettendo).

Adesso non mi resta altro da dirvi (molto strano o.O) se non: RECENSITE, RECENSITE, RECENSITE!!

Grazie di tutto

-Camy

 

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Capitolo 3
*** 2) Fix you ***


CAPITOLO 2

Fix you

 

Nero. Nero ovunque. Galleggiavo nel buio totale, senza riuscire a distinguere né sopra né sotto, senza alcuna consapevolezza del mio corpo o dello spazio attorno a me. Ero morta? Probabile. Non riuscivo a ricordarmi come fosse successo, però. Forse, quando si è morti, scompare tutto. Si rimane soli con se stessi. Probabile. Ma allora la morte non è poi così male. Probabile anche questo. Nessuno è mai tornato dall'aldilà per dirci com'è.

Cominciai ad emergere, pian piano, da quell'oscurità. Non ero morta. Troppo facile.

Ero sdraiata su qualcosa di soffice e comodo, quasi sicuramente un letto. Percepii un paio di mani che spalmavano una miscela calda e molliccia su quella che doveva essere la mia schiena. I ricordi affluirono come un fiume che si getta in mare alla mia mente annebbiata.

La casa del vecchio Al, Thresh, la mia “piccola” protesta, i Pacificatori, le frustate, Rue, di nuovo Thresh. Rue. Dov'era finita? E i miei fratelli? E io, dove mi trovavo?

Ipotizzai che le mani che mi stavano medicando fossero quelle di Rue. Mano a mano che i miei sensi si acuivano capii però che non era così. Le dita di mia sorella erano sottili e delicate, troppo diverse da quel tocco deciso, forte e anche un po' rozzo. Allarmata, mi girai di scatto e mollai un pugno verso lo sconosciuto. Aprii gli occhi, pronta a continuare l'attacco. Con mio immenso stupore, trovai il viso di Thresh a pochi centimetri dal mio. Lo avevo colpito in pieno naso, che ora sanguinava copiosamente.

-Scu... Scusami! Credevo fossi un Pacificatore!- biascicai, imbarazzata e confusa. Lui si era girato verso un piccolo specchio appeso al muro e si stava esaminando la ferita. Provai ad alzarmi per aiutarlo, ma un dolore lancinante mi attraversò la schiena fustigata e cominciò a girarmi la testa. Ricaddi sui cuscini, impotente. -Scusami- ripetei. -Per fortuna non è rotto- replicò, freddo. Si bendò il naso, poi tornò da me e continuò a spalmare quell'intruglio sulle mie ferite. Doveva essere una specie di anestetizzante, perché smisero immediatamente di bruciare. -Dovresti toglierti questo brutto vizio di tirare pugni a destra e a manca mentre dormi.- aggiunse.

Mi resi conto in quel momento di indossare solo la biancheria intima, e avvampai. Cercai di ricompormi: da quando mi facevo intimidire da un ragazzo?

Presi un bel respiro e chiesi: -Dove sono?-

-Nella mia camera.- rispose. Mi guardai intorno: mi trovavo in una stanza semplice e spartana, ma indubbiamente una reggia rispetto a casa mia. Io e i miei fratelli dormivamo in un seminterrato coi muri scrostati e macchie di umidità. Il nostro arredamento consisteva in cinque giacigli di paglia e uno sgabello traballante, sul quale erano ordinatamente impilati tutti i nostri averi. Thresh possedeva invece una camera tutta per sé , con un armadio, un tavolino e addirittura un letto vero.

-Dove sono i miei fratelli?-

-Li ho portati a casa. Sono al sicuro, non preoccuparti.-

Mi si strinse il cuore. Ci conoscevamo appena, eppure aveva portato Rue e i bambini a casa, poi era tornato a prendermi quando ero svenuta a causa delle frustate ricevute e ora si stava prendendo cura di me. E il mio ringraziamento era stato un pugno nel naso.

-Grazie.- sussurrai, con le guance paonazze. -Grazie, davvero. Ti sei preoccupato tanto per me, anche se non eri tenuto a farlo, e io...-

-Sai, a volte le persone fanno certe cose anche se non ne hanno un tornaconto.- ribatté, tagliente. Ma perché era così cattivo nei miei confronti? Non gli avevo fatto nulla di male. E poi mica lo avevo obbligato a prendersi cura di me, poteva pure lasciarmi nelle grinfie dei Pacificatori, se gli stavo così antipatica.

-Stavo solo cercando...- balbettai.

-E comunque non l'ho fatto per te. L'ho fatto per tua sorella. È una ragazzina fantastica. Viene sempre a comprare la carne nel mio negozio.- precisò.

Sempre. Noi la carne la vedevamo si e no tre volte all'anno, nelle occasioni speciali.

Girai furtivamente la testa verso Thresh. Mi stava bendando le ferite. Notai che, nonostante il rossore non si potesse vedere dalla sua pelle scura, aveva un'espressione imbarazzata, come se la mia presenza lo mettesse a disagio. Mi richiesi per quale oscuro motivo si fosse fatto in quattro per me e i miei fratelli, se mi detestava così tanto. Ci aveva aiutati solo per Rue? E comunque non si potevano conoscere così bene. Mia sorella non mi aveva mai parlato di lui.

Quando finalmente ebbe finito, mi alzai di scatto dal suo letto e mi vestii in fretta e furia. Thresh mi stava osservando sbigottito. Prima di prendere la porta e andarmene, lo guardai negli occhi e gli dissi: -Grazie, anche se non lo hai fatto per me. L'importante è che tu lo abbia fatto. Ma ricordati che io non ho bisogno della carità di nessuno.- sbattei la porta e corsi via.

 

Un'ora dopo giacevo in un angolo della strada, coperta di polvere e con le ferite che cominciavano a riaprirsi. Avevo vagato per tutto il Distretto senza meta, cercando inutilmente qualcuno che potesse ospitarmi per la notte. A casa non ci potevo tornare: se mio padre avesse scoperto che mi ero fatta frustare, mettendo così in pericolo tutta la famiglia, mi avrebbe sicuramente riempita di botte, se non peggio. Sorrisi, isterica. Padre. Come potevo chiamare “padre” un uomo del genere? Quell'uomo cattivo, iracondo, il lupo nero delle favole. Ricordai con angoscia le notti squarciate dalle sue urla, dai pianti di mia madre e dal rumore secco, preciso dei suoi schiaffi. Quelle notti che io e Rue passavamo a tranquillizzare Blat e Timas, spiegando loro che non c'era niente di cui preoccuparsi, che era solo il cattivo della favola, e le favole finivano sempre bene, bastava non pensarci. Quelle notti impiegate a guardare Bud che dormiva nella sua culla, ignaro delle cattiverie e ingiustizie attorno a lui, pensando a quel bambino che, appena nato, aveva già il suo futuro scritto, e che non gli restava altro da fare se non crescere e morire impotente. Ogni tanto provavo pietà per mio “padre”. Pietà che svaniva quando picchiava selvaggiamente i miei fratelli, quando urlava e schiaffeggiava mia madre, quando mi umiliava e mi menava con quella crudeltà che lo contraddistingueva. A volte provavo a guardarlo negli occhi, cercando disperatamente qualcosa che mi appartenesse, una luce, seppur flebile, a cui aggrapparmi per pensare che forse non era davvero così, che poteva cambiare, col mio aiuto. Invece trovavo solo odio, crudeltà e disperazione, il tutto annaffiato da una buona dose di vino, il vino che era sempre stato la sua condanna.

Bruto Bluebottle, mio “padre”, era un giovane Pacificatore, mandato come suo primo incarico nel Distretto 11. Buona famiglia e portafoglio pieno, aveva un solo difetto: beveva. Tutte le sere se ne andava in un lurido bar e alzava un po' troppo il gomito. Un giorno, di ritorno da una delle sue solite serate, incontrò un suo collega. Si salutarono, ubriachi fradici tutti e due, e cominciarono, senza una precisa ragione, a insultarsi. Le parole si fecero sempre più pesanti, fino a che Bruto, che aveva la pistola sempre con sé, sparò al compare, uccidendolo. Quando i suoi superiori lo scoprirono, venne licenziato. I suoi familiari lo abbandonarono, gente troppo snob per avere un ubriacone assassino in casa, e il mio futuro “padre” non poté fare altro se non rimboccarsi le sue eleganti maniche e lavorare nei campi, come un qualunque abitante del Distretto.

A causa delle sue origini di Pacificatore, la gente lo isolava e lo trattava con diffidenza, facendolo sentire estraneo anche in quell'ambiente. E così si rifugiava nell'unico amico che aveva, il vino. Una sera, nel solito pub, incontrò mia madre, anche lei bracciante agricola. Era bella e senza carattere, la donna perfetta per lui. Così quella notte venni concepita io. E nonostante si sposarono e costruirono una famiglia, mio padre non cambiò di una virgola: iracondo, menefreghista e ubriacone, caratteristiche che lo avrebbero accompagnato fino alla fine dei suoi giorni.

Rimasi lì seduta per dieci minuti buoni, come se sperassi che un'astronave scendesse dal cielo e mi portasse via da quel posto orribile. Stavo per addormentarmi, quando una figura imponente entrò nel mio campo visivo. Thresh.

-Dandelion!- urlò. Era una sensazione strana sentire il mio nome uscire dalle sue labbra. Era come se stesse dando un significato preciso e ignoto a quell'accozzaglia di lettere che mi identificavano, come se mi stesse chiamando l'anima.

-Sei ancora più idiota di quanto pensassi.- disse, facendomi alzare in piedi.

-Lasciami.- ringhiai, sciogliendomi dalla sua stretta. -Mi sembra di averti già detto che non ho bisogno della pietà di nessuno.-

-Allora perché te ne stai rannicchiata qua a piangerti addosso?- ribatté, ironico.

-Non sono cazzi tuoi.- sbottai, frustrata.

-Ma che linguaggio forbito.- commentò. Lo odiavo. Faceva il suo ingresso da angelo custode con quella sfrontatezza insopportabile, e pretendeva che gli stendessi il tappeto rosso?

-Noi ragazze del popolo siamo abituate così.- replicai, sarcastica.

-Dai, sto solo cercando di aiutarti.-

-Ti ho già detto mille volte che non voglio il tuo aiuto. Ci arrivi da solo o hai bisogno di un disegnino?-

-Sembri una vecchia zitella inacidita. Sto provando a darti una mano, ecco tutto.-

-Ma si può sapere che cos'hai? Prima mi tratti come uno zerbino, poi mi corri dietro, adesso mi dai pure della zitella inacidita... fai pace col cervello, Thresh.-

Diede alle mie parole la stessa attenzione che avrebbe dedicato a una formica morta. Per tutta risposta, mi prese la mano e mi trascinò a forza verso casa sua, incurante delle mie proteste. Almeno ho un posto dove andare, pensai, rassegnata.

 

 

 

Lights will guide you home

and ignite your bones

and i will try to fix you.

 

 

 

 

 

Note dell'autrice

Hola!

Adesso non potete più dire che non si capisce cosa c'è scritto nelle note (?), quindi, che vogliate o no, siete costretti a leggerle! Muahahahahaha.

Mi scuso tanto per aver saltato l'aggiornamento di domenica scorsa, ma il mio computer si è voluto prendere una settimana di riflessione e mi ha costretta a portarlo in assistenza u.u.

Anyway, rieccomi. Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno recensito e messo la storia tra le seguite e le preferite. Dan mi ha detto di dirvi che vi manda un mazzo di denti di leone (?).

xxx

-Camy

CAPITOLO 2

Fix you

 

Nero. Nero ovunque. Galleggiavo nel buio totale, senza riuscire a distinguere né sopra né sotto, senza alcuna consapevolezza del mio corpo o dello spazio attorno a me. Ero morta? Probabile. Non riuscivo a ricordarmi come fosse successo, però. Forse, quando si è morti, scompare tutto. Si rimane soli con se stessi. Probabile. Ma allora la morte non è poi così male. Probabile anche questo. Nessuno è mai tornato dall'aldilà per dirci com'è.

Cominciai ad emergere, pian piano, da quell'oscurità. Non ero morta. Troppo facile.

Ero sdraiata su qualcosa di soffice e comodo, quasi sicuramente un letto. Percepii un paio di mani che spalmavano una miscela calda e molliccia su quella che doveva essere la mia schiena. I ricordi affluirono come un fiume che si getta in mare alla mia mente annebbiata.

La casa del vecchio Al, Thresh, la mia “piccola” protesta, i Pacificatori, le frustate, Rue, di nuovo Thresh. Rue. Dov'era finita? E i miei fratelli? E io, dove mi trovavo?

Ipotizzai che le mani che mi stavano medicando fossero quelle di Rue. Mano a mano che i miei sensi si acuivano capii però che non era così. Le dita di mia sorella erano sottili e delicate, troppo diverse da quel tocco deciso, forte e anche un po' rozzo. Allarmata, mi girai di scatto e mollai un pugno verso lo sconosciuto. Aprii gli occhi, pronta a continuare l'attacco. Con mio immenso stupore, trovai il viso di Thresh a pochi centimetri dal mio. Lo avevo colpito in pieno naso, che ora sanguinava copiosamente.

-Scu... Scusami! Credevo fossi un Pacificatore!- biascicai, imbarazzata e confusa. Lui si era girato verso un piccolo specchio appeso al muro e si stava esaminando la ferita. Provai ad alzarmi per aiutarlo, ma un dolore lancinante mi attraversò la schiena fustigata e cominciò a girarmi la testa. Ricaddi sui cuscini, impotente. -Scusami- ripetei. -Per fortuna non è rotto- replicò, freddo. Si bendò il naso, poi tornò da me e continuò a spalmare quell'intruglio sulle mie ferite. Doveva essere una specie di anestetizzante, perché smisero immediatamente di bruciare. -Dovresti toglierti questo brutto vizio di tirare pugni a destra e a manca mentre dormi.- aggiunse.

Mi resi conto in quel momento di indossare solo la biancheria intima, e avvampai. Cercai di ricompormi: da quando mi facevo intimidire da un ragazzo?

Presi un bel respiro e chiesi: -Dove sono?-

-Nella mia camera.- rispose. Mi guardai intorno: mi trovavo in una stanza semplice e spartana, ma indubbiamente una reggia rispetto a casa mia. Io e i miei fratelli dormivamo in un seminterrato coi muri scrostati e macchie di umidità. Il nostro arredamento consisteva in cinque giacigli di paglia e uno sgabello traballante, sul quale erano ordinatamente impilati tutti i nostri averi. Thresh possedeva invece una camera tutta per sé , con un armadio, un tavolino e addirittura un letto vero.

-Dove sono i miei fratelli?-

-Li ho portati a casa. Sono al sicuro, non preoccuparti.-

Mi si strinse il cuore. Ci conoscevamo appena, eppure aveva portato Rue e i bambini a casa, poi era tornato a prendermi quando ero svenuta a causa delle frustate ricevute e ora si stava prendendo cura di me. E il mio ringraziamento era stato un pugno nel naso.

-Grazie.- sussurrai, con le guance paonazze. -Grazie, davvero. Ti sei preoccupato tanto per me, anche se non eri tenuto a farlo, e io...-

-Sai, a volte le persone fanno certe cose anche se non ne hanno un tornaconto.- ribatté, tagliente. Ma perché era così cattivo nei miei confronti? Non gli avevo fatto nulla di male. E poi mica lo avevo obbligato a prendersi cura di me, poteva pure lasciarmi nelle grinfie dei Pacificatori, se gli stavo così antipatica.

-Stavo solo cercando...- balbettai.

-E comunque non l'ho fatto per te. L'ho fatto per tua sorella. È una ragazzina fantastica. Viene sempre a comprare la carne nel mio negozio.- precisò.

Sempre. Noi la carne la vedevamo si e no tre volte all'anno, nelle occasioni speciali.

Girai furtivamente la testa verso Thresh. Mi stava bendando le ferite. Notai che, nonostante il rossore non si potesse vedere dalla sua pelle scura, aveva un'espressione imbarazzata, come se la mia presenza lo mettesse a disagio. Mi richiesi per quale oscuro motivo si fosse fatto in quattro per me e i miei fratelli, se mi detestava così tanto. Ci aveva aiutati solo per Rue? E comunque non si potevano conoscere così bene. Mia sorella non mi aveva mai parlato di lui.

Quando finalmente ebbe finito, mi alzai di scatto dal suo letto e mi vestii in fretta e furia. Thresh mi stava osservando sbigottito. Prima di prendere la porta e andarmene, lo guardai negli occhi e gli dissi: -Grazie, anche se non lo hai fatto per me. L'importante è che tu lo abbia fatto. Ma ricordati che io non ho bisogno della carità di nessuno.- sbattei la porta e corsi via.

 

Un'ora dopo giacevo in un angolo della strada, coperta di polvere e con le ferite che cominciavano a riaprirsi. Avevo vagato per tutto il Distretto senza meta, cercando inutilmente qualcuno che potesse ospitarmi per la notte. A casa non ci potevo tornare: se mio padre avesse scoperto che mi ero fatta frustare, mettendo così in pericolo tutta la famiglia, mi avrebbe sicuramente riempita di botte, se non peggio. Sorrisi, isterica. Padre. Come potevo chiamare “padre” un uomo del genere? Quell'uomo cattivo, iracondo, il lupo nero delle favole. Ricordai con angoscia le notti squarciate dalle sue urla, dai pianti di mia madre e dal rumore secco, preciso dei suoi schiaffi. Quelle notti che io e Rue passavamo a tranquillizzare Blat e Timas, spiegando loro che non c'era niente di cui preoccuparsi, che era solo il cattivo della favola, e le favole finivano sempre bene, bastava non pensarci. Quelle notti impiegate a guardare Bud che dormiva nella sua culla, ignaro delle cattiverie e ingiustizie attorno a lui, pensando a quel bambino che, appena nato, aveva già il suo futuro scritto, e che non gli restava altro da fare se non crescere e morire impotente. Ogni tanto provavo pietà per mio “padre”. Pietà che svaniva quando picchiava selvaggiamente i miei fratelli, quando urlava e schiaffeggiava mia madre, quando mi umiliava e mi menava con quella crudeltà che lo contraddistingueva. A volte provavo a guardarlo negli occhi, cercando disperatamente qualcosa che mi appartenesse, una luce, seppur flebile, a cui aggrapparmi per pensare che forse non era davvero così, che poteva cambiare, col mio aiuto. Invece trovavo solo odio, crudeltà e disperazione, il tutto annaffiato da una buona dose di vino, il vino che era sempre stato la sua condanna.

Bruto Bluebottle, mio “padre”, era un giovane Pacificatore, mandato come suo primo incarico nel Distretto 11. Buona famiglia e portafoglio pieno, aveva un solo difetto: beveva. Tutte le sere se ne andava in un lurido bar e alzava un po' troppo il gomito. Un giorno, di ritorno da una delle sue solite serate, incontrò un suo collega. Si salutarono, ubriachi fradici tutti e due, e cominciarono, senza una precisa ragione, a insultarsi. Le parole si fecero sempre più pesanti, fino a che Bruto, che aveva la pistola sempre con sé, sparò al compare, uccidendolo. Quando i suoi superiori lo scoprirono, venne licenziato. I suoi familiari lo abbandonarono, gente troppo snob per avere un ubriacone assassino in casa, e il mio futuro “padre” non poté fare altro se non rimboccarsi le sue eleganti maniche e lavorare nei campi, come un qualunque abitante del Distretto.

A causa delle sue origini di Pacificatore, la gente lo isolava e lo trattava con diffidenza, facendolo sentire estraneo anche in quell'ambiente. E così si rifugiava nell'unico amico che aveva, il vino. Una sera, nel solito pub, incontrò mia madre, anche lei bracciante agricola. Era bella e senza carattere, la donna perfetta per lui. Così quella notte venni concepita io. E nonostante si sposarono e costruirono una famiglia, mio padre non cambiò di una virgola: iracondo, menefreghista e ubriacone, caratteristiche che lo avrebbero accompagnato fino alla fine dei suoi giorni.

Rimasi lì seduta per dieci minuti buoni, come se sperassi che un'astronave scendesse dal cielo e mi portasse via da quel posto orribile. Stavo per addormentarmi, quando una figura imponente entrò nel mio campo visivo. Thresh.

-Dandelion!- urlò. Era una sensazione strana sentire il mio nome uscire dalle sue labbra. Era come se stesse dando un significato preciso e ignoto a quell'accozzaglia di lettere che mi identificavano, come se mi stesse chiamando l'anima.

-Sei ancora più idiota di quanto pensassi.- disse, facendomi alzare in piedi.

-Lasciami.- ringhiai, sciogliendomi dalla sua stretta. -Mi sembra di averti già detto che non ho bisogno della pietà di nessuno.-

-Allora perché te ne stai rannicchiata qua a piangerti addosso?- ribatté, ironico.

-Non sono cazzi tuoi.- sbottai, frustrata.

-Ma che linguaggio forbito.- commentò. Lo odiavo. Faceva il suo ingresso da angelo custode con quella sfrontatezza insopportabile, e pretendeva che gli stendessi il tappeto rosso?

-Noi ragazze del popolo siamo abituate così.- replicai, sarcastica.

-Dai, sto solo cercando di aiutarti.-

-Ti ho già detto mille volte che non voglio il tuo aiuto. Ci arrivi da solo o hai bisogno di un disegnino?-

-Sembri una vecchia zitella inacidita. Sto provando a darti una mano, ecco tutto.-

-Ma si può sapere che cos'hai? Prima mi tratti come uno zerbino, poi mi corri dietro, adesso mi dai pure della zitella inacidita... fai pace col cervello, Thresh.-

Diede alle mie parole la stessa attenzione che avrebbe dedicato a una formica morta. Per tutta risposta, mi prese la mano e mi trascinò a forza verso casa sua, incurante delle mie proteste. Almeno ho un posto dove andare, pensai, rassegnata.

 

 

 

Lights will guide you home

and ignite your bones

and i will try to fix you.

 

 

 

 

 

Note dell'autrice

Hola!

Adesso non potete più dire che non si capisce cosa c'è scritto nelle note (?), quindi, che vogliate o no, siete costretti a leggerle! Muahahahahaha.

Mi scuso tanto per aver saltato l'aggiornamento di domenica scorsa, ma il mio computer si è voluto prendere una settimana di riflessione e mi ha costretta a portarlo in assistenza u.u.

Anyway, rieccomi. Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno recensito e messo la storia tra le seguite e le preferite. Dan mi ha detto di dirvi che vi manda un mazzo di denti di leone (?).

xxx

-Camy

 

CAPITOLO 2

Fix you

 

Nero. Nero ovunque. Galleggiavo nel buio totale, senza riuscire a distinguere né sopra né sotto, senza alcuna consapevolezza del mio corpo o dello spazio attorno a me. Ero morta? Probabile. Non riuscivo a ricordarmi come fosse successo, però. Forse, quando si è morti, scompare tutto. Si rimane soli con se stessi. Probabile. Ma allora la morte non è poi così male. Probabile anche questo. Nessuno è mai tornato dall'aldilà per dirci com'è.
Cominciai ad emergere, pian piano, da quell'oscurità. Non ero morta. Troppo facile.
Ero sdraiata su qualcosa di soffice e comodo, quasi sicuramente un letto. Percepii un paio di mani che spalmavano una miscela calda e molliccia su quella che doveva essere la mia schiena. I ricordi affluirono come un fiume che si getta in mare alla mia mente annebbiata.
La casa del vecchio Al, Thresh, la mia “piccola” protesta, i Pacificatori, le frustate, Rue, di nuovo Thresh. Rue. Dov'era finita? E i miei fratelli? E io, dove mi trovavo?
Ipotizzai che le mani che mi stavano medicando fossero quelle di Rue. Mano a mano che i miei sensi si acuivano capii però che non era così. Le dita di mia sorella erano sottili e delicate, troppo diverse da quel tocco deciso, forte e anche un po' rozzo. Allarmata, mi girai di scatto e mollai un pugno verso lo sconosciuto. Aprii gli occhi, pronta a continuare l'attacco. Con mio immenso stupore, trovai il viso di Thresh a pochi centimetri dal mio. Lo avevo colpito in pieno naso, che ora sanguinava copiosamente.
-Scu... Scusami! Credevo fossi un Pacificatore!- biascicai, imbarazzata e confusa. Lui si era girato verso un piccolo specchio appeso al muro e si stava esaminando la ferita. Provai ad alzarmi per aiutarlo, ma un dolore lancinante mi attraversò la schiena fustigata e cominciò a girarmi la testa. Ricaddi sui cuscini, impotente. -Scusami- ripetei. -Per fortuna non è rotto- replicò, freddo. Si bendò il naso, poi tornò da me e continuò a spalmare quell'intruglio sulle mie ferite. Doveva essere una specie di anestetizzante, perché smisero immediatamente di bruciare. -Dovresti toglierti questo brutto vizio di tirare pugni a destra e a manca mentre dormi.- aggiunse.
Mi resi conto in quel momento di indossare solo la biancheria intima, e avvampai. Cercai di ricompormi: da quando mi facevo intimidire da un ragazzo?
Presi un bel respiro e chiesi: -Dove sono?-
-Nella mia camera.- rispose. Mi guardai intorno: mi trovavo in una stanza semplice e spartana, ma indubbiamente una reggia rispetto a casa mia. Io e i miei fratelli dormivamo in un seminterrato coi muri scrostati e macchie di umidità. Il nostro arredamento consisteva in cinque giacigli di paglia e uno sgabello traballante, sul quale erano ordinatamente impilati tutti i nostri averi. Thresh possedeva invece una camera tutta per sé , con un armadio, un tavolino e addirittura un letto vero.
-Dove sono i miei fratelli?-
-Li ho portati a casa. Sono al sicuro, non preoccuparti.-
Mi si strinse il cuore. Ci conoscevamo appena, eppure aveva portato Rue e i bambini a casa, poi era tornato a prendermi quando ero svenuta a causa delle frustate ricevute e ora si stava prendendo cura di me. E il mio ringraziamento era stato un pugno nel naso.
-Grazie.- sussurrai, con le guance paonazze. -Grazie, davvero. Ti sei preoccupato tanto per me, anche se non eri tenuto a farlo, e io...-
-Sai, a volte le persone fanno certe cose anche se non ne hanno un tornaconto.- ribatté, tagliente. Ma perché era così cattivo nei miei confronti? Non gli avevo fatto nulla di male. E poi mica lo avevo obbligato a prendersi cura di me, poteva pure lasciarmi nelle grinfie dei Pacificatori, se gli stavo così antipatica.
-Stavo solo cercando...- balbettai.
-E comunque non l'ho fatto per te. L'ho fatto per tua sorella. È una ragazzina fantastica. Viene sempre a comprare la carne nel mio negozio.- precisò.
Sempre. Noi la carne la vedevamo si e no tre volte all'anno, nelle occasioni speciali.
Girai furtivamente la testa verso Thresh. Mi stava bendando le ferite. Notai che, nonostante il rossore non si potesse vedere dalla sua pelle scura, aveva un'espressione imbarazzata, come se la mia presenza lo mettesse a disagio. Mi richiesi per quale oscuro motivo si fosse fatto in quattro per me e i miei fratelli, se mi detestava così tanto. Ci aveva aiutati solo per Rue? E comunque non si potevano conoscere così bene. Mia sorella non mi aveva mai parlato di lui.
Quando finalmente ebbe finito, mi alzai di scatto dal suo letto e mi vestii in fretta e furia. Thresh mi stava osservando sbigottito. Prima di prendere la porta e andarmene, lo guardai negli occhi e gli dissi: -Grazie, anche se non lo hai fatto per me. L'importante è che tu lo abbia fatto. Ma ricordati che io non ho bisogno della carità di nessuno.- sbattei la porta e corsi via.

 

Un'ora dopo giacevo in un angolo della strada, coperta di polvere e con le ferite che cominciavano a riaprirsi. Avevo vagato per tutto il Distretto senza meta, cercando inutilmente qualcuno che potesse ospitarmi per la notte. A casa non ci potevo tornare: se mio padre avesse scoperto che mi ero fatta frustare, mettendo così in pericolo tutta la famiglia, mi avrebbe sicuramente riempita di botte, se non peggio. Sorrisi, isterica. Padre. Come potevo chiamare “padre” un uomo del genere? Quell'uomo cattivo, iracondo, il lupo nero delle favole. Ricordai con angoscia le notti squarciate dalle sue urla, dai pianti di mia madre e dal rumore secco, preciso dei suoi schiaffi. Quelle notti che io e Rue passavamo a tranquillizzare Blat e Timas, spiegando loro che non c'era niente di cui preoccuparsi, che era solo il cattivo della favola, e le favole finivano sempre bene, bastava non pensarci. Quelle notti impiegate a guardare Bud che dormiva nella sua culla, ignaro delle cattiverie e ingiustizie attorno a lui, pensando a quel bambino che, appena nato, aveva già il suo futuro scritto, e che non gli restava altro da fare se non crescere e morire impotente. Ogni tanto provavo pietà per mio “padre”. Pietà che svaniva quando picchiava selvaggiamente i miei fratelli, quando urlava e schiaffeggiava mia madre, quando mi umiliava e mi menava con quella crudeltà che lo contraddistingueva. A volte provavo a guardarlo negli occhi, cercando disperatamente qualcosa che mi appartenesse, una luce, seppur flebile, a cui aggrapparmi per pensare che forse non era davvero così, che poteva cambiare, col mio aiuto. Invece trovavo solo odio, crudeltà e disperazione, il tutto annaffiato da una buona dose di vino, il vino che era sempre stato la sua condanna.
Bruto Bluebottle, mio “padre”, era un giovane Pacificatore, mandato come suo primo incarico nel Distretto 11. Buona famiglia e portafoglio pieno, aveva un solo difetto: beveva. Tutte le sere se ne andava in un lurido bar e alzava un po' troppo il gomito. Un giorno, di ritorno da una delle sue solite serate, incontrò un suo collega. Si salutarono, ubriachi fradici tutti e due, e cominciarono, senza una precisa ragione, a insultarsi. Le parole si fecero sempre più pesanti, fino a che Bruto, che aveva la pistola sempre con sé, sparò al compare, uccidendolo. Quando i suoi superiori lo scoprirono, venne licenziato. I suoi familiari lo abbandonarono, gente troppo snob per avere un ubriacone assassino in casa, e il mio futuro “padre” non poté fare altro se non rimboccarsi le sue eleganti maniche e lavorare nei campi, come un qualunque abitante del Distretto.
A causa delle sue origini di Pacificatore, la gente lo isolava e lo trattava con diffidenza, facendolo sentire estraneo anche in quell'ambiente. E così si rifugiava nell'unico amico che aveva, il vino. Una sera, nel solito pub, incontrò mia madre, anche lei bracciante agricola. Era bella e senza carattere, la donna perfetta per lui. Così quella notte venni concepita io. E nonostante si sposarono e costruirono una famiglia, mio padre non cambiò di una virgola: iracondo, menefreghista e ubriacone, caratteristiche che lo avrebbero accompagnato fino alla fine dei suoi giorni.
Rimasi lì seduta per dieci minuti buoni, come se sperassi che un'astronave scendesse dal cielo e mi portasse via da quel posto orribile. Stavo per addormentarmi, quando una figura imponente entrò nel mio campo visivo. Thresh.
-Dandelion!- urlò. Era una sensazione strana sentire il mio nome uscire dalle sue labbra. Era come se stesse dando un significato preciso e ignoto a quell'accozzaglia di lettere che mi identificavano, come se mi stesse chiamando l'anima.

-Sei ancora più idiota di quanto pensassi.- disse, facendomi alzare in piedi.

-Lasciami.- ringhiai, sciogliendomi dalla sua stretta. -Mi sembra di averti già detto che non ho bisogno della pietà di nessuno.-

-Allora perché te ne stai rannicchiata qua a piangerti addosso?- ribatté, ironico.

-Non sono cazzi tuoi.- sbottai, frustrata.

-Ma che linguaggio forbito.- commentò. Lo odiavo. Faceva il suo ingresso da angelo custode con quella sfrontatezza insopportabile, e pretendeva che gli stendessi il tappeto rosso?

-Noi ragazze del popolo siamo abituate così.- replicai, sarcastica.

-Dai, sto solo cercando di aiutarti.-

-Ti ho già detto mille volte che non voglio il tuo aiuto. Ci arrivi da solo o hai bisogno di un disegnino?-

-Sembri una vecchia zitella inacidita. Sto provando a darti una mano, ecco tutto.-

-Ma si può sapere che cos'hai? Prima mi tratti come uno zerbino, poi mi corri dietro, adesso mi dai pure della zitella inacidita... fai pace col cervello, Thresh.-
Diede alle mie parole la stessa attenzione che avrebbe dedicato a una formica morta. Mi prese la mano e mi trascinò a forza verso casa sua, incurante delle mie proteste. Almeno ho un posto dove andare, pensai, rassegnata.

 

 

 

Lights will guide you home

and ignite your bones

and i will try to fix you.

 

 

 

 

 

Note dell'autrice

Hola!
Adesso non potete più dire che non si capisce cosa c'è scritto nelle note (?), quindi, che vogliate o no, siete costretti a leggerle! Muahahahahaha.
Mi scuso tanto per aver saltato l'aggiornamento di domenica scorsa, ma il mio computer si è voluto prendere una settimana di riflessione e mi ha costretta a portarlo in assistenza u.u.
Anyway, rieccomi. Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno recensito e messo la storia tra le seguite e le preferite. Dan mi ha detto di dirvi che vi manda un mazzo di denti di leone (?).

xxx

-Camy

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Capitolo 4
*** I'll be waiting ***


CAPITOLO 3

I'll be waiting

 

La mattina seguente mi svegliai nel letto di Thresh. Aveva insistito per lasciare a me il suo materasso, dormendo sul pavimento. Gentiluomo da strapazzo pensai, non potendo fare a meno di sorridere.
Per quanto potesse essere lunatico, taciturno e ombroso, Thresh era un bravo ragazzo. Mi aveva offerto la cena, standosene in un mutismo autistico per tutta la serata, ma, prima di andare a dormire, ero riuscita, non senza una notevole fatica, a cavargli qualche parola di bocca. Mi aveva spiegato che la casa era della zia, che però era spesso in viaggio per recuperare la carne dal Distretto 10 o per venderla da altre parti: non sono in molti quelli che possono permettersela nel Distretto 11. Mi aveva raccontato che i Pacificatori, tutte le sere, passavano dal suo negozio a sacchergiarlo, prendendo ciò che volevano senza mai pagare. E lui doveva stare a guardare quegli individui che non gli permettevano neanche di lavorare senza muovere un dito.
Era un tipo solitario, senza amici, anche un po' timido, forse. Io, nonostante non avessi mai avuto il tempo di crearmi delle vere e proprie amicizie, amavo stare in compagnia: il lavoro nei campi mi sembrava meno duro se di fianco avevo un confidente con cui chiacchierare.
Mi alzai e controllai il sole, per stabilire l'ora. Dovevano essere circa le sei, e io dovevo essere a scuola alle otto. Avevo tutto il tempo per lavare me e i miei vestiti, scrivere un biglietto di ringraziamento al mio benefattore, lasciargli qualche moneta per la cena e andare a salutare mia sorella.
Per prima cosa scavalcai il corpo di Thresh, che russava sul pavimento con le braccia scomposte e la bocca semiaperta, dalla quale usciva un filo di bava, e mi vestii. Poi presi una bacinella e un po' di sapone dalla cucina e andai a riempirla d'acqua al vicino torrente, uno dei pochi puliti del distretto. A quell'ora non c'era nessuno in giro, così mi sfilai casacca e bermuda e cominciai a stfregarli con il sapone nella bacinella. Quando mi sembrarono senza più macchie, li sciaquai nel fiumiciattolo, e poi mi tuffai. Col sapone rimasto mi strofinai i capelli e il corpo. Una volta uscita, strizzai la mia chioma fradicia e rimasi qualche minuto sulla riva, a farmi asciugare dal sole, che già all'alba era caldissimo. Infine mi rivestii, riempii di nuovo la bacinella e tornai a casa del mio ospite.
Posai il contenitore pieno d'acqua sul ripiano della cucina, nel caso Thresh ne avesse avuto bisogno. Poi rovistai nell'armadio, alla ricerca di un foglio e di una matita. Il ragazzo dormiva ancora. Quando li trovai, scarabocchiai un "Grazie di tutto" e misi il foglio sul letto, con sopra i pochi soldi che avevo in tasca, sperando che bastassero.
Uscii in strada, che si stava lentamente popolando. I contadini cominciavano a incamminarsi, come condannati che si dirigono al patibolo, verso i campi; vecchi mendicanti si trascinavano con gli occhi socchiusi, forse perché non capivano che senso avesse aprirli ancora, per continuare quella misera vita; mamme coi volti segnati dalla fatica trascinavano stancamente i figli a scuola, e quando li lasciavano li stringevano con forza al petto, come se quello fosse l'ultimo abbraccio.
Arrivata davanti a casa mia, fischiai il motivetto a quattro note che usiamo per darci il cambio nei campi, per far capire a Rue che ero io. Poco dopo una furia color cioccolato mi travolse letteralmente. Ci trovammo entrambe a terra, e cominciammo a ridere. Una risata vera e solare si alzò dalle nostre gole, perché nonostante tutto eravamo assieme, ed era l'unica cosa che contava. La abbracciai forte, per paura che una folata di vento potesse portarmela via. -Ho avuto così tanta paura... ma dov'eri finita?- sussurrò, guardandomi negli occhi, preoccupata.
Scrollai le spalle. -Thresh.- risposi solo. Strinse impercettibilmente le labbra e annuì, come se avesse capito tutto.
-Lo conosci bene?- chiesi, sinceramente curiosa.
-No, però mi sembra una brava persona. È così... solo.-
-Non penso sia solo. Credo che semplicemente non gradisca la presenza di esseri umani attorno a lui.-
Ci alzammo e ci scrollammo gli abiti, che si erano riempiti di polvere. -E' ancora presto- disse la ragazzina -Non saranno neanche le sette. Papà è già uscito, possiamo entrare in casa.- Mi si strinse il cuore al pensiero che, nonostante tutto quello che ci aveva fatto e come ci continuava a trattare, la mia sorellina continuasse a chiamare quell'essere papà. Noi non avevamo mai avuto un papà. Forse un padre, che ci aveva messo al mondo e che ci faceva vivere sotto il suo stesso tetto, ma non un papà. Un papà ti porta a giocare in strada, non ti ci butta come se fossi un animale. Un papà, quando torna a casa dopo una giornata di lavoro, ti abbraccia e ti sorride nonostante la stanchezza, non ti tira in testa una bottiglia di vino vuota. Un papà ti vuole bene, nonostante tutto. Un papà non ti odia.
Le strinsi la mano e entrammo in casa.
Blat e Timas giocavano in un angolo con dei pezzi di legno. Il piccolo Bud piangeva tra le braccia di nostra madre, che tentava inutilmente di calmarlo. Quando lei ci vide, si alzò frettolosamente dalla sedia e, senza parlare , mi mise Bud in braccio. Prima che potesse prendere la porta e andare a lavorare, riuscii a scorgere un nuovo livido violaceo sul suo occhio, così simile al mio.
Rimasi per un po' con lo sguardo incatenato alla porta. Mia madre. Mia madre che mi aveva lasciata di nuovo sola. Mia madre, quella donna sfuggente, silenziosa, sottomessa a mio padre come una schiava. Le occhiate indifferenti che mi rivolgeva quando il mostro mi picchiava a sangue e io imploravo il suo aiuto facevano più male di una coltellata.
Era una persona così misera. Si meritava la vita che aveva deciso di condurre, perchè infondo se l'era scelta. Io no.
Mi riscossi dall'autocommiserazione e misi Bud, che si era finalmente calmato, nella culla. Corsi ad abbracciare gli altri due fratellini, che mi gettarono le braccia al collo. -Dan! Dan, sei tornata!- gridò Blat eccitato. Timas, timido come al solito, si limitò a nascondere il viso nell'incavo del mio collo. -Piccoli miei- mormorai, stringendoli ancora più forte. Senza me e Rue, chi si sarebbe preso cura di loro?
Li lasciai andare, e loro tornarono felici a giocare. Presi mia sorella per mano e la trascinai in camera nostra.
Ci sedemmo sul letto, e lei mi chiese: -Cosa succede, Dan?-
-Niente. Ho solo bisogno di musica.- risposi, alzandomi e andando a prendere l' armonica, appoggiata sullo sgabello.
Era il nostro sfogo, la musica. Quando qualcosa andava male, o semplicemente il fardello della vita di tutti i giorni si faceva sentire, a noi bastava cantare o suonare. Era un modo come un altro per evadere, per illuderci, in una canzone, che andava tutto bene.
Era cominciato tutto la sera di un freddo dicembre di qualche anno prima. Mi ero attardata a casa del Sindaco, dove ero impiegata come domestica. Era l'anno più duro da quando ho memoria: un'ondata di maltempo aveva distrutto i raccolti settembrini delle mele, quindi non avevamo potuto lavorare, e niente raccolto significa niente paga. Grazie a Dio ero riuscita a trovare un lavoro: molte altre famiglie di mia conoscenza erano finite ad accattonare per strada.
Stavo tornando a casa, avvolta in vestiti troppo leggeri per quel freddo pungente, decisamente insolito dalle nostre parti. La strada era deserta, ad eccezione di un unico vecchio mendicante, avvolto tristemente nei suoi cenci. Gli passai davanti, guardandolo con compassione. Non potevo dargli niente: il mio stipendio era quasi tutto ciò che possedeva la mia famiglia, e bastava appena appena a sfamarci. Se mi fossi fermata da ogni singolo poveraccio a dare l'elemosina, sarei finita io sulla strada.
Mi sentii chiamare da una voce flebile e rauca. -Ragazza...- Mi girai: era il vecchio mendicante.
-Mi dispiace, ma non ho niente da darti.- borbottai. Mi maledissi subito dopo per quanto era suonata fredda e seccata quella frase.
-Non ho bisogno di soldi, ragazza mia... ho solo bisogno di qualcuno che mi stia vicino. Ho bisogno di calore umano.- sussurrò.
Mi venne da piangere. Ero una persona così insensibile e vuota. Non mi era neanche passato di mente che quell'uomo distrutto avesse un'altro tipo di fame. Non quella fisica, ma quella di amore.
Mi avvicinai e lo guardai negli occhi.
Vidi un vecchio. Non vecchio solo fuori, un vecchio anche dentro. Un'anima sciupata, distrutta, lacerata. Un vecchio senza speranza o ambizioni. Un essere che si trascina in un limbo confuso, fatto di miseria e solitudine. Una persona che si limita a esistere, ma che non vive.
Non era solo vecchio. Era anche morto. Morto dentro, morto nel profondo, marcio come un frutto caduto ormai da tempo dall'albero. Quell'uomo non esisteva neanche: sopravviveva. Era come una sagoma di cartone, che celava solo il vuoto.
In quel momento capii. Li aveva fregati tutti. Se ne era andato prima dal suo corpo, senza dire niente, in punta di piedi. Il suo spirito non era più in quel misero involucro, era già uscito con destinazione ignota. La gente poteva pure vederlo come un fallito, ma lui se ne era già andato da un pezzo. Li aveva fregati tutti.
A conferma della mia idea, sorrise. Il sorriso velato di un morto. Mormorò: -Li ho fregati tutti.-
Sorrisi anche io, inginocchiandomi a pochi centimetri da lui, e bisbigliai di rimando: -Sì, li hai fregati tutti.-
Da una tasca del liso mantello che indossava, tirò fuori un'armonica. -Questo... questo è ciò che mi ha permesso di fregarli tutti. Fanne buon uso, ragazza.- Presi l'oggetto che mi porgeva e lo ringraziai.
L'uomo si rannicchiò su se stesso e chiuse stancamente gli occhi. Gli strinsi la mano, e rimasi lì finchè i colpi di tosse che scuotevano il suo corpo debole non cessarono, finchè i muscoli contratti del viso non si rilassarono, finchè l'ultima nuvoletta del suo ultimo respiro venne esalata. Rimasi lì finchè l'ultimo sorriso di trionfo si dipinse sulle sue labbra stanche. Rimasi lì finchè non arrivò la morte a fargli compagnia.
Tornata a casa, ripulii l'amonica e io e Rue imparammo a usarla. Imparammo anche noi a fregarli tutti.
Rue prese lo strumento che le porgevo, e cominciò a suonare. Aveva sempre avuto un talento per la musica: inventava lei stessa le canzoni che suonavamo, e le bastava ascoltare una volta un motivetto per riprodurlo perfettamente.
Il pezzo che stava eseguendo era una canzone tipica del nostro Distretto, ed era la prima che avevamo imparato. Chiusi gli occhi e cominciai a cantare.

 
A volte capita bambin mio,

Non devi disperar,

Se c'è davvero questo Dio

Le cose a posto dovranno andar.

Ma aldilà del ponte,

Ma aldilà de ponte,

Tutto è più verde,

Tutto è più forte.

Qui la fame inonda le menti,

Là d'oro sono i pavimenti.

Qui il cibo

comincia già a mancar,

là non si fa altro

che abbuffar.

Ma aldilà del ponte,

Ma aldilà del ponte,

Tutto è più verde,

Tutto è più forte.

Mi dispiace, bambin mio

So che aldilà del ponte

vorresti andar

Ma questa è daltronde

La casa che Dio ci ha affidato,

e noi non la possiam lasciar

Ma aldilà del ponte,

Ma aldilà del ponte,

Tutto è più verde

Tutto è più forte.

 

Era una canzoncina breve e idiota, ma era una bella melodia e tutto sommato risultava piacevole.
-Canti benissimo, Dan.- mormorò Rue, posando l'armonica sullo sgabello.
-Mai quanto te- risposi sorridendo. -Hai voglia di accompagnarmi a scuola?- chiesi, alzandomi e dirigendomi verso la porta.
Lei annuì e mi passò la sacca di iuta nella quale tenevo i vecchi libri che ci venivano dati da Capitol per studiare a casa (anche se nessuno aveva il tempo di farlo) e la mia preziosissima penna, comprata per pochi spiccioli al mercato nero.
Baciai sulla fronte i miei fratellini: Bud dormiva beatamente, mentre Blat e Timas continuavano imperterriti a giocare.
Ci incamminammo verso la scuola, situata nel centro del Distretto, quindi lontana dal nostro quartiere.
Una volta arrivata, salutai Rue ed entrai nell'edificio.
Si poteva descrivere con una sola parola: grigio.
Ogni singolo oggetto era di una triste sfumatura di quel colore. Le pareti scrostate, i pavimenti, le divise degli insegnanti, lo sguardo vuoto dei ragazzi.
Tutto era grigio, tranne il colore della pelle sia degli alunni che degli insegnanti, delle più varie gradazioni di marrone.
Infatti, quelli che adavano nella scuola pubblica erano esclusivamente i "negri", come ci chiamavano con disgusto i Pacificatori. I pochi "bianchi", come amavano definirsi loro, presenti nel Distretto erano i Pacificatori, il Sindaco e qualche ricco commerciante, i quali chiamavano insegnanti privati per l'istruzione dei propri figli.
Raggiunsi la mia classe e mi preparai a quelle cinque interminabili ore di tortura. Mi lasciai cadere sulla sedia e sbattei sotto il banco la borsa, incurante delle occhiate che mi rivolgevano i miei compagni di classe.
Ero conosciuta come la ribelle, a causa dei miei, come dire, pungenti interventi in classe ma anche fuori contro Capitol City, gli Hunger Games e compagnia bella. Le frustate di ieri non erano che l'ultimo episodio della mia carriera da sovversiva.
Attorno a me si era creata un'aurea di rispetto misto a timore, che scoppiava come una bolla di sapone appena mi mettevo a chiacchierare amichevolmente con qualche conoscente.
In fondo, ero una ragazza semplice e solare, e non facevo paura a una mosca. Probabilmente questo era l'unico motivo per cui non ero ancora stata fucilata in piazza.
Passai le cinque ore successive immarsa in un caldo torpore annoiato, come sempre a scuola. Quando l'idilliaco trillare della campanella giunse alle mie orecchie, scattai prontamente dal mio banco e mi lanciai verso la porta.
Stavo tranquillamente uscendo dall'edificio, quando sentii i passi di qualcuno affiancarsi ai miei. Alzai lo sguardo: era Thresh.
-Ti accompagno a casa.- mi comunicò.
-Ma non abiti dall'altra parte del Distretto?- chiesi.
Scrollò le spalle. -Non ho niente di meglio da fare, Bluebottle.-
-Da quando mi chiami per cognome?-
-Ti si addice molto il tuo cognome, sai? Moscone. Direi che è perfetto.-
-Grazie eh- esclamai tirandogli un fiacco pugno sulla spalla. -E comunque Bluebottle può anche essere inteso come fiordaliso.-
-Dente di leone di nome e Fiordaliso di cognome? Nah. Troppo lezioso. Moscone è decisamente meglio.-
Passammo il resto del tragitto in silenzio. Ma non uno di quei silenzi tesi o imbarazzati, nei quali ti spremi le meningi per trovare qualcosa da dire. Era un silenzio leggero, piacevole, che conteneva tutte le chiacchiere inutili che potevamo dirci. Quando mi salutò sulla soglia di casa con un semplice cenno del capo, io gli sorrisi, certa che sarebbe diventato il mio migliore amico.
Questa scena si ripetè per tutti i giorni successivi. Non potevo dire di non esserne felice.

 

 

 

 

 

 

As long as I’m living, I’ll be waiting
As long as I’m breathing, I’ll be there
Whenever you call me, I’ll be waiting
Whenever you need me, I’ll be there

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE

Scusate, scusate, scusate.

Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho pubblicato? Secoli? Millenni? Ere geologiche?

Non ho nessuna scusa, a parte il fatto che l'ispirazione era scappata di casa e ho dovuto rincorrerla per tutta la città.

Questo capitolo non mi piace, ma vabbè.

La canzone alla quale è ispirato (Lenny Kravitz, bellissima) è più che altro i pensieri di Thresh, che ovviamente è sempre stato attratto (attratto, non innamorato) da Dan la ribelle.

Ringrazio tutti i seguaci/recensori/preferitori.

Dal prossimo capitolo comincerà l'azione, giuro.

Spero continuerete a seguire questa storiella, anche perchè in estate gli aggiornamenti dovrebbero essere regolari.

Ah, quasi dimenticavo: la canzoncina che canta Dan è un pezzo di una ballata in dialetto ligure tradotta che mi cantava mia nonna (sono di Imperia).

Un abbraccio virtuale

-Camy

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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