The Way We Were

di kalina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** una serata tranquilla ***
Capitolo 2: *** aspettando ***
Capitolo 3: *** indecisioni ***
Capitolo 4: *** decisioni ***
Capitolo 5: *** alone ***
Capitolo 6: *** un inizio ***
Capitolo 7: *** cominciando da noi ***
Capitolo 8: *** come tutto ebbe inizio ***
Capitolo 9: *** rivelazioni ***
Capitolo 10: *** questo amore ***
Capitolo 11: *** misty watercolor memories ***
Capitolo 12: *** vita rubata ***



Capitolo 1
*** una serata tranquilla ***


Salve a tutti! Ho letto per molto tempo così tanti dei vostri meravigliosi lavori che mi avete ispirata
 e ho partorito questa storia! Non l'ho fatto di proprosito, è venuta fuori da sola, tutta insieme..!
Ne ho ancora tanta di strada da fare, ma per il momento ho pensato comunque di provare a condividerla,
 perché ottenere qualche suggerimento, critica positiva o negativa che sia, da voi,
che intrattenete così spesso le mie serate con i vostri racconti, è quanto di meglio possa sperare.

Sulla trama non c'è molto da dire. Bisogna avere la pazienza, immagino, di aspettare
che le cose si  rivelino da sole a poco a poco. I fatti si svolgono ai giorni nostri e i personaggi sono tutti reali,
anche se, ovviamente, ogni azione, dialogo e pensiero è frutto della mia fantasia
e non conosco nessuna delle persone coinvolte, il loro carattere e le loro preferenze sessuali.

Il titolo si rifà al film del 1973 "The way we were" ("Come eravamo", in italiano),
che, se non avete visto, vi consiglio assolutamente.

Che aggiungere?! E' il mio primo tentativo, mi auguro che possa piacere e coinvolgere, almeno un pochino!
E lo dedico a voi, splendide autrici Farrelleto...




1. 
Il caldo di Los Angeles in quei giorni era impressionante. Nemmeno le verdi colline hollywoodiane potevano nulla per salvarti.
Sono notoriamente un tipo freddoloso; mi si può trovare tranquillamente ritratto in foto scattate nel bel mezzo dell’estate, al mare, circondato da folle di nudisti, ma io avrò sempre i miei jeans, la maglia di cotone e la felpa legata ai fianchi, non si sa mai.
Però quell’afa era troppo anche per me. Steso sul bordo della piscina, con la schiena schiacciata contro il marmo ormai tiepido e il polpaccio destro immerso nell’acqua, mi godevo un raro momento di pace.
L’intera ciurma si trovava momentaneamente riunita alla festa per i 25 anni della migliore amica della sorella di Emma o della sorella della migliore amica di Emma, non ne ero sicuro. Per quella sera avevo passato e, caso più unico che raro, ero solo. Beh, c’era Shannon in sala d’incisione, ma in pratica ero solo, a godermi le zanzare della mia piscina, nel mio Lab.
Ero solo ed ero stanco, pur non avendo fatto quasi niente per tutto il giorno. Avevo riascoltato un paio di canzoni, cambiato qualche nota ad uno spartito e deciso di escludere un pezzo dal nuovo album; di fatto, non si può dire che avessi dato fondo alle mie risorse energetiche. Eppure mi sentivo sfinito.
Doveva essere l’ansia, doveva essere Colin. Il suo prossimo film sarebbe uscito entro un paio di settimane e si sentiva addosso il peso di un progetto importante. Erano anni che non si buttava in qualcosa di tanto impegnativo, dai tempi di Alexander. Non mi stupiva potergli leggere negli occhi la trepidazione, quasi la paura di vedersi di nuovo tirato in ballo in questa giungla di critiche, sussurri, pettegolezzi, cattiverie. Maledetti critici, stupidi, incapaci, ignoranti parassiti, non hanno idea di cosa voglia dire mettere il cuore in qualcosa.
Con l’avvicinarsi della premiere, Colin aveva chiesto alla sua famiglia di venire a passare un po’ di tempo con lui; il rinomato supporto in stile irlandese parrebbe alla fine non essere una leggenda metropolitana. E così, il giorno prima, a Claudine si era aggiunta mamma Farrell, con tanto di Catherine ed Eamon a seguito. Ciò che non sapevano era che Colin voleva sfruttare quell’occasione per qualcos’altro; o meglio, aveva fondamentalmente organizzato il tutto per qualcos’altro. L’approvazione e la vicinanza della sua famiglia erano sempre stati il suo sostegno, tutto ciò di cui gli importasse veramente.
Smisi di dondolare la gamba nell’acqua e sistemai meglio le braccia conserte dietro la testa, chiudendo gli occhi. Dio, ancora non ci credevo. Avevamo deciso di prendere in mano le nostre vite, di finirla di nasconderci dietro a futili pretesti e cominciare a goderci ciò che indubbiamente, dopo tanti anni e tante sofferenze, meritavamo. Avevamo deciso di vivere insieme, di rilasciare una dichiarazione congiunta e poi starcene un po’ in disparte finché le acque non si fossero almeno parzialmente calmate.
Ma prima di dare il via a tutto questo, Colin voleva informare la sua famiglia, in particolar modo prepararla all’assalto che avremmo tutti quanti ricevuto.
Non che sarebbe stato un problema per loro, tutt’altro. Claudine aveva a che fare con noi ormai quotidianamente ed Eamon si era dimostrato nostro fervente sostenitore fin dagli inizi, non mancando di strigliare il tanto amato fratellino in svariate occasioni. Catherine era sempre stata disponibile con me e Rita, come ogni mamma che si rispetti, desiderava soltanto la felicità di suo figlio, tanto che più volte nel corso del tempo ci aveva esortati a sistemarci. Suo padre era un uomo di poche parole ma, ormai forgiato dall’esperienza del figlio maggiore, non aveva mai espresso a Colin un parere negativo riguardo la nostra relazione e affrontava l’argomento con il serafico e distaccato atteggiamento che riservava a tutte le cose. Se avevo capito bene, interpretando quella loro astrusa parlata irlandese, molte parole della quale ancora mi risultavano oscure, sarebbe atterrato in suolo americano la settimana seguente.
Dal canto mio, dovevo ancora parlarne con mia madre, e Shannon, quell’animale barbuto dalla sensibilità di un rinoceronte, alla mia entusiastica rivelazione, aveva risposto con un “Come ti pare” frammisto ad una smorfia e un grugnito. Per fortuna almeno Tomo mi aveva dato un po’ di soddisfazione, stappando una bottiglia di buon vino francese che teneva da parte: non ne bevvi nemmeno un sorso, ma almeno mi fece sentire appagato.
Aprii gli occhi, scacciando una zanzara dall’orecchio sinistro, e soffiai fuori dell’aria che non mi ero accorto di star trattenendo. A pensarci bene, sembrava una follia. Io, con quel mio stile di vita e quelle abitudini, lui, con quella sua reputazione e quei trascorsi. Fin dal principio, non ci avrebbe scommesso nessuno, su noi due. E ce n’erano stati di momenti che avevano messo a dura prova persino la mia incrollabile sicurezza; momenti in cui non avrei mai voluto averlo conosciuto o, perlomeno, avrei voluto poterlo dimenticare.
Ma poi, in un modo o nell’altro, eravamo arrivati a quel punto impensabile. Era stata una decisione maturata col tempo, in accordo, avvertita da entrambi come ormai necessaria ed inevitabile, supportata da una serie di eventi che ci avevano rivelato ormai insostenibile continuare come avevamo fatto fino ad allora. Correvamo dei rischi, è vero, ma a guardarli bene, ci parevano decisamente più piccoli di quanto avevamo sempre temuto. Insomma, per quanto incredibile, eravamo ad un passo dal cambiare le nostre vite.
Ero felice e me ne andavo in giro con un sorriso da ebete stampato sulla faccia. Ogni tanto faceva capolino quell’ansia di sapere che per qualche tempo, almeno, ci avrebbero dato del filo da torcere, e allora, come in quel preciso istante, mi concedevo qualche minuto per godermi un po’ di tranquillità, finché ero ancora in tempo.

Faceva davvero troppo caldo. Stavo considerando di rotolare per quei pochi centimetri che mi dividevano dall’acqua, quando il blackberry cominciò a squillare. No, non avrei risposto a nessuno scocciatore in quel momento, niente mi avrebbe allontanato dalla mia pace. E di certo non era Colin a chiamare, non era il tono che gli avevo assegnato quello che risuonava. Non lo vedevo dalla sera prima e non l’avrei rivisto fino al giorno seguente, ma mi aveva dato qualcosa da ricordare, prima che arrivassero i suoi. Eccolo lì, il sorrisino da ebete che mi spuntava tra le guance maliziosamente arrossate.
Non resistendo allo squillare imperterrito del blackberry, mi arresi e, tirandolo fuori dalla tasca, guardai il display: Eamon. Corrucciai la fronte. Eamon? Mi sembrava presto perché Colin gli avesse già parlato…Beh, meglio prima che poi.
- Eamon! Ehi! - risposi gioviale.
- Jared, dove sei? - il tono di voce incrinato.
- Sono al Lab, che succede? –
Mi misi a sedere, improvvisamente colto da una brutta sensazione. Silenzio.
- Eamon? –
Senza accorgermene strinsi con più forza il cellulare, il cuore in gola.
- Colin ha avuto un incidente con la macchina. Tra cinque minuti sono da te, l’ospedale è quello vicino a casa tua. Dobbiamo fare presto. -

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Capitolo 2
*** aspettando ***


Buongiorno! Eccomi con il secondo capitolo!
Non vi nascondo una certa apprensione, ma ci tengo tantissimo a ringraziare tutte le meravigliose lettrici
che hanno lasciato una recensione al precedente.
Siete state gentilissime e non posso che augurarmi con tutto il cuore che apprezzerete anche questo,
nel corso del quale la storia non fa grandi passi avanti, ma introduce una buona parte dei protagonisti.
Buona lettura e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate!





2.

Il trillo improvviso del cellulare di Catherine mi fece sobbalzare.
Da più di un’ora mi lasciavo cullare dal ritmo regolare dei suoi singhiozzi, così come dal mormorio costante e cadenzato di Rita, che doveva essersi ipnotizzata in un interminabile ciclo di preghiere.
Per il resto, se ci fosse il caos intorno a noi o non volasse una mosca, non saprei dirlo. Trovavo ammaliante l’indicazione dell’uscita antipanico dritta davanti a me, avrei potuto descriverla ad occhi chiusi.
Mio fratello seguì con lo sguardo Catherine che si alzava e rispondeva al telefono, poi sospirò. Shannon. Oh, Shannon… Se solo fossi stato capace di compiere un minimo movimento, avrei voluto abbracciarti, strettissimo, e rimanere nascosto tra le tue braccia. Era venuto con noi, subito, senza nemmeno che glielo chiedessi. Mi voltai lentamente verso di lui e, per la prima volta da quando eravamo saliti in macchina, incrociai i suoi occhi. Era stordito e agitato. Mi chiesi quanto lo fosse per Colin e quanto per me.
Distolsi lo sguardo e  scossi la testa per scacciare immediatamente le odiose lacrime che in un secondo avevo sentito bagnarmi le ciglia. Non dovevano scendere, non ancora. Conservavo quel minimo di lucidità necessario per rendermi conto che l’unico modo di mantenere la calma era rimanere bloccato in uno stato di semi-incoscienza. Stavo affrontando la situazione come un automa, meccanicamente silenzioso ed efficiente.  Avevo persino avuto il sangue freddo di prendere lo spazzolino da denti di Colin, perché nessuno di certo ci avrebbe pensato. E perché avrebbero dovuto, in effetti? Non ti lavi i denti se sei steso su un tavolo operatorio con degli sconosciuti che ti aprono la testa.
Non provavo alcun sentimento, se non un principio di rabbia che andava via via aumentando. Quante volte, quante centinaia di volte, lo avevo pregato di andare piano su per la via di casa sua; di sera, specialmente, era tutto buio, le curve troppo strette per consentire una visibilità decente. E lui non suonava nemmeno il clacson! “Tanto non c’è mai nessuno qui, ci abito praticamente solo io in questa strada”.
Apparentemente, qualcuno ce l’aveva trovato quella sera. Qualcuno che non si era fatto niente e, grazie a Dio, se non altro, si era fermato ed aveva chiamato i soccorsi. Colin, per scansarlo, si era schiantato contro il guard rail, fortunatamente sul lato interno della strada. La Ford, avevano detto le sue sorelle, completamente distrutta sul davanti. Di lui non si sapeva niente, se non che era arrivato in ospedale privo di sensi e con probabile trauma cranico.
E adesso aspettavamo, seduti in quel corridoio, come anime in pena. Appena si fosse risvegliato, pensavo, appena avessi potuto vederlo coi mei occhi e mi fosse passata quella stretta allo stomaco, l’avrei picchiato così forte che avrebbe rimpianto di non essersi ferito più gravemente.
Coglione d’un irlandese.

- Dov’è Cathy? – Eamon tornò a sedersi accanto a sua madre, facendo scivolare il cellulare nei jeans.
- Scott l’ha finalmente chiamata. Due smartphone e un i-phone e un’ora e mezza per richiamare. –
Eamon guardò di traverso Claudine, ma non disse niente. Non era il momento per incrementare o smorzare l’astio di sua sorella per il neo sposo di Catherine. Poi aggiunse:
- Papà sta andando in aeroporto. Ci farà sapere appena trova un volo. –
Rita fece un segno d’assenso e prese la mano di suo figlio. Sentii Shannon alzarsi dalla sedia accanto alla mia.
- Vado a prendere un caffè. Volete qualcosa? –
Non ci fu risposta perché il rimbombo dei passi di Catherine concentrò l’attenzione di tutti verso la sua figura che ci correva velocemente incontro, arruffata. – Sono usciti! – sventolò le braccia verso di noi – Sono usciti. – ripeté.
Un medico, alto, nell’atto di togliersi la mascherina, sbucò subito dietro di lei e io schizzai in piedi come una molla.
Ci guardò: - Tutti per il signor Farrell? –

- Come sta mio figlio? –  quasi gli si sovrappose Rita.
Si passò una mano sul capo e prese aria : - Adesso è stabile. E’ arrivato esteriormente illeso, ma già privo di conoscenza; la tac ha evidenziato un esteso trauma cranico. L’operazione è riuscita perfettamente e non c’è stato nessun danno a livello cerebrale. Dobbiamo aspettare che si svegli e constatare quali conseguenze siano eventualmente derivate dal colpo; in casi come questo sono frequenti lievi stati confusionali, brevi amnesie, crisi di panico e fenomeni simili. Ma si tratta di cose da poco, il peggio è passato. -  abbozzò un sorriso.
- E tra quanto si risveglierà, dottore? – sentii chiedere Claudine, da dietro.
- Questo è soggettivo, varia da persona a persona. Considerando le condizioni generali del signor Farrell e l’esito dell’operazione, azzarderei tre, quattro ore…non oltre la nottata comunque. –
- Ma si sveglierà, quindi…vero? – il tono di Catherine era ancora incerto.
Il dottore sorrise, completamente questa volta. – Si sveglierà, state tranquilli. –
Chiusi gli occhi e assaporai l’aria che mi attraversò i polmoni, improvvisamente fresca. Sentii la mano di mio fratello stringermi la spalla, mi voltai e l’abbracciai. Poi abbracciai Claudine ed uno ad uno tutti gli altri. Sorridevano e piangevano insieme.
Coglione d’un irlandese.


Dopo il tentativo di Claudine, dovetti parlare anch’io con Kim per tranquillizzarla e convincerla che avrebbe potuto aspettare il giorno seguente per raggiungerci. Qualcuno, forse Eamon, avvertì anche Alicja. Il padre di Colin chiamò per dire di essersi imbarcato e, alla fine, riuscii persino a spedire Shannon a casa. La situazione era ormai stabile, dovevamo solo aspettare che si svegliasse, e mi sentivo di potermene stare senza mio fratello, che non dormiva da almeno 24 ore.
Finalmente, le infermiere si rassegnarono al fatto che non avremmo desistito e, intorno alle 3 e mezza, ci permisero di vedere Colin.

- Siete tutti di famiglia? – domandò una, soffermando per un secondo lo sguardo su di me.
Probabilmente mi aveva riconosciuto.
- Sì, tutti parenti. – si affrettò a dire Eamon.
La giovane infermiera mi guardò ancora un istante, poi, con fare risoluto, precisò: – Non potete entrare tutti insieme, al massimo due alla volta. E ovviamente non dovete smuoverlo o strattonarlo, niente abbracci, non si sale sul letto ed è consigliabile contenere il rumore. –
Mi venne quasi da ridere. Se non fossi stato ancora un po’ teso, l’avrei fotografata col mio BB e postata su twitter col titolo “the Nazi Nurse”.
- Mamma, io non me la sento di vederlo finché non si sveglia. Perché non entrate intanto tu e Claudine? Noi vi aspetteremo qui. –
Con una famiglia meravigliosamente unita come quella, non potevo certo pensare che mi avrebbero steso il tappeto rosso per entrare per primo. Era giusto così. Eamon annuì, spingendo sua sorella verso la porta e, mentre mi voltavo per sedermi, Rita mi posò gentilmente una mano sul braccio.
- Lasciami qualche minuto per vedere coi miei occhi che è vivo e vegeto. Poi ti prometto che sarà tutto tuo. –
Sorrisi e la accarezzai una guancia. - La mamma è sempre la mamma. Aspetterò qui fuori. –
Mi guardò con quella dolcezza di cui tante volte Colin mi aveva parlato, dopodiché si avviò con la figlia verso la stanza, per sparire dietro la porta richiusa da due infermiere. Eamon si riavvicinò a me e Catherine. Lo guardai di sbieco:
- Grazie per avermi incluso nella famiglia. Non avevo alcuna voglia di mettermi a discutere. –
- Beh, non ho mentito poi di molto … - Mi fece un occhiolino. – Forza, andiamo, vi offro un caffè, - mise le braccia intorno alle nostre spalle e ci spinse verso le macchinette - altrimenti quando Colin si sveglierà, noi saremo stesi su queste sedie a russare! –


Quando sentii il rumore della porta che si chiudeva alle mie spalle e riuscii ad intravedere i piedi del letto, avevo ormai perso ogni speranza. E invece, finalmente, eccolo lì. Giaceva supino, la testa leggermente inclinata sulla sinistra, le braccia stese lungo il corpo in un insieme composto e ordinato, decisamente inusuale per Colin. Da quando avevamo dormito insieme la prima volta, non l’avevo mai, mai trovato al mattino in una posizione normale, ma sempre incastrato tra le lenzuola o in se stesso. All’inizio, in Marocco, l’avevo imputato al caldo o a qualche agitazione notturna che credevo lo prendesse per la novità della situazione; col tempo però mi ero dovuto ricredere. Perso per un attimo in quei pensieri, mi ritrovai inconsciamente a sorridere, ma, indugiando in quella vista- letto bianco, lenzuola bianche,  muri bianchi, un ago infilato in quel braccio innaturalmente posato, diversi tubicini che lo collegavano a delle macchine- un brivido mi corse lungo la schiena. Mi venne in mente l’estate passata, quando, già troppo affaticato da un tour estenuante, ero finito in ospedale alla fine di un concerto a cui, con un briciolo di buon senso, avrei dovuto rinunciare. Colin se l’era presa tanto, ma io avevo minimizzato l’accaduto e gli avevo pure risposto male. Ora cominciavo a capirlo: non era stata una predica, la sua, era stata paura. Presi mentalmente nota di scusarmi con lui, al momento giusto, dopo che si fosse svegliato. O meglio, dopo che si fosse sorbito il mio sfogo per quelle ore di inutile, assurdo spavento.
- Disgraziato! Guardalo, sembra che si faccia una pennichella! –
Spostai lo sguardo su Eamon, che si era già avvicinato ad un lato del letto. In effetti il dottore aveva detto la verità: non aveva un graffio addosso, era perfetto, se non per un cerotto sotto lo zigomo sinistro e una piccola benda sullo stesso lato del volto, all’attaccatura dei capelli. Eamon gli sfiorò una guancia con una mano, scendendo fino al collo.
- E’ pure bello calduccino e con un invidiabile colorito roseo..! – rise. Poi si accigliò, guardandomi: - Che fai laggiù, Jared? Vieni qui, vieni a vedere come si rilassa mentre noi perdiamo anni di vita... –
Sorrisi e mollai lentamente la sbarra di metallo del letto a cui mi ero aggrappato, raggiungendo Eamon, che si spostò di lato.
- Sai cosa, già che ci sono, visto che fila tutto liscio, ne approfitto per fare uno squillo a Steven. Sai, per tranquillizzarlo ancora... – Mi strinse una spalla, ammiccandomi. – Tanto lo lascio in buona compagnia, no? –
- D’accordo. – Gli sorrisi imbarazzato, ma senza nascondere un certo sollievo. – Fai con calma. –
Uscì. Eamon non condivideva con Colin l’attitudine alla recitazione e il suo palese tentativo di lasciarmi un po’ di spazio da solo con suo fratello ne era l’ennesimo esempio. Mi dispiaceva che se ne fosse andato quasi subito, ma, in tutta onestà, avevo davvero bisogno di prendermi due secondi di intimità con Colin.
Mi accorsi di una sedia che Rita o Claudine dovevano aver utilizzato, la avvicinai ancora di più al letto e mi sedetti.
Lo guardai, inspirando profondamente e gli presi la mano sinistra tra le mie. Scorsi l’indice sulle sue dita, delineandone piano i contorni, poi la sollevai leggermente, strofinandomela contro il volto. Mi ero arrabbiato, era vero, avevo già pronto un bel discorsetto da fargli, ma in quel preciso instante avrei solo voluto abbracciarlo forte e sentirmi dire che sarebbe andato tutto bene. Sentirlo da lui, dalla sua voce.
Poggiai la fronte sul suo braccio, incastrando una mano nella sua e stringendo con l’altra poco sopra il suo gomito. Mi accorsi di essere esausto. Tutta l’agitazione delle ultime settimane coronata da quella fantastica ciliegina sulla torta.
Nove cazzo di anni per fare i conti con la nostra situazione, per avere il coraggio e la certezza di una vita insieme, prepariamo tutto, siamo ad un passo così e lui si schianta con la sua fottutissima macchina per giocare alla formula uno!
Mi avvicinai ancora e gli accarezzai una guancia, per poi soffermarmi sul lobo dell’orecchio, giocandoci lentamente. Respirava piano, regolarmente e non mi trattenni dal tracciargli con dolcezza i tratti del volto con il pollice. Mi fermai su una leggera macchia rossastra poco sopra il labbro superiore e sorrisi fra me. Le tracce del rossetto avevano tradito Claudine. Mi inumidii un dito e cancellai delicatamente le prove del misfatto prima che la Nazi Nurse depennasse la poveretta dalla lista degli autorizzati alle visite.

L’orologio alla parete indicava le 4.12. L’operazione era finita da più di quattro ore e mi sarei sinceramente sentito più tranquillo se Colin avesse cominciato a dare qualche segno di ripresa, invece continuava a dormire beato.
Appoggiato con il gomito sul letto, cercai di dirgli qualcosa, sperando di facilitare il processo.

- Sai, Col, dovremmo rivedere alcuni particolari del nostro piano, adesso. Voglio dire, se alla tua età hai ancora la testa così dura da non seguire nemmeno i precetti più elementari per salvaguardare la tua persona, forse – distesi il braccio parallelamente al suo, sistemando con attenzione la testa sull’esterno del suo torace – beh, forse dovrei portarli un po’ più io i pantaloni in questa relazione. No, dico sul serio, d’ora in poi prenderò io le decisioni e tu, caro mio, tu ti adeguerai, almeno finché non mi dimostrerai di essere una persona responsabile. – Chiusi gli occhi e sorrisi, riflettendo che in effetti le cose stavano già così, ma avrei stretto ancor di più le briglie. – Tanto per cominciare, potremmo trasferirci a casa mia e non tua, così il problema delle curve sarebbe risolto, poi…
Non so per quanto continuai a parlare da solo, ma in breve tempo la vicinanza e il calore del corpo di Colin sciolsero la tensione accumulata e il sonno ebbe la meglio su di me. Fu Claudine a svegliarmi, scuotendomi leggermente sulla spalla e sedendosi accanto a me. Impiegai qualche secondo per tornare lucido e ricapitolare la situazione.
- Scusa, credo di essermi appisolato per un po’. –
Mi rivolse un’espressione divertita.
- Appisolato?! Dormivi come un sasso! Guarda che sono quasi le sei di mattina. –
Cercai conferma nell’orologio, sbalordito.
- Eh, già… - rise – pensa che nel frattempo un’infermiera ha fatto un veloce controllo, Cathy si è convinta ad affacciarsi un attimo e tu non ti sei spostato di un millimetro. –
Mi sentii imbarazzato e mortificato. –Dio mio, mi dispiace…Perché non mi avete svegliato? –
- E perché, scusa? Eravate così carini! –
Arrossii. Colin ed io eravamo sempre stati molto riservati, anche con chi ci conosceva bene.
- E poi anche noi ci siamo un po’ riposati…Al momento sono l’unica sveglia, il clan dei Farrell è accampato in sala d’attesa. –
Sorridemmo. In effetti mi aveva fatto bene staccare per un po' la spina. Mi voltai verso Colin, immobile come quando l’avevo lasciato.
- Nessun cambiamento? Non dovrebbe essersi ripreso ormai? –
- No, niente di nuovo. Dicono che è tutto a posto.  L’infermiera di cui ti ho accennato prima ha detto che tra una mezzora verrà personalmente il dottore che l’ha operato a controllare. –
Annuii, ma mi sentii attanagliare lo stomaco da una spiacevole sensazione e Claudine, che invece pareva serena, se ne accorse.  Mi strinse la mano che tenevo sul bracciolo della sedia, sorridendo dolcemente.
- Me l’ha detto, sai? – disse, inclinando la testa ad indicare il fratello. La guardai confuso – Di voi due, di cosa avete deciso di fare.–
- Oh…-
- Mentre andavamo in aeroporto, l’altra sera. Gli brillavano gli occhi. –
Non sapevo cosa dire. – E - mi schiarii la voce – e cosa ne pensi? –
Si raddrizzò sullo schienale, rivolgendomi uno sguardo ovvio. – Che era l’ora. Io, noi, vogliamo solo che sia felice. E lo sarete, felici, Jared. Quindi, come vedi, questo piccolo incidente di percorso non è altro che l’ultima trovata di mio fratello per creare un po’ di suspence, prima di sganciare la bomba, sai. Perciò stai tranquillo. –
- D’accordo. – annuii, sorridendo.
- Anzi, alzati, esci da qui, fai due passi. –
- No, davvero, non è necessario, vorrei –
M’interruppe: - Jared, non te lo sto suggerendo, te lo sto imponendo. Sgranchisciti le gambe, lavati la faccia, beviti una cioccolata e, magari, dico, magari, potresti addirittura mangiare qualcosa. Giusto per cambiare aria dieci minuti. Rimango io qui, vai. – Mi tirò su in piedi, spingendomi verso la porta. – Anzi, già che ci sei- si frugò in tasca e mi mise in mano un biglietto da cinque dollari – prendi un caffè anche per me e con il resto facci colazione. –
Come aprì la porta e io feci il primo passo per uscire, si sentì alle nostre spalle un mugugno indistinto. Ci bloccammo, gli occhi fissi gli uni negli altri, e un secondo lamento, più forte, ci fece voltare.
- Colin! - Claudine corse ad un lato del letto.
Mi affrettai dall’altro, mentre Claudine continuava a chiamare il nome del fratello, tenendogli la mano. Colin aprì gli occhi, lentamente, cercando di metterci a fuoco. Guardò sua sorella, poi me, per tornare di nuovo su di lei. Strizzò le palpebre, in un’espressione di disagio.
- Che è successo? – masticò.
- Hai avuto un incidente d’auto, mentre tornavi a casa. – sussurrò Claudine. – Sei in ospedale adesso, hai battuto la tua testa dura, ma stai bene. –
La fissò, incerto, e spostò lo sguardo su di me. – Col? – strinsi appena la presa sul suo braccio. Tornò lentamente su sua sorella.
- Claudine..? – aveva un tono strano.
- Sì –
- Ma da quanto sono qui? –
- Da ieri sera, Colin. E’ giusto giusto l’alba, adesso. –
- Uhm… - chiuse gli occhi e abbozzò un sorriso – beh, temevo qualche anno. Per poco non ti riconoscevo da come sembri invecchiata. – li riaprì, sempre sorridendo. – Devo averti fatto prendere un bello spavento, eh?! –
- Idiota! – rise lei. Mi guardò, sollevata e contenta. – Vado a chiamare un medico e gli altri. –
- Certo. – le annuii e mi sporsi verso Colin, che non mi aveva ancora assolutamente considerato, fatta eccezione per un paio di sguardi incodificabili. In quel momento, però, era rivolto verso di me e mi accorsi di avere la sua attenzione.
- Ehi? – gli dissi con dolcezza, posandogli delicatamente una mano sulla guancia destra.
Continuò a guardarmi, concentrato, poi senza sciogliere la sua espressione corrucciata:  - Ma tu chi sei? –
Rimasi pietrificato dalla sua serietà. Claudine, che stava uscendo, lo sentì e tornò indietro sbuffando.
- Sei troppo presuntuoso se credi di poter fare invecchiare in una notte un uomo che è rimasto uguale negli ultimi vent’anni! Lui non è me, Colin. –
Claudine scherzava, non aveva visto la sua espressione. Ma noi non ci spostammo di un millimetro, lui ancora concentrato su di me, io con un bisogno improvviso di vomitare.  I suoi occhi.
- Ma guarda, c’è Jared –
Colin la interruppe, sempre fissandomi, ora con sguardo estremamente confuso: - Io veramente non riesco…ti ho visto da qualche parte, ma non so chi sei. –
Non riuscivo a reagire in nessun modo, a parlare, a muovere un muscolo. Sentii Claudine avvicinarsi dietro di me.
- Che giorno è oggi, Colin? – gli chiese con tono grave, adesso.
Colin spostò lo sguardo in avanti, verso di lei. – Uhm…Il 14 luglio? – tornò su di me.
- Beh, in realtà ormai è il 16, ma –
- Abbiamo lavorato insieme! – la interruppe di nuovo, sorprendendomi. – Abbiamo girato una scena per Joel a New York, con quel freddo disumano. Phone Booth giusto? – mi guardò soddisfatto - Però mi pare che poi l’abbiano tagliata…Non dirmi che l’ho fatto con te l’incidente! –
Colin mi guardava con aspettativa, ora più rilassato. Ero di sasso. Riprese, apostrofando Claudine:
- Sorellina, credevi che mi fossi rimbambito, di’ la verità. Dammi tregua, non è come se non avessi riconosciuto la mamma! Ho ancora del –
- Di che anno? – non so come mi uscì – il 16 luglio di quale anno? –
 Mi guardò stupito. – 2002. Il 16 luglio del 2002. –
In un secondo Claudine fu fuori dalla stanza.







  





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Capitolo 3
*** indecisioni ***


Buondì!
Prima di tutto, colgo l'occasione per ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno recensito o aggiunto la storia tra le seguite e le preferite.
E' meraviglioso, per me, leggere le vostre opinioni e sapere che in qualche maniera il mio lavoro è apprezzato.
Con questo terzo capitolo arrivano alcune spiegazioni e si approfondiscono meglio certi rapporti e certi personaggi,
ma è solo dal prossimo che la trama frà un bel passo avanti.
Non posso che augurarmi che continuiate a trovare interessante la storia e a seguirla! Buon ferragosto :)




3.
La giornata era stata lunga. Caotica, confusa, agitata. Un andirivieni continuo di medici, specialisti, infermiere, anche la polizia stradale, ad un certo punto, al fine di verificare le condizioni del paziente per l’archiviazione delle pratiche del sinistro. Come no, ottimo tempismo…
Colin aveva trascorso molto tempo nella sua stanza, sottoposto ai test più disparati, poi portato al piano di sotto per una risonanza magnetica, infine nuovamente chiuso insieme a tre dottori confabulanti che ci fecero aspettare delle ore prima di decidersi a dirci qualcosa. Lo avevano letteralmente esaminato, studiato con attenzione come  un campione di ricerca, almeno così aveva detto Eamon, a cui avevano dato la possibilità di assistere agli accertamenti per qualche minuto.  

Una giornata lunga. Ma a me era scivolata via in un secondo.
Me ne stavo seduto su una sedia, al lato della porta della stanza, immobile e silenzioso, mentre tutti si agitavano e parlavano e si muovevano in apprensione, sciorinando fra sé dubbi e preoccupazioni. Avevo davanti solo i suoi occhi.
Non riuscivo a togliermi dalla testa quel suo sguardo incerto, quel suo guardarmi senza vedermi. L’espressione costernata di chi non riesce ad associare il tuo volto ad un nome e vuole scusarsi per la sua mancanza. Quel modo di fare gioviale ma lievemente impacciato che si riserva ad un estraneo. Solo che quell’estraneo ero io.
Anche Claudine, che aveva assistito con me alla scena, parlava meno degli altri e si alternava tra il perdersi nel vuoto, torturandosi le dita delle mani, e il lanciarmi fuggevoli occhiate, tristi e mortificate. Sapevo che era profondamente turbata, ma mi chiedevo se provasse anche lei quel nodo alla gola che a tratti rendeva il semplice respirare un’impresa degna di una competizione olimpica.
Ma no. No, perché, benché confuso, Colin l’aveva riconosciuta, era sua sorella, le voleva bene. Non era una tipa con cui aveva girato una scena di un film un paio d’anni prima, condividendo una birra, quattro chiacchiere e tre giorni di gelo newyorchese. Beh, neanch’io ero propriamente questo, ma, a quanto pareva, per qualche motivo, lui non lo sapeva.
Non avevo avuto modo di scambiare con lui neanche una parola di più, perché immediatamente la stanza era stata invasa da due infermiere, dall’intera famiglia e in un attimo anche da un medico, poi da un altro. Poco dopo ci avevano sbattuti tutti fuori ed aveva avuto inizio l’interminabile ambaradan. Prima di pranzo, ci aveva raggiunti anche Kim, sconfortata dalle ultime notizie, sperando di ottenere da noi risposte che assolutamente non avevamo. Alla fine, si era seduta di fianco a me, avendo l’accortezza di non cercare di interagire ulteriormente, se non sfregandomi brevemente la schiena con un braccio.



Alle quattro del pomeriggio, il chirurgo della sera prima – dottor Ross, notai sul cartellino attaccato al camice – uscì dalla stanza di Colin insieme ad uno degli altri due medici – dottor Newton, neurologia – e invitò Rita ad entrare a parlare col figlio. Io, Eamon, Catherine, Claudine e Kim lo fissavamo impalati, in aspettativa. Dopo quella che parve un’eternità, si schiarì la voce, muovendo lo sguardo fra di noi.

- L’esito dell’operazione è più che positivo. La risonanza ha confermato che l’emorragia provocata dal trauma non ha prodotto danni permanenti e di conseguenza tutte le funzioni fisiologiche e naturali del paziente sono state preservate. Non ci sarà bisogno di un  recupero motorio e dialettico, dal punto di vista prettamente fisico il paziente sta bene. –
- Ma il paziente – non riuscii a trattenermi – crede di vivere nel 2002, Cristo santo. A meno che tra le sue cosiddette funzioni fisiologiche non sia compresa l’abilità di viaggiare nel tempo, il paziente non sta bene proprio per niente. –
Non ci potevo credere. Colin si svegliava come se avesse dormito per dieci anni e un tipo laureato in medicina si presentava esordendo con l’ottimo esito dell’operazione! Eamon mi posò una mano sulla spalla, avvicinandosi leggermente e bisbigliandomi di stare calmo.
- Dottore, lei aveva accennato a possibili problemi successivi al risveglio, ma noi credevamo si trattasse di cose di poco conto. – disse in poco più di un sussurro Catherine – Voglio dire, quanto durerà questa cosa? E che cos’è, poi, questa cosa? –
Il dottore, ora con aria più sinceramente dispiaciuta, prese un respiro profondo.
- Il signor Farrell è al momento affetto da amnesia. In effetti, come vi avevo accennato questa notte, è frequente in questi casi che si riscontrino sintomi confusionali o problemi mnemonici, a seconda dell’estensione del trauma cranico. Da subito, per quanto non ci siano stati problemi, avevamo notato che il trauma riportato dal paziente fosse di notevoli dimensioni, ma la risonanza di stamattina ha mostrato confini più ampi di quanto ci aspettassimo. Sicuramente l’assorbimento avanzerà in modo autonomo e completo, su questo dovete stare tranquilli. – tentò un’espressione rassicurante con le mani – Però, nel frattempo, il signor Farrell soffrirà di quella che si chiama amnesia retrograda. Dai numerosi test a cui l’abbiamo sottoposto, risulta invece essere completamente privo di problemi legati ad amnesie globali o anterograde e –
- Mi scusi, dottore, di che accidenti sta parlando? – finalmente Claudine aveva perso la pazienza.
- Sto parlando del fatto che suo fratello, in seguito al colpo che ha riportato durante l’incidente, ha subito un trauma che gli causa una sofferenza encefalica tale da perdere la memoria di tutti gli eventi anteriori all’incidente stesso. Non si tratta di quella memoria legata alle funzioni fondamentali, per cui è perfettamente in grado di parlare e scrivere, andare in bicicletta, guidare, insomma praticare tutte le attività meccaniche già acquisite. L’amnesia retrograda post-traumatica, riguarda tutti i fatti che ha vissuto nel periodo momentaneamente cancellato e questo periodo può variare, non si sa in base a che cosa purtroppo. In questo caso parliamo di dieci anni…che è indiscutibilmente un periodo veramente tanto esteso. – rifletté, prendendo fiato un attimo. – Fin quando gli effetti dell’amnesia perdureranno, il signor Farrell non sarà in grado di ricordare niente di ciò che gli è capitato dal 2002 ad oggi, nessun luogo, nessun episodio, nessuna persona. –
Stava per aggiungere qualcosa, quando il terzo medico, un uomo alto e magrissimo, senza cartellino sul camice, uscì dalla porta, muovendosi con una lentissima delicatezza, e ci guardò mestamente:
- La signora Bordeneuve? –
Tutti ci voltammo verso Kim, che guardò Eamon, poi me, incerta.
- Sì, sono io… -
- Se potesse entrare, ecco, a parlare con… Hanno chiesto di lei. –
- Ah, ok. – rispose un po’ confusa, rimanendo in piedi al suo posto. Il medico la osservò ancora, aspettando. – Ah, sì, sì, certamente. – si riscosse ed entrò, facendosi spazio tra me e Claudine. L’uomo richiuse la porta alle sue spalle e raggiunse gli altri due, abbozzando verso di noi un segno di saluto.
- Avete spiegato la situazione? – chiese, piano, al dottor Ross.
- Sì, stavo specificando la condizione di un paziente affetto da retrograda. –
- Ho assistito parzialmente alle reazioni del signor Farrell alle parole della madre – si voltò di tre quarti verso di noi – e devo ammettere che l’amnesia è totale. – aggrottò le sopracciglia. – Dovete considerare che il paziente in questi casi si sente come se si fosse addormentato e si fosse risvegliato normalmente, senza sentire affatto il peso degli anni mancanti. Tutto ciò che ha fatto, che gli è successo, tutti i cambiamenti avvenuti nella sua vita, per lui non esistono… -
Mi distrassi mentre il medico continuava a parlare.
Non esistono… Io non esisto, quindi. E’ come se io non fossi mai capitato nella sua vita.
Un brivido mi percorse la schiena e mi lasciò senza fiato per un secondo. Non ebbi il tempo di approfondire il pensiero, riportato alla realtà dalla mano di Claudine che strinse la mia.

- … ed è proprio per la difficoltà di affrontare questa situazione che, ovviamente, sarà seguito dal reparto di psicologia dell’ospedale. Il professor Kleeman l’ha già incontrato qualche ora fa  e da domani comincerà ad aiutarlo, fin quando resterà qui e anche successivamente alla dimissione. –
Fin quando resterà qui? Dimissione?? Ma di che parlava? Non feci in tempo ad aprire bocca che Eamon mi precedette:
- Scusate, ma non credo di aver capito bene. Quanto si suppone che duri questa…amnesia? –
I tre medici si scambiarono uno sguardo, in silenzio, poi il dottor Ross tentò di spiegare:
- Nel 70% dei pazienti sparisce entro i primi minuti dalla ripresa di conoscenza, ma abbiamo constatato che non è questo il caso. – concluse fra sé. – Spesso allora permane dalle 2 alle 24 ore e possiamo sperare in tale circostanza. –
- Ma onestamente – riprese il terzo medico – data l’estensione del trauma e il black out completo in cui ho visto essere caduto il paziente, tendo a supporre che ci troviamo di fronte perlomeno allo stadio medio, ovvero da 1 a 7 giorni. –
- Pe-perlomeno? – balbettai.
- Beh, lo stadio definito “grave” comprende amnesie persistenti dai 7 ai 30 giorni circa. – mi guardò desolato. – Gravissimo, oltre le 4 settimane. –
Non seppi cosa dire, ma sentii Claudine al mio fianco imprecare e lasciarmi la mano, avvicinandosi ai tre.
- Mio Dio, è uno scherzo, forse?! O è la trama di un pessimo film?! È possibile che non possiate fare niente per aiutarlo?? Cosa ci direte, adesso? Che magari non la recupererà mai, la memoria? –
- Signorina, l’amnesia permanente è cosa estremamente rara, estremamente. Vedrà che suo fratello si riprenderà molto presto. – cercò di riportare la calma il dottor Ross, ma i suoi occhi tradivano un’insicurezza mal celata.
Ci fu un attimo di pesantissimo silenzio, poi percepii delle voci riprendere a discutere, un brusio che si faceva via via più lontano.
Non mi aveva assolutamente sfiorato l’idea di un lungo periodo di tempo con Colin in quelle condizioni. Cinque minuti di quella situazione mi avevano creato un senso di fastidio e inadeguatezza tali da star male per tutto il giorno, trovando insopportabili quelle ore. E non era ancora finita? Forse un altro giorno avrei potuto reggerlo, ma una settimana..? Quattro? Cazzo, un mese intero con Colin che mi guardava in quel modo.
Un momento… e se non gli tornava più la memoria? Mai più. Non mi avrebbe riconosciuto mai più?? Non avrebbe recuperato mai più tutti i nostri momenti, i nostri ricordi? Mi prese un capogiro improvviso e violento, ma riuscii a sedermi in fretta, prima che chiunque se ne accorgesse. Mai più
Ma che cavolo, aveva ragione Claudine, queste cose succedono nei polpettoni di serie b, non nella vita vera, non a noi. Certo, con la fortuna sfacciata che da sempre arrideva alla nostra relazione i presupposti c’erano tutti! Ma porca di quella miseria… il giorno prima, a quell’ora , la mia vita era perfetta. A modo mio, ma era perfetta. Finalmente, dopo quarant’anni, era perfetta. Porca, porca, porca di quella miseria…

- Jared? Jared! -
- Uhm? – alzai gli occhi verso Catherine, sentendomi chiamare.
Dovevo essermi perso nei miei pensieri per un po’ perché eravamo rimasti solo noi quattro, dei medici nessuna traccia.

- Potresti dire qualcosa? Che ne pensi? – non avevo idea di cosa volesse.
- Dio, dagli tregua, Cathy. Ne sa quanto noi. – mi soccorse Claudine.
Poi la porta si aprì e Kim se la chiuse velocemente alle spalle. Quando si voltò, aveva gli occhi lucidi.
- Allora? – le si avvicinò Eamon.
- Raggiungi tua madre, va’ a sentirlo parlare. – si limitò lei, sospingendolo verso la stanza e tornando verso di noi.
Ci avvicinammo, aspettando che ci dicesse qualcosa. Aveva l’aria piuttosto sconvolta e continuava a fissare il pavimento, forse per raccogliere le forze. Era strano vederla così. Con tutto quello che aveva passato sia con James che con Colin, nei suoi momenti peggiori, non l’avevo mai vista perdersi d’animo una volta. Sempre tenace e risoluta, non si abbatteva mai e anche Colin l’ammirava molto per questo. Sollevò gli occhi gonfi di lacrime:
- Non si ricorda niente. Niente di niente. – spostò lo sguardo al soffitto per un secondo, sforzandosi con tutta se stessa di trattenersi. – Rita parlava e parlava e lui non aveva idea di cosa gli dicesse. Mi ha chiesto se avessi un pacchetto di sigarette. –
Spalancai gli occhi, ma non riuscii a parlare. Solo Catherine si lasciò scivolare un “mio Dio”. 
Kim si sistemò meglio la borsa sulla spalla: - Devo tornare a casa adesso, sono fuori da troppo tempo. – mi guardò con un’espressione tirata ed implorante. – Mi accompagni per un po’? –

Capii che voleva parlarmi da sola. Annuii, lei salutò le due ragazze e ci avviammo in silenzio lungo il corridoio. Non aveva una gran confidenza con la famiglia di Colin, si incrociavano in alcune occasioni, ma più che altro i rapporti si limitavano a saluti cordiali ma sporadici. Con me era diverso, ci eravamo subito presi in simpatia. Kim era sorprendentemente concreta e diretta, non si era scomposta minimamente quando Colin le aveva detto di noi due. Anzi, nel corso degli anni, aveva più volte espresso soddisfazione riguardo al mio rapporto con James e spesso mi attribuiva il merito della guarigione di Colin, mi ringraziava per la dedizione e l’impegno con cui avevo assicurato un ottimo padre al bambino. Le dicevo sempre che esagerava, ma lei era irremovibile e, ad onor del vero, avevo apprezzato molto l’atteggiamento che aveva tenuto durante tutta la faccenda di Alicja.
- Non m’importa niente di me, lo sai, – ruppe il silenzio dopo qualche passo – ma non si ricorda nulla dei bambini. Sua madre diceva “vedi, lei è la mamma di James, è Kim”, lo ripeteva, sperando di sortire un qualche effetto, ma lui mi sorrideva, visibilmente imbarazzato, pensando “e questa chi cavolo è? James mio figlio? Sul serio?”. – si fermò subito dopo la porta scorrevole. – Come, come faccio, Jared? Come faccio col bambino? Tu lo sai com’è James, lui adora suo padre. Ed è un bambino speciale, certe cose magari non le capisce perfettamente, ma per altre è molto più sensibile di noi. Non posso farglielo vedere così… ma non posso neanche tenerlo lontano! –
Smise di trattenere le lacrime e si lasciò andare ai singhiozzi. L’abbracciai immediatamente e mi sentii il peggior essere umano del mondo. I bambini. Avevo passato ore a lamentarmi tra me e me della mia condizione, poi a disperarmi per la possibilità che Colin non si ricordasse del mio ruolo nella sua vita e in tutto questo non avevo pensato nemmeno per un secondo al fatto che in quei dieci anni era diventato padre. Per me James era parte integrante di lui. Era nato nei giorni stessi in cui era cominciata la nostra relazione, avevamo guardato insieme le sue prime foto, non mi ero perso nessun compleanno, l’avevo visto crescere e l’avevo viziato, amandolo come amavo Colin, considerandolo un tutt’uno col pacchetto principale. C’era stato il dolore della malattia, certo, ma anche le mille soddisfazioni nel vederlo combatterla e sconfiggerla passo dopo passo. E Dio solo sa quanto Colin adorasse quel bambino e quanto la sua vita ruotasse intorno a lui. Era inconcepibile anche solo l’idea che non si ricordasse di James. Ma io a questo non ci avevo pensato, ero stato il solito egoista di sempre. Strinsi forte Kim e mi sforzai con tutto me stesso per non abbandonarmi a piangere con lei, in mezzo al corridoio.
- Andrà tutto bene, vedrai. – le sussurrai ad un orecchio, dondolandola leggermente.
Si scostò e mi guardò, asciugandosi le lacrime.
- Non si ricorda nemmeno di te, Jared. – era più un’affermazione che una domanda.
- No, - deglutii – ma sono sicuro che fra qualche giorno si sentirà meglio. –
Mi fissò ancora per qualche secondo. – Mi dispiace, davvero. – Ci abbracciammo di nuovo.
- Devo andare sul serio adesso. –
- Ti accompagno alla macchina. –
- No, torna da Colin, magari ci sono novità. –
- Sicura? – Annuì. – Salutami James. Anzi, - mi sfilai dal polso un braccialettino di dadi colorati – portagli questo. Ma lui sa che è il mio preferito! È solo un prestito. Lo rivorrò indietro la prossima volta, ricordaglielo! –
Sorrise: - D’accordo, grazie. Chiamatemi se succede qualcosa. –
- Certamente. –
Sorrise di nuovo e la seguii con lo sguardo finché sparì tra le porte dell’ascensore, da dove mi salutò un’ultima volta con la mano.


Quando svoltai l’angolo del corridoio, feci in tempo a scorgere Claudine e Catherine entrare nella stanza del fratello, mentre Eamon si guardava intorno.  

- Ehi! – allungai il passo.
- Ehi, Jared. – mi venne incontro – Ti stavo cercando. –
- Ci lasciano entrare? –
Si girò un attimo verso la porta prima di tornare su di me: - Ehm, no. Le infermiere dicono che è stanco e tra due minuti deve riposare. –
- Mi sbrigo, allora. –
Feci per avvicinarmi, ma Eamon si frappose fra me e la porta. – Aspetta, volevo parlarti. –
Aggrottai le sopracciglia: - Non puoi farlo dopo? –
- No, senti…Vedi, il fatto –
Gli posai le mani su un fianco per scansarlo. – Eamon, voglio almeno salutarlo. Sono qui fuori ad aspettare da un’eternità, parleremo dopo. – Ma lui non si spostò di un millimetro. Lo guardai confuso.
- Jared, ascoltami, è molto stanco, adesso. E lo siamo tutti. Sto andando all’aeroporto a prendere mio padre, lascerò a casa mia madre e le mie sorelle e porterò lui qui. Hanno detto che lo faranno dormire tutta la notte, rimarrà mio padre, per sicurezza e perché non l’ha ancora visto. Noi potremo tornare tutti domattina. – fece una brevissima pausa. – Guardati, sei esausto. Lascia che ti accompagni a casa. –
- Io…io non voglio andare a casa, io voglio vedere Colin. Fammi passare. –
Non accennò minimamente a spostarsi e mi guardò con un misto di serietà e costernazione.
- Dannazione, Eamon, qual è il tuo problema? –
- Dammi retta, aspetta domani. Magari sarà già tutto finito e potrai parlarci sul serio. – mise le mani avanti per evitare che l’interrompessi. – Cosa, cosa vorresti dirgli, comunque, adesso..? –
Provai una sensazione negativa che non sapevo spiegare e non riuscivo onestamente a capire cosa volesse Eamon da me. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma mi precedette.
- Lui al momento è spossato e confuso e nemmeno tu sei propriamente lucido. Tu non capisci, non l’hai visto –
- E allora fammelo vedere, Eamon, per l’amor di Dio! Ma che vuoi? – sentii crescere il disagio e cominciai ad innervosirmi.
- Per dirgli cosa, Jared?! Lui non è proprio…non è esattamente Colin-Colin… cioè, lo è, ma… lui è… è il Colin-versione Cazzone, sta smaniando per una sigaretta  e vuole che gli passi sottomano una bottiglia di Guinness. – mi guardò scuotendo la testa e io rimasi senza parole, ma non capivo cosa c’entrasse tutto questo. – Non, non ha la minima idea di cosa sia diventata la sua vita e non riesce a concepire tante cose. Pensaci, dover recepire e immagazzinare così tante informazioni, anche se solo le più importanti, insomma…di tutto e di più… a che punto si trova della sua esistenza, la sua carriera, la riabilitazione…  - prese fiato – Dover capire di essere padre, sai, un conto è saperlo, un altro è sentirlo. Si trova in una posizione veramente complicata e… è davvero tutto complicato. Forse, per il momento, non è il caso di aggiungere altro, capisci? –
Ci fissammo per qualche secondo, lui mordendosi il labbro inferiore, io accigliato, sforzandomi di afferrare il significato delle sue parole. Temevo di intuirlo, ma di certo dovevo sbagliarmi. Rimasi in silenzio e aspettai che continuasse.
- Jared, fin tanto che le cose non torneranno normali, credo sia meglio evitare di dirgli di voi due, per non confonderlo troppo, ecco… -
Un cazzotto improvviso nello stomaco  mi avrebbe provocato meno shock e meno dolore e la mia espressione dovette farglielo capire.
- Ascoltami. – tentò, avvicinandosi.
Mi riscossi dall’incredulità che mi aveva avvolto per un attimo, sentendo la rabbia montarmi dentro. – Eamon, ma che cazzo dici? –
Si avvicinò ancora, cercando di continuare, ma non glielo permisi, spingendolo indietro.
- Non ci posso credere! Proprio tu te ne vieni fuori con una stronzata del genere? Io-io non…- non ero capace di formulare un pensiero razionale, figurarsi una frase sensata. – Cosa dovrei fare, eh? Dovrei andarmene? Evitarlo, semplicemente?? -
- Sarebbe solo per qualche giorno, per la miseria! E potresti dirgli di essere il suo migliore amico, che so, la persona che lo conosce meglio, non sarebbe neppure una bugia, in fondo. Non ti sto chiedendo di ignorarlo o fingere di non conoscerlo. –
- Ah, no? Peccato, sono bravo a questo gioco! Ci gioco da anni, in effetti! “Hai presente Colin Farrell, Jared?” “Sì, di vista…”. – mi accorsi di aver alzato notevolmente il tono della voce e cercai di ricompormi. Feci un paio di passi in avanti, puntandogli il dito contro. – So cosa vuol dire rimanere nell’ombra, l’ho fatto ad ogni premiere, ad ogni premiazione, ad ogni serata e ad ogni fottuto festival, ma non lo farò con lui. Non mi nasconderò da Colin, Eamon, non so come tu possa chiedermelo. –
Mi rivolse uno sguardo rassegnato e abbattuto. – Io sto solo cercando di protegger –
- Proteggerlo? Da me? È da me che vuoi proteggerlo? – sentii le lacrime salirmi agli occhi.
- Non è assolutamente quello che –
Rita, Claudine e Catherine uscirono in quel momento dalla stanza, interrompendoci. Colsi al volo l’occasione, dribblando Eamon, e spingendo la porta, prima che l’infermiera la richiudesse.
- Che fa? Non può entrare adesso, deve riposare! – si allarmò quella alla mia irruenza.
- Stia zitta, mi dia due minuti. –
Passai oltre, non preoccupandomi di nessuno. Ero così agitato che le mani mi tremavano. Quando raggiunsi il letto, mi accorsi che Colin dormiva. Di nuovo la posizione innaturale della notte precedente ed un’espressione non propriamente rilassata sul volto. Aveva il respiro leggermente pesante.
- Colin, ho bisogno di parlare con te. – sussurrai a fior di labbra.
Gli sfiorai appena una guancia, guardandolo. La mano mi tremava ancora e avevo una tremenda voglia di gridare. Gli sorrisi e gli augurai la buonanotte, come se mi potesse vedere o sentire, poi tornai verso la porta ed uscii, dirigendomi lungo il corridoio, senza dire niente a nessuno.
- Jared! –
Mi sentii chiamare da Claudine, ma continuai ad andare dritto, percependo i loro occhi puntati su di me finché non superai le porte scorrevoli.
Tornai a casa, ma non con loro.










    

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Capitolo 4
*** decisioni ***


Rieccomi!!
Ringrazio di nuovo tutte le meravigliose lettrici che hanno speso preziosi minuti del loro tempo per scrivere due righe.
Non saprei come fare senza di voi, grazie davvero!
Questo è decisamente uno dei miei capitoli preferiti e spero che possa piacere anche a voi :)
Buona lettura!





4.
Quando mi lasciai cadere sul divano della sala, erano ormai le 7 passate.
 Avevo preso un taxi fuori dall’ospedale e, essendo l’ora di punta, il viaggio era stato infinitamente lungo. Avevo avvertito Shannon del mio ritorno e, trovando il telefono invaso da decine di messaggi, ne avevo approfittato per chiamare Emma. Sapevo che l’avrei tranquillizzata facendomi sentire di persona e che sarebbe stato giusto dare un qualche segno di vita anche agli altri, ma non ero proprio dell’umore per farlo. Così, le avevo brevemente spiegato la situazione, con i vari aggiornamenti, pregandola, però, come avevo già fatto con mio fratello, di scusarmi con il resto della gruppo e di informarli al posto mio.
Al momento non ero assolutamente in grado di avere contatti sociali di alcun tipo, necessitavo di tempo per… beh, necessitavo di tempo. Dovevo stare per conto mio.
Dopo averla salutata, mi ero accasciato sul sedile posteriore, con gli occhi chiusi, sentendomi improvvisamente addosso tutta la spossatezza della giornata. E la rabbia. Il nervosismo, la stizza, l’offesa che la breva conversazione con Eamon mi avevano lasciato.
Non ero uno stupido, mi rendevo conto che il bagaglio di informazioni che Colin doveva recepire era spropositato e che alcune erano d’importanza fondamentale, ma Cristo Santo, io ero una di quelle! I figli, la famiglia, i film, la beneficienza, la vita sana e pulita, d’accordo, ma io? Non meritavo forse un posto in tutto questo? Perché fra le tante cose, io dovevo essere l’elemento da sacrificare? Perché doveva sempre finire in questo modo?
Non mi importava se dovesse essere per due giorni o un mese, non me lo meritavo, non era giusto e, soprattutto, Colin non sarebbe mai stato d’accordo. E non soltanto adesso, perché avevamo deciso di fare quello che avevamo deciso di fare, sarebbe comunque stato così, non l’avrebbe mai permesso se solo fosse stato in sé.
Tutto questo mi feriva ancor più profondamente perché veniva da Eamon. Proprio lui che ci aveva sempre sostenuti ed incoraggiati, che era forse il membro della sua famiglia a cui ero più vicino. Suo marito, Steven, era anche un mio grande fan, da molto prima di incontrarmi, ed era una cosa su cui scherzavamo sempre quando eravamo insieme. Non riuscivo a farmene una ragione.
Voleva proteggerlo da me. Con tutti i problemi, i casini in cui suo fratello si era ritrovato negli ultimi dieci anni e che ora avrebbe dovuto affrontare ex novo, ero forse io la minaccia più grande al suo equilibrio? Era sapere che c’era un uomo, un disgraziato, un idiota che lo amava e che aveva deciso di condividere la sua vita con lui?
Quei pensieri mi avevano accompagnato per tutto il tragitto, facendomi arrivare a casa teso come la corda di un violino.


La grazia con cui mio fratello scendeva le scale era indescrivibile e irripetibile, da sempre.
- Ehi! – esclamò, quando mi finì praticamente addosso.
- Ehi. – risposi con poca enfasi dal divano.
- Wow, hai proprio una bella cera. –
- Grazie. – lo guardai con sarcasmo – Infatti, per tua informazione, sto cercando di teletrasportarmi fino alla mia camera. –
- Lascerò che tu lo faccia, dopo, ma adesso devi mangiare qualcosa. Scommetto che non hai toccato cibo per tutto il giorno. – scossi la testa, colto in fallo. – Appunto. Vieni, di là c’è una gustosissima cena vegana che ti aspetta! – perplesso, spalancai gli occhi. – Tomo e Vicky sono passati e hanno preparato qualcosa, piccolo impertinente… -
Mi tese la mano, incoraggiandomi con lo sguardo. L’afferrai e, prima di spostarci in cucina, mi lasciai abbracciare stretto, in quello che fu l’unico momento bello della giornata.
La cena era effettivamente buona e, a dir la verità, un vero toccasana. Non me ne ero accorto, ma avevo una gran fame e soprattutto un gran bisogno di energie. Se non altro, avevo molte più forze per essere arrabbiato.
Avevo riassunto a mio fratello quelle ultime, caotiche, ore, dal risveglio di Colin all’uscita di Eamon, cercando di analizzare la situazione con più lucidità, ma rendendomi conto, in fondo, di provare più paura che rabbia. Ancora, tornato sul divano, continuavo a rivedere l’espressione di Colin di quella mattina, persa e distante, e non trovavo pace.
Quasi subito Shannon mi raggiunse con i due grandi bicchieri di tè verde promessi.
- Ecco qua. – mi allungò il mio, sedendosi sulla poltrona di fronte a me.
- Grazie. - gli sorrisi  e ne presi un sorso – Ah, era quello che mi serviva! –
Ne bevve un po’ anche lui, poi mi fissò, deglutendo. – Che pensi di fare, adesso? –
Abbassai gli occhi sul bicchiere, giocando con la cannuccia. – Non hai notato il mio tono indignato, mentre ti riferivo la conversazione? –
- Sì, ma…pensaci, un attimo solo. Questa è una cosa veramente strana, più unica che rara… Potresti sfruttarla per, che so, farlo innamorare di nuovo di te! – riportai lo sguardo su di lui, sbigottito. – Sai, ti fingi un semi estraneo e –
- Shan… -
- Lo seduci! E lo riconquisti… - cominciò a gesticolare allusivamente – Sesso proibito! –
- Shan..! –
- Sesso clandestino e bollente in ospedale…questo sì che aggiungerebbe un po’ di pepe alla vostra altrimenti monotona relazione… -
- Shannon! La vuoi finire?! È tutto qui l’aiuto che sai darmi? –
- Ok, va bene, d’accordo. Allora parliamo di cose serie. – lo guardai, in attesa. – Forse dovresti lasciar perdere, cogliere l’occasione per mollare tutto. Riflettici, è un segno del destino. –
- Oh mio Dio… - sospirai, lasciandomi cadere contro lo schienale.
- Dico davvero! Anni e anni e anni di melodrammatiche vicende… Prendi, lascia, urla, picchia, bicchieri ridotti in pezzi, baci, lacrime, promesse, crisi isteriche, vasi ridotti in pezzi, fughe, sorprese, minacce, gelosie, interi. servizi. di piatti. ridotti in pezzi e poi, così, decidete di cominciare a comportarvi come persone normali, progettate di vivere come persone normali, di andarvene in giro come persone normali e lui, che, diciamocelo, normale non è proprio per niente, BAM! si schianta con la sua  macchina, facendo il coglione come ha sempre fatto finora. Fratellino, il fato sta cercando di comunicarti qualcosa… -
Soddisfatto, si sistemò più comodamente sulla poltrona. Io, per qualche motivo, rimasi immobile a fissarlo, con gli occhi sgranati ed un’espressione allucinata. Se ne accorse.
- Jared? – mi guardò per qualche secondo, poi si tirò in avanti, dispiaciuto. – Ok, Jay, stavo scherzando… sono un cretino, non è stato divertente. – mi poggiò una mano su un ginocchio. – Scusami. –
Abbozzò un sorriso e io sospirai, passandomi le mani sul viso, poi poggiandole sulle cosce che avevo incrociato sotto di me.
- È che mi sento uno schifo! Non sono preparato a tutto questo, non so come affrontarlo… -
- E cosa vorresti fare, scusa?! – si mise composto e continuò, con convinzione e franchezza. -  E’ il tuo uomo, è…l’amore della tua vita. E che Dio mi perdoni per quello che sto per dire, ma nessuno ha il diritto di mettersi in mezzo, di decidere per voi.  Nessun altro, Jay, sa cos’è meglio per voi o può tentare di allontanarvi. Credimi… Ci ho provato, ma non funziona! –
Sorrisi. Sorrisi sul serio e annuii.
- Mi dispiace, Shan, per quei 12 piatti di porcellana pregiata che collezionavi. –
- Ah, figurati! Se non altro con uno lo prendesti in pieno, ne è valsa la pena. Mi dispiace di più per il vaso cinese, quello sì che era proprio un bell’oggetto… -

Mi convinsi a salire in camera mia, subito dopo.
Avevo ancora un bel peso sullo stomaco, ma ero sicuro di ciò che volevo fare: la mattina dopo, molto presto, sarei tornato in ospedale, avrei parlato con Colin e gli avrei raccontato tutto. Finché questa faccenda dell’amnesia fosse durata, avremmo sopportato i vari disagi e inconvenienti, ma, almeno, l’avremmo fatto insieme. Come tanti anni prima, con la riabilitazione. Ero risoluto, al diavolo tutto quanto e tutti quanti.
Mi misi a letto, pronto a fissare il soffitto fino all’alba, ma, inaspettatamente, pochi minuti dopo, dormivo come un bambino.


Mi svegliai con un fascio di luce intensa puntato dritto in faccia. La stanza era completamente illuminata, il sole caldo e forte che rifletteva i suoi raggi attraverso il vetro.
Sbattei ripetutamente le palpebre, infastidito da tanta e inaspettata luce.
- Ma che cavolo, già a quest’ora… - bofonchiai tra me.
Annaspai con un braccio fino al comodino, per controllare l’ora sul blackberry. Il display s’illuminò: 10:01. Lo avvicinai, mettendo meglio a fuoco, ma il risultato non cambiò di una virgola. Le dieci? Come era possibile, avevo messo la sveglia alle sette in punto! Le dieci?!
- Cazzo, cazzo, cazzo! –
Fui in piedi in un nanosecondo, neanche fossi stato morso da una tarantola. Aprii di corsa l’armadio, tirai fuori un paio di jeans e una t-shirt puliti e per un attimo considerai di vestirmi ed andarmene in fretta e furia, ma avevo seriamente bisogno di una doccia. Riuscii comunque a prepararmi in un lampo, non solo domandandomi come avesse potuto tradirmi in quel modo il mio affidabilissimo e amatissimo cellulare, ma anche stupendomi di quanto effettivamente avessi dormito. Se non altro, mi sentivo bello sveglio, pronto e reattivo.
Volai giù per le scale, chiamando a gran voce Shannon.
- Buongiorno! – lo trovai ad aspettarmi in fondo alla rampa, con il sorriso sulle labbra.
- Sì, buongiorno… Sono in un ritardo mostruoso, Shan, non ne hai idea… Perché non mi hai svegliato?- mi affrettai in cucina.
- Ti ha fatto bene riposarti, ne avevi sicuramente parecchio bisogno. – lo sentii rispondere dalla sala.
Aprii il frigo, alla ricerca del frullato di carota e mango, il mio indispensabile attivatore di energie mattutine.
- La sveglia del BB non è suonata. Non capisco come sia possibile, non è mai successo prima. – gridai mentre spostavo un paio di bottiglie di vetro, non trovando quella che mi interessava. – Shan, dov’è il mio frullato? –
- L’hai finito l’altra sera, non ti ricordi? E io non ho osato rifartelo, visto che non ti va mai bene quando ci provo! – mi urlò di rimando.
Sbuffai e diedi una veloce occhiata al contenuto del frigo. Non avevo davvero tempo da perdere. Intravidi il tè avanzato dalla sera prima in un angolo e decisi che poteva essere un buon sostituto, ma, quando presi in mano la teiera, le mie dita urtarono un flaconcino nascosto dietro ad essa. Confuso, lo presi in mano per capire cosa fosse. Rimasi a guardarlo per qualche secondo, poi feci due più due e tornai in sala come una furia.
- Shannon! –
Sobbalzò e si voltò verso di me. – Che c’è? – mi chiese, accigliandosi al mio tono.
- Mi hai messo queste nel tè, ieri sera? –
Sorpreso, guardò me e il piccolo flacone che tenevo in mano. Rimase in silenzio, mordendosi il labbro inferiore.
- Oh mio dio! Mio Dio! Ma come ti è venuto in mente? – strillai.
- Jay, senti, avevi –
- Come…tu…come… Mi hai praticamente drogato! –
- Ma che dici?! Sono le gocce omeopatiche che ha lasciato qui la mamma, te lo dice sempre di prenderle quando ti agiti troppo. – lo guardai in cagnesco – Ti-ti ricordi quella sera dopo il concerto e tutto, ti convincesti a provarle e dormisti come un angioletto! –
- Mi prendi in giro?! –
- Jay, eri agitato ieri e –
- Ma che c’entra! Ero agitato, sì, ero agitato, d’accordo? Mi biasimi per questo?! – cercò di parlare – No, no, stai zitto, stai zitto, Shan! Io non ho parole…Mi hai drogato! –
- Oh, finiscila! Sono gocce omeopatiche, OMEOPATICHE! Ti servivano per calmarti un po’, ma avresti fatto un sacco di storie e non avresti acconsentito. –
- L’hai detto, non avrei acconsentito! E allora che fai? Me le metti di nascosto nel tè? Come ai bambini?! Cazzo, Shan, volevo essere in ospedale presto stamattina, volevo parlare con Colin il prima possibile e invece, siccome sei un idiota, ho dormito 12 ore! A questo punto, chissà quanto avrà suonato la sveglia, si sarà fusa la batteria, mentre io, dormivo come un angioletto… -
- Non esagerare sempre, te ne ho messe pochissime. Così poche che non pensavo nemmeno avrebbero fatto effetto… -
- Ah, sì? E allora come ti spieghi che – mi fermai, assalito da un dubbio – Shannon? –
- Sì? – mi rispose incerto, reso titubante dal mio cambiamento improvviso.
- Non mi hai disattivato la sveglia, vero? – mi sentii avvampare quando fece un impercettibile ma colpevolissimo passo indietro, portandosi il pollice alla bocca. – Tu. Non sei sgattaiolato in camera mia, stanotte, e hai disattivato la mia sveglia, lasciandomi, deliberatamente, alzare con tre ore di ritardo. Vero? –
Rimase in silenzio per qualche secondo, mordicchiandosi l’unghia del suddetto pollice. – Io ho deliberatamente fatto in modo che ti riposassi. –
Chiusi gli occhi e strinsi i pugni, tentando di trattenermi dal dire cose che non avrei dovuto. Contai fino a cinque.  – Sei…tu sei –
- E che recuperassi le forze, così da evitare di cascare per terra come un demente e non essere utile a nessuno! – mi interruppe, assumendo pure l’atteggiamento di chi la sa lunga.
- Shannon, tu sei…Io non ho…Mi hai drogato e sabotato, Cristo santo! – non ci potevo credere!
- Non ricominciare, se solo tu fossi –
- Zitto! Stai zitto! Shhh!- lo avvertii-  Io devo veramente scappare, devo scappare, adesso, Shannon, ma tornerò a casa prima o poi e giuro che te la farò pagare…- presi le chiavi e il portafogli dal tavolo – te la farò pagare cara, Shannon, non finisce qui. – feci del mio meglio per assumere un’aria minacciosa, lo guardai un’ultima volta e andai verso la porta.
- Mi ringrazierai, più tardi, - mi arrivò la sua voce mentre uscivo – quando sarai lucido abbastanza per fare tutto quello che devi fare oggi! –
M’infilai in macchina e partii come un razzo.
Ero così tanto indietro sulla mia tabella di marcia che mi venne da piangere per il nervoso. Odiavo quando Shannon faceva così. Dio, come lo odiavo!
Pretendeva di sapersi prendere cura di me quando io invece ero troppo distratto o impedito da altro e mi trattava come se avessi ancora sei anni. Sapevo che lo faceva in buona fede e, anzi, il più delle volte aveva anche ragione, ma la cosa mi dava comunque fastidio. Quel giorno in particolare.
Erano solo le dieci e mezza e già la giornata non stava andando affatto secondo i miei piani.


Quando raggiunsi la stanza di Colin, trovai Claudine seduta vicino alla porta, intenta a mescolare il suo caffè con una palettina. La salutai, cogliendola di sorpresa, e lei appoggiò subito il bicchierino accanto a sé e si alzò in piedi.
- Ciao! – mi sorrise, quasi con timidezza – Temevo che tu… Insomma, Eamon ci ha detto... –
- Ci sono novità? – volevo andare al sodo e lasciar perdere il resto. Inoltre mi dispiaceva vederla così imbarazzata.
- No, non granché. – scosse la testa, cercando di scacciare l’amarezza.  – Hanno già fatto dei controlli e dicono che è tutto a posto, ma per il resto – abbassò gli occhi – per l’amnesia, intendo, è tutto uguale. –
Deglutii. Non mi aspettavo niente di diverso, in fondo. Diedi un’occhiata intorno, ma non c’era nessuno. - Gli altri? –
- La mamma ed Eamon sono dentro, io sono uscita un attimo per prendermi un caffè. Non ho fatto in tempo a fare colazione, siamo arrivati molto presto. – “beata lei”, pensai. – Stanotte è rimasto qui papà, insieme a Catherine, ed ora sono a casa a riposare. Ah, il dottor Ross ha detto che, se non ci saranno complicazioni, stasera lo trasferiranno in neurologia, al piano di sopra, in una stanza più piccola, ma con un altro lettino, così chi vorrà rimanere la notte con lui non dovrà spezzarsi la schiena su una sedia. – sorrise appena.
- Non si sa quanto dovrà rimanere qui? –
- No, per ora non si sono espressi al riguardo. Però, intanto, nel primo pomeriggio avrà la prima seduta con lo psicologo. –
- Ah, bene. – avevo la sensazione che mi guardasse in modo strano. – Che c’è? –
Scosse velocemente la testa: - Niente. –
- Allora beviti il caffè, prima che si raffreddi. – annuì e si chinò a prendere il bicchiere, lentamente.
Si bagnò appena le labbra e posò di nuovo lo sguardo su di me, titubante, come se volesse dirmi o chiedermi qualcosa, ma non fosse sicura di fare la cosa giusta. Inarcai un sopracciglio.
- È passata Alicja, prima. –
Ah, ecco. Ebbe tutta la mia attenzione, ma rimasi in silenzio.
- È rientrata con un po’ di anticipo da Cracovia, ieri sera. Ha portato anche Henry. – aggiunse, tentennando.
Non ottenendo da me altre reazioni, continuò: - I dottori, però, hanno detto che è troppo presto, di aspettare ancora un giorno o due per i bambini. –
- E lei? – non riuscii a trattenermi.
La soddisfazione che doveva aver provato quando, arrivata, si era accorta che non c’ero, era probabilmente pari al sentimento di profonda insopportazione che mi colse in quel momento. La mia era certamente un’ossessione, ma potevo benissimo immaginare il sorriso che non doveva esser riuscita a trattenere, avrei potuto disegnarlo!
In ogni caso, mio fratello, adesso, era morto.
Claudine fece spallucce: - E’ rimasta dentro qualche minuto, ma lui, ovviamente, a parte prendere atto di chi fosse, non ha potuto fare altro. –
In quel momento, Rita sbucò dalla porta. Vedendomi si aprì in un largo sorriso.
- Jared, buongiorno! –
Ricambiai.
- Sei riuscito a dormire qualche  ora? – chiese, sinceramente preoccupata.
- Sì, in effetti. E lei? –
- Ho avuto notti migliori…ma anche peggiori – disse, con tenerezza. – La flebo è finita e Colin ha fame. Devo sentire un’infermiera per sapere se può mangiare qualcosa. Vieni con me, Claudine. Jared, perché non entri, intanto. –
Se avessi avuto voglia di ridere, avrei trovato quasi divertente il contrasto fra l’espressione gioviale di Rita e la morsa  che mi stringeva lo stomaco.
Non dissi nulla, annuii soltanto e oltrepassai la porta, chiudendomela il più silenziosamente possibile alle spalle, le mani sudate e fredde. Una piccola rientranza nascondeva l’ingresso al resto della stanza ed io, ancora non visibile, decisi di prendermi qualche secondo per acquisire una qualche parvenza di compostezza, ma fui immediatamente distratto dalla voce di Colin.
- Secondo te tornerà l’infermiera di prima? Aveva un che di decisamente interessante… e delle tette enormi! –
- Non saprei, non ci ho fatto caso. – borbottò Eamon.
- Lo so, è questo il tuo problema… -
- Sarà… -
- Se torna lei, dovresti uscire e lasciarci soli. –
- Certo, come no. -
- Eamon, non solo, a quanto pare, non ho una moglie né uno straccio di fidanzata, ma non sto neanche con nessuna delle due avvenenti mammine dei miei…ehm…figli! Devo accertarmi subito di non essere stato contagiato dai tuoi geni! –
- Colin, perché invece non te ne stai un po’ zitto?! –
Sentii dei passi avvicinarsi.
- E dai, che ti costa andartene per cinque minuti..? –
Ma Eamon non rispose, perché me lo ritrovai all’improvviso davanti, intento a piegare un asciugamano. Si fermò di colpo. – Jared…- disse invece, e la sua espressione passò rapidamente dal sorpreso al mortificato.
- Come? – sentii domandare Colin.
Feci l’unica cosa che, ormai, a quel punto, potessi fare: superai Eamon e avanzai fino al letto.
Colin non aveva un brutto aspetto; era disteso, ma lo schienale rialzato lo faceva sembrare meno “malato” e la ferita sulla testa doveva essere stata medicata, la benda era nuova e fissata ordinatamente.  Aveva la barba leggermente sfatta e  i capelli spettinati. Oh no, non aveva per niente un brutto aspetto.
Rispolverai i miei migliori trucchi da attore e sfoderai un enorme sorriso. -  Buongiorno! Come ti senti, oggi? –
Forse inizialmente stupito, mi sorrise a sua volta, genuinamente. – Jared! Chiedevo giusto poco fa ad Eamon di te! –
- Ah sì? – lo guardai. Dovevo smetterla di squadrarlo a quel modo.
- Sì, non sapevo più cosa – un’infermiera, apparentemente quella in questione, fece il suo ingresso, con una piccola sacca trasparente in mano, salutandoci educatamente e catalizzando tutta l’attenzione di Colin. – Ehi, bellezza! Bentornata! –
- Non so se sarà ancora felice di vedermi, ora che le attaccherò un altro di questi. – disse, avvicinandosi per sostituire la flebo terminata con quella nuova. Colin mise il broncio. – Ma la buona notizia, signor Farrell, è che è l’ultimo e da stasera proveremo con qualcosa di un tantino più solido! –
- Andrà bene qualsiasi cosa, purché sia tu a portarmela, dolcezza. – le strizzò un occhio.
Dio, avevo sempre detestato come riuscisse a buttare là certe frasi banali senza mai scadere nel patetico o nel volgare, anzi, sortendo esattamente l’effetto desiderato.
- E comunque, signor Farrell è mio padre o, non so, forse anche mio fratello… - si voltò verso Eamon, che alzò gli occhi al cielo – chiamano anche te così, ormai? – poi, di nuovo alla ragazza, offrendole il suo inconfondibile sguardo birichino – Io sono solo Colin. –
- Lo so chi è lei, Colin, - gli sorrise, finendo di sistemare la sacca e l’ago – e spero che molto presto torni a saperlo anche lei. –
Ebbi l’impressione che mi rivolgesse un’occhiata di imbarazzata complicità, ma comunque fu fuori dalla stanza in un attimo.
- È per questa specie di grosso cerotto… sembro il cugino irlandese di Frankenstein! – si lamentò Colin. Dopodiché si rivolse a me: - Sei d’accordo? Vieni, raccontami un po’ di cose! Allora, com’è che quasi non ti conosco eppure sei la prima persona che vedo appena riapro gli occhi? – mi domandò, togliendosi dalla faccia l’espressione concentrata del cacciatore ed indicandomi tranquillamente una sedia.
E, se tutto il resto non fosse stato sufficiente, bastò quello a farmi cadere il mondo addosso.
La realizzazione mi colpì improvvisa, con uno schianto sordo e prepotente. Eamon non stava cercando di proteggere suo fratello, stava cercando di proteggere me.
In tutti quegli anni, avevo sempre cercato le risposte ai miei dubbi negli occhi di Colin. Nei momenti belli, come in quelli brutti, tutto ciò che non poteva o non riusciva  ad esprimere a parole, l’avevo sempre trovato lì, in quei grandi occhi nocciola che, al di là di ogni altra emozione, non mi avevano mai negato il suo amore né nascosto il suo desiderio. E adesso guardava me con il sincero coinvolgimento che si prova verso un piacevole interlocutore, ma internamente cercando di distogliersi dal principale interesse che gli occupava la mente.
Non scorgevo nei suoi occhi il minimo segno di quella esclusività, di quella straordinaria  forza che relegava inesorabilmente in secondo piano chiunque, ogni qualvolta ci trovassimo insieme. Quello che avevo davanti era il Colin di cui mi ero innamorato, ma non era il mio Colin.
Per diventarlo, avrebbe ancora dovuto vivere l’intima vicinanza di sei mesi di riprese, la timidezza e l’ingenuità delle prime carezze sotto il caldo sole del Marocco, la paura di esporsi, quella di perdersi, lo sforzo immane di lottare contro il proprio demone interiore, la volontà di farcela, il timore di un mondo troppo grande e spietato, il dolore di non poter tornare indietro, la disperata sofferenza che segue la rassegnazione, la serena consapevolezza di chi sa cosa vuole veramente, la gioia incontenibile che sopraggiunge alla fine di un percorso che ti porta ben oltre il traguardo sperato.
Tutte queste cose avevano plasmato il mio Colin, ma attualmente erano soltanto ricordi svaniti che non avevano lasciato traccia. Di lui, non c’era traccia.
E dirgli la verità, in quel momento, non sarebbe stata che un’inutile imposizione per lui ed una straziante umiliazione per me.
Era questo che Eamon cercava di risparmiarmi, da questo voleva proteggermi.
Fu proprio il suo schiarirsi la voce a riportarmi alla realtà. – Io vi lascio per un po’ da soli così –
- No! – quasi gli gridai, ottenendo in cambio uno sguardo allibito. – De-devo andarmene adesso. –
- Ma sei appena arrivato… Perché te ne vai? – chiese confuso Colin.
Evitai di guardarlo mentre mi avvicinavo e gli poggiavo la mano sinistra sul ginocchio coperto dal lenzuolo. Strinsi quasi impercettibilmente.
- Perché ci sono migliaia di cose da fare che non spariscono solo perché il tuo migliore amico ha battuto la testa… -
Non so se riuscii effettivamente a inscenare il sorriso che mi ero proposto, ma non vidi comunque la reazione di Colin perché avevo ormai la vista completamente appannata dalle lacrime.




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Capitolo 5
*** alone ***


5.
Cercai di mantenere il controllo il più possibile finché non misi piede fuori dalla stanza. Temetti per un istante che il cuore mi esplodesse.
Individuai una porta socchiusa in fondo al corridoio e, senza pensare, mi misi a correre in quella direzione, quasi travolgendo un malcapitato finito sul mio percorso.
Chiusi la porta di quello che si rivelò un piccolo sgabuzzino, pieno di scaffali contenenti detersivi e strumenti necessari per le pulizie; l’aria odorava di sapone e disinfettante. Mi appoggiai con le braccia ad un tavolinetto addossato ad una parete: avevo la nausea, il respiro affannato e mi resi conto di tremare come una foglia da capo a piedi. Il battito mi rimbombava ritmicamente nelle orecchie, troppo veloce.
Un secondo dopo la porta si aprì ed entrò Eamon, che si avvicinò senza dire una parola e tentò di abbracciarmi. Mi divincolai debolmente e lui aumentò la presa, fermo e rassicurante. – Vieni qui, – mi sussurrò all’orecchio – vieni qui. –  Mi arresi e lasciai uscire un singhiozzo, poi un altro e un altro ancora, finché non mi ritrovai a piangere incontrollabilmente, aggrappandomi con i pugni alla camicia di Eamon.
Piansi per lo spavento, per il disappunto, per la rabbia accumulati in quei giorni. Piansi per quel senso di abbandono che non mi coglieva più da anni. Piansi per quanto tutto fosse dannatamente ingiusto. E piansi per Colin, che mi mancava in modo disperato e che avrebbe sofferto come un cane se mi avesse visto in quelle condizioni.  Piansi a lungo, sfogando con le lacrime tutta la mia frustrazione.



Delusi Rita quando rifiutai categoricamente di restare per il pranzo che aveva già ordinato, ma non ero davvero in grado, per il momento, di starmene intorno a Colin ed Eamon lo capì, frenando le insistenze della madre. Avviandomi verso l’uscita, incrociai Claudine, impegnata in mille telefonate per disdire i numerosi incontri di suo fratello, previsti in quei giorni per la promozione di Total Recall. Le feci un cenno di saluto che lei ricambiò, inviandomi un bacio con la mano. Quando arrivai a casa, la trovai deserta. Saggiamente, Shannon doveva aver trattenuto tutti quanti al Lab. Molto saggiamente, anche sé stesso.
C’era un silenzio completo e assolutamente inusuale.  Mi diressi in cucina ed aprii il frigo per prendere un po’ d’acqua fresca. Lo stomaco gorgogliò di protesta mentre rimisi a posto la bottiglia: effettivamente non avevo mandato giù nulla dalla mattina. Diedi un’occhiata agli avanzi della sera prima, ma il solo pensiero di mangiare qualsiasi cosa non fece che aumentare quella nausea che ancora non mi aveva mollato un minuto.
Però mandai un messaggio a Tomo, per ringraziarlo della cena e rassicurarlo del fatto che fossi ancora vivo. Decisi poi di chiamare mia madre, in vacanza in Messico con delle amiche, non potendo latitare ancora per molto. Mentre aspettavo che rispondesse, mi chiesi se Shannon l’avesse informata, ma non essendo stato tempestato di telefonate, messaggi o minacce di morte, conclusi che avesse lasciato che fossi io a farlo. Difatti la colsi totalmente di sorpresa e mi occorse una mezzora abbondante per convincerla che non era affatto necessario che tornasse, promettendo di avvertirla tempestivamente in caso di novità e di tenerla regolarmente aggiornata sugli sviluppi. Ovviamente, sorvolai sul fatto che Colin avesse appena una vaga idea di chi fossi, altrimenti neanche il presidente degli Stati Uniti l’avrebbe costretta a finirsi la vacanza. 
Tornato finalmente solo con me stesso, mi affacciai nella sala insonorizzata in cui mio fratello teneva e la sua batteria e si esercitava per parecchie ore al giorno. Non era un luogo propriamente professionale, come i vari locali del Lab, ma un piccolo ritaglio di spazio solo per noi, nel cuore della casa, dove anch’io conservavo molte delle mie chitarre. Più di una canzone aveva preso forma lì, in effetti.
Mi balenò per un attimo nel cervello l’idea di sedermi e strimpellare qualche corda, ma no, non era certamente un giorno ispirato, quello. Richiusi la porta e mi ritirai in camera mia, lasciandomi cadere sul letto.
Ero sfinito. Non ero in piedi che da poche ore, ma ero psicologicamente e fisicamente a pezzi. Mi girai su un fianco e mi ritrovai a fissare il lato di Colin.  Sorrisi fra me, il lato di Colin.
Non eravamo mai sati una coppia normale, anzi, soprattutto nei primi anni, non eravamo stati affatto una coppia, ma avevamo consolidato un’abitudine saldamente radicata: quello a  sinistra era il suo lato del letto, il mio dava verso a finestra.
Io e Shannon ci eravamo potuti permettere quella casa con i compensi del primo disco e il contratto con la casa discografica, con l’aggiunta di un paio di buone entrate di miei film ad alto budget. Vivevamo lì dal 2004 e nessuno era mai entrato nella mia camera, a parte Colin. Per le avventure e gli incontri di una notte, le stanze d’albergo di Los Angeles come delle svariate città del mondo in cui mi ero ritrovato, andavano più che bene.
Ma quello era il nostro letto. E tale era rimasto anche in quel lungo anno e mezzo in cui avevamo rotto, in cui non ci eravamo più visti e non parlavamo. Avevo ripetutamente evitato ogni sua chiamata, vanificato i suoi tentativi di entrare in contatto con me per mesi, ma non ero mai riuscito a violare la nostra tacita consuetudine, nemmeno nei momenti in cui più di ogni altra cosa avrei voluto ferirlo.E quando eravamo tornati insieme, ormai quasi due anni prima, mi aveva fatto capire di essermene molto grato.
Mi spostai lentamente dalla sua parte e mi abbracciai al cuscino, scovando la sua maglietta grigia.
Negli ultimi tempi, aveva preso l’abitudine di lasciarcene sempre una. In realtà, poi, non la indossava quasi mai, ma periodicamente la cambiava e la ripiegava là sotto. La tirai fuori e ci nascosi il volto, cercando invano di inspirare il suo odore. Non so come mai, ma mi prese nuovamente un profondo sconforto e trovai, da qualche parte dentro me stesso, un’ulteriore riserva di lacrime a cui dare sfogo.
Mi indispettii, oltretutto, perché io non piangevo quasi mai, ma più il fastidio cresceva, più mi era impossibile trattenere i singhiozzi. Mi addormentai, così, stretto alla stoffa ormai bagnata.



Quando mi svegliai, la stanza era avvolta dalla penombra. Notai che le tende erano state tirate giù,  per cui Shannon doveva essere tornato. Mi stropicciai gli occhi e risistemai la maglietta sotto il cuscino, poi, con una flemma disumana, mi tirai giù dal letto e scesi al piano di sotto. Trovai mio fratello spaparanzato sul divano, intento a guardarsi qualcosa su Mtv. Come si fu accorto della mia presenza, scattò in piedi, spegnendo il televisore.

- Ho un po’ di fame. – dissi semplicemente.
Ci arrangiammo a preparare qualcosa per cena. Gli accennai agli eventi della mattinata e lo vidi restare di stucco, ma si rese conto che era meglio non fare domande. Mangiammo per lo più in silenzio e me ne tornai subito su, lasciandolo visibilmente preoccupato.
Non ero più tanto arrabbiato per la storia della sveglia, volevo solo stare per conto mio. Mi dispiaceva comportarmi così, ma ero sicuro che riusciva a capirmi e, comunque, saperlo a pochi metri di distanza, mi dava sicurezza. Ne era ben conscio anche lui, perché lo sentii armeggiare di sotto per tutta la sera, ma non se ne andò mai.
Decisi di farmi un bel bagno. Rimasi a sguazzo nella vasca per quasi un’ora, cercando di svuotare la mente e non pensare a niente. Controllai i messaggi sul cellulare, trovandone un centinaio, ma non scrivendo a nessuno, se non un semplice smile alla risposta di prima di Tomo.
Anche Eamon mi aveva inviato un sms : “Trasferito nel reparto di neurologia, stanza 31. Stasera resta la mamma. Ti aspettiamo domani, riposati. Per qualunque cosa, hai tutti i numeri dove trovarci. Buonanotte, un abbraccio”.
Mi immersi completamente un’ultima volta, poi uscii dall’acqua, mi asciugai appena e accesi a basso volume lo stereo. Affondai nel letto, totalmente nudo, recuperai la t-shirt di Colin e indossai solo quella. Mi stava grande, come quasi tutti i suoi indumenti, ma me la sentivo bene addosso. Realizzai mestamente che quello era l’unico modo che avevo a disposizione per sentirlo vicino, nient’altro. E chi lo sapeva per quanto tempo sarebbe stato così.
Magari il giorno dopo sarebbe stato un giorno migliore. Con questo pensiero in testa, rimasi sveglio a fissare il soffitto fin quasi all’alba.



La mattina seguente la sveglia finalmente suonò e suonò alle 7.30.
Avevo dormito appena tre ore, ma mi alzai comunque e presi a prepararmi. Solo dopo diverso tempo mi accorsi di star facendo tutto con una calma eccessiva, di muovermi con una lentezza esasperante. Mi sentivo come se non vedessi l’ora di uscire ed arrivare in ospedale, ma allo stesso tempo come se volessi trattenermi a casa il più possibile. Ogni minuto perso a tirare i pantaloni per togliere le eventuali pieghe, a sistemare i lacci delle scarpe nel modo più idoneo, a pettinare indietro i capelli per chiuderli nell’elastico, mi separava da quella che si apprestava ad essere quasi certamente un’altra giornata dolorosamente difficile.
Alla fine mi decisi a scendere in cucina per sgranocchiare qualcosa. Per poco non sobbalzai quando trovai mio fratello seduto al tavolo, appoggiato con la testa sul gomito destro, mezzo addormentato.

- Shannon! Che ci fai alzato a quest’ora?? –
Si riscosse subito, confuso, poi mi sorrise. – Volevo essere sicuro che stessi bene. – mi guardò con gli occhi stanchi, doveva avere un sonno tremendo.
- Sto bene. – cercai di rassicurarlo.
- Avevo calcolato che saresti sceso più o meno a quest’ora… - si controllò l’orologio al polso – beh, un po’ prima per la verità, comunque ho preparato il caffè e ti ho preso i biscotti, se ne hai voglia. –
Si diresse verso il banco della cucina e tornò indietro con un vassoio contente la caraffa fumante e un piattino pieno di vari tipi di biscotti, tutti integrali, quelli che lui detestava. Si fermò un attimo, guardandomi:
- Ci sono anche diversi succhi di frutta, se preferisci. –
Non riuscii a trattenere un sorriso davanti al suo tenero tentativo di accudirmi, ma mi ripresi in fretta.
- Non so se voglio davvero fidarmi di qualcosa preparato da te, Shan… forse dovrei controllare personalmente tutto ciò che mi finisce nello stomaco. – inarcai le sopracciglia, ma non ero completamente serio e se ne accorse.  
- D’accordo. – sbuffò leggermente, poggiando il vassoio. – Jay, mi dispiace per ieri mattina, forse non avrei dovuto farlo, ma, come vedi, stamane sei in piedi, in orario, e io ti propongo solo una colazione… vengo disarmato e in pace! – tornò a sedersi e mi indicò la sedia di fronte alla sua con un cenno del capo. – Avanti, prometto solennemente che non interferirò più nelle tue cose e non prenderò più decisioni che ti riguardino senza averti consultato. –
Mi scappò una risatina e feci per sedermi, quando suonò il campanello. Guardai accigliato mio fratello.
- Chi cavolo è a quest’ora? – ma lui mi rimandò uno sguardo incerto. – Rimani seduto, vado a vedere io. –
Quando arrivai presso la porta e udii dei colpi leggeri contro di essa, mi fermai, spiazzato, per qualche secondo. Pochissime persone conoscevano il modo di superare il cancello esterno all’abitazione e raggiungere direttamente l’ingresso principale.
Aprendo e trovandomi davanti il suo grande sorriso, restai ancor più sbalordito.

- Ehilà? Terra chiama Jared… -
- Che-che ci fai tu qui?! Non stavi lavorando dall’altra parte dell’America? –
- Sai, è per questo che esistono gli aerei, per spostarsi velocemente! – mi rivolse un’occhiata sarcastica. – Mi ha chiamato Shannon, allarmatissimo, ieri. Ho chiesto due giorni di pausa al regista, ne ho ottenuti uno e mezzo e Da-Da!!, eccomi qua..! – allargò le braccia attorno a sé.
Mi voltai verso mio fratello, che nel frattempo mi aveva raggiunto, pochi passi indietro, e lo fulminai con gli occhi.
- Lo so cosa stai pensando, – si difese, mettendo le mani avanti – ma non avevo ancora promesso nulla ieri sera… Prometto solennemente a partire da adesso. –
Ritornai sulla ragazza che avevo davanti, che adesso mi guardava con un’espressione molto più seria.
- Perché non me l’hai detto subito? –
Provai l’impulso irrefrenabile di abbracciarla e lo feci.
- Perché sono un idiota – le sussurrai, sentendo le sue braccia stringermi forte sulla schiena. – Sono contento che tu sia qui, Rosario.

 


Eccomi qua, in fondo questa volta!
Lo so, è un capitolo un po' breve e noioso, di transizione, ma quando l'ho scritto mi sembrava indispensabile!
Se non altro arriva Rosario, che, sì, è Rosario Dawson!
Non compare quasi mai nelle storie di questo fandom, ma a me piace, molto più delle persone di cui si circonda oggi Jared,
così ho colto l'occasione per metterla in mezzo... Spero vi piacerà!
Ringrazio ancora una volta tutti coloro che hanno recensito e vorranno farlo di nuovo
ed anche chi ha inserito la storia fra le seguite. Grazie di cuore :)

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Capitolo 6
*** un inizio ***


6.
Assaggiai il mio caffè ormai tiepido mentre Shannon porgeva il vassoio con i biscotti a Rosario, seduta sulla poltrona di fronte al divano.
Ne prese uno e ne morse un’estremità, levando poi lo sguardo su di noi.
- Allora, raccontatemi per bene com’è andata. –
Le riferii nel dettaglio tutti gli eventi degli ultimi giorni, spiegandole la condizione clinica di Colin, in particolare i problemi legati all’amnesia. Senza scendere troppo nello specifico, le parlai anche della mia decisione di tenergli momentaneamente nascosta la vera natura della nostra relazione, rendendomi conto dal suo atteggiamento che mio fratello doveva avergliene già fatto cenno.
- Tutto questo è assurdo. – disse solamente, lasciando uscire un respiro profondo e mordicchiando distrattamente il solito biscotto.
- Non dirlo a me. –
La vidi perdersi nei suoi pensieri.
Non avevo avuto bisogno di descriverle il mio stato d’animo durante le spiegazioni, sapevo benissimo che era in grado di capire da sola.
Rosario era senza ombra di dubbio la mia migliore amica. Una di quelle pochissime persone a cui non potevo nascondere niente, in primo luogo me stesso.
E come tutto ciò che amavo di più, la custodivo come un dono privato e personale, proteggendo gelosamente il nostro rapporto da ogni indiscrezione e interferenza esterne. Soltanto una ristretta cerchia di amici e conoscenti era al corrente di quanto legati fossimo in realtà.
Avevamo fatto subito amicizia sul set di Alexander; ero stato conquistato dal suo senso dell’umorismo e dal suo modo scanzonato eppure rigoroso di prendere la vita. Con Colin, invece, era tutta un’altra storia.
Per un qualche astruso motivo, gli era sembrato divertente che ad interpretare Roxane fosse qualcuno chiamato Rosario, così trovò incredibilmente appropriato abbreviarle il nome in Roxy. Ovviamente, era un soprannome che lei non sopportava e, ovviamente, fu il modo in cui ci ritrovammo tutti a chiamarla entro la fine delle riprese. Oramai era Roxy anche per la sua famiglia. Comunque, lei era stata la prima a sapere di noi e dello strano rapporto che avevamo  instaurato sul set, coprendoci quando necessario e comportandosi opportunamente se il caso lo richiedeva.
Non è che lei e Colin non andassero proprio d’accordo, ma adoravano punzecchiarsi. Una volta terminato il film, nessuno dei due aveva immaginato di dover continuare a frequentarsi, ma con Colin era andata come era andata e con Rosario era nato un legame così forte che non ci era mai venuto in mente di perderci di vista, così, volenti o nolenti, avevano accettato di convivere l’un con l’altro di tanto in tanto. Non era facile, poteva essere estenuante, certe volte, trovarsi in mezzo e sentirli discutere per qualsiasi cosa. Potevano litigare anche sul colore dell’aria, se erano dell’umore giusto. Rosario non perdeva mai l’occasione per dargli fastidio: lo prendeva in giro per l’alone da macho che si portava dietro, per il suo accento irlandese, per il modo buffo che aveva sempre avuto di intrecciarsi da solo nei discorsi e mandare tutti in confusione. Ma se per caso qualcuno si provava a dire una mezza parola fuori posto su di lui, era la fine. Solo lei poteva criticarlo, per gli altri, doveva essere perfetto.
Colin, dal canto suo, era insofferente ad ogni sua iniziativa, ogni sua proposta, le rifilava battutine acide e sarcastiche ogni qualvolta lei aprisse bocca. Eppure, se non aveva sue notizie per un periodo di tempo superiore alla media, non mancava mai di chiedermi con falso disinteresse cosa facesse o dove fosse. Avevano in realtà molte cose in comune per essere buoni amici e le poche occasioni in cui erano riusciti a distrarsi dall’idea che si erano fatti di doversi per forza dare addosso, lo avevano dimostrato. Non l’avrebbero ammesso nemmeno sotto tortura, ma si volevano un gran bene.
- Stavi andando in ospedale, adesso? –
Le parole di Rosario mi riscossero dalle mie riflessioni, ma non le afferrai bene e rimasi a fissarla confuso.
- Sì, stava uscendo. – rispose Shannon per me.
- Che ne dici se mi facessi una doccia veloce e venissi con te? –
Ci pensai un secondo, ma non mi parve che una buona idea.
Lei aveva il carattere e l’atteggiamento perfetto per rompere il ghiaccio che mi separava da Colin in quel momento.
- Certo. Ti aspetto qui, appena sei pronta andiamo. –


Il caldo di quei giorni continuava ad essere insopportabile. Come oltrepassammo l’entrata dell’ospedale, mi  fermai un attimo per passarmi un braccio sulla fronte ed asciugare il sudore.
Stavo per sfilare di tasca il cellulare per ricercare il messaggio in cui Eamon mi indicava la nuova stanza di Colin, quando Rosario richiamò la mia attenzione con un cenno del capo. Seguii il suo sguardo e vidi Alicja spuntare dalle scale in fondo al corridoio, il piccolo Henry fra le braccia.
Non appena anche lei si fu resa conto della nostra presenza, ebbe un  secondo di esitazione, ma riprese a camminare nella nostra direzione.  A pochi  metri da noi, il bambino mi riconobbe e mi gettò contro le sue braccine, sorridendo gioiosamente. D’istinto allungai un braccio a mia volta, ma Alicja continuò a diritto, superandomi senza degnarmi di uno sguardo.  Mi voltai, sentendo la vocina del piccolo cinguettare “Jay, Jay!”, e lo vidi aggrappato al collo della madre, che si sporgeva in avanti, agitandosi, con un’espressione sempre più delusa.
Mi si strinse il cuore, ma non potei fare altro che regalargli un grande sorriso e salutarlo con entrambe le mani. Quando tornai con lo sguardo su Rosario, la trovai sconsolata.
- Se non altro sappiamo che la direzione è quella. – indicò le scale e si avviò.
Annuii e le andai dietro. Ero furioso.


La nuova stanza si trovava nel braccio più breve di un corridoio diviso in due parti disuguali dalla corsia principale. C’erano solo due porte sul lato destro ed una fila di sedie nere sull’altro. Su queste erano seduti Eamon e suo padre. Li salutai, il secondo in particolare, non avendo ancora avuto modo di incrociarlo.
Ci avevo parlato solo un paio di volte nel corso degli anni e sapevo che il suo rapporto con i figli era un po’ complicato, ma mi aveva sempre fatto una buona impressione. Forse perché riuscivo a scorgere molto di Colin in lui, nelle increspature del volto, nella profondità dello sguardo, perfino nel tono della voce.
Presentai loro Rosario, assicurando che fosse un’amica fidata. Grazie al cielo la notizia dell’incidente non era ancora trapelata, il che permetteva di muoversi con maggior tranquillità, specialmente a me.
Mentre Rosario affascinava il signor Farrell, tirai da una parte Eamon.
-  Ho visto… l’ho vista per le scale, mentre salivo. – gli dissi secco.
- Alicja? Sì, è tornata molto presto, verso le 9… non so che dirti, non aveva avvertito. Voleva far vedere il bambino a Colin. –
- Ah sì? E com’è andata? Quanto è rimasta con lui? –
- Poco, credo. Siamo stati dentro anche noi per un po’, Cathy non è mai uscita. Purtroppo non è servito a niente, vedrai che non tornerà finché Colin resterà qui. L’ha sconsigliato anche il dottor Newton. –
- Sì, ma… è solo che… io vorrei… - la frustrazione mi mangiava le parole mentre Eamon mi guardava contrito. – Lascia stare, ne parliamo dopo. Sta bene? –
Annuì: – Un po’ stordito, ma sta bene. –
- Ok… - rimasi assorto qualche secondo, poi mi rivolsi verso Rosario. – Io intanto vado, raggiungimi tra cinque minuti. –
La porta si apriva direttamente verso il centro della stanza. Non era grandissima, ma era fresca e luminosa, con una bella finestra subito accanto all’ingresso del bagno. Trovai i due fratelli intenti a scherzare su qualcosa. Come entrai, si voltarono verso di me e Catherine mi sorrise.
- Ehi, Jared! Vieni! – si alzò, venendomi incontro. – Stavo raccontando a Colin di quando ha scoperto di essere allergico al cocco! –
Mentre ci abbracciammo mi sfuggì una risata. Me lo ricordavo, quel disastro.
Ero volato in Irlanda per qualche giorno, durante l’estate, e Rita mi aveva preparato una gigantesca torta al gelato di soia e cocco. Colin, da ingordo qual è sempre stato, se n’era fatta fuori una quantità spropositata e, poco prima di sera, si era sentito male. Naturalmente, aveva inveito contro la mia soia - “se tu mangiassi le cose che mangiano le persone normali” - , ma quando i crampi allo stomaco si erano fatti troppo forti, avevamo dovuto portarlo al pronto soccorso e i test avevano rivelato l’intolleranza al cocco. Per di più, si era riempito di fastidiose bollicine in tutto il corpo, veramente in tutto il corpo, che non se n’erano andate per quasi una settimana. E così, quello era stato un breve soggiorno col bollino verde, e le numerose imprecazioni di Colin a riguardo erano state forse ancor più divertenti dell’allergia in sé.
- Perché, è una storia che conosce anche lui? – borbottò Colin, dal letto.
- Lui era lì, sciocco. –
Colin mi lanciò un’occhiata diffidente.
Avevo notato che la confidenza con cui sua sorella mi aveva accolto l’aveva sorpreso. Probabilmente non doveva essersi fatto un’idea troppo positiva di me, dopo che me l’ero data a gambe in quel modo, il giorno prima.
Cercai di rimediare.
- Allora, oggi va meglio? – gli chiesi, avvicinandomi a lui con un sorriso.
- Va come ieri. – continuò col suo piglio ostinato.
Complimenti, Jared, sei partito proprio con il piede giusto.
Mi morsi le labbra per un istante, poi inspirai lentamente e feci del mio meglio per non distogliere il mio sguardo dal suo.
- Mi dispiace per come me ne sono andato ieri mattina. Avevo davvero mille impegni, volevo ritagliarmi qualche minuto per vedere se stavi bene, ma poi è stato troppo complicato. Mi rendo conto che l’intera situazione debba essere difficile per te e che io non mi trovi esattamente in cima alla lista dei tuoi pensieri al momento, ma – esitai un attimo, senza staccare gli occhi dai suoi – è difficile anche per me.  Non sono un membro della tua famiglia, in realtà non hai praticamente idea di chi io sia, ma vorrei fare del mio meglio perché tu possa fidarti di me. – mi fermai per cercare le parole più adatte e lo vidi cominciare ad ammorbidirsi. Mi umettai rapidamente le labbra prima di riprendere, tentando di trasmettergli l’ autenticità di quanto gli dicevo. – E’ difficile perché non sono sicuro di come debba comportarmi per farti sentire a tuo agio. Però sono qui e non me ne andrò più. Sarò qui per tutto il tempo, se vorrai… - Dio, digli che lo ami e fagli una serenata, mi diedi dell’idiota da solo, sperando di non essermi sbilanciato troppo. - Insomma, se ti farà piacere che ti tenga compagnia. –
Colin mi squadrò ancora per qualche secondo, poi, finalmente, la tensione sembrò abbandonarlo:
- La mia famiglia non fa che spargere elogi nei tuoi confronti. Qui tutti paiono essere innamorati di te! –
“Tranne te”, non potei impedirmi di constatare fra me e lo stesso pensiero dovette attraversare la mente di Catherine, a giudicare dalla malinconia che invase i suoi occhi, quando li incrociai.
- Immagino che dovrai avere pazienza con me, finché le cose non torneranno a posto. – concluse, allargando appena le braccia.
Avrei potuto giurare di aver colto un’aria di sfida nel suo sguardo. Non sapeva chi stava mettendo alla prova, poverino. Non sapeva che non me ne sarei andato per tutto l’oro del mondo.
- Ho anche portato con me qualcuno che voleva farti visita, oggi! – esclamai soddisfatto, cercando di alleggerire il clima e smorzare l’angoscia che mi stava soffocando.
Entrambi mi guardarono incuriositi.
- Gli avete accennato qualcosa dei suoi film? – chiesi a Catherine.
- Sì sì, più o meno tutto. – si rivolse verso il fratello. – Claudine, poi, ti ha spiegato per bene, vero? –
Colin annuì per poi tornare con lo sguardo su di me.
- Ti hanno parlato di Alexander? – gli domandai, forse più dolcemente di quanto avrei dovuto.
- Ehm, sì… a quanto pare ho scalato la vetta dell’Olimpo di Hollywood..! -  abbozzò un sorriso imbarazzato, strofinandosi il collo con una mano. – E’ lì che siamo diventati amici tu ed io, no? –
Mi colse un po’ di sorpresa, ma gli sorrisi: - Sì... sì, è così. – mi riscossi da quegli occhi profondi che mi fissavano, aspettando. - Comunque avevi una gran bella moglie in quel film, Alessandro, – gli strizzai un occhio – ed ha continuato a sopportarci per tutto questo tempo, Dio solo sa perché… - mi guardò divertito, aggrottando le sopracciglia.
Con un tempismo perfetto, Rosario bussò leggermente e sbucò con la testa da dietro la porta.
- È permesso? – sorrise.
- Entra, stavo venendo a chiamarti! – la esortai a farsi avanti con un gesto della mano.  – Catherine, lei è Rosario. Rosario, Catherine. – le presentai.
- Ciao, è un piacere conoscerti finalmente! – le disse Rosario mentre le stringeva la mano.
- Scherzi?! – Catherine la guardava sbalordita. – Il piacere è tutto mio! –
Rosario faceva spesso questo effetto alle persone, a tutti i tipi di persone. Era alta  e prosperosa, una bellezza genuina e semplice, ma irresistibile. E aveva un temperamento forte, che trasudava naturalmente da ogni poro. Avevo imparato col tempo che per molti era un’impresa ardua staccarle gli occhi di dosso al primo impatto. Per alcuni anche al secondo e al terzo.
Mi voltai verso Colin che, chiaramente, la fissava con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Scossi la testa, rassegnato.
- Colin, lei è Rosario. Roxy, beh, lo conosci… -
Prima che uno dei due potesse parlare, Catherine si congedò per lasciarci a quelle che definì “le nostre chiacchiere”.
Quando tornai con lo sguardo su di loro, li trovai che si studiavano. O meglio, Rosario lo studiava, lui sembrava più che altro concentrato su di una precisa parte anatomica.
- Beh, Colin, non vorrai mica dirmi che t’interessa la mia scollatura? –
- Fra le altre cose… - le sorrise, lasciandola sinceramente sorpresa. – Mi piace l’idea che siamo amici. –
- Oh, anche a me! – la vidi riprendere sicurezza di sé.
Continuarono a scambiarsi strane occhiate e stavo onestamente cominciando a perdere la pazienza, deciso ad introdurre un qualche argomento di conversazione, quando Rosario si avvicinò di più al letto, sedendosi all’estremità opposta rispetto a Colin. 
Gli sorrise beffardamente, soddisfatta:
 - Sai, tutte queste tue languide occhiatine ti si ritorceranno meravigliosamente contro non appena tornerai in te. Non vedo l’ora di rinfacciartele.–  
Lui mosse ancora per qualche secondo lo sguardo su di lei, assottigliando le palpebre, poi corrugò la fronte.
- Fumi, almeno? Non c’è una cane che si decida a passarmi una sigaretta in questo posto. –
- Ho smesso qualche anno fa. Anche tu, se non ricordo male. – lo guardò, sempre con un sorrisino ironico stampato sulla faccia. – Mi piace veder riemergere l’idiota colossale che c’è in te, ultimamente mi ero quasi convinta che se ne fosse andato per sempre. E invece guardati, un bel colpo in testa ed è di nuovo qui! –
Colin rimase momentaneamente spiazzato, poi rise brevemente, ma di gusto.
- Di’ un po’, c’è parecchia confidenza tra noi, non è vero? –
Rosario gli fece cenno di sì, inclinando la testa verso destra e arricciando le labbra.
- Quindi posso essere schietto con te..? – le domandò e lei annuì. – Ci siamo divertiti molto, tu ed io, durante le riprese, eh?! – le ammiccò.
Roteai gli occhi. Avrei dovuto aspettarmela quella reazione.
Fu il turno di Rosario di ridere: - No, stallone, non in quel senso! –
- Neanche una volta? Dietro una tenda? Una palma? Che so, sotto un cammello? – le chiese con tono basso, ma scherzoso.
- No, spiacente. Eri troppo, come dire, impegnato in altro… - gli sorrise divertita.
- Sono un professionista, - rispose lui compiaciuto – sono certo di aver fatto del mio meglio per calarmi nei panni di un personaggio di quel genere. –
- Oh, credimi, non avrei saputo usare parole più appropriate di queste per… – trattenne una risata – per descrivere le tue occupazioni durante i sei mesi di riprese! – si voltò verso di me ormai ridendo e mi sentii avvampare. - Non trovi anche tu, Jay, che si sia calato perfettamente?
Colin mi guardò, sbattendo confusamente gli occhi. Superai il più rapidamente possibile la sorpresa e l’imbarazzo e feci finta di nulla, ripromettendomi di farla pagare alla mia amica appena fossimo stati da soli.
Presi una sedia e la sistemai vicino al letto, accomodandomi vicino a Colin, di fronte a Rosario.
- Sì, è stato senza dubbio molto bravo, Roxy. –  marcai volutamente il nome e la guardai in modo esplicativo, per farle intendere che non sarebbe finita lì.
- E dai con questo “Roxy”! Scusate se ve lo dico, ma è un nomignolo del cavolo… -
- Ah! Non me lo dire, guarda! – rispose lei, dando sfoggio delle sue migliori doti di attrice – me l’ha appioppato anni fa un deficiente totale… -
Mi morsi la lingua per non ridere. Avevo avuto ragione, portare Rosario con me era stata un’ottima idea. Intrattenne Colin per più di un’ora con aneddoti, racconti, storie di ogni genere. Gli parlò del film, della fatica di alcune scene, della severità di Oliver, ma anche degli episodi più divertenti ed improbabili del dietro le quinte. Fortunatamente lo conosceva abbastanza per evitare di accennare all’immensa delusione che le critiche alla pellicola gli avevano procurato, la conseguente crisi personale che aveva vissuto.
Gli raccontò di tutte le cose assurde che ci era capitato di fare insieme, dal viaggio in Turchia al week-end on the road tra i monti del Wyoming, dai tre giorni che avevamo impiegato per rimbiancare metà della sua casa dopo la rottura con il fidanzato all’indigestione che si erano presi una sera a Roma, quando mi avevano raggiunto per un concerto.
Io non avevo aggiunto che qualche dettaglio alle storie di Rosario, standomene perlopiù ad ascoltare e a gustarmi le varie espressioni di Colin, i segni impercettibili delle emozioni che si susseguivano rapidamente sul suo volto, rigandogli di tanto in tanto la fronte, colorandogli gli occhi con le tonalità dolci-amare di momenti vissuti ma al momento sconosciuti. Averlo così vicino e sentirlo ridere mi permise  per un po’ di cullarmi nell’illusione che niente fosse mai successo, che ci trovassimo semplicemente insieme a scambiare quattro chiacchiere con un’amica.
Fu Catherine a riportarmi con i piedi per terra quando si affacciò dalla porta. Vedendoci di buon umore, si fermò per un attimo e sorrise, piacevolmente colpita.
- Scusate se vi disturbo, ma ho visto che stanno preparando i carrelli per il pranzo. –
- Di già? – le chiese Colin, con aria lievemente delusa.
La sorella annuì.
- Stanno armeggiando in fondo al corridoio. Credo che saranno qui tra poco, volevo solo avvertirvi. – disse, sempre sorridendo, ed uscì.
- Bene, ti lasciamo al tuo pranzo! – esclamò Rosario – Non sarebbe una cattiva idea neanche per noi, Jay, che dici? –
- Hai ragione. – dissi a malincuore, facendo per alzarmi dalla sedia.
Colin mi bloccò improvvisamente, stringendomi il gomito con una mano.
- Tornate, dopo? –
Ci guardava, muovendo alternativamente i suoi occhioni colmi di speranza tra me e Rosario.
Avrei voluto rispondergli, ma riuscii solo ad imbambolarmi sulle sue dita poggiate sul mio braccio, in un movimento tanto banale quanto inaspettato che mi aveva fatto correre un brivido lungo tutto la schiena.
- Io sono in città solo per un giorno, devo sbrigare diverse commissioni. – intervenne Roxy - E tu sei stanco, signor Irlandese, anche se non te ne accorgi; non puoi passare tutto il tempo a spettegolare con me! Ma Jared può restare senza problemi. –
Mi prese alla sprovvista e la guardai senza dire niente. Sentii la stretta sul gomito aumentare leggermente e mi voltai verso Colin, che mi fissava pieno di aspettativa.
- Ce-certo…- mi schiarii la voce – quando avrai fatto tornerò. –  
Cercai di nascondergli per quanto possibile il mio turbamento e lui mi si schiuse davanti in un sorriso sollevato. Se non altro, avevamo fatto dei passi avanti.
- A dopo, allora… - mi disse contento, per poi rivolgersi verso Rosario. – E’ stato bello, anzi, entusiasmante, conoscerti! Beh, riconoscerti… insomma, veder- che tu sia passata per parlare con me! – concluse un po’ impacciato.
Mi accorsi in un secondo che la maschera di Rosario fece fatica a rimanere su a quel punto.  
- E’ stato bello, anzi, entusiasmante anche per me..! – gli disse con tono giocoso, ma la voce più smorzata di quanto avrebbe voluto.
Si chinò con delicatezza su di lui, visibilmente sorpreso, e gli baciò teneramente la fronte: - Cerca di stare bene, Colin… presto. –
Gli sorrise un’ultima volta e si alzò, andando dritta verso la porta.
Io gli feci un segno di saluto con la mano e la seguii, udendo un flebile “Ciao” alle nostre spalle.


Accompagnai Rosario fino al parcheggio e restammo in silenzio per tutto il tragitto. La conoscevo fin troppo bene per non capire che aveva bisogno di processare l’accaduto. Aveva fatto del suo meglio dal momento in cui aveva posato gli occhi su Colin, ma ero certo che trovarselo davanti in quel modo, su quel letto, gioviale, ma inevitabilmente distante, l’aveva scossa parecchio. Ma era incredibilmente forte ed aveva resistito senza far trapelare la minima emozione, almeno fino alla fine. Quando raggiungemmo l’auto, le passai le chiavi.
- Faccio un giro, cerco un paio di cose, magari passo un attimo da casa mia. – mi disse distrattamente. – Torno a prenderti in serata. –
- Certo, fai come preferisci. –
- Jared, non mi piace questa faccenda, devi dirgli la verità. –
- Non avevo dubbi che la pensassi così, ma, credimi, adesso non è il caso. – le spiegai con calma.
- Ma non è giusto e finirai soltanto col farti del male. Ancora. – mi guardò in un misto di severità e costernazione.
- Me ne farei comunque, forse di più. –
Rimanemmo a fissarci per qualche secondo, poi lei sospirò.
- Cerca almeno di passare del tempo con lui. Ne avete bisogno entrambi, anche se lui non lo sa. –
- D’accordo. – la rassicurai – Ci vediamo stasera. –
Rosario annuì e s’infilò in macchina senza aggiungere altro.
In un istante era già sparita ed io mi ritrovai di fronte all’ingresso dell’ospedale, di nuovo solo.








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Capitolo 7
*** cominciando da noi ***


Buonasera mie adorate!!
Sebbene sommersa dagli esami, vi posto questo capitolo che spero tantissimo possa piacervi, perché,
bene o male, presenta il fulcro della storia, la direzione che mi sono prefissata di darle.
Quindi, se il risultato è bruttino, potrebbe essere un problema!
Spero di non deludervi e di aver messo insieme qualcosa di piacevole ed interessante :)
Ovviamente apprezzo moltissimo tutti i commenti e i pareri che mi lasciate e, in questo caso, saranno a dir poco fondamentali!  
Vi ringrazio in anticipo, anche solo per volermi dedicare un po' del vostro tempo :)
Buona lettura!




7.
La cucina delle mense ospedaliere non è certo rinomata per la sua elevata qualità, ma la frutta è pur sempre frutta.
Avevo accettato la proposta di Catherine e suo padre di unirmi a loro per il pranzo e adesso me ne stavo seduto in un piccolo tavolo all’estremità della grande sala, intento a sbocconcellare i cubetti di melone ed anguria con cui avevo riempito un bicchierone di carta. Mentre i due erano impegnati nel programmare gli spostamenti e l’organizzazione per il resto della giornata, io mi concessi un’analisi approssimativa dell’ambiente circostante. C’erano persone ovunque intorno a noi: in fila alla cassa, ai banconi a scegliere il cibo, sedute ai tavolini; persone diversissime fra loro, vistosamente appartenenti alle classi più disparate; persone in gruppi fino a quattro o cinque individui, persone sole, piegate con il capo sul loro piatto; persone piuttosto rilassate che chiacchieravano spensieratamente fra loro e persone buie, silenziose, evidentemente sospese alla sorte di qualcuno a loro caro. Un brusio di fondo, continuo ed alienante, divideva gli uni dagli altri, ciascuno isolato nella propria vicenda, ciascuno quasi ignaro della presenza altrui.
Ormai al termine del pranzo, fummo raggiunti da Eamon, che occupò il posto libero accanto al mio.

- Vado a prendere qualcosa anche per te? – gli chiese sua sorella, ingoiando l’ultimo boccone.
- Oh, no, grazie. Ho usufruito degli avanzi di Colin! – rispose soddisfatto – Semolino e purè, una delizia… -
- Vuoi un po’ di cocomero? – proposi, avvicinandogli il contenitore con i pochi pezzi rimasti.
- No, no, grazie! Mi sono mangiato praticamente tutta la macedonia! –
- Per l’amor del cielo, Eamon, hai lasciato qualcosa a tuo fratello? È lui che deve riprendere le forze, non tu! – lo ammonì con aria rassegnata il padre.
- Non preoccuparti, papà, ha l’appetito di un bue! Ha tracannato tutto quello che gli andava. – disse divertito – Ora dorme. –
- È stata una mattinata piena. – rifletté Catherine.
- Sì, prima Henry, poi…voi due – si voltò verso di me, sorridendo. – Però era contento. Esausto, ma contento! –
- Senti, Eamon, - lo richiamò la sorella – io e papà stavamo pensando di tornare un po’ a casa. Tanto Colin lo sveglieranno direttamente quando arriva lo psicologo, alle due. Torniamo più tardi con la mamma e Claudine.  Cercherò di convincere qualcuno a lasciarci cenare tutti in stanza con lui, stasera! – disse speranzosa. – Con te rimane Jared, no? –
Mi guardò e io le annuii, rassicurandola. Avevo la possibilità di passare del tempo con Colin, da solo, perché sicuramente Eamon avrebbe trovato un scusa per defilarsi. La prospettiva mi riempiva di euforia, certamente, ma anche di timore. Soprattutto di timore.
Finché era rimasto qualcuno con me, oltre a lui, me l’ero cavata, ma da solo… Che gli avrei detto? Che idea si sarebbe fatto di me? Decisi che ci avrei pensato sul momento. Avevo 40 anni e non mi ero mai intimidito di fronte a nessuno, non potevo cominciare proprio adesso e proprio con Colin. Accidenti a lui! Come se non me ne avesse già fatte passare abbastanza…

- Allora andiamo? – chiese Catherine, facendo per alzarsi con il suo vassoio.
- Aspetta! Facciamoci una partitina a carte, prima… - la fermò suo padre.
Nella frazione di un secondo, si ritrovò tre paia di occhi spalancati puntati addosso.
- Che?!? – mi scappò.
- E dai, papà… adesso? – si lamentò Catherine.
- Lo sai bene che è il miglior modo di far passare il tempo e distrarsi… - puntualizzò quello.
- D’accordo, ma qui…e poi dove le troviamo le carte! – concluse Eamon.
Svelto, il signor Farrell infilò una mano nella tasca interna della giacca, estraendone un mazzetto rilegato con un elastico, e fece scorrere il suo sguardo compiaciuto tra di noi. Lo guardai sbalordito ed ancor più sbalordito guardai Catherine quando lasciò uscire un sospiro:
- E va bene, ma solo una partita..! –
Eamon rise, notando la mia espressione.
- Forse non lo sai, ma in Irlanda si gioca sempre a carte! Si gioca per passare il pomeriggio, quando si aspetta che sia pronta la cena, prima di andare a letto… Si gioca ai matrimoni, ai funerali, ad ogni tipo di festa! –
- Non ti preoccupare, ti insegniamo in un minuto! – mi disse il signor Farrell con fare rassicurante. – Dunque, - passò le carte alla figlia, che cominciò a mescolarle – io e Cathy da questa parte del tavolo siamo una squadra, voi due, di là, l’altra. Praticamente, ci sono solo tre regole fondamentali…
Incredibile ma vero, mi appassionai al gioco. Era un gioco tipico irlandese, stranissimo, ma relativamente semplice, e loro ci si infervoravano in modo incredibile. Eamon ed io perdemmo la prima, la seconda ed anche la terza partita, ma alla quarta ci presi la mano e li stracciammo miseramente. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno mi sarei trovato in una situazione del genere, a giocare a carte in una mensa d’ospedale con il padre ed i fratelli di Colin, l’avrei mandato dritto in manicomio, ma fu un momento così sorprendentemente divertente e sereno che l’ora di alzarsi e tornare ognuno ai propri programmi giunse in un batter d’occhio.


- Aaaahhh… - Eamon sbadigliò per l’ennesima volta, mentre aspettavamo seduti sulle seggioline nere fuori dalla stanza di Colin. – Appena Freud se ne va e tu entri, mi sistemo qui e mi faccio un bel pisolino. –
- Scusa, stenditi sul lettino della camera, che ci stai a fare sulla plastica dura? – scossi la testa amaramente. – Se è per me che lo fai, sei gentile, ma, davvero, non ha importanza. –
- Non è affatto per te, è per me! Vi lascio volentieri la vostra privacy. L’ultima cosa di cui ho bisogno in questo momento sono i tuoi sguardi struggenti e i suoi commenti sessisti. Dio, se mi dice ancora una parola sulle tette procaci dell’infermiera,  giuro che gli tiro il collo e festa finita. Qualunque cosa tu gli abbia fatto tanti anni fa in Marocco, ti prego, entra là dentro e fagliela di nuovo, perché non lo sopporto più! –
Scoppiai a ridere.
- Non mi basterebbero poche ore! Spero – mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio – spero che ci metta molto meno a recuperare la memoria da solo. –
Eamon si girò meglio dalla mia parte e annuì:
- Andrà sicuramente così. - sorrise – Poi, già che ci sono, pensavo di fermarmi a parlare un po’ con questo psicologo… Voglio dire, ci sono cose che deve assolutamente sapere e di cui Colin non può parlargli, semplicemente perché le ignora lui stesso. –
- Giusto. – non ci avevo riflettuto. – Altrimenti il lavoro serve solo a metà. –
- Ne approfitterò adesso. –
In quel preciso istante il dottore uscì dalla porta.
- Ecco, appunto, vai! – mi spinse, senza darmi modo di ribattere.
Feci appena in tempo a fare un cenno di saluto all’uomo e non passare per uno strambo maleducato che mi ritrovai dritto in mezzo alla stanza.
Colin, sul letto di fronte a me, mi guardava divertito.

- Ehi! Hai messo il turbo per caso? –
- Ehm, no… sono… credo di… - indicai la porta dietro di me – sono inciampato. –
Gli sorrisi imbarazzato. Cristo, Jared, non farti prendere dal panico. Respira. Concentrati e respira.
- Sei stato di parola! Bene, - mi fece segno di accomodarmi nel posto prima occupato dallo psicologo – voglio assolutamente sapere come finisce la storia del cavallo e dell’elefante! –
Aggrottai le sopracciglia.
- Quella che raccontava Rosario. Catherine ci ha interrotti. –
- Ah, certo! -  risi leggermente, spostando un po’ la sedia e prendendo posto. – Anche se non è uno dei tuoi momenti più gloriosi! -
Mi scappò di nuovo da ridere e lui mi rimandò uno sguardo perplesso.
- Comunque mi dispiace, - ripresi - ma dovrai aspettare Roxy, perché io ero da un’altra parte in quel frangente. –
Inclinò appena la testa da un lato, assumendo un’aria incuriosita: - E’ strano, tu sembri sempre esserci, in tutte le storie. –
Deglutii, non sapendo cosa dire. Doveva essere il sole, quel raggio di luce chiarissima e calda che gli si posava su un lato del volto, conferendogli un’immagine quasi onirica, ma per un attimo rimasi imbambolato, incapace di togliergli gli occhi  di dosso.
Per la miseria, Jared, un po’ di contegno.
- Beh, ero… mi trovavo dall’altra parte del… - balbettai qualcosa, cercando disperatamente un appiglio per cambiare argomento. – Co- com’è andata- mi schiarii la voce – col dottore, adesso? –
Cambiò subito espressione, lasciandosi andare contro lo schienale del letto e passandosi le mani sul volto.
- Mah… ha voluto parlare di stamattina, di mio figlio. Mio figlio! – si disse fra sé, come incredulo.
Lentamente, però, la sua fronte si distese e gli angoli delle labbra si tirarono su, ammorbidendogli i tratti del viso in una ritrovata dolcezza.
- È delizioso, però, non trovi? – mi chiese, e avrei giurato di scorgere quasi un certo orgoglio nel suo tono. – Un adorabile, vispissimo marmocchietto! –
- È vero. – annuii, sorridendo.
Ed era vero sul serio.
Non era stato facile all’inizio con Henry. Alicja era un’ottima madre, irreprensibile in verità. Ma, soprattutto per i primi tempi, aveva proibito a Colin di farmi avere il minimo contatto con il bambino. Per punirlo e rendergli tutto più difficile, ovviamente.
Pian piano le cose erano andate meglio, era diventata meno rigida ed io avevo avuto modo di cominciare a conoscere il piccoletto, di passare del tempo con lui, ogni tanto. E devo ammettere che le prime volte si erano rivelate un vero strazio. Era stato come trovarsi davanti l’emblema di tutte le mie paure. Quasi due anni di sofferenza, dolore e  panico concentrati e personificati in un frugoletto che stava a malapena in piedi.
Henry era la prova vivente di quello che Colin mi aveva fatto, di come aveva tradito la mia fiducia. Era una rievocazione costante di come mi avesse spezzato il cuore. E, per un beffardo scherzo del destino, era pure la fotocopia precisa di sua madre. Certamente lui non ne aveva la minima colpa ed io avevo fatto del mio meglio per superare quel blocco. Il fatto che fosse un bambino incantevole, poi, aveva facilitato di molto il processo.
Cominciai a portargli qualcosa in regalo, ogni volta che tornavo da un viaggio, come avevo sempre fatto con James. E lui saltellava e lanciava gridolini emozionati non appena mi vedeva.

Riportai lo sguardo su Colin e notai che mi stava scrutando con attenzione, gli occhi socchiusi e un piglio concentrato. Cercai velocemente qualcosa da dire, ma mi precedette.
- I miei se ne sono tornati a casa? –
- Ehm, sì. Ma torneranno in tempo per cena. Eamon è qui fuori però e-
- Perfetto. Speravo di poter passare un po’ di tempo da solo con te. – disse con estrema naturalezza.
Probabilmente i miei occhi si spalancarono tanto da fuoriuscire dalle orbite.
- La mia famiglia è meravigliosa e non saprei cosa fare se non fossero tutti qui con me in questo momento, ma non riesco a sentirmi completamente a mio agio con loro intorno. Voglio dire, loro sono così… sono così felici, capisci? Sicuramente è la gioia di sapere che sto bene, insomma, sono vivo, e si accontentano di questo; l’amnesia è un qualcosa di spiacevole e fastidioso, ma è passeggero. È secondario, per loro. Così mi girano attorno sorridenti, accennandomi alcune cose essenziali che dovrei sapere, riassumendomi fatti di qua, faccende di là e via discorrendo. Magari si fingono un po’ più ottimisti di quello che sono, ma di base, sono soddisfatti. – fece una piccola pausa. – Tu, invece, - mi guardò profondamente – tu sei diverso. Non fraintendermi, non dubito che tu sia contento che io sia fisicamente a posto, ma non fingi che vada tutto bene. O almeno non sei bravo a farlo. –
Mi morsi il labbro inferiore, sentendomi totalmente colto in fallo e francamente sbigottito: - Colin, io… -
- No, non è un’accusa. Io mi sento sollevato, adesso, con te. Le cose non… - distolse lo sguardo dal mio e lo puntò sulle sue mani, strette intorno al lenzuolo bianco. – le cose non vanno bene per niente. Io non so chi sono. Mi buttano addosso elenchi di film, anni di carriera, e soprattutto dei figli. E’ stato… frustrante, questa mattina, con quel bambino. E quell’inutile strizzacervelli ha continuato a farmi stupide domande astratte, mentre tutto quello che avrei voluto fare davvero era mettermi ad urlare. – tornò a guardarmi, con gli occhi lucidi, ed io mi sentii un nodo insopportabile alla gola. – La droga, poi la riabilitazione… dicono che adesso adori passare il sabato sera in casa ed ami leggere Confucio. Chi cazzo è Confucio?! Si comportano tutti come se fosse un piccolo incidente di percorso, ma io non mi sento così. Sono quasi tre giorni che non ho la minima idea di chi io sia diventato e sono…sono terrorizzato. –
Riabbassò gli occhi e d’istinto gli posai una mano sul polso. Tornò a guardarmi, facendo scorrere confusamente lo sguardo sul mio viso per qualche secondo.
- Non lo so perché, ma tu mi hai inviato sensazioni diverse, ogni volta che ti ho visto. È come se tu avvertissi profondamente il peso di tutta questa situazione e, non riuscendo a nascondermelo, mi costringi ad essere sincero; mi sembri l’unico che si senta come mi sento io. Deluso e arrabbiato. – concluse, fissandomi, cercando una conferma alle sue parole.
A quel punto, probabilmente, stavo mordendo così forte il mio povero labbro che doveva star sanguinando.
Ritrassi lentamente la mia mano e me la portai con l’altra sul grembo, iniziando a giocherellarci nervosamente. Non sopportai più di guardarlo in faccia e mi focalizzai sulla finestra, alle sue spalle.

- Mi-mi dispiace, Colin. Hai perfettamente ragione. Immagino sia perché mi sento… - non trovavo le parole giuste. “Solo, spaesato, fottutamente spaventato dall’idea di perderti”, tutte effettivamente realistiche ma decisamente inadatte. - …confuso e fuori posto.  Sei…  - presi aria - sei il mio più caro amico ed è strano che tu non ti ricordi chi sono. –
- Per quel poco che mi ricordo, sei uno con una parlantina non indifferente. Ma te ne stai sempre sulle tue e non dici niente. Anche stamattina, con Rosario, te ne sei rimasto in silenzio per quasi tutto il tempo. – fece un pausa, finché non riportai lo sguardo su di lui. - È a me, che dispiace, Jared. Posso solo augurarmi che tutto questo schifo finisca il prima possibile. –
Non ero veramente in grado di reggere l’angoscia e la tensione nei suoi occhi, così finii per fissarmi le mani. Provavo un bisogno viscerale di abbracciarlo, di stringerlo forte e sfogarmi insieme a lui, ma non mi parve per nulla appropriato.
- Ma forse non è solo questo, forse c’è qualcos’altro che ti turba. – lo sentii dire e il suo tono risoluto mi distolse dall’intreccio che stavo costruendo con le mie dita compulsivamente agitate.
- C’è una malinconia troppo profonda nei tuoi occhi, come un velo incorruttibile di angoscia. Non può essere solo per me. C’è qualcosa in più, non è vero? –
Quello mi lasciò senza fiato e dovetti rialzare lo sguardo su di lui.
- No, non c’è niente. – tentennai.
- Andiamo, non sfruttare la mia situazione attuale per mentirmi. – sorrise appena – Sono certo che normalmente potrei smascherarti! Hai qualche problema in famiglia? Sul lavoro? –
Scossi piano la testa: - No, davvero, non –
- Di salute per caso? – continuò con fare indagatore, poi si fermò di colpo, come folgorato. – Problemi di cuore? –
Rimasi spiazzato e impiegai qualche secondo di troppo per reagire.
- Ah, lo sapevo! – disse, puntandomi l’indice contro. - Ci sono sempre di mezzo le donne. –
Ah! Donne! Registrerei tutto questo per fartelo rivedere al momento giusto.
- Ecco, veramente… -
- Dai, spara. Che ti è successo? –
Spalancai gli occhi, allibito: - Cosa?? No, no, che spara. –
- Forza, non è come se dovessi andare da qualche parte in un imminente futuro. Ci ho dato, comunque, vero? –
Sospirai e mi arresi. Tanto non sarebbe servito a nulla cercare di distoglierlo.
- Sì, ci hai dato. Ma è una storia lunga e… complessa. Lascia perdere. –
- Ed io non ho forse tutto il tempo del mondo? – mi sorrise, come per incoraggiarmi. – Se non mi trovassi in questo casino, me ne parleresti in ogni caso, quindi… -
No, non dovrei farlo. Perché se tu non fossi un idiota, sarei io a non trovarmi in questo casino.
Ma questo non si poteva dire.

- È una situazione particolare. Mi trovo un po’, ecco, in sospeso con questa persona. –
- Vi siete presi una pausa? –
- No, per la verità è più… ma sì, una sorta di pausa. Inaspettata. – mi chiesi improvvisamente cosa stessi facendo.
Lui  aggrottò la fronte, pensieroso: - Uhm. Ed è lei che se l’è voluta prendere, la pausa? –
Rimasi un attimo interdetto.
- Sì. No. Sono state più che altro le circostanze, direi. – Ma che cavolo hai in testa? – E, comunque, non è una lei. –
Come mi venne, non saprei proprio dirlo.
E, a mente fredda, non ho idea di dove volessi andare a parare o cosa mi spingesse a raccontargli quelle cose. Mi ritrovai a parlare, in maniera semplice e diretta, come era sempre stato con lui. Era assurdo, ma assurdamente familiare.

- Oh. – rimase un istante in silenzio, guardandomi stupito.
Mi lasciai sfuggire un sorriso. C’era un non so che di ingenuo in lui, soprattutto quando l’avevo conosciuto, che mi aveva sempre fatto molta tenerezza. Mi sembrava di riavere davanti quel ragazzo tanto sborone eppure tanto impacciato nel parlarmi di certi argomenti.
- Beh, non cambia niente. – mi disse, poi. – Solo, non ci avevo proprio pensato che tu… comunque… Anche Eamon , sai…-
- Lo so. –
Stava per riprendere a parlare, quando si bloccò di botto, l’espressione tutta un programma.
- Non è Eamon il tuo… problema, vero? –
Scoppiai a ridere di gusto, mentre Colin mi fissava sconcertato, quasi indispettito.
- No! Scusa, scusa. – mi calmai – No, voglio bene a tuo fratello, ma non in quel modo. –
Abbozzò un sorriso incerto e annuì.
- È da tanto che state insieme? –
- Quasi nove anni. – rimase a bocca aperta – Sì, ma te l’ho detto è più complicato di così. È una faccenda un po’… burrascosa, ecco. Per diversi mesi abbiamo anche interrotto ogni rapporto. –
L’ultima parte del mio discorso sembrò non interessarlo.
- Nove anni sono una cazzo di eternità… - continuò a fissarmi sbalordito. – E’ una cosa seria, allora. –
Mi strinsi nelle spalle, trovandola una constatazione stranamente ironica in quel caso.
- Immagino di sì. Sì, lo è. –
- E adesso sei arrabbiato con lui per qualcosa che ti ha fatto? –
- No, no, non mi ha esattamente fatto qualcosa… è una sorta di momento di transizione. –
- Jared, - mi lanciò un’occhiata allusiva – se continui a darmi risposte così esaurienti, sarà sempre più facile per me comprendere la situazione! –
Sbuffai.
- Che palla al piede che sei! Non vorrai sul serio che mi metta a sciorinarti tutta questa storia da capo… Ne riparleremo. –
Cercai di rifilargli la mia espressione più risoluta. Effettivamente, non sapevo più cosa inventarmi.
Lui mi puntò ancora per alcuni istanti, visibilmente perso in qualche elucubrazione sua personale.

- È carino? – sputò fuori all’improvviso.
- Come? – lo guardai confuso, non capendo cosa intendesse.
- Il tuo… ragazzo… è di bell’aspetto? No, perché, perdonami, tu sembri appena salpato dall’isola di Robinson Crusoe, ma là sotto, dietro a quel folto cespuglio, mi ricordi uno di quegli idoli da poster per cui le mie sorelle sbavavano quando ero un bambinetto. –
Colin aveva un rapporto molto ambiguo con la mia barba. C’erano volte in cui era lui stesso a pregarmi di lasciarla crescere, perché, parole sue, “era perversamente eccitante”. Altre, si rifiutava categoricamente di avvicinarsi se non mi fossi rasato fino all’ultimo pelo.
Mi venne da ridere: quel giorno dovevamo trovarci, sebbene inconsciamente, nella fase due.

- Che c’è, la mia barba non è di tuo gradimento? –
- Non ti si addice, tutto qui. – mi rispose con la massima semplicità.
Rimasi a fissarlo, molto probabilmente con un sorriso beota stampato in faccia.
Con buona speranza, quella situazione avrebbe avuto durata breve, altrimenti Colin si sarebbe convinto in poco tempo di avere a che fare con un ritardato.

- Si fa notare. – dissi dal nulla – Non è niente male. –
Ricollegò velocemente le mie parole alla sua domanda e mi sorrise soddisfatto. Prima che potesse indagare oltre, fui salvato dall’ingresso di Eamon. Ci informò di aver parlato con lo psicologo e che la sua si era rivelata un’intuizione utile e felice; poi, si accomodò sul lettino non distante dal fratello, dal lato opposto al mio. Tentò di mettersi a dormire, ma Colin non gli concesse un momento di tregua. Erano uno spettacolo, insieme, i due fratelli, lo erano sempre stati.
Eamon alla fine si arrese e si dettero alla rievocazione di episodi coloriti ed improbabili della loro infanzia. Colin, quelli, li ricordava eccome e si mise tutto d’impegno nell’espormeli come meglio poteva, gesticolando e trovando le espressioni più idonee. Rideva e parlava con la foga e la leggerezza di chi non ha nient’altro per la testa. Fortunatamente, la maggior parte di quelle vicende le conoscevo già, perché quasi tutto il tempo lo passai distraendomi sulle sue labbra, sui suoi occhi, sulle curve arrotondate delle sue guance mentre rideva. Su quell’espressione che sembrava libera, sollevata.
Per un istante, mi parve sereno. E lo fui anch’io.

Intorno alle sei, Rosario mi chiamò per sapere se poteva passare a prendermi. Erano circa tre ore che stavo con Colin e non me ne sarei più andato. Certamente la situazione era ancora strana e, certamente, era bizzarro avere a che fare con il tipo sboccato e scapestrato di dieci anni prima, ma era comunque meglio di nulla, comunque meglio degli ultimi due giorni. Mi resi conto, però, che non potevo continuare a fargli sostenere quel ritmo, che si stava  pur sempre riprendendo da un’operazione chirurgica non indifferente. Sebbene a malincuore, salutai sia Eamon che lui, promettendogli di tornare il mattino seguente.
Quando mi trovai sulla porta, mi voltai un’ultima volta, prima di chiudermela alle spalle.

- E comunque, riguardo alla storia del cavallo e dell’elefante, - gli dissi, lasciando trapelare una lieve canzonatura – è stata una caduta monumentale. Sei stato epico, anche nel farti disarcionare! –
Scosse leggermente la testa, concedendosi un largo sorriso compiaciuto.


Non appena arrivai a casa, mi buttai sotto la doccia. Mentre Shannon e Rosario decidevano cosa ordinare per cena, io rimasi a lungo a godermi gli spruzzi d’acqua, rigorosamente tiepidi – dell’elevata calura estiva non mi importava un piffero, non mi farei mai una doccia fredda -, riorganizzando i pensieri sulla giornata appena trascorsa.
Era stata intensa, specialmente l’ultima parte. Cavolo, se quella non era stata surreale. Non avevo fatto nemmeno cenno a Rosario di quella strampalata conversazione, non avrei saputo neppure cosa dirle di preciso. Riflettendoci, mi sembrò quasi un’allucinazione.
Di fatto, mi ero riempito di energia. Non avrei saputo spiegare perché, ma quelle poche ore mi avevano dato un’enorme carica, come restituito, in effetti senza un reale motivo, una specie di rinnovato ottimismo. Energia, carica ed ottimismo che, come raggiunsi i due in cucina, udendoli parlare fra di loro riguardo la gravità della situazione fra me e Colin, mi abbandonarono in un lampo.
Dopo cena riuscii a convincere mio fratello ad uscire. Non sarei mai stato capace di distoglierlo dal ruolo di babysitter che si era imposto in quei giorni, ma almeno potevo obbligarlo a prendersi una serata libera, dato che non sarei rimasto solo. Dal momento in cui ero rapidamente tornato ad essere giù di corda, volli andarmene subito a dormire. Rosario, anche se un po’ perplessa, si limitò a darmi la buonanotte e ritirarsi nella camera degli ospiti che si era scelta.
Mi rendevo conto di quanto fosse irrazionale avercela con lei o con Shannon, che stavano solo parlando fra di sé, obiettivamente preoccupati, che cercavano di fare del loro meglio in quel marasma. Mi svestii, indossando un completo da notte di lino, e mi avvicinai alla finestra, facendo vagare distrattamente lo sguardo sul cortile interno. Era ingiusto, ma non potevo farci niente. Detestavo quell’orribile sensazione in cui ero ricaduto, quel senso di impotenza, quel pessimismo dal quale ero riuscito ad emergere, anche se solo per poco.
Rimasi affacciato a guardare il crepuscolo finché non si spense definitivamente nel buio.
Di mettermi a letto, proprio non c’era verso, così mi decisi a finirla di fare i capricci. Bussai alla camera di Rosario ed entrai col suo permesso.
La trovai rannicchiata contro la testiera in pelle, nel suo top rosa scuro, l’abat-jour accesa ed un libro aperto sulle ginocchia. Non disse una parola, appoggiò il libro sul comodino e spense la luce, sistemandosi a pancia in su sotto il lenzuolo.
Socchiusi la porta e mi stesi accanto a lei, nella stessa identica posizione. Per un po’ rimanemmo immobili a fissare il soffitto.

- Ti ho sentito parlare con Shan, prima. – ruppi il silenzio, ma senza muovermi di un millimetro. – Lo so che non ha senso, ma finalmente oggi mi ero sentito meglio, e invece il tuo tono, quello che vi siete detti… mi è ripiombato addosso questo peso assurdo. – mi strofinai leggermente lo sterno.
- Jay, io sono venuta qui per cercare di aiutarti. Ma tu non mi hai praticamente detto niente di te, sto tentando di capire tutto da sola. – voltò la testa verso di me, ma io rimasi fermo. – Non è stato il massimo neanche per me, oggi, con Colin. Mi dispiace se mi hai sentito dire qualcosa che ti ha turbato, ma-
- No. – mi girai a mia volta, incontrando il suo sguardo. – Sei stata fantastica stamattina in ospedale. Sei stata fantastica a venire qui. E sono io a dover rimanere con i piedi per terra, nutrire false speranze renderebbe tutto ancora più difficile di quanto già non sia. –
- A volte fa paura esprimere i pensieri ad alta voce. Li rende reali e fanno più male. – sussurrò.
Annuii ed entrambi tornammo silenziosi per qualche minuto.
- C’è una cosa che ti avrei detto la prossima settimana, appena fossi rientrata da New York. –
Si aggiustò meglio sul fianco, sostenendosi la testa con il gomito.
- Cosa? – mi guardò incuriosita.
Le avevo fatto presente, nei mesi passati, che io e Colin stavamo prendendo in considerazione l’idea di sistemarci, ma quando la decisione era stata definitivamente maturata, lei era ancora a girare il suo film, a migliaia di chilometri di distanza. Rosario sarebbe stata, molto probabilmente, la più entusiasta di tutti nel sentire la novità,  erano secoli che ci spronava a “tirare fuori le palle”.
Pochi anni prima, Colin se n’era venuto fuori col primo tentativo di questo genere, ma io avevo chiesto del tempo; poi eravamo stati sommersi dalla bufera di Alicja, ed ero certo che, se non fosse stata seriamente preoccupata per la mia salute fisica e mentale, Rosario mi avrebbe rinfacciato ogni santo giorno la mia insicurezza e la mia cocciutaggine. In conclusione, non mi era parso giusto darle la notizia per telefono ed avevo deciso di dirglielo non appena fosse tornata. Era solo questione di poche settimane, del resto. Poco ma sicuro, avrebbe acceso un cero alla Madonna!
E poi, beh, le cose erano andate come erano andate.

- Ah, niente di che. Te lo dirò quando Colin si sarà ripreso. –
- E mi lasci così, ora?! – domandò indignata.
Ridacchiai.
- Ti odio, Jared, quando fai la Divah… - mi rimbeccò con una punta di stizza, per poi girarsi sull’altro fianco, dandomi la schiena.
Mi voltai anch’io sul lato opposto, mettendomi comodo per tentare di prendere sonno. Sorrisi fra me.
-    Buonanotte, Roxy. – le bisbigliai.
-    Buonanotte, Jay. -

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Capitolo 8
*** come tutto ebbe inizio ***


Buonasera a tutte <3
Nonostante l'abbia già fatto singolarmente, ringrazio di nuovo tutte le meraviglie che mi hanno lasciato i loro splendidi commenti al capitolo precedente,
che mi rendeva molto, molto nervosa..! E ringrazio anche chi ha semplicemente letto e apprezzato :)
Continuo, con questo ottavo capitolo, la strada intrapresa con il settimo, sperando di aver buttato giù qualcosa di buono!
In particolare, voglio approfittare per fare una dedica speciale alla mia cara Seiten,
che mi auguro di poter tirare un pochino su di morale con quanto segue, standole vicino nel mio piccolo in questo momento un po' difficile...






8.
Il mattino seguente lasciai Rosario all’aeroporto e mi diressi direttamente in ospedale.

Mentre parcheggiavo, mi arrivò un messaggio da parte di Kim: “Pensavo di passare a salutare Colin tra un’oretta. Ti trovo lì?”. Le risposi che ero appena arrivato e le indicai come raggiungere la nuova stanza in neurologia. 
Quando entrai dalla porta, mi ritrovai davanti il letto vuoto e sfatto; poco più in là, una scena alquanto bizzarra.
Colin era in piedi accanto alla finestra, leggermente appoggiato con la schiena alla parete, che gesticolava ad un’infermiera e a sua sorella, entrambe ferme a braccia conserte, a qualche metro da lui.
- Ce la faccio benissimo, non voglio storie, non sono mica handic – mi vide e si interruppe, sorridendomi. – Ehi, Jared! –
- Ehi! –  mi avvicinai.
Catherine  congiunse sonoramente le mani rivolgendo lo sguardo verso l’alto.
- Dio sia ringraziato! – poi, rivolta al fratello – Forza, c’è Jared adesso, fila a letto e non discutere. –
Gli si mise di fianco e gli cinse la vita con un braccio, ringraziando e congedando l’infermiera.  Colin sbuffò, ma non fece resistenza e si avviò con lei verso il letto.
- Posso dare una mano? – chiesi. – Che stavate facendo, comunque? –
- Le corse! – Catherine mi rivolse uno sguardo di fuoco. – Stamattina si è svegliato con ambizioni atletiche.  –
Lo aiutò ad appoggiarsi e sedersi e lui mi guardò con la sua faccia da monello.
- Durante i controlli ho convinto il dottore a lasciarmi fare due passi. In realtà intendevo il giardino o almeno il corridoio, ma sono stato relegato qui. È un inizio però. – mi spiegò risistemandosi sotto le coperte.
Catherine si abbandonò ad un profondo sospiro: - Ci è sgusciato da tutte le parti come un’anguilla. Non erano queste le condizioni. – disse esasperata, lanciandogli un’occhiataccia. – Vado giù a prendermi qualcosa da mangiare e da leggere… Non sono nemmeno le dieci e mi ha già sfiancata! –
Ed uscì, scuotendo la testa.
Come la porta le si richiuse alle spalle, io e Colin ci guardammo e scoppiammo a ridere.  

- Sei contento, almeno? – gli domandai, poi.
- Oh sì, non ne potevo più… Ne ho anche approfittato per guardarmi un po’ meglio allo specchio del bagno. Sai, ci ero passato solo di sfuggita, perché, a dirla tutta, avevo una gran paura di cosa avrei potuto trovare. Insomma, che resti fra noi, ma sono tutti davvero invecchiati. Hai visto Eamon? – continuò sgranando gli occhi – Se ci fosse stato lui quando mi sono svegliato, giuro che non l’avrei riconosciuto! Sì, proprio invecchiati parecchio… - si accigliò un attimo. – Tranne mio padre. Lui lo trovo bene, sempre uguale, addirittura dimagrito. –
Lo guardai divertito: - E..? Sei soddisfatto di quello che hai visto? –
- Sì, - fece spallucce – non mi posso lamentare. Non ho mai portato bene gli anni che avevo, quindi più o meno… Se non altro ho i capelli! – esclamò bello allegro, ma io gli rimandai uno sguardo confuso. – Beh, prima dell’incidente, insomma, in quelli che sono i miei ricordi prima dell’incidente, ero completamente pelato. Per Daredevil, sai… -
- Ah, giusto! Non ci avevo proprio pensato. – poi sghignazzai appena, guardandolo di sottecchi. – Però ultimamente ne hai persi un po’… -
- Cosa?! – mi fissò tra l’offeso e lo sbalordito – Non è vero! –
- Sì, invece! – risi – Magari ora te li vedi più lunghi e sei contento perché nella tua testa eri pelato, ma la verità è che negli ultimi due-tre anni ti si sono un pochino sfoltiti. E sarebbero già pure brizzolati se non fossero tinti per il tuo ultimo film! –
Continuò ad osservarmi allibito per qualche secondo, mentre io cercavo di trattenere le risate, finché, con aria di sufficienza, buttò là:
- Scommetto che il tuo amichetto ha la criniera di un leone. O no? –
Rimasi momentaneamente interdetto, fin quando, dal suo sguardo malizioso, capii a cosa alludesse. Ci mancava solo che ricominciasse con quella storia. Ma di mattina ero bello fresco e concentrato, non mi sarei lasciato abbindolare di nuovo.
- Ancora?! Non hai niente di meglio a cui pensare? –
- No, in effetti no. Lì ci sono tutti i dvd dei miei film, – indicò una scatola marrone in un angolo dietro al lettino – ma non sono proprio in vena. Credo che dopo i miei mi porteranno un paio di album di foto, così mi stimolo un po’ la memoria. Avevo pensato di dare un’occhiata ad internet, ma Eamon dice che è meglio evitare per ora, troppa roba tutta insieme. –
- Oh, sì, ha ragione. C’è un ammasso di informazioni, schifezze per la maggior parte. Prenditi prima un po’ di tempo per ricostruirti i tuoi dati da solo o con chi ti conosce veramente. –
- A proposito, c’è un portatile là dentro, insieme ai dvd. Santo Dio, la tecnologia ha fatto passi da gigante! È lontano anni luce da quello che io chiamo computer. E i cellulari! – cominciò a gesticolare, emozionato – Mia sorella ne ha uno che praticamente è una segretaria. Per non parlare di quegli aggeggi per sentire la musica. –
Lo disse con un’espressione tale che non potei trattenermi dal sorridere divertito.
- Guarda. – tirò fuori il suo lettore dal cassetto del comodino alla sua sinistra – Ho chiesto di avere il mio walk man e mi hanno portato questo. IPod, giusto? – annuii. – Ci ha messo mezzora ieri sera, Claudine, prima di dormire, a spiegarmi come si usa. Che poi ci stanno dentro tremila canzoni e più della metà sono inascoltabili. –
- Beh, ci sono dieci anni di novità musicali a cui non sei abituato. – cercai di spiegargli.
- Dieci anni di merdate musicali! A parte una cartellina, qui, vedi, – mi avvicinai di più – dove c’è tutta roba che conosco, il resto è gente assurda. – cominciò a scorrere l’elenco degli artisti. – Rihanna, Beyonce… Ma poi gruppi inascoltabili con nomi improponibili, come questo, ecco i “Black Eyed Peas”… ah, o questo i “Thirty seconds to Mars”… guarda, ho ben tre album di questi pseudo musicisti rock con il cantante che strilla come un dannato. –
Se avessi avuto una mazza da baseball in mano, non credo che sarei riuscito a impedirmi di spaccargli la testa.
Lo sapevo. Lo sapevo.
Erano anni che si rifiutava di ascoltare le mie canzoni con la scusa che non era piacevole sentirmi gridare insulti su insulti ovviamente diretti contro di lui. O troppo doloroso, a volte. Bugiardo patentato! In mille occasioni mi aveva chiesto di suonargli qualcosa, ma non di mio. “ Rifammi un pezzo di qualcuno, dai!”, diceva sempre.  Stava ben attento a tenersi gli album sull’ iPod, però, perché io avrei potuto controllare in ogni istante.
Bastardo, traditore irlandese.
Lo sapevo.

- Ehi? Tutto bene? –
Dovevo essermi perso troppo a lungo nei mie pensieri. Riflettei se fare finta di niente, ma col cavolo! Tanto prima o poi l’avrebbe scoperto.
- È la mia band. – gli dissi piatto.
- Come, scusa? – mi chiese, corrugando la fronte.
- I “Thirty seconds to Mars” è la mia band. L’abbiamo fondata io e mio fratello quattordici anni fa. –
- Su-sul serio? – s’irrigidì, muovendo concitatamente gli occhi sul mio volto per capire se fosse la verità. – Ma tu sei un attore… -
- Non recito più da qualche anno, ormai; ho preferito dedicarmi soltanto alla musica. – continuai con tono fermo.
Colin non smise di fissarmi, sconcertato, per un’eternità, e pian piano gli si tinsero le guance di un colorito roseo.
- Non c’è alcuna possibilità che tu adesso mi dica che mi stai prendendo per il culo? –
- No. – scossi la testa. – Sei anche venuto a diversi dei nostri concerti, in questi anni. Per la precisione, io sono quello che strilla come un dannato. –
Se possibile, arrossì ancora di più, ma non fece in tempo ad aggiungere altro perché Catherine rientrò nella stanza, accompagnata da Kim.
Fu un enorme piacere rivederla. La facemmo sedere sulla sedia accanto a Colin, mentre io e Catherine ci sistemammo sul lettino, dal lato opposto.
Aveva portato con sé due foto di James con il papà, entrambe di quando il bimbo era ancora molto piccolo. In una avrà avuto sì e no sei mesi, Colin portava ancora al collo il ciondolo di Alexander. Kim gli parlò di suo figlio, di tutto quello che le veniva in mente al riguardo. Tentò di spiegargli al meglio le particolari condizioni della sua malattia, che, a quanto pareva, a Colin era stata solo accennata. Era lei, in effetti, la persona più indicata per discuterne. Lo rassicurò sul fatto che James fosse comunque un bambino estremamente felice, sorprendentemente combattivo e meraviglioso da avere intorno. Impegnativo, ma una gioia continua per loro e le loro famiglie.
Tirò fuori dalla borsa una cartellina azzurra e gli mostrò alcuni disegni che James aveva fatto per lui in quei giorni.
Ne presi uno anch’io e sorrisi. Era lo stile personalissimo e inimitabile di Jimmy! In ciascuno erano rappresentati lui e il padre, al mare, sul prato, in alcuni con Henry, in altri anche con la mamma. Colin era visibilmente commosso.
Kim gli confidò che James smaniava per vederlo, ma le era sembrato più opportuno non metterlo in mezzo a una situazione un po’ troppo complessa per lui e aspettare che potesse fargli visita a casa. Si augurava di trovare Colin d’accordo e, naturalmente, fu così.
Poco prima di mezzogiorno, arrivarono anche papà e mamma Farrell. Kim si intrattenne brevemente anche con loro, poi salutò dolcemente Colin, promettendo di portare un bacio a James, e se ne andò.
Io la accompagnai, mentre gli altri rimanevano in stanza per il pranzo, e decisi di fermarmi a mangiare qualcosa con lei, alla tavola calda subito fuori dall’ospedale. Al momento di salutarci, mi lasciò tra le mani un altro disegno, un foglio tutto bianco in cui James aveva ritratto se stesso, me e Colin, solo con una striscia celeste di cielo ed una marrone di terra.
Al polso, però, sia io che lui, avevamo  un braccialetto di dimensioni sproporzionate, con tanti dadi colorati. Voltando il foglio, trovai scritto, nella sua caratteristica grafia disordinata, un grande “Grazie Jared”.



Mi trattenni ancora un po’ nel piccolo locale, fortunatamente climatizzato, chiamando prima Emma, poi mia madre. Scrissi a Rosario per accertarmi che fosse rientrata in tempo sul set, passai velocemente dalla mia auto per posare il disegno di James e tornai da Colin, quasi sicuro di trovarlo già addormentato. In effetti era disteso, tranquillo, ma appena sentì il rumore della porta, aprì subito gli occhi. Suo padre, invece, a pancia in su sull’altro lettino, se la dormiva beatamente.
Rita, intenta a scorrere una rivista con la figlia, vicino alla finestra, mi chiamò a sé con voce bassa.

- Ho preparato questo succo con tanti tipi di frutta prima di uscire. Te ne ho lasciato un po’, bevilo prima che si riscaldi. – me ne versò fino all’ultimo goccio rimasto in un bicchierino.
- Grazie, lo prendo volentieri. – lo sorseggiai piano, voltandomi per un attimo verso l’altra parte della stanza, da dove Colin ci puntava, sempre steso. – Come mai non dorme? – chiesi sottovoce.
- Gli è aumentato il mal di testa, se ne lamentava già quando sono arrivata stamattina presto. – bisbigliò Catherine. – L’hanno fatto mangiare e poi gli hanno dato una pillola. Tanto lo psicologo ha fatto sapere che non verrà prima delle 17.30 per oggi, quindi ha tempo per riposarsi. –
- Jared. – mi sentii chiamare da una voce anche troppo familiare.
Mi scusai con le due donne con un rapido cenno e mi avvicinai al letto di Colin.
- Non ero sicuro che saresti tornato. Mi sei sembrato abbastanza arrabbiato prima. – disse titubante, rompendo il silenzio della stanza.  
- Lo sono, - incrociai le braccia – ma non posso mica mollarti proprio ora. Ci sarà tempo, vedrai. – gli ammiccai allusivamente.
Sistemò i cuscini sotto di sé per sollevarsi un pochino.
- Mi dispiace, davvero. Ed è stata pure una gran bella figura di merda. Ma ho ascoltato solo due canzoni ed una parlava di un tipo metafisico che non ho capito che diavolo debba fare, con una… mappa… una mappa del mondo in faccia o qualcosa di simile… - tentò.
D’accordo l’amnesia e d’accordo, insomma, mica tanto, il commento sullo pseudo-rock, ma non ero affatto disposto a sentirmi criticare “From yesterday”.
Sono un tipo permaloso, molto permaloso, specie quando si tira in ballo la mia arte.

- Colin, finiscila. – e Catherine lo sapeva.
- No, sul serio, ci riproverò... magari ho beccato proprio le canzoni sfigate del cd, almeno una ci vuole sempre, no? – continuò imperterrito.
- Colin. – lo riprese ancora con voce dura la sorella.
Questo disturbò il sonno pacifico del signor Farrell, che si alzò a sedere, borbottando indistintamente.
- Oh, ciao Jared… - biascicò, appena mi vide.
Ricambiai con un movimento della mano. Lui mi fissò per qualche secondo, poi passò a suo figlio, poi, ottenendo uno sguardo dubbioso da parte di entrambi, ci squadrò ancora per un po’.
- Una partitina? – se ne uscì alla fine tutto contento.
- No, papà, non cominciare, ma chi ci vuole gio-
- Io ci sto! – interruppi Colin, sorridendo a suo padre.
Colin si girò verso di me con gli occhi spalancati.
- Che c’è? – gli chiesi come se niente fosse – Mi hanno insegnato, sono bravo. –
- Bravo, figliolo, diglielo! – ridacchiò Eamon senior. – Una di voi due viene? – si rivolse a Catherine e Rita, ma ricevette un ridondante“NO”, perfettamente sincronico.
- Ma ci serve il quarto per le squadre… - le guardai imploranti.
Colin continuò a fissarmi, ora a bocca aperta. Alla fine quella santa di Catherine ci raggiunse e si unì a noi. Di nuovo, fu baldoria!
Notai che Colin, proprio come avevo notato il giorno prima per gli altri, era un giocatore incallito, che conosceva le sue mosse  e i suoi trucchi. Mi chiesi come mai non avesse mai cercato di iniziarmi a questa sua abitudine irlandese, come aveva sempre, inevitabilmente fatto con molte altre. Andammo avanti per parecchio e fu un vero spasso, almeno finché Rita non decise di uscire a fare due passi nel giardino dell’ospedale, portandosi dietro la figlia ed insistendo ripetutamente perché anche il signor Farrell si aggiungesse.
Pregai in cinese che Colin non si rendesse conto della totale mancanza di sottigliezza della sua famiglia, a quanto pare composta interamente da persone incapaci di passare inosservate nelle loro reali intenzioni. Tutti stupendi, ma abili a dissimulare come dei bambini dell’asilo. Evidentemente Colin era ben inserito nel suo schema familiare e non si insospettì affatto. “Perspicace come una capra”, avrebbe detto Shannon.

- Allora, come va con la testa? Vuoi riposarti un po’? – gli domandai mentre regolavo l’altezza dello schienale del letto.
- Non sono stanco. – scosse il capo. – Mi sento meglio, mi hanno dato qualcosa di forte, credo. –
- Perché non mi hai detto che ti faceva male, prima? –
- Perché già sono qui, con questo stupido camice, praticamente legato al letto… - esitò un istante, guardandomi con gli occhioni tristi – Non voglio fare la parte del malato. È solo un'altra conseguenza della botta, sempre meglio della perdita di memoria. –
- D’accordo, però devi dirmele queste cose. Non devi farti problemi con me o trattarmi con particolare riguardo. –
- Senti chi parla! – si accigliò – Anche tu allora potresti raccontarmele le tue cose, invece svii sempre. –
- Ma di che parli? Che cose? – corrugò la fronte, molto allusivamente. Oh, no di nuovo! Cristo, ma non demorde! – Oh, Colin, sul serio, ma che t’importa? Non c’è niente da dire. –
- E allora, cosa vorresti fare? Metterti anche tu a rifilarmi i riassuntini della mia vita? Non lo farai, se sei davvero un buon amico. – mise il broncio, per poi alleggerire il tono. – Sai, potrei chiederti di parlarmi della tua vita e di cosa stai facendo attualmente, ma considerando l’incidente diplomatico di prima, sorvolerei sull’argomento ancora per qualche giorno… -
Non riuscii a trattenere un piccolo sorriso su di un lato delle labbra e lui lo intese come segno d’incoraggiamento. Continuò con fare sciolto:
- A questo punto a due ragazzi non rimane che parlare di donne, no? Dato che non dispongo di materiale al momento, la palla è tua. È una palla-maschio? E maschio sia, chi se ne frega! Sono abituato con Eamon, sai. Mi troverai preparato, non immagini quanto! –
Preparato? Era lui a non sapere quanto preparato fosse in realtà.
Non avevo idea di cosa fare. La situazione da surreale si stava trasformando in folle. Ma lo conoscevo e non avrebbe lasciato cadere la cosa, ormai. Si vede che in qualche modo l’aveva colpito.

- Comincia da capo. Fa’ come se non sapessi niente! – mi strizzò un occhio.
- Fai anche lo spiritoso, adesso?! –
Mi sorrise soddisfatto, allargando le braccia.
Voleva giocare?  E va bene, avrei giocato. Chissà che magari non sarebbe servito anche a risvegliare un po’ quel cervello addormentato che si ritrovava.
Dovevo soltanto fare attenzione ad alcuni particolari. Presi tutta l’aria che potevo e mi sedetti, non troppo vicino al letto.

- Ci siamo conosciuti lavorando ad un film. –
- Un film? È un attore anche lui? Lo conosco magari! –
- No, non lo conosci… è diventato famoso di recente. – mi sbrigai a dire – Era alle prime armi sul set, aveva un ruolo secondario. – cercai di mantenere un’espressione neutra: se mi avesse sentito dire una cosa del genere quando era in sé..! – Abbiamo dovuto affrontare una lunga preparazione prima delle riprese e siamo stati diverso tempo a stretto contatto io, lui ed altre persone.  Quando abbiamo cominciato a  -
- Che film era? – mi interruppe.
Gli rivolsi un’occhiata spazientita: - Colin, se mi spezzi un altro discorso a metà, non apro più bocca, giuro. –
- Scusa. – rispose, portando le mani avanti.
- Dicevo… quando abbiamo cominciato a girare… ero già cotto di lui! – non riuscii a trattenere un sorriso, ripensando alla strana marea di sensazioni che mi mettevano in subbuglio in quei giorni. – Non era la prima volta che mi piaceva un ragazzo, ma in un certo senso era tutto nuovo. All’inizio pensai che fosse per l’ambiente particolare che avevamo intorno, tutta la situazione era… era un po’ come vivere in una bolla, una dimensione incantata, lontana dalla realtà. Mi perdevo nelle fantasie più assurde, mi riempivo la testa con le immagini più erotiche che mi fossero mai venute in mente. E ovviamente ero perseguitato da reazioni fisiologiche terribilmente vistose ed imbarazzanti e non c’era un cavolo di posto dove ottenere un minimo di privacy!  -
Lo guardai in modo eloquente e lui mi rimandò il ghigno di chi ti capisce alla perfezione.
- Ero impacciato al massimo, ad un certo punto non sapevo più come gestire la situazione, perché non avrei mai immaginato di poter davvero concludere qualcosa con lui. Lui era… non aveva mai avuto quel tipo di esperienza e non mi sembrava tanto incline a provarla. – non volevo sbilanciarmi troppo, ma Colin continuava a seguirmi interessato e totalmente ignaro. – Poi… poi, beh, andavamo d’accordo, molto d’accordo. Iniziammo a trascorrere tutto il tempo insieme, anche al di là dell’orario di lavoro. La sera, quando non eravamo distrutti dalle riprese, andavamo in qualche locale, con gli altri, oppure ce ne restavamo in albergo, riuscendo a divertirci anche con le minime stronzate. Una di queste notti avevamo organizzato una mini sfida alcolica in camera mia. Eravamo in quattro – pensai a Jonathan e ad Elliot – e quando gli altri due si arresero e ci diedero la buonanotte, lui volle restare. Parlammo a lungo di Dio solo sa cosa, continuando a riempirci i bicchieri. Si erano fatte quasi le due e lui era veramente ubriaco. Aveva vinto quella stupida sfida, buttando giù di tutto, sai gli piaceva bere, essendo ir –
Mi bloccai miracolosamente in tempo e lo guardai terrorizzato. Eh, no, che era irlandese non glielo potevo dire. Colin rimase in silenzio, fissandomi confuso.
- Ir-riverente, irriverente… sai, un tipo un po’ ribelle, amava mandare tutto al diavolo con l’alcool. – feci del mio meglio per apparire sciolto e mascherai in un respiro il sospiro di sollievo che lasciai andare quando vidi Colin annuirmi, anche se ancora un po’ perplesso. – Comunque… al momento di andarsene, mi abbracciò e poi rimase a fissarmi in modo  strano. Non me ne accorsi neanche quando mi ritrovai le sue labbra sulle mie. –
Mi distrassi per un istante. Dio, erano passati un’infinità di anni da quella notte, ma mi ricordavo ogni minimo dettaglio, ogni stupefacente sensazione, dal suono della sua voce al calore di quell’abbraccio che avrei voluto non finisse mai. E poi quegli occhi grandi, scuri; mi era sembrato di essere nudo in quel momento, davanti a lui. E quando alla fine mi aveva baciato, senza dire una parola, inizialmente titubante, poi con vigore sempre crescente, mi si era fermato il respiro. Non avevo pensato ad altro, per quasi un mese. Acquistando via via maggior confidenza, mi aveva passato le mani dal volto fino ai capelli e finii per ritrovami stretto dalle sue braccia forti, le mani che mi percorrevano la schiena, tenendomi incollato al suo petto. Era ancora meglio di quanto avessi sognato.
Mi accorsi che Colin mi guardava, attendendo il seguito.

- Beh, sai, ero un bel po’ brillo anch’io. Il mio livello d’inibizione si era decisamente abbassato e mi ci vollero forse meno di cinque secondi per ricambiare… più precisamente per abbarbicarmi a lui come una sanguisuga! – mi passai brevemente una mano sul collo, mentre, imbarazzato, abbassavo gli occhi. – Poi, insomma, la faccenda si fece sempre più interessante e ci lasciammo cadere sul letto. Andammo avanti a limonare come adolescenti arrapati per parecchio tempo in effetti… - aggrottai la fronte, perso a ricordare il tutto in maniera molto vivida – mani, gambe, piedi, gomiti intrecciati da ogni parte… per non scendere troppo nei dettagli, dopo un po’ eravamo entrambi senza maglietta ed ebbi la netta sensazione che il suo passo successivo sarebbe stata la cerniera dei miei jeans. E benché, credimi, io fossi veramente pronto là sotto, non lo ero affatto qua sopra. – dissi, portandomi un indice alla tempia destra. -  Era successo tutto così velocemente e hai presente quando sei così ossessionato da qualcosa da rimanere senza fiato quando ce l’hai a portata di mano? Ecco. Mi presi due minuti per andare in bagno e darmi una sistemata, insomma per… calmarmi e non rischiare di rovinare tutto. Solo che… -
Per la miseria, mi pareva di riaverla davanti quella scena; o meglio, di potermi ricalare perfettamente nei miei panni di allora. Il cuore che mi batteva all’impazzata, le labbra umide e gonfie, i capelli arruffati e le mani che quasi mi tremavano. Se non avessi avuto il suo profumo addosso, sarei stato sicuro di essermi immaginato tutto quanto. E invece Colin era di là dalla porta, mi aveva lanciato un’occhiata assolutamente esplicita quando mi ero allontanato. Ero eccitato all’inverosimile. Ma quando ero tornato in camera…
- …russava! Lo trovai disteso nella stessa identica posizione in cui l’avevo lasciato, ma morto stecchito. – spiegai, ancora incredulo dopo tanto tempo. – Provai a chiamarlo e anche a scuoterlo leggermente, ma niente da fare. –
- E quindi? – mi chiese Colin, visibilmente deluso.
- Quindi mi stesi dall’altra parte del letto e mi misi a dormire.– scrollai le spalle – Con l’erezione più memorabile della storia, ma che altro avrei dovuto fare? Poche ore dopo la sveglia  ci buttò di sotto dal letto. Ovviamente lui non si ricordava nulla e pensava di essersi semplicemente addormentato sul finire della serata.–
- E tu non gli hai detto niente? – mi domandò Colin, piegando poi il capo su un lato, con uno sguardo a metà fra lo sconcertato e il divertito. – Certo che hai qualche problema con le persone che perdono la memoria! –
No, ho un unico, grande, problema irlandese, brutto idiota.
- Cosa gli potevo dire?! – mi limitai ad affermare – Lui era mister Macho ed io il suo compagno di riprese. Eravamo amici, se gli avessi anche solo accennato qualcosa, sarebbe andato nel panico e si sarebbe allontanato. Non era una psicologia difficile da capire, la sua. – scossi la testa fra me. – Questo non significa che non ci rimasi malissimo. Oh, no, ci stetti proprio male. – mi sorpresi da solo, non gliel’avevo mai confessata quella cosa. - I giorni successivi furono un incubo; ero costretto a girare con lui, a ripassare le battute con lui, ad allenarmi con lui, il tutto fingendo che non fosse accaduto niente. Per due sere, però, evitai di unirmi al gruppo per uscire, portando come giustificazione la stanchezza accumulata. La seconda sera cercò di convincermi, ma fui irremovibile. Non si bevve la mia scusa e se ne andò un po’ offeso. Il giorno seguente, come d’incanto, mi fu facilissimo rimanergli lontano, perché alla prima occasione, fra un ciak e l’altro, spariva, evitandomi il più possibile. E quando era costretto a restarmi vicino preferiva puntare il pavimento, il cielo, le mosche… Era normale, cordialissimo con tutti, tranne che con me. Capito?! Prima distruggeva tutte le mie illusioni, poi faceva anche il sostenuto! Ero inviperito, ma, da bravo cretino infatuato, dopo cena mi decisi a raggiungere gli altri al bar dell’hotel, solo per poterlo vedere. Appena arrivai, lui se ne andò perché aveva mal di testa! –
- Magari faceva così perché gli era tornato in mente qualcosa, qualche flash di quella notte che non sapeva come gestire. A volte a me succede, dopo una bella sbronza, anche a distanza di un paio di giorni. –
Rimasi senza parole, semplicemente basito.
- Sì, è proprio così. – gli sorrisi con dolcezza. – Me lo confessò, qualche tempo dopo. Però io non possedevo capacità extrasensoriali e lui non si degnò di dirmi un bel niente! – ripresi ardore nel raccontare, ripensando allo scompenso emozionale di quei giorni. – Quando la mattina seguente mi accorsi che la piega era sempre la solita, lo presi da parte e lo affrontai. –
- Bravo, ci avrei giurato che eri uno con le palle! – approvò Colin.
- Peggiorai solo le cose. Mi liquidò in due minuti, sostenendo che lui si comportava in modo assolutamente normale, al massimo ero io a fare il “prezioso”.  Io ero scombussolato, anche ferito, non facevo il prezioso… Aggiunse che ad ogni modo non gli importava affatto cosa pensassi. E se ne andò. –
Colin restò a guardarmi in silenzio, lievemente perplesso, per alcuni secondi.
Sì, eri un bello stronzo
.

- Non c’è che dire, sembra proprio l’inizio di una storia decisamente romantica. – borbottò – Che poi, di questo passo, “l’inizio” lo vedo molto lontano. –
- Oh, - minimizzai con un gesto della mano – cominciò tutto quella notte stessa. – sgranò gli occhi, sorpreso. – Si stavano accorgendo tutti che c’era qualcosa che non andava tra me e lui, eravamo stati pappa e ciccia per settimane! Così, per evitare sguardi e domandine varie, mi rintanai nella mia stanza subito dopo cena. Non ero dell’umore per subire il suo atteggiamento. Me ne stavo già a letto da un po’, facendo distrattamente zapping, quando mi sembrò di sentir bussare alla porta. Spensi la tv e, dopo qualche secondo di silenzio, udii chiaramente dei colpi, questa volta più decisi. Indossavo solo dei boxer e una maglietta leggera, ma ero troppo scoglionato per conto mio per preoccuparmi di rendermi più presentabile. Aprii la porta e me lo trovai davanti. – mi zittii per qualche secondo, tentando di riorganizzare la mente intorno a quel preciso ricordo. – Era appoggiato con un braccio allo stipite e, dopo un primo momento di esitazione, spostò lo sguardo di lato, senza dire una parola, senza nemmeno guardarmi. Gli chiesi con tono seccato se per caso avesse finito la sua scorta di birra e volesse approfittare della mia. Ma lui rimase in silenzio, poi, sempre voltato altrove, soffiò fuori un “Non l’ho soltanto sognato… l’altra notte… è successo davvero, non è così?” –
Mi accorsi di avere la completa attenzione di Colin, che mi seguiva immobile, ora a bocca aperta.
- Mi colse impreparato e non seppi cosa dire. – cercai di spiegargli – Mi ci volle qualche secondo prima di riuscire a rispondergli con un “Sì” imbarazzatissimo. Finalmente unì il suo sguardo al mio ed era così turbato e vulnerabile che mi fece una gran tenerezza. – abbozzai fra me un sorriso. – Ma poi cominciò a balbettare parole indecifrabili, facendo qualche passo indietro, finché non farfugliò qualcosa come “Mi dispiace, io non… ero ubriaco… non significa niente… mi piacciono le donne… mi dispiace…” e corse via lungo il corridoio. – guardai Colin, scuotendo il capo. – Se già mi sentivo uno schifo, a quel punto raggiunsi il livello dei perdenti di prima categoria: rifiutato due volte, inconsciamente e consciamente. Lo lasciai andare, perché non c’era niente che potessi fare in quel momento. Diedi un calcio ad un borsone sul pavimento, me lo ricordo ancora, e mi rimisi a letto, rigirandomi come un dannato, senza trovare pace. Sapevo fin dall’inizio di non avere possibilità in quel senso, ma adesso rischiavo anche di perdere la sua amicizia. Rimasi a torturarmi per un tempo indefinito, quando percepii di nuovo dei colpi leggeri alla porta, seguiti da un sussurro che chiamava il mio nome. Era lui. Ancora. Gli aprii lentamente, stringendo i pugni per tenere a freno il più possibile il magone. “Che vuoi?” gli domandai, come a supplicarlo di lasciarmi stare. – fui improvvisamente attraversato da un brivido ripensando ai suoi occhi in quell’istante, al sospiro che si era lasciato scappare, alle sue parole agitate, ma convinte. – “Te”, mi disse, “Voglio te”. – conclusi con tono quasi sognante, completamente assorto in quel ricordo tanto lontano eppure tanto nitido.
- Cazzo.– mormorò Colin, dissipando in un attimo l’atmosfera romantica che mi aveva avvolto la mente. – L’hai lasciato entrare?– annuii.– E che avete fatto?–
Piegai la testa verso la spalla: - Abbiamo giocato a scacchi. Tutta la notte. – scoppiai a ridere davanti al suo sguardo.  – Secondo te?!! –

Lo psicologo arrivò con un po’ di anticipo, intorno alle cinque, mettendo fine ai nostri discorsi.
Lasciai Colin non proprio volentieri, ma, come la sera prima, pervaso da una piacevole sensazione di benessere. Solo lui riusciva a farmi sentire sollevato, leggero, anche in quella condizione. Maledetto, non me lo sarei mai lasciato scappare con lui. Nonostante la situazione ancora più che confusa, me ne andai sorridendo, incuriosito, inoltre, da un messaggio di mio fratello che trovai sul cellulare. Ero così intento a spippolare con i tasti, cercando di immaginare quale fosse l’evento che aveva reso tanto euforico Shannon, che non mi accorsi della inusuale confusione che regnava fuori dall’ospedale finché non mi trovai a pochi metri dalla porta principale. Provai a capire cosa stesse succedendo e, quando individuai sugli scalini dell’edificio una massa di persone armate di telecamere e macchine fotografiche, mi sentii morire.
Paparazzi.
Merda.
Riuscivo a scorgerne un gruppo anche sul piazzale e uno dietro le siepi del parcheggio, tutti debitamente equipaggiati. Per fortuna ero ancora dentro l’ospedale.

- Signor Leto? – mi chiamò una vocina esitante. Voltandomi, riconobbi la giovane infermiera che aveva sostituito la flebo a Colin, due giorni prima. La sua preferita, per intendersi. – Sono arrivati i giornalisti, poco fa. Deve aver fatto la spia qualcuno tra i membri dello staff, mi dispiace. – disse, abbassando per un secondo lo sguardo. – Se vuole seguirmi, posso accompagnarla ad un ingresso secondario. Da lì non la vedrà uscire nessuno. –
- Oh, certo. – annuii leggermente - Grazie. –
Mi fece strada lungo due corridoi e, sbucando in un terzo più stretto e corto, aprì una piccola porta che si affacciava su un cortile nascosto.
- Ecco qua. – sorrise appena – Si faccia venire a prendere da qualcuno qui, domattina. Potrà stare tranquillo. –
- Ti ringrazio, ehm… -
- Leia. – si presentò, arrossendo timidamente.
- Leia! – le sorrisi – Sei veramente gentile, Leia. Io sono Jared, comunque. –
Le strinsi la mano e, sorridendole un’ultima volta in segno di gratitudine, mi diressi con discrezione verso la mia auto. E così, i paparazzi erano riusciti ad arrivare. Finita la pace. Dal giorno successivo avrei dovuto arrangiarmi fra taxi ed uscite secondarie.


Come misi piede in casa, ebbi appena il tempo di posare le chiavi che mi ritrovai mio fratello di fronte, una bottiglia di champagne in mano e due calici nell’altra.
Era l’incarnazione esemplare del detto “non starsene più nella pelle”, mentre si dondolava automaticamente sulle gambe, con un sorrisino compiaciuto stampato in faccia.
Aggrottai le sopracciglia, squadrandolo con poca convinzione.

- Come sta Colin oggi? – mi chiese, senza cambiare espressione.
- Come al solito. – continuavo ad essere perplesso. – Shan, lo sai che non bevo… Si può sapere che è successo? –
- Oh, ti farà bene staccare la spina per un attimo, fratellino! Te lo meriti e, vedrai, lo manderai giù un sorsetto con me! – mi fece un occhiolino, soddisfatto, ed io ero sempre più confuso. Poi si sciolse in un enorme sorriso. – “Artifact” è stato ammesso al Toronto Film Festival! –
Spalancai gli occhi, rimanendo a fissarlo senza parole.
- Hanno chiamato poco fa e hanno detto che annunceranno pubblicamente la lista completa dei titoli tra qualche giorno! Ce l’abbiamo fatta! – esclamò avvicinandosi – Ce l’hai fatta, Jay! –
Mi abbracciò ed io impiegai almeno qualche secondo prima di stringerlo a mia volta, totalmente incredulo. Non era possibile… Dopo tanto lavoro e tanta fatica, era un sogno che si realizzava.
- Gli altri lo sanno? – gli chiesi.
- Sì, ho già avvertito tutti! – rispose sciogliendo l’abbraccio.
- Non vedo l’ora di vedere le loro facce! – sorrisi euforico – Devo dirlo a Co…lin… -
Le parole mi morirono in bocca e Shannon mi guardò, rabbuiandosi in un istante. Scossi vigorosamente la testa fra me, non avrei rovinato la festa anche a lui, non in quel momento.
- Champagne! – quasi urlai, prendendogli la bottiglia dalle mani.
Finalmente una buona notizia. Almeno per qualche minuto, almeno per mio fratello, avrei festeggiato.



Quando ho scritto questo capitolo, Artifact non aveva ancora riscosso il grande successo a cui era destinato,
per cui mi arrogo il diritto di aver portato un pizzico di fortuna alla nostra cara Divah!!

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Capitolo 9
*** rivelazioni ***


Buongiorno a tutti!
Forse nessuno si aspettava più che tornassi con il seguito di questa storia e invece eccomi qua :)
Non ho scuse per la lunga assenza, se non qualche problema di natura personale...
Mi dispiace moltissimo avervi abbandonate e lasciate a metà della narrazione,
ma vi assicuro che siete sempre rimaste nei miei pensieri!
Proprio per questo vi dedico questo nuovo capitolo, mie adorate lettrici,
che mi avete più volte chiesto a che punto fossi, quando avrei ripreso a pubblicare,
che mi avete dato la forza e l'entusiasmo per riprendere a scrivere!
Non aspettatevi granché, non sono molto soddisfatta,
ma è un ritorno e spero che sia definitivo :)
Buona lettura!




9.

 Scendendo dal taxi, pochi minuti dopo le dieci, pensai per un secondo di aver sbagliato qualcosa e di trovarmi in Africa, da qualche parte vicino all’equatore. Come se il caldo non fosse stato abbastanza, l’ingombrante bardatura che mi nascondeva da eventuali incontri sgradevoli – occhiali da sole fuori misura, un cappello nero e persino una sciarpa di lino più volte avvolta intorno alla collo e al mento – rese soffocanti quei cinquanta metri che mi separavano dalla piccola entrata secondaria.
 Forse Babu non aveva avuto tutti i torti nel trovarla esagerata. Bah, razza di impiccioni, tutti quanti!
 Shannon mi aveva convinto a festeggiare quel piccolo successo di Artifact perlomeno con le persone a noi più vicine e quella mattina, di buon ora, Tomo e Vicky, Emma, Jamie e Babu si erano presentati a casa nostra con vassoi di cibo che sarebbero bastati per venti persone.
 In fondo era stata una cosa carina, sebbene non fossi troppo presente con la testa. Se ne erano accorti tutti, ma, gentilmente, senza farmelo pesare. Artifact era un progetto per il quale avevamo speso moltissime energie e riposto fin troppe speranze, un piccolo sogno nel cassetto che portavamo avanti ormai da anni e, benché l’accettazione al TIFF fosse solo un primo, piccolo passo, c’era da esserne molto orgogliosi. Peccato fosse capitato nel momento più sbagliato. Ci sarebbe stato un gran bisogno di lavorarci, in quei giorni, ma davvero non sapevo dove avrei potuto trovare il tempo e la concentrazione necessari.
 Per fortuna nessuno aveva accennato niente, neppure riguardo a Colin, al quale si erano limitati a mandare i migliori saluti. Il tutto si era svolto con serena tranquillità, tra brindisi a suon di latte di soia e frullati di mango.


 Il buongiorno di Catherine, ad accogliermi sulla soglia, e il fresco dell’edifico mi rimisero al mondo.
- Tutto bene? Hai l’aria un po’ stanca… - le chiesi, mentre cominciavo a liberarmi dagli indumenti anti-paparazzo.
- Sì, sì, tutto bene, ma sono stanca sul serio. Sono rimasta con Colin, stanotte, e ancora non son tornata a casa. –
La guardai confuso.
- Beh, sì, è che ieri ho deciso di far ritorno a Dublino. – mi spiegò, mentre percorrevamo i lunghi corridoi. – Non sono venuta via preparata per restare a lungo, ma adesso non posso proprio lasciare mio fratello in queste condizioni, sai? Penso che starò via un paio di giorni, sbrigherò qualche noia al lavoro, prenderò un po’ di cose utili, compresi Scott e Steven, - ci sorridemmo - e tornerò per restare quanto sarà necessario. –
- Sembra un buon piano. E lui come sta? Chissà quante storie ti starà facendo! –
- Oh, non me ne parlare! Fa il melodrammatico piagnucolone, come al solito. Dice che lo abbandono! Ma il peggio non è lui, sono le telefonate… – mi voltai leggermente indietro per vederla in volto, soffermandomi contro il corrimano delle scale. – Ma sì! Da quando sono arrivati i paparazzi e la notizia dell’incidente ha fatto il giro del mondo, siamo stati tempestati da migliaia di telefonate! Avevamo avvertito solo lo stretto necessario, lo sai. Da ieri sera, invece, chiamano continuamente e Colin non conosce più della metà di queste persone. Abbiamo dovuto spegnere il suo cellulare e adesso siamo noi a filtrare le chiamate. Rassicuriamo tutti e lasciamo che gli parli solo chi lo conosce davvero bene e da tanto tempo. –
Già, non avevo considerato quel tipo di ripercussioni.
Inutili parassiti della società.
- Lo so, Jared… - continuò costernata Cathy, quasi leggendo i miei pensieri – all’inizio Colin l’ha trovato quasi divertente, adesso comincia ad essere confuso e scocciato. Ma guarda tu stesso! – mi invitò con tono deciso, aprendo la porta della stanza 31, che ormai avevamo raggiunto.
Colin, sempre disteso sul letto e sistemato comodamente fra vari cuscini, era concentrato su un giornale che teneva aperto sulle gambe . Si accorse subito del mio arrivo e, voltandosi verso di me, lo richiuse rapidamente, accogliendomi con un gran sorriso.
- Ehi! – mi ritrovai d’istinto a sorridere a mia volta, avvicinandomi a lui. Era come un richiamo cui non potevo sottrarmi, il suo.
Dall’altra parte della stanza notai Eamon, impegnato in qualche conversazione telefonica. Se ne stava di fronte alla finestra, dondolandosi leggermente, e mi salutò con un cenno del capo. Ricambiai e mi accomodai con attenzione sul bordo del letto, spostando una mezza dozzina di quotidiani e riviste, tra cui era finito il giornale che Colin stava leggendo. Mi saltò subito agli occhi che ognuno di essi aveva in prima pagina la sua foto, con tanto di titoli sensazionali.
- Ehi… - mi riportò su di sé Colin.
- Non leggere questa robaccia, è solo spazzatura. – gli dissi, senza bisogno di specificare oltre.
- Me ne sono accorto… Come mi trovi? – domandò, poi, con tono vivace ed espressione beata. – Mi hanno dato una sistemata, oggi! –
Giusto, era domenica. Figurarsi, la sua sana abitudine irlandese a vestirsi meglio e darsi una ripulita nei giorni di festa, specie se a contatto con la sua famiglia. Aveva un camice nuovo, ancora liscio e senza pieghe; l’avevano sbarbato e aveva un buon profumo di vaniglia. Col rasoio dovevano avergli pareggiato i capelli rispetto al punto in cui aveva la ferita e una garza pulita e più piccola aveva sostituito la precedente. Sopra vi era un…
- Aspetta un momento! – esclamai, piegandomi lievemente sulla sua testa. – Cos’è questo? –
- Oh, niente… - si lamentò, scostandosi, ma mi avvicinai ancora.
- Hai visto com’è carino? – ridacchiò Catherine, mentre sistemava degli indumenti su una sedia.
- È una tartaruga! – continuai a ispezionare, divertito. – E’ una deliziosa tartarughina verde e gialla! –
- È un solo un cerotto!- bofonchiò Colin – Ufficialmente è finito per caso da pediatria fra i cerotti di questo reparto e l’infermiera se ne è accorta dopo averlo ormai applicato. – guardò accigliato sua sorella, poi me, concludendo. – Ma è chiaro come il sole che mio fratello deve aver pagato almeno 30 dollari per farmi questo… -
Scoppiai a ridere e sentii Eamon alle mie spalle che chiudeva la chiamata  e mi raggiungeva.
- Non è tutta colpa mia quello che ti succede, fratellino! O merito…in questo caso! – disse, non riuscendo a trattenere una risatina.
Colin lo guardò malissimo.
- Andiamo, non è niente, è solo… - cercai di consolarlo, ma fallendo miseramente il mio tentativo di restare serio. – Dio, hai davvero un cerotto con una tartaruga in testa! –
Io, Catherine ed Eamon ci ritrovammo irrimediabilmente a ridere di gusto, mentre il piccolo paziente pediatrico ci fissava imbronciato. Dopo qualche secondo, il più grande dei fratelli Farrell mi posò una mano su una spalla:
- Allora, Jay? Hai un bel colorito stamattina. – mi disse contento.
- Uhm, sì, beh…ho fatto una colazione sostanziosa. – risposi, un po’ in imbarazzo – Insomma, ieri sera io e mio fratello abbiamo ricevuto una buona notizia e –
- Che è successo? – domandò Cathrine.
- Beh, ecco, da qualche anno stiamo lavorando ad un progetto, una sorta di documentario – rivolsi lo sguardo a Colin, nella vana e assurda speranza che potesse ricordarsene  – ed abbiamo saputo che sarà presentato al Toronto Film Festival tra un paio di mesi. –
- Ma è bellissimo! – mi abbracciò entusiasta lei, mentre Eamon si complimentava.
- Grande! – mi diede una pacca sull’avambraccio Colin. – Ma quante cose sai fare?! Sto perdendo il conto! –
- E perché lo dici con quel tono? – mi ribrottò Eamon – Sii felice, no? Salta per aria, fai le capriole! –
- Lo sono, però… - mi voltai verso di lui, sorridendo appena, smettendo di fissare il polso che Colin mi aveva sfiorato – Però non è il momento adatto, non me ne importa niente, vorrei solo rimanere qui con lui, vorrei che mi toccasse ancora, anche solo così.-
- Però..? – mi incalzò Colin.
- C’è ancora molto da lavorarci, ecco… non è pronto, ci sono molti dettagli da mettere a posto e… -
Non riuscii a finire la frase, ma lessi negli occhi di Eamon la più completa comprensione e sia lui che la sorella rimasero in silenzio.
- Beh e allora? Lavoraci no! – riprese Colin – da qui a settembre c’è un sacco di tempo! Lo fanno ancora a settembre il festival di Toronto o hanno cambiato qualcosa? – annuii – e quindi?! – si strinse nelle spalle – fa’ quello che devi fare, non importa se avrai meno tempo per venire qui, non sei certo il primo che mi molla! – scandì con enfasi le ultime parole, rivolgendosi verso Catherine.
Questa sbuffò, ma non fece in tempo a rispondere che il cellulare nella tasca di Eamon si mise a squillare.
- Din don! Ecco a voi lo scocciatore numero 21 di questa mattina, 43 da ieri sera! – roteò gli occhi il poveretto, rispondendo.
- È stato piacevole le prime 7-8 volte, adesso ho l’incubo delle suonerie… - pigolò tristemente Colin.  
- Ci sono tantissime persone che ti vogliono bene, è normale che si preoccupino per te. -  gli spiegai dolcemente.
- Ma io non so neanche  cosa dire… -
- In più non abbiamo raccontato quasi a nessuno dell’amnesia. – aggiunse Catherine, a bassa voce – Già, con la notizia dell’incidente, abbiamo gli occhi del mondo puntati addosso. Speriamo che tutto torni alla normalità, senza il bisogno di fornire ulteriori spiegazioni. –
- … ma certo, aspetta! Colin? – Eamon richiamò la nostra attenzione, avvicinandosi al letto e tendendo il cellulare verso il fratello – E’ Johnny! –
Questi lo fissò qualche secondo, accigliato, rimanendo in silenzio.
- Rhys-Meyers! – esclamò Eamon – è tuo amico da una vita, Col..! Ci vuoi parlare o no? –
- Aaah! Ma sì, sì, certo! Dammi qua! – si piegò in avanti, quasi strappando di mano il telefono al fratello. – Johnny! – lo salutò con entusiasmo.
Chiusi automaticamente gli occhi, inveendomi ripetutamente contro.
 Jonathan, cazzo.  

 Lui e Colin erano amici da almeno quindici anni, si erano conosciuti a Dublino mentre cercavano di muovere i primi passi nell’industria cinematografica. Quando li avevo incontrati sul set di Alexander, erano già pappa e ciccia da un bel po’.  Coetanei, irlandesi, estroversi, seppure con un’estrazione e un’infanzia ben diverse alle spalle, avevano presto intrapreso un percorso molto simile e molto pericoloso. Colin ne era uscito appena in tempo, Jonathan ci aveva provato, a più riprese, ma vi era ancora piuttosto intrappolato.
 Era un ragazzo simpatico, se preso nel momento giusto; era intelligente e curioso e provava per Colin un affetto autentico e leale. Colin lo considerava in assoluto uno degli amici, dei confidenti, delle persone più care che avesse. Più volte, nel corso degli anni, avevamo avuto discussioni accese riguardo al modo migliore per rapportarsi con gli eccessi e i problemi di “Johnny”, come lo chiamava lui. Voleva stargli vicino, aiutarlo ad uscire da un tunnel che sapeva lo avrebbe distrutto, ma era sempre troppo comprensivo, troppo morbido, con lui e accusava me, al contrario, di essere duro, di fregarmene. Fin quando, l’estate precedente, dopo l’ennesima overdose, non si era reso conto che stava rischiando di perderlo veramente.
 Ma le nostre incomprensioni a causa sua risalivano alle origini del nostro rapporto, a quella mattina in cui, alle prime luci dell’alba tailandese,  Jonathan si era intrufolato nella tenda dell’amico, con lo speranzoso fine di trovarvi un accendino. E invece, con suo enorme stupore, aveva trovato noi due che dormivamo abbracciati.
 Le scene madri che ne seguirono sono rimaste nella storia. E più Colin gli spiegava che la nostra era più di una scopata tra una scena e l’altra più lui si disperava. Credo che mi abbia a lungo considerato come quello che ha reso diverso il suo migliore amico, di una differenza a parer suo inconciliabile: il non poter essere più il duo spensierato che se ne andava nei pub in cerca di donne. Colin era innamorato e di un uomo! Due cose che la sua mente proprio non riusciva a incamerare. Ovviamente niente era davvero cambiato fra loro, anche se negli anni non aveva certo mancato di puntarmi il dito contro in più di un’occasione.
 Almeno fino al Natale del 2009, il primo che passavo senza Colin, il primo che lui passava con Alicja. Mi aveva telefonato, augurandosi che le cose tornassero a posto il prima possibile, rifiutandosi di accettare ogni mia risposta negativa al riguardo. Lo sentii dispiaciuto e sincero e, per la prima volta, mi fece capire di aver accettato me e la mia presenza nella sua vita, lasciando trasparire addirittura un lieve rammarico per non averlo fatto prima. Paradossalmente, proprio in quell’orribile periodo.
 Ma tutto questo non mi avrebbe mai salvato dalla furia che mi avrebbe colpito adesso che mi ero totalmente dimenticato di avvisarlo di quanto accaduto a Colin. Non ci avevo proprio pensato, come non avevo pensato a niente, in quei giorni. Non avevo scampo e lo sapevo!
Continuavo a pensare a questo mentre, seduto con Eamon e Catherine, rispondevo alle loro domande su Artifact e con un orecchio cercavo di captare eventuali segnali di rabbia provenire telefonicamente dall’altra parte del mondo. Ma Colin parlava tranquillamente, a tratti ridacchiava anche.
- È un’occasione fantastica, Jared, non perderla! – mi spronava Eamon – Qui faremo i turni, non preoccuparti!
Cercai di rilassarmi abbastanza da conversare con loro, quando mi arrivò d’un tratto la voce perplessa di Colin: - Jared?? – silenzio – sì, è qui… – silenzio – sì, te lo passo, aspetta. Jared? – mi chiamò, alzando il tono.
Mi sentii gelare il sangue, ma mi voltai, mi alzai come se nulla fosse e lo raggiunsi.
- Johnny ti vuole parlare. – mi disse, tra il sorpreso e l’incerto. Annuii. – Vi conoscete? – mi chiese.
- Sì, certo! – finsi il migliore dei miei sorrisi e tesi la mano per avere il telefono che ancora non mi aveva dato.  – Ciao, Johnny! – tentai.
- Fottutissimo strimpellatore di ‘sto cazzo! – fu la risposta a dir poco concitata che ottenni.
Lanciai un’occhiata a Colin, poi ai due seduti alla mia sinistra;  allontanai appena il cellulare dall’orecchio, coprendolo con una mano.
- Vado un attimo fuori, qui non prende bene… - ed uscii imbarazzato nel corridoio, chiudendomi la porta alle spalle.
La lavata di capo arrivò tutta, e bene. Dopo essermi sorbito un quarto d’ora buono di comprensibili ma insensate accuse, rientrai, fingendo di aver tranquillizzato il povero Jonathan che, mi informò Colin, sarebbe rientrato dal suo set londinese alla fine della settimana. Fantastico.


Il resto della mattinata scivolò via tra chiacchiere varie e tranquille, con Eamon spesso distratto da numerose telefonate e Catherine indaffarata in un continuo andirivieni la cui funzionalità non mi era del tutto chiara.
 Colin mi raccontò degli amici con cui aveva parlato,  degli album di foto che aveva sfogliato, poi dell’inutilità a suo avviso palese delle sedute con lo psicologo che, con suo grande piacere, quel giorno di festa avrebbe saltato. Mi fece qualche domanda su Artifact e infine insisté affinché ci guardassimo insieme dei video su you tube delle mie esibizioni con la band. Era piuttosto evidente, quanto dolce, il suo tentativo di scusarsi per la gaffe del giorno prima, così acconsentii e scelsi per lui alcune delle clip migliori del web, quelle che meglio mettevano in risalto la qualità dei nostri live e della mia persona, ovviamente.
 Mentre Catherine accompagnava canticchiando un video di The Kill, indicai e presentai a Colin i componenti del gruppo e, per la prima volta in quasi dieci anni, al nome di Matt non seguirono strani mugugni o commenti disdicevoli. L’apice della mattinata, però, giunse quando Colin se ne uscì con “Wow, tuo fratello è un batterista da pazzi! E si vede che è un tipo fighissimo! Scommetto che io e lui ce la intendiamo perfettamente!”. Non potei che annuire sbigottito al suo faccino convinto.


 All’ora di pranzo, Claudine, papà e mamma Farrell arrivarono con grandi buste, decisamente sospette, contenenti manicaretti domenicali che “profumavano d’Irlanda”, come precisò Eamon. O non avevano incontrato anima viva o il personale dell’ospedale aveva gentilmente chiuso un occhio.
 Rita aveva preparato una vaschetta di verdure e soia apposta per me e fu molto felice quando accettai senza storie. Colin venne a conoscenza del fatto che ero vegano, o meglio, familiarizzò col concetto stesso di essere vegano: gli spiegai con orgoglio e serietà i principi della mia alimentazione e, come tanti anni prima, ricevetti in cambio uno sguardo inorridito. Se non altro, sembrò non sentirsi ancora abbastanza in confidenza per ridere apertamente di me.
 Il pranzo fu piacevole, persino allegro. Mi sentivo a mio agio, come a casa, con loro, da sempre. Tutti mi trattarono come al solito, come se niente fosse, e mi ritrovai a pensare se a Colin tutto questo non paresse almeno un po’ strano. Ma lui sembrava contento e rilassato, finalmente soddisfatto di mangiare qualcosa “di vero”. Catherine mangiò accanto a lui, rannicchiata sul letto, e coccolò il fratellino finché questi non si addormentò come un bimbo fra le sue braccia. Non volle svegliarlo neppure quando sua madre le fece presente che era il momento di andarsene, così lo sistemo con delicatezza sul cuscino, lo baciò sulla fronte e si raccomandò a me di dargli i suoi saluti. Una volta atterrata a Dublino, lo avrebbe subito chiamato.
 L’intera famiglia, ovviamente, accompagnò Catherine all’aeroporto, lasciandomi solo con Colin.


Ad un tratto era calato nella stanza un silenzio insolito, ma alquanto pacifico.
 Il respiro di Colin era lieve, il torace si alzava a intervalli regolari, il volto rilassato in un’espressione serena. Niente sembrava turbare il suo riposo.
 Mi sistemai con le mani incrociate sul bordo in metallo del letto e vi poggiai sopra il mento. Rimasi immobile, senza fare il minimo rumore, a guardarlo, finché il desiderio di allungare un braccio verso di lui si fece troppo ardente per essere represso.
 Allora mi riscossi e mi sedetti composto, accendendo il pc e posandomelo sulle ginocchia. Cominciai a cercare notizie, informazioni, regole utili in casi di pazienti affetti da amnesia. Lo shock, il disappunto, la paura, in quei giorni mi avevano impedito di documentarmi, persino di leggere i fogli che mio fratello aveva casualmente lasciato sul tavolo di cucina o i libri che Emma mi aveva fatto recapitare.
 Non trovai niente che i medici non ci avessero già detto, niente che non stessimo già facendo, non si poteva certo dire che non stessimo tentando con ogni mezzo di “stimolare la sua memoria”, come ripeteva il manuale online che avevo sottomano. Proprio mentre stavo per consultare la sezione “Congiunti temporaneamente dimenticati: supporto psicologico”, qualcuno bussò leggermente alla porta e Leia, l’infermiera giovane e gentile della sera prima, si affacciò.
- Tutto bene? – sorrise
- Tutto a posto, grazie. – le sorrisi a mia volta, chiudendo il pc e alzandomi – Dorme come un angioletto! – indicai Colin, a voce bassa.
- Bene. Tra due minuti vengo a controllare la pressione. Prendo il necessario e arrivo. –
Annuii e mi voltai verso Colin, per svegliarlo, ma lo trovai che sbadigliava e si stropicciava gli occhi.
- Ciao! – esclamai, tornandogli vicino – Già sveglio? –
- Ti ho sentito parlare. – borbottò – E’ l’ora dei controlli? –
- Sì, Leia arriva subito. -
Smise subito di stiracchiarsi e mi guardò accigliato: - Leia? –
- Sì, l’infermiera… quella che t –
- Lo so chi è Leia! – brontolò – mi chiedo perché lo sappia tu! E perché la chiami per nome…e non mi piace il tono che hai usato! –
Lo guardai basito: - Mi ha aiutato ad evitare i paparazzi, ieri sera. Tutti hanno un nome…E quale tono? –
Rimase a fissarmi in silenzio, per qualche secondo, poi si tirò su, quasi a sedere: - Ci provi con l’infermiera, Jared? –
- Cosa?! – sgranai gli occhi, il tono anche troppo acuto – Ma sei scemo? –
- Eccoci qua! – ci interruppe la ragazza, ignara della discussione in atto – Oh, buongiorno Colin, ha proprio una bella cera oggi! Non è vero? – si rivolse a me, allegra, cercando conferma.
Colin mi guardò in cagnesco, per poi voltarsi verso di lei e sorriderle.
- Mi dia il braccio, cominciamo con la pressione. -  gli sollevò la manica del camice e gli strinse una fascia poco sopra al gomito, facendo partire la macchina. – E’ riuscito ad entrare con facilità, stamattina? – mi chiese, sempre con tono gentile.
- Oh, sìsì! Da quella parte non c’era nessuno. Ancora grazie, comunque. – le risposi con gratitudine.
- Si figuri, se posso fare altro, non deve che farmelo sapere! – mi disse sorridendo. – La pressione è perfetta, - esclamò rivolta verso Colin – adesso le ascolto il…aspetti, vedo se in bagno c’è una garza o qualcosa per riscaldare un po’ lo strumento, torno subito. – e si allontanò.
Colin mi tirò per la maglia e mi avvicinò a sé:
- Ma tu non eri gay?! – sibilò a denti stretti.
- Come, scusa? –
- Ci stai provando eccome con lei! O lei con te, è la stessa cosa! – continuò indignato.
- Mi rifiuto anche solo di risponderti. – sussurrai, voltandomi verso il bagno per essere sicuro che la ragazza non ci stesse sentendo.
- Sei un egoista! – andò avanti, puntandomi l’indice contro – Io sono chiuso qui dentro, senza niente per rifarmi gli occhi…le altre due infermiere sono improponibili e la terza ha l’età di mia madre! E tu, che potresti fare quello che ti pare fuori di qui, ti vuoi prendere la mia infermiera?! – mollò la presa su di me e quasi si lamentò fra sé e sé – Non eri gay, tu? –
Leia tornò dal bagno prima che potessi rispondere, strofinando lo stetoscopio.
- Ecco, ora sentiamo come batte il suo cuore, Colin. – disse, poggiandogli lo strumento sul petto e cominciando ad ascoltare.
- Se batte un po’ troppo forte non preoccuparti, tesoro, sai bene il perché! – non perse l’occasione lui.
Non potei trattenermi dal roteare gli occhi e mettermi seduto.
La sua infermiera, capito… Dio, che voglia tremenda di riempirlo di mazzate.
 Non potevo credere di trovarmi davvero in quella situazione, io che in sua presenza dovevo far attenzione a commentare persino i cartelloni pubblicitari che ritraevano modelli in pose discinte. O modelle. O capre. O trattori, per quel che vale.
- Il suo cuore batte benissimo, Colin. Vedrà, - si rivolse di nuovo a me – ve lo ritroverete a casa sano come un pesce molto prima del previsto! – esclamò soddisfatta.
- Grazie, è una bella notiz -
- Jared è gay! – mi interruppe dal nulla Colin – Lo sapevi? – rimasi di sasso e la poveretta mi guardò spalancando gli occhi, assumendo in pochi secondi un colorito rossissimo. - Ha già spezzato molti cuori, te lo dico prima che spezzi anche il tuo. – le disse con un ghigno bisbetico stampato in faccia.
- Colin! – trovai la forza di ribattere, sdegnato.
- Ahm, sì, cioè…no, lo so…cioè… - la sventurata ragazza riordinò velocemente i suoi strumenti e si avviò alla porta, in palese imbarazzo – ci vediamo dopo… -
- Scusa, ma non era veramente carino quello che stavi facendo. – lo sentii dire non appena la porta si fu richiusa.
- Non ho parole, Colin, sul serio… -
- Io non ne ho! – e poi, tra lo stizzito e il serio - Scommetto che non faresti tanto il simpatico se il tuo fidanzatino fosse qui! –
Maledetto il giorno in cui avevo deciso di non rivelargli nulla. Anzi, maledetto il giorno in cui non avevo deciso di mandarlo al diavolo o, per la precisione, ogni dannato giorno in cui avevo deciso di sopportarlo ancora.
- Quella ragazza sta solo cercando di essere gentile, non è interessata né a te né a me, brutto idiota! Credo proprio che si immagini di… -
- Di che? – mi incalzò lui.
Di noi…
- Niente…- sbuffai leggermente – niente…-
- Ok, d’accordo, non fare così! Non ne farò parola con lui quando lo vedrò… -
- Vedrai chi? – gli domandai accigliato.
- Il tuo…fidanzato? Amichetto? Amante? Come lo devo chiamare? Avrà un dannatissimo nome, no? –
- Non  per te! – lo liquidai scocciato.
- Andiamo! Non farmi lavorare di fantasia… e poi devi raccontarmi qualcosa oggi, non mi hai ancora detto nulla..! – mi ammiccò in modo persuasivo.
- Scordatelo, non sono dell’umore! –
- Ma dai! Siamo rimasti ad un punto –
- Siamo rimasti ad un punto da cui parte un momento troppo… - esitai, cercando la parola giusta – romantico, ecco, non mi va di parlartene adesso! Perché non chiami i tuoi per sentire a che punto sono? Non ti interessa più di tua sorella? – lo rimbeccai acidamente.
- Saranno ancora all’aeroporto, mi chiamerà lei appena sarà arrivata. – constatò serafico.
- Sei solo un bambinone viziato. – aggiunsi, riflettendo su quanto fosse cambiato negli anni.
- Ah-ah. – annuì - …romantico, eh? – mi guardò con una faccia da schiaffi – non ti facevo un tipo romantico! –
- Non lo sono, infatti… era l’atmosfera, ok? La situazione… il deserto, la Tailandia… -
- Il deserto? Ma dove l’hai girato questo film?! Aspetta, ma in Tailandia non abbiamo..? Rosario raccontava che –
- Sì, sì! Va bene? L’ho conosciuto sul set di Alexander! –
Mi pentii immediatamente di avergli fatto quella rivelazione, dal momento in cui i suoi occhi spuntarono letteralmente fuori dalle orbite. Non avrei dovuto spingermi così in là, avrei dovuto rimanere sul vago, ma mi aveva fatto innervosire e perdere il controllo per un attimo più del dovuto. E ora il pasticcio era fatto.
- L’hai conosciuto sul…cioè, era uno di… ha girato il film con noi? – mi chiese ancora stravolto.
Gli risposi con un mesto cenno d’assenso.
- Quindi c’ero anch’io mentre succedeva? E che ne pensavo? Me ne sono accorto o me l’hai detto tu? E… e lui lo conosco bene? E perché non me l’hai d – accelerò sempre più eccitato.
- Per questo non te l’ho detto! – mentii – Perché tu non facessi tutte queste domande e ti interessassi solo al tuo ruolo nella faccenda! Ruolo assolutamente marginale, oltretutto. –
- D’accordo, d’accordo, hai ragione. – si affrettò a dire, agitando le mani davanti a sé – i dettagli possiamo lasciarli per dopo. Ma va’ avanti! –
Ero ancora piuttosto infastidito dal suo comportamento, ma mi tornarono in mente le parole che avevo da poco letto riguardo alla stimolazione dei ricordi. E che si stimolassero, allora, questi ricordi. Speravo solo di non essermi spinto troppo oltre rivelando il luogo del nostro incontro, ma per il momento Colin non era sembrato darci alcun peso.
 Non quel tipo di peso, almeno.
- Beh, - cominciai – c’era –
- Eravamo rimasti al punto dello zum zum! – mi interruppe subito.
- Non ho alcuna intenzione di parlarti dello zum zum… -
- Ci ho provato! - esclamò, alzando le spalle.
Mio malgrado mi lasciai scappare un sorriso, scuotendo la testa, e lui mi sorrise di rimando.
- Fu un periodo… - ripresi – un periodo indescrivibile… C’era così tanto lavoro da fare! Oh, Colin, così tanto! Quando non eravamo davanti alle telecamere, recitavamo le battute col regista, c’era il ripasso solo fra attori, la prova costumi, l’addestramento fisico… una pressione assurda, credimi! Mai più stato su un set così impegnativo, i mesi più stancanti della mia vita… - feci un piccola pausa, abbassando gli occhi e respirando forte – ma anche i più felici, in assoluto. –
C’era meno malinconia nelle mie intenzioni di quanta ce ne fosse nel mio tono.
 In anni spesi ad analizzare dove e come avessimo potuto sbagliare in proporzioni tanto grandi, mi ero finalmente reso conto che il nostro errore principale era stato il cercare di ricostruire continuamente quel periodo. I luoghi, i momenti, tutto cambiava, persino noi stessi, ma la nostra speranza o forse il nostro bisogno era completamente volto a ricreare l’atmosfera che aveva reso incantati, insuperabili quei mesi. Il profumo speziato dei mercati marocchini, i cieli rosati, sfumati d’oro, all’alba, la brezza marina fra i capelli.
 Avevamo sempre, ripetutamente, fallito.
 Ovunque andassimo, solo paura, solo senso di colpa, d’oppressione, nessun vero profumo, nessun’alba, nessun venticello.
 E avevamo finito per farci solamente del male, ogni volta un po’ di più, finché era diventato insopportabile e insostenibile.
 Eppure il ricordo di quei sei mesi non era mai stato scalfito da niente; se ne stava lì, idealizzato e immobile, un po’ come l’origine di tutti i nostri mali, un po’ come l’origine di ogni cosa bella avessimo mai avuto.
Tornai con lo sguardo su Colin, che mi fissava con espressione interrogativa e del tutto ignara.
 Quante volte, riflettei, quante dannate volte avevo desiderato poter cancellare la magia del Marocco e della Tailandia.
 Quante volte, quando il dolore, la frustrazione, la delusione mi laceravano lo stomaco, avrei dato qualunque cosa perché Colin e quel periodo potessero essere estirpati dalla mia memoria, perché mi lasciassero di nuovo libero, di nuovo me stesso, perché avessi ancora la forza di andare avanti, quando invece anche respirare richiedeva uno sforzo immane.
 E invece era toccato a lui. E mentre se ne stava lì, completamente sprovvisto di ogni informazione, mi sentii per la prima volta l’unico custode di tutto quanto, l’unico rimasto capace di decifrare una realtà che nessun altro aveva mai saputo comprendere; d’un tratto mi parve quasi di soffocare per quanto grande fosse e provai l’impulso irrefrenabile di condividere, raccontando e spiegando tutto, nella vana utopia che potesse in qualche modo afferrare il senso profondo di quella che era stata la nostra condanna ed insieme la nostra salvezza.
- Jared? -
Scossi appena la testa: - Uhm? –
- Tutto bene? Ti sei zittito e mi fissi imbambolato da un po’. Sei un tantino… inquietante, se permetti! –
- Oh, scusa! Sì, no, scusa… E’ che, come ti dicevo, sono stati mesi pienissimi, ma niente poi è stato più lo stesso. – gli sorrisi, con nostalgica dolcezza – Né io né lui siamo stati più gli stessi. Il giorno seguente a quella notte fu un pochino imbarazzante…così come il giorno dopo ancora, in effetti… ma eravamo troppo giovani per perderci in tante parole e sciocchezze e ci piaceva quello che stavamo scoprendo! Lui ci ha messo un po’, ma una volta superata la fatidica soglia, – riflettei un attimo sull’azzeccatissima scelta di parole – astratta e non, non fece che godersi quella cosa con me! – Colin approvò, annuendo compiaciuto -  Lavoravamo insieme, quindi passavamo tutto il tempo insieme. E quando c’era una pausa tra le riprese, un buco tra gli esercizi, un momento morto alle riunioni con Oliver, beh, ogni scusa era buona per appartarsi in qualche anfratto! Più passava il tempo, meno stavamo sulle spine. Non si può dire che la cosa divenne ufficialmente di dominio pubblico, ma, pur senza farne diretto riferimento, un po’ tutti lo sapevano. La sera continuavamo ad uscire o divertirci con tutti i ragazzi, ma di notte cominciammo a dormire insieme, a volte nella mia stanza, a volte nella sua. Spesso ci capitava di girare o preparare delle scene al tramonto. Il tramonto del Marocco ti toglie il fiato, lasciatelo dire. Credo non si possano nemmeno immaginare tanti colori così mischiati insieme… Comunque, cominciammo a immaginare come sarebbe stata l’alba! Una mattina lo buttai giù dal letto alle 4, guidammo fino ad un punto imprecisato nel deserto e la vedemmo. – quel ricordo m’illuminò più di ogni altra luce all’orizzonte – Fu così fantastica che ripetemmo l’esperienza! Alcune volte ci appostavamo con una tendina fin dalla notte precedente e aspettavamo le prime luci del giorno, altre partivamo prestissimo, quando intorno c’era solo silenzio e buio; me lo ricordo come fosse ieri, - lo guardai sorridendo – lui finiva per dormire per l’intero viaggio e io mi godevo quella pace perfetta. –
- Due uomini che ammirano l’alba….tu sei peggio di  mio fratello! –
- Ma finiscila! – lo zittii con un gesto della mano, poi gli lanciai un subdolo sguardo di sfida – Una sera organizzammo una piccola cena privata ai bordi di un’oasi semi-onirica, circondata da palmette e cammelli; c’eravamo noi, i teli con le vivande, le stelle e l’acqua, nient’altro! Ci facemmo un bel bagno nudi e restammo lì a parlare per tutta la notte. – conclusi, alzando in modo evocativo le sopracciglia.
- A parlare, eh? –
- Esattamente. –
- Bugiardo! – disse, scuotendo la testa.
- Anche a parlare, sì! –
- Doveva piacerti davvero molto…nessuno si prende tanta briga solo per una scopata! – spiegò candidamente.
- Volgare. –
- Realista. -
- Senza cuore. –
- Femminuccia! –
Spalancai gli occhi, mostrandomi offeso: - Benissimo, non ti racconterò cosa abbiamo fatto per Natale!
- Fammi indovinare, ti ha regalato un palloncino con su scritto “Sei l’amore della mia vita”?! –
- No! – lo guardai accigliato – … Un palloncino?? –
- Oh, giusto, perdona la pochezza e la rozzezza del mio suggerimento! Era un diadema, principessa? – sorrise beffardamente e io mi presi il capo tra le mani, rassegnato – Andiamo, sono tutto orecchie! –
- Non tornai a casa, durante la breve pausa natalizia, rimasi con lui a Londra. – mi tirai su a sedere, sistemandomi meglio sulla sedia – Il distacco dal Marocco fu duro: fine del caldo, fine dei colori, fine del contorno magico ed affascinante. Temevo che il ripiombare nella cara vecchia Londra, in un contesto più comune e conosciuto, avrebbe potuto incrinare il nostro… legame… ancora relativamente nuovo e fragile. Ero ad un punto in cui non avevo più alcun dubbio, alcuna paura, sarei sceso per strada tenendolo per mano! Ma lui era strano, solitamente bofonchiava qualcosa di incomprensibile nei rari casi in cui tentavo di rendergli chiari i miei sentimenti a gesti o parole. Quella notte avevamo prenotato una suite molto lussuosa, – mi rividi davanti ogni piccolo particolare di quella enorme stanza arredata in stile impero – cenammo in camera, facemmo un lunghissimo bagno, sommersi di bollicine profumate,  parlammo per ore – mi accorsi dell’occhiata esplicativa che Colin mi rivolse – e sì, sì, facemmo tutto quello che si poteva fare, ok? – mi lasciai scappare un sorrisone da ebete, ma tremendamente sentito – E poi, così, prima di dormire, mi disse che mi amava. – in quante notti da solo, arrabbiato, disilluso, quel ricordo mi aveva scaldato il cuore e convinto a tenere duro. – Andiamo, Colin! Fuori c’era la neve, era Natale, eravamo in questa suite perfetta, con le luci soffuse, il cibo squisito, la vasca perfetta, il camino acceso, le lenzuola di seta, il letto enorme, sesso perfetto, d’accordo? Il momento era romantico! –
- Credevo avresti detto che era perfetto! –
Piegai la testa sulla spalla, implorandolo di provare un po’ di empatia.
 Colin mi fissò per qualche secondo, poi sbuffò.
- Va bene, va bene..! Sono commosso! Immagino che da quel giorno in poi sia stato tutto un “ti amo di qua, ti adoro di là…” –
- No! Certo che no, per chi ci hai preso?! – gli risposi indignato – Però le cose divennero un po’ più definite, si può dire che diventammo una specie di… coppia, ecco! Prendemmo a dormire insieme ogni notte, a esternare i nostri sentimenti in modo un po’ meno scombinato, – inclinai un lato delle labbra, ricordando quanto Colin non riuscisse ad evitare di arrossire le prime volte in cui mi diceva qualcosa di tenero – ci promettemmo di non coinvolgerci in alcun modo con nessun altro, benché questo non fosse comunque successo, dalla prima notte che avevamo passato insieme. E sai, fu assurdamente facile e naturale rimaner fedeli l’uno all’altro per tutto il tempo. –
- Eamon dice che uno dei suoi aspetti preferiti dell’essere gay è la smisurata liberta sessuale che ne deriva e lo trovo assolutamente invidiabile! –
- Deve avertelo detto almeno dieci anni fa, dato che adesso sta appiccicato alle gambe di suo marito come se non ne avesse di sue per stare in piedi… - gli dissi con tono ed espressione molto esplicativi.
- Oddio! – piagnucolò, portandosi una mano davanti agli occhi – Non ricordarmelo, non ho ancora ben assorbito questo concetto… -
Risi fra me, annuendo: - In Tailandia è tutto esotico! Il cielo è esotico, l’atmosfera è esotica, il cibo è esotico, i balli sono esotici, le feste, i paesaggi, le persone, tutto esotico. Il che produsse una svolta esotica alla nostra relazione! Soprattutto nel sesso… - ammiccai soddisfatto – Se possibile, avemmo ancora più da lavorare, laggiù. Lui si fece male con… con una delle armature del set – era stata una caduta da cavallo, in realtà – e ci prendemmo un bello spavento; passai due notti con lui nell’ospedale della capitale che parevano non finire più. E piove tanto, in Tailandia! Specialmente se capiti nel periodo sbagliato. Però le persone sono tutte davvero tranquille e ospitali e Bangkok è una città col suo fascino, sai? Anche tante isolette vicine alla costa sono straordinarie, verdissime, ancora immerse in una natura maestosa e fittissima. Riuscimmo a scappare dalle grinfie di Oliver, qualche volta, e a visitarne un paio!– ridacchiai – Dicevi che ti sembrava impossibile che esistesse un posto più verde della tua Irlanda! –
- Lo dicevo io? Venivo anch’io?! – mi domandò in un misto di stupore e aspettativa.
Ah, già.
Merda.
- Beh, sì…sì, certo! Tu, Rosario, il piccolo gruppo che era venuto formandosi sul set coi ragazzi. Erano posti davvero bellissimi, ne ho dei ricordi fantastici. –
- Non vedo l’ora che tutte queste cose mi tornino in mente. – mi sorrise, poi esclamò, con convinzione – Sai, non mi va per nulla di guardarmi film che ho girato ma che non rammento nemmeno di striscio, però questo Alexander dovremmo vedercelo insieme! –
Alexander era fuori questione, da sempre.
Sapevo che in qualche momento di sconforto Colin si era rifugiato in quell’epica realtà di cellulosa ed io stesso avevo cercato di annegarvi malinconia e disillusione, in certe occasioni, puntualmente sbeffeggiato da mio fratello, ma vi era fra noi un tacito accordo per cui Alexander se ne doveva restare lontano da noi, al di sopra delle nostre questioni quotidiane, dei nostri problemi di basso profilo.
Un conto era il noi idealizzato e perfetto che conservavamo nei nostri ricordi felici di tanti anni prima, un conto era il noi incasinato e strampalato che ci eravamo ritrovati ad essere.
 Ma anche questo, come ogni altro aspetto che riguardasse me o la nostra relazione, era svanito nell’oblio della memoria difettosa di Colin.
- Certamente. – mi limitai così a dire, contando sul fatto che sarei in ogni modo riuscito ad evitarlo.
Colin mi fissò per qualche secondo, finché comparve sul suo volto un sorrisetto compiaciuto, ma composto.
- È perfetto? O, almeno, lo era, a quel tempo? Ne parli come di un tipo senza difetti, il sogno perduto di ogni donna…o gay! –  
Spalancai istintivamente gli occhi, sorpreso: - Davvero è questa l’impressione che ti ho dato? –
Lui annuì e io scossi la testa, allibito.
- No! Oh, no! No, no no! – forse ci misi troppa enfasi perché lo vidi accigliarsi leggermente – Non so perché ti abbia dato questa impressione, ma ti assicuro che non è così… “l’uomo ideale”? Oh, no, proprio no! – mi venne quasi da ridere ad accostare un aggettivo del genere al nome di Colin: lui era tante cose, ma certo non il sogno di ogni persona che desideri un po’ di gioia incondizionata da qualcuno; mi chiesi se per caso potesse essere vero che fornissi una descrizione tanto lusinghiera di lui quando entrava nei miei discorsi personali ed intimi, avrei dovuto chiedere a Rosario – Lui è pieno di difetti, fidati! Forse, anzi, certamente, all’epoca ancor di più… Però, sai com’è, non puoi farci niente e se ti prende ti prende, ti porta via! E guarda, - sospirai tra me e me, abbassando lo sguardo sulle mie mani nervose – tutti questi anni e sono ancora qui… Ma anch’io ero un disastro e lo sono tuttora! Direi addirittura che lui è molto più equilibrato di me, al momento! – gli strizzai un occhio, notando che stava cominciando a capire cosa intendessi – Eravamo profondamente incasinati, spaventati; umani, in realtà, quindi imperfetti. E fu proprio con umanità e imperfezione che gestimmo il nostro tempo, specialmente verso la fine del film. Sai, dalla Tailandia in poi, iniziammo a capire che non avremmo avuto il resto delle nostre vite per stare insieme in santa pace, per starcene lì, a goderci la vita, riparati dal mondo. I giorni passavano, le scene rimaste diminuivano sempre di più e ad un certo punto fu come avere un countdown continuo che ci ronzava nelle orecchie. – deglutii nel ricordare quella spiacevolissima sensazione, quasi mi sentii di nuovo addosso quel senso di ineluttabile conclusione, quella paura del domani, quella sicurezza inossidabile che niente avrebbe più potuto essere ancora in quel modo – Ogni momento insieme diventava via via più frenetico, più ansioso, come se dovessimo fare tutto quello che poi sapevamo
che non avremmo più potuto fare. E diventava sfiancante, ci divorava e non riuscivamo a parlarne. -
Mi accorsi di essermi agitato un po’ troppo e di star gesticolando.
 Presi lentamente dell’aria e distesi le braccia lungo i fianchi, cercando di contenere quell’ondata di emozioni ancora così forti. Abbozzai un sorriso e ripresi con calma:
- Ma è la nostra natura di temere quel che non si conosce, no? Il terrore del futuro, di perdere qualcosa di caro, qualcosa che non credevamo potesse esistere, ma che ci toglie il fiato la sola idea di non poter più avere. – mi schiarii la gola, combattendo con tutto me stesso quei miei occhi traditori che minacciavano di inumidirsi; ironico, l’intrascurabile parallelo tra il me di allora e il me di adesso, di nuovo qui, a guardarti, con la paura di non averti più con me, ancora una volta. – Comunque quei giorni furono splendidi, tutti, fino all’ultimo, timore o meno. Il periodo successivo fu più complicato, ma di questo magari parliamo un’altra volta! – conclusi sorridendogli.
Mi guardava con espressione particolare, come se lo avesse colpito qualcosa che avevo detto, come se mi vedesse ad un tratto sotto una luce diversa.
 Come se avessi detto qualcosa di familiare?
- Certo, sì… - disse, annuendo appena.
Jared, faresti meglio ad andare a  cogliere fragole, qui si naviga in alto mare…
Però quella sua uscita sull’idea di perfezione che avevo dato del mio “principe azzurro misterioso” continuava ad incuriosirmi!
- Chissà perché – ripresi con tono vivace – hai dedotto quella cosa dell’uomo perfetto! Sarà che forse sei più sdolcinato di quanto vuoi far credere?! – lo punzecchiai e lui roteò teatralmente gli occhi – D’accordo, sarà stata colpa mia e del flusso emozionale che mi son tirato addosso! O più semplicemente è la mia anzianità incalzante che mi rende un rimbambito… -
- Ah! Bella questa! Io ho ventisei anni, batto la testa e mi ritrovo dieci anni più vecchio, con un piede quasi nella fossa, si potrebbe dire! –
- Hai trentasei anni, Colin! Mica novantadue! – protestai
- Disse lui, dall’alto dei suoi… Ventotto, ventinove? –
- Ne ho quaranta, quarantuno a dicembre. – gli risposi seriamente.
 Manco più l’età, povero me!
- Certo! – sbottò, prima di scoppiare in una risata fragorosa – Come no! –
- Guarda che è vero… -
- Ma dai! – continuò, col tono di chi la sa lunga.
- Senti, non è una cosa che abbia vissuto proprio nel migliore dei modi, potremmo non starci troppo sopra?! Sono un quarantenne, ok? – conclusi, alzando di qualche ottava di troppo la voce.
- Dici davvero? –
Feci segno di sì con la testa. Mi puntò per qualche secondo come se fossi un marziano, poi, di nuovo:
- Davvero, davvero? –  gli lanciai un’occhiata alquanto malevola, al che mise le mani avanti, in segno di resa – Ok, ok, va bene… Ma ti sei fatto qualche lifting? –
- No! – esclamai, aggrottando la fronte e dando sfoggio delle mie piccole rughe.
- Nemmeno qualche ritocchino? – perseverò, scrutandomi – No? No, d’accordo… - rimase un attimo in silenzio – Sai, ho sentito dire che stanno sperimentando i primi interventi di lifting ai testicoli...Ti rendi conto? – lo guardai perplesso – Non sto dicendo che dovresti farlo, insomma, dico sol-
- Colin! La vuoi smettere di blaterare cose senza senso? –
- Scusa… Comunque anche i miei fratelli ormai sono tutti sulla quarantina, il che è un po’ strano! E loro non portano bene gli anni come te, lo avrai notato..! – sollevò allusivamente le sopracciglia. – Almeno due di loro sono sistemati, Claudine mi diventerà una vecchia zitella... –
- Ma che dici?! Lei sta proprio bene! –
- È una donna, ha trentanove anni ed è single: il suo orologio biologico corre e presto diventerà una matta isterica, te lo dico io! Non vedi come sta cercando di accalappiare il dottore?! – terminò quasi in un bisbiglio.
- Il dottore? Quale dottore?! Che farnetichi? –
- Il dottor Ross! Gli fa gli occhi dolci, i sorrisini melensi, si inventa mille scuse diverse per parlarci in privato… Il camice è affascinante e prestigioso, Jared, facci un pensierino! – ridacchiò.


 Andammo avanti a battibeccare e scherzare ancora un po’, in una bizzarra atmosfera spensierata e leggera, una di quelle cose che se ti soffermi a pensarci non ti sembra possibile. Quella sensazione di vivere in una dimensione surreale, ma al tempo stesso familiare, continuava a non abbandonarmi; ed era piacevole, l’unico aspetto piacevole di quei giorni caotici e spossanti.
 Dopo non molto, la sua famiglia fece ritorno dall’aeroporto e rimanemmo a chiacchierare tutti insieme ancora un po’. Eamon tirò fuori l’argomento "Artifact" ed insistette parecchio perché la mattina seguente mi dedicassi al nuovo progetto in ballo e non mi facessi vedere almeno fino all’ora di pranzo.
 Il fatto non mi faceva stare tranquillo, per qualche motivo mi metteva anche un po’ d’agitazione, ma sapevo che aveva ragione, che non potevo abbandonare il mio documentario né deludere tutte le persone che con me ci avevano investito e creduto. Colin stesso mi rassicurò, dicendo che mi avrebbe aspettato per quando avessi fatto.  
 Un po’ a malincuore, senza darlo a vedere, acconsentii, salutai tutti ed uscii dalla stanza.
 Ma quando in fondo al corridoio, vicino alle macchinette, intravidi Claudine e il dottor Ross che prendevano un caffè insieme, non potei fare a meno di lasciarmi andare ad una risata.

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Capitolo 10
*** questo amore ***


10 Buona domenica!
Ringrazio dal profondo del cuore tutte le fantastiche ragazze che,
nonostante la lunghissima assenza, mi hanno comunque regalato preziosissime parole allo scorso capitolo.
Non posso che sperare che anche questo, appena appena partorito, sappia soddisfarvi!
E' molto lungo e forse un po' noioso, chiedo scusa, ma ho dato tutta me stessa e ci troverete dentro tanto del mio amore per Colin, per Jared e per voi :)

Al Nonno Alfonso, che, ovunque sia, sta certamente gustandosi la sua adorata torta di riso! Perché lui saprebbe dirci senza ombra di dubbio cosa sia il grande amore, ogni tipo di grande amore. <3






10.
Lunedì mattina, ore 8.00 in punto, ero già al Lab, prontissimo a mettermi all’opera. Peggio di un impiegato di banca.

Mi ero trascinato dietro Shannon, per la verità a malapena cosciente, data l’ora. Non che il suo aiuto mi servisse, in quel preciso frangente, ma in qualche modo sentivo di aver bisogno che fosse con me; lasciai dunque che dormisse beatamente, accasciato su una sedia, fingendo di essere sveglio, dietro ai suoi occhiali da sole.
Emma aveva chiamato a raccolta l’intera troupe del Lab, ma quello che intendevo fare quel giorno era più che altro un lavoro di revisione generica per il quale io e lei eravamo più che sufficienti.
All’inizio la mia concentrazione scarseggiava, mi limitavo in gran parte a guardare l’orologio ogni cinque minuti. Provavo la fastidiosa sensazione di trovarmi nel posto sbagliato. Il che era impressionante, perché, lavorando ai miei progetti, ero solito sentirmi in pace con me stesso e il tempo mi volava via in un attimo.
E invece continuavo a pensare che avrei dovuto essere in ospedale, vicino a Colin, a controllare come stesse, cosa facesse.
Ad un certo punto mi venne persino un piccolo attacco d’ansia, pensando che magari, non vedendomi per un’intera mattinata, avrebbe potuto di nuovo scordarsi di me! Anche di quel poco che sapeva di me, ma che avevo faticosamente conquistato. Furono necessari alcuni minuti e un severo rimprovero a me stesso perché riuscissi a calmarmi e recuperare una dimensione razionale. Il tutto, ovviamente, in totale silenzio, simulando la più completa tranquillità, per non rendere partecipi gli altri della pazzia galoppante da cui ero affetto.
Pian piano andò meglio, entrai nel vivo del lavoro e fui in grado di distrarmi per un po’.
Ma alle 12.30 decisi che avevo fatto fin troppo, promisi a Emma che avrei mangiato qualcosa in un bar, chiamai un taxi e finalmente mi diressi verso l’unico posto in cui ero sicuro di volermi trovare.


Ad  aspettarmi all’ingresso secondario trovai Eamon.
- Eccolo là, il nostro regista! – mi accolse con un gran sorriso sul volto paffuto.
- Buongiorno adulatore! –
- Allora, com’è andata? – mi chiese,  chiudendo la porticina alle mie spalle.
- Ho lavorato bene, grazie. Sono soddisfatto! –
Un attimo di silenzio durante il quale mi scrutò rapidamente.
- Sei stato bene? –
- Sì… - risposi un po’ interdetto.
- Hai guardato l’ora ogni tre secondi, non è vero? Trepidante di tornare qui! –
Lo guardai sorpreso, poi, sconfitto, sbuffai.
- Oh, andiamo, cosa vuoi da me?! – mi lamentai e lo colpii con un gomito.
Eamon rise e insieme prendemmo a percorrere il corridoio.
- Parla di te, sai? – riprese, voltandosi verso di me – E’ da un paio di giorni che ti nomina spesso, chiede di te… -
- Sul serio? – domandai, rallentando il passo. Non  me l’aspettavo proprio.
- Umm umm! – annuì e mi sorrise dolcemente.
- Wow… - sussurrai appena, più fra me che altro.
Chiedeva di me! Di me! Avanzai lentamente, con lo sguardo basso, cercando di assorbire quella notizia tanto inattesa e insperata.
- Si vede che sei in grado di colpirlo… Ma questa era una cosa che sapevamo già! – concluse, facendomi l’occhiolino.
- Beh… - sorrisi con un lato della bocca, lievemente imbarazzato, ma totalmente in brodo di giuggiole.
Colin parlava di me!
Riprendemmo a camminare ad un ritmo normale, quando Eamon si fermò di colpo.
- Ah, a proposito, Jared! – mi fermai a mia volta e aspettai che si girasse verso di me. – Ho saputo del tuo uomo del mistero… - mi disse con tono profondo ed espressione ampiamente esplicativa.
Mi si spezzò il respiro in gola e spalancai gli occhi, senza riuscire a proferir parola.
- Ma dai, non fare quella faccia! E’ una tattica astutissima che non poteva che essere concepita dalla tua mente geniale! –
- Ecco… io… - Dio, mi sentivo morire dalla vergogna e potei appena farfugliare qualcosa.
- Ieri sera cercavo di raccontargli qualcosa di me e Steve e lui dopo poco si è messo a sbuffare, borbottando che non ho storie interessanti come la tua! E’ così che mi ha accennato la questione… e mi ha anche chiesto che cosa io ne sapessi, se conoscessi questo tipo! –
- Io…- deglutii – Non so che dire… è stato più un caso che... - decisamente inconsueto per me, ma dovevo esser diventato più rosso di una candela di Natale.
- Oh, su, Jared! Non ti sentirai mica in imbarazzo con me?! Eddai! Te l’ho detto, - si avvicinò, posandomi una mano dietro la spalla e spingendomi in avanti, accanto a sé – è un’idea geniale! Che poi, conoscendolo, quello scemo sarebbe anche capace di diventar geloso di sé stesso! – aggiunse ridendo.
Mi lasciai un po’ andare, sorridendo a mia volta.
- Senti, non ho ancora pranzato e tu di certo non ti sei preso il tempo per mangiare qualcosa… facciamo un salto alla mensa? -
- Sì, volentieri! – gli risposi il più spigliatamente possibile, cercando di scacciare la figuraccia dai miei pensieri.
- Andiamoci direttamente, tanto Colin sta dormendo, potrai vederlo subito dopo lo psicologo. –
- Ah, aspetta. – mi bloccai davanti alle scale – devo prima posare un po’ di cose in camera… -
Eamon mi squadrò rapidamente, per poi rivolgermi uno sguardo dubbioso. In effetti non avevo niente in mano.
- Il cappello, gli occhiali… - li indicai candidamente.
- Puoi tranquillamente appoggiarli sulla sedia o sul tavolo. -
- Sì, ma la giacca, la sciarpa..! –
Mi fissò ancora, accigliato, finché d’un tratto il suo volto si distese nell’espressione soddisfatta di chi realizza qualcosa.
- Aaaaah! La giacca, la sciarpa… Certo! – annuì accondiscendete – Vai, vai, io ti aspetto là allora. – e si avviò lungo l’altro corridoio, non senza essersi fatto prima sfuggire un risolino.
Alzai gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
I Farrell. La rovina della mia esistenza.

In camera, Colin dormiva, apparentemente tranquillo, in una delle sue solite posizioni sghembe. Nel lettino accanto, suo padre se la russava beatamente, nella stessa identica posizione. Sarebbero stati da fotografare.
Posai i miei effetti sullo schienale della poltrona, cosa che avrei fatto successivamente notare ad Eamon, e mi avvicinai a Colin.
Mi dispiaceva che dormisse, mi era mancato. Anche la sua parte rozza e cafona mi era mancata. Sorrisi, dandomi dell’irrecuperabile idiota.
Gli sistemai un lato del lenzuolo bianco, che era scivolato oltre la coscia, e mi avvicinai appena.

- Ci sono, Col, sono tornato. –


Durante il pranzo, rigorosamente a base di frutta, in un luogo che a quanto pare discriminava i salutisti, Eamon mi aggiornò su numerose faccende, dalle telefonate che continuavano ad arrivare agli esami cui Colin era stato sottoposto per tutta la mattina, in previsione di una prossima dimissione. Purtroppo sulla memoria non sembravano esserci miglioramenti né prospettive troppo ottimistiche. Io gli raccontai qualcosa in più su Artifact e sui miei progetti al riguardo. Prendemmo il caffè insieme al signor Farrell, che, dopo non molto, ci aveva raggiunti, cacciato dalla stanza con l’arrivo dello psicologo.

Poco prima delle 15, Rita e Claudine ci raggiunsero, per dare il cambio ai due Eamon. Non potei non notare che Claudine era vestita in modo ricercato, pettinata accuratamente e truccata alla perfezione. Mi sforzai di rimanere serio, già pregustando i commenti di Colin.
Quando svoltammo nel corridoio, diretti alla stanza 31, quasi ci scontrammo col dottor Newton ed il professor Kleeman, lo psicologo, che avanzavano nella nostra direzione.
Mentre Rita e Claudine si fermarono, sorprese, a parlare con loro, intravidi che la porta della camera, in fondo al corridoio, era aperta; mi ci diressi velocemente, sbucando perplesso all’interno della stanza.
Trovai Colin seduto su una sedia a rotelle e un’infermiera, quella severa della prima sera, intenta a sistemargli qualcosa dietro la schiena.

- Ehi! – mi lasciai scivolare, come sollevato da qualcosa di indefinibile.
- Jared! – Colin mi rivolse un sorriso a trentadue denti – Jared, ce l’hai fatta! –
Sembrava realmente felice di vedermi, il che mi diede subito un’immensa carica di buonumore.
- Ma certo! – gli sorrisi a mia volta, poggiandomi con una spalla allo stipite – Sono venuto prima, ma dormivi. –
- Sì, ho visto le tue cose... Ma guarda! – batté le mani sui braccioli della sua carrozzina, euforico. - Li ho convinti, posso uscire! –
- Sì, sì, può uscire… - mi precedette l’infermiera, con tono spazientito e sbrigativo – Ma, - si rivolse verso di me – non deve restare fuori più di un’ora, non deve prendere sole alla testa, non deve assolutamente alzarsi da questa sedia compiere alcun tipo di sforzo fisico. – fece due passi verso la porta, poi si girò, dando un’occhiata frettolosa a Colin, quindi a me. – Chiaro? –
- Chiaro. – le risposi, serio e composto.
Se ne andò, con espressione glaciale sul volto, ed io mi ripromisi di fotografarla veramente prima della fine e di offrirla ai miei echelon come esempio di caso umano.
Tornai con lo sguardo su Colin, che trovai seduto in posizione rigida, con la mano destra poggiata alla fronte, in stile militare. Lo guardai confuso, aggrottando le sopracciglia.

- Faccio sempre il saluto, quando arriva e quando se ne va, per almeno dieci secondi. Credo la faccia sentire a suo agio! – mi spiegò, per poi sistemarsi più comodamente.
Scoppiammo a ridere e proprio in quel momento Claudine ci raggiunse.
- Salve signor Malato, ho saputo che ti hanno concesso l’ora d’aria! –
- Ho una certa abilità persuasiva, devo ammetterlo! – disse compiaciuto - E guarda qua che bel mezzo di trasporto! So che non sembra, ma è super accessoriato! –
- Uh, quasi quasi ti invidio! – gli rispose mentre sistemava un paio di buste su una sedia.
- Che dici, andiamo? –
Colin aveva spostato il suo centro d’interesse, rivolgendosi a me, guardandomi con aspettativa.
- Oh…certo! – mi riscossi e mi diressi verso di lui, superandolo e prendendo posto dietro la carrozzina, per spingerlo.
- Io vi aspetto qui. Ho delle questioni ancora da sbrigare, delle telefonate da fare… È per questo che mi paghi profumatamente, fratellino! -
- Ovvio, sorellina! Per sfoggiare abiti scollati e un make up da reality show mentre tratti i miei affari! – aumentai il passo verso la porta, evitando di incrociare lo sguardo di Claudine e mordendomi le labbra per restare serio – E comunque il dottor Ross non attaccherà fino alle cinque! Ne hai da aspettare..! –
- Colin, smettila! – lo richiamai a bassa voce, seppur senza troppa convinzione.
Ormai fuori dalla stanza, sentii comunque il sospiro rassegnato di Claudine.
- Roba da matti! Te l’avevo detto io, l’orologio biolog- Mamma! - incrociammo Rita, che ci sorrise giovialmente - Noiandiamoingiardinocivediamodopo, ciao! –
- Fate i bravi! – disse ormai alle nostre spalle.
Mi voltai, annuendo e sorridendole a mia volta. Continuai a spingere in direzione dell’ascensore, mentre Colin mi domandava se avessi lavorato tanto ad Artipact.
Artifact, non Artipact… - lo corressi, dopo aver premuto il pulsante per scendere.
- Ah, fa lo stesso… hai finito? –
- Cosa?! Assolutamente no! Ho solo preso atto delle cose da sistemare, stravolgere, mantenere…ne avrò per settimane, temo. –
Si strinse nelle spalle: - Anch’io mi sono tenuto occupato stamattina, sai? – si aprirono le porte dell’ascensore e vi prendemmo posto. Colin premette un tasto e riprese a parlare. – Sono venuti e mi hanno fatto ben quattro esami diversi! Le analisi del sangue, l’elettroenceflogramma, la tac  - intanto scendevamo, un piano dopo l’altro – il neu…il neurova… non me lo ricordo, una cosa orrida, con tanti fili! – le porte si aprirono al piano terra, una donna in camice rosa ci passò davanti e, ancora prima che potessi muovere un dito, Colin le domandò la direzione per il giardino. “Piano di sotto, svoltare a destra, tutto dritto”, Colin pigiò il pulsante giusto e ripartimmo. – E domani ne ho altri due, la risonanza magnetica e la non mi ricordo cosa… se tutto andrà bene, mercoledì mi rimandano a casa! – concluse soddisfatto, mentre le porte si aprivano di nuovo.
- È una splendida notizia! – lo spinsi fuori.
Non era stato zitto nemmeno un attimo.
- Vero? Non vedo l’ora! Oh, guarda, guarda, Jared! – si tirò in avanti, puntando un dito verso la fine del corridoio – L’uscita! Il giardino! La libertà! Spingi, Jared, spingi più veloce! –
- Non posso spingere più veloce di così! – eravamo pur sempre in un ospedale.
- Ma certo che puoi! Continua a spingere! Dai, ci siamo quasi! –
Stavo per rispondergli qualcosa di poco gentile, quando d’improvviso realizzai  quanto familiare fosse quello scambio di battute fra di noi. Uuuh, molto familiare. Ma mai prima erano state coinvolte sedie a rotelle o portelloni su un cortile.
Dio, che tristezza assurda.
Sbuffai, scuotendo la testa.
Finalmente arrivammo all’ingresso del giardino.
- Oh, aria…aria fresca, Jared! La senti? –
Dovevano esserci perlomeno 35°, si respirava a fatica.
- La senti, Jared? Ah, polmoni miei! – inspirò a gran forza, allargando le braccia – Ecco, vedi? Andiamo là, su quella panchina sotto l’albero! Fa ombra, no? Così stiamo freschi! –
Seguii la sua indicazione e individuai la sua meta, portandoci verso di essa.
Faceva un caldo tremendo e persi ogni cognizione di ciò che Colin stava blaterando, cogliendo solo qualche sporadico “fiore”, “sole”, “natura”, “bello”.
Lo sistemai sotto all’alta pianta, le cui foglie verdissime e larghe ricadevano in avanti, e mi sedetti accanto a lui, sulla panchina.

- Si sta d’incanto, eh?! –
- Colin, hai mal di testa, oggi? –
- No, non direi… perché? – sembrava un bambino.
- Perché a me ne sta venendo uno fortissimo! Che dici, ce ne stiamo un po’ qui in silenzio, a riposarci? –
- Oh, sì, certo! Ci godiamo il relax della natura… -
Allungai le gambe e distesi le braccia sullo schienale della panchina, chiudendo gli occhi. “Il relax della natura”… eravamo in un mesto cortiletto d’ospedale, sotto uno grosso rampicante a boccheggiare per il caldo… Lui e il suo solito, fastidioso entusiasmo.
Dopo pochi secondi, mi sentii irrimediabilmente osservato.

- Che c’è, Colin? – domandai, senza muovermi di un millimetro, gli occhi ancora ben chiusi.
- Niente… è solo che… stavo pensando… - mi voltai di sbieco, sollevando appena una palpebra - E’ un po’ di tempo che… Amelia. Ho per la testa Amelia. –
Quell’uscita sì che mi fece aprire gli occhi. Me li fece spalancare, preciserei.
- Forse ti sembrerà assurdo, perché sono passati tanti anni… ma nella mia testa sono solo pochi mesi. E mi chiedevo, ecco… nessuno le ha telefonato, lei non si è fatta vedere né sentire… mi chiedevo se, insomma… - si passò una mano tra i capelli corti, fermandola sulla nuca – non… non l’ho mai più rivista? Voglio dire, è stata mia moglie! Beh, non era proprio legale, ma… è Amelia, sai?
Lo sapevo. Lo sapevo eccome.
Non era un argomento di cui parlassimo spesso; quando la nostra relazione era cominciata, Colin aveva chiuso con lei da almeno due anni. Però se il pensiero di Amelia veniva fuori, in qualche modo, non svaniva mai immediatamente, gli riempiva la mente per almeno qualche istante. Non aveva mai avuto bisogno di dirmelo, ma ero quasi sicuro che fosse stata l’unica donna che avesse mai amato davvero. Non era durata tanto, ma il segno era rimasto. E non era mai stato un problema, anch’io avevo il mio passato, i miei trascorsi, le mie cicatrici.
Ma da quando ci eravamo conosciuti, tutto il resto, tutti gli altri, erano passati in secondo piano. Assolutamente in secondo piano. Non poteva farmi questo scherzo, adesso… Non potevo giocarmela con una pseudo ex moglie che proiettava ancora la sua ombra, avendo a disposizione solo i mezzi del migliore amico sfigato con problemi sentimentali alle spalle!

- Ci… - mi schiarii la voce, tirando su le gambe e girandomi nella sua direzione - ci stai pensando molto? –
- Solo un po’… Insomma, sto riflettendo in generale… Mio fratello e mia sorella sono sposati, Jared. Eamon è sposato! – specificò mentre allargava le braccia e mi guardava stralunato – Capisci?! E’… è stata una doccia fredda per me! Noi eravamo sulla stessa linea d’onda, divertirsi e basta! E anche se ci innamoriamo, non siamo capaci di far funzionare le cose e mandiamo tutto a puttane! E ora mi sveglio, con dieci anni di vita perduti, lui è riuscito ad andare avanti… e io? – abbassò il tono e si incurvò in avanti, quasi rannicchiandosi su di sé. – Ho due figli… così dal niente. Due figli con due madri che a quanto pare non ho amato abbastanza… E quanto dovevo essere incapace di farlo se ho rinunciato ad una famiglia, ben due volte?! – le sue pupille vagavano su di me, agitate e perse – Sai quanto Eamon debba essere stato sicuro per fare un passo del genere? Insomma lui… E io invece sono solo. Per un po’ ho creduto che Amelia… che lei fosse, sai..? Continuo a pensarci, ma… non è lei! Conosco e ricordo il mio passato, quindi non oso immaginare quel che non ricordo. Quante donne in questi anni non sarò riuscito ad amare, a farmi bastare? Ho ben due bambini che ne sono almeno una piccola prova… - inspirò profondamente, unendo una mano lievemente tremante con l’altra, poggiata su un bracciolo della carrozzina - Come l’ha capito mio fratello? Come lo capisci quando trovi la persona giusta? Come ti accorgi che non devi sprecare quell’opportunità, che quello è il tuo grande amore..? –
Sono qui. Sono davanti a te, Colin, sono io il tuo grande amore. Non mi interessa lo sport, non mangio le bistecche, detesto i tuoi adorati documentari del venerdì sera, ma sono io il tuo grande amore. È per me che hai versato tutte quelle lacrime; con me che hai scoperto la meravigliosa emozione di ogni respiro; su di me che hai investito ogni tua energia. Sono io che te l’ho fatto capire, Colin. Sono io, il tuo grande amore.
- Jared? Scusa, non volevo confonderti con tutte queste parole… -
- No, io non… - mi riscossi, allontanando lo sguardo dal suo – Non mi stavi annoiando, Colin. – raccolsi ogni mezzo che avevo per non lasciar trasparire alcuna delle sensazioni che mi stavano tormentando e tornai a guardarlo, forzando un sorriso – Tu sei un uomo forte e non sei solo. Ci sono tante cose che non ricordi e che poi ti aiuteranno a ricostruire il tuo quadro generale, non buttarti così giù, ora. Nessuno di noi può aiutarti a rimettere insieme quello che hai provato in questi anni, devi solo avere pazienza. Ma ti prometto che non sarà niente di terribile. E poi tu hai le tue poesie, fonti inesauribili di perle di saggezza e compagne confortanti che ti porti sempre dietro! – conclusi ammiccando.
Finalmente sorrise: - Allora queste voci su un mio crescente interesse per la lettura sono vere, eh?! –
- Già! Ultimamente sei diventato un fanatico di Prévert ad esempio. E non disdegni Milton, anche se non saprei dire perché… Whitman, Shakespeare ovviamente… Keats, per rimanere tra i poeti. Di Oscar Wilde preferisci la prosa invece. – Colin mi seguiva, curioso - Ti ho visto con in mano un libretto di Catullo, qualche volta! Ma, tra gli antichi, la tua preferita è Saffo. – lo vidi illuminarsi sorpreso, ma gli impedii di dire qualsiasi cosa – E, prima che tu rovini questa acculturata rassegna di autori tirando fuori qualche volgare battuta sul termine “saffico”, Lesbo e promiscui accoppiamenti tra donne, sappi che il nuovo “te” non approverebbe! –
- D’accordo..! – ridacchiò – Ma non sottovalutarmi! Per aver sviluppato una tanto estesa cultura letteraria, devo aver posseduto fin dalla più tenera età una certa predisposizione all’arte, antica e moderna. – disse con aria altezzosa.
- Certo! Per questo la prima volta che ti chiesi il tuo parere sull’educazione pederastica in Macedonia mi rispondesti con un rutto! –
Colin scoppiò a ridere: - Finalmente una cosa che suona da “me”! Decisamente da “me”.
Era vero e non potei che unirmi alle sue risate. Speravo di poter continuare a ridere per ore, di non dover smettere ed accorgermi del grosso buco che avevo nello stomaco. Speravo di poter continuare ad illudermi che si sarebbe risolto e che discorsi come quelli di prima non li avremmo fatti mai più.
- Grazie, Jared. – mi sorrise, dopo un po’ – Mi sento meglio. Mancherebbe solo una piccola, graziosissima sigaretta! –
- Non cominciare… -
- E una bella Guinness ci starebbe d’incanto! – gli lanciai un’occhiataccia molto eloquente – Andiamo! Tu ed io, una bella natura , una sigaretta e una birra! –
- Ma quale bella natura?! – mi accigliai – E finiscila! Ti concederò una lattina di Guinness, una sola, forse, quando tornerai a casa… -
Colin mi fissava perplesso, probabilmente domandandosi che autorità potessi mai avere io su di lui.
Giustamente, dal suo punto di vista.

- Beh, insomma… vedremo un po’. – cercai di correggere il tiro.
Restammo in silenzio per qualche minuto. Non un silenzio imbarazzante o di circostanza, semplicemente molto naturale, come se ci fossimo lasciati il tempo di assaporare quel momento di tranquillità.
Presi a tracciare con le scarpe piccole forme astratte sul terreno; una di esse venne a somigliare peculiarmente ad uno dei miei stravaganti Creeps. Particolarmente soddisfatto, non riuscii a trattenermi, mi guardai attentamente intorno e tirai fuori dalla tasca il BB. Colin era assorto a rimirare il cielo e gli altri pochi squilibrati che erano fuori a morire di caldo non erano abbastanza vicini da notarmi. Velocemente scattai una foto e riposi il cellulare.

- Però vedi… - se ne uscì d’un tratto Colin, facendomi quasi saltare sulla panchina – lo so che è complicata e tutto… eppure una storia come la tua, come la vostra, intendo... – si fermò a guardarmi per qualche secondo – sarà incasinata, d’accordo, però è quello di cui parlavo… io credo che ne valga la pena, alla fine dei conti. –
Sorrisi appena, quasi con ironia, annuendo lievemente: - E’ complicata, sì. -
- E immagino che lo sia stata sempre di più, dopo la fine del film… -  
Un timidissimo alito di vento portò con sé l’inconfondibile profumo del gelsomino.
- Sai, ero giovane… e vorrei dirti anche inesperto, ma non è così. Ne avevo già passate parecchie nella mia vita, superato momenti di certo non esaltanti e mi ero già formato una bella corazza. Ero già ben consapevole di cosa potessi aspettarmi o meno dalle persone e di come non farmi abbattere da eventuali delusioni, ma… - non dovevo neanche chiudere gli occhi per riaverlo di fronte, forte, bello, il mondo racchiuso nei suoi grandi occhi scuri – avevo messo tutto da parte, lasciato cadere ogni forma di protezione, avevo imprudentemente abbandonato tutto me stesso nelle sue mani. – dissi, con assoluta semplicità – Me ne rendevo conto, un giorno dopo l’altro, ma, consciamente o no, non riuscivo a tirarmi indietro. E non ero un’ingenua mammoletta, sai? Non pensavo che per noi sarebbe stato tutto facile,  tutto rose e fiori, ma ci credevo in quel “noi” e sentivo la necessità di provarci. Mi ero preparato un programma per il futuro, almeno per quello più immediato, e aspettavo il momento in cui lui mi avrebbe detto il suo. –
- E non te lo disse? – mi anticipò Colin, leggermente accigliato.
- Oh, sì. Ma c’entrava molto poco col mio. – presi aria e mi focalizzai su un punto casuale, in un angolo assolato del giardino – Ci regalammo una vacanza, al termine delle riprese, rimanendo qualche giorno in una di quelle magnifiche isolette tailandesi di cui ti parlavo ieri. Giorni bellissimi, per carità, ma, a pensarci bene, un inutile prolungamento di quella fine che non sapevamo affrontare. Non chiarimmo né stabilimmo niente, se non che volevamo restare insieme e preservare quanto, con fatica da una parte e stupore dall’altra, avevamo costruito. Lui riprese la sua vita, se ne tornò in… - e basta con questa Irlanda, cavolo! – a casa e poi passò del tempo con – il bambino appena nato era troppo rischioso - …sua figlia! Aveva una bambina ancora piccola. – spiegai, rivolgendomi direttamente a lui e cercando di essere naturale.
- Una figlia?! Non ti sembrava un elemento rilevante da citare prima?! –
- Beh, no… Non per il momento… -
- E la mamma? Della bambina, voglio dire… -
- No, niente, storia chiusa. – conclusi brevemente, sottolineando il concetto con un convulso segno delle mani.
Colin annuì pensieroso, sollevando le sopracciglia, probabilmente incamerando e catalogando la nuova informazione.
- Io me ne tornai a Los Angeles, all’apparenza alla mia vita di prima, in realtà profondamente cambiato. Qualunque cosa facessi, ovunque andassi, avevo con me quella carica, sai? No, quell’energia… sai, quella consapevolezza che... No, non lo puoi sapere, ma è quella cosa per cui invece di uno ti senti mille, come se fossi sempre coperto, alle spalle, come se… - mi portai una mano sul volto, passandola tra le labbra e la guancia, ripensando a quel breve periodo in cui l’euforia era ancor più potente del senso di lontananza, ricordando come mio fratello si fosse accorto immediatamente che qualcosa di irreparabile doveva essere accaduto. – Ci sentimmo per e-mail e per telefono per quasi un mese e quando finalmente mi raggiunse, in città, ero così emozionato che avrei potuto far concorrenza a un bimbetto di sei anni la mattina di Natale! Il tipo di emozione mutò in un batter d’occhio, quando lui cominciò a borbottare frasi sconsiderate sulla sua impossibilità di mantenere relazioni serie, di resistere alle tentazioni femminili, di accollarsi responsabilità che lo avrebbero soffocato. Se solo mi avesse spiegato che non si sentiva in grado di sopportare le pressioni dell’ambiente, di rischiare di deludere le aspettative di chi aveva intorno, di affrontare i pregiudizi, io gli avrei… Se solo mi avesse confessato che per lui era troppo dura restare a lungo separati, che aveva paura di non potermi trovare, non potermi avere, io gli avrei…io mi sarei… io non avrei mai… - mi resi conto che stavo quasi implorando Colin, come se quell’estraneo ignaro e confuso, davanti a me, potesse in qualche modo cambiare il passato. Mi ricomposi e distolsi lo sguardo. – Invece non disse nient’altro e io mi sentii come se non fossi abbastanza per lui. –
- E quindi avete rotto? – Colin mi guardava, serio e apparentemente molto coinvolto.
- Già, - tentennai, rilasciando una risatina amara – avrebbe avuto più senso, eh? Ma non mi sentivo pronto, non credevo che avrei potuto farcela. E molto probabilmente era così. Del resto non era ciò che lui proponeva: secondo la sua mente contorta avremmo dovuto continuare a vederci ogni qualvolta fosse stato possibile, ma sostanzialmente conducendo due vite separate; il che, a suo dire, non avrebbe affatto stravolto l’essenza di quel che c’era tra di noi. – è inutile che mi fissi strabiliato, tu e tutti gli accidenti che ti ho mandato! – E fu così che andò. Lui partì per girare un nuovo film e dio solo sa cosa non abbia potuto combinare, mentre io me ne restai a casa, in depressione cosmica. Avrei voluto andare a letto anche con i distributori automatici di caffè, per fargli dispetto, ma la verità era che avrei indispettito soltanto me stesso, così  mi chiusi in un’apatia che mi legava in uno stretto rapporto a due col divano del soggiorno. La cosa peggiore è che quando mi chiamava dovevo assolutamente fingere che tutto andasse bene. Mi vidi costretto confidare tutto a mio fratello per riuscire a rialzarmi e riprendere un po’ in mano le redini della mia vita. Accettai una parte in una produzione interessante e Shannon venne con me fino in Sud Africa per permettermi di lavorare e non restare comunque solo. Se non altro fu un periodo molto produttivo, per la preparazione del nuovo disco. –
Colin continuava a seguirmi in silenzio, concentrato. Per la seconda volta, dall’inizio di quello strambo percorso che mi portava a ricostruire tutta la nostra relazione, mi parve strano trovarmi a raccontargli dettagli che non gli avrei altrimenti mai raccontato.
In particolar modo concernenti quel lungo lasso di tempo del 2004 che tanto male aveva fatto ad entrambi. Dopo la riabilitazione, Colin aveva voluto parlare di tutto, persino di ogni problema che avevamo affrontato nel 2005, anno ancora peggiore, per certi aspetti. Ma di come aveva gestito le cose subito dopo la fine di Alexander, non aveva mai più lasciato che discutessimo. Né allora né in seguito.
Forse si rimproverava già abbastanza da solo, forse gli faceva troppo male pensare che se avesse avuto più coraggio in quel momento così topico delle nostre vite, ogni altra catastrofe che si era susseguita negli anni a venire, magari, avrebbe potuto essere evitata.

- Ad una festa di amici comuni incontrai una ragazza. Era una giovane attrice, molto bella, molto intelligente, di quelle per cui gli uomini di mezzo mondo farebbero a pugni. Mi fece capire subito di essere interessata, ma io mi trovavo in un momento di tale confusione e instabilità emozionale da preferire rimaner da solo. Con lui ci sentivamo di frequente, tutti i giorni, in un modo o nell’altro, ma non ci eravamo ancora rivisti. Fece un salto a Los Angeles durante una pausa dal lavoro di entrambi e, dal poco tempo che trascorremmo insieme, uscii di nuovo distrutto. Nel frattempo quella ragazza aveva continuato a cercarmi. Uscimmo insieme qualche volta – mi tornarono in mente i calci nel sedere che Shannon mi aveva più volte tirato per spingermi fuori dalla porta mentre io cercavo mille scuse per disdire – e finii per affezionarmi a lei; era davvero carina e sveglia, una compagnia piacevole che mi distraeva da tutti i miei pensieri. In qualche modo, iniziammo una sorta di relazione. –
- Ma dai? Ma come?! –
- Mi dava un po’ di serenità. – mi strinsi nelle spalle, perdendomi di nuovo verso un punto imprecisato oltre la figura di Colin – Lui lo rividi altre due volte… no… sì, due volte, entro la fine dell’estate e evitai accuratamente di accennargli la questione. Mi rendevo conto che faceva di tutto perché certi argomenti non saltassero fuori, che voleva andare avanti come se noi due fossimo un atomo a sé stante, completamente separato dal resto dell’universo. Ciò che accadeva al di fuori delle quattro mura in cui ci trovavamo, non doveva avere importanza. – sbuffai – Già allora mi rendevo conto che era un suicidio e che avremmo solo finito per farci del male a vicenda. Ma ero troppo debole con lui, avevo troppo bisogno di averlo nella mia vita ed ogni volta lui se ne andava e si portava dietro tutto ciò che avevo. Rimanevo svuotato, completamente. Ben presto, quindi, raccontai a Scarlett, Scarlett è il nome della ragazza, come stavano le cose. Non scesi nei particolari, ma le spiegai che ero affettivamente coinvolto con qualcuno che non potevo lasciare andare, benché la situazione fosse complessa. E lei… beh, lei disse che semplicemente lo aveva sempre saputo, ma che le andava bene anche così. – ripensai a Scarlett e alla sorpresa di quelle sue parole, alla dolcezza con cui mi aveva preso per mano, lasciandomi intendere che le bastava quello che potevo darle. – Ai primi di novembre, mentre ero impegnato con le ultime registrazioni del secondo cd della band, lui mi invitò a raggiungerlo a Londra, dove stava terminando le riprese di un altro film. Folle o meno, mollai tutto e andai. Trascorremmo insieme gli ultimi giorni sul set; - per la miseria, quanto era sexy il look selvaggio da John Smith! - mi presentò ovviamente come un amico, ma mi lasciò dormire in stanza con lui, si comportò in modo molto disinvolto, tanto che rimasi piacevolmente stupito. E quando finì, ci trattenemmo nella capitale per un’altra settimana, solo io e lui. Non uscimmo molto dalla camera d’albergo, per la verità, se non per un paio di serate in piccoli pub del centro e una corsa al British. Aveva sicuramente letto sui giornali della mia storia con quella ragazza, ma non ne aveva ancora fatto parola. Una notte, ormai quasi all’alba, mentre percorrevamo lentamente la riva del Tamigi che raggiunge il Tower Bridge, all’improvviso mi chiese: “Non è una cosa seria, vero, Jay?” –
Colin non mi aveva praticamente mai interrotto. I suoi occhi mi seguivano con attenzione, forse un pizzico di sbalordimento, ma mai una traccia di giudizio. A quel punto, però, rimasto a bocca aperta, s’intromise.
- E tu che gli hai detto?! –
- La verità. Che non lo era. Tagliai corto perché sapevo che non voleva parlarne davvero. Ma quelle poche, masticate parole, mi fecero almeno capire che non ero soltanto io ad arrovellarmi il cervello, a pensare a lui continuamente, ad avere paura di perderlo. Non ero soltanto io a farmi domande la cui risposta mi spaventava, solo che lui affrontava la questione in modo poco sano. Ma non ero soltanto io che ci tenevo. Verso la metà del mese facemmo ritorno in America per la promozione di Alexander. –
- Wow! Ci sono anch’io! –
- Ci sei soprattutto tu! – sorrise, tutto soddisfatto. – Ci spostammo da New York a Los Angeles e qui ci fu la prima vera e propria. Fu una serata grandiosa, Colin! – ricordavo perfettamente come fossi emozionato e agitato per quell’occasione. Sembrava assurdo, nessuno ne aveva idea, ma mi sentivo come se fosse la nostra prima uscita pubblica; eravamo lì a presentare il frutto di tanti sforzi insieme, un film, un progetto, una parte di vita a cui tenevamo tantissimo. – Ci presentammo separatamente, entrambi non accompagnati, se mia nonna e buona parte della sua famiglia non contano. C’era il mondo sul tappeto rosso! Flash, urla, domande da tutte la parti… Ci perdemmo ben presto di vista tra pose con il cast, interviste, foto per i fan, ma, prima della proiezione, riuscii a passargli un bigliettino in cui gli dicevo di raggiungermi per mezzanotte all’uscita sul retro dell’enorme hotel che ospitava l’evento. Avevo in programma di passare una notte romantica e tranquilla in un delizioso chalet tra le colline di Hollywood, con vista sulla città e le sue infinite luci. Lui si presentò con qualche minuto di ritardo e, senza dire nulla, mi trascinò per il braccio lungo la hall fino al grande ascensore; - abbassai lo sguardo, sentendo il caldo aumentare, salire sulle guance - come le porte ci si richiusero alle spalle, mi tirò a sé con forza, stringendomi e baciandomi con una tale passione che ci entrammo a tastoni, sbattendo ad almeno tre angoli diversi, nella suite deluxe che aveva prenotato per noi! –
Colin si lasciò andare ad un doppio fischio d’approvazione ed io ridacchiai, il ricordo di quella notte ben impresso nella mia mente.
Era stato come giungere al traguardo finale, mettere a posto tutti i tasselli ed accantonare il puzzle. Tutto ciò che era stato ed aveva rappresentato quell’intenso periodo di Alexander era finito, il filo che ci teneva ancora obbligatoriamente legati era venuto a mancare. C’era un sapore di conclusione, quella notte, in ogni nostra parola, in ogni nostro sguardo, in ogni nostra carezza. Un sapore di conclusione e insieme il gusto acuto della promessa, implicita, di aprire un capitolo nuovo.

- Le cose continuarono ad andare bene, anzi, molto bene, fra noi. Mi sentivo di nuovo sulla cima più alta del mondo. Era ancora troppo presto perché potessi sapere che quella cima mi avrebbe visto arrivare e cadere, arrivare e cadere, arrivare e cadere infinite volte negli anni a seguire. Riuscivamo a stare insieme praticamente tutti i giorni; lui non aveva ancora una casa sua qui a Los Angeles, ma, invece che nel solito hotel, si fermò da me. Conobbe bene mio fratello, e la convivenza non fu troppo semplice, Tomo, Matt, un po’ tutte le persone che mi girano sempre intorno. Ed io ebbi la possibilità di passare un po’ di tempo con il suo – improvvisai ad arte un colpo di tosse - … la sua bambina. Abbiamo legato da subito, sai? – sorrisi. Sorrido sempre, quando penso a James. – Con Scarlett non ero più in grado di stare, non da quando lui si era ripresentato in modo così costante nella mia vita, catalizzando ogni mia risorsa. Fortunatamente si era temporaneamente trasferita in Europa per lavoro ; le dissi che avevo bisogno di tempo e che ci saremmo rivisti al suo ritorno. Era stata davvero paziente con me e volevo che quello che avevamo condiviso, per quanto un po’ fuori dai canoni, avesse fine nel migliore dei modi. A metà dicembre, arrivò il momento in cui se ne dovette tornare a casa, per le feste. Io ero tutto fuorché felice, te lo puoi immaginare, ma lui, la mattina, prima di partire per l’aeroporto, volle a tutti i costi che ci prendessimo qualche minuto per parlare. Era impacciato e nervoso, – non potei non ricordare il leggero tremore della sua mano, mentre appoggiava il suo bicchiere d’acqua sul tavolino del soggiorno - ma era evidente che stesse tirando fuori qualcosa che lo tormentava da un po’. Disse che, nonostante tutte le difficoltà e i limiti che avremmo sempre avuto, voleva provarci sul serio, che non poteva neanche immaginare di non avermi in modo stabile nella sua vita. “Solo tu ed io e tutto l’impegno che sarà necessario.” – sorvolai sull’effetto che ebbe su di me lo sbattere implorante dei suoi occhioni da cucciolo bastonato.
- In poche parole “Fuori dalle palle la bionda tettona…”! – constatò seraficamente Colin.
- Come fai a sapere che era bionda e… - mi accigliai.
- È il prototipo perfetto di chi non ama veramente le donne, ma ci si rifugia più o meno consciamente. Anche Eamon aveva una fidanzatina bionda tettona al liceo! –
- Il senso era più o  meno quello, sì! – risposi con una punta di riso sulle labbra – E così andò. Rividi Scarlett qualche giorno prima di capodanno e le raccontai tutto. E, di nuovo, lei si comportò come la più comprensiva e dolce delle persone e io le sarò sempre immensamente grato per questo. Rimanemmo amici e l’accompagnai persino ai Golden Globe, qualche settimana più tardi. Lo siamo ancora, amici… -  mi interruppi un secondo, riflettendo – in effetti, è quello che in realtà siamo stati fin dall’inizio. Non le ho mai svelato chi fosse la persona in questione, però! Pensa che fino ad oggi mi avrà presentato una lista di almeno cinquanta papabili pretendenti! –
- Ah, quindi è questo che fai normalmente?! – mi guardò sospettoso, raddrizzandosi sullo schienale – Intrattieni i tuoi amici con fantomatici racconti sull’uomo misterioso per darti un tono… e magari questo tipo non esiste nemmeno! –
- Certo, come no! Ecco a voi la scemenza delle… - tirai fuori il blackberry dalla tasca per controllare l’ora – Cristo, Colin! Siamo qui fuori da quasi due ore! Siamo in ritardo! – mi alzai velocemente dalla panchina, le mani fra i capelli mentre gli giravo intorno per raggiungere il lato posteriore della sedia a rotelle – In super ritardo! –
- E che sarà mai? Dai, restiamo un altro pochino..! – si lamentò con tono supplicante.
Cercai di spingere ma trovai una resistenza che non capii da dove provenisse.
- Potrebbe farti male, Colin! Ci sarà un motivo se hanno detto un’ora soltanto. –
- Davvero? Che potrebbe succedermi? Forse questo caldo allucinante potrebbe darmi alla testa e la mia memoria rischierebbe di uscirne offuscata e imprecisa?! –  
- Come sei spiritoso! – sbuffai, alzando gli occhi al cielo - Ti avverto, se mi sporgo e mi rendo conto che  sono i tuoi  piedi a bloccare la carrozzina, perdo la pazienza, quindi vedi di sollevarli e andiamo! –
Eravamo quasi in cima alla rampa che collegava il cortile con l’edificio, quando sentii una voce squillante chiamare il mio nome a gran voce. Mi fermai di colpo e sia io che Colin ci voltammo indietro. Una ragazza, con una lunga coda di capelli castani, ci veniva incontro agitando le braccia.
- Jared, Jared! – ci raggiunse con il fiatone, piegandosi un attimo sulle ginocchia per riprendersi – Sei Jared Leto, vero? Non ti sto sognando? –
- Sono io! – le risposi sorridendo, sebbene un tantino interdetto. Con tutto il bene del mondo, non era certo il momento più adatto per intrattenersi in chiacchiere con qualche fan. Era un’echelon, almeno? E se riconosceva Colin?
- Sono una tua grandissima ammiratrice! – esclamò con occhi, bocca e braccia spalancate – Ero qui con mia nonna, ti ho visto quassù e ho pensato di avere un’allucinazione! Ho visto tutti i tuoi film, tutti! E ho sentito anche qualche tua canzone! – ecco, non era nemmeno un’echelon, non mi potevo fidare! – Fuga da Seattle! E’ il mio preferito, fantastico, bellissimo! Tu, sei bellissimo! – non prendeva nemmeno fiato.
- Oh, grazie, sì, grazie, io –
- Puoi farmi un autografo? – continuò, ma con gentilezza, allungandomi un foglietto rosa e una penna mangiucchiata.
- Sì, sì, ovvio! Come ti chiami? –
- Jenny! – mi rispose, con un sorriso che le arrivava fino alle orecchie.
- Ecco, qua, Jenny… - le restituii tutto, dopo aver scritto una dedica veloce e firmato.
- Possiamo fare anche una foto, per favore? –
- Uhm… - la ragazza, appena vent’anni, forse, mi fissava tra lo speranzoso e il venerante e il “no” proprio non riuscì a venirmi fuori – ma certo! –
- Grazie! Grazie mille, Jared! – e mi passò il suo cellulare.
- Ve la scatto io! Che ci sto a fare qui se no! – mi voltai verso Colin, che ci fissava decisamente divertito – Dammi qua! – gli diedi il telefono, pregando tutte le divinità che mi venivano in mente affinché la ragazza non lo riconoscesse. Non so come, ma non lo fece. – Dov’è il bottone? –
- Non c’è il bottone! La tecnologia, ricordi? Devi premere l’icona sullo schermo, la vedi? –
- Ah, eccola qua! Tutto a posto! Sistematevi… - come di consueto, anche Jenny si aggrappò ai miei fianchi come se la sua vita dipendesse da loro, appoggiando la testa sula mia spalla sinistra – Sorridete… - si strinse ancora di più a me e io le misi un braccio sulla spalla, anche solo per non averlo compresso sul torace e riuscire a respirare -  Sorridi, Jared! –
- Questa è la mia faccia mentre sorrido, che devo fare? – sentii la ragazza sghignazzare.
- Ok! Pronti? Ecco fatto! –
Con qualche secondo di ritardo, Jenny si staccò da me, recuperando il cellulare da Colin e ringraziandolo.
- E grazie a te, Jared! È stato bellissimo incontrarti! Sei-sei straordinario, dal vivo, ancor più che in tv! Sei stupendo, la persona più stupendissima che abbia mai visto! Sei un sogno! E sei bravissimo! E la tua voce è meravigliosa, parli così bene! – mi guardò per la frazione di un secondo e senza nemmeno lasciarmi il tempo di ringraziarla, mi diede un abbraccio fortissimo a tradimento e se ne saltellò via.
Quando tornai con lo sguardo su Colin, lo trovai che mi fissava con una tremenda faccia da schiaffi, probabilmente un po’ stupito ma inconfutabilmente divertito.
- Quanto entusiasmo! Sono sempre così? – mi chiese ridacchiando, mentre mi risistemavo dietro di lui e prendevo a spingere oltre le porte, verso l’interno dell’edificio.
- Oh, no! – gli risposi con una punta di orgoglio - Gli echelon sono molto meglio! –


Di nuovo in camera, il tempo volò via, piacevole e leggero. Colin, risistematosi nel letto, ed io, sulla sedia vicino a lui, ce ne stavamo a chiacchierare con Rita, nel frattempo impegnata a ricamare un lenzuolino azzurro per Henry. Colin si estraniò parecchio dalla conversazione quando feci il tragico errore di mostrargli la versione di Tetris per cellulari, ma io mi dilettai non poco con alcune delle storielle di sua madre. Quelle sì che erano nuove per me, non come quelle che Eamon e Colin mi rifilavano sempre.
Insomma, tutto molto tranquillo, finché Claudine non riemerse dagli abissi dell’ospedale e butto là, con malcelata noncuranza:

- Ehi, Jared… se tutto va bene, domani sarà l’ultima notte che Colin passerà qua dentro. Perché non rimani tu con lui? –
Se il corpo umano fosse in grado di congelarsi autonomamente, ecco, quello sarebbe stato il mio momento.
Il pensiero di fare la notte a Colin mi era passato per la testa, in un primo momento, ma l’avevo velocemente scartato, riflettendo semplicemente sul fatto che da una parte lui stesso non si sarebbe probabilmente sentito a suo agio, avendo una nozione molto approssimativa della mia esistenza, dall’altra io per primo mi sarei trovato in una situazione alquanto scomoda e difficilmente gestibile, perché “notte”, “Colin” e “due letti separati” costituivano un’associazione totalmente estranea alla mia esperienza.
Senza emettere alcun suono, rimasi a fissare Claudine e Rita, che a sua volta mi guardavano attendendo una risposta, come un passante che si ritrova ad inciampare in una balena arenata. A dar voce alla mia coscienza, sentivo il monito indispettito di Rosario ribadire che anche i masochisti più risoluti sbattono contro un limite, ad un certo punto. Oh, Roxy, perché non sei qui a salvarmi?!
A sbloccare quegli istanti infiniti di raggelante stasi, fu proprio Colin, momentaneamente riaffiorato dal Tetris.

- È una splendida idea! – strepitò, dandomi un colpo sul braccio e richiamando la mia attenzione su di sé -  Ci divertiremo, vedrai! Qualcosa inventiamo! – continuò con convinzione.
- Ecco, io… non so se… -
- Non c’è niente di difficile, sai..? Qui chi viene si limita a dormire! – si fermò un attimo, forse notando la mia palese insicurezza – Sempre che tu non abbia già altri progetti, è chiaro… -
- No! No, no, figurati… - cercai di sorridergli e lui seguitò a guardarmi, con evidente aspettativa – D’accordo, rimango io allora. – gli dissi, per poi voltarmi ed annuire alle due donne, rimarcando il concetto.
Bravo Jared. Complimenti. Hai sempre il polso di dirgli di no.
Mentre tutti esprimevano la loro soddisfazione, mi sentii invadere da uno scriteriato eppure profondo senso di disagio e agitazione. Avevo decisamente bisogno di starmene un po’ per conto mio e prepararmi psicologicamente a quel che mi avrebbe aspettato il giorno seguente.
- Beh, detto questo, io mi avvierei verso casa, anche perché a minuti porteranno la cena, credo. –
- Sì, ma fai attenzione, prendi l’uscita secondaria, perché quella principale è ancora tenuta d’ostaggio dai paparazzi. – sbuffò Claudine.
- Come minimo incontri un’altra fan, magari un’ec…un’eche..com’è che si chiamano? – farfugliò Colin.
- Echelon! – gli risposi ridendo, mentre mi infilavo una manica della giacca.
- Dovevate vedere! – riprese lui, rivolto verso sua madre e sua sorella – Ne abbiamo beccata una nel cortile! Roba da matti, gli ha detto di tutto! –
- È sempre così con Jared! – sghignazzò Claudine, strizzandomi un occhio.
- Ma veramente! “Sei bellissimo, splendidissimo, bravissimo, supermega fighissimo.” Tutti gli -issimo del mondo! – poi si voltò verso di me, la fronte corrucciata in un’espressione di stupore – Non sapevo di avere a che fare con un uomo tanto adulato! –
Risi, scuotendo il capo, insieme a Rita e Claudine. Le salutai entrambe con un bacio, riservai a Colin un cenno con la mano e mi avviai lungo il corridoio.
Feci solo pochi passi, poi non riuscii a reprimere quel che all’improvviso mi era salito dentro. Avrei dovuto, probabilmente, ma non ci riuscii.
Tornai indietro e risbucai nella stanza. Rita era entrata in bagno, la porta chiusa, e Claudine era presso la finestra, ad osservare non vidi cosa.
Colin si accorse della mia presenza e sollevò le sopracciglia, sorpreso, ma lo anticipai, prima che potesse aprire bocca.

- Non so se possa avere un senso, sai… Però è vero, nel nostro ambiente, col mio lavoro, è così, è così sempre, quasi ogni giorno. Non importa andare in tour o percorrere il tappeto rosso, anche uscendo di casa, facendo la spesa, camminando per strada, andando dal medico, ogni comunissima attività diventa l’occasione perfetta per imbattersi in qualcuno per cui rappresenti un evento emozionante ed unico. La mia vita è così, Colin. Sono elogiato, encomiato, adulato in continuazione, in ogni modo, come se fossi la persona più speciale dell’universo. – feci una breve pausa, prendendo aria e infilando le mani in tasca, per nascondere un tremore apparente, quanto bizzarro, mentre Colin mi seguiva immobile, silenzioso e attento. – Non so se possa avere un senso, ma… per me è questo il grande amore. Sei sommerso da questa marea di sfrontate attenzioni, e le apprezzi, eppure senti che sono vere sono nell’istante in cui trovi il tuo qualcuno. Capisci? Io non mi sento davvero speciale perché mi viene ripetuto che lo sono cento volte al giorno, io mi sento davvero speciale perché ho lui, che a volte, senza nemmeno dover dire una parola, mi fa capire che sono in assoluto ciò a cui tiene di più. – Non piangere adesso, Jared, non adesso – Migliaia di voci e, per una strana alchimia del destino, un unico qualcuno in grado di dar loro un valore. Non è così scontato avere questo potere su una persona né dall'altra parte lo è concederlo. E penso che sia questo il vero amore. Per me, almeno, è questo. – conclusi quasi in un bisbiglio, sbattendo un paio di volte le ciglia per trattenere ad ogni costo le lacrime.
Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, gli sguardi incollati l’uno nell’altro, Claudine immobile, contro la parete, con una mano a coprirsi la bocca. Mi sentivo in qualche maniera leggero, ma il cuore mi batteva a mille e mi sembrò quasi che per un istante il tempo si fosse fermato.
Poi, dal niente, Colin piegò le labbra in un sorriso malinconico.

“Questo amore, così violento, così fragile, così tenero, così disperato.
    Questo amore, bello come il giorno, e cattivo come il tempo, quando il tempo è cattivo.
    Questo amore così vero,  questo amore così bello, così felice, così gaio, e così beffardo,
    Tremante di paura come un bambino al buio.
     E così sicuro di sé, come un uomo tranquillo nel cuore della notte.
    Questo amore che impauriva gli altri, che li faceva parlare, che li faceva impallidire,
    Questo amore spiato, perché noi lo spiavamo,
    Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato, perché noi l'abbiamo perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato.
    Questo amore tutto intero, ancora così vivo, e tutto soleggiato.
    E' tuo. E' mio.” –
Non fui in grado di trattenere una lacrima che mi scivolò infida,  rapida, traditrice, lungo la guancia, fino a cadere oltre il mento; il suo infrangersi contro la cerniera della giacca udibile nel silenzio surreale in cui eravamo rimasti.
- Sono sempre stato un fanatico di Prévert, - disse piano – solo che mi ha sempre imbarazzato dirlo..! –
Annuii meccanicamente, come se non fossi nemmeno io a decidere i movimenti del mio corpo e lui sorrise, appena.
- Ci vediamo domani. –
- A domani, Jared. –

Domani.
Un altro giorno per questo nostro amore dimenticato.

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Capitolo 11
*** misty watercolor memories ***


11 Buongiorno a tutte!
Con che coraggio mi faccio rivedere dopo tutto questo tempo? Lo so, sono pessima.
Se non altro, direte, ti farai perdonare con un capitolo strabiliante!
E invece no, mi dispiace, sarà già tanto se avrete l'enorme pazienza di arrivare fino alla fine senza legarvi un cappio al collo...
Però questa storia proprio non riesco ad abbandonarla, quindi ritorno sempre!
Comunque andrà a finire, vi ringrazio fin da adesso,
perché le vostre parole, i vostri complimenti, anche le vostre riflessioni, sono la soddisfazione più bella che potessi mai chiedere :)
Spero che arriviate indenni alla fine e, se ci riuscirete, farò del mio meglio per farvi presto una bella sorpresa!
Un bacione e grazie infinite di tutto <3





11.
Il programma di quel martedì prevedeva che trascorressi l’intera giornata al Lab, fino all’ora di cena, quando mi sarei recato in ospedale per affrontare la notte. Ovvero 24 ore precise senza vedere Colin.
Col cavolo.
Appena dopo le 8 mi ero già presentato nella stanza. Che trovai completamente vuota, se non  per Claudine che annotava qualcosa sull’agenda che teneva sulle ginocchia, un caffè fumante sulla sedia accanto a sé.
- Ehm… buongiorno… - borbottai, mentre mi avvicinavo con una certa titubanza.
- Oh, Jared! – esclamò lei, un po’ sorpresa, alzando la testa - Buongiorno… - mi sorrise – Scusami se non sono molto accogliente, ma stamattina non riesco proprio a carburare… Guarda, ho persino scritto la stessa parola tre volte di fila! –
- Ma no, figurati… - le sorrisi a mia volta – Capita! –
Rimasi a guardarla, aspettando spiegazioni sull’assenza di suo fratello dalla camera, ma lei continuò a fissarmi in silenzio, per alcuni lunghi secondi. Poi all’improvviso si riscosse e scrollò con forza il capo.
- Oh, ma certo! Colin! – si batté una mano sulla fronte – Te l’ho detto, scusami… L’hanno portato giù per fare la risonanza dieci minuti fa. –
- Ah… - biascicai, deluso.
- Se fai una corsa, dovresti fare in tempo a recuperarlo! Sono quasi certa che si trovi al piano di sotto. –
- Dici? –
Annuì energicamente, per poi agitare una mano verso la porta alle mie spalle.
- Sbrigati! Su, su, vai! –  
In men che non si dica, avevo già infilato il corridoio e raggiunto rapidamente le scale, saltando i gradini a due a due. Mi fermai a cercare l’indicazione per il reparto su un grande cartellone bianco e, individuatala, ripresi a camminare con passo svelto, accelerando sempre di più, finché, svoltando l’ennesimo angolo, riconobbi a pochi metri da me il profilo di Rita. Rallentai appena, cercando di recuperare una qualche compostezza.
Quarant’anni, Jared. Quaranta. Prova a ricordartene ogni tanto.
Non feci in tempo a richiamare la sua attenzione, che Rita si voltò e notai che era al telefono; senza interrompere la conversazione, mi salutò con uno dei suoi grandi, famosi sorrisi e mi indirizzò con l’indice della mano libera verso la porta di vetro poco più avanti. Le sussurrai un “grazie” e mi avventurai oltre quella soglia.
Mi ritrovai in una piccola sala scarsamente illuminata, su cui si aprivano numerosi vani, molti dei quali, da quel che riuscivo a scorgere, avevano una parete completamente in vetro. Tutto era avvolto nel silenzio, se non per un ronzio costante e piuttosto fastidioso che doveva provenire dai macchinari.
Non avevo la minima idea di dove andare, cosa fare o a chi rivolgermi, ma la fortuna arrivò di soppiatto alle mie spalle con voce squillante.

- Salve, Jared! Immagino sia qui per il signor Farrell! –
- Oh, Leia, buongiorno! – le sorrisi – Sì, lo sto cercando in effetti, mi hanno detto che si trova qui, ma… - mi guardai intorno con aria lievemente sperduta.
- È nella stanza numero 3. – la indicò con un cenno del capo – L’esame comincia tra cinque minuti, quindi faccia presto! – concluse strizzandomi un occhio.
La ringraziai e mi avvicinai alla porta in questione. Presi un bel respiro, scacciando definitivamente il fiatone, e spinsi sulla maniglia. Mi si parò davanti un ambiente spazioso, anch’esso illuminato con sfumature tiepide, pallide, ma decisamente avvolto in una bassa temperatura. 
Sfregandomi le braccia per attenuare il freddo, mi avvicinai al grande macchinario sulla parete di fondo, dalla cui estremità, distese su di un piano orizzontale, spuntavano le gamberelle nude di Colin. Soppressi a stento una risata, pensando a quante arie usava darsi sempre riguardo le sue possenti gambe da calciatore irlandese. “Perché voi americani vi credete chissà chi, ma delle cosce così, vedi, dei muscoli del polpaccio così non ve li sognate nemmeno!”. Aveva delle belle gambe, in effetti.
Mi distrasse dai miei ragionamenti la bislacca impressione che Colin stesse borbottando qualcosa.

- … to save a life. –
Mugugnava? Feci qualche passo verso di lui, tendendo l’orecchio.
- … would you kill to prove you’re right … -
Cantava?
- Crash crash, buuuuurn, let it all burn, this hurr –
- Colin?! – non riuscii proprio a trattenere.
Lo vidi tirarsi su di scatto, quasi sbattendo la testa contro il lungo tubo che lo conteneva.
- Cazzo, Jared! Mi hai fatto venire un infarto! –
- Scusa … Ma che stai facendo?? –
- Una risonanza, cosa cazzo ti pare che stia facendo?! – brontolò, risistemandosi in posizione supina.
- Canticchi! Hurricane! Canticchi la mia Hurricane! -  constatai tutto soddisfatto, ma ancora piuttosto sbalordito.
- Ah, sì! Sì, hai visto? – la sua voce mi giungeva un po’ ovattata dal centro del macchinario - Alla fine ne ho trovate di canzoni che mi piacciono nella tua cartella! Al momento questa è la mia preferita. –
Mi ritrovai a gongolare come un adolescente della peggior specie. Avrei giurato di avere l’espressione di un beota. Per fortuna, riflettei, Colin non poteva vedermi in faccia. Poi mi resi conto che l’uomo in camice bianco al di là dal vetro poteva eccome, così mi diedi una svegliata, abbassai lo sguardo, imbarazzato, e mi avvicinai di più al fianco di Colin, poggiandogli una mano sul ginocchio sinistro.
- Sei freddo… Hai freddo? Fa freddo qui dentro. – dissi, dando prova della mirabile estensione del mio vocabolario, al momento.
- Freddo? Nah..! Sono irlandese, io, tu non hai idea di cosa sia il freddo! –
Alzai gli occhi al cielo, intenzionato a rispondergli qualcosa, quando sentii il ginocchio sgusciare al mio tocco e nel giro di un nanosecondo mi ritrovai Colin seduto sul bordo del lungo tubo, il camice arricciato fino alla vita.
- Colin, ma sei impazzito? –  starnazzai, non sapendo bene cosa fare.
- Stai tranquillo, ora rientro subito! – disse, scrollando le spalle ed esibendosi nel suo sorriso birichino – Menomale sei passato, pensavo di chiamarti… -
- Qualcosa non va? Per stasera, forse preferisci ch –
- Per stasera, sì! Pensavo, ecco, che potresti portare un film e potremmo vedercelo insieme… - lo guardai accigliato – Un film qualsiasi che non ricordo di aver visto ma che tu sai che mi piace, non saprei… Scegli tu! –
- Oh… d’accordo… D’accordo, sì, buona idea. – scorsi dei movimenti, di là dal vetro – E’ meglio che tu ti rimetta giù, però, adesso. – Mi spostai davanti a lui, così da indurlo a ritirarsi – Ci vediamo più tardi. E tieni duro, sono gli ultimi esami. – gli feci l'occhiolino, mentre lui si distendeva di nuovo, pronto a rinfilarsi nel tubo.
- Buon lavoro! - esclamò, prima di sparire nuovamente – E augurami buona fortuna! –
Sorrisi, anche se non poteva vedermi: - Grazie! E buon fortuna, Colin. –
Uscii, scambiandomi con Leia, probabilmente tornata per controllare che tutto fosse a posto. Sperai, con un semplice sguardo, di poterle trasmettere la gratitudine e insieme la costernazione per il contrattempo recato. Mi appoggiai alla porta richiusa alle mie spalle e sospirai.
Buona fortuna anche a te, Jared.


Artifact riuscì a tenermi impegnato tutto il giorno.
Escludendo la pausa pranzo con Emma e i ragazzi, durante la quale mi ero scambiato un paio di messaggi con Eamon per assicurarmi che Colin stesse bene, ed una breve telefonata con mia madre, rimasi incollato allo schermo del mio super accessoriato Mac, cliccando, editando, tagliando, aggiungendo. Insomma, lavorando come un matto e con una certa soddisfazione. Il tutto accompagnato dal sottofondo perlopiù continuo della batteria di mio fratello, quel giorno particolarmente ispirato, che suonava come un matto al piano terra, facendo risuonare l’intero edificio di frenetiche note rock.
Avevo portato con me un borsone con tutto il necessario per la notte, così da non dover passare da casa e, alle 18,30, puntuale come un orologio svizzero, mi apprestai a seguire Jamie, offertosi di darmi un passaggio fino all’ospedale. Essendo l’auto parcheggiata vicino al cancelletto dell’ingresso posteriore del Lab, mi ritrovai a dover passare dalla piscina, per raggiungere le scalette in metallo che portavano all’uscita. Rimasi bloccato per qualche indefinito istante ad osservare l’acqua che si muoveva lentamente, il bordo bianco della vasca su cui mi piaceva sedermi da solo a pensare.
Una settimana. Era passata una settimana dalla sera in cui me ne stavo lì a godermi le rosee prospettive della mia esistenza futura.
Avevo perso tutto. Svanito, in una manciata di secondi. Sette miseri giorni. Un’eternità.



- Certo che sono sicuro! Non ci sarà alcun tipo di problema. –
- Mmm… Perché non ne sono per nulla convinta? –
- Te l’ho già detto, Roxy… - sospirai, mentre salivo l’ultimo gradino delle scale e raggiungevo finalmente il terzo piano, dove mi soffermai qualche secondo – Nemmeno io ho fatto i salti di gioia all’inizio, ma ormai ho dato la mia disponibilità e tutti là dentro mi aspettano. Andrà tutto bene. –
- Tesoro, lo so che pensi di poter gestire questa situazione. Tu sei fatto in questo modo, credi di essere d’acciaio e di poter gestire ogni situazione, ma non è così. Non è così soprattutto quando si tratta di Colin. –
Roteai gli occhi. Detesto realizzare di avere torto.
- Senti, lui dormirà e io dormirò! – ripresi a camminare e passai il cellulare da un orecchio all’altro – E’ solo una notte, sono poche ore, se ci pensi, e le supererò indenne, vedrai. Adesso però devo lasciarti, perché sono praticamente arrivato. –
- No! Jared, no! Allontanati subito da quella porta, mi senti? E se proprio ci tieni a fare questa enorme sciocchezza, almeno sfrutta l’occasione per dirgli la verità! Qualunque cosa, ma smettila di immolarti sull’altare del sacrificio gratuito, hai capito?! –
Potevo benissimo figurarmela, mentre concitata e indispettita, girava in tondo nel suo piccolo camerino newyorkese.
- Si può sapere perché perdo ancora tempo a parlare con te? –
- Perché sono l’unica con un minimo di senno, a quanto pare. –
- Sì, come no… Ma ora sto davvero entrando, quindi ciao! – tagliai corto, abbassando il tono, gli occhi puntati sul piccolo 31 blu nel rettangolino accanto allo stipite bianco, dritto davanti a me.
- Jared! Jared, ascoltami! –
- Ti chiamo domani, Roxy. Buona serata anche a te! –
Infilai velocemente il blackberry in tasca, feci un bel respiro ed aprii subito la porta, prima che potesse cogliermi un codardo ma sano ripensamento.
- Eamon, te lo dico per l’ultima volta! Finiscila di rubare il cibo a tuo fratello. È lui che deve rimettersi, tu stai già anche toppo bene, mi pare! –
La prima immagine che mi trovai davanti fu quella di un accigliato signor Farrell che redarguiva il figlio maggiore, intento a sgranocchiare un qualcosa di appena sottratto alla cena del fratello. Colin era seduto sul proprio letto, un vassoio contenente vaschette dall’aspetto poco invitante rialzato sulle sue ginocchia.
Come al solito tutti mi riservarono un’accoglienza cortese e festosa. Mi sedetti con loro vicino al letto, fintanto che Colin finiva di mangiare con poca convinzione quel che gli spettava; Rita si preoccupò che avessi a mia volta cenato e potei rassicurarla. Più per caso che per altro, durante il tragitto in macchina, avevo trovato nel mio borsone una fetta della torta salata di Tomo e una banana, provvidenzialmente riposte lì da qualche anima buona prima che lasciassi il Lab. Il cibo non è mai stato una delle mie priorità e ammetto che in quei giorni non fosse affatto nei miei pensieri, ma per quella sera ero decisamente a posto.
Ricevetti il resoconto degli avvenimenti clinici e non del giorno e, una volta passato l’inserviente a ritirare il vassoio, assistei all’ammutinamento dei Farrell.

- L’hanno strapazzato di qua e di là per tutta la giornata, vedrai che ti crollerà in un batter d’occhio senza troppe rotture! – mi ammiccò Claudine, provocando un bofonchio lamentoso da parte di Colin.
Dopo il rapido giro di saluti e sbaciucchiamenti vari, Eamon assestò il colpo finale al mio stato d’ansia quando, mentre chiudevo la porta della camera, dal corridoio sventolò in aria i pugni chiusi in segno di vittoria e incitazione, bisbigliando un accalorato “in bocca al lupo”.  
Ma che si aspettavano tutti da quella serata?!
Non ebbi modo di affrontare il probabile momento di imbarazzo che avrebbe dovuto seguire, perché, come mi voltai,  vidi Colin impegnato a scendere dal letto.
- Ehi, ehi, ehi! – preso alla sprovvista tornai velocemente verso di lui – Cosa pensi di fare, scusa?! –
- Solo due passi per il corridoio… - disse, alzando lo sguardo su di me – Oggi davvero non mi hanno lasciato un minuto per respirare. –
- Non se ne parla nemmeno! –
Mi fissò sorpreso per qualche secondo, poi riprese a muoversi come per alzarsi: - Ma per piacere! –
- Rimettiti giù, sai! – lo rimbrottai deciso, parandomi a un centimetro da lui, le braccia incrociate sul petto – Credevi che rimanere solo con me significasse far baldoria, eh? Hai capito proprio male! –
- Oh, andiamo..! Ho solo voglia di muovermi un po’! – cercò di convincermi con l’espressione e il tono addolciti, ma negai con la testa in modo risoluto – Bene, saranno fieri di te alla scuola militare in cui ti hanno addestrato! – sibilò allora.
Stava già rimettendosi sotto al lenzuolo, quando decise di giocare la sua ultima carta, voce sommessa e occhioni da cucciolo: - Neppure un giretto per la stanza? –
Mi guardai brevemente intorno e sospirai: - Il tavolino, ti concedo di sederti per qualche minuto al tavolino. Prendere o lasciare. –
Osservò velocemente il punto cui mi riferivo, poi mi guardò: - Ok! Facciamo anche una partita a carte? -
- Uhm, d’accordo… Vuoi una mano per arrivare fin là? –
- No, no no. Ce la faccio benissimo da solo, grazie… Le carte sono nel secondo cassetto del comodino.- mi rispose, alzandosi lentamente e dirigendosi verso la parete di fondo con andamento un po’ traballante.
Presi le carte e lo seguii, aspettando che si sedesse e sistemando una seconda sedia dall’altro lato del tavolino. Mi fece segno di passargli il mazzo e cominciò a mescolare con mano esperta, sorridendomi.
Era bello, non c’era niente da fare. Smemorato o meno, cazzone o meno, era l’uomo più bello che avessi mai incontrato. O visto. O immaginato.

Cominciamo bene.
Mi diedi una scrollata e gli sorrisi a mia volta.
- Allora, è andata bene la tua giornata? La mia è stata un inferno, non mi hanno lasciato in pace un attimo… -
- Però ne è valsa la pena, no? Da quel che ho capito sei sano come un pesce e domani finalmente torni a casa! –
- Già! - pose il mazzo di carte in mezzo al tavolo perché lo alzassi, per poi riprenderlo – Casa… Sono proprio curioso di vederla, la mia casa… Ma soprattutto ho voglia di mangiare qualcosa di decente! –
Risi, cominciando a tirar su le carte che mi aveva distribuito: - Un lungo periodo di inattività fisica unito alle ricette di tua madre?! Diventerai un grassone, poco ma sicuro! – conclusi, senza distogliere l’attenzione dalle mie carte.
- Non fingo nemmeno di offendermi, finirà così di certo! – ridemmo entrambi – Hai lavorato al tuo documentario? –
- Sì, ininterrottamente. E al momento mi sembra che non ne verrò mai a capo. –
- Sei un perfezionista, eh? –
Lo ero e lui non aveva mai apprezzato particolarmente la mia tendenza a dedicarmi anima e corpo ad un progetto finché non ne fossi totalmente soddisfatto. Giorni e giorni chiuso ad occuparmi solo di quello, isolato dal resto del mondo. La chiamava ossessione, non perfezionismo. Per cui mi sentii quasi sollevato dall’ignaro sorriso che mi aveva rivolto e annuii gentilmente.
- Devi farmelo vedere, comunque! Magari a casa, con più calma. –
Chiacchierammo per tutta la partita di Artifact e di cosa volessi esprimere e rappresentare attraverso la sua realizzazione. Gli raccontai nei dettagli della brutta esperienza con la EMI e in generale di quanto poco pulito fosse il mondo delle case discografiche. Parlai della mia ancor nebulosa aspirazione a produrre, un giorno, i miei stessi album e quelli di artisti emergenti. Non so se quanto dicevo gli interessasse davvero o servisse a distrarmi dal gioco, sta di fatto che persi miseramente.
- Immagino tu voglia la rivincita..! – sghignazzò compiaciuto, radunando le carte.
Guardai l’orologio: - Credo che dovresti dormire… L’ha detto anche tua sorella che –
- Non vado in terza elementare e mi rifiuto di dormire prima delle nove! –
Lasciai andare un lungo respiro, rassegnato: - Vada per la rivincita, poi vedremo se piangerai come un bambino di terza elementare… -
Gli lanciai il mio subdolo sguardo di sfida e lui ridacchiò soddisfatto, riprendendo a mescolare le carte.
- E… lui? L’hai sentito? – buttò là, come se niente fosse, senza neppure distogliere l’attenzione da quanto stava facendo.
- No, non direi, no. – risposi prontamente, seppur colto di sorpresa.
- Non vorrei che fosse perché passi troppo tempo qui in ospedale… - continuò piatto, gli occhi ancor puntati sulle carte.
- Cosa? No, no, assolutamente. È così e basta, non dipende da niente… è solo un periodo di pausa, te l’ho detto. –
Alzò lo sguardo su di me, tenendo il mazzo fermo tra le mani.
- Non hai voglia di parlare del presente, eh? – scrollai le spalle, tirando le labbra nella classica espressione di chi glissa su qualcosa – Uhm… di certo non puoi negarmi la telenovela sul tuo passato! – esclamò, prendendo a dare le carte.
Sapevo che sarebbe arrivato quel momento e sapevo che avrei dovuto affrontarlo con qualcosa di già preparato. Il 2005 era stato un anno d’inferno, pieno di problemi, ostacoli, fardelli, quasi come se una difficoltà chiamasse un inghippo, un’indecisione portasse irrimediabilmente ad un errore. L’inizio del tour con la band, i suoi ritmi lavorativi sempre più massacranti, la scoperta della malattia di James, piombata dal cielo con un tonfo inarrestabile, l’assedio via via più intollerabile da parte dei paparazzi… la distanza fra noi, che cresceva ogni giorno di più, prendeva forma e accumulava peso, si ingigantiva ad ogni appuntamento saltato, ogni telefonata mancata, ogni e-mail rimasta senza risposta. E l’alcol, l’unico rimedio che Colin conosceva per placare il proprio dolore, mettere a tacere il proprio io insoddisfatto, nascondere ciò che non voleva vedere. Un vizio che si portava dietro fin dall’adolescenza, da quel che mi aveva raccontato in Marocco, a cui fin dall’inizio avevo dovuto far fronte, ma che col tempo se lo stava divorando; gli dava l’illusione di stare bene, di essere invincibile, scevro da ogni preoccupazione, e nel frattempo lo consumava, letteralmente.
Annus horribilis, insomma, concluso in bellezza con il collasso che si era procurato in Florida, durante l’ennesima nottata brava al termine delle riprese di Miami Vice. Birra, vino, whiskey, vodka, droghe di ogni tipo, donne, sconosciute, prostitute, qualsiasi cosa era buona. Per fortuna Eamon si trovava lì con lui in quei giorni ed io stesso ero in città, non poi così casualmente. Insomma, un anno strapieno di sciagure, con un culmine adeguatissimo ai prodromi. Un’escalation di eventi tanto negativi quanto specifici, non potevo raccontarli a Colin così come stavano. La sera prima, raggiungendo il punto della storia in cui mi ero fermato, mi ero subito reso conto che avrei dovuto almeno in parte modificare i fatti del seguito, sfumarne un po’ i contorni. Seppure in modo generico, Colin doveva pure aver saputo qualcosa del suo passato/futuro o comunque qualcuno gliene avrebbe parlato più approfonditamente. Non era il caso di rischiare proprio in quel momento.
Ma la novità improvvisa della notte da passare insieme mi aveva colpito e agitato così tanto che avevo velocemente dimenticato tutto. E così ero rimasto per chissà quanto tempo steso in camera mia a fissare il soffitto, al buio, riflettendo su cosa avrei dovuto fare, cosa avrei dovuto dire, invece di trovare una soluzione accettabile per il giorno dopo.

E ora sei qui, tutto eccitato al pensiero di trascorrere le prossime ore con lui e senza la minima idea di cosa raccontargli. Manco fossi alle medie. Deficiente cronico.
- Non ti va di giocare in silenzio? – tentai
- Certo che no! – brontolò accigliato – A meno che la conclusione mielosa di ieri non si prolunghi in un continuo da romanzo rosa… -
- Ah, proprio no! Su quello puoi stare tranquillo… -
- Ahi ahi ahi! Tono tra il sarcastico e il rassegnato, promette nubi all’orizzonte? –
- Un uragano. Bello e buono. – tirai corto, avvicinando il busto al tavolino e giocando la mia prima carta.
Colin giocò a sua volta la propria, si abbandonò all’indietro sullo schienale della sedia e mi fissò, senza dire una parola. Aspettava la mia mossa successiva, non per forza quella legata alla partita. Allontanai gli occhi dal suo sguardo tenace, inspirando e rassegnandomi al fatto che in qualche modo mi sarei dovuto arrangiare.
- Hai presente quel “Solo tu ed io” tanto promettente prima di Natale? – Colin annuì convinto – Ecco, l’epifania se lo portò via insieme all’albero e a tutti i regali…- la sua espressione si trasformò immediatamente –  Fu un anno difficile, quello, va detto. Cominciò subito male, con le pessime recensioni di Alexander… Invece di ritrovarci agli Oscar, come avevamo sperato e presagito fin dall’inizio, ricevemmo solo bastonate da quasi ogni fronte. Lui non avrà avuto un ruolo tanto importante, ma la delusione fu generale e lo coinvolse parecchio. -  se l’era sentita tutta addosso, eccome, la responsabilità di quel fallimento, una responsabilità che non era sua. Ma il senso di colpa, la tremenda botta di realtà che l’aveva catapultato da tanta probabile gloria ad un inarrestabile vortice di critiche lo aveva reso vulnerabile, lo schiacciava, lo faceva vergognare. Aveva parlato di voler mollare tutto e per mesi avevo cercato di fargli capire che non aveva nessun motivo per sentirsi così. Ma è difficile a volte ragionare con chi vuole solo accantonare le questioni, spiegare le cose a chi si tappa le orecchie. – Si buttò allora in questo nuovo progetto, un film con cui si augurava di poter recuperare e accrescere la propria popolarità – era già al culmine, in realtà, e il set di Miami Vice era stato uno strazio per lui, un vero e proprio pedinamento della stampa scandalistica che attendeva con la bava alla bocca qualsiasi sua mossa, preferibilmente avventata o sopra le righe; ore di appostamenti, pur di ottenere uno scatto che alimentasse le voci sul divo incontrollabile e irresistibile del momento-, ma ben presto le difficoltà di lavorazione si moltiplicarono e le riprese si trascinarono tra varie interruzioni per lunghissimi mesi. E poi, purtroppo, ebbe dei problemi con la bambina. –
Aleggiava da qualche tempo il sentore che James avesse qualcosa che non andava. Per quanto lo sviluppo di ogni bambino vari individualmente, era diventato innegabile, ad un certo punto, che lui non rispettasse per niente i parametri. Cominciarono le prime visite, i primi pareri poco rassicuranti, le prime prese di coscienza che un qualche disordine ci fosse. Dopo l’estate, alla fine, la diagnosi sulla sindrome e le prospettive di quella che sarebbe stata la sua esistenza disagiata.
Con gli anni, per la verità, le cose erano andate meglio del previsto. Era indiscutibile che il bambino avesse delle difficoltà, delle grandi limitazioni, rispetto ai suoi coetanei, ma non era triste, non era malato, era solo speciale. Se c’è una cosa che James non porta nella tua vita è la malinconia; lui è felice, sempre, anche quando non penseresti mai che potrebbe esserlo. E riesce a rendere felici tutte le persone che roteano nella sua orbita. James è in assoluto il fulcro, la linfa, la grande risorsa di Colin; è il suo orgoglio.
Ma all’epoca le previsioni erano tutt’altro che rosee e fu un duro colpo, un’altra responsabilità che per qualche motivo Colin sentì di doversi assumere. Ancora senso di colpa.

- Che tipo di problemi? – mi sentii domandare
- Ecco… - ecco! E ora..? – problemi del tipo, sai… Non…La madre della bimba non gliela lasciava vedere abbastanza – pessima scusa, perdonami Kim – Diceva che il suo stile di vita non giovava alla piccola. – Colin aggrottò la fronte, ma rimase in silenzio – In tutto questo io ero impegnatissimo con l’uscita del nuovo album. Il secondo, sai, quello con la tua amica From Yesterday, The Kill… - sorrise e annuì – e nutrivo molte aspettative, era un disco diverso e più grandioso, dal mio punto di vista, rispetto al precedente. E poi partirono i viaggi di promozione e soprattutto il tour! Ero pompatissimo, non puoi immaginare! – forse dovevo avere un aspetto anche troppo entusiasta, ma era sempre piacevole ricordare quel periodo – Ed ero anche sereno, perché stupidamente illuso che le cose con lui andassero bene, che avessimo raggiunto una sorta di, non ti dico classica e sicura relazione, ma almeno un certo equilibrio tutto nostro all’interno del quale muoverci agevolmente. – rimasi assorto per qualche secondo, per poi scuotere il capo e riprendere – Ma per lui non era così. Per lui non dovevo essere che un’ulteriore complicazione alla sua già problematica vita. E un metodo elementare per svagarsi e fingere di stare bene è quello di fare lo stronzo e scoparsi qualunque essere a due zampe capace di respirare. Con un bel seno, ovviamente; un bel seno è l’ideale per farmi sentire inadeguato. – non fu volontario, ma lasciai che il mio tono diventasse  via via più acido – Certo non si può dire di lui che non sia sempre stato un uomo corretto e galante. Una notte, per mettere fine ai dubbi che ultimamente mi assillavano, mi chiamò, palesemente ubriaco fino al midollo, il respiro corto e la chiara presenza di una qualche poco di buono vicina a lui, per informarmi che “no, Jay, non ce la faccio, è meglio godersi la vita senza rinunciare a niente”. –
Scrollai le spalle, guardando Colin come se davvero non stessi parlando di lui, come se quel che dicevo non avesse più alcun potere di farmi male. Lui, le labbra dischiuse, lo sguardo sgomento, era pietrificato.
Volevi la tua storia? Eccola.

- Chi lo sa, forse se gli fossi stato più vicino, gli avessi dedicato più tempo, materialmente… forse se avessi capito che mi stava allontanando perché non sapeva più dove sbattere la testa… forse… Ma sai cosa? In più di un’occasione lui ha combinato casini, e io, come un idiota, mi sono incolpato dicendomi “Jared, ma se…”. E invece no! C’è voluto tempo, ho dovuto morire dentro, sai? Ma l’ho capito. Sa essere uno stronzo. Punto. Io non avrei potuto farci niente comunque. -  
Mi ero innervosito, stupidamente. Mi faceva sempre quell’effetto ripensare ai guai del passato dopo che era successo di Alicja. Era come se ogni problema, anche anteriore, lo ricollegassi a lei, come se ciascun torto che Colin mi aveva fatto, ciascun piccolo pezzo di dignità che ogni volta mi aveva portato via, andassero ad accumularsi nel dolore più grande che mi aveva provocato. Ero più sereno nel ripercorrere i suoi sbagli, prima; negli ultimi anni, ogni ricordo negativo mi faceva infuriare. Mi calmai e mi schiarii la voce.
- Sta a te tirare. – dissi piano, indicando il piano da gioco.
Mentre parlavo, non avevamo interrotto la manche, che stava ormai volgendo al termine, anche se Colin era rimasto immobile negli ultimi minuti.
- Sì, scusami. – si riprese, abbassando gli occhi sulle carte e scegliendo quella da giocare.
Il filmino porno!
Ecco, cosa mi era sfuggito di quel periodo del cavolo, il filmino porno! Un’illuminazione istantanea! Ora c’era veramente tutto!
Il video hard più famoso del 2005, sicuramente ancora nella top 10 delle prestazioni amatoriali rubate ai vip. L’aveva girato tre anni prima, in realtà, ma la furbona che si faceva all’epoca aveva scelto quel momento, quando Colin era salito sulla cresta dell’onda, per divulgarlo sul web.

Ora che ci penso i suoi ricordi dovrebbero essersi arrestati più o meno al periodo in cui frequentava proprio la scaltra coniglietta. Chissà se l’ha già girato, nel suo cervello, il filmato… Casomai più in là glielo chiedo.
Comunque sia, almeno per quel fatto non me l’ero presa. Per quanto le persone dicano, lo trovai allora, e lo trovo ancora, un filmato piuttosto triste e degradante.
Se davvero fosse quello l’ascendente sessuale che Colin esercita su di me e quella la sua abilità media, probabilmente non starei qui a lagnarmi dei miei problemi, dato che sarei riuscito a liberarmi di lui molto, ma molto tempo fa.
Qualcuno, però, che a modo suo aveva apprezzato tantissimo il video, lo conoscevo bene. Mio fratello, ovviamente. Santo cielo, non saprei dire perché, ma lo trovava incredibilmente spassoso. Per mesi e mesi aveva riso a crepapelle e, a chiunque gli domandasse quale fosse il suo film preferito, rispondeva serio e compiaciuto “il porno di Colin Farrell”. Tutto questo aveva avuto tragicamente fine il pomeriggio in cui era rincasato senza preavviso e si era ritrovato nel bel mezzo di una riproduzione dal vivo sul divano del salotto. Era stato imbarazzante, ma se non altro lo aveva zittito per sempre.
Mi venne da ridere nel ripensare a tutto quel caos e, nel silenzio, Colin mi guardò incerto. Riuscii a rimanere serio, non era quello un argomento di cui potessimo parlare, troppo specifico, la casualità non avrebbe retto.

- Del resto – ricominciai da dove mi ero interrotto – non è che avermi vicino lo aiutasse più di tanto. Durante i nostri ultimi incontri non era neppure tanto lucido. Sì, perché devi sapere che il tocco finale in questo incantevole quadro erano le droghe. Aveva provato qualcosa, occasionalmente, come fanno tutti; non sono certo qui a dirti di essere sempre stato un santo. Un paio d’anni prima aveva avuto dei problemi alla schiena, così aveva cominciato ad assumere degli antidolorifici. – si era fatto male, due volte, mentre giravamo in Tailandia e ne aveva avuto seriamente bisogno - Dalla dipendenza farmacologica all’uso frequente di pasticche e cocaina il passo è breve, lo sai anche da solo. –
- Un cliché piuttosto triste… - intervenne.
- Sai, non credo che la celebrità c’entrasse qualcosa in tutto questo… Non è il tipo di persona che cambia e si crede chissà chi solo perché è sbarcata ad Hollywood, che deve darsi un tono, provare gli eccessi ad ogni costo. Penso che si portasse già tutto dentro. – incontrai di sfuggita i suoi occhi scuri, per poi concentrarmi su una macchiolina verde sul tavolino – Penso che fosse infelice e fragile già da molto prima, anche se a vederlo era l’ultima impressione che avrebbe potuto trasmettere. Frequentare un ambiente come il nostro, un vero vespaio di insidie, una sorta di spirale dove ogni vizio è amplificato, ogni imperfezione cresce e si trasforma in qualcosa di più grande a velocità raddoppiata, probabilmente non ha che favorito e affrettato il suo percorso. Sta di fatto che almeno quando eravamo insieme non sentiva il bisogno di sballarsi. – buttai giù la mia ultima carta e tornai a rivolgermi direttamente a lui - Anzi, sentiva il bisogno di mantenere salda ogni sua capacità cognitiva. Erano rare, ormai, le occasioni in cui riuscivamo a rubarci un po’ di tempo solo per noi; un paio di giorni, a volte un paio d’ore. Ma in quei pochi, preziosi momenti, avevo ancora la possibilità di avere lui, di sentire lui, di stare con lui. Ero assurdamente capace di passare sopra tutte le sue mancanze e di assaporare il fatto che con me non gli servisse altro, che gli bastassi io, che fossi l’unico in grado di farlo essere in pace con sé stesso. Ero più forte io di ogni droga, – evitai di nominare l’alcol, vero protagonista della sua rovina, per non avvicinarmi troppo alla storia di sé che già conosceva. Gli antidolorifici e le altre schifezze ben più pesanti che assumeva erano un problema, sì, ma non ne avrebbe nemmeno fatto uso se fosse stato capace di rimanere sobrio - almeno fino ad un certo punto. L’ultimissima volta che l’avevo visto era così fatto – e ubriaco -  da scaraventarmi contro un soprammobile di cristallo, un fantino di finissima lavorazione, che mi schivò di poco per poi frantumarsi a terra in mille pezzi. Subito dopo si abbandonò sul tappeto in lacrime, strillando insulti e suppliche insieme, finché, addormentato, o svenuto, non si mosse fino alla mattina. Rimasi accanto a lui tutta la notte, occhi sempre aperti, immobile, se non per un leggero tremore, per assicurarmi che stesse bene. – feci una piccola pausa, mordicchiandomi l’unghia del pollice destro. Quasi un senso di compatimento che andava a sostituire il panico di quella notte, scolpita irrimediabilmente nei miei ricordi. Colin, le braccia rigidamente stese sui braccioli della sedia, aspettava, visibilmente attonito.- Poi me ne andai senza una parola e né io né lui ci facemmo sentire per un bel po’. Eppure, nonostante tutto, quando tra le varie tappe per la band mi furono proposte tre serate a M – mi bloccai appena in tempo ed ebbi la prontezza di spirito di fingere di grattarmi una guancia – Memphis, dove lui stava finendo di girare le ultime scene del suddetto film, non riuscii a tirarmi indietro. Non l’avevo neanche avvertito, non ero sicuro di come avrei gestito la cosa; probabilmente avevo in testa di fargli una sorpresa, sperando risultasse gradita, dato che non ci eravamo lasciati nel migliore dei modi. Ma ci pensò lui a farmela, la sorpresa. – Colin corrugò la fronte – Un…incidente… - pensa velocemente, Jared, spremi le meningi – mentre faceva il giro dei locali notturni, sbandò con la macchina. Si ridusse piuttosto male e fu trasportato di corsa in ospedale. Sotto l’effetto di molteplici sostanze stupefacenti, s’intende. –
Nessun incidente, il suo cuore aveva semplicemente smesso di battere. Per fortuna Eamon si trovava lì con lui e mi aveva avvertito subito. Non si aspettava che fossi tanto vicino, ma mi aveva confidato, in seguito, di esser stato molto sollevato di non aver passato quel terribile momento da solo. Erano state ore d’inferno. Il medico che gli aveva salvato la vita, spulciando le sue analisi, ci aveva confessato candidamente di non aver mai visto un tasso alcolico tanto elevato né un fisico tanto giovane devastato a tal punto.
 A 29 anni, si trascinava dietro i segni di eccessi normalmente così radicati  soltanto nei settantenni.

- E andò tutto bene? – mi chiese Colin – Si riprese? –
- Sì, si riprese. Ma per miracolo, su questo furono tutti molto chiari, sia con lui che con noi. Non ci f –
- Ti vide quando si svegliò? Era contento? –
Era quasi dolce il modo in cui si sentiva partecipe. Gli sorrisi, lasciando andare un po’ della tensione che mi aveva mio malgrado attanagliato fino a quel momento.
- Molto contento, sì! Parlammo. Volle parlare, un sacco… -abbassai lo sguardo, intrattenendomi con le maglie sgranate dei miei jeans – Buttò fuori un’enormità di cose, alcune che avevo immaginato, alcune che avrei voluto sentire, alcune che andavano oltre ogni mia aspettativa. – sentii l’angolo delle labbra che si incurvava nel tenero ricordo di quel suo liberarsi, l’espressione mortificata ma convinta, le mani saldamente aggrappate al mio braccio, perché non mi spostassi di un centimetro – Toccare il fondo gli aprì gli occhi, gli mostrò che per tanto tempo aveva solo umiliato sé stesso e chi gli voleva bene, respingendo ogni tentativo di comunicazione, di aiuto, di supporto. Fu uno shock tremendo, ma capì tutto e lo capì bene. – focalizzai la mia attenzione su Colin, sullo strano ibrido di sé che avevo davanti, incastrato tra il passato e il futuro, i dubbi e le certezze, cercando vanamente qualche traccia di quel Colin di cui gli stavo raccontando – Ed ebbe la forza di cambiarsi! Di comprendere su chi e su cosa potesse appoggiarsi, per chi e per cosa valesse la pena lottare. Lo ripulirono ben bene durante il ricovero, pensa che lo specialista che lo seguiva si disse sconcertato dalla quantità e dalla varietà di sostanze che lui gli elencò di aver assunto. E poi si fece un mesetto di – tentennai, mentre lo guardavo, non volendo ancora far collimare troppo la mia storia con quella che conosceva – ritiro… -
Colin aggrottò le sopracciglia: - riabilitazione, vuoi dire? –
- No, ritiro! Una sorta di ritiro spirituale, sì… in Tibet, ecco. – Jared, ma come ti vengono certe stronzate?! – Metodi sperimentali, il risultato è più o meno quello delle cliniche riabilitative occidentali, insomma… – aggiunsi, in seguito ad una sua occhiata piuttosto perplessa.
Sembrò non darci ulteriormente peso, ma continuò a scrutarmi, pensoso, le pupille che vagavano lentamente su di me. Mi pareva quasi che mi lasciasse dei segni addosso e provai un certo disagio. Tossii appena.
- Beh, abbiamo finito, qui – indicai col mento il piano da gioco – vuoi contare tu per vedere chi ha vinto? –
Spostò rapidamente lo sguardo sulle carte e, radunandole in unico mazzo, ridacchiò: - Non credo ce ne sia bisogno… Mi sa che non era la tua serata, Leto! –
Non saprei assolutamente dire il perché, forse il tono della sua voce, il riso spontaneo e rilassato, l’accomodante ironia che gli sprizzava dagli occhi, qualcosa mi fece sentire bene, sciolse ogni mio muscolo contratto, allentò la rigidità che mi sosteneva.
Mi accorsi all’improvviso di aver avuto freddo per tutto il tempo, ma in un istante i brividi cessarono.

- Mi rifarò, non temere! Torniamo a letto, ora? – roteò gli occhi, fingendosi infastidito, ma poi annuì, con il sorriso sulle labbra. Si vedeva che era stanco. – Vieni, ti do una mano! –
- Macché, non mi serve affatto! – mi fermò, ancor prima che potessi alzarmi.
- Colin… - soffiai, abbandonando le braccia sul tavolino, sconsolato -  Ti ho visto vomitare, ruttare, collassare ubriaco sul pavimento, bestemmiare… una volta anche farti la pipì addosso! Tutte in quest’ordine, in ordine sparso e anche reiterato. Credi che mi costi una qualche fatica sorreggerti per dieci metri, pochi giorni dopo che ti hanno fatto un buco in testa? –
Mi fissò con gli occhi spalancati per qualche secondo, poi, forse un po’ in imbarazzo, masticò un poco convinto “d’accordo, allora”. Si tirò su in piedi da solo e mi passò un braccio intorno al collo; lo sorressi fino al letto, dove si sdraiò piuttosto agilmente, allungando e stirandosi le gambe.
Quando, d’istinto, gli rimboccai le lenzuola sul petto, mi rivolse un’espressione a metà tra lo sbigottito e il divertito.

- Grazie, mammina! –
Sbuffai e replicai con una pernacchia, cosa che lo rese ancor più di buon umore.
In effetti avrei potuto tenermele per me certe accortezze.
Spostai una sedia oltre il comodino e ne avvicinai una al letto, sedendomi.

- Che fai, adesso mi canti anche una ninnananna? - domandò con piglio sbarazzino
- Come se non l’avessi mai fatto..! –
Cazzo, come te la sei fatta uscire questa?!
Colin mi rimandò un’occhiata quasi sconcertata.
C’è un nome per quelli come te, Jared: decerebrati.
- Non…non a te, ovviamente… ai tuoi bambini! – cercai di rimediare, ma con la voce un po’ traballante – Lo adorano…che canti per loro, intendo… -
Era vero. James certe volte si agitava moltissimo, dal niente, e solo con qualche trucco collaudato col tempo era possibile calmarlo. Quando c’ero io, lo prendevo in braccio e lo cullavo pian piano, girando in circolo e sussurrando una melodia pacata. Henry invece impazziva per la chitarra. Ogniqualvolta la tirassi fuori, mi saltellava intorno tutto emozionato, smaniando per strimpellare le corde e impegnandosi per imparare tutte le canzoni che mi sentiva canticchiare.
- Sì, certo… Sei molto gentile, sono sicuro che impazziscano per te… - tirò via, piatto. Deglutii, mentre Colin continuava a guardarmi, come esaminandomi. – Jared, tu canti le ninnananne a lui? –
- Come?! – mi sentii completamente avvampare – No! Ch –
- Oh mio dio! – esclamò ad alta voce, sollevandosi sui gomiti – Ma cos’è? Una sorta di gioco erotico perverso? – cercai di interromperlo, ma non si fermò, del tutto perso per la sua tangente – Cioè, gli canti? Oddio, non posso nemmeno immaginare la scena! –
- Non è che gli canti le ninnananne, stupido! – sbottai – Solo…dopo l’inicidente, a volte, non riusciva a dormire, a rilassarsi… E allora è capitato che… non so, che mi stendessi al buio, con lui, e intonassi qualcosa per farlo stare tranquillo, ecco… -
- Gli canti le canzoncine per il sonno, ti rendi conto? – continuò imperterrito, per poi lasciarsi scivolare nella posizione supina precedente e coprirsi il volto con le mani – Sei veramente un tesoro! – mi disse infine, sghignazzando.
- Colin, mi lasci in pace?! – sbuffai
- D’accordo, d’accordo, scusa… Ma dicevo sul serio! E poi, vedessi, sei rosso dalle punte dei capelli alle unghie dei piedi! –
Effettivamente sentivo caldo. Lo guardai male, sbuffando di nuovo.
- Va bene, dai, mi sono calmato… - inspirò e mi guardò, sorridendo – Ma non devi cantarmi nulla, tranquillo, non ho intenzione di dormire. –
- Che vuol dire “non ho intenzione di dormire”? Abbiamo giocato, abbiamo parlato, mi hai preso in giro… ma adesso è arrivata l’ora. –
- Ma io non dormo! – rispose contrariato – L’hai portato il film che ti ho chiesto oggi? Lo guardiamo? – m’incalzò speranzoso.
- È tardi, Colin, e hai avuto una giornataccia… Lo vedi che ti si chiudono gli occhi? –
- Ti prego, Jared, non voglio dormire. – bisbigliò alla fine, con espressione mesta.
- Si può sapere cos’hai? Non ti senti bene, per caso? – mi curvai istintivamente verso di lui, allarmato.
- No, sto bene…è che… - rimase qualche secondo in silenzio, rimuginando – Faccio un sogno. – mi disse poi – Da due notti. E anche ieri pomeriggio, quando mi sono appisolato. –
Si zittì nuovamente, allontanando lo sguardo dal mio e chiaramente riflettendo su qualcosa.
- Un brutto sogno? –
- No, è un sogno, e basta. Ma non mi va di rifarlo, mi fa sentire…strano…turbato. –  mi limitai a corrugare la fronte e aspettai – A un certo punto, all’improvviso, mentre sto sognando qualcos’altro, qualcosa di normale, mi ritrovo in uno spazio grandissimo, completamente vuoto, tutto grigio. Non ci sono pareti, soffitti, pavimenti, è solo uno…spazio. Io cammino, un po’ incerto, non so bene dove mettere i piedi, come mantenere l’equilibrio…non sono sicuro di dove dovrei andare o cosa dovrei fare. Sto lì, e mi guardo intorno. Poi a un certo punto, poco distante, vedo la mia casa, a Dublino, e automaticamente so che là dentro ci sono i miei, tutti quanti. E allora – smise di aggrovigliarsi le dita ed iniziò a mimare la scena – comincio subito ad andare verso di loro, anche se sono tentennante, perché non so come sia la strada. Il tempo di muovere due passi e appare un’ombra chiara. Non si fa sentire, non produce alcun rumore, la scorgo appena con la coda dell’occhio. Io mi giro e la seguo, senza nemmeno pensare. – continuò, assumendo un tono smarrito e spalancando gli occhi, quasi imbambolato – Faccio fatica a starle dietro, va veloce e il percorso è accidentato. Mentre la inseguo mi ritrovo a pensare a perché mai lo stia facendo, la mia famiglia è nella direzione opposta; con loro so che sarei al sicuro, quest’ombra non so neppure chi sia. Perché la inseguo? Eppure continuo, sempre più rapidamente, finché non mi accorgo che ormai sto correndo! – esclamò, ora concitato – Sono perfettamente in equilibrio, sono forte, non ho più paura e voglio raggiungere l’ombra, la voglio vedere. Voglio capire. – si fermò tutt’a un tratto, interrompendo l’enfasi del racconto, tornando ad assumere l’espressione sconsolata di poco prima – Ma non l’ho raggiunta mai, in nessun sogno. Sta lì a un passo, ma non riesco a vederla. -
Avevo trattenuto il respiro. Per un sacco di tempo, almeno dall’attimo in cui mi ero riconosciuto in quell’ombra, quella che importunava le notti di Colin. Avevo trattenuto il respiro per dei minuti; mi chiesi come fosse possibile che non fossi ancora soffocato. Lo lasciai andare.
- Oggi ne ho parlato con lo strizzacervelli, ma l’interpretazione era piuttosto elementare, insomma. C’è qualcosa che mi sfugge, nella mia vita, è ovvio. Ma mi sembra il minimo, no? – allargò le braccia –  È solo che a livello cosciente non mi disturba affatto. Appena chiudo gli occhi, invece, se non acchiappo quella stramaledettissima ombra, non ho pace. – disse, quasi sdegnato, battendo un pugno sul materasso.  
Avrei potuto e dovuto replicare in molti modi. Ma dissi solo: - Bene, allora direi di guardarci il film! –
Colin, mi guardò, colto di sorpresa, poi sorrise e acconsentì. Mi alzai, scoprendo un certo tremore lungo le gambe, diretto verso il mio borsone, abbandonato sul secondo lettino.
- Che film hai scelto? – lo sentii chiedere, mentre tiravo fuori il dvd e mi guardavo intorno alla ricerca del portatile.
- Platoon! Un giorno, chiacchierando fra un ciak e l’altro, mi hai confessato di aver visto JFK, The Doors, Nato il 4 Luglio, ma non Platoon. – spiegai, intento ad accendere il pc e preparare tutto - Hai accettato di spaccarti il culo per Oliver Stone senza aver visionato la sua migliore creatura… - gli lanciai la custodia del dvd e lui prese ad esaminarla – Poco dopo la fine delle riprese ce lo guardammo insieme e ti è piaciuto tantissimo! È un capolavoro, Platoon. –
- Fammi capire… – mormorò, alzando gli occhi dalla custodia e scrutandomi dubbioso – proponi ad un ricoverato in stato semi-confusionale uno spossante e crudissimo film di guerra che denuncia uno degli aspetti più bassi e spregevoli della natura umana? –
Mi bloccai a pochi metri da lui, il portatile già pronto tra le mani, assalito improvvisamente dalla possibile inadeguatezza della mia scelta.
Poi Colin scoppiò a ridere, ammiccando compiaciuto. Alzai gli occhi al cielo, segretamente sollevato.
Gli sistemai un cuscino sulle ginocchia e ci poggiai sopra il computer, riprendendo posto sulla mia sedia.

- Pronto? Vado? –
- Signor sì, Signore! –
Avviai il film, passai alla versione schermo intero e mi sistemai comodamente contro lo schienale. L’angolazione non era delle migliori, così mi spostai un po’ indietro e appoggiai il gomito sul bordo del materasso.
- Ma ci vedi? – annuii tranquillamente. Colin spostò lo sguardo da me al pc, poi di nuovo a me, poco convinto – No che non ci vedi bene da lì! –
- Sì che ci vedo! E poi lo conosco a memoria questo film, non ti preoccupare. –
Le note iniziali della colonna sonora lasciarono posto alle prime battute, il visino svampitello di un giovanissimo Charlie Sheen invase lo schermo.
- Senti, non posso stare qui disteso come un pascià, con te arroccato su una seggiolina! Non mi godo il film! – si lamentò d’un tratto, l’aria contrariata.
- Io sto bene, poss-
- Vieni qui! – esclamò, indicando il suo stesso letto – Mi sposto un po’ più in qua e c’entriamo bene tutti e due, ecco! –
- No! – quasi urlai, con decisamente troppo impeto – Non ce n’è bisogno, davvero, va benissimo così. – cercai di correggere il tiro.
- Guarda,  - continuò imperterrito, scivolando verso l’altro estremo del letto – ci stiamo perfettamente! E ci vediamo in santa pace il film. – sorrise, guardandomi  beato.
C’era un limite a tutto ed io avevo raggiunto il mio. Mi ero fregato con la storia riadattata della mia vita, con l’accettare di fargli la notte, non mi sarei infilato in un letto con lui a vedere un film. Avevo ancora una dignità, io.
- Che c’è? La smetti di fissarmi con quella faccia? Non ti ho minacciato con un coltello, ti ho solo proposto di portare il tuo bel culetto qui… - incrociò le braccia sul petto, poi sbuffò – Dai, ti prometto che non ti molesterò in alcun modo! – sghignazzò
Ridi, ridi…non c’è proprio nulla da ridere!
- Su, ti prego… per chi mi hai preso? Dici di essere il mio migliore amico ma pensi che rimarrei due ore qui in panciolle mentre a te viene l’artrosi? – poi, risoluto - Ho voglia di vedere questo cazzo di Platoon, ti vuoi muovere?! –
Se avessi continuato a rifiutare, senza alcun apparente motivo, avrei solo peggiorato la situazione. Così, celando al meglio il mio turbamento e inveendo silenziosamente contro me stesso con la schiera di insulti che sapevo di meritare, mi sdraiai accanto a lui, la schiena poggiata allo schienale rialzato, le gambe dritte e accavallate, le braccia conserte, facendo attenzione a non entrare in contatto con nessunissima parte del suo corpo.
Un paletto di legno sarebbe stato molto più caldo e sciolto di me.

- Jared? –
- Sì? –
- Puoi rimettere indietro? Mi sono perso tutto… -
Allungai il braccio verso il pc, molto cautamente, mandai indietro la scena e mi risistemai composto, sempre molto cautamente. Colin si accomodò appena, sfiorandomi la coscia con l’anca, e io, lesto come un’anguilla, mi spostai verso l’esterno.
Neanche un minuto dopo, quando ormai pensavo che peggio di così non potesse andare, sentii di nuovo la sua voce intrufolarsi tra le parole poco gentili che continuavo ad indirizzare a me stesso.

- Jared? –
- Uhm? –
- Potresti spegnere la luce? –
Potresti prendere un cappio ed appenderti direttamente al soffitto?
Avrei voluto piangere, davvero. Sentivo le lacrime di stizza pungermi l’interno degli occhi. Come diavolo avevo fatto a ritrovarmi in una simile situazione?
Respirai, il più discretamente possibile, per mantenere il controllo.

- Dov’è l’interruttore? –
- Alla tua sinistra, ci arrivi senza doverti alzare. – sorrise.
Era tranquillissimo e rilassato, lui. Mi sporsi leggermente dal letto, notai l’interruttore, lo spensi e tornai nella posizione precedente, rigido come un repubblicano al gay pride.
- Grazie! –
- Prego. –
Finalmente cessò ogni movimento, ogni suono. Il che, a un certo punto, mi sembrò anche peggio, perché il cuore mi batteva così forte e a un ritmo così spaventosamente implacabile che quasi temetti potesse sentirlo anche lui.
Non me ne resi conto, ma trascorsi diverso tempo solo a trattenere il movimento di ogni muscolo, a controllare la respirazione e il battito cardiaco, a cercare di riassumere in che modo, esattamente fossi riuscito ad incastrarmi tanto a fondo in quella situazione, perché quando buttai l’occhio sul minutaggio del film, era passata quasi mezzora.
Ero stato così distratto che, non solo non avevo seguito un secondo della trama, ma non avevo neanche notato che stranamente Colin non aveva mai fiatato. Lui, il classico tipo snervante che, mentre guardi un film, specialmente d’azione, si relaziona direttamente coi personaggi, incitandoli a fare o a non fare una determinata mossa.
Mi voltai, con accorta nonchalance, verso di lui. Dormiva, come un bambino. Le palpebre calate, le labbra non perfettamente sigillate, il respiro piatto e regolare.
Non sapevo cosa fare. Non sapevo neppure cosa fosse opportuno fare in casi come quelli. Chi ci pensa mai a come dovresti comportarti nel caso in cui il tuo compagno si scordi completamente di te e ti si addormenti serafico accanto, mentre tu perdi tutte le inibizioni dell’ultima settimana e ti senti improvvisamente svuotare, distrutto?
Mi girai sul fianco e rimasi a guardarlo, immobile e silenzioso. Lo vedevo appena, i guizzi azzurrognoli provenienti dallo schermo gli illuminavano il volto ad intervalli irregolari.
Piano piano avvicinai una mano al suo braccio, abbandonato lungo il corpo, e presi coraggio fino al punto di sfiorargli il polso con le dita. Poi, colto da un’audacia sempre più incosciente, allungai il collo verso la sua spalla, sistemando la testa a pochi centimetri da lui.
Inspirai il suo odore e mi sentii a casa. Avevo vagabondato per tutta la vita, ancora a quarant’anni mi spostavo continuamente da un posto all’altro. Ma in quell’istante compresi, veramente, cosa intendono le persone con la parola “casa”. Vergognosamente smielato, ma concretamente reale.
Poi, Colin bofonchiò qualcosa nel sonno e, nel modo più naturale possibile, piegò il capo verso di me, appoggiando la tempia sinistra sulla mia fronte. Rimasi di sasso, per qualche secondo, ma dopo, irrimediabilmente, mi ritrovai a sorridere.
Mi prendeva in giro, lui, sempre. Diceva che, quando dormivo, diventavo un “accoccolatore seriale”, non restavo mai dalla mia parte del letto. Ma più di una volta mi ero accorto che d’istinto anche lui mi cercava, di notte, si avvicinava. Come adesso. 
Magari voleva dire qualcosa, no? Magari si sarebbe svegliato, la mattina, e sarebbe stato di nuovo lui. Magari mi avrebbe guardato nel suo modo e io l’avrei saputo subito.
O magari niente, niente di niente, come sarebbe stato più probabile.
Riprese a farsi sentire il solito, insistente morso allo stomaco, quella costante sensazione di inadeguatezza e agitazione, quella percezione negativa che mi assillava. Improvvisamente mi resi conto di quanto fossi ridicolo, di quanto imbarazzante fosse quello a cui mi stavo sottoponendo.
Mi disincastrai lentamente, ma con fermezza; rimasi seduto, con i piedi poggiati a terra e spensi il portatile. Mi alzai, lo rimisi sul comodino e andai direttamente a stendermi sull’altro letto, senza nemmeno dare un ultimo sguardo a Colin.
Mi raggomitolai, dandogli la schiena, e chiusi subito gli occhi.



I fari delle auto, in lontananza, rischiaravano il lungo viale buio che conduceva all’ospdale. Centinaia di auto, centinaia di vite, di destini ed io me ne stavo ad osservarli da debita distanza, protetto dal vetro spesso della finestra. Déjà vu.
Colin soffriva d’insonnia, non riusciva mai a riposare abbastanza. Tranne che quando eravamo insieme, così diceva. Per anni e anni, in qualche albergo di lusso, a casa mia, a casa sua, a Los Angeles, a Dublino, a New York, a Parigi, a Londra, a Toronto, a Berlino, in Africa, in Asia, in Sudamerica… per anni avevamo strappato tempo al tempo, avevamo corso come dei pazzi per conciliare l’inconciliabile. Ci trovavamo, ci illudevamo di entrarci dentro abbastanza per sopperire alle dilanianti delusioni che ci infliggevamo.
E poi lui dormiva. Io invece me ne restavo di fronte alla finestra, a volte in piedi, a volte seduto,  scrutando fuori, osservando tutti i minimi particolari, spiandoli, in modo quasi ossessivo. E di tanto in tanto mi giravo a guardare lui, che dormiva.
C’era un forte contrasto tra il caos del fuori e la quiete del dentro. Il fuori cambiava, scorreva, era vivo, proprio perché mutevole. Dentro, noi ce ne stavamo lì, perennemente immobili; passavano i mesi, gli anni ed eravamo sempre gli stessi. Più infelici, forse. Il fuori era bello, era fresco, era la libertà. Il fuori metteva una gran paura; mi sentivo sicuro nel mio dentro, imprigionato ma al riparo. Un po’ come un leone che, abituato alla cattività, teme di lasciare la gabbia.
Un potente rombo di motore, forse la sgommata di una grossa moto. Mi voltai verso Colin, sempre tranquillamente addormentato. Déjà vu.
Feci due passi verso di lui. Avevo aperto la finestra, in quegli ultimi mesi. Non ero ancora fuori, ma già distinguevo il profumo brioso dell’aria, già ero pronto a confondermi con uno di quei confusionari dettagli che ero solito rimirare. Non potevo tornare dentro, perché il dentro non c’era più. Ero solo ed ero bloccato sull'infisso, né dentro né fuori. Ero terrorizzato. E arrabbiato.
Raggiunsi il letto e mi appoggiai ai due sostegni metallici laterali, una mano da un lato e una dall’altro, chino sopra Colin. Si trovava ancora nella stessa identica posizione in cui l’avevo lasciato, solo leggermente più scomposto. Ma non aveva più i tratti distesi; stava faticando, si stava sforzando per qualcosa. Forse sognava, forse era quel sogno. Ripassai con le dita i suoi lineamenti, a pochi centimetri dalla pelle, senza mai sfiorarlo. Le sopracciglia, il naso, le labbra, il muscolo teso del collo… Non era necessario che lo toccassi.
Cosa pensare del sogno? C’era qualcosa di mio così radicato in lui che spingeva per uscire. Si faceva sentire, voleva essere scoperto. Non poteva ricostruire sé stesso senza una parte così rilevante? Era positivo, certo, ma niente affatto rincuorante. Lui correva e correva ed io ce la mettevo tutta per andare piano, per aspettarlo, ma la verità è che non dipendeva da nessuno di noi due. Potevo soltanto sperare per il meglio e restare lì, continuare ad affacciarmi nel suo inconscio e augurarmi che lui non si sarebbe stancato di inseguirmi.
Allontanai la mano sinistra dal suo volto e la riappoggiai sulla barra metallica. Mi chinai ancora di più su di lui, arrivando così vicino da percepire il calore del suo respiro. Era fermo, ma sapevo che si stava contorcendo, agitando; un debole raggio lunare tradiva gli spasmi delle sue palpebre, i riflessi involontari delle labbra. Segni che avevo imparato a riconoscere tanti anni prima, quando ogni notte era una battaglia, ogni ora di astinenza una prova di coraggio.
Combatteva, come allora.

- Memories… - mi sorpresi a sussurrare - may be beautiful and yet... – poi riuscii a richiamare alla mente quella vecchia, sfocata melodia - what's too painful to remember, we simply choose to forget... So it's the laughter we will remember, whenever we remember – mi fermai qualche secondo, la voce zoppicante - the way we were.- piegai la testa di lato, per avere una visuale più nitida del suo profilo e ripresi a scandire le note, basse e lente. – If we had the chance to do it all again, tell me would we? Could we? – sorrisi appena, tra me, aveva già un’espressione più serena – Misty watercolor memories of the way we were. –
Lo guardai ancora, mi passai la punta della lingua sulle labbra secche e annullai la brevissima distanza che mi divideva dalle sue. Un tocco leggero, delicato, l’assaggio di un ricordo.
Un bacio fugace, ma intenso.
Come un’ombra.


Le parole che Jared canticchia a Colin provengono da uno stralcio di "The Way We Were", che vi linko qui sotto e vi consiglio caldamente di ascoltare, perché merita, assolutamente. Per il resto, mi auguro che siate ancora sveglie! A presto!!!

http://www.youtube.com/watch?v=uBPQT2Ia8fU

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Capitolo 12
*** vita rubata ***


jjj Buonasera!!!
Ho fatto del mio meglio per aggiornare con rapidità, come promesso!
Ringrazio tutte coloro che hanno lasciato un commento al capitolo precedente, tutte coloro che seguono o comunque leggono questa storia :)
Grazie davvero, di cuore.
Con questa 12ima parte ho interrotto un po' l'andamento classico mantenuto ultimamente, ma spero che si farà apprezzare lo stesso!
Attendo il vostro parere, come al solito, anche per essere brontolata, nel caso! ;)
Un bacio e buona lettura<3






Deve essere già mattina.

Percepisco fastidiosamente la luce del sole sul volto.
Non aprirò gli occhi per niente al mondo.
Cos’è questo rumore?
Ah, Colin. Russa.
Mi sa che si è rigirato a pancia in su.
Allungo il braccio e, a tastoni, lo cerco.
Eccolo. Non era poi tanto lontano.
La spalla, l’avambraccio, l’interno del gomito…
Lo scuoto appena. Smette.
Sai che? Mi voglio rannicchiare vicino a lui, così magari riprendo sonno.
Perfetto. Il suo profilo mi ripara anche dal sole.
Buono questo profumo.
Già, il nuovo shampoo che ha aperto ieri sera.
Mi devo ricordare dove l’ho comprato.
Che succede?
Lo sento che si muove. Cambia posizione.
Silenzio.
Si sposta, di nuovo.
Un bacio sul collo.
- Sei sveglio? –
Non rispondo.
Un altro, sotto l’orecchio.
Il respiro, caldo.
La voce roca, impastata. - Lo so che sei sveglio… -
Un morso, debole, sul lobo.
- Non è vero!  -
Apro gli occhi.
Sorrido. Sorride.
Reclama le mie labbra, subito, e lo assecondo.
Allaccio le braccia intorno al suo collo e mi stringo a lui.
- Mi sembri abbastanza sveglio… -
Rido, sulla sua bocca.
Torna a sdraiarsi in posizione supina, tirandomi su di sé.
Le mani. Lungo la mia schiena, sotto la maglietta.
Scendo sotto al suo mento.
Una scia bagnata, attraverso la giugulare, fremente. Fino alla clavicola.
Un sospiro. Due, tre gemiti.
Ma voglio le sue labbra, ancora.
- Jared? –
- Mmm? – gli morsico l’angolo della mandibola, piano.
- Jared? –
Sto arrivando.
- Jared..? Jared?! –
Un tocco sulla spalla.
Ma cos’è?
- Jared!
Mi tirai su all’improvviso, il fiato spezzato in gola. Un sacco di bianco, un sacco di luce. Claudine.
- Jared, ehi? Tutto a posto? – Claudine mi stava di fianco, l’espressione corrucciata.
Mi guardai rapidamente intorno. Le sedie, il tavolino, la poltrona, il letto… Claudine…
- Cazzo..! – mi presi il volto tra le mani.
Mi trovavo in ospedale. Colin aveva avuto l’incidente, aveva perso la memoria, io ero rimasto lì per la notte.
Cazzo, cazzo, cazzo.

- Ehi, sei sicuro di stare bene? – Claudine si avvicinò, poggiandomi una mano sulla schiena sudata.
Ero completamente sudato, mi resi conto.
- Sì, sì, sto bene, grazie. Solo...non… non ricordavo dove fossi, tutto qui – mi sforzai di sorriderle. Mi voltai subito verso il letto, alla mia sinistra, vuoto – Dov’è Colin? –
- L’hanno portato giù nella palestrina cinque minuti fa, per mostrargli alcuni esercizi che dovrà fare a casa nei prossimi giorni. –
- E perché nessuno mi ha svegliato? – mi accigliai
- Non ti sei accorto di nulla, parevi un ghiro..! – alzò le spalle lei – Colin stesso ha detto alle infermiere di fare piano, per non disturbarti. –
Ecco, bella immagine. Almeno fa che non mi sia esibito in qualche palese mugolio.
- Comunque ho pensato che avresti voluto che ti chiamassi… Così magari facciamo colazione insieme. Mia madre è qui fuori al telefono con Catherine, la vado a chiamare, ok? –
- Ottima idea. – annuii, strofinandomi gli occhi con il dorso delle mani – Mi do una sciacquata e sono pronto. –
Come districai le gambe dalla fine coperta bianca con cui avevo dormito e le appoggiai per terra, Claudine spalancò gli occhi, sbigottita, per poi voltarsi fulminea verso la finestra, le mani a coprirsi la bocca. Abbassai lo sguardo su me stesso, confuso, in cerca di qualcosa di sconvolgente che le avesse potuto provocare quella reazione.
Ed eccolo lì, un enorme, evidente gonfiore al cavallo dei pantaloni.

Che figura di merda.
- Forse è meglio se io e la mamma ti aspettiamo direttamente alle macchinette, in fondo al corridoio… - mormorò, ancora rivolta altrove, dopo aver leggermente tossito.
- Forse è meglio, sì… -
Claudine mi lanciò una rapida, imbarazzatissima occhiata e si diresse a passo svelto alla porta. Io scesi dal letto, sconsolato, ed entrai in bagno.
Se il buongiorno si vede dal mattino…


Il caffè era bollente. Mentre ascoltavo Rita e Claudine disquisire sugli ultimi dettagli prima della dimissione, ne buttai giù un sorso troppo velocemente e mi sentii bruciare la gola.
Mi chiesero come fosse trascorsa la notte ed io feci loro un breve riassunto, evitando di scendere nei particolari, evitando di specificare che mi ero comportato come un adolescente alla prima cotta.
Un bacio. Non potevo ancora credere di aver coscientemente fatto una cosa del genere. Se si fosse svegliato, il minimo che mi sarei beccato sarebbe stato un cazzotto.
Ma no, figurarsi se potevo resistere.
Poi ti lamenti se fai sogni di quel genere. Scellerato.
Le zona distributori automatici era davvero troppo affollata a quell’ora del mattino, così, finiti i nostri caffè, tornammo subito verso la stanza. Ad attenderci, scribacchiando su una cartella, trovammo il dottor Ross.

- Buongiorno! – ci accolse frizzante  – Oggi è il gran giorno, ve lo rimandiamo a casa! –
- Siamo molto contenti! – sorrise Rita.
Lanciai un’occhiata furtiva verso Claudine per capire dal suo atteggiamento se ci fossero stati dei risvolti con il suo affascinante chirurgo, ma pareva disinvolta.
- Quando, precisamente, ce lo restituite? – scherzò.
Il dottore sbirciò l’orologio alla parete e fece qualche rapido calcolo mentale.
- Subito dopo il pranzo, direi. Così riusciamo a fargli le ultime analisi del sangue, a mostrargli gli esercizi che dovrà replicare nei prossimi giorni ed anche a mandargli il dottor Kleeman  per la seduta quotidiana. –
- Mi scusi, ma da domani le interromperà, queste sedute? – domandai, preoccupandomi del fatto che nessuno accennasse al persistente e non esattamente trascurabile problema di Colin. Non potevano mollarlo proprio nel momento in cui qualcosa cominciava a smuoversi, almeno a livello irrazionale.
- No, certo che no! Infatti, proprio di questo vorrei parlarvi, di come dovranno essere affrontati i prossimi giorni. Se avete un istante… -
- Certamente. – rispose Rita.
Il dottor Ross ci sorrise cordialmente, diede un ultimo sguardo alla cartella che aveva in mano e la posò sul letto.
Intanto feci un passo verso Claudine, alla mia sinistra, e le sussurrai :- Forse dovrei lasciarvi so-
- Non fare l’idiota. – mi zittì, brusca.
Non fiatai nemmeno e me ne rimasi lì accanto a lei, buono e fermo, un lieve sorriso che mi trapelava sulle labbra. Poteva essere acida, Claudine, quando voleva. Ma significava che avevi saputo in qualche modo conquistare la sua stima e la sua confidenza.
- Colin si sta ristabilendo molto bene, ha un fisico robusto e  forte. – cominciò il dottore - L’emorragia si è completamente riassorbita e i parametri clinici sono tutti ottimali. Questo non vuol dire, però, che potrà riprendere immediatamente la sua vita di prima. Sarà opportuno che eviti particolari sforzi fisici, quindi niente sport, niente palestra, niente jogging, niente sollevamento di oggetti pesanti ecc. – continuò, tappando la penna che aveva in mano ed infilandola nel taschino del camice - Dovrà seguire un’alimentazione sana e leggera, che noi stessi abbiamo indicato in un programma che vi sarà consegnato insieme agli altri documenti. Gli farebbe bene invece stare un po’ all’aria aperta, possibilmente non nelle ore di punta, non in luoghi affollati e confusionari, dove potrebbe cadere, essere spinto, venire infastidito da luci e rumori troppo acuti. Ah, e niente sabbia, terreni granulosi, posti polverosi perché, per quanto fasciata, la ferita non è ancora perfettamente rimarginata ed è preferibile non incorrere in eventuali infezioni. Tutto questo per un paio di settimane, dopodiché lo richiameremo in ospedale per una tac e, se andrà come deve andare, potrà tornare pian piano alle sue abitudini. L’ultimo e definitivo controllo lo faremo tra un mese. –
- Non sembra troppo complicato… - rifletté Claudine, rivolta a me e sua madre – l’unica difficoltà sarà quella di tenerlo a stecchetto con il cibo, temo! –
- M’inventerò qualcosa di saporito con gli ingredienti a disposizione… - disse Rita, con la sua solita dolcezza.
- Non dubito che ci riuscirà, le mamme creano arte, in queste cose! – esclamò il dottor Ross, per poi assumere un’espressione più seria. – Per quanto riguarda l’amnesia, purtroppo, come avrete avuto modo di constatare anche da soli, non ci sono stati miglioramenti. Il fatto è che più passano i giorni più si assottigliano le speranze di un recupero completo. Ma c’è ancora tempo, ci sono numerosi casi in cui… -sìsì, certo, casi, statistiche, miracoli…Non voglio nemmeno ascoltarle queste puttanate. Mi fa imbestialire che ne parlino come se a Colin mancasse un dito. Gli mancano i suoi fottuti ricordi, i suoi figli…io, cazzo. - … quindi non è il momento di arrendersi. Il dottor Kleeman è uno dei migliori specialisti della città e si recherà personalmente a casa del signor Farrell ogni giorno, per i prossimi sette giorni. Poi le sedute continueranno a giorni alterni qui in ospedale per un’altra settimana e poi –
- E poi magari non serviranno più perché si sarà ricordato di tutto, no? – intervenne Claudine, speranzosa, voltandosi infine verso di me, cercando una conferma e allo stesso tempo offrendo una rassicurazione. – Altrimenti cercheremo lo psicologo più rinomato del mondo, adotteremo le tecniche più avanzate, – seguitò, concitata, passando un braccio intorno al mio e rivolgendosi al medico - ma ne verremo a capo. –
Il dottor Ross, rabbuiatosi, annuì gentilmente.
- Me lo auguro con tutto il cuore. – rimanemmo tutti in silenzio per qualche secondo, Claudine ancora appoggiata a me – Nel frattempo potete continuare a stimolarlo, al di là dell’ora canonica con il dottor Kleeman. Potete raccontargli episodi significativi, aneddoti divertenti, mostrargli fotografie, filmati, proporgli canzoni, melodie, riavvicinarlo alle persone per lui più importanti. Sempre cercando di non esagerare, però, valutando attentamente ogni mossa. Anche se a prima vista può non sembrare, si trova in una condizione stressante e delicata, ogni nuova informazione potrebbe essere acquisita come un trauma, un dettaglio per voi insignificante potrebbe rivelarsi uno shock. Se dovesse avere disturbi dell’umore, oscillare tra stati depressivi, euforici, rabbiosi, lasciatelo riposare, non aggiungete altro. – ci passò in rassegna tutti e tre, facendo scivolare le pupille da un estremo all’altro, poi sospirò.
- Tutto tornerà a posto da sé. –

Lo ringraziammo e lui si congedò, Claudine che lo seguiva con lo sguardo fin oltre la porta.
- Aspettiamo che Colin torni su? – propose
- Io raccoglierei un po’ di cose, sistemerei in giro, così dopo siamo pronti. – replicò Rita
- Datemi un secondo, faccio una telefonata e vi do una mano! – dissi loro, tirando fuori il blackberry dalla tasca dei jeans.
Uscii in corridoio e cercai nella rubrica il numero di Shannon. Sembra assurdo che non lo conosca a memoria, me ne rendo conto, ma il fatto è che devo sempre tenere a mente una quantità così sproporzionata di informazioni che, quando posso, non esito a delegarle. E il mio BB, del resto, non è che un prolungamento esterno della mia scatola cranica, mi fido di lui come di me stesso.
Non feci neanche in tempo a far partire la telefonata che

- Jared? – sentii chiamare piano.
Mi voltai ed incrociai gli occhi di Rita, che si chiudeva alle spalle la porta della stanza. Le andai incontro, la fronte corrugata in un’espressione di  incertezza.
- Scusami se ti disturbo, ma… Ecco, voi avete deciso di prendere questa strada… tu ed Eamon, insomma… io non so cosa sia giusto, certamente tu conosci il modo migliore per gestire questa situazione… - rimasi ad ascoltarla, confuso, non riuscendo a capire quale fosse il problema, mentre lei cercava di spiegarsi, esprimendo un palese disagio – Ma se ancora pensi di non dire niente, a Colin, di voi due… A casa ci sono molte cose tue, cose vostre, in giro… Sono entrata in camera sua, ieri sera, per aprire un po’, cambiare il letto, e ho notato che ci sono diverse… cose… sì, che gli farebbero intuire qualcosa, ecco. – sperai vivamente che la stanza non si presentasse come l’ultima volta che l’avevo lasciata io perché non avrei mai più avuto il coraggio di farmi guardare in faccia da sua madre – Non sto dicendo che tu, anzi io ti appoggerò qualsiasi decisione prenderai, ma se vuoi continuare a non dirgli la verità, credo sarebbe meglio che…non so…che non le vedesse… Però non penso sia affar mio o di nessun altro entrarci in mezzo, spostarle…Se vuoi, ecco, se è questo che vuoi veramente, Jared, magari puoi occupartene tu, di sicuro saprai molto meglio dove e cosa cercare… - concluse.
Rimasi in silenzio per alcuni istanti, non sapendo davvero cosa dire. Non ci avevo proprio pensato a quest’inconveniente. Mi dispiaceva per Rita, la vedevo sinceramente imbarazzata e mortificata, come se temesse di farmi in qualche modo un torto. Aveva ragione, soprattutto nell’ultimo annetto avevo lasciato da Colin tanta roba e poi c’erano le foto sparse un po’ ovunque, centinai di aggeggi che Colin conservava per ricordo, addirittura degli scritti, una sorta di diari che sapevo ogni tanto teneva. Ed ero io l’unico che effettivamente poteva scovare tutte queste cose.
Già sapevo che non avrei dovuto farlo, già sapevo che me ne sarei pentito, ma già sapevo che non avrei potuto dire di no.

- Ha fatto bene a dirmelo, - le sorrisi, seppur un po’ stentatamente – non può rimanere tutto così. Passo subito da lì, ci penso io. –
Rita mi guardò, afflitta, e mi strinse a sé, cogliendomi un po’ di sorpresa.
- D’accordo, però fai attenzione… -
- Sicuramente. – risposi, sebbene non fossi certo di aver capito a che cosa.


- Porca miseria, Jared! Ma che hai in testa?! – gridò Shannon all’ennesima inchiodata, attaccandosi con entrambe le mani alla maniglia del passeggero.
- Non è successo niente, mi sono fermato in tempo! –

- E’ la terza vecchietta che non metti sotto per una manciata di centimetri negli ultimi dieci minuti! - continuò lui con fare frenetico – Per non parlare del barboncino! I barboncini sono incredibilmente intelligenti, augurati che non si sia segnato il numero di targa… -

- Il barboncino?! – domandai perplesso, inserendo la prima per ripartire.
- Il barboncino, sì..! Non capisco perché non posso guidare io… -

- Te l’ho già spiegato, devo tenermi occupato.  Se rifletto troppo su quello che devo fare, finisce che cambio idea e mi do alla fuga… -
- Vedi di riflettere sul fatto che stai guidando, almeno. – brontolò, staccandosi finalmente dalla maniglia – Che poi non credo di aver ben chiaro cosa dobbiamo fare, esattamente, a casa di Machoman. –
Gli lanciai la mia occhiata “Fammi il piacere”: - Tu non devi fare niente, io me la sbrigherò in pochi minuti. Hai preso le chiavi che ti avevo chiesto? – Silenzio – Shannon? Hai preso le chiavi? –
- Dovrebbero essere in una delle 395 scatole che mi hai detto di portare. – rispose con nonchalance, lo sguardo sulla strada – Non sapevo nemmeno che avessi le sue chiavi di casa. –
- Ma se sono anni che me le ha date, ormai… - mi lamentai.  
- Non ti ricordi il drammatico falò di qualche anno fa..? Pensavo ci avessi buttato anche quelle. –
Lo guardai di sbieco. Era più attento di quel che credessi, il mio fratellone.
- Mmm, sì… Ma me ne ha data una nuova copia l’anno scorso. – tirai corto, svoltando a sinistra per imboccare la lunga via tortuosa che conduceva alla villa di Colin, quella dell’incidente, per intendersi.
- Oh, ma che ragazzo delizioso! Quasi quasi te lo rubo..! – disse, imitando la voce stucchevole delle teen-ager da telefilm medio.
- Cretino! – allungai il braccio destro per tirargli un pugno sulla spalla.
- Tieni le mani sul volante, cazzone! – imprecò, tenendosi ben stretto alla cintura di sicurezza. – Domenica torna la mamma. –
- Lo so. –
- Non le hai ancora detto la verità su Colin. –
- Non volevo allarmarla inutilmente. -  spiegai, cambiando la marcia per l’ultimo tratto di strada rimasto.
- Paura, eh? – sghignazzò divertito.
Mi girai verso di lui, le sopracciglia aggrottate: - Paura di che?! –
- Vedrai, Jay, non si arrabbierà. - stabilì serafico – Non si è arrabbiata la prima volta che ti ha spezzato il cuore, non si è arrabbiata quando è venuto fuori che era un cocainomane alcolizzato, non si è arrabbiata quando ti ha spezzato il cuore la seconda volta, né la terza e neppure quando ha fatto un figlio e messo su famiglia con un’altra! Perché dovrebbe arrabbiarsi ora che, per aver battuto la testa, ti ha direttamente cancellato dalla sua vita?! -
Lo guardai allibito, senza rispondergli niente. Poi superai il cancello d’ingresso all’abitazione, con il telecomando automatico che ormai tenevo sempre in macchina.
- Per me dovresti fare come me e la mamma, prenderla con filosofia, invece di continuare a mettere il muso… - pontificò Shannon, togliendosi la cintura mentre io facevo manovra per parcheggiare.
- Ma se tu ti arrabbi come un matto ogni singola volta che mi lascio sfuggire che ho qualche problema con Colin? –
- Arrabbiarsi è sempre meglio che piagnucolare in buddista, come fai tu… - decretò, sollevando limpidamente le sopracciglia ed aprendo lo sportello.
- Io non piagnucolo in buddista! – ribattei ad alta voce, oramai rimasto solo nell’abitacolo - E poi il buddismo è una religione, anzi, - scesi di macchina e lo raggiunsi al portabagagli – uno stile di vita! Nessuno può piangere in uno stile di vita… - Shannon scaricava e ammucchiava da un lato le varie scatole di cartone in cui intendevo riporre i miei effetti personali – Al massimo potrei piagnucolare in hindi, in mandarino, persino in tibetano! Ma in buddista non ha senso… -
Mio fratello chiuse con un sospiro il portellone e si chinò per sollevare una pila di scatoloni.
- Dio, Jared, a volte mi piacerebbe poterti spegnere, come si fa con quelle fastidiose radioline portatili che ronzano in continuazione… - mi passò le scatole rimanenti e mi precedette verso l’ingresso.
- Shan, le chiavi? – gli urlai dietro
Me le lanciò senza nemmeno voltarsi e, nell’afferrarle, mi caddero di mano tutti gli scatoloni. Sbuffai e mi piegai per raccoglierli.
- Ma non c’è nessuno in casa? – lo sentii domandare
- No, sono tutti in ospedale. – gli risposi, raggiungendolo.
Quand’ero venuto via, poco dopo aver parlato con Rita, Eamon aveva già chiamato per avvisare che lui e il padre sarebbero arrivati a breve. Non avevo nemmeno aspettato Colin per salutarlo, volevo togliermi il pensiero immediatamente.
Diedi un’occhiata veloce a mio fratello, che allungava il collo ai lati delle scatole per sbirciare l’ambiente circostante. Mi chiedevo come facesse a procedere senza inciampare, dato che la pila lo superava di parecchi centimetri. Ma si sa, lui può fare qualunque cosa.

- Eccoci qua! – dissi, una volta al portone, tentando di aprire senza far di nuovo cadere tutto.
Ci riuscii. Lasciai passare Shannon, che appoggiò subito gli scatoloni sul pavimento, ed entrai dietro di lui.
- Ehi, guarda che c’è un allarme qui. – mi indicò il piccolo schermo dai tasti illuminati, sulla parete vicina all’entrata.
- Sì, lo so, lo so…ora lo spengo prima che parta. –
- Wow, ti ha dato anche il suo codice per l’allarme? – mi chiese stupito, mentre digitavo i numeri giusti.
- Si supponeva che io venissi a vivere qui, ti ricordi? –
- Ah. Già. – rimase a fissarmi imbambolato.
- Comunque, - afferrai due grandi scatole e mi avviai oltre il salone – io comincio a fare il giro dal piano di sopra…Tu… Beh, tu… - mio fratello si guardava intorno, incuriosito – Puoi stenderti qua sul divano e dormire un po’ se vuoi, è ancora presto per i tuoi standard. Oppure posso accompagnarti  in una delle camere degli ospiti… -
- No, mi sono svegliato ormai. –
- Allora puoi, che so, farti un panino… La cucina è di là. – gli feci un gesto con la mano, che lui seguì con lo sguardo – Poi magari ti metti qui a vedere la tv. –
Attesi che decidesse, mentre continuava ad osservare tutto.
All’improvviso mi resi conto di star vivendo un momento alquanto surreale. Shannon a casa di Colin. Shannon che studiava ogni particolare, i suoi grandi occhi ridotti a fessure, attente, indagatrici, le orecchie tese, le narici attive, ogni senso allertato nel captare le tracce della sua preda.
In circostanze come questa riuscivo a comprendere perché Colin provasse un sano terrore nei confronti di mio fratello.

- Non è che ha la Play Station, l’XBox, qualcosa? – se ne venne fuori, finalmente.
- Oh, ma certo! Bella idea, vieni! – gli accennai di seguirmi, ma poi mi bloccai subito – Ah, ma aspetta… ha solo giochi per bambini. E l’unico per adulti è sul calcio. –
Shannon alzò gli occhi al cielo: - Mai che ne facesse una buona! Sai che? mi cerco davvero qualcosa nel frigo e me la mangio qui, facendo un po’ di zapping… – si voltò verso il televisore, di fronte al divano in pelle grigia – Lo schermo almeno sembra decente. – ammiccò.
Sorrisi, soddisfatto di averlo sistemato.
- Perfetto! Tanto io ci metterò molto poco, non preoccuparti. – strinsi la presa sugli scatoloni e mi diressi verso le scale – Ah, se ti stendi sul divano, magari togliti le scarpe! – gridai
- Non ci penso nemmeno! – replicò, già diretto verso la cucina.
Risi fra me, scuotendo il capo. Figurarsi.

Il piano superiore era costituito quasi interamente da camere. La camera da letto di Colin, che avevo deciso di lasciarmi per ultima, le camere dei bambini, numerose camere degli ospiti, un paio delle quali assolvevano anche alla funzione di studio e libreria. Diverse, al momento, erano occupate dai familiari di Colin e non mi sembrò opportuno entrare e rovistarvi in giro. Ma sapevo anche che erano ambienti sgombri da ogni mia presenza, arredati in maniera piuttosto neutrale, al massimo qualche vecchia foto di famiglia in bianco e nero.
Mi affacciai alle due camerette, dando un rapido sguardo d’insieme, ma anche in quelle mi parve irrilevante approfondire la ricerca. C’era certamente, fra i vari giochi, qualcuno regalato da me, riposto nelle ceste, negli armadi o sparso qua e là, ma non c’era mica inciso sopra il mio nome. Dal soffitto della stanza di Henry, che alla fine dell’estate precedente io e Colin, personalmente, avevamo ritinteggiato in tonalità gialle e arancioni, pendeva un grande aeroplanino in legno che gli avevo portato dalla Francia e, dall’angolo vicino alla finestra, spuntava il collo lungo del dinosauro che gli avevo comprato per Natale.
Stavo chiudendo la porta della camera di James, quando mi cadde l’occhio sulla parete piena di foto, di fronte al letto. Colin l’aveva realizzata per ricordare al bambino i volti delle persone più importanti. Con Jim, infatti, la memoria visiva era molto più efficace di ogni racconto, lettera, telefonata. E così, ogni sera, quando passava la notte lì, Colin, prima di dormire, gli mostrava le foto di tutti gli zii, i nonni, i parenti più stretti che non poteva vedere spesso, così che non li dimenticasse mai. Una delle cornici centrali racchiudeva un’immagine di me col bambino, scattata verso la fine del 2007. Lasciai le scatole nel corridoio e mi avvicinai alla parete. Eravamo sul bordo della piscina, nel giardino al piano di sotto, io lo tenevo in braccio e ridevamo, tutti e due, l’acqua e ed una ciambella a forma di paperotto sullo sfondo. Adoravo quella foto, ed anche Colin. La teneva appesa lì da anni, aveva resistito persino al malefico passaggio di Alicja. Mi chiesi se fosse davvero necessario rimuoverla, in fondo non vi era niente di esplicitamente compromettente. Però, passando velocemente in rassegna le altre foto, dovetti ammettere che ritraevano solo e unicamente membri stretti della famiglia, così, mio malgrado, sfilai la cornice dal chiodo e la poggiai nella scatola. Avrei fatto dire a Colin che il buco sulla parete era riempito da una foto che s’era rotta. Mi richiusi la porta alle spalle e mi avviai verso la parte opposta del piano, il primo trofeo già riscosso.
Da quel lato erano rimaste solo due stanze. La prima in cui entrai era un ambiente enorme, con un’immensa libreria sul fondo, stracolma di libri, vecchi dischi, album di foto, copioni di film ormai girati. Un impianto tv, un ottimo impianto stereo, due divani e un tavolo da biliardo. Non era una stanza che frequentassi molto, ma un giretto di controllo lo feci. Aprii qualche anta, qualche cassetto, passai fra i libri abbandonati in un angolo, ma in effetti era come cercare un ago in un pagliaio. Colin poteva aver annotato qualcosa, scordato qualcosa riguardante me ovunque. Potevo rintracciare solo ciò che io avevo lasciato per caso o di proposito. Uscii con un blocchetto di appunti di mia calligrafia, un romanzo di Wells con su scritto tre volte Jared, abitudine che avevo dovuto prendere per evitare che Colin si appropriasse indebitamente dei miei libri, “incidente” ripetutosi di frequente, e un paio di pantaloni neri rimasti sul divano da più di dieci giorni, evidentemente troppo stretti per passare per suoi.
L’ultima stanza rimasi a guardarla un attimo da fuori. Era un vano di dimensioni non eccessive, completamente spoglio, se non per un tavolino rotondo con una lampadina e una poltrona reclinabile. Colin ci si rifugiava unicamente per studiare i copioni, ripetere le parti, prepararsi, insomma, per il lavoro. Ci ero entrato giusto poche volte per risentirgli qualche battuta e non vi era assolutamente nulla di mio. Anzi, non vi era nulla e basta, nemmeno un foglio appoggiato da qualche parte.
Prima di scendere le scale riflettei se controllare anche i bagni, ma decisi di lasciar correre; tenevo le mie cose solo in quello della camera padronale e ci sarei passato dopo.
Al piano terra cominciai dalla stanza che sapevo avrebbe riempito le mie scatole. Era un ambiente piuttosto spazioso e luminosissimo, con le porte finestre che davano sulla parte di giardino in cui non andava quasi mai nessuno. In un arredamento moderno e semplicistico, che Colin mi aveva lasciato scegliere a mio piacimento, tenevo un pianoforte bianco a muro, quello a coda si trovava in sala, due chitarre, quaderni con testi e note buttati là, scarabocchi, tomi sulla storia della musica, dvd e cd musicali, cuffie, cavi, una quantità sconfinata di accessori con lo stemma della band, un computer fisso, un giradischi con megafono e uno stereo di ultima generazione con casse potentissime. Tutto organizzato nel mio caotico ordine. Portai via tutto quello che potevo, allacciandomi la chitarra elettrica al collo e trascinando gli scatoloni fino al salotto. Cercai di attutire al meglio il rumore quando, quasi arrivato alla meta, trovai mio fratello addormentato davanti al televisore, abbracciato ad un cartone di succo di frutta, qualche fazzoletto scivolato sul pavimento e la maglia ricoperta di briciole.
Poveretto, erano giorni che per star dietro a me si alzava all’alba e aveva scombussolato tutti i suoi ritmi biologici. Abbassai il volume della tv, sistemai all’uscita le scatole stracolme e tornai indietro con altre due vuote.
Dal lato opposto del corridoio rispetto alla mia sala-musica c’era la stanza-giochi dei bimbi. Realizzai solo in quel momento che ero stato relegato nella zona “passatempo per piccini”. Quante volte te l’ho detto, Colin, che quando suono non sto giocando?!
Mi affacciai, ma tra tricicli, pattini, skateboards, pupazzi, puzzle lasciati sul pavimento, palloni e altre migliaia di aggeggi, non mi parve di dover togliere niente.
Subito accanto si trovava una sorta di salottino che veniva utilizzato esclusivamente per la proiezione di film. La parete di fondo era completamente riempita con uno schermo gigante ad altissima risoluzione e non v’era altro arredamento che un’elegante scaffalatura contenente moltissimi dvd e qualche vecchia videocassetta di cui Colin non voleva sbarazzarsi, un divano a sei posti, comodissimo, e una lampada in stile moderno. L’impianto audio collegato al televisore era una bomba. L’avevo preso pochi mesi prima nello stesso posto in cui avevo acquistato alcune casse di nuova generazione per il Lab e ne ero profondamente orgoglioso. Certo, quando riproduceva i suoni de “I Puffi” non era sfruttato al massimo, ma con qualche film ci aveva dato grandi soddisfazioni. Come con la versione rimasterizzata di Star Wars che avevamo visto il week end precedente. Quello mi fece considerare che forse era il caso di frugare un po’ tra i cuscini del divano e, difatti, incastrato tra un bracciolo e l’imbottitura laterale, scovai uno dei miei inconfondibili calzini a righe. Ecco, menomale. Non presi nient’altro se non il cofanetto de “Il Padrino” che Colin aveva caparbiamente preteso di avermi restituito.
Di fronte, anch’essa provvista di grandi portefinestre sul giardino, era stata arrangiata una sorta di palestra, con qualche macchinario per gli esercizi fisici, alcune corde appese a delle spalliere,  dei tappetini per lo yoga, un calcetto balilla e l’immancabile stereo, su cui notai essere appoggiata la custodia vuota dell’ultimo cd di Barbra Streisand; mi augurai che fosse stata Claudine l’ultima ad allenarsi là dentro. Ogni tanto ci facevo un salto anch’io, ma non mi sembrava di vedere niente di strano. Controllai velocemente anche il bagnetto comunicante e portai via solo il mio bagnoschiuma personale, dato che mi rifiutavo di lavarmi col muschio d’Irlanda che usava Colin, che ti faceva puzzare più di quando eri sudato.
Saltai direttamente il ripostiglio e tutti i bagni, controllai nella stanza del bucato che non ci fosse, tra i panni da lavare o da stirare, alcuno dei miei ed entrai nell’ultimo locale prima della cucina, la sala da pranzo.
Era molto, molto ampia, con due grandi vetrine in mogano piene di piatti e argenterie sulle due pareti corte. Al centro un lungo tavolo in cristallo che poteva essere ulteriormente esteso se il numero dei commensali lo richiedeva. Non veniva utilizzata di frequente, se non quando Colin riceveva ospiti importanti o troppi amici e parenti per stare comodi in cucina. Pensavo che non avrei trovato niente di mio, lì, ma poi mi accorsi della macchina fotografica dimenticata sul mobiletto vicino alla porta. La tiravo fuori, a volte, quando c’erano i bambini o qualche occasione particolare per fare delle foto. L’accesi e passai in rassegna le ultime che avevo fatto e decisi che era meglio toglierla di mezzo. Di nuovo, niente di esplicito, ma tutto troppo intimo e familiare.
Dalla vetrata della sala da pranzo uscii direttamente nel giardino e feci due passi verso la piscina. Il sole picchiava già forte e l’aria era incredibilmente afosa. Controllai l’ora sul BB: 10.25. Avevo ancora un po’ di tempo. La superficie dell’acqua era piattissima; mi chinai per bagnarmi una mano e sfregarla con l’altra. Lanciai un’occhiata generale in giro, curiosai persino dentro la casetta in legno dove erano conservati i gonfiabili dei bambini, alcuni cambi di costume e ciabatte antiscivolo e me ne tornai dentro.
La cucina era piuttosto essenziale e funzionale. Moderna, con una penisola al centro ed un enorme frigo metallizzato a due ante. Mai sia che Colin Farrell resti senza cibo. Lo aprii e rimasi a godere per qualche secondo della beata ondata di fresco. Si vedeva che da una settimana la casa era stata invasa dalla sua famiglia, tutti gli alimenti sani e naturali che mi sforzavo di fargli mangiare erano stati sostituiti da quelle che la gente comune definirebbe appetitose leccornie. In pratica letali schifezze, veleni per lo stomaco. C’era ancora, nel ripiano laterale, una bottiglia di vetro con l’infuso di erbe che aveva finalmente preso l’abitudine di bere dopo cena. Sorrisi, come un ebete. Si era preso gioco di me per anni, delle mie abitudini salutiste, della mia alimentazione restrittiva. Mi perdevo il meglio della vita, diceva. Ma da quando eravamo tornati insieme aveva filato dritto come un fuso. Sceglieva prodotti biologici, buttava giù qualsiasi tipo di tè, tisane, miscugli vegetali che gli compravo, praticava lo yoga… Che cavolo, me l’ero meritato, almeno questo.
E ora, Jared? Che hai,
ora?
Mi scrollai velocemente, rimettendomi in moto. Lasciai tutto com’era, anche i pochi resti dei miei piatti, tranne due yogurt di soia con una J blu sul tappo che Colin contrassegnava per non confonderli coi suoi. Cercai di fare mente locale su possibili punti da controllare, appoggiato con la schiena all’acquaio. La penisola. Un paio di mesi prima avevo comprato delle fragole, un sacco di fragole. Le avevamo messe in due coppe giganti, riempite di panna. Poi la panna era scivolata e io l’avevo raccolta con un dito, portandomelo alla bocca per pulirlo. Allora Colin… la penisola… le fragole e la panna, sulla penisola.
Mi scossi, di nuovo. Così non poteva andare. Concentrati, Jared, concentrati… Ah, ecco, la tazza! Il dicembre passato, per il mio quarantesimo compleanno, James, più che altro Kim, mi aveva regalato una tazzona da colazione rossa che tenevo lì, così poteva vedermi sempre quando la usavo. Aprii uno sportello, niente, ne aprii un altro. Eccola là! La presi, girandomela tra le mani. “Forty Years to Jared”, era proprio lei, deliziosa. La riposi in una scatola e, alzandomi, sbattei contro un angolo della penisola.
La panna. Colin, le fragole.
Basta, non potevo continuare in quel modo. Uscii di corsa e posizionai anche quei due scatoloni alla porta. Il sogno della notte precedente mi stava iniziando a disturbare più di quanto intendessi permettergli. Non potevo concedermi cedimenti o distrazioni. Finora aveva funzionato tutto perché mi ero mantenuto distaccato e laborioso. Se mi fossi permesso il lusso di riflettere su quel che stavo facendo, sarei crollato, ne ero certo.
Mi passai una mano fra i capelli e inspirai profondamente, per ricaricarmi. Mi sporsi oltre il divano per controllare Shannon, che vidi ancora immerso in un sonno indisturbato. In prospettiva, al di là della sua spalla, mi cadde l’occhio su una cornice dal sottile bordo nero, riposta sulla mensola accanto alla tv. Che stupido, non avevo considerato per niente il salone d’ingresso, dove invece finiva per essere accumulata ogni minima cosa al momento di entrare o uscire di casa. Trovai infatti un plettro con la triad, una ricevuta a mio nome e l’abbozzo di un Creep su cui Colin aveva scarabocchiato un insulto. La foto, scattata e sistemata in quel punto da poco, ritraeva noi due nel giardino di casa mia, il pomeriggio della grigliata vegana per il compleanno di Emma. Io non ero venuto neanche troppo bene, ma a Colin era piaciuta tanto. Era vero che c’era molto di me in quella casa, ultimamente. La tolsi di lì e misi tutto negli scatoloni. Ne presi altri due e mi riavviai su per le scale, finalmente pronto ad affrontare la sfida più impegnativa.
La camera da letto era situata sul lato più silenzioso del giardino. In realtà non era sempre stata là; o meglio, non era sempre stata quella. Per i primi anni Colin aveva dormito nella stanza padronale, vicina a quella di James, ma, in seguito all’infausta presenza di Alicja, avevo trovato insopportabile l’idea di dover tornare in quella che per me era diventata una camera fatalmente contaminata. Così lui l’aveva semplicemente relegata agli ospiti e se n’era scelta un’altra, sempre molto ampia e anche più luminosa, dall’altro lato del corridoio. Conoscendomi bene, aveva anche sostituito tutto l’arredamento: letto nuovo, armadio nuovo, comodini nuovi.
A dir la verità, avevo proprio avuto dei seri problemi anche solo a rimetterci piede in quella casa, a riambientarmi. Mi mandava fuori di testa che, ovunque mi muovessi, continuassi a provare la sensazione che lì c’era stata anche lei, quella sedia l’aveva toccata lei, da quella porta ci era passata lei, nel bagno si era lavata lei… Colin ad un certo punto, spaventato dal fatto che non riuscissi a superare la questione e lo mollassi di nuovo, aveva candidamente proposto di vendere tutto e ricomprarsi una casa nuova. La qual cosa mi allettava particolarmente, ma il problema era che per James, nella sua delicata sensibilità, gli ambienti  familiari sono molto importanti. Non si trova a suo agio nei luoghi che non conosce, fa tanta fatica ad abituarsi.
E quindi, solo per lui, avevo lasciato perdere. Lo sapevo, nel momento esatto in cui mi aveva stretto il dito con la sua manina cicciottella, tanti anni prima, che mi avrebbe sicuramente fregato.
Così, tutti gli spostamenti, i ripetuti acquisti, le assidue modifiche in cui mi ero speso, non avevano tanto a che fare con il mio futuro trasferimento in quella casa, quanto con l’ossessiva intenzione di cancellare fisicamente e psicologicamente il passaggio di Alicja dal mio territorio. Colin non si era mai lamentato, salvo brontolare di volta in volta perché non riusciva più a trovare le cose nelle loro nuove collocazioni.
Aprii piano la porta ed entrai in camera, scostando subito le tende per avere una visuale più nitida dell’insieme. Scelsi di cominciare dal mio comodino e lo svuotai praticamente tutto.  Poi passai al cassettone, sormontato dalla grande specchiera intarsiata in oro che aveva folgorato Colin durante un soggiorno nel nord Italia. Liberai il secondo cassetto da ogni mio capo di biancheria. Controllai pure gli altri, per sicurezza, e scoprii che anche il terzo era stato già preparato per accogliere il malloppo di roba mia che sarebbe dovuto arrivare di lì a breve. Mi concentrai allora sull’armadio, partendo dalla cabina in angolo. Trovai tre camice, due jeans, un paio di pantaloni blu in cotone e una dozzina di t-shirt, molte delle quali con stampe disegnate personalmente da me. Piegai e riposi tutto nel primo scatolone e lo accantonai, ormai colmo, tirando verso di me l’altro. Rovistando fra gli abiti di Colin scovai un mio maglione grigio, ma era sufficientemente largo da poter essere scambiato per suo, così lo lasciai stare dov’era. Nelle due ante laterali c’erano soltanto abiti eleganti, cappotti e giacche, per non parlare del portagioie – lui non voleva che lo chiamassi così, ma era senza ombra di dubbio il classico portagioie da femmine – con decine e decine di collane, bracciali e orecchini. Tamarro, sempre detto io.
Recuperai, infine, una sciarpa nera, uno spolverino colorato e un paio di pantofole imbottite che adoro indossare anche quando fuori è caldo. Aprii poi la parte centrale dell’armadio e mi concentrai, ben cosciente che lì, fra lenzuola, coperte varie e cambi di stagione, Colin conservava molti dei suoi oggetti più personali. Per primo trovai l’iPad, su cui aveva l’abitudine di custodire tutte le foto, i messaggi e i pensieri di natura privata. Non teneva niente sul cellulare o sul pc che si portava sempre dietro, perché poteva benissimo capitare di dimenticarli da qualche parte, così trasferiva direttamente sul tablet tutte le informazioni che riceveva e desiderava conservare. Lo accesi e scorsi rapidamente le varie cartelle. A parte qualche foto dei bambini e alcune email di Eamon e dei suoi amici più stretti, erano quasi tutti video, immagini, messaggi mandategli da me o annotazioni e che mi riguardavano direttamente. La tecnologia, soprattutto quando si è costretti a passare diversi giorni separati da migliaia di chilometri, è una risorsa insostituibile. Permette di scambiarsi informazioni preziosissime.  Alcune, però, decisamente poco presentabili. Decisi di toglierlo direttamente di torno. Mi imbattei poi in delle scatoline con centinaia di aggeggi che metteva via via da parte, ricordi di viaggi, posti, momenti, ma ad occhio niente di compromettente. Una invece conteneva alcune foto mie o nostre, scattate nel corso degli anni, in luoghi diversi, insieme a dépliant, ricevute di prenotazione, biglietti da visita di ristoranti o alberghi. Era un maniaco per queste cose, dio santo.
Non mi soffermai troppo tra tutti quei ricordi, perché già cominciavo a rendermi conto di non esser più tanto in grado di gestire il senso di nausea che mi infastidiva già da un po’. Come se l’amnesia non fosse abbastanza, stavo contribuendo a togliere ogni minimo indizio della mia presenza nella vita di Colin. Mi stavo letteralmente cancellando. Sapevo che dovevo farlo, ormai non avevo scelta, ma ce la mettevo tutta per evitare di chiedermi se quel che stavo facendo fosse giusto o perlomeno avesse un senso. Tolsi di mezzo quella scatolina e ripresi dov’ero rimasto. Altri contenitori con cose dei bimbi, un album di scatti vecchissimi di quando era piccolo, e, in fondo in fondo, vari blocchi di carta e quaderni in cui era solito annotare di tutto, dai pensieri più significativi che gli passavano per la mente, a delle storie particolari che aveva sentito e non voleva dimenticare, a dei veri e propri racconti brevi o poesie che ogni tanto scriveva di suo pugno. A me per primo aveva mandato, nel tempo,  numerose e mail o lettere per esprimere concetti che a voce non riusciva ad esternare. Su una di queste, una volta, ci avevo anche scritto una canzone che poi non avevo pubblicato in nessun album.
Ero in dubbio su cosa fare. Non potevo né volevo mettermi a leggere ogni singola pagina, si trattava di cose sue, intime, non mi sembrava opportuno; da un lato pensavo che confrontarsi con così tanti dettagli personali avrebbe potuto fornirgli un ottimo input per ritrovare sé stesso, dall’altra ero quasi certo che da qualche parte ci avrebbe trovato riferimenti a me o alla nostra storia. Ci rimuginai sopra un po’ e, alla fine, seppur poco convinto, aggiunsi tutto al mio scatolone. I primi due cassetti della cassettiera interna erano vuoti, il terzo…beh, al terzo ero preparato. Era da qualche tempo che non frugavo là dentro, ma ritrovai tutti i più bizzarri giocattolini sessuali che a volte utilizzavamo per creare piacevoli diversivi. Li tirai fuori uno per uno, nascondendoli con attenzione sotto ai vestiti, per evitare che mio fratello li vedesse e cominciasse a sbuffare come suo solito. Li avrei riposti insieme a quei pochi che erano rimasti a casa mia. Presi tutto, anche le manette col pelo rosa che avevo vinto ad una fiera inglese un paio d’anni prima. Mi dispiace, Colin, niente Jared, niente sesso.
Risistemai per bene ogni cosa dentro l’armadio e lo richiusi. Passai allora al bagno e mi ritrovai sorprendentemente a sorridere, percependo all’istante la fragranza di lillà che pervadeva l’ambiente. Colin si era lamentato già due volte con la signora delle pulizie e lei gli aveva assicurato che avrebbe cambiato il profumatore non appena fosse finito. Ma era passato almeno un mese e il profumatore funzionava ancora a meraviglia. “Dimmi te se è possibile!”, aveva sbottato Colin una sera, “Mi sembra di entrare nel boschetto nelle fate invece che in un cesso.”. Controllai il mobiletto a specchio sopra il lavandino: due rasoi, due lamette, due schiume da barba, due dopobarba – ho una pelle troppo delicata per usare prodotti normali come i suoi, necessito di una scelta molto accurata, io.
Portai via tutte le mie cose e anche la boccetta quasi vuota delle sua acqua di colonia, la confezione nuova già pronta lì accanto. Non so perché, la volli prendere con me e basta. La vasca era a posto, nella doccia invece trovai il mio balsamo e soprattutto tre braccialettini colorati  con i vari simboli dei Mars che non mi ero neanche accorto di aver perso. Li infilai al polso, mentre scorrevo velocemente i ripiani dello scaffale in angolo, dove individuai alcuni miei vasetti di creme che però, per quel che ne sapeva, potevano benissimo essere suoi. Gli lasciai persino il mio costosissimo gel per capelli. Tanto quella storia sarebbe presto finita, la sua chioma non prometteva d’essere folta ancora per molto.
Tornai in camera e misi tutto negli scatoloni, dandomi un’ultima, rapida occhiata intorno. Ero soddisfatto, un lavoro piuttosto veloce, preciso ed efficace. Guardai per sicurezza anche sotto al mio cuscino. Lui è rozzo, dorme in mutande, quando va bene, ma io non resto di certo a prendere freddo come uno scemo.
Non trovai nulla, ma, allontanandomi, intravidi un fogliettino accartocciato al lato del letto. Lo raccolsi per buttarlo e lo riconobbi come lo scontrino della cena che avevamo ordinato la domenica precedente. I suoi sarebbero arrivati il giorno successivo, così Colin aveva insistito per trascorrere una serata in tranquillità a casa, il mondo chiuso a chiave fuori. L’avevo quasi scordata la fase del “godiamoci la pace ora che presto scoppierà la bomba”. Era stata l’ultima notte che avevamo passato insieme; l’avevo salutato al mattino, per poi ritrovarlo la sera dopo in quella stanza d’ospedale. Sospirai, sedendomi mollemente sul materasso e spiegando attentamente quel pezzettino di carta, fissandolo come se in qualche distorta maniera potesse restituirmi la serenità di un ricordo tanto ordinario quanto straordinario. Avevamo così poco da fare che eravamo presto finiti a letto, i contenitori del cinese sparpagliati sulla coperta e un interessantissimo documentario sulla caccia alle balene in tv. Mentre tiravo su con le bacchette gli spaghetti alle verdure, mi ero sentito ripetutamente osservato.

- Jay? – aveva infine mormorato Colin
- Uhm..? –
Avevo continuato a masticare, del tutto assorto nelle immagini sullo schermo. Poi, non sentendolo più aprir bocca, mi ero voltato verso di lui e l’avevo trovato a sfregarsi la nuca, perso nella sua classica espressione “devo dirti una cosa ma non so se ti arrabbierai”.
- Temevo la noia, sai? Dopo anni a girare per il mondo, stratagemmi per incastrare tutto, salti mortali per incontrarci… Insomma, il fascino del proibito, la seduzione del mistero, semplicemente l’abitudine ai ritmi incalzanti che abbiamo sempre avuto… Ho temuto che avremmo potuto annoiarci, sì. Ho temuto che questa normalità avrebbe potuto mettermi a disagio, avrebbe potuto lasciarti insoddisfatto. Ho avuto paura che non facesse per noi. –
Avevo ingoiato il boccone che mi era rimasto sospeso in gola, facendo rapidamente mente locale sulle nostre attività degli ultimi mesi. Senza muovermi di un millimetro, avevo immaginato vista da fuori la scena di noi due, comodamente sistemati tra le lenzuola, accerchiati da vaschette di cibo, un programma per anziani alla tv ed io, a completare il quadretto, in una canottiera sgualcita e stinta, con la barba fino ai piedi.
- E-e? – avevo deglutito ancora, a vuoto.
- Questa mi sembra di gran lunga la cosa più eccitante che abbiamo mai fatto. – aveva sorriso, con le labbra, con gli occhi, il sorriso più genuino del mondo – E tu – si era sporto su di me, sussurrando – non sei mai stato così sexy... – mi aveva baciato, la cena e tutto il resto presto dimenticati.
Mi trovavo lì, su quello stesso letto, da quello stesso lato. Un milione di anni prima.
Strinsi lo scontrino in un pungo e portai l’altra mano a coprirmi il volto, arrendendomi a quella nausea che mi assaliva da dentro. Ecco di cosa parlava Rita, a cosa dovevo prestare attenzione. Mi sentii improvvisamente cogliere da una scossa di panico e cominciai a piangere, prima cercando di contenermi, poi sempre più apertamente. Scivolai sul pavimento, abbracciandomi stretto alle ginocchia rannicchiate sul petto, nel tentativo di calmare il tremore che aveva preso a percorrermi ovunque. Il panico si trasformò in rabbia e le lacrime in singhiozzi inarrestabili che ben presto lasciarono il posto a vere e proprie urla. Urla di collera. Non ero più spaventato, confuso, triste, non ero più nemmeno disperato in quel momento. Ero furioso, perché non era giusto. Non dopo tutta la fatica, la violenza, il dolore, l’umiliazione, non dopo quel bacio al sapore di soia e di futuro. E più continuavo ad arrabbiarmi, a battere i palmi sulle mattonelle fredde, più continuavo a piangere e a gridare, più mi sembrava che non sarebbe mai finita, che avrei potuto andare avanti così per sempre. Non so davvero quanto a lungo e con quanta forza rimasi sul pavimento in quelle condizioni, ma abbastanza da farmi sentire da mio fratello, che non vidi neppure entrare dalla porta, ma che si inginocchiò vicino a me, tentando di tenermi fermo e di calmarmi.

- Doveva succedere a un certo punto…Sfogati…Sfogati e lascia andare tutto. -  disse piano, passandomi una mano sulla schiena, per poi rimanere con me, in silenzio, finché non fui pronto a rialzarmi.


Il sol era scordato, non c’era niente da fare. Era inutile che cercassi di ignorarlo, con il sol scordato non andavo da nessuna parte.
Appoggiai la chitarra al muro e mi lasciai cadere contro lo schienale dello sgabello, chiudendo gli occhi. Sospirai. Ero stanco morto, nonostante mi fossi svegliato da poco.
Io e Shannon avevamo caricato tutti gli scatoloni in macchina e ce n’eravamo andati. Avevo lasciato guidare lui, non riuscivo neanche a stare dritto a sedere sul seggiolino, dopo il crollo che avevo avuto in camera. Shannon non aveva detto niente, neppure una parola, per tutto il tempo, benché sospettassi che fosse un po’ scosso. Non mi aveva mai visto così, nemmeno nei momenti peggiori. Per quel che può valere, neanche io mi ero mai visto così.
Una volta a casa ero filato dritto nella mia stanza, esausto. Mi ci erano voluti forse due minuti per addormentarmi; niente sogni, niente agitazioni, avevo dormito profondamente per quasi tre ore. Al risveglio ero sceso in cucina a bere del tè, notando che mio fratello aveva scaricato e sistemato tutto in un angolo del salone. Per nulla intenzionato ad occuparmene in quel frangente, ero passato oltre, controllando il telefono e scrivendo un messaggio a mia madre e uno a Rosario, della quale erano indicate nel registro già tre chiamate. Non ero proprio in vena di parlare con nessuno.
Alla fine, incapace di starmene con le mani in mano e provando l’irrefrenabile bisogno di applicare la mente in qualcosa di produttivo, avevo convinto Shannon ad andare al Lab. Aveva cercato di protestare un paio di volte, sostenendo che non gli sembravo in grado di concentrarmi su alcunché, ma poi, scuotendo il capo e borbottando fra sé, aveva desistito. C’è da dire che la vita non mi ha mai regalato niente, tutto quel che ho ottenuto me lo sono guadagnato lavorando duramente, col sudore e col sangue. Mio fratello è l’unica eccezione. E Dio solo sa se non le sia riconoscente ogni santo giorno.
Insomma era andata a finire che avevo passato un’enormità di tempo davanti al computer, scorrendo Artifact in lungo e in largo, apportando qualche modifica, poi cancellandola, scegliendo di lavorare su un punto, poi scegliendone uno diverso, in pratica non concludendo niente di buono. Infine mi ero dato per vinto ed ero sceso al piano di sotto, chiudendomi da solo nello studio di registrazione e prendendo in mano la chitarra, nella vana speranza di provare una delle nuove canzoni. Ma poi mi ero incastrato col sol, era il sol che mi fregava.
Aprii gli occhi ed inclinai leggermente la testa verso la chitarra. Ero io che mi fregavo, niente scuse, niente sol da accordare.
Controllai il BB, era quasi l’ora di cena. Tre sms e due telefonate di Eamon, non potevo più fare finta di nulla. Raccolsi il fiato, raccolsi il coraggio e mi alzai, anche se tornare in quella casa era in quel momento l’ultimo dei miei desideri.


Quando parcheggiai nel vialetto principale, notai che nello spiazzo davanti all’entrata, tra le altre macchine che riconoscevo, ce n’era una a cui non sapevo associare alcun proprietario. Passandole accanto, lanciai un’occhiata all’interno e, credendo d’aver visto male, mi avvicinai. E invece nessun errore, nel suo seggiolino apposito riconobbi la sagoma di Henry che dormiva tranquillo. Aggrottai le sopracciglia, confuso, e proprio in quell’istante sentii il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva. Mi voltai e la vidi scendere i gradini, stringendo sotto al braccio sinistro un grande pupazzo beige che somigliava a un orso.
- Che ci fai tu qui? –
Alicja, nei suoi soliti shorts e camicia larga, si fermò sul penultimo scalino, alzando lo sguardo, evidentemente presa alla sprovvista.
- Oh, Jared… - sibilò, spostandosi un ciuffo biondo dagli occhi.
- Perché sei qui? – continuai imperterrito mentre la raggiungevo e salivo alla sua altezza – Non era previsto nessun incontro oggi. –
- Che vuoi saperne tu di cosa è previsto? – proferì bruscamente
Mantieni la calma. Pensa a Henry. Pensa a Henry. Pensa al bene di Henry e stai zitto.
- Beh, è stato un piacere vederti. – mi squadrò velocemente dall’alto in basso – Ti trovo in forma, come sempre. –
Fece qualche passo verso la propria auto, poi rallentò e si fermò di nuovo. Ebbi l’impressione di sentirla ridere. Si girò verso di me, l’espressione effettivamente divertita.
- Sai qual è la cosa più esilarante in tutto questo? – un filo di sarcasmo nel suo accento ancora marcatamente dell’est – Che lui non era in grado di stare con me, non avrebbe potuto stare con nessuno, perché non era capace di dimenticarsi di te. “Non riesco a togliermelo dalla testa” ha avuto il coraggio di dirmi! – scrollò le spalle, come incredula – E guardalo adesso… è già tanto se si ricorda il tuo nome. – ad un tratto si fece seria, assottigliò gli occhi e riprese col suo tipico tono freddo – Tu lo chiamerai karma, io provvidenza. Sta di fatto che gira. –
Aumentò la stretta intorno al peluche, mi diede le spalle e raggiunse lo sportello dell’auto. Prima di entrare tornò brevemente a guardarmi e concluse, criptica:
- Sembra proprio che stia girando. –
Nell’arco di un secondo se n’era andata, la polvere della ghiaia sollevata dalle ruote ballava lentamente nell’aria.
Ed io me n’ero rimasto lì, in silenzio, a subire le cattiverie di quella megera, talmente stremato da non trovare nemmeno le parole per ribattere. Cosa avrei potuto ribattere, comunque? Fissai a lungo il portone, mordicchiando nervosamente l’unghia del dito indice. Non ce la facevo, quel giorno era stato veramente troppo. Me ne tornai sconsolato alla macchina e misi in moto per andarmene.
È proprio vero, se il buongiorno si vede dal mattino e il mattino comincia di merda, ti aspetta una giornata di merda.
Partii, realizzando che in tutto quel casino non ero riuscito a vedere Colin nemmeno una volta. Ma del resto, dubitavo che avrebbe sentito la mia mancanza.

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