The Way We Were di kalina (/viewuser.php?uid=147138)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** una serata tranquilla ***
Capitolo 2: *** aspettando ***
Capitolo 3: *** indecisioni ***
Capitolo 4: *** decisioni ***
Capitolo 5: *** alone ***
Capitolo 6: *** un inizio ***
Capitolo 7: *** cominciando da noi ***
Capitolo 8: *** come tutto ebbe inizio ***
Capitolo 9: *** rivelazioni ***
Capitolo 10: *** questo amore ***
Capitolo 11: *** misty watercolor memories ***
Capitolo 12: *** vita rubata ***
Capitolo 1 *** una serata tranquilla ***
Salve
a tutti! Ho letto per molto tempo così tanti dei vostri
meravigliosi lavori che mi avete ispirata
e ho partorito questa storia! Non l'ho fatto di
proprosito, è venuta fuori da sola, tutta insieme..!
Ne ho ancora tanta di strada da fare, ma per il momento ho pensato
comunque di provare a condividerla,
perché ottenere qualche suggerimento, critica
positiva o negativa che sia, da voi,
che intrattenete così spesso le mie serate con i vostri
racconti, è quanto di meglio possa sperare.
Sulla
trama non c'è molto da dire. Bisogna avere la pazienza,
immagino, di aspettare
che le cose si rivelino da sole a poco a poco. I fatti si
svolgono ai giorni nostri e i personaggi sono tutti reali,
anche se, ovviamente, ogni azione, dialogo e pensiero è
frutto della mia fantasia
e non conosco nessuna delle persone coinvolte, il loro carattere e le
loro preferenze sessuali.
Il
titolo si rifà al film del 1973 "The way we were" ("Come
eravamo", in italiano),
che, se non avete visto, vi consiglio assolutamente.
Che
aggiungere?! E' il mio primo tentativo, mi auguro che possa piacere e
coinvolgere, almeno un pochino!
E lo dedico a voi, splendide autrici Farrelleto...
1.
Il caldo di Los Angeles in quei giorni era impressionante. Nemmeno le
verdi colline hollywoodiane potevano nulla per salvarti.
Sono notoriamente un tipo freddoloso; mi si può trovare
tranquillamente ritratto in foto scattate nel bel mezzo
dell’estate, al mare, circondato da folle di nudisti, ma io
avrò sempre i miei jeans, la maglia di cotone e la felpa
legata ai fianchi, non si sa mai.
Però quell’afa era troppo anche per me. Steso sul
bordo della piscina, con la schiena schiacciata contro il marmo ormai
tiepido e il polpaccio destro immerso nell’acqua, mi godevo
un raro momento di pace.
L’intera ciurma si trovava momentaneamente riunita alla festa
per i 25 anni della migliore amica della sorella di Emma o della
sorella della migliore amica di Emma, non ne ero sicuro. Per quella
sera avevo passato e, caso più unico che raro, ero solo.
Beh, c’era Shannon in sala d’incisione, ma in
pratica ero solo, a godermi le zanzare della mia piscina, nel mio Lab.
Ero solo ed ero stanco, pur non avendo fatto quasi niente per tutto il
giorno. Avevo riascoltato un paio di canzoni, cambiato qualche nota ad
uno spartito e deciso di escludere un pezzo dal nuovo album; di fatto,
non si può dire che avessi dato fondo alle mie risorse
energetiche. Eppure mi sentivo sfinito.
Doveva essere l’ansia, doveva essere Colin. Il suo prossimo
film sarebbe uscito entro un paio di settimane e si sentiva addosso il
peso di un progetto importante. Erano anni che non si buttava in
qualcosa di tanto impegnativo, dai tempi di Alexander. Non mi stupiva
potergli leggere negli occhi la trepidazione, quasi la paura di vedersi
di nuovo tirato in ballo in questa giungla di critiche, sussurri,
pettegolezzi, cattiverie. Maledetti critici, stupidi, incapaci,
ignoranti parassiti, non hanno idea di cosa voglia dire mettere il
cuore in qualcosa.
Con l’avvicinarsi della premiere, Colin aveva chiesto alla
sua famiglia di venire a passare un po’ di tempo con lui; il
rinomato supporto in stile irlandese parrebbe alla fine non essere una
leggenda metropolitana. E così, il giorno prima, a Claudine
si era aggiunta mamma Farrell, con tanto di Catherine ed Eamon a
seguito. Ciò che non sapevano era che Colin voleva sfruttare
quell’occasione per qualcos’altro; o meglio, aveva
fondamentalmente organizzato il tutto per qualcos’altro.
L’approvazione e la vicinanza della sua famiglia erano sempre
stati il suo sostegno, tutto ciò di cui gli importasse
veramente.
Smisi di dondolare la gamba nell’acqua e sistemai meglio le
braccia conserte dietro la testa, chiudendo gli occhi. Dio, ancora non
ci credevo. Avevamo deciso di prendere in mano le nostre vite, di
finirla di nasconderci dietro a futili pretesti e cominciare a goderci
ciò che indubbiamente, dopo tanti anni e tante sofferenze,
meritavamo. Avevamo deciso di vivere insieme, di rilasciare una
dichiarazione congiunta e poi starcene un po’ in disparte
finché le acque non si fossero almeno parzialmente calmate.
Ma prima di dare il via a tutto questo, Colin voleva informare la sua
famiglia, in particolar modo prepararla all’assalto che
avremmo tutti quanti ricevuto.
Non che sarebbe stato un problema per loro, tutt’altro.
Claudine aveva a che fare con noi ormai quotidianamente ed Eamon si era
dimostrato nostro fervente sostenitore fin dagli inizi, non mancando di
strigliare il tanto amato fratellino in svariate occasioni. Catherine
era sempre stata disponibile con me e Rita, come ogni mamma che si
rispetti, desiderava soltanto la felicità di suo figlio,
tanto che più volte nel corso del tempo ci aveva esortati a
sistemarci. Suo padre era un uomo di poche parole ma, ormai forgiato
dall’esperienza del figlio maggiore, non aveva mai espresso a
Colin un parere negativo riguardo la nostra relazione e affrontava
l’argomento con il serafico e distaccato atteggiamento che
riservava a tutte le cose. Se avevo capito bene, interpretando quella
loro astrusa parlata irlandese, molte parole della quale ancora mi
risultavano oscure, sarebbe atterrato in suolo americano la settimana
seguente.
Dal canto mio, dovevo ancora parlarne con mia madre, e Shannon,
quell’animale barbuto dalla sensibilità di un
rinoceronte, alla mia entusiastica rivelazione, aveva risposto con un
“Come ti pare” frammisto ad una smorfia e un
grugnito. Per fortuna almeno Tomo mi aveva dato un po’ di
soddisfazione, stappando una bottiglia di buon vino francese che teneva
da parte: non ne bevvi nemmeno un sorso, ma almeno mi fece sentire
appagato.
Aprii gli occhi, scacciando una zanzara dall’orecchio
sinistro, e soffiai fuori dell’aria che non mi ero accorto di
star trattenendo. A pensarci bene, sembrava una follia. Io, con quel
mio stile di vita e quelle abitudini, lui, con quella sua reputazione e
quei trascorsi. Fin dal principio, non ci avrebbe scommesso nessuno, su
noi due. E ce n’erano stati di momenti che avevano messo a
dura prova persino la mia incrollabile sicurezza; momenti in cui non
avrei mai voluto averlo conosciuto o, perlomeno, avrei voluto poterlo
dimenticare.
Ma poi, in un modo o nell’altro, eravamo arrivati a quel
punto impensabile. Era stata una decisione maturata col tempo, in
accordo, avvertita da entrambi come ormai necessaria ed inevitabile,
supportata da una serie di eventi che ci avevano rivelato ormai
insostenibile continuare come avevamo fatto fino ad allora. Correvamo
dei rischi, è vero, ma a guardarli bene, ci parevano
decisamente più piccoli di quanto avevamo sempre temuto.
Insomma, per quanto incredibile, eravamo ad un passo dal cambiare le
nostre vite.
Ero felice e me ne andavo in giro con un sorriso da ebete stampato
sulla faccia. Ogni tanto faceva capolino quell’ansia di
sapere che per qualche tempo, almeno, ci avrebbero dato del filo da
torcere, e allora, come in quel preciso istante, mi concedevo qualche
minuto per godermi un po’ di tranquillità,
finché ero ancora in tempo.
Faceva davvero troppo caldo. Stavo considerando di rotolare per quei
pochi centimetri che mi dividevano dall’acqua, quando il
blackberry cominciò a squillare. No, non avrei risposto a
nessuno scocciatore in quel momento, niente mi avrebbe allontanato
dalla mia pace. E di certo non era Colin a chiamare, non era il tono
che gli avevo assegnato quello che risuonava. Non lo vedevo dalla sera
prima e non l’avrei rivisto fino al giorno seguente, ma mi
aveva dato qualcosa da ricordare, prima che arrivassero i suoi. Eccolo
lì, il sorrisino da ebete che mi spuntava tra le guance
maliziosamente arrossate.
Non resistendo allo squillare imperterrito del blackberry, mi arresi e,
tirandolo fuori dalla tasca, guardai il display: Eamon. Corrucciai la
fronte. Eamon? Mi sembrava presto perché Colin gli avesse
già parlato…Beh, meglio prima che poi.
- Eamon! Ehi! - risposi gioviale.
- Jared, dove sei? - il tono di voce incrinato.
- Sono al Lab, che succede? –
Mi misi a sedere, improvvisamente colto da una brutta sensazione.
Silenzio.
- Eamon? –
Senza accorgermene strinsi con più forza il cellulare, il
cuore in gola.
- Colin ha avuto un incidente con la macchina. Tra cinque minuti sono
da te, l’ospedale è quello vicino a casa tua.
Dobbiamo fare presto. -
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Capitolo 2 *** aspettando ***
Buongiorno!
Eccomi con il secondo capitolo!
Non vi nascondo una certa apprensione, ma ci tengo tantissimo a
ringraziare tutte le meravigliose lettrici
che hanno lasciato una recensione al precedente.
Siete state gentilissime e non posso che augurarmi con tutto il cuore
che apprezzerete anche questo,
nel corso del quale la storia non fa grandi passi avanti, ma introduce
una buona parte dei protagonisti.
Buona lettura e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate!
2.
Il trillo
improvviso del cellulare di Catherine mi fece sobbalzare.
Da più di un’ora mi lasciavo cullare dal ritmo
regolare dei suoi singhiozzi, così come dal mormorio
costante e cadenzato di Rita, che doveva essersi ipnotizzata in un
interminabile ciclo di preghiere.
Per il resto, se ci fosse il caos intorno a noi o non volasse una
mosca, non saprei dirlo. Trovavo ammaliante l’indicazione
dell’uscita antipanico dritta davanti a me, avrei potuto
descriverla ad occhi chiusi.
Mio fratello seguì con lo sguardo Catherine che si alzava e
rispondeva al telefono, poi sospirò. Shannon. Oh,
Shannon… Se solo fossi stato capace di compiere un minimo
movimento, avrei voluto abbracciarti, strettissimo, e rimanere nascosto
tra le tue braccia. Era venuto con noi, subito, senza nemmeno che
glielo chiedessi. Mi voltai lentamente verso di lui e, per la prima
volta da quando eravamo saliti in macchina, incrociai i suoi occhi. Era
stordito e agitato. Mi chiesi quanto lo fosse per Colin e quanto per me.
Distolsi lo sguardo e scossi la testa per scacciare
immediatamente le odiose lacrime che in un secondo avevo sentito
bagnarmi le ciglia. Non dovevano scendere, non ancora. Conservavo quel
minimo di lucidità necessario per rendermi conto che
l’unico modo di mantenere la calma era rimanere bloccato in
uno stato di semi-incoscienza. Stavo affrontando la situazione come un
automa, meccanicamente silenzioso ed efficiente. Avevo
persino avuto il sangue freddo di prendere lo spazzolino da denti di
Colin, perché nessuno di certo ci avrebbe pensato. E
perché avrebbero dovuto, in effetti? Non ti lavi i denti se
sei steso su un tavolo operatorio con degli sconosciuti che ti aprono
la testa.
Non provavo alcun sentimento, se non un principio di rabbia che andava
via via aumentando. Quante volte, quante centinaia di volte, lo avevo
pregato di andare piano su per la via di casa sua; di sera,
specialmente, era tutto buio, le curve troppo strette per consentire
una visibilità decente. E lui non suonava nemmeno il
clacson! “Tanto non c’è mai nessuno qui,
ci abito praticamente solo io in questa strada”.
Apparentemente, qualcuno ce l’aveva trovato quella sera.
Qualcuno che non si era fatto niente e, grazie a Dio, se non altro, si
era fermato ed aveva chiamato i soccorsi. Colin, per scansarlo, si era
schiantato contro il guard rail, fortunatamente sul lato interno della
strada. La Ford, avevano detto le sue sorelle, completamente distrutta
sul davanti. Di lui non si sapeva niente, se non che era arrivato in
ospedale privo di sensi e con probabile trauma cranico.
E adesso aspettavamo, seduti in quel corridoio, come anime in pena.
Appena si fosse risvegliato, pensavo, appena avessi potuto vederlo coi
mei occhi e mi fosse passata quella stretta allo stomaco,
l’avrei picchiato così forte che avrebbe rimpianto
di non essersi ferito più gravemente.
Coglione d’un irlandese.
- Dov’è
Cathy? – Eamon tornò a sedersi accanto a sua
madre, facendo scivolare il cellulare nei jeans.
- Scott
l’ha finalmente chiamata. Due smartphone e un i-phone e
un’ora e mezza per richiamare. –
Eamon
guardò di traverso Claudine, ma non disse niente. Non era il
momento per incrementare o smorzare l’astio di sua sorella
per il neo sposo di Catherine. Poi aggiunse:
- Papà
sta andando in aeroporto. Ci farà sapere appena trova un
volo. –
Rita fece un segno
d’assenso e prese la mano di suo figlio. Sentii Shannon
alzarsi dalla sedia accanto alla mia.
- Vado a
prendere un caffè. Volete qualcosa? –
Non ci fu risposta
perché il rimbombo dei passi di Catherine
concentrò l’attenzione di tutti verso la sua
figura che ci correva velocemente incontro, arruffata. – Sono
usciti! – sventolò le braccia verso di noi
– Sono usciti. – ripeté.
Un medico, alto,
nell’atto di togliersi la mascherina, sbucò subito
dietro di lei e io schizzai in piedi come una molla.
Ci guardò: - Tutti per il signor Farrell? –
- Come sta
mio figlio? – quasi gli si sovrappose Rita.
Si passò
una mano sul capo e prese aria : - Adesso è stabile.
E’ arrivato esteriormente illeso, ma già privo di
conoscenza; la tac ha evidenziato un esteso trauma cranico.
L’operazione è riuscita perfettamente e non
c’è stato nessun danno a livello cerebrale.
Dobbiamo aspettare che si svegli e constatare quali conseguenze siano
eventualmente derivate dal colpo; in casi come questo sono frequenti
lievi stati confusionali, brevi amnesie, crisi di panico e fenomeni
simili. Ma si tratta di cose da poco, il peggio è passato.
- abbozzò un sorriso.
- E tra
quanto si risveglierà, dottore? – sentii chiedere
Claudine, da dietro.
- Questo
è soggettivo, varia da persona a persona. Considerando le
condizioni generali del signor Farrell e l’esito
dell’operazione, azzarderei tre, quattro ore…non
oltre la nottata comunque. –
- Ma si
sveglierà, quindi…vero? – il tono di
Catherine era ancora incerto.
Il dottore sorrise,
completamente questa volta. – Si sveglierà, state
tranquilli. –
Chiusi gli occhi e
assaporai l’aria che mi attraversò i polmoni,
improvvisamente fresca. Sentii la mano di mio fratello stringermi la
spalla, mi voltai e l’abbracciai. Poi abbracciai Claudine ed
uno ad uno tutti gli altri. Sorridevano e piangevano insieme.
Coglione
d’un irlandese.
Dopo il tentativo di
Claudine, dovetti parlare anch’io con Kim per
tranquillizzarla e convincerla che avrebbe potuto aspettare il giorno
seguente per raggiungerci. Qualcuno, forse Eamon, avvertì
anche Alicja. Il padre di Colin chiamò per dire di essersi
imbarcato e, alla fine, riuscii persino a spedire Shannon a casa. La
situazione era ormai stabile, dovevamo solo aspettare che si
svegliasse, e mi sentivo di potermene stare senza mio fratello, che non
dormiva da almeno 24 ore.
Finalmente, le infermiere si rassegnarono al fatto che non avremmo
desistito e, intorno alle 3 e mezza, ci permisero di vedere Colin.
- Siete tutti
di famiglia? – domandò una, soffermando per un
secondo lo sguardo su di me.
Probabilmente mi aveva
riconosciuto.
- Sì,
tutti parenti. – si affrettò a dire Eamon.
La giovane infermiera
mi guardò ancora un istante, poi, con fare risoluto,
precisò: – Non potete entrare tutti insieme, al
massimo due alla volta. E ovviamente non dovete smuoverlo o
strattonarlo, niente abbracci, non si sale sul letto ed è
consigliabile contenere il rumore. –
Mi venne quasi da
ridere. Se non fossi stato ancora un po’ teso,
l’avrei fotografata col mio BB e postata su twitter col
titolo “the Nazi Nurse”.
- Mamma, io non me la
sento di vederlo finché non si sveglia. Perché
non entrate intanto tu e Claudine? Noi vi aspetteremo qui. –
Con una famiglia
meravigliosamente unita come quella, non potevo certo pensare che mi
avrebbero steso il tappeto rosso per entrare per primo. Era giusto
così. Eamon annuì, spingendo sua sorella verso la
porta e, mentre mi voltavo per sedermi, Rita mi posò
gentilmente una mano sul braccio.
- Lasciami
qualche minuto per vedere coi miei occhi che è vivo e
vegeto. Poi ti prometto che sarà tutto tuo. –
Sorrisi e la
accarezzai una guancia. - La mamma è sempre la mamma.
Aspetterò qui fuori. –
Mi guardò
con quella dolcezza di cui tante volte Colin mi aveva parlato,
dopodiché si avviò con la figlia verso la stanza,
per sparire dietro la porta richiusa da due infermiere. Eamon si
riavvicinò a me e Catherine. Lo guardai di sbieco:
- Grazie per avermi
incluso nella famiglia. Non avevo alcuna voglia di mettermi a
discutere. –
- Beh, non ho
mentito poi di molto … - Mi fece un occhiolino. –
Forza, andiamo, vi offro un caffè, - mise le braccia intorno
alle nostre spalle e ci spinse verso le macchinette - altrimenti quando
Colin si sveglierà, noi saremo stesi su queste sedie a
russare! –
Quando sentii il
rumore della porta che si chiudeva alle mie spalle e riuscii ad
intravedere i piedi del letto, avevo ormai perso ogni speranza. E
invece, finalmente, eccolo lì. Giaceva supino, la testa
leggermente inclinata sulla sinistra, le braccia stese lungo il corpo
in un insieme composto e ordinato, decisamente inusuale per Colin. Da
quando avevamo dormito insieme la prima volta, non l’avevo
mai, mai trovato al mattino in una posizione normale, ma sempre
incastrato tra le lenzuola o in se stesso. All’inizio, in
Marocco, l’avevo imputato al caldo o a qualche agitazione
notturna che credevo lo prendesse per la novità della
situazione; col tempo però mi ero dovuto ricredere. Perso
per un attimo in quei pensieri, mi ritrovai inconsciamente a sorridere,
ma, indugiando in quella vista- letto bianco, lenzuola
bianche, muri bianchi, un ago infilato in quel braccio
innaturalmente posato, diversi tubicini che lo collegavano a delle
macchine- un brivido mi corse lungo la schiena. Mi venne in mente
l’estate passata, quando, già troppo affaticato da
un tour estenuante, ero finito in ospedale alla fine di un concerto a
cui, con un briciolo di buon senso, avrei dovuto rinunciare. Colin se
l’era presa tanto, ma io avevo minimizzato
l’accaduto e gli avevo pure risposto male. Ora cominciavo a
capirlo: non era stata una predica, la sua, era stata paura. Presi
mentalmente nota di scusarmi con lui, al momento giusto, dopo che si
fosse svegliato. O meglio, dopo che si fosse sorbito il mio sfogo per
quelle ore di inutile, assurdo spavento.
- Disgraziato!
Guardalo, sembra che si faccia una pennichella! –
Spostai lo sguardo su
Eamon, che si era già avvicinato ad un lato del letto. In
effetti il dottore aveva detto la verità: non aveva un
graffio addosso, era perfetto, se non per un cerotto sotto lo zigomo
sinistro e una piccola benda sullo stesso lato del volto,
all’attaccatura dei capelli. Eamon gli sfiorò una
guancia con una mano, scendendo fino al collo.
- E’
pure bello calduccino e con un invidiabile colorito roseo..!
– rise. Poi si accigliò, guardandomi: - Che fai
laggiù, Jared? Vieni qui, vieni a vedere come si rilassa
mentre noi perdiamo anni di vita... –
Sorrisi e mollai
lentamente la sbarra di metallo del letto a cui mi ero aggrappato,
raggiungendo Eamon, che si spostò di lato.
- Sai cosa,
già che ci sono, visto che fila tutto liscio, ne approfitto
per fare uno squillo a Steven. Sai, per tranquillizzarlo ancora...
– Mi strinse una spalla, ammiccandomi. – Tanto lo
lascio in buona compagnia, no? –
- D’accordo.
– Gli sorrisi imbarazzato, ma senza nascondere un certo
sollievo. – Fai con calma. –
Uscì. Eamon
non condivideva con Colin l’attitudine alla recitazione e il
suo palese tentativo di lasciarmi un po’ di spazio da solo
con suo fratello ne era l’ennesimo esempio. Mi dispiaceva che
se ne fosse andato quasi subito, ma, in tutta onestà, avevo
davvero bisogno di prendermi due secondi di intimità con
Colin.
Mi accorsi di una sedia che Rita o Claudine dovevano aver utilizzato,
la avvicinai ancora di più al letto e mi sedetti.
Lo guardai, inspirando profondamente e gli presi la mano sinistra tra
le mie. Scorsi l’indice sulle sue dita, delineandone piano i
contorni, poi la sollevai leggermente, strofinandomela contro il volto.
Mi ero arrabbiato, era vero, avevo già pronto un bel
discorsetto da fargli, ma in quel preciso instante avrei solo voluto
abbracciarlo forte e sentirmi dire che sarebbe andato tutto bene.
Sentirlo da lui, dalla sua voce.
Poggiai la fronte sul suo braccio, incastrando una mano nella sua e
stringendo con l’altra poco sopra il suo gomito. Mi accorsi
di essere esausto. Tutta l’agitazione delle ultime settimane
coronata da quella fantastica ciliegina sulla torta.
Nove cazzo di anni per fare i conti con la nostra situazione, per avere
il coraggio e la certezza di una vita insieme, prepariamo tutto, siamo
ad un passo così e lui si schianta con la sua fottutissima
macchina per giocare alla formula uno!
Mi avvicinai ancora e gli accarezzai una guancia, per poi soffermarmi
sul lobo dell’orecchio, giocandoci lentamente. Respirava
piano, regolarmente e non mi trattenni dal tracciargli con dolcezza i
tratti del volto con il pollice. Mi fermai su una leggera macchia
rossastra poco sopra il labbro superiore e sorrisi fra me. Le tracce
del rossetto avevano tradito Claudine. Mi inumidii un dito e cancellai
delicatamente le prove del misfatto prima che la Nazi Nurse depennasse
la poveretta dalla lista degli autorizzati alle visite.
L’orologio
alla parete indicava le 4.12. L’operazione era finita da
più di quattro ore e mi sarei sinceramente sentito
più tranquillo se Colin avesse cominciato a dare qualche
segno di ripresa, invece continuava a dormire beato.
Appoggiato con il gomito sul letto, cercai di dirgli qualcosa, sperando
di facilitare il processo.
- Sai, Col,
dovremmo rivedere alcuni particolari del nostro piano, adesso. Voglio
dire, se alla tua età hai ancora la testa così
dura da non seguire nemmeno i precetti più elementari per
salvaguardare la tua persona, forse – distesi il braccio
parallelamente al suo, sistemando con attenzione la testa
sull’esterno del suo torace – beh, forse dovrei
portarli un po’ più io i pantaloni in questa
relazione. No, dico sul serio, d’ora in poi
prenderò io le decisioni e tu, caro mio, tu ti adeguerai,
almeno finché non mi dimostrerai di essere una persona
responsabile. – Chiusi gli occhi e sorrisi, riflettendo che
in effetti le cose stavano già così, ma avrei
stretto ancor di più le briglie. – Tanto per
cominciare, potremmo trasferirci a casa mia e non tua, così
il problema delle curve sarebbe risolto, poi…
Non so per quanto
continuai a parlare da solo, ma in breve tempo la vicinanza e il calore
del corpo di Colin sciolsero la tensione accumulata e il sonno ebbe la
meglio su di me. Fu Claudine a svegliarmi, scuotendomi leggermente
sulla spalla e sedendosi accanto a me. Impiegai qualche secondo per
tornare lucido e ricapitolare la situazione.
- Scusa,
credo di essermi appisolato per un po’. –
Mi rivolse
un’espressione divertita.
- Appisolato?!
Dormivi come un sasso! Guarda che sono quasi le sei di mattina.
–
Cercai conferma
nell’orologio, sbalordito.
- Eh,
già… - rise – pensa che nel frattempo
un’infermiera ha fatto un veloce controllo, Cathy si
è convinta ad affacciarsi un attimo e tu non ti sei spostato
di un millimetro. –
Mi sentii imbarazzato
e mortificato. –Dio mio, mi
dispiace…Perché non mi avete svegliato?
–
- E
perché, scusa? Eravate così carini! –
Arrossii. Colin ed io
eravamo sempre stati molto riservati, anche con chi ci conosceva bene.
- E poi anche
noi ci siamo un po’ riposati…Al momento sono
l’unica sveglia, il clan dei Farrell è accampato
in sala d’attesa. –
Sorridemmo. In effetti
mi aveva fatto bene staccare per un po' la spina. Mi voltai verso
Colin, immobile come quando l’avevo lasciato.
- Nessun
cambiamento? Non dovrebbe essersi ripreso ormai? –
- No, niente
di nuovo. Dicono che è tutto a posto.
L’infermiera di cui ti ho accennato prima ha detto che tra
una mezzora verrà personalmente il dottore che
l’ha operato a controllare. –
Annuii, ma mi sentii
attanagliare lo stomaco da una spiacevole sensazione e Claudine, che
invece pareva serena, se ne accorse. Mi strinse la mano che
tenevo sul bracciolo della sedia, sorridendo dolcemente.
- Me l’ha
detto, sai? – disse, inclinando la testa ad indicare il
fratello. La guardai confuso – Di voi due, di cosa avete
deciso di fare.–
- Oh…-
- Mentre
andavamo in aeroporto, l’altra sera. Gli brillavano gli
occhi. –
Non sapevo cosa dire.
– E - mi schiarii la voce – e cosa ne pensi?
–
Si
raddrizzò sullo schienale, rivolgendomi uno sguardo ovvio.
– Che era l’ora. Io, noi, vogliamo solo
che sia felice. E lo sarete, felici, Jared. Quindi, come vedi, questo
piccolo incidente di percorso non è altro che
l’ultima trovata di mio fratello per creare un po’
di suspence, prima di sganciare la bomba, sai. Perciò stai
tranquillo. –
- D’accordo.
– annuii, sorridendo.
- Anzi,
alzati, esci da qui, fai due passi. –
- No,
davvero, non è necessario, vorrei –
M’interruppe:
- Jared, non te lo sto suggerendo, te lo sto imponendo. Sgranchisciti
le gambe, lavati la faccia, beviti una cioccolata e, magari, dico,
magari, potresti addirittura mangiare qualcosa. Giusto per cambiare
aria dieci minuti. Rimango io qui, vai. – Mi tirò
su in piedi, spingendomi verso la porta. – Anzi,
già che ci sei- si frugò in tasca e mi mise in
mano un biglietto da cinque dollari – prendi un
caffè anche per me e con il resto facci colazione.
–
Come aprì
la porta e io feci il primo passo per uscire, si sentì alle
nostre spalle un mugugno indistinto. Ci bloccammo, gli occhi fissi gli
uni negli altri, e un secondo lamento, più forte, ci fece
voltare.
- Colin! -
Claudine corse ad un lato del letto.
Mi affrettai
dall’altro, mentre Claudine continuava a chiamare il nome del
fratello, tenendogli la mano. Colin aprì gli occhi,
lentamente, cercando di metterci a fuoco. Guardò sua
sorella, poi me, per tornare di nuovo su di lei. Strizzò le
palpebre, in un’espressione di disagio.
- Che
è successo? – masticò.
- Hai avuto
un incidente d’auto, mentre tornavi a casa. –
sussurrò Claudine. – Sei in ospedale adesso, hai
battuto la tua testa dura, ma stai bene. –
La fissò,
incerto, e spostò lo sguardo su di me. – Col?
– strinsi appena la presa sul suo braccio. Tornò
lentamente su sua sorella.
- Claudine..?
– aveva un tono strano.
- Sì
–
- Ma da
quanto sono qui? –
- Da ieri
sera, Colin. E’ giusto giusto l’alba, adesso.
–
- Uhm… -
chiuse gli occhi e abbozzò un sorriso – beh,
temevo qualche anno. Per poco non ti riconoscevo da come sembri
invecchiata. – li riaprì, sempre sorridendo.
– Devo averti fatto prendere un bello spavento, eh?!
–
- Idiota!
– rise lei. Mi guardò, sollevata e contenta.
– Vado a chiamare un medico e gli altri. –
- Certo.
– le annuii e mi sporsi verso Colin, che non mi aveva ancora
assolutamente considerato, fatta eccezione per un paio di sguardi
incodificabili. In quel momento, però, era rivolto verso di
me e mi accorsi di avere la sua attenzione.
- Ehi?
– gli dissi con dolcezza, posandogli delicatamente una mano
sulla guancia destra.
Continuò a
guardarmi, concentrato, poi senza sciogliere la sua espressione
corrucciata: - Ma tu chi sei? –
Rimasi pietrificato
dalla sua serietà. Claudine, che stava uscendo, lo
sentì e tornò indietro sbuffando.
- Sei troppo
presuntuoso se credi di poter fare invecchiare in una notte un uomo che
è rimasto uguale negli ultimi vent’anni! Lui non
è me, Colin. –
Claudine scherzava,
non aveva visto la sua espressione. Ma noi non ci spostammo di un
millimetro, lui ancora concentrato su di me, io con un bisogno
improvviso di vomitare. I suoi occhi.
- Ma guarda,
c’è Jared –
Colin la interruppe,
sempre fissandomi, ora con sguardo estremamente confuso: - Io veramente
non riesco…ti ho visto da qualche parte, ma non so chi sei.
–
Non riuscivo a reagire
in nessun modo, a parlare, a muovere un muscolo. Sentii Claudine
avvicinarsi dietro di me.
- Che giorno
è oggi, Colin? – gli chiese con tono grave, adesso.
Colin
spostò lo sguardo in avanti, verso di lei. –
Uhm…Il 14 luglio? – tornò su di me.
- Beh, in
realtà ormai è il 16, ma –
- Abbiamo
lavorato insieme! – la interruppe di nuovo, sorprendendomi.
– Abbiamo girato una scena per Joel a New York, con quel
freddo disumano. Phone Booth giusto? – mi guardò
soddisfatto - Però mi pare che poi l’abbiano
tagliata…Non dirmi che l’ho fatto con te
l’incidente! –
Colin mi guardava con
aspettativa, ora più rilassato. Ero di sasso. Riprese,
apostrofando Claudine:
- Sorellina,
credevi che mi fossi rimbambito, di’ la verità.
Dammi tregua, non è come se non avessi riconosciuto la
mamma! Ho ancora del –
- Di che
anno? – non so come mi uscì – il 16
luglio di quale anno? –
Mi
guardò stupito. – 2002. Il 16 luglio del 2002.
–
In un secondo Claudine
fu fuori dalla stanza.
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Capitolo 3 *** indecisioni ***
Buondì!
Prima
di tutto, colgo l'occasione per ringraziare nuovamente tutti coloro che
hanno recensito o aggiunto la storia tra le seguite e le preferite.
E'
meraviglioso, per me, leggere le vostre opinioni e sapere che in
qualche maniera il mio lavoro è apprezzato.
Con
questo terzo capitolo arrivano alcune spiegazioni e si approfondiscono
meglio certi rapporti e certi personaggi,
ma
è solo dal prossimo che la trama frà un bel passo
avanti.
Non
posso che augurarmi che continuiate a trovare interessante la storia e
a seguirla! Buon ferragosto :)
3.
La giornata era stata lunga. Caotica, confusa, agitata. Un andirivieni
continuo di medici, specialisti, infermiere, anche la polizia stradale,
ad un certo punto, al fine di verificare le condizioni del paziente per
l’archiviazione delle pratiche del sinistro. Come no, ottimo
tempismo…
Colin aveva trascorso molto tempo nella sua stanza, sottoposto ai test
più disparati, poi portato al piano di sotto per una
risonanza magnetica, infine nuovamente chiuso insieme a tre dottori
confabulanti che ci fecero aspettare delle ore prima di decidersi a
dirci qualcosa. Lo avevano letteralmente esaminato, studiato con
attenzione come un campione di ricerca, almeno
così aveva detto Eamon, a cui avevano dato la
possibilità di assistere agli accertamenti per qualche
minuto.
Una giornata lunga. Ma
a me era scivolata via in un secondo.
Me ne stavo seduto su una sedia, al lato della porta della stanza,
immobile e silenzioso, mentre tutti si agitavano e parlavano e si
muovevano in apprensione, sciorinando fra sé dubbi e
preoccupazioni. Avevo davanti solo i suoi occhi.
Non riuscivo a togliermi dalla testa quel suo sguardo incerto, quel suo
guardarmi senza vedermi. L’espressione costernata di chi non
riesce ad associare il tuo volto ad un nome e vuole scusarsi per la sua
mancanza. Quel modo di fare gioviale ma lievemente impacciato che si
riserva ad un estraneo. Solo che quell’estraneo ero io.
Anche Claudine, che aveva assistito con me alla scena, parlava meno
degli altri e si alternava tra il perdersi nel vuoto, torturandosi le
dita delle mani, e il lanciarmi fuggevoli occhiate, tristi e
mortificate. Sapevo che era profondamente turbata, ma mi chiedevo se
provasse anche lei quel nodo alla gola che a tratti rendeva il semplice
respirare un’impresa degna di una competizione olimpica.
Ma no. No, perché, benché confuso, Colin
l’aveva riconosciuta, era sua sorella, le voleva bene. Non
era una tipa con cui aveva girato una scena di un film un paio
d’anni prima, condividendo una birra, quattro chiacchiere e
tre giorni di gelo newyorchese. Beh, neanch’io ero
propriamente questo, ma, a quanto pareva, per qualche motivo, lui non
lo sapeva.
Non avevo avuto modo di scambiare con lui neanche una parola di
più, perché immediatamente la stanza era stata
invasa da due infermiere, dall’intera famiglia e in un attimo
anche da un medico, poi da un altro. Poco dopo ci avevano sbattuti
tutti fuori ed aveva avuto inizio l’interminabile ambaradan.
Prima di pranzo, ci aveva raggiunti anche Kim, sconfortata dalle ultime
notizie, sperando di ottenere da noi risposte che assolutamente non
avevamo. Alla fine, si era seduta di fianco a me, avendo
l’accortezza di non cercare di interagire ulteriormente, se
non sfregandomi brevemente la schiena con un braccio.
Alle quattro del pomeriggio, il chirurgo della sera prima –
dottor Ross, notai sul cartellino attaccato al camice –
uscì dalla stanza di Colin insieme ad uno degli altri due
medici – dottor Newton, neurologia – e
invitò Rita ad entrare a parlare col figlio. Io, Eamon,
Catherine, Claudine e Kim lo fissavamo impalati, in aspettativa. Dopo
quella che parve un’eternità, si
schiarì la voce, muovendo lo sguardo fra di noi.
- L’esito
dell’operazione è più che positivo. La
risonanza ha confermato che l’emorragia provocata dal trauma
non ha prodotto danni permanenti e di conseguenza tutte le funzioni
fisiologiche e naturali del paziente sono state preservate. Non ci
sarà bisogno di un recupero motorio e dialettico,
dal punto di vista prettamente fisico il paziente sta bene. –
- Ma il paziente
– non riuscii a trattenermi – crede di vivere nel
2002, Cristo santo. A meno che tra le sue cosiddette funzioni fisiologiche
non sia compresa l’abilità di viaggiare nel tempo,
il paziente non sta bene proprio per niente. –
Non ci potevo credere.
Colin si svegliava come se avesse dormito per dieci anni e un tipo
laureato in medicina si presentava esordendo con l’ottimo
esito dell’operazione! Eamon mi posò una mano
sulla spalla, avvicinandosi leggermente e bisbigliandomi di stare
calmo.
- Dottore,
lei aveva accennato a possibili problemi successivi al risveglio, ma
noi credevamo si trattasse di cose di poco conto. – disse in
poco più di un sussurro Catherine – Voglio dire,
quanto durerà questa cosa? E che cos’è,
poi, questa cosa? –
Il dottore, ora con
aria più sinceramente dispiaciuta, prese un respiro
profondo.
- Il signor
Farrell è al momento affetto da amnesia. In effetti, come vi
avevo accennato questa notte, è frequente in questi casi che
si riscontrino sintomi confusionali o problemi mnemonici, a seconda
dell’estensione del trauma cranico. Da subito, per quanto non
ci siano stati problemi, avevamo notato che il trauma riportato dal
paziente fosse di notevoli dimensioni, ma la risonanza di stamattina ha
mostrato confini più ampi di quanto ci aspettassimo.
Sicuramente l’assorbimento avanzerà in modo
autonomo e completo, su questo dovete stare tranquilli. –
tentò un’espressione rassicurante con le mani
– Però, nel frattempo, il signor Farrell
soffrirà di quella che si chiama amnesia retrograda. Dai
numerosi test a cui l’abbiamo sottoposto, risulta invece
essere completamente privo di problemi legati ad amnesie globali o
anterograde e –
- Mi scusi,
dottore, di che accidenti sta parlando? – finalmente Claudine
aveva perso la pazienza.
- Sto
parlando del fatto che suo fratello, in seguito al colpo che ha
riportato durante l’incidente, ha subito un trauma che gli
causa una sofferenza encefalica tale da perdere la memoria di tutti gli
eventi anteriori all’incidente stesso. Non si tratta di
quella memoria legata alle funzioni fondamentali, per cui è
perfettamente in grado di parlare e scrivere, andare in bicicletta,
guidare, insomma praticare tutte le attività meccaniche
già acquisite. L’amnesia retrograda
post-traumatica, riguarda tutti i fatti che ha vissuto nel periodo
momentaneamente cancellato e questo periodo può variare, non
si sa in base a che cosa purtroppo. In questo caso parliamo di dieci
anni…che è indiscutibilmente un periodo veramente
tanto esteso. – rifletté, prendendo fiato un
attimo. – Fin quando gli effetti dell’amnesia
perdureranno, il signor Farrell non sarà in grado di
ricordare niente di ciò che gli è capitato dal
2002 ad oggi, nessun luogo, nessun episodio, nessuna persona.
–
Stava per aggiungere
qualcosa, quando il terzo medico, un uomo alto e magrissimo, senza
cartellino sul camice, uscì dalla porta, muovendosi con una
lentissima delicatezza, e ci guardò mestamente:
- La signora
Bordeneuve? –
Tutti ci voltammo
verso Kim, che guardò Eamon, poi me, incerta.
- Sì,
sono io… -
- Se potesse
entrare, ecco, a parlare con… Hanno chiesto di lei.
–
- Ah, ok.
– rispose un po’ confusa, rimanendo in piedi al suo
posto. Il medico la osservò ancora, aspettando. –
Ah, sì, sì, certamente. – si riscosse
ed entrò, facendosi spazio tra me e Claudine.
L’uomo richiuse la porta alle sue spalle e raggiunse gli
altri due, abbozzando verso di noi un segno di saluto.
- Avete spiegato la
situazione? – chiese, piano, al dottor Ross.
- Sì,
stavo specificando la condizione di un paziente affetto da retrograda.
–
- Ho
assistito parzialmente alle reazioni del signor Farrell alle parole
della madre – si voltò di tre quarti verso di noi
– e devo ammettere che l’amnesia è
totale. – aggrottò le sopracciglia. –
Dovete considerare che il paziente in questi casi si sente come se si
fosse addormentato e si fosse risvegliato normalmente, senza sentire
affatto il peso degli anni mancanti. Tutto ciò che ha fatto,
che gli è successo, tutti i cambiamenti avvenuti nella sua
vita, per lui non esistono… -
Mi distrassi mentre il
medico continuava a parlare.
Non esistono…
Io non esisto, quindi. E’ come se io non fossi
mai capitato nella sua vita.
Un brivido mi percorse la schiena e mi lasciò senza fiato
per un secondo. Non ebbi il tempo di approfondire il pensiero,
riportato alla realtà dalla mano di Claudine che strinse la
mia.
- …
ed è proprio per la difficoltà di affrontare
questa situazione che, ovviamente, sarà seguito dal reparto
di psicologia dell’ospedale. Il professor Kleeman
l’ha già incontrato qualche ora fa e da
domani comincerà ad aiutarlo, fin quando resterà
qui e anche successivamente alla dimissione. –
Fin quando resterà
qui? Dimissione?? Ma di che parlava? Non feci in tempo ad
aprire bocca che Eamon mi precedette:
- Scusate, ma
non credo di aver capito bene. Quanto si suppone che duri
questa…amnesia? –
I tre medici si
scambiarono uno sguardo, in silenzio, poi il dottor Ross
tentò di spiegare:
- Nel 70% dei
pazienti sparisce entro i primi minuti dalla ripresa di conoscenza, ma
abbiamo constatato che non è questo il caso. –
concluse fra sé. – Spesso allora permane dalle 2
alle 24 ore e possiamo sperare in tale circostanza. –
- Ma
onestamente – riprese il terzo medico – data
l’estensione del trauma e il black out completo in cui ho
visto essere caduto il paziente, tendo a supporre che ci troviamo di
fronte perlomeno allo stadio medio, ovvero da 1 a 7 giorni. –
- Pe-perlomeno?
– balbettai.
- Beh, lo
stadio definito “grave” comprende amnesie
persistenti dai 7 ai 30 giorni circa. – mi guardò
desolato. – Gravissimo, oltre le 4 settimane. –
Non seppi cosa dire,
ma sentii Claudine al mio fianco imprecare e lasciarmi la mano,
avvicinandosi ai tre.
- Mio Dio,
è uno scherzo, forse?! O è la trama di un pessimo
film?! È possibile che non possiate fare niente per
aiutarlo?? Cosa ci direte, adesso? Che magari non la
recupererà mai, la memoria? –
- Signorina,
l’amnesia permanente è cosa estremamente rara,
estremamente. Vedrà che suo fratello si
riprenderà molto presto. – cercò di
riportare la calma il dottor Ross, ma i suoi occhi tradivano
un’insicurezza mal celata.
Ci fu un attimo di
pesantissimo silenzio, poi percepii delle voci riprendere a discutere,
un brusio che si faceva via via più lontano.
Non mi aveva assolutamente sfiorato l’idea di un lungo
periodo di tempo con Colin in quelle condizioni. Cinque minuti di
quella situazione mi avevano creato un senso di fastidio e
inadeguatezza tali da star male per tutto il giorno, trovando
insopportabili quelle ore. E non era ancora finita? Forse un altro
giorno avrei potuto reggerlo, ma una settimana..? Quattro? Cazzo, un
mese intero con Colin che mi guardava in quel modo.
Un momento… e se non gli tornava più la memoria? Mai più.
Non mi avrebbe riconosciuto mai
più?? Non avrebbe recuperato mai più
tutti i nostri momenti, i nostri ricordi? Mi prese un capogiro
improvviso e violento, ma riuscii a sedermi in fretta, prima che
chiunque se ne accorgesse. Mai
più…
Ma che cavolo, aveva ragione Claudine, queste cose succedono nei
polpettoni di serie b, non nella vita vera, non a noi. Certo, con la
fortuna sfacciata che da sempre arrideva alla nostra relazione i
presupposti c’erano tutti! Ma porca di quella
miseria… il giorno prima, a quell’ora , la mia
vita era perfetta. A modo mio, ma era perfetta. Finalmente, dopo
quarant’anni, era perfetta. Porca, porca, porca di quella
miseria…
- Jared?
Jared! -
- Uhm?
– alzai gli occhi verso Catherine, sentendomi chiamare.
Dovevo essermi perso nei miei pensieri per un po’
perché eravamo rimasti solo noi quattro, dei medici nessuna
traccia.
- Potresti
dire qualcosa? Che ne pensi? – non avevo idea di cosa volesse.
- Dio, dagli
tregua, Cathy. Ne sa quanto noi. – mi soccorse Claudine.
Poi la porta si
aprì e Kim se la chiuse velocemente alle spalle. Quando si
voltò, aveva gli occhi lucidi.
- Allora?
– le si avvicinò Eamon.
- Raggiungi tua madre,
va’ a sentirlo parlare. – si limitò lei,
sospingendolo verso la stanza e tornando verso di noi.
Ci avvicinammo,
aspettando che ci dicesse qualcosa. Aveva l’aria piuttosto
sconvolta e continuava a fissare il pavimento, forse per raccogliere le
forze. Era strano vederla così. Con tutto quello che aveva
passato sia con James che con Colin, nei suoi momenti peggiori, non
l’avevo mai vista perdersi d’animo una volta.
Sempre tenace e risoluta, non si abbatteva mai e anche Colin
l’ammirava molto per questo. Sollevò gli occhi
gonfi di lacrime:
- Non si
ricorda niente. Niente di niente. – spostò lo
sguardo al soffitto per un secondo, sforzandosi con tutta se stessa di
trattenersi. – Rita parlava e parlava e lui non aveva idea di
cosa gli dicesse. Mi ha chiesto se avessi un pacchetto di sigarette.
–
Spalancai gli occhi,
ma non riuscii a parlare. Solo Catherine si lasciò scivolare
un “mio Dio”.
Kim si sistemò meglio la borsa sulla spalla: - Devo tornare
a casa adesso, sono fuori da troppo tempo. – mi
guardò con un’espressione tirata ed implorante.
– Mi accompagni per un po’? –
Capii che voleva
parlarmi da sola. Annuii, lei salutò le due ragazze e ci
avviammo in silenzio lungo il corridoio. Non aveva una gran confidenza
con la famiglia di Colin, si incrociavano in alcune occasioni, ma
più che altro i rapporti si limitavano a saluti cordiali ma
sporadici. Con me era diverso, ci eravamo subito presi in simpatia. Kim
era sorprendentemente concreta e diretta, non si era scomposta
minimamente quando Colin le aveva detto di noi due. Anzi, nel corso
degli anni, aveva più volte espresso soddisfazione riguardo
al mio rapporto con James e spesso mi attribuiva il merito della
guarigione di Colin, mi ringraziava per la dedizione e
l’impegno con cui avevo assicurato un ottimo padre al
bambino. Le dicevo sempre che esagerava, ma lei era irremovibile e, ad
onor del vero, avevo apprezzato molto l’atteggiamento che
aveva tenuto durante tutta la faccenda di Alicja.
- Non
m’importa niente di me, lo sai, – ruppe il silenzio
dopo qualche passo – ma non si ricorda nulla dei bambini. Sua
madre diceva “vedi, lei è la mamma di James,
è Kim”, lo ripeteva, sperando di sortire un
qualche effetto, ma lui mi sorrideva, visibilmente imbarazzato,
pensando “e questa chi cavolo è? James mio figlio?
Sul serio?”. – si fermò subito dopo la
porta scorrevole. – Come, come faccio, Jared? Come faccio col
bambino? Tu lo sai com’è James, lui adora suo
padre. Ed è un bambino speciale, certe cose magari non le
capisce perfettamente, ma per altre è molto più
sensibile di noi. Non posso farglielo vedere
così… ma non posso neanche tenerlo lontano!
–
Smise di trattenere le
lacrime e si lasciò andare ai singhiozzi.
L’abbracciai immediatamente e mi sentii il peggior essere
umano del mondo. I bambini. Avevo passato ore a lamentarmi tra me e me
della mia condizione, poi a disperarmi per la possibilità
che Colin non si ricordasse del mio ruolo nella sua vita e in tutto
questo non avevo pensato nemmeno per un secondo al fatto che in quei
dieci anni era diventato padre. Per me James era parte integrante di
lui. Era nato nei giorni stessi in cui era cominciata la nostra
relazione, avevamo guardato insieme le sue prime foto, non mi ero perso
nessun compleanno, l’avevo visto crescere e l’avevo
viziato, amandolo come amavo Colin, considerandolo un
tutt’uno col pacchetto principale. C’era stato il
dolore della malattia, certo, ma anche le mille soddisfazioni nel
vederlo combatterla e sconfiggerla passo dopo passo. E Dio solo sa
quanto Colin adorasse quel bambino e quanto la sua vita ruotasse
intorno a lui. Era inconcepibile anche solo l’idea che non si
ricordasse di James. Ma io a questo non ci avevo pensato, ero stato il
solito egoista di sempre. Strinsi forte Kim e mi sforzai con tutto me
stesso per non abbandonarmi a piangere con lei, in mezzo al corridoio.
- Andrà
tutto bene, vedrai. – le sussurrai ad un orecchio,
dondolandola leggermente.
Si scostò e
mi guardò, asciugandosi le lacrime.
- Non si
ricorda nemmeno di te, Jared. – era più
un’affermazione che una domanda.
- No, -
deglutii – ma sono sicuro che fra qualche giorno si
sentirà meglio. –
Mi fissò
ancora per qualche secondo. – Mi dispiace, davvero.
– Ci abbracciammo di nuovo.
- Devo andare
sul serio adesso. –
- Ti
accompagno alla macchina. –
- No, torna
da Colin, magari ci sono novità. –
- Sicura?
– Annuì. – Salutami James. Anzi, - mi
sfilai dal polso un braccialettino di dadi colorati –
portagli questo. Ma lui sa che è il mio preferito!
È solo un prestito. Lo rivorrò indietro la
prossima volta, ricordaglielo! –
Sorrise: -
D’accordo, grazie. Chiamatemi se succede qualcosa. –
- Certamente.
–
Sorrise di nuovo e la
seguii con lo sguardo finché sparì tra le porte
dell’ascensore, da dove mi salutò
un’ultima volta con la mano.
Quando svoltai l’angolo del corridoio, feci in tempo a
scorgere Claudine e Catherine entrare nella stanza del fratello, mentre
Eamon si guardava intorno.
- Ehi!
– allungai il passo.
- Ehi, Jared.
– mi venne incontro – Ti stavo cercando. –
- Ci lasciano
entrare? –
Si girò un
attimo verso la porta prima di tornare su di me: - Ehm, no. Le
infermiere dicono che è stanco e tra due minuti deve
riposare. –
- Mi sbrigo,
allora. –
Feci per avvicinarmi,
ma Eamon si frappose fra me e la porta. – Aspetta, volevo
parlarti. –
Aggrottai le
sopracciglia: - Non puoi farlo dopo? –
- No,
senti…Vedi, il fatto –
Gli posai le mani su
un fianco per scansarlo. – Eamon, voglio almeno salutarlo.
Sono qui fuori ad aspettare da un’eternità,
parleremo dopo. – Ma lui non si spostò di un
millimetro. Lo guardai confuso.
- Jared,
ascoltami, è molto stanco, adesso. E lo siamo tutti. Sto
andando all’aeroporto a prendere mio padre,
lascerò a casa mia madre e le mie sorelle e
porterò lui qui. Hanno detto che lo faranno dormire tutta la
notte, rimarrà mio padre, per sicurezza e perché
non l’ha ancora visto. Noi potremo tornare tutti domattina.
– fece una brevissima pausa. – Guardati, sei
esausto. Lascia che ti accompagni a casa. –
- Io…io
non voglio andare a casa, io voglio vedere Colin. Fammi passare.
–
Non accennò
minimamente a spostarsi e mi guardò con un misto di
serietà e costernazione.
- Dannazione,
Eamon, qual è il tuo problema? –
- Dammi
retta, aspetta domani. Magari sarà già tutto
finito e potrai parlarci sul serio. – mise le mani avanti per
evitare che l’interrompessi. – Cosa, cosa vorresti
dirgli, comunque, adesso..? –
Provai una sensazione
negativa che non sapevo spiegare e non riuscivo onestamente a capire
cosa volesse Eamon da me. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma mi
precedette.
- Lui al
momento è spossato e confuso e nemmeno tu sei propriamente
lucido. Tu non capisci, non l’hai visto –
- E allora
fammelo vedere, Eamon, per l’amor di Dio! Ma che vuoi?
– sentii crescere il disagio e cominciai ad innervosirmi.
- Per dirgli
cosa, Jared?! Lui non è proprio…non è
esattamente Colin-Colin… cioè, lo è,
ma… lui è… è il
Colin-versione Cazzone, sta smaniando per una sigaretta e
vuole che gli passi sottomano una bottiglia di Guinness. – mi
guardò scuotendo la testa e io rimasi senza parole, ma non
capivo cosa c’entrasse tutto questo. – Non, non ha
la minima idea di cosa sia diventata la sua vita e non riesce a
concepire tante cose. Pensaci, dover recepire e immagazzinare
così tante informazioni, anche se solo le più
importanti, insomma…di tutto e di più…
a che punto si trova della sua esistenza, la sua carriera, la
riabilitazione… - prese fiato – Dover
capire di essere padre, sai, un conto è saperlo, un altro
è sentirlo. Si trova in una posizione veramente complicata
e… è davvero tutto complicato. Forse, per il
momento, non è il caso di aggiungere altro, capisci?
–
Ci fissammo per
qualche secondo, lui mordendosi il labbro inferiore, io accigliato,
sforzandomi di afferrare il significato delle sue parole. Temevo di
intuirlo, ma di certo dovevo sbagliarmi. Rimasi in silenzio e aspettai
che continuasse.
- Jared, fin
tanto che le cose non torneranno normali, credo sia meglio evitare di
dirgli di voi due, per non confonderlo troppo, ecco… -
Un cazzotto improvviso
nello stomaco mi avrebbe provocato meno shock e meno dolore e
la mia espressione dovette farglielo capire.
- Ascoltami.
– tentò, avvicinandosi.
Mi riscossi
dall’incredulità che mi aveva avvolto per un
attimo, sentendo la rabbia montarmi dentro. – Eamon, ma che
cazzo dici? –
Si avvicinò
ancora, cercando di continuare, ma non glielo permisi, spingendolo
indietro.
- Non ci
posso credere! Proprio tu te ne vieni fuori con una stronzata del
genere? Io-io non…- non ero capace di formulare un pensiero
razionale, figurarsi una frase sensata. – Cosa dovrei fare,
eh? Dovrei andarmene? Evitarlo, semplicemente?? -
- Sarebbe
solo per qualche giorno, per la miseria! E potresti dirgli di essere il
suo migliore amico, che so, la persona che lo conosce meglio, non
sarebbe neppure una bugia, in fondo. Non ti sto chiedendo di ignorarlo
o fingere di non conoscerlo. –
- Ah, no?
Peccato, sono bravo a questo gioco! Ci gioco da anni, in effetti!
“Hai presente Colin Farrell, Jared?”
“Sì, di vista…”. –
mi accorsi di aver alzato notevolmente il tono della voce e cercai di
ricompormi. Feci un paio di passi in avanti, puntandogli il dito
contro. – So cosa vuol dire rimanere nell’ombra,
l’ho fatto ad ogni premiere, ad ogni premiazione, ad ogni
serata e ad ogni fottuto festival, ma non lo farò con lui.
Non mi nasconderò da Colin, Eamon, non so come tu possa
chiedermelo. –
Mi rivolse uno sguardo
rassegnato e abbattuto. – Io sto solo cercando di protegger
–
- Proteggerlo?
Da me? È da me che vuoi proteggerlo? – sentii le
lacrime salirmi agli occhi.
- Non
è assolutamente quello che –
Rita, Claudine e
Catherine uscirono in quel momento dalla stanza, interrompendoci. Colsi
al volo l’occasione, dribblando Eamon, e spingendo la porta,
prima che l’infermiera la richiudesse.
- Che fa? Non
può entrare adesso, deve riposare! – si
allarmò quella alla mia irruenza.
- Stia zitta,
mi dia due minuti. –
Passai oltre, non
preoccupandomi di nessuno. Ero così agitato che le mani mi
tremavano. Quando raggiunsi il letto, mi accorsi che Colin dormiva. Di
nuovo la posizione innaturale della notte precedente ed
un’espressione non propriamente rilassata sul volto. Aveva il
respiro leggermente pesante.
- Colin, ho
bisogno di parlare con te. – sussurrai a fior di labbra.
Gli sfiorai appena una
guancia, guardandolo. La mano mi tremava ancora e avevo una tremenda
voglia di gridare. Gli sorrisi e gli augurai la buonanotte, come se mi
potesse vedere o sentire, poi tornai verso la porta ed uscii,
dirigendomi lungo il corridoio, senza dire niente a nessuno.
- Jared!
–
Mi sentii chiamare da
Claudine, ma continuai ad andare dritto, percependo i loro occhi
puntati su di me finché non superai le porte scorrevoli.
Tornai a casa, ma non con loro.
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Capitolo 4 *** decisioni ***
Rieccomi!!
Ringrazio
di nuovo tutte le meravigliose lettrici che hanno speso preziosi minuti
del loro tempo per scrivere due righe.
Non
saprei come fare senza di voi, grazie davvero!
Questo
è decisamente uno dei miei capitoli preferiti e spero che
possa piacere anche a voi :)
Buona
lettura!
4.
Quando mi lasciai cadere sul divano della sala, erano ormai le 7
passate.
Avevo preso un taxi fuori dall’ospedale e, essendo
l’ora di punta, il viaggio era stato infinitamente lungo.
Avevo avvertito Shannon del mio ritorno e, trovando il telefono invaso
da decine di messaggi, ne avevo approfittato per chiamare Emma. Sapevo
che l’avrei tranquillizzata facendomi sentire di persona e
che sarebbe stato giusto dare un qualche segno di vita anche agli
altri, ma non ero proprio dell’umore per farlo.
Così, le avevo brevemente spiegato la situazione, con i vari
aggiornamenti, pregandola, però, come avevo già
fatto con mio fratello, di scusarmi con il resto della gruppo e di
informarli al posto mio.
Al momento non ero assolutamente in grado di avere contatti sociali di
alcun tipo, necessitavo di tempo per… beh, necessitavo di
tempo. Dovevo stare per conto mio.
Dopo averla salutata, mi ero accasciato sul sedile posteriore, con gli
occhi chiusi, sentendomi improvvisamente addosso tutta la spossatezza
della giornata. E la rabbia. Il nervosismo, la stizza,
l’offesa che la breva conversazione con Eamon mi avevano
lasciato.
Non ero uno stupido, mi rendevo conto che il bagaglio di informazioni
che Colin doveva recepire era spropositato e che alcune erano
d’importanza fondamentale, ma Cristo Santo, io ero una di
quelle! I figli, la famiglia, i film, la beneficienza, la vita sana e
pulita, d’accordo, ma io? Non meritavo forse un posto in
tutto questo? Perché fra le tante cose, io dovevo essere
l’elemento da sacrificare? Perché doveva sempre
finire in questo modo?
Non mi importava se dovesse essere per due giorni o un mese, non me lo
meritavo, non era giusto e, soprattutto, Colin non sarebbe mai stato
d’accordo. E non soltanto adesso, perché avevamo
deciso di fare quello che avevamo deciso di fare, sarebbe comunque
stato così, non l’avrebbe mai permesso se solo
fosse stato in sé.
Tutto questo mi feriva ancor più profondamente
perché veniva da Eamon. Proprio lui che ci aveva sempre
sostenuti ed incoraggiati, che era forse il membro della sua famiglia a
cui ero più vicino. Suo marito, Steven, era anche un mio
grande fan, da molto prima di incontrarmi, ed era una cosa su cui
scherzavamo sempre quando eravamo insieme. Non riuscivo a
farmene una ragione.
Voleva proteggerlo da me.
Con tutti i problemi, i casini in cui suo fratello si era ritrovato
negli ultimi dieci anni e che ora avrebbe dovuto affrontare ex novo,
ero forse io la minaccia più grande al suo equilibrio? Era
sapere che c’era un uomo, un disgraziato, un idiota che lo
amava e che aveva deciso di condividere la sua vita con lui?
Quei pensieri mi avevano accompagnato per tutto il tragitto, facendomi
arrivare a casa teso come la corda di un violino.
La grazia con cui mio fratello scendeva le scale era indescrivibile e
irripetibile, da sempre.
- Ehi! – esclamò, quando mi
finì praticamente addosso.
- Ehi. – risposi con poca enfasi dal divano.
- Wow, hai proprio una bella cera. –
- Grazie. – lo guardai con sarcasmo –
Infatti, per tua informazione, sto cercando di teletrasportarmi fino
alla mia camera. –
- Lascerò che tu lo faccia, dopo, ma adesso devi
mangiare qualcosa. Scommetto che non hai toccato cibo per tutto il
giorno. – scossi la testa, colto in fallo. –
Appunto. Vieni, di là c’è una gustosissima cena
vegana che ti aspetta! – perplesso, spalancai gli occhi.
– Tomo e Vicky sono passati e hanno preparato qualcosa,
piccolo impertinente… -
Mi tese la mano, incoraggiandomi con lo sguardo. L’afferrai
e, prima di spostarci in cucina, mi lasciai abbracciare stretto, in
quello che fu l’unico momento bello della giornata.
La cena era effettivamente buona e, a dir la verità, un vero
toccasana. Non me ne ero accorto, ma avevo una gran fame e soprattutto
un gran bisogno di energie. Se non altro, avevo molte più
forze per essere arrabbiato.
Avevo riassunto a mio fratello quelle ultime, caotiche, ore, dal
risveglio di Colin all’uscita di Eamon, cercando di
analizzare la situazione con più lucidità, ma
rendendomi conto, in fondo, di provare più paura che rabbia.
Ancora, tornato sul divano, continuavo a rivedere
l’espressione di Colin di quella mattina, persa e distante, e
non trovavo pace.
Quasi subito Shannon mi raggiunse con i due grandi bicchieri di
tè verde promessi.
- Ecco qua. – mi allungò il mio,
sedendosi sulla poltrona di fronte a me.
- Grazie. - gli sorrisi e ne presi un sorso
– Ah, era quello che mi serviva! –
Ne bevve un po’ anche lui, poi mi fissò,
deglutendo. – Che pensi di fare, adesso? –
Abbassai gli occhi sul bicchiere, giocando con la cannuccia.
– Non hai notato il mio tono indignato, mentre ti riferivo la
conversazione? –
- Sì, ma…pensaci, un attimo solo. Questa
è una cosa veramente strana, più unica che
rara… Potresti sfruttarla per, che so, farlo innamorare di
nuovo di te! – riportai lo sguardo su di lui, sbigottito.
– Sai, ti fingi un semi estraneo e –
- Shan… -
- Lo seduci! E lo riconquisti… -
cominciò a gesticolare allusivamente – Sesso
proibito! –
- Shan..! –
- Sesso clandestino e bollente in ospedale…questo
sì che aggiungerebbe un po’ di pepe alla vostra
altrimenti monotona relazione… -
- Shannon! La vuoi finire?! È tutto qui
l’aiuto che sai darmi? –
- Ok, va bene, d’accordo. Allora parliamo di cose
serie. – lo guardai, in attesa. – Forse dovresti
lasciar perdere, cogliere l’occasione per mollare tutto.
Riflettici, è un segno del destino. –
- Oh mio Dio… - sospirai, lasciandomi cadere contro
lo schienale.
- Dico davvero! Anni e anni e anni di melodrammatiche
vicende… Prendi, lascia, urla, picchia, bicchieri ridotti in
pezzi, baci, lacrime, promesse, crisi isteriche, vasi ridotti in pezzi,
fughe, sorprese, minacce, gelosie, interi. servizi. di piatti. ridotti
in pezzi e poi, così, decidete di cominciare a comportarvi
come persone normali,
progettate di vivere come persone normali,
di andarvene in giro come persone
normali e lui, che, diciamocelo, normale non
è proprio per niente, BAM! si schianta con la sua
macchina, facendo il coglione come ha sempre fatto finora. Fratellino,
il fato sta cercando di comunicarti qualcosa… -
Soddisfatto, si sistemò più comodamente sulla
poltrona. Io, per qualche motivo, rimasi immobile a fissarlo, con gli
occhi sgranati ed un’espressione allucinata. Se ne accorse.
- Jared? – mi guardò per qualche secondo,
poi si tirò in avanti, dispiaciuto. – Ok, Jay,
stavo scherzando… sono un cretino, non è stato
divertente. – mi poggiò una mano su un ginocchio.
– Scusami. –
Abbozzò un sorriso e io sospirai, passandomi le mani sul
viso, poi poggiandole sulle cosce che avevo incrociato sotto di me.
- È che mi sento uno schifo! Non sono preparato a
tutto questo, non so come affrontarlo… -
- E cosa vorresti fare, scusa?! – si mise composto e
continuò, con convinzione e franchezza. -
E’ il tuo uomo, è…l’amore
della tua vita. E che Dio mi perdoni per quello che sto per dire, ma
nessuno ha il diritto di mettersi in mezzo, di decidere per
voi. Nessun altro, Jay, sa cos’è meglio
per voi o può tentare di allontanarvi. Credimi…
Ci ho provato, ma non funziona! –
Sorrisi. Sorrisi sul serio e annuii.
- Mi dispiace, Shan, per quei 12 piatti di porcellana pregiata
che collezionavi. –
- Ah, figurati! Se non altro con uno lo prendesti in pieno, ne
è valsa la pena. Mi dispiace di più per il vaso
cinese, quello sì che era proprio un
bell’oggetto… -
Mi convinsi a salire in camera mia, subito dopo.
Avevo ancora un bel peso sullo stomaco, ma ero sicuro di ciò
che volevo fare: la mattina dopo, molto presto, sarei tornato in
ospedale, avrei parlato con Colin e gli avrei raccontato tutto.
Finché questa faccenda dell’amnesia fosse durata,
avremmo sopportato i vari disagi e inconvenienti, ma, almeno,
l’avremmo fatto insieme. Come tanti anni prima, con la
riabilitazione. Ero risoluto, al diavolo tutto quanto e tutti quanti.
Mi misi a letto, pronto a fissare il soffitto fino all’alba,
ma, inaspettatamente, pochi minuti dopo, dormivo come un bambino.
Mi svegliai con un fascio di luce intensa puntato dritto in
faccia. La stanza era completamente illuminata, il sole caldo e forte
che rifletteva i suoi raggi attraverso il vetro.
Sbattei ripetutamente le palpebre, infastidito da tanta e inaspettata
luce.
- Ma che cavolo, già a
quest’ora… - bofonchiai tra me.
Annaspai con un braccio fino al comodino, per controllare
l’ora sul blackberry. Il display
s’illuminò: 10:01. Lo avvicinai, mettendo meglio a
fuoco, ma il risultato non cambiò di una virgola. Le dieci?
Come era possibile, avevo messo la sveglia alle sette in punto! Le
dieci?!
- Cazzo, cazzo, cazzo! –
Fui in piedi in un nanosecondo, neanche fossi stato morso da una
tarantola. Aprii di corsa l’armadio, tirai fuori un paio di
jeans e una t-shirt puliti e per un attimo considerai di vestirmi ed
andarmene in fretta e furia, ma avevo seriamente bisogno di una doccia.
Riuscii comunque a prepararmi in un lampo, non solo domandandomi come
avesse potuto tradirmi in quel modo il mio affidabilissimo e amatissimo
cellulare, ma anche stupendomi di quanto effettivamente avessi dormito.
Se non altro, mi sentivo bello sveglio, pronto e reattivo.
Volai giù per le scale, chiamando a gran voce Shannon.
- Buongiorno! – lo trovai ad aspettarmi in fondo
alla rampa, con il sorriso sulle labbra.
- Sì, buongiorno… Sono in un ritardo
mostruoso, Shan, non ne hai idea… Perché non mi
hai svegliato?- mi affrettai in cucina.
- Ti ha fatto bene riposarti, ne avevi sicuramente parecchio
bisogno. – lo sentii rispondere dalla sala.
Aprii il frigo, alla ricerca del frullato di carota e mango, il mio
indispensabile attivatore di energie mattutine.
- La sveglia del BB non è suonata. Non capisco come
sia possibile, non è mai successo prima. – gridai
mentre spostavo un paio di bottiglie di vetro, non trovando quella che
mi interessava. – Shan, dov’è il mio
frullato? –
- L’hai finito l’altra sera, non ti
ricordi? E io non ho osato rifartelo, visto che non ti va mai bene
quando ci provo! – mi urlò di rimando.
Sbuffai e diedi una veloce occhiata al contenuto del frigo. Non avevo
davvero tempo da perdere. Intravidi il tè avanzato dalla
sera prima in un angolo e decisi che poteva essere un buon sostituto,
ma, quando presi in mano la teiera, le mie dita urtarono un flaconcino
nascosto dietro ad essa. Confuso, lo presi in mano per capire cosa
fosse. Rimasi a guardarlo per qualche secondo, poi feci due
più due e tornai in sala come una furia.
- Shannon! –
Sobbalzò e si voltò verso di me. – Che
c’è? – mi chiese, accigliandosi al mio
tono.
- Mi hai messo queste nel tè, ieri sera? –
Sorpreso, guardò me e il piccolo flacone che tenevo in mano.
Rimase in silenzio, mordendosi il labbro inferiore.
- Oh mio dio! Mio Dio! Ma come ti è venuto in
mente? – strillai.
- Jay, senti, avevi –
- Come…tu…come… Mi hai
praticamente drogato! –
- Ma che dici?! Sono le gocce omeopatiche che ha lasciato qui
la mamma, te lo dice sempre di prenderle quando ti agiti troppo.
– lo guardai in cagnesco – Ti-ti ricordi quella
sera dopo il concerto e tutto, ti convincesti a provarle e dormisti
come un angioletto! –
- Mi prendi in giro?! –
- Jay, eri agitato
ieri e –
- Ma che c’entra! Ero agitato, sì, ero
agitato, d’accordo? Mi biasimi per questo?! –
cercò di parlare – No, no, stai zitto, stai zitto,
Shan! Io non ho parole…Mi hai drogato! –
- Oh, finiscila! Sono gocce omeopatiche, OMEOPATICHE! Ti
servivano per calmarti un po’, ma avresti fatto un sacco di
storie e non avresti acconsentito. –
- L’hai detto, non avrei acconsentito! E allora che
fai? Me le metti di nascosto nel tè? Come ai bambini?!
Cazzo, Shan, volevo essere in ospedale presto stamattina, volevo
parlare con Colin il prima possibile e invece, siccome sei un idiota,
ho dormito 12 ore! A questo punto, chissà quanto
avrà suonato la sveglia, si sarà fusa la
batteria, mentre io, dormivo
come un angioletto… -
- Non esagerare sempre, te ne ho messe pochissime.
Così poche che non pensavo nemmeno avrebbero fatto
effetto… -
- Ah, sì? E allora come ti spieghi che –
mi fermai, assalito da un dubbio – Shannon? –
- Sì? – mi rispose incerto, reso
titubante dal mio cambiamento improvviso.
- Non mi hai disattivato la sveglia, vero? – mi
sentii avvampare quando fece un impercettibile ma colpevolissimo passo
indietro, portandosi il pollice alla bocca. – Tu. Non sei
sgattaiolato in camera mia,
stanotte, e hai disattivato la mia sveglia, lasciandomi, deliberatamente,
alzare con tre ore di ritardo. Vero? –
Rimase in silenzio per qualche secondo, mordicchiandosi
l’unghia del suddetto pollice. – Io ho deliberatamente
fatto in modo che ti riposassi. –
Chiusi gli occhi e strinsi i pugni, tentando di trattenermi dal dire
cose che non avrei dovuto. Contai fino a cinque. –
Sei…tu sei –
- E che recuperassi le forze, così da evitare di
cascare per terra come un demente e non essere utile a nessuno!
– mi interruppe, assumendo pure l’atteggiamento di
chi la sa lunga.
- Shannon, tu sei…Io non ho…Mi hai drogato e sabotato,
Cristo santo! – non ci potevo credere!
- Non ricominciare, se solo tu fossi –
- Zitto! Stai zitto! Shhh!- lo avvertii- Io devo
veramente scappare, devo scappare, adesso, Shannon, ma
tornerò a casa prima o poi e giuro che te la farò
pagare…- presi le chiavi e il portafogli dal tavolo
– te la farò pagare cara, Shannon, non finisce
qui. – feci del mio meglio per assumere un’aria
minacciosa, lo guardai un’ultima volta e andai verso la porta.
- Mi ringrazierai, più tardi, - mi
arrivò la sua voce mentre uscivo – quando sarai
lucido abbastanza per fare tutto quello che devi fare oggi! –
M’infilai in macchina e partii come un razzo.
Ero così tanto indietro sulla mia tabella di marcia che mi
venne da piangere per il nervoso. Odiavo quando Shannon faceva
così. Dio, come lo odiavo!
Pretendeva di sapersi prendere cura di me quando io invece ero troppo
distratto o impedito da altro e mi trattava come se avessi ancora sei
anni. Sapevo che lo faceva in buona fede e, anzi, il più
delle volte aveva anche ragione, ma la cosa mi dava comunque fastidio.
Quel giorno in particolare.
Erano solo le dieci e mezza e già la giornata non stava
andando affatto secondo i miei piani.
Quando raggiunsi la stanza di Colin, trovai Claudine seduta vicino alla
porta, intenta a mescolare il suo caffè con una palettina.
La salutai, cogliendola di sorpresa, e lei appoggiò subito
il bicchierino accanto a sé e si alzò in piedi.
- Ciao! – mi sorrise, quasi con timidezza
– Temevo che tu… Insomma, Eamon ci ha detto...
–
- Ci sono novità? – volevo andare al sodo
e lasciar perdere il resto. Inoltre mi dispiaceva vederla
così imbarazzata.
- No, non granché. – scosse la testa,
cercando di scacciare l’amarezza. – Hanno
già fatto dei controlli e dicono che è tutto a
posto, ma per il resto – abbassò gli occhi
– per l’amnesia, intendo, è tutto
uguale. –
Deglutii. Non mi aspettavo niente di diverso, in fondo. Diedi
un’occhiata intorno, ma non c’era nessuno. - Gli
altri? –
- La mamma ed Eamon sono dentro, io sono uscita un attimo per
prendermi un caffè. Non ho fatto in tempo a fare colazione,
siamo arrivati molto presto. – “beata
lei”, pensai. – Stanotte è rimasto qui
papà, insieme a Catherine, ed ora sono a casa a riposare.
Ah, il dottor Ross ha detto che, se non ci saranno complicazioni,
stasera lo trasferiranno in neurologia, al piano di sopra, in una
stanza più piccola, ma con un altro lettino, così
chi vorrà rimanere la notte con lui non dovrà
spezzarsi la schiena su una sedia. – sorrise appena.
- Non si sa quanto dovrà rimanere qui? –
- No, per ora non si sono espressi al riguardo.
Però, intanto, nel primo pomeriggio avrà la prima
seduta con lo psicologo. –
- Ah, bene. – avevo la sensazione che mi guardasse
in modo strano. – Che c’è? –
Scosse velocemente la testa: - Niente. –
- Allora beviti il caffè, prima che si raffreddi.
– annuì e si chinò a prendere il
bicchiere, lentamente.
Si bagnò appena le labbra e posò di nuovo lo
sguardo su di me, titubante, come se volesse dirmi o chiedermi
qualcosa, ma non fosse sicura di fare la cosa giusta. Inarcai un
sopracciglio.
- È passata Alicja, prima. –
Ah, ecco. Ebbe tutta la mia attenzione, ma rimasi in silenzio.
- È rientrata con un po’ di anticipo da
Cracovia, ieri sera. Ha portato anche Henry. – aggiunse,
tentennando.
Non ottenendo da me altre reazioni, continuò: - I dottori,
però, hanno detto che è troppo presto, di
aspettare ancora un giorno o due per i bambini. –
- E lei? – non riuscii a trattenermi.
La soddisfazione che doveva aver provato quando, arrivata, si era
accorta che non c’ero, era probabilmente pari al sentimento
di profonda insopportazione che mi colse in quel momento. La mia era
certamente un’ossessione, ma potevo benissimo immaginare il
sorriso che non doveva esser riuscita a trattenere, avrei potuto
disegnarlo!
In ogni caso, mio fratello, adesso, era morto.
Claudine fece spallucce: - E’ rimasta dentro qualche minuto,
ma lui, ovviamente, a parte prendere atto di chi fosse, non ha potuto
fare altro. –
In quel momento, Rita sbucò dalla porta. Vedendomi si
aprì in un largo sorriso.
- Jared, buongiorno! –
Ricambiai.
- Sei riuscito a dormire qualche ora? –
chiese, sinceramente preoccupata.
- Sì, in effetti. E lei? –
- Ho avuto notti migliori…ma anche peggiori
– disse, con tenerezza. – La flebo è
finita e Colin ha fame. Devo sentire un’infermiera per sapere
se può mangiare qualcosa. Vieni con me, Claudine. Jared,
perché non entri, intanto. –
Se avessi avuto voglia di ridere, avrei trovato quasi divertente il
contrasto fra l’espressione gioviale di Rita e la
morsa che mi stringeva lo stomaco.
Non dissi nulla, annuii soltanto e oltrepassai la porta, chiudendomela
il più silenziosamente possibile alle spalle, le mani sudate
e fredde. Una piccola rientranza nascondeva l’ingresso al
resto della stanza ed io, ancora non visibile, decisi di prendermi
qualche secondo per acquisire una qualche parvenza di compostezza, ma
fui immediatamente distratto dalla voce di Colin.
- Secondo te tornerà l’infermiera di
prima? Aveva un che di decisamente interessante… e delle
tette enormi! –
- Non saprei, non ci ho fatto caso. –
borbottò Eamon.
- Lo so, è questo il tuo problema… -
- Sarà… -
- Se torna lei, dovresti uscire e lasciarci soli. –
- Certo, come no. -
- Eamon, non solo, a
quanto pare, non ho una moglie né uno straccio
di fidanzata, ma non sto neanche con nessuna delle due avvenenti mammine dei
miei…ehm…figli! Devo accertarmi subito di non
essere stato contagiato dai tuoi geni! –
- Colin, perché invece non te ne stai un
po’ zitto?! –
Sentii dei passi avvicinarsi.
- E dai, che ti costa andartene per cinque minuti..?
–
Ma Eamon non rispose, perché me lo ritrovai
all’improvviso davanti, intento a piegare un asciugamano. Si
fermò di colpo. – Jared…- disse invece,
e la sua espressione passò rapidamente dal sorpreso al
mortificato.
- Come? – sentii domandare Colin.
Feci l’unica cosa che, ormai, a quel punto, potessi fare:
superai Eamon e avanzai fino al letto.
Colin non aveva un brutto aspetto; era disteso, ma lo schienale
rialzato lo faceva sembrare meno “malato” e la
ferita sulla testa doveva essere stata medicata, la benda era nuova e
fissata ordinatamente. Aveva la barba leggermente sfatta
e i capelli spettinati. Oh no, non aveva per niente un brutto
aspetto.
Rispolverai i miei migliori trucchi da attore e sfoderai un enorme
sorriso. - Buongiorno! Come ti senti, oggi? –
Forse inizialmente stupito, mi sorrise a sua volta, genuinamente.
– Jared! Chiedevo giusto poco fa ad Eamon di te! –
- Ah sì? – lo guardai. Dovevo smetterla
di squadrarlo a quel modo.
- Sì, non sapevo più cosa –
un’infermiera, apparentemente quella in questione, fece il
suo ingresso, con una piccola sacca trasparente in mano, salutandoci
educatamente e catalizzando tutta l’attenzione di Colin.
– Ehi, bellezza! Bentornata! –
- Non so se sarà ancora felice di vedermi, ora che
le attaccherò un altro di questi. – disse,
avvicinandosi per sostituire la flebo terminata con quella nuova. Colin
mise il broncio. – Ma la buona notizia, signor Farrell,
è che è l’ultimo e da stasera proveremo
con qualcosa di un tantino più solido! –
- Andrà bene qualsiasi cosa, purché sia
tu a portarmela, dolcezza. – le strizzò un occhio.
Dio, avevo sempre detestato come riuscisse a buttare là
certe frasi banali senza mai scadere nel patetico o nel volgare, anzi,
sortendo esattamente l’effetto desiderato.
- E comunque, signor Farrell è mio padre o, non so,
forse anche mio fratello… - si voltò verso Eamon,
che alzò gli occhi al cielo – chiamano anche te
così, ormai? – poi, di nuovo alla ragazza,
offrendole il suo inconfondibile sguardo birichino – Io sono
solo Colin. –
- Lo so chi è lei, Colin, - gli
sorrise, finendo di sistemare la sacca e l’ago – e
spero che molto presto torni a saperlo anche lei. –
Ebbi l’impressione che mi rivolgesse un’occhiata di
imbarazzata complicità, ma comunque fu fuori dalla stanza in
un attimo.
- È per questa specie di grosso cerotto…
sembro il cugino irlandese di Frankenstein! – si
lamentò Colin. Dopodiché si rivolse a me: - Sei
d’accordo? Vieni, raccontami un po’ di cose!
Allora, com’è che quasi non ti conosco eppure sei
la prima persona che vedo appena riapro gli occhi? – mi
domandò, togliendosi dalla faccia l’espressione
concentrata del cacciatore ed indicandomi tranquillamente una sedia.
E, se tutto il resto non fosse stato sufficiente, bastò
quello a farmi cadere il mondo addosso.
La realizzazione mi colpì improvvisa, con uno schianto sordo
e prepotente. Eamon non stava cercando di proteggere suo fratello,
stava cercando di proteggere
me.
In tutti quegli anni, avevo sempre cercato le risposte ai miei dubbi
negli occhi di Colin. Nei momenti belli, come in quelli brutti, tutto
ciò che non poteva o non riusciva ad esprimere a
parole, l’avevo sempre trovato lì, in quei grandi
occhi nocciola che, al di là di ogni altra emozione, non mi
avevano mai negato il suo amore né nascosto il suo
desiderio. E adesso guardava me con il sincero coinvolgimento che si
prova verso un piacevole interlocutore, ma internamente cercando di
distogliersi dal principale interesse che gli occupava la mente.
Non scorgevo nei suoi occhi il minimo segno di quella
esclusività, di quella straordinaria forza che
relegava inesorabilmente in secondo piano chiunque, ogni qualvolta ci
trovassimo insieme. Quello che avevo davanti era il Colin di cui mi ero
innamorato, ma non era il
mio Colin.
Per diventarlo, avrebbe ancora dovuto vivere l’intima
vicinanza di sei mesi di riprese, la timidezza e
l’ingenuità delle prime carezze sotto il caldo
sole del Marocco, la paura di esporsi, quella di perdersi, lo sforzo
immane di lottare contro il proprio demone interiore, la
volontà di farcela, il timore di un mondo troppo grande e
spietato, il dolore di non poter tornare indietro, la disperata
sofferenza che segue la rassegnazione, la serena consapevolezza di chi
sa cosa vuole veramente, la gioia incontenibile che sopraggiunge alla
fine di un percorso che ti porta ben oltre il traguardo sperato.
Tutte queste cose avevano plasmato il mio Colin, ma
attualmente erano soltanto ricordi svaniti che non avevano lasciato
traccia. Di lui,
non c’era traccia.
E dirgli la verità, in quel momento, non sarebbe stata che
un’inutile imposizione per lui ed una straziante umiliazione
per me.
Era questo che Eamon cercava di risparmiarmi, da questo voleva
proteggermi.
Fu proprio il suo schiarirsi la voce a riportarmi alla
realtà. – Io vi lascio per un po’ da
soli così –
- No! – quasi gli gridai, ottenendo in cambio uno
sguardo allibito. – De-devo andarmene adesso. –
- Ma sei appena arrivato… Perché te ne
vai? – chiese confuso Colin.
Evitai di guardarlo mentre mi avvicinavo e gli poggiavo la mano
sinistra sul ginocchio coperto dal lenzuolo. Strinsi quasi
impercettibilmente.
- Perché ci sono migliaia di cose da fare che non
spariscono solo perché il tuo migliore amico ha battuto la
testa… -
Non so se riuscii effettivamente a inscenare il sorriso che mi ero
proposto, ma non vidi comunque la reazione di Colin perché
avevo ormai la vista completamente appannata dalle lacrime.
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Capitolo 5 *** alone ***
5.
Cercai di mantenere il controllo il più possibile
finché non misi piede fuori dalla stanza. Temetti per un
istante che il cuore mi esplodesse.
Individuai una porta socchiusa in fondo al corridoio e, senza pensare,
mi misi a correre in quella direzione, quasi travolgendo un malcapitato
finito sul mio percorso.
Chiusi la porta di quello che si rivelò un piccolo
sgabuzzino, pieno di scaffali contenenti detersivi e strumenti
necessari per le pulizie; l’aria odorava di sapone e
disinfettante. Mi appoggiai con le braccia ad un tavolinetto addossato
ad una parete: avevo la nausea, il respiro affannato e mi resi conto di
tremare come una foglia da capo a piedi. Il battito mi rimbombava
ritmicamente nelle orecchie, troppo veloce.
Un secondo dopo la porta si aprì ed entrò Eamon,
che si avvicinò senza dire una parola e tentò di
abbracciarmi. Mi divincolai debolmente e lui aumentò la
presa, fermo e rassicurante. – Vieni qui, – mi
sussurrò all’orecchio – vieni qui.
– Mi arresi e lasciai uscire un singhiozzo, poi un
altro e un altro ancora, finché non mi ritrovai a piangere
incontrollabilmente, aggrappandomi con i pugni alla camicia di Eamon.
Piansi per lo spavento, per il disappunto, per la rabbia accumulati in
quei giorni. Piansi per quel senso di abbandono che non mi coglieva
più da anni. Piansi per quanto tutto fosse dannatamente
ingiusto. E piansi per Colin, che mi mancava in modo disperato e che
avrebbe sofferto come un cane se mi avesse visto in quelle
condizioni. Piansi a lungo, sfogando con le lacrime tutta la
mia frustrazione.
Delusi Rita quando
rifiutai categoricamente di restare per il pranzo che aveva
già ordinato, ma non ero davvero in grado, per il momento,
di starmene intorno a Colin ed Eamon lo capì, frenando le
insistenze della madre. Avviandomi verso l’uscita, incrociai
Claudine, impegnata in mille telefonate per disdire i numerosi incontri
di suo fratello, previsti in quei giorni per la promozione di Total
Recall. Le feci un cenno di saluto che lei ricambiò,
inviandomi un bacio con la mano. Quando arrivai a casa, la trovai
deserta. Saggiamente, Shannon doveva aver trattenuto tutti quanti al
Lab. Molto saggiamente,
anche sé stesso.
C’era un silenzio completo e assolutamente
inusuale. Mi diressi in cucina ed aprii il frigo per prendere
un po’ d’acqua fresca. Lo stomaco
gorgogliò di protesta mentre rimisi a posto la bottiglia:
effettivamente non avevo mandato giù nulla dalla mattina.
Diedi un’occhiata agli avanzi della sera prima, ma il solo
pensiero di mangiare qualsiasi cosa non fece che aumentare quella
nausea che ancora non mi aveva mollato un minuto.
Però mandai un messaggio a Tomo, per ringraziarlo della cena
e rassicurarlo del fatto che fossi ancora vivo. Decisi poi di chiamare
mia madre, in vacanza in Messico con delle amiche, non potendo latitare
ancora per molto. Mentre aspettavo che rispondesse, mi chiesi se
Shannon l’avesse informata, ma non essendo stato tempestato
di telefonate, messaggi o minacce di morte, conclusi che avesse
lasciato che fossi io a farlo. Difatti la colsi totalmente di sorpresa
e mi occorse una mezzora abbondante per convincerla che non era affatto
necessario che tornasse, promettendo di avvertirla tempestivamente in
caso di novità e di tenerla regolarmente aggiornata sugli
sviluppi. Ovviamente, sorvolai sul fatto che Colin avesse appena una
vaga idea di chi fossi, altrimenti neanche il presidente degli Stati
Uniti l’avrebbe costretta a finirsi la vacanza.
Tornato finalmente solo con me stesso, mi affacciai nella sala
insonorizzata in cui mio fratello teneva e la sua batteria e si
esercitava per parecchie ore al giorno. Non era un luogo propriamente
professionale, come i vari locali del Lab, ma un piccolo ritaglio di
spazio solo per noi, nel cuore della casa, dove anch’io
conservavo molte delle mie chitarre. Più di una canzone
aveva preso forma lì, in effetti.
Mi balenò per un attimo nel cervello l’idea di
sedermi e strimpellare qualche corda, ma no, non era certamente un
giorno ispirato, quello. Richiusi la porta e mi ritirai in camera mia,
lasciandomi cadere sul letto.
Ero sfinito. Non ero in piedi che da poche ore, ma ero psicologicamente
e fisicamente a pezzi. Mi girai su un fianco e mi ritrovai a fissare il
lato di Colin. Sorrisi fra me, il lato di Colin.
Non eravamo mai sati una coppia normale, anzi, soprattutto nei primi
anni, non eravamo stati affatto una coppia, ma avevamo consolidato
un’abitudine saldamente radicata: quello a sinistra
era il suo lato del letto, il mio dava verso a finestra.
Io e Shannon ci eravamo potuti permettere quella casa con i compensi
del primo disco e il contratto con la casa discografica, con
l’aggiunta di un paio di buone entrate di miei film ad alto
budget. Vivevamo lì dal 2004 e nessuno era mai entrato nella
mia camera, a parte Colin. Per le avventure e gli incontri di una
notte, le stanze d’albergo di Los Angeles come delle svariate
città del mondo in cui mi ero ritrovato, andavano
più che bene.
Ma quello era il nostro
letto. E tale era rimasto anche in quel lungo anno e mezzo in cui
avevamo rotto, in cui non ci eravamo più visti e non
parlavamo. Avevo ripetutamente evitato ogni sua chiamata, vanificato i
suoi tentativi di entrare in contatto con me per mesi, ma non ero mai
riuscito a violare la nostra tacita consuetudine, nemmeno nei momenti
in cui più di ogni altra cosa avrei voluto ferirlo.E quando
eravamo tornati insieme, ormai quasi due anni prima, mi aveva fatto
capire di essermene molto grato.
Mi spostai lentamente dalla sua parte e mi abbracciai al cuscino,
scovando la sua maglietta grigia.
Negli ultimi tempi, aveva preso l’abitudine di lasciarcene
sempre una. In realtà, poi, non la indossava quasi mai, ma
periodicamente la cambiava e la ripiegava là sotto. La tirai
fuori e ci nascosi il volto, cercando invano di inspirare il suo odore.
Non so come mai, ma mi prese nuovamente un profondo sconforto e trovai,
da qualche parte dentro me stesso, un’ulteriore riserva di
lacrime a cui dare sfogo.
Mi indispettii, oltretutto, perché io non piangevo quasi
mai, ma più il fastidio cresceva, più mi era
impossibile trattenere i singhiozzi. Mi addormentai, così,
stretto alla stoffa ormai bagnata.
Quando mi svegliai, la stanza era avvolta dalla penombra. Notai che le
tende erano state tirate giù, per cui Shannon
doveva essere tornato. Mi stropicciai gli occhi e risistemai la
maglietta sotto il cuscino, poi, con una flemma disumana, mi tirai
giù dal letto e scesi al piano di sotto. Trovai mio fratello
spaparanzato sul divano, intento a guardarsi qualcosa su Mtv. Come si
fu accorto della mia presenza, scattò in piedi, spegnendo il
televisore.
- Ho un
po’ di fame. – dissi semplicemente.
Ci
arrangiammo a preparare qualcosa per cena. Gli accennai agli eventi
della mattinata e lo vidi restare di stucco, ma si rese conto che era
meglio non fare domande. Mangiammo per lo più in silenzio e
me ne tornai subito su, lasciandolo visibilmente preoccupato.
Non ero più tanto arrabbiato per la storia della sveglia,
volevo solo stare per conto mio. Mi dispiaceva comportarmi
così, ma ero sicuro che riusciva a capirmi e, comunque,
saperlo a pochi metri di distanza, mi dava sicurezza. Ne era ben
conscio anche lui, perché lo sentii armeggiare di sotto per
tutta la sera, ma non se ne andò mai.
Decisi di farmi un bel bagno. Rimasi a sguazzo nella vasca per quasi
un’ora, cercando di svuotare la mente e non pensare a niente.
Controllai i messaggi sul cellulare, trovandone un centinaio, ma non
scrivendo a nessuno, se non un semplice smile alla risposta di prima di
Tomo.
Anche Eamon mi aveva inviato un sms : “Trasferito nel reparto
di neurologia, stanza 31. Stasera resta la mamma. Ti aspettiamo domani,
riposati. Per qualunque cosa, hai tutti i numeri dove trovarci.
Buonanotte, un abbraccio”.
Mi immersi completamente un’ultima volta, poi uscii
dall’acqua, mi asciugai appena e accesi a basso volume lo
stereo. Affondai nel letto, totalmente nudo, recuperai la t-shirt di
Colin e indossai solo quella. Mi stava grande, come quasi tutti i suoi
indumenti, ma me la sentivo bene addosso. Realizzai mestamente che
quello era l’unico modo che avevo a disposizione per sentirlo
vicino, nient’altro. E chi lo sapeva per quanto tempo sarebbe
stato così.
Magari il giorno dopo sarebbe stato un giorno migliore. Con questo
pensiero in testa, rimasi sveglio a fissare il soffitto fin quasi
all’alba.
La mattina seguente la
sveglia finalmente suonò e suonò alle 7.30.
Avevo dormito appena tre ore, ma mi alzai comunque e presi a
prepararmi. Solo dopo diverso tempo mi accorsi di star facendo tutto
con una calma eccessiva, di muovermi con una lentezza esasperante. Mi
sentivo come se non vedessi l’ora di uscire ed arrivare in
ospedale, ma allo stesso tempo come se volessi trattenermi a casa il
più possibile. Ogni minuto perso a tirare i pantaloni per
togliere le eventuali pieghe, a sistemare i lacci delle scarpe nel modo
più idoneo, a pettinare indietro i capelli per chiuderli
nell’elastico, mi separava da quella che si apprestava ad
essere quasi certamente un’altra giornata dolorosamente
difficile.
Alla fine mi decisi a scendere in cucina per sgranocchiare qualcosa.
Per poco non sobbalzai quando trovai mio fratello seduto al tavolo,
appoggiato con la testa sul gomito destro, mezzo addormentato.
- Shannon!
Che ci fai alzato a quest’ora?? –
Si riscosse subito,
confuso, poi mi sorrise. – Volevo essere sicuro che stessi
bene. – mi guardò con gli occhi stanchi, doveva
avere un sonno tremendo.
- Sto bene.
– cercai di rassicurarlo.
- Avevo
calcolato che saresti sceso più o meno a
quest’ora… - si controllò
l’orologio al polso – beh, un po’ prima
per la verità, comunque ho preparato il caffè e
ti ho preso i biscotti, se ne hai voglia. –
Si diresse verso il
banco della cucina e tornò indietro con un vassoio contente
la caraffa fumante e un piattino pieno di vari tipi di biscotti, tutti
integrali, quelli che lui detestava. Si fermò un attimo,
guardandomi:
- Ci sono
anche diversi succhi di frutta, se preferisci. –
Non riuscii a
trattenere un sorriso davanti al suo tenero tentativo di accudirmi, ma
mi ripresi in fretta.
- Non so se
voglio davvero fidarmi di qualcosa preparato da te, Shan…
forse dovrei controllare personalmente tutto ciò che mi
finisce nello stomaco. – inarcai le sopracciglia, ma non ero
completamente serio e se ne accorse.
- D’accordo.
– sbuffò leggermente, poggiando il vassoio.
– Jay, mi dispiace per ieri mattina, forse non avrei dovuto
farlo, ma, come vedi, stamane sei in piedi, in orario, e io ti propongo
solo una colazione… vengo disarmato e in pace! –
tornò a sedersi e mi indicò la sedia di fronte
alla sua con un cenno del capo. – Avanti, prometto solennemente
che non interferirò più nelle tue cose e non
prenderò più decisioni che ti riguardino senza
averti consultato. –
Mi scappò
una risatina e feci per sedermi, quando suonò il campanello.
Guardai accigliato mio fratello.
- Chi cavolo
è a quest’ora? – ma lui mi
rimandò uno sguardo incerto. – Rimani seduto, vado
a vedere io. –
Quando arrivai presso
la porta e udii dei colpi leggeri contro di essa, mi fermai, spiazzato,
per qualche secondo. Pochissime persone conoscevano il modo di superare
il cancello esterno all’abitazione e raggiungere direttamente
l’ingresso principale.
Aprendo e trovandomi davanti il suo grande sorriso, restai ancor
più sbalordito.
- Ehilà?
Terra chiama Jared… -
- Che-che ci
fai tu qui?! Non stavi lavorando dall’altra parte
dell’America? –
- Sai,
è per questo che esistono gli aerei, per spostarsi
velocemente! – mi rivolse un’occhiata sarcastica.
– Mi ha chiamato Shannon, allarmatissimo, ieri. Ho chiesto
due giorni di pausa al regista, ne ho ottenuti uno e mezzo e Da-Da!!,
eccomi qua..! – allargò le braccia attorno a
sé.
Mi voltai verso mio
fratello, che nel frattempo mi aveva raggiunto, pochi passi indietro, e
lo fulminai con gli occhi.
- Lo so cosa
stai pensando, – si difese, mettendo le mani avanti
– ma non avevo ancora promesso nulla ieri sera…
Prometto solennemente a partire da adesso.
–
Ritornai sulla ragazza
che avevo davanti, che adesso mi guardava con un’espressione
molto più seria.
- Perché
non me l’hai detto subito? –
Provai
l’impulso irrefrenabile di abbracciarla e lo feci.
- Perché sono un idiota – le sussurrai, sentendo
le sue braccia stringermi forte sulla schiena. – Sono
contento che tu sia qui, Rosario.
Eccomi
qua, in fondo questa volta!
Lo
so, è un capitolo un po' breve e noioso, di transizione, ma
quando l'ho scritto mi sembrava indispensabile!
Se
non altro arriva Rosario, che, sì, è Rosario
Dawson!
Non
compare quasi mai nelle storie di questo fandom, ma a me piace, molto
più delle persone di cui si circonda oggi Jared,
così
ho colto l'occasione per metterla in mezzo... Spero vi
piacerà!
Ringrazio
ancora una volta tutti coloro che hanno recensito e vorranno farlo di
nuovo
ed
anche chi ha inserito la storia fra le seguite. Grazie di cuore :)
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Capitolo 6 *** un inizio ***
6.
Assaggiai il mio caffè ormai tiepido mentre Shannon porgeva
il vassoio con i biscotti a Rosario, seduta sulla poltrona di fronte al
divano.
Ne prese uno e ne morse un’estremità, levando poi
lo sguardo su di noi.
- Allora, raccontatemi per bene com’è
andata. –
Le riferii nel dettaglio tutti gli eventi degli ultimi giorni,
spiegandole la condizione clinica di Colin, in particolare i problemi
legati all’amnesia. Senza scendere troppo nello specifico, le
parlai anche della mia decisione di tenergli momentaneamente nascosta
la vera natura della nostra relazione, rendendomi conto dal suo
atteggiamento che mio fratello doveva avergliene già fatto
cenno.
- Tutto questo è assurdo. – disse
solamente, lasciando uscire un respiro profondo e mordicchiando
distrattamente il solito biscotto.
- Non dirlo a me. –
La vidi perdersi nei suoi pensieri.
Non avevo avuto bisogno di descriverle il mio stato d’animo
durante le spiegazioni, sapevo benissimo che era in grado di capire da
sola.
Rosario era senza ombra di dubbio la mia migliore amica. Una di quelle
pochissime persone a cui non potevo nascondere niente, in primo luogo
me stesso.
E come tutto ciò che amavo di più, la custodivo
come un dono privato e personale, proteggendo gelosamente il nostro
rapporto da ogni indiscrezione e interferenza esterne. Soltanto una
ristretta cerchia di amici e conoscenti era al corrente di quanto
legati fossimo in realtà.
Avevamo fatto subito amicizia sul set di Alexander; ero stato
conquistato dal suo senso dell’umorismo e dal suo modo
scanzonato eppure rigoroso di prendere la vita. Con Colin, invece, era
tutta un’altra storia.
Per un qualche astruso motivo, gli era sembrato divertente che ad
interpretare Roxane
fosse qualcuno chiamato Rosario,
così trovò incredibilmente appropriato
abbreviarle il nome in Roxy. Ovviamente, era un soprannome che lei non
sopportava e, ovviamente, fu il modo in cui ci ritrovammo tutti a
chiamarla entro la fine delle riprese. Oramai era Roxy anche per la sua
famiglia. Comunque, lei era stata la prima a sapere di noi e dello
strano rapporto che avevamo instaurato sul set, coprendoci
quando necessario e comportandosi opportunamente se il caso lo
richiedeva.
Non è che lei e Colin non andassero proprio
d’accordo, ma adoravano punzecchiarsi. Una volta terminato il
film, nessuno dei due aveva immaginato di dover continuare a
frequentarsi, ma con Colin era andata come era andata e con Rosario era
nato un legame così forte che non ci era mai venuto in mente
di perderci di vista, così, volenti o nolenti, avevano
accettato di convivere l’un con l’altro di tanto in
tanto. Non era facile, poteva essere estenuante, certe volte, trovarsi
in mezzo e sentirli discutere per qualsiasi cosa. Potevano litigare
anche sul colore dell’aria, se erano dell’umore
giusto. Rosario non perdeva mai l’occasione per dargli
fastidio: lo prendeva in giro per l’alone da macho che si
portava dietro, per il suo accento irlandese, per il modo buffo che
aveva sempre avuto di intrecciarsi da solo nei discorsi e mandare tutti
in confusione. Ma se per caso qualcuno si provava a dire una mezza
parola fuori posto su di lui, era la fine. Solo lei poteva criticarlo,
per gli altri, doveva essere perfetto.
Colin, dal canto suo, era insofferente ad ogni sua iniziativa, ogni sua
proposta, le rifilava battutine acide e sarcastiche ogni qualvolta lei
aprisse bocca. Eppure, se non aveva sue notizie per un periodo di tempo
superiore alla media, non mancava mai di chiedermi con falso
disinteresse cosa facesse o dove fosse. Avevano in realtà
molte cose in comune per essere buoni amici e le poche occasioni in cui
erano riusciti a distrarsi dall’idea che si erano fatti di
doversi per forza dare addosso, lo avevano dimostrato. Non
l’avrebbero ammesso nemmeno sotto tortura, ma si volevano un
gran bene.
- Stavi andando in ospedale, adesso? –
Le parole di Rosario mi riscossero dalle mie riflessioni, ma non le
afferrai bene e rimasi a fissarla confuso.
- Sì, stava uscendo. – rispose Shannon
per me.
- Che ne dici se mi facessi una doccia veloce e venissi con
te? –
Ci pensai un secondo, ma non mi parve che una buona idea.
Lei aveva il carattere e l’atteggiamento perfetto per rompere
il ghiaccio che mi separava da Colin in quel momento.
- Certo. Ti aspetto qui, appena sei pronta andiamo. –
Il caldo di quei giorni continuava ad essere insopportabile. Come
oltrepassammo l’entrata dell’ospedale, mi
fermai un attimo per passarmi un braccio sulla fronte ed asciugare il
sudore.
Stavo per sfilare di tasca il cellulare per ricercare il messaggio in
cui Eamon mi indicava la nuova stanza di Colin, quando Rosario
richiamò la mia attenzione con un cenno del capo. Seguii il
suo sguardo e vidi Alicja spuntare dalle scale in fondo al corridoio,
il piccolo Henry fra le braccia.
Non appena anche lei si fu resa conto della nostra presenza, ebbe
un secondo di esitazione, ma riprese a camminare nella nostra
direzione. A pochi metri da noi, il bambino mi
riconobbe e mi gettò contro le sue braccine, sorridendo
gioiosamente. D’istinto allungai un braccio a mia volta, ma
Alicja continuò a diritto, superandomi senza degnarmi di uno
sguardo. Mi voltai, sentendo la vocina del piccolo
cinguettare “Jay, Jay!”, e lo vidi aggrappato al
collo della madre, che si sporgeva in avanti, agitandosi, con
un’espressione sempre più delusa.
Mi si strinse il cuore, ma non potei fare altro che regalargli un
grande sorriso e salutarlo con entrambe le mani. Quando tornai con lo
sguardo su Rosario, la trovai sconsolata.
- Se non altro sappiamo che la direzione è quella.
– indicò le scale e si avviò.
Annuii e le andai dietro. Ero furioso.
La nuova stanza si trovava nel braccio più breve di un
corridoio diviso in due parti disuguali dalla corsia principale.
C’erano solo due porte sul lato destro ed una fila di sedie
nere sull’altro. Su queste erano seduti Eamon e suo padre. Li
salutai, il secondo in particolare, non avendo ancora avuto modo di
incrociarlo.
Ci avevo parlato solo un paio di volte nel corso degli anni e sapevo
che il suo rapporto con i figli era un po’ complicato, ma mi
aveva sempre fatto una buona impressione. Forse perché
riuscivo a scorgere molto di Colin in lui, nelle increspature del
volto, nella profondità dello sguardo, perfino nel tono
della voce.
Presentai loro Rosario, assicurando che fosse un’amica
fidata. Grazie al cielo la notizia dell’incidente non era
ancora trapelata, il che permetteva di muoversi con maggior
tranquillità, specialmente a me.
Mentre Rosario affascinava il signor Farrell, tirai da una parte Eamon.
- Ho visto… l’ho vista per le
scale, mentre salivo. – gli dissi secco.
- Alicja? Sì, è tornata molto presto,
verso le 9… non so che dirti, non aveva avvertito. Voleva
far vedere il bambino a Colin. –
- Ah sì? E com’è andata? Quanto
è rimasta con lui? –
- Poco, credo. Siamo stati dentro anche noi per un
po’, Cathy non è mai uscita. Purtroppo non
è servito a niente, vedrai che non tornerà
finché Colin resterà qui. L’ha
sconsigliato anche il dottor Newton. –
- Sì, ma… è solo
che… io vorrei… - la frustrazione mi mangiava le
parole mentre Eamon mi guardava contrito. – Lascia stare, ne
parliamo dopo. Sta bene? –
Annuì: – Un po’ stordito, ma sta bene.
–
- Ok… - rimasi assorto qualche secondo, poi mi
rivolsi verso Rosario. – Io intanto vado, raggiungimi tra
cinque minuti. –
La porta si apriva direttamente verso il centro della stanza. Non era
grandissima, ma era fresca e luminosa, con una bella finestra subito
accanto all’ingresso del bagno. Trovai i due fratelli intenti
a scherzare su qualcosa. Come entrai, si voltarono verso di me e
Catherine mi sorrise.
- Ehi, Jared! Vieni! – si alzò, venendomi
incontro. – Stavo raccontando a Colin di quando ha scoperto
di essere allergico al cocco! –
Mentre ci abbracciammo mi sfuggì una risata. Me lo
ricordavo, quel disastro.
Ero volato in Irlanda per qualche giorno, durante l’estate, e
Rita mi aveva preparato una gigantesca torta al gelato di soia e cocco.
Colin, da ingordo qual è sempre stato, se n’era
fatta fuori una quantità spropositata e, poco prima di sera,
si era sentito male. Naturalmente, aveva inveito contro la mia soia -
“se tu mangiassi le cose che mangiano le persone
normali” - , ma quando i crampi allo stomaco si erano fatti
troppo forti, avevamo dovuto portarlo al pronto soccorso e i test
avevano rivelato l’intolleranza al cocco. Per di
più, si era riempito di fastidiose bollicine in tutto il
corpo, veramente in tutto
il corpo, che non se n’erano andate per quasi una settimana.
E così, quello era stato un breve soggiorno col bollino
verde, e le numerose imprecazioni di Colin a riguardo erano state forse
ancor più divertenti dell’allergia in
sé.
- Perché, è una storia che conosce anche
lui? – borbottò Colin, dal letto.
- Lui era lì, sciocco. –
Colin mi lanciò un’occhiata diffidente.
Avevo notato che la confidenza con cui sua sorella mi aveva accolto
l’aveva sorpreso. Probabilmente non doveva essersi fatto
un’idea troppo positiva di me, dopo che me l’ero
data a gambe in quel modo, il giorno prima.
Cercai di rimediare.
- Allora, oggi va meglio? – gli chiesi,
avvicinandomi a lui con un sorriso.
- Va come ieri. – continuò col suo piglio
ostinato.
Complimenti, Jared, sei
partito proprio con il piede giusto.
Mi morsi le labbra per un istante, poi inspirai lentamente e feci del
mio meglio per non distogliere il mio sguardo dal suo.
- Mi dispiace per come me ne sono andato ieri mattina. Avevo
davvero mille impegni, volevo ritagliarmi qualche minuto per vedere se
stavi bene, ma poi è stato troppo complicato. Mi rendo conto
che l’intera situazione debba essere difficile per te e che
io non mi trovi esattamente in cima alla lista dei tuoi pensieri al
momento, ma – esitai un attimo, senza staccare gli occhi dai
suoi – è difficile anche per me. Non
sono un membro della tua famiglia, in realtà non hai
praticamente idea di chi io sia, ma vorrei fare del mio meglio
perché tu possa fidarti di me. – mi fermai per
cercare le parole più adatte e lo vidi cominciare ad
ammorbidirsi. Mi umettai rapidamente le labbra prima di riprendere,
tentando di trasmettergli l’ autenticità di quanto
gli dicevo. – E’ difficile perché non
sono sicuro di come debba comportarmi per farti sentire a tuo agio.
Però sono qui e non me ne andrò più.
Sarò qui per tutto il tempo, se vorrai… - Dio, digli che lo ami e fagli
una serenata, mi diedi dell’idiota da solo,
sperando di non essermi sbilanciato troppo. - Insomma, se ti
farà piacere che ti tenga compagnia. –
Colin mi squadrò ancora per qualche secondo, poi,
finalmente, la tensione sembrò abbandonarlo:
- La mia famiglia non fa che spargere elogi nei tuoi
confronti. Qui tutti paiono essere innamorati di te! –
“Tranne te”, non potei impedirmi di constatare fra
me e lo stesso pensiero dovette attraversare la mente di Catherine, a
giudicare dalla malinconia che invase i suoi occhi, quando li incrociai.
- Immagino che dovrai avere pazienza con me, finché
le cose non torneranno a posto. – concluse, allargando appena
le braccia.
Avrei potuto giurare di aver colto un’aria di sfida nel suo
sguardo. Non sapeva chi stava mettendo alla prova, poverino. Non sapeva
che non me ne sarei andato per tutto l’oro del mondo.
- Ho anche portato con me qualcuno che voleva farti visita,
oggi! – esclamai soddisfatto, cercando di alleggerire il
clima e smorzare l’angoscia che mi stava soffocando.
Entrambi mi guardarono incuriositi.
- Gli avete accennato qualcosa dei suoi film? –
chiesi a Catherine.
- Sì sì, più o meno tutto.
– si rivolse verso il fratello. – Claudine, poi, ti
ha spiegato per bene, vero? –
Colin annuì per poi tornare con lo sguardo su di me.
- Ti hanno parlato di Alexander? – gli domandai,
forse più dolcemente di quanto avrei dovuto.
- Ehm, sì… a quanto pare ho scalato la
vetta dell’Olimpo di Hollywood..! -
abbozzò un sorriso imbarazzato, strofinandosi il
collo con una mano. – E’ lì che
siamo diventati amici tu ed io, no? –
Mi colse un po’ di sorpresa, ma gli sorrisi: -
Sì... sì, è così.
– mi riscossi da quegli occhi profondi che mi fissavano,
aspettando. - Comunque avevi una gran bella moglie in quel film, Alessandro,
– gli strizzai un occhio – ed ha continuato a
sopportarci per tutto questo tempo, Dio solo sa
perché… - mi guardò divertito,
aggrottando le sopracciglia.
Con un tempismo perfetto, Rosario bussò leggermente e
sbucò con la testa da dietro la porta.
- È permesso? – sorrise.
- Entra, stavo venendo a chiamarti! – la esortai a
farsi avanti con un gesto della mano. – Catherine,
lei è Rosario. Rosario, Catherine. – le presentai.
- Ciao, è un piacere conoscerti finalmente! – le
disse Rosario mentre le stringeva la mano.
- Scherzi?! – Catherine la guardava sbalordita.
– Il piacere è tutto mio! –
Rosario faceva spesso questo effetto alle persone, a tutti i tipi di
persone. Era alta e prosperosa, una bellezza genuina e
semplice, ma irresistibile. E aveva un temperamento forte, che
trasudava naturalmente da ogni poro. Avevo imparato col tempo che per
molti era un’impresa ardua staccarle gli occhi di dosso al
primo impatto. Per alcuni anche al secondo e al terzo.
Mi voltai verso Colin che,
chiaramente, la fissava con gli occhi spalancati e la
bocca aperta. Scossi la testa, rassegnato.
- Colin, lei è Rosario. Roxy, beh, lo
conosci… -
Prima che uno dei due potesse parlare, Catherine si congedò
per lasciarci a quelle che definì “le nostre
chiacchiere”.
Quando tornai con lo sguardo su di loro, li trovai che si studiavano. O
meglio, Rosario lo studiava, lui sembrava più che altro
concentrato su di una precisa parte anatomica.
- Beh, Colin, non vorrai mica dirmi che t’interessa
la mia scollatura? –
- Fra le altre cose… - le sorrise, lasciandola
sinceramente sorpresa. – Mi piace l’idea che siamo
amici. –
- Oh, anche a me! – la vidi riprendere sicurezza di
sé.
Continuarono a scambiarsi strane occhiate e stavo onestamente
cominciando a perdere la pazienza, deciso ad introdurre un qualche
argomento di conversazione, quando Rosario si avvicinò di
più al letto, sedendosi all’estremità
opposta rispetto a Colin.
Gli sorrise beffardamente, soddisfatta:
- Sai, tutte queste tue languide occhiatine ti si
ritorceranno meravigliosamente contro non appena tornerai in te. Non
vedo l’ora di rinfacciartele.–
Lui mosse ancora per qualche secondo lo sguardo su di lei,
assottigliando le palpebre, poi corrugò la fronte.
- Fumi, almeno? Non c’è una cane che si
decida a passarmi una sigaretta in questo posto. –
- Ho smesso qualche anno fa. Anche tu, se non ricordo male.
– lo guardò, sempre con un sorrisino ironico
stampato sulla faccia. – Mi piace veder riemergere
l’idiota colossale che c’è in te,
ultimamente mi ero quasi convinta che se ne fosse andato per sempre. E
invece guardati, un bel colpo in testa ed è di nuovo qui!
–
Colin rimase momentaneamente spiazzato, poi rise brevemente, ma di
gusto.
- Di’ un po’, c’è
parecchia confidenza tra noi, non è vero? –
Rosario gli fece cenno di sì, inclinando la testa verso
destra e arricciando le labbra.
- Quindi posso essere schietto con te..? – le
domandò e lei annuì. – Ci siamo
divertiti molto, tu ed io, durante le riprese, eh?! – le
ammiccò.
Roteai gli occhi. Avrei dovuto aspettarmela quella reazione.
Fu il turno di Rosario di ridere: - No, stallone, non in quel senso!
–
- Neanche una volta? Dietro una tenda? Una palma? Che so,
sotto un cammello? – le chiese con tono basso, ma scherzoso.
- No, spiacente. Eri troppo, come dire, impegnato in
altro… - gli sorrise divertita.
- Sono un professionista, - rispose lui compiaciuto
– sono certo di aver fatto del mio meglio per calarmi nei
panni di un personaggio di quel genere. –
- Oh, credimi, non avrei saputo usare parole più
appropriate di queste per… – trattenne una risata
– per descrivere le tue occupazioni durante i sei mesi di
riprese! – si voltò verso di me ormai ridendo e mi
sentii avvampare. - Non trovi anche tu, Jay, che si sia calato perfettamente?
–
Colin mi guardò, sbattendo confusamente gli occhi. Superai
il più rapidamente possibile la sorpresa e
l’imbarazzo e feci finta di nulla, ripromettendomi di farla
pagare alla mia amica appena fossimo stati da soli.
Presi una sedia e la sistemai vicino al letto, accomodandomi vicino a
Colin, di fronte a Rosario.
- Sì, è stato senza dubbio molto bravo, Roxy.
– marcai volutamente il nome e la guardai in modo
esplicativo, per farle intendere che non sarebbe finita lì.
- E dai con questo “Roxy”! Scusate se ve
lo dico, ma è un nomignolo del cavolo… -
- Ah! Non me lo dire, guarda! – rispose lei, dando
sfoggio delle sue migliori doti di attrice – me
l’ha appioppato anni fa un deficiente totale… -
Mi morsi la lingua per non ridere. Avevo avuto ragione, portare Rosario
con me era stata un’ottima idea. Intrattenne Colin per
più di un’ora con aneddoti, racconti, storie di
ogni genere. Gli parlò del film, della fatica di alcune
scene, della severità di Oliver, ma anche degli episodi
più divertenti ed improbabili del dietro le quinte.
Fortunatamente lo conosceva abbastanza per evitare di accennare
all’immensa delusione che le critiche alla pellicola gli
avevano procurato, la conseguente crisi personale che aveva vissuto.
Gli raccontò di tutte le cose assurde che ci era capitato di
fare insieme, dal viaggio in Turchia al week-end on the road tra i
monti del Wyoming, dai tre giorni che avevamo impiegato per rimbiancare
metà della sua casa dopo la rottura con il fidanzato
all’indigestione che si erano presi una sera a Roma, quando
mi avevano raggiunto per un concerto.
Io non avevo aggiunto che qualche dettaglio alle storie di Rosario,
standomene perlopiù ad ascoltare e a gustarmi le varie
espressioni di Colin, i segni impercettibili delle emozioni che si
susseguivano rapidamente sul suo volto, rigandogli di tanto in tanto la
fronte, colorandogli gli occhi con le tonalità dolci-amare
di momenti vissuti ma al momento sconosciuti. Averlo così
vicino e sentirlo ridere mi permise per un po’ di
cullarmi nell’illusione che niente fosse mai successo, che ci
trovassimo semplicemente insieme a scambiare quattro chiacchiere con
un’amica.
Fu Catherine a riportarmi con i piedi per terra quando si
affacciò dalla porta. Vedendoci di buon umore, si
fermò per un attimo e sorrise, piacevolmente colpita.
- Scusate se vi disturbo, ma ho visto che stanno preparando i
carrelli per il pranzo. –
- Di già? – le chiese Colin, con aria
lievemente delusa.
La sorella annuì.
- Stanno armeggiando in fondo al corridoio. Credo che saranno qui tra
poco, volevo solo avvertirvi. – disse, sempre sorridendo, ed
uscì.
- Bene, ti lasciamo al tuo pranzo! – esclamò
Rosario – Non sarebbe una cattiva idea neanche per noi, Jay,
che dici? –
- Hai ragione. – dissi a malincuore, facendo per
alzarmi dalla sedia.
Colin mi bloccò improvvisamente, stringendomi il gomito con
una mano.
- Tornate, dopo? –
Ci guardava, muovendo alternativamente i suoi occhioni colmi di
speranza tra me e Rosario.
Avrei voluto rispondergli, ma riuscii solo ad imbambolarmi sulle sue
dita poggiate sul mio braccio, in un movimento tanto banale quanto
inaspettato che mi aveva fatto correre un brivido lungo tutto la
schiena.
- Io sono in città solo per un giorno, devo
sbrigare diverse commissioni. – intervenne Roxy - E tu sei
stanco, signor Irlandese, anche se non te ne accorgi; non puoi passare
tutto il tempo a spettegolare con me! Ma Jared può restare
senza problemi. –
Mi prese alla sprovvista e la guardai senza dire niente. Sentii la
stretta sul gomito aumentare leggermente e mi voltai verso Colin, che
mi fissava pieno di aspettativa.
- Ce-certo…- mi schiarii la voce – quando
avrai fatto tornerò. –
Cercai di nascondergli per quanto possibile il mio turbamento e lui mi
si schiuse davanti in un sorriso sollevato. Se non altro, avevamo fatto
dei passi avanti.
- A dopo, allora… - mi disse contento, per poi
rivolgersi verso Rosario. – E’ stato bello, anzi,
entusiasmante, conoscerti! Beh, riconoscerti… insomma,
veder- che tu sia passata per parlare con me! – concluse un
po’ impacciato.
Mi accorsi in un secondo che la maschera di Rosario fece fatica a
rimanere su a quel punto.
- E’ stato bello, anzi, entusiasmante anche
per me..! – gli disse con tono giocoso, ma la voce
più smorzata di quanto avrebbe voluto.
Si chinò con delicatezza su di lui, visibilmente sorpreso, e
gli baciò teneramente la fronte: - Cerca di stare bene,
Colin… presto. –
Gli sorrise un’ultima volta e si alzò, andando
dritta verso la porta.
Io gli feci un segno di saluto con la mano e la seguii, udendo un
flebile “Ciao” alle nostre spalle.
Accompagnai Rosario fino al parcheggio e restammo in silenzio per tutto
il tragitto. La conoscevo fin troppo bene per non capire che aveva
bisogno di processare l’accaduto. Aveva fatto del suo meglio
dal momento in cui aveva posato gli occhi su Colin, ma ero certo che
trovarselo davanti in quel modo, su quel letto, gioviale, ma
inevitabilmente distante, l’aveva scossa parecchio. Ma era
incredibilmente forte ed aveva resistito senza far trapelare la minima
emozione, almeno fino alla fine. Quando raggiungemmo l’auto,
le passai le chiavi.
- Faccio un giro, cerco un paio di cose, magari passo un
attimo da casa mia. – mi disse distrattamente. –
Torno a prenderti in serata. –
- Certo, fai come preferisci. –
- Jared, non mi piace questa faccenda, devi dirgli la
verità. –
- Non avevo dubbi che la pensassi così, ma,
credimi, adesso non è il caso. – le spiegai con
calma.
- Ma non è giusto e finirai soltanto col farti del
male. Ancora. – mi guardò in un misto di
severità e costernazione.
- Me ne farei comunque, forse di più. –
Rimanemmo a fissarci per qualche secondo, poi lei sospirò.
- Cerca almeno di passare del tempo con lui. Ne avete bisogno
entrambi, anche se lui non lo sa. –
- D’accordo. – la rassicurai –
Ci vediamo stasera. –
Rosario annuì e s’infilò in macchina
senza aggiungere altro.
In un istante era già sparita ed io mi ritrovai di fronte
all’ingresso dell’ospedale, di nuovo solo.
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Capitolo 7 *** cominciando da noi ***
Buonasera
mie adorate!!
Sebbene
sommersa dagli esami, vi posto questo capitolo che spero tantissimo
possa piacervi, perché,
bene
o male, presenta il fulcro della storia, la direzione che mi sono
prefissata di darle.
Quindi,
se il risultato è bruttino, potrebbe essere un problema!
Spero
di non deludervi e di aver messo insieme qualcosa di piacevole ed
interessante :)
Ovviamente
apprezzo moltissimo tutti i commenti e i pareri che mi lasciate e, in
questo caso, saranno a dir poco fondamentali!
Vi
ringrazio in anticipo, anche solo per volermi dedicare un po' del
vostro tempo :)
Buona
lettura!
7.
La cucina delle mense ospedaliere non è certo rinomata per
la sua elevata qualità, ma la frutta è pur sempre
frutta.
Avevo accettato la proposta di Catherine e suo padre di unirmi a loro
per il pranzo e adesso me ne stavo seduto in un piccolo tavolo
all’estremità della grande sala, intento a
sbocconcellare i cubetti di melone ed anguria con cui avevo riempito un
bicchierone di carta. Mentre i due erano impegnati nel programmare gli
spostamenti e l’organizzazione per il resto della giornata,
io mi concessi un’analisi approssimativa
dell’ambiente circostante. C’erano persone ovunque
intorno a noi: in fila alla cassa, ai banconi a scegliere il cibo,
sedute ai tavolini; persone diversissime fra loro, vistosamente
appartenenti alle classi più disparate; persone in gruppi
fino a quattro o cinque individui, persone sole, piegate con il capo
sul loro piatto; persone piuttosto rilassate che chiacchieravano
spensieratamente fra loro e persone buie, silenziose, evidentemente
sospese alla sorte di qualcuno a loro caro. Un brusio di fondo,
continuo ed alienante, divideva gli uni dagli altri, ciascuno isolato
nella propria vicenda, ciascuno quasi ignaro della presenza altrui.
Ormai al termine del pranzo, fummo raggiunti da Eamon, che
occupò il posto libero accanto al mio.
- Vado
a prendere qualcosa anche per te? – gli chiese sua sorella,
ingoiando l’ultimo boccone.
- Oh,
no, grazie. Ho usufruito degli avanzi di Colin! – rispose
soddisfatto – Semolino e purè, una
delizia… -
- Vuoi
un po’ di cocomero? – proposi, avvicinandogli il
contenitore con i pochi pezzi rimasti.
- No,
no, grazie! Mi sono mangiato praticamente tutta la macedonia!
–
- Per
l’amor del cielo, Eamon, hai lasciato qualcosa a tuo
fratello? È lui che deve riprendere le forze, non tu!
– lo ammonì con aria rassegnata il padre.
- Non
preoccuparti, papà, ha l’appetito di un bue! Ha
tracannato tutto quello che gli andava. – disse divertito
– Ora dorme. –
- È
stata una mattinata piena. – rifletté Catherine.
- Sì,
prima Henry, poi…voi due – si voltò
verso di me, sorridendo. – Però era contento.
Esausto, ma contento! –
- Senti,
Eamon, - lo richiamò la sorella – io e
papà stavamo pensando di tornare un po’ a casa.
Tanto Colin lo sveglieranno direttamente quando arriva lo psicologo,
alle due. Torniamo più tardi con la mamma e
Claudine. Cercherò di convincere qualcuno a
lasciarci cenare tutti in stanza con lui, stasera! – disse
speranzosa. – Con te rimane Jared, no? –
Mi
guardò e io le annuii, rassicurandola. Avevo la
possibilità di passare del tempo con Colin, da solo,
perché sicuramente Eamon avrebbe trovato un scusa per
defilarsi. La prospettiva mi riempiva di euforia, certamente, ma anche
di timore. Soprattutto di timore.
Finché era rimasto qualcuno con me, oltre a lui, me
l’ero cavata, ma da solo… Che gli avrei detto? Che
idea si sarebbe fatto di me? Decisi che ci avrei pensato sul momento.
Avevo 40 anni e non mi ero mai intimidito di fronte a nessuno, non
potevo cominciare proprio adesso e proprio con Colin. Accidenti a lui!
Come se non me ne avesse già fatte passare
abbastanza…
- Allora
andiamo? – chiese Catherine, facendo per alzarsi con il suo
vassoio.
- Aspetta!
Facciamoci una partitina a carte, prima… - la
fermò suo padre.
Nella
frazione di un secondo, si ritrovò tre paia di occhi
spalancati puntati addosso.
- Che?!?
– mi scappò.
- E
dai, papà… adesso? – si
lamentò Catherine.
- Lo
sai bene che è il miglior modo di far passare il tempo e
distrarsi… - puntualizzò quello.
- D’accordo,
ma qui…e poi dove le troviamo le carte! – concluse
Eamon.
Svelto, il
signor Farrell infilò una mano nella tasca interna della
giacca, estraendone un mazzetto rilegato con un elastico, e fece
scorrere il suo sguardo compiaciuto tra di noi. Lo guardai sbalordito
ed ancor più sbalordito guardai Catherine quando
lasciò uscire un sospiro:
- E
va bene, ma solo una partita..! –
Eamon rise,
notando la mia espressione.
- Forse
non lo sai, ma in Irlanda si gioca sempre a carte! Si gioca per passare
il pomeriggio, quando si aspetta che sia pronta la cena, prima di
andare a letto… Si gioca ai matrimoni, ai funerali, ad ogni
tipo di festa! –
- Non
ti preoccupare, ti insegniamo in un minuto! – mi disse il
signor Farrell con fare rassicurante. – Dunque, -
passò le carte alla figlia, che cominciò a
mescolarle – io e Cathy da questa parte del tavolo siamo una
squadra, voi due, di là, l’altra. Praticamente, ci
sono solo tre regole fondamentali…
Incredibile
ma vero, mi appassionai al gioco. Era un gioco tipico irlandese,
stranissimo, ma relativamente semplice, e loro ci si infervoravano in
modo incredibile. Eamon ed io perdemmo la prima, la seconda ed anche la
terza partita, ma alla quarta ci presi la mano e li stracciammo
miseramente. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno mi sarei trovato
in una situazione del genere, a giocare a carte in una mensa
d’ospedale con il padre ed i fratelli di Colin,
l’avrei mandato dritto in manicomio, ma fu un momento
così sorprendentemente divertente e sereno che
l’ora di alzarsi e tornare ognuno ai propri programmi giunse
in un batter d’occhio.
- Aaaahhh…
- Eamon sbadigliò per l’ennesima volta, mentre
aspettavamo seduti sulle seggioline nere fuori dalla stanza di Colin.
– Appena Freud se ne va e tu entri, mi sistemo qui e mi
faccio un bel pisolino. –
- Scusa,
stenditi sul lettino della camera, che ci stai a fare sulla plastica
dura? – scossi la testa amaramente. – Se
è per me che lo fai, sei gentile, ma, davvero, non ha
importanza. –
- Non
è affatto per te, è per me! Vi lascio volentieri
la vostra privacy. L’ultima cosa di cui ho bisogno in questo
momento sono i tuoi sguardi struggenti e i suoi commenti sessisti. Dio,
se mi dice ancora una parola sulle tette procaci
dell’infermiera, giuro che gli tiro il collo e
festa finita. Qualunque cosa tu gli abbia fatto tanti anni fa in
Marocco, ti prego, entra là dentro e fagliela di nuovo,
perché non lo sopporto più! –
Scoppiai a
ridere.
- Non
mi basterebbero poche ore! Spero – mi portai una ciocca di
capelli dietro l’orecchio – spero che ci metta
molto meno a recuperare la memoria da solo. –
Eamon si
girò meglio dalla mia parte e annuì:
- Andrà
sicuramente così. - sorrise – Poi, già
che ci sono, pensavo di fermarmi a parlare un po’ con questo
psicologo… Voglio dire, ci sono cose che deve assolutamente
sapere e di cui Colin non può parlargli, semplicemente
perché le ignora lui stesso. –
- Giusto.
– non ci avevo riflettuto. – Altrimenti il lavoro
serve solo a metà. –
- Ne
approfitterò adesso. –
In quel
preciso istante il dottore uscì dalla porta.
- Ecco,
appunto, vai! – mi spinse, senza darmi modo di ribattere.
Feci appena
in tempo a fare un cenno di saluto all’uomo e non passare per
uno strambo maleducato che mi ritrovai dritto in mezzo alla stanza.
Colin, sul letto di fronte a me, mi guardava divertito.
- Ehi!
Hai messo il turbo per caso? –
- Ehm,
no… sono… credo di… - indicai la porta
dietro di me – sono inciampato. –
Gli sorrisi
imbarazzato. Cristo,
Jared, non farti prendere dal panico. Respira. Concentrati e respira.
- Sei stato
di parola! Bene, - mi fece segno di accomodarmi nel posto prima
occupato dallo psicologo – voglio assolutamente sapere come
finisce la storia del cavallo e dell’elefante! –
Aggrottai
le sopracciglia.
- Quella
che raccontava Rosario. Catherine ci ha interrotti. –
- Ah,
certo! - risi leggermente, spostando un po’ la
sedia e prendendo posto. – Anche se non è uno dei
tuoi momenti più gloriosi! -
Mi
scappò di nuovo da ridere e lui mi rimandò uno
sguardo perplesso.
- Comunque
mi dispiace, - ripresi - ma dovrai aspettare Roxy, perché io
ero da un’altra parte in quel frangente. –
Inclinò
appena la testa da un lato, assumendo un’aria incuriosita: -
E’ strano, tu sembri sempre esserci, in tutte le storie.
–
Deglutii,
non sapendo cosa dire. Doveva essere il sole, quel raggio di luce
chiarissima e calda che gli si posava su un lato del volto,
conferendogli un’immagine quasi onirica, ma per un attimo
rimasi imbambolato, incapace di togliergli gli occhi di
dosso.
Per la miseria, Jared, un
po’ di contegno.
- Beh,
ero… mi trovavo dall’altra parte del… -
balbettai qualcosa, cercando disperatamente un appiglio per cambiare
argomento. – Co- com’è andata- mi
schiarii la voce – col dottore, adesso? –
Cambiò
subito espressione, lasciandosi andare contro lo schienale del letto e
passandosi le mani sul volto.
- Mah…
ha voluto parlare di stamattina, di mio figlio. Mio figlio! –
si disse fra sé, come incredulo.
Lentamente,
però, la sua fronte si distese e gli angoli delle labbra si
tirarono su, ammorbidendogli i tratti del viso in una ritrovata
dolcezza.
- È
delizioso, però, non trovi? – mi chiese, e avrei
giurato di scorgere quasi un certo orgoglio nel suo tono. –
Un adorabile, vispissimo marmocchietto! –
- È
vero. – annuii, sorridendo.
Ed era vero
sul serio.
Non era stato facile all’inizio con Henry. Alicja era
un’ottima madre, irreprensibile in verità. Ma,
soprattutto per i primi tempi, aveva proibito a Colin di farmi avere il
minimo contatto con il bambino. Per punirlo e rendergli tutto
più difficile, ovviamente.
Pian piano le cose erano andate meglio, era diventata meno rigida ed io
avevo avuto modo di cominciare a conoscere il piccoletto, di passare
del tempo con lui, ogni tanto. E devo ammettere che le prime volte si
erano rivelate un vero strazio. Era stato come trovarsi davanti
l’emblema di tutte le mie paure. Quasi due anni di
sofferenza, dolore e panico concentrati e personificati in un
frugoletto che stava a malapena in piedi.
Henry era la prova vivente di quello che Colin mi aveva fatto, di come
aveva tradito la mia fiducia. Era una rievocazione costante di come mi
avesse spezzato il cuore. E, per un beffardo scherzo del destino, era
pure la fotocopia precisa di sua madre. Certamente lui non ne aveva la
minima colpa ed io avevo fatto del mio meglio per superare quel blocco.
Il fatto che fosse un bambino incantevole, poi, aveva facilitato di
molto il processo.
Cominciai a portargli qualcosa in regalo, ogni volta che tornavo da un
viaggio, come avevo sempre fatto con James. E lui saltellava e lanciava
gridolini emozionati non appena mi vedeva.
Riportai lo
sguardo su Colin e notai che mi stava scrutando con attenzione, gli
occhi socchiusi e un piglio concentrato. Cercai velocemente qualcosa da
dire, ma mi precedette.
- I
miei se ne sono tornati a casa? –
- Ehm,
sì. Ma torneranno in tempo per cena. Eamon è qui
fuori però e-
- Perfetto.
Speravo di poter passare un po’ di tempo da solo con te.
– disse con estrema naturalezza.
Probabilmente
i miei occhi si spalancarono tanto da fuoriuscire dalle orbite.
- La mia
famiglia è meravigliosa e non saprei cosa fare se non
fossero tutti qui con me in questo momento, ma non riesco a sentirmi
completamente a mio agio con loro intorno. Voglio dire, loro sono
così… sono così felici, capisci?
Sicuramente è la gioia di sapere che sto bene, insomma, sono
vivo, e si accontentano di questo; l’amnesia è un
qualcosa di spiacevole e fastidioso, ma è passeggero.
È secondario, per loro. Così mi girano attorno
sorridenti, accennandomi alcune cose essenziali che dovrei sapere,
riassumendomi fatti di qua, faccende di là e via
discorrendo. Magari si fingono un po’ più
ottimisti di quello che sono, ma di base, sono soddisfatti. –
fece una piccola pausa. – Tu, invece, - mi guardò
profondamente – tu sei diverso. Non fraintendermi, non dubito
che tu sia contento che io sia
fisicamente a posto, ma non fingi che vada tutto bene. O
almeno non sei bravo a farlo. –
Mi morsi il
labbro inferiore, sentendomi totalmente colto in fallo e francamente
sbigottito: - Colin, io… -
- No, non
è un’accusa. Io mi sento sollevato, adesso, con
te. Le cose non… - distolse lo sguardo dal mio e lo
puntò sulle sue mani, strette intorno al lenzuolo bianco.
– le cose non vanno bene per niente. Io non so chi sono. Mi
buttano addosso elenchi di film, anni di carriera, e soprattutto dei
figli. E’ stato… frustrante, questa mattina, con
quel bambino. E quell’inutile strizzacervelli ha continuato a
farmi stupide domande astratte, mentre tutto quello che avrei voluto
fare davvero era mettermi ad urlare. – tornò a
guardarmi, con gli occhi lucidi, ed io mi sentii un nodo insopportabile
alla gola. – La droga, poi la riabilitazione…
dicono che adesso adori passare il sabato sera in casa ed ami leggere
Confucio. Chi cazzo è Confucio?! Si comportano tutti come se
fosse un piccolo incidente di percorso, ma io non mi sento
così. Sono quasi tre giorni che non ho la minima idea di chi
io sia diventato e sono…sono terrorizzato. –
Riabbassò
gli occhi e d’istinto gli posai una mano sul polso.
Tornò a guardarmi, facendo scorrere confusamente lo sguardo
sul mio viso per qualche secondo.
- Non
lo so perché, ma tu mi hai inviato sensazioni diverse, ogni
volta che ti ho visto. È come se tu avvertissi profondamente
il peso di tutta questa situazione e, non riuscendo a nascondermelo, mi
costringi ad essere sincero; mi sembri l’unico che si senta
come mi sento io. Deluso e arrabbiato. – concluse,
fissandomi, cercando una conferma alle sue parole.
A quel
punto, probabilmente, stavo mordendo così forte il mio
povero labbro che doveva star sanguinando.
Ritrassi lentamente la mia mano e me la portai con l’altra
sul grembo, iniziando a giocherellarci nervosamente. Non sopportai
più di guardarlo in faccia e mi focalizzai sulla finestra,
alle sue spalle.
- Mi-mi
dispiace, Colin. Hai perfettamente ragione. Immagino sia
perché mi sento… - non trovavo le parole giuste.
“Solo, spaesato, fottutamente spaventato dall’idea
di perderti”, tutte effettivamente realistiche ma decisamente
inadatte. - …confuso e fuori posto.
Sei… - presi aria - sei il mio più caro
amico ed è strano che tu non ti ricordi chi sono. –
- Per
quel poco che mi ricordo, sei uno con una parlantina non indifferente.
Ma te ne stai sempre sulle tue e non dici niente. Anche stamattina, con
Rosario, te ne sei rimasto in silenzio per quasi tutto il tempo.
– fece un pausa, finché non riportai lo sguardo su
di lui. - È a me, che dispiace, Jared. Posso solo augurarmi
che tutto questo schifo finisca il prima possibile. –
Non ero
veramente in grado di reggere l’angoscia e la tensione nei
suoi occhi, così finii per fissarmi le mani. Provavo un
bisogno viscerale di abbracciarlo, di stringerlo forte e sfogarmi
insieme a lui, ma non mi parve per nulla appropriato.
- Ma
forse non è solo questo, forse c’è
qualcos’altro che ti turba. – lo sentii dire e il
suo tono risoluto mi distolse dall’intreccio che stavo
costruendo con le mie dita compulsivamente agitate.
- C’è
una malinconia troppo profonda nei tuoi occhi, come un velo
incorruttibile di angoscia. Non può essere solo per me.
C’è qualcosa in più, non è
vero? –
Quello mi
lasciò senza fiato e dovetti rialzare lo sguardo su di lui.
- No,
non c’è niente. – tentennai.
- Andiamo,
non sfruttare la mia situazione attuale per mentirmi. –
sorrise appena – Sono certo che normalmente potrei
smascherarti! Hai qualche problema in famiglia? Sul lavoro? –
Scossi
piano la testa: - No, davvero, non –
- Di
salute per caso? – continuò con fare indagatore,
poi si fermò di colpo, come folgorato. – Problemi
di cuore? –
Rimasi
spiazzato e impiegai qualche secondo di troppo per reagire.
- Ah,
lo sapevo! – disse, puntandomi l’indice contro. -
Ci sono sempre di mezzo le donne. –
Ah! Donne! Registrerei tutto
questo per fartelo rivedere al momento giusto.
- Ecco,
veramente… -
- Dai,
spara. Che ti è successo? –
Spalancai
gli occhi, allibito: - Cosa?? No, no, che spara. –
- Forza,
non è come se dovessi andare da qualche parte in un
imminente futuro. Ci ho dato, comunque, vero? –
Sospirai e
mi arresi. Tanto non sarebbe servito a nulla cercare di distoglierlo.
- Sì,
ci hai dato. Ma è una storia lunga e… complessa.
Lascia perdere. –
- Ed
io non ho forse tutto il tempo del mondo? – mi sorrise, come
per incoraggiarmi. – Se non mi trovassi in questo casino, me
ne parleresti in ogni caso, quindi… -
No, non dovrei farlo.
Perché se tu non fossi un idiota, sarei io a non trovarmi in
questo casino.
Ma questo non si poteva dire.
- È
una situazione particolare. Mi trovo un po’, ecco, in sospeso
con questa persona. –
- Vi
siete presi una pausa? –
- No,
per la verità è più… ma
sì, una sorta di pausa. Inaspettata. – mi chiesi
improvvisamente cosa stessi facendo.
Lui
aggrottò la fronte, pensieroso: - Uhm. Ed è lei
che se l’è voluta prendere, la pausa? –
Rimasi un
attimo interdetto.
- Sì.
No. Sono state più che altro le circostanze, direi.
– Ma che
cavolo hai in testa? – E, comunque, non
è una lei. –
Come mi
venne, non saprei proprio dirlo.
E, a mente fredda, non ho idea di dove volessi andare a parare o cosa
mi spingesse a raccontargli quelle cose. Mi ritrovai a parlare, in
maniera semplice e diretta, come era sempre stato con lui. Era assurdo,
ma assurdamente familiare.
- Oh.
– rimase un istante in silenzio, guardandomi stupito.
Mi lasciai
sfuggire un sorriso. C’era un non so che di ingenuo in lui,
soprattutto quando l’avevo conosciuto, che mi aveva sempre
fatto molta tenerezza. Mi sembrava di riavere davanti quel ragazzo
tanto sborone eppure tanto impacciato nel parlarmi di certi argomenti.
- Beh,
non cambia niente. – mi disse, poi. – Solo, non ci
avevo proprio pensato che tu… comunque… Anche
Eamon , sai…-
- Lo
so. –
Stava per
riprendere a parlare, quando si bloccò di botto,
l’espressione tutta un programma.
- Non
è Eamon il tuo… problema, vero?
–
Scoppiai a
ridere di gusto, mentre Colin mi fissava sconcertato, quasi
indispettito.
- No!
Scusa, scusa. – mi calmai – No, voglio bene a tuo
fratello, ma non in quel modo. –
Abbozzò
un sorriso incerto e annuì.
- È
da tanto che state insieme? –
- Quasi
nove anni. – rimase a bocca aperta – Sì,
ma te l’ho detto è più complicato di
così. È una faccenda un po’…
burrascosa, ecco. Per diversi mesi abbiamo anche interrotto ogni
rapporto. –
L’ultima
parte del mio discorso sembrò non interessarlo.
- Nove
anni sono una cazzo di eternità… -
continuò a fissarmi sbalordito. – E’ una
cosa seria, allora. –
Mi strinsi
nelle spalle, trovandola una constatazione stranamente ironica in quel
caso.
- Immagino
di sì. Sì, lo è. –
- E
adesso sei arrabbiato con lui per qualcosa che ti ha fatto? –
- No,
no, non mi ha esattamente fatto qualcosa… è una
sorta di momento di transizione. –
- Jared,
- mi lanciò un’occhiata allusiva – se
continui a darmi risposte così esaurienti, sarà
sempre più facile per me comprendere la situazione!
–
Sbuffai.
- Che
palla al piede che sei! Non vorrai sul serio che mi metta a sciorinarti
tutta questa storia da capo… Ne riparleremo. –
Cercai di
rifilargli la mia espressione più risoluta. Effettivamente,
non sapevo più cosa inventarmi.
Lui mi puntò ancora per alcuni istanti, visibilmente perso
in qualche elucubrazione sua personale.
- È
carino? – sputò fuori all’improvviso.
- Come?
– lo guardai confuso, non capendo cosa intendesse.
- Il
tuo… ragazzo… è di
bell’aspetto? No, perché, perdonami, tu sembri
appena salpato dall’isola di Robinson Crusoe, ma
là sotto, dietro a quel folto cespuglio, mi ricordi uno di
quegli idoli da poster per cui le mie sorelle sbavavano quando ero un
bambinetto. –
Colin aveva
un rapporto molto ambiguo con la mia barba. C’erano volte in
cui era lui stesso a pregarmi di lasciarla crescere, perché,
parole sue, “era perversamente eccitante”. Altre,
si rifiutava categoricamente di avvicinarsi se non mi fossi rasato fino
all’ultimo pelo.
Mi venne da ridere: quel giorno dovevamo trovarci, sebbene
inconsciamente, nella fase due.
- Che
c’è, la mia barba non è di tuo
gradimento? –
- Non
ti si addice, tutto qui. – mi rispose con la massima
semplicità.
Rimasi a
fissarlo, molto probabilmente con un sorriso beota stampato in faccia.
Con buona speranza, quella situazione avrebbe avuto durata breve,
altrimenti Colin si sarebbe convinto in poco tempo di avere a che fare
con un ritardato.
- Si
fa notare. – dissi dal nulla – Non è
niente male. –
Ricollegò
velocemente le mie parole alla sua domanda e mi sorrise soddisfatto.
Prima che potesse indagare oltre, fui salvato dall’ingresso
di Eamon. Ci informò di aver parlato con lo psicologo e che
la sua si era rivelata un’intuizione utile e felice; poi, si
accomodò sul lettino non distante dal fratello, dal lato
opposto al mio. Tentò di mettersi a dormire, ma Colin non
gli concesse un momento di tregua. Erano uno spettacolo, insieme, i due
fratelli, lo erano sempre stati.
Eamon alla fine si arrese e si dettero alla rievocazione di episodi
coloriti ed improbabili della loro infanzia. Colin, quelli, li
ricordava eccome e si mise tutto d’impegno
nell’espormeli come meglio poteva, gesticolando e trovando le
espressioni più idonee. Rideva e parlava con la foga e la
leggerezza di chi non ha nient’altro per la testa.
Fortunatamente, la maggior parte di quelle vicende le conoscevo
già, perché quasi tutto il tempo lo passai
distraendomi sulle sue labbra, sui suoi occhi, sulle curve arrotondate
delle sue guance mentre rideva. Su quell’espressione che
sembrava libera, sollevata.
Per un istante, mi parve sereno. E lo fui anch’io.
Intorno alle sei, Rosario mi
chiamò per sapere se poteva passare a prendermi. Erano circa
tre ore che stavo con Colin e non me ne sarei più andato.
Certamente la situazione era ancora strana e, certamente, era bizzarro
avere a che fare con il tipo sboccato e scapestrato di dieci anni
prima, ma era comunque meglio di nulla, comunque meglio degli ultimi
due giorni. Mi resi conto, però, che non potevo continuare a
fargli sostenere quel ritmo, che si stava pur sempre
riprendendo da un’operazione chirurgica non indifferente.
Sebbene a malincuore, salutai sia Eamon che lui, promettendogli di
tornare il mattino seguente.
Quando mi trovai sulla porta, mi voltai un’ultima volta,
prima di chiudermela alle spalle.
- E
comunque, riguardo alla storia del cavallo e dell’elefante, -
gli dissi, lasciando trapelare una lieve canzonatura –
è stata una caduta monumentale. Sei stato epico, anche nel
farti disarcionare! –
Scosse
leggermente la testa, concedendosi un largo sorriso compiaciuto.
Non appena
arrivai a casa, mi buttai sotto la doccia. Mentre Shannon e Rosario
decidevano cosa ordinare per cena, io rimasi a lungo a godermi gli
spruzzi d’acqua, rigorosamente tiepidi –
dell’elevata calura estiva non mi importava un piffero, non
mi farei mai una doccia fredda -, riorganizzando i pensieri sulla
giornata appena trascorsa.
Era stata intensa, specialmente l’ultima parte. Cavolo, se
quella non era stata surreale. Non avevo fatto nemmeno cenno a Rosario
di quella strampalata conversazione, non avrei saputo neppure cosa
dirle di preciso. Riflettendoci, mi sembrò quasi
un’allucinazione.
Di fatto, mi ero riempito di energia. Non avrei saputo spiegare
perché, ma quelle poche ore mi avevano dato
un’enorme carica, come restituito, in effetti senza un reale
motivo, una specie di rinnovato ottimismo. Energia, carica ed ottimismo
che, come raggiunsi i due in cucina, udendoli parlare fra di loro
riguardo la gravità della situazione fra me e Colin, mi
abbandonarono in un lampo.
Dopo cena riuscii a convincere mio fratello ad uscire. Non sarei mai
stato capace di distoglierlo dal ruolo di babysitter che si era imposto
in quei giorni, ma almeno potevo obbligarlo a prendersi una serata
libera, dato che non sarei rimasto solo. Dal momento in cui ero
rapidamente tornato ad essere giù di corda, volli andarmene
subito a dormire. Rosario, anche se un po’ perplessa, si
limitò a darmi la buonanotte e ritirarsi nella camera degli
ospiti che si era scelta.
Mi rendevo conto di quanto fosse irrazionale avercela con lei o con
Shannon, che stavano solo parlando fra di sé, obiettivamente
preoccupati, che cercavano di fare del loro meglio in quel marasma. Mi
svestii, indossando un completo da notte di lino, e mi avvicinai alla
finestra, facendo vagare distrattamente lo sguardo sul cortile interno.
Era ingiusto, ma non potevo farci niente. Detestavo
quell’orribile sensazione in cui ero ricaduto, quel senso di
impotenza, quel pessimismo dal quale ero riuscito ad emergere, anche se
solo per poco.
Rimasi affacciato a guardare il crepuscolo finché non si
spense definitivamente nel buio.
Di mettermi a letto, proprio non c’era verso, così
mi decisi a finirla di fare i capricci. Bussai alla camera di Rosario
ed entrai col suo permesso.
La trovai rannicchiata contro la testiera in pelle, nel suo top rosa
scuro, l’abat-jour accesa ed un libro aperto sulle ginocchia.
Non disse una parola, appoggiò il libro sul comodino e
spense la luce, sistemandosi a pancia in su sotto il lenzuolo.
Socchiusi la porta e mi stesi accanto a lei, nella stessa identica
posizione. Per un po’ rimanemmo immobili a fissare il
soffitto.
- Ti
ho sentito parlare con Shan, prima. – ruppi il silenzio, ma
senza muovermi di un millimetro. – Lo so che non ha senso, ma
finalmente oggi mi ero sentito meglio, e invece il tuo tono, quello che
vi siete detti… mi è ripiombato addosso questo
peso assurdo. – mi strofinai leggermente lo sterno.
- Jay,
io sono venuta qui per cercare di aiutarti. Ma tu non mi hai
praticamente detto niente di te, sto tentando di capire tutto da sola.
– voltò la testa verso di me, ma io rimasi fermo.
– Non è stato il massimo neanche per me, oggi, con
Colin. Mi dispiace se mi hai sentito dire qualcosa che ti ha turbato,
ma-
- No.
– mi girai a mia volta, incontrando il suo sguardo.
– Sei stata fantastica stamattina in ospedale. Sei stata
fantastica a venire qui. E sono io a dover rimanere con i piedi per
terra, nutrire false speranze renderebbe tutto ancora più
difficile di quanto già non sia. –
- A
volte fa paura esprimere i pensieri ad alta voce. Li rende reali e
fanno più male. – sussurrò.
Annuii ed
entrambi tornammo silenziosi per qualche minuto.
- C’è
una cosa che ti avrei detto la prossima settimana, appena fossi
rientrata da New York. –
Si
aggiustò meglio sul fianco, sostenendosi la testa con il
gomito.
- Cosa?
– mi guardò incuriosita.
Le avevo
fatto presente, nei mesi passati, che io e Colin stavamo prendendo in
considerazione l’idea di sistemarci, ma quando la decisione
era stata definitivamente maturata, lei era ancora a girare il suo
film, a migliaia di chilometri di distanza. Rosario sarebbe stata,
molto probabilmente, la più entusiasta di tutti nel sentire
la novità, erano secoli che ci spronava a
“tirare fuori le palle”.
Pochi anni prima, Colin se n’era venuto fuori col primo
tentativo di questo genere, ma io avevo chiesto del tempo; poi eravamo
stati sommersi dalla bufera di Alicja, ed ero certo che, se non fosse
stata seriamente preoccupata per la mia salute fisica e mentale,
Rosario mi avrebbe rinfacciato ogni santo giorno la mia insicurezza e
la mia cocciutaggine. In conclusione, non mi era parso giusto darle la
notizia per telefono ed avevo deciso di dirglielo non appena fosse
tornata. Era solo questione di poche settimane, del resto. Poco ma
sicuro, avrebbe acceso un cero alla Madonna!
E poi, beh, le cose erano andate come erano andate.
- Ah,
niente di che. Te lo dirò quando Colin si sarà
ripreso. –
- E
mi lasci così, ora?! – domandò
indignata.
Ridacchiai.
- Ti
odio, Jared, quando fai la Divah… - mi rimbeccò
con una punta di stizza, per poi girarsi sull’altro fianco,
dandomi la schiena.
Mi voltai
anch’io sul lato opposto, mettendomi comodo per tentare di
prendere sonno. Sorrisi fra me.
-
Buonanotte, Roxy. – le bisbigliai.
-
Buonanotte, Jay. -
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Capitolo 8 *** come tutto ebbe inizio ***
Buonasera
a tutte <3
Nonostante
l'abbia già fatto singolarmente, ringrazio di nuovo tutte le
meraviglie che mi hanno lasciato i loro splendidi commenti al capitolo
precedente,
che mi rendeva molto, molto nervosa..! E ringrazio anche chi ha
semplicemente letto e apprezzato :)
Continuo, con questo ottavo capitolo, la strada intrapresa con il
settimo, sperando di aver buttato giù qualcosa di buono!
In particolare, voglio approfittare per fare una dedica speciale alla
mia cara Seiten,
che mi auguro di poter tirare un pochino su di morale con quanto segue,
standole vicino nel mio piccolo in questo momento un po' difficile...
8.
Il mattino seguente lasciai Rosario all’aeroporto e mi
diressi direttamente in ospedale.
Mentre parcheggiavo,
mi arrivò un messaggio da parte di Kim: “Pensavo
di passare a salutare Colin tra un’oretta. Ti trovo
lì?”. Le risposi che ero appena arrivato e le
indicai come raggiungere la nuova stanza in neurologia.
Quando entrai dalla
porta, mi ritrovai davanti il letto vuoto e sfatto; poco più
in là, una scena alquanto bizzarra.
Colin era in piedi
accanto alla finestra, leggermente appoggiato con la schiena alla
parete, che gesticolava ad un’infermiera e a sua sorella,
entrambe ferme a braccia conserte, a qualche metro da lui.
- Ce la
faccio benissimo, non voglio storie, non sono mica handic –
mi vide e si interruppe, sorridendomi. – Ehi, Jared!
–
- Ehi!
– mi avvicinai.
Catherine
congiunse sonoramente le mani rivolgendo lo sguardo verso
l’alto.
- Dio sia
ringraziato! – poi, rivolta al fratello – Forza,
c’è Jared adesso, fila a letto e non discutere.
–
Gli si mise di fianco
e gli cinse la vita con un braccio, ringraziando e congedando
l’infermiera. Colin sbuffò, ma non fece
resistenza e si avviò con lei verso il letto.
- Posso dare
una mano? – chiesi. – Che stavate facendo,
comunque? –
- Le corse!
– Catherine mi rivolse uno sguardo di fuoco. –
Stamattina si è svegliato con ambizioni atletiche.
–
Lo aiutò ad
appoggiarsi e sedersi e lui mi guardò con la sua faccia da
monello.
- Durante i
controlli ho convinto il dottore a lasciarmi fare due passi. In
realtà intendevo il giardino o almeno il corridoio, ma sono
stato relegato qui. È un inizio però. –
mi spiegò risistemandosi sotto le coperte.
Catherine si
abbandonò ad un profondo sospiro: - Ci è
sgusciato da tutte le parti come un’anguilla. Non erano
queste le condizioni. – disse esasperata, lanciandogli
un’occhiataccia. – Vado giù a prendermi
qualcosa da mangiare e da leggere… Non sono nemmeno le dieci
e mi ha già sfiancata! –
Ed uscì,
scuotendo la testa.
Come la porta le si richiuse alle spalle, io e Colin ci guardammo e
scoppiammo a ridere.
- Sei
contento, almeno? – gli domandai, poi.
- Oh
sì, non ne potevo più… Ne ho anche
approfittato per guardarmi un po’ meglio allo specchio del
bagno. Sai, ci ero passato solo di sfuggita, perché, a dirla
tutta, avevo una gran paura di cosa avrei potuto trovare. Insomma, che
resti fra noi, ma sono tutti davvero invecchiati. Hai visto Eamon?
– continuò sgranando gli occhi – Se ci
fosse stato lui quando mi sono svegliato, giuro che non
l’avrei riconosciuto! Sì, proprio invecchiati
parecchio… - si accigliò un attimo. –
Tranne mio padre. Lui lo trovo bene, sempre uguale, addirittura
dimagrito. –
Lo guardai divertito:
- E..? Sei soddisfatto di quello che hai visto? –
- Sì,
- fece spallucce – non mi posso lamentare. Non ho mai portato
bene gli anni che avevo, quindi più o meno… Se
non altro ho i capelli! – esclamò bello allegro,
ma io gli rimandai uno sguardo confuso. – Beh, prima
dell’incidente, insomma, in quelli che sono i miei ricordi
prima dell’incidente, ero completamente pelato. Per
Daredevil, sai… -
- Ah, giusto!
Non ci avevo proprio pensato. – poi sghignazzai appena,
guardandolo di sottecchi. – Però ultimamente ne
hai persi un po’… -
- Cosa?!
– mi fissò tra l’offeso e lo sbalordito
– Non è vero! –
- Sì,
invece! – risi – Magari ora te li vedi
più lunghi e sei contento perché nella tua testa
eri pelato, ma la verità è che negli ultimi
due-tre anni ti si sono un pochino sfoltiti. E sarebbero già
pure brizzolati se non fossero tinti per il tuo ultimo film!
–
Continuò ad
osservarmi allibito per qualche secondo, mentre io cercavo di
trattenere le risate, finché, con aria di sufficienza,
buttò là:
- Scommetto
che il tuo amichetto ha la criniera di un leone. O no? –
Rimasi momentaneamente
interdetto, fin quando, dal suo sguardo malizioso, capii a cosa
alludesse. Ci mancava solo che ricominciasse con quella storia. Ma
di mattina ero bello fresco e concentrato, non mi sarei lasciato
abbindolare di nuovo.
- Ancora?!
Non hai niente di meglio a cui pensare? –
- No, in
effetti no. Lì ci sono tutti i dvd dei miei film,
– indicò una scatola marrone in un angolo dietro
al lettino – ma non sono proprio in vena. Credo che dopo i
miei mi porteranno un paio di album di foto, così mi stimolo
un po’ la memoria. Avevo pensato di dare
un’occhiata ad internet, ma Eamon dice che è
meglio evitare per ora, troppa roba tutta insieme. –
- Oh,
sì, ha ragione. C’è un ammasso di
informazioni, schifezze per la maggior parte. Prenditi prima un
po’ di tempo per ricostruirti i tuoi dati da solo o con chi
ti conosce veramente. –
- A
proposito, c’è un portatile là dentro,
insieme ai dvd. Santo Dio, la tecnologia ha fatto passi da gigante!
È lontano anni luce da quello che io chiamo computer. E i
cellulari! – cominciò a gesticolare, emozionato
– Mia sorella ne ha uno che praticamente è una
segretaria. Per non parlare di quegli aggeggi per sentire la musica.
–
Lo disse con
un’espressione tale che non potei trattenermi dal sorridere
divertito.
- Guarda.
– tirò fuori il suo lettore dal cassetto del
comodino alla sua sinistra – Ho chiesto di avere il mio walk
man e mi hanno portato questo. IPod, giusto? – annuii.
– Ci ha messo mezzora ieri sera, Claudine, prima di dormire,
a spiegarmi come si usa. Che poi ci stanno dentro tremila canzoni e
più della metà sono inascoltabili. –
- Beh, ci
sono dieci anni di novità musicali a cui non sei abituato.
– cercai di spiegargli.
- Dieci anni
di merdate
musicali! A parte una cartellina, qui, vedi, – mi avvicinai
di più – dove c’è tutta roba
che conosco, il resto è gente assurda. –
cominciò a scorrere l’elenco degli artisti.
– Rihanna, Beyonce… Ma poi gruppi inascoltabili
con nomi improponibili, come questo, ecco i “Black Eyed
Peas”… ah, o questo i “Thirty seconds to
Mars”… guarda, ho ben tre album di questi pseudo
musicisti rock con il cantante che strilla come un dannato. –
Se avessi avuto una
mazza da baseball in mano, non credo che sarei riuscito a impedirmi di
spaccargli la testa.
Lo sapevo. Lo sapevo.
Erano anni che si rifiutava di ascoltare le mie canzoni con la scusa
che non era piacevole sentirmi gridare insulti su insulti ovviamente
diretti contro di lui. O
troppo doloroso, a volte. Bugiardo patentato! In mille
occasioni mi aveva chiesto di suonargli qualcosa, ma non di mio.
“ Rifammi un pezzo di qualcuno, dai!”, diceva
sempre. Stava ben attento a tenersi gli album sull’
iPod, però, perché io avrei potuto controllare in
ogni istante.
Bastardo, traditore irlandese.
Lo sapevo.
- Ehi? Tutto
bene? –
Dovevo essermi perso
troppo a lungo nei mie pensieri. Riflettei se fare finta di niente, ma
col cavolo! Tanto prima o poi l’avrebbe scoperto.
- È
la mia band. – gli dissi piatto.
- Come,
scusa? – mi chiese, corrugando la fronte.
- I
“Thirty seconds to Mars” è la mia band.
L’abbiamo fondata io e mio fratello quattordici anni fa.
–
- Su-sul
serio? – s’irrigidì, muovendo
concitatamente gli occhi sul mio volto per capire se fosse la
verità. – Ma tu sei un attore… -
- Non recito
più da qualche anno, ormai; ho preferito dedicarmi soltanto
alla musica. – continuai con tono fermo.
Colin non smise di
fissarmi, sconcertato, per un’eternità, e pian
piano gli si tinsero le guance di un colorito roseo.
- Non
c’è alcuna possibilità che tu adesso mi
dica che mi stai prendendo per il culo? –
- No.
– scossi la testa. – Sei anche venuto a diversi dei
nostri concerti, in questi anni. Per la precisione, io sono quello che strilla come un dannato.
–
Se possibile,
arrossì ancora di più, ma non fece in tempo ad
aggiungere altro perché Catherine rientrò nella
stanza, accompagnata da Kim.
Fu un enorme piacere rivederla. La facemmo sedere sulla sedia accanto a
Colin, mentre io e Catherine ci sistemammo sul lettino, dal lato
opposto.
Aveva portato con sé due foto di James con il
papà, entrambe di quando il bimbo era ancora molto piccolo.
In una avrà avuto sì e no sei mesi, Colin portava
ancora al collo il ciondolo di Alexander. Kim gli parlò di
suo figlio, di tutto quello che le veniva in mente al riguardo.
Tentò di spiegargli al meglio le particolari condizioni
della sua malattia, che, a quanto pareva, a Colin era stata solo
accennata. Era lei, in effetti, la persona più indicata per
discuterne. Lo rassicurò sul fatto che James fosse comunque
un bambino estremamente felice, sorprendentemente combattivo e
meraviglioso da avere intorno. Impegnativo, ma una gioia continua per
loro e le loro famiglie.
Tirò fuori dalla borsa una cartellina azzurra e gli
mostrò alcuni disegni che James aveva fatto per lui in quei
giorni.
Ne presi uno anch’io e sorrisi. Era lo stile personalissimo e
inimitabile di Jimmy! In ciascuno erano rappresentati lui e il padre,
al mare, sul prato, in alcuni con Henry, in altri anche con la mamma.
Colin era visibilmente commosso.
Kim gli confidò che James smaniava per vederlo, ma le era
sembrato più opportuno non metterlo in mezzo a una
situazione un po’ troppo complessa per lui e aspettare che
potesse fargli visita a casa. Si augurava di trovare Colin
d’accordo e, naturalmente, fu così.
Poco prima di mezzogiorno, arrivarono anche papà e mamma
Farrell. Kim si intrattenne brevemente anche con loro, poi
salutò dolcemente Colin, promettendo di portare un bacio a
James, e se ne andò.
Io la accompagnai, mentre gli altri rimanevano in stanza per il pranzo,
e decisi di fermarmi a mangiare qualcosa con lei, alla tavola calda
subito fuori dall’ospedale. Al momento di salutarci, mi
lasciò tra le mani un altro disegno, un foglio tutto bianco
in cui James aveva ritratto se stesso, me e Colin, solo con una
striscia celeste di cielo ed una marrone di terra.
Al polso, però, sia io che lui, avevamo un
braccialetto di dimensioni sproporzionate, con tanti dadi colorati.
Voltando il foglio, trovai scritto, nella sua caratteristica grafia
disordinata, un grande “Grazie Jared”.
Mi trattenni ancora un
po’ nel piccolo locale, fortunatamente climatizzato,
chiamando prima Emma, poi mia madre. Scrissi a Rosario per accertarmi
che fosse rientrata in tempo sul set, passai velocemente dalla mia auto
per posare il disegno di James e tornai da Colin, quasi sicuro di
trovarlo già addormentato. In effetti era disteso,
tranquillo, ma appena sentì il rumore della porta,
aprì subito gli occhi. Suo padre, invece, a pancia in su
sull’altro lettino, se la dormiva beatamente.
Rita, intenta a scorrere una rivista con la figlia, vicino alla
finestra, mi chiamò a sé con voce bassa.
- Ho
preparato questo succo con tanti tipi di frutta prima di uscire. Te ne
ho lasciato un po’, bevilo prima che si riscaldi. –
me ne versò fino all’ultimo goccio rimasto in un
bicchierino.
- Grazie, lo
prendo volentieri. – lo sorseggiai piano, voltandomi per un
attimo verso l’altra parte della stanza, da dove Colin ci
puntava, sempre steso. – Come mai non dorme? –
chiesi sottovoce.
- Gli
è aumentato il mal di testa, se ne lamentava già
quando sono arrivata stamattina presto. –
bisbigliò Catherine. – L’hanno fatto
mangiare e poi gli hanno dato una pillola. Tanto lo psicologo ha fatto
sapere che non verrà prima delle 17.30 per oggi, quindi ha
tempo per riposarsi. –
- Jared.
– mi sentii chiamare da una voce anche troppo familiare.
Mi scusai con le due
donne con un rapido cenno e mi avvicinai al letto di Colin.
- Non ero
sicuro che saresti tornato. Mi sei sembrato abbastanza arrabbiato
prima. – disse titubante, rompendo il silenzio della stanza.
- Lo sono, -
incrociai le braccia – ma non posso mica mollarti proprio
ora. Ci sarà tempo, vedrai. – gli ammiccai
allusivamente.
Sistemò i
cuscini sotto di sé per sollevarsi un pochino.
- Mi
dispiace, davvero. Ed è stata pure una gran bella figura di
merda. Ma ho ascoltato solo due canzoni ed una parlava di un tipo
metafisico che non ho capito che diavolo debba fare, con
una… mappa… una mappa del mondo in faccia o
qualcosa di simile… - tentò.
D’accordo
l’amnesia e d’accordo, insomma, mica tanto, il
commento sullo pseudo-rock, ma non ero affatto disposto a sentirmi
criticare “From yesterday”.
Sono un tipo permaloso, molto permaloso, specie quando si tira in ballo
la mia arte.
- Colin,
finiscila. – e Catherine lo sapeva.
- No, sul
serio, ci riproverò... magari ho beccato proprio le canzoni
sfigate del cd, almeno una ci vuole sempre, no? –
continuò imperterrito.
- Colin.
– lo riprese ancora con voce dura la sorella.
Questo
disturbò il sonno pacifico del signor Farrell, che si
alzò a sedere, borbottando indistintamente.
- Oh, ciao
Jared… - biascicò, appena mi vide.
Ricambiai con un
movimento della mano. Lui mi fissò per qualche secondo, poi
passò a suo figlio, poi, ottenendo uno sguardo dubbioso da
parte di entrambi, ci squadrò ancora per un po’.
- Una
partitina? – se ne uscì alla fine tutto contento.
- No,
papà, non cominciare, ma chi ci vuole gio-
- Io ci sto!
– interruppi Colin, sorridendo a suo padre.
Colin si
girò verso di me con gli occhi spalancati.
- Che
c’è? – gli chiesi come se niente fosse
– Mi hanno insegnato, sono bravo. –
- Bravo,
figliolo, diglielo! – ridacchiò Eamon senior.
– Una di voi due viene? – si rivolse a Catherine e
Rita, ma ricevette un ridondante“NO”, perfettamente
sincronico.
- Ma ci serve
il quarto per le squadre… - le guardai imploranti.
Colin
continuò a fissarmi, ora a bocca aperta. Alla fine quella
santa di Catherine ci raggiunse e si unì a noi. Di nuovo, fu
baldoria!
Notai che Colin, proprio come avevo notato il giorno prima per gli
altri, era un giocatore incallito, che conosceva le sue mosse
e i suoi trucchi. Mi chiesi come mai non avesse mai cercato di
iniziarmi a questa sua abitudine irlandese, come aveva sempre,
inevitabilmente fatto con molte altre. Andammo avanti per parecchio e
fu un vero spasso, almeno finché Rita non decise di uscire a
fare due passi nel giardino dell’ospedale, portandosi dietro
la figlia ed insistendo ripetutamente perché anche il signor
Farrell si aggiungesse.
Pregai in cinese che Colin non si rendesse conto della totale mancanza
di sottigliezza della sua famiglia, a quanto pare composta interamente
da persone incapaci di passare inosservate nelle loro reali intenzioni.
Tutti stupendi, ma abili a dissimulare come dei bambini
dell’asilo. Evidentemente Colin era ben inserito nel suo
schema familiare e non si insospettì affatto. “Perspicace come una
capra”, avrebbe detto Shannon.
- Allora,
come va con la testa? Vuoi riposarti un po’? – gli
domandai mentre regolavo l’altezza dello schienale del letto.
- Non sono
stanco. – scosse il capo. – Mi sento meglio, mi
hanno dato qualcosa di forte, credo. –
- Perché
non mi hai detto che ti faceva male, prima? –
- Perché
già sono qui, con questo stupido camice, praticamente legato
al letto… - esitò un istante, guardandomi con gli
occhioni tristi – Non voglio fare la parte del malato.
È solo un'altra conseguenza della botta, sempre meglio della
perdita di memoria. –
- D’accordo,
però devi dirmele queste cose. Non devi farti problemi con
me o trattarmi con particolare riguardo. –
- Senti chi
parla! – si accigliò – Anche tu allora
potresti raccontarmele le tue cose, invece svii sempre. –
- Ma di che parli? Che
cose? – corrugò la fronte, molto allusivamente. Oh, no di nuovo! Cristo, ma non
demorde! – Oh, Colin, sul serio, ma che
t’importa? Non c’è niente da dire.
–
- E allora,
cosa vorresti fare? Metterti anche tu a rifilarmi i riassuntini della
mia vita? Non lo farai, se sei davvero un buon amico. – mise
il broncio, per poi alleggerire il tono. – Sai, potrei
chiederti di parlarmi della tua vita e di cosa stai facendo
attualmente, ma considerando l’incidente diplomatico di
prima, sorvolerei sull’argomento ancora per qualche
giorno… -
Non riuscii a
trattenere un piccolo sorriso su di un lato delle labbra e lui lo
intese come segno d’incoraggiamento. Continuò con
fare sciolto:
- A questo
punto a due ragazzi non rimane che parlare di donne, no? Dato che non
dispongo di materiale al momento, la palla è tua.
È una palla-maschio? E maschio sia, chi se ne frega! Sono
abituato con Eamon, sai. Mi troverai preparato, non immagini quanto!
–
Preparato? Era lui a non sapere
quanto preparato fosse in realtà.
Non avevo idea di cosa fare. La situazione da surreale si stava
trasformando in folle. Ma lo conoscevo e non avrebbe lasciato cadere la
cosa, ormai. Si vede che in qualche modo l’aveva colpito.
- Comincia da
capo. Fa’ come se non sapessi niente! – mi
strizzò un occhio.
- Fai anche
lo spiritoso, adesso?! –
Mi sorrise
soddisfatto, allargando le braccia.
Voleva giocare? E va bene, avrei giocato. Chissà
che magari non sarebbe servito anche a risvegliare un po’
quel cervello addormentato che si ritrovava.
Dovevo soltanto fare attenzione ad alcuni particolari. Presi tutta
l’aria che potevo e mi sedetti, non troppo vicino al letto.
- Ci siamo
conosciuti lavorando ad un film. –
- Un film?
È un attore anche lui? Lo conosco magari! –
- No, non lo
conosci… è diventato famoso di recente.
– mi sbrigai a dire – Era alle prime armi sul set,
aveva un ruolo secondario. – cercai di mantenere
un’espressione neutra: se mi avesse sentito dire una cosa del
genere quando era in sé..! – Abbiamo dovuto
affrontare una lunga preparazione prima delle riprese e siamo stati
diverso tempo a stretto contatto io, lui ed altre persone.
Quando abbiamo cominciato a -
- Che film
era? – mi interruppe.
Gli rivolsi
un’occhiata spazientita: - Colin, se mi spezzi un altro
discorso a metà, non apro più bocca, giuro.
–
- Scusa.
– rispose, portando le mani avanti.
- Dicevo…
quando abbiamo cominciato a girare… ero già cotto
di lui! – non riuscii a trattenere un sorriso, ripensando
alla strana marea di sensazioni che mi mettevano in subbuglio in quei
giorni. – Non era la prima volta che mi piaceva un ragazzo,
ma in un certo senso era tutto nuovo. All’inizio pensai che
fosse per l’ambiente particolare che avevamo intorno, tutta
la situazione era… era un po’ come vivere in una
bolla, una dimensione incantata, lontana dalla realtà. Mi
perdevo nelle fantasie più assurde, mi riempivo la testa con
le immagini più erotiche che mi fossero mai venute in mente.
E ovviamente ero perseguitato da reazioni fisiologiche terribilmente
vistose ed imbarazzanti e non c’era un cavolo di posto dove
ottenere un minimo di privacy! -
Lo guardai in modo
eloquente e lui mi rimandò il ghigno di chi ti capisce alla
perfezione.
- Ero
impacciato al massimo, ad un certo punto non sapevo più come
gestire la situazione, perché non avrei mai immaginato di
poter davvero concludere qualcosa con lui. Lui era… non
aveva mai avuto quel tipo di esperienza e non mi sembrava tanto incline
a provarla. – non volevo sbilanciarmi troppo, ma Colin
continuava a seguirmi interessato e totalmente ignaro. –
Poi… poi, beh, andavamo d’accordo, molto
d’accordo. Iniziammo a trascorrere tutto il tempo insieme,
anche al di là dell’orario di lavoro. La sera,
quando non eravamo distrutti dalle riprese, andavamo in qualche locale,
con gli altri, oppure ce ne restavamo in albergo, riuscendo a
divertirci anche con le minime stronzate. Una di queste notti avevamo
organizzato una mini sfida alcolica in camera mia. Eravamo in quattro
– pensai a Jonathan e ad Elliot – e quando gli
altri due si arresero e ci diedero la buonanotte, lui volle restare.
Parlammo a lungo di Dio solo sa cosa, continuando a riempirci i
bicchieri. Si erano fatte quasi le due e lui era veramente ubriaco.
Aveva vinto quella stupida sfida, buttando giù di tutto, sai
gli piaceva bere, essendo ir –
Mi bloccai
miracolosamente in tempo e lo guardai terrorizzato. Eh, no, che era irlandese non
glielo potevo dire. Colin rimase in silenzio, fissandomi confuso.
- Ir-riverente,
irriverente… sai, un tipo un po’ ribelle, amava
mandare tutto al diavolo con l’alcool. – feci del
mio meglio per apparire sciolto e mascherai in un respiro il sospiro di
sollievo che lasciai andare quando vidi Colin annuirmi, anche se ancora
un po’ perplesso. – Comunque… al momento
di andarsene, mi abbracciò e poi rimase a fissarmi in
modo strano. Non me ne accorsi neanche quando mi ritrovai le
sue labbra sulle mie. –
Mi distrassi per un
istante. Dio, erano passati un’infinità di anni da
quella notte, ma mi ricordavo ogni minimo dettaglio, ogni stupefacente
sensazione, dal suono della sua voce al calore di
quell’abbraccio che avrei voluto non finisse mai. E poi
quegli occhi grandi, scuri; mi era sembrato di essere nudo in quel
momento, davanti a lui. E quando alla fine mi aveva baciato, senza dire
una parola, inizialmente titubante, poi con vigore sempre crescente, mi
si era fermato il respiro. Non avevo pensato ad altro, per quasi un
mese. Acquistando via via maggior confidenza, mi aveva passato le mani
dal volto fino ai capelli e finii per ritrovami stretto dalle sue
braccia forti, le mani che mi percorrevano la schiena, tenendomi
incollato al suo petto. Era ancora meglio di quanto avessi sognato.
Mi accorsi che Colin mi guardava, attendendo il seguito.
- Beh, sai,
ero un bel po’ brillo anch’io. Il mio livello
d’inibizione si era decisamente abbassato e mi ci vollero
forse meno di cinque secondi per ricambiare… più
precisamente per abbarbicarmi a lui come una sanguisuga! – mi
passai brevemente una mano sul collo, mentre, imbarazzato, abbassavo
gli occhi. – Poi, insomma, la faccenda si fece sempre
più interessante e ci lasciammo cadere sul letto. Andammo
avanti a limonare come adolescenti arrapati per parecchio tempo in
effetti… - aggrottai la fronte, perso a ricordare il tutto
in maniera molto vivida – mani, gambe, piedi, gomiti intrecciati
da ogni parte… per non scendere troppo nei dettagli, dopo un
po’ eravamo entrambi senza maglietta ed ebbi la netta
sensazione che il suo passo successivo sarebbe stata la
cerniera dei miei jeans. E benché, credimi, io fossi
veramente pronto là sotto, non lo ero affatto qua sopra.
– dissi, portandomi un indice alla tempia destra. -
Era successo tutto così velocemente e hai presente quando
sei così ossessionato da qualcosa da rimanere senza fiato
quando ce l’hai a portata di mano? Ecco. Mi presi due minuti
per andare in bagno e darmi una sistemata, insomma per…
calmarmi e non rischiare di rovinare tutto. Solo che… -
Per la miseria, mi
pareva di riaverla davanti quella scena; o meglio, di potermi ricalare
perfettamente nei miei panni di allora. Il cuore che mi batteva
all’impazzata, le labbra umide e gonfie, i capelli arruffati
e le mani che quasi mi tremavano. Se non avessi avuto il suo profumo
addosso, sarei stato sicuro di essermi immaginato tutto quanto. E
invece Colin era di là dalla porta, mi aveva lanciato
un’occhiata assolutamente esplicita quando mi ero
allontanato. Ero eccitato all’inverosimile. Ma quando ero
tornato in camera…
- …russava!
Lo trovai disteso nella stessa identica posizione in cui
l’avevo lasciato, ma morto stecchito. – spiegai,
ancora incredulo dopo tanto tempo. – Provai a chiamarlo e
anche a scuoterlo leggermente, ma niente da fare. –
- E quindi?
– mi chiese Colin, visibilmente deluso.
- Quindi mi
stesi dall’altra parte del letto e mi misi a
dormire.– scrollai le spalle – Con
l’erezione più memorabile della storia, ma che
altro avrei dovuto fare? Poche ore dopo la sveglia ci
buttò di sotto dal letto. Ovviamente lui non si ricordava
nulla e pensava di essersi semplicemente addormentato sul finire della
serata.–
- E tu non
gli hai detto niente? – mi domandò Colin, piegando
poi il capo su un lato, con uno sguardo a metà fra lo
sconcertato e il divertito. – Certo che hai qualche problema
con le persone che perdono la memoria! –
No,
ho un unico, grande, problema irlandese, brutto idiota.
- Cosa gli
potevo dire?! – mi limitai ad affermare – Lui era
mister Macho ed io il suo compagno di riprese. Eravamo amici, se gli
avessi anche solo accennato qualcosa, sarebbe andato nel panico e si
sarebbe allontanato. Non era una psicologia difficile da capire, la
sua. – scossi la testa fra me. – Questo non
significa che non ci rimasi malissimo. Oh, no, ci stetti proprio male.
– mi sorpresi da solo, non gliel’avevo mai
confessata quella cosa. - I giorni successivi furono un incubo; ero
costretto a girare con lui, a ripassare le battute con lui, ad
allenarmi con lui, il tutto fingendo che non fosse accaduto niente. Per
due sere, però, evitai di unirmi al gruppo per uscire,
portando come giustificazione la stanchezza accumulata. La seconda sera
cercò di convincermi, ma fui irremovibile. Non si bevve la
mia scusa e se ne andò un po’ offeso. Il giorno
seguente, come d’incanto, mi fu facilissimo rimanergli
lontano, perché alla prima occasione, fra un ciak e
l’altro, spariva, evitandomi il più possibile. E
quando era costretto a restarmi vicino preferiva puntare il pavimento,
il cielo, le mosche… Era normale, cordialissimo con tutti,
tranne che con me. Capito?! Prima distruggeva tutte le mie illusioni,
poi faceva anche il sostenuto! Ero inviperito, ma, da bravo cretino
infatuato, dopo cena mi decisi a raggiungere gli altri al bar
dell’hotel, solo per poterlo vedere. Appena arrivai, lui se
ne andò perché aveva mal di testa! –
- Magari
faceva così perché gli era tornato in mente
qualcosa, qualche flash di quella notte che non sapeva come gestire. A
volte a me succede, dopo una bella sbronza, anche a distanza di un paio
di giorni. –
Rimasi senza parole,
semplicemente basito.
- Sì,
è proprio così. – gli sorrisi con
dolcezza. – Me lo confessò, qualche tempo dopo.
Però io non possedevo capacità extrasensoriali e
lui non si degnò di dirmi un bel niente! – ripresi
ardore nel raccontare, ripensando allo scompenso emozionale di quei
giorni. – Quando la mattina seguente mi accorsi che la piega
era sempre la solita, lo presi da parte e lo affrontai. –
- Bravo, ci
avrei giurato che eri uno con le palle! – approvò
Colin.
- Peggiorai
solo le cose. Mi liquidò in due minuti, sostenendo che lui
si comportava in modo assolutamente normale, al massimo ero io a fare
il “prezioso”. Io ero scombussolato,
anche ferito, non facevo il prezioso…
Aggiunse che ad ogni modo non gli importava affatto cosa pensassi. E se
ne andò. –
Colin restò
a guardarmi in silenzio, lievemente perplesso, per alcuni secondi.
Sì, eri un bello stronzo.
- Non
c’è che dire, sembra proprio l’inizio di
una storia decisamente
romantica. – borbottò – Che
poi, di questo passo, “l’inizio” lo vedo
molto lontano. –
- Oh, -
minimizzai con un gesto della mano – cominciò
tutto quella notte stessa. – sgranò gli occhi,
sorpreso. – Si stavano accorgendo tutti che c’era
qualcosa che non andava tra me e lui, eravamo stati pappa e ciccia per
settimane! Così, per evitare sguardi e domandine varie, mi
rintanai nella mia stanza subito dopo cena. Non ero
dell’umore per subire il suo atteggiamento. Me ne stavo
già a letto da un po’, facendo distrattamente
zapping, quando mi sembrò di sentir bussare alla porta.
Spensi la tv e, dopo qualche secondo di silenzio, udii chiaramente dei
colpi, questa volta più decisi. Indossavo solo dei boxer e
una maglietta leggera, ma ero troppo scoglionato per conto mio per
preoccuparmi di rendermi più presentabile. Aprii la porta e
me lo trovai davanti. – mi zittii per qualche secondo,
tentando di riorganizzare la mente intorno a quel preciso ricordo.
– Era appoggiato con un braccio allo stipite e, dopo un primo
momento di esitazione, spostò lo sguardo di lato, senza dire
una parola, senza nemmeno guardarmi. Gli chiesi con tono seccato se per
caso avesse finito la sua scorta di birra e volesse approfittare della
mia. Ma lui rimase in silenzio, poi, sempre voltato altrove,
soffiò fuori un “Non l’ho soltanto
sognato… l’altra notte… è
successo davvero, non è così?”
–
Mi accorsi di avere la
completa attenzione di Colin, che mi seguiva immobile, ora a bocca
aperta.
- Mi colse
impreparato e non seppi cosa dire. – cercai di spiegargli
– Mi ci volle qualche secondo prima di riuscire a
rispondergli con un “Sì”
imbarazzatissimo. Finalmente unì il suo sguardo al mio ed
era così turbato e vulnerabile che mi fece una gran
tenerezza. – abbozzai fra me un sorriso. – Ma poi
cominciò a balbettare parole indecifrabili, facendo qualche
passo indietro, finché non farfugliò qualcosa
come “Mi dispiace, io non… ero ubriaco…
non significa niente… mi piacciono le donne… mi
dispiace…” e corse via lungo il corridoio.
– guardai Colin, scuotendo il capo. – Se
già mi sentivo uno schifo, a quel punto raggiunsi il livello
dei perdenti di prima categoria: rifiutato due volte, inconsciamente e
consciamente. Lo lasciai andare, perché non c’era
niente che potessi fare in quel momento. Diedi un calcio ad un borsone
sul pavimento, me lo ricordo ancora, e mi rimisi a letto, rigirandomi
come un dannato, senza trovare pace. Sapevo fin dall’inizio
di non avere possibilità in quel senso, ma adesso rischiavo
anche di perdere la sua amicizia. Rimasi a torturarmi per un tempo
indefinito, quando percepii di nuovo dei colpi leggeri alla porta,
seguiti da un sussurro che chiamava il mio nome. Era lui. Ancora. Gli
aprii lentamente, stringendo i pugni per tenere a freno il
più possibile il magone. “Che vuoi?” gli
domandai, come a supplicarlo di lasciarmi stare. – fui
improvvisamente attraversato da un brivido ripensando ai suoi occhi in
quell’istante, al sospiro che si era lasciato scappare, alle
sue parole agitate, ma convinte. – “Te”,
mi disse, “Voglio te”. – conclusi con
tono quasi sognante, completamente assorto in quel ricordo tanto
lontano eppure tanto nitido.
- Cazzo.–
mormorò Colin, dissipando in un attimo l’atmosfera
romantica che mi aveva avvolto la mente. – L’hai
lasciato entrare?– annuii.– E che avete
fatto?–
Piegai la testa verso
la spalla: - Abbiamo giocato a scacchi. Tutta la notte. –
scoppiai a ridere davanti al suo sguardo. – Secondo
te?!! –
Lo
psicologo arrivò con un po’ di anticipo, intorno
alle cinque, mettendo fine ai nostri discorsi.
Lasciai Colin non proprio volentieri, ma, come la sera prima, pervaso
da una piacevole sensazione di benessere. Solo lui riusciva a farmi
sentire sollevato, leggero, anche in quella condizione. Maledetto, non
me lo sarei mai lasciato scappare con lui. Nonostante la situazione
ancora più che confusa, me ne andai sorridendo, incuriosito,
inoltre, da un messaggio di mio fratello che trovai sul cellulare. Ero
così intento a spippolare con i tasti, cercando di
immaginare quale fosse l’evento che aveva reso tanto euforico
Shannon, che non mi accorsi della inusuale confusione che regnava fuori
dall’ospedale finché non mi trovai a pochi metri
dalla porta principale. Provai a capire cosa stesse succedendo e,
quando individuai sugli scalini dell’edificio una massa di
persone armate di telecamere e macchine fotografiche, mi sentii morire.
Paparazzi.
Merda.
Riuscivo a scorgerne un gruppo anche sul piazzale e uno dietro le siepi
del parcheggio, tutti debitamente equipaggiati. Per fortuna ero ancora
dentro l’ospedale.
- Signor
Leto? – mi chiamò una vocina esitante. Voltandomi,
riconobbi la giovane infermiera che aveva sostituito la flebo a Colin,
due giorni prima. La
sua preferita, per intendersi. – Sono arrivati i
giornalisti, poco fa. Deve aver fatto la spia qualcuno tra i membri
dello staff, mi dispiace. – disse, abbassando per un secondo
lo sguardo. – Se vuole seguirmi, posso accompagnarla ad un
ingresso secondario. Da lì non la vedrà uscire
nessuno. –
- Oh, certo.
– annuii leggermente - Grazie. –
Mi fece strada lungo
due corridoi e, sbucando in un terzo più stretto e corto,
aprì una piccola porta che si affacciava su un cortile
nascosto.
- Ecco qua.
– sorrise appena – Si faccia venire a prendere da
qualcuno qui, domattina. Potrà stare tranquillo. –
- Ti
ringrazio, ehm… -
- Leia.
– si presentò, arrossendo timidamente.
- Leia!
– le sorrisi – Sei veramente gentile, Leia. Io sono
Jared, comunque. –
Le strinsi la mano e,
sorridendole un’ultima volta in segno di gratitudine, mi
diressi con discrezione verso la mia auto. E così, i
paparazzi erano riusciti ad arrivare. Finita la pace. Dal giorno
successivo avrei dovuto arrangiarmi fra taxi ed uscite secondarie.
Come misi piede in casa, ebbi appena il tempo di posare le chiavi che
mi ritrovai mio fratello di fronte, una bottiglia di champagne in mano
e due calici nell’altra.
Era l’incarnazione esemplare del detto “non
starsene più nella pelle”, mentre si dondolava
automaticamente sulle gambe, con un sorrisino compiaciuto stampato in
faccia.
Aggrottai le sopracciglia, squadrandolo con poca convinzione.
- Come sta
Colin oggi? – mi chiese, senza cambiare espressione.
- Come al
solito. – continuavo ad essere perplesso. – Shan,
lo sai che non bevo… Si può sapere che
è successo? –
- Oh, ti
farà bene staccare la spina per un attimo, fratellino! Te lo
meriti e, vedrai, lo manderai giù un sorsetto con me!
– mi fece un occhiolino, soddisfatto, ed io ero sempre
più confuso. Poi si sciolse in un enorme sorriso.
– “Artifact” è stato ammesso
al Toronto Film Festival! –
Spalancai gli occhi,
rimanendo a fissarlo senza parole.
- Hanno
chiamato poco fa e hanno detto che annunceranno pubblicamente la lista
completa dei titoli tra qualche giorno! Ce l’abbiamo fatta!
– esclamò avvicinandosi – Ce l’hai fatta,
Jay! –
Mi
abbracciò ed io impiegai almeno qualche secondo prima di
stringerlo a mia volta, totalmente incredulo. Non era
possibile… Dopo tanto lavoro e tanta fatica, era un sogno
che si realizzava.
- Gli altri
lo sanno? – gli chiesi.
- Sì,
ho già avvertito tutti! – rispose sciogliendo
l’abbraccio.
- Non vedo
l’ora di vedere le loro facce! – sorrisi euforico
– Devo dirlo a Co…lin… -
Le parole mi morirono
in bocca e Shannon mi guardò, rabbuiandosi in un istante.
Scossi vigorosamente la testa fra me, non avrei rovinato la festa anche
a lui, non in quel momento.
- Champagne!
– quasi urlai, prendendogli la bottiglia dalle mani.
Finalmente una buona
notizia. Almeno per qualche minuto, almeno per mio fratello, avrei
festeggiato.
Quando
ho scritto questo capitolo, Artifact non aveva ancora riscosso il
grande successo a cui era destinato,
per cui mi arrogo il diritto di aver portato un pizzico di fortuna alla
nostra cara Divah!!
|
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Capitolo 9 *** rivelazioni ***
Buongiorno
a tutti!
Forse
nessuno si aspettava più che tornassi con il seguito di
questa storia e invece eccomi qua :)
Non
ho scuse per la lunga assenza, se non qualche problema di natura
personale...
Mi
dispiace moltissimo avervi abbandonate e lasciate a metà
della narrazione,
ma
vi assicuro che siete sempre rimaste nei miei pensieri!
Proprio
per questo vi dedico questo nuovo capitolo, mie adorate lettrici,
che
mi avete più volte chiesto a che punto fossi, quando avrei
ripreso a pubblicare,
che
mi avete dato la forza e l'entusiasmo per riprendere a scrivere!
Non
aspettatevi granché, non sono molto soddisfatta,
ma
è un ritorno e spero che sia definitivo :)
Buona
lettura!
9.
Scendendo
dal taxi, pochi minuti dopo le dieci, pensai per un secondo di aver
sbagliato qualcosa e di trovarmi in Africa, da qualche parte vicino
all’equatore. Come se il caldo non fosse stato abbastanza,
l’ingombrante bardatura che mi nascondeva da eventuali
incontri sgradevoli – occhiali da sole fuori misura, un
cappello nero e persino una sciarpa di lino più volte
avvolta intorno alla collo e al mento – rese soffocanti quei
cinquanta metri che mi separavano dalla piccola entrata secondaria.
Forse Babu
non aveva avuto tutti i torti nel trovarla esagerata. Bah, razza di
impiccioni, tutti quanti!
Shannon mi
aveva convinto a festeggiare quel piccolo successo di Artifact
perlomeno con le persone a noi più vicine e quella mattina,
di buon ora, Tomo e Vicky, Emma, Jamie e Babu si erano presentati a
casa nostra con vassoi di cibo che sarebbero bastati per venti persone.
In fondo era
stata una cosa carina, sebbene non fossi troppo presente con la testa.
Se ne erano accorti tutti, ma, gentilmente, senza farmelo pesare.
Artifact era un progetto per il quale avevamo speso moltissime energie
e riposto fin troppe speranze, un piccolo sogno nel cassetto che
portavamo avanti ormai da anni e, benché
l’accettazione al TIFF fosse solo un primo, piccolo passo,
c’era da esserne molto orgogliosi. Peccato fosse capitato nel
momento più sbagliato. Ci sarebbe stato un gran bisogno di
lavorarci, in quei giorni, ma davvero non sapevo dove avrei potuto
trovare il tempo e la concentrazione necessari.
Per fortuna
nessuno aveva accennato niente, neppure riguardo a Colin, al quale si
erano limitati a mandare i migliori saluti. Il tutto si era svolto con
serena tranquillità, tra brindisi a suon di latte di soia e
frullati di mango.
Il
buongiorno di Catherine, ad accogliermi sulla soglia, e il fresco
dell’edifico mi rimisero al mondo.
- Tutto bene? Hai
l’aria un po’ stanca… - le chiesi,
mentre cominciavo a liberarmi dagli indumenti anti-paparazzo.
- Sì,
sì, tutto bene, ma sono stanca sul serio. Sono rimasta con
Colin, stanotte, e ancora non son tornata a casa. –
La guardai confuso.
- Beh, sì,
è che ieri ho deciso di far ritorno a Dublino. –
mi spiegò, mentre percorrevamo i lunghi corridoi.
– Non sono venuta via preparata per restare a lungo, ma
adesso non posso proprio lasciare mio fratello in queste condizioni,
sai? Penso che starò via un paio di giorni,
sbrigherò qualche noia al lavoro, prenderò un
po’ di cose utili, compresi Scott e Steven, - ci sorridemmo -
e tornerò per restare quanto sarà necessario.
–
- Sembra un buon
piano. E lui come sta? Chissà quante storie ti
starà facendo! –
- Oh, non me ne
parlare! Fa il melodrammatico piagnucolone, come al solito. Dice che lo
abbandono! Ma il peggio non è lui, sono le
telefonate… – mi voltai leggermente indietro per
vederla in volto, soffermandomi contro il corrimano delle scale.
– Ma sì! Da quando sono arrivati i paparazzi e la
notizia dell’incidente ha fatto il giro del mondo, siamo
stati tempestati da migliaia di telefonate! Avevamo avvertito solo lo
stretto necessario, lo sai. Da ieri sera, invece, chiamano
continuamente e Colin non conosce più della metà
di queste persone. Abbiamo dovuto spegnere il suo cellulare e adesso
siamo noi a filtrare le chiamate. Rassicuriamo tutti e lasciamo che gli
parli solo chi lo conosce davvero bene e da tanto tempo. –
Già, non
avevo considerato quel tipo di ripercussioni.
Inutili parassiti
della società.
- Lo so,
Jared… - continuò costernata Cathy, quasi
leggendo i miei pensieri – all’inizio Colin
l’ha trovato quasi divertente, adesso comincia ad essere
confuso e scocciato. Ma guarda tu stesso! – mi
invitò con tono deciso, aprendo la porta della stanza 31,
che ormai avevamo raggiunto.
Colin, sempre disteso
sul letto e sistemato comodamente fra vari cuscini, era concentrato su
un giornale che teneva aperto sulle gambe . Si accorse subito del mio
arrivo e, voltandosi verso di me, lo richiuse rapidamente,
accogliendomi con un gran sorriso.
- Ehi! – mi
ritrovai d’istinto a sorridere a mia volta, avvicinandomi a
lui. Era come un richiamo cui non potevo sottrarmi, il suo.
Dall’altra
parte della stanza notai Eamon, impegnato in qualche conversazione
telefonica. Se ne stava di fronte alla finestra, dondolandosi
leggermente, e mi salutò con un cenno del capo. Ricambiai e
mi accomodai con attenzione sul bordo del letto, spostando una mezza
dozzina di quotidiani e riviste, tra cui era finito il giornale che
Colin stava leggendo. Mi saltò subito agli occhi che ognuno
di essi aveva in prima pagina la sua foto, con tanto di titoli
sensazionali.
- Ehi… - mi
riportò su di sé Colin.
- Non leggere questa
robaccia, è solo spazzatura. – gli dissi, senza
bisogno di specificare oltre.
- Me ne sono
accorto… Come mi trovi? – domandò, poi,
con tono vivace ed espressione beata. – Mi hanno dato una
sistemata, oggi! –
Giusto, era domenica.
Figurarsi, la sua sana abitudine irlandese a vestirsi meglio e darsi
una ripulita nei giorni di festa, specie se a contatto con la sua
famiglia. Aveva un camice nuovo, ancora liscio e senza pieghe;
l’avevano sbarbato e aveva un buon profumo di vaniglia. Col
rasoio dovevano avergli pareggiato i capelli rispetto al punto in cui
aveva la ferita e una garza pulita e più piccola aveva
sostituito la precedente. Sopra vi era un…
- Aspetta un momento!
– esclamai, piegandomi lievemente sulla sua testa.
– Cos’è questo? –
- Oh,
niente… - si lamentò, scostandosi, ma mi
avvicinai ancora.
- Hai visto
com’è carino? – ridacchiò
Catherine, mentre sistemava degli indumenti su una sedia.
- È una
tartaruga! – continuai a ispezionare, divertito. –
E’ una deliziosa tartarughina verde e gialla! –
- È un solo
un cerotto!- bofonchiò Colin – Ufficialmente
è finito per caso da pediatria fra i cerotti di questo
reparto e l’infermiera se ne è accorta dopo averlo
ormai applicato. – guardò accigliato sua sorella,
poi me, concludendo. – Ma è chiaro come il sole
che mio fratello deve aver pagato almeno 30 dollari per farmi
questo… -
Scoppiai a ridere e
sentii Eamon alle mie spalle che chiudeva la chiamata e mi
raggiungeva.
- Non è
tutta colpa mia quello che ti succede, fratellino! O
merito…in questo caso! – disse, non riuscendo a
trattenere una risatina.
Colin lo
guardò malissimo.
- Andiamo, non
è niente, è solo… - cercai di
consolarlo, ma fallendo miseramente il mio tentativo di restare serio.
– Dio, hai davvero un cerotto con una tartaruga in testa!
–
Io, Catherine ed Eamon
ci ritrovammo irrimediabilmente a ridere di gusto, mentre il piccolo
paziente pediatrico ci fissava imbronciato. Dopo qualche secondo, il
più grande dei fratelli Farrell mi posò una mano
su una spalla:
- Allora, Jay? Hai un
bel colorito stamattina. – mi disse contento.
- Uhm, sì,
beh…ho fatto una colazione sostanziosa. – risposi,
un po’ in imbarazzo – Insomma, ieri sera io e mio
fratello abbiamo ricevuto una buona notizia e –
- Che è
successo? – domandò Cathrine.
- Beh, ecco, da
qualche anno stiamo lavorando ad un progetto, una sorta di documentario
– rivolsi lo sguardo a Colin, nella vana e assurda speranza
che potesse ricordarsene – ed abbiamo saputo che
sarà presentato al Toronto Film Festival tra un paio di
mesi. –
- Ma è
bellissimo! – mi abbracciò entusiasta lei, mentre
Eamon si complimentava.
- Grande! –
mi diede una pacca sull’avambraccio Colin. – Ma
quante cose sai fare?! Sto perdendo il conto! –
- E perché
lo dici con quel tono? – mi ribrottò Eamon
– Sii felice, no? Salta per aria, fai le capriole! –
- Lo sono,
però… - mi voltai verso di lui, sorridendo
appena, smettendo di fissare il polso che Colin mi aveva sfiorato
– Però
non è il momento adatto, non me ne importa niente, vorrei
solo rimanere qui con lui, vorrei che mi toccasse ancora, anche solo
così.-
- Però..?
– mi incalzò Colin.
-
C’è ancora molto da lavorarci, ecco…
non è pronto, ci sono molti dettagli da mettere a posto
e… -
Non riuscii a finire
la frase, ma lessi negli occhi di Eamon la più completa
comprensione e sia lui che la sorella rimasero in silenzio.
- Beh e allora?
Lavoraci no! – riprese Colin – da qui a settembre
c’è un sacco di tempo! Lo fanno ancora a settembre
il festival di Toronto o hanno cambiato qualcosa? – annuii
– e quindi?! – si strinse nelle spalle –
fa’ quello che devi fare, non importa se avrai meno tempo per
venire qui, non sei
certo il primo che mi molla! – scandì
con enfasi le ultime parole, rivolgendosi verso Catherine.
Questa
sbuffò, ma non fece in tempo a rispondere che il cellulare
nella tasca di Eamon si mise a squillare.
- Din don! Ecco a voi
lo scocciatore numero 21 di questa mattina, 43 da ieri sera!
– roteò gli occhi il poveretto, rispondendo.
- È stato
piacevole le prime 7-8 volte, adesso ho l’incubo delle
suonerie… - pigolò tristemente Colin.
- Ci sono tantissime
persone che ti vogliono bene, è normale che si preoccupino
per te. - gli spiegai dolcemente.
- Ma io non so
neanche cosa dire… -
- In più
non abbiamo raccontato quasi a nessuno dell’amnesia.
– aggiunse Catherine, a bassa voce –
Già, con la notizia dell’incidente, abbiamo gli
occhi del mondo puntati addosso. Speriamo che tutto torni alla
normalità, senza il bisogno di fornire ulteriori
spiegazioni. –
- … ma
certo, aspetta! Colin? – Eamon richiamò la nostra
attenzione, avvicinandosi al letto e tendendo il cellulare verso il
fratello – E’ Johnny! –
Questi lo
fissò qualche secondo, accigliato, rimanendo in silenzio.
- Rhys-Meyers!
– esclamò Eamon – è tuo amico
da una vita, Col..! Ci vuoi parlare o no? –
- Aaah! Ma
sì, sì, certo! Dammi qua! – si
piegò in avanti, quasi strappando di mano il telefono al
fratello. – Johnny! – lo salutò con
entusiasmo.
Chiusi automaticamente
gli occhi, inveendomi ripetutamente contro.
Jonathan, cazzo.
Lui e Colin
erano amici da almeno quindici anni, si erano conosciuti a Dublino
mentre cercavano di muovere i primi passi nell’industria
cinematografica. Quando li avevo incontrati sul set di Alexander, erano
già pappa e ciccia da un bel po’.
Coetanei, irlandesi, estroversi, seppure con un’estrazione e
un’infanzia ben diverse alle spalle, avevano presto
intrapreso un percorso molto simile e molto pericoloso. Colin ne era
uscito appena in tempo, Jonathan ci aveva provato, a più
riprese, ma vi era ancora piuttosto intrappolato.
Era un
ragazzo simpatico, se preso nel momento giusto; era intelligente e
curioso e provava per Colin un affetto autentico e leale. Colin lo
considerava in assoluto uno degli amici, dei confidenti, delle persone
più care che avesse. Più volte, nel corso degli
anni, avevamo avuto discussioni accese riguardo al modo migliore per
rapportarsi con gli eccessi e i problemi di
“Johnny”, come lo chiamava lui. Voleva stargli
vicino, aiutarlo ad uscire da un tunnel che sapeva lo avrebbe
distrutto, ma era sempre troppo comprensivo, troppo morbido, con lui e
accusava me, al contrario, di essere duro, di fregarmene. Fin quando,
l’estate precedente, dopo l’ennesima overdose, non
si era reso conto che stava rischiando di perderlo veramente.
Ma le nostre
incomprensioni a causa sua risalivano alle origini del nostro rapporto,
a quella mattina in cui, alle prime luci dell’alba
tailandese, Jonathan si era intrufolato nella tenda
dell’amico, con lo speranzoso fine di trovarvi un accendino.
E invece, con suo enorme stupore, aveva trovato noi due che dormivamo
abbracciati.
Le scene
madri che ne seguirono sono rimaste nella storia. E più
Colin gli spiegava che la nostra era più di una scopata tra
una scena e l’altra più lui si disperava. Credo
che mi abbia a lungo considerato come quello che ha reso diverso il suo
migliore amico, di una differenza a parer suo inconciliabile: il non
poter essere più il duo spensierato che se ne andava nei pub
in cerca di donne. Colin era innamorato e di un uomo! Due cose che la
sua mente proprio non riusciva a incamerare. Ovviamente niente era
davvero cambiato fra loro, anche se negli anni non aveva certo mancato
di puntarmi il dito contro in più di un’occasione.
Almeno fino
al Natale del 2009, il primo che passavo senza Colin, il primo che lui
passava con Alicja. Mi aveva telefonato, augurandosi che le cose
tornassero a posto il prima possibile, rifiutandosi di accettare ogni
mia risposta negativa al riguardo. Lo sentii dispiaciuto e sincero e,
per la prima volta, mi fece capire di aver accettato me e la mia
presenza nella sua vita, lasciando trasparire addirittura un lieve
rammarico per non averlo fatto prima. Paradossalmente, proprio in
quell’orribile periodo.
Ma tutto
questo non mi avrebbe mai salvato dalla furia che mi avrebbe colpito
adesso che mi ero totalmente dimenticato di avvisarlo di quanto
accaduto a Colin. Non ci avevo proprio pensato, come non avevo pensato
a niente, in quei giorni. Non avevo scampo e lo sapevo!
Continuavo a pensare a
questo mentre, seduto con Eamon e Catherine, rispondevo alle loro
domande su Artifact e con un orecchio cercavo di captare eventuali
segnali di rabbia provenire telefonicamente dall’altra parte
del mondo. Ma Colin parlava tranquillamente, a tratti ridacchiava anche.
- È
un’occasione fantastica, Jared, non perderla! – mi
spronava Eamon – Qui faremo i turni, non preoccuparti!
Cercai di rilassarmi
abbastanza da conversare con loro, quando mi arrivò
d’un tratto la voce perplessa di Colin: - Jared?? –
silenzio – sì, è qui…
– silenzio – sì, te lo passo, aspetta.
Jared? – mi chiamò, alzando il tono.
Mi sentii gelare il
sangue, ma mi voltai, mi alzai come se nulla fosse e lo raggiunsi.
- Johnny ti vuole
parlare. – mi disse, tra il sorpreso e l’incerto.
Annuii. – Vi conoscete? – mi chiese.
- Sì,
certo! – finsi il migliore dei miei sorrisi e tesi la mano
per avere il telefono che ancora non mi aveva dato.
– Ciao, Johnny! – tentai.
- Fottutissimo strimpellatore di
‘sto cazzo! – fu la risposta a dir
poco concitata che ottenni.
Lanciai
un’occhiata a Colin, poi ai due seduti alla mia
sinistra; allontanai appena il cellulare
dall’orecchio, coprendolo con una mano.
- Vado un attimo
fuori, qui non prende bene… - ed uscii imbarazzato nel
corridoio, chiudendomi la porta alle spalle.
La lavata di capo
arrivò tutta, e bene. Dopo essermi sorbito un quarto
d’ora buono di comprensibili ma insensate accuse, rientrai,
fingendo di aver tranquillizzato il povero Jonathan che, mi
informò Colin, sarebbe rientrato dal suo set londinese alla
fine della settimana. Fantastico.
Il resto della
mattinata scivolò via tra chiacchiere varie e tranquille,
con Eamon spesso distratto da numerose telefonate e Catherine
indaffarata in un continuo andirivieni la cui funzionalità
non mi era del tutto chiara.
Colin mi
raccontò degli amici con cui aveva parlato, degli
album di foto che aveva sfogliato, poi
dell’inutilità a suo avviso palese delle sedute
con lo psicologo che, con suo grande piacere, quel giorno di festa
avrebbe saltato. Mi fece qualche domanda su Artifact e infine
insisté affinché ci guardassimo insieme dei video
su you tube delle mie esibizioni con la band. Era piuttosto evidente,
quanto dolce, il suo tentativo di scusarsi per la gaffe del giorno
prima, così acconsentii e scelsi per lui alcune delle clip
migliori del web, quelle che meglio mettevano in risalto la
qualità dei nostri live e della mia persona, ovviamente.
Mentre
Catherine accompagnava canticchiando un video di The Kill, indicai e
presentai a Colin i componenti del gruppo e, per la prima volta in
quasi dieci anni, al nome di Matt non seguirono strani mugugni o
commenti disdicevoli. L’apice della mattinata,
però, giunse quando Colin se ne uscì con
“Wow, tuo fratello è un batterista da pazzi! E si
vede che è un tipo fighissimo! Scommetto che io e lui ce la
intendiamo perfettamente!”. Non potei che annuire sbigottito
al suo faccino convinto.
All’ora
di pranzo, Claudine, papà e mamma Farrell arrivarono con
grandi buste, decisamente sospette, contenenti manicaretti domenicali
che “profumavano d’Irlanda”, come
precisò Eamon. O non avevano incontrato anima viva o il
personale dell’ospedale aveva gentilmente chiuso un occhio.
Rita aveva
preparato una vaschetta di verdure e soia apposta per me e fu molto
felice quando accettai senza storie. Colin venne a conoscenza del fatto
che ero vegano, o meglio, familiarizzò col concetto stesso
di essere vegano: gli spiegai con orgoglio e serietà i
principi della mia alimentazione e, come tanti anni prima, ricevetti in
cambio uno sguardo inorridito. Se non altro, sembrò non
sentirsi ancora abbastanza in confidenza per ridere apertamente di me.
Il pranzo fu
piacevole, persino allegro. Mi sentivo a mio agio, come a casa, con
loro, da sempre. Tutti mi trattarono come al solito, come se niente
fosse, e mi ritrovai a pensare se a Colin tutto questo non paresse
almeno un po’ strano. Ma lui sembrava contento e rilassato,
finalmente soddisfatto di mangiare qualcosa “di
vero”. Catherine mangiò accanto a lui,
rannicchiata sul letto, e coccolò il fratellino
finché questi non si addormentò come un bimbo fra
le sue braccia. Non volle svegliarlo neppure quando sua madre le fece
presente che era il momento di andarsene, così lo sistemo
con delicatezza sul cuscino, lo baciò sulla fronte e si
raccomandò a me di dargli i suoi saluti. Una volta atterrata
a Dublino, lo avrebbe subito chiamato.
L’intera
famiglia, ovviamente, accompagnò Catherine
all’aeroporto, lasciandomi solo con Colin.
Ad un tratto era
calato nella stanza un silenzio insolito, ma alquanto pacifico.
Il respiro
di Colin era lieve, il torace si alzava a intervalli regolari, il volto
rilassato in un’espressione serena. Niente sembrava turbare
il suo riposo.
Mi sistemai
con le mani incrociate sul bordo in metallo del letto e vi poggiai
sopra il mento. Rimasi immobile, senza fare il minimo rumore, a
guardarlo, finché il desiderio di allungare un braccio verso
di lui si fece troppo ardente per essere represso.
Allora mi
riscossi e mi sedetti composto, accendendo il pc e posandomelo sulle
ginocchia. Cominciai a cercare notizie, informazioni, regole utili in
casi di pazienti affetti da amnesia. Lo shock, il disappunto, la paura,
in quei giorni mi avevano impedito di documentarmi, persino di leggere
i fogli che mio fratello aveva casualmente lasciato sul tavolo di
cucina o i libri che Emma mi aveva fatto recapitare.
Non trovai
niente che i medici non ci avessero già detto, niente che
non stessimo già facendo, non si poteva certo dire che non
stessimo tentando con ogni mezzo di “stimolare la sua
memoria”, come ripeteva il manuale online che avevo
sottomano. Proprio mentre stavo per consultare la sezione
“Congiunti temporaneamente dimenticati: supporto
psicologico”, qualcuno bussò leggermente alla
porta e Leia, l’infermiera giovane e gentile della sera
prima, si affacciò.
- Tutto bene?
– sorrise
- Tutto a posto,
grazie. – le sorrisi a mia volta, chiudendo il pc e alzandomi
– Dorme come un angioletto! – indicai Colin, a voce
bassa.
- Bene. Tra due minuti
vengo a controllare la pressione. Prendo il necessario e arrivo.
–
Annuii e mi voltai
verso Colin, per svegliarlo, ma lo trovai che sbadigliava e si
stropicciava gli occhi.
- Ciao! –
esclamai, tornandogli vicino – Già sveglio?
–
- Ti ho sentito
parlare. – borbottò – E’
l’ora dei controlli? –
- Sì, Leia
arriva subito. -
Smise subito di
stiracchiarsi e mi guardò accigliato: - Leia? –
- Sì,
l’infermiera… quella che t –
- Lo so chi
è Leia! – brontolò – mi
chiedo perché lo sappia tu! E perché la chiami
per nome…e non mi piace il tono che hai usato! –
Lo guardai basito: -
Mi ha aiutato ad evitare i paparazzi, ieri sera. Tutti hanno un
nome…E quale tono? –
Rimase a fissarmi in
silenzio, per qualche secondo, poi si tirò su, quasi a
sedere: - Ci provi con l’infermiera, Jared? –
- Cosa?! –
sgranai gli occhi, il tono anche troppo acuto – Ma sei scemo?
–
- Eccoci qua!
– ci interruppe la ragazza, ignara della discussione in atto
– Oh, buongiorno Colin, ha proprio una bella cera oggi! Non
è vero? – si rivolse a me, allegra, cercando
conferma.
Colin mi
guardò in cagnesco, per poi voltarsi verso di lei e
sorriderle.
- Mi dia il braccio,
cominciamo con la pressione. - gli sollevò la
manica del camice e gli strinse una fascia poco sopra al gomito,
facendo partire la macchina. – E’ riuscito ad
entrare con facilità, stamattina? – mi chiese,
sempre con tono gentile.
- Oh,
sìsì! Da quella parte non c’era
nessuno. Ancora grazie, comunque. – le risposi con
gratitudine.
- Si figuri, se posso
fare altro, non deve che farmelo sapere! – mi disse
sorridendo. – La pressione è perfetta, -
esclamò rivolta verso Colin – adesso le ascolto
il…aspetti, vedo se in bagno c’è una
garza o qualcosa per riscaldare un po’ lo strumento, torno
subito. – e si allontanò.
Colin mi
tirò per la maglia e mi avvicinò a sé:
- Ma tu non eri gay?!
– sibilò a denti stretti.
- Come, scusa?
–
- Ci stai provando
eccome con lei! O lei con te, è la stessa cosa! –
continuò indignato.
- Mi rifiuto anche
solo di risponderti. – sussurrai, voltandomi verso il bagno
per essere sicuro che la ragazza non ci stesse sentendo.
- Sei un egoista!
– andò avanti, puntandomi l’indice
contro – Io sono chiuso qui dentro, senza niente per rifarmi
gli occhi…le altre due infermiere sono improponibili e la
terza ha l’età di mia madre! E tu, che potresti
fare quello che ti pare fuori di qui, ti vuoi prendere la mia infermiera?!
– mollò la presa su di me e quasi si
lamentò fra sé e sé – Non
eri gay, tu? –
Leia tornò
dal bagno prima che potessi rispondere, strofinando lo stetoscopio.
- Ecco, ora sentiamo
come batte il suo cuore, Colin. – disse, poggiandogli lo
strumento sul petto e cominciando ad ascoltare.
- Se batte un
po’ troppo forte non preoccuparti, tesoro, sai bene il
perché! – non perse l’occasione lui.
Non potei trattenermi
dal roteare gli occhi e mettermi seduto.
La sua infermiera,
capito… Dio, che voglia tremenda di riempirlo di mazzate.
Non potevo
credere di trovarmi davvero in quella situazione, io che in sua
presenza dovevo far attenzione a commentare persino i cartelloni
pubblicitari che ritraevano modelli in pose discinte. O modelle. O
capre. O trattori, per quel che vale.
- Il suo cuore batte
benissimo, Colin. Vedrà, - si rivolse di nuovo a me
– ve lo ritroverete a casa sano come un pesce molto prima del
previsto! – esclamò soddisfatta.
- Grazie, è
una bella notiz -
- Jared è
gay! – mi interruppe dal nulla Colin – Lo sapevi?
– rimasi di sasso e la poveretta mi guardò
spalancando gli occhi, assumendo in pochi secondi un colorito
rossissimo. - Ha già spezzato molti cuori, te lo dico prima
che spezzi anche il tuo. – le disse con un ghigno bisbetico
stampato in faccia.
- Colin! –
trovai la forza di ribattere, sdegnato.
- Ahm, sì,
cioè…no, lo
so…cioè… - la sventurata ragazza
riordinò velocemente i suoi strumenti e si avviò
alla porta, in palese imbarazzo – ci vediamo dopo…
-
- Scusa, ma non era
veramente carino quello che stavi facendo. – lo sentii dire
non appena la porta si fu richiusa.
- Non ho parole,
Colin, sul serio… -
- Io non ne ho!
– e poi, tra lo stizzito e il serio - Scommetto che non
faresti tanto il simpatico se il tuo fidanzatino fosse qui! –
Maledetto il giorno in
cui avevo deciso di non rivelargli nulla. Anzi, maledetto il giorno in
cui non avevo deciso di mandarlo al diavolo o, per la precisione, ogni
dannato giorno in cui avevo deciso di sopportarlo ancora.
- Quella ragazza sta
solo cercando di essere gentile, non è interessata
né a te né a me, brutto idiota! Credo proprio che
si immagini di… -
- Di che? –
mi incalzò lui.
Di noi…
- Niente…-
sbuffai leggermente – niente…-
- Ok,
d’accordo, non fare così! Non ne farò
parola con lui quando lo vedrò… -
- Vedrai chi?
– gli domandai accigliato.
- Il
tuo…fidanzato? Amichetto? Amante? Come lo devo chiamare?
Avrà un dannatissimo nome, no? –
- Non per
te! – lo liquidai scocciato.
- Andiamo! Non farmi
lavorare di fantasia… e poi devi raccontarmi qualcosa oggi,
non mi hai ancora detto nulla..! – mi ammiccò in
modo persuasivo.
- Scordatelo, non sono
dell’umore! –
- Ma dai! Siamo
rimasti ad un punto –
- Siamo rimasti ad un
punto da cui parte un momento troppo… - esitai, cercando la
parola giusta – romantico,
ecco, non mi va di parlartene adesso! Perché non chiami i
tuoi per sentire a che punto sono? Non ti interessa più di
tua sorella? – lo rimbeccai acidamente.
- Saranno ancora
all’aeroporto, mi chiamerà lei appena
sarà arrivata. – constatò serafico.
- Sei solo un
bambinone viziato. – aggiunsi, riflettendo su quanto fosse
cambiato negli anni.
- Ah-ah. –
annuì - …romantico,
eh? – mi guardò con una faccia da schiaffi
– non ti facevo un tipo romantico! –
- Non lo sono,
infatti… era l’atmosfera, ok? La
situazione… il deserto, la Tailandia… -
- Il deserto? Ma dove
l’hai girato questo film?! Aspetta, ma in Tailandia non
abbiamo..? Rosario raccontava che –
- Sì,
sì! Va bene? L’ho conosciuto sul set di Alexander!
–
Mi pentii
immediatamente di avergli fatto quella rivelazione, dal momento in cui
i suoi occhi spuntarono letteralmente fuori dalle orbite. Non avrei
dovuto spingermi così in là, avrei dovuto
rimanere sul vago, ma mi aveva fatto innervosire e perdere il controllo
per un attimo più del dovuto. E ora il pasticcio era fatto.
- L’hai
conosciuto sul…cioè, era uno di… ha
girato il film con noi? – mi chiese ancora stravolto.
Gli risposi con un
mesto cenno d’assenso.
- Quindi
c’ero anch’io mentre succedeva? E che ne pensavo?
Me ne sono accorto o me l’hai detto tu? E… e lui
lo conosco bene? E perché non me l’hai d
– accelerò sempre più eccitato.
- Per questo non te
l’ho detto! – mentii – Perché
tu non facessi tutte queste domande e ti interessassi solo al tuo ruolo
nella faccenda! Ruolo assolutamente marginale, oltretutto. –
- D’accordo,
d’accordo, hai ragione. – si affrettò a
dire, agitando le mani davanti a sé – i dettagli
possiamo lasciarli per dopo. Ma va’ avanti! –
Ero ancora piuttosto
infastidito dal suo comportamento, ma mi tornarono in mente le parole
che avevo da poco letto riguardo alla stimolazione dei ricordi. E che
si stimolassero, allora, questi ricordi. Speravo solo di non essermi
spinto troppo oltre rivelando il luogo del nostro incontro, ma per il
momento Colin non era sembrato darci alcun peso.
Non quel
tipo di peso, almeno.
- Beh, - cominciai
– c’era –
- Eravamo rimasti al
punto dello zum zum! – mi interruppe subito.
- Non ho alcuna
intenzione di parlarti dello zum
zum… -
- Ci ho provato! -
esclamò, alzando le spalle.
Mio malgrado mi
lasciai scappare un sorriso, scuotendo la testa, e lui mi sorrise di
rimando.
- Fu un
periodo… - ripresi – un periodo
indescrivibile… C’era così tanto lavoro
da fare! Oh, Colin, così tanto! Quando non eravamo davanti
alle telecamere, recitavamo le battute col regista, c’era il
ripasso solo fra attori, la prova costumi, l’addestramento
fisico… una pressione assurda, credimi! Mai più
stato su un set così impegnativo, i mesi più
stancanti della mia vita… - feci un piccola pausa,
abbassando gli occhi e respirando forte – ma anche i
più felici, in assoluto. –
C’era meno
malinconia nelle mie intenzioni di quanta ce ne fosse nel mio tono.
In anni
spesi ad analizzare dove e come avessimo potuto sbagliare in
proporzioni tanto grandi, mi ero finalmente reso conto che il nostro
errore principale era stato il cercare di ricostruire continuamente
quel periodo. I luoghi, i momenti, tutto cambiava, persino noi stessi,
ma la nostra speranza o forse il nostro bisogno era completamente volto
a ricreare l’atmosfera che aveva reso incantati, insuperabili
quei mesi. Il profumo speziato dei mercati marocchini, i cieli rosati,
sfumati d’oro, all’alba, la brezza marina fra i
capelli.
Avevamo
sempre, ripetutamente, fallito.
Ovunque
andassimo, solo paura, solo senso di colpa, d’oppressione,
nessun vero profumo, nessun’alba, nessun venticello.
E avevamo
finito per farci solamente del male, ogni volta un po’ di
più, finché era diventato insopportabile e
insostenibile.
Eppure il
ricordo di quei sei mesi non era mai stato scalfito da niente; se ne
stava lì, idealizzato e immobile, un po’ come
l’origine di tutti i nostri mali, un po’ come
l’origine di ogni cosa bella avessimo mai avuto.
Tornai con lo sguardo
su Colin, che mi fissava con espressione interrogativa e del tutto
ignara.
Quante
volte, riflettei, quante dannate volte avevo desiderato poter
cancellare la magia del Marocco e della Tailandia.
Quante
volte, quando il dolore, la frustrazione, la delusione mi laceravano lo
stomaco, avrei dato qualunque cosa perché Colin e quel
periodo potessero essere estirpati dalla mia memoria, perché
mi lasciassero di nuovo libero, di nuovo me stesso, perché
avessi ancora la forza di andare avanti, quando invece anche respirare
richiedeva uno sforzo immane.
E invece era
toccato a lui. E mentre se ne stava lì, completamente
sprovvisto di ogni informazione, mi sentii per la prima volta
l’unico custode di tutto quanto, l’unico rimasto
capace di decifrare una realtà che nessun altro aveva mai
saputo comprendere; d’un tratto mi parve quasi di soffocare
per quanto grande fosse e provai l’impulso irrefrenabile di
condividere, raccontando e spiegando tutto, nella vana utopia che
potesse in qualche modo afferrare il senso profondo di quella che era
stata la nostra condanna ed insieme la nostra salvezza.
- Jared? -
Scossi appena la
testa: - Uhm? –
- Tutto bene? Ti sei
zittito e mi fissi imbambolato da un po’. Sei un
tantino… inquietante, se permetti! –
- Oh, scusa!
Sì, no, scusa… E’ che, come ti dicevo,
sono stati mesi pienissimi, ma niente poi è stato
più lo stesso. – gli sorrisi, con nostalgica
dolcezza – Né io né lui siamo stati
più gli stessi. Il giorno seguente a quella notte fu un
pochino imbarazzante…così come il giorno dopo
ancora, in effetti… ma eravamo troppo giovani per perderci
in tante parole e sciocchezze e ci piaceva quello che stavamo
scoprendo! Lui ci ha messo un po’, ma una volta superata la
fatidica soglia, – riflettei un attimo
sull’azzeccatissima scelta di parole – astratta e
non, non fece che godersi quella cosa con me! – Colin
approvò, annuendo compiaciuto - Lavoravamo
insieme, quindi passavamo tutto il tempo insieme. E quando
c’era una pausa tra le riprese, un buco tra gli esercizi, un
momento morto alle riunioni con Oliver, beh, ogni scusa era buona per
appartarsi in qualche anfratto! Più passava il tempo, meno
stavamo sulle spine. Non si può dire che la cosa divenne
ufficialmente di dominio pubblico, ma, pur senza farne diretto
riferimento, un po’ tutti lo sapevano. La sera continuavamo
ad uscire o divertirci con tutti i ragazzi, ma di notte cominciammo a
dormire insieme, a volte nella mia stanza, a volte nella sua. Spesso ci
capitava di girare o preparare delle scene al tramonto. Il tramonto del
Marocco ti toglie il fiato, lasciatelo dire. Credo non si possano
nemmeno immaginare tanti colori così mischiati
insieme… Comunque, cominciammo a immaginare come sarebbe
stata l’alba! Una mattina lo buttai giù dal letto
alle 4, guidammo fino ad un punto imprecisato nel deserto e la vedemmo.
– quel ricordo m’illuminò più
di ogni altra luce all’orizzonte – Fu
così fantastica che ripetemmo l’esperienza! Alcune
volte ci appostavamo con una tendina fin dalla notte precedente e
aspettavamo le prime luci del giorno, altre partivamo prestissimo,
quando intorno c’era solo silenzio e buio; me lo ricordo come
fosse ieri, - lo guardai sorridendo – lui finiva per dormire
per l’intero viaggio e io mi godevo quella pace perfetta.
–
- Due uomini che
ammirano l’alba….tu sei peggio di mio
fratello! –
- Ma finiscila!
– lo zittii con un gesto della mano, poi gli lanciai un
subdolo sguardo di sfida – Una sera organizzammo una piccola
cena privata ai bordi di un’oasi semi-onirica, circondata da
palmette e cammelli; c’eravamo noi, i teli con le vivande, le
stelle e l’acqua, nient’altro! Ci facemmo un bel
bagno nudi e restammo lì a parlare per tutta la notte.
– conclusi, alzando in modo evocativo le sopracciglia.
- A parlare, eh?
–
- Esattamente.
–
- Bugiardo!
– disse, scuotendo la testa.
- Anche a parlare,
sì! –
- Doveva piacerti
davvero molto…nessuno si prende tanta briga solo per una
scopata! – spiegò candidamente.
- Volgare. –
- Realista. -
- Senza cuore.
–
- Femminuccia!
–
Spalancai gli occhi,
mostrandomi offeso: - Benissimo, non ti racconterò cosa
abbiamo fatto per Natale!
- Fammi indovinare, ti
ha regalato un palloncino con su scritto “Sei
l’amore della mia vita”?! –
- No! – lo
guardai accigliato – … Un palloncino?? –
- Oh, giusto, perdona
la pochezza e la rozzezza del mio suggerimento! Era un diadema,
principessa? – sorrise beffardamente e io mi presi il capo
tra le mani, rassegnato – Andiamo, sono tutto orecchie!
–
- Non tornai a casa,
durante la breve pausa natalizia, rimasi con lui a Londra. –
mi tirai su a sedere, sistemandomi meglio sulla sedia – Il
distacco dal Marocco fu duro: fine del caldo, fine dei colori, fine del
contorno magico ed affascinante. Temevo che il ripiombare nella cara
vecchia Londra, in un contesto più comune e conosciuto,
avrebbe potuto incrinare il nostro… legame…
ancora relativamente nuovo e fragile. Ero ad un punto in cui non avevo
più alcun dubbio, alcuna paura, sarei sceso per strada
tenendolo per mano! Ma lui era strano, solitamente bofonchiava qualcosa
di incomprensibile nei rari casi in cui tentavo di rendergli chiari i
miei sentimenti a gesti o parole. Quella notte avevamo prenotato una
suite molto lussuosa, – mi rividi davanti ogni piccolo
particolare di quella enorme stanza arredata in stile impero
– cenammo in camera, facemmo un lunghissimo bagno, sommersi
di bollicine profumate, parlammo per ore – mi
accorsi dell’occhiata esplicativa che Colin mi rivolse
– e sì, sì, facemmo tutto quello che si
poteva fare, ok? – mi lasciai scappare un sorrisone da ebete,
ma tremendamente sentito – E poi, così, prima di
dormire, mi disse che mi amava. – in quante notti da solo,
arrabbiato, disilluso, quel ricordo mi aveva scaldato il cuore e
convinto a tenere duro. – Andiamo, Colin! Fuori
c’era la neve, era Natale, eravamo in questa suite perfetta,
con le luci soffuse, il cibo squisito, la vasca perfetta, il camino
acceso, le lenzuola di seta, il letto enorme, sesso perfetto,
d’accordo? Il momento era romantico! –
- Credevo avresti
detto che era perfetto!
–
Piegai la testa sulla
spalla, implorandolo di provare un po’ di empatia.
Colin mi
fissò per qualche secondo, poi sbuffò.
- Va bene, va bene..!
Sono commosso! Immagino che da quel giorno in poi sia stato tutto un
“ti amo di qua, ti adoro di
là…” –
- No! Certo che no,
per chi ci hai preso?! – gli risposi indignato –
Però le cose divennero un po’ più
definite, si può dire che diventammo una specie
di… coppia, ecco! Prendemmo a dormire insieme ogni notte, a
esternare i nostri sentimenti in modo un po’ meno scombinato,
– inclinai un lato delle labbra, ricordando quanto Colin non
riuscisse ad evitare di arrossire le prime volte in cui mi diceva
qualcosa di tenero – ci promettemmo di non coinvolgerci in
alcun modo con nessun altro, benché questo non fosse
comunque successo, dalla prima notte che avevamo passato insieme. E
sai, fu assurdamente facile e naturale rimaner fedeli l’uno
all’altro per tutto il tempo. –
- Eamon dice che uno
dei suoi aspetti preferiti dell’essere gay è la
smisurata liberta sessuale che ne deriva e lo trovo assolutamente
invidiabile! –
- Deve avertelo detto
almeno dieci anni fa, dato che adesso sta appiccicato alle gambe di suo
marito come se non ne avesse di sue per stare in piedi… -
gli dissi con tono ed espressione molto esplicativi.
- Oddio! –
piagnucolò, portandosi una mano davanti agli occhi
– Non ricordarmelo, non ho ancora ben assorbito questo
concetto… -
Risi fra me, annuendo:
- In Tailandia è tutto esotico! Il cielo è
esotico, l’atmosfera è esotica, il cibo
è esotico, i balli sono esotici, le feste, i paesaggi, le
persone, tutto esotico. Il che produsse una svolta esotica alla nostra
relazione! Soprattutto nel sesso… - ammiccai soddisfatto
– Se possibile, avemmo ancora più da lavorare,
laggiù. Lui si fece male con… con una delle
armature del set – era stata una caduta da cavallo, in
realtà – e ci prendemmo un bello spavento; passai
due notti con lui nell’ospedale della capitale che parevano
non finire più. E piove tanto, in Tailandia! Specialmente se
capiti nel periodo sbagliato. Però le persone sono tutte
davvero tranquille e ospitali e Bangkok è una
città col suo fascino, sai? Anche tante isolette vicine alla
costa sono straordinarie, verdissime, ancora immerse in una natura
maestosa e fittissima. Riuscimmo a scappare dalle grinfie di Oliver,
qualche volta, e a visitarne un paio!– ridacchiai –
Dicevi che ti sembrava impossibile che esistesse un posto
più verde della tua Irlanda! –
- Lo dicevo io? Venivo
anch’io?! – mi domandò in un misto di
stupore e aspettativa.
Ah,
già.
Merda.
- Beh,
sì…sì, certo! Tu, Rosario, il piccolo
gruppo che era venuto formandosi sul set coi ragazzi. Erano posti
davvero bellissimi, ne ho dei ricordi fantastici. –
- Non vedo
l’ora che tutte queste cose mi tornino in mente. –
mi sorrise, poi esclamò, con convinzione – Sai,
non mi va per nulla di guardarmi film che ho girato ma che non rammento
nemmeno di striscio, però questo Alexander dovremmo
vedercelo insieme! –
Alexander era fuori
questione, da sempre.
Sapevo che in qualche
momento di sconforto Colin si era rifugiato in quell’epica
realtà di cellulosa ed io stesso avevo cercato di annegarvi
malinconia e disillusione, in certe occasioni, puntualmente
sbeffeggiato da mio fratello, ma vi era fra noi un tacito accordo per
cui Alexander se ne doveva restare lontano da noi, al di sopra delle
nostre questioni quotidiane, dei nostri problemi di basso profilo.
Un conto era il noi idealizzato e
perfetto che conservavamo nei nostri ricordi felici di tanti anni
prima, un conto era il noi
incasinato e strampalato che ci eravamo ritrovati ad essere.
Ma anche
questo, come ogni altro aspetto che riguardasse me o la nostra
relazione, era svanito nell’oblio della memoria difettosa di
Colin.
- Certamente.
– mi limitai così a dire, contando sul fatto che
sarei in ogni modo riuscito ad evitarlo.
Colin mi
fissò per qualche secondo, finché comparve sul
suo volto un sorrisetto compiaciuto, ma composto.
- È
perfetto? O, almeno, lo era, a quel tempo? Ne parli come di un tipo
senza difetti, il sogno perduto di ogni donna…o gay!
–
Spalancai
istintivamente gli occhi, sorpreso: - Davvero è questa
l’impressione che ti ho dato? –
Lui annuì e
io scossi la testa, allibito.
- No! Oh, no! No, no
no! – forse ci misi troppa enfasi perché lo vidi
accigliarsi leggermente – Non so perché ti abbia
dato questa impressione, ma ti assicuro che non è
così… “l’uomo
ideale”? Oh, no, proprio no! – mi venne quasi da
ridere ad accostare un aggettivo del genere al nome di Colin: lui era
tante cose, ma certo non il sogno di ogni persona che desideri un
po’ di gioia incondizionata da qualcuno; mi chiesi se per
caso potesse essere vero che fornissi una descrizione tanto lusinghiera
di lui quando entrava nei miei discorsi personali ed intimi, avrei
dovuto chiedere a Rosario – Lui è pieno di
difetti, fidati! Forse, anzi, certamente, all’epoca ancor di
più… Però, sai
com’è, non puoi farci niente e se ti prende ti
prende, ti porta via! E guarda, - sospirai tra me e me, abbassando lo
sguardo sulle mie mani nervose – tutti questi anni e sono
ancora qui… Ma anch’io ero un disastro e lo sono
tuttora! Direi addirittura che lui è molto più
equilibrato di me, al momento! – gli strizzai un occhio,
notando che stava cominciando a capire cosa intendessi –
Eravamo profondamente incasinati, spaventati; umani, in
realtà, quindi imperfetti. E fu proprio con
umanità e imperfezione che gestimmo il nostro tempo,
specialmente verso la fine del film. Sai, dalla Tailandia in poi,
iniziammo a capire che non avremmo avuto il resto delle nostre vite per
stare insieme in santa pace, per starcene lì, a goderci la
vita, riparati dal mondo. I giorni passavano, le scene rimaste
diminuivano sempre di più e ad un certo punto fu come avere
un countdown continuo che ci ronzava nelle orecchie. –
deglutii nel ricordare quella spiacevolissima sensazione, quasi mi
sentii di nuovo addosso quel senso di ineluttabile conclusione, quella
paura del domani, quella sicurezza inossidabile che niente avrebbe
più potuto essere ancora in quel modo – Ogni
momento insieme diventava via via più frenetico,
più ansioso, come se dovessimo fare tutto quello che poi
sapevamo
che non avremmo
più potuto fare. E diventava sfiancante, ci divorava e non
riuscivamo a parlarne. -
Mi accorsi di essermi
agitato un po’ troppo e di star gesticolando.
Presi
lentamente dell’aria e distesi le braccia lungo i fianchi,
cercando di contenere quell’ondata di emozioni ancora
così forti. Abbozzai un sorriso e ripresi con calma:
- Ma è la
nostra natura di temere quel che non si conosce, no? Il terrore del
futuro, di perdere qualcosa di caro, qualcosa che non credevamo potesse
esistere, ma che ci toglie il fiato la sola idea di non poter
più avere. – mi schiarii la gola, combattendo con
tutto me stesso quei miei occhi traditori che minacciavano di
inumidirsi; ironico,
l’intrascurabile parallelo tra il me di allora e il me di
adesso, di nuovo qui, a guardarti, con la paura di non averti
più con me, ancora una volta. –
Comunque quei giorni furono splendidi, tutti, fino
all’ultimo, timore o meno. Il periodo successivo fu
più complicato, ma di questo magari parliamo
un’altra volta! – conclusi sorridendogli.
Mi guardava con
espressione particolare, come se lo avesse colpito qualcosa che avevo
detto, come se mi vedesse ad un tratto sotto una luce diversa.
Come se
avessi detto qualcosa di familiare?
- Certo,
sì… - disse, annuendo appena.
Jared,
faresti meglio ad andare a cogliere fragole, qui si naviga in
alto mare…
Però quella
sua uscita sull’idea di perfezione che avevo dato del mio
“principe azzurro misterioso” continuava ad
incuriosirmi!
- Chissà
perché – ripresi con tono vivace – hai
dedotto quella cosa dell’uomo perfetto! Sarà che
forse sei più sdolcinato di quanto vuoi far credere?!
– lo punzecchiai e lui roteò teatralmente gli
occhi – D’accordo, sarà stata colpa mia
e del flusso emozionale
che mi son tirato addosso! O più semplicemente è
la mia anzianità incalzante che mi rende un
rimbambito… -
- Ah! Bella questa! Io
ho ventisei anni, batto la testa e mi ritrovo dieci anni più
vecchio, con un piede quasi nella fossa, si potrebbe dire! –
- Hai trentasei anni,
Colin! Mica novantadue! – protestai
- Disse lui,
dall’alto dei suoi… Ventotto, ventinove?
–
- Ne ho quaranta,
quarantuno a dicembre. – gli risposi seriamente.
Manco più
l’età, povero me!
- Certo! –
sbottò, prima di scoppiare in una risata fragorosa
– Come no! –
- Guarda che
è vero… -
- Ma dai! –
continuò, col tono di chi la sa lunga.
- Senti, non
è una cosa che abbia vissuto proprio nel migliore dei modi,
potremmo non starci troppo sopra?! Sono un quarantenne, ok? –
conclusi, alzando di qualche ottava di troppo la voce.
- Dici davvero?
–
Feci segno di
sì con la testa. Mi puntò per qualche secondo
come se fossi un marziano, poi, di nuovo:
- Davvero, davvero?
– gli lanciai un’occhiata alquanto
malevola, al che mise le mani avanti, in segno di resa – Ok,
ok, va bene… Ma ti sei fatto qualche lifting? –
- No! –
esclamai, aggrottando la fronte e dando sfoggio delle mie piccole rughe.
- Nemmeno qualche
ritocchino? – perseverò, scrutandomi –
No? No, d’accordo… - rimase un attimo in silenzio
– Sai, ho sentito dire che stanno sperimentando i primi
interventi di lifting ai testicoli...Ti rendi conto? – lo
guardai perplesso – Non sto dicendo che dovresti farlo,
insomma, dico sol-
- Colin! La vuoi
smettere di blaterare cose senza senso? –
- Scusa…
Comunque anche i miei fratelli ormai sono tutti sulla quarantina, il
che è un po’ strano! E loro non portano bene gli
anni come te, lo avrai notato..! – sollevò
allusivamente le sopracciglia. – Almeno due di loro sono
sistemati, Claudine mi diventerà una vecchia zitella...
–
- Ma che dici?! Lei
sta proprio bene! –
- È una
donna, ha trentanove anni ed è single: il suo orologio
biologico corre e presto diventerà una matta isterica, te lo
dico io! Non vedi come sta cercando di accalappiare il dottore?!
– terminò quasi in un bisbiglio.
- Il dottore? Quale
dottore?! Che farnetichi? –
- Il dottor Ross! Gli
fa gli occhi dolci, i sorrisini melensi, si inventa mille scuse diverse
per parlarci in privato… Il camice è affascinante
e prestigioso, Jared, facci un pensierino! –
ridacchiò.
Andammo
avanti a battibeccare e scherzare ancora un po’, in una
bizzarra atmosfera spensierata e leggera, una di quelle cose che se ti
soffermi a pensarci non ti sembra possibile. Quella sensazione di
vivere in una dimensione surreale, ma al tempo stesso familiare,
continuava a non abbandonarmi; ed era piacevole, l’unico
aspetto piacevole di quei giorni caotici e spossanti.
Dopo non
molto, la sua famiglia fece ritorno dall’aeroporto e
rimanemmo a chiacchierare tutti insieme ancora un po’. Eamon
tirò fuori l’argomento "Artifact" ed insistette
parecchio perché la mattina seguente mi dedicassi al nuovo
progetto in ballo e non mi facessi vedere almeno fino all’ora
di pranzo.
Il fatto non
mi faceva stare tranquillo, per qualche motivo mi metteva anche un
po’ d’agitazione, ma sapevo che aveva ragione, che
non potevo abbandonare il mio documentario né deludere tutte
le persone che con me ci avevano investito e creduto. Colin stesso mi
rassicurò, dicendo che mi avrebbe aspettato per quando
avessi fatto.
Un
po’ a malincuore, senza darlo a vedere, acconsentii, salutai
tutti ed uscii dalla stanza.
Ma quando in
fondo al corridoio, vicino alle macchinette, intravidi Claudine e il
dottor Ross che prendevano un caffè insieme, non potei fare
a meno di lasciarmi andare ad una risata.
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Capitolo 10 *** questo amore ***
10
Buona
domenica!
Ringrazio
dal profondo del cuore tutte le fantastiche ragazze che,
nonostante
la lunghissima assenza, mi hanno comunque regalato preziosissime parole
allo scorso capitolo.
Non
posso che sperare che anche questo, appena appena partorito, sappia
soddisfarvi!
E'
molto lungo e forse un po' noioso, chiedo scusa, ma ho dato tutta me
stessa e ci troverete dentro tanto del mio amore per Colin, per Jared e
per voi :)
Al
Nonno Alfonso, che, ovunque sia, sta certamente gustandosi la sua
adorata torta di riso! Perché lui saprebbe dirci senza ombra
di dubbio cosa sia il grande amore, ogni tipo di grande amore.
<3
10.
Lunedì mattina, ore 8.00 in punto, ero già al
Lab, prontissimo a mettermi all’opera. Peggio di un impiegato
di banca.
Mi ero trascinato
dietro Shannon, per la verità a malapena cosciente, data
l’ora. Non che il suo aiuto mi servisse, in quel preciso
frangente, ma in qualche modo sentivo di aver bisogno che fosse con me;
lasciai dunque che dormisse beatamente, accasciato su una sedia,
fingendo di essere sveglio, dietro ai suoi occhiali da sole.
Emma aveva chiamato a
raccolta l’intera troupe del Lab, ma quello che intendevo
fare quel giorno era più che altro un lavoro di revisione
generica per il quale io e lei eravamo più che sufficienti.
All’inizio
la mia concentrazione scarseggiava, mi limitavo in gran parte a
guardare l’orologio ogni cinque minuti. Provavo la fastidiosa
sensazione di trovarmi nel posto sbagliato. Il che era impressionante,
perché, lavorando ai miei progetti, ero solito sentirmi in
pace con me stesso e il tempo mi volava via in un attimo.
E invece continuavo a
pensare che avrei dovuto essere in ospedale, vicino a Colin, a
controllare come stesse, cosa facesse.
Ad un certo punto mi
venne persino un piccolo attacco d’ansia, pensando che
magari, non vedendomi per un’intera mattinata, avrebbe potuto
di nuovo scordarsi di me! Anche di quel poco che sapeva di me, ma che
avevo faticosamente conquistato. Furono necessari alcuni minuti e un
severo rimprovero a me stesso perché riuscissi a calmarmi e
recuperare una dimensione razionale. Il tutto, ovviamente, in totale
silenzio, simulando la più completa tranquillità,
per non rendere partecipi gli altri della pazzia galoppante da cui ero
affetto.
Pian piano
andò meglio, entrai nel vivo del lavoro e fui in grado di
distrarmi per un po’.
Ma alle 12.30 decisi
che avevo fatto fin troppo, promisi a Emma che avrei mangiato qualcosa
in un bar, chiamai un taxi e finalmente mi diressi verso
l’unico posto in cui ero sicuro di volermi trovare.
Ad
aspettarmi all’ingresso secondario trovai Eamon.
- Eccolo
là, il nostro regista! – mi accolse con un gran
sorriso sul volto paffuto.
- Buongiorno
adulatore! –
- Allora,
com’è andata? – mi chiese,
chiudendo la porticina alle mie spalle.
- Ho lavorato
bene, grazie. Sono soddisfatto! –
Un attimo di silenzio
durante il quale mi scrutò rapidamente.
- Sei stato
bene? –
- Sì…
- risposi un po’ interdetto.
- Hai
guardato l’ora ogni tre secondi, non è vero?
Trepidante di tornare qui! –
Lo guardai sorpreso,
poi, sconfitto, sbuffai.
- Oh,
andiamo, cosa vuoi da me?! – mi lamentai e lo colpii con un
gomito.
Eamon rise e insieme
prendemmo a percorrere il corridoio.
- Parla di
te, sai? – riprese, voltandosi verso di me –
E’ da un paio di giorni che ti nomina spesso, chiede di
te… -
- Sul serio?
– domandai, rallentando il passo. Non me
l’aspettavo proprio.
- Umm umm!
– annuì e mi sorrise dolcemente.
- Wow…
- sussurrai appena, più fra me che altro.
Chiedeva di me! Di me! Avanzai
lentamente, con lo sguardo basso, cercando di assorbire quella notizia
tanto inattesa e insperata.
- Si vede che
sei in grado di colpirlo… Ma questa era una cosa che
sapevamo già! – concluse, facendomi
l’occhiolino.
- Beh…
- sorrisi con un lato della bocca, lievemente imbarazzato, ma
totalmente in brodo di giuggiole.
Colin parlava di me!
Riprendemmo a
camminare ad un ritmo normale, quando Eamon si fermò di
colpo.
- Ah, a
proposito, Jared! – mi fermai a mia volta e aspettai che si
girasse verso di me. – Ho saputo del tuo uomo del mistero…
- mi disse con tono profondo ed espressione ampiamente esplicativa.
Mi si
spezzò il respiro in gola e spalancai gli occhi, senza
riuscire a proferir parola.
- Ma dai, non
fare quella faccia! E’ una tattica astutissima che non poteva
che essere concepita dalla tua mente geniale! –
- Ecco…
io… - Dio, mi sentivo morire dalla vergogna e potei appena
farfugliare qualcosa.
- Ieri sera
cercavo di raccontargli qualcosa di me e Steve e lui dopo poco si
è messo a sbuffare, borbottando che non ho storie
interessanti come la tua! E’ così che mi ha
accennato la questione… e mi ha anche chiesto che cosa io ne
sapessi, se conoscessi questo tipo! –
- Io…-
deglutii – Non so che dire… è stato
più un caso che... - decisamente inconsueto per me, ma
dovevo esser diventato più rosso di una candela di Natale.
- Oh, su,
Jared! Non ti sentirai mica in imbarazzo con me?! Eddai! Te
l’ho detto, - si avvicinò, posandomi una mano
dietro la spalla e spingendomi in avanti, accanto a sé
– è un’idea geniale! Che poi,
conoscendolo, quello scemo sarebbe anche capace di diventar geloso di
sé stesso! – aggiunse ridendo.
Mi lasciai un
po’ andare, sorridendo a mia volta.
- Senti, non
ho ancora pranzato e tu di certo non ti sei preso il tempo per mangiare
qualcosa… facciamo un salto alla mensa? -
- Sì,
volentieri! – gli risposi il più spigliatamente
possibile, cercando di scacciare la figuraccia dai miei pensieri.
- Andiamoci
direttamente, tanto Colin sta dormendo, potrai vederlo subito dopo lo
psicologo. –
- Ah,
aspetta. – mi bloccai davanti alle scale – devo
prima posare un po’ di cose in camera… -
Eamon mi
squadrò rapidamente, per poi rivolgermi uno sguardo
dubbioso. In effetti non avevo niente in mano.
- Il
cappello, gli occhiali… - li indicai candidamente.
- Puoi
tranquillamente appoggiarli sulla sedia o sul tavolo. -
- Sì,
ma la giacca, la sciarpa..! –
Mi fissò
ancora, accigliato, finché d’un tratto il suo
volto si distese nell’espressione soddisfatta di chi realizza
qualcosa.
- Aaaaah! La
giacca, la sciarpa… Certo! – annuì
accondiscendete – Vai, vai, io ti aspetto là
allora. – e si avviò lungo l’altro
corridoio, non senza essersi fatto prima sfuggire un risolino.
Alzai gli occhi al
cielo, scuotendo la testa.
I Farrell. La rovina
della mia esistenza.
In
camera, Colin dormiva, apparentemente tranquillo, in una delle sue
solite posizioni sghembe. Nel lettino accanto, suo padre se la russava
beatamente, nella stessa identica posizione. Sarebbero stati da
fotografare.
Posai i miei effetti sullo schienale della poltrona, cosa che avrei
fatto successivamente notare ad Eamon, e mi avvicinai a Colin.
Mi dispiaceva che dormisse, mi era mancato. Anche la sua parte rozza e
cafona mi era mancata. Sorrisi, dandomi dell’irrecuperabile
idiota.
Gli sistemai un lato del lenzuolo bianco, che era scivolato oltre la
coscia, e mi avvicinai appena.
- Ci sono, Col, sono
tornato. –
Durante il pranzo, rigorosamente a base di frutta, in un luogo che a
quanto pare discriminava i salutisti, Eamon mi aggiornò su
numerose faccende, dalle telefonate che continuavano ad arrivare agli
esami cui Colin era stato sottoposto per tutta la mattina, in
previsione di una prossima dimissione. Purtroppo sulla memoria non
sembravano esserci miglioramenti né prospettive troppo
ottimistiche. Io gli raccontai qualcosa in più su Artifact e
sui miei progetti al riguardo. Prendemmo il caffè insieme al
signor Farrell, che, dopo non molto, ci aveva raggiunti, cacciato dalla
stanza con l’arrivo dello psicologo.
Poco prima delle 15,
Rita e Claudine ci raggiunsero, per dare il cambio ai due Eamon. Non
potei non notare che Claudine era vestita in modo ricercato, pettinata
accuratamente e truccata alla perfezione. Mi sforzai di rimanere serio,
già pregustando i commenti di Colin.
Quando svoltammo nel corridoio, diretti alla stanza 31, quasi ci
scontrammo col dottor Newton ed il professor Kleeman, lo psicologo, che
avanzavano nella nostra direzione.
Mentre Rita e Claudine si fermarono, sorprese, a parlare con loro,
intravidi che la porta della camera, in fondo al corridoio, era aperta;
mi ci diressi velocemente, sbucando perplesso all’interno
della stanza.
Trovai Colin seduto su una sedia a rotelle e un’infermiera,
quella severa della prima sera, intenta a sistemargli qualcosa dietro
la schiena.
- Ehi!
– mi lasciai scivolare, come sollevato da qualcosa di
indefinibile.
- Jared!
– Colin mi rivolse un sorriso a trentadue denti –
Jared, ce l’hai fatta! –
Sembrava realmente
felice di vedermi, il che mi diede subito un’immensa carica
di buonumore.
- Ma certo!
– gli sorrisi a mia volta, poggiandomi con una spalla allo
stipite – Sono venuto prima, ma dormivi. –
- Sì,
ho visto le tue cose... Ma guarda! – batté le mani
sui braccioli della sua carrozzina, euforico. - Li ho convinti, posso
uscire! –
- Sì,
sì, può uscire… - mi precedette
l’infermiera, con tono spazientito e sbrigativo – Ma, - si rivolse
verso di me – non
deve restare fuori più di un’ora, non deve prendere
sole alla testa, non
deve assolutamente alzarsi da questa sedia né
compiere alcun tipo di sforzo fisico. – fece due passi verso
la porta, poi si girò, dando un’occhiata
frettolosa a Colin, quindi a me. – Chiaro? –
- Chiaro.
– le risposi, serio e composto.
Se ne andò,
con espressione glaciale sul volto, ed io mi ripromisi di fotografarla
veramente prima della fine e di offrirla ai miei echelon come esempio
di caso umano.
Tornai con lo sguardo su Colin, che trovai seduto in posizione rigida,
con la mano destra poggiata alla fronte, in stile militare. Lo guardai
confuso, aggrottando le sopracciglia.
- Faccio
sempre il saluto, quando arriva e quando se ne va, per almeno dieci
secondi. Credo la faccia sentire a suo agio! – mi
spiegò, per poi sistemarsi più comodamente.
Scoppiammo a ridere e
proprio in quel momento Claudine ci raggiunse.
- Salve
signor Malato, ho saputo che ti hanno concesso l’ora
d’aria! –
- Ho una
certa abilità persuasiva, devo ammetterlo! – disse
compiaciuto - E guarda qua che bel mezzo di trasporto! So che non
sembra, ma è super accessoriato! –
- Uh, quasi
quasi ti invidio! – gli rispose mentre sistemava un paio di
buste su una sedia.
- Che dici,
andiamo? –
Colin aveva spostato
il suo centro d’interesse, rivolgendosi a me, guardandomi con
aspettativa.
- Oh…certo!
– mi riscossi e mi diressi verso di lui, superandolo e
prendendo posto dietro la carrozzina, per spingerlo.
- Io vi
aspetto qui. Ho delle questioni ancora da sbrigare, delle telefonate da
fare… È per questo che mi paghi profumatamente,
fratellino! -
- Ovvio, sorellina!
Per sfoggiare abiti scollati e un make up da reality show mentre tratti
i miei affari! – aumentai il passo verso la porta, evitando
di incrociare lo sguardo di Claudine e mordendomi le labbra per restare
serio – E comunque il dottor Ross non attaccherà
fino alle cinque! Ne hai da aspettare..! –
- Colin,
smettila! – lo richiamai a bassa voce, seppur senza troppa
convinzione.
Ormai fuori dalla
stanza, sentii comunque il sospiro rassegnato di Claudine.
- Roba da
matti! Te l’avevo detto io, l’orologio biolog-
Mamma! - incrociammo Rita, che ci sorrise giovialmente - Noiandiamoingiardinocivediamodopo,
ciao! –
- Fate i
bravi! – disse ormai alle nostre spalle.
Mi voltai, annuendo e
sorridendole a mia volta. Continuai a spingere in direzione
dell’ascensore, mentre Colin mi domandava se avessi lavorato
tanto ad Artipact.
- Artifact, non
Artipact… - lo corressi, dopo aver premuto il pulsante per
scendere.
- Ah, fa lo
stesso… hai finito? –
- Cosa?!
Assolutamente no! Ho solo preso atto delle cose da sistemare,
stravolgere, mantenere…ne avrò per settimane,
temo. –
Si strinse nelle
spalle: - Anch’io mi sono tenuto occupato stamattina, sai?
– si aprirono le porte dell’ascensore e vi
prendemmo posto. Colin premette un tasto e riprese a parlare.
– Sono venuti e mi hanno fatto ben quattro esami diversi! Le
analisi del sangue, l’elettroenceflogramma, la tac
- intanto scendevamo, un piano dopo l’altro – il
neu…il neurova… non me lo ricordo, una cosa
orrida, con tanti fili! – le porte si aprirono al piano
terra, una donna in camice rosa ci passò davanti e, ancora
prima che potessi muovere un dito, Colin le domandò la
direzione per il giardino. “Piano di sotto, svoltare a
destra, tutto dritto”, Colin pigiò il pulsante
giusto e ripartimmo. – E domani ne ho altri due, la risonanza
magnetica e la non mi
ricordo cosa… se tutto andrà bene,
mercoledì mi rimandano a casa! – concluse
soddisfatto, mentre le porte si aprivano di nuovo.
- È
una splendida notizia! – lo spinsi fuori.
Non era stato zitto
nemmeno un attimo.
- Vero? Non
vedo l’ora! Oh, guarda, guarda, Jared! – si
tirò in avanti, puntando un dito verso la fine del corridoio
– L’uscita! Il giardino! La libertà!
Spingi, Jared, spingi più veloce! –
- Non posso
spingere più veloce di così! – eravamo
pur sempre in un ospedale.
- Ma certo
che puoi! Continua a spingere! Dai, ci siamo quasi! –
Stavo per rispondergli
qualcosa di poco gentile, quando d’improvviso
realizzai quanto familiare fosse quello scambio di battute
fra di noi. Uuuh, molto
familiare. Ma mai prima erano state coinvolte sedie a
rotelle o portelloni su un cortile.
Dio, che tristezza assurda.
Sbuffai, scuotendo la
testa.
Finalmente arrivammo
all’ingresso del giardino.
- Oh,
aria…aria fresca, Jared! La senti? –
Dovevano esserci
perlomeno 35°, si respirava a fatica.
- La senti,
Jared? Ah, polmoni miei! – inspirò a gran forza,
allargando le braccia – Ecco, vedi? Andiamo là, su
quella panchina sotto l’albero! Fa ombra, no? Così
stiamo freschi! –
Seguii la sua
indicazione e individuai la sua meta, portandoci verso di essa.
Faceva un caldo tremendo e persi ogni cognizione di ciò che
Colin stava blaterando, cogliendo solo qualche sporadico
“fiore”, “sole”,
“natura”, “bello”.
Lo sistemai sotto all’alta pianta, le cui foglie verdissime e
larghe ricadevano in avanti, e mi sedetti accanto a lui, sulla panchina.
- Si sta
d’incanto, eh?! –
- Colin, hai
mal di testa, oggi? –
- No, non
direi… perché? – sembrava un bambino.
- Perché
a me ne sta venendo uno fortissimo! Che dici, ce ne stiamo un
po’ qui in silenzio, a riposarci? –
- Oh,
sì, certo! Ci godiamo il relax della natura… -
Allungai le gambe e
distesi le braccia sullo schienale della panchina, chiudendo gli occhi.
“Il relax della natura”… eravamo in un
mesto cortiletto d’ospedale, sotto uno grosso rampicante a
boccheggiare per il caldo… Lui e il suo solito, fastidioso
entusiasmo.
Dopo pochi secondi, mi sentii irrimediabilmente osservato.
- Che
c’è, Colin? – domandai, senza muovermi
di un millimetro, gli occhi ancora ben chiusi.
- Niente…
è solo che… stavo pensando… - mi
voltai di sbieco, sollevando appena una palpebra - E’ un
po’ di tempo che… Amelia. Ho per la testa Amelia.
–
Quell’uscita
sì che mi fece aprire gli occhi. Me li fece spalancare,
preciserei.
- Forse ti
sembrerà assurdo, perché sono passati tanti
anni… ma nella mia testa sono solo pochi mesi. E mi
chiedevo, ecco… nessuno le ha telefonato, lei non si
è fatta vedere né sentire… mi chiedevo
se, insomma… - si passò una mano tra i capelli
corti, fermandola sulla nuca – non… non
l’ho mai più rivista? Voglio dire, è
stata mia moglie! Beh, non era proprio legale, ma…
è Amelia,
sai?
Lo sapevo. Lo sapevo
eccome.
Non era un argomento di cui parlassimo spesso; quando la nostra
relazione era cominciata, Colin aveva chiuso con lei da almeno due
anni. Però se il pensiero di Amelia veniva fuori, in qualche
modo, non svaniva mai immediatamente, gli riempiva la mente per almeno
qualche istante. Non aveva mai avuto bisogno di dirmelo, ma ero quasi
sicuro che fosse stata l’unica donna che avesse mai amato
davvero. Non era durata tanto, ma il segno era rimasto. E non era mai
stato un problema, anch’io avevo il mio passato, i miei
trascorsi, le mie cicatrici.
Ma da quando ci eravamo conosciuti, tutto il resto, tutti gli altri,
erano passati in secondo piano. Assolutamente in secondo piano. Non
poteva farmi questo scherzo, adesso… Non potevo giocarmela
con una pseudo ex moglie che proiettava ancora la sua ombra, avendo a
disposizione solo i mezzi del migliore amico sfigato con problemi
sentimentali alle spalle!
- Ci…
- mi schiarii la voce, tirando su le gambe e girandomi nella sua
direzione - ci stai pensando molto? –
- Solo un
po’… Insomma, sto riflettendo in
generale… Mio fratello e mia sorella sono sposati, Jared. Eamon è sposato!
– specificò mentre allargava le braccia e mi
guardava stralunato – Capisci?! E’…
è stata una doccia fredda per me! Noi eravamo sulla stessa
linea d’onda, divertirsi e basta! E anche se ci innamoriamo,
non siamo capaci di far funzionare le cose e mandiamo tutto a puttane!
E ora mi sveglio, con dieci anni di vita perduti, lui è
riuscito ad andare avanti… e io? –
abbassò il tono e si incurvò in avanti, quasi
rannicchiandosi su di sé. – Ho due
figli… così dal niente. Due figli con due madri
che a quanto pare non ho amato abbastanza… E quanto dovevo
essere incapace di farlo se ho rinunciato ad una famiglia, ben due
volte?! – le sue pupille vagavano su di me, agitate e perse
– Sai quanto Eamon debba essere stato sicuro per fare un
passo del genere? Insomma lui… E io invece sono solo. Per un
po’ ho creduto che Amelia… che lei fosse, sai..?
Continuo a pensarci, ma… non è lei! Conosco e
ricordo il mio passato, quindi non oso immaginare quel che non ricordo.
Quante donne in questi anni non sarò riuscito ad amare, a
farmi bastare? Ho ben due
bambini che ne sono almeno una piccola prova…
- inspirò profondamente, unendo una mano lievemente tremante
con l’altra, poggiata su un bracciolo della carrozzina - Come
l’ha capito mio fratello? Come lo capisci quando trovi la
persona giusta? Come ti accorgi che non devi sprecare
quell’opportunità, che quello è il tuo
grande amore..? –
Sono
qui. Sono davanti a te, Colin, sono io il tuo grande amore. Non mi
interessa lo sport, non mangio le bistecche, detesto i tuoi adorati
documentari del venerdì sera, ma sono io il tuo grande
amore. È per me che hai versato tutte quelle lacrime; con me
che hai scoperto la meravigliosa emozione di ogni respiro; su di me che
hai investito ogni tua energia. Sono io che te l’ho fatto
capire, Colin. Sono io, il tuo grande amore.
- Jared?
Scusa, non volevo confonderti con tutte queste parole… -
- No, io
non… - mi riscossi, allontanando lo sguardo dal suo
– Non mi stavi annoiando, Colin. – raccolsi ogni
mezzo che avevo per non lasciar trasparire alcuna delle sensazioni che
mi stavano tormentando e tornai a guardarlo, forzando un sorriso
– Tu sei un uomo forte e non sei solo. Ci sono tante cose che
non ricordi e che poi ti aiuteranno a ricostruire il tuo quadro
generale, non buttarti così giù, ora. Nessuno di
noi può aiutarti a rimettere insieme quello che hai provato
in questi anni, devi solo avere pazienza. Ma ti prometto che non
sarà niente di terribile. E poi tu hai le tue poesie, fonti
inesauribili di perle di saggezza e compagne confortanti
che ti porti sempre dietro! – conclusi ammiccando.
Finalmente sorrise: -
Allora queste voci su un mio crescente interesse per la lettura sono
vere, eh?! –
- Già!
Ultimamente sei diventato un fanatico di Prévert ad esempio.
E non disdegni Milton, anche se non saprei dire
perché… Whitman, Shakespeare
ovviamente… Keats, per rimanere tra i poeti. Di Oscar Wilde
preferisci la prosa invece. – Colin mi seguiva, curioso - Ti
ho visto con in mano un libretto di Catullo, qualche volta! Ma, tra gli
antichi, la tua preferita è Saffo. – lo vidi
illuminarsi sorpreso, ma gli impedii di dire qualsiasi cosa –
E, prima che tu rovini questa acculturata rassegna di autori tirando
fuori qualche volgare battuta sul termine
“saffico”, Lesbo e promiscui accoppiamenti tra
donne, sappi che il nuovo “te” non approverebbe!
–
- D’accordo..!
– ridacchiò – Ma non sottovalutarmi! Per
aver sviluppato una tanto estesa cultura letteraria, devo aver
posseduto fin dalla più tenera età una certa
predisposizione all’arte, antica e moderna. – disse
con aria altezzosa.
- Certo! Per
questo la prima volta che ti chiesi il tuo parere
sull’educazione pederastica in Macedonia mi rispondesti con
un rutto! –
Colin
scoppiò a ridere: - Finalmente una cosa che suona da
“me”! Decisamente da “me”.
Era vero e non potei
che unirmi alle sue risate. Speravo di poter continuare a ridere per
ore, di non dover smettere ed accorgermi del grosso buco che avevo
nello stomaco. Speravo di poter continuare ad illudermi che si sarebbe
risolto e che discorsi come quelli di prima non li avremmo fatti mai
più.
- Grazie,
Jared. – mi sorrise, dopo un po’ – Mi
sento meglio. Mancherebbe solo una piccola, graziosissima sigaretta!
–
- Non
cominciare… -
- E una bella
Guinness ci starebbe d’incanto! – gli lanciai
un’occhiataccia molto eloquente – Andiamo! Tu ed
io, una bella natura , una sigaretta e una birra! –
- Ma quale
bella natura?! – mi accigliai – E finiscila! Ti
concederò una lattina di Guinness, una sola, forse, quando
tornerai a casa… -
Colin mi fissava
perplesso, probabilmente domandandosi che autorità potessi
mai avere io su di lui.
Giustamente, dal suo punto di vista.
- Beh,
insomma… vedremo un po’. – cercai di
correggere il tiro.
Restammo in silenzio
per qualche minuto. Non un silenzio imbarazzante o di circostanza,
semplicemente molto naturale, come se ci fossimo lasciati il tempo di
assaporare quel momento di tranquillità.
Presi a tracciare con le scarpe piccole forme astratte sul terreno; una
di esse venne a somigliare peculiarmente ad uno dei miei stravaganti
Creeps. Particolarmente soddisfatto, non riuscii a trattenermi, mi
guardai attentamente intorno e tirai fuori dalla tasca il BB. Colin era
assorto a rimirare il cielo e gli altri pochi squilibrati che erano
fuori a morire di caldo non erano abbastanza vicini da notarmi.
Velocemente scattai una foto e riposi il cellulare.
- Però
vedi… - se ne uscì d’un tratto Colin,
facendomi quasi saltare sulla panchina – lo so che
è complicata e tutto… eppure una storia come la
tua, come la vostra, intendo... – si fermò a
guardarmi per qualche secondo – sarà incasinata,
d’accordo, però è quello di cui
parlavo… io credo che ne valga la pena, alla fine dei conti.
–
Sorrisi appena, quasi
con ironia, annuendo lievemente: - E’ complicata,
sì. -
- E immagino
che lo sia stata sempre di più, dopo la fine del
film… -
Un timidissimo alito
di vento portò con sé l’inconfondibile
profumo del gelsomino.
- Sai, ero
giovane… e vorrei dirti anche inesperto, ma non è
così. Ne avevo già passate parecchie nella mia
vita, superato momenti di certo non esaltanti e mi ero già
formato una bella corazza. Ero già ben consapevole di cosa
potessi aspettarmi o meno dalle persone e di come non farmi abbattere
da eventuali delusioni, ma… - non dovevo neanche chiudere
gli occhi per riaverlo di fronte, forte, bello, il mondo racchiuso nei
suoi grandi occhi scuri – avevo messo tutto da parte,
lasciato cadere ogni forma di protezione, avevo imprudentemente
abbandonato tutto me stesso nelle sue mani. – dissi, con
assoluta semplicità – Me ne rendevo conto, un
giorno dopo l’altro, ma, consciamente o no, non riuscivo a
tirarmi indietro. E non ero un’ingenua mammoletta, sai? Non
pensavo che per noi sarebbe stato tutto facile, tutto rose e
fiori, ma ci credevo in quel “noi” e sentivo la
necessità di provarci. Mi ero preparato un programma per il
futuro, almeno per quello più immediato, e aspettavo il
momento in cui lui mi avrebbe detto il suo. –
- E non te lo
disse? – mi anticipò Colin, leggermente accigliato.
- Oh,
sì. Ma c’entrava molto poco col mio. –
presi aria e mi focalizzai su un punto casuale, in un angolo assolato
del giardino – Ci regalammo una vacanza, al termine delle
riprese, rimanendo qualche giorno in una di quelle magnifiche isolette
tailandesi di cui ti parlavo ieri. Giorni bellissimi, per
carità, ma, a pensarci bene, un inutile prolungamento di
quella fine che non sapevamo affrontare. Non chiarimmo né
stabilimmo niente, se non che volevamo restare insieme e preservare
quanto, con fatica da una parte e stupore dall’altra, avevamo
costruito. Lui riprese la sua vita, se ne tornò
in… - e
basta con questa Irlanda, cavolo! – a casa e poi
passò del tempo con – il bambino appena nato era
troppo rischioso - …sua figlia! Aveva una bambina ancora
piccola. – spiegai, rivolgendomi direttamente a lui e
cercando di essere naturale.
- Una
figlia?! Non ti sembrava un elemento rilevante da citare prima?!
–
- Beh,
no… Non per il momento… -
- E la mamma?
Della bambina, voglio dire… -
- No, niente, storia
chiusa. – conclusi brevemente, sottolineando il concetto con
un convulso segno delle mani.
Colin annuì
pensieroso, sollevando le sopracciglia, probabilmente incamerando e
catalogando la nuova informazione.
- Io me ne
tornai a Los Angeles, all’apparenza alla mia vita di prima,
in realtà profondamente cambiato. Qualunque cosa facessi,
ovunque andassi, avevo con me quella carica, sai? No,
quell’energia… sai, quella consapevolezza che...
No, non lo puoi sapere, ma è quella cosa per cui invece di
uno ti senti mille, come se fossi sempre coperto, alle spalle, come
se… - mi portai una mano sul volto, passandola tra le labbra
e la guancia, ripensando a quel breve periodo in cui
l’euforia era ancor più potente del senso di
lontananza, ricordando come mio fratello si fosse accorto
immediatamente che qualcosa di irreparabile doveva essere accaduto.
– Ci sentimmo per e-mail e per telefono per quasi un mese e
quando finalmente mi raggiunse, in città, ero
così emozionato che avrei potuto far concorrenza a un
bimbetto di sei anni la mattina di Natale! Il tipo di emozione
mutò in un batter d’occhio, quando lui
cominciò a borbottare frasi sconsiderate sulla sua
impossibilità di mantenere relazioni serie, di resistere
alle tentazioni femminili, di accollarsi responsabilità che
lo avrebbero soffocato. Se solo mi avesse spiegato che non si sentiva
in grado di sopportare le pressioni dell’ambiente, di
rischiare di deludere le aspettative di chi aveva intorno, di
affrontare i pregiudizi, io gli avrei… Se solo mi avesse
confessato che per lui era troppo dura restare a lungo separati, che
aveva paura di non potermi trovare, non potermi avere, io gli
avrei…io mi sarei… io non avrei mai… -
mi resi conto che stavo quasi implorando Colin, come se
quell’estraneo ignaro e confuso, davanti a me, potesse in
qualche modo cambiare il passato. Mi ricomposi e distolsi lo sguardo.
– Invece non disse nient’altro e io mi sentii come
se non fossi abbastanza per lui. –
- E quindi
avete rotto? – Colin mi guardava, serio e apparentemente
molto coinvolto.
- Già,
- tentennai, rilasciando una risatina amara – avrebbe avuto
più senso, eh? Ma non mi sentivo pronto, non credevo che
avrei potuto farcela. E molto probabilmente era così. Del
resto non era ciò che lui proponeva: secondo la sua mente
contorta avremmo dovuto continuare a vederci ogni qualvolta fosse stato
possibile, ma sostanzialmente conducendo due vite separate; il che, a
suo dire, non avrebbe affatto stravolto l’essenza di quel che
c’era tra di noi. – è inutile che mi
fissi strabiliato, tu e tutti gli accidenti che ti ho mandato!
– E fu così che andò. Lui
partì per girare un nuovo film e dio solo sa cosa non abbia
potuto combinare, mentre io me ne restai a casa, in depressione
cosmica. Avrei voluto andare a letto anche con i distributori
automatici di caffè, per fargli dispetto, ma la
verità era che avrei indispettito soltanto me stesso,
così mi chiusi in un’apatia che mi
legava in uno stretto rapporto a due col divano del soggiorno. La cosa
peggiore è che quando mi chiamava dovevo assolutamente
fingere che tutto andasse bene. Mi vidi costretto confidare tutto a mio
fratello per riuscire a rialzarmi e riprendere un po’ in mano
le redini della mia vita. Accettai una parte in una produzione
interessante e Shannon venne con me fino in Sud Africa per permettermi
di lavorare e non restare comunque solo. Se non altro fu un periodo
molto produttivo, per la preparazione del nuovo disco. –
Colin continuava a
seguirmi in silenzio, concentrato. Per la seconda volta,
dall’inizio di quello strambo percorso che mi portava a
ricostruire tutta la nostra relazione, mi parve strano trovarmi a
raccontargli dettagli che non gli avrei altrimenti mai raccontato.
In particolar modo concernenti quel lungo lasso di tempo del 2004 che
tanto male aveva fatto ad entrambi. Dopo la riabilitazione, Colin aveva
voluto parlare di tutto, persino di ogni problema che avevamo
affrontato nel 2005, anno ancora peggiore, per certi aspetti. Ma di
come aveva gestito le cose subito dopo la fine di Alexander, non aveva
mai più lasciato che discutessimo. Né allora
né in seguito.
Forse si rimproverava già abbastanza da solo, forse gli
faceva troppo male pensare che se avesse avuto più coraggio
in quel momento così topico delle nostre vite, ogni altra
catastrofe che si era susseguita negli anni a venire, magari, avrebbe
potuto essere evitata.
- Ad una
festa di amici comuni incontrai una ragazza. Era una giovane attrice,
molto bella, molto intelligente, di quelle per cui gli uomini di mezzo
mondo farebbero a pugni. Mi fece capire subito di essere interessata,
ma io mi trovavo in un momento di tale confusione e
instabilità emozionale da preferire rimaner da solo. Con lui
ci sentivamo di frequente, tutti i giorni, in un modo o
nell’altro, ma non ci eravamo ancora rivisti. Fece un salto a
Los Angeles durante una pausa dal lavoro di entrambi e, dal poco tempo
che trascorremmo insieme, uscii di nuovo distrutto. Nel frattempo
quella ragazza aveva continuato a cercarmi. Uscimmo insieme qualche
volta – mi tornarono in mente i calci nel sedere che Shannon
mi aveva più volte tirato per spingermi fuori dalla porta
mentre io cercavo mille scuse per disdire – e finii per
affezionarmi a lei; era davvero carina e sveglia, una compagnia
piacevole che mi distraeva da tutti i miei pensieri. In qualche modo,
iniziammo una sorta di relazione. –
- Ma dai? Ma
come?! –
- Mi dava un
po’ di serenità. – mi strinsi nelle
spalle, perdendomi di nuovo verso un punto imprecisato oltre la figura
di Colin – Lui lo rividi altre due volte…
no… sì, due volte, entro la fine
dell’estate e evitai accuratamente di accennargli la
questione. Mi rendevo conto che faceva di tutto perché certi
argomenti non saltassero fuori, che voleva andare avanti come se noi
due fossimo un atomo a sé stante, completamente separato dal
resto dell’universo. Ciò che accadeva al di fuori
delle quattro mura in cui ci trovavamo, non doveva avere importanza.
– sbuffai – Già allora mi rendevo conto
che era un suicidio e che avremmo solo finito per farci del male a
vicenda. Ma ero troppo debole con lui, avevo troppo bisogno di averlo
nella mia vita ed ogni volta lui se ne andava e si portava dietro tutto
ciò che avevo. Rimanevo svuotato, completamente. Ben presto,
quindi, raccontai a Scarlett, Scarlett è il nome della
ragazza, come stavano le cose. Non scesi nei particolari, ma le spiegai
che ero affettivamente coinvolto con qualcuno che non potevo lasciare
andare, benché la situazione fosse complessa. E
lei… beh, lei disse che semplicemente lo aveva sempre
saputo, ma che le andava bene anche così. –
ripensai a Scarlett e alla sorpresa di quelle sue parole, alla dolcezza
con cui mi aveva preso per mano, lasciandomi intendere che le bastava
quello che potevo darle. – Ai primi di novembre, mentre ero
impegnato con le ultime registrazioni del secondo cd della band, lui mi
invitò a raggiungerlo a Londra, dove stava terminando le
riprese di un altro film. Folle o meno, mollai tutto e andai.
Trascorremmo insieme gli ultimi giorni sul set; - per la miseria, quanto era sexy
il look selvaggio da John Smith! - mi presentò
ovviamente come un amico, ma mi lasciò dormire in stanza con
lui, si comportò in modo molto disinvolto, tanto che rimasi
piacevolmente stupito. E quando finì, ci trattenemmo nella
capitale per un’altra settimana, solo io e lui. Non uscimmo
molto dalla camera d’albergo, per la verità, se
non per un paio di serate in piccoli pub del centro e una corsa al
British. Aveva sicuramente letto sui giornali della mia storia con
quella ragazza, ma non ne aveva ancora fatto parola. Una notte, ormai
quasi all’alba, mentre percorrevamo lentamente la riva del
Tamigi che raggiunge il Tower Bridge, all’improvviso mi
chiese: “Non è una cosa seria, vero,
Jay?” –
Colin non mi aveva
praticamente mai interrotto. I suoi occhi mi seguivano con attenzione,
forse un pizzico di sbalordimento, ma mai una traccia di giudizio. A
quel punto, però, rimasto a bocca aperta,
s’intromise.
- E tu che
gli hai detto?! –
- La
verità. Che non lo era. Tagliai corto perché
sapevo che non voleva parlarne davvero. Ma quelle poche, masticate
parole, mi fecero almeno capire che non ero soltanto io ad arrovellarmi
il cervello, a pensare a lui continuamente, ad avere paura di perderlo.
Non ero soltanto io a farmi domande la cui risposta mi spaventava, solo
che lui affrontava la questione in modo poco sano. Ma non ero soltanto
io che ci tenevo. Verso la metà del mese facemmo ritorno in
America per la promozione di Alexander. –
- Wow! Ci
sono anch’io! –
- Ci sei
soprattutto tu! – sorrise, tutto soddisfatto. – Ci
spostammo da New York a Los Angeles e qui ci fu la prima vera e
propria. Fu una serata grandiosa, Colin! – ricordavo
perfettamente come fossi emozionato e agitato per
quell’occasione. Sembrava assurdo, nessuno ne aveva idea, ma
mi sentivo come se fosse la nostra prima uscita pubblica; eravamo
lì a presentare il frutto di tanti sforzi insieme, un film,
un progetto, una parte di vita a cui tenevamo tantissimo. –
Ci presentammo separatamente, entrambi non accompagnati, se mia nonna e
buona parte della sua famiglia non contano. C’era il mondo
sul tappeto rosso! Flash, urla, domande da tutte la parti…
Ci perdemmo ben presto di vista tra pose con il cast, interviste, foto
per i fan, ma, prima della proiezione, riuscii a passargli un
bigliettino in cui gli dicevo di raggiungermi per mezzanotte
all’uscita sul retro dell’enorme hotel che ospitava
l’evento. Avevo in programma di passare una notte romantica e
tranquilla in un delizioso chalet tra le colline di Hollywood, con
vista sulla città e le sue infinite luci. Lui si
presentò con qualche minuto di ritardo e, senza dire nulla,
mi trascinò per il braccio lungo la hall fino al grande
ascensore; - abbassai lo sguardo, sentendo il caldo aumentare, salire
sulle guance - come le porte ci si richiusero alle spalle, mi
tirò a sé con forza, stringendomi e baciandomi
con una tale passione che ci entrammo a tastoni, sbattendo ad almeno
tre angoli diversi, nella suite deluxe che aveva prenotato per noi!
–
Colin si
lasciò andare ad un doppio fischio d’approvazione
ed io ridacchiai, il ricordo di quella notte ben impresso nella mia
mente.
Era stato come giungere al traguardo finale, mettere a posto tutti i
tasselli ed accantonare il puzzle. Tutto ciò che era stato
ed aveva rappresentato quell’intenso periodo di Alexander era
finito, il filo che ci teneva ancora obbligatoriamente legati era
venuto a mancare. C’era un sapore di conclusione, quella
notte, in ogni nostra parola, in ogni nostro sguardo, in ogni nostra
carezza. Un sapore di conclusione e insieme il gusto acuto della
promessa, implicita, di aprire un capitolo nuovo.
- Le cose
continuarono ad andare bene, anzi, molto bene, fra noi. Mi sentivo di
nuovo sulla cima più alta del mondo. Era ancora troppo
presto perché potessi sapere che quella cima mi avrebbe
visto arrivare e cadere, arrivare e cadere, arrivare e cadere infinite
volte negli anni a seguire. Riuscivamo a stare insieme praticamente
tutti i giorni; lui non aveva ancora una casa sua qui a Los Angeles,
ma, invece che nel solito hotel, si fermò da me. Conobbe
bene mio fratello, e la convivenza non fu troppo semplice, Tomo, Matt,
un po’ tutte le persone che mi girano sempre intorno. Ed io
ebbi la possibilità di passare un po’ di tempo con
il suo – improvvisai ad arte un colpo di tosse - …
la sua
bambina. Abbiamo legato da subito, sai? – sorrisi. Sorrido
sempre, quando penso a James. – Con Scarlett non ero
più in grado di stare, non da quando lui si era ripresentato
in modo così costante nella mia vita, catalizzando ogni mia
risorsa. Fortunatamente si era temporaneamente trasferita in Europa per
lavoro ; le dissi che avevo bisogno di tempo e che ci saremmo rivisti
al suo ritorno. Era stata davvero paziente con me e volevo che quello
che avevamo condiviso, per quanto un po’ fuori dai canoni,
avesse fine nel migliore dei modi. A metà dicembre,
arrivò il momento in cui se ne dovette tornare a casa, per
le feste. Io ero tutto fuorché felice, te lo puoi
immaginare, ma lui, la mattina, prima di partire per
l’aeroporto, volle a tutti i costi che ci prendessimo qualche
minuto per parlare. Era impacciato e nervoso, – non potei non
ricordare il leggero tremore della sua mano, mentre appoggiava il suo
bicchiere d’acqua sul tavolino del soggiorno - ma era
evidente che stesse tirando fuori qualcosa che lo tormentava da un
po’. Disse che, nonostante tutte le difficoltà e i
limiti che avremmo sempre avuto, voleva provarci sul serio, che non
poteva neanche immaginare di non avermi in modo stabile nella sua vita.
“Solo tu ed io e tutto l’impegno che
sarà necessario.” – sorvolai
sull’effetto che ebbe su di me lo sbattere implorante dei
suoi occhioni da cucciolo bastonato.
- In poche
parole “Fuori dalle palle la bionda
tettona…”! – constatò
seraficamente Colin.
- Come fai a
sapere che era bionda e… - mi accigliai.
- È
il prototipo perfetto di chi non ama veramente le donne, ma ci si
rifugia più o meno consciamente. Anche Eamon aveva una
fidanzatina bionda tettona al liceo! –
- Il senso
era più o meno quello, sì! –
risposi con una punta di riso sulle labbra – E
così andò. Rividi Scarlett qualche giorno prima
di capodanno e le raccontai tutto. E, di nuovo, lei si
comportò come la più comprensiva e dolce delle
persone e io le sarò sempre immensamente grato per questo.
Rimanemmo amici e l’accompagnai persino ai Golden Globe,
qualche settimana più tardi. Lo siamo ancora,
amici… - mi interruppi un secondo, riflettendo
– in effetti, è quello che in realtà
siamo stati fin dall’inizio. Non le ho mai svelato chi fosse
la persona in questione, però! Pensa che fino ad oggi mi
avrà presentato una lista di almeno cinquanta papabili
pretendenti! –
- Ah, quindi
è questo che fai normalmente?! – mi
guardò sospettoso, raddrizzandosi sullo schienale
– Intrattieni i tuoi amici con fantomatici racconti
sull’uomo
misterioso per darti un tono… e magari questo
tipo non esiste nemmeno! –
- Certo, come
no! Ecco a voi la scemenza delle… - tirai fuori il
blackberry dalla tasca per controllare l’ora –
Cristo, Colin! Siamo qui fuori da quasi due ore! Siamo in ritardo!
– mi alzai velocemente dalla panchina, le mani fra i capelli
mentre gli giravo intorno per raggiungere il lato posteriore della
sedia a rotelle – In super ritardo! –
- E che
sarà mai? Dai, restiamo un altro pochino..! – si
lamentò con tono supplicante.
Cercai di spingere ma
trovai una resistenza che non capii da dove provenisse.
- Potrebbe
farti male, Colin! Ci sarà un motivo se hanno detto
un’ora soltanto. –
- Davvero?
Che potrebbe succedermi? Forse questo caldo allucinante potrebbe darmi
alla testa e la mia memoria rischierebbe di uscirne offuscata e
imprecisa?! –
- Come sei spiritoso!
– sbuffai, alzando gli occhi al cielo - Ti avverto, se mi
sporgo e mi rendo conto che sono i tuoi piedi a
bloccare la carrozzina, perdo la pazienza, quindi vedi di sollevarli e
andiamo! –
Eravamo quasi in cima
alla rampa che collegava il cortile con l’edificio, quando
sentii una voce squillante chiamare il mio nome a gran voce. Mi fermai
di colpo e sia io che Colin ci voltammo indietro. Una ragazza, con una
lunga coda di capelli castani, ci veniva incontro agitando le braccia.
- Jared,
Jared! – ci raggiunse con il fiatone, piegandosi un attimo
sulle ginocchia per riprendersi – Sei Jared Leto, vero? Non
ti sto sognando? –
- Sono io!
– le risposi sorridendo, sebbene un tantino interdetto. Con
tutto il bene del mondo, non era certo il momento più adatto
per intrattenersi in chiacchiere con qualche fan. Era
un’echelon, almeno? E se riconosceva Colin?
- Sono una
tua grandissima ammiratrice! – esclamò con occhi,
bocca e braccia spalancate – Ero qui con mia nonna, ti ho
visto quassù e ho pensato di avere
un’allucinazione! Ho visto tutti i tuoi film, tutti! E ho
sentito anche qualche tua canzone! – ecco, non era nemmeno
un’echelon, non mi potevo fidare! – Fuga da
Seattle! E’ il mio preferito, fantastico, bellissimo! Tu, sei
bellissimo! – non prendeva nemmeno fiato.
- Oh, grazie,
sì, grazie, io –
- Puoi farmi un
autografo? – continuò, ma con gentilezza,
allungandomi un foglietto rosa e una penna mangiucchiata.
- Sì,
sì, ovvio! Come ti chiami? –
- Jenny!
– mi rispose, con un sorriso che le arrivava fino alle
orecchie.
- Ecco, qua,
Jenny… - le restituii tutto, dopo aver scritto una dedica
veloce e firmato.
- Possiamo
fare anche una foto, per favore? –
- Uhm…
- la ragazza, appena vent’anni, forse, mi fissava tra lo
speranzoso e il venerante e il “no” proprio non
riuscì a venirmi fuori – ma certo! –
- Grazie!
Grazie mille, Jared! – e mi passò il suo cellulare.
- Ve la
scatto io! Che ci sto a fare qui se no! – mi voltai verso
Colin, che ci fissava decisamente divertito – Dammi qua!
– gli diedi il telefono, pregando tutte le
divinità che mi venivano in mente affinché la
ragazza non lo riconoscesse. Non so come, ma non lo fece. –
Dov’è il bottone? –
- Non
c’è il bottone! La tecnologia, ricordi? Devi
premere l’icona sullo schermo, la vedi? –
- Ah, eccola qua!
Tutto a posto! Sistematevi… - come di consueto, anche Jenny
si aggrappò ai miei fianchi come se la sua vita dipendesse
da loro, appoggiando la testa sula mia spalla sinistra –
Sorridete… - si strinse ancora di più a me e io
le misi un braccio sulla spalla, anche solo per non averlo compresso
sul torace e riuscire a respirare - Sorridi, Jared!
–
- Questa
è la mia faccia mentre sorrido, che devo fare? –
sentii la ragazza sghignazzare.
- Ok! Pronti?
Ecco fatto! –
Con qualche secondo di
ritardo, Jenny si staccò da me, recuperando il cellulare da
Colin e ringraziandolo.
- E grazie a te,
Jared! È stato bellissimo incontrarti! Sei-sei
straordinario, dal vivo, ancor più che in tv! Sei stupendo,
la persona più stupendissima che abbia mai visto! Sei un
sogno! E sei bravissimo! E la tua voce è meravigliosa, parli
così bene! – mi guardò per la frazione
di un secondo e senza nemmeno lasciarmi il tempo di ringraziarla, mi
diede un abbraccio fortissimo a tradimento e se ne saltellò
via.
Quando tornai con lo
sguardo su Colin, lo trovai che mi fissava con una tremenda faccia da
schiaffi, probabilmente un po’ stupito ma inconfutabilmente
divertito.
- Quanto
entusiasmo! Sono sempre così? – mi chiese
ridacchiando, mentre mi risistemavo dietro di lui e prendevo a spingere
oltre le porte, verso l’interno dell’edificio.
- Oh, no!
– gli risposi con una punta di orgoglio - Gli echelon sono
molto meglio! –
Di nuovo in camera, il tempo volò via, piacevole e leggero.
Colin, risistematosi nel letto, ed io, sulla sedia vicino a lui, ce ne
stavamo a chiacchierare con Rita, nel frattempo impegnata a ricamare un
lenzuolino azzurro per Henry. Colin si estraniò parecchio
dalla conversazione quando feci il tragico errore di mostrargli la
versione di Tetris per cellulari, ma io mi dilettai non poco con alcune
delle storielle di sua madre. Quelle sì che erano nuove per
me, non come quelle che Eamon e Colin mi rifilavano sempre.
Insomma, tutto molto tranquillo, finché Claudine non
riemerse dagli abissi dell’ospedale e butto là,
con malcelata noncuranza:
- Ehi,
Jared… se tutto va bene, domani sarà
l’ultima notte che Colin passerà qua dentro.
Perché non rimani tu con lui? –
Se il corpo umano
fosse in grado di congelarsi autonomamente, ecco, quello sarebbe stato
il mio momento.
Il pensiero di fare la notte a Colin mi era passato per la testa, in un
primo momento, ma l’avevo velocemente scartato, riflettendo
semplicemente sul fatto che da una parte lui stesso non si sarebbe
probabilmente sentito a suo agio, avendo una nozione molto
approssimativa della mia esistenza, dall’altra io per primo
mi sarei trovato in una situazione alquanto scomoda e difficilmente
gestibile, perché “notte”,
“Colin” e “due letti separati”
costituivano un’associazione totalmente estranea alla mia
esperienza.
Senza emettere alcun suono, rimasi a fissare Claudine e Rita, che a sua
volta mi guardavano attendendo una risposta, come un passante che si
ritrova ad inciampare in una balena arenata. A dar voce alla mia
coscienza, sentivo il monito indispettito di Rosario ribadire che anche
i masochisti più risoluti sbattono contro un limite, ad un
certo punto. Oh, Roxy,
perché non sei qui a salvarmi?!
A sbloccare quegli istanti infiniti di raggelante stasi, fu proprio
Colin, momentaneamente riaffiorato dal Tetris.
- È
una splendida idea! – strepitò, dandomi un colpo
sul braccio e richiamando la mia attenzione su di sé
- Ci divertiremo, vedrai! Qualcosa inventiamo! –
continuò con convinzione.
- Ecco,
io… non so se… -
- Non
c’è niente di difficile, sai..? Qui chi viene si
limita a dormire! – si fermò un attimo, forse
notando la mia palese insicurezza – Sempre che tu non abbia
già altri progetti, è chiaro… -
- No! No, no,
figurati… - cercai di sorridergli e lui seguitò a
guardarmi, con evidente aspettativa – D’accordo,
rimango io allora. – gli dissi, per poi voltarmi ed annuire
alle due donne, rimarcando il concetto.
Bravo
Jared. Complimenti. Hai sempre il polso di dirgli di no.
Mentre tutti
esprimevano la loro soddisfazione, mi sentii invadere da uno
scriteriato eppure profondo senso di disagio e agitazione. Avevo
decisamente bisogno di starmene un po’ per conto mio e
prepararmi psicologicamente a quel che mi avrebbe aspettato il giorno
seguente.
- Beh, detto
questo, io mi avvierei verso casa, anche perché a minuti
porteranno la cena, credo. –
- Sì,
ma fai attenzione, prendi l’uscita secondaria,
perché quella principale è ancora tenuta
d’ostaggio dai paparazzi. – sbuffò
Claudine.
- Come minimo
incontri un’altra fan, magari
un’ec…un’eche..com’è
che si chiamano? – farfugliò Colin.
- Echelon!
– gli risposi ridendo, mentre mi infilavo una manica della
giacca.
- Dovevate
vedere! – riprese lui, rivolto verso sua madre e sua sorella
– Ne abbiamo beccata una nel cortile! Roba da matti, gli ha
detto di tutto! –
- È
sempre così con Jared! – sghignazzò
Claudine, strizzandomi un occhio.
- Ma
veramente! “Sei bellissimo, splendidissimo, bravissimo,
supermega fighissimo.” Tutti gli -issimo del mondo!
– poi si voltò verso di me, la fronte corrucciata
in un’espressione di stupore – Non sapevo di avere
a che fare con un uomo tanto adulato! –
Risi, scuotendo il
capo, insieme a Rita e Claudine. Le salutai entrambe con un bacio,
riservai a Colin un cenno con la mano e mi avviai lungo il corridoio.
Feci solo pochi passi, poi non riuscii a reprimere quel che
all’improvviso mi era salito dentro. Avrei dovuto,
probabilmente, ma non ci riuscii.
Tornai indietro e risbucai nella stanza. Rita era entrata in bagno, la
porta chiusa, e Claudine era presso la finestra, ad osservare non vidi
cosa.
Colin si accorse della mia presenza e sollevò le
sopracciglia, sorpreso, ma lo anticipai, prima che potesse aprire
bocca.
- Non so se
possa avere un senso, sai… Però è
vero, nel nostro ambiente, col mio lavoro, è
così, è così sempre, quasi ogni
giorno. Non importa andare in tour o percorrere il tappeto rosso, anche
uscendo di casa, facendo la spesa, camminando per strada, andando dal
medico, ogni comunissima attività diventa
l’occasione perfetta per imbattersi in qualcuno per cui
rappresenti un evento emozionante ed unico. La mia vita è
così, Colin. Sono elogiato, encomiato, adulato in
continuazione, in ogni modo, come se fossi la persona più
speciale dell’universo. – feci una breve pausa,
prendendo aria e infilando le mani in tasca, per nascondere un tremore
apparente, quanto bizzarro, mentre Colin mi seguiva immobile,
silenzioso e attento. – Non so se possa avere un senso,
ma… per me è questo il grande amore. Sei sommerso
da questa marea di sfrontate attenzioni, e le apprezzi, eppure senti
che sono vere sono nell’istante in cui trovi il tuo qualcuno. Capisci?
Io non mi sento davvero speciale perché mi viene ripetuto
che lo sono cento volte al giorno, io mi sento davvero speciale
perché ho lui, che a volte, senza nemmeno dover dire una
parola, mi fa capire che sono in assoluto ciò a cui tiene di
più. – Non
piangere adesso, Jared, non adesso – Migliaia di
voci e, per una strana alchimia del destino, un unico qualcuno in grado
di dar loro un valore. Non è così scontato avere
questo potere su una persona né dall'altra parte lo
è concederlo. E penso che sia questo il vero amore. Per me,
almeno, è questo. – conclusi quasi in un
bisbiglio, sbattendo un paio di volte le ciglia per trattenere ad ogni
costo le lacrime.
Rimanemmo in silenzio
per qualche secondo, gli sguardi incollati l’uno
nell’altro, Claudine immobile, contro la parete, con una mano
a coprirsi la bocca. Mi sentivo in qualche maniera leggero, ma il cuore
mi batteva a mille e mi sembrò quasi che per un istante il
tempo si fosse fermato.
Poi, dal niente, Colin piegò le labbra in un sorriso
malinconico.
- “Questo amore,
così violento, così fragile, così
tenero, così disperato.
Questo amore, bello come il giorno, e cattivo come il tempo,
quando il tempo è cattivo.
Questo amore così vero, questo amore
così bello, così felice, così gaio, e
così beffardo,
Tremante di paura come un bambino al buio.
E così sicuro di sé, come un
uomo tranquillo nel cuore della notte.
Questo amore che impauriva gli altri, che li faceva parlare,
che li faceva impallidire,
Questo amore spiato, perché noi lo spiavamo,
Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato,
perché noi l'abbiamo perseguitato ferito calpestato ucciso
negato dimenticato.
Questo amore tutto intero, ancora così vivo, e
tutto soleggiato.
E' tuo. E' mio.” –
Non fui in grado di
trattenere una lacrima che mi scivolò infida,
rapida, traditrice, lungo la guancia, fino a cadere oltre il mento; il
suo infrangersi contro la cerniera della giacca udibile nel silenzio
surreale in cui eravamo rimasti.
- Sono sempre
stato un fanatico di Prévert, - disse piano – solo
che mi ha sempre imbarazzato dirlo..! –
Annuii meccanicamente,
come se non fossi nemmeno io a decidere i movimenti del mio corpo e lui
sorrise, appena.
- Ci vediamo
domani. –
- A domani,
Jared. –
Domani. Un altro giorno per questo nostro amore
dimenticato.
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Capitolo 11 *** misty watercolor memories ***
11
Buongiorno
a tutte!
Con
che coraggio mi faccio rivedere dopo tutto questo tempo? Lo
so, sono pessima.
Se
non altro, direte, ti farai perdonare con un capitolo strabiliante!
E
invece no, mi dispiace, sarà già tanto se avrete
l'enorme pazienza di arrivare fino alla fine senza legarvi un cappio al
collo...
Però
questa storia proprio non riesco ad abbandonarla, quindi ritorno sempre!
Comunque
andrà a finire, vi ringrazio fin da adesso,
perché
le vostre parole, i vostri complimenti, anche le vostre riflessioni,
sono la soddisfazione più bella che potessi mai chiedere :)
Spero
che arriviate indenni alla fine e, se ci riuscirete, farò
del mio meglio per farvi presto una bella sorpresa!
Un
bacione e grazie infinite di tutto <3
11.
Il programma di quel
martedì prevedeva che trascorressi l’intera
giornata al Lab, fino all’ora di cena, quando mi sarei recato
in ospedale per affrontare la notte. Ovvero 24 ore precise senza vedere
Colin.
Col cavolo.
Appena dopo le 8 mi
ero già presentato nella stanza. Che trovai completamente
vuota, se non per Claudine che annotava qualcosa
sull’agenda che teneva sulle ginocchia, un caffè
fumante sulla sedia accanto a sé.
- Ehm…
buongiorno… - borbottai, mentre mi avvicinavo con una certa
titubanza.
- Oh, Jared!
– esclamò lei, un po’ sorpresa, alzando
la testa - Buongiorno… - mi sorrise – Scusami se
non sono molto accogliente, ma stamattina non riesco proprio a
carburare… Guarda, ho persino scritto la stessa parola tre
volte di fila! –
- Ma no,
figurati… - le sorrisi a mia volta – Capita!
–
Rimasi a guardarla,
aspettando spiegazioni sull’assenza di suo fratello dalla
camera, ma lei continuò a fissarmi in silenzio, per alcuni
lunghi secondi. Poi all’improvviso si riscosse e
scrollò con forza il capo.
- Oh, ma
certo! Colin! – si batté una mano sulla fronte
– Te l’ho detto, scusami…
L’hanno portato giù per fare la risonanza dieci
minuti fa. –
- Ah…
- biascicai, deluso.
- Se fai una
corsa, dovresti fare in tempo a recuperarlo! Sono quasi certa che si
trovi al piano di sotto. –
- Dici?
–
Annuì
energicamente, per poi agitare una mano verso la porta alle mie spalle.
- Sbrigati!
Su, su, vai! –
In men che non si
dica, avevo già infilato il corridoio e raggiunto
rapidamente le scale, saltando i gradini a due a due. Mi fermai a
cercare l’indicazione per il reparto su un grande cartellone
bianco e, individuatala, ripresi a camminare con passo svelto,
accelerando sempre di più, finché, svoltando
l’ennesimo angolo, riconobbi a pochi metri da me il profilo
di Rita. Rallentai appena, cercando di recuperare una qualche
compostezza.
Quarant’anni,
Jared. Quaranta. Prova a ricordartene ogni tanto.
Non feci in tempo a
richiamare la sua attenzione, che Rita si voltò e notai che
era al telefono; senza interrompere la conversazione, mi
salutò con uno dei suoi grandi, famosi sorrisi e mi
indirizzò con l’indice della mano libera verso la
porta di vetro poco più avanti. Le sussurrai un
“grazie” e mi avventurai oltre quella soglia.
Mi ritrovai in una piccola sala scarsamente illuminata, su cui si
aprivano numerosi vani, molti dei quali, da quel che riuscivo a
scorgere, avevano una parete completamente in vetro. Tutto era avvolto
nel silenzio, se non per un ronzio costante e piuttosto fastidioso che
doveva provenire dai macchinari.
Non avevo la minima idea di dove andare, cosa fare o a chi rivolgermi,
ma la fortuna arrivò di soppiatto alle mie spalle con voce
squillante.
- Salve,
Jared! Immagino sia qui per il signor Farrell! –
- Oh, Leia,
buongiorno! – le sorrisi – Sì, lo sto
cercando in effetti, mi hanno detto che si trova qui, ma… -
mi guardai intorno con aria lievemente sperduta.
- È
nella stanza numero 3. – la indicò con un cenno
del capo – L’esame comincia tra cinque minuti,
quindi faccia presto! – concluse strizzandomi un occhio.
La ringraziai e mi
avvicinai alla porta in questione. Presi un bel respiro, scacciando
definitivamente il fiatone, e spinsi sulla maniglia. Mi si
parò davanti un ambiente spazioso, anch’esso
illuminato con sfumature tiepide, pallide, ma decisamente avvolto in
una bassa temperatura.
Sfregandomi le braccia per attenuare il freddo, mi avvicinai al grande
macchinario sulla parete di fondo, dalla cui estremità,
distese su di un piano orizzontale, spuntavano le gamberelle nude di
Colin. Soppressi a stento una risata, pensando a quante arie usava
darsi sempre riguardo le sue possenti
gambe da calciatore irlandese.
“Perché voi americani vi credete chissà
chi, ma delle cosce così, vedi, dei muscoli del polpaccio
così non ve li sognate nemmeno!”. Aveva delle
belle gambe, in effetti.
Mi distrasse dai miei ragionamenti la bislacca impressione che Colin
stesse borbottando qualcosa.
- …
to save a life. –
Mugugnava? Feci
qualche passo verso di lui, tendendo l’orecchio.
- …
would you kill to prove you’re right … -
Cantava?
- Crash
crash, buuuuurn, let it all burn, this hurr –
- Colin?!
– non riuscii proprio a trattenere.
Lo vidi tirarsi su di
scatto, quasi sbattendo la testa contro il lungo tubo che lo conteneva.
- Cazzo,
Jared! Mi hai fatto venire un infarto! –
- Scusa
… Ma che stai facendo?? –
- Una
risonanza, cosa cazzo ti pare che stia facendo?! –
brontolò, risistemandosi in posizione supina.
- Canticchi!
Hurricane! Canticchi la mia Hurricane! - constatai tutto
soddisfatto, ma ancora piuttosto sbalordito.
- Ah,
sì! Sì, hai visto? – la sua voce mi
giungeva un po’ ovattata dal centro del macchinario - Alla
fine ne ho trovate di canzoni che mi piacciono nella tua cartella! Al
momento questa è la mia preferita. –
Mi ritrovai a
gongolare come un adolescente della peggior specie. Avrei giurato di
avere l’espressione di un beota. Per fortuna, riflettei,
Colin non poteva vedermi in faccia. Poi mi resi conto che
l’uomo in camice bianco al di là dal vetro poteva
eccome, così mi diedi una svegliata, abbassai lo sguardo,
imbarazzato, e mi avvicinai di più al fianco di Colin,
poggiandogli una mano sul ginocchio sinistro.
- Sei
freddo… Hai freddo? Fa freddo qui dentro. – dissi,
dando prova della mirabile estensione del mio vocabolario, al momento.
- Freddo?
Nah..! Sono irlandese, io, tu non hai idea di cosa sia il freddo!
–
Alzai gli occhi al
cielo, intenzionato a rispondergli qualcosa, quando sentii il ginocchio
sgusciare al mio tocco e nel giro di un nanosecondo mi ritrovai Colin
seduto sul bordo del lungo tubo, il camice arricciato fino alla vita.
- Colin, ma
sei impazzito? – starnazzai, non sapendo bene cosa
fare.
- Stai
tranquillo, ora rientro subito! – disse, scrollando le spalle
ed esibendosi nel suo sorriso birichino – Menomale sei
passato, pensavo di chiamarti… -
- Qualcosa
non va? Per stasera, forse preferisci ch –
- Per
stasera, sì! Pensavo, ecco, che potresti portare un film e
potremmo vedercelo insieme… - lo guardai accigliato
– Un film qualsiasi che non ricordo di aver visto ma che tu
sai che mi piace, non saprei… Scegli tu! –
- Oh…
d’accordo… D’accordo, sì,
buona idea. – scorsi dei movimenti, di là dal
vetro – E’ meglio che tu ti rimetta giù,
però, adesso. – Mi spostai davanti a lui,
così da indurlo a ritirarsi – Ci vediamo
più tardi. E tieni duro, sono gli ultimi esami. –
gli feci l'occhiolino, mentre lui si distendeva di nuovo, pronto a
rinfilarsi nel tubo.
- Buon
lavoro! - esclamò, prima di sparire nuovamente – E
augurami buona fortuna! –
Sorrisi, anche se non
poteva vedermi: - Grazie! E buon fortuna, Colin. –
Uscii, scambiandomi
con Leia, probabilmente tornata per controllare che tutto fosse a
posto. Sperai, con un semplice sguardo, di poterle trasmettere la
gratitudine e insieme la costernazione per il contrattempo recato. Mi
appoggiai alla porta richiusa alle mie spalle e sospirai.
Buona
fortuna anche a te, Jared.
Artifact
riuscì a tenermi impegnato tutto il giorno.
Escludendo la pausa pranzo con Emma e i ragazzi, durante la quale mi
ero scambiato un paio di messaggi con Eamon per assicurarmi che Colin
stesse bene, ed una breve telefonata con mia madre, rimasi
incollato allo schermo del mio super accessoriato Mac, cliccando,
editando, tagliando, aggiungendo. Insomma, lavorando come un matto e
con una certa soddisfazione. Il tutto accompagnato dal sottofondo
perlopiù continuo della batteria di mio fratello, quel
giorno particolarmente ispirato, che suonava come un matto al piano
terra, facendo risuonare l’intero edificio di frenetiche note
rock.
Avevo portato con me un borsone con tutto il necessario per la notte,
così da non dover passare da casa e, alle 18,30, puntuale
come un orologio svizzero, mi apprestai a seguire Jamie, offertosi di
darmi un passaggio fino all’ospedale. Essendo
l’auto parcheggiata vicino al cancelletto
dell’ingresso posteriore del Lab, mi ritrovai a dover passare
dalla piscina, per raggiungere le scalette in metallo che portavano
all’uscita. Rimasi bloccato per qualche indefinito istante ad
osservare l’acqua che si muoveva lentamente, il bordo bianco
della vasca su cui mi piaceva sedermi da solo a pensare.
Una settimana.
Era passata una settimana dalla sera in cui me ne stavo lì a
godermi le rosee prospettive della mia esistenza futura.
Avevo perso tutto. Svanito, in una manciata di secondi. Sette miseri
giorni. Un’eternità.
- Certo che
sono sicuro! Non ci sarà alcun tipo di problema. –
- Mmm…
Perché non ne sono per nulla convinta? –
- Te
l’ho già detto, Roxy… - sospirai,
mentre salivo l’ultimo gradino delle scale e raggiungevo
finalmente il terzo piano, dove mi soffermai qualche secondo
– Nemmeno io ho fatto i salti di gioia all’inizio,
ma ormai ho dato la mia disponibilità e tutti là
dentro mi aspettano. Andrà tutto bene. –
- Tesoro, lo
so che pensi di poter gestire questa situazione. Tu sei fatto in questo
modo, credi di essere d’acciaio e di poter gestire ogni situazione, ma
non è così. Non è così
soprattutto quando si tratta di Colin. –
Roteai gli occhi.
Detesto realizzare di avere torto.
- Senti, lui
dormirà e io dormirò! – ripresi a
camminare e passai il cellulare da un orecchio all’altro
– E’ solo una notte, sono poche ore, se ci pensi, e
le supererò indenne, vedrai. Adesso però devo
lasciarti, perché sono praticamente arrivato. –
- No! Jared,
no! Allontanati subito da quella porta, mi senti? E se proprio ci tieni
a fare questa enorme sciocchezza, almeno sfrutta l’occasione
per dirgli la verità! Qualunque cosa, ma smettila di
immolarti sull’altare del sacrificio gratuito, hai capito?!
–
Potevo benissimo
figurarmela, mentre concitata e indispettita, girava in tondo nel suo
piccolo camerino newyorkese.
- Si
può sapere perché perdo ancora tempo a parlare
con te? –
- Perché
sono l’unica con un minimo di senno, a quanto pare.
–
- Sì, come
no… Ma ora sto davvero entrando, quindi ciao! –
tagliai corto, abbassando il tono, gli occhi puntati sul piccolo 31 blu
nel rettangolino accanto allo stipite bianco, dritto davanti a me.
- Jared!
Jared, ascoltami! –
- Ti chiamo
domani, Roxy. Buona serata anche a te! –
Infilai velocemente il
blackberry in tasca, feci un bel respiro ed aprii subito la porta,
prima che potesse cogliermi un codardo ma sano ripensamento.
- Eamon, te
lo dico per l’ultima volta! Finiscila di rubare il cibo a tuo
fratello. È lui che deve rimettersi, tu stai già
anche toppo bene, mi pare! –
La prima immagine che
mi trovai davanti fu quella di un accigliato signor Farrell che
redarguiva il figlio maggiore, intento a sgranocchiare un qualcosa di
appena sottratto alla cena del fratello. Colin era seduto sul proprio
letto, un vassoio contenente vaschette dall’aspetto poco
invitante rialzato sulle sue ginocchia.
Come al solito tutti mi riservarono un’accoglienza cortese e
festosa. Mi sedetti con loro vicino al letto, fintanto che Colin finiva
di mangiare con poca convinzione quel che gli spettava; Rita si
preoccupò che avessi a mia volta cenato e potei
rassicurarla. Più per caso che per altro, durante il
tragitto in macchina, avevo trovato nel mio borsone una fetta della
torta salata di Tomo e una banana, provvidenzialmente riposte
lì da qualche anima buona prima che lasciassi il Lab. Il
cibo non è mai stato una delle mie priorità e
ammetto che in quei giorni non fosse affatto nei miei pensieri, ma per
quella sera ero decisamente a posto.
Ricevetti il resoconto degli avvenimenti clinici e non del giorno e,
una volta passato l’inserviente a ritirare il vassoio,
assistei all’ammutinamento dei Farrell.
- L’hanno
strapazzato di qua e di là per tutta la giornata, vedrai che
ti crollerà in un batter d’occhio senza troppe
rotture! – mi ammiccò Claudine, provocando un
bofonchio lamentoso da parte di Colin.
Dopo il rapido giro di
saluti e sbaciucchiamenti vari, Eamon assestò il colpo
finale al mio stato d’ansia quando, mentre chiudevo la porta
della camera, dal corridoio sventolò in aria i pugni chiusi
in segno di vittoria e incitazione, bisbigliando un accalorato
“in bocca al lupo”.
Ma che si aspettavano
tutti da quella serata?!
Non ebbi modo di
affrontare il probabile momento di imbarazzo che avrebbe dovuto
seguire, perché, come mi voltai, vidi Colin
impegnato a scendere dal letto.
- Ehi, ehi,
ehi! – preso alla sprovvista tornai velocemente verso di lui
– Cosa pensi di fare, scusa?! –
- Solo due passi per
il corridoio… - disse, alzando lo sguardo su di me
– Oggi davvero non mi hanno lasciato un minuto per respirare.
–
- Non se ne
parla nemmeno! –
Mi fissò
sorpreso per qualche secondo, poi riprese a muoversi come per alzarsi:
- Ma per piacere! –
- Rimettiti
giù, sai! – lo rimbrottai deciso, parandomi a un
centimetro da lui, le braccia incrociate sul petto – Credevi
che rimanere solo con me significasse far baldoria, eh? Hai capito
proprio male! –
- Oh,
andiamo..! Ho solo voglia di muovermi un po’! –
cercò di convincermi con l’espressione e il tono
addolciti, ma negai con la testa in modo risoluto – Bene,
saranno fieri di te alla scuola militare in cui ti hanno addestrato!
– sibilò allora.
Stava già
rimettendosi sotto al lenzuolo, quando decise di giocare la sua ultima
carta, voce sommessa e occhioni da cucciolo: - Neppure un giretto per
la stanza? –
Mi guardai brevemente
intorno e sospirai: - Il tavolino, ti concedo di sederti per qualche
minuto al tavolino. Prendere o lasciare. –
Osservò
velocemente il punto cui mi riferivo, poi mi guardò: - Ok!
Facciamo anche una partita a carte? -
- Uhm,
d’accordo… Vuoi una mano per arrivare fin
là? –
- No, no no.
Ce la faccio benissimo da solo, grazie… Le carte sono nel
secondo cassetto del comodino.- mi rispose, alzandosi lentamente e
dirigendosi verso la parete di fondo con andamento un po’
traballante.
Presi le carte e lo
seguii, aspettando che si sedesse e sistemando una seconda sedia
dall’altro lato del tavolino. Mi fece segno di passargli il
mazzo e cominciò a mescolare con mano esperta, sorridendomi.
Era bello, non c’era niente da fare. Smemorato o meno,
cazzone o meno, era l’uomo più bello che avessi
mai incontrato. O visto. O immaginato.
Cominciamo
bene.
Mi diedi una scrollata
e gli sorrisi a mia volta.
- Allora,
è andata bene la tua giornata? La mia è stata un
inferno, non mi hanno lasciato in pace un attimo… -
- Però
ne è valsa la pena, no? Da quel che ho capito sei sano come
un pesce e domani finalmente torni a casa! –
- Già!
- pose il mazzo di carte in mezzo al tavolo perché lo
alzassi, per poi riprenderlo – Casa… Sono proprio
curioso di vederla, la mia
casa… Ma soprattutto ho voglia di mangiare
qualcosa di decente! –
Risi, cominciando a
tirar su le carte che mi aveva distribuito: - Un lungo periodo di
inattività fisica unito alle ricette di tua madre?!
Diventerai un grassone, poco ma sicuro! – conclusi, senza
distogliere l’attenzione dalle mie carte.
- Non fingo
nemmeno di offendermi, finirà così di certo!
– ridemmo entrambi – Hai lavorato al tuo
documentario? –
- Sì,
ininterrottamente. E al momento mi sembra che non ne verrò
mai a capo. –
- Sei un
perfezionista, eh? –
Lo ero e lui non aveva
mai apprezzato particolarmente la mia tendenza a dedicarmi anima e
corpo ad un progetto finché non ne fossi totalmente
soddisfatto. Giorni e giorni chiuso ad occuparmi solo di quello,
isolato dal resto del mondo. La chiamava ossessione, non perfezionismo.
Per cui mi sentii quasi sollevato dall’ignaro sorriso che mi
aveva rivolto e annuii gentilmente.
- Devi
farmelo vedere, comunque! Magari a casa, con più calma.
–
Chiacchierammo per
tutta la partita di Artifact e di cosa volessi esprimere e
rappresentare attraverso la sua realizzazione. Gli raccontai nei
dettagli della brutta esperienza con la EMI e in generale di quanto
poco pulito fosse il mondo delle case discografiche. Parlai della mia
ancor nebulosa aspirazione a produrre, un giorno, i miei stessi album e
quelli di artisti emergenti. Non so se quanto dicevo gli interessasse
davvero o servisse a distrarmi dal gioco, sta di fatto che persi
miseramente.
- Immagino tu
voglia la rivincita..! – sghignazzò compiaciuto,
radunando le carte.
Guardai
l’orologio: - Credo che dovresti dormire…
L’ha detto anche tua sorella che –
- Non vado in
terza elementare e mi rifiuto di dormire prima delle nove! –
Lasciai andare un
lungo respiro, rassegnato: - Vada per la rivincita, poi vedremo se
piangerai come un bambino di terza elementare… -
Gli lanciai il mio
subdolo sguardo di sfida e lui ridacchiò soddisfatto,
riprendendo a mescolare le carte.
- E…
lui? L’hai sentito? – buttò
là, come se niente fosse, senza neppure distogliere
l’attenzione da quanto stava facendo.
- No, non
direi, no. – risposi prontamente, seppur colto di sorpresa.
- Non vorrei
che fosse perché passi troppo tempo qui in
ospedale… - continuò piatto, gli occhi ancor
puntati sulle carte.
- Cosa? No,
no, assolutamente. È così e basta, non dipende da
niente… è solo un periodo di pausa, te
l’ho detto. –
Alzò lo
sguardo su di me, tenendo il mazzo fermo tra le mani.
- Non hai
voglia di parlare del presente, eh? – scrollai le spalle,
tirando le labbra nella classica espressione di chi glissa su qualcosa
– Uhm… di certo non puoi negarmi la telenovela sul
tuo passato! – esclamò, prendendo a dare le carte.
Sapevo che sarebbe
arrivato quel momento e sapevo che avrei dovuto affrontarlo con
qualcosa di già preparato. Il 2005 era stato un anno
d’inferno, pieno di problemi, ostacoli, fardelli, quasi come
se una difficoltà chiamasse un inghippo,
un’indecisione portasse irrimediabilmente ad un errore.
L’inizio del tour con la band, i suoi ritmi lavorativi sempre
più massacranti, la scoperta della malattia di James,
piombata dal cielo con un tonfo inarrestabile, l’assedio via
via più intollerabile da parte dei paparazzi… la
distanza fra noi, che cresceva ogni giorno di più, prendeva
forma e accumulava peso, si ingigantiva ad ogni appuntamento saltato,
ogni telefonata mancata, ogni e-mail rimasta senza risposta. E
l’alcol, l’unico rimedio che Colin conosceva per
placare il proprio dolore, mettere a tacere il proprio io
insoddisfatto, nascondere ciò che non voleva vedere. Un
vizio che si portava dietro fin dall’adolescenza, da quel che
mi aveva raccontato in Marocco, a cui fin dall’inizio avevo
dovuto far fronte, ma che col tempo se lo stava divorando; gli dava
l’illusione di stare bene, di essere invincibile, scevro da
ogni preoccupazione, e nel frattempo lo consumava, letteralmente.
Annus horribilis, insomma, concluso in bellezza con il collasso che si
era procurato in Florida, durante l’ennesima nottata brava al
termine delle riprese di Miami Vice. Birra, vino, whiskey, vodka,
droghe di ogni tipo, donne, sconosciute, prostitute, qualsiasi cosa era
buona. Per fortuna Eamon si trovava lì con lui in quei
giorni ed io stesso ero in città, non poi così
casualmente. Insomma, un anno strapieno di sciagure, con un culmine
adeguatissimo ai prodromi. Un’escalation di eventi tanto
negativi quanto specifici, non potevo raccontarli a Colin
così come stavano. La sera prima, raggiungendo il punto
della storia in cui mi ero fermato, mi ero subito reso conto che avrei
dovuto almeno in parte modificare i fatti del seguito, sfumarne un
po’ i contorni. Seppure in modo generico, Colin doveva pure
aver saputo qualcosa del suo passato/futuro o comunque qualcuno gliene
avrebbe parlato più approfonditamente. Non era il caso di
rischiare proprio in quel momento.
Ma la novità improvvisa della notte da passare insieme mi
aveva colpito e agitato così tanto che avevo velocemente
dimenticato tutto. E così ero rimasto per chissà
quanto tempo steso in camera mia a fissare il soffitto, al buio,
riflettendo su cosa avrei dovuto fare, cosa avrei dovuto dire, invece
di trovare una soluzione accettabile per il giorno dopo.
E
ora sei qui, tutto eccitato al pensiero di trascorrere le prossime ore
con lui e senza la minima idea di cosa raccontargli. Manco fossi alle
medie. Deficiente cronico.
- Non ti va
di giocare in silenzio? – tentai
- Certo che
no! – brontolò accigliato – A meno che
la conclusione mielosa di ieri non si prolunghi in un continuo da
romanzo rosa… -
- Ah, proprio
no! Su quello puoi stare tranquillo… -
- Ahi ahi
ahi! Tono tra il sarcastico e il rassegnato, promette nubi
all’orizzonte? –
- Un uragano.
Bello e buono. – tirai corto, avvicinando il busto al
tavolino e giocando la mia prima carta.
Colin giocò
a sua volta la propria, si abbandonò all’indietro
sullo schienale della sedia e mi fissò, senza dire una
parola. Aspettava la mia mossa successiva, non per forza quella legata
alla partita. Allontanai gli occhi dal suo sguardo tenace, inspirando e
rassegnandomi al fatto che in qualche modo mi sarei dovuto arrangiare.
- Hai
presente quel “Solo tu ed io” tanto promettente
prima di Natale? – Colin annuì convinto
– Ecco, l’epifania se lo portò via
insieme all’albero e a tutti i regali…- la sua
espressione si trasformò immediatamente
– Fu un anno difficile, quello, va detto.
Cominciò subito male, con le pessime recensioni di
Alexander… Invece di ritrovarci agli Oscar, come avevamo
sperato e presagito fin dall’inizio, ricevemmo solo bastonate
da quasi ogni fronte. Lui non avrà avuto un ruolo tanto
importante, ma la delusione fu generale e lo coinvolse parecchio.
- se l’era sentita tutta addosso, eccome, la
responsabilità di quel fallimento, una
responsabilità che non era sua. Ma il senso di colpa, la
tremenda botta di realtà che l’aveva catapultato
da tanta probabile gloria ad un inarrestabile vortice di critiche lo
aveva reso vulnerabile, lo schiacciava, lo faceva vergognare.
Aveva parlato di voler mollare tutto e per mesi avevo cercato di fargli
capire che non aveva nessun motivo per sentirsi così. Ma
è difficile a volte ragionare con chi vuole solo accantonare
le questioni, spiegare le cose a chi si tappa le orecchie. –
Si buttò allora in questo nuovo progetto, un film con cui si
augurava di poter recuperare e accrescere la propria
popolarità – era già al culmine, in
realtà, e il set di Miami Vice era stato uno strazio per
lui, un vero e proprio pedinamento della stampa scandalistica che
attendeva con la bava alla bocca qualsiasi sua mossa, preferibilmente
avventata o sopra le righe; ore di appostamenti, pur di ottenere uno
scatto che alimentasse le voci sul divo incontrollabile e irresistibile
del momento-, ma ben presto le difficoltà di lavorazione si
moltiplicarono e le riprese si trascinarono tra varie interruzioni per
lunghissimi mesi. E poi, purtroppo, ebbe dei problemi con la bambina.
–
Aleggiava da qualche
tempo il sentore che James avesse qualcosa che non andava. Per quanto
lo sviluppo di ogni bambino vari individualmente, era diventato
innegabile, ad un certo punto, che lui non rispettasse per niente i
parametri. Cominciarono le prime visite, i primi pareri poco
rassicuranti, le prime prese di coscienza che un qualche disordine ci
fosse. Dopo l’estate, alla fine, la diagnosi sulla sindrome e
le prospettive di quella che sarebbe stata la sua esistenza disagiata.
Con gli anni, per la verità, le cose erano andate meglio del
previsto. Era indiscutibile che il bambino avesse delle
difficoltà, delle grandi limitazioni, rispetto ai suoi
coetanei, ma non era triste, non era malato, era solo speciale. Se
c’è una cosa che James non porta nella tua vita
è la malinconia; lui è felice, sempre, anche
quando non penseresti mai che potrebbe esserlo. E riesce a rendere
felici tutte le persone che roteano nella sua orbita. James
è in assoluto il fulcro, la linfa, la grande risorsa di
Colin; è il suo orgoglio.
Ma all’epoca le previsioni erano tutt’altro che
rosee e fu un duro colpo, un’altra responsabilità
che per qualche motivo Colin sentì di doversi assumere.
Ancora senso di colpa.
- Che tipo di
problemi? – mi sentii domandare
- Ecco…
- ecco! E ora..?
– problemi del tipo, sai… Non…La madre
della bimba non gliela lasciava vedere abbastanza – pessima scusa, perdonami Kim –
Diceva che il suo stile di vita non giovava alla piccola. –
Colin aggrottò la fronte, ma rimase in silenzio –
In tutto questo io ero impegnatissimo con l’uscita del nuovo
album. Il secondo, sai, quello con la tua amica From Yesterday, The
Kill… - sorrise e annuì – e nutrivo
molte aspettative, era un disco diverso e più grandioso, dal
mio punto di vista, rispetto al precedente. E poi partirono i viaggi di
promozione e soprattutto il tour! Ero pompatissimo, non puoi
immaginare! – forse dovevo avere un aspetto anche troppo
entusiasta, ma era sempre piacevole ricordare quel periodo –
Ed ero anche sereno, perché stupidamente illuso che le cose
con lui andassero bene, che avessimo raggiunto una sorta di, non ti
dico classica e sicura relazione, ma almeno un certo equilibrio tutto
nostro all’interno del quale muoverci agevolmente.
– rimasi assorto per qualche secondo, per poi scuotere il
capo e riprendere – Ma per lui non era così. Per
lui non dovevo essere che un’ulteriore complicazione alla sua
già problematica vita. E un metodo elementare per svagarsi e
fingere di stare bene è quello di fare lo stronzo e scoparsi
qualunque essere a due zampe capace di respirare. Con un bel seno,
ovviamente; un bel seno è l’ideale per farmi
sentire inadeguato. – non fu volontario, ma lasciai che il
mio tono diventasse via via più acido –
Certo non si può dire di lui che non sia sempre stato un
uomo corretto e galante. Una notte, per mettere fine ai dubbi che
ultimamente mi assillavano, mi chiamò, palesemente ubriaco
fino al midollo, il respiro corto e la chiara presenza di una qualche
poco di buono vicina a lui, per informarmi che “no,
Jay, non ce la faccio, è meglio godersi la vita senza
rinunciare a niente”. –
Scrollai le spalle,
guardando Colin come se davvero non stessi parlando di lui, come se
quel che dicevo non avesse più alcun potere di farmi male.
Lui, le labbra dischiuse, lo sguardo sgomento, era pietrificato.
Volevi la tua storia?
Eccola.
- Chi lo sa,
forse se gli fossi stato più vicino, gli avessi dedicato
più tempo, materialmente… forse se avessi capito
che mi stava allontanando perché non sapeva più
dove sbattere la testa… forse… Ma sai cosa? In
più di un’occasione lui ha combinato casini, e io,
come un idiota, mi sono incolpato dicendomi “Jared, ma
se…”. E invece no! C’è voluto
tempo, ho dovuto morire dentro, sai? Ma l’ho capito. Sa
essere uno stronzo. Punto. Io non avrei potuto farci niente comunque. -
Mi ero innervosito,
stupidamente. Mi faceva sempre quell’effetto ripensare ai
guai del passato dopo che era successo di Alicja. Era come se ogni
problema, anche anteriore, lo ricollegassi a lei, come se ciascun torto
che Colin mi aveva fatto, ciascun piccolo pezzo di dignità
che ogni volta mi aveva portato via, andassero ad accumularsi nel
dolore più grande che mi aveva provocato. Ero più
sereno nel ripercorrere i suoi sbagli, prima; negli ultimi anni, ogni
ricordo negativo mi faceva infuriare. Mi calmai e mi schiarii la voce.
- Sta a te
tirare. – dissi piano, indicando il piano da gioco.
Mentre parlavo, non
avevamo interrotto la manche, che stava ormai volgendo al termine,
anche se Colin era rimasto immobile negli ultimi minuti.
- Sì,
scusami. – si riprese, abbassando gli occhi sulle carte e
scegliendo quella da giocare.
Il filmino porno!
Ecco, cosa mi era sfuggito di quel periodo del cavolo, il filmino
porno! Un’illuminazione istantanea! Ora c’era
veramente tutto!
Il video hard più famoso del 2005, sicuramente ancora nella
top 10 delle prestazioni amatoriali rubate ai vip. L’aveva
girato tre anni prima, in realtà, ma la furbona che si
faceva all’epoca aveva scelto quel momento, quando Colin era
salito sulla cresta dell’onda, per divulgarlo sul web.
Ora
che ci penso i suoi ricordi dovrebbero essersi arrestati più
o meno al periodo in cui frequentava proprio la scaltra coniglietta.
Chissà se l’ha già girato, nel suo
cervello, il filmato… Casomai più in
là glielo chiedo.
Comunque sia, almeno
per quel fatto non me l’ero presa. Per quanto le persone
dicano, lo trovai allora, e lo trovo ancora, un filmato piuttosto
triste e degradante.
Se davvero fosse quello l’ascendente sessuale che Colin
esercita su di me e quella la sua abilità media,
probabilmente non starei qui a lagnarmi dei miei problemi, dato che
sarei riuscito a liberarmi di lui molto, ma molto tempo fa.
Qualcuno, però, che a modo suo aveva apprezzato tantissimo
il video, lo conoscevo bene. Mio fratello, ovviamente. Santo cielo, non
saprei dire perché, ma lo trovava incredibilmente spassoso.
Per mesi e mesi aveva riso a crepapelle e, a chiunque gli
domandasse quale fosse il suo film preferito, rispondeva serio e
compiaciuto “il porno di Colin Farrell”. Tutto
questo aveva avuto tragicamente fine il pomeriggio in cui era rincasato
senza preavviso e si era ritrovato nel bel mezzo di una riproduzione
dal vivo sul divano del salotto. Era stato imbarazzante, ma se non
altro lo aveva zittito per sempre.
Mi venne da ridere nel ripensare a tutto quel caos e, nel silenzio,
Colin mi guardò incerto. Riuscii a rimanere serio, non era
quello un argomento di cui potessimo parlare, troppo specifico, la
casualità non avrebbe retto.
- Del resto
– ricominciai da dove mi ero interrotto – non
è che avermi vicino lo aiutasse più di tanto.
Durante i nostri ultimi incontri non era neppure tanto lucido.
Sì, perché devi sapere che il tocco finale in
questo incantevole quadro erano le droghe. Aveva provato qualcosa,
occasionalmente, come fanno tutti; non sono certo qui a dirti di essere
sempre stato un santo. Un paio d’anni prima aveva avuto dei
problemi alla schiena, così aveva cominciato ad assumere
degli antidolorifici. – si era fatto male, due volte, mentre
giravamo in Tailandia e ne aveva avuto seriamente bisogno - Dalla
dipendenza farmacologica all’uso frequente di pasticche e
cocaina il passo è breve, lo sai anche da solo. –
- Un
cliché piuttosto triste… - intervenne.
- Sai, non
credo che la celebrità c’entrasse qualcosa in
tutto questo… Non è il tipo di persona che cambia
e si crede chissà chi solo perché è
sbarcata ad Hollywood, che deve darsi un tono, provare gli eccessi ad
ogni costo. Penso che si portasse già tutto dentro.
– incontrai di sfuggita i suoi occhi scuri, per poi
concentrarmi su una macchiolina verde sul tavolino – Penso
che fosse infelice e fragile già da molto prima, anche se a
vederlo era l’ultima impressione che avrebbe potuto
trasmettere. Frequentare un ambiente come il nostro, un vero vespaio di
insidie, una sorta di spirale dove ogni vizio è amplificato,
ogni imperfezione cresce e si trasforma in qualcosa di più
grande a velocità raddoppiata, probabilmente non ha che
favorito e affrettato il suo percorso. Sta di fatto che almeno quando
eravamo insieme non sentiva il bisogno di sballarsi. – buttai
giù la mia ultima carta e tornai a rivolgermi direttamente a
lui - Anzi, sentiva il bisogno di mantenere salda ogni sua
capacità cognitiva. Erano rare, ormai, le occasioni in cui
riuscivamo a rubarci un po’ di tempo solo per noi; un paio di
giorni, a volte un paio d’ore. Ma in quei pochi, preziosi
momenti, avevo ancora la possibilità di avere lui, di sentire lui, di stare con lui. Ero
assurdamente capace di passare sopra tutte le sue mancanze e di
assaporare il fatto che con me non gli servisse altro, che gli bastassi
io, che fossi l’unico in grado di farlo essere in pace con
sé stesso. Ero più forte io di ogni droga,
– evitai di nominare l’alcol, vero protagonista
della sua rovina, per non avvicinarmi troppo alla storia di
sé che già conosceva. Gli antidolorifici e le
altre schifezze ben più pesanti che assumeva erano un
problema, sì, ma non ne avrebbe nemmeno fatto uso se fosse
stato capace di rimanere sobrio - almeno fino ad un certo punto.
L’ultimissima volta che l’avevo visto era
così fatto – e ubriaco - da
scaraventarmi contro un soprammobile di cristallo, un fantino di
finissima lavorazione, che mi schivò di poco per poi
frantumarsi a terra in mille pezzi. Subito dopo si abbandonò
sul tappeto in lacrime, strillando insulti e suppliche insieme,
finché, addormentato, o svenuto, non si mosse fino alla
mattina. Rimasi accanto a lui tutta la notte, occhi sempre aperti,
immobile, se non per un leggero tremore, per assicurarmi che stesse
bene. – feci una piccola pausa, mordicchiandomi
l’unghia del pollice destro. Quasi un senso di compatimento
che andava a sostituire il panico di quella notte, scolpita
irrimediabilmente nei miei ricordi. Colin, le braccia rigidamente stese
sui braccioli della sedia, aspettava, visibilmente attonito.- Poi me ne
andai senza una parola e né io né lui ci facemmo
sentire per un bel po’. Eppure, nonostante tutto, quando tra
le varie tappe per la band mi furono proposte tre serate a M
– mi bloccai appena in tempo ed ebbi la prontezza di spirito
di fingere di grattarmi una guancia – Memphis, dove lui
stava finendo di girare le ultime scene del suddetto film, non riuscii
a tirarmi indietro. Non l’avevo neanche avvertito, non ero
sicuro di come avrei gestito la cosa; probabilmente avevo in testa di
fargli una sorpresa, sperando risultasse gradita, dato che non ci
eravamo lasciati nel migliore dei modi. Ma ci pensò lui a
farmela, la sorpresa. – Colin corrugò la fronte
– Un…incidente… - pensa velocemente, Jared,
spremi le meningi – mentre faceva il giro dei
locali notturni, sbandò con la macchina. Si ridusse
piuttosto male e fu trasportato di corsa in ospedale. Sotto
l’effetto di molteplici sostanze stupefacenti,
s’intende. –
Nessun incidente, il
suo cuore aveva semplicemente smesso di battere. Per fortuna Eamon si
trovava lì con lui e mi aveva avvertito subito. Non si
aspettava che fossi tanto vicino, ma mi aveva confidato, in seguito, di
esser stato molto sollevato di non aver passato quel terribile momento
da solo. Erano state ore d’inferno. Il medico che gli aveva
salvato la vita, spulciando le sue analisi, ci aveva confessato
candidamente di non aver mai visto un tasso alcolico tanto elevato
né un fisico tanto giovane devastato a tal punto.
A 29 anni, si trascinava dietro i segni di eccessi
normalmente così radicati soltanto nei
settantenni.
- E
andò tutto bene? – mi chiese Colin – Si
riprese? –
- Sì,
si riprese. Ma per miracolo, su questo furono tutti molto chiari, sia
con lui che con noi. Non ci f –
- Ti vide
quando si svegliò? Era contento? –
Era quasi dolce il
modo in cui si sentiva partecipe. Gli sorrisi, lasciando andare un
po’ della tensione che mi aveva mio malgrado attanagliato
fino a quel momento.
- Molto
contento, sì! Parlammo. Volle parlare, un sacco…
-abbassai lo sguardo, intrattenendomi con le maglie sgranate dei miei
jeans – Buttò fuori
un’enormità di cose, alcune che avevo immaginato,
alcune che avrei voluto sentire, alcune che andavano oltre ogni mia
aspettativa. – sentii l’angolo delle labbra che si
incurvava nel tenero ricordo di quel suo liberarsi,
l’espressione mortificata ma convinta, le mani saldamente
aggrappate al mio braccio, perché non mi spostassi di un
centimetro – Toccare il fondo gli aprì gli occhi,
gli mostrò che per tanto tempo aveva solo umiliato
sé stesso e chi gli voleva bene, respingendo ogni tentativo
di comunicazione, di aiuto, di supporto. Fu uno shock tremendo, ma
capì tutto e lo capì bene. – focalizzai
la mia attenzione su Colin, sullo strano ibrido di sé che
avevo davanti, incastrato tra il passato e il futuro, i dubbi e le
certezze, cercando vanamente qualche traccia di quel Colin di cui gli
stavo raccontando – Ed ebbe la forza di cambiarsi! Di
comprendere su chi e su cosa potesse appoggiarsi, per chi e per cosa
valesse la pena lottare. Lo ripulirono ben bene durante il ricovero,
pensa che lo specialista che lo seguiva si disse sconcertato dalla
quantità e dalla varietà di sostanze che lui gli
elencò di aver assunto. E poi si fece un mesetto di
– tentennai, mentre lo guardavo, non volendo ancora far
collimare troppo la mia storia con quella che conosceva – ritiro… -
Colin
aggrottò le sopracciglia: - riabilitazione, vuoi dire?
–
- No, ritiro!
Una sorta di ritiro spirituale, sì… in Tibet,
ecco. – Jared,
ma come ti vengono certe stronzate?! – Metodi
sperimentali, il risultato è più o meno quello
delle cliniche riabilitative occidentali, insomma…
– aggiunsi, in seguito ad una sua occhiata piuttosto
perplessa.
Sembrò non
darci ulteriormente peso, ma continuò a
scrutarmi, pensoso, le pupille che vagavano lentamente su di
me. Mi pareva quasi che mi lasciasse dei segni addosso e provai un
certo disagio. Tossii appena.
- Beh,
abbiamo finito, qui – indicai col mento il piano da gioco
– vuoi contare tu per vedere chi ha vinto? –
Spostò
rapidamente lo sguardo sulle carte e, radunandole in unico mazzo,
ridacchiò: - Non credo ce ne sia bisogno… Mi sa
che non era la tua serata, Leto! –
Non saprei
assolutamente dire il perché, forse il tono della sua voce,
il riso spontaneo e rilassato, l’accomodante ironia che gli
sprizzava dagli occhi, qualcosa mi fece sentire bene, sciolse ogni mio
muscolo contratto, allentò la rigidità che mi
sosteneva.
Mi accorsi all’improvviso di aver avuto freddo per tutto il
tempo, ma in un istante i brividi cessarono.
- Mi
rifarò, non temere! Torniamo a letto, ora? –
roteò gli occhi, fingendosi infastidito, ma poi
annuì, con il sorriso sulle labbra. Si vedeva che era
stanco. – Vieni, ti do una mano! –
- Macché,
non mi serve affatto! – mi fermò, ancor prima che
potessi alzarmi.
- Colin…
- soffiai, abbandonando le braccia sul tavolino, sconsolato -
Ti ho visto vomitare, ruttare, collassare ubriaco sul pavimento,
bestemmiare… una volta anche farti la pipì
addosso! Tutte in quest’ordine, in ordine sparso e anche
reiterato. Credi che mi costi una qualche fatica sorreggerti per dieci
metri, pochi giorni dopo che ti hanno fatto un buco in testa?
–
Mi fissò
con gli occhi spalancati per qualche secondo, poi, forse un
po’ in imbarazzo, masticò un poco convinto
“d’accordo, allora”. Si tirò
su in piedi da solo e mi passò un braccio intorno al collo;
lo sorressi fino al letto, dove si sdraiò piuttosto
agilmente, allungando e stirandosi le gambe.
Quando, d’istinto, gli rimboccai le lenzuola sul petto, mi
rivolse un’espressione a metà tra lo sbigottito e
il divertito.
- Grazie,
mammina! –
Sbuffai e replicai con
una pernacchia, cosa che lo rese ancor più di buon umore.
In effetti avrei potuto tenermele per me certe accortezze.
Spostai una sedia oltre il comodino e ne avvicinai una al letto,
sedendomi.
- Che fai,
adesso mi canti anche una ninnananna? - domandò con piglio
sbarazzino
- Come se non
l’avessi mai fatto..! –
Cazzo,
come te la sei fatta uscire questa?!
Colin mi
rimandò un’occhiata quasi sconcertata.
C’è
un nome per quelli come te, Jared: decerebrati.
- Non…non
a te, ovviamente… ai tuoi bambini! – cercai di
rimediare, ma con la voce un po’ traballante – Lo
adorano…che canti per loro, intendo… -
Era vero. James certe
volte si agitava moltissimo, dal niente, e solo con qualche trucco
collaudato col tempo era possibile calmarlo. Quando c’ero io,
lo prendevo in braccio e lo cullavo pian piano, girando in circolo e
sussurrando una melodia pacata. Henry invece impazziva per la chitarra.
Ogniqualvolta la tirassi fuori, mi saltellava intorno tutto emozionato,
smaniando per strimpellare le corde e impegnandosi per imparare tutte
le canzoni che mi sentiva canticchiare.
- Sì,
certo… Sei molto gentile, sono sicuro che impazziscano per
te… - tirò via, piatto. Deglutii, mentre Colin
continuava a guardarmi, come esaminandomi. – Jared, tu canti
le ninnananne a lui?
–
- Come?!
– mi sentii completamente avvampare – No! Ch
–
- Oh mio dio!
– esclamò ad alta voce, sollevandosi sui gomiti
– Ma cos’è? Una sorta di gioco erotico
perverso? – cercai di interromperlo, ma non si
fermò, del tutto perso per la sua tangente –
Cioè, gli canti?
Oddio, non posso nemmeno immaginare la scena! –
- Non è che
gli canti le ninnananne, stupido! – sbottai –
Solo…dopo l’inicidente, a volte, non riusciva a
dormire, a rilassarsi… E allora è capitato
che… non so, che mi stendessi al buio, con lui, e intonassi
qualcosa per farlo stare tranquillo, ecco… -
- Gli canti
le canzoncine per il sonno, ti rendi conto? –
continuò imperterrito, per poi lasciarsi scivolare nella
posizione supina precedente e coprirsi il volto con le mani –
Sei veramente un tesoro! – mi disse infine, sghignazzando.
- Colin, mi
lasci in pace?! – sbuffai
- D’accordo,
d’accordo, scusa… Ma dicevo sul serio! E poi,
vedessi, sei rosso dalle punte dei capelli alle unghie dei piedi!
–
Effettivamente sentivo
caldo. Lo guardai male, sbuffando di nuovo.
- Va bene,
dai, mi sono calmato… - inspirò e mi
guardò, sorridendo – Ma non devi cantarmi nulla,
tranquillo, non ho intenzione di dormire. –
- Che vuol
dire “non ho intenzione di dormire”? Abbiamo
giocato, abbiamo parlato, mi hai preso in giro… ma adesso
è arrivata l’ora. –
- Ma io non
dormo! – rispose contrariato – L’hai
portato il film che ti ho chiesto oggi? Lo guardiamo? –
m’incalzò speranzoso.
- È
tardi, Colin, e hai avuto una giornataccia… Lo vedi che ti
si chiudono gli occhi? –
- Ti prego,
Jared, non voglio dormire. – bisbigliò alla fine,
con espressione mesta.
- Si
può sapere cos’hai? Non ti senti bene, per caso?
– mi curvai istintivamente verso di lui, allarmato.
- No, sto
bene…è che… - rimase qualche secondo
in silenzio, rimuginando – Faccio un sogno. – mi
disse poi – Da due notti. E anche ieri pomeriggio, quando mi
sono appisolato. –
Si zittì
nuovamente, allontanando lo sguardo dal mio e chiaramente riflettendo
su qualcosa.
- Un brutto
sogno? –
- No,
è un sogno, e basta. Ma non mi va di rifarlo, mi fa
sentire…strano…turbato. – mi
limitai a corrugare la fronte e aspettai – A un certo punto,
all’improvviso, mentre sto sognando qualcos’altro,
qualcosa di normale, mi ritrovo in uno spazio grandissimo,
completamente vuoto, tutto grigio. Non ci sono pareti, soffitti,
pavimenti, è solo uno…spazio. Io cammino, un
po’ incerto, non so bene dove mettere i piedi, come mantenere
l’equilibrio…non sono sicuro di dove dovrei andare
o cosa dovrei fare. Sto lì, e mi guardo
intorno. Poi a un certo punto, poco distante, vedo la mia
casa, a Dublino, e automaticamente so che là dentro ci sono
i miei, tutti quanti. E allora – smise di aggrovigliarsi le
dita ed iniziò a mimare la scena – comincio subito
ad andare verso di loro, anche se sono tentennante, perché
non so come sia la strada. Il tempo di muovere due passi e appare
un’ombra chiara. Non si fa sentire, non produce alcun rumore,
la scorgo appena con la coda dell’occhio. Io mi giro e la
seguo, senza nemmeno pensare. – continuò,
assumendo un tono smarrito e spalancando gli occhi, quasi imbambolato
– Faccio fatica a starle dietro, va veloce e il percorso
è accidentato. Mentre la inseguo mi ritrovo a pensare a
perché mai lo stia facendo, la mia famiglia è
nella direzione opposta; con loro so che sarei al sicuro,
quest’ombra non so neppure chi sia. Perché la
inseguo? Eppure continuo, sempre più rapidamente,
finché non mi accorgo che ormai sto correndo! –
esclamò, ora concitato – Sono perfettamente in
equilibrio, sono forte, non ho più paura e voglio
raggiungere l’ombra, la voglio vedere. Voglio capire.
– si fermò tutt’a un tratto,
interrompendo l’enfasi del racconto, tornando ad assumere
l’espressione sconsolata di poco prima – Ma non
l’ho raggiunta mai, in nessun sogno. Sta lì a un
passo, ma non riesco a vederla. -
Avevo trattenuto il
respiro. Per un sacco di tempo, almeno dall’attimo in cui mi
ero riconosciuto in quell’ombra, quella che importunava le
notti di Colin. Avevo trattenuto il respiro per dei minuti; mi chiesi
come fosse possibile che non fossi ancora soffocato. Lo lasciai andare.
- Oggi ne ho
parlato con lo strizzacervelli, ma l’interpretazione era
piuttosto elementare, insomma. C’è qualcosa che mi
sfugge, nella mia vita, è ovvio. Ma mi sembra il minimo, no?
– allargò le braccia –
È solo che a livello cosciente non mi disturba affatto.
Appena chiudo gli occhi, invece, se non acchiappo quella
stramaledettissima ombra, non ho pace. – disse, quasi
sdegnato, battendo un pugno sul materasso.
Avrei potuto e dovuto
replicare in molti modi. Ma dissi solo: - Bene, allora direi di
guardarci il film! –
Colin, mi
guardò, colto di sorpresa, poi sorrise e
acconsentì. Mi alzai, scoprendo un certo tremore lungo le
gambe, diretto verso il mio borsone, abbandonato sul secondo lettino.
- Che film
hai scelto? – lo sentii chiedere, mentre tiravo fuori il dvd
e mi guardavo intorno alla ricerca del portatile.
- Platoon! Un
giorno, chiacchierando fra un ciak e l’altro, mi hai
confessato di aver visto JFK, The Doors, Nato il 4 Luglio, ma non
Platoon. – spiegai, intento ad accendere il pc e preparare
tutto - Hai accettato di spaccarti il culo per Oliver Stone senza aver
visionato la sua migliore creatura… - gli lanciai la
custodia del dvd e lui prese ad esaminarla – Poco dopo la
fine delle riprese ce lo guardammo insieme e ti è piaciuto
tantissimo! È un capolavoro, Platoon. –
- Fammi
capire… – mormorò, alzando gli occhi
dalla custodia e scrutandomi dubbioso – proponi ad un
ricoverato in stato semi-confusionale uno spossante e crudissimo film
di guerra che denuncia uno degli aspetti più bassi e
spregevoli della natura umana? –
Mi bloccai a pochi
metri da lui, il portatile già pronto tra le mani, assalito
improvvisamente dalla possibile inadeguatezza della mia scelta.
Poi Colin scoppiò a ridere, ammiccando compiaciuto. Alzai
gli occhi al cielo, segretamente sollevato.
Gli sistemai un cuscino sulle ginocchia e ci poggiai sopra il computer,
riprendendo posto sulla mia sedia.
- Pronto?
Vado? –
- Signor
sì, Signore! –
Avviai il film, passai
alla versione schermo intero e mi sistemai comodamente contro lo
schienale. L’angolazione non era delle migliori,
così mi spostai un po’ indietro e appoggiai il
gomito sul bordo del materasso.
- Ma ci vedi?
– annuii tranquillamente. Colin spostò lo sguardo
da me al pc, poi di nuovo a me, poco convinto – No che non ci
vedi bene da lì! –
- Sì
che ci vedo! E poi lo conosco a memoria questo film, non ti
preoccupare. –
Le note iniziali della
colonna sonora lasciarono posto alle prime battute, il visino
svampitello di un giovanissimo Charlie Sheen invase lo schermo.
- Senti, non
posso stare qui disteso come un pascià, con te arroccato su
una seggiolina! Non mi godo il film! – si lamentò
d’un tratto, l’aria contrariata.
- Io sto
bene, poss-
- Vieni qui!
– esclamò, indicando il suo stesso letto
– Mi sposto un po’ più in qua e
c’entriamo bene tutti e due, ecco! –
- No!
– quasi urlai, con decisamente troppo impeto – Non
ce n’è bisogno, davvero, va benissimo
così. – cercai di correggere il tiro.
- Guarda,
- continuò imperterrito, scivolando verso l’altro
estremo del letto – ci stiamo perfettamente! E ci vediamo in
santa pace il film. – sorrise, guardandomi beato.
C’era un
limite a tutto ed io avevo raggiunto il mio. Mi ero fregato con la
storia riadattata della mia vita, con l’accettare di fargli
la notte, non mi sarei infilato in un letto con lui a vedere un film.
Avevo ancora una dignità, io.
- Che
c’è? La smetti di fissarmi con quella faccia? Non
ti ho minacciato con un coltello, ti ho solo proposto di portare il tuo
bel culetto qui… - incrociò le braccia sul petto,
poi sbuffò – Dai, ti prometto che non ti
molesterò in alcun modo! – sghignazzò
Ridi,
ridi…non c’è proprio nulla da ridere!
- Su, ti
prego… per chi mi hai preso? Dici di essere il mio migliore
amico ma pensi che rimarrei due ore qui in panciolle mentre a te viene
l’artrosi? – poi, risoluto - Ho voglia di vedere
questo cazzo di Platoon, ti vuoi muovere?! –
Se avessi continuato a
rifiutare, senza alcun apparente motivo, avrei solo peggiorato la
situazione. Così, celando al meglio il mio turbamento e
inveendo silenziosamente contro me stesso con la schiera di insulti che
sapevo di meritare, mi sdraiai accanto a lui, la schiena poggiata allo
schienale rialzato, le gambe dritte e accavallate, le braccia conserte,
facendo attenzione a non entrare in contatto con nessunissima parte del
suo corpo.
Un paletto di legno sarebbe stato molto più caldo e sciolto
di me.
- Jared?
–
- Sì?
–
- Puoi
rimettere indietro? Mi sono perso tutto… -
Allungai il braccio
verso il pc, molto cautamente, mandai indietro la scena e mi risistemai
composto, sempre molto cautamente. Colin si accomodò appena,
sfiorandomi la coscia con l’anca, e io, lesto come
un’anguilla, mi spostai verso l’esterno.
Neanche un minuto dopo, quando ormai pensavo che peggio di
così non potesse andare, sentii di nuovo la sua voce
intrufolarsi tra le parole poco gentili che continuavo ad indirizzare a
me stesso.
- Jared?
–
- Uhm?
–
- Potresti
spegnere la luce? –
Potresti prendere un cappio ed
appenderti direttamente al soffitto?
Avrei voluto piangere, davvero. Sentivo le lacrime di stizza pungermi
l’interno degli occhi. Come diavolo avevo fatto a ritrovarmi
in una simile situazione?
Respirai, il più discretamente possibile, per mantenere il
controllo.
- Dov’è
l’interruttore? –
- Alla tua
sinistra, ci arrivi senza doverti alzare. – sorrise.
Era tranquillissimo e
rilassato, lui. Mi sporsi leggermente dal letto, notai
l’interruttore, lo spensi e tornai nella posizione
precedente, rigido come un repubblicano al gay pride.
- Grazie!
–
- Prego.
–
Finalmente
cessò ogni movimento, ogni suono. Il che, a un certo punto,
mi sembrò anche peggio, perché il cuore mi
batteva così forte e a un ritmo così
spaventosamente implacabile che quasi temetti potesse sentirlo anche
lui.
Non me ne resi conto, ma trascorsi diverso tempo solo a trattenere il
movimento di ogni muscolo, a controllare la respirazione e il battito
cardiaco, a cercare di riassumere in che modo, esattamente fossi
riuscito ad incastrarmi tanto a fondo in quella situazione,
perché quando buttai l’occhio sul minutaggio del
film, era passata quasi mezzora.
Ero stato così distratto che, non solo non avevo seguito un
secondo della trama, ma non avevo neanche notato che stranamente Colin
non aveva mai fiatato. Lui, il classico tipo snervante che, mentre
guardi un film, specialmente d’azione, si relaziona
direttamente coi personaggi, incitandoli a fare o a non fare una
determinata mossa.
Mi voltai, con accorta nonchalance, verso di lui. Dormiva, come un
bambino. Le palpebre calate, le labbra non perfettamente sigillate, il
respiro piatto e regolare.
Non sapevo cosa fare. Non sapevo neppure cosa fosse opportuno fare in
casi come quelli. Chi ci pensa mai a come dovresti comportarti nel caso
in cui il tuo compagno si scordi completamente di te e ti si addormenti
serafico accanto, mentre tu perdi tutte le inibizioni
dell’ultima settimana e ti senti improvvisamente svuotare,
distrutto?
Mi girai sul fianco e rimasi a guardarlo, immobile e silenzioso. Lo
vedevo appena, i guizzi azzurrognoli provenienti dallo schermo gli
illuminavano il volto ad intervalli irregolari.
Piano piano avvicinai una mano al suo braccio, abbandonato lungo il
corpo, e presi coraggio fino al punto di sfiorargli il polso con le
dita. Poi, colto da un’audacia sempre più
incosciente, allungai il collo verso la sua spalla, sistemando la testa
a pochi centimetri da lui.
Inspirai il suo odore e mi sentii a casa. Avevo vagabondato per tutta
la vita, ancora a quarant’anni mi spostavo continuamente da
un posto all’altro. Ma in quell’istante compresi,
veramente, cosa intendono le persone con la parola
“casa”. Vergognosamente smielato, ma concretamente
reale.
Poi, Colin bofonchiò qualcosa nel sonno e, nel modo
più naturale possibile, piegò il capo verso di
me, appoggiando la tempia sinistra sulla mia fronte. Rimasi di sasso,
per qualche secondo, ma dopo, irrimediabilmente, mi ritrovai a
sorridere.
Mi prendeva in giro, lui, sempre. Diceva che, quando dormivo, diventavo
un “accoccolatore seriale”, non restavo mai dalla
mia parte del letto. Ma più di una volta mi ero accorto che
d’istinto anche lui mi cercava, di notte, si avvicinava. Come
adesso.
Magari voleva dire qualcosa, no? Magari si sarebbe svegliato, la
mattina, e sarebbe stato di nuovo lui. Magari mi avrebbe guardato nel suo modo e io
l’avrei saputo subito.
O magari niente, niente di niente, come sarebbe stato più
probabile.
Riprese a farsi sentire il solito, insistente morso allo stomaco,
quella costante sensazione di inadeguatezza e agitazione, quella
percezione negativa che mi assillava. Improvvisamente mi resi conto di
quanto fossi ridicolo, di quanto imbarazzante fosse quello a cui mi
stavo sottoponendo.
Mi disincastrai lentamente, ma con fermezza; rimasi seduto, con i piedi
poggiati a terra e spensi il portatile. Mi alzai, lo rimisi sul
comodino e andai direttamente a stendermi sull’altro letto,
senza nemmeno dare un ultimo sguardo a Colin.
Mi raggomitolai, dandogli la schiena, e chiusi subito gli occhi.
I fari delle auto, in
lontananza, rischiaravano il lungo viale buio che conduceva
all’ospdale. Centinaia di auto, centinaia di vite, di destini
ed io me ne stavo ad osservarli da debita distanza, protetto dal vetro
spesso della finestra. Déjà vu.
Colin soffriva d’insonnia, non riusciva mai a riposare
abbastanza. Tranne che quando eravamo insieme, così diceva.
Per anni e anni, in qualche albergo di lusso, a casa mia, a casa sua, a
Los Angeles, a Dublino, a New York, a Parigi, a Londra, a Toronto, a
Berlino, in Africa, in Asia, in Sudamerica… per anni avevamo
strappato tempo al tempo, avevamo corso come dei pazzi per conciliare
l’inconciliabile. Ci trovavamo, ci illudevamo di entrarci
dentro abbastanza per sopperire alle dilanianti delusioni che ci
infliggevamo.
E poi lui dormiva. Io invece me ne restavo di fronte alla finestra, a
volte in piedi, a volte seduto, scrutando fuori, osservando
tutti i minimi particolari, spiandoli, in modo quasi ossessivo. E di
tanto in tanto mi giravo a guardare lui, che dormiva.
C’era un forte contrasto tra il caos del fuori e la quiete
del dentro.
Il fuori cambiava, scorreva, era vivo, proprio perché
mutevole. Dentro, noi ce ne stavamo lì, perennemente
immobili; passavano i mesi, gli anni ed eravamo sempre gli stessi.
Più infelici, forse. Il fuori era bello, era fresco, era la
libertà. Il fuori metteva una gran paura; mi sentivo sicuro
nel mio dentro, imprigionato ma al riparo. Un po’ come un
leone che, abituato alla cattività, teme di lasciare la
gabbia.
Un potente rombo di motore, forse la sgommata di una grossa moto. Mi
voltai verso Colin, sempre tranquillamente addormentato.
Déjà vu.
Feci due passi verso di lui. Avevo aperto la finestra, in quegli ultimi
mesi. Non ero ancora fuori, ma già distinguevo il profumo
brioso dell’aria, già ero pronto a confondermi con
uno di quei confusionari dettagli che ero solito rimirare. Non potevo
tornare dentro, perché il dentro non c’era
più. Ero solo ed ero bloccato sull'infisso, né
dentro né fuori. Ero terrorizzato. E arrabbiato.
Raggiunsi il letto e mi appoggiai ai due sostegni metallici laterali,
una mano da un lato e una dall’altro, chino sopra Colin. Si
trovava ancora nella stessa identica posizione in cui l’avevo
lasciato, solo leggermente più scomposto. Ma non aveva
più i tratti distesi; stava faticando, si stava sforzando
per qualcosa. Forse sognava, forse era quel sogno.
Ripassai con le dita i suoi lineamenti, a pochi centimetri dalla pelle,
senza mai sfiorarlo. Le sopracciglia, il naso, le labbra, il muscolo
teso del collo… Non era necessario che lo toccassi.
Cosa pensare del sogno? C’era qualcosa di mio così
radicato in lui che spingeva per uscire. Si faceva sentire, voleva
essere scoperto. Non poteva ricostruire sé stesso senza una
parte così rilevante? Era positivo, certo, ma niente affatto
rincuorante. Lui correva e correva ed io ce la mettevo tutta per andare
piano, per aspettarlo, ma la verità è che non
dipendeva da nessuno di noi due. Potevo soltanto sperare per il meglio
e restare lì, continuare ad affacciarmi nel suo inconscio e
augurarmi che lui non si sarebbe stancato di inseguirmi.
Allontanai la mano sinistra dal suo volto e la riappoggiai sulla barra
metallica. Mi chinai ancora di più su di lui, arrivando
così vicino da percepire il calore del suo respiro. Era
fermo, ma sapevo che si stava contorcendo, agitando; un debole raggio
lunare tradiva gli spasmi delle sue palpebre, i riflessi
involontari delle labbra. Segni che avevo imparato a riconoscere tanti
anni prima, quando ogni notte era una battaglia, ogni ora di astinenza
una prova di coraggio.
Combatteva, come allora.
- Memories…
- mi sorpresi a sussurrare - may be beautiful and yet... –
poi riuscii a richiamare alla mente quella vecchia, sfocata melodia -
what's too painful to remember, we simply choose to forget... So it's the laughter we will
remember, whenever we remember – mi fermai qualche secondo,
la voce zoppicante - the
way we were.- piegai la testa di lato, per avere una
visuale più nitida del suo profilo e ripresi a scandire le
note, basse e lente. – If we had the chance to do it all
again, tell me would we? Could we? – sorrisi appena, tra me,
aveva già un’espressione più serena
– Misty watercolor memories of the way we were.
–
Lo
guardai ancora, mi passai la punta della lingua sulle labbra secche e
annullai la brevissima distanza che mi divideva dalle sue. Un tocco
leggero, delicato, l’assaggio di un ricordo.
Un bacio fugace, ma intenso. Come
un’ombra.
Le
parole che Jared canticchia a Colin provengono da uno stralcio di "The
Way We Were", che vi linko qui sotto e vi consiglio caldamente di
ascoltare, perché merita, assolutamente. Per il resto, mi
auguro che siate ancora sveglie! A presto!!!
http://www.youtube.com/watch?v=uBPQT2Ia8fU
|
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Capitolo 12 *** vita rubata ***
jjj
Buonasera!!!
Ho
fatto del mio meglio per aggiornare con rapidità, come
promesso!
Ringrazio
tutte coloro che hanno lasciato un commento al capitolo precedente,
tutte coloro che seguono o comunque leggono questa storia :)
Grazie
davvero, di cuore.
Con
questa 12ima parte ho interrotto un po' l'andamento classico mantenuto
ultimamente, ma spero che si farà apprezzare lo stesso!
Attendo
il vostro parere, come al solito, anche per essere brontolata, nel
caso! ;)
Un
bacio e buona lettura<3
Deve essere già mattina.
Percepisco
fastidiosamente la luce del sole sul volto.
Non aprirò
gli occhi per niente al mondo.
Cos’è
questo rumore?
Ah, Colin. Russa.
Mi sa che si
è rigirato a pancia in su.
Allungo il braccio e,
a tastoni, lo cerco.
Eccolo. Non era poi
tanto lontano.
La spalla,
l’avambraccio, l’interno del gomito…
Lo scuoto appena.
Smette.
Sai che? Mi voglio
rannicchiare vicino a lui, così magari riprendo sonno.
Perfetto. Il suo
profilo mi ripara anche dal sole.
Buono questo profumo.
Già, il
nuovo shampoo che ha aperto ieri sera.
Mi devo ricordare dove
l’ho comprato.
Che succede?
Lo sento che si muove.
Cambia posizione.
Silenzio.
Si sposta, di nuovo.
Un bacio sul collo.
- Sei sveglio?
–
Non rispondo.
Un altro, sotto
l’orecchio.
Il respiro, caldo.
La voce roca,
impastata. - Lo so che sei sveglio… -
Un morso, debole, sul
lobo.
- Non è
vero! -
Apro gli occhi.
Sorrido. Sorride.
Reclama le mie labbra,
subito, e lo assecondo.
Allaccio le braccia
intorno al suo collo e mi stringo a lui.
- Mi sembri abbastanza
sveglio… -
Rido, sulla sua bocca.
Torna a sdraiarsi in
posizione supina, tirandomi su di sé.
Le mani. Lungo la mia
schiena, sotto la maglietta.
Scendo sotto al suo
mento.
Una scia bagnata,
attraverso la giugulare, fremente. Fino alla clavicola.
Un sospiro. Due, tre
gemiti.
Ma voglio le sue
labbra, ancora.
- Jared? –
- Mmm? – gli
morsico l’angolo della mandibola, piano.
- Jared? –
Sto arrivando.
- Jared..? Jared?!
–
Un tocco sulla spalla.
Ma
cos’è?
- Jared! –
Mi tirai su
all’improvviso, il fiato spezzato in gola. Un sacco
di bianco, un sacco di luce. Claudine.
- Jared, ehi?
Tutto a posto? – Claudine mi stava di fianco,
l’espressione corrucciata.
Mi guardai rapidamente
intorno. Le sedie, il tavolino, la poltrona, il letto…
Claudine…
- Cazzo..!
– mi presi il volto tra le mani.
Mi trovavo in
ospedale. Colin aveva avuto l’incidente, aveva perso la
memoria, io ero rimasto lì per la notte.
Cazzo, cazzo, cazzo.
- Ehi, sei
sicuro di stare bene? – Claudine si avvicinò,
poggiandomi una mano sulla schiena sudata.
Ero completamente
sudato, mi resi conto.
- Sì,
sì, sto bene, grazie. Solo...non… non ricordavo
dove fossi, tutto qui – mi sforzai di sorriderle. Mi voltai
subito verso il letto, alla mia sinistra, vuoto –
Dov’è Colin? –
- L’hanno
portato giù nella palestrina cinque minuti fa, per
mostrargli alcuni esercizi che dovrà fare a casa nei
prossimi giorni. –
- E
perché nessuno mi ha svegliato? – mi accigliai
- Non ti sei
accorto di nulla, parevi un ghiro..! – alzò le
spalle lei – Colin stesso ha detto alle infermiere di fare
piano, per non disturbarti. –
Ecco,
bella immagine. Almeno fa che non mi sia esibito in qualche palese
mugolio.
- Comunque ho
pensato che avresti voluto che ti chiamassi… Così
magari facciamo colazione insieme. Mia madre è qui fuori al
telefono con Catherine, la vado a chiamare, ok? –
- Ottima
idea. – annuii, strofinandomi gli occhi con il dorso delle
mani – Mi do una sciacquata e sono pronto. –
Come districai le
gambe dalla fine coperta bianca con cui avevo dormito e le appoggiai
per terra, Claudine spalancò gli occhi, sbigottita, per poi
voltarsi fulminea verso la finestra, le mani a coprirsi la bocca.
Abbassai lo sguardo su me stesso, confuso, in cerca
di qualcosa di sconvolgente che le avesse potuto provocare
quella reazione.
Ed eccolo lì, un enorme, evidente gonfiore al cavallo dei
pantaloni.
Che
figura di merda.
- Forse
è meglio se io e la mamma ti aspettiamo direttamente alle
macchinette, in fondo al corridoio… - mormorò,
ancora rivolta altrove, dopo aver leggermente tossito.
- Forse
è meglio, sì… -
Claudine mi
lanciò una rapida, imbarazzatissima occhiata e si diresse a
passo svelto alla porta. Io scesi dal letto, sconsolato, ed entrai in
bagno.
Se
il buongiorno si vede dal mattino…
Il caffè
era bollente. Mentre ascoltavo Rita e Claudine disquisire sugli ultimi
dettagli prima della dimissione, ne buttai giù un sorso
troppo velocemente e mi sentii bruciare la gola.
Mi chiesero come fosse trascorsa la notte ed io feci loro un breve
riassunto, evitando di scendere nei particolari, evitando di
specificare che mi ero comportato come un adolescente alla prima cotta.
Un bacio. Non potevo ancora credere di aver coscientemente fatto una
cosa del genere. Se si fosse svegliato, il minimo che mi sarei beccato
sarebbe stato un cazzotto.
Ma no, figurarsi se potevo resistere.
Poi ti lamenti se fai
sogni di quel genere. Scellerato.
Le zona distributori automatici era davvero troppo affollata a
quell’ora del mattino, così, finiti i nostri
caffè, tornammo subito verso la stanza. Ad attenderci,
scribacchiando su una cartella, trovammo il dottor Ross.
- Buongiorno!
– ci accolse frizzante – Oggi
è il gran giorno, ve lo rimandiamo a casa! –
- Siamo molto
contenti! – sorrise Rita.
Lanciai
un’occhiata furtiva verso Claudine per capire dal suo
atteggiamento se ci fossero stati dei risvolti con il suo affascinante
chirurgo, ma pareva disinvolta.
- Quando,
precisamente, ce lo restituite? – scherzò.
Il dottore
sbirciò l’orologio alla parete e fece qualche
rapido calcolo mentale.
- Subito dopo
il pranzo, direi. Così riusciamo a fargli le ultime analisi
del sangue, a mostrargli gli esercizi che dovrà replicare
nei prossimi giorni ed anche a mandargli il dottor Kleeman
per la seduta quotidiana. –
- Mi scusi,
ma da domani le interromperà, queste sedute? –
domandai, preoccupandomi del fatto che nessuno accennasse al
persistente e non esattamente trascurabile problema di Colin. Non
potevano mollarlo proprio nel momento in cui qualcosa cominciava a
smuoversi, almeno a livello irrazionale.
- No, certo
che no! Infatti, proprio di questo vorrei parlarvi, di come dovranno
essere affrontati i prossimi giorni. Se avete un istante… -
- Certamente.
– rispose Rita.
Il dottor Ross ci
sorrise cordialmente, diede un ultimo sguardo alla cartella che aveva
in mano e la posò sul letto.
Intanto feci un passo
verso Claudine, alla mia sinistra, e le sussurrai :- Forse dovrei
lasciarvi so-
- Non fare
l’idiota. – mi zittì, brusca.
Non fiatai nemmeno e
me ne rimasi lì accanto a lei, buono e fermo, un lieve
sorriso che mi trapelava sulle labbra. Poteva essere acida, Claudine,
quando voleva. Ma significava che avevi saputo in qualche modo
conquistare la sua stima e la sua confidenza.
- Colin si
sta ristabilendo molto bene, ha un fisico robusto e forte.
– cominciò il dottore - L’emorragia si
è completamente riassorbita e i parametri clinici sono tutti
ottimali. Questo non vuol dire, però, che potrà
riprendere immediatamente la sua vita di prima. Sarà
opportuno che eviti particolari sforzi fisici, quindi niente sport,
niente palestra, niente jogging, niente sollevamento di oggetti pesanti
ecc. – continuò, tappando la penna che aveva in
mano ed infilandola nel taschino del camice - Dovrà seguire
un’alimentazione sana e leggera, che noi stessi abbiamo
indicato in un programma che vi sarà consegnato insieme agli
altri documenti. Gli farebbe bene invece stare un po’
all’aria aperta, possibilmente non nelle ore di punta, non in
luoghi affollati e confusionari, dove potrebbe cadere, essere spinto,
venire infastidito da luci e rumori troppo acuti. Ah, e niente sabbia,
terreni granulosi, posti polverosi perché, per quanto
fasciata, la ferita non è ancora perfettamente rimarginata
ed è preferibile non incorrere in eventuali infezioni. Tutto
questo per un paio di settimane, dopodiché lo richiameremo
in ospedale per una tac e, se andrà come deve andare,
potrà tornare pian piano alle sue abitudini.
L’ultimo e definitivo controllo lo faremo tra un mese.
–
- Non sembra
troppo complicato… - rifletté Claudine, rivolta a
me e sua madre – l’unica difficoltà
sarà quella di tenerlo a stecchetto con il cibo, temo!
–
- M’inventerò
qualcosa di saporito con gli ingredienti a disposizione… -
disse Rita, con la sua solita dolcezza.
- Non dubito
che ci riuscirà, le mamme creano arte, in queste cose!
– esclamò il dottor Ross, per poi assumere
un’espressione più seria. – Per quanto
riguarda l’amnesia, purtroppo, come avrete avuto modo di
constatare anche da soli, non ci sono stati miglioramenti. Il fatto
è che più passano i giorni più si
assottigliano le speranze di un recupero completo. Ma
c’è ancora tempo, ci sono numerosi casi in
cui… -sìsì,
certo, casi, statistiche, miracoli…Non voglio nemmeno
ascoltarle queste puttanate. Mi fa imbestialire che ne parlino come se
a Colin mancasse un dito. Gli mancano i suoi fottuti ricordi, i suoi
figli…io, cazzo. - … quindi non
è il momento di arrendersi. Il dottor Kleeman è
uno dei migliori specialisti della città e si
recherà personalmente a casa del signor Farrell ogni giorno,
per i prossimi sette giorni. Poi le sedute continueranno a giorni
alterni qui in ospedale per un’altra settimana e poi
–
- E poi
magari non serviranno più perché si
sarà ricordato di tutto, no? – intervenne
Claudine, speranzosa, voltandosi infine verso di me, cercando una
conferma e allo stesso tempo offrendo una rassicurazione. –
Altrimenti cercheremo lo psicologo più rinomato del mondo,
adotteremo le tecniche più avanzate, –
seguitò, concitata, passando un braccio intorno al mio e
rivolgendosi al medico - ma ne verremo a capo. –
Il dottor Ross,
rabbuiatosi, annuì gentilmente.
- Me lo
auguro con tutto il cuore. – rimanemmo tutti in silenzio per
qualche secondo, Claudine ancora appoggiata a me – Nel
frattempo potete continuare a stimolarlo, al di là
dell’ora canonica con il dottor Kleeman. Potete raccontargli
episodi significativi, aneddoti divertenti, mostrargli fotografie,
filmati, proporgli canzoni, melodie, riavvicinarlo alle persone per lui
più importanti. Sempre cercando di non esagerare,
però, valutando attentamente ogni mossa. Anche se a prima
vista può non sembrare, si trova in una condizione
stressante e delicata, ogni nuova informazione potrebbe essere
acquisita come un trauma, un dettaglio per voi insignificante potrebbe
rivelarsi uno shock. Se dovesse avere disturbi dell’umore,
oscillare tra stati depressivi, euforici, rabbiosi, lasciatelo
riposare, non aggiungete altro. – ci passò in
rassegna tutti e tre, facendo scivolare le pupille da un estremo
all’altro, poi sospirò.
- Tutto tornerà a posto da sé. –
Lo ringraziammo e lui
si congedò, Claudine che lo seguiva con lo sguardo fin oltre
la porta.
- Aspettiamo
che Colin torni su? – propose
- Io
raccoglierei un po’ di cose, sistemerei in giro,
così dopo siamo pronti. – replicò Rita
- Datemi un secondo,
faccio una telefonata e vi do una mano! – dissi loro, tirando
fuori il blackberry dalla tasca dei jeans.
Uscii in corridoio e
cercai nella rubrica il numero di Shannon. Sembra assurdo che non lo
conosca a memoria, me ne rendo conto, ma il fatto è che devo
sempre tenere a mente una quantità così
sproporzionata di informazioni che, quando posso, non esito a
delegarle. E il mio BB, del resto, non è che un
prolungamento esterno della mia scatola cranica, mi fido di lui come di
me stesso.
Non feci neanche in tempo a far partire la telefonata che
- Jared?
– sentii chiamare piano.
Mi voltai ed incrociai
gli occhi di Rita, che si chiudeva alle spalle la porta della stanza.
Le andai incontro, la fronte corrugata in un’espressione
di incertezza.
- Scusami se
ti disturbo, ma… Ecco, voi avete deciso di prendere questa
strada… tu ed Eamon, insomma… io non so cosa sia
giusto, certamente tu conosci il modo migliore per gestire questa
situazione… - rimasi ad ascoltarla, confuso, non riuscendo a
capire quale fosse il problema, mentre lei cercava di spiegarsi,
esprimendo un palese disagio – Ma se ancora pensi di non dire
niente, a Colin, di voi due… A casa ci sono molte cose tue,
cose vostre, in giro… Sono entrata in camera sua, ieri sera,
per aprire un po’, cambiare il letto, e ho notato che ci sono
diverse… cose…
sì, che gli farebbero intuire qualcosa, ecco. –
sperai vivamente che la stanza non si presentasse come
l’ultima volta che l’avevo lasciata io
perché non avrei mai più avuto il coraggio di
farmi guardare in faccia da sua madre – Non sto dicendo che
tu, anzi io ti appoggerò qualsiasi decisione prenderai, ma
se vuoi continuare a non dirgli la verità, credo sarebbe
meglio che…non so…che non le vedesse…
Però non penso sia affar mio o di nessun altro entrarci in
mezzo, spostarle…Se vuoi, ecco, se è questo che
vuoi veramente, Jared, magari puoi occupartene tu, di sicuro saprai
molto meglio dove e cosa cercare… - concluse.
Rimasi in silenzio per
alcuni istanti, non sapendo davvero cosa dire. Non ci avevo proprio
pensato a quest’inconveniente. Mi dispiaceva per Rita, la
vedevo sinceramente imbarazzata e mortificata, come se temesse di farmi
in qualche modo un torto. Aveva ragione, soprattutto
nell’ultimo annetto avevo lasciato da Colin tanta roba e poi
c’erano le foto sparse un po’ ovunque, centinai di
aggeggi che Colin conservava per ricordo, addirittura degli scritti,
una sorta di diari che sapevo ogni tanto teneva. Ed ero io
l’unico che effettivamente poteva scovare tutte queste cose.
Già sapevo che non avrei dovuto farlo, già sapevo
che me ne sarei pentito, ma già sapevo che non avrei potuto
dire di no.
- Ha fatto
bene a dirmelo, - le sorrisi, seppur un po’ stentatamente
– non può rimanere tutto così. Passo
subito da lì, ci penso io. –
Rita mi
guardò, afflitta, e mi strinse a sé, cogliendomi
un po’ di sorpresa.
- D’accordo,
però fai attenzione… -
- Sicuramente.
– risposi, sebbene non fossi certo di aver capito a che cosa.
- Porca
miseria, Jared! Ma che hai in testa?! – gridò
Shannon all’ennesima inchiodata, attaccandosi con entrambe le
mani alla maniglia del passeggero.
- Non è successo niente, mi sono fermato in tempo!
–
- E’ la terza vecchietta che non metti sotto per una
manciata di centimetri negli ultimi dieci minuti!
- continuò lui con fare frenetico – Per
non parlare del barboncino! I barboncini sono incredibilmente
intelligenti, augurati che non si sia segnato il numero di
targa… -
- Il
barboncino?! – domandai perplesso, inserendo la prima per
ripartire.
- Il barboncino, sì..! Non capisco
perché non posso guidare io… -
- Te
l’ho già spiegato, devo tenermi
occupato. Se rifletto troppo su quello che devo fare, finisce
che cambio idea e mi do alla fuga… -
- Vedi di
riflettere sul fatto che stai guidando, almeno. –
brontolò, staccandosi finalmente dalla maniglia –
Che poi non credo di aver ben chiaro cosa dobbiamo fare, esattamente, a
casa di Machoman. –
Gli lanciai la mia
occhiata “Fammi il piacere”: - Tu non devi fare
niente, io me la sbrigherò in pochi minuti. Hai preso le
chiavi che ti avevo chiesto? – Silenzio – Shannon?
Hai preso le chiavi? –
- Dovrebbero essere in
una delle 395 scatole che mi hai detto di portare. – rispose
con nonchalance, lo sguardo sulla strada – Non sapevo nemmeno
che avessi le sue chiavi di casa. –
- Ma se sono
anni che me le ha date, ormai… - mi lamentai.
- Non ti
ricordi il drammatico
falò di qualche anno fa..? Pensavo ci avessi buttato anche
quelle. –
Lo guardai di sbieco.
Era più attento di quel che credessi, il mio fratellone.
- Mmm,
sì… Ma me ne ha data una nuova copia
l’anno scorso. – tirai corto, svoltando a sinistra
per imboccare la lunga via tortuosa che conduceva alla villa di Colin,
quella dell’incidente, per intendersi.
- Oh, ma che
ragazzo delizioso! Quasi quasi te lo rubo..! – disse,
imitando la voce stucchevole delle teen-ager da telefilm medio.
- Cretino!
– allungai il braccio destro per tirargli un pugno sulla
spalla.
- Tieni le
mani sul volante, cazzone! – imprecò, tenendosi
ben stretto alla cintura di sicurezza. – Domenica torna la
mamma. –
- Lo so.
–
- Non le hai
ancora detto la verità su Colin. –
- Non volevo
allarmarla inutilmente. - spiegai, cambiando la marcia per
l’ultimo tratto di strada rimasto.
- Paura, eh? –
sghignazzò divertito.
Mi girai verso di lui,
le sopracciglia aggrottate: - Paura di che?! –
- Vedrai,
Jay, non si arrabbierà. - stabilì
serafico – Non si è arrabbiata la prima volta che
ti ha spezzato il cuore, non si è arrabbiata quando
è venuto fuori che era un cocainomane alcolizzato, non si
è arrabbiata quando ti ha spezzato il cuore la seconda
volta, né la terza e neppure quando ha fatto un figlio e
messo su famiglia con un’altra! Perché dovrebbe
arrabbiarsi ora che, per aver battuto la testa, ti ha direttamente
cancellato dalla sua vita?! -
Lo guardai allibito,
senza rispondergli niente. Poi superai il cancello d’ingresso
all’abitazione, con il telecomando automatico che ormai
tenevo sempre in macchina.
- Per me
dovresti fare come me e la mamma, prenderla con filosofia, invece di
continuare a mettere il muso… - pontificò
Shannon, togliendosi la cintura mentre io facevo manovra per
parcheggiare.
- Ma se tu ti
arrabbi come un matto ogni singola volta che mi lascio sfuggire che ho
qualche problema con Colin? –
- Arrabbiarsi
è sempre meglio che piagnucolare in buddista, come fai
tu… - decretò, sollevando limpidamente le
sopracciglia ed aprendo lo sportello.
- Io non
piagnucolo in buddista! – ribattei ad alta voce, oramai
rimasto solo nell’abitacolo - E poi il buddismo è
una religione, anzi, - scesi di macchina e lo raggiunsi al portabagagli
– uno stile di vita! Nessuno può piangere in uno stile di vita…
- Shannon scaricava e ammucchiava da un lato le varie scatole di
cartone in cui intendevo riporre i miei effetti personali –
Al massimo potrei piagnucolare in hindi, in mandarino, persino in
tibetano! Ma in buddista non ha senso… -
Mio fratello chiuse
con un sospiro il portellone e si chinò per sollevare una
pila di scatoloni.
- Dio, Jared,
a volte mi piacerebbe poterti spegnere, come si fa con quelle
fastidiose radioline portatili che ronzano in continuazione…
- mi passò le scatole rimanenti e mi precedette verso
l’ingresso.
- Shan, le chiavi?
– gli urlai dietro
Me le
lanciò senza nemmeno voltarsi e, nell’afferrarle,
mi caddero di mano tutti gli scatoloni. Sbuffai e mi piegai per
raccoglierli.
- Ma non
c’è nessuno in casa? – lo sentii
domandare
- No, sono
tutti in ospedale. – gli risposi, raggiungendolo.
Quand’ero
venuto via, poco dopo aver parlato con Rita, Eamon aveva già
chiamato per avvisare che lui e il padre sarebbero arrivati a breve.
Non avevo nemmeno aspettato Colin per salutarlo, volevo togliermi il
pensiero immediatamente.
Diedi un’occhiata veloce a mio fratello, che allungava il
collo ai lati delle scatole per sbirciare l’ambiente
circostante. Mi chiedevo come facesse a procedere senza inciampare,
dato che la pila lo superava di parecchi centimetri. Ma si sa, lui
può fare qualunque cosa.
- Eccoci qua!
– dissi, una volta al portone, tentando di aprire senza far
di nuovo cadere tutto.
Ci riuscii. Lasciai
passare Shannon, che appoggiò subito gli scatoloni sul
pavimento, ed entrai dietro di lui.
- Ehi, guarda
che c’è un allarme qui. – mi
indicò il piccolo schermo dai tasti illuminati, sulla parete
vicina all’entrata.
- Sì,
lo so, lo so…ora lo spengo prima che parta. –
- Wow, ti ha
dato anche il suo codice per l’allarme? – mi chiese
stupito, mentre digitavo i numeri giusti.
- Si
supponeva che io venissi a vivere qui, ti ricordi? –
- Ah.
Già. – rimase a fissarmi imbambolato.
- Comunque, -
afferrai due grandi scatole e mi avviai oltre il salone – io
comincio a fare il giro dal piano di sopra…Tu…
Beh, tu… - mio fratello si guardava intorno, incuriosito
– Puoi stenderti qua sul divano e dormire un po’ se
vuoi, è ancora presto per i tuoi standard. Oppure posso
accompagnarti in una delle camere degli ospiti… -
- No, mi sono
svegliato ormai. –
- Allora
puoi, che so, farti un panino… La cucina è di
là. – gli feci un gesto con la mano, che lui
seguì con lo sguardo – Poi magari ti metti qui a
vedere la tv. –
Attesi che decidesse,
mentre continuava ad osservare tutto.
All’improvviso mi resi conto di star vivendo un momento
alquanto surreale. Shannon a casa di Colin. Shannon che studiava ogni
particolare, i suoi grandi occhi ridotti a fessure, attente,
indagatrici, le orecchie tese, le narici attive, ogni senso allertato
nel captare le tracce della sua preda.
In circostanze come questa riuscivo a comprendere perché
Colin provasse un sano terrore nei confronti di mio fratello.
- Non
è che ha la Play Station, l’XBox, qualcosa?
– se ne venne fuori, finalmente.
- Oh, ma
certo! Bella idea, vieni! – gli accennai di seguirmi, ma poi
mi bloccai subito – Ah, ma aspetta… ha solo giochi
per bambini. E l’unico per adulti è sul calcio.
–
Shannon
alzò gli occhi al cielo: - Mai che ne facesse una buona! Sai
che? mi cerco davvero qualcosa nel frigo e me la mangio qui, facendo un
po’ di zapping… – si voltò
verso il televisore, di fronte al divano in pelle grigia – Lo
schermo almeno sembra decente. – ammiccò.
Sorrisi, soddisfatto
di averlo sistemato.
- Perfetto!
Tanto io ci metterò molto poco, non preoccuparti.
– strinsi la presa sugli scatoloni e mi diressi verso le
scale – Ah, se ti stendi sul divano, magari togliti le
scarpe! – gridai
- Non ci
penso nemmeno! – replicò, già diretto
verso la cucina.
Risi fra me, scuotendo
il capo. Figurarsi.
Il
piano superiore era costituito quasi interamente da camere. La camera
da letto di Colin, che avevo deciso di lasciarmi per ultima, le camere
dei bambini, numerose camere degli ospiti, un paio delle quali
assolvevano anche alla funzione di studio e libreria. Diverse, al
momento, erano occupate dai familiari di Colin e non mi
sembrò opportuno entrare e rovistarvi in giro. Ma sapevo
anche che erano ambienti sgombri da ogni mia presenza, arredati in
maniera piuttosto neutrale, al massimo qualche vecchia foto di famiglia
in bianco e nero.
Mi affacciai alle due camerette, dando un rapido sguardo
d’insieme, ma anche in quelle mi parve irrilevante
approfondire la ricerca. C’era certamente, fra i vari giochi,
qualcuno regalato da me, riposto nelle ceste, negli armadi o sparso qua
e là, ma non c’era mica inciso sopra il mio nome.
Dal soffitto della stanza di Henry, che alla fine dell’estate
precedente io e Colin, personalmente, avevamo ritinteggiato in
tonalità gialle e arancioni, pendeva un grande aeroplanino
in legno che gli avevo portato dalla Francia e, dall’angolo
vicino alla finestra, spuntava il collo lungo del dinosauro che gli
avevo comprato per Natale.
Stavo chiudendo la porta della camera di James, quando mi cadde
l’occhio sulla parete piena di foto, di fronte al letto.
Colin l’aveva realizzata per ricordare al bambino i volti
delle persone più importanti. Con Jim, infatti, la memoria
visiva era molto più efficace di ogni racconto, lettera,
telefonata. E così, ogni sera, quando passava la notte
lì, Colin, prima di dormire, gli mostrava le foto di tutti
gli zii, i nonni, i parenti più stretti che non poteva
vedere spesso, così che non li dimenticasse mai. Una delle
cornici centrali racchiudeva un’immagine di me col bambino,
scattata verso la fine del 2007. Lasciai le scatole nel corridoio e mi
avvicinai alla parete. Eravamo sul bordo della piscina, nel giardino al
piano di sotto, io lo tenevo in braccio e ridevamo, tutti e due,
l’acqua e ed una ciambella a forma di paperotto sullo sfondo.
Adoravo quella foto, ed anche Colin. La teneva appesa lì da
anni, aveva resistito persino al malefico passaggio di Alicja. Mi
chiesi se fosse davvero necessario rimuoverla, in fondo non vi era
niente di esplicitamente compromettente. Però, passando
velocemente in rassegna le altre foto, dovetti ammettere che ritraevano
solo e unicamente membri stretti della famiglia, così, mio
malgrado, sfilai la cornice dal chiodo e la poggiai nella scatola.
Avrei fatto dire a Colin che il buco sulla parete era riempito da una
foto che s’era rotta. Mi richiusi la porta alle spalle e mi
avviai verso la parte opposta del piano, il primo trofeo già
riscosso.
Da quel lato erano rimaste solo due stanze. La prima in cui entrai era
un ambiente enorme, con un’immensa libreria sul fondo,
stracolma di libri, vecchi dischi, album di foto, copioni di film ormai
girati. Un impianto tv, un ottimo impianto stereo, due divani e un
tavolo da biliardo. Non era una stanza che frequentassi molto, ma un
giretto di controllo lo feci. Aprii qualche anta, qualche cassetto,
passai fra i libri abbandonati in un angolo, ma in effetti era come
cercare un ago in un pagliaio. Colin poteva aver annotato qualcosa,
scordato qualcosa riguardante me ovunque. Potevo rintracciare solo
ciò che io avevo lasciato per caso o di proposito. Uscii con
un blocchetto di appunti di mia calligrafia, un romanzo di Wells con su
scritto tre volte Jared, abitudine che avevo dovuto prendere per
evitare che Colin si appropriasse indebitamente dei miei libri,
“incidente” ripetutosi di frequente, e un paio di
pantaloni neri rimasti sul divano da più di dieci giorni,
evidentemente troppo stretti per passare per suoi.
L’ultima stanza rimasi a guardarla un attimo da fuori. Era un
vano di dimensioni non eccessive, completamente spoglio, se non per un
tavolino rotondo con una lampadina e una poltrona reclinabile. Colin ci
si rifugiava unicamente per studiare i copioni, ripetere le parti,
prepararsi, insomma, per il lavoro. Ci ero entrato giusto poche volte
per risentirgli qualche battuta e non vi era assolutamente nulla di
mio. Anzi, non vi era nulla e basta, nemmeno un foglio appoggiato da
qualche parte.
Prima di scendere le scale riflettei se controllare anche i bagni, ma
decisi di lasciar correre; tenevo le mie cose solo in quello della
camera padronale e ci sarei passato dopo.
Al piano terra cominciai dalla stanza che sapevo avrebbe riempito le
mie scatole. Era un ambiente piuttosto spazioso e luminosissimo, con le
porte finestre che davano sulla parte di giardino in cui non andava
quasi mai nessuno. In un arredamento moderno e semplicistico, che Colin
mi aveva lasciato scegliere a mio piacimento, tenevo un pianoforte
bianco a muro, quello a coda si trovava in sala, due chitarre, quaderni
con testi e note buttati là, scarabocchi, tomi sulla storia
della musica, dvd e cd musicali, cuffie, cavi, una quantità
sconfinata di accessori con lo stemma della band, un computer fisso, un
giradischi con megafono e uno stereo di ultima generazione con casse
potentissime. Tutto organizzato nel mio caotico ordine. Portai via
tutto quello che potevo, allacciandomi la chitarra elettrica al collo e
trascinando gli scatoloni fino al salotto. Cercai di attutire al meglio
il rumore quando, quasi arrivato alla meta, trovai mio fratello
addormentato davanti al televisore, abbracciato ad un cartone di succo
di frutta, qualche fazzoletto scivolato sul pavimento e la maglia
ricoperta di briciole.
Poveretto, erano giorni che per star dietro a me si alzava
all’alba e aveva scombussolato tutti i suoi ritmi biologici.
Abbassai il volume della tv, sistemai all’uscita le scatole
stracolme e tornai indietro con altre due vuote.
Dal lato opposto del corridoio rispetto alla mia sala-musica
c’era la stanza-giochi dei bimbi. Realizzai solo in quel
momento che ero stato relegato nella zona “passatempo per
piccini”. Quante
volte te l’ho detto, Colin, che quando suono non sto
giocando?!
Mi affacciai, ma tra tricicli, pattini, skateboards, pupazzi, puzzle
lasciati sul pavimento, palloni e altre migliaia di aggeggi, non mi
parve di dover togliere niente.
Subito accanto si trovava una sorta di salottino che veniva utilizzato
esclusivamente per la proiezione di film. La parete di fondo era
completamente riempita con uno schermo gigante ad altissima risoluzione
e non v’era altro arredamento che un’elegante
scaffalatura contenente moltissimi dvd e qualche vecchia videocassetta
di cui Colin non voleva sbarazzarsi, un divano a sei posti,
comodissimo, e una lampada in stile moderno. L’impianto audio
collegato al televisore era una bomba. L’avevo preso pochi
mesi prima nello stesso posto in cui avevo acquistato alcune casse di
nuova generazione per il Lab e ne ero profondamente orgoglioso. Certo,
quando riproduceva i suoni de “I Puffi” non era
sfruttato al massimo, ma con qualche film ci aveva dato grandi
soddisfazioni. Come con la versione rimasterizzata di Star Wars che
avevamo visto il week end precedente. Quello mi fece considerare che
forse era il caso di frugare un po’ tra i cuscini del divano
e, difatti, incastrato tra un bracciolo e l’imbottitura
laterale, scovai uno dei miei inconfondibili calzini a righe. Ecco, menomale. Non
presi nient’altro se non il cofanetto de “Il
Padrino” che Colin aveva caparbiamente preteso di avermi
restituito.
Di fronte, anch’essa provvista di grandi portefinestre sul
giardino, era stata arrangiata una sorta di palestra, con qualche
macchinario per gli esercizi fisici, alcune corde appese a delle
spalliere, dei tappetini per lo yoga, un calcetto balilla e
l’immancabile stereo, su cui notai essere appoggiata la
custodia vuota dell’ultimo cd di Barbra Streisand; mi augurai
che fosse stata Claudine l’ultima ad allenarsi là
dentro. Ogni tanto ci facevo un salto anch’io, ma non mi
sembrava di vedere niente di strano. Controllai velocemente anche il
bagnetto comunicante e portai via solo il mio bagnoschiuma personale,
dato che mi rifiutavo di lavarmi col
muschio d’Irlanda che usava Colin, che ti
faceva puzzare più di quando eri sudato.
Saltai direttamente il ripostiglio e tutti i bagni, controllai nella
stanza del bucato che non ci fosse, tra i panni da lavare o da stirare,
alcuno dei miei ed entrai nell’ultimo locale prima della
cucina, la sala da pranzo.
Era molto, molto ampia, con due grandi vetrine in mogano piene di
piatti e argenterie sulle due pareti corte. Al centro un lungo tavolo
in cristallo che poteva essere ulteriormente esteso se il numero dei
commensali lo richiedeva. Non veniva utilizzata di frequente, se non
quando Colin riceveva ospiti importanti o troppi amici e parenti per
stare comodi in cucina. Pensavo che non avrei trovato niente di mio,
lì, ma poi mi accorsi della macchina fotografica dimenticata
sul mobiletto vicino alla porta. La tiravo fuori, a volte, quando
c’erano i bambini o qualche occasione particolare per fare
delle foto. L’accesi e passai in rassegna le ultime che avevo
fatto e decisi che era meglio toglierla di mezzo. Di nuovo, niente di
esplicito, ma tutto troppo intimo e familiare.
Dalla vetrata della sala da pranzo uscii direttamente nel giardino e
feci due passi verso la piscina. Il sole picchiava già forte
e l’aria era incredibilmente afosa. Controllai
l’ora sul BB: 10.25. Avevo ancora un po’ di tempo.
La superficie dell’acqua era piattissima; mi chinai per
bagnarmi una mano e sfregarla con l’altra. Lanciai
un’occhiata generale in giro, curiosai persino dentro la
casetta in legno dove erano conservati i gonfiabili dei bambini, alcuni
cambi di costume e ciabatte antiscivolo e me ne tornai dentro.
La cucina era piuttosto essenziale e funzionale. Moderna, con una
penisola al centro ed un enorme frigo metallizzato a due ante. Mai sia che Colin Farrell resti
senza cibo. Lo aprii e rimasi a godere per qualche secondo
della beata ondata di fresco. Si vedeva che da una settimana la casa
era stata invasa dalla sua famiglia, tutti gli alimenti sani e naturali
che mi sforzavo di fargli mangiare erano stati sostituiti da quelle che
la gente comune definirebbe appetitose leccornie. In pratica letali
schifezze, veleni per lo stomaco. C’era ancora, nel ripiano
laterale, una bottiglia di vetro con l’infuso di erbe che
aveva finalmente preso l’abitudine di bere dopo cena.
Sorrisi, come un ebete. Si era preso gioco di me per anni, delle mie
abitudini salutiste, della mia alimentazione restrittiva. Mi perdevo il
meglio della vita, diceva. Ma da quando eravamo tornati insieme aveva
filato dritto come un fuso. Sceglieva prodotti biologici, buttava
giù qualsiasi tipo di tè, tisane, miscugli
vegetali che gli compravo, praticava lo yoga… Che cavolo, me
l’ero meritato, almeno questo.
E ora, Jared? Che hai, ora?
Mi scrollai velocemente, rimettendomi in moto. Lasciai tutto
com’era, anche i pochi resti dei miei piatti, tranne due
yogurt di soia con una J blu sul tappo che Colin contrassegnava per non
confonderli coi suoi. Cercai di fare mente locale su possibili punti da
controllare, appoggiato con la schiena all’acquaio. La
penisola. Un paio di mesi prima avevo comprato delle fragole, un sacco
di fragole. Le avevamo messe in due coppe giganti, riempite di panna.
Poi la panna era scivolata e io l’avevo raccolta con un dito,
portandomelo alla bocca per pulirlo. Allora Colin… la
penisola… le fragole e la panna, sulla penisola.
Mi scossi, di nuovo. Così non poteva andare. Concentrati, Jared,
concentrati… Ah, ecco, la tazza! Il dicembre
passato, per il mio quarantesimo compleanno, James, più che
altro Kim, mi aveva regalato una tazzona da colazione rossa che tenevo
lì, così poteva vedermi sempre quando la usavo.
Aprii uno sportello, niente, ne aprii un altro. Eccola là!
La presi, girandomela tra le mani. “Forty Years to
Jared”, era proprio lei, deliziosa. La riposi in una scatola
e, alzandomi, sbattei contro un angolo della penisola.
La panna. Colin, le fragole.
Basta, non potevo continuare in quel modo. Uscii di corsa e posizionai
anche quei due scatoloni alla porta. Il sogno della notte precedente mi
stava iniziando a disturbare più di quanto intendessi
permettergli. Non potevo concedermi cedimenti o distrazioni. Finora
aveva funzionato tutto perché mi ero mantenuto distaccato e
laborioso. Se mi fossi permesso il lusso di riflettere su quel che
stavo facendo, sarei crollato, ne ero certo.
Mi passai una mano fra i capelli e inspirai profondamente, per
ricaricarmi. Mi sporsi oltre il divano per controllare Shannon, che
vidi ancora immerso in un sonno indisturbato. In prospettiva, al di
là della sua spalla, mi cadde l’occhio su una
cornice dal sottile bordo nero, riposta sulla mensola accanto alla tv.
Che stupido, non avevo considerato per niente il salone
d’ingresso, dove invece finiva per essere accumulata ogni
minima cosa al momento di entrare o uscire di casa. Trovai infatti un
plettro con la triad, una ricevuta a mio nome e l’abbozzo di
un Creep su cui Colin aveva scarabocchiato un insulto. La foto,
scattata e sistemata in quel punto da poco, ritraeva noi due nel
giardino di casa mia, il pomeriggio della grigliata vegana per il
compleanno di Emma. Io non ero venuto neanche troppo bene, ma a Colin
era piaciuta tanto. Era vero che c’era molto di me in quella
casa, ultimamente. La tolsi di lì e misi tutto negli
scatoloni. Ne presi altri due e mi riavviai su per le scale, finalmente
pronto ad affrontare la sfida più impegnativa.
La camera da letto era situata sul lato più silenzioso del
giardino. In realtà non era sempre stata là; o
meglio, non era sempre stata quella. Per i primi anni Colin aveva
dormito nella stanza padronale, vicina a quella di James, ma, in
seguito all’infausta presenza di Alicja, avevo trovato
insopportabile l’idea di dover tornare in quella che per me
era diventata una camera fatalmente contaminata. Così lui
l’aveva semplicemente relegata agli ospiti e se
n’era scelta un’altra, sempre molto ampia e anche
più luminosa, dall’altro lato del corridoio.
Conoscendomi bene, aveva anche sostituito tutto
l’arredamento: letto nuovo, armadio nuovo, comodini nuovi.
A dir la verità, avevo proprio avuto dei seri problemi anche
solo a rimetterci piede in quella casa, a riambientarmi. Mi mandava
fuori di testa che, ovunque mi muovessi, continuassi a provare la
sensazione che lì c’era stata anche lei, quella sedia
l’aveva toccata lei,
da quella porta ci era passata lei,
nel bagno si era lavata lei…
Colin ad un certo punto, spaventato dal fatto che non riuscissi a
superare la questione e lo mollassi di nuovo, aveva candidamente
proposto di vendere tutto e ricomprarsi una casa nuova. La qual cosa mi
allettava particolarmente, ma il problema era che per James, nella sua
delicata sensibilità, gli ambienti familiari sono
molto importanti. Non si trova a suo agio nei luoghi che non conosce,
fa tanta fatica ad abituarsi.
E quindi, solo per lui, avevo lasciato perdere. Lo sapevo, nel momento
esatto in cui mi aveva stretto il dito con la sua manina cicciottella,
tanti anni prima, che mi avrebbe sicuramente fregato.
Così, tutti gli spostamenti, i ripetuti acquisti, le assidue
modifiche in cui mi ero speso, non avevano tanto a che fare con il mio
futuro trasferimento in quella casa, quanto con l’ossessiva
intenzione di cancellare fisicamente e psicologicamente il passaggio di
Alicja dal mio territorio. Colin non si era mai lamentato, salvo
brontolare di volta in volta perché non riusciva
più a trovare le cose nelle loro nuove collocazioni.
Aprii piano la porta ed entrai in camera, scostando subito le tende per
avere una visuale più nitida dell’insieme. Scelsi
di cominciare dal mio comodino e lo svuotai praticamente
tutto. Poi passai al cassettone, sormontato dalla grande
specchiera intarsiata in oro che aveva folgorato Colin durante un
soggiorno nel nord Italia. Liberai il secondo cassetto da ogni mio capo
di biancheria. Controllai pure gli altri, per sicurezza, e scoprii che
anche il terzo era stato già preparato per accogliere il
malloppo di roba mia che sarebbe dovuto arrivare di lì a
breve. Mi concentrai allora sull’armadio, partendo dalla
cabina in angolo. Trovai tre camice, due jeans, un paio di pantaloni
blu in cotone e una dozzina di t-shirt, molte delle quali con stampe
disegnate personalmente da me. Piegai e riposi tutto nel primo
scatolone e lo accantonai, ormai colmo, tirando verso di me
l’altro. Rovistando fra gli abiti di Colin scovai un mio
maglione grigio, ma era sufficientemente largo da poter essere
scambiato per suo, così lo lasciai stare dov’era.
Nelle due ante laterali c’erano soltanto abiti eleganti,
cappotti e giacche, per non parlare del portagioie
– lui non voleva che lo chiamassi così,
ma era senza ombra di dubbio il classico portagioie da femmine
– con decine e decine di collane, bracciali e orecchini.
Tamarro, sempre detto io.
Recuperai, infine, una sciarpa nera, uno spolverino colorato e un paio
di pantofole imbottite che adoro indossare anche quando fuori
è caldo. Aprii poi la parte centrale dell’armadio
e mi concentrai, ben cosciente che lì, fra lenzuola, coperte
varie e cambi di stagione, Colin conservava molti dei suoi oggetti
più personali. Per primo trovai l’iPad, su cui
aveva l’abitudine di custodire tutte le foto, i messaggi e i
pensieri di natura privata. Non teneva niente sul cellulare o sul pc
che si portava sempre dietro, perché poteva benissimo
capitare di dimenticarli da qualche parte, così trasferiva
direttamente sul tablet tutte le informazioni che riceveva e desiderava
conservare. Lo accesi e scorsi rapidamente le varie cartelle. A parte
qualche foto dei bambini e alcune email di Eamon e dei suoi amici
più stretti, erano quasi tutti video, immagini, messaggi
mandategli da me o annotazioni e che mi riguardavano direttamente. La
tecnologia, soprattutto quando si è costretti a passare
diversi giorni separati da migliaia di chilometri, è una
risorsa insostituibile. Permette di scambiarsi informazioni
preziosissime. Alcune, però, decisamente poco
presentabili. Decisi di toglierlo direttamente di torno. Mi imbattei
poi in delle scatoline con centinaia di aggeggi che metteva via via da
parte, ricordi di viaggi, posti, momenti, ma ad occhio niente di
compromettente. Una invece conteneva alcune foto mie o nostre, scattate
nel corso degli anni, in luoghi diversi, insieme a dépliant,
ricevute di prenotazione, biglietti da visita di ristoranti o alberghi.
Era un maniaco per queste cose, dio santo.
Non mi soffermai troppo tra tutti quei ricordi, perché
già cominciavo a rendermi conto di non esser più
tanto in grado di gestire il senso di nausea che mi infastidiva
già da un po’. Come se l’amnesia non
fosse abbastanza, stavo contribuendo a togliere ogni minimo indizio
della mia presenza nella vita di Colin. Mi stavo letteralmente cancellando. Sapevo
che dovevo farlo, ormai non avevo scelta, ma ce la mettevo tutta per
evitare di chiedermi se quel che stavo facendo fosse giusto o perlomeno
avesse un senso. Tolsi di mezzo quella scatolina e ripresi
dov’ero rimasto. Altri contenitori con cose dei bimbi, un
album di scatti vecchissimi di quando era piccolo, e, in fondo in
fondo, vari blocchi di carta e quaderni in cui era solito annotare di
tutto, dai pensieri più significativi che gli passavano per
la mente, a delle storie particolari che aveva sentito e non voleva
dimenticare, a dei veri e propri racconti brevi o poesie che ogni tanto
scriveva di suo pugno. A me per primo aveva mandato, nel
tempo, numerose e mail o lettere per esprimere concetti che a
voce non riusciva ad esternare. Su una di queste, una volta, ci avevo
anche scritto una canzone che poi non avevo pubblicato in nessun album.
Ero in dubbio su cosa fare. Non potevo né volevo mettermi a
leggere ogni singola pagina, si trattava di cose sue, intime, non mi
sembrava opportuno; da un lato pensavo che confrontarsi con
così tanti dettagli personali avrebbe potuto fornirgli un
ottimo input per ritrovare sé stesso, dall’altra
ero quasi certo che da qualche parte ci avrebbe trovato riferimenti a
me o alla nostra storia. Ci rimuginai sopra un po’ e, alla
fine, seppur poco convinto, aggiunsi tutto al mio scatolone. I primi
due cassetti della cassettiera interna erano vuoti, il
terzo…beh, al terzo ero preparato. Era da qualche tempo che
non frugavo là dentro, ma ritrovai tutti i più
bizzarri giocattolini sessuali che a volte utilizzavamo per creare
piacevoli diversivi. Li tirai fuori uno per uno, nascondendoli con
attenzione sotto ai vestiti, per evitare che mio fratello li vedesse e
cominciasse a sbuffare come suo solito. Li avrei riposti insieme a quei
pochi che erano rimasti a casa mia. Presi tutto, anche le manette col
pelo rosa che avevo vinto ad una fiera inglese un paio d’anni
prima. Mi dispiace,
Colin, niente Jared, niente sesso.
Risistemai per bene ogni cosa dentro l’armadio e lo richiusi.
Passai allora al bagno e mi ritrovai sorprendentemente a sorridere,
percependo all’istante la fragranza di lillà che
pervadeva l’ambiente. Colin si era lamentato già
due volte con la signora delle pulizie e lei gli aveva assicurato che
avrebbe cambiato il profumatore non appena fosse finito. Ma era passato
almeno un mese e il profumatore funzionava ancora a meraviglia.
“Dimmi te se è possibile!”, aveva
sbottato Colin una sera, “Mi sembra di entrare nel boschetto
nelle fate invece che in un cesso.”. Controllai il mobiletto
a specchio sopra il lavandino: due rasoi, due lamette, due schiume da
barba, due dopobarba – ho una pelle troppo delicata per usare
prodotti normali come i suoi, necessito di una scelta molto accurata,
io.
Portai via tutte le mie cose e anche la boccetta quasi vuota delle sua
acqua di colonia, la confezione nuova già pronta
lì accanto. Non so perché, la volli prendere con
me e basta. La vasca era a posto, nella doccia invece trovai il mio
balsamo e soprattutto tre braccialettini colorati con i vari
simboli dei Mars che non mi ero neanche accorto di aver perso. Li
infilai al polso, mentre scorrevo velocemente i ripiani dello scaffale
in angolo, dove individuai alcuni miei vasetti di creme che
però, per quel che ne sapeva, potevano benissimo essere
suoi. Gli lasciai persino il mio costosissimo gel per capelli. Tanto
quella storia sarebbe presto finita, la sua chioma non prometteva
d’essere folta ancora per molto.
Tornai in camera e misi tutto negli scatoloni, dandomi
un’ultima, rapida occhiata intorno. Ero soddisfatto, un
lavoro piuttosto veloce, preciso ed efficace. Guardai per sicurezza
anche sotto al mio cuscino. Lui è rozzo, dorme in mutande,
quando va bene, ma io non resto di certo a prendere freddo come uno
scemo.
Non trovai nulla, ma, allontanandomi, intravidi un fogliettino
accartocciato al lato del letto. Lo raccolsi per buttarlo e lo
riconobbi come lo scontrino della cena che avevamo ordinato la domenica
precedente. I suoi sarebbero arrivati il giorno successivo,
così Colin aveva insistito per trascorrere una serata in
tranquillità a casa, il mondo chiuso a chiave fuori.
L’avevo quasi scordata la fase del “godiamoci la
pace ora che presto scoppierà la bomba”. Era stata
l’ultima notte che avevamo passato insieme; l’avevo
salutato al mattino, per poi ritrovarlo la sera dopo in quella stanza
d’ospedale. Sospirai, sedendomi mollemente sul materasso e
spiegando attentamente quel pezzettino di carta, fissandolo come se in
qualche distorta maniera potesse restituirmi la serenità di
un ricordo tanto ordinario quanto straordinario. Avevamo
così poco da fare che eravamo presto finiti a letto, i
contenitori del cinese sparpagliati sulla coperta e un
interessantissimo documentario sulla caccia alle balene in tv. Mentre
tiravo su con le bacchette gli spaghetti alle verdure, mi ero sentito
ripetutamente osservato.
- Jay?
– aveva infine mormorato Colin
- Uhm..?
–
Avevo continuato a
masticare, del tutto assorto nelle immagini sullo schermo. Poi, non
sentendolo più aprir bocca, mi ero voltato verso di lui e
l’avevo trovato a sfregarsi la nuca, perso nella sua classica
espressione “devo dirti una cosa ma non so se ti
arrabbierai”.
- Temevo la
noia, sai? Dopo anni a girare per il mondo, stratagemmi per incastrare
tutto, salti mortali per incontrarci… Insomma, il fascino
del proibito, la seduzione del mistero, semplicemente
l’abitudine ai ritmi incalzanti che abbiamo sempre
avuto… Ho temuto che avremmo potuto annoiarci,
sì. Ho temuto che questa normalità avrebbe potuto
mettermi a disagio, avrebbe potuto lasciarti insoddisfatto. Ho avuto
paura che non facesse per noi. –
Avevo ingoiato il
boccone che mi era rimasto sospeso in gola, facendo rapidamente mente
locale sulle nostre attività degli ultimi mesi. Senza
muovermi di un millimetro, avevo immaginato vista da fuori la scena di
noi due, comodamente sistemati tra le lenzuola, accerchiati da
vaschette di cibo, un programma per anziani alla tv ed io, a completare
il quadretto, in una canottiera sgualcita e stinta, con la barba fino
ai piedi.
- E-e?
– avevo deglutito ancora, a vuoto.
- Questa mi
sembra di gran lunga la cosa più eccitante che abbiamo mai
fatto. – aveva sorriso, con le labbra, con gli occhi, il
sorriso più genuino del mondo – E tu –
si era sporto su di me, sussurrando – non sei mai stato
così sexy... – mi aveva baciato, la cena e tutto
il resto presto dimenticati.
Mi trovavo
lì, su quello stesso letto, da quello stesso lato. Un
milione di anni prima.
Strinsi lo scontrino in un pungo e portai l’altra mano a
coprirmi il volto, arrendendomi a quella nausea che mi assaliva da
dentro. Ecco di cosa parlava Rita, a cosa dovevo prestare attenzione.
Mi sentii improvvisamente cogliere da una scossa di panico e cominciai
a piangere, prima cercando di contenermi, poi sempre più
apertamente. Scivolai sul pavimento, abbracciandomi stretto alle
ginocchia rannicchiate sul petto, nel tentativo di calmare il tremore
che aveva preso a percorrermi ovunque. Il panico si
trasformò in rabbia e le lacrime in singhiozzi inarrestabili
che ben presto lasciarono il posto a vere e proprie urla. Urla di
collera. Non ero più spaventato, confuso, triste, non ero
più nemmeno disperato in quel momento. Ero furioso,
perché non era giusto. Non dopo tutta la fatica, la
violenza, il dolore, l’umiliazione, non dopo quel bacio al
sapore di soia e di futuro. E più continuavo ad arrabbiarmi,
a battere i palmi sulle mattonelle fredde, più continuavo a
piangere e a gridare, più mi sembrava che non sarebbe mai
finita, che avrei potuto andare avanti così per sempre. Non
so davvero quanto a lungo e con quanta forza rimasi sul pavimento in
quelle condizioni, ma abbastanza da farmi sentire da mio fratello, che
non vidi neppure entrare dalla porta, ma che si inginocchiò
vicino a me, tentando di tenermi fermo e di calmarmi.
- Doveva
succedere a un certo punto…Sfogati…Sfogati e
lascia andare tutto. - disse piano, passandomi una mano sulla
schiena, per poi rimanere con me, in silenzio, finché non
fui pronto a rialzarmi.
Il sol era scordato,
non c’era niente da fare. Era inutile che cercassi di
ignorarlo, con il sol scordato non andavo da nessuna parte.
Appoggiai la chitarra al muro e mi lasciai cadere contro lo schienale
dello sgabello, chiudendo gli occhi. Sospirai. Ero stanco morto,
nonostante mi fossi svegliato da poco.
Io e Shannon avevamo caricato tutti gli scatoloni in macchina e ce
n’eravamo andati. Avevo lasciato guidare lui, non riuscivo
neanche a stare dritto a sedere sul seggiolino, dopo il crollo che
avevo avuto in camera. Shannon non aveva detto niente, neppure una
parola, per tutto il tempo, benché sospettassi che fosse un
po’ scosso. Non mi aveva mai visto così, nemmeno
nei momenti peggiori. Per quel che può valere, neanche io mi
ero mai visto così.
Una volta a casa ero filato dritto nella mia stanza, esausto. Mi ci
erano voluti forse due minuti per addormentarmi; niente sogni, niente
agitazioni, avevo dormito profondamente per quasi tre ore. Al risveglio
ero sceso in cucina a bere del tè, notando che mio fratello
aveva scaricato e sistemato tutto in un angolo del salone. Per nulla
intenzionato ad occuparmene in quel frangente, ero passato oltre,
controllando il telefono e scrivendo un messaggio a mia madre e uno a
Rosario, della quale erano indicate nel registro già tre
chiamate. Non ero proprio in vena di parlare con nessuno.
Alla fine, incapace di starmene con le mani in mano e provando
l’irrefrenabile bisogno di applicare la mente in qualcosa di
produttivo, avevo convinto Shannon ad andare al Lab. Aveva cercato di
protestare un paio di volte, sostenendo che non gli sembravo in grado
di concentrarmi su alcunché, ma poi, scuotendo il capo e
borbottando fra sé, aveva desistito.
C’è da dire che la vita non mi ha mai regalato
niente, tutto quel che ho ottenuto me lo sono guadagnato lavorando
duramente, col sudore e col sangue. Mio fratello è
l’unica eccezione. E Dio solo sa se non le sia riconoscente
ogni santo giorno.
Insomma era andata a finire che avevo passato
un’enormità di tempo davanti al computer,
scorrendo Artifact in lungo e in largo, apportando qualche modifica,
poi cancellandola, scegliendo di lavorare su un punto, poi scegliendone
uno diverso, in pratica non concludendo niente di buono. Infine mi ero
dato per vinto ed ero sceso al piano di sotto, chiudendomi da solo
nello studio di registrazione e prendendo in mano la chitarra, nella
vana speranza di provare una delle nuove canzoni. Ma poi mi ero
incastrato col sol, era il sol che mi fregava.
Aprii gli occhi ed inclinai leggermente la testa verso la chitarra. Ero
io che mi fregavo, niente scuse, niente sol da accordare.
Controllai il BB, era quasi l’ora di cena. Tre sms e due
telefonate di Eamon, non potevo più fare finta di nulla.
Raccolsi il fiato, raccolsi il coraggio e mi alzai, anche se tornare in
quella casa era in quel momento l’ultimo dei miei desideri.
Quando parcheggiai nel
vialetto principale, notai che nello spiazzo davanti
all’entrata, tra le altre macchine che riconoscevo, ce
n’era una a cui non sapevo associare alcun proprietario.
Passandole accanto, lanciai un’occhiata all’interno
e, credendo d’aver visto male, mi avvicinai. E invece nessun
errore, nel suo seggiolino apposito riconobbi la sagoma di Henry che
dormiva tranquillo. Aggrottai le sopracciglia, confuso, e proprio in
quell’istante sentii il rumore della porta
d’ingresso che si chiudeva. Mi voltai e la vidi scendere i
gradini, stringendo sotto al braccio sinistro un grande pupazzo beige
che somigliava a un orso.
- Che ci fai
tu qui? –
Alicja, nei suoi
soliti shorts e camicia larga, si fermò sul penultimo
scalino, alzando lo sguardo, evidentemente presa alla sprovvista.
- Oh,
Jared… - sibilò, spostandosi un ciuffo biondo
dagli occhi.
- Perché
sei qui? – continuai imperterrito mentre la raggiungevo e
salivo alla sua altezza – Non era previsto nessun incontro
oggi. –
- Che vuoi
saperne tu di cosa è previsto? –
proferì bruscamente
Mantieni la calma. Pensa a
Henry. Pensa a Henry. Pensa al bene di Henry e stai zitto.
- Beh,
è stato un piacere vederti. – mi
squadrò velocemente dall’alto in basso –
Ti trovo in forma, come sempre. –
Fece qualche passo
verso la propria auto, poi rallentò e si fermò di
nuovo. Ebbi l’impressione di sentirla ridere. Si
girò verso di me, l’espressione effettivamente
divertita.
- Sai qual
è la cosa più esilarante in tutto questo?
– un filo di sarcasmo nel suo accento ancora marcatamente
dell’est – Che lui non era in grado di stare con
me, non avrebbe potuto stare con nessuno, perché non era
capace di dimenticarsi di
te. “Non riesco a togliermelo dalla
testa” ha avuto il coraggio di dirmi! –
scrollò le spalle, come incredula – E guardalo
adesso… è già tanto se si ricorda il
tuo nome. – ad un tratto si fece seria,
assottigliò gli occhi e riprese col suo tipico tono freddo
– Tu lo chiamerai karma, io provvidenza. Sta di fatto che
gira. –
Aumentò la
stretta intorno al peluche, mi diede le spalle e raggiunse lo sportello
dell’auto. Prima di entrare tornò brevemente a
guardarmi e concluse, criptica:
- Sembra
proprio che stia girando. –
Nell’arco di
un secondo se n’era andata, la polvere della ghiaia sollevata
dalle ruote ballava lentamente nell’aria.
Ed io me n’ero rimasto lì, in silenzio, a subire
le cattiverie di quella megera, talmente stremato da non trovare
nemmeno le parole per ribattere. Cosa avrei potuto ribattere, comunque?
Fissai a lungo il portone, mordicchiando nervosamente
l’unghia del dito indice. Non ce la facevo, quel giorno era
stato veramente troppo. Me ne tornai sconsolato alla macchina e misi in
moto per andarmene.
È proprio vero, se il buongiorno si vede dal mattino e il
mattino comincia di merda, ti aspetta una giornata di merda.
Partii, realizzando che in tutto quel casino non ero riuscito a vedere
Colin nemmeno una volta. Ma del resto, dubitavo che avrebbe sentito la
mia mancanza.
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